THALIA Laboratorio di filosofia per le classi prima, seconda e terza Sezione Liceo Classico Terza A Martina Pontello Seconda A Federica Tancon Seconda A Lisa Casagrande Prima A Gaia De Zordo Seconda A Andrea Soppelsa Umanesimo in giallo La filosofia presocratica Filosofia e modernità La rivoluzione dello sguardo Nietzsche e la crisi del moderno Istuto d’Istruzione Superiore Galilei-Tiziano - Belluno PRESENTAZIONE Con il termine Charis , i greci amavano indicare la pienezza di quel che cresce, che spicca e che fa luce. Il conceo di bellezza che il contenuto di tale termine esprime si può comprendere pertanto soltanto a parre dalla funzione che esso svolge nel coniugare e mantenere uni i tre aspe fondamentali di cui si nutre e a cui deve la sua stessa ragion d’essere: Eufrosine, la gioia; Talia, la fioritura; Aglae, lo splendore di tuo ciò che luccica. Il tolo aribuito a questa nuova esperienza laboratoriale rimanda alla speranza che questa iniziava possa contribuire a creare un clima didaco favorevole per la formazione e la fioritura dei nostri studen. Con l’augurio che possano sperimentare e scoprire un nuovo ideale di umana e civile bellezza. Per la cura delle competenze e la valorizzazione delle eccellenze - anno scolasco 2017-2018 Anno I numero I
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THALIA - liceibelluno.gov.it di... · astratta della realtà. La vita è dolore, angoscia, alienazione: questo è quanto affermano i “maestri ... legata all’ambito della corporeità
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THALIA
Laboratorio di filosofia per le classi prima, seconda e terza Sezione Liceo Classico
subitaneamente il segretario del Magnifico, appena
pervenuto nell’alcova funebre,< Voi, coll’anatema
che gli avete scagliato e con le vostre nefaste
predizioni , voi siete la causa del decesso del nostro
signore !> . Savonarola arretrò, ed ora si
appoggiava ad un religioso, mentre il suo viso era
stato inondato da un pallore diffuso, come coloro
che percepiscono avvicinarsi inesorabilmente la
loro ultima ora . Il Poliziano proseguì con le sue
invettive:< frate del demonio, simoniaco, stregone,
vedrete che presto i vostri patti siglati col diavolo
chiederanno in cambio l’anima dannata di Girolamo
Savonarola! >. A quel punto, un frate dello stesso
convento del ferrarese lo invitò ad abbandonare il
luogo e la calma fu ristabilita.
La salma venne trasferita in un’oscura stanza delle
cantine, nella quale il mio maestro aveva allestito
un gabinetto di anatomia, con i mezzi necessari a
un esame post-mortem. < Vedi, mio fedele
discente, oggi eseguiremo una autopsia con tecnica
autoptica. Sai, forse, in quale occasione venne
eseguito per la prima volta questo tipo di esame ?>.
< Non ne ho idea, maestro> risposi. < Bene.
Cominceremo, quindi, con alcune nozioni storiche;
prendi nota nel tuo taccuino: come ci informa
Svetonio, il primo esame autoptico fu eseguito dal
medico Antistio sulla salma di Giulio Cesare dopo la
sua uccisione da parte dei congiurati alle idi di
marzo del 44 a.C. In seguito non venne più svolto,
fino a quando Federico II istituì la prima cattedra di
anatomia presso la Scuola Medica Salernitana-
luogo in cui, come ben sai, io stesso ho studiato- e
questa tecnica venne riscoperta.> Fece una pausa,
poi proseguì:< Ora ti illustrerò i mezzi utilizzati:
questa è un enterotomo> sollevò delle grandi
forbici < grazie a questo pallino metallico è
possibile salvaguardare la mucosa dell’intestino
durante l’apertura del medesimo. Questa sorta di
pinza, invece è un forcipe, utile per sollevare i
tessuti. Con la sega, invece, si tagliano le ossa e ,
dulcis in fundo, il frangicoste > mi mostrò un
utensile simile a delle cesoie < Esso è lo strumento
che consente l'asportazione del piastrone sternale
per l'esplorazione della cavità toracica, mediante
vari tagli che vengono effettuati sulle costole lungo
il margine cartilagineo, dove il taglio risulta essere
più netto e preciso, mentre se fatto direttamente
sull'osso è probabile che si formino delle schegge,
che possono essere dannose per le mani che
andranno poi a esplorare la cavità toracica. Hai
capito ?> «Credo di sì» risposi. “Molto bene !
