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Scuola di comunicazione Luca Toschi* Al mio maestro di Scuola Città “Pestalozzi” che mi ha insegnato ‘come fanno’ i burattini. 0. Non più idee vs. cose. Ovvero della comunicazione Ci ripetono incessantemente che uomini e cose, nella scuola e nella so- cietà tutta, stanno cambiando, cambieranno inevitabilmente. Cosa pensare di questo martellamento quotidiano, diretto o indiretto, di cui siamo fatti oggetto? A cosa sta mirando? E cosa cambia veramente, cosa non cambia? cosa è bene che non cambi? cosa è urgentissimo che si trasformi total- mente? E come? Affermare l’inevitabilità del cambiamento, di per sé, o è una constata- zione che tutti possono fare, oppure rinvia all’altra banalità: l’innovazione e la sua provvidenziale necessità. Per lo più tecnologica: che altro non è, poi, che un potente cavallo di Troia per introdurre cambiamenti mirati all’affer- mazione di valori dove la nostra umanità appare sempre più secondaria, debole merce di scambio. Di certo oggi il mondo cambia in una modalità (velocità, quantità, na- tura…) mai vista prima; ma assumerne il governo, deciderne l’indirizzo, sta- bilirne le finalità e le relative priorità dipende da noi, e non da interventi illu- minati dall’alto o dall’emergenza di masse organizzate, con vecchie e nuove tecnologie. Che questa immensa trasformazione nasca da noi ce l’hanno fatto di- menticare ad arte i tanti Signori della complessità, in lizza fra di loro per il controllo socio-economico di cortili, piazze, rioni, città, territori, aree del nostro pianeta. Niente di nuovo, né di strano, o di scandaloso, se non fosse che le terre di conquista sono sempre più vaste e, mirando direttamente alla nostra mente e ai nostri principi più profondi, individuali e collettivi, non lasciano più spazi di libertà per operazioni di ribellione e di conflitto. L’insidia è nel fatto che donne e uomini si stanno dimenticando che il senso della loro vita, il valore etico – religioso o laico poco importa – del loro esi- stere lo si gioca sulla possibilità di esercitare una libera scelta, sempre e 135 * Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Firenze.
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Mar 29, 2016

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Scuola di comunicazioneLuca Toschi*

Al mio maestro di Scuola Città “Pestalozzi”che mi ha insegnato ‘come fanno’ i burattini.

0. Non più idee vs. cose. Ovvero della comunicazione

Ci ripetono incessantemente che uomini e cose, nella scuola e nella so-cietà tutta, stanno cambiando, cambieranno inevitabilmente. Cosa pensaredi questo martellamento quotidiano, diretto o indiretto, di cui siamo fattioggetto? A cosa sta mirando? E cosa cambia veramente, cosa non cambia?cosa è bene che non cambi? cosa è urgentissimo che si trasformi total-mente? E come?

Affermare l’inevitabilità del cambiamento, di per sé, o è una constata-zione che tutti possono fare, oppure rinvia all’altra banalità: l’innovazione ela sua provvidenziale necessità. Per lo più tecnologica: che altro non è, poi,che un potente cavallo di Troia per introdurre cambiamenti mirati all’affer-mazione di valori dove la nostra umanità appare sempre più secondaria,debole merce di scambio.

Di certo oggi il mondo cambia in una modalità (velocità, quantità, na-tura…) mai vista prima; ma assumerne il governo, deciderne l’indirizzo, sta-bilirne le finalità e le relative priorità dipende da noi, e non da interventi illu-minati dall’alto o dall’emergenza di masse organizzate, con vecchie e nuovetecnologie.

Che questa immensa trasformazione nasca da noi ce l’hanno fatto di-menticare ad arte i tanti Signori della complessità, in lizza fra di loro per ilcontrollo socio-economico di cortili, piazze, rioni, città, territori, aree delnostro pianeta. Niente di nuovo, né di strano, o di scandaloso, se non fosseche le terre di conquista sono sempre più vaste e, mirando direttamente allanostra mente e ai nostri principi più profondi, individuali e collettivi, nonlasciano più spazi di libertà per operazioni di ribellione e di conflitto.L’insidia è nel fatto che donne e uomini si stanno dimenticando che il sensodella loro vita, il valore etico – religioso o laico poco importa – del loro esi-stere lo si gioca sulla possibilità di esercitare una libera scelta, sempre e

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* Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Facoltà di Scienze dellaFormazione, Università di Firenze.

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Affermare l’inevitabilità del cambiamento,
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constatazione che tutti possono fare,
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nostra umanità appare sempre più secondaria, debole merce di scambio.
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terre di conquista sono sempre più vaste
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lasciano più spazi di libertà per operazioni di ribellione
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comunque, e cioè di potersi avvalere della creatività che tutti noi abbiamo eche va dalla nostra interiorità all’universo mondo.

Una creatività che, a maggior ragione, deve riguardare, prima ancoradell’uso delle tecnologie, la loro progettazione che consiste, più di ogni altracosa, nella scelta di obiettivi etici e politici letti al futuro. Viceversa, l’au-mento della presenza delle nuove macchine nella nostra vita pubblica e pri-vata è stato fatto passare come un felice crescendo di funzionalità, di offer-te di impieghi – ultima spiaggia di quel mito di un provvidenziale progres-so che tanto fatichiamo a mettere in discussione senza abbandonarci al pes-simismo e alla depressione –, di strumentazioni fenomenali quanto neutralinel loro utilizzo, che assecondano le strategie di chi le adopera, servitoriubbidienti degli utilizzatori di turno. Ogni valutazione e discussione sui finiultimi che ne motiverebbero l’uso, l’applicazione e, ripetiamolo, innanzitutto la loro progettazione, tacciono perché ritenute scontate al punto daapparire il loro semplice ricordo un fastidioso ostacolo. La domanda, cioè,dovrebbe essere posta in maniera totalmente diversa: non “A cosa serve uncomputer? Un’auto, un telefono, la scuola? La ricerca, il mercato, la casa?...”,ma “A che cosa deve servire un computer? Un’auto, un…?” restando sem-pre pronti, attenti a cambiare progetto sulla base degli effettivi usi e delleconcrete applicazioni.

Chi si sentirebbe oggi di porsi queste domande senza avere la certez-za di apparire ridicolo. Già mi sento io così, per avere soltanto sollevato laquestione.

Eppure, è questa posizione che fa, nella sostanza, torto prima di tuttoalle stesse tecniche, vecchie e nuove. Dietro ogni macchina – allargando loscenario potremmo dire dietro ad ogni componente del sistema sociale – c’èstato e c’è sempre un progetto di priorità e di obiettivi: indipendentementedal fatto che essa sia stata ideata e realizzata per ‘migliorare’ la velocità o lamemoria, la mobilità o la longevità, la produttività o la socialità. Ciò valeanche per quella tecnologia che si presenta come un immenso magazzinod’attrezzi messo a disposizione per poter scegliere liberamente in base allenecessità di volta in volta dominanti.

La macchina, e quanto essa comporta, viene e va verso un progetto,sempre, concorrendo a scrivere l’ambiente in cui noi operiamo. Un proget-to che rimanda ad una precisa visione della realtà, ad una sua grammatica.Anche se ciò, misteriosamente quanto fortunatamente, non impedisce che,per esempio, l’orologio, secondo alcuni nato nei monasteri benedettini del1100-1200 per scandire le ore della preghiera, sia poi diventato lo strumen-to principe per un uso totalmente diverso. Così come è accaduto per altre

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potersi avvalere della creatività che tutti noi abbiamo
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creatività
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prima ancora dell’uso delle tecnologie, la loro progettazione che consiste,
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fenomenali quanto neutrali
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A cosa un computer?
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Dietro ogni macchina
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c’è sempre un progetto di priorità
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macchina,
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viene e va verso un progetto,
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che rimanda ad una precisa visione della realtà,
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numerose scoperte tecnologiche. Il disegno del progetto primario delle mac-chine, infatti, può essere anche stravolto e sterzato verso fini contrari, osti-li, radicalmente conflittuali rispetto ai piani originari come dimostrano laricerca sull’atomo o la rivoluzione russa.

Ma sia che si voglia accogliere il nuovo, valorizzarlo, favorendone l’af-fermazione, o, viceversa, sia che si senta l’urgenza di contrastarlo e di rin-dirizzarlo verso obiettivi diversissimi o opposti, è necessario misurarlo sudue piani distinti quanto inscindibili:

– delle intenzioni, nascoste o dichiarate che siano;– degli effetti che concretamente provoca.Insomma la valutazione non deve essere fatta sulla base di quello che

esso ricorda, ripropone, del suo albero genealogico, valoriale e strumentale,ma rigorosamente tenendo conto del futuro implicito di cui è concretamen-te, operativamente, ‘carnalmente’ portatore e genitore: del suo infuturarsi.

L’errore in cui si tende a cadere è quello di pensare alla tecnica e allarelativa organizzazione come ad un’utensileria sempre più efficace e stupe-facente con cui possiamo ‘scrivere’ ‘testi’ nuovi della realtà. Ma nessuno,mai, si azzarda a discutere la grammatica a cui si ispirano i progetti di quel-la utensileria. Il futuro di cui si parla in proposito è semplice memoria delpassato, una memoria letta come accumulazione, potenziamento del già vis-suto. Memoria non immaginativa, di macchine non di uomini, almeno chequesti ultimi non abbiamo deciso di fare concorrenza alle prime.

L’idea dominante, cioè, che abbiamo della grammatica della tecnolo-gica – ma non solo di quella come si vedrà più avanti – è vecchia, apparte-nendo all’uomo che ha sì preparato l’età della complessità, ma che ha ancherinunciato, almeno per il momento, a viverla, a subirla. Nel migliore dei casiegli ne riconosce l’esistenza a livello biologico, cognitivo, sociale, ne ammi-ra e ne spiega la novità antropologica, ma nel profondo non crede di poter-la vivere in termini di costruzione, di creatività, di organizzazione contrap-posti al passato; non riesce ad andare oltre affermazioni e spiegazioni anchebrillanti e originali ma generalmente poco vitali, nel senso che sono incapa-ci di generare realtà nuove, persino di credere di poterlo fare davvero. Lamancanza d’idee-strumento al futuro, accompagnata all’ossessiva paura del-l’errore, fa sì che anche quelle sue spiegazioni, quelle denunce, quegli sce-nari inediti per l’umanità, restino in un orizzonte culturale dove ogni giornorisorge, con la civetteria della consapevolezza, la vecchia e superata con-trapposizione fra pensare ed essere, la dicotomia storica fra sapere e saperfare, fra analisi del sistema e sviluppo concreto di altri sistemi, fra enuncia-zione del problema e strumenti per la sua soluzione, fra creatività e metodo

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delle intenzioni,
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effetti che concretamente provoca.
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due piani
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tecnica
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un’utensileria sempre più efficace
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scrivere’ ‘testi’ nuovi
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nessuno,
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azzarda a discutere la grammatica
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memoria letta come accumulazione,
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Memoria non immaginativa,
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contrapposizione fra pensare ed essere,
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dicotomia
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sapere e saper
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fare,
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creativo, fra progetto e realizzazione materiale, fra, da una parte, scelte eti-che, morali, politiche e, dall’altra, attività di natura economica, politica,educativa, religiosa, etc.

Una biforcazione che bene si riassume in una visione delle grammati-che della realtà, intese come entità immobili, contrapposte all’infinitàvarietà dei progetti, delle macchine e dei testi. Una separatezza fra matricie relative realizzazioni che si basa su una visione unidirezionale delle lororelazioni che, costantemente, va dalle prime alle seconde, che persiste einsiste anche quando si ammettono possibili influenze dei testi sulle gram-matiche. Quest’ultima possibilità di condizionamento, infatti, quando e se èriconosciuta, lo è solo sul piano delle onde lunghe della storia, così lungheche mai, concretamente, possono essere vissute nello spazio e nel tempobrevi dell’agire del singola persona o gruppi.

Credo che s’inizierà ad andare oltre l’attuale situazione di crisi nelmomento in cui ci si renderà conto che la dicotomia fra lo spazio-tempodella ricerca, dell’ideazione, dell’immaginazione e lo spazio-tempo dellarealizzazione, della verifica, della dimensione effettuale dell’esperienzaappartiene ad una visione vecchia, passata della realtà che nessuna macchi-na potrà cambiare se non saremo noi a volerlo. La possibilità di vivere nelfuturo, cioè, sta nella costruzione del senso di questa nuova relazione, nelriconoscere e potenziare questa terra di mezzo, di comunicazione, che staemergendo come un nuovo arcipelago fra i due storici continenti del nostroessere, un nuovo continente che non si limiterà soltanto ad affiancarsi aquelli esistenti ma che ne trasformerà nel profondo la costituzione, la strut-tura e le dinamiche evolutive.

Oggi, non solo le grammatiche devono essere riscritte, non solo i testipossono incidere sulle grammatiche, ma, appunto, le relazioni, i nessi fraqueste due sfere dell’agire umano stanno mostrando una trama così ‘com-plessa’ che ciò che da sempre è apparso essere una funzione gerarchica-mente trasmissiva da un estremo all’altro del processo, comincia a mostraredi avere, a sua volta, le proprie grammatiche e i propri testi. Accade così cheil ricordato processo che andava dal progetto alla realizzazione – sia che sitrattasse della produzione di scarpe o di servizi di vitale importanza – risul-ta totalmente stravolto. Quell’intervallo che univa il piano alla sua materia-lizzazione, il conoscere all’esperire, il cui livello d’affidabilità era identifi-cato nella maggiore o minore possibilità di assicurare la transizione da un‘vallo’ all’altro con il minor numero di ‘disturbi’ e ‘rumori’, sta rivelandosicosì ricco di progettualità e di attuazioni da far intravedere scenari maiimmaginati prima.

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dicotomia fra lo spazio-tempo
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dell’ideazione,
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spazio-tempo
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visione vecchia, passata della realtà che nessuna macchina
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potrà cambiare
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processo che andava dal progetto alla realizzazione
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risulta
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totalmente stravolto.
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Quest’area di comunicazione fra ‘scrivere’ pensieri e ‘scrivere’ cose, amano a mano che cambia, sta spingendo a considerare la dimensione pro-gettuale come una dimensione fortemente effettuale ma anche – attenzione,non è meno importante – viceversa.

Le idee saranno davvero tali solo quando si porranno come idee-cose,configurandosi sempre più come manufatti che hanno in sé gli strumenti pertrasformarsi in cose; mentre le cose, ponendosi finalmente come cose-ideeoffriranno – si trattasse anche di una semplice caffettiera, che dall’alto dellasua funzionalità sta a ancora ad aspettar qualcuno che la migliori – tutti idispositivi necessari per ridefinirsi, per correggersi e trasformarsi, insommaper dare vita a nuove idee.

In questo teatro di definitivo abbandono della cultura dei due spazi-tempi – idee vs. cose; scelte ideali vs. vincoli materiali –, ecco emergere lanecessità non più prorogabile di porre al centro di tutta la scena la nostraumanità, dove morale, etica e politica sono idee-cose e al tempo stesso cose-idee: quindi non più generiche promesse, destinate ben presto a perdersi die-tro i polveroni del fare operoso della concretezza; ma neanche fideisticheoperosità, che ben presto ci porteranno a domandarci il senso di tutto questogirare a vuoto.

In questo scenario, la comunicazione, questa misteriosa terra di mezzofra idee e cose, svolge un ruolo fondamentale. A cominciare dalla scuola.

1. Scuola di comunicazione

Proviamo a vedere le cose da un punto di vista diverso.Non è vero che a scuola non s’insegna a comunicare. S’insegna, ecco-

me; e non solo per imparare a ‘stare’ a scuola, dal momento che quel com-portamento comunicativo poi l’applicheremo a tutto il nostro vivere socia-le; non ultimo all’uso di altri media che non siano la scuola. Lo si fa inmaniera indiretta, non esplicita, e cioè facendo ‘naturalmente’, ‘semplice-mente’ scuola.

Da quella mattina in cui genitori stranamente sorridenti e positivi, inso-litamente attenti a indicarti i colori di quella bella giornata, ti consegnanopremurosamente a giovani o meno giovani donne alle quali parlano del tuopannolino e della tua pennichella con imbarazzante confidenza, la scuola dicomunicazione non aprirà mai più i battenti per farci uscire. E già questadinamica la dice lunga su cosa debba essere la comunicazione e a che cosadebba servire.

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idee saranno davvero tali
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configurandosi sempre più come manufatti
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idee vs. cose;
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porre al centro
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Non è vero che a scuola non s’insegna a comunicare.
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La scuola è l’ambiente di comunicazione per eccellenza; la comunica-zione è un metacurriculum che ci accompagna per tutta la vita dentro e fuorii processi formativi. Che non ci sia la materia specifica dedicata alla comu-nicazione non deve confondere, anzi è la conferma della natura trasversaledell’ambito disciplinare della “Comunicazione”, di quale centralità essaabbia raggiunto. È proprio il fatto che la comunicazione sia dentro ogni pro-dotto formativo, identificando l’organizzazione dei contenuti con la moda-lità di comunicarli, anzi subordinando l’assetto disciplinare, curricolare almodo di comunicarlo, che l’ha resa così invisibile, così naturale da esserediventata fortissima. Perché, può essere opportuno ricordarlo da subito, lacomunicazione efficace è come il potere: tanto più è forte tanto più è inav-vertita, perché è il tempo, è lo spazio, è il contenuto. Appare come l’aria,senza di quella non ci sarebbe niente: e dalla stanza giochi, con le costru-zioni rigorosamente in legno, alle aule – informatiche e non – dell’univer-sità, la comunicazione, nelle sue molteplici forme, opera incessantemente:non solo per tras-ferire, tras-mettere contenuti e comportamenti, ma spe-cialmente per educare al fatto che, al di là della natura delle relazioni possi-bili fra docenti e allievi, la sola, vera comunicazione è quella gerarchica-mente strutturata, trasmissiva, combinatoria e mai, come, viceversa, dovreb-be essere, generativa. Essa chiude, non apre al futuro, garantisce la salva-guardia di ricordi privi di qualsiasi portata prospettica, salvo quella, natu-ralmente, di conservare e mantenere il modello che vuole le cose rigorosa-mente separate dalle idee.

