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Prof. Thomas Szasz, MD LA TEOLOGIA DELLA MEDICINA Le Fondamenta Politico-Filosofiche dell’Etica Medica K OISM Edizioni 2006
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Thomas Szasz — La Teologia Della Medicina (Ed. 3)

Jul 04, 2015

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Tristano Ajmone

Traduzione italiana (parziale) del libro The Theology of Medicine, di Thomas Szasz (1977).
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Page 1: Thomas Szasz — La Teologia Della Medicina (Ed. 3)

Prof. Thomas Szasz, MD

LA TEOLOGIA DELLA MEDICINA Le Fondamenta Politico-Filosofiche

dell’Etica Medica

OISM Edizioni 2006

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Titolo dell’opera originale: The Theology of Medicine

(© 1977, T.S. Szasz)

Traduzione e impaginazione a cura di Tristano Ajmone

Sommario

Sommario ............................................................................................... 1

Prefazione del Traduttore............................................................................ 2

Prefazione .............................................................................................. 4

Introduzione ............................................................................................ 5

1 Il Medico Morale ................................................................................... 12

2 Malattia e Mortificazione......................................................................... 23

3 Una Mappa per l’Etica Medica: Le Giustificazioni Morali Per Gli Interventi Medici..... 27

Thomas Szasz ......................................................................................... 30

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Prefazione del Traduttore

Thomas Szasz è il più celebre critico della psichiatria: la sua opera principale, Il Mito della Malattia Mentale — risalente al 1961 — costituisce la più grande sfida all’impresa psichiatrica. Se, come giustamente afferma Szasz, la malattia mentale non esiste, allora la sofferenza umana non è una questione medica. Le argomentazioni con cui egli ha sviluppato e portato avanti la sua tesi, per oltre 40 anni, sono pregnate di una logica ferrea, lineare e cristallina, e nessun esponente del mondo psichiatrico e medico è mai riuscito a dimostrare il contrario. Dato che la rivendicazione della malattia mentale quale malattia organica parte dagli psichiatri, spetta a loro il compito di dimostrarne le basi scientifiche. Dagli albori della psichiatria ad oggi, nessuno psichiatra — nonostante gli innumerevoli sforzi — è riuscito a ricondurre scientificamente la sofferenza psichica a disfunzioni organiche.

Ciononostante, in nome della biopsichiatria milioni di persone sono state private della libertà, ridotte in schiavitù, torturate, e finanche volutamente uccise. Malgrado gli orrori e le barbarie dell’Olocausto e delle unità psichiatriche di sterminio si trovino, storicamente parlando, dietro l’angolo, non si intravede la revisione dell’etica medica che ci si aspeterebbe da chi, come noi, ha ereditato il peso storico di simili eventi atroci.

Al contrario, oggi pare stia tornando in voga l’antico cavallo di battaglia della psichiatria degli stermini: l’approccio bio-psico-sociale, secondo cui la sofferenza dell’anima affonderebbe le sue radici in una multidimensionalità con cui la storia ha già dovuto fare i conti. Questo approccio ideologico non solo estende il raggio d’azione della psichiatria all’intero universo Uomo, giustifica anche interventi preventivi radicali. Se le cause della sofferenza vanno ricercate in una siffatta definizione trina e mendace, ne consegue che anche la propagazione del malessere avrà luogo lungo i suddetti canali; dopotutto, le idee, i costumi e le prassi sociali si propagano molto più rapidamente che non il presunto patrimonio genetico.

Se gli interventi preventivi dovranno essere condotti seguendo l’ideologia del bio-psico-sociale, tutto questo ci riporterà alla logica dello sterminio: è la riesumazione del pensiero psichiatrico eugenetista in voga al tempo del nazionalsocialismo in cui omosessuali, Ebrei, zingari e disadattati sociali erano giudicati geneticamente malati (bio-), mentalmente deficienti e corrotti (psico-) e socialmente inutili, inadeguati e pericolosi (socio-), e quindi condannati ai programmi di cura e sterminio a salvaguardia della collettività e della purezza della razza.

Stupisce la leggerezza con cui la società in generale — ma la classe medica in particolare — accolga siffatte proposte ideologiche che violano ogni buon senso ed etica medica. Eppure… è già successo altre volte nella storia.

A scongiurare questo male, in compenso, il pensiero di Thomas Szasz ha fatto breccia nei luoghi comuni propinatici dai media al soldo delle multinazionali farmaceutiche ed asserviti agli interessi statali, raggiungendo milioni di persone ed aprendo loro gli occhi. L’impresa psichiatrica è una delle più grandi bufale della storia, e le analisi che Szasz ha portato avanti nei suoi numerosi scritti hanno smascherato ogni gioco e sotterfugio della psichiatria, mostrandola per quello che è: un sistema di controllo sociale improntato su una dialettica pseudoscientifica, che rasenta la religiosità di culto nei suoi rituali e nella

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Prefazione del Traduttore

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cieca dogmatica.

Il Re è nudo, ma le vesti dei luoghi comuni di cui esso si ammanta sono tanto numerose quanto le lacune dell’uomo medio a comprendere concetti quali la malattia, la cura, la medicina, e la sofferenza dell’anima — tutti concetti inquinati da oltre tre secoli di operato biopsichiatrico ed eugentista. Szasz si è fatto carico del compito di sbrogliare questa intricata matassa, restituendo il giusto nome alle cose, traducendo la complessità dell’inganno in un linguaggio semplice ed accessibile ai non iniziati, smontando i miti e riportando in vita il valore della medicina autentica e della responsabilità individuale al cospetto della libertà.

Introdurre uno scritto di Szasz è per me un grande onore, quasi quanto averlo incontrato. Thomas ha supportato la mia battaglia contro le pratiche disumanizzanti della psichiatria, ed insieme abbiamo condiviso la speranza che questa forma di schiavitù possa un giorno giungere al termine. Il mio contributo alla causa è effimero, specie se paragonato a quello apportato da Szasz in mezzo secolo di assiduo lavoro. Il contributo di Szasz alla mia causa, invece, è stato immenso, poiché la sua amicizia ed il suo sostegno sono stati vitali nel donarmi la forza ed il coraggio di proseguire quando all’orizzonte vedevo solo nubi oscure ed avversità.

Sia io che Szasz siamo stati perseguitati dalla psichiatria: io sulla mia pelle, attraverso la sistematica privazione della libertà e la narcosi coercitiva; lui attraverso il boicottaggio accademico e la diffamazione. Entrambi siamo stati screditati dalla psichiatria, ma entrambi abbiamo tenuto duro e non ci siamo mai arresi. E vorrei aggiungere: siamo entrambi di fiera origine ungherese.

Voglio ringraziare quindi di cuore Thomas Szasz per avermi concesso il diritto a tradurre questo suo libro in italiano e a divulgarlo gratuitamente. La teologia della medicina è un testo molto importante poiché si concentra su quegli aspetti dell’etica medica che, se fossero stati adeguatamente salvaguardati, avrebbero potuto impedire alla psichiatria di svilupparsi fino al punto di egemonizzare la classe medica su scala planetaria. Questi principi etici avrebbero potuto impedire milioni di morti e incarcerazioni arbitrarie, e spero quindi possano impedire futuri olocausti.

Oggi viviamo sotto l’egida di uno Stato Terapeutico globale, la cui cura per i cittadini assume la forma della cura medica coercitiva, crudelmente compassionevole e totalitaristicamente paternalista. È quindi di capitale importanza che la classe medica riprenda in mano la propria etica perduta e negata, e che ci si adoperi al fine di forgiare una nuova generazione di medici che operi in base a principi etici sani, saldi e ben definiti. Spero quindi che questa traduzione possa contribuire a tal fine.

Tempo pemettendo, conto di tradurre i rimanenti capitoli in tempi ragionevolmente brevi.

Tristano Ajmone,

Torino, 4 Giugno 2006.

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Prefazione

Questo libro è una collezione di saggi che sono stati quasi tutti già pubblicati in precedenza. Molti di essi, quantunque, furono orginalmente concepiti per delle conferenze e, in seguito, pubblicati in versione ridotta rispetto al testo originale. Qui ho mantenuto le versioni complete dei saggi, ed alcuni di essi — per esempio L’etica della tossicodipenza e L’etica del suicidio — vengono pubblicati per la prima volta in versione integrale.

Ringrazio: i redattori e gli editori delle riviste e dei libri in cui questi brani apparvero per la prima volta per avermi concesso il permesso di ripubblicarli; Cynthia Merman della Harper & Row per l’aiuto concessomi nella selezione e redazione dei saggi per la loro pubblicazione in formato libro; e Debbie Murphy, la mia segretaria, per il suo lavoro consuetamente devoto.

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Introduzione

La caratteristica morale cruciale della condizione umana è l’esperienza duale della libertà di volontà e responsabilità personale. Dato che libertà e responsabilità sono due aspetti del medesimo fenomeno, invitano al paragone con la proverbiale lama a doppio taglio. Uno dei fili di questa lama implica opzionalità: la chiamiamo libertà. L’altro implica obblighi: la chiamiamo responsabilità. La libertà piace alla gente poiché offre loro padronanza sulle cose e sulle persone. La responsabilità risulta loro sgradita poiché limita la soddisfazione delle proprie esigenze. Questa è la ragione per cui una delle cose che caratterizzano la storia è l’incessante sforzo umano a massimizzare la libertà e minimizzare la responsabilità. Ma senza giovamento, poiché ogni reale incremento della libertà umana — sia esso nel Giardino dell’Eden o nel deserto del Nevada, nel laboratorio chimico o in quello medico — porta con sé un incremento proporzionale della responsabilità. Ogni allegria circa il potere di operare il bene viene presto eclissata dalla colpa di averlo impiegato per operare il male.

Gli esseri umani, confrontati da questo inesorabile fatto della vita, hanno cercato di piegarlo a proprio vantaggio — quantomeno, a quello che pensavano essere il proprio vantaggio. Principalmente, la gente ha conseguito ciò ascrivendo la propria libertà — e quindi anche la propria responsabilità — a qualche agenzia esterna. Hanno perciò proiettato le proprie qualità morali su altri, moralizzando costoro e demoralizzando sé stessi. Durante questo processo, hanno trasformato gli altri in burattinai, e sé stessi in burattini.

Indubbiamente, il più antico schema per la costruzione di simili ordinamenti è la religione: solo le divinità possiedono libero arbitrio e responsabilità; le persone sono meri burattini. Nonostante la maggior parte delle religioni mitighi questa raffigurazione attribuendo qualche misura di azione individuale ai burattini, l’importanza di questa visione del mondo soggiacente è a stento esagerata. Di fatto, la gente, spesso, tenta ancora di spiegare il comportamento di certe persone votate al sacrificio di sé dicendo che stanno adempiendo alla volontà di Dio e — forse ancora più significativo — le persone spesso rivendicano di esguire la volontà di Dio quando sacrificano altri — si tratti di una crociata religiosa o di un cosiddetto episodio psicotico. La cosa importante di questa raffigurazione è che essa ci rende testimoni, ed anche partecipanti, in un dramma umano in cui gli attori sono visti come automi, i loro movimenti diretti da forze superiori non viste e, indubbiamente, invisibili.

Detta in modo così semplice e crudo, molte persone oggi sarebbero inclini a liquidare questa raffigurazione come un qualcosa che solo un fanatico religioso prenderebbe in considerazione. Questo sarebbe un grave errore, poiché ci renderebbe ciechi al fatto che è precisamente questa raffigurazione ad animare gran parte dell’odierno pensiero religioso, politico, medico, psichiatrico, e scientifico. Come altro possiamo spiegare la sistematica invocazione di divinità da parte di leader nazionali? O il ricorso alla Bibbia, il Talmud, il Corano, o altri libri sacri, quali guide per la correta incanalazione nel mondo della libertà d’azione individuale? Uno dei solventi universali per la colpa, ingenerata dalle conseguenze indesiderate dei propri atti, è Dio. Questa è la ragione per cui la religione era, e continua ad essere, un’importante istituzione sociale.

