1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA TESI DI LAUREA in antropologia culturale URUTÉ AREBOK: LE PIROGHE D’ANIME CULTO DI POSSESSIONE E MATERNITÀ SIMBOLICA TRA I BIJAGÓ DELLA GUINEA BISSAU Relatore: Candidato: Prof. Francesco Remotti Chiara Gemma Pussetti N. matricola: 9106459 Anno Accademico 1996/97
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREA in antropologia culturale
URUTÉ AREBOK: LE PIROGHE D’ANIME
CULTO DI POSSESSIONE E MATERNITÀ SIMBOLICA TRA I BIJAGÓ DELLA GUINEA BISSAU
Relatore: Candidato: Prof. Francesco Remotti Chiara Gemma Pussetti N. matricola: 9106459
Anno Accademico 1996/97
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Avvertenza
L’arcipelago delle Bijagó, bagnato dall’Oceano Atlantico, si situa a nord
dell’undicesimo parallelo, a una trentina di chilometri dalla costa atlantica
dell’Africa, e fa politicamente parte della Guinea Bissau. I Bijagó, che contano
all’incirca 20.000 persone, popolano solo una dozzina delle 88 isole di cui è
composto l’arcipelago; delle altre isole alcune sono abitate solo durante i lavori
agricoli, nella stagione delle piogge. Il clima è tipicamente tropicale a due stagioni.
La stagione umida comincia a maggio e termina a novembre ed è caratterizzata da
precipitazioni abbondanti che possono raggiungere la media annuale di 2250
millimetri e da un cielo sempre coperto da nubi. La stagione secca, da dicembre a
aprile, è caratterizzata da un vento lieve che soffia da N-NE e da temperature
piuttosto elevate, con una media di 26°C. Le isole, di piccole dimensioni
(venticinque chilometri di larghezza la più grande), sono ricoperte da una
abbondante vegetazione, interrotta da piccole spiagge di sabbia fine.
Le acque dell’arcipelago, difficilmente navigabili a causa dell’abbondanza di
banchi di sabbia e delle forti correnti, sono molto ricche di pesce e di animali
marini piuttosto rari (lamantini, ippopotami da acqua salata), la qual cosa fa
dell’arcipelago un’importante riserva marina. L’abbondanza di pesce costituisce
una grande ricchezza per il popolo bijagó. Due volte al giorno ad orari che si
ripetono ogni due settimane, secondo la metà del mese lunare, grandi branchi di
pesce risalgono la corrente spingendosi fin sulle spiagge delle isole: servendosi
della rete a giacchio gli uomini possono così procurarsi facilmente il pesce
quotidiano.
L’isola di Bubaque, nella quale ho svolto le mie ricerche, situata al centro
dell’arcipelago, è la sola isola a mantenere un contatto regolare con il continente.
La praça (piazza), che si affaccia sul porto, è il luogo di maggior contatto con
l’esterno e costituisce l’unico centro commerciale dell’arcipelago.
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I Bijagó sono un popolo matrilineare e virilocale. La matrilinearità ha diritti di
priorità nel regolare la residenza, la successone nelle cariche e la trasmissione
ereditaria della proprietà. L’unità di base, politica e economica, della società
bijagó, il villaggio, è autonomo e generalmente autosufficiente nelle sue attività
socioreligiose ed economiche. L’organizzazione della società, come avremo modo
di vedere, è in gran parte fondata su un ciclo rituale che distribuisce gli esseri
umani in classi d’età e organizza una circolazione dei beni dai giovani verso gli
anziani. Questo ciclo rituale iniziatico lega gli abitanti tra loro e organizza l'unità
politico-rituale dell'isola, creando un sentimento di appartenenza a una unità più
grande.
Per quanto riguarda la trascrizione dei termini bijagó gli autori precedenti non
sembrano essere concordi. Scantamburlo (1991: 15) individua tre fonemi non
riconducibili alla lingua portoghese nella quale è edito il testo: una /n/ nasale
velare, come nell’inglese sing; /kp/, una consonante occlusiva bilabiale sorda;
/gb/, una consonante occlusiva bilabiale sonora. Danielle Gallois-Duquette (1984:
13) individua un /ng’/, come nell’inglese sing . Christine Henry (1994: 21) adotta
un sistema di trascrizione semplificato che segue l’alfabeto fonetico
dell’International African Institute, eccetto per il fonema [�] che viene trascritto
con /ñ/.
La trascrizione dei termini bijagó che appaiono in questo studio si basa
sull’alfabeto fonetico dell’International Phonetic Association, edizione 19961. Di
seguito riporto i fonemi che non rientrano nell’uso comune italiano. Intendo
precisare che si tratta comunque di una trascrizione provvisoria e in alcuni punti
semplificata affinché la lettura risulti più agevole:
[�] indica una nasale velare, molto comune nelle lingue dell’Africa occidentale.
Può essere avvicinata al gruppo /ng/ dell’inglese sing
[�] indica una nasale palatale, come il gruppo /gn/ dell’italiano ragno
1 L’individuazione dei fonemi è avvenuta sulla base di diverse registrazioni eseguite durante la permanenza a Bubaque. Per la loro trascrizione, ci si è avvalsi della collaborazione del dottor Giovanni Ronco dell’Atlante Linguistico Italiano.
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[�] indica una monovibrante postalveolare2 come nel siciliano treno [��eno] o
nell’hindi bar�a� [ba�a]
[�] indica una vocale anteriore bassa, tra la [a] e [�], come nell’inglese man e
cap
I fonemi doppi sono stati indicati con il raddoppiamento del carattere invece
che con il simbolo [], mentre l’accento principale [] è stato indicato con un
accento acuto sulla vocale della sillaba accentuata. Dove non specificato l’accento
è inteso sulla penultima sillaba della parola. La pronuncia del fonema [o] in fine di
parola tende a essere [o�]. Per quanto riguarda i nomi di località, si è rispettato
la grafia comunemente utilizzata in Guinea Bissau.
Qualora venga riportata la dizione bijagó e kriola di uno stesso termine, la
differenza verrà sottolineata dalle abbreviazioni [b.] per bijagó, [k.] per kriolo; ad
esempio la parola “santuario” (candja, b.; baloba, k.). Questo lavoro è corredato da
un glossario, nel quale sono riportati i termini indigeni citati nel testo.
Premessa
Il mio interesse per la cultura bijagó nasce, potremmo dire, sul campo, nel
1993. Data la scarsità delle fonti e la mancanza di studi antropologici
2 Detta anche ‘retroflessa’
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approfonditi, infatti, prima di allora non avevo mai avuto occasione di leggere
qualcosa al riguardo. Durante il mio primo soggiorno in Guinea Bissau (giugno -
agosto 1993), mi sono dedicata essenzialmente all’apprendimento del kriolo, la
lingua veicolare che ha preso ormai il posto del portoghese. Una volta focalizzato
il mio interesse sulla società bijagó, grazie alla conoscenza di alcuni ragazzi
dell’arcipelago residenti a Bissau, la capitale, ho orientato le mie indagini al
rinvenimento dei dati bibliografici e archivistici riguardanti questa cultura. Ho
condotto quindi le mie prime ricerche bibliografiche presso l’Instituto Nacional
de Estudos e Pesquisa di Bissau, dove mi è stato permesso consultare anche le
relazioni etnografiche dattiloscritte della prima metà del secolo, e presso gli
archivi missionari di Bissau, Bula e Ingorè.
La mia prima esperienza sul terreno a Bubaque, l’isola principale dell’arcipelago
delle Bijagó, risale però all’anno successivo (giugno - agosto 1994). Il mio
obiettivo di ricerca si era nel frattempo delineato, per cui dedicai questa seconda
permanenza in Guinea Bissau, oltre che all’approfondimento della conoscenza del
kriolo, alla consultazione delle fonti bibliografiche disponibili sull’isola - presso la
missione cattolica, nella biblioteca personale di Luigi Scantamburlo (che, in quel
periodo, era a Lisbona) - e alle mie prime effettive indagini sul campo,
concretizzate nella stesura di un diario, nella registrazione di musiche tradizionali
e di una sostanziosa raccolta di documenti filmati e fotografici.
Le ricerche bibliografiche sono proseguite negli anni successivi, presso
l’archivio dell’Istituto Pontificio Missioni Estere di Milano, che conserva oltre a
numerosi artefatti bijagó, alcuni documenti filmati e il ricco materiale fotografico
di Luigi Scantamburlo, che abbraccia un periodo piuttosto ampio (all’incirca dal
1960 al 1985) e presso le seguenti istituzioni europee, che voglio qui ringraziare: la
Biblioteca dei Padri Bianchi di Roma; la biblioteca del Musée de l’Homme e la
biblioteca dell’Ecole d’Hautes Études en Sciences Sociales - dove ho potuto fare
la conoscenza di Jean Paul Colleyn (docente di antropologia visuale), che mi ha
permesso di visionare alcuni filmati girati a Bubaque nel 1991 - e il Centre
Français sur la Population et le Développement di Parigi; la biblioteca
dell’Instituto de Investigação Científica Tropical, la Societade de Geografia (della
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quale ringrazio il direttore, che mi ha permesso di consultare i documenti più
antichi), l’Instituto Superior de Ciências Sociais e Política Ultramarina, il Museo
Etnografico e la biblioteca della Facoltà di Antropologia dell’Università di
Lisbona.
Il mio interesse era rivolto tuttavia in particolare al culto di possessione
femminile, il dufuntu, riguardo al quale la bibliografia è praticamente inesistente,
non essendoci, al giorno d’oggi, un ricercatore che se ne sia occupato a fondo o
che, quanto meno, abbia assistito alle cerimonie. L’impegno maggiore è stato
dunque rivolto alla ricerca sul terreno, che mi ha vista sul campo, a Bubaque e in
particolare nei villaggi di Bijante, Ankamona e Anhimango, da gennaio a maggio
1997. Nel corso di questi mesi, ho potuto stringere una serie di relazioni con
diverse persone dell’isola, ottenendo direttamente da loro molte delle
informazioni presentate in questa tesi. Ho potuto inoltre avvalermi dell’aiuto e
dell’appoggio delle maggiori autorità dell’isola, in specie il re Coia, che si è
dimostrato in ogni occasione disponibile, il suonatore del tamburo sacro di
Bijante Tetè, che ha compreso e condiviso il mio interesse, e le anziane del
santuario di Etuato (la parte alta del villaggio di Bijante), in particolare Nton
Muner, che mi è stata umanamente vicina in alcuni momenti di sconforto. Grazie
al loro consenso ho potuto affrontare i delicati argomenti riguardanti la
possessione dufuntu e, in particolare, grazie alla loro disponibilità e apertura
mentale, ho potuto attraversare la prima fase dell’iniziazione a questo culto.
Quest’esperienza condivisa con le donne del villaggio, mi ha permesso di
comprendere e di dare un senso a molti aspetti che all’inizio mi sembravano
veramente oscuri.
È dunque grazie alla preziosa opportunità, concessami dagli anziani, di essere
iniziata alla possessione attraverso il kanunake, e all’amicizia di tutti coloro che si
sono occupati di organizzare la cerimonia e che mi hanno aiutato con le
traduzioni, che ho potuto conoscere, seppur parzialmente, l’ambito della
possessione dufuntu. Grazie alla collaborazione di tutti, inoltre, mi è stato possibile
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realizzare una vasta documentazione audiovisiva e fotografica delle danze e dei
canti tradizionali3, durante lo svolgimento delle cerimonie dufuntu.
In particolare la mia riconoscenza va a tutti coloro che, con la loro
disinteressata amicizia e col loro affetto, hanno saputo trasformare una ricerca
etnografica in un’esperienza veramente importante e costruttiva dal punto di vista
umano. In particolare non posso tralasciare di ringraziare Milocas, che, quando
non potevo cucinare, mi ha invitata alla sua tavola e che mi ha curata quando non
stavo bene; Julio Abna, che, dal 1993, mi ospita quando devo trascorrere qualche
giorno a Bissau; Jole e Gianni, che mi hanno procurato una abitazione a Bubaque
e hanno risolto diversi problemi logistici; Luigi Scantamburlo, che ha seguito con
interesse lo sviluppo della mia ricerca.
Tengo inoltre a ringraziare le istituzioni che mi hanno messo nelle condizioni
di poter svolgere questa lunga ricerca, e in particolare il Centro Piemontese di
Studi Africani per il suo contributo, l’Instituto Nacional de Estudos e Pesquisa di
Bissau per i permessi di ricerca che mi ha gentilmente concesso, il Dipartimento
di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’università di
Torino e il mio relatore Francesco Remotti.
Un pensiero particolare alle due persone che mi sono state veramente vicino
durante la mia permanenza sul campo, dimostrandomi in ogni occasione amicizia
ed affetto e dividendo con me le più profonde emozioni. Un grazie di cuore,
quindi, al mio amico e principale informatore Pedro Banca, che mi è sempre stato
accanto dimostrando grande sensibilità e interesse, e a Lorenzo, con il quale ho
condiviso questa prima importante esperienza di lavoro sul terreno, che, essendo
entrambi “apprendisti antropologi”, ha assunto il senso di una vera e propria
“iniziazione” all’antropologia.
3 Sono stati realizzati un video documentario della durata di circa 180 minuti e registrazioni audio per un totale di 14 ore.