Comunque, ago e filo è l’essenziale per compiere
un’autopsia, ricordalo, dato che, se intraprenderai
quest’arte, potresti trovarti a svolgere autopsie in
condizioni difficili, privo degli arnesi che ti ho
esposto in precedenza>. < Me ne ricorderò> lo
rassicurai. < Non manca nulla, ergo, possiamo
iniziare. Avvicina il lume>.
L’esame si protrasse per tutta la durata della notte.
< Ebbene, cosa avete scoperto?> domandai io.< I
miei peggiori timori erano fondati: Lorenzo
de’Medici non è deceduto per la gotta, ma è stato
avvelenato!> rabbrividii< Ne siete certo?> chiesi io
< Purtroppo sì. Vedi, l’epitelio enterico distaccato e
la formazione di vescicole al di sotto della mucosa
sono un chiaro sintomo di avvelenamento da
arsenico; prendi nota, l’arsenico elementare venne
isolato per la prima volta da Alberto Magno nel
1250.> <In che modo può essergli stato
somministrato l’arsenico senza che egli ne avesse
cognizione ?> di fronte a questo quesito, il mio
precettore tacque per qualche secondo, poi
sentenziò:< Domanda acuta. Sfortunatamente, in
questo momento non sono in grado di risponderti…
solitamente l’arsenico viene ingerito per via orale,
essendo insapore, inodore e incolore; dunque,
teoricamente, l’assassino, o gli assassini, avrebbero
potuto diluirlo nell’acqua, non destando alcun
dubbio né in Lorenzo né in coloro che gli stavano
accanto. Sarà il caso d’informare Piero de’Medici
del risultato dell’autopsia. Andiamo!>.
Fummo accolti in uno studiolo; una grande tela di
Luca della Robbia raffigurante la flagellazione di
Cristo attirò la mia attenzione, non appena varcata
la soglia. Invece, alzati gli occhi, fui sorpreso dalla
maestosità del soffitto in legno intarsiato. Un
gradevole aroma di rosa selvatica proveniva dalle
finestre aperte che davano sul giardino. Era la
primavera e con essa, la natura si apprestava a
compiere l’eterno ed incessante miracolo della
rinascita. Così, al pari dei gigli che, rifiorendo,
schiudono il loro bocciolo, le bestie che, durante
l’inverno vanno in letargo per fuggire il gelo e la
penuria di cibo, disserrano i loro occhi. Piero de
‘Medici ci ricevette intento a redigere una lettera.
La sua mano, impugnante una penna d’oca, si
muoveva alacremente, seminando inchiostro sul
foglio bianco. < Ebbene, messer Guido, di quale
delle plurime malattie di cui soffriva è morto mio
padre? Di gotta, forse, oppure a causa dell’ulcera
che lo opprimeva da qualche tempo? > domandò, <
Vedete Piero, il vostro illustre genitore non è
deceduto per nessuno dei mali che avete elencato,
ma…> s’interruppe un istante, come per raccogliere
le forze necessarie per riferirgli la nostra scoperta,
< …Ma per aver ingerito una dose letale di
Arsenico>. Piero trasalì. Una macchia d’inchiostro
cadde sull’epistola. < Ne siete certo ?> chiese il
nuovo signore di Firenze. < È così, purtroppo !>
rispose rammaricato il mio maestro. Seguì un
silenzio assordante rotto solamente dalla pispilloria
cagionata da uno stormo di passeri che avevano il
loro nido in uno dei cipressi del giardino. Piero
chiuse le finestre. < Mio padre è stato assassinato !
> realizzò, < Ma chi può essere il suo carnefice ?