La comunicazione è sempre stata un processo fondamentale per l’orga-nizzazione materiale e simbolica della società, in tutti i suoi aspetti. In que-sta prospettiva la scuola opera su almeno due fronti:

1. dell’omogeneizzazione dei significati nelle loro varie componenti,per cui crea una cultura condivisa;

2. dell’educazione a cosa è la comunicazione trasmissivo-gerarchica e acome funziona.

Una strategia per la quale è essenziale salvaguardare e rafforzare la – vi-ceversa discutibilissima – separazione fra contenuti (1) e comunicazione (2):perché quest’ultima deve essere efficace per tutti i contenuti, veicolare cioètutto lo scibile, indipendentemente dalle materie da trattare, sia in termini dicomportamento in classe che di interazione con gli strumenti per insegnaree apprendere (ma Dio come ha studiato la fisica?). Per cui, dal punto di vistadella comunicazione formativa, fra matematica e letteratura, fra filosofia eil tanto auspicato inglese, fra chimica e storia dell’arte etc. le differenzerestano minime. Se non altro si pensi alla continuità spaziale fra i vari cur-

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La scuola è l’ambiente di comunicazione per eccellenza;
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Comunicazione”,
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ricula disciplinari segnata solo da scansioni di tipo temporale (l’ora di…segue l’ora di… e poi l’ora di…), per il resto un’aula è buona a tutto, quel-l’architettura comunicativa può funzionare per studiare qualsiasi argomen-to, tanto che le stesse gite scolastiche sono ormai un’occasione di socializ-zazione extra curricolare non di incontro con altri spazi educativi, mentrealtre aule non ci sono e se ci sono, come quella d’informatica, se ne stanno,per lo più, ben chiuse a chiave alla fine di qualche corridoio.

Si rifletta sull’omogeneità dei linguaggi curricolari: un libro di matema-tica, se non fosse per i segni grafici e diacritici che lo distinguono, per strut-tura comunicativa equivale all’antologia della letteratura; e così per la chi-mica, per storia dell’arte; per la filosofia dove un libro fittissimo di parole,un banco, un’aula ristretta, le schiene dei compagni etc. etc.., insomma ilclassico ambiente scolastico, è ritenuto un luogo ideale per parlare dei prin-cipi fondamentali della condizione umana, del significato della conoscenzae dell’esistenza.

Di che cosa stupirsi? La comunicazione scolastica, ben supportata dal-l’editoria va bene per tutto, è onnivora rispetto ai media originari (dal teatroalla poesia, dalla caduta dei gravi agli affreschi di Giotto, dall’Apologia diSocrate – ma perché i testi filosofici non devono essere mai letti nell’origi-nale? Così chiari rispetto a tanta manualistica – alla Commedia dantesca), èun racconto, un riassunto infinito, dove la copia, il commento – magari diBenigni – è senza eccezione meglio dell’originale perché la comunicazione“è” il testo: qui a scuola e sempre. È un racconto delle conoscenze di basebuono per tutte le stagioni, destrutturabile ai minimi termini e assemblabilein base alle peculiarità più varie (dall’insegnante e dagli allievi), una libertàche con il passare degli anni gli studenti potranno esercitare con maggioreautonomia. Ma soprattutto la scuola era\è funzionale ad educare proprio allanatura e alle finalità dei processi informativi-comunicativi extra- e post-sco-lastici, secondo la prospettiva che li vuole sì in incessante evoluzione sulpiano delle tecniche ma, al di là di ogni trasformazione dei meccanismi e deirelativi linguaggi, caratterizzati sempre da una continuità assoluta in termi-ni di funzione sociale: conservare e rafforzare la cultura dominante. Le èattribuita, quindi, un’azione di tipo omeostatico capace di assorbire il cam-biamento delle condizioni esterne ed interne ai saperi consolidati, garanten-do al tempo stesso la salvaguardia delle relazioni, dell’impianto strutturaledi base, indipendentemente proprio dall’identità delle componenti.

La comunicazione ha continuato da sempre a fare riferimento ad una suametagrammatica, secondo la quale essa poteva avvalersi di infinite variabi-li a livello di stile e di mezzi, ma mai avrebbe potuto abbandonare i binari,

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storicamente ben definiti, che consistono nel trasferire e consolidare un pre-ciso script sociale, mediante le conoscenze consolidate, una ben definitatrama gerarchica di relazioni, il proprio paradigma, un modello comunica-tivo che rispecchia, più di qualsiasi altro elemento, una precisa visioneantropologica. La scuola non si è mai spostata da questa visione della comu-nicazione di cui essa rappresenta l’espressione più alta; per questo è assaipiù di un luogo comune rilevare che, se una persona vissuta tanto tempo fasi trovasse per magia in una nostra classe, ma anche in un corso di forma-zione per adulti, riconoscerebbe immediatamente il contesto e quanto staavvenendo.

Proviamo, allora, a ipotizzare che la scuola costituisca un ambiente dicomunicazione così forte e fondante che rispetto a lei la tanto demonizzatatelevisione continui a sembrare una scolaretta; anzi proviamo a ridefinire ilrapporto fra le due, sostenendo che la televisione è stata scolarizzata da subi-to, e la sua indubbia forza di oggi sta proprio nell’avere assunto un modellocomunicativo assai simile a quello scolastico, dalla cronaca di un eventoall’ampio inserto pubblicitario, dallo spettacolo serale alla trasmissione percasalinghe e pensionati alla mattina, ai veri telegiornali e previsione deltempo. Fra un programma televisivo o un videogioco e una lezione scolasti-ca o uno stesso manuale le differenze non sono poi così marcate: l’impian-to comunicativo, anche là dove l’interazione può apparire garanzia di unacontrotendenza, resta di tipo trasmissivo-gerarchico. Uno spettatore che siastato invitato a partecipare ad un programma televisivo, direttamente oppu-re online, con la sua sudditanza, magari solerte o strafottente o buffonesca osilenziosa, con la sua sindrome da esami che non finiscono mai, evoca unclima comunicativo assai tipico di ogni classe.

Se non ci piacciono la televisione, Internet, i videogiochi, i cellulari tipoiPhone e chi più ne ha di luddismo tecno-mediale ne metta, e vogliamo cam-biarli, allora cerchiamo di lavorare decisamente sul modello trasmissivo,formativo, didascalico, educativo della comunicazione, di cui la scuola è il(mass) medium per eccellenza: il resto verrà da sé.

Il fatto, storicamente eclatante, che la scuola sembra aver perso, negliultimi decenni, la percezione della sua forza e il valore del suo modello,magari lanciandosi all’inseguimento di media vecchi e nuovi, e dei relativilinguaggi, dopo averli opportunamente criminalizzati, non deve impedire dicapire la potenza paradigmatica, esemplare di questo medium, a cui tutti glialtri, pur fra tante variabili per natura e tecnica, hanno finito per adeguarsi.Nuove tecnologie per prime: la scuola le ha e le sta fagocitando, compresiquei cellulari che offrono una vita sociale in pillole multimediali del tutto

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analoga ai contenuti che sono proposti a scuola e che si ipotizza verrannosempre più rifilati a suon di asset multimediali.

E questo non perché la scuola abbia un maggior appeal della televisio-ne o di Internet o dei cellulari ibridi o dei videogiochi, che – si continua aripetere come conferma che sono un elemento della realtà con cui anche lascuola dovrà confrontarsi – hanno superato per fatturato il cinema. Il punto,naturalmente, non è questo: il fatto è che la scuola resta il modello comu-nicativo cui tutti, ma proprio tutti, si ispirano, con i suoi insegnanti, i suoilibri rivisitati dai nuovi linguaggi forti del mercato, le sue aule antiche comela clausura o nuove come i container o nuovissime come un’aula online: enon sembri una generalizzazione impropria o superata sostenere che l’inte-ra società tende a porsi come una scuola: non a caso, appena varcato il ri-cordato portone, ancora piccoli, l’aula diventa una nuova casa. Quale altromedium si accende tutti i giorni verso le otto e qualche cosa e si spengequando si va a dormire? se ci riesce staccare con la mente e con il cuore; equesto dall’età di due o tre anni fino a quando non si sa più (continuo asognare che il mio esame di maturità aveva un vizio di forma e che devoridarlo: come spiegare che non ricordo più niente? Che il vaso della miamente si è svuotato di tutti quei contenuti?). Dalla pubblicità degli effet-ti speciali che ti riconosce per strada al giornale multimediale che ti ‘rileg-ge’ le notizie in base ai tuoi interessi e alle tue opinioni ai giochi satellitaridi Pechino del fortunatissimo 08.08.2008 al serial più interattivo che sipossa immaginare alla versione più rivoluzionaria del social networking allepiù recenti tecniche di persuasione per prevenzione o terapia etc. etc., l’am-biente comunicativo della scuola (la sua miseria in Italia non deve inganna-re, è una principessa vestita da povera, tanto che è una delle poche areesociali in cui seguitano a fare la loro comparsa santi ed eroi) continua adessere vincente.

Perché penso che fra il sistema nervoso della comunicazione scolasticae quello della società tutta, nelle sue infinite manifestazioni, ci sia una con-tinuità assoluta e ineludibile; indispensabile per illudersi di conservare unmodello di umanità, con i relativi contenuti, che oggi mostra a chiunque tuttii segni di una crisi epocale.

Il paradigma, infatti, che ormai da decenni è entrato in crisi è quello, losi ripeterà più volte, trasmissivo-gerarchico di risorse destrutturate al massi-mo così da non permettere ai docenti e agli allievi di esprimere la propriapersonalità-libertà né a livello di micro né di macro contenuti, di esercitareun’intelligenza proiettata verso la creazione, la progettazione di ciò cheancora non c’è relativamente ai problemi e ai bisogni dell’uomo. La parola

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futuro è negata, salvo in chiave allarmistica e sinistra. Non deve confonde-re, cioè, la libertà di assemblaggio che è concessa dal sistema. Si tratta,infatti, di un’autonomia apparente, perché lo spettro è ampio, ma rispondein ogni suo singolo elemento ed in ogni sua struttura portante ad una stessa,unica visione, logica della realtà, che, stando ai numeri e alle proporzioni fradocenti bravi e mediocri, non è mai messa in discussione. Gli insegnantihanno la libertà di scegliere cosa comporre (bottom-up) con i tanti pezzi chela scatola di costruzioni offre loro (top-down), agli studenti quella di eserci-tare un’intelligenza replicante. Si prevede che, prossimamente, più sarà co-stosa la confezione di costruzioni, più i nostri giovani rampolli avranno unfuturo luminoso d’ingegneri.

Una visione della comunicazione fortemente caratterizzata dalla gestio-ne, dall’amministrazione della conoscenza e della cultura al passato, noncerto orientata ad un loro ampliamento, ancor meno ad una loro rilettura,valutazione critica: non nominiamo neppure l’ipotesi che da un percorsoformativo e dalla relativa comunicazione possano (debbano?) nascere sape-ri e, in prospettiva, culture sempre nuove. La trasmissione in questo conte-sto, quindi, può essere agevolmente anche a due vie; sostenerla in nome deivalori più diversi costa poco, perché non incide né inciderà minimamentesulla sua natura che ricorda quella delle nuove catene di montaggio, dove ilprogetto è in mano agli ingegneri anche quando sono – e lo saranno semprepiù – gli stessi acquirenti a lavorarvi alacremente (prosumer).

I migliori insegnanti, oggi, sono identificati senza indugi in quelli cheriescono a ‘far studiare’; che ci riescano con la disciplina, con il coinvolgi-mento, con il fascino personale, con l’esca di tecnologie alla moda, pocosignifica di nuovo. Questo sistema comunicativo non può che avere questascuola e questa società e questi media. Il che se sembra suggerire, da partemia, una priorità di responsabilità nella situazione attuale, l’impressione ècorretta. La scuola ne è la principale responsabile, né si può fare ricorso alfatto che la scuola è come la vuole la politica: la scuola non esiste, esistonodonne, uomini, ragazze e ragazzi.

Hai voglia te, forte di una solida cultura accademica, di assumere, percapire la comunicazione nella e della scuola, modelli d’analisi di tipo mec-canico, fisiologico, psicologico, simbolico, sistemico, cibernetico, o di qual-siasi altro genere; di dare tutta l’importanza che meritano alle caratteristichepersonali di chi comunica, al punto da affermare che in un processo comu-nicativo esistono solo soggetti attivi; di dare risalto alla complessità, allagrammatica implicita in ogni tecnica; di evidenziare gli schemi culturali e icontesti: resta il fatto che la comunicazione formativa, didascalica, educati-

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va non ha il compito di generare niente di nuovo, né da parte del docente (lasua capacità creativa, quando decide di ricorrervi, si esaurisce nella scoper-ta di nuovi strumenti e forme di coinvolgimento degli allievi: magari la lava-gna elettronica) né degli studenti. L’obiettivo resta quello di tras-ferire, tras-mettere saperi e relativi comportamenti. Altra creatività è secondaria.

Il passato è l’autorità indiscussa: un passato non più classico – magari,sarebbe stato il portatore d’importanti anticorpi – ma semplicemente quoti-diano; rassicurante perché routinario, dove lo slogan, della Vodafone, “Lifeis now” può confondersi con le parole del monologo d’Amleto oppure susci-tare le ire di gruppi di cattolici integralisti. Un passato ben sostenuto danuove tecnologie che ne garantiscono un loop, un ciclo ininterrotto.

2. La Città a scuola

Quanto ho fin qui sostenuto contiene anche elementi paradossali, permolti aspetti superficiali e inesatti; e poi è ingiusto verso tanti e tanti inse-gnanti e studenti di ieri e di oggi. La scuola è ricca d’esempi che vanno nelladirezione opposta; né mancano maestri del pensiero e della pratica pedago-gica che hanno indicato strade del tutto diverse. Nondimeno penso che igrandi numeri della scuola vadano in questa direzione e non in un’altra, unaconvinzione che, per quanto urti chiaramente i tanti distinguo che sul pianoscientifico è impossibile non registrare, si rafforza col passare del tempo.

Eppure, nonostante questa ferma convinzione, a volte mi capita di pen-sare che queste ipotesi siano solo indice di un problema irrisolto in chi stascrivendo, che lo ha spinto a radicalizzare alcuni particolari oltre i limiti diogni correttezza. Una sua difficoltà mai giustificabile, certo, ma comprensi-bile per il fatto di essere stato, chi scrive, studente di Scuola Città“Pestalozzi”, nel quartiere fiorentino e, allora, malfamato di Santa Croce, elì di avere vissuto un’esperienza ‘comunicativa’ che poi ha capito, sulla suapropria pelle, essere stata fuori dai modelli, allora come oggi, dominanti.

Né gli dà consolazione sapere che quella scuola è stata ed è oggetto distudio da parte di illustri colleghi pedagogisti e sociologi, perché, fuori diterza persona, prima il fatto di aver evidente, nel mio curriculum scolastico,quel periodo trascorso a Scuola Città, successivamente l’incapacità ditogliermi di dosso i segni di quell’esperienza anche dopo il normale cicloscolastico, hanno provocato nei miei confronti continue richieste di garan-zie e verifiche, oltre ad una diffusa diffidenza che oggi mi ‘di-verte’ma che,quando ero giovane, è stata molto dolorosa e difficile da vivere.

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Del resto, come non concordare con quei sospetti dal momento che inquella scuola

• non si stava a sedere tanto perché – ci spiegavano – per pensare ci sideve muovere;

• non si avevano libri di testo ma i libri ce li facevamo noi, per noi e pergli studenti che sarebbero venuti, e si era così convinti che fossero una cosaseria che, alla fine dell’anno, si correva in libreria a vedere se erano in vetrina;

• non si aveva la nostra classe ma si andava in tante classi;• si studiava nella grande cucina della scuola, preparando il vitto del

giorno, o in officina riparando le tante cose che si rompevano, o in giardinoo nella biblioteca grande della scuola, aiutando gli altri compagni a trovarequello di cui avevano bisogno;

• se qualcuno taceva, voleva dire che non stava bene, perché le spiega-zioni non esistevano senza domande; e se non si domandava, la lezione nonpoteva andare avanti... ma tutti facevano presto a imparare, e allora ci inse-gnavano a fare le domande;

• si pensava lavorando la carta, il legno, il rame, l’ottone, usando at-trezzi diversi;

• s’inventava la realtà perché il percorso non era dalla realtà all’imma-ginario ma viceversa;

• si passava l’intera giornata nella convinzione che quello che stavamofacendo era importante, molto importante e che la Giunta Comunale, quellache, riunendosi nella ricordata biblioteca, mandava avanti le attività dellascuola-città, poteva risolvere anche i tanti problemi di cui discutevano inostri genitori, e che ci insegnavano ad ascoltare e capire;

• si chiedeva aiuto, oltre che agli insegnanti, ai compagni quando siaveva bisogno, a maggior ragione durante le prove di verifica, ma quellerichieste non sembravano una cosa avvilente o furbesca, erano un fatto seris-simo, mentre i libri erano sempre aperti sotto i nostri occhi;

• l’esercizio della memoria era terribilmente selettivo, perché quelloche dovevamo sapere era tanto, diverso e non catalogabile;

• si stava a turno in Portineria – ambita come poche altre attività – per indi-rizzare chi veniva, registrando tutto, e quando arrivava la posta la portavamo neivari uffici, dove stavano persone che non sembravanomaestri omaestre, ma cheinvece sapevano tutto, da quanti chili di patate andavano in cucina a quantipezzi di gesso erano in magazzino, e avevano le cartelle con tutti i nostri nomi.

• E poi si recitava, in classe e nel teatro, ma tanto. All’inizio avevipaura, poi finivi con il divertirti: ma per farlo ti facevano studiare e studia-re perché la finzione là, in quella scuola, era una cosa molto seria.

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– Caro Toschi, ricordi personali, niente di nuovo né di particolarmentesignificativo per chi ha studiato quella realtà ritenuta a torto o a ragione assaiinteressante da un punto di vista storico.