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PARTE PRIMA
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Le origini mitiche e il percorso storico
Capitolo I
La genesi : ipotesi sulle origini
1. Le fonti
Non sono molti gli autori che hanno affrontato il compito di ipotizzare le
origini e di ricostruire il percorso storico del popolo Bijagó. Il primo passo nella
realizzazione di un tentativo di ricostruzione storica è costituito dallo studio di
Avelino Teixeira da Mota del 1947, che costituisce il saggio introduttivo alla
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ricerca di Santos Lima sull’organizzazione sociale Bijagó e che verrà ripreso e
rimaneggiato nel 1974 (Mota in Santos Lima 1947: 5-45). L’edizione del 1974,
benché ridotta rispetto alla precedente e rivolta esclusivamente a testimoniare
dell’attività marittima bijagó nei secoli XVI e XVII, risulta più curata nel lavoro di
ricerca delle fonti e riporta una discreta bibliografia cui tutti gli studiosi posteriori
si rifaranno. Nonostante questa maggior accuratezza, comunque, i dati che ci
vengono forniti consentono soltanto di delineare un quadro molto
approssimativo e ipotetico del passato storico bijagó. Le fonti riportate, costituite
per la maggior parte dalla letteratura portoghese di viaggio prodotta tra il XV e il
XVII secolo e da trattati, lettere e relazioni di missionari gesuiti raccolti da padre
Antonio Brasio nella sua Monumenta Missionaria Africana (1958-1968), risultano
spesso labili, vaghe o di seconda mano e perciò il tentativo di ricostruzione storica
di Mota appare poco perspicuo. Ciò nonostante, la maggior parte delle recenti
indagini storiche non fanno che riportare, rielaborandone la forma, i dati esposti
nel lavoro di Mota.
Luigi Scantamburlo, dopo Mota, fu il primo a occuparsi nuovamente delle
origini e della storia dei Bijagó. L’autore, antropologo e missionario, iniziò la
propria ricerca presso i Bijagó nel 1975, concretizzandola tre anni dopo in uno
studio etnografico che costituisce anche la sua tesi di dottorato in antropologia
all’Università Wayne State di Detroit (Michigan, U.S.A.) (Scantamburlo 1978
[1991] )4. Non potendosi avvalere di validi studi precedenti su questo popolo, il
lavoro di ricerca di Scantamburlo si presentò come una impresa piuttosto difficile
e di esito incerto. Ne risultò, infatti, un lavoro piuttosto vago e frammentario, che
costituisce comunque il primo studio antropologico sui Bijagó. Purtroppo l’autore
dedica alla ricostruzione del loro passato soltanto sei pagine, nelle quali,
oltretutto, si rifà totalmente a Mota (Scantamburlo 1991: 17-22).
Anche Danielle Gallois Duquette dedica alla storia dei Bijagó una parte molto
esigua del suo lavoro di antropologia dell’arte, riferendosi a sua volta a Mota e a
Scantamburlo (Gallois Duquette 1983: 16-29). Si tratta però di una rielaborazione
4 Noi ci rifacciamo alla versione portoghese pubblicata nel 1991. Questo testo costituisce solo una traduzione del lavoro originale, senza apportare modifiche, ritocchi o aggiunte.
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molto precisa e approfondita dalla quale affiora un paziente lavoro di ricerca delle
fonti originali e un contributo personale per quanto riguarda la posizione e il
coinvolgimento degli abitanti dell’arcipelago bijagó nella guerra per l’indipendenza
della Guinea-Bissau, della quale i precedenti autori non avevano parlato. A
differenza degli autori precedenti, Gallois Duquette si occupa inoltre dell’origine
dei Bijagó dal punto di vista dei nativi, basandosi cioè sui miti che gli anziani le
raccontarono durante la sua permanenza sul campo (Gallois Duquette 1983: 34-
37). Nonostante sia molto conciso, si tratta, a mio avviso, di un contributo molto
originale, in quanto, discostandosi dall’impostazione di Mota, sposta l’attenzione
sulla ricostruzione indigena delle origini, proponendo una nuova lente attraverso
la quale guardare al passato bijagó.
Un resoconto molto preciso e dettagliato delle vicende della Guinea-Bissau dal
1841 al 1936 ci viene offerto dallo storico René Pélissier, che, in un’opera molto
complessa e articolata in due volumi, ricostruisce le relazioni politico-militari che
legarono nel passato Portogallo e Senegambia. Di questa sua monumentale opera
storica la parte più ampia è dedicata alla “pacificazione” della Guinea-Bissau e in
particolare alle campagne che furono realizzate nell’arco di novant’anni: dalla
guerra di Bissau nel 1844, alla campagna di Canhabaque, l’isola più ribelle
dell’arcipelago delle Bijagó, nel 1935-36. La nostra attenzione, nel prendere in
esame il lavoro di Pélissier, sarà focalizzata proprio sulla resistenza bijagó alla
“pacificazione”, ricordata da tutti i guineensi per la dura risposta della
dominazione coloniale portoghese, che impiegò contemporaneamente aviazione,
marina e artiglieria causando quello che nel primo libro di storia della Guinea
indipendente fu descritto come «un massacro sanguinario» (P.A.I.G.C., 1974: 103).
La ricostruzione storica che ci offre Christine Henry nella sua tesi di dottorato
in etnologia e sociologia comparativa, presentata all’Università di Parigi X nel
1991 e pubblicata tre anni dopo, si rifà all’opera di Pélissier di cui abbiamo
appena parlato, opera che si distingue non solo per la estrema precisione e la cura
nel controllare l’attendibilità delle fonti, ma anche per l’onestà dimostrata nel
riferire, quando necessario, la scarsità e la labilità dei dati in suo possesso. Henry
riprende la ricca letteratura di viaggio portoghese prodotta fino al XVII secolo e si
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riferisce a quanto riportato da Pélissier per il periodo dal XVIII secolo alla
colonizzazione, essendo la documentazione relativa a questi secoli vaga e poco
attendibile. Nella prima parte della sua tesi, intitolata per l’appunto “Les Bijogo
dans l’histoire”, tenta, per usare le sue parole, «di scrivere la storia definitiva
dell’arcipelago» (Henry 1994: 26). Questa prima parte si divide in due periodi,
l’uno che va dal primo incontro dei Bijagó con gli europei nel 1457 alla fine del
XVII secolo, l’altro dal XVIII secolo alla colonizzazione. Questa divisione riflette
sia la natura differente delle fonti che Henry utilizza, sia un’effettiva svolta nella
storia dell’arcipelago, corrispondente alla intensificazione della presenza
portoghese.
Contrariamente a Gallois Duquette, che dedica, come abbiamo visto, una
particolare attenzione al mito come ricostruzione indigena delle origini - a mio
parere più meta-commento sociale che racconto storico - Christine Henry e gli
altri autori di cui abbiamo parlato (Mota, Scantamburlo, Pélissier) non si
soffermano, nelle loro indagini storiche, ad ascoltare la voce dei nativi. Scrive
infatti Scantamburlo che «degli abitanti di Bubaque, nessuno sa per certo quando
sono apparsi e da chi discendono i Bijagós» (Scantamburlo 1991: 21) e Henry
conferma che «la società locale non ha praticamente conservato alcuna traccia
della propria storia ed è dubbio che la tradizione orale possa apportare elementi
nuovi» (Henry 1994: 26). In effetti durante la mia permanenza sul terreno ho
potuto constatare quanto questi autori affermano: difficilmente i Bijagó
raccontano i loro miti e, qualora li si interroghi sulle loro origini e su eventuali
“parentele” con le etnie del continente, generalmente preferiscono tacere.
Basandomi sulla mia esperienza, mi sembra però di poter sostenere,
contrariamente a Henry, che i Bijagó non abbiano dimenticato i loro miti e non
abbiano perso il ricordo della loro origine. Questo ricordo, conservato dagli
anziani depositari del sapere e della tradizione, non viene in genere raccontato
all’etnografo curioso. L’origine quindi non è dimenticata, quanto piuttosto taciuta,
mantenuta segreta. Sarà durante la reclusione iniziatica che gli anziani sveleranno
ai neofiti l’origine del popolo bijagó, un’origine che li costringerà a riflettere
sull’identità, l’alterità e la finzione. Alle domande sulle loro origini, quindi, i
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giovani non rispondono perché effettivamente non sanno ancora nulla e gli
anziani nemmeno, perché bisogna che il loro interlocutore abbia percorso il
cammino iniziatico per partecipare di questo segreto. Considerando che i Bijagó
riflettono ancora sulle loro origini, anche se solo in un particolare momento della
loro vita, mi sembra interessante soffermarsi su quello che è il passato bijagó
nell’immaginario indigeno, pur nella consapevolezza dei limiti e delle carenze
delle indagini al riguardo.
In questa prima parte, quindi, in primo luogo cercherò di ricostruire l’origine
dei Bijagó sia secondo gli autori occidentali, sia secondo il racconto dei locali. Per
quanto riguarda il primo obiettivo, i tentativi di datare l’arrivo dei Bijagó
nell’arcipelago e di identificarne l’origine sono resi difficili dalla labilità delle fonti,
per cui, non potendo avvalermi di dati attendibili, converrà accettare e riportare le
ipotesi espresse da alcuni autori portoghesi (Almeida, Barros, S. Lima) e fatte
proprie, nonostante qualche aggiunta personale, da Scantamburlo. Per quanto
concerne, invece, il secondo obiettivo mi avvarrò dei miti raccolti da Gallois
Duquette durante il suo lavoro sul campo, dei racconti e delle leggende ricavati da
una rilettura attenta dei racconti di viaggio portoghesi e di alcuni questionari
etnografici d’epoca coloniale non pubblicati, che ho rinvenuto a Bissau. Inoltre
potrò riferirmi a racconti e testimonianze degli anziani raccolte durante il mio
soggiorno nelle isole Bijagó.
In secondo luogo, nel prossimo capitolo, mi occuperò per sommi capi del
passato storico dei Bijagó. Per ricostruirne la storia, mi rifarò innanzitutto alle
fonti di cui abbiamo parlato precedentemente, che costituiscono le più recenti
indagini storiche su questo popolo. Inoltre mi avvarrò di fonti riportate nella
bibliografia degli autori appena citati, raccolte nell’estate 1996 presso l’Instituto de
Investigação Científica Tropical, l’Instituto Superior de Ciências Sociais e Política
Ultramarina, la Societade de Geografia, il Museo etnografico e la Biblioteca della
facoltà di antropologia della Università di Lisbona, costituite principalmente da
letteratura di viaggio. Anche in questo caso cercherò di sottolineare, per quanto
possibile, il ricordo che i Bijagó hanno di questo passato di guerre, ascoltandolo
dalla voce degli anziani.
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2. L’origine dei Bijagó secondo gli autori occidentali
Dobbiamo a Luigi Scantamburlo il tentativo più recente e riuscito di realizzare
una ricostruzione sistematica delle origini del popolo Bijagó, pur nella
consapevolezza dei limiti delle precedenti indagini (Scantamburlo 1991: 20-21).
Per svolgere questo compito Scantamburlo raccolse e riportò le ipotesi espresse
dagli autori portoghesi, ponendole a confronto.
Per tentare di stabilire l’identità dei Bijagó, gli autori portoghesi cercarono,
infatti, di ricostruirne il lontano passato fino a ritrovare le loro origini, avanzando
le più disparate interpretazioni. Dato il carattere piuttosto fantasioso della
maggior parte delle ipotesi sostenute e la totale mancanza di dati probanti, l’analisi
delle principali ipotesi sulle origini dei Bijagó ormai riveste solo valore
documentario.
Il primo autore portoghese a cercare una risposta all’interrogativo delle origini
dei Bijagó, secondo le indagini di Scantamburlo, fu il mercante e negriero
capoverdiano Francisco de Lemos Coelho, il quale, nel 1669 e nel 1684 scrisse
due “Descrizioni della Costa della Guinea” (Scantamburlo 1991: 18). Secondo questo
autore, i Bijagó non erano originari delle isole in cui oggi risiedono e che da loro
prendono il nome, ma le avevano raggiunte, probabilmente nel XIII secolo, dopo
esser stati scacciati dalla costa e dalle rive del Rio Grande dai Beafade5, essi stessi
respinti dalle conquiste malinké. Coelho a questo proposito si esprime così:
5 Non è inutile dire qualche parola sui Beafade, popolazione che fu in stretto contatto coi Bijagó e che costituì il loro principale nemico. Al giorno d’oggi poco numerosi, i Beafade parlano una lingua vicina a quella dei Bajaranké, e questi due popoli hanno probabilmente una origine comune (Wilson, 1959). Ricerche contemporanee confermano che sotto l’espansione malinké i Beafade si erano installati nella zona che rimase loro tra il XV e il XVII secolo (Mota, 1970). I Beafade (25.100 secondo il censimento nazionale del 1979) oggi non rappresentano che il 3% della popolazione guineense. Sono stati in gran parte assorbiti dai Peul e hanno assorbito una forte influenza malinké, tanto che sono quasi completamente islamizzati. Occupano attualmente la regione costiera meridionale del Geba.
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«Gli anziani dicono che essi popolavano le terre del Rio Grande che furono conquistate da
quella razza di negri che si chiamano Biafares [Beafade], popoli venuti dall’interno ma che non
dicono da quale luogo. Vistosi vinti, fuggirono nelle loro piroghe che si chiamano anche
“almadie” e vennero ad abitare in quelle isole, in primis sull’isola Roxa (Canhabaque) che era la
più vicina, poi, man mano che passava il tempo, si sparpagliarono verso le altre isole dove i
Biafares li inseguivano e facevano loro guerra...» (in Peres 1953: 176).
Ricerche contemporanee hanno confermato questa ipotesi. Secondo Christine
Henry (dottoressa in etnologia e sociologia comparativa all’università di Parigi X),
infatti, è molto probabile che i Bijagó occupassero le terre in cui vennero a
rifugiarsi i Beafade respinti dall’espansione malinké del XIII secolo (Henry 1994:
30). A sostegno di questa tesi, Henry riporta la testimonianza del portoghese
André Donelha, il quale nel 1625 scrisse che verso il 1460 un re beafade di nome
Famena, grande guerriero, aveva conquistato le isole bijagó (Henry 1994: 31)6.
Scantamburlo suggerisce al riguardo che questa potrebbe essere stata la ragione
dell’ostilità bijagó nei confronti dei Beafade, inimicizia che si concretizzò, come
avremo modo di vedere nel prossimo capitolo, in frequenti scontri nel corso dei
secoli (Scantamburlo 1991: 18).