Egli aveva molti amici in Firenze, ma, anche, molti
nemici. Credetemi, Guido, se vi dico che mi è
davvero difficile ipotizzare chi sia l’omicida>. <Lo
posso immaginare, tuttavia, dato che i primi
sintomi di avvelenamento da arsenico si
manifestano una manciata d’ore dopo essere stato
assunto, è sufficiente che mi aiutiate a ricostruire le
ultime ore di vita di Lorenzo, dalla sera del 7 aprile
> rispose il mio precettore. < Dunque, quella sera
eravamo proprio qui, alla villa di Careggi; messer
Pico della Mirandola aveva indetto un banchetto in
onore dell’anniversario della fondazione
dell’Accademia neoplatonica. Oltre a mio padre e a
me, vi parteciparono Marsilio Ficino, lo stesso Pico,
il segretario di Lorenzo, Angelo Poliziano e il
Savonarola. Dopo questo, siamo ritornati in città, a
palazzo Medici, e lì ha svolto le sue normali
faccende, trai suoi doveri e le donne> concluse il
figlio del Magnifico. < Secondo voi, chi, tra i
presenti alla cena, aveva una ragione per
ucciderlo ?> lo interrogò il mio maestro. < Senza
dubbio, nell’ultimo anno, egli era entrato spesso in
conflitto col Savonarola, il quale in più occasioni gli
aveva predetto la morte; per quanto riguarda gli
altri, che io sappia, non vi erano che dei
normalissimi screzi, nulla di rilevante>. Il mio
precettore rifletté un momento, quindi sentenziò
così:< Credo che, per qualche tempo, sia opportuno
mantenere il massimo riserbo circa la causa della
morte di Lorenzo; diremo che è perito per
un’ulcera malcurata. In questo modo potrò
condurre delle indagini senza che l’omicida si
allarmi e occulti eventuali prove della sua
colpevolezza. Siete d’accordo?>, < Da parte mia
non c’è alcuna obiezione> confermò Piero,< Ma
siete certo che costui (indicò me), del quale ignoro
il nome, mantenga la dovuta discrezione ?>. <
Senza ombra di dubbio, messere> ribatté Guido, <
Questo giovane si chiama Giulio Lami ed è il mio
discepolo prediletto. Credo proprio che mi sarà di
grande aiuto nelle indagini che mi appresto a
svolgere>. Ci congedammo.
Mentre ritornavamo presso l’abitazione-scuola
riconoscibile per i mattoni in opus spicatum, le
ipotesi e i dubbi occupavano i nostri dialoghi:<
Credete che quel predicatore ferrarese sia stato
capace di tanto ?> domandai, < Ne dubito; in primo
luogo, perché sarebbe stato un gesto sciocco e
avventato, dal momento che tutti sono a
conoscenza del fatto che gli aveva predetto la
morte; in secondo luogo, per il semplice motivo che
il quinto comandamento della sua religione gli
impone di non uccidere. Ciò non toglie che, nel
meriggio, ho intenzione di andare a fargli visita al
convento di San Marco>. E così fu. Suonata la
campana all’entrata, si affacciò all’uscio un frate al
quale chiedemmo di essere ricevuti dal priore,
Savonarola appunto. Ottenemmo una risposta
positiva, anche se ci chiese un certo tatto, dal
momento che, come asseriva lui stesso “ il nostro
fratello Girolamo è molto scosso dalla morte di
messer Lorenzo, poiché in un certo qual modo, si
sente colpevole per avergliela predetta”.
Savonarola stava pregando nel chiostro di San
Domenico. < Fratello, permette che vi rivolga una
domanda ?> disse Guido, < Se avete anima di
parlare con un peccatore della mia risma, si>
rispose.< Siete stato voi ad uccidere Lorenzo de’
Medici ?>. < Ebbene si, sono stato io ad ucciderlo, e
solo Iddio sa quanto me ne penta>. Io e il mio
precettore ci guardammo stupefatti, poi Guido: <
Davvero, siete stato voi ad avvelenarlo ?>.
<Avvelenarlo?> negli occhi del Savonarola si
leggeva la sorpresa< come avvelenarlo? Io mi
riferivo al fatto di non avergli concesso il conforto
della mia benedizione, non certo ad una simile
barbarie; sapete bene che, se anche avessi voluto,
il credo cristiano me lo impedisce…ma, forse è
stato quel bestemmiatore contro natura di Pico,
oppure quel maledetto di Poliziano, che inveisce
contro di me per scagionarsi>.