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Introduzione

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Ma la credenza in divinità quali burattinai e nelle persone quali burattini è diminuita nei secoli recenti. Non vi è stato però alcun corrispettivo incremento nell’accettazione umana della responsabilità personale e della colpa individuale, né nella tolleranza verso di esse. Le persone seguitano a cercare di convincersi di non essere responsabili — o di esserlo in forma assai limitata — delle conseguenze indesiderate del proprio comportamento. In quale altro modo possiamo spiegare la sistematica invocazione di Marx o di Mao da parte dei leader nazionali? O il ricorso agli scritti di Freud, Spock, e altre opere apparentemente scientifiche, quali guide per la correta incanalazione nel mondo della libertà d’azione individuale? Oggi, il solvente universale per la colpa è la scienza. Questa è la ragione per cui la medicina è un’istituzione sociale talmente importante.

Per millenni, uomini e donne sono sfuggiti alla responsabilità teologizzando la morale. Ora fuggono da essa medicallizando la morale. Allora, se Dio approvava una determinata condotta, essa era bene; e se Egli la disapprovava, essa era male. Come faceva la gente a sapere cosa Dio approvava o disapprovava? Lo diceva la Bibbia — ossia, gli esperti biblici, chiamati preti. Oggi, se la Medicina approva una data condotta, essa è bene; e se la disapprova, essa è male. E come fa la gente a sapere ciò che la Medicina approva o disapprova? Glielo dice la Medicina — ossia, gli esperti medici, chiamati dottori.

Lo sterminio degli eretici sui roghi cristiani era una questione teologica. Lo sterminio degli Ebrei nelle camere a gas naziste era una questione medica. La distruzione inquisitoria delle pratiche giuridiche tradizionali dei tribunali continentali era una questione teologica. La distruzione psichiatrica del Rule of Law1 nei tribunali Americani è una questione medica. E via dicendo...

La vita umana — ossia, una vita di coscienza e autoconsapevolezza — è inimmaginabile senza sofferenza. Senza il dolore e la tristezza, non potrebbero esservi il piacere e la gioia, così come senza la morte non potrebbere esservi la vita; senza la malattia, la salute; senza la bruttezza, la bellezza; senza la povertà, la ricchezza; e così via, all’infinito, con tutte le innumerevoli esperienze umane che categorizziamo come indesiderabili o desiderabili.

Tutti i nostri sforzi — morali e medici, politici e personali — sono diretti a minimizzare le esperienze indesiderabili ed a massimizzare quelle desiderabili. Quantunque, se il calcolo della condotta personale potesse essere ridotto ad un siffatto principio prudenziale semplice, la vita umana sarebbe assai meno complicata di quanto lo è. A complicarla vi è il fatto che molte delle cose che consideriamo desiderabili sono opposte da altre che consideriamo altresì desiderabili, o sono conseguibili solo a loro scapito. Pare non esservi limite ai conflitti ed alle contraddizioni interni tra le cose cui attribuiamo valore astratto e desideriamo massimizzare. Per esempio, i cibi appetitosi ed il bere spesso collidono con la buona salute; il piacere sessuale spesso collide con la dignità; la libertà spesso collide con la sicurezza; e via dicendo. Questo è il motivo per cui, semplicisticamente, il conseguimento del sollievo dalla sofferenza, per quanto possa apparire ragionevole, non può essere uno scopo personale o politico incondizionato. E qualora lo rendiamo un siffato scopo, è certo che condurrà ad una maggiore sofferenza, non ad una minore. In passato, la più grande infelicità per le moltitudini venne creata proprio da quei programmi politici i cui scopi erano il sollievo estremo della sofferenza per il maggior numero di esseri umani possibile. Mentre queste campagne contro la sofferenza erano in corso, le persone le percepivano con incondizionata approvazione;

1 NDT — Rule of Law: “governo della legge/principio di legalità”.

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Introduzione

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oggi le percepiamo, retrospettivamente, come le più terrificanti tirannie.

In assenza della visione perfetta che giunge solo con il senno di poi, tentiamo almeno di guardare alla nostra epoca in maniera critica. Se faremo ciò, intravederemo — o forse riusciremo a vedere abbastanza chiaramente — i contorni di due ideologie contemporanee che si sono proposte questi stessi scopi perenni — vale a dire, il sollievo radicale della sofferenza per la maggioranza. Una di esse, che tiene in pugno l’Oriente, è la campagna Marxista-Comunista contro l’infelicità: essa promette il sollievo totale dalla sofferenza attraverso la vittoria sul capitalismo, la causa principale di tutta la miseria umana. L’altra, che tiene in pugno l’Occidente, è la campagna medico-scientifica contro l’infelicità: essa promette il sollievo totale dalla sofferenza attraverso la vittoria sulla malattia, la causa principale di tutta la miseria umana.

Nei paesi governati dal Comunismo, dove i suoi sforzi per alleviare la sofferenza non sono frenati da alcuna controforza effettiva, il Comunismo è riuscito ad essere la più grande fonte di sofferenza; mentre, nell’Occidente cosiddetto libero, dove il «terapeutismo» ha conseguito un potere incontrastato da qualsiasi forza contraria, la Medicina è riuscita a divenire una delle più grandi fonti di sofferenza.

Come la medicina, l’arte dell cura, sia mutata da alleata dell’Uomo nel suo avversario — e come lo abbia fatto proprio nel corso delle decadi in cui i suoi poteri guaritivi progredivano ad un ritmo senza precedenti nella storia — è una trama il cui svelamento dovrà attendere un’altra occasione, e forse anche un altro narratore. Dovrebbe bastare, in questa sede, sottolineare che non vi è nulla di nuovo nel fatto che nelle questioni umane il potere ad esercitare il bene è generalmente comparabile al potere ad esercitare il male — se non adombrato da esso —; e che l’ingenuità umana ha creato — specialmente nelle istituzioni giuridiche e politiche Anglo-Americane — disposizioni che si sono dimostrate utili a dividere il potere ad esercitare il bene nei suoi due componenti principali, ossia: il bene ed il potere; e che queste disposizioni istituzionali, ed i principi morali che esse incorporano, hanno perseguito la promozione del bene privando chi le concepì e le sorregge del potere su chi desidera ricevere o rifiutare i loro servizi. Il monumento più vistoso a questo sforzo da parte dei sovrani, al fine di proteggere i propri sudditi da chi farebbe loro del bene, anche se ciò significasse mandarli in rovina, è la clausola del Primo Emendamento che garantisce che “Il Congresso non potrà emanare alcuna legge in favore dell’instaurazione di una religione, né per proibirne la libera professione di culto.” Concedetemi di indicare succintamente come io ritengo che questo avvallo — con i principi morali e politici che esso racchiude — sia applicabile alla nostra condizione odierna.

Chiunque, oggi, riconosce la realtà della sofferenza spirituale — ossia, il fatto che gli uomini, le donne, ed i bambini possano essere, e spesso sono, afflitti poiché non possono trovare né fornire un significato alla propria vita, o poiché non possono accettare né creare standard soddisfacienti con cui regolare la propria condotta personale. Nonostante queste circostanze risultino in sofferenza inespressa, nessuno negli Stati Uniti — di sicuro nessuna autorità giuridica o legislativa — argomenterebbe che una simile sofferenza giustifichi l’imposizione forzata di certe credenze e pratiche religiose sul sofferente. Un simile intervento, anche qualora dovesse dimostrarsi “d’aiuto” nell’alleviare il sofferente, violerebbe la garanzia del Primo Emendamento contro “l’instaurazione di una religione”.

Nei saggi raggruppati in questo volume tento di mostrare come questo principio sia applicabile — e dovrebbe essere applicato — altresì agli interventi medici, o cosiddetti medici. In parole povere, sostengo che la sofferenza causata dalla malattia, a

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Introduzione

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prescindere che si tratti di un’effettiva malattia corporea o di una presupposta malattia mentale, non può essere, secondo la legge americana, il fondamento per privare una persona della libertà, neanche quando l’incarcerazione viene chiamata ricovero ospedaliero, e neanche se l’intervento viene chiamato cura. Io contesto che un simile impiego del potere statale — sia esso razionalizzato come schieramento necessario delle forze di polizia o come applicazione terapeutica del principio parens patriae — è contrario alle idee e ideali riposti nel Primo Emendamento della Costituzione.

Per unirci a questa discussione non ci serve prendere in considerazione ciò che lo Stato fà, o dovrebbe fare, ai cittadini che non soffrono al fine di far qualcosa per quelli che soffrono. I beneficiari dell’assistenza sociale o dei sussidi statali non sono assoggettati alle forze dell’ordine statali: non vengono incarcerati e non sono obbligati a sottomettersi a cure mediche. Quantunque, dobbiamo considerare cosa viene fatto negli Stati Uniti — e, ovviamente, altrove — alle persone che soffrono, o che si presuppone soffrano, apparentemente per aiutarle. Ed è precisamente qui che la teologia della medicina — e soprattutto la teologia della psichiatria e della terapia — si rivela chiaramente ed ampiamente mandatoria.

Per esempio, il 6 febbraio 1976, Psychiatric News, il giornale ufficiale dell’American Psychiatric Association, pubblicò un’intervista in prima pagina condotta da Robert Pear, del Washington Star, al dott. Judd Marmor, presidente dell’American Psychiatric Association. Dopo aver alluso alle mie obiezioni agli interventi psichiatrici coercitivi, Pear domanda a Marmor, “Ma, se una persona che è presumibilmente malata non riconosce la propria malattia e non richiede una cura, la società dovrebbe intervenire?” Al che Marmor risponde, “Sì, perché questi individui stanno soffrendo e, sovente, rientra nella natura della loro sofferenza il non essere nella posizione di valutare il fatto di essere mentalmente malati.”2

Questa moderna visione terapeutica mi pare identica alla tradizionale visione teologica secondo cui alcune persone soffrono e, sovente, rientra nella natura della loro sofferenza il non essere nella posizione di valutare il fatto di aver traviato dalla vera fede.

Gli ideatori della Costituzione si opponevano a simili sofismi e politiche. Essi ritenevano, credo giustamente, che se anche il caso fosse esattamente come lo presenta Marmor — per esempio — sarebbe sufficiente, per coloro che si premurano del benessere di siffatti “sofferenti,” il fatto di offrire il proprio “aiuto”. Questo rimuoverebbe la presunta ignoranza del sofferente circa la propria sofferenza e la disponibilità di aiuto per il suo sollievo. Né l’esistenza di una simile sofferenza — vera o presunta che sia — né l’esistenza dell’aiuto per essa — vero o presunto che sia — potrebbero giustificare, secondo quest’opinione, un’alleanza tra Chiesa e Stato, né il ricorso ai poteri statali per imporre l’aiuto clericale a clienti non consenzienti. Similmente, non possono giustificare l’imposizione dell’aiuto clinico su di loro.

Com’è avvenuto, allora, che la medica è riuscita laddove la religione ha fallito? Com’è stata in grado, la terapia, di far breccia nel muro che separa Chiesa e Stato, laddove la teologia non vi è riuscita? Per dirla in breve, la medicina è stata in grado di conseguire ciò che la religione non è riuscita, principalmente attraverso una violazione radicale del nostro vocabolario, delle nostre categorie concettuali; in secondo luogo, tramite il sovvertimento dei nostri ideali e delle istituzioni votate a proteggerci dal consegnare il potere in mano a chi ci vuol aiutare a prescindere del fatto che possa piacerci o meno. 2 “Marmor Hits Szasz for ‘Enourmous Distortions,’” Psychiatric News, 6 febbraio 1976, pag. 1.

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Introduzione

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Lo abbiamo già fatto, in passato, ai negri. Ora lo stiamo facendo gli uni agli altri, a prescindere dalla fede, il colore della pelle, o la razza.

Come veniva giustificata e resa possibile la schiavitù? Chiamando i negri beni mobili, anziché persone. Se i negri fossero stati riconosciuti come persone, non vi sarebbe potuta essere alcuna compra-vendita di schiavi, nessuna legge sugli schiavi fuggitivi — in breve, non vi sarebbe potuta essere alcuna schiavitù Americana. E se le piantagioni potevano essere chiamate fattorie, e l’obbligare i negri a lavorarvi poteva essere chiamato garantir loro il diritto al lavoro, allora la schiavitù può ancora essere considerata compatibile con la Costituzione. 3 Stando le cose come stanno, nessun termine può oggi mascherare il fatto la schiavitù è servitù coercitiva. Nulla può! Invece, oggi, qualsiasi cosa può mascherare il fatto che la psichiatria istituzionale è servitù coercitiva.