Nel 1882 Marquez de Barros, corrispondente in Guinea per la Società di
Geografia di Lisbona, ci offre una nuova spiegazione sull’origine di questo
popolo. Secondo Barros, i Bujagós o Sinjás, come li chiamava, erano schiavi
provenienti da diverse regioni, i quali conseguirono la libertà e si rifugiarono nelle
isole attualmente chiamate Bijagó (Barros 1882: 716). In particolare Barros
specifica:
«I bujagós… facevano parte di una numerosa banda di schiavi, venduti sul grande mercato di
Guinalà7. Un giorno, d’improvviso, ci fu una sanguinosa rivolta, alla quale seguì
immediatamente la fuga degli schiavi verso l’arcipelago nel quale li troviamo oggi; di isola in
6 Indagini recenti confermano questa tesi individuando un gruppo «atlantico-occidentale» (composto da Bijagó, Balanta, Diolas, Baiotes, Pepel, Nalus, Tendas e Koniaguis) respinto in direzione della costa della Guinea, dalla migrazione verso la parte occidentale dell’Africa del gruppo di popolazioni detto «sudanese» (Fulas, Malinké e Soninkés) durante i secoli XIII e XV (Scantamburlo 1991: 20). 7 Guínala o Guinalà era il regno Beafade che occupava la regione tra il Rio Grande de Buba e il Rio Geba.
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isola essi cedettero il campo ai loro signori, che li inseguirono sempre, fino all’isola di Carache o
di Orango, le ultime e più distanti dal continente» (Barros 1882: 721).
Scantamburlo condivide e fa propria l’opinione di questo autore per avanzare
la sua personale soluzione del problema dell’origine del popolo Bijagó. Secondo
Luigi Scantamburlo, infatti, i Bijagó sarebbero originari della regione di Buba, nel
continente, dalla quale fuggirono raggiungendo l’arcipelago in cui vivono
attualmente. Dai Pepel8 stanziati nella regione di Buba - afferma il nostro autore a
conferma della sua tesi - i Bijagó sarebbero stati influenzati per il tipo di vita
guerriera e per la profonda fede nella trasmigrazione delle anime (Scantamburlo
1991: 19).
Un’altra ipotesi sulle origini bijagó, citata da Gallois Duquette nel capitolo
introduttivo di Dynamique de l’art Bidjogo (1983: 15-29), è quella sostenuta
dall’esploratore austriaco Hugo Adolf Bernatzik. Nel 1928 infatti, dopo aver
trascorso molti mesi nell’arcipelago, accompagnato dall’etnologo Bernardo
Struck, Bernatzik credette di riconoscere nella cultura bijagó tratti di civilizzazione
nilotica9 (Gallois Duquette 1983: 19). Già nel 1616, Manuel Alvares aveva
pubblicato un’opera intitolata “Etiópia Menor” nella quale, dipingendo le guerre
in mare dei Bijagó, designava questo popolo con l’appellativo di «la peggior gente
di questa Etiópia» (Mota 1974: 247).
Il portoghese Landerset Simões (1935: 145-154) e Fernando Rogado Quintino
espressa da Bernatzik. Simões, nella sua “Babel Negra”, sostenne, infatti, che la
cultura bijagó fosse il risultato dell’incontro di varie culture, tra le quali incluse la
leggendaria Atlantide, tentando di avvalorare questa sua affermazione con
l’ipotesi di un movimento migratorio di popolazioni nilotiche dal nord verso
l’Africa occidentale, fino al golfo di Guinea (Simões 1935: 145-154). Per molto
8 I Pepel vivono nella penisola di Biombo e nei dintorni di Bissau e, probabilmente sotto l’influenza malinké, hanno adottato una divisione sociale in caste di “nobili”, dignitari religiosi e schiavi. 9 Hugo Adolf Bernatzik, “Aethiopen des Westens, Forchungsreisen in Portugiesisch-Guinea” Wien: Seiden un Sohn Verlag, 1933.
17
tempo, nonostante l’inesistenza di dati concreti, l’ipotesi dell’origine etiopica dei
Bijagó riscosse un generale consenso.
Anche Fernando Rogado Quintino infatti, accettando le teorie propugnate da
Simões, avvicinò la cultura bijagó alla primitiva cultura etiopica, osservando che
«la tribù bijagó, grazie al suo isolamento, fu l’unica a conservare durante un così
lungo periodo la sua cultura originaria» (1962, 65: 15). Per documentare queste
ipotesi, Quintino analizzò la cultura e la lingua bijagó collegandola alle sue radici
semitiche. Sostenne, ad esempio, che la credenza bijagó in un essere supremo
chiamato Nindo (il cielo) o Ianhu (il giorno, la luce del sole) fosse da ricondursi al
culto del Sole caratteristico della cultura nilotica (Quintino 1964: 15) e arrivò a
sostenere che il termine Ianhu fosse composto dai termini Ea e Anu, le divinità
semite rispettivamente dell’acqua e del cielo (Quintino 1964: 16). Allo stesso
modo ricondusse il termine bijagó omadôk, stregone, al termine Madôk, nome del
figlio della divinità semita Ea (Quintino 1964: 21) e l’espressione bijagó eraminde,
che indica un particolare tipo di entità spiritica, al termine Erihman, principe
semita della malattia, della sofferenza e del tormento (Quintino 1964: 24).
Evidentemente oggi queste elucubrazioni hanno perso di interesse sia per
l’effettiva mancanza di prove, sia per la loro scarsa plausibilità. Sostenere infatti,
come fa Quintino (1962, 65: 15), che i Bijagó conservarono per millenni e
partendo da un’area così geograficamente lontana dall’Africa occidentale
l’originaria cultura etiope, significherebbe a parer mio avanzare l’ipotesi quanto
meno azzardata di una ‘sostanza’ bijagó sempre uguale a se stessa, che sarebbe
passata attraverso i millenni senza alterarsi e senza subire l’influenza del contatto
con altri popoli e altre civiltà, impermeabile al mutamento.
A questo proposito il comandante Teixeira da Mota, l’autore che per primo si
occupò seriamente di ricostruire la storia dei Bijagó e al quale si riferiscono tutti
gli autori successivi, nell’introduzione al lavoro di Santos Lima sostenne
l’impossibilità scientifica di sostenere ipotesi di questa portata, scrivendo con
ironia:
18
«Simões parla di Atlantide, dell’Etiopia, di contatti con i fenici, di parallelismi con gli egiziani
e gli hindu […] di misteriosi legami con popolazioni geograficamente molto distanti, volendo
portarle come prove dell’indecifrabile mistero delle origini dei bijagó» (Mota 1947: 28).
A sua volta, però, avanzò l’ipotesi di un contatto tra i Bijagó e popolazioni di
origine bantu, basandosi su un articolo di Mendes Moreira apparso sulla rivista
“Africa” dell’Instituto Internacional das Linguas e Civilizações Africanas
nell’ottobre 1946, in cui veniva dimostrato il carattere semi-bantu della lingua
bijagó10 (Mota 1947: 36).
Mota riporta inoltre altre due soluzioni attendibili al quesito dell’origine dei
Bijagó, ossia quella proposta proprio da Santos Lima e la tesi presentata da
Carvalho Viegas, che costituisce un ampliamento della precedente. Santos Lima,
infatti, notò che era possibile parlare di società differenti con diverse tradizioni
per ciascuna isola (Mota in Santos Lima 1947: 45). Carvalho Viegas, molto vicino
alle osservazioni di questo autore, considerò il popolo bijagó diviso in quattro
gruppi distinti11: Canhabaque, isola della quale la popolazione sarebbe originaria
di Conhagui, nella Guinea-Conakri, la terra dei Tenda; il gruppo Bubaque, Soga,
Galinhas, originario di Quinara, ora occupata dai Beafade; quello di Orango
Unhocomo, Unhocomozinho, originario di Bandim, in cui oggi si trovano i Pepel
e per finire il gruppo di Caraxe, Caravela, Ponta, Maio, originario di Biombo e
Pecixe, abitati oggi rispettivamente da Pepel e Mandjaque12 (Mota in Santos Lima
10 La lingua bijagó non è stata a tutt’oggi oggetto di studi approfonditi. David Sapir (1971) e Merrit Ruhlen (1987) classificano questa lingua come un “ramo primario indipendente” (Ruhlen 1987: 101) della famiglia atlantico-occidentale. Secondo Christine Henry, «la validità di questo raggruppamento “atlantico-occidentale” non è stata ancora dimostrata. La parentela lessicale tra le tre branche distinte da David Sapir (nord, bijagó, sud) risulta molto labile. Gli altri criteri che sono stati ritenuti giustificare il raggruppamento di queste lingue (classi nominali, permutazioni di consonanti e affissi d’estensione verbale) presentano una tale variabilità […] che la nozione di “lingue atlantico-occidentali” è al giorno d’oggi, se non totalmente rigettata, almeno fortemente discussa» (Henry 1994: 21). 11 Secondo la mia opinione le varianti linguistiche e culturali potrebbero anche essere spiegate considerando i diversi contatti che le isole instaurarono con gli altri popoli e le relazioni che istituirono tra loro in base alla vicinanza geografica, senza dover necessariamente rintracciare differenze nella loro origine. 12 I Mandjaque vivono nella regione di Cacheu e le isole di Jeta e Pecixe. Come i Balanta, praticano la coltura del riso e, come i Pepel, sono stati fortemente influenzati dai Malinké.
19
1947: 32). Studi posteriori, sia portoghesi sia stranieri13, conformemente alle
tradizioni orali raccolte nell’arcipelago, specialmente a Canhabaque, proposero di
assimilare i Bijagó ai Tenda della regione di Coniage nella Guinée Conakry, dai
quali si separarono spingendosi verso Cacine, Bissássema e Quitafine a causa delle
persecuzioni Fula14. A questo proposito Gallois Duquette riferisce che ricerche
contemporanee hanno provato la parentela linguistica dei Beafade con i Tenda,
risalendo così a una origine comune (Gallois Duquette 1983: 19-20). Per quanto
ci riguarda sarebbe necessario studiare seriamente la lingua degli insulari per
verificare o falsificare una eventuale “parentela” con queste etnie.
L’origine dei Bijagó sembra quindi essere piuttosto controversa. In mancanza
di nuove indagini storiche pare difficile trovare una soluzione attendibile al
problema dell’origine di questo popolo. Come sarà apparso chiaro non ci sono
dati certi, ma solo ipotesi labili e confuse. Nella consapevolezza di queste carenze
d’indagine, converrà accettare l’ipotesi già espressa da Francisco de Lemos
Coelho e fatta propria dalla maggior parte degli autori contemporanei (Henry,
Gallois Duquette), secondo la quale i Bijagó, originari del continente, sarebbero
stati spinti verso il mare dall’invasione malinké del XIII secolo15. Se dalla lettura
delle prime relazioni di viaggio portoghesi sembra infatti che i Bijagó si
distinguano completamente dalle popolazioni costiere la cui ripartizione nel XV
13 Mota in Santos Lima 1947: 31; Almeida 1963: 233; Gallois Duquette 1983: 19. 14 I Fula (o Peul) costituiscono il secondo gruppo bissau-guineense per importanza numerica (178.700 secondo il censimento nazionale del 1979). Le designazioni portoghesi distinguono tre gruppi differenti: i Fulas-Fulas e i Fulas-Farros che derivano direttamente dai Peul, e i Fulas-Pretos che discendono da popolazioni conquistate e ridotte in schiavitù dai primi. 15 I Malinké costituiscono il terzo gruppo etnico per importanza numerica (95.200 secondo il censimento nazionale del 1979). Il movimento dei Malinké verso occidente ha conosciuto due forme: l’emigrazione di piccoli gruppi pacifici che s’installarono nel seno di altre popolazioni, e una conquista militare, di cui le tradizioni orali dicono che fu condotta da Tiramang Traoré, uno dei generali di Sundjata (Sundjata salì sul trono del Mali nel 1230 e trasformò gli stati malinké e malinké nello stato più potente dell’Africa occidentale). Il generale Tiramang Traoré, verso la seconda metà del XIII secolo, fondò il regno malinké di Kaabu, chiamato anche Gabu e Kabu, che da vassallo dell’impero del Mali divenne indipendente (Graft-Johnson 1957: 120-122). Gli autori citati (Mota 1974, Scantamburlo 1991 [1978], Gallois Duquette 1983, Henry 1994) legano quindi l’arrivo dei Bijagó nell’arcipelago alle grandi migrazioni che seguirono all’espansione dell’impero del Mali del XIII secolo (Graft-Johnson 1957: 122). All’arrivo dell’avanzata malinké i gruppi che si estendevano dalla Guinea Conakry alla zona del Rio Grande di Buba, come i Beafade, furono spinti verso le coste. I Beafade occuparono così i territori della costa che appartenevano ai Bijagó, costringendoli a rifugiarsi sulle isole (Mota 1974: 244).
20
secolo era già simile a quella attuale16, gli autori recenti (in particolare lo studio più
volte citato di Gallois Duquette) hanno sottolineato la loro origine continentale
mettendo in luce le caratteristiche che i Bijagó hanno in comune con le altre
popolazioni della costa guineense17 respinte dalla infiltrazione Fula, come i
Balanta18, i Beafade e i Nalus19: ad esempio una organizzazione rudimentale della
famiglia e della società politica (Gallois Duquette 1983: 19). La ricostruzione che
gli anziani bijagó fanno del passato del loro popolo e il modo in cui si rapportano
nel presente ad alcune popolazioni del continente, sembrano confermare questa
tesi.