– Certamente, me ne scuso; ma era appunto la denuncia di un mio limi-te. Oppure no? Perché il problema mi pare essere non solo mio, e cercheròdi chiarir(me)lo con questi ulteriori e brevi ricordi.

In prima Media, andando in quella che tutti dicevano essere una scuolamolto seria di Firenze, la “Carducci”, chi scrive si trovò davanti una comu-nicazione assai diversa.

• Chi fa domande è perché non ha capito;• chi si muove è perché non sa applicarsi;• “una materia alla volta, non confondiamoci le idee”;• che “prima s’impara e poi…”, ma non ho mai capito che cosa avreb-

be dovuto succedere dopo quel “poi”;• che la grammatica è la premessa indispensabile per tutti i testi, dal

disegno al latino;• che i temi possono essere anche di fantasia ma a condizione che dica-

no qualche cosa di sensato.Gli fu detto, insomma, che non aveva memoria, che non aveva volontà,

che non aveva voglia, che non aveva capacità di concentrazione, che era unprecipitoso e dispersivo; ma gli fu detto anche di essere un sognatore, unastratto, un incorreggibile teorico, divagante, privo di concretezza, ignaroche il “bene uccide il meglio”, … scusate il lapsus, fin troppo chiaro per illu-stre il problema che la cosa continua a rappresentare per me …, volevo dire,naturalmente, “il meglio uccide il bene”.

In conclusione quello che potrebbero lamentare legittimamente i mieiventicinque? dieci? due? lettori di oggi. Oggi mi preme ribadire che la mag-gior parte di chi usciva da quella scuola si trovava letteralmente non inun’altra scuola ma in un altro mondo, un mondo che comunicava in manie-ra irriconoscibile, e cioè che dava alla comunicazione un significato del tuttodiverso da quello a cui era stato educato. Ecco il punto.

Meno male che c’era l’ora di Religione, perché veniva un prete con ilnaso rotto – prima aveva fatto il boxeur, succedeva anche nelle miglioriscuole –, che, dal momento che si parlava dell’Ente supremo di cui – soste-neva lui – pochi o nessuno capiva molto, si appassionava nel farti dire l’in-dicibile, pensare l’impensabile e immaginare l’inimmaginabile. Per il resto,la ginnastica si faceva in una cappella affrescata, dismessa.

Insomma: anni e anni per disintossicarmi da tutto ciò che avevo disim-

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parato a Scuola Città. Con scarso successo. Quell’ambiente comunicativo,infatti, non era una scatola, una carrozzeria che avrebbe potuto comprende-re qualsiasi contenuto: era una diversa percezione del tempo e dello spazio,un ‘contenitore’ terribilmente ‘contenutizzante’, se così si può dire, e ilprimo messaggio che mi risultò chiaro – dopo la seconda volta che finii inPresidenza alla “Carducci”, con tanto di rapporto perché “suggerivo” e chie-devo “suggerimenti” ai miei compagni – fu che la comunicazione non è unlinguaggio, uno strumento che cambia in base all’uso che se ne fa, ma chetipologie diverse di comunicazione rimandano a valori e a politiche del tuttodiverse. A Scuola Città docenti e studenti organizzavano tempi e spazi comecredevano meglio – anche se poi, una volta presa una decisione, gli impegnierano ineludibili, e severamente controllati –, e avevi la sensazione che lostudio del mondo assomigliasse molto ad una scoperta, anche da parte deidocenti, e che quello stesso mondo cambiasse, cambiando le domande, e chequindi le domande avevano già una pesante ipoteca sulle risposte. Che lavita della Scuola dipendesse da te come la vita di una Città: una percezioneche poi scoprii essere opposta a quella dominante fuori da Scuola Città,segnata dalla scelta di insegnarti che le cose e le persone ‘sono’, sospese inuna realtà che, se anche raccontata con grande attenzione al divenire dellastoria, risulta sempre uguale a se stessa al punto da apparire assai poco rea-lista se non fosse più realista del re, e cioè funzionale stupendamente allaconservazione dei poteri consolidati, e della cultura dominante da millenni.

A chi manifestasse qualche dubbio circa la genericità di queste afferma-zioni consiglierei di andare a rileggere le bellissime pagine di Platone o diAri-stotele rispettivamente sull’educazione e sulla retorica (della comunicazione).

– Caro Toschi, ormai dovresti aver raggiunto l’età per rassicurarti sul tuopassato. Per il resto, fior di studiosi, da Postman a Illich (solo per citare alcu-ni degli originali in questo mondo di copia e incolla), hanno spiegato lanecessità di descolarizzare la società, di liberare la scuola dalla sua funzio-ne conservatrice e di avviare, all’interno della scuola stessa, un’attivitàdiretta, specifica per educare i giovani alle dinamiche materiali e simbolichedei mass\personal media (Media Education).

Anzi molti pensano, a destra e a sinistra e al centro, che oggi lo scena-rio è cambiato al punto che magari gli studenti studiassero come allora allamia “Carducci”! E magari gli insegnanti sapessero le cose che sapeva quel-la mia vecchia, meravigliosa insegnante di latino delle medie (piccola pic-cola, sempre trinata in nero e convinta monarchica ma per questo… rigoro-

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samente antifascista)! E qualcuno, forse, più concreto di altri, potrà arrivarea sostenere che questo progressivo, diffuso abbassamento di livello è dovu-to al modello Scuola Città, che ha finito con il prevalere: anche per questosuccede che, in questa estate del 2008, si autorizza-consiglia, ai docentinegli Stati Uniti d’America, di andare armati a scuola.

Per quanto mi riguarda, però, penso esattamente il contrario: che il livel-lo sempre più basso della scuola, la sua crisi d’identità, nonostante il lavoroe l’impegno di tanti insegnanti e studenti, non sia l’effetto del lento ma ine-sorabile venir meno dei contenuti di una volta, ma che i contenuti comecategoria educativa e formativa stiano scomparendo perché non sentiamopiù nostre le domande, i progetti, i valori morali ed etici da cui quei conte-nuti erano scaturiti.

Perché la tragedia della seconda guerra mondiale, la prima forma di glo-balizzazione in assoluto, insieme al micidiale codicillo atomico, aveva sìtracciato, sull’orizzonte i profili minacciosi dei cavalieri dell’Apocalisse, maaveva altresì fatto scorgere i segni inconfondibili di un nuovo umanesimo, icui principi ideali, dalla classicità in poi, non erano naturalmente sconosciu-ti, ma ignote, perché mai vissute prima, erano le condizioni, le possibilità spi-rituali e materiali in cui si cercava finalmente di attuarli. L’uomo, infatti, sitrovava a sperimentare un’epoca segnata, come mai era accaduto nella suabreve storia, da possibilità concrete di agire su cose, organismi, entità sim-boliche, fantasmi, mentre la prossimità con l’orrore, provocato non dallanatura ma dall’uomo stesso, lo spingeva a vedere tale attuazione come l’uni-ca possibilità di sopravvivenza della stessa umanità. Purtroppo il nostro pre-sente è segnato dalle debolezze che le generazioni successive a quella dellaguerra e del dopoguerra hanno dimostrato di avere nell’interpretare quel pre-zioso bagaglio d’obiettivi e d’aspettative, ben presto ridotte a icone retoriche.I movimenti successivi, dal Sessantotto all’ecologista, dal no global al vir-tuale etc. hanno fatto proprio il modo trasmissivo-gerarchico di concepire lacomunicazione, la cultura di una comunicazione essenzialmente intesa cometras-porto di cose, idee, persone, soprattutto di merci, merci che con il passa-re del tempo sono diventate sempre più avariate, contenuti che sempre piùappaiono pretesti per usare la televisione, il computer, il cellulare nelle sueversioni ormai sempre più ibride e tanti ma tanti media: compresa la scuola.

Quando una società come la nostra pensa che i gravissimi problemi incui si trova siano riducibili a questioni di gestione, di macchina o di organi-smo da migliorare, magari operando sul piano delle risorse; quando unasocietà non accetta la realtà, che ogni comunità vive di condivisione e diconsenso sul piano dei valori profondi, senza i quali qualsiasi progetto non

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è nemmeno un progetto, e che è dal confronto su quel piano che bisognaripartire, non piegando i vecchi saperi ai nuovi scenari ma elaborando unacomunicazione che abbia come obiettivo quello di generare saperi e com-petenze adeguate a tempi radicalmente nuovi, quella società sta spengendo-si. E la scuola ne è la causa prima. E quanto prima essa troverà il coraggiodi dirselo, uscendo da questo ridicolo vittimismo verso gli altri media, rico-noscendo quindi l’indiscussa centralità del suo modello comunicativo e delsuo modo di intendere i contenuti, tanto prima si avvierà a conclusione lacrisi che tutti stiamo vivendo.

Il significato di queste mie affermazioni, il cercare qui di proporre allariflessione ipotesi critiche diverse da quelle consolidate e ormai ripetitivenella letteratura scientifica e divulgativa, nasce, quindi, dal valutare unastanchezza non personale ma storica. Più in particolare, il comunicare – coni relativi cambiamenti nell’insegnare e nell’apprendere – deve trovare ilcoraggio di fare i conti con una società che sta chiudendo un’epoca e che stacercando la speranza e la forza necessarie per dare vita ad un’altra total-mente diversa.

Il passaggio è dalla comunicazione della conoscenza, intesa ormai es-senzialmente come trasferimento, alla comunicazione della conoscenza co-me idea di una nuova socialità tutta da costruire nella comunicazione.Precisazione centrale, poiché riconosce alla comunicazione non un sempli-ce modo per essere ma di essere, negando alla stessa, appunto, una naturatecnicamente neutrale, poiché fra una comunicazione amministrativa ed unacritica la differenza sta nell’incompatibilità delle rispettive funzioni e fina-lità rispetto all’intero sistema sociale: per la prima di tipo trasmissivo, ripe-titivo, conservativo, per la seconda di tipo generativo, creativo, conflittuale.

Precisata questa prospettiva, ecco allora l’urgenza di parlare del recupe-ro della centralità dei contenuti, ma non genericamente intesi, come assetimparziali, privi di contesto perché buoni per tutti i contesti, per tutte le sta-gioni, ma dei contenuti di una stagione della nostra storia ancora da scrive-re. Si ha fame e sete di questo tipo di contenuti, così come si avverte unacrescente intolleranza verso le metodologie (dalla pedagogia alla comunica-zione) che celebrano solo se stesse. Di qui il bisogno di immergersi in que-sto genere di contenuti ricchi di progetto e non pescati in repository analo-gici o digitali: dalla storia alla fisica, dalla letteratura alla filosofia, dallamatematica all’arte, dalle lingue straniere all’educazione civica, alle scien-ze, a nuove materie magari da attivare, alla fisica si ha voglia di inseguirli,impararli, raccontarli, viverli da soli e in compagnia, in cerca di prospettiveadeguate ai bisogni del nostro tempo.

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La comunicazione, quindi, non come imbalsamazione con accattivantiabbellimenti, ma come strumento indispensabile per questa attività di ricer-ca e di costruzione.

Sono questi i momenti in cui si vede se la società e la cultura che laesprime sono in grado di elaborare la propria fine, di rinunciare cioè allapropria sopravvivenza e continuità a tutti i costi, se riescono a capire, predi-sponendo per sé un ruolo nuovo, che il loro valore si esprime ora nella capa-cità di lasciare, abbandonare la propria centralità, il ruolo propulsivo avutofino ad oggi, contribuendo così alla realizzazione del necessario salto disistema che, d’intensità diversissime, nel nostro caso presenta i caratteri ditipo inequivocabilmente epocale.

Le culture, infatti, sembrano essere grandi quando capiscono che è giun-to il momento di abbandonare il governo delle cose e degli uomini confi-dando che la positività del lavoro da loro svolto fino a quel punto possaesprimersi nell’azione di una cultura nuova: che è e deve essere fuori dalloro controllo, libera e conflittuale. Questo è il momento in cui la comuni-cazione, cessando la sua consueta funzione d’omeostasi sociale, favorisce loscollamento, la rottura, la discontinuità.

La Scuola Città raccontava di una nuova modalità di concepire la co-municazione, che passava da una comunicazione della socialità a una comu-nicazione nella e per la socialità. La formazione che ricevevamo non eramossa da un’architettura dell’esistente, ma da un progetto al futuro: che è unprogettare ontologicamente inedito e tutto da scoprire poiché la validazio-ne di ciò che è creato non può trovare conferma in quello che già sappiamoe quindi ogni creazione comporta una dose di rischio molto alta. Non solole parti danno una somma diversa dalle aspettative, ma ciò che è generatocomporta l’incognita della non-riscontrabilità, è cioè sbilanciato verso unmondo che nella sua totalità, dai valori alle cose che li interpretano, deveessere sperimentato. Questa impostazione, per la quale si fanno domandesenza la certezza delle risposte, mentre si fanno affermazioni senza la sicu-rezza della sostenibilità delle conseguenze che da esse possono derivare, hafatto sì che la sperimentazione investisse la realtà nella sua interezza, in untutt’uno fra scuola e polis. E non stupisce che parte fondamentale di quellamodalità educativa fosse il sistema anticonvenzionale seguito nelle verifichecontinue che si facevano a Scuola Città. Le quali, sentite da noi studenti coni patemi d’animo consueti, tenevano in gran conto il fatto che chi è educa-to a creare il nuovo deve sì conoscere molto bene l’esistente, il bagagliodei contenuti consolidati, ma il suo compito non si esaurisce in questo: deveevitare, cioè, la trappola rassicurante del ri-conoscere, di restare invischiato

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nel ripetere il passato senza interpretare il presente e immaginare il futuro.Ne usciva fuori un conflitto fra conoscenza di ciò che è e ideazione di

ciò che potrebbe essere, fra conservazione e progresso, dove lo studenterischiava, agli occhi dei più, di assumere posizioni assai ambigue, consi-stenti nel voler essere vecchio e nuovo al tempo stesso, conservatore e rivo-luzionario. Un’ambiguità che, naturalmente, non apparteneva ai giovani mache esprimeva, come già accennato, la diffusissima incapacità di afferrare lasituazione in cui persisteva la cultura del tempo, incapace di cogliere il gran-de indebolimento in cui malamente sopravvivevano i vecchi contenuti, adiniziare dai loro paradigmi, inadeguati ad elaborare alcun che di adeguato altentativo di attraversare la soglia antropologica che stava davanti.

E che ancora non abbiamo varcato; anche se oggi questa ambiguità paresuperata dalla dominante logica della tifoseria, dell’appartenenza ad ungruppo non per conoscenza ma per disperazione – definita, a conferma dellacrisi che stiamo attraversando, fede –: una logica che legittima grandi pas-sioni ben sostenute dai tanti balletti e giri di valzer da parte di chi, in nomedella complessità, passa da un programma all’altro con una facilità chedenuncia la superficialità di entrambi i fronti, sempre più simili. E comel’importante ricerca della complessità, di costruire un mondo non più defi-nibile né definitorio, sia rapidamente e furbescamente scivolata verso un‘concreto’ opportunismo.

Ma nel cercare una sponda operativa, fattiva a quella situazione di com-presenza di vecchio e di nuovo, stava il significato del perché quella scuolaavesse assunto come metafora quella del governo della Città, di una città sì,ma che ancora non c’è, e che i ragazzi dovevano progettare attraverso l’a-nalisi e il governo dell’esistente. Quella scuola, cioè, non negava assoluta-mente le grammatiche, nonostante quello che continuavano e continuano adire i cattivi maestri; affermava che le grammatiche di quel\questo tempoerano\sono inadeguate: e che si doveva lavorare sì sui testi ma con l’obiet-tivo strategico e fondamentale di cambiarle in maniera radicale, e con esseil tipo di relazione che da sempre aveva caratterizzato il loro rapporto con itesti. Qui, in questa ridefinizione della natura e dei contenuti delle gramma-tiche e della relativa comunicazione, stava la svolta rappresentata da quellapiccola comunità fiorentina ben oltre il ristretto ambito scolastico.

Gli addetti ai lavori, infatti, sanno bene che la comunicazione extra- epost-scolastica vive di ‘formazione’ ed ‘educazione’: dal telegiornale allapubblicità, dai talk show ai reality, da una cronaca di una partita di calcio adun programma sulla cucina maremmana etc. etc., tutti vogliono salire in cat-tedra e formare, educare, persuadere: anche se negano di volerlo fare, affer-

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mando di voler essere obiettivi oppure di voler soltanto intrattenere. La no-stra comunicazione scoppia di voglia di spiegare l’esistente, trasmettereinformazioni certificate e garantite, di convincere – per il nostro bene, natu-ralmente –, dalla scuola alla politica al marketing; di capire che il sapere stanel sapere e non nel cercare, perché altri lo hanno già fatto. O lo stannofacendo per noi, meglio di noi; quando sarà pronto ce lo venderanno.

Vogliamo introdurre l’educazione ai media nella scuola? Iniziamo conlo spiegare quanto di scuola ci sia nei media.

3. Nuovi paradigmi

Con queste brevi note vorrei rivolgermi a coloro che non si sono mairiconosciuti nella grammatica della comunicazione trasmissivo-gerarchico,né a scuola né altrove; né con le vecchie né con le nuove tecnologie. Néintendono, spinti da una crisi che sembra infinita, aggrapparsi alla farsa-spe-ranza che, male che vada, quel modello è comunque il meno peggio. Chesentono arrivato, cioè, il momento di cambiare la loro azione di docenti eprima ancora di persone ma che non riescono ad orientarsi, perché né si sen-tono rappresentati da un movimento o da una figura di spicco – durano iltempo di una moda o di un’uscita pubblica – ma neppure ritengono possibi-le un intervento personale che non tenga conto di uno scenario culturale epolitico più ampio e condiviso. Che sono ormai convinti che non sarà unbuon governo, un uomo della Provvidenza o un determinato evento a met-tere la scuola nella condizione di riscrivere la propria identità sociale e, nellospecifico di questo mio intervento, comunicativa.