Come vengono giustificati e resi possibili gli interventi coercitivi psichiatrici, e molte altre violazioni mediche della libertà individuale? Chiamando le persone pazienti, l’incarcerazione ricovero ospedaliero, la tortura terapia; e chiamando sofferenti individui che non si lamentano, e terapeuti il personale medico e della salute mentale che violano la loro libertà e dignità, e cure le pratiche che questi ultimi esercitano su di loro. Questo è il motivo per cui termini quali salute mentale e diritto alla cura oggi mascherano così efficacemente il fatto che la psichiatria è servitù coercitiva.

È a nostro rischio e pericolo che dimentichiamo che il linguaggio è il nostro più importante possedimento, o strumento; e che mentre con il linguaggio della scienza spieghiamo gli eventi, con il linguaggio della morale giustifichiamo le azioni. Potremmo perciò spiegare l’aborto come un certo tipo di procedura medica, ma dobbiamo giustifcare la sua permissibilità o proibizione chiamandolo cura oppure assassinio del bimbo non nato.

Nella vita quotidiana, la distinzione tra spiegazione e giustificazione è spesso sfocata, e per una buona ragione. Sovente, è difficile sapere cosa si dovrebbe fare, quale sia una valida giustificazione per intraprendere una data azione. Una delle maniere migliori per risolvere simili incertezze è giustificare una data linea d’azione rivendicando di spiegarla. Allora diciamo di non aver scelta se non di obbedire alla Verità — rivelata da Dio o dalla Scienza.

Un’altra ragione per mascherare le giustificazioni da spiegazioni è che, retoricamente, una giustificazione offerta in quanto tale è spesso debole, laddove una giustificazione presentata come spiegazione è spesso molto potente. Per esempio, in passato, se un uomo giustificava la propria astensione dal mangiare dicendo di volersi uccidere di fame, veniva considerato pazzo; ma se lo spiegava dicendo che lo faceva al fine di meglio servire Dio, sarebbe stato considerato un religioso devoto. Similmente, oggi, se una donna magra giustifica la propria astensione dal mangiare dicendo di voler perdere peso, viene considerata una pazza affetta da anoressia nervosa; ma se lo spiega dicendo che lo fa al fine di combattere una qualche ingiustizia politica nel mondo, viene considerata una nobile manifestante contro l’ingiustizia.

Sia chiaro, le persone soffrono. E questo fatto — secondo i medici ed i pazienti, gli avvocati e gli uomini comuni — è sufficiente a giustificare di chiamarle e considerarle pazienti. Come nelle epoche passate, attraverso l’universalità del peccato, oggi

3 In relazione a questo argomento, si vedano i miei libri The Second Sin (Garden City, N.Y.: Doubleday, Anchor Press, 1973) e Heresies (Garden City, N.Y.: Doubleday, Anchor Press, 1976).

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Introduzione

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attraverso l’universalità della sofferenza, uomini, donne e bambini divengono — che gli piaccia o no! che lo vogliano o no! — i pazienti penitenti dei propri preti-medici. E al di sopra di entrambi, paziente e dottore, si erige la Chiesa della Medicina, la cui teologia definisce i loro ruoli e le regole dei giochi che devono giocare, e le cui leggi canoniche — oggi chiamate salute pubblica e salute mentale — impongono il conformismo all’etica medica dominante.

Le mie opinioni sull’etica medica dipendono largamente dall’analogia tra religione e medicina — tra la nostra libertà di accettare o rifiutare gli interventi teologici e terapeutici, e la mancanza di tale libertà. È ovvio che, nella misura in cui le persone valorizzano la religione al di sopra della libertà, esse tenteranno di alleare la religione con lo Stato e supportare prassi religiose statali coercitive; in maniera simile, nella misura in cui valorizzano la medicina al di sopra della libertà, tenteranno di alleare la medicina allo Stato e sostenere prassi terapeutiche statali coercitive. Il punto è — semplice ma inesorabile — che quando religione e libertà confliggono, le persone debbono scegliere tra teologia e libertà; e che quando medicina e libertà confliggono, debbono scegliere tra terapia e libertà.

Se gli Americani dovessero oggi confrontarsi con questa scelta, e se considerassero la religione tanto elevatamente quanto considerano la medicina, tenterebbero indubbiamente di riconciliare ciò che è irriconciliabile — chiamando l’incarcerazione in istituti ecclesiastici il diritto a partecipare alla chiesa, e la tortura alla ruota il diritto a praticare i riti della propria fede. Se questi ultimi termini venissero accettati come nomi appropriati per le suddette prassi, allora l’osservanza religiosa coercitiva e la persecuzione religiosa potrebbero essere rivendicate come costituzionali. Le persone sottoposte a tali prassi potrebbero essere categorizzate come persone cui sono stati garantiti i propri diritti alla religione, e coloro che si opponessero a tali violazioni dei diritti umani potrebbero essere liquidati come sovversivi contro l’impegno di una libera società verso la libertà di religione. Gli Americani potrebbero allora attendere col fiato sospeso la prossima edizione del Times e di Newsweek in cui si celebra l’ultima breccia nella ricerca religiosa.

Eppure, forse non è ancora troppo tardi per rammentare che fu il rispetto per la cura delle anime, accettata e praticata liberamente o per nulla, che inspirò gli ideatori della Costituzione a privare il clero del potere secolare. Credo ritenessero sufficiente che i teologi detenessero il potere spirituale; non serviva loro altro per adempiere ai propri doveri. Similmente, è il rispetto per la cura dei corpi (e delle «menti»), accettata e praticata liberamente o per nulla, ad ispirarmi a insistere che si privino i medici del potere secolare. Ritengo sufficiente che i medici detengano il potere intrinseco delle proprie conoscenze scientifiche e abilità tecniche; non necessitano d’altro per adempiere ai loro doveri.

Nonostante i saggi raccolti in questo volume furono scritti nell’arco di un decennio, sono tutti animati dall’obiettivo di esplorare gli aspetti cerimoniali o religiosi di svariate prassi mediche. Consentitemi di affermare che non sto negando gli aspetti scientifici o tecnici della medicina. Al contrario, io credo — ed è alquanto ovvio — che i poteri genuinamente diagnostici e terapeutici della medicina sono molto più grandi oggi di quanto lo siano mai stati nella storia dell’Umanità. Questa è precisamente la ragione per cui anche i suoi poteri religiosi o magici sono molto più grandi. Chiunque interpreti i miei tentativi di spiegare, e a volte ridurre, le dimensioni magiche, religiose, e politiche della medicina, come un tentativo di gettare calunnia sulla sua dimensione scientifica e tecnica, o di sminuirla, fa ciò a proprio rischio e pericolo. Questo libro è rivolto a quelle persone che comprendono la differenza che intercorre tra il motivo per cui un prete

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Introduzione

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indossa un abito talare ed un chirugo un camice sterile, per cui un chirurgo ortopedista adopera un’ingessatura ed uno psicoanalista un lettino. Sfortunatamente, molte persone non la comprendono.

Perché no? Perché mai dovrebbero? Perchè mai chicchessia dovrebbe voler distinguere tra atti, ruoli, e parole, tecnici e cerimoniali? Probabilmente vi è una sola ragione — ossia, il desiderio di essere liberi e responsabili. Se una persona desidera sottomettersi all’autorità, troverà utile conferire i poteri cerimoniali a chi detiene le abilità tecniche, e viceversa; farà apparire le autorità ancor più utili, come preti e medici.

Le persone in possesso di certe conoscenze intellettuali o abilità tecniche sono ovviamente superiori, almeno in tal rispetto, a quelle che non ne sono. Quindi, a meno che le persone non desiderino una dittatoria di esperti tecnici — diciamo, di medici — dovrebbero assicurarsi che la posizione vantaggiosa dell’esperto derivante dal suo possesso di abilità speciali non venga ulteriormente accresciuta attribuendogli anche poteri cerimoniali. Per contro, a meno che non desiderino essere raggirate da impostori — diciamo, da psichiatri — dovrebbero assicurarsi che la posizione vantaggiosa dell’esperto derivante dal suo possesso di abilità cerimoniali speciali, o dall’attibuzione di tali abilità da parte di terzi, non venga ulteriormente accresciuta attribuendogli anche poteri tecnici che non possiede.

In passato, la gente vittimizzava se stessa attribuendo poteri medici ai propri preti; oggi, si vittimmizza attribuendo poteri magici ai propri medici. Di fronte a persone dotate di tali poteri sovraumani — e, ovviamente, di benevolenza — gli uomini e le donne comuni sono inclini a sottomettersi ad esse con quella fiducia cieca la cui inesorabile conseguenza è rendersi schiavi e fare dei propri «protettori» dei tiranni. Questa è la ragione per cui gli ideatori della Costituzione esortarono i loro concittadini a rispettare i preti per la loro fede ma a diffidare di loro per il loro potere. Per consentire ciò, eressero un muro separatore tra Chiesa e Stato.

Io sostengo, similmente, che le persone dovrebbero rispettare i medici per le loro abilità, ma dovrebbero diffidare di loro per il loro potere. Ma, a meno che la gente non eriga un muro per separare medicina e Stato, saranno impediti a conseguire ciò, e soccomberanno proprio a quel pericolo per cui il Primo Emandamento era inteso a proteggerla.

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1 Il Medico Morale

Qual è il mandato morale della medicina? Il medico, chi dovrebbe servire? Le risposte a queste semplici domande non sono affatto chiare. Dato che la medicina ha legami alquanto intimi con la salute e la malattia, con la vita e la morte, non sorprende che oggi si sia tanto incerti circa lo scopo della medicina quanto lo siamo circa lo scopo della vita stessa. Effettivamente, non possiamo essere più chiari o certi circa lo scopo della medicina di quanto possiamo esserlo circa lo scopo della vita.

Le fondamenta morali della medicina moderna hanno una duplice origine: dai Greci, la medicina ha ereditato l’idea che il dovere primario del medico è rivolto al proprio paziente; e dai Romani, che il suo dovere primario è di non nuocere. La prima di queste idee, nonostante sia alquanto incompiuta, viene spesso dichiarata essere l’ideale della medicina occidentale; la seconda, nonostante sia alquanto irrealizzabile, è spesso detta essere il suo Primo Comandamento.

Primum non nocere. (Primo, non nuocere.) Che elevata prescrizione! Ma che assurda! Poiché la domanda sorge immediatamente: a chi non dovrebbe nuocere il medico? e chi definirà ciò che costituisce danno?

La vita è conflitto. Il medico sovente non può aiutare una persona senza, al contempo, recar danno a qualcun altro. Egli esamina un candidato per una polizza sulla vita, scopre che questi ha il diabete o l’ipertensione, e riferisce questi particolari alla compagnia d’assicurazione. Egli cura un Hitler o uno Stalin e contribuisce a prolungar loro la vita. Egli dichiara psicotico un uomo il quale tormenta la moglie accusandola falsamente di infedeltà, e ne determina l’incarcerazione psichiatrica. In ognuno di questi casi, il medico nuoce a qualcuno — o il paziente o chi è in conflitto con esso. Questi esempi, ovviamente, scalfiscono appena la superficie del problema. Potremmo aggiungere ad essi il coinvolgimento del medico con persone che desiderano l’aborto o sostanze narcotiche, con pazienti suicidi, con organizzazioni militari, e con la ricerca nella guerra biologica — e constatiamo quanto tristemente inadeguate, invero quanto totalmente inutili, siano le linee guida morali tradizionali della medicina al fine del lavoro concreto del medico, sia come ricercatore sia come professionista. Di conseguenza, se desideriamo confrontarci intelligentemente con i dilemmi morali della medicina, dobbiamo iniziare, se non da zero, quantomeno dalle basi dell’etica e della politica.