3. L’origine dei Bijagó nell’immaginario popolare
3. 1 Il nome
Secondo quanto riporta Gallois Duquette, i Bijagó si definiscono Ateadjogo,
cioè «noi, gli uomini» (Gallois Duquette 1983: 10). Il termine, per quanto ho
potuto constatare durante la mia ricerca sul terreno20, è composto dalla prima
16 Eccetto per la penetrazione Fula, che si prolungherà fino alla fine del XIX secolo. 17 Si può fare in Guinea una separazione tra popolazioni influenzate dai Fula e popolazioni che hanno conservato la loro organizzazione tradizionale (come ad esempio Balanta, Mandjaque, Brames, Pepel, Beafade, Bijagó, Nalus). Le società di tipo Fula sono molto gerarchizzate, poligame, islamizzate e conoscono la proprietà privata. Quelle di tipo Balanta, come i Bijagó, hanno invece una struttura orizzontale: non c’è stratificazione sociale, la terra è proprietà del villaggio e viene divisa in modo che ogni famiglia abbia quanto necessario per la sua sussistenza, sono società animiste in cui è frequente la monogamia (Gallois Duquette 1983: 20). 18 I Balanta che rappresentano all’incirca un quarto della popolazione totale, sono il gruppo numericamente più importante della Guinea-Bissau (200.700 secondo il censimento nazionale del 1979). Si stabilirono nella valle del Geba fuggendo davanti ai Peul. Spinti dalla pressione demografica cercarono nuovi terreni per coltivare il riso e si spinsero verso nord fino al fiume Cacheu e verso est nella regione di Cuor. Nel XIX secolo sotto la pressione dei Beafade un ramo balanta emigrò a sud nella regione di Tombali. 19 I Nalus occupano la zona costiera sud, alla frontiera con la Guinea Conakry. Hanno subito nel corso della storia diverse influenze e si sono fortemente islamizzati. 20 Non essendoci alcuno studio sulla lingua bijagó e non essendo mai stato realizzato un vocabolario, l’analisi di questi termini è stata effettuata nei limiti delle mie capacità, avvalendomi dell’aiuto di Pedro e di altri locali.
21
persona plurale del pronome personale Até21, cioè “noi”, e dal sostantivo odjokó
che significa l’essere, la persona umana22, l’uomo in senso generale, al di là delle
differenze sessuali. Per indicare una persona di sesso maschile si userebbe infatti il
termine obidì (a Bubaque) o owãto (a Canhabaque) , mentre per designare una
donna la parola okãnto (a Bubaque) o okãto (a Canhabaque). L’individuo qualsiasi
invece, il “tale”, il “tipo”, si definisce otó. Odjokó inoltre è il termine usato per
indicare il numero cardinale 20, sempre nel senso di persona completa, intera,
dato che la mano (koku), cioè il 5, è la base su cui si fonda la numerazione bijagó.
Scantamburlo invece riferisce un termine lievemente diverso, ossia Iadjoko, che
significherebbe «il popolo perfetto» (Scantamburlo 1991: 22). In realtà,
basandomi sul questionario etnografico di Carlos Alberto da Silva (1934: 5),
dattiloscritto e inedito, iadjoko altro non sarebbe che il plurale di odjoko, per cui
significherebbe «gli uomini, il popolo».
Durante il mio soggiorno sul campo, il mio principale informatore, Pedro
Banca, mi ha invece riferito che il termine che i Bijagó utilizzano per designare il
loro popolo è Oranadjoko, “gli abitanti del mondo”. Questa parola è composta dal
termine “ora” che significa “abitante” e dal termine “nadjoko” che vuol dire
“mondo”. Nadjoko inoltre è il plurale di kadjoko “casa”. I Bijagó, giocando con il
doppio senso di questo termine, hanno inventato il termine Orakadjoko per
indicare i bianchi. Questa parola, mi dice Pedro, corrisponde a “gli abitanti della
casa”, alludendo scherzosamente al fatto che, mentre la vita dei Bijagó si svolge
all’aperto, nel “mondo”, i bianchi stanno sempre in casa e non li si vede mai.
Stando a quanto mi dice Pedro, la radice -djoko che accomuna tutti questi
termini (odjoko, nadjoko, kadjoko) è associata all’idea di natura: “natura” in
particolare si dice an’nadjoko, letteralmente “il posto all’interno del mondo”,
21 Che Até sia la prima persona plurale “noi”, risulta anche dai brevi accenni alla grammatica bijagó consultati nelle risposte ai questionari etnografici di Fernandes sull’isola di Bubaque (1946), di Ramos sulle isole di Uno e Formosa (1946), di Leitão su Formosa (1946) e nel questionario di Silva su tutta l’area dell’arcipelago (1934). Questi questionari, dattiloscritti e mai pubblicati, sono conservati negli archivi dell’Instituto Nacional de Estudos e Pesquisa di Bissau. 22 Secondo Fernando Rogado Quintino la parola djoko o djogo significa «la persona nella sua interezza» e Be-djogo, da cui Bijogo, sarebbe il plurale (1969: 885). Gallois Duquette sostiene invece che la parola Bissagos sia il termine francese per designare le isole, corrispondente al portoghese Bijagos in uso dopo il XVI secolo (Gallois Duquette 1983: 10).
22
composto dal prefisso an- che indica il luogo e nadjoko, il mondo, ma tutte le
parole in cui si trova la radice -djoko, ribadisce Pedro, partecipano di ciò che
costituisce la natura attorno a noi. Pedro Banca, mi ha detto inoltre che ogni isola
si distingue con un termine particolare23, ad esempio gli abitanti di Bubaque
vengono definiti con il nome Obagà, gli abitanti di Canhabaque Anhaki (cfr.
Henry 1994), quelli di Soga Asuga o Obidjo etc. Scantamburlo probabilmente
confonde la denominazione specifica dell’isola di Bubaque, con il termine
indicante tutti i Bijagó, per cui scrive che gli abitanti dell’arcipelago si definiscono
non solo Iadjoco, ma anche Iabagà (Scantamburlo 1991: 22).
3. 2. Precarietà dell’identità e occultamento delle origini
Quando si domanda agli anziani dell’isola di Bubaque di spiegare chi sono e da
dove vengono questi Oranadjoko, quando insomma ci si interroga sulla loro
origine, essi rispondono, la maggior parte delle volte, di non conoscere la storia
della genesi. I loro genitori hanno loro insegnato che Nindo, la divinità suprema,
esisteva prima di tutte le cose e che gli iran24, gli spiriti che lo rappresentano in
terra, hanno preceduto la venuta dell’uomo, ma si dimostrano molto perplessi
quando si pongono loro domande più precise sulle origini.
23 Gli abitanti dell’isola di Soga si definiscono Obidjo e, come ci conferma Domingos Antonio Gomes Alves, nella relazione del 1946, Circunscrição Civil dos Bijagós. Respostas sobre Inquerito
Etnografico do Dialecto Bijagó da area do Posto Administrativo da ilha Roxa: «i Canhabaquesi non chiamano l’isola che abitano come generalmente viene chiamata dagli altri. Essi dicono Conhà e gli indigeni Anhaqui. La tradizione racconta che abbandonarono la loro terra d’origine in seguito a una migrazione, essendo partiti dal suolo Nalus. La loro lingua è un dialetto costituito da termini molto differenti dalla lingua dei restanti abitanti dell’arcipelago e i riti religiosi, in specie il fanado, sono simili a quelli praticati dai Nalus» (Gomes Alves 1946: 1). 24 La parola iran, o irã designa, in kriolo, tutte le potenze o gli oggetti rituali, che possono essere, secondo le popolazioni considerate, amuleti fabbricati da un marabutto, geni del luogo, entità sovrannaturali (Henry 1994: 88). Il termine iran probabilmente deriva dal bijagó eraminde, erande, o irande, termine che designa una potenza originariamente legata a un vecchio pitone che vive nel mare (Henry 1994: 89; António Carreira 1961, n°63: 508).
23
Che la maggior parte degli abitanti di Bubaque non sappia con certezza né
quando né da dove i Bijagó siano arrivati a popolare le isole, risulta anche da
quanto ha potuto osservare Luigi Scantamburlo nella sua ricerca. Alle sue
domande al riguardo risposero solo che «lo spirito guardiano Orebok era già
installato all’interno del villaggio all’arrivo dei primi uomini» (1991: 21).
Nonostante nelle isole sia credenza comune che il creatore della terra sia stato un
orebok, uno spirito intermediario tra l’essere supremo Nindo e i Bijagó, i locali non
fornirono al nostro autore molte informazioni riguardo a quando o come
incominciò il mondo. Gli anziani gli raccontarono soltanto che, all’inizio dei
tempi, l’arcipelago era occupato esclusivamente dal popolo Bijagó e che durante
questo periodo il Grande Orebok (Orebok Okotó) stava nella capanna sacra (candja
caukinka o candja caorebok) realizzando cose meravigliose (Scantamburlo 1991: 20-
22). Scantamburlo ne dedusse che i Bijagó non paiono dare importanza alla
questione delle origini.
Christine Henry condivide la stessa opinione, tant’è che liquida la questione
scrivendo che «la società locale non ha praticamente conservato alcuna traccia
della propria storia» (Henry 1994: 26). Gallois Duquette, invece, pur non potendo
non notare la reticenza dei locali nel rispondere a domande sulle loro origini e su
eventuali “parentele” con le etnie del continente, avanza una ipotesi interessante:
«sembra che il sapere riguardo a questo argomento - scrive l’autrice- non sia
condiviso da tutti, ma che sia appannaggio solo di qualche individuo» (Gallois
Duquette 1983: 34). Purtroppo Gallois Duquette, nonostante sia stata l’unica a
riflettere su questa possibilità, non si sofferma oltre sulla questione, lasciandola in
sospeso.
Mi sembra però che l’osservazione di Gallois Duquette possa costituire un
prezioso spunto di riflessione. Rifacendoci all’ipotesi della nostra autrice,
potremmo dedurne che il ricordo delle origini non sia stato perso, ma che venga
conservato e trasmesso in un ambito particolare della società bijagó. Tenterò di
confermare questa tesi basandomi sulla mia esperienza sul campo. Durante il mio
soggiorno, infatti, ho posto diverse volte e a svariate persone domande sulle
origini, non ricevendo in genere alcuna risposta. Dopo aver partecipato alla prima
24
fase (kanunake) dell’iniziazione femminile (manras arebok), però, Tetè, il suonatore
del tamburo sacro (kumbonki b.; bombolon k.) del villaggio di Bijante, vero
detentore del sapere e dell’autorità nella società bijagó, mi ha raccontato la
leggenda dell’arrivo di Baba, il grande spirito (Orebok Okotó) del villaggio di
Ankamona25, presso gli uomini:
«Un giorno un uomo che si dirigeva sulla spiaggia verso il mare per andare a pescare, vide
una canoa ormeggiata con una grossa ancora di ferro. Su questa canoa c’era Baba, non in spirito,
ma già nella sua forma attuale di scultura di legno. L’Orebok Okotó parlò nella lingua dei Nalus,
spiegando che proveniva dalla loro terra per giungere fino ai Bijagó attraverso il mare. L’uomo
lo prese e tornò al villaggio. Lì Baba prese possesso del corpo di una giovane donna, la quale
iniziò a parlare la lingua dei Nalus e spiegò a tutti come dovevano essere fatte le cerimonie e
l’iniziazione» (Tetè, 13 aprile 1997).
Questo mito risulta molto simile a quello raccolto da Verissimo Fernandes,
segretario amministrativo della regione, a Bubaque nel 1964:
«Un giorno, in un’epoca che si perde nella notte dei tempi, un bijagó, che vagava per le sue
occupazioni quotidiane in foresta, arrivò su una spiaggia, dove gli si manifestò una apparizione.
Uscendo dall’acqua portava un’enorme catena d’ancora che trainava dietro di sé e le cui tracce
possono ancora vedersi in un’ansa a sud dell’isola di Bubaque. Questo fantasma spaventò tanto
il bijagó, che cadde a terra inanimato. Riprendendo i sensi, sentì l’apparizione raccomandargli di
non aver paura della sua presenza, perché essa era venuta per il beneficio di tutti gli uomini. Lo
spirito era giunto loro, infatti, per insegnare ciò che era giusto e che doveva essere fatto per il
bene della comunità, affinché, secondo la volontà divina, gli uomini la finissero con i
comportamenti malvagi. Lo spirito dell’apparizione s’incarnò nel bijagó, che immediatamente si
mise a correre attraverso la foresta, traversandola senza ferirsi con le spine, i cespugli e gli altri
ostacoli naturali, come un energumeno, finché arrivò al villaggio. Là, in un’attitudine mistica e
come in estasi, cominciò a predicare i buoni costumi, la filantropia e la vita spirituale, retto da un
potere supremo e immanente» (Verissimo Fernandes 1946: 45).
25 Sia Bijante che Ankamona sono due villaggi dell’isola di Bubaque, nei quali ho svolto le mie ricerche. In particolare il villaggio di Ankamona è considerato dai locali molto importante dal punto di vista rituale. L’Orebok Okotó di Ankamona è considerato infatti essere molto potente e il tempio delle donne in cui è custodito (candja caorebok) è l’unico dell’isola nel quale il fuoco sacro rimane acceso giorno e notte, come vorrebbe la tradizione.