Che sono stufi di seguire corsi che promettono innovazione ma alla finedei quali sembra che l’obiettivo raggiunto consista nella sempre maggioreconsapevolezza che i Corsi non finiscono mai. Gli Esami invece sono finiti,come se si fosse capito che ogni verifica seria scoraggia gli allievi e inde-bolisce il look del prodotto formativo. Che non ne possono più di una tec-nologia che vende sogni i quali non permettono di vivere ‘diversamente’ illoro quotidiano, che poi è tutto quello che hanno e che amano.

Che insomma stanno a scuola per quei ragazzi e ragazze, ignoranti,egoisti, autistici, già macchine per comprare e vendere, e chi più ne ha piùne metta perché un po’ di ragione c’è senz’altro, ma che danno il senso aquello che forse è il lavoro più bello del mondo: quelle ragazze e quei ragaz-zi per la stragrande maggioranza dei quali la scuola rappresenta l’unica pos-sibilità di prendersi cura di sé per un breve periodo della loro vita.

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La comunicazione a scuola, per tutte queste giovani persone in transitoverso il mercato del lavoro, non deve essere una tecnica da apprendere mauno stile di vita, una bussola fatta di valori e quindi anche di progetti, indi-viduali e sociali, con cui orientare anche le scelte tecniche.

Ma perché le parole di questo saggio possano dare, seppure piccolo, uncontributo concreto all’impegno che tanti docenti stanno mettendo nel lorotentativo quotidiano di cambiare la scuola in meglio, penso che il modo piùefficace sia quello di avviare un dialogo con le mie venticinque lettri-ci\lettori che parta da queste mie riflessioni ma vada ben oltre; grazie a loro,se loro lo vorranno.

Venticinque, se sarò fortunato. E sarò fortunato1. se meriterò l’attenzione di almeno venticinque colleghe\i e la loro

conseguente disponibilità a riflettere con me su ciò che scrivo qui e a discu-terlo altrove, e cioè sulla rete;

2. se arriveremo a dialogare davvero, perché oggi mi pare che quello chemanchi non sia certo l’attrezzatura per comunicare, ma la voglia, la fiduciache comunicare oggi sia possibile e utile – il tempo verrà di conseguenza –;

3. se insieme riusciremo a dire qualche cosa di nuovo per tutti noi.Quindi se saremo capaci d’interrompere anzi ‘divertirci’ verso altre

sequenze da quei consueti algoritmi di pensiero e d’azione che segnano ilnostro vivere quotidiano e che hanno la presunzione di porsi come unicagaranzia contro la possibilità, da noi tanto temuta, d’incorrere in errori e incolpe imperdonabili.

Anzi, diciamo che in questa minuscola area d’analisi e di riflessione chestiamo cercando di realizzare – e di cui la parte online può rappresentare unmomento fondamentale se governato dalle vostre esperienze e dai vostribisogni manifesti – più si riuscirà a deviare da parameri e norme consolida-te e rassicuranti, più cercheremo cioè di costruire scenari sfacciatamente di-vertenti, meglio sarà. Per questo vorrei che, dopo queste note, ci si spostas-se in un’area di comunicazione dove il dialogo può essere forte e impronta-to a registri più quotidiani, e, discutendo di quanto avviene o potrebbe avve-nire nelle classi e fuori, si cercasse di dare voce a quel magma informe chesolo scaturisce dagli errori di questa nostra, strana gioventù. Una gioventùnon anagrafica, s’intende, ma storica, perché relativa all’epoca che noi stia-mo vivendo, un’epoca neonata e che, indipendentemente dall’età di ognunodi noi, continuiamo ad affrontare con menti e corpi vecchi assai.

Un’epoca particolarissima per la storia dell’umanità, che risulta vitale,vitalizzante e rigogliosa come mai, e che però è soffocata sempre più da unsenso di morte diffuso, ciclotimico, arrogante nell’ostentare da una parte

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managerialità dall’altra eccitate passioni, dove le nuove tecnologie, inveceche essere uno dei motori possibili per scrivere una società nuova nelprofondo, ammantate come sono di aurea provvidenziale e, conseguente-mente, adoprate secondo scenari antichi, superati, si prestano ad essere piut-tosto sintomi di una crisi che risorse preziose.

Non stupisce, quindi, che alla tanto celebrata comunicazione, così comeoggi è interpretata e utilizzata – dalle aule della scuola a quelle dei mercatie dei parlamenti mondiali –, sia affidato il compito di sostenere la continuitàa tutti i costi con il vecchio, di difenderne l’inviolabilità, magari rafforzan-done l’immagine con effetti speciali. Ad essa, infatti, è attribuita una fun-zione, come già rilevato, essenzialmente omeostatica e per cui essa sembraaver rinunciato alla sua principale missione, a maggior ragione in un tempoe in uno spazio che hanno visto esplodere Hiroshima e svelare la mappa delDNA, che è quella di creare un mondo diversissimo da quello vecchio.

Finito di ripetere questo, in forza di quanto appena sostenuto, va dichia-rato esattamente il contrario: e cioè che la nostra realtà offre tanto, moltissi-mo di ‘di-verso’, un ‘di-verso’ di-vergente dai piani globali e omogeneiz-zanti di chi trae immensi profitti da questa situazione, un ‘di-vergente’ chein quanto tale è strategicamente taciuto, ignorato, ma che pure è assai piùforte, micidiale nella sua azione inarrestabile, delle trame di faccendieri etrafficanti. Perché la stessa comunicazione è sì strumento in mano a forzeconservatrici e liberticide, ma al tempo stesso è, assai di più e nonostanteloro, generatrice di realtà nuove rispetto alle quali tante azioni di normaliz-zazione potrebbero rappresentare niente: l’onda lunga della comunicazione,così come si è venuta definendo negli ultimi decenni, potrebbe risultare solosfiorata dai pirati dell’economia e della politica.

La ragione, infatti, per cui ho accettato con entusiasmo di collaborare aquesta importante iniziativa rivolta alla scuola sta nella convinzione – per ipiù senz’altro ingenua se non peggio – che un nuovo umanesimo stia ‘sem-plicemente’ aspettando di emergere strutturalmente, direi politicamente, mache già sia dentro di noi e nelle cose; non per astratto e volontaristico otti-mismo ma perché un’analisi del nostro passato e presente ci conforta spin-gendoci a credere che secoli e secoli di storia hanno contribuito alla crea-zione delle condizioni favorevoli che ci stanno davanti. E che se ancora que-sto nuovo umanesimo non è diventato sistema, ciò sia a causa di gravi con-traddizioni riscontrabili in quella cultura del cambiamento che molti affer-mano di voler seguire ma che nei fatti ostacolano. Questo saggio con il suobaricentro nella rete vorrebbe contribuire a rimuovere alcuni di questi osta-coli che sembrano essenzialmente teorici e che rafforzano questo ritardo,

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continuo rinvio a vivere il nostro tempo e spazio secondo una visione ‘pro-gressista’ – sì, il mio assunto si basa sull’idea antiquata e superata per moltiche il progresso è un dato storico ineludibile, che esiste un’asse del bene edel male su cui si può andare avanti e indietro –.

In questa prospettiva la scuola può svolgere un compito fondamentaleproprio per la sua struttura, assai particolare e senza paragoni possibili, che,pur essendo articolata e vastissima, continua a ruotare (lato insegnamen-to\apprendimento, socializzazione, organizzazione) attorno ad unità operati-ve di base, le classi, e a situazioni di rapporti assai stretti fra i vari attori. Quiindirizzi e scelte macrostrutturali trovano la loro misura interpersonale e for-temente legata al territorio, proponendo un glocal d’incontro fra macro emicro assai prezioso, sia come ambiente d’analisi che di sperimentazione.Risulta chiaro, infatti, che ormai non è più il tempo delle indicazioni gover-native né dei movimenti spontanei dal basso per cambiare la situazione dicrisi in cui stentatamente sopravviviamo; e in questo quadro la persona-docente e la persona-studente, nonostante il discredito che su di esse è venu-to dall’esterno e dall’interno della scuola, assieme all’ambiente condiviso daentrambi, possono avere un ruolo centrale nell’attuale fase di rifondazionescolastica e sociale. Ogni scuola, ogni aula, ogni singola comunità comuni-cante di docenti e di allievi può costituirsi, non come “un pezzo della” scuo-la nuova, ma come “la” scuola nuova.

Perché uno dei punti focali della condizione storicamente eccezionale,senza precedenti, che ci troviamo a vivere, e che offusca i nostri parametricognitivi prima ancora che mentali, è il persistere della convinzione che esi-sta da qualche parte un testo della società futura già scritto e definito, sep-pure ancora naturalmente da precisare e articolare, da interpretare. Una spe-cie di cripto-fatalismo determinato dalla fissità non tanto dei testi culturali –di culture ce ne sono tante e diverse – ma delle matrici grammaticali che per-mettono queste grandi diversità. Un determinismo grammaticale che puòassumere molte sembianze: da quella secondo cui si progredisce sempre ecomunque, a quella del persistere di costanti storiche per cui niente di nuovosotto il sole. In questa errata convinzione, è di scarso rilievo la differenza fraun nuovo testo sociale indicato dall’alto e quello il cui progressivo svela-mento è opera di infiniti soggetti, dal basso, ognuno operando e agendo nellapropria, specifica dimensione, per quanto ben collegato a tutti gli altri inforza delle nuove tecnologie. Lo dimostra il succedersi di tanti uomini dellaProvvidenza e di altrettanti movimenti spontanei, più o meno networked,che non solo non hanno smosso di molto una situazione vecchia ormai didecenni, ma hanno contribuito a perpetuarla, aggravandone i problemi.

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La verità, quindi, non è cosa da svelare, gradualmente o traumatica-mente a seconda dei momenti storici, ma è da costruire attraverso una dupli-ce azione individuale e sociale: da una parte di ricerca e sperimentazionelocale, dall’altra di continuo confronto a livello globale.

Per essere ancora più chiari, al limite del semplicismo, non c’è da nes-suna parte una qualche verità (contenuti) che, per azione decisa di uno o dif-fusa di molti, fra gli alti e i bassi della storia, sia destinata ad emergere, econ essa il relativo sistema sociale. E allora, per trovare la nostra strada alfuturo, sarà necessario il massimo d’iniziativa e d’intraprendenza indivi-duale o di piccoli gruppi, che riesca ad operare al di fuori o contro il flussostorico dominante, accompagnato da una condivisione sul piano sia deivalori e degli ideali a cui ispirarsi. Parole queste ultime ormai desuete, senon irritanti per il significato di astrattezza, di teoricità, di inconsistenza chesi portano dietro nell’opinione corrente, orientata alla concretezza, allamisura pratica delle cose e degli uomini, ma che, viceversa, sembrano gliscript sempre più necessari per uscire dalla situazione in cui ci troviamo.Perché ogni concretezza e praticità, senza una bussola di valori e di ideali,rischia di essere fuorviante, ingannevole: ad iniziare da chi vuole misurarela salute e l’educazione pubblica e privata in termini di bilancio finanziario,legato a questo o a quell’esercizio, fino a chi sostiene, in nome di un sanorealismo, che l’ordine pubblico lo si ottiene mandando ogni domenica attor-no agli stadi sempre più poliziotti e carabinieri a fronteggiare il mal-esseree l’ignoranza di centinaia di migliaia di tifosi intossicati. Perché quel reali-smo presenta un baricentro operativo orientato inevitabilmente verso il pas-sato, a cominciare dal concetto di bilancio che non può ridursi ai geroglifi-ci numerici in rosso o in nero; così come la sicurezza è sì premessa indi-spensabile per ogni vivere sociale, ma ormai è molto di più di quella fisica,poiché fra di noi si aggirano fantasmi di tale violenza che, al confronto imostri passati di mitologica memoria impallidiscono.

È arrivato il tempo di ridiscutere tutto, nel profondo. L’attuale, diffusaadesione al divenire continuo e sempre più accelerato delle cose, senzaalcun progetto sul piano dell’essere che non sia quello di scegliere nel gran-de magazzino dei prodotti definiti da sole dinamiche di mercato, si è rivela-ta disastrosa anche per i mercati; esattamente come quando si parlava e sicombatteva per idee che rifuggivano da ogni verifica sul piano della lororealizzazione storica, materiale, concreta. Aver diviso le due realtà dellanostra condizione di uomini, terra di mezzo fra finito e infinito, è stato ed èun errore dalle conseguenze immense: oggi siamo schiavi di protocolli, pro-cedure e processi autoreferenziali di cui non si valuta la natura degli obiet-

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tivi, tanto meno il senso che essi mostrano avere in termini etici, di valori.Né la soluzione può essere quella di stabilire semplicemente la priorità dellavisione critica su quella amministrativa. Il nuovo paradigma della realtà sibasa proprio sull’interazione continua e generativa fra opposti, fra contrari,andando in questo contro la vecchia cultura che li considera alternativi inun’alternanza di momenti in cui predomina l’uno sull’altro: come dire chequando la situazione è tipica delle vacche grasse ci si può permettere diseguire gli ideali; quando le vacche dimagriscono, non resta che fare ricor-so il prima possibile e con il massimo dei consensi, alla concretezza deibilanci e dei relativi conti.

Questa contrapposizione-alternanza fra le consolazioni dei sogni delleidee e le durezze della realtà delle cose deve finire. Perché i nostri sognidiventano sempre più spesso tormenti, oppure condizioni fittizie, consolato-rie, aree di ristoro per la mente e il fisico; perché, nei nostri conti, i calcolitrattano gli uomini come cose, e questo a molti non piace, per ora.

La comunicazione, quindi, così come è stata intesa fino ad oggi, cosapuò fare se non continuare a trasmettere e a creare le consuete gerarchie?Che ordine può costituire se non quello già costituito? Cosa può organizza-re se non perpetuare e aggravare l’attuale crisi che ci vede tutti coinvolti?

Lo stesso quadro cambia in maniera sostanziale ed emozionante secominciamo a parlare dell’altra comunicazione, che nell’attuale incertezzaconcettuale e terminologica chiamerò la “buona comunicazione” e che, alcontrario, può e già sta facendo tanto perché questa realtà non solo cambi inmeglio, ma prenda una direzione di obiettivi e di propositi del tutto diversa.La buona comunicazione, infatti, opera almeno su quattro piani:

1. crea cose-idee-cose che, progettando un futuro migliore, ne rappre-sentano gli strumenti operativi per attuarlo;

2. genera saperi, conoscenza, competenze adeguate al salto di sistemache la nostra storia sta vivendo;

3. attiva e garantisce un processo reciprocamente generativo fra gram-matiche e testi della realtà, in tutti i suoi aspetti;

4. crea una comunità di cultura conflittuale con quella oggi dominante,dando vita ad un tessuto sociale antropologicamente mutato.

Questo significa che là dove c’è scuola nuova – può essere rappresenta-ta anche da un gruppo minimo di persone – la scuola nuova, se è tale vera-mente, non avrà più bisogno per esistere di un consenso consolidato, di unamaggioranza acquisita. Questo non è più quel tempo: per governare questacrisi dal fronte progressista è necessario abbandonare i vecchi parametri di‘governo’ e capire che le cose vanno cambiate al di fuori di riconoscimen-

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ti esterni (maggioritari) alla nuova cultura, senza temere di creare una realtàparallela a quella dominante, perché se questa sarà quella giusta troverà laforza per diventare di governo; finché anch’essa, nel ciclo naturale dellesocietà futura, sarà soppiantata da altro.

Un rischio? Sì, che qualsiasi forza di progresso deve correre se vuolecambiare davvero in meglio la nostra condizione di uomini: far vivere inpiccolo quello che vorrebbe diventasse sistema.

La buona comunicazione può essere risolutiva per trasformare tentativicellulari, minimali ma progettati per porsi come strumenti per un mutamentototale della società (compresa quella scolastica), in un progetto ideale e poli-tico socialmente rilevante, risolutivo: la comunicazione, quindi, può andareoltre il semplice e vecchio “fare sistema” fra diversità convergenti secondo latradizionale visione centralistica della realtà, seppure rivisitata alla luce di unasupposta valorizzazione dello spontaneismo, dell’emergentismo della base.Essa, infatti, può creare l’ambiente per definire la natura profonda del siste-ma stesso e la sua successiva realizzazione, un progetto però – ripetiamolo –che non si affermerà per ampliamenti successivi di aree sempre più vaste finoalla conquista del dell’intero territorio geopolitico, perché le varie, affiorantiisole di progresso non si limiteranno a riscrivere il vecchio continente ma negenereranno uno nuovo, che è sconosciuto perché sono proprio quelle espe-rienze d’eccellenza a idearlo, progettarlo, sperimentarlo: a ‘scriverlo’.

E potrà essere utile ribadire che il progresso a cui qui si fa riferimentospesso è qualche cosa che è lontano da quelle sorti progressive dell’umanità,da quella fede nel miglioramento continuo e inevitabile della nostra condi-zione di uomini, messo così a dura prova non tanto dalle riflessioni di pro-venienza conservatrice o manifestatamene reazionaria, quanto dalle violen-ze ideologiche del secolo scorso, dalle atrocità prima e durante la secondaguerra mondiale e termonucleare, dalla successiva guerra fredda e dallaimprovvisa e inaspettata scoperta dei limiti dello sviluppo del nostro piane-ta. Qui per progresso, cioè, non si comprende niente di lineare, sommatorio,inevitabile e inarrestabile. Né s’intende un obiettivo finale, né una speranzain un futuro già scritto: ma semplicemente una condizione, meravigliosa-mente umana, ottenuta per bontà divina o altro, che l’uomo può decidere discegliere o di rifiutare; ma anche, che l’uomo può non riuscire a concretiz-zare al di là delle sue buone intenzioni. Soprattutto, quindi, il diritto doveredell’uomo di partecipare alla creazione di questo mondo interrogandosi con-tinuamente – in tal senso, ebbe dubbi Dio durante la creazione, forse po-tremmo avere l’umiltà di provarne anche noi – se quanto sta generando “ècosa buona” oppure non lo è.