Ovunque, i bambini, così come molti adulti, danno per scontato non solo che vi sia un dio ma che egli possa altresì comprendere le loro preghiere, poiché parla la loro lingua. Analogamente, i bambini presuppongono che i propri genitori siano buoni, e se le loro esperienze sono insopportabilmente discrepanti con quell’immagine, preferiscono credere di essere loro i cattivi, anziché i loro genitori. La convinzione che i medici siano gli agenti dei propri pazienti — al servizio dei loro interessi e bisogni, al di sopra di tutto — mi pare essere dello stesso tipo dei basilari miti religiosi e familiari dell’umanità. Né le sue origini sono particolarmente misteriose: quando una persona è giovane, anziana, o malata, è svantaggiata rispetto a chi è maturo e sano; nella lotta per la sopravvivenza, finirà inevitabilmente col dipendere dai propri compagni meno svantaggiati.

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Una tale relazione di dipendenza è implicita in tutte quelle situazioni in cui clienti ed esperti interagiscono. Poiché, nel caso della malattia, il cliente teme per la propria salute e per la propria vita, tale relazione è particolarmente drammatica e problematica in medicina. In generale, quanto più una persona dipende da un’altra, tanto più sentirà il bisogno di magnificare il proprio soccorritore, e quanto più magnificherà il proprio soccorritore tanto più ne sarà dipendente. Il risultato è che la persona debole facilmente diviene doppiamente compromessa: primo, dalla propria debolezza; secondo dalla propria dipendenza da una figura protettiva la quale potrebbe decidere di nuocerle. Questi sono i fatti, semplici ma brutali, delle relazioni umane, che non dobbiamo mai perdere di vista nel considerare i problemi etici della biologia, della medicina, e delle professioni curative. Così come l’impotenza genera la fede nella bontà del soccorritore, e così come l’impotenza totale genera la fede in una sua bontà illimitata, quelli preposti al ruolo di soccorritori — siano essi dèi o medici, preti o politici — sono stati più che compiacenti ad accogliere tali attribuzioni. Quest’immagine di virtù assoluta e bontà imparziale serve non solo a mitigare l’impotenza del debole, ma altresì ad oscurare i conflitti di lealtà ai quali è assoggettato chi dovrebbe proteggerlo. Da qui il perenne fascino del soccorritore altruista, disinteressato, il quale professa d’essere l’imparziale servitore dei bisogni e interessi dell’intero genere umano.

Tradizionalmente, era, ovviamente, il clero a rivendicare d’essere l’agente preposto per tutta l’Umanità — asserendo di essere il servitore di Dio, creatore e custode di tutto il genere umano. Nonostante questa assurda rivendicazione ebbe la sua fetta di successo, essa era condannata ad essere rifiutata nel tempo, poiché i rappresentanti delle più svariate fedi rivendicavano tutti di parlare a nome dell’intera Umanità. Ingenui come sono gli uomini, sono in grado di reggere tanta incoerenza. Quindi, con l’avvento della nostra cosiddetta era moderna, la mitologia di qualsivoglia religione che parlasse a nome dell’intero genere umano venne smascherata per ciò che è — la rappresentazione di certi valori ed interessi come se fossero quelli di tutti. Nietzsche chiamò questa la «morte di Dio». Ma Dio non morì; Egli semplicemente scomparve dietro le quinte della storia per indossare altre vesti, e riemerse come scienziato e medico.

Dal diciassettesimo secolo, è stato principalmente lo scienziato — e specialmente il cosiddetto scienziato medico, o dottore — a rivendicare di dovere la propria alleanza non alla propria professione o nazione o religione, ma a tutto il genere umano. Ma se sono nel giusto ad insistere che tale rivendicazione è sempre e necessariamente una mistificazione — che l’Umanità è un gruppo talmente grosso ed eterogeneo, consistente in membri con valori ed interessi inerentemente in conflitto, che è insensato rivendicare lealtà ad essa o ad i suoi interessi — allora ci conviene chiederci, in quanto pensatori indipendenti, “L’esperto, è l’agente di chi?”

Platone adorava utilizzare il medico quale modello per il governante razionale, e ne La Repubblica egli considera esplicitamente la questione di chi sia agente il medico. All’inizio di quel dialogo, egli ci offre questo scambio tra Socrate e Trasimaco:

— … Dì, piuttosto: il medico nel senso proprio della parola, come dicesti ora, è un commerciante o cura gli ammalati? Intendi chi è realmente medico.

— Cura gli ammalati, disse.4

Sembrerebbe che non si sia progredito di un gradino oltre questa incoraggiante risposta naïve al quesito di chi sia agente il medico. Anche nella visione convenzionale

4 Platone, La Repubblica, trad. it. di F. Gabrieli, BUR, Milano, 2004, p. 43.

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contemporanea il ruolo del dottore è visto come consistere nella prevenzione e nella cura della malattia del paziente. Ma una tale risposta tralascia di prendere in considerazione la domanda cruciale circa chi definisca la salute e la malattia, la prevenzione e la cura.

Nonostante Platone apparentemente suffraghi l’idea che il dovere del medico consista nell’essere l’agente del paziente, come vedremo questo non è assolutamente ciò che egli suffraga. Rendendo il medico colui che definisce non solo gli interessi propri ma anche quelli del paziente, Platone di fatto suffraga un’etica medica coercitivo-collettivistica anziché una autonomo-individualistica.

Ecco come Platone sviluppa la sua difesa del medico quale agente dello Stato:

— Dunque la medicina … non cerca l’utile della medicina, ma del corpo … Né la cavallerizza della cavallerizza, ma dei cavalli; né alcuna altra arte cerca l’utile proprio, perché non ne ha alcun bisogno, ma di ciò di cui è arte.5

Avendo stabilito la propria rivendicazione di benevolente altruismo, Platone prosegue nel trarre le conclusioni etiche e politiche alle quali mirava per tutto il tempo: la giustificazione morale per il controllo del subordinato da parte del superiore — il paziente dal dottore, il suddito dal sovrano:

— Ma certo, Trasimaco, le arti comandano e dominano su ciò di cui siano arti… Allora nessun’arte ricerca e prescrive l’utile di chi è superiore, ma di chi è sottoposto e governato da lei…. Non è vero che nessun medico, in quanto medico, ricerca e prescrive l’utile del medico, ma quello dell’ammalato? Siamo rimasti d’accordo, infatti, che il medico nel senso proprio della parola non è un commerciante, ma presiede ai corpi… Dunque … nessun altro in nessun posto di comando, in quanto è capo, cerca e prescrive il proprio utile, ma quello del subordinato e per cui egli stesso lavora, e guardando a lui e alla sua utilità e convenienza dice tutto quello che dice e fa tutto quello che fa.6

Che questa argomentazione sia contraria ai fatti, lo evidenzia Trasimaco stesso. Ma simili fatti scalfiscono a malapena la forza della retorica di Platone, la quale poggia sulle passioni perpetuamente ricorrenti che gli uomini e le donne nutrono per il controllo e l’essere controllati. Quindi, la retorica di Platone è sorprendentemente attuale: potrebbe servire, senza alcuna modifica significativa, come esposizione contemporanea di ciò che oggi viene abitualmente chiamata etica medica.

Negli ultimi 2500 anni, le vedute degli uomini sono mutate così poco circa il dilemma della duplice alleanza del medico — verso se stesso e verso il paziente — che vale la pena seguire fino in fondo l’argomentazione di Platone sull’altruismo dell’uomo morale di medicina:

— … ogni governo, in quanto governo, non cerca il meglio se non di chi è governato e curato … E ciascuna [arte] non ci procura anche un’utilità sua che non è comune alle altre, come per esempio la medicina ci dà la salute, l’arte del pilota ci dà la salvezza nella navigazione, e le altre arti analogamente?

— Certo.

— E così l’arte di guadagnare una mercede non ci procura la mercede? Perché questo è il suo potere. O come fai, la stessa arte la chiami medicina e pilotaggio? Oppure, sempre che tu, secondo le tue premesse, voglia distinguere con esattezza, se uno

5 Ibid., p. 47. 6 Ibid., p. 47.

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facendo il pilota diventa sano perché gli si confà il navigare, è forse questa una ragione perché tu debba chiamarla piuttosto medicina? … Neppure, penso, chiamerai medicina l’arte di guadagnare una mercede, se uno che ottiene una mercede guarisce. … E ancora, diremo che la medicina è arte di guadagnare una mercede se esercitandola si percepisce una mercede?

— No, disse.

— … Dunque questo utile, cioè l’ottenere una mercede, non viene a ciascuno dall’arte che gli è propria, ma, a guardar bene, l’arte medica produce la salute … e l’arte di costruir case produce la casa … e così tutte le altre arti: ciascuna compie quell’opera che le è propria e fa l’utile di ciò a cui è preposta … Dunque, Trasimaco, non è ormai chiaro che nessun’arte o governo procura ciò che è utile a sé[?]7

Come mostrano queste citazioni, Platone è un paternalista.8 In parole povere, ciò che Platone difende è ciò di cui molte persone sembrano abbisognare o volere — quantomeno a volte —, ossia che l’esperto dovrebbe essere un condottiero che sgravi dal fardello della responsabilità delle scelte personali, sollevandolo dalle spalle dell’uomo o della donna comuni che sono suoi clienti. Quest ideale etico e questa richiesta, caratteristici delle società chiuse, devono essere contrastati con gli ideali e le richieste etici delle società aperte, in cui l’esperto deve dire la verità ed il cliente deve assumersi la responsabilità della propria esistenza — inclusa la propria scelta dell’esperto.

In seguito aggiungerò altro sull’alternativa fondamentale tra l’autorità e l’autonomia, le menzogne nobili e le verità dolorose. Per ora, intendo seguire ancora un po’ Platone lungo La Repubblica per mostrare quanto le nozioni di autorità e mendacità siano inestricabilmente intrecciate nel suo pensiero — invero, come sia il potere a rendere il mentire virtuoso e l’impotenza a renderlo perfido:

— … E quella [menzogna] che ha luogo nelle parole? Quando e a chi è utile, sì da non meritare l’odio? Non forse verso i nemici, e quelli tra coloro che chiamiamo amici, i quali quando per pazzia o dissennatezza stiano per fare qualche male, essa per scansarlo diventa allora, a mo’ d’un farmaco, utile? E nei racconti mitici di cui ora parlavamo, per il non sapere come stiano veramente le cose su quegli antichi fatti, noi del pari la rendiamo utile, assimilando il più possibile la menzogna al vero?9

Nel progetto platonico di romanzare la Storia, riconosciamo, ovviamente, un’altra impresa scientifica moderna molto applaudita — quella particolare prevaricazione psichiatrica che gli addetti ai lavori, pretenziosamente, chiamano psicostoria. Così come il moderno medico psichiatra è autorizzato, in virtù della sua illimitata benevolenza, ad impiegare la mendacità come medicina, altrettanto lo è, secondo Platone, il sovrano:

— … Se infatti abbiam detto giusto, poco fa, ed effettivamente la menzogna è agli dei inutile, e agli uomini utile solo sotto specie di farmaco, è chiaro che essa va lasciata ai medici, e i privati non debbono mettervi mano… Quindi ai capi della città, se ad altri mai, si conviene mentire per causa dei nemici o dei cittadini, a vantaggio della città stessa, mentre tutti quanti gli altri non dovranno toccare una simile cosa. Ma per un privato il mentire a tali capi diremo uguale e ancor maggiore errore che non sia per un malato al medico…10

7 Ibid., p. 55-59. 8 Vedi K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici. 1.Paltone totalitario (Armando Editore, 2004). 9 La Repubblica, p. 153. 10 Ibid., p. 165-167.

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Platone ricorre alla metafora della mendacità come medicina anche per giustificare le sue politiche eugenetiche. Tutto il male perpetuato da allora in nome della genetica, quale mezzo per migliorare la razza umana, è stato perpetuato seguendo la politica qui proposta da Platone:

— … il mescolarsi gli uni con gli altri, o far qualsiasi altra cosa disordinatamente, non è lecito in una città di beati, né lo permetteranno i reggitori… ci bisogna davvero che i nostri reggitori siano di prim’ordine… Perché … è necessario che essi facciano uso di molti farmachi … è probabile che i nostri reggitori abbian bisogno, per l’utilità dei governati, di una buona dose di menzogna e d’inganno. Dicemmo infatti che tutte queste cose sono utili sotto forma di farmaco… Bisogna secondo il già convenuto che gli ottimi maschi si congiungano quanto più spesso è possibile con le ottime femmine, e viceversa i più dappoco con le più dappoco, e la prole degli uni allevare e degli altri no, se la mandria dovrà esser quanto mai eccellente; e che tutto ciò accada senza che nessuno se ne accorga, fuorché i reggitori, se il gregge dei guardiani dovrà essere quanto più è possibile immune da sedizione.11

Chiaramente, il medico platonico è un agente dello Stato — e, se necessario, l’avversario del proprio paziente. Alla luce dell’immensa influenza delle idee platoniche sulla medicina moderna, poco stupisce che oggi fronteggiamo dilemmi morali attribuibili direttamente all’ordinamento medico promosso da Platone e dai suoi innumerevoli fedeli sostenitori, passati e presenti.