25
Tra le due versioni, a mio avviso, la differenza più significativa è costituita dal
fatto che la prima sottolinea più volte l’origine nalus non solo dell'Orebok Okotó di
Ankamona, ma anche di tutte le cerimonie e dell’iniziazione bijagó. Secondo la
testimonianza di Tetè, infatti i Bijagó di Bubaque, i loro rituali, gli spiriti in cui
loro credono, deriverebbero dai Nalus26. La stessa iniziazione maschile, rito
decisivo per l’andro-genesi bijagó, crea uomini bijagó servendosi di una cerimonia
nalus27. L’origine straniera del rito iniziatico (e in questo caso della cultura bijagó
nel suo insieme), come afferma anche Adriano Favole commentando un articolo
di Suzette Heald sui Gisu28, esprime il carattere inevitabilmente relazionale
dell’identità, che si costruisce mediante atti di distinzione, di separazione da altri
modelli di umanità che rimangono sullo sfondo come possibilità irrealizzate
(A.Favole 1996: 86). L’origine nalus della cultura bijagó viene però generalmente
taciuta o addirittura negata29. «È un segreto - conferma Tetè - che verrà rivelato
solo durante il ritiro iniziatico. Al di fuori di quel momento non se ne dovrà mai
parlare. Non bisogna dimenticare, ma tacere». Con queste parole sembra che ci
voglia dire che i Bijagó, per esistere in quanto tali, per difendere la loro identità e
la loro originalità, devono affermare la loro esistenza occultando il ricordo delle
26 Non essendoci, per quanto ho potuto constatare, studi recenti significativi sui Nalus, le ipotesi avanzate non possono essere verificate che attraverso informazioni fornite dal racconto di singole persone. Potrebbe costituire un interessante progetto di ricerca il tentativo di sviluppare un percorso interpretativo basato su un confronto tra Bijagó e Nalus. Sarebbe a questo scopo importante potersi avvalere di uno studio accurato sulla lingua delle due etnie, lavoro finora inesistente. 27 Degli abitanti di Canhabaque, isola vicina geograficamente e culturalmente a Bubaque, Luís António de Carvalho Viegas, governatore della Guinea Portoghese nel 1939, scrisse che «perseguitati principalmente dai futa-fula e dai fula, si stabilirono nella regione di Cacine, regione della razza nalus… avendo poi, a causa delle persecuzioni dei Beafade, attraversato il mare, andando a stabilirsi nella isola di Canhabaque…. La loro lingua costituisce un dialetto proprio, ben differente dalla lingua dei restanti abitanti dell’arcipelago, e i loro riti religiosi, specialmente quelli del “fanado”, sono uguali a quelli che praticano i Nalus» (Carvalho Viegas 1936-39, II : 370-373). 28 I Gisu sono una popolazione di lingua bantu che abita le pendici del monte Elgon, al confine tra Uganda e Kenya. L’articolo di Heald cui si fa riferimento è “The Ritual Use of Violence:
Circumcision among the Gisu of Uganda”, del quale la traduzione italiana ad opera di A.Favole si trova in Allovio, Favole 1996: 89-127. 29 In realtà non è sempre così, dato che a Verissimo Fernandes, durante il suo soggiorno a Bubaque nel 1946, gli anziani hanno raccontato quanto segue: «I Bijagós sostengono di provenire dal continente di fronte a loro: alcuni dalla regione dei Nalus, altri da quella dei Beafades e dei Pepel, popoli dei quali i Bijagós sono parenti, avendo in comune le stesse radici. La tradizione orale, per quanto oggi i Bijagós ricordano, racconta che essi discendono da quattro principali famiglie arrivando a raggiera da punti
26
possibilità originarie, tacendo la consapevolezza del fatto che gli Altri fanno in
realtà parte della sostanza del Noi.
Francesco Remotti, che ha molto riflettuto sull’argomento30, ci spiega a questo
proposito che l’esistenza del Noi non è un fatto indiscusso e naturale, quanto un
fatto artificiale, convenzionale e coincide con gli sforzi che vengono compiuti per
affermarla (Remotti 1993b: 182-183). Gli Altri si trovano ab origine entro il Noi,
scrive inoltre Remotti (1993b: 179) ed è significativo che il ricordo di questo
inizio in cui Altri e Noi risultavano mescolati, l’intuizione quindi dell’alterità di cui
il Noi è in fondo costituito, affiori in un momento importante come l’iniziazione.
Se la reclusione iniziatica può essere considerata come un tempo e un luogo di
ritiro dalle modalità normali di azione sociale, può essere vista anche - come
suggerisce Victor Turner - come un periodo di riesame degli assiomi della cultura
nella quale si verifica. Turner scrive, infatti, che tra gli Ndembu dello Zambia
«...durante il periodo liminale, i neofiti sono alternativamente costretti e
incoraggiati a meditare sulla loro società... La liminalità spezza , per così dire, la
crosta del costume e dà via libera alla speculazione...» (Turner 1992: 137-138). Al
di fuori di questo periodo, però, è necessario “tacere” - come dice Tetè - forse per
garantire illusoriamente al Noi una stabilità e una solidità che non gli
appartengono. E i Bijagó tornano a essere Ateadjoko, “noi, gli uomini” e
Oranadjoko, “gli abitanti del mondo”, quasi a far credere - come ci suggerisce
Remotti - che ciò che si è “finto” (costruito, modellato) non sia un particolare
tipo di umanità, bensì l'autentico modello di umanità (Remotti 1996: 23).
Anche in questo Noi solido e compatto si producono tuttavia incrinature,
spiragli critici attraverso cui si recupera il ricordo dell’alterità originaria. A questo
proposito mi sembra significativo riportare il fatto che, se, a differenza
cardinali opposti, venendo dall’est (regione dei Bissassima e dei Nalus); da nord-est (regno dei Beafades); da nord (Bissau); e da nord-ovest (regione dei Mandjaque)» (Fernandes 1946: 1-3). 30 Riflessioni su questi temi sono già state esposte in Remotti 1990: 216-270; 1993b: 149-186; 1996: 9-25. Si vedano inoltre sempre di Francesco Remotti, “Appunti per un’antropologia del ‘noi’: identità, alterità, precarietà” in Verso un’educazione interculturale, a cura di L.Operti e L. Cometti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 21-27; e “Per un’antropologia del Noi”, in Sguardi e modelli, a cura di P.Apolito, Angeli, Milano 1993, pp. 135-153.
27
dell’iniziazione maschile nalus31, l’iniziazione bijagó non comporta la
circoncisione, tuttavia, da quanto mi è stato detto sul campo, spesso le persone
che detengono l’autorità nella società bijagó, vanno a farsi circoncidere dai Nalus
per aumentare il proprio prestigio. Gallois Duquette scrive al proposito che sia il
re Coia di Bruce sia Ventura, lo scultore-incantatore di Ancabaz, sono stati
circoncisi e osserva che «la ragione per cui hanno subito lo stesso trattamento dei
Nalus della regione di Catio, non è assolutamente chiara» (Gallois Duquette 1983:
94). Scantamburlo riferisce addirittura che «in passato i Bijagó avevano il rito della
circoncisione, ma oggi solo alcuni vengono circoncisi, generalmente nella regione
dei Nalus, per poter conoscere meglio le tradizioni bijagó» (Scantamburlo 1991:
80). Significativamente Scantamburlo mi ha personalmente riferito che l’ultima
iniziazione maschile bijagó non è stata fatta sulle isole, ma sul continente, nella
terra dei Nalus. Mi sembra di poter intravedere nei casi riportati quasi un gioco di
prestiti e scambi, di nuova apertura al ricordo, con l’effetto che il “mito” che
attribuiva ai Bijagó un’idea esclusiva di umanità viene smarrito. Riavvicinandosi
agli Altri, in questo caso i Nalus, e coinvolgendoli proprio nella pratica con la
quale si diventa uomini bijagó, l’iniziazione, si prende coscienza della precarietà
del proprio modello di umanità e si ammette quindi quella realtà che tanto si
cercava di tenere nascosta, ossia che l’alterità è un ingrediente fondante
dell’identità.
3. 3. Il mito garanzia di identità e metacommento sociale
Per ricostruire il repertorio mitico si è fatto ricorso alle versioni raccolte sul
campo da Gallois Duquette (1983: 34-37), integrandole con i miti riportati su
alcuni questionari etnografici inediti del 1964, rinvenuti negli archivi dell’Instituto
Nacional de Estudos e Pesquisa di Bissau, nonché con le nostre personali
osservazioni. La trascrizione dei miti presenti in questo paragrafo risulterà, per
forza di cose, artificiosamente statica, in quanto al di fuori del flusso inarrestabile
31 Una breve descrizione del matrimonio, delle cerimonie di nascita e di morte e del rito iniziatico nalus si trova in Luís António Carvalho Viegas, 1939, “Guiné Portuguesa” (vol II), Colónia
28
dell’elaborazione culturale. Il repertorio mitico bijagó è infatti sottoposto a una
continua rielaborazione che vede attuarsi una reciproca contaminazione tra
eredità del passato e percezione del presente.
Sarà quindi obiettivo di questo paragrafo tentare una rilettura dei miti bijagó di
creazione dell’umanità, tenendo conto sia della loro trasformazione nel tempo sia
delle variazioni locali cui sono soggetti e cercando di far emergere aspetti ed
elementi che a mio parere rivestono un profondo significato simbolico e che sono
stati finora in gran parte trascurati. La prospettiva che adotterò, cercherà di
mettere in luce come il rapporto con il passato, rappresentato nei miti e nelle
tradizioni orali costituisca, una strategia non solo per indicare, attraverso una serie
di stereotipi e di simbologie, un “dover essere” in rapporto all’ordine costituito
della società, ma anche per proporre un ideale solido di umanità.
I miti presentati in questo paragrafo, sono stati raccolti da differenti autori, in
differenti isole, nell’arco di più di trent’anni. Ciò nonostante, pur essendo frutto
sia di una attività incessante di rielaborazione sia di creatività personale, mi pare di
poter affermare che tutte le versioni riportate si basino su un modello comune
dotato di un profondo significato sociale, che garantisce e giustifica i valori morali
e l’organizzazione della società bijagó.
La prima versione del mito di origine, che mi è stata possibile rinvenire, è
quella che Ramos Adolfo Gomes, amministratore coloniale, riporta nel
documento dattiloscritto Resposta ao Questionario Etnografico de 1946: Bijagós de Uno e
Formosa. Il mito, raccolto sull’isola di Orango, spiega il mistero della genesi con
l’introduzione di una figura femminile procreatrice:
«Nindo creò una okanto, una donna e poi un uomo, per completare la creazione che era già
stata fatta. A questo uomo e a questa donna i Bijagós non attribuirono nessun nome. La donna
un certo qual giorno stava arrampicandosi su un albero e l’uomo, che non aveva niente da fare,
guardando bene, constatò che c’era una differenza rilevante tra la sua costituzione fisica e quella
della donna, al che gli sopraggiunse un dubbio: - Non sarà che Nindo si è sbagliato?
Portuguesa da Guiné, Lisbona.
29
Ma a chi chiedere se non alla donna, dato che non c’era nessun altro? Questa, interrogata,
rispose così: - Questo mio corpo è destinato alla fecondità e alla procreazione: io genererò. E
infatti ebbe una figlia, Oraga, e poi Ogubane e Oracuma e infine la quarta, Omika. Da questi
quattro tronchi discesero molte famiglie che, moltiplicandosi, si sparsero per il mondo»
(Ramos 1946: 1).
Negli stessi anni l’amministratore Santos Lima raccolse sull’isola di Formosa
un’altra versione del mito dell’origine dei Bijagó e la riporta come segue:
«Orrebuco-Okoto, dio, trasformatosi in mortale e accompagnato da una donna, cominciò il
popolamento di qualche isola: si parla di un vecchio dalla pelle chiara e di una donna nera venuti
da non si sa dove con una canoa. Il vecchio si chiamava Baba32, parola che significa “padre
mio”, ma nessuno conosceva il nome della donna. Appena sbarcati, il vecchio intraprese la
costruzione di un tempio (canjam-o) dove visse finché ebbe quattro figli. Allora egli edificò altri
templi nei quali i suoi figli poterono installarsi, poi percorse l’isola per trovare dei luoghi propri
all’iniziazione (manratche) e scelse tra gli uomini un celebrante. Egli disse allora che i segreti
Bijagó non potranno essere trasmessi che in quei luoghi particolari e istituì la confessione
obbligatoria per tutti durante l’iniziazione. Fu Baba che scelse come primo re (oronhom) l’uomo
più valoroso e come prima sacerdotessa (oquinca) la donna più pia. Questa donna offriva sacrifici
sontuosi a Orrebuco-Okoto, a Baba e alla sua sposa, finché un giorno entrambi sparirono
misteriosamente» (Lima 1947: 109).
Ben trent’anni dopo, nel 1976, gli anziani di tre diverse isole dell’arcipelago
delle Bijagó, precisamente Canogo, Unhocomo e Formosa, raccontarono a
Gallois Duquette altri tre miti di creazione, che a mio parere non sono altro che
versioni lievemente differenti dello stesso mito. Scrive dunque la nostra autrice
che Atinobok, un uomo molto vecchio del villaggio di Abu nell’isola di Canogo,
le raccontò questa storia :
«L’inizio del mondo si situa a Orango, che è l’isola che apparve per prima. Poi vennero un
uomo e Akapakama, la sua donna. Essi diedero nascita a quattro figlie: Orakuma, la più anziana,
32 Santos Lima (1947: 598) sostiene che il termine Baba significhi “padre mio”, ma che non sia una parola bijagó (padre si direbbe ote). Per contro, Antonio Carreira (1967: 86) suggerisce che si tratti di un prestito malinké, poiché presso di loro questa parola significa “padre di sangue”.
30
Ominka, quella di mezzo, Ogubane, la più giovane e Oraga, la prediletta. Vennero le piante e gli
animali della natura. Allora ogni ragazza diede nascita a dei bambini formando dei clan, che si
trasmisero i privilegi dell’avola :
• Orakuma, che aveva ricevuto la terra, fabbricò il prima iran a immagine di dio, poi
autorizzò le sue sorelle a riprodurlo per i loro usi. Essa costituì il clan della regalità e della
religione.
• Ominka ricevette i greggi di ippopotami, ma siccome erano feroci, gli uomini dovettero
fare delle cerimonie per ottenere la loro partenza verso il mare aperto.
• Ogubane ebbe il potere sul vento e solo i suoi discendenti potevano pacificarlo, fino al
giorno in cui il clan Oraga se ne attribuì l’incarico, perché aveva già il controllo delle piogge e
voleva poter controllare i raccolti.
• Oraga ricevette la vegetazione e gli animali, che la resero ricca e potente.
All’inizio la più anziana, Orakuma, si mise a far prosperare la terra. Allorché nacque Ominka,
questa utilizzò metodi di lavoro differenti e le due ragazze seguenti fecero allo stesso modo,
ciascuna coltivando secondo le proprie idee, ciascuna nominando i suoi re e i suoi sacerdoti.
Nessuna fece meglio delle altre, fecero solo in modo differente.