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Un progresso per concretizzare il quale la scelta delle risorse è già unfatto essenziale, poiché diventa fondamentale decidere che cosa si debbaintendere per risorse. A quel punto, le risorse a disposizione per materializ-zare una realtà nuova potrebbero sorprenderci, svelandosi immense, e loscenario risultare assai diverso da quello che credevamo; certamente menocupo e inevitabile.

Se non altro, potrebbe rivelarsi un’occasione per spezzare questa situa-zione di deriva politica e sociale che ci trascina senza rotta, o peggio secon-do rotte che non condividiamo per niente, ma che non facciamo molto permutare salvo ripeterne incessantemente – dubito con correttezza – le coor-dinate. Per dare vita ad un reale e concreto e fattuale conflitto fra il passatoe il presente, solo così un altro mondo (scuola) non “sarà” possibile ma già“è”. I conflitti, oggi quasi demonizzati, anche se i loro surrogati appaionoassai più crudeli e spietati del passato, sono parte del divenire dell’umanità;l’illusione che si possano cancellare è funzionale soltanto al sistema di voltain volta dominante.

Senza conflitto, dal nucleo famigliare alla scuola, all’intera società sem-plicemente non si “è”.

4. Bussola indispensabile: morale e politica… se vi pare poco

Quindi: ci troviamo sempre, a tutti i livelli, davanti alla necessità di ride-finire i concetti di particolare e generale, e la relazione che ne caratterizza ilrapporto. Bisogna lavorare sulle tante, diversissime micro-realtà tenendo pre-sente la necessità, sulla base di quanto andiamo agendo nel nostro ambientepersonale, di una contestuale progettazione dell’ambiente macro-strutturale.

Un movimento, individuale e collettivo, incessante, che ci vedrà passa-re dall’infinitamente piccolo, del nostro agire individuale e di piccole comu-nità, all’infinitamente grande, proprio di un agire che ormai raccoglie nonsolo vaste, vastissime comunità, ma tutti gli esseri umani. Bisogna trovare ilcoraggio di uscire dall’esperienza personale e di confrontarla a livello sem-pre più ampio, nel tentativo di costruire un nuovo tessuto socio-politico edeconomico che valorizzi quanto emerge dalle micro-realtà d’impronta per-sonale, le realtà del possibile se voluto e ‘saputo’; avere la forza di ammet-tere che queste ultime da sole non possono andare oltre una debole soprav-vivenza di tipo consolatorio e personalistico, a meno che, appunto, non simettano in attento ascolto di quanto, sulla base proprio delle loro esperien-ze, emerge a livello generale, pronte ad assumersi la responsabilità di porsi

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Evidenzia
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come indirizzo strategico oppure a recepirne indicazioni anche profonda-mente correttive. Perché le future grammatiche necessitano della divergen-za di testi inediti, né più né meno di quanto i testi inediti necessitano dellaconvergenza verso grammatiche nuove.

Questo andare e venire fra strutture e singoli elementi, fra generale eparticolare, fra grammatiche e testi, fra globale e locale, sarà una caratteri-stica fondamentale non solo della comunicazione ma della costruzione dellanuova socialità e un riferimento metodologico fondamentale per chi vogliasuperare l’attuale situazione d’instabilità.

In questo scenario, l’azione comunicativa dell’insegnante, del gruppo distudenti, della singola classe, eventualmente della scuola, insomma del pic-colo, acquista una centralità indispensabile, strategica: e gli attori coinvoltilo devono sapere, devono lavorare in questa prospettiva, e devono farlo nonper ragioni consolatorie ma perché questa consapevolezza è l’indispensabi-le bussola per questo mondo.

Si ha l’obbligo d’entrare nel particolare, quasi perdersi dentro un fareminuto e specifico; di uscire, poi, nel generale, ai limiti dell’astrattezza piùinconcludente, mutando incessantemente prospettiva così da analizzare evalutare entrambe le misure della realtà. Un DENTRO ! FUORI conti-nuo, al punto da segnare quella terra di mezzo, ! come il terzo polo deldivenire, tutto da scoprire e da costruire, certamente non meno importantedei punti di partenza e di arrivo. Un viaggio infinito estraneo al consuetoconcetto di transizione, di inizio e fine, di stare e andare, di tempo e di spa-zio. Tutto ciò in nome di una nuova visione dell’identità e della relazione.

Eppure la necessità oggi fortemente sentita di trovare punti di riferi-mento costanti e duraturi, identitari, pare risolversi nella contrapposizionefra chi sostiene la continuità delle grammatiche, enti astratti quanto immu-tabili, garanti della nostra umanità (top-down), e chi, al contrario, ha sposa-to la necessità del continuo divenire dei testi (bottom-up), secondo una pro-spettiva che fa del mutare continuo il proprio essere; su di un piano politi-co, si potrebbe dire fra chi è per il decentramento (“ognun per sé e Dio pertutti” vs. “piccolo è grande”) e chi è per una politica centralizzata (“libertànon è fare tutto quello che si vuole”), fra chi è per l’ospedaletto, moltoumano, del paesino di 9.000 anime e chi opta decisamente per il policlinico,dove c‘è tutto al meglio ma dove l’uomo è poco più che un numero.

Appare chiaro che l’elemento di forte criticità che emerge da queste dueforme contrapposte ma complementari d’ignoranza e d’incompetenza con-siste nell’incapacità di formulare un qualsiasi progetto, perché solo un pianochiaro e forte può dire che tipo di relazione stabilire fra piccolo e grande, e

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cosa sia concretamente piccolo e cosa grande, cosa significhi decentralizza-re e cosa centralizzare, dove finisca la Toscana e dove inizi Roma, tanto peressere chiari; ma anche l’Europa, il mondo tutto.

L’organizzazione sostenibile non può sostituire le idee. In entrambe leipotesi di soluzione.

Naturalmente ideali, valori morali, principi ispiratori sono tenuti da tuttiprudentemente su uno sfondo molto fondo; salvo farli ballare per una solanotte, quella delle elezioni, come ballerine di quinta fila. Apparentementeindiscutibili (chi mette in discussione la giustizia, l’uguaglianza, la dignitàumana? almeno per ora), ma tutto è apparenza e inganno come accade sem-pre quando le idee non diventano cose.

È il segno dell’avvenuta rottura fra la ricordata triade (con il relativoambiente da essa generato) e i principi etici, l’umanesimo, che la dovrebbe-ro non solo ispirare, indirizzare, ma ne dovrebbero essere parte attiva, forzafisica, quasi carnale. Insomma è la conseguenza dell’avvenuta separazionefra principi e cose: per tornare al ristretto ambito di questo intervento, fra untipo di comunicazione e vari tipi di contenuti.

La scuola risente di questa situazione, ne è diretta espressione e, piacciao non piaccia, causa importante. Perché non ha saputo cambiare la propriacomunicazione in funzione di una nuova società, ma ha pensato di salva-guardare vecchi privilegi con azioni di restyling: tanto è vero che questascuola, con le sue macerie, è quanto di più funzionale a questa società chesi rifiuta di accettare un nuovo paradigma della nostra umanità, schiacciatafra pulpiti rossi, bianchi e neri.

Sono gli attuali concetti di linguaggio e di comunicazione che vannorivisti a favore di altri, ontologicamente diversi; e il modo migliore per farlonon credo che sia quello di imporre nuove grammatiche cadute dall’alto oprendere un testo che sembra meglio di altri e farne un nuovo paradigmacomunicativo, magari perché seduttivo dal punto di vista tecnologico.

Accettare la complessità significa prima di tutto conoscerla e, nel casodella comunicazione, iniziare a riflettere sul fatto che essa si basa su alme-no quattro elementi:

1. le grammatiche;2. i testi;3. la relazione che contraddistingue il rapporto fra grammatiche e testi;4. l’ambiente comunicativo, espressione della triade precedente e che

distingue ogni epoca.Operativamente significa comprendere la necessità di lavorare per azio-

ni tanto delimitate e realizzative quanto fortemente fondatrici e istitutive,

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interventi d’eccellenza che mirino diritti alla realizzazione di aree sociali,private e pubbliche, che rispondano a valori e a politiche radicalmente diver-se da quelle oggi vincenti. E qui la parola “politica”, come si sarà compre-so, non si riferisce all’attuale geografia nazionale e internazionale di naturapartitica, che rappresenta quanto di più inadeguato si possa immaginare perandare incontro alle esigenze di questa incredibile fase storica, ma al sensoprofondo dell’essere e fare società che ogni individuo libero ha dentro di sé.

Costruire, insomma, nuovi contenuti e relativi ambienti (nel caso speci-fico, la scuola, uno fra i più sensibili) deve procedere per realtà particolari,per azioni specifiche ma non per questo estranee ad esigenze e visioni con-divise da molti altri che, inevitabilmente minoranze, qualora abbianocostruito fra di loro una buona comunicazione nell’accezione qui indicata –questa è la chiave di volta –, possono dare vita ad una forza generativa diun’efficacia eccezionale, inimmaginabile. La rete sarà fra diversi che hannoin comune la costruzione di un progetto, ognuno a modo suo ma proprio perquesto ispirati, alla ricerca di una visione comune dell’uomo che verrà.Perché l’uomo nuovo sembra aspirare alla condivisione di valori e di sceltemorali pur nella diversità delle espressioni individuali e collettive.

Realizzazioni, cioè, la cui forza sta nell’essere, considerando l’esserenon come dimensione assoluta e metafisica di una realtà immutabile ma, alcontrario, come forza di chi e di che cosa trova nel vivente, nella capacitàcioè di essere nonostante lo strapotere di forze contrarie e contrapposte, lasua legittimazione. Il semplice fatto di essere avrà ricadute immense, inim-maginabili sulla base dei modelli fino ad oggi vincenti, liberticidi nei con-fronti di tutto ciò che non si adegua e si uniforma.

La scuola nuova, cioè, è là dove c’è un maestro, un’allieva\o etc. che cre-dono nel valore e nel significato di quello che fanno, al di là delle logiche dipotere che ne denunciano l’assoluta insignificanza. Quello che conta non è ilpeso digitale (leggi numerico in senso lato) di ciò che stanno facendo, diquanto siano maggioranza e di quanto la tendenza generale vada in quelladirezione. Verifiche della qualità di progetti che si basino su questi parame-tri rendono già vecchi quei progetti stessi. Concretizzazioni che si svilup-pano a macchia di leopardo, in continua espansione, per zone, per aree (dal-l’operato individuale a quello di piccoli, medi, ma anche grandi gruppi) inincessante rafforzamento, crescita, secondo un’aspettativa che vada oltre lacultura della testimonianza intesa come atto perdente sul piano pubblico mavincente su quello personale, privato. Mirate, invece, con la forza della loroesistenza, della loro azione specifica, a vincere le resistenze provenienti dallasocietà e dalla cultura a loro contrarie, e perciò attente a studiare gli effetti e

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a monitorare le dinamiche che il nuovo, finalmente reso esistente, pur contutti i suoi difetti e limiti, provoca e attiva. Azioni opportunistiche, attente ache niente vada perso, sprecato della propria esistenza, come una volta sifaceva nelle culture contadine, perché il loro senso si basa sul primato, indi-scusso e non fazioso, della conoscenza che non è mai ri-conoscenza, cheresta tale, quindi, anche quando emergono dati che non piacciono, che con-traddicono le aspettative. Azioni consapevoli del fatto che la conferma dellabontà di quanto stanno rendendo reale avrà un aspetto inaspettato, inimma-ginabile, sarà libera da riferimenti a parameri di qualità consueti.

E la forza di chi crede in queste micro-realtà con cui costruire il nostrofuturo, dal peso specifico per il momento insignificante, investendovi il suotempo più prezioso, sta proprio in quelle ragioni che sono interpretate comecausa della loro congenita debolezza: sono persone che rivelano uno scarsosenso di realtà perché schiacciate dagli ideali; mostrano poca concretezzaperché perse nell’affermazione astratta dei valori; hanno un’innata vocazio-ne alla sconfitta perché rifuggono dalla gestione dell’esistente, inteso daidetrattori – sia chiaro – unicamente come punto d’arrivo e non come puntodi partenza per costruire la storia; sono troppo politicizzate, perché riporta-no tutto all’organizzazione e al governo dello Stato Città. E però questemicro-realtà sono e continuano ad essere, finché l’imprevedibile possa avve-nire per strade altrimenti inimmaginabili. La nuova umanità che siamo chia-mati a generare ha bisogno proprio di ideali, di valori, di politica: di una bus-sola che indichi gli obiettivi e che aiuti a riconoscere le risorse che, se nonschiacciate dalla corrente monetizzazione e dalla democrazia numerica chetutto sta corrompendo, possono rivelarsi così ricche e numerose da risultareimbarazzanti per chi soffre della diffusa tendenza al rinvio, in attesa di tempimigliori, e allo scoraggiamento: questi ultimi sentimenti così ben comuni-cati da convincerti che entrambi sono, senz’altro, motivati, frutto di un’in-telligente e avveduta consapevolezza.

Il progresso – altro dall’innovazione che molti inseguono – è quando edove si decide che sia, perché se riusciamo a viverlo allora già c’è: per fede,per speranza e, in sostegno di una trilogia che oggi appare ridicola ma che,al contrario, penso segni il significato più segreto e profondo della nostraumanità, per carità. E la fede, naturalmente, non è quella cieca, ma scaturi-sce dalla consapevolezza dei limiti del nostro sapere, della necessità di cor-rere il rischio di essere, prima ancora di qualsiasi definizione o paradigma;la speranza non è quella ultima a morire, estrema allegria di naufraghi, maè il diritto che sentiamo di avere ad aspirare al bene e alla felicità, oggi piùche mai; e la carità non è quella che si spera facciano agli insegnati perché

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i loro stipendi sono ormai ridotti a compensi da fame, ma è la convinzioneche l’errore possa essere molto di più di una colpa da espiare o far espiare,e cioè una risorsa da valorizzare.

Ancora una volta: valori, ideali, scelte etiche, morali e politiche; maquesti devono abbandonare il loro antico e perdurante modo di essere che liha posti, da sempre, fuori dalla realizzazione concreta delle cose. Così comele cose necessitano di un senso che è prima di tutto la definizione dell’uni-verso dei valori a cui tendono. Il mondo che abbiamo davanti, in attesa diessere costruito, ha bisogno di cose-idee e di idee-cose. Le dinamiche che ciavvolgono e ci trascinano esprimono idee – molte delle quali vanno com-battute – inscindibili dalle cose (dalle macchine della burocrazia a quelledigitali dei nuovi media). La buona comunicazione è un modo di vivere lanostra socialità e interiorità, e in quanto tale va vista sì come uno strumentoper trasformare le idee in cose e le cose in idee, ma anche, e soprattutto,come una fondamentale garanzia perché le cose possano a loro volta creareidee e le idee originare cose.

I vecchi processi comunicativi, quindi, caratterizzati da algoritmi mira-ti ad una sempre maggiore efficienza meccanica, dovranno essere sostituitida una comunicazione, che, pur avendo precise regole, biblioteche disequenze operative, presenti però una natura assai diversa da quelli esisiten-ti. Essa, infatti, dovrà porre il proprio baricentro non sul passato, sulla cer-tezza dei cicli, dei corsi e dei ricorsi e dei relativi risultati, ma in avanti, suun futuro tutto da costruire, da generare sulla base di un progetto.

Perché la comunicazione possa essere, in questa futura polis ‘di-vergente’,sempre più generativa sarà necessario che ci si liberi al più presto dall’ideadella rivoluzione (violenta, pacifica, silenziosa, sanguinosa, floreale etc. etc.)che, per costruire, prima deve distruggere; purché si abbandoni, ugualmente,la linea riformista – dura o morbida – che considera ogni sistema gradual-mente migliorabile. Al suo posto va seguita una strategia effettivamente cor-rispondente alla novità rappresentata dai nostri tempi. Essa si basa sulla con-vinzione che il vecchio sistema sia arrivato ad un punto di crisi tale che, secontinua a resistere, e potrebbe resistere ancora a lungo facendo danni incal-colabili e irreparabili – qui sta la vera emergenza –, è perché il nuovo non si èancora emancipato da una specie di sudditanza filiale, da un infantilismo con-genito, e da un familismo duro a morire, e continua a cercare un consenso,un’autorizzazione, un via libera che il vecchio potere non dovrebbe negargliper un’indiscutibile, a suo parere, evidenza dei fatti. Peccato che nessuna evi-denza, oggettiva condizione, verrà mai riconosciuta da chi scorge in quella purinnegabile realtà la ragione della propria fine; e l’anagrafe di tanti docenti

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ancora in attesa del riconoscimento istituzionale del loro ruolo sta lì a dimo-strarlo, così come il progredire geometrico della loro ignoranza professionale.

Rivoluzionari o riformisti (di tutto l’arco politico) non hanno capito chela logica dei due tempi, destruens e construens, sia a livello macro chemicro, appartiene ad una fase storica finita, che il tempo e lo spazio in cuiviviamo vogliono che ci ispiri ad una logica per la quale la società la si fafacendola, nel senso che al vecchio va affiancato il nuovo purché quest’ul-timo non sia un bluff. Il punto è che spesso ciò che si presenta e si dichiaranuovo altro non è che una forma di conflitto d’interessi e di potere all’inter-no del vecchio sistema: da qui nasce l’ambiguità di chi dichiara di volercambiare il sistema e al tempo stesso ritiene che senza abbattere il sistemanon sia possibile intervento alcuno.

Nel caso qui discusso della scuola e in genere della formazione, il nuovodovrà decidere ‘semplicemente’ di scontrarsi sul piano della realtà dellecose, fattivamente, con il vecchio, rinunciando, per cominciare, a cercare diessere legittimato dal sistema che intende cambiare, dando vita ad una nuovascuola e accettando la conflittualità e il rischio terribile che, così facendo, nescaturirà. Perché niente offende maggiormente il potere che ignorarne ilpotere di certificazione: fosse pure della sua stessa morte. Una prospettivatutta da capire, e su cui anche personaggi che nella loro vita hanno deciso direstare all’interno del sistema, come don Lorenzo Milani, così impegnatonon a caso proprio sul fronte scolastico, hanno molto da insegnarci.