Affinché non sembri che io abbia sovraenfatizzato l’alleanza del medico platonico con lo Stato, anche a costo del suo divenire il manifesto avversario del cosiddetto paziente, vediamo cosa dice Platone del medico quale medico, non quale modello per i sovrani. Ciò che egli dice potrà sembrare sconvolgente ad alcuni di noi — poiché suona così moderno e poiché supporta le più malfamate politiche mediche, eugenetiche, e psichiatriche dei governi del ventesimo secolo, sia totalitari che liberi.

In modo rivelatore, Platone inizia la sua discussione sui doveri dei medici insultando i simulatori di malattia e le persone che oggigiorno vengono generalmente definite malate di mente. L’obiezione di Platone a medicalizzare le miserie comuni — ossia, i problemi a vivere — è, dobbiamo ammetterlo, una posizione che io stesso sostengo, ma per una ragione ed uno scopo che sono esattamente l’opposto dei suoi: egli vuole che i medici perseguitino tali persone, e perseguitate da essi lo sono state; mentre io voglio che i medici le lascino in pace se tale è la volontà dei pazienti.12

— … l’aver bisogno della medicina, non per ferite o malattie che di anno in anno sopravvengono, ma per la inoperosità e il regime di vita di cui abbiamo discorso, e ripieni come una palude di flussi e di soffi l’obbligare i dotti Asclepiadi a dare alle malattie i nomi di ventosità e di catarri, non ti par forse brutto? [chiede, retoricamente, Platone]

— Molto, disse; ché davvero son nuovi e strani questi nomi di malattie.

— E quali, io penso, non c’erano al tempo di Asclepio … di questa medicina di adesso, educatrice delle malattie, gli Asclepiadi dapprima, a quanto dicono, non facevano uso, prima che nascesse Erodico. Costui, che era un maestro di ginnastica, caduto malato mescolò la ginnastica alla medicina, e tormentò anzi tutto e soprattutto sé

11 Ibid., p. 347-351. 12 Si vedano a tal proposito i miei libri: Il Mito della Malattia Mentale: Fondamenti per una teoria del comportamento individuale, (Spirali Editore, 2003); I Manipolatori della Pazzia: Studio comparato dell’Inquisizione e del Movimento per la salute mentale in America, (Feltrinelli Editore, Milano, 1976); e L’Etica della Psicoanalisi: Teoria e modello della psicoterapia autonoma (Armando Editore, 1979).

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stesso, e poi in seguito altri molti.

— In che senso? diss’egli.

— Facendo a sé stesso lunga la morte. Giacché stando dietro alla sua malattia mortale, non fu, credo, capace di guarirsi, ma passò la vita a curarsi senza poter pensare ad altro… e giunse alla vecchiaia, per la sua sapienza, in una continua lotta con la morte.13

Platone disapprova chiaramente un tale uso della medicina e dell’arte del medico. E non fa economia di parole nell’asserire che un medico che presta ministero ad un sofferente, quale Erodico, è un cattivo uomo — un traditore della comunità e dello Stato.

— … Asclepio non già per ignoranza o inesperienza di questo genere di medicina non lo rivelò ai suoi discendenti, ma perché sapeva che per tutti i governati da buone leggi ognuno ha nella città un’opera a lui ordinata, che egli deve svolgere, e nessuno ha il tempo libero di star malato e curarsi per tutta intera la vita.14

Cosa dovrebbe quindi fare una persona cronicamente malata? Dovrebbe morire — “muore e si libera così d’ogni briga”15 è il modo in cui la mette Platone — per il proprio interesse e per l’interesse dello Stato. Ma cosa ne è delle persone che stanno male, sono preoccupate per la loro cagionevole salute e per la sua cura, ma che non sono abbastanza malate da morire? I medici dovrebbero voltare le spalle a simili persone. “Né costoro si dovessero curare,”16dice lui, identificando quindi, inequivocabilmente, nel desiderio per le cure mediche del sofferente un criterio totalmente irrilevante per la legittimazione della cura.

Mi pare che mai prima — non solo nelle società totalitarie, ma in tutte le società — la medicina occidentale sia stata così pericolosamente vicina a realizzare questa particolare idea platonica quanto oggi. Eccovi, ancora, le parole di Platone sull’argomento:

— E ciò che è più grave … quella eccessiva cura è assolutamente d’impaccio … Non diremo dunque che ciò ben conoscendo anche Asclepio, a quelli per natura e regime di vita sani ma che avevano in sé una qualche determinata malattia, per essi e per un tal loro stato abbia rivelata la medicina, onde, espellendo i loro malanni con farmachi ed incisioni, prescrivere loro il normale regime di vita, per non portar pregiudizio alla vita pubblica; ma per quanto riguarda i corpi internamente di continuo infermi, che egli non abbia affatto impreso, svuotandoli e riempiendoli a poco a poco con speciali regimi, di rendere la vita all’uomo lunga e miserabile a un tempo, facendo lor generare una prole, com’è ovvio, del tutto consimile, ma piuttosto abbia ritenuto che chi non fosse capace di vivere nel tempo ad esso stabilito non si dovesse curare, come non utile né a sé né alla città?17

Lungo questo dialogo, è implicità l’identita della persona che formula il giudizio su chi è utile e chi non lo è, su chi dovrebbe essere curato e chi no: è il medico, non il paziente.

Qui risiede la lezione primaria per la nostra attuale situazione eticamente imbarazzante in genetica; meglio formulabile sotto forma di domande: Appoggiamo o opponiamo

13 La Repubblica, p. 211-213. 14 Ibid., p. 213. 15 Ibid., p. 215. 16 Ibid., p. 219. 17 Ibid., p. 215-217.

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l’opinione — e la politica — che il ruolo dell’esperto dovrebbe limitarsi a fornire informazioni veritiere al suo cliente? Appoggiamo o opponiamo l’opninione — e la politca — che il dovere dell’esperto è di decidere come i non esperti dovrebbero vivere e che gli dovrebbe, quindi, essere conferito il potere di imporre le proprie politiche su quelli così ottenebrati da rifiutarle?

Se non siamo abili nell’analizzare le argomentazioni di Platone, se non ci rendiamo conto che scelte come queste ci mettono di fronte alla necessità di ordinare le nostre priorità, e se ci rendiamo ciechi ai conflitti della vita tra salute fisica e libertà personale, allora potremo divenire dei geni nel manipolare i geni, ma rimarremo degli imbecilli nel tentativo di manipolare i nostri consimili e consentire loro di manipolarci. Platone, ovviamente, non esitava a giudicare, e a lasciare che i medici giudicassero, quali vite valessero qualcosa e quali no, chi sarebbe dovuto essere curato e chi no:

— … di uno malaticcio per natura e sregolato non ritennero fosse utile il vivere né per lui né per altrui, e che non per loro dovesse esserci l’arte medica, né costoro si dovessero curare, anche se fossero più ricchi di Mida.18

Mi pare difficile sovraenfatizzare che le precedenti proposte di Platone sono rimedi politici ai perenni problemi della morale. Come dovrebbe trattare, la società, il malato ed il debole, l’anziano e il “socialmente inutile”? Come dovrebbero essere impiegati i servizi dei guaritori — come quelli dei soldati, dei preti, o degli imprenditori? Dovremmo guardarci dal lusingarci credendo che nuove capacità biomediche generino necessariamente problemi morali genuinamente nuovi, specie dato che non abbiamo risolto — né affrontato — i nostri problemi antichi.

Non intendo dilungarmi, in questa sede, sulle idiozie e gli orrori proposti o perpetuati nelle decadi recenti in nome della medicina — specialmente la genetica. Un singolo esempio dovrebbe bastare a chiarire il mio punto — ossia, che gli esperti in medicina, come tutti gli esserei umani, possono facilmente identificarsi con i detentori del potere, e divenire avidamente i loro servi obbedienti, e che in tal modo possono proporre e supportare le più atroci politiche di mutilamento e omicidio contro gli individui sofferenti o stigmatizzati.

Le seguenti parole, scritte nel 1939, non sono quelle di un medico nazista, bensì di un illustre scienziato che doveva essere estremamente familiare con Platone:

L’eugenetica è indispensabile per le perpetuazione del forte. Una grande razza deve propagare i suoi elementi migliori… Le donne [quantunque] degenerano volontariamente attraverso l’alcol ed il tabacco. Si sottopongono a regimi dietetici pericolosi al fine di ottenere una snellezza convenzionale. Inoltre, si rifiutano di mettere al mondo figli. Tale defezione è dovuta alla loro educazione, al progresso del femminismo, allo sviluppo di un miope egoismo…

L’eugenetica può esercitare una forte influenza sul destino delle razze civilizzate… La propagazione del pazzo e dello stupido … deve essere prevenuta… Nessun criminale procura tanta miseria ad un gruppo umano quanto la tendenza alla pazzia… Ovviamente, quelli afflitti da un fardello ancestrale di pazzia, stupidità, o cancro, non dovrebbero sposarsi… Quindi, l’eugenetica esige il sacrificio di molti individui…

… Le donne dovrebbero ricevere un’istruzione superiore, non al fine di divenire dottoresse, avvocati, o professoresse, ma al fine di elevare la loro progenie a esseri umani utili.

18 Ibid., p. 217-219.

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Rimane il problema insoluto dell’immensa quantità di difettosi e criminali… Come già sottolineato, oggi sono richiesti capitali immensi per mantenere carceri e manicomi e per proteggere il pubblico dai malfattori e dai pazzi. Perché preserviamo questi esseri inutili e nocivi? Gli anormali impediscono lo sviluppo dei normali… Perché la società non dovrebbe sbarazzarsi dei criminali e dei pazzi in una maniera più economica? … La criminalità e la pazzia possono essere prevenute solo attraverso una migliore conoscenza dell’uomo, attraverso l’eugenetica, attraverso cambiamenti nell’educazione e nelle condizioni sociali. Nel frattempo, i criminali devono essere gestiti efficientemente… Il condizionamento di piccoli criminali con la frusta, o con altre procedure più scientifiche, seguito da un breve soggiorno in ospedale, probabilmente basterebbe a garantire l’ordine. Coloro che hanno ucciso, rapinato armati di pistole automatiche o mitragliatori, rapito bambini, spogliato i poveri dei loro risparmi, fuorviato il pubblico circa questioni importanti, dovrebbero essere eliminati umanamente ed economicamente in istituti eutanasici forniti di appositi gas. Un simile trattamento potrebbe essere vantaggiosamente applicato ai pazzi colpevoli di atti criminali.19

L’uomo che scrisse questo era Alexis Carrel (1873-1944), chirurgo e biologo, membro dell’Istituto Rockefeller di New York. Nel 1912 egli ricevette il Premio Nobel in fisiologia e in medicina per il suo lavoro sulla sutura dei vasi sanguini.

Oltre ad essere l’agente di se stesso — cosa che lo scienziato medico ovviamente sempre è — e oltre ad essere l’agente del proprio paziente — cosa che il medico è sempre più raramente (che è il motivo della disillusione circa la cura medica, tanto tra i medici quanto tra i pazienti, nonostante i considerevoli progressi della scienza medica) — il medico può essere — e spesso è — l’agente di ogni istituzione o gruppo sociali immaginabili. Difficilmente potrebbe essere altrimenti. Le istituzioni sono composte dai — e provvedono ai — bisogni degli esseri umani; tra i bisogni umani, il bisogno di salute per i membri del gruppo — e spesso per le malattie al suo esterno — è supremo. Quindi, il medico viene arruolato — ed è sempre stato così! — per aiutare alcune persone e nuocere ad altre — con le sue attività nocive definite, come abbiamo già visto ne La Repubblica di Platone, come aiuto allo Stato o a qualche altra istituzione.