Dopo la morte della prima donna Akapakama, trascorse un certo lasso di tempo, poi ella
riapparve giovane e bella. Le sue quattro figlie prepararono col padre una grande festa, battendo
le mani e urlando «Akapakama è morta e ritornata!». Ma la madre era scontenta, poiché riteneva
che la si considerasse come l’incarnazione del malvagio spirito feticeiro e non come una che
ritorna da un viaggio, fresca e bella. Ella decise allora che sarebbe morta ancora e non sarebbe
tornata più» (Gallois Duquette 1983: 34-35).
Lo stesso anno gli anziani dell’isola di Unhocomo riferirono a Gallois
Duquette questa versione del mito:
«Dio fece il mondo; fece per prima cosa la donna poi l’uomo e nacquero dei bambini:
innanzitutto una femmina Orakuma, in seguito un ragazzo di cui non si sa nulla, poi ancora tre
femmine, Oraga, Ogubane, Ominka. Ogni donna divenne madre e trasmise il suo nome. Ogni
clan fece un errore uccidendo un uomo e questa colpa ricade sui discendenti che avranno
l’incarico di espiare» (Gallois Duquette 1983: 35).
Il vecchio re di Abu nell’isola di Formosa raccontò invece il mito delle origini
in questo modo:
31
«All’inizio del mondo, nel grande santuario dell’isola di Orango, una madre diede nascita a
un bambino ermafrodito, Orakuma, poi a tre femmine, Ominka, Oraga, Ogubane. I legami che
unirono Orakuma alle sue sorelle permisero una discendenza di bambini e di donne un anno su
due. E’ il clan d’Orakuma che si mise a scolpire le statuette (bonecas) e fabbricò i primi iran.
Inoltre egli possedeva la terra. Ominka si occupava della pesca. Oraga eseguiva tappeti
intrecciati, mentre Ogubane prese l’incarico dei palmeti e delle risaie» (Gallois Duquette
1983: 35).
L’ultima versione del mito, nella quale si può notare una certa influenza
missionaria, è quella raccolta da Scantamburlo sull’isola di Bubaque.
«Il primo individuo fu una donna chiamata Maria - scrive infatti l’autore - nome che fu
originato dalla prima parola che suo figlio le rivolse. Il suo giovane figlio la chiamò dalla spiaggia
dove giaceva nudo: “Vieni, prendimi”, disse egli, Ma-Ria in Bijagó e questo nome Maria le restò.
Questa donna diede nascita a quattro donne: Orakuma, Oraga, Ogubane (o Onoga nella lingua
di Canhabaque) e Ominka, che sono le quattro antenate mitiche dei quattro clan matrilineari»
(Scantamburlo 1991: 21).
Se ipotizziamo, considerando le varie versioni raccolte nel corso degli anni dai
nostri autori, l’idea di trovarci di fronte a “variazioni” di uno stesso schema,
potremmo mettere in luce le caratteristiche salienti di questo modello fissato dalla
tradizione, ponendoci in una prospettiva comparativa, in modo che le diverse
narrazioni si chiariscano a vicenda.
Nel mito raccolto nel 1946 da Ramos, ad esempio, dio genera prima la donna e
poi l’uomo, mentre nella versione del 1947 di Santos Lima, dio genera solo un
essere di sesso femminile. Nei miti raccolti nel 1976 da Gallois Duquette a
Canogo e a Unhocomo, invece, dio è il creatore della prima coppia, ma nel primo
caso l’uomo e la donna sorgono insieme, anche se si ha memoria solo del nome
della donna, mentre nel secondo la donna precede l’uomo. Nel racconto del re di
Abu dell’isola di Formosa, sempre raccolto da Gallois Duquette e nel mito di
32
Bubaque riportato da Scantamburlo, c’è solo una donna e non si menziona né
dio, né lo sposo.
Dal punto di vista della discendenza, esistono altrettante variabili: nel mito
raccolto da Lima nel 1947, dio e la sua donna generano quattro bambini di cui
non si sa il sesso; nelle versioni di Orango (Ramos 1946) e di Canogo (Gallois
Duquette 1976) invece un uomo e una donna danno nascita a quattro bambine;
nel mito raccolto da Gallois Duquette a Unhocomo una donna e un uomo danno
nascita a una femmina, seguita da un ragazzo di cui non si sa nulla e poi da tre
femmine, mentre in quello raccolto a Formosa una donna sola è all’origine della
generazione degli uomini, dando vita a un essere bisessuato che si autofeconda e
feconda le sue tre sorelle; a Bubaque, invece, secondo Scantamburlo, una donna
ha un figlio di cui non si sa il nome e poi quattro figlie.
Basandoci sui dati che abbiamo finora raccolto, mi sembra di poter notare che
il mito bijagó metta, al momento della creazione, in primo piano la donna e che,
dal punto di vista della discendenza, scarti l’uomo per sostituirgli una
partecipazione ideale, dio, o lasciando altrimenti il posto vuoto33. L’assenza
dell’individuo maschile si ripete anche alla seconda generazione: solo le versioni di
Unhocomo e di Bubaque menzionano la nascita di un bambino maschio, ma non
se ne conosce nulla, nemmeno il nome. Sole, quattro donne daranno origine
all’umanità e saranno le antenate dei clan matrilineari. Ancora una volta non viene
posta la questione di uno sposo partecipe della procreazione dell’umanità.
Potrebbe essere al riguardo interessante notare che nella vita quotidiana, al di là
del mito, la paternità non viene considerata un fatto “naturale”: i bambini
vengono dall’al di là nel ventre delle donne e la madre sceglie un padre ufficiale
solo per dare loro un nome. Se la madre ha del carattere, può anche imporre il
33 Bronislaw Malinowski scrisse riguardo ai miti di origine delle isole Trobriand che «secondo alcune tradizioni vediamo apparire per prime le donne...la donna delle origini viene sempre immaginata gestare figli senza un marito e senza nessun altro partner maschile...si afferma in modo esplicito che l’antenato femminile era senza un uomo e non poteva avere perciò nessun rapporto sessuale» (Malinowski 1927: 101). E aggiunge che «qui ci troviamo di fronte a una teoria dell’origine della vita umana e della nascita [che] offre una buona base teoretica alla matrilinearità dato che, in questa teoria, vediamo giocarsi l’intero processo di formazione della vita nuova fra il mondo degli spiriti e l’organismo della donna, senza uno spazio per un qualche genere di paternità fisica» (Malinowski 1927: 97).
33
suo nome di famiglia al bambino. Il patronimico è effettivamente un’introduzione
molto recente34. Il mio principale informatore, Pedro Banca, commenta i miti e le
mie considerazioni, dicendo che è proprio della tradizione e del pensiero bijagó
mettere la donna all’origine di ogni cosa. «Le donne per natura hanno la priorità
sugli uomini: sono loro infatti le nostre madri - dice Pedro - Per questo sono state
le prime, perché senza le madri, da chi poteva nascere l’umanità? Le donne hanno
generato gli uomini che hanno popolato il mondo (gli Oranadjoko)».
Ancora una volta, nella lettura del mito e dalla testimonianza di Pedro,
l’umanità viene a coincidere con i Bijagó, data l’ambiguità del termine Oranadjoko
che, come abbiamo visto precedentemente, non solo designa i Bijagó, ma significa
anche “gli uomini, gli abitanti del mondo”. Il mito sembra essere quindi una
costruzione ideologica per trasformare una realtà di per sé precaria in una
sostanza dotata di rigidi confini, per creare un Noi che sia non un noi particolare,
ma l’autentico modello di umanità. Più volte, infatti, i racconti orali, nonostante il
repertorio mitico sia sottoposto a continue variazioni locali, sottolineano che
«l’inizio del mondo si situa a Orango, che è l’isola che apparve per prima» (Gallois
Duquette 1983: 34-35) e che prima di allora «...non c’era nessun altro», finché
dalle quattro progenitrici mitiche «...discesero molte famiglie che, moltiplicandosi,
si sparsero per il mondo» (Ramos 1946: 1). Il ricorso al mito sembra quindi
ridurre l’ambiguità e la precarietà della situazione originaria in cui gli Altri e Noi
risultavamo costitutivamente mescolati e intrecciati.
Se infatti, come sostiene Elizabeth Tonkin, che in The social construction of oral
history tratta la costruzione della ‘storia orale’ come una pratica profondamente
sociale, la nostra identità è costituita da ciò che consideriamo essere il nostro
passato a prescindere dalla sua condizione di realtà storica (Tonkin 1992: 113), se
«noi siamo le nostre memorie» (Tonkin 1992: 4), allora il rapporto con il mito
sembra determinare un solido sentimento di identità e, tramite la trasmissione dei
34 Jean La Fontaine in Sex and Age as Principles of Social Differentiation sostiene che: «Non c’è una dimostrazione biologica del legame fisico tra padre e figlio; la paternità è così un costrutto puramente sociale. Un esame del sangue può solo indicare che un dato uomo non è il padre del bambino in questione, ma non indica la paternità» (La Fontaine 1978: 7). Nonostante la medicina abbia
34
valori fondamentali della società attraverso le generazioni, di continuità. Delineare
e supportare le identità o le etnicità sociali richiede un lavoro innovativo e attivo
da parte di molte persone (Tonkin 1992: 130), sostiene infatti l’autrice, e uno di
questi lavori, di queste azioni è il tramandare, il raccontare i miti. Ne conclude che
«ogni rappresentazione di ciò che è passato è costitutiva di identità e può essere
elaborata anche come un supporto di identità» (Tonkin 1992: 135), e che quindi
«identità personale, identità sociale, processi di identificazione e rappresentazione
Passato mitico quindi come fattore di costituzione, costruzione di identità,
attraverso il quale si pone in essere un Noi solido che si propone come autentico
modello di umanità, occultando così i dubbi manifestati dalla narrazione segreta
dell’origine straniera della cultura bijagó. Il racconto dell’origine nalus della
cultura bijagó, infatti, viene trasmesso solo nel momento del ritiro iniziatico che,
come scrive Andrew Lattas, «colloca gli uomini in uno spazio riflessivo in cui essi
sono consapevoli della necessità delle finzioni e del fatto che la falsità si trova al
cuore della realtà ordinata» (Lattas 1996: 155). Nella vita quotidiana, invece,
vengono raccontati pubblicamente solo miti che presentano i Bijagó come i primi
e autentici Oranadjoko, abitanti del mondo, e anche coloro che già sono stati
iniziati fingono di dimenticare, in modo da nascondere agli altri un segreto che si
insinua nell’Identità e la minaccia.
Il mito viene inoltre utilizzato dai Bijagó per garantire e sostenere i valori
morali e il sistema sociale. A proposito del mito, Edwin Oliver James sostiene in
Myth and ritual in the Ancient Near East che, come l'arte non è un tentativo di
riprodurre o di imitare la natura, così il mito non vuole raccontare la storia, ma
proclamare e rendere attivi un aspetto e una rivelazione della realtà e della verità
che trascendono gli avvenimenti storici. Con le parole dell’autore:
«attorno ad avvenimenti di importanza capitale, come la creazione del mondo […] è venuta a
formarsi una narrativa sacra per metterli in relazione diretta con le condizioni e l'organizzazione
evidentemente fatto rapidi passi dagli anni in cui La Fontaine scrisse questa frase, non mi pare che l’affermazione perda di validità, quanto meno in molte parti del mondo.
35
fisiche, culturali, sociali, etiche e religiose esistenti. Lo scopo principale di tali miti è stato quello
di stabilizzare l'ordine costituito sia nella natura che nella società, di confermare le credenze, di
garantire l'efficacia dei culti e di mantenere i sistemi e le condizioni di vita tradizionali mediante
sanzioni e precedenti soprannaturali» (James 1990: 346).
Si potrebbe sostenere, riprendendo James, non solo che il mito Bijagó delle
origini costituisce una realtà originaria e fondante che dà maggiore stabilità alla
struttura sociale e alle attività cerimoniali, fornendo un'adeguata giustificazione
per le cose che si fanno e in cui si crede, ma anche che riflette il modo in cui la
società è organizzata. Nel caso dei Bijagó, infatti, mi pare di poter notare che
l'interesse per il passato si accentri in genere proprio sugli effetti che produce sul
regime esistente e sugli infallibili precedenti da esso creati, che stanno alla base
delle pratiche e dei procedimenti attuali. Come sottolinea Elizabeth Tonkin «la
gente ricorda ciò che ha bisogno di ricordare» in relazione alla società in cui
vivono, al punto che «le differenze tra i tipi di racconto che la gente produce
possono essere ricondotte ai tipi differenti di società delle quali sono membri»
(Tonkin 1992: 11). Il mito bijagó mette in luce, infatti, alcuni aspetti fondamentali
che tutti i membri della cultura bijagó devono necessariamente ricordare.
Innanzitutto l’organizzazione della società, clanica, matrilineare35, in cui i clan
sono considerati eguali per importanza e valore. Questo punto è sottolineato in
particolare dal racconto di Atinobok, in cui le antenate, pur essendosi
specializzate ognuna in una differente attività, coabitano da eguali, tutte sullo
stesso piano, senza discriminazione. Le differenze che caratterizzano le quattro
antenate primordiali, così come i quattro clan, che svolgono effettivamente
incarichi differenti, sono funzionali al buon andamento della società. E’ una
diversità che genera collaborazione feconda e non disaccordo. «Nessuna fece
meglio delle altre, fecero solo in modo differente», dice il vecchio Atinobok
(Gallois Duquette 1983: 34-35).
35 Come abbiamo già detto precedentemente la gente di Bubaque dice di discendere da quattro antenate primordiali, Orakuna, Ominka, Ogubane e Oraga. Allo stesso modo che ogni Bijagó discende da parte di sua madre da una delle quattro antenate mitiche, ogni villaggio appartiene a uno dei quattro clan.