A scuola, la buona comunicazione deve materializzarsi in una ricerca,condivisa, orientata al conoscere, facendo attenzione a valorizzare le diffe-renze e le peculiarità dei soggetti e delle cose coinvolte per andare oltre isoggetti e le cose stesse, per creare, quindi, in un processo incessante e assaispesso sorprendente rispetto alle aspettative iniziali – ma non per questoesente da un’accurata progettazione –, nuove realtà. Un progetto che deveessere dichiarato e sottoscritto dai suoi principi ispiratori negli obiettivi,nelle modalità operative, negli strumenti da utilizzare e attentamente moni-torato, secondo la precisa convinzione che le idee migliori sono quelle chein fase di analisi e di applicazione accettano di essere valutate e ripensatefino al punto da progettare e realizzare altro da se stesse.

Nella relazione docenti-allievi, più in particolare, non c’è dubbio che uninsegnante debba onorare la propria funzione assumendosi la responsabilitàdi dare una sua visione delle cose, di ‘trasmettere’ e (perché no?) il suo per-sonale bagaglio di dati e di relative interpretazioni, compromettendosi invalutazioni e giudizi (se non ha perso la fiducia nel poterne avere). L’atten-zione al ruolo attivo degli studenti credo vada misurata sulla base di quanto

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e come il docente ‘rischia’ il loro giudizio, presentando, pur in uno scenariovasto e variegato, proprie idee sulle cose e sugli uomini. Ma al tempo stes-so egli deve porsi verso di essi in maniera da favorire, da parte loro, un’al-trettanto forte competizione creativa, sollecitando negli allievi una ricercaautonoma, ma per questo non meno rigorosa e puntuale, di dati e d’inter-pretazioni, favorendo al massimo tutte le visioni che aspirino ad attivaredinamiche contrastive rispetto a quanto da lui sostenuto. Questo è il cuoredel “di-vertire” a cui si è fatto riferimento.

Certamente l’impostazione che si sta dando alla scuola e all’universitànegli ultimi decenni, giocata sul modello pseudo-imprenditoriale (magarifosse almeno imprenditoriale davvero!) “studente = cliente”, porta in dire-zione opposta, in quanto il sacrosanto rispetto dei diritti degli studenti èbanalizzato – vorrei dire brutalizzato – riducendolo alla massima che “ilcliente ha sempre ragione”. Il docente, così, temendo il disappunto dei suoiallievi, la loro naturale e provvidenziale tendenza a contrapporsi, a criticare,ignorare l’esistente, non agevola questo loro vitale atteggiamento, fonda-mentale perché possano costruire la loro cultura, la loro società, la loro per-sonalità su solide basi. Pessime leggi, modestissimi curricula professionali,dominati da un’innaturale contrapposizione fra metodologie e contenuti –entrambi modesti fino al rossore –, una mediocre e scadente classe dirigen-te (amministrativa – politica – sindacale), compensi avvilenti, problemi di‘genere’ nel personale ormai imbarazzanti (lo sarebbero anche se fosserotutti uomini), hanno spinto la classe docente, sempre più confusa per lacostante perdita di prestigio e di funzione sociale, ad abdicare al suo ruolofondamentale: le conseguenze sul piano comunicativo non si sono fatteattendere, causando una progressiva quanto inarrestabile sfocatura del ruolocre-attivo del docente, sempre più timoroso di porsi come guida, come‘maestro’, tanto è diventato insicuro circa la propria identità. I valori domi-nanti poi hanno fatto il resto: con il risultato di rapinare gli studenti del lorodiritto di crescita e di acquisizione d’autonomia e quindi di costruzione dellapropria identità. Non ultimo sul piano professionale, come si può riscontra-re agevolmente nelle nostre esperienze quotidiane. Per cui, cari maestri, pro-fessori di tutte le scuole e di tutte le università, ricordatevi che quegli allie-vi saranno poi i professionisti a cui voi e i vostri cari potreste, un giorno,aver bisogno di rivolgervi, per una concreta necessità… Vi fidereste?

Questa tendenza all’invisibilità della classe docente è stata robustamen-te sostenuta da politiche di anni. Questa politica del male minore, e cioè dirifugiarsi dietro un’idea di servizio, di assistenza ad un percorso che lo stu-dente dovrebbe compiere in autonomia e in libertà da vincoli e indirizzi di

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qualsivoglia genere, questa rinuncia al confronto personale – di personalità,di individui concreti –, generazionale e culturale, brodo primordiale di qual-siasi innovazione e progresso reali, liberatorio di risorse, d’intelligenzenuove, ha indebolito il ruolo dell’educatore-formatore, che è finito semprepiù con l’assumere quello di facilitatore, di steward, di assistente di un sup-posto selfservice formativo degli allievi. Oppure, il che è del tutto equiva-lente, giudice sempre più ignorante.

La borsa dei già ricordati valori sociali, battuta giorno dopo giorno daimedia, impegnata a sostenere la figura del compratore libero e autonomodavanti ad un mercato sempre più democratico e liberale, il sistema sangui-gno e nervoso della società, una compravendita senza limiti, attenta a perso-nalizzare le sue offerte commerciali, ha contribuito a identificare nel docen-te una figura debole, estranea alle dinamiche di mercato che la stanno facen-do da padrone dalla Sanità all’Agricoltura, legittimando un atteggiamento daparte degli studenti meno avveduti (la stragrande maggioranza in crescitaverticale) di disinteresse se non di sufficienza verso i propri docenti, con laconseguente caduta libera dei risultati ottenuti. A scuola e poi nella società.

5. Praticità, concretezza e altri luoghi comuni

In questa eclisse della persona – sia lato discente che docente – le nuovetecnologie della comunicazione, e con esse la questione dei relativi linguag-gi, hanno giocato un ruolo di grande ambiguità. Esse, infatti, hanno favoritoda parte di molti docenti sensibili ai bisogni di rinnovamento della scuola, incerca giustamente di una riqualificazione professionale, un interesse verso leICT di per sé ineccepibile se non fosse (stato) vissuto, al di là di un diffusoprofumo molto trendy, come elemento a sé rispetto, non solo ad un approfon-dimento dei contenuti culturali di base ma anche di quelli naturalmente disci-plinari. È accaduto così che, mentre questi ultimi venivano sempre più ridot-ti a pretesto per l’apprendimento delle buone pratiche tecnologiche, si èrafforzata una fuorviante convinzione che linguaggi e contenuti stessero indue aree diverse, complementari ma separate, che appartenessero a due fasidistinte dell’apprendimento e quindi dell’elaborazione creativa.

Il che, naturalmente, era in linea con la nostra cultura novecentesca(tutta: di destra, di sinistra, di centro, cattolica, laica etc.) pervicacementeradicata ad una logica di netta contrapposizione delle forme (leggi comuni-cazione) ai contenuti, in questo riproponendo un’idea di linguaggio assaipalestrato, ossia legato ad un esercizio fine a se stesso. Non solo: ha com-

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portato anche che nel nostro modo di avvicinarci all’innovazione tecnologi-ca dominasse l’idea di un non-diritto a valutare la tecnologia stessa, con-centrando ogni valutazione sulla nostra maggiore o minore capacità d darevita a sequenze di atti, a procedure cognito-meccaniche. In altre parole, lanostra è (stata) una posizione tipica di consumatori piuttosto che di ideato-ri, i quali tendono a riconoscere l’esistenza di bisogni sulla base non di unprogetto definito, ma delle funzionalità che un oggetto acquistato può offri-re. Una scelta che ha inciso pesantemente anche sulla crisi dell’industria del-l’area tecnologica nel nostro paese, contribuendo a diffondere l’idea chel’innovazione sia un prodotto che non nasce dall’interno del sistema paese,ma che viene dall’esterno, possibilmente a pagamento (si sa, quando si pagatutto è più chiaro e garantito).

In questo scenario, si sono affollati anche nella scuola luoghi comuniche ormai si rischia avere sdoganato come premesse metodologiche impre-scindibili. Eccone alcuni:

1. l’innovazione scolastica passa solo attraverso le nuove tecnologie;2. il ritardo italiano nello studio delle materie scientifiche è confuso con

il ritardo nell’uso delle ICT;3. la rete è oggi lo spazio più adeguato alla comunicazione e alla socia-

lizzazione;4. i giovani conoscono i linguaggi delle nuove tecnologie della comuni-

cazione assai meglio dei loro insegnanti, che in proposito non hanno nienteda insegnare e giustamente, quando entrano in classe, avvertono in proposi-to un profondo imbarazzo;

5. i bambini sembrano naturalmente portati a quei linguaggi, apprendo-no con grande facilità da soli, si aiutano fra sé;

6. si è creato un divide generazionale circa il mondo digitale che nonpotrà sanarsi se non con un avvicendamento, appunto, generazionale;

7. le nuove tecnologie aiutano a risvegliare l’interesse dei giovani negli studi;8. i linguaggi digitali, dal digital writing ai video, sono facilitati dalle

nuove macchine che riducono o addirittura azzerano ostacoli e problemati-che presenti nelle vecchie tecniche della comunicazione;

9. last but not least: i giovani cercano un ruolo attivo nel loro apprendi-mento, un’interazione e una personalizzazione che il digitale facilita moltissimo;

10. etc. etc.Si tratta d’affermazioni che possono essere tanto vere quanto false,

come tutti gli stereotipi, eppure ognuna di esse sta incidendo molto nell’at-tuale fase di ripensamento della scuola. Non c’è corso d’aggiornamento o diperfezionamento che non affronti direttamente alcuni di questi punti, men-

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tre significativi interventi politici degli ultimi anni ne hanno tenuto granconto. L’origine del successo che, più o meno, tutte queste asserzioni stan-no incontrando, credo vada ricercata proprio nella più volte richiamataambiguità che avvolge oggi il concetto e le pratiche della comunicazione, eil rapporto fra questa e le tecnologie, e di cui il precedente florilegio di luo-ghi comuni bene rappresenta la natura: l’efficacia della comunicazionedipende dall’uso che se ne sa fare, come con qualsiasi strumento; essa vavalutata sul piano della sua capacità di persuadere, convincere, indurre, peril resto non è né buona né cattiva; e così via discorrendo.

Allora perché stupirci se negli ultimi dieci anni la comunicazione si èprogressivamente venuta identificando con il mondo digitale, forte comenessun altro di multinazionali e transnazionali con dimensioni economico-finanziare da favola?

Quanto è accaduto nella scuola è stato ancora una volta emblematico delmodo in cui le ICT si sono inserite nella nostra società.

Gli eclatanti ritardi e gli errori strategici, compiuti dalla politica e dallacultura che la sostiene, hanno obbligato i singoli (docenti da una parte maanche aziende, enti vari dall’altra) a farsi carico di sperimentazioni isola-te, senza una politica d’indirizzo e di sviluppo se non quella di non averla.La mancata progettazione a livello generale dell’uso delle nuove tecnologie– ma il discorso vale anche per le vecchie – ha rafforzato, specie dopo l’av-vento d’Internet, l’idea che queste potessero miracolosamente risolvere pro-blemi annosi, senza che fosse necessario mettere in discussione il modellocomunicativo della nostra società, negando alla comunicazione la funzioneessenziale di ideare, progettare, sviluppare, monitorare in tutti i settori socia-li, dall’economia alla politica, dalla formazione alla ricerca etc..

Per questa ragione il digitale è stato considerato in sé innovativo, senzacapire che come una grande azienda non può avvalersi con profitto delleICT senza riorganizzarsi radicalmente, fino a ripensare la natura della suastessa mission, così la scuola aveva bisogno ancora di più di quei saperi e diquelle competenze che fin troppo rapidamente sono state abbandonate, enon certo soltanto per investirle nello studio dei libretti d’istruzione, deimanuali delle varie macchine e programmi: il problema del progressivoindebolimento della formazione dei docenti era già presente da tempo. Lamodalità vincente di inserire quel poco che si è inserito di ICT nella scuolaè stato più il sintomo di una crisi in corso che la causa. Non c’è dubbio.

In altre parole, non si è capito che le nuove tecnologie erano non lacausa ma l’effetto di esigenze e di criticità che emergevano dalla storia degliultimi decenni, e che la digitalizzazione in quanto tale non significa(va) pro-

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prio niente, se non un pericoloso rinvio nell’affrontare dei nodi che certa-mente le ICT non potevano risolvere. Era un po’ come quando negli annidella contestazione studentesca ed operaia, si pensava che bastasse sostitui-re la letteratura, la matematica, la filosofia o il greco con la lettura dei gior-nali, con l’analisi dei TG o dei film per cambiare la “scuola di classe”: i piùavveduti proponevano di studiare le materie della “controinformazione” nelpomeriggio, in aggiunta ai curricula tradizionali anche se rivisti (Leopardimeglio di Manzoni, Pollock di Giotto, Marx di Kant, l’antropologia struttu-rale della geografia etc. etc.).

I testi, con il nostro modo di usare le ICT, sono diventati ben presto deipretesti. Al di là della complessità che ha comportato la loro realizzazione.Una cosa ben allineata con la strategia formativa della comunicazione dellascuola, solo che alle vecchie e nuove tecnologie si è affiancata una nuovaidea, molto funzionale, come si è visto, al mercato: le macchine possono riu-scire là dove l’uomo ha fallito. Il che sarebbe persino ovvio – almeno dallascoperta della ruota in poi – se tale ovvietà non venisse interpretata comeuna sorta di delega alla macchina e al suo linguaggio, e non solo in fase ope-rativa, di uso, ma anche in fase di progettazione della macchina stessa, con-siderata sempre più un momento di decisioni di tipo meccanico del tuttoestranee a scelte di strategia etica e ‘politica’.

Anche la scuola, sia sul fronte di chi crede e spera nell’innovazione tec-nologica sia su quello, assai più vasto, di chi non ci crede, soffre pesante-mente di questa supposta neutralità della cultura delle tecnologie. Ma la cosapiù preoccupante è registrare, in chi vede in queste ultime una tematica concui, comunque, è necessario confrontarsi, la convinzione che esse possano:

• rilanciare il ruolo del docente, se non altro come docente delle tecni-che del presente-futuro;

• permettere di ri-raccontare in maniera semplice e accattivante coseche altrimenti gli studenti non potrebbero mai sostenere;

• introdurre l’innovazione sempre negata, basta trovare i soldi necessa-ri per acquistare tecnologia e relativa formazione per i docenti;

• rafforzare il modello trasmissivo-gerarchico, che ne esce rafforzatis-simo da questa visione delle tecnologie e dei relativi linguaggi;

• far trionfare la cultura del fai da te (docenti\discenti), poiché la comunitàaltro non deve essere che un immenso repository buono per tutte le necessità;

• spostare lo scontro dal progetto sociale alle modalità comunicative;• permettere di cambiare tutto per non cambiare niente, nemmeno la

comunicazione;• etc.

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– Un momento, Toschi. Tu parli di comunicazione, come è e comedovrebbe essere, ma intanto che scrivi di queste cose così generiche i tuoipotenziali venticinque lettori se ne sono già andati altrove. Sì perché quan-to stai dicendo non significa molto sul piano dei riferimenti concreti allaquotidianità, al fare scuola ogni giorno: non danno un know how adeguatoalle aspettative e ai problemi che ci hanno spinto a stare qui a sentire quel-lo che avevi da dire per poi poter dire a nostra volta quello che pensiamo.

Oggi, se non l’hai ancora capito, le persone hanno bisogno non didiscorsi generali, che troppo facilmente diventano generici, ma di indica-zioni semplici, operative, concrete, soprattutto di capire facendo. È dal fareche ci aspettiamo di comprendere: quello che non accettiamo più è cheprima ci siano dati i quadri teorici e poi le pratiche, che arrivano sempretardi e male. Già visto grazie, e i risultati sono questi.

Quanto stai dicendo, infatti, ci sta obbligando faticosamente e senza co-strutto ad immaginare, quasi fantasticare quali possano essere le ricadutedavanti ai nostri bambini e ragazze delle tue osservazioni. Come espertodella comunicazione e in particolare delle nuove tecnologie dovresti saperlobene. Come si fa ad imparare ad usare una lavagna interattiva multimedia-le se non ci mettiamo sopra le mani? Che competenze possiamo acquisire?1

E poi, cerca di scrivere in maniera strutturata, per punti chiari e brevi:così da capire velocemente cosa leggere e cosa saltare: scegliere, costruire ilproprio testo sulla base di esigenze specifiche e irripetibili, questo è quellodi cui abbiamo bisogno. Ognuno di noi è un caso a sé, e se vogliamo rag-grupparci per comunità d’interessi e di pratiche vogliamo decidere noi conchi e come. Ti chiediamo, cioè, di formulare il tuo ragionamento per conte-nuti minimi, per asset, che sono piccoli ma autoconsistenti e restano piùfacilmente nella memoria e possono essere combinati, manipolati secondo leesigenze dei tuoi lettori, che così diventano autori. Il lettore vuol essere inte-rattivo, critico, autonomo dai percorsi dell’autore a cui non vuole firmare

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1 Si tratta di importantissime problematiche che stiamo approfondendo al “Communi-cation Strategies Lab” dell’Università di Firenze, insieme all’Agenzia Nazionale per loSviluppo dell’Autonomia Scolastica - ex INDIRE. Al progetto, iniziato ormai cinqueanni fa, partecipano numerosi vostri colleghi, molti dei quali collaborano al corso diperfezionamento Comunicare e insegnare con la Lavagna Interattiva Multimediale(http://www.csl.unifi.it/lavagnadigitale/) e al corso d’aggiornamento Imparare a parlarein pubblico con le nuove tecnologie e la LIM (http://www.csl.unifi.it/comunicarelim/).Un gruppo di ricerca, composto sempre da vostri colleghi, non meno attivo, è quelloche fa capo al Master l’E-tutor negli ambienti di apprendimento on line, da me direttopresso l’Italian University Line (http://www.iuline.it/).