Consentitemi di offrire una breve recensione di come i medici lungo i secoli abbiano non solo aiutato taluni — in genere coloro che sostenevano l’etica sociale dominante — ma anche nuociuto a talaltri — in genere coloro che si opponevano all’etica sociale dominante.

Durante il tardo medioevo, i medici erano prominenti nell’Inquisizione, aiutando gli inquisitori nella caccia alle streghe, attraverso appropriati esami e test “diagnostici”.20

La cosiddetta disciplina della sanità pubblica — che affonda le sue origini in quella che in principio venne, in modo rivelatorio, chiamata la “polizia medica” (Medizinalpolizei) — subentrò per servire gli interessi dei sovrani assolutisti dell’Europa del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Il ternime, secondo George Rosen, fu impiegato per la prima volta nel 1764 da Wolfgang Thomas Rau (1721-1772):

Quest’idea di una polizia medica, ossia della creazione di una politica medica da parte del governo, e la sua implementazione attraverso normative amministrative, riscosse rapidamente popolarità. Furono intrapresi sforzi per applicare questo concetto ai principali problemi sanitari dell’epoca, raggiungendo un picco con le

19 A. Carrel, Man, the Unknown (New York: Harper & Row, 1939), p. 299-302, 318-319 — Edizione italiana: L’uomo questo sconosciuto, Bompiani, Milano, 1969. 20 Si veda a tal proposito il mio libro Il Mito della Malattia Mentale (Spirali Editore, 2003).

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opere di Johann Peter Frank (1748-1821) e Franz Anton Mai (1742-1814).21

La polizia medica non fu mai intesa per aiutare i singoli cittadini o i pazienti malati; invece, era alquanto esplicitamente designata “per assicurare al monarca e allo Stato maggiore potere e ricchezza.”22 Dato che maggiore potere e ricchezza per lo Stato potevano essere ottenuti solo a costo di minore salute e libertà per certi cittadini, assistiamo qui ad una collisione tra l’etica medica platonica e quella ippocratica — in cui la prima trionfa facilmente sull’altra. Il resoconto di Rosen sul lavoro di Frank ne rivela il carattere manifestamente platonico:

Implementando l’idea che la salute delle persone sia responsabilità dello Stato, Frank presentò un sistema di igiene pubblica e privata, elaborato nei minimi dettagli… Uno spirito illuminista ed umanitarista è chiaramente percepibile in tutta l’opera, ma, come ci si aspetterebbe da un pubblico ufficiale medico che ha speso la proprio vita al servizio di svariati governanti assoluti, grandi e piccoli, l’esposizione serve non tanto all’istruzione della gente, o dei medici, quanto alla guida di ufficiali che sono adibiti a dirigire e sovrintendere per il beneficio della società tutte le sfere dell’attività umana, finanche quelle più personali. Frank è un rappresentante del dispotismo illuminato. Il lettore moderno potrà, in molti casi, provare repulsione per il suo eccessivo affidarsi a normative giuridiche, e per la minuziosità dei dettagli con cui Frank elaborò la propria proposta, specialmente per le questioni che concernono l’igiene personale individuale.23

Tra le proposte più interessanti di Frank vi era una tassa sugli scapoli — parte dello sforzo della polizia medica di incrementare la popolazione per fornire più soldati al monarca — una proposta che non abbiamo ancora smesso di implementare.

La Rivoluzione Francese aiutò a cementare ulteriormente l’alleanza tra la medicina e lo Stato. Questa alleanza è simboleggiata dal guaritore che aspira a perfezionare metodi di esecuzione più umani. Nel 1792, la ghigliottina — ideata dal Dott. Joseph Ignace Guillotin, un medico membro dell’Assemblea Rivoluzionaria e creatore della sua Commissione della Salute (Comité de salubrité) — divenne lo strumento ufficiale per le esecuzioni in Francia. Nuovamente, è rivelatorio che la prima ghigliottina venne assemblata al Bicêtre, uno dei manicomi più famosi di Parigi, e che venne sperimentata prima su delle pecore vive e poi su tre cadaveri di pazienti del manicomio. Placatasi la prima ondata d’entusiasmo per questo progresso medico, il contributo di Guillotin al benessere umano fu percepito, già allora, in modo ambivalente — inducendolo a commentare nel suo testamento, “è difficile fare del bene per gli uomini senza procurare dispiacere a se stessi.”24

Ai giorni nostri, nelle cosiddette società libere, praticamente ogni gruppo o agenzia (pubblica o privata), ha arruolato il medico come agente dei propri interessi specifici. La scuola e la fabbrica, i datori di lavoro e i sindacati, le compagnie aeree e le assicurazioni, le autorità per il controllo dell’immigrazione e le agenzie antidroga, le prigioni e gli ospedali psichiatrici, tutti assumono medici. La scelta del medico così impiegato è limitata tra l’essere un agente leale verso il proprio datore di lavoro —

21 G. Rosen, A History of Public Health (New York: MD Publications, 1958), p. 161-162. 22 G. Rosen, “Cameralism and the Concept of Medical Police,” Bulletin of the History of Medicine 27 (1953): 42. 23 Rosen, A History of Public Health, p. 162. 24 Citato in A. Soubiran, The Good Doctor Guillotin and His Strange Device, M. McGraw (London: Souvenir Press, 1963), p. 214.

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servendone gli interessi così come questi li definisce — o l’essere un agente sleale verso il proprio datore di lavoro — servondo interessi altri che non quelli del proprio datore di lavoro, così come li definisce il medico stesso.

La principale decisione morale, per un medico che non lavora nella situazione ideale dell’esercizio privato, consiste nel scegliere per quale organizzazione o istituzione lavorerà: questo è ciò che, più di ogni altra cosa, determinerà qale tipo di agente morale potrà essere per il suo paziente e per gli altri. Ne consegue che dovremmo prestare più attenzione di quanta non sia nostra abitudine ai modi in cui le istituzioni e le organizzazioni — siano essa la CIA o le Nazioni Unite, o qualsiasi altro gruppo prestigioso e potente — impiegano le conoscenze e le abilità mediche. Nonostante queste considerazioni possano apparire semplici, il loro apprezzamento non è rispecchiabile in quello che pare essere il punto di vista che caratterizza la recente fioritura della letteratura sulle problematiche dell’etica medica, specialmente quando si riferiscono alla genetica. Per illustrare questo punto, consentitemi di citare due osservazioni tratte da una conferenza internazionale del 1971 su Le Questioni Etiche nella Genetica Umana, dedicata principalmente ai problemi della conoscenza e della consulenza in genetica.

Uno dei partecipanti, un professore di genetica a Parigi, durante una discussione circa la consulenza a genitori che potrebbero mettere al mondo un figlio con la malattia di Tay-Sachs, ebbe a dire quanto segue:

Ritengo che la domanda sia se io sono disposto o meno a sopprimere un bimbo. La mia semplice risposta è certamente no, poiché dobbiamo riconoscere una cosa che sfugge frequentemente: la medicina essenzialmente, e per natura, lavora contro la selezione naturale. Questa è la ragione per cui la medicina fu inventata. Era intesa per lottare in direzione contraria alla selezione naturale… Quando la medicina viene impiegata per rafforzare la selezione naturale, non è più medicina; è eugenetica. Poco importa se il lavoro sia gradevole o meno; questo è ciò che è.25

Vi sono due cose seriamente sbagliate qui. Primo, le osservazioni di questo esperto circa l’antagonismo tra medicina e selezione naturale sono assurdità — assurdità di un calibro tale che non si addice ad un biologo di affrontarle e spiegarle! Secondo, parlando di “sopprimere un bimbo”, questo esperto equipara e confonde il consigliare un genitore a non avere un figlio, eseguire un aborto, e uccidere un infante.

Un altro partecipante, un professore di sociologia a Ithaca, New York, durante una discussione circa “Le Implicazioni della Diagnosi Genitoriale per la Qualità della Vita Umana ed il Diritto ad Essa”, disse:

… la maniera migliore di esprimerne gli interessi [della società] è attraverso il medico-consulente, il quale in effetti ha una duplice responsabilità verso l’individuo che serve e verso la società di cui è parte… saremmo certo sminuiti quali esseri umani, per non dire in grave pericolo morale, si ci permettessimo di accettare l’aborto per quelle che, essenzialmente, sono ragioni frivole. D’altro canto, temo, saremmo in egual pericolo, se non accettassimo l’aborto come mezzo per garantire che sia la quantità che la qualità della razza umana vengano contenute entro limiti

25 J. Lejeune, “Discussion” del “Survey of Counseling Practices” di F. C. Fraser, in B. Hilton et al., Ethical Issues in Human Genetics: Genetic Counseling and the Use of Genetic Knowledge (New York: Plenum, 1973), p. 19.

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1. Il medico morale

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ragionevoli.26

Se questo è il modo in cui gli esperti ragionano sui problemi etici della genetica, siamo davvero finiti su una brutta strada. Il prete, il contabile, e l’avvocato difensore non cercano di servire simultaneamente interessi antagonisti; il politico, lo psichiatra e l’esperto in consulenze genetiche invece sì.27

Le mie opinioni sull’etica medica in generale, e sulle implicazioni etiche della conoscenza e dell’ingegneria genetiche in particolare, possono essere riassunte come segue.

Il biologo ed il medico sono, anzitutto, individui e, in quanto individui, possiedono dei valori morali propri che, verosimilmente, tenteranno di realizzare tanto nella vita professionale quanto in quella privata.

In generale, dovremmo considerare l’uomo di medicina — sia esso un ricercatore o un praticante — come l’agente della parte che lo paga, e che quindi lo controlla; che egli sia d’aiuto o nuoccia al cosiddetto paziente dipende, quindi, non tanto dal fatto che egli sia un uomo buono o cattivo, quanto dalla funzione dell’istituzione per cui egli agisce, se essa sia finializzata ad aiutare o danneggiare il cosiddetto paziente.

Fintanto che il biologo o il medico sceglierà di agire come scienziato, avrà l’obbligo incondizionato di dire la verità; e non potrà compromettere quest’obbligo senza squalificarsi come scienziato. Nella pratica effettiva, solo certi tipi di situazione consentono all’uomo di medicina di adempiere ad un tale obbligo incondizionato a dire le verità.

Fintanto che un biologo o un medico deciderà di agire come ingegnere sociale, egli sarà l’agente dei particolari valori morali e politici che abbraccierà e tenterà di realizzare, o quelli che i suoi datori di lavoro abbracciano e tentano di realizzare.

La rivendicazione del biologo o del medico di agire per valori astratti disinteressati — quali il genere umano, la salute, o la cura — dovrebbe essere resa inammissibile; e i loro sforzi per mantenere in equilibrio interessi multipli e conflittuali — per esempio: gli interessi del feto contro la madre o la società, o dell’individuo contro la famiglia o lo Stato —, così come le loro rivendicazioni di esserne i rappresentanti, dovrebbero essere smascherati per ciò che nascondono — per esempio, un’alleanza segreta verso una delle parti in conflitto, oppure la cinica ricusa degli interessi di entrambe le parti in favore della propria automagnificazione.

Se noi valorizziamo la libertà personale e la dignità, dovremmo, nell’affrontare i dilemmi morali della biologia, della genetica, e della medicina, insistere che la lealtà dell’esperto verso gli agenti e valori che egli serve vengano resi espliciti, e che il potere intrinseco delle sue conoscenze e abilità specialistiche non venga accettato come giustificazione affinchè egli eserciti forme di controllo specifiche su chi non possiede tali conoscenze ed abilità.

26 R. S. Morison, “Implications of Prenatal Diagnosis for the Quality of, and Right to, Human Life: Society as a Standard,” in ibid., p. 210-211. 27 Si veda a tal proposito il mio libro Disumanizzazione dell’Uomo (Feltrinelli Editore, 1974).

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2 Malattia e Mortificazione

Tutti noi membri della professione medica condividiamo certe aspirazioni e obiettivi fondamentali; i più importanti tra essi sono: mantenere sana la persona sana, rimettere in salute il malato, e, più in generale, salvaguardare e prolungare la vita. L’irresistibile bontà e nobiltà di queste finalità è ciò che rende il loro perseguimento così gratificante, e i membri della professione medica così abbondantemente onorati e ricompensati.