Lasciammo il convento per ritornare alla magione.
L’indomani ci recammo nuovamente alla villa
medicea di Careggi; in giardino incontrammo
Marsilio Ficino, il traduttore in latino di tutte le
opere platoniche e uomo stimato dal Magnifico. Ci
trattenemmo a lungo a parlare con lui, venendo a
conoscenza di dettagli interessanti circa il
banchetto di quella sera e riguardo i rapporti del
Poliziano e di Pico della Mirandola con Lorenzo de’
Medici. In particolare, quest’ultimo, a detta di
Ficino, in tempi recenti aveva avuto numerosi
alterchi col signore di Firenze.
<È la verità ! Negli ultimi tempi ho avuto numerose
e frequenti liti con Lorenzo> in questo modo,
messer Pico rispose alla domanda del mio
maestro,< ma sicuramente non avrei mai fatto del
male all’ uomo che ritenevo alla stregua di un
fratello>.< Posso chiedere la causa delle vostre
discordie?> chiese Guido.< È una questione molto
delicata, ne va della mia vita. Ve ne parlerò a patto
che giuriate di mantenere la massima discrezione>.
<Lo giuriamo !> esclamammo all’unisono. < Bene,
da qualche tempo in città si è sparsa una diceria
secondo cui io ho una concubina segreta; ebbene,
questa voce non è vera, o, per meglio dire, non è
del tutto vera. Infatti, lo ammetto davanti a voi e
siete i primi a cui lo dico apertamente, ho un
rapporto amoroso con l’umanista Girolamo
Benivieni ; Lorenzo l’aveva compreso leggendo
alcuni scritti, tra cui sonetti, che quello mi aveva
dedicato. Inutile dire che il Magnifico non era per
niente d’accordo. Il banchetto dell’altra sera fu
un’occasione di riconciliazione e di questo me ne
rallegro, poiché la morte lo accolto quando
eravamo in pace fra di noi. < E dei suoi rapporti col
segretario cosa mi dite ?> disse Guido. < I rapporti
di Lorenzo con Angelo Poliziano sono sempre stati
ottimi. Egli è un uomo stimato da tutti, me
compreso. Forse è eccessivamente orgoglioso,
superbo ed arrogante nei dibattiti tra studiosi. Ma è
un grande intellettuale, oltreché un grande uomo.
Inoltre non ricava nessun guadagno dalla morte del
nostro signore. L’incontro stava volgendo al
termine e io, nella impudenza dei vent’anni, gli
chiesi se davvero era capace di ripetere i canti della
Commedia al contrario, partendo dall’ultimo verso,
come si raccontava.
Lo fece.
Le esequie funebri si tennero presso il convento di
San Marco, gremito dal popolo che veniva per
rendere omaggio all’uomo che più di tutti diede
lustro al nome di Firenze. Lorenzo aveva disposto
che il rito fosse privo di pompa e che il suo corpo
fosse deposto nella Sagrestia Vecchia della Basilica
di San Lorenzo, la chiesa di famiglia. Guido ed io
partecipammo al funerale, ma il nostro pensiero
era completamente rivolto a scorgere l’assassino. A
quel punto era chiaro che avevamo fatto un buco
nell’acqua: l’omicida non era uno dei partecipanti
al banchetto, di conseguenza l’arsenico non era
stato occultato tra gli alimenti. Dinanzi a noi si
aprivano infinite strade e, per questo, sembrava
quasi giunta l’ora di dichiarare il fallimento
dell’indagine. Strutti da queste elucubrazioni,
rincasammo. Proprio per allontanare il pensiero
dell’ insuccesso, Guido mi chiese di prendere
l’Eneide , la cui lettura lo avrebbe consolato.