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alcuna delega in bianco. Tu fornisci gli elementi, il resto sta a noi, nel rispet-to dell’autonomia, della creatività individuale, del riconoscimento delle di-versità, dell’altro. E poi non si capisce dove conduca questo tuo vagare; nonvediamo la mappa del tuo ragionamento. Noi non vogliamo leggere per leg-gere, vogliamo consultare, scorrere, cercare e trovare: perché le domande cisono già chiare e tu dovresti aiutarci a raggiungere le risposte migliori, nelminor tempo possibile. Tanto più che di tempo ne abbiamo tutti ben poco,nonostante che si sia – o si aspiri ad essere – statali. Come te, del resto.

Abbiamo diritto di sapere, da subito, da dove si parte e dove si arriva, didisporre di percorsi alternativi, quindi di ricevere algoritmi funzionali allenostre esigenze, procedure efficaci, riproducibili e riadattabili al nostro fare.Il controllo deve essere ben saldo nelle nostre mani.

Andiamo dalle cose verso le idee e non viceversa.

– Caro lettore, il bello è che anch’io ne ho abbastanza di pulpiti, di effet-ti speciali, di scenari che ignorano la realtà dei fatti, di agronomi che nonstanno mai nelle vigne del testo.

E allora concedetemi ancora una possibilità, miei venticinque lettori poten-ziali. Aspettate, non saltate ad altro, restate su queste mie pagine: datemi anco-ra un po’ di tempo. Lo so che il lettore non ne ha molto, che, cronometro allamano, non resta su una pagina web o su un canale televisivo più di tanto; che,se dopo un numero minimo di clic non ha trovato quello che cerca, passa altro-ve e che la mitica Minerva è diventata la civetta dei menu, dinamici o staticiche siano. Che il lettore guarda ai titoli e, al massimo, ai sottotitoli. Lo so.Cercherò di essere chiaro, paratattico eppure indicizzato, operativo, tecnologi-co, insomma una “Guida all’uso” cartacea e online, che voi potrete adoprarecome meglio credete, personalizzandola come meglio riterrete. Fornirò menu emappe d’orientamento della mia conoscenza, così che voi possiate capire subi-to se vi interessano. E se ancora non basta, userò immagini e video, e soprat-tutto strumenti mobili come il cellulare, così sarò sempre con voi, 24 ore su 24;né mancherà un’accattivante colonna sonora che allevierà il vostro lavoro.

Riuscirò a farvi imparare, a insegnarvi a fare senza che voi nemmeno vene accorgiate, perché riuscirò ad essere leggero, leggero, quasi invisibile.Per questo sarò mimetico, riuscendo ad essere come voi mi volete, e poi,grazie alla sinestesia, attiverò sfere sensoriali sempre diverse così da nonaffaticarvi. Evitando di farvi perdere altro tempo ad ascoltarmi, cercherò difare di ognuno di voi un autore originale. Le mie saranno pillole di saperi ecompetenze, in tutto e per tutto orientate al saper fare. Insomma cercherò difare quello che, si dice, chiedono a voi i vostri gli studenti.

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Cosa non si farebbe e direbbe per non perdere gli studenti! E venticin-que lettrici\lettori!!!

Ma come si fa a valorizzare il ruolo del discente, a farne un coautore,anzi l’autorità per eccellenza e al tempo stesso riuscire a difendere il ruolodi docente? A non perdere gli studenti? A indurli a non voltare pagina? Atrattenerli, rigorosamente per il loro bene, nel mio corso? Cercherò di tro-vare per me un corso per aspiranti commessi viaggiatori. Ma dove finisce unentertainer, un presentatore, un venditore ed inizia un tecnico, un esperto? Èquesto il problema? Ancora una volta solo questioni di comunicazione? Dilinguaggi? Ma cos’è la comunicazione? e cosa sono i linguaggi? potrebberecitare un comico non privo d’ingegno.

Sempre e comunque tutto sembra tornare lì; e anch’io lì torno, ormai,forse, rimasto solo, ma male che vada sarà sempre comunicazione intrapsi-chica, un dialogo, cioè, con me stesso. Purché io non venga a noia anche ame stesso, e in questa estate calda il rischio è forte.

Ma andiamo a vedere dove ci porta questo ragionamento, secondo unavisione anche della scrittura che, come accade nelle situazioni concrete dellaricerca, vive nelle motivazioni e negli obiettivi, cerca di rifuggire il più pos-sibile da un’impostazione manualistica della realtà, che vorrebbe spiegaretutto in maniera lineare, onnicomprensiva e coerente. La comunicazione,infatti, come ricerca impone l’umiltà della rinuncia alla trattazione sistema-tica ma anche a quella illusoria ‘concretezza’ algoritmica e routinaria cheoggi incontra tanto, e mentre non interrompe mai la verifica riflessiva, spin-ta da quest’ultima, finisce con dare luogo a ripetizioni e ad esiti persino con-traddittori: proprio come accade nelle situazioni concrete.

Nel caso in cui voi, lettrici e lettori, vi siate già imbattuti sia in ripeti-zioni che in contraddizioni o incongruenze, attribuitele senz’altro non aduna mia incuria, frettolosità – magari –, ma ad effettive difficoltà di spiega-zione, a idee che aspirano alla chiarezza e alla coerenza ma che ancora nesono ben lontane.

6. Le derive della comunicazione. Relitti e risorse

Atto primoPassato il momento, infatti, del successo, quando tutto era comunica-

zione, sarà anche per la scarsa prova data da tanti laureati in corsi di laureain Scienze della Comunicazione, sempre più prossimi a quella condizioned’inflazione che hanno vissuto anni addietro le facoltà di Lettere (ma alme-

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no lì un po’ di storia, filologia, letteratura, filosofia, linguistica, geografia sifaceva), la comunicazione da qualche tempo solleva un sentimento di com-prensibile stanchezza se non di motivata diffidenza.

Tutto comunica, tutti comunicano, tutti hanno i titoli per farlo, e se nonce l’hanno, iscrivendosi a un po’ di corsetti e tirando qua e là quello chehanno fatto da sempre, eccoli comunicatori.

E allora, se vogliamo parlare operativamente di comunicazione e scuo-la, se non vogliamo risolvere la questione con una materia in più e qualchecomputer da infilare nei curricula scolastici, va ulteriormente approfonditocosa si nasconde dietro questa parola, così condivisa eppure tanto confusada rivelare evidenti sintomi da onnipotenza semantica e, conseguentemente,da sollevare crescenti esitazioni nel ricorrervi. Un’operazione pesantissima,scoraggiante, non solo per i miei ormai perduti venticinque lettori, ma perchiunque, nondimeno necessaria per uscire da un’indeterminatezza di cuistiamo pagando prezzi altissimi. E li sta pagando specialmente la comuni-cazione, un’occasione storica per la nostra società, faticosamente costruitanei millenni, che rischia di andare persa.

Un dato fondamentale è il fatto che la comunicazione sta vivendo unaforte contraddizione. Da una parte essa è comunemente presentata comel’antidoto ideale rispetto, come minimo, alla fatica e alla noia, uno strumen-to – tanto più efficace quanto più basata sulle nuove tecnologie – per age-volare, facilitare, rendere fruibile la conoscenza all’insegna della valorizza-zione delle diversità dei soggetti coinvolti; dall’altra chiunque, se fornito diun po’ di buon senso, è consapevole che comunicare oggi si rivela semprepiù frustrante perché finisce, per lo più, con l’aumentare il rumore già assor-dante in cui viviamo; privatamente e pubblicamente. A meno che la comu-nicazione non diventi infinita, che il suo sole (magari sotto forma di cellu-lare o di community) non tramonti mai, come accade per tutte le addiction.

Una contraddizione che nasce dal fatto che, passato il momento della pro-messa, dell’ennesima lusinga, per lo più legata alle fantastiche potenzialità disempre nuove tecnologie ma non soltanto a quelle, questa deriva comunicati-va che ci sta trascinando finirà, prima o poi, per abbandonarci su qualchespiaggia già affollata di relitti personali e collettivi, lasciandoci più delusi esoli; per di più con nuove ‘cose’ comprate di cui non sapremo come disfarci.

Una realtà difficile da negare, sia che si parli d’aziende pubbliche o private,di istituzioni, di gruppi grandissimi o minimi, di organizzazioni varie, di personesingole. Ma io credo che proprio nel momento in cui si denuncia la nostra con-dizione di uomini e donne alla deriva, quella stessa deriva può essere trasforma-ta in una risorsa fenomenale, poiché deriva è per coloro che hanno rinunciato alla

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speranza di governare quella forza, di progettare gli effetti di quell’immensaenergia che noi – non sarà mai ripetuto abbastanza – abbiamo cercato e trovato.

Ed è proprio da quelle spiagge, dove si sono accumulati tanti ma tantirottami di varia provenienza, che dobbiamo ricominciare. Quindi da unbilancio onesto d’esperienze fatte, dai personali percorsi: dall’essersiimmersi nella ricerca dell’innovazione tecnologica a tutti i costi, pensandoche il valore del proprio lavoro stesse nella sperimentazione dell’inedito;oppure, al contrario, dall’aver cercato di difendere quello che altri identifi-cavano con la tradizione, sostenendo che salvaguardare quella classicità erala bussola indispensabile per la costruzione di ogni futuro. Analizzare evalorizzare la nostra storia personale, questa pare essere la premessa indi-spensabile per interpretare l’esigenza d’innovazione sentita da più parti eper vincere la paura che sta sempre dietro ai facili innamoramenti così comeagli addii impossibili, perché è da lì che occorre ricominciare.

È vero: lo scenario, a chi rifiuta di essere manipolato da strategie dimarketing economico e\o politico, può apparire desolante, molto prossimoal day after atomico che ci ha accompagnato negli ultimi decenni del seco-lo passato, a quotidiano memento che il clima della guerra fredda non sonofiniti, e che la cultura dell’eterna emergenza ha solo mutato d’abito. Ma que-gli stessi, tristi e perdenti resti, se si riesce a farli diventare finalmente nostri,ecco che possono trasfigurarsi in un patrimonio prezioso, e tanti naufragi,nostri e degli altri, rivelarsi tappe imprescindibili di una storia verso unnuovo umanesimo, verso un’inedita centralità dell’uomo che vada oltre ilcircolo vizioso del prosumer, del consumatore che si fa produttore. Perché,forse, noi non vogliamo essere né consumatori né produttori: ma uomini checreano in libertà la loro esistenza.

E quella stessa deriva, a condizione sempre che sia governata da ragio-ni morali e politiche che pongano la nostra umanità al centro del nostro esse-re quotidiano e storico, può diventare un’energia potente che non travolge etrascina; al contrario, essa può sostenere l’aspirazione inseguita dall’uomoda sempre – da quando almeno, se ne ha memoria – di essere non solo atto-re in commedia, ma anche autore di testi e, così facendo, artefice delle gram-matiche della propria vita.

La comunicazione è il cuore della lunga lotta combattuta dall’uomo perentrare nei meccanismi più reconditi della natura, per diventare autore del-l’ingegneria sociale e di quella naturale. Ma, come se fosse stato preso da unsenso di sgomento anche per la possibilità di commettere errori irreparabili,da qualche decennio egli sembra volersi sottrarre a ciò che ha costruito e cheper così tanto tempo ha perseguito: essere lui l’artefice delle trame più pro-

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fonde del mondo. È successo così che la comunicazione – da sempre un’ar-ma a doppio taglio non c’è dubbio, ma mai così forte come negli ultimidecenni – sia diventata da un strumento di liberazione uno strumento dischiavitù. E se quest’ultima espressione può sembrare forzata, basti il buonsenso a misurare la forza che hanno assunto i fantasmi della comunicazione(dal mercato delle notizie a quello dei bisogni più materiali, da quello deisogni a quello delle aspettative, prima di tutto dei bambini).

Si è trattato e si tratta da parte dell’uomo di una pericolosissima nega-zione della propria storia, delle proprie ideologie e religioni, tanto più che ilmeccanismo messo in moto da noi è inarrestabile, per cui ignorarlo non puòcerto significare eliminarne gli effetti: e questi ultimi sono noti a tutti, sottoforma di allucinazioni di massa, di malesseri epidemici, di affettività stra-volte, di linguaggi disturbati. Né serve illudersi che le scoperte compiutesulla natura e sulla società, susseguitesi con un’accelerazione impressionan-te negli ultimi due secoli, possano convivere con la vecchia visione dellacondizione umana da cui sono state originate, dove il libro della natura edell’uomo era considerato comunque scritto una volta per tutte, una conce-zione secondo cui “conoscere” significava soprattutto “ri-conoscere”, capi-re si identificava con un’azione di svelamento del già esistente.

Oggi, di fatto, il lungo percorso compiuto dall’uomo per diventare scrit-tore delle grammatiche della propria realtà materiale e spirituale, è governatoglobalmente dallo strapotere dei Signori del Mercato, assunto a valore meta-fisico, assoluto, a dato imprescindibile e indiscutibile per ogni forma possibi-le dell’essere: unico parametro provvidenzialmente stabile, certo, da contrap-porre ad una realtà considerata altrimenti sempre più fluttuante, liquida, neisuoi valori oggettivi. Si è quindi assistito ad un tradimento della centralità del-l’uomo. Ed è significativo di un bilancio assai negativo delle forze del grandepensiero laico che oggi solo alcune religioni mostrino il coraggio e si sentanonella condizione di poter mettere in discussione quei Signori del Mercato,attaccando senza mezzi termini l’idea che solo quelle leggi siano identificabi-li con l’operatività concreta, con la capacità di agire materialmente; siano cioèl’unico baluardo contro i deliri, i sogni di mondi altrimenti impossibili; chequesta sia l’unica economia possibile anzi è l’economia del possibile.

Così stando le cose, che fra i Signori del Mercato spicchino i Signoridella Comunicazione non appare un caso, poiché la deriva comunicativa stafruttando grandi capitali, e per quei pochi pirati che, viaggiando sui varigoverni e le tante istituzioni inter\sopranazionali, ne traggono profitti im-mensi, è una deriva ricchissima: avrebbe detto Lord Polonius in Hamlet:“Though this be madness, yet there is method in ‘t” (a. II. sc. 2).

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La comunicazione, in questo quadro decisamente negativo, è tante cose,tutte raggruppabili sotto alcune macrocategorie, fra le quali rivestono rile-vanza quella degli

I. strumenti comunicativi per controllare, dominare culturalmente equindi economicamente; e quella degli

II. effetti caotici che una comunicazione fuori progetto – salvo i ricor-dati arrembaggi economici – produce inevitabilmente e contro le aspettativedei suoi Signori.

Atto secondoEppure, nonostante tutto questo, forse proprio per questo, per quel

mistero (laico o religioso che sia) che accompagna da sempre la nostra sto-ria, la comunicazione è anche esattamente il contrario di quanto appenadetto, è causa, ed effetto al tempo stesso, di dinamiche di segno contrario.

Ed è da qui che ritengo si debba ripartire, nel rispetto di una storia comu-ne e privata che va riconosciuta e ripresa, nella scuola come nella società tutta.

La comunicazione, cioè, è la fonte di dinamiche eccezionalmente posi-tive, sia per le prospettive che ha fatto e fa intravedere sia per le realizza-zioni compiute. Sempre intorno alla comunicazione gravitano, direttamenteo indirettamente, quei nomi che verbalizzano una realtà in fase di creazione:

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accoppiamenti,accordi,accostamenti,affinità,agganci,aggregazioni,aiuti,analogie,associazioni,attinenze,avvicinamenti,etc.collaborazioni,collegamenti,concordanze,connessioni,consonanze,continuità,

contributi,correlazioni,etc.fusioni,etc.incontri,influenze,interazioni,interconnessioni,interrelazioni,etc.legami,etc.nessi,etc.partecipazioni,etc.rapporti,

reciprocità,relazioni,richiami,rimandi,riferimenti,rispondenze,etc.scambievolezze,similarità,somiglianze,etc.unioni,etc.vicendevolezze,vicinanze,etc.

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I termini qui elencati (ovviamente con i rispettivi contrari poiché se sipuò unire si può anche dividere) sono, ovviamente, soltanto una sommariaindicazione di quelli che potrebbero essere i lemmi di una futura enciclope-dia della comunicazione che a molti apparirà fin troppo generica. Ma credosia un prezzo da pagare se può aiutare a capire come tutti rimandino allecapacità effettive ed operative che ha la comunicazione di operare sullo spa-zio e sul tempo della nostra realtà, sull’architettura delle cose e degli esseriviventi: dalla genetica alla politica, dall’economia all’etica e alla morale, daisentimenti alle idee, dalle emozioni ai paesaggi del pianeta in cui viviamo,di creare realtà mai viste, sentite, pensate.

Possibilità eccezionali che – ripetiamolo per l’ennesima volta – hannosegnato la storia dell’uomo: lasciarle alla deriva, nel migliore dei casi dipochi pirati o incoscienti, sarebbe cosa mostruosa.

Un punto fondamentale, infatti, del ragionamento che stiamo cercan-do di condividere, e che rappresenta anche un segno vincolante, inelu-dibile del nostro tempo, è che la comunicazione genera realtà incessan-temente, anche mentre sto scrivendo e mentre voi leggete queste parole,realtà comumque dense di futuro. Essa, più che un’occasione, una possi-bilità, è un dato di fatto, certo, vivente, è l’ambiente generativo in cui sia-mo immersi che crea e si crea ininterrottamente; è un meccanismo cheabbiamo messo in moto e che ora procede malgrado noi. Per questo, solointervenendo con un programma radicale, di rottura rispetto alla società,alla politica, alla cultura da cui proveniamo – quelle che ci hanno portato finqui ma che ora non possono essere più in grado di governare quanto han-no prodotto, perché hanno provocato un vero e proprio salto di sistema –potremo fare della comunicazione un’occasione storica mai vissuta dal-l’umanità.

In questa prospettiva la comunicazione come forza che procede comun-que, e che ci pone davanti a responsabilità di progetto e di relativo governo,l’ormai classica contrapposizione fra apocalittici e integrati, peraltro andataben oltre la sua definizione originaria, non ha gran significato.