Ma la vita sarebbe più semplice di quant’è se la salute e la longevità fossero i suoi soli scopi — o anche solo i suoi scopi principali —, ossia: se non vi fossero valori che spesso confliggono con il loro conseguimento. Uno di questi valori che abbiamo a cuore, e che spesso confligge con il conseguimento della salute a tutti a costi, è la dignità.

La dignità è, ovviamente, quella qualità ineffabile, ed al contempo ovvia, degli incontri umani che arricchisce l’autostima dei partecipanti. Il processo di decoro è tipicamente reciproco: la condotta dignitosa in una persona o gruppo genera condotta dignitosa in un’altra, e viceversa.

Per contro, la mortificazione è quella qualità degli incontri umani, altrettanto ovvia ma più facilmente definibile, che impoverisce l’autostima dei partecipanti. Essa ha molte forme, tra le più comuni e tragiche vi sono l’umiliazione della disabilità, della malattia, e della vecchiaia. Molte persone malate si comportano, per il solo fatto di essere malate, in maniere che rendono la propria condotta indecorosa. Quando una persona perde il controllo sulle proprie funzioni corporali di base, quando non è in grado di lavorare, allora viene privata della dignità — spesso contro i propri sforzi più intensi. Il linguaggio — la più antica guida ai veri sentimenti delle persone, e tutt’oggi la più affidabile! — rivela crudemente le intime connessioni tra malattia e mortificazione. In inglese utilizziamo la stessa parola per descrivere un passaporto scaduto, un’argomentazione insostenibile, un documento legale illegittimo, ed una persona resa disabile da malattia. Chiamiamo ognuno di essi invalido. Essere invalidi vuol quindi dire essere una persona invalidata, un essere umano bollato non valido dall’invisibile ma invincibile mano dell’opinione pubblica. Mentre l’invalidità si trascina dietro il più pesante fardello della mortificazione, parte dello stigma aderisce praticamente a ogni malattia, a ogni partecipante al ruolo di paziente.

Questo fatto genera due problemi cruciali per le persone nella professione medica: uno, che il comportamento degradato della persona malata può stimolare l’inclinazione del professionista a rispondere con un proprio comportamento degradato; l’altro, che pazienti disabili in maniere che li rendono grossolanamente mortificati possano preferire una morte dignitosa ad una vita indegna. Consentitemi di offrirvi alcune osservazioni su ciascuno di questi problemi.

I legami tra malattia e mortificazione sono, perlopiù, abbastanza ovvi. Siccome il paziente non può lavorare, né prendersi cura di sé stesso, deve spogliarsi e sottomettere il proprio corpo all’esaminazione di sconosciuti, e per molte altre ragioni altrettanto valide, la persona malata si percepisce come sofferente non solo di una malattia ma anche della perdità di dignità. Inoltre, la perdità di dignità del paziente genera

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2. Malattia e mortificazione

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soventemente una mutua perdita di rispetto nei suoi confonti da parte di chi lo circonda, specialmente dalla sua famiglia e dai medici. Questo increscioso processo di degradazione viene spesso mascherato — anche se, a mio avviso, mai con successo — dal linguaggio figurato e dal vocabolario del paternalismo — la famiglia ed il medico che trattano il paziente come se fosse un bambino (o infantile), ed il paziente che li tratta come se fossero i suoi genitori (o i suoi superiori).

Questa tendenza fondamentale ad infantilizzare il malato e a genitorializzare il curatore, si manifesta in una miriade di maniere nella pratica quotidiana della medicina. Per esempio, ci si aspetta dal paziente che si fidi del medico, ma il medico non deve necessariamente fidarsi del paziente; ci si aspetta che il paziente riveli le proprie esperienze intime coroporee e personali al medico, ma al medico è dato di negare informazioni vitali al paziente.

La posizione di spogliazione della dignità del paziente di fronte alle autorità mediche è simbolizzata dalla struttura linguistica della situazione medica. Il paziente comunica attraverso il linguaggio comune, che condivide con il medico; il medico comunica in parte attraverso il medesimo linguaggio, fintanto che parla al paziente, e in parte in un altro linguaggio, laddove parla di lui. La seconda lingua del medico soleva essere il latino, ed ora è il gergo tecnico della medicina. Il risultato è che i pazienti spesso non sanno o non comprendono ciò che non va in loro, ciò che è nelle loro cartelle cliniche, o quali farmaci stanno assumendo. Dobbiamo ammetterlo, cosiccome i bambini o altre persone paurose, umiliate o oppresse, i pazienti spesso non voglio sapere queste cose. Ma anche se così fosse — e non è sempre così! —, a mio avviso ciò non giustificherebbe il negar loro simili informazioni. Dopotutto, molte persone non vogliono sapere cosa vi sia sotto il cofano dell’automobile, ma non accetteremmo che questo autorizzasse i produttori di automobili a implementare una politica di sistematica privazione di tali informazioni nei confronti degli acquirenti, o che le rilascino solo in circostanze speciali.

Il mio punto di vista è che molte persone oggi accettano come giusto e opportuno che i pazienti non debbano comprendere le proprie prescrizioni, o che non debbano essere a conoscenza di ciò che è scritto nelle proprie cartelle cliniche; al contempo, però, si oppongono alle umiliazioni che la situazione medica spesso impone loro. Il risultato di questo conflitto inarticolato è che le persone si sentono spesso ansiose e umiliate dalla prospettiva di cercare assistenza medica, e spesso evitano o rifiutano del tutto quest’assistenza.

Dobbiamo tenere a mente che le persono desiderano, ed hanno bisogno, non solo della salute, ma anche della dignità, che spesso possono ottenere la salute solo a scapito della dignità, e che a volte preferiscono non pagare questo prezzo. Per esempio, è ovvio che i pazienti partecipano più volentieri e più intelligentemente a quelle situazioni mediche che comportano poca o nessuna umiliazione per loro; quindi, le persone cercano aiuto liberamente per i difetti refrattivi della propria vista, o per lesioni atletiche. È altrettanto ovvio che i pazienti partecipano con riluttanza, o si astegono, da quelle situazioni mediche che comportano consistenti umiliazioni per loro; quindi, le persone sono spesso riluttanti a cercare assistenza medica per la sifilide o la gonorrea, anche se queste malattie possono oggi essere curate con efficacia ed in modo sicuro, e spesso non cercano per nulla assistenza medica per quelle «condizioni» il cui trattamento è umiliante fino a raggiungere una stigmatizzazione giuridicamente articolata — come nel caso delle tossicodipendenze, o delle cosiddette psicosi.

In tutto questo vi è per noi una lezione pratica, ossia: non è sufficiente che noi si esegua un lavoro tecnicamente competente di cura sul corpo del paziente; dobbiamo eseguire

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un lavoro di salvaguardia della sua dignità ed autostima altrettanto competente. Nella misura in cui falliamo in quest’ultimo compito, noi distruggiamo il valore pratico della nostra competenza tecnica nei confronti della persona malata.

Inserobilmente, gli sforzi per combattere la malattia o scongiurare la morte confliggono con la necessità di salvaguardare la dignità. La frase morte dignitosa, attualmente in voga, è quindi alquanto fuorviante: non è che le persone vogliano solamente morire con dignità, piuttosto vorrebbero vivere con essa. Dopotutto, morire fa parte della vita, non della morte. È proprio per il fatto che molte persone vivono senza dignità che muoiono senza di essa. Le persone determinate e dignitose — siano esse soldati o chirughi — hanno sempre desiderato morire «indossando gli stivali». I militari, per tradizione, hanno sempre preferito morire sul campo di battaglia, o finanche suicidi, che non arrendersi o perdere la faccia; gli uomini di medicina preferiscono una rapida morte per infarto miocardiale ad un decesso prolungato per carcinomatosi. Questi esempi illustrano la mia disputa che vi è spesso un antagonismo irreconciliabile tra preservare e promuovere la dignità e preservare e promuovere la salute. Vi sono ovviamente molti antagonismi simili nella vita, e sono questi a rendere l’esistenza umana tragica, nella sua concenzione classica greca e cristiana. Per esempio, nelle questioni personali e politiche, noi desideriamo al contempo libertà e sicurezza, ma spesso possiamo conseguire una di queste solo a scapito dell’altra. La moderna visione scientifica e tecnica, per quanto preziosa per conseguire fini scientifici e tecnici, ci inganna talmente in malomodo quando affronta isolatamente i concetti di salute e dignità, promettendo di massimizzare entrambe al mero costo di sforzi e perizie scientifici e tecnici. Questa prospettiva ha condotto ad un estimo obliquo — e indubbiamente erroneo — circa l’affare concluso nel mantenere e garantire la buona salute. Molte persone oggi credono — e si sbagliano dolorosamente — di poter mantenere o recuperare la propria salute meramente in conseguenza dei progressi in medicina (quelle che è di moda chiamare scoperte) senza che debbano per ciò far sacrifici — ossia: senza dover pagare per tutto questo, senza dover frenare i propri appetiti e passioni per tutto questo, e senza dover subire alcuna perdità di dignità per tutto questo.

L’irriconciliabile conflitto che può sorgere tra il prolungamento della vita e preservare la dignità fu — come tutti i conflitti fondamentali della condizione umana — ben apprezzato ed articolato dagli antichi greci. Nel Fedone, Platone illustra questo dilemma ed il metodo di Socrate per risolverlo.

La scena di morte si apre con Socrate ed alcuni dei sui più intimi amici radunati in attesa che Socrate beva la cicuta. Dopo aver conversato con i suoi amici, Socrate prende commiato e chiede al boia di portare la coppa avvelenata. Ma Critone sollecita l’attesa, che prolunghi la sua vita quanto più possibile: “Ma [Socrate],” implora egli, “… io so anche che altri bevono assai più tardi, dopo che è stato dato loro l’annuncio, e dopo aver ben mangiato e ben bevuto, ed alcuni perfino dopo essere stati insieme con chi desideravano. Tu, almeno, non aver fretta, perché c’è ancora tempo.”28

La risposta di Socrate articola la distinzione tra la vita quale processo biologico che potrebbe — e forse dovrebbe — essere prolungato quanto più possibile, e [la vita] quale pellegrinaggio spirituale che potrebbe — e dovrebbe — essere attraversato e ultimato in maniera debita. Questo è ciò che dice:

È naturale senza dubbio, Critone, disse, che facciano così quelli di cui tu parli — giacché pensano di avere qualcosa da guadagnare facendo così — ed è anche naturale

28 Platone, Fedone, trad. it. di P. Fabrini, BUR, Milano, 2001, p. 381.

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2. Malattia e mortificazione

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che io non faccia così. Perché penso di non guadagnare altro, bevendo un po’ più tardi, se non di rendermi ridicolo ai miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e cercando di farne risparmio quando non c’è più niente.29

La distinzione tra morte del corpo e termine della vita, che è la differenza tra la visione della vita e della morte di Critone e quella di Socrate, seguita a sconcertarci nelle scienze mediche. La ragione principale per questo è altresì spiegata da Socrate in maniera straordinaria.

Critone domanda al suo amico come desidera essere sepolto. Socrate risponde:

[Critone] crede che Socrate sia quello che di qui a poco vedrà cadavere, e naturalmente mi domanda come mi debba seppellire. E ciò che da un pezzo ho discusso a lungo con voi, che, dopo aver bevuto la pozione, io non sarò più con voi, … queste cose, mi pare, per lui le dico inutilmente… Perché sappi, ottimo Critone, che parlare in modo non corretto non solo è brutto per se stesso, ma reca anche danno all’anima. Bisogna dunque essere fiduciosi e dire che è mio il corpo che bisogna seppellire, e il mio corpo puoi seppellirlo come ti piaccia e come ritieni sia più conforme agli usi.30

La distinzione qui operata da Socrate tra sé stesso ed il suo corpo è al contempo ovvia ed elusiva; noi tutti sappiamo quanto spesso le persone moderne, quelle sicentificamente informate ed illuminate, falliscano in questa distinzione.