Nell’atto di prendere quel testo urtai
accidentalmente contro un altro volume che si
riversò a terra, sfaldandosi. Il mio maestrò si chinò
per raccogliere i vari fogli e, a un tratto, il suo
sguardò si fissò su uno di essi. Sentii che lesse: < Dà
mi basia mille, deinde centum, dein mille altera,
dein secunda centum…> una vampa attraversò i
suoi occhi; esclamò:<Ho capito! Il nostro errore è
stato quello di pensare che l’assassino fosse uno
dei commensali, invece non è affatto così. Giulio
ricordi quello che Piero ci disse riguardo a ciò che
fecero quella sera dopo il banchetto?>. < Mi
sembra che siano ritornati a Palazzo Medici, poi
Lorenzo fece quello che faceva di solito: sbrigava
degli uffici e vedeva delle donne> risposi. < Esatto !
E io, sciocco, non diedi peso a questo; ma è propria
allora che Lorenzo è stato avvelenato, e sai da chi?
> mi interrogò,< Non ne ho la più pallida idea,
maestro !>. < Da una donna ! Leggendo il V carme
catulliano, mi sono ricordato di aver sentito parlare
di alcuni uomini che sono morti per aver baciato
donne con arsenico sulle labbra, spesso prostitute.
Non ci resta che scoprire chi sia quella donna,
prepara i cavalli ! >.
<Ricordate il nome delle donne che frequentava
vostro padre ?> domandò il mio precettore a Piero
de’ Medici. <Mi chiedete un grande sforzo
mnemonico, Guido, considerando che, da quando è
morta mia madre, Lorenzo ha avuto in favore molte
donne, la maggior parte meretrici>. <Lo
immaginavo. Nell’ultimo periodo, non ce n’era
nemmeno una in particolare ?> ribatté. Piero
meditò a lungo, poi:< Pensandoci bene, all’incirca
nell’ultimo mese, egli vedeva sovente una certa donna che si chiama…si
chiama Beatrice Ardighelli>. <L’ha vista la sera prima della morte ?> incalzò il
mio maestro.< Credo di sì… ne sono quasi certo>. < Dove posso trovarla?>,
<Presso il lupanare del lungarno>. La trovammo lì, in un ambiente squallido. <
Sappiamo che siete stata voi ad avvelenare Lorenzo de’ Medici. Vogliamo
sapere chi sono i mandanti dell’omicidio> esordì Guido. <Non c’è nessun
mandante, ho fatto tutto di mia sponte >rispose. Rimanemmo esterrefatti. <
Solo per il piacere di uccidere Lorenzo il Magnifico ?> chiesi. < No, non per
quello, ma per vendetta… Lorenzo de’ Medici era mio padre !> . La sorpresa
aumentò.< Non guardatemi come una pazza, quello che ho detto corrisponde
al vero. Mia madre, Lucrezia, figlia di Manno Donati e Caterina Bardi, era una
gentildonna appartenente ad una famiglia nobile decaduta e l'ultima figlia
della coppia. Sin dall'età di circa sedici anni fu amata da Lorenzo il Magnifico,
anche se egli dovette poi sposare, per questioni di stato, la nobile romana
Clarice Orsini. La abbandonò con me in grembo. Per questo, subito dopo,
sposò il mio patrigno, Niccolò Ardighelli, il quale, non considerandomi mai
davvero sua figlia, non mi lasciò alcuna sostanza. Per questo, mi trovo nelle
condizioni di una meretrice. Quando Lorenzo mi avvicinò, intravidi la
possibilità di riscatto e, nella mia follia, s’insinuò la speranza che mia
accogliesse come una figlia. Così, una sera, gli rivelai la verità, mostrandogli il
prezioso pugio che anni prima aveva regalato a mia madre. Anziché ricevermi
come una figlia ritrovata, inveì contro di me, dicendomi che oramai non ero
altro che una meretrice e mi costrinse a giacere con lui, pur sapendo di
essere mio padre. L’istinto mi avrebbe portato a freddarlo con lo stiletto che
aveva donato a mia madre, però non ne ebbi il coraggio. Da allora iniziai ad
escogitare un piano per vendicarmi e…sapete bene, com’è finita>. Mentre
proferiva queste parole, rigirava tra le mani il pugio di cui ci aveva detto. I
suoi occhi rilucevano, osservando la lama.< Non è uno splendido pugnale ?>
disse. <Sì, è davvero molto ben conservato; ma, forse è il caso che lo diate a
me > rispose Guido. <Era un’arma secondaria rispetto al gladius, ma gli
imperatori romani la portavano come simbolo di vita e di morte >. Dicendo
ciò, si trafisse, senza che noi riuscissimo a salvarla.La vicenda rimase
nascosta. Si preferì far credere che Lorenzo il Magnifico fosse morto a causa
di un’ulcera, anziché per mano di una meretrice. Figlia sua , per giunta.