Sembra convincere di più l’opposizione anzi la lotta dura fra chi credenel valore della conoscenza come progetto al futuro e chi lo nega. Fra chipensa cioè che la conoscenza altro non sia che la sciagurata mela di paradi-siaca memoria e chi ritiene che in essa vi sia il senso profondo della vitaumana. Chi pensa che sapere sia male, crei il male perché allontana l’uomodai progetti di Dio, religioso o laico che sia, e chi è convinto che il signifi-cato profondo della nostra condizione umana stia proprio in quel “seguir vir-tute e canoscenza”. Che cioè quel Dio non ci abbia dato semplicemente un

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libro da leggere, attrezzandoci, con adeguati lessici e grammatiche, alla suadecifrazione e interpretazione, relegando il nostro compito a quello di ri-petere quanto già creato, bensì ci abbia reso partecipi della creazione infin-ta coniugando “virtute” con “canoscenza”.

Ma per tornare alla tematica, ben più modesta, che qui trattiamo, varicordato con fermezza che essa non può essere affrontata pensando dipotersi sottrarre a precise prese di posizione rispetto alle grandi questionisociali, politiche ed esistenziali che la determinano: magari affermando chedi teorie, ideologie, idee astratte è lastricata la strada dell’attuale inferno.

Perché lo strapotere delle tante supposte pratiche e delle molte presuntecompetenze – sarebbe più appropriato definirle meccaniche routine – è lacausa prima del processo degenerativo in cui siamo immersi, della derivasegnata da un’idea d’operatività, praticità troppe volte interpretata comerinuncia a direzioni e priorità, come contrapposizione pragmatica alle teoriee alla ricerca di senso, come opzione per algoritmi e procedure prive di crea-tività, di rischi, che non siano quelli dei super-iper-mega-mercati: sceglierefra la vasta offerta di prodotti. L’errore cioè non è mai stato nella centralitàdelle cosiddette ‘ideologie’, intese come l’insieme dei principi e delle ideedi un progetto per l’uomo, ma nell’aver perso la fiducia e il coraggio di spe-rimentarne e verificarne laicamente, al di fuori cioè di ogni dogmatismo,integralismo, la realizzazione. Si crede sempre di più per paura e non percoraggio, così come si agisce sempre di più per sfiducia in quello che si fae non per convinzione.

La parte buona della fase che stiamo vivendo, infatti, non è certo il frut-to del bisogno di aver cercato un orientamento, una direzione, inseguitoun’utopia, di aver sognato progetti impossibili. Ma esattamente il contrario.E, per quanto riguarda la comunicazione la scelta che dobbiamo fare – senzala quale ogni affermazione, sperimentazione appare irrilevante – è se rite-niamo che essa sia uno strumento per la conoscenza, la quale, appunto, nonsolo allarga quotidianamente i confini dei territori del nostro essere ma, allaluce dei risultati raggiunti dall’uomo negli ultimi millenni, ci ha trasformatiin architetti e artefici del nostro ambiente interiore ed esteriore. Oppure,viceversa, se essa debba porsi, come di fatto sta facendo, quale baluardopotente, quale vallo insuperabile, scavato a difesa della nostra condizione disempre, e cioè di un’identità individuale e comune che riteniamo, al di là delmanifestarsi storico sempre diverso, sostanzialmente eterna, immutabile.

Personalmente mi riconosco in chi pensa che sia saggio per l’uomoaccettare la sua condizione di continua trasformazione, individuale e collet-tiva, e che, invece di subirla o tanto peggio negarla, debba progettarla – pur

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nei limiti sempre assai ristretti che gli sono concessi – e svilupparla com-piendo precise scelte d’ordine etico, morale e politico.

In questa prospettiva, l’alternativa non è fra cambiamento e conserva-zione, fra salvaguardia e rischio di perdere la nostra umanità. Ma fra viver-la o morirne di paura: e di morte in giro mi pare che ce ne sia molta, maga-ri imbelletata, anche di nuove tecnologie. La nostra condizione di uomini, alcontrario, la storia che noi abbiamo costruito (nel bene e nel male, certa-mente, ma il primo appare assai più ricco di futuro), dovrebbe trasmetterciuna gran voglia di vivere, di vivere la nostra umanità nella sua interezza ecomplessità.

Quello che oggi sta avvelenando la comunicazione, la nostra identitàcomunicativa, di singoli, gruppi, aziende, istituzioni etc. etc., credo sia pro-prio questa paura di conoscere, e cioè di comunicare per conoscere e, cono-scendo, di generare nuova realtà. Una rinuncia dovuta ad un diffuso pessi-mismo, ad un senso di rinuncia – spesso non privo di analisi e motivazioni– circa le possibilità della conoscenza e il valore della comunicazione. Perquesto c’è una dominante tendenza ad interpretare l’energia comunicativacome una deriva ineluttabile, trasformando la comunicazione da strumentoper vivere e progettare l’uomo nuovo, da strumento di progresso – una paro-la oggi caduta in disuso e, quando evocata, considerato il segno di un’inge-nua concezione delle cose – in macchina per intimorirlo, lusingarlo, addor-mentarlo, in apparato per confondere gli obiettivi morali e politici che hannopermesso la nascita di questa nostra, meravigliosa fase storica.

La quale non era alla deriva; ma lo sta andando, sotto la regia di una pre-cisa visione, oggi dominante, dell’individuo e della società, artefice di con-seguenti scelte economico-politiche.

A questa prospettiva, quindi, di crisi infinita – quanto pensano di poter-la far durare questa nottata? –, di caduta inevitabile, va opposta un’analisicruda e dura della realtà, dei giochi di potere e delle ignoranze che ci diri-gono e comandano, sostenuta da una decisa consapevolezza che ci si trovadavanti ad una complessità in nessun caso esperita prima. Così come va con-trapposta, a chi sostiene l’idea della crisi come elemento strutturale, organi-co alla condizione dell’uomo moderno, un’intelligenza nuova delle cosebasata sulla convinzione liberatrice che il cambiamento che stiamo vivendoè, al contrario, il senso ultimo di millenni di storia passata, e che, se beninterpretato dalle nostre idee e azioni, ci potrà portare assai oltre questa fase,che, più che liquida, appare oggi sempre più ingessata, cementata; se nonaltro, come dimostra l’affannosa quanto sempre perdente rincorsa del diver-timento, terribilmente noiosa. Insomma: deriva e noia, fatalismo e mancan-

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za di voglia di vivere, altro non sono che gli strumenti ultimi di chi vuoleimpedire all’uomo l’ingresso nella sua Storia.

Credo che in quest’ultima prospettiva la comunicazione potrà trasfor-marsi da ‘solipsismo’, più o meno tecnologico, in una risorsa meravigliosa,costruita faticosamente nel tempo lungo della nostra storia, per dare vita adun mondo nuovo; rivoluzionario a cominciare dalla sua stessa concezione.

Una forza generativa che si esplica incessantemente in tantissime formema che possono essere raggruppate, ancora una volta, come per la visionedestruens della comunicazione, in due macrocategorie. Quella degli

I. strumenti comunicativi, con cui è possibile inventare, ideare, svilup-pare, creare una società che ha deciso di uscire dalla preistoria nella quale,pur fra alti e bassi, è vissuta fino ad ora; strumenti di una forza inaudita,inimmaginabili soltanto pochi decenni fa, inediti nella concezione perchéoggi essi non rispondono soltanto ad una necessità d’uso ma recano al pro-prio interno gli elementi necessari per il loro stesso sviluppo: il mezzo hatutti gli elementi necessari per riprogettarsi. E la macrocategoria degli

II. effetti prodotti dall’immane azione comunicativa planetaria, volonta-ria e involontaria che sia, portatrice di progetti o semplicemente casuale,imprevedibili e imprevisti, che, se opportunamente colti, potranno rivelarsiquasi provvidenziali per la forza d’urto di cui possono essere portatori controi piani globali e locali degli stessi Signori della Deriva e offrire infinite occa-sioni per farci intravedere mondi affatto diversi da quelli che oggi dominano.

Insomma: la grande energia comunicativa è la nostra attuale possibilitàdi unire e di dividere l’uomo e le cose come mai era stato praticabile – delresto tale capacità era considerata, e in parte lo è ancora, peculiarità divina,un po’ tabù –; è la nostra diffusa, concreta possibilità di s\collegare tutto atutto, tutti a tutti, tutto a tutti; è l’espressione, almeno potenzialmente, dellanostra libertà. Il punto è che questa energia non è stata governata, almenofino ad oggi, come era necessario per essere all’altezza dei risultati storici dicui essa è espressione. La conseguenza è un proliferare di comunicazioni –dalle città ai virus – che in questi termini, e cioè in assenza di programma edi governo, appaiono strumento per minare e non per migliorare la nostraumanità, mantenendola al di qua di quella soglia storica che ancora nonsiamo riusciti a varcare.

La comunicazione, cioè, in questo contesto è un’immane forza genera-tiva, che ‘si e ci infutura’ senza sosta, ma priva di progetto, se si escludequello di pura gestione dell’esistente che sta dietro ai giochetti di pochigruppi di reale potere economico. Nessuno sembra rendersi conto che met-

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tere mano alla grammatica della realtà e della condizione umana (dall’am-biente alla mente, dall’economia alla politica, dalla salute alla fantasia etc.etc.), è cosa che incide non solo sul senso, ma sulle stesse possibilità disopravvivenza (se non biologica, certo mentale) dell’uomo.

Atto terzoÈ tutto da scrivere. Non da interpretare, ma da scrivere appunto.Ad iniziare dalla scelta di porre le agenzie dell’educazione e della ricer-

ca al centro dell’intero processo di costruzione socio-economica. Bisognaripartire dall’iniziativa di realtà piccole, i cui soggetti però abbiano la chia-ra consapevolezza, la corretta metodologia e l’aspirazione di stare inventan-do una società che finalmente dia un senso alla nostra storia di millenni. Lanuova polis deve partire da lì, dagli educatori e dai ricercatori i quali nondovrebbero più porsi come supporter o sponsor o testimonial di questo oquel partito, ma diventare essi i politici, nell’accezione che qui si è cercatodi spiegare: i soldati e i filosofi della polis.

Una condizione imprescindibile perché questo avvenga è che educazionee ricerca abbandonino quella modalità comunicativa di tipo trasmissivo-gerar-chico di cui si è ragionato, e che sostengano il valore primo della conoscen-za, facendo della comunicazione generativa il loro strumento essenziale. Unaconoscenza che ha bisogno del ruolo critico e creativo dei docenti, chiamatiad offrire scelte e interpretazioni, le loro, insieme agli strumenti necessari per-ché gli allievi, le nuove generazioni, possano cercarne e contrapporne altre.

Una visione, se non altro, dei ‘contenuti’, questa, in totale contrasto conle metodologie oggi dominanti.

Non c’è più un copione che possa guidare le nostre azioni come è acca-duto tanto tempo fa; il nostro impegno non può limitarsi all’ermeneutica inchiave rappresentativa di una sceneggiatura antica come il mondo antico.

È vero, ovunque si guardi, si avverte una grandissima e struggentenostalgia per quel passato, magari rivestito alla tecnologica. A chi vuole ocerca di capire, risulta facile scorgere le sagome di mercanti-burattinai chesi aggirano per le rovine.

È una nostalgia che prende donne e uomini, giovani e vecchi, ignoranti ecolti, ricchi e poveri, di destra di sinistra di centro, istituzioni, enti, aziende,imprese etc.. Gli speculatori trovano facile organizzare arrembaggi al pub-blico e al privato perché le difese messe in campo contro le loro rapine nontengono conto del fatto che essi rappresentano il vecchio e non hanno nientea che vedere con alcuni pirati d’altri tempi, le cui sgrammaticature hanno rap-presentato l’anticipazione della grammatica nuova di un nuovo mondo.

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vinxp
Evidenzia
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Il nuovo non è qualche cosa che può essere appreso nelle modalitàcomunicative consuete a cui ci ha abituato la scuola e la nostra società. Èprima di tutto un atteggiamento, un modo di essere, una filosofia di vita,qualcosa di lontanissimo da un patrimonio da trasmettere generazione dopogenerazione. Ogni forma di gerarchia, da quelle sociali a quelle logiche,vacilla o è fuorviante.

I saperi, le pratiche, le competenze, le conoscenze in genere stanno pro-gressivamente perdendo la loro natura di grammatiche e diventando semprepiù testi, testi sì ma di un mondo che si sta allontanando assai rapidamente.

Se si potesse affermare che la vita era la rappresentazione teatrale,l’evento con cui le varie generazioni rivivevano, reinterpretandoli, gli scriptdi sempre, si potrebbe affermare, conseguentemente, che la scuola è semprestata la lunga e faticosa preparazione, l’anticamera infinita delle prove.Indispensabili, fondamentali, quanto pesanti, defaticanti fino provocare crisiprofonde in comparse e primi attori.

Oggi questo rapporto fra preparazione alla vita e vita appare non regge-re più. Come se, apertosi il sipario, ciò che si è imparato a dire e a fare, quel-lo che si ricorda oltre a quello che si pensa, non corrispondesse più a quelloscript, il cui apprendimento è costato a tutti così tanto. Come se quello cheemerge dal buio mormoreggiante della sala evocasse ambienti e situazionidel tutto diverse. Ed ecco allora la necessità di scrivere, sulla scena, ammes-so e non concesso che si tratti ancora del palcoscenico, un nuovo copione,sotto i riflettori, gli occhi, gli orecchi dei colleghi attori e del pubblico.

Qual è il copione, qual è l’interpretazione, dove finiscono gli attori edove comincia il pubblico, dove finisce il teatro?

Senza voler evocare pirandelliane memorie, ma volendo rimanere nelmio settore, penso che la comunicazione debba decidere, a scuola così comenella società tutta, se vuole restare un modo per insegnare\studiare un vec-chio, nobile copione che, però, per quanto presentato come nuovo e tecno-logicamente innovativo, perde sempre più di autorevolezza e di capacitàoperative; oppure se intende rinnovare se stessa, trasformarsi in uno stru-mento di lettura della nuova realtà in cui siamo immersi, di conoscenza direaltà mai sapute né vissute, e quindi di scrittura di un mondo che ancoranon c’è e che dipende da noi come sarà.

Per far questo, naturalmente, si deve decidere a quale umanità nuovas’intende dar vita. A cominciare da una semplice domanda: si comunica pervivere o si vive per comunicare? Perché in quest’ultimo caso, visti i costidelle varie tariffe e dei mezzi di comunicazione – dall’auto ai cellulari diultima generazione –, l’inflazione galoppante, la crisi mondiale delle risor-

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se energetiche, la bomba demografica, che, detto per inciso, con la comuni-cazione ha molto, ma molto a che fare, forse sarebbe meglio…

… senza fine- Mah. Io, caro Toschi, ho retto fino a questo punto nella speranza che,

prima della fine, tu dessi delle indicazioni operative utili, da tenere presential momento di entrare in classe. Dici che la soluzione è provare a fare qual-che cosa, ma non spieghi cosa e come lo si può fare.

Il tuo ragionamento è finito con il sembrare più una perorazione che unmanuale d’istruzioni. Sì, ho capito che di guide all’uso ce ne sono anchetroppe, che sono riduttive e fuorvianti: ma intanto quelle ci sono e chi lesegue cerca di mettere in atto qualche cosa, ma qui si resta come sospesi.Abbiamo compreso, in parte anche concordiamo; e allora? Che si fa ora? Dacosa e come diamo inizio a questo cambiamento? Saranno pure domandemodeste ma per noi sono fondamentali, perché portano l’idea, il progetto nelnostro operare giornaliero.

- Mah, cara lettrice o caro lettore che non sei soddisfatta\o di questa let-tura. Mi dispiace di non aver meritato la tua fiducia.

Io ho provato a ragionare in un altro modo. A lasciarmi dietro le spalleil tempo di quei manuali che funzionano finché le cose sono state costruiteper adeguarsi a loro; di quel senso pratico ubbidiente a categorie santificatequanto lontane proprio dalla realtà che dicono di voler celebrare.

Così come ho cercato, nei miei ragionamenti, di tenermi lontano da que-gli idealismi appassionati che coprono, con le loro vibrazioni e i loro inna-moramenti, o brutalità di vario genere o ignoranze mostruose.

Non pensavo certo di riuscirci, m’illudevo di provarci. Comunque, aparziale correzione di quanto finora sostenuto, cercherò, qui di seguito, diriassumere in 15 essenziali punti il senso di quanto discusso, facendo cosìmia quella modalità comunicativa ritenuta oggi, da più parti, la più efficace:

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1. Dove c’è […] c’è casa;2. Be inspired;3. […] vuol dire fiducia;4. Connecting people;5. Il futuro che non c’era;6. Vivere senza confini;7. Open your mind;8. Go create;9. Spazio alle idee;

10. You can;11. Accendiamo il presente

per illuminare il futuro;12. La potenza è nulla

senza controllo;13. Noi siamo scienza,

non fantascienza;14. Il buco con la menta intorno;15. e mo’... e mo’... .

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Il punto 16, quello con cui sintetizzare questo lavoro, è ben rappresen-tato dalle parole lette dal premio nobel Dario Fo: “Questo film lo dedichia-mo ai folli. Agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro chevedono le cose in modo diverso. Costoro non amano le regole, specie i rego-lamenti e non hanno alcun rispetto per lo status quo. Potete citarli, essere indisaccordo con loro; potete glorificarli o denigrarli ma l’unica cosa che nonpotrete mai fare è ignorarli, perché riescono a cambiare le cose, perchéfanno progredire l’umanità. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli noi nevediamo il genio. Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare dipoter cambiare il mondo lo cambiano davvero”.

Che testo è questo? Quello della famosa campagna pubblicitaria dellaApple “Think different”, di qualche anno fa. Chi volesse un’ampia biblio-grafia di questi 16 punti, la potrà trovare all’indirizzo http://www.csl.unifi.it/,alla pagina relativa alla presente pubblicazione. Spero che, anche in questocaso, non si resti troppo delusi.

La mia e-mail: [email protected].

Casangelo, primo giorno d’autunno del 2008.

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