La ricchezza della scena di morte per il nostro tema non si esuarisce affatto con i miei precedenti commenti ad essa. Vi è rilevanza anche nelle parole d’addio di Socrate. “Mio caro Critone,” dice egli, “siamo in debito di un gallo ad Asclepio; dateglielo e non ve ne dimenticate.”31 Il sacrificio rituale richiesto da Socrate al suo amico, in questa sede, si riferisce alla tradizione di offrire un gallo ad Asclepio, il dio della guarigione, in occasione della guarigione da malattia. In altre parole, Socrate vede la sua morte come una guarigione dalla malattia, presagendo la visione cristiana.

In breve, il messagio che voglio portarvi è semplicemente questo: Fate del vostro meglio per esercitare le vostre abilità a guarire, ma non fatelo sacrificando la dignità, né quella dei vostri pazienti, né la vostra — entrambe sono legate tra loro da vincoli non dissimili dal matrimonio, tranne che son più forti, specialmente di questi quei tempi. Poiché, se mi è consentito parafrasare le Scritture, che giova infatti all’uomo guadagnare la propria salute, se poi perde la propria dignità?

29 Ibid., p. 381-383. 30 Ibid., p. 377-379 31 Ibid., p. 387.

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3 Una Mappa per l’Etica Medica:

Le Giustificazioni Morali Per Gli Interventi Medici

Dopo una vita di riflessioni su cosa significhi essere un paziente ed essere malato, e su cosa significhi essere un medico e curare, è finalmente iniziato a divenirmi chiaro che molta della nostra attuale confusione riguardo l’etica medica poggia sul nostro fallimento nell’articolare le differenze tra certi fatti fondamentali e certe giustificazioni elementari, e nel concordare quali considerazioni giustifichino certi interventi medici e quali no. In questo breve saggio tenterò di offrire una mappa che possa aiutarci ad orientarci nel labirinto dei problemi etici medici che ci troviamo a fronteggiare oggi. Come qualsiasi mappa, non ci dirà dove dovremmo andare. Ma ci dirà dove conducono le varie strade.

Scegliamo pure, come nostro paradigma di malattia, il cancro al seno, e come nostro paradigma per la cura, l’asportazione del seno canceroso. Il cancro è una malattia; questo è un fatto, sia biologico che medico. La mastectomia è un trattamento; questo è un fatto, sia chirurgico che legislativo. La domanda etica medica, e medico-giuridica, è: Cosa giustifica l’intervento medico (chirugico) di mastectomia?

1. Secondo alcune persone, questa paziente dovrebbe ricevere una mastectomia poiché ha un cancro. Questa è la giustificazione per l’intervento orientata alla malattia.

2. Secondo altri, dovrebbe ricevere una mastectomia poiché la curerebbe. Questa è la giustificazione per l’intervento orientata al trattamento.

3. Secondo altri ancora, può ricevere una mastectomia perché ella richiede assistenza medica, il medico le offre il trattamento chirurgico, il chirurgo ha raccomandato la mastectomia, e la paziente è concorde. Questa è la giustificazione per l’intervento orientata al consenso.

È importante tenere a mente che, nonostante nei casi ideali le tre giustificazioni coincidano e convergano in una singola affermazione da parte di entrambi — paziente e medico — circa ciò che andrebbe fatto, le giustificazioni sono independenti l’una dalle altre, e spesso in conflitto tra loro. Un paio di esempi illustreranno, drammatizzandole, le potenziali disgiunzioni tra i fatti medici e le giustificazioni morali fin qua prese in considerazione.

1. La malattia non può giustificare l’intervento se, per esempio, la paziente rifiuta il trattamento poiché ella è uno scienziato cristiano (o per qualsiasi altra ragione). E l’intervento medico può essere giustificato in assenza di malattia: l’aborto e la vasectomia sono interventi medici, eppure la gravidanza e la capacità di fecondare non sono malattie.

2. La cura (nel senso di efficacia terapeutica) non può giustificare l’intervento medico se — come nell’esempio precedente — la paziente rifiuta il trattamento. E l’intervento medico può essere giustificato in assenza di efficacia terapeutica: la flebotomia era, e l’elettroshock è tuttora, una forma di trattamento accettata —

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3. Una mappa per l’etica medica: le giustificazioni morali per gli interventi medici

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quantunque, oggi riconosciamo che i salassi non facevano altro che danneggiare il sistema circolatorio del paziente, ed un giorno potremmo riconoscere che le convulsioni indotte elettricamente non fanno altro che danneggiare il sistema nervoso centrale del paziente.

3. Il consenso potrebbe non giustificare giuridicamente l’intervento medico — per esempio, se il paziente è un dipendente da morfina e il medico gli fornisce la morfina. E gli interventi medici potrebbero esssere giuridicamente giustificabili in assenza del consenso del paziente — per esempio, se l’elettroshock è somministrato ad un paziente cosiddetto depresso suicida, ricoverato coercitivamente.

Quindi, i nostri dilemmi dell’etica medica hanno almeno due fonti: fattuale (o epistemologica) e morale (o etica). Alla prima classe appartengono domande quali, Cos’è la malattia? Cos’è la cura? Cos’è il consenso? Alla seconda appartiene la domanda, Cosa giustifica certi contatti particolari tra i sofferenti e i guaritori che chiamamo interventi medici (chirurgici, psichiatrici, ecc.)?

In entrambe le categorie vi sono problemi tormentosi. Come facciamo a sapere o concordare su cosa siano malattia o cura? La gravidanza (voluta o indesiderata) è una malattia? L’aborto è una cura? La vecchiaia è una malattia? L’eutanasia è un cura? I problemi sono ovvi, è non vi è alcun motivo di sviscerarli in questa sede.

Sarà sufficiente asserire che anche qualora concordassimo su ciò che dovremmo considerare appartenere a quelle classi, e ciò che ne esula — e questo non ci garantirebbe d’essere nel giusto —, molti dei nostri problemi etici medici rimarrebbero invariabilmente tormentosi. A prescindere dal nostro consenso circa gli aspetti di definizione, classificazione, o di «fattualità», rimarrebbero i problemi cira le giustificazioni. Questi problemi richiedono la scelta e l’accettazione della responsabilità per le inesorabili conseguenze delle nostre scelte.

Disponiamo di svariate scelte nell’ambito della giustificazione degli interventi medici. Primo, potremmo dirigerci ad ovest (per così dire), e giustificare gli interventi medici tramite la malattia. Lungo questa strada troveremo le coercizioni e le contro-coercizioni di pazienti e medici, di medici e politici. Poiché se la malattia giustifica il trattamento, allora gli individui tenderanno a rivendicare o nascondere le malattie a seconda che vogliano o meno determinate cure. E gli uomini di medicina tenderanno a riscontrare o negare le malattie a seconda che vogliano imporre o negare determinate cure. (Le persone che asseriscono di essere in agonia al fine di ottenere analgesici, ed i medici che impongono il metadone a coloro che desiderano l’eroina, sono parte della segnaletica [che regola] questa strada).

Secondo, potremmo dirigerci ad est, e giustificare gli interventi medici tramite la cura. Lungo questa strada ci imbatteremo in coercizioni e contro-corercizioni di pazienti e medici, di medici e politici, simili [alle precedenti]. Poiché, se l’efficacia terapeutica giustifica l’intervento medico, i medici tenderanno a rivendicare o smentire i poteri terapeutici a seconda che vogliano o meno elargire, imporrre, o negare l’intervento medico. E gli individui tenderanno, a seconda dei propri desideri, a candidarsi o squalificarsi per le varie cure. (I medici che evitano l’uso degli oppiacei, e ne falsificano le proprietà farmacologiche, gli psichiatri che rivendicano di essere in grado di curare le malattie mentali attraverso la carcerazione, ed i politici che legiferano sui diritti alla cura dei pazienti psichiatrici incarcerati, sono parte della segnaletica di questa strada).

Terzo, potremmo dirigerci a nord, e giustificare gli interventi medici attraverso il

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3. Una mappa per l’etica medica: le giustificazioni morali per gli interventi medici

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consenso. Lungo questa strada — dove l’aria è pulita ma fredda — troveremo la medicina come mestiere che offre servizi contrattuali. In un siffatto sistema, solo quei pazienti che desiderano la cura la riceveranno, e solo quei medici che desiderano dispensare la cura la somministreranno. Questo sistema rende possibili certi interventi medici che soddisfano il paziente ed il medico ma potrebbero contrariare altri; e ne renderebbe impossibili certi altri desiderati dal paziente, dalla sua famiglia, dal medico, dalla professione medica, o dalla società in generale, perché una o entrambe la parti richieste per il contratto medico rifiutano di aderirvi. (Gli individui con malattie infettive quali la gonorrea, che rifiutano la cura, o medici cattolici che si rifiutano di praticare l’aborto, sono parte della segnaletica di questa strada).

Infine, potremmo dirigergi a sud, e giustificare gli interventi medici attraverso una combinazione capricciosa e confusa di tutte e tre le giustificazioni precedenti. Questa strada — dove l’aria è caliginosa e calda —, lastricata com’è di buone intenzioni mediche, conduce all’inferno. In un siffatto sistema, le relazioni tra i sofferenti ed i guaritori saranno governate dai peggiori elementi di tutti e tre gli altri sistemi — quelli più despotici, capricciosi, e mendaci. Pazienti, medici, politici, e le persone in generale, tenderanno a fabbricare definizioni della malattia e della cura sempre più arbitrarie e auto-asservite, e tenteranno di imporle, attraverso l’inganno e la forza, su chiunque opponga resistenza. (L’accettare ufficialmente l’assunzione di eroina come una malattia, e l’assunzione di metadone sotto la protezione medica come cura, è un segnale lungo questa strada; così come lo è l’accettazione del dissenso personale come malattia psichiatrica, e delle torture amministrate medicalmente come cure psichiatriche).

Non ho promesso di fornire — né l’ho fornita — alcuna soluzione ai problemi esemplificati dalle situazioni citate. Ciò che ho offerto, come sottolineato all’inizio, è una mappa che spero fornisca un quadro ragionevolmente accurato del territorio che tutti noi — come pazienti o medici, o entrambi — dobbiamo attraversare nel corso della vita. E offrirò ancora una cosa — una riflessione su tutto questo.

Io credo che la vita sia inerentemente tragica. Nel senso greco e cristiano, così come nelle relative tradizioni, la tragedia è la nostra sorte. Questo è ineludibile. Ma vi è un altro tipo di tragedia, il tipo che noi, in quanto pazienti e medici, legislatori e profani, fabbrichiamo attraverso la fuga dalle scelte tragiche imposteci dalla vita. La convinzione che noi si possa avere un sistema etico medico e medico-legale che combini le virtù, ma non i vizi, del giustificare gli interventi medici attraverso la malattia, la cura, ed il consenso, è una simile tragedia. Non è, in altre parole, una sorte tragica che dobbiamo sostenere, ma una tragica follia che dobbiamo evitare.

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Thomas Szasz

Thomas Stephen Szasz è Professore di Psichiatria Emeritus presso lo Health Science Center, State University di New York, Syracuse.

Dal 2005, Szasz è Socio Onorario dell’Osservatorio Italiano Salute Mentale. Sul portale dell’OISM potete visionare il sito italiano dedicato al Prof. Szasz: www.szasz.oism.info.

Il sito ufficiale del Prof. Szasz è visionabile all’indirizzo: www.szasz.com.

Tra le opere di Szasz pubblicate in italiano ricordiamo:

• Il Mito della Malattia Mentale

• I Manipolatori della Pazzia

• Schizofrenia: simbolo sacro della psichiatria

• Disumanizzazione dell’Uomo: Ideologia e psichiatria

• La Schiavitù Psichiatrica

• Il Mito della Psicoterapia

• L’Etica della Psicoanalisi

• Karl Kraus e i Medici Dell'Anima

• Legge, Libertà e Psichiatria

• Sesso a Tutti i Costi

• Farmacrazia. Medicina e politica in America

• La Battaglia Per La Salute

• Il Mito Della Droga

• L’incapace. Lo specchio morale del conformismo

Per ulteriori informazioni sulle opere del Professor Thomas Szasz pubblicate in italiano si rimanda al sito della casa editrice Spirali: www.spirali.com.

Ulteriori risorse gratuite sul tema sono scaricabili dalla sezione risorse del portale dell’Osservatorio Italiano Salute Mentale, all’indirizzo: www.oism.info.