La strada del mio maestro, poco dopo queste vicende, si separò dalla mia.
Lui viaggiò per il mondo, perché -come sosteneva Sant’Agostino- “Il mondo è
come un libro e chi non viaggia ne conosce una pagina soltanto.” Io, invece,
andai a Parigi, per studiare alla Sorbona, università in cui insegnò anche san
Tommaso d’Aquino e luogo dove ho avuto modo di incontrare uomini
straordinari.
Già dai primi filosofi del VI secolo a.C., uno dei principali problemi
su cui si sofferma la loro attenzione è quello relativo al concetto di natura, intesa sia come fondo primordiale da cui tutto deriva, sia co-
me manifestazione di ciò. Natura deriva dalla radice latina gna- più il
suffisso del participio futuro, andando così ad indicare “qualcosa che
sta sempre per nascere” o in questo caso “generare”. La natura indica
quindi qualcosa in continuo movimento, in azione, al lavoro. Questo
movimento è dato da quella che viene definita energia, ossia la capa-
cità di compiere quel movimento che permette alle cose di manifestar-
si. Questo quesito nasce da una presa d’atto da parte di questi uomini
del divenire delle cose. Osservando il Mondo attorno a sé, si scorge
quel movimento di ciclo continuo che caratterizza le cose e che per-
mette a loro di nascere, vivere, morire. Questo loro passaggio effime-
ro all’interno del mondo non ci permette però di dare un significato
all’esistenza. Per questo il quesito fondamentale che questi uomini si
pongono è: “esiste un elemento comune a tutte le cose?” Ossia, dietro
a questa manifestazione effimera dev’esserci qualcosa, un principio
da cui tutto parte e a cui tutto ritorna attraverso lo stesso movimento.
Questo principio in cui tutte le cose sono contenute viene denominato
archè. I primi filosofi si pongono quindi il problema dell’ontologia:
arrivare a conoscere in modo razionale il fondamento, senza far uso di
finalità o elementi estranei alla ragione. Questa, dopotutto, è la parti-
colarità che caratterizza la filosofia. Ad esempio la religione ha come
scopo lo studio del fondamento (Dio) per giungere ad una salvezza,
attraverso la fede, non certo attraverso la ragione. Il primo ad aver
provato a dare una spiegazione logica a questo archè fu Talete, il
quale pone come principio l’elemento acqua, andando a conferirle
delle precise caratteristiche: ingenerata, imperitura ed eterna; in quan-
to, se fosse l’opposto, sarebbe anch’essa inserita nel divenire. Ecco
che l’acqua, attraverso l’umidità, è in grado di dare vita, energia alle
cose. Dal principio acqua gli enti del divenire si creano attraverso il
movimento, la separazione è dunque la creazione d’identità che rico-
nosciamo nella molteplicità del divenire. Questo concetto di togliersi,
staccarsi dall’unità, dall’armonia dell’archè manifestandosi nella mol-
teplicità, che è caos, lo elabora Anassimandro con l’apeiron. All’in-
terno di questo, le identità delle cose non sono ancora realizzate, ma si
manifestano attraverso il movimento, concetto questo con il quale gli
antichi tentavano di fondare razionalmente la cosmologia. In realtà,
questo concetto lo ritroviamo anche nella fisica moderna. Possiamo
infatti dire che le cose in natura sono il frutto di un lavoro di trasfor-
mazione dell’energia per mezzo di un movimento vorticoso. Anassi-
mandro non aveva tenuto conto di dove dovesse essere posto il movi-
mento, poiché la sua collocazione sia all’esterno che all’interno
dell’apeiron rappresenterebbe una contraddizione, elaborata nel pen-
siero di Anassimene. L’archè di quest’ultimo contiene dentro sé il
principio del movimento, diventa quasi una sua proprietà intrinseca.