36
I miti analizzati mostrano il legame privilegiato che la donna intrattiene con le
cose sacre:
«Orrebuco-Okoto, dio, trasformatosi in mortale e accompagnato da una donna» (Santos
Lima 1947: 109); «Fu Baba che scelse come prima sacerdotessa (oquinca) la donna più pia»
(Santos Lima 1947: 109); «Orakuma, che aveva ricevuto la terra, fabbricò il primo iran a
immagine di dio poi autorizzò le sue sorelle a riprodurlo per i loro usi. Essa costituì il clan della
regalità e della religione» (Gallois Duquette 1983: 34); «Dio fece per prima cosa la donna»
(Gallois Duquette 1983: 35); «All’inizio del mondo una madre diede nascita...nel grande
santuario dell’isola di Orango» (Gallois Duquette 1983: 35).
Sottolineano inoltre l’ambiguo rapporto della donna con la nascita e la morte,
rapporto che, come vedremo nei prossimi capitoli, è un punto fondamentale del
pensiero bijagó. La donna è infatti il primo essere a venire al mondo, il primo a
morire e anche il primo a ritornare dalla morte alla vita, per poi scegliere di morire
ancora e definitivamente:
«Dopo la morte della prima donna Akapakama, trascorse un certo lasso di tempo, poi ella
riapparve giovane e bella. Le sue quattro figlie prepararono col padre una grande festa, battendo
le mani e urlando “Akapakama è morta e ritornata!” Ma la madre era scontenta, poiché riteneva
che la si considerasse come l’incarnazione del malvagio spirito feticeiro e non come una che
ritorna da un viaggio, fresca e bella. Ella decise allora che sarebbe morta ancora e non sarebbe
tornata più» (Gallois Duquette 1983: 34-35).
Il mito evidenzia infine il posto della donna nell’economia domestica e
agricola:
«Ominka si occupava della pesca. Oraga eseguiva tappeti intrecciati, mentre Ogubane prese
l’incarico dei palmeti e delle risaie» (Gallois Duquette 1983 : 35).
37
Capitolo II
Dai primi contatti con gli europei all’indipendenza della Guinea Bissau
Obiettivo di questo capitolo è delineare per sommi capi i tratti del passato
bijagó che possono risultare importanti per comprendere l’attuale situazione
sociale e per mettere in luce quali valori fondamentali della società siano stati
tramandati attraverso le generazioni e quali trasformazioni abbiano subito con lo
scorrere del tempo. Si cercherà, combinando i dati forniti da recenti indagini
Henry 1980, 1989, 1994) con la documentazione storica ed etnografica
disponibile (letteratura di viaggio portoghese e resoconti etnografici consultati
personalmente presso l’Instituto de Investigação Científica Tropical, l’Instituto
Superior de Ciências Sociais e Política Ultramarina, la Societade de Geografia, il
Museo etnografico e la Biblioteca della facoltà di antropologia dell’Università di
Lisbona) di ricostruire il passato del popolo bijagó, tracciando un convenzionale
percorso nel tempo costituito di tappe fondamentali in successione. Il fattore
temporale ha introdotto nella società bijagó profonde trasformazioni economiche,
sociali e culturali: sarà nostro compito, per quanto possibile, analizzare, attraverso
le testimonianze storiche, le principali ragioni per cui determinate situazioni sono
mutate, intaccando la configurazione dell’intera struttura sociale.
38
1. Un passato di fieri guerrieri
Navigando nelle acque dell’arcipelago, è, al giorno d’oggi, molto difficile
incontrare imbarcazioni bijagó. Generalmente, infatti, quando devono spostarsi
via mare, i Bijagó si rivolgono ai pescatori Nhominca per ottenere un passaggio, o
si imbarcano sulle canoe a motore degli europei che abitano nelle isole. Ormai le
canoe “tradizionali”, osserva Henry (1989b: 43), si trovano abbandonate nei
pressi del porto e servono solo più a far giocare i bambini. L’ultima persona che
ebbe il privilegio di ammirare le grandi piroghe da guerra bijagó, fu l’etnologo
austriaco Hugo Adolf Bernatzik, verso la fine degli anni venti.
Il re di Bijante, notando l’interesse con il quale Bernatzik osservava e
fotografava l’imbarcazione, sfidò l’europeo: «la mia piroga è più veloce di una
delle vostre canoe a motore da bianchi» (Bernatzik 1967: 175). Bernatzik accettò
la sfida, proponendo una regata tra le due imbarcazioni. Con grande orgoglio dei
rematori bijagó, la gara si concluse con la vittoria della grande piroga tradizionale
(uruté, b). Il re allora raccontò a Bernatzik che «non era raro, nei tempi passati,
vedere queste piroghe solcare il mare alla velocità del vento» e il nostro autore ne
concluse che «senz’alcun dubbio, gli avi del re furono audaci pirati e il loro sangue
indomito scorre ancora nelle vene dei loro discendenti» (Bernatzik 1967: 177).
L’osservazione di Bernatzik, alla luce dei resoconti di viaggio dei secoli passati
e delle recenti ricostruzioni storiche, si rivela fondata. Già nelle prime
testimonianze raccolte sul loro passato, risalenti al XV secolo, i Bijagó vengono
dipinti come un popolo di audaci marinai e di spietati guerrieri, temuto dai
commercianti che solcavano le acque dell’arcipelago e dalle popolazioni costiere.
L’incontro tra i Bijagó e il mondo occidentale è legato alle grandi spedizioni di
scoperta che i Portoghesi intrapresero nel XV secolo36. In base alla ricostruzione
di Henry, la prima menzione dell’arcipelago delle Bijagó e dei suoi abitanti appare
nella relazione che Luis de Cadamosto fece del suo secondo viaggio sulle coste
dell’Africa, nel 1457. Questo gentiluomo veneziano, che aveva allora ventidue
36 La letteratura portoghese di viaggio prodotta tra il XV e il XVII secolo rappresenta, pur nella consapevolezza delle sue carenze, la più ricca fonte che noi possediamo sui domini lusitani in Africa.
39
anni, navigava verso le coste della Fiandra, quando fu trattenuto a Capo Saint-
Vincent per il cattivo tempo. Incontrò lì l’Infante Dom Henrique37 e si fece
raccontare le diverse cose meravigliose dei nuovi paesi di cui l’Infante aveva
intrapreso l’esplorazione. Non avendo altri progetti che di impiegare la sua
gioventù per far fortuna, si fece ingaggiare al servizio di quest’ultimo. La sua
caravella effettuò così un primo viaggio lungo le coste africane, per
intraprenderne poi un secondo insieme al nobile genovese Uso di Mare. Nel
corso del loro secondo viaggio, furono i primi europei a raggiungere il Rio
Grande (il fiume Geba). Al largo di questo estuario si intravedevano delle isole ed
essi decisero di raggiungerle (Henry 1994: 27):
«algune Ixole vnde nuj determinassemo de uoler sauer in questo luogo qualche nuova de
questo paexe subito metessemo anchora e la matina seguente el vene ali nostri nauilij doe
almadie38 che sono de quelle sue barche antedite disopra le quale in verita erano molto grande e
squasi che vna de essa era cossi longa come vna dele nostre carauelle ma non si alta e in questa
giera piu de 30 negri laltra era menorj et hauea da cercha 16 homini nuj vedendoli venir vogando
molto velozemente con li soi remj pur nel modo soprascritto e dubitandose algun prendessemo
le arme in man per star a ueder quello che volesseno far...» (Cadamosto [1508] 1948: 72).
L’interprete di bordo non riuscì a comprendere gli indigeni né a farsi intendere
da loro, sicché due giorni dopo le caravelle presero la rotta del ritorno. Nel corso
di questo primo contatto, secondo le ricostruzioni storiche, dei Bijagó con gli
europei, gli indigeni sventolarono un drappo bianco, usandolo con spontaneità
come simbolo occidentale39:
37 Figlio di João I di Portogallo, il principe Henrique (1394-1460) fu patrono degli esploratori e uno dei primi geografi. In onore dei viaggi e delle scoperte che ispirò divenne noto con il nome di Henrique il navigatore (Compton’s Interactive Encyclopedia 1995: voce Henry the Navigator). 38 Almadie: piroghe. 39 Potrebbe essere interessante constatare che questo fatto storico divenne leggenda e Gallois Duquette ne riporta la parte che le fu raccontata a Egara, nell’isola di Unhocomo, nel giugno 1976: «Un tempo c’era un re a Unhocomozinho e a Orango e si chiamava Assendu Apa. Quando seppe che arrivavano i Portoghesi, egli fece portare una vacca bianca accompagnata da un drappo bianco all’isola di Unhocomo. I Portoghesi facevano guerra all’Africa, aiutati dai Fula e dai Mandinga ed erano armati di ogni sorta di fucili, lance e coltelli. Il re attese di fronte al santuario del villaggio di Equinar, solo, poiché tutta la popolazione era fuggita nella foresta. […] I Portoghesi domandarono perché avevano visto una vacca e un drappo bianco. Il re fece rispondere che nessuno gli aveva mai detto nulla a questo proposito, ma che gli era parso che il colore bianco incitasse alla pace.
40
«Costoro quando ne fono apresso leuono vn fazuol biancho ligado a vn remo quasi im
modo che domandaua segurta e nuj li respondessemo in quello modo» (Cadamosto [1508]
1948: 73).
Il fatto ci fa dedurre che i Bijagó avevano già probabilmente avuto contatto
con i bianchi, sia nelle loro isole, sia sul continente o quantomeno ne avevano già
sentito parlare dalle popolazioni vicine.
La seconda menzione dei Bijagó si trova nel seguito del testo di Cadamosto,
dove egli relaziona il viaggio che effettuò Pedro de Sintra fino a Capo Mesurado,
al di là della Sierra Leone, nel 1460. Il racconto gli fu fatto da un giovane
portoghese che, dopo aver svolto presso di lui la funzione di segretario, seguì
Pedro de Sintra, gentiluomo della casa di re Alfonso V:
«prima el predito mio amigo me disseno che ierano stadi a quelle sopradite doe Ixole grande
e habitade e che in vna de esse dismonta in terra e parlareno con loro negri habitanti de quelle
Ixole ma che non sono intessi e andarono ale soe habitation alquanto fra terra le qualle ierano
casaze de pagia pouerissime e in algune de quelle case atroua statue de idole de legno e che per
quello che i poteano de loro comprendro questi negri sono idolatri e adorano quelle statue»
(Cadamosto [1508] 1948: 74-75).
Ricerche contemporanee (Scantamburlo 1991: 18; Henry 1994: 29)
sostengono, tuttavia, che la prima descrizione dettagliata dei Bijagó sia stata scritta
nel 1594 da André Álvares de Almada, autore del Tratado Breve dos Rios de Guiné do
Cabo-Verde. Questo commerciante capoverdiano, nativo dell’isola di Santiago di
Capo-Verde, che viaggiava sul fiume Senegal verso la Sierra Leone, fu un
osservatore degno di fiducia dei costumi dei paesi che attraversò: dedica, infatti,
un intero capitolo ai Bijagó, indicando una toponimia delle isole dell’arcipelago
pressoché uguale a quella che noi conosciamo attualmente e fornendo dati
- Dite al re che egli ha molta fortuna, risposero i Portoghesi, poiché se il drappo fosse stato rosso o la
vacca nera vi avremmo uccisi tutti […]» (Gallois Duquette 1983: 28-29).
41
sull’attività bellica, sull’organizzazione sociale e sulla divisione del lavoro tra
uomini e donne.
Almada infatti descrive i Bijagó come guerrieri perpetuamente in battaglia
contro i Buramos (Brame40, Pepel e Mandjaque), i Beafade o ancora tra di loro,
cioè un’isola contro l’altra e osserva che
«gli uomini non fanno che tre cose - la guerra, costruire delle imbarcazioni e raccogliere vino
di palma. Sono molto disciplinati nell’arte della guerra. Sono dei grandi fanti, la loro arma
principale è una zagaglia a doppia lama che si chiama “canico”41» (Almada [1594] 1964:
316).
I Bijagó, sempre secondo le osservazioni di Almada, non escono dalle loro
isole che per andare a guerreggiare con «le loro piroghe che sono grandi e
trasportano molta gente42» (Almada [1594] 1964: 317). Tutte le attività riguardanti
il rifornimento dei viveri restano invece sulle spalle delle donne:
«le donne costruiscono le case, mietono, pescano, raccolgono i molluschi, fanno tutti i lavori
che altrove fanno gli uomini»43 (Almada in Brasio 1964: 317).
40 I Brame, sotto la pressione dei Malinké, si spinsero fino all’isola di Bolama, nella quale ancor oggi vivono. 41 Quest’oggetto ka�ako, arma tradizionale dei Bijagó, è al giorno d’oggi l’insegna dei capi ed è ancora portata dagli uomini in certe occasioni rituali. I Bijagó utilizzavano anche sciabole, frecce e si proteggevano con uno scudo rotondo. 42 Teixeira da Mota sottolinea che tutti i testi antichi pervenutici parlano dell’abilità dei Bijagó in mare e delle loro notevoli canoe, grandi e dotate di sculture rappresentanti animali (generalmente teste di vacca) ad adornare la prua. La loro tradizione marittima - che era essenzialmente di guerra - si perse senza trasformarsi in attività pescatoria (Mota 1951: 662-665). Oggi la riproduzione delle canoe da guerra in piccoli modellini destinati ai turisti è uno dei temi preferiti dagli scultori bijagó. Non avendo più alcuna utilità pratica, la canoa da guerra è totalmente scomparsa. Sopravvive il suo ricordo nella vita artistica e nell’ambito rituale. 43 La divisione del lavoro secondo il genere, che vede le donne occuparsi di tutto ciò che rientra nella sfera della produzione e della riproduzione, è un tratto caratteristico della società bijagó, sottolineato dalla maggior parte degli autori. Come Almada, anche padre Manuel Alvares, infatti, nota che tutto il lavoro è eseguito dalle donne e precisa che «sono le donne che si incaricano di tutto, esse lavorano la terra che hanno prima bruciato e dissodato, loro costruiscono le case, e come gli schiavi servono noi, loro servono gli uomini che, finché sono a terra, non si occupano che di raccogliere il vino di palma e di godersi la vita» (Alvares in Henry 1994: 32). Marquez de Barros scrive al proposito che «tra i bujagós gli uomini trascorrono il loro tempo a pescare il pesce o nella foresta a bere vino di palma,
42
Questi primi dati storici, si rivelano preziosi per comprendere diversi aspetti
dell’attuale società bijagó, che, astraendo dal contesto storico, rimarrebbero
piuttosto oscuri. Innanzitutto giustificano la grande importanza attribuita, in una
società attualmente costituita da pacifici coltivatori, ai simboli marziali,
specialmente nell’ambito rituale. Anche Scantamburlo suggerisce che diversi
aspetti legati all’iniziazione maschile, quali la struttura militaresca del campo nella
foresta, il fatto i giovani non possano avere una famiglia in modo da non avere
legami e da essere sempre pronti alla guerra (come vedremo nel capitolo VI,
paragrafo 4) e il loro atteggiamento fiero e combattivo (vedi tabella 6, capitolo VI,
paragrafo 2), rappresentino il ricordo di questo bellicoso passato (Scantamburlo
1994: 458, 459).
L’ethos guerriero dei Bijagó è testimoniato oggi anche dalla cerimonia
femminile dufuntu, di cui parleremo nella terza parte della tesi, nel corso della
quale le donne, possedute dagli spiriti di uomini morti prima dell’iniziazione, si
trasformano in virili guerrieri: abbandonano infatti i loro figli e la loro casa, per
impugnare le armi, intonando inni marziali.
Almada aggiunge inoltre una nota che Henry definisce «enigmatica» (1994: 30),
ma che diviene facilmente comprensibile alla luce di quanto conosciamo
dell’atteggiamento bijagó di fronte alla morte, che prevede diverse possibilità di
ritorno dall’al di là (capitolo VII). L’autore capoverdiano scrive infatti che:
«I vecchi, principalmente gli uomini, quando vogliono morire muoiono e di questo non si ha
alcun dubbio, essi non fanno altro che trattenere il respiro e muoiono» (Almada in Brasio
1964: 318).
Altri autori portoghesi (Labat 1728; Barros 1882) notarono la facilità con la
quale i Bijagó presi prigionieri preferivano suicidarsi piuttosto che perdere la
libertà. Padre Labat ci parla del disprezzo per la vita dei guerrieri Bijagó, legato
alla credenza nella trasmigrazione delle anime, con queste parole:
mentre le donne lavorano la terra, seminano e raccolgono il mantenimento per sostenere il marito e i figli» (Marques de Barros 1882: 713).
43
«Il più piccolo problema li porta a alzare le loro armi e il loro furore contro se stessi: essi
s’impiccano senza problemi, si lanciano nel vuoto, s’annegano; i più coraggiosi si pugnalano»
(Labat 1728: 169 in Henry 1994: 45).
E Marquez de Barros, un secolo dopo, conferma che:
«La morte per un Bijagó non è niente più che un breve sonno, e a causa di questa certezza di
essere istantaneamente reincarnati nel loro paese, un Bijagó si mette la corda al collo e si impicca
con la stessa facilità con cui noi ci mettiamo la cravatta. Il caso più recente è quello che accadde
a Bissau. Una piroga di Bijagó lasciò il porto, dimenticando a terra uno dei loro compagni.
L’abbandonato, venuta la bassa marea, malgrado i suoi tentativi e le sue grida non riuscì a farsi
sentire dalla piroga, che si era già di molto allontanata. Fece allora questo ragionamento: “Loro
mi hanno abbandonato, ma io arriverò per primo nel mio paese” e allo stesso istante, afferrata
un’ascia, si tagliò la gola» (Barros 1882: 716).
2. La guerra e l’organizzazione della società
Le informazioni raccolte da Alvares d’Almada, in particolare sulle imprese
militari dei Bijagó, sono confermate dalle fonti del XVII secolo44, le quali
mostrano che i Bijagó avevano raggiunto in quell’epoca il vertice del furore
guerriero. Nel 1606, infatti, Padre Baltasar Barreira scriveva che
«questi Bijagós vivono di assalti continui che fanno nei regni limitrofi, e essendo grandi
marinai, molto valorosi e abili con le armi, hanno saccheggiato e distrutto tutta quella costa, che
è percorsa da molti fiumi e estuari» (Mota 1974: 246).
L’anno seguente, il re del Portogallo invitò Sebastião Fernandez Cação a
installarsi nella regione Beafade, come avevano nel frattempo già fatto molti
44 Per delineare una traccia dei principali documenti portoghesi di questo secolo si è fatto ricorso al testo di Teixeira da Mota del 1974, integrandolo con i dati raccolti da padre Antonio Brasio nella sua Monumenta Missionaria Africana (1958-1968) e con le analisi proposteci da Henry nella sua tesi di dottorato (1994).
44
missionari gesuiti. Cação sollecitò a più riprese un intervento portoghese nella
regione, al fine di interrompere gli assalti ai villaggi della costa da parte dei
guerrieri bijagó (Cação in Brasio 1968: 246) e Padre Fernão Guerreiro, nel 1608,
arrivò addirittura a scrivere al re del Portogallo, nel suo rapporto annuale, che i re
beafade sarebbero stati pronti a convertirsi e a diventare suoi vassalli in cambio di
un aiuto che mettesse fine alle incursioni delle piroghe bijagó nei loro territori45
(Guerreiro in Brasio 1968: 206-207).
Padre Manuel Alvares, nella sua Etiopia Menor del 1616, abbonda di
informazioni del medesimo genere, descrivendo i Bijagó come guerrieri che non
vivono che delle loro rapine e che in mare assalgono le imbarcazioni portoghesi e
in terra bruciano case, villaggi e chiese (in Mota 1974: 247).
Come appare chiaro da queste fonti, le grandi vittime delle incursioni dei
Bijagó erano i Beafade. La regione del Rio Grande de Buba, territorio dei regni
beafade, risultava particolarmente esposta agli attacchi dei Bijagó, sia per la sua
vicinanza all’arcipelago, sia per la presenza di numerosi bracci di mare, che
penetrano in profondità nell’entroterra (Mota 1974: 259-260). Tuttavia le piroghe
bijagó non si limitavano a questa ristretta area geografica. Esse risalivano il Rio
Cacheu e il Rio Mansoa, portando lo scompiglio nei villaggi felupe46e mandjaque;
affliggevano i territori pepel e balanta47, raggiungendoli attraverso il Rio Geba;
attaccavano i Nalus a sud del Rio Tombali.
Queste pratiche guerriere, secondo Henry, erano razzie, scorrerie, non avendo
il fine di conquistare un territorio, ma solo di prelevare un bottino (Henry 1989:
196). Ma se noi diamo fede a Francisco de Lemos Coelho, commerciante e
negriero capoverdiano, autore di due Descrizioni della Costa della Guinea (1669,
45 Perseguitati dai Bijagó, questi re beafade erano praticamente obbligati a vivere nascosti nella foresta, tant’è che nel 1607 Mangalí, re di Bisegue, un regno beafade situato tra il Rio Grande de Buba e il Rio Tombali, giunse a scrivere personalmente una lettera al re di Portogallo, promettendogli di abbracciare il cristianesimo e di sottomettersi all’autorità lusitana, se avesse inviato delle navi a interrompere gli atti pirateschi dei Bijagó (Brasio 1968: 241-242). 46 I Felupe sono un sotto-gruppo della famiglia diola che popola la Casamance senegalese e sono culturalmente vicini ai Balanta. 47 I Balanta sono il gruppo attualmente più numeroso della Guinea-Bissau. Risicultori, patrilineari e animisti, i Balanta si dividono in cinque sottogruppi, alcuni dei quali hanno subito delle influenze malinké. Secondo le loro tradizioni orali, i Balanta si sarebbero istallati nella valle del Rio Geba,
45
1664), i Bijagó dovevano conoscere un altro tipo di guerra. Essi non lasciarono
senza dubbio il loro territorio d’origine senza combattere e dovettero in seguito
difendere quello che avevano guadagnato contro i nuovi attacchi dei Beafade,
come abbiamo messo in evidenza nel precedente capitolo. «Vedendo che non
potevano fuggire oltre, fecero una forza della loro debolezza e da vinti, divennero
vincitori», dice Lemos Coelho (Coelho in Peres 1953: 1769). Si può dunque
supporre che nel corso dei secoli, a partire dal momento in cui raggiunsero le
isole, i Bijagó svilupparono un ethos guerriero che può non essere quello delle
loro origini, ma che divenne necessario per mantenere l’indipendenza.
Mi sembra di poter affermare che la necessità dell’attività guerresca modellò
anche l’organizzazione sociale. Una forte organizzazione in classi d’età e una
divisione sessuale del lavoro che lascia alle donne tutte le attività al di là di quella
della guerra (capitolo III, paragrafo 2), rispondeva probabilmente a una esigenza
politica primaria: fare di ogni uomo un guerriero e della comunità un esercito.
Ancora oggi, infatti, mentre il bambino viene educato al combattimento e i suoi
giochi preferiti sono miniature di armi e di piroghe da guerra, simbolo dell’ethos
guerriero, alla bambina vengono insegnati i lavori agricoli e le occupazioni legate
alla cura della casa e della famiglia (capitolo VI, paragrafo 1).
Una conclusione simile si può trarre anche dallo studio di Avelino Teixeira de
Mota, che sostiene che le attività guerresche dei Bijagó tra il XVI e il XVII secolo,
abbiano contribuito a formare il tratto che caratterizzano ancor oggi la loro
società, ossia «l’attività produttiva delle donne. […] Se la maggior parte del loro
tempo era dedicata, infatti, alla guerra, era logico che le donne dovessero costruire
le case, fare i lavori, etc.» (Mota 1974: 270).
Per quanto riguarda invece la questione del lavoro femminile, lo storico inglese
John Thornton (1983) giunge a conclusioni sensibilmente differenti. Basandosi
essenzialmente sul testo di Lemos Coelho (1669-1684), nel quale sono contenute
informazioni riguardanti il forte tasso di poliginia e l’intensa attività delle donne,
Thornton avanza l’ipotesi che nella società bijagó si fosse verificato un grande
fuggendo davanti ai Peul. Sotto la pressione demografica essi si sono spinti verso nord, nella valle del Rio Mansoa, poi fino al Rio Cacheu.
46
afflusso di schiave di sesso femminile e che fossero queste ultime a svolgere i
lavori più pesanti. A sostegno di questa tesi si potrebbe citare Hugo Adolf
Bernatzik (1967: 46) il quale sosteneva che le donne prigioniere venissero accolte
con benevolenza come spose per i giovani guerrieri, mentre gli uomini erano
venduti come schiavi. Bisogna allora pensare, per seguire Thornton e Bernatzik,
che i Bijagó vendessero i prigionieri maschi e si tenessero le donne conferendo
loro uno statuto inferiore?
Tentare di rispondere a questa domanda ci porta a riflettere sulla sorte riservata
ai prigionieri in questa società. A partire dal momento in cui i Portoghesi
cominciarono a comprare schiavi dai vari gruppi etnici presenti in Guinea, nel
XVI secolo, i Bijagó misero sul mercato una parte dei prigionieri frutto dei loro
assalti. È possibile che questo nuovo redditizio commercio abbia intensificato le
loro razzie, anche perché gli schiavi venivano scambiati con vacche, animali
molto apprezzati dai Bijagó e che hanno una grande importanza nella loro vita
religiosa (Mota 1974: 267). La società bijagó non era quindi una società schiavista,
nel senso che avrebbe utilizzato degli schiavi essa stessa, ma una società
predatrice e rivenditrice di schiavi (Henry 1994: 42).
I diversi testi che parlano della tratta degli schiavi in questa regione (Golberry
1802; Carreira 1981; Mota 1974; Henry 1989b) non forniscono però alcuna
precisazione sul sesso degli schiavi venduti, né sul modo in cui venivano trattati i
prigionieri tra il momento della loro cattura e quello della loro vendita. Secondo
quanto riporta Henry (1994: 42), Cação (1607) e Alvares (1616) scrissero che i
Bijagó utilizzavano gli ex prigionieri come spie per dirigere razzie nei villaggi, dai
quali erano stati precedentemente catturati. Niente obbligava questi uomini a
rendere ai Bijagó un tale servizio, soprattutto considerando il fatto che,
ritrovandosi nella loro terra di origine, si offriva loro una facile occasione per
denunciare la loro situazione di prigionieri. Se ne deve dedurre che avessero
trovato nelle isole un nuovo status sociale che preferivano all’antico? Molte delle
società dove i Bijagó si avventuravano conoscevano (e conoscono ancora) una
stratificazione sociale in caste e utilizzavano gli schiavi: è il caso dei Brame, dei
Mandjaque, dei Pepel e dei Beafade che subirono una forte influenza malinké. Al
47
contrario, niente del genere esisteva tra i Bijagó; se questi ultimi avessero
conosciuto una divisione in caste, o una regalità centralizzata richiedente schiavi,
gli osservatori del XVI e del XVII secolo l’avrebbero segnalato come l’hanno
fatto per le popolazioni vicine. Lo status onorifico che i Bijagó conferiscono
attualmente a degli uomini chiamati “prigionieri”, gli orase (capitolo VIII,
paragrafo 4), che hanno il privilegio di assistere alle cerimonie femminili,
potrebbe far pensare che i prigionieri maschi che rimanevano presso i Bijagó non
fossero considerati degli inferiori.
Nonostante sia molto difficile avanzare ipotesi, data la scarsità delle
informazioni riportate nelle fonti, si potrebbe supporre, contrariamente alle analisi
proposteci da Thornton, che, anche se la maggior parte dei prigionieri venivano
venduti come schiavi, alcuni venissero integrati nella società bijagó e questo
indipendentemente dal sesso. Come abbiamo infatti rilevato precedentemente,
Thornton interpretava la forte poliginia dei Bijagó come indice di un afflusso di
donne prigioniere incaricate di svolgere i lavori pesanti del villaggio. In realtà il
privilegio di avere più mogli poteva non concernere che certe categorie di uomini
privilegiati. Henry, facendo proprie le opinioni di Alvares (1616) e Lemos Coelho
(1669-1684), conferma che le