Questa rielaborazione verrà ripresa con Eraclito e Democrito.
GAIA DE ZORDO — LA FILOSOFIA PRESOCRATICA
Eraclito è considerato il filosofo del divenire, collegato quindi al
Mondo Sensibile più che al Mondo Logico come sarà Parmenide. Il
suo archè è il logos, principio di razionalità che ordina il Mondo;
sua immagine è il fuoco, alimento composto da movimento, in netto
contrasto con il principio unico e immutabile che Parmenide ricono-
sce nell’essere. Il divenire funge d luogo in cui questa razionalità va
a manifestarsi. È quindi ordinato, armonico, più sulla visione di
Pitagora che su quella di Anassimandro. D’altra parte, Democrito
introduce il concetto di materia=movimento. Anche lui pone la
causa motrice della manifestazione delle cose nel divenire all’inter-
no dell’archè, che per lui, come per tutti i fisici pluralisti, è inteso in
termini di pluralità; sono gli atomi, particelle elementari e ultime dal
quale movimento si genera la materia, che diventa quindi il primo
lavoro finito. Questa è infatti una trasformazione in massa di
quell’energia o movimento che scaturisce direttamente dall’archè.
Gli atomi si muovono volteggiando e cozzando vanno a creare un
vorticoso movimento che dà forma alle cose nel divenire. La tesi di
Parmenide, per cui il divenire è una forma illusoria dell’essere, non
è quindi sbagliata, in quanto noi, attraverso i sensi, conosciamo il
lavoro finito degli elementi primordiali, non l’archè stesso. Il pro-
blema di ricercare un principio comune a tutte le cose, ossia ricerca-
re una verità assoluta, eterna, infinita, immutabile, viene meno nel V
secolo a.C. con l’avvento dei sofisti. Analizzando le teorie ontologi-
che dei precedenti filosofi, erano giunti alla conclusione che non
esiste una verità assoluta, poiché, pure ricercandola razionalmente,
come lo impone la filosofia, si può giungere a delle ipotesi comple-
tamente diverse. Casi esemplari quelli di Eraclito e Parmenide. L’ar-
chè di uno, composto da movimento tanto che il divenire, la molte-
plicità si crea all’interno di questo; l’archè dell’altro, immutabile e
unico ed è solo questo l’aspetto che ci fa arrivare a concepire la
verità, l’archè in quanto archè, l’essere in quanto essere. Con i sofi-
sti, dunque, manca l’idea di una verità assoluta; per questo questa
diventa relativa, relativa all’uomo. L’uomo è il metro, dice Protago-
ra, ossia esistono molte verità in base alla concezione, alla relazione
dell’uomo con la realtà a livello di individuo, facente parte di una
comunità o di una specie. L’attenzione si sposta dunque dal proble-
ma sulla natura all’uomo, che diviene oggetto di studio. Dato che
questa corrente filosofica è di orientamento empirico-pratica e non
aristocratico-sacerdotale, ritiene che ogni uomo, in quanto animale
ragionevole, è in grado di argomentare la propria verità ed è per
questo motivo che questi filosofi si propongono come maestri del
saper argomentare, dell’arte dell’eloquenza o retorica. Lo sguardo di
Atene è rivolto ad una realtà più democratica.
Nel VI sec. a.C. nelle città ioniche e in particolare a Mileto l'atmo-sfera dinamica e intraprendente che si sviluppa nelle diverse poleis favorisce la nascita e lo sviluppo di un nuovo modello di sapere che si affianca a quello religioso: la filosofia. Essa nasce nel momento in cui l'uomo, guardando la realtà circostante, s’interroga su quale sia l'elemento comune a tutte le cose e le risposte cui egli giunge nel corso del tempo sono molteplici e diverse. Tuttavia, durante l'età classica si possono individuare degli elementi che accomunano le ricerche dei diversi filosofi; il processo di conoscenza avviene sem-pre in stretto rapporto con l'elemento metafisico, la natura e l'uomo vengono indagati come creature derivate dal dio secondo quelli che sono gli aspetti qualitativi della realtà: la forma, la materia, il fine per cui una cosa esiste e la sua causa, il luogo in cui giacciono, ecc.. Lo studio della natura conduce sempre all'individuazione di una realtà altra, ultraterrena, come si evince dal pensiero di Parmenide, Platone o Aristotele. Nell'ambito della società urbano-borghese, invece, si verificano determinate condizioni sociali e mentali atte a favorire la nascita di una nuova cultura: la cultura umanistico-rinascimentale, che riflette a livello teorico il mutato atteggiamento dell'uomo rispetto al mondo e alla vita. L'uomo rinascimentale fu assolutamente poliedrico: la laicizzazione della cultura, il ruolo centrale del soggetto e della ragione nel pro-cesso di conoscenza e il nuovo rapporto uomo-Dio sono aspetti centrali della filosofia del tempo. Si pensi ad esempio all'ambito politico, dove si sintì il bisogno di individuare uno stato di stampo laico. Le risposte tuttavia furono differenti: da una parte vi fu il realismo politico proposto da Machiavelli, che concentrò l'attenzio-ne sulla "verità effettuale della cosa" sulla base della quale definì un modello statale libero dalla morale e dalla religione; dall'altra si inserì, invece, la riflessione di Tommaso Campanella, il quale nell'o-pera Città del Sole teorizza uno stato ideale in cui la pace, lo spirito di fratellanza, la tolleranza, la giustizia sociale e un rapporto armo-nico con la natura sono sovrani. Nell'ambito del Rinascimento vennero ampiamente riprese le due principali filosofie classiche: l'aristotelismo e il platonismo. In parti-colare quest' ultima ebbe grande successo grazie all' Accademia fiorentina di Marsilio Ficino, il quale per rinnovare la saldatura fra
religione e filosofia fece ricorso proprio al pensiero platonico. Nella sfera dei filosofi neoplatonici è individuabile anche la figura di Niccolò Cusano, che introdusse due concetti fondamentali i quali influenzarono notevolmente tutta la filosofia successiva: la dotta ignoranza e la coincidentia oppositorum. Riguardo al primo, ritenen-do egli che la conoscenza si determini soltanto dove vi è proporzio-nalità tra ciò che il soggetto conosce e ciò che si deve conoscere, affermò che l'essenza di Dio non si rivelerà mai interamente agli uomini poiché egli si manifesta ad essi con le sue opere, ma al con-tempo si ritrae celando la sua intima sostanza. Sulla base di questo aspetto molto affine alla teologia negativa, l'uomo non giungerà mai alla conoscenza di Dio proprio perché non esiste proporzione fra Dio e la ragione umana. L'atteggiamento corretto che l'uomo deve tenere è pertanto assumere in sé la consapevolezza di non poter cogliere Dio in tutta la sua magnificenza e tuttavia questa ignoranza, definita dotta poiché cosciente di sé, spinge l'uomo a una continua tensione ed elevazione verso la conoscenza divina che se pur non verrà mai raggiunta dall'uomo, lo spingerà a migliorare e ampliare in continuazione il proprio sapere, così come un poligono inscritto in una circonferenza aumentando illimitatamente i propri lati non si sovrapporrà mai ad essa. Altro aspetto fondamentale della filosofia rinascimentale è l' idea comune a tutti i filosofi di un' unica rivelazione eterna: Giordano Bruno e Ficino considerano la nascita di un determinato sapere reli-gioso nato con Mosè, trasmesso da Platone e giunto fino ai giorni loro che si costituisce come un vero e proprio sincretismo tra filoso-fia e religione. Anche la natura acquista un nuovo valore in età rinascimentale: viene indagata tsecondo i suoi iuxta propria principia di cui parla Telesio. L'indagine naturale si sviluppa attraverso la trasformazione e re-impostazione metodologica della magia e della filosofia natura-le, entrambe basate sulla convinzione che nella natura siano inscritte leggi affini a quelle della mente umana. L' Umanesimo e il Rinascimento si costituiscono pertanto come la base e lo sfondo teoretico della rivoluzione scientifica nata con Gali-lei e Bacone, individuatori di un metodo oggettivo alla base della filosofia moderna sempre più orientata verso la matematizzazione e soggettivizzazione del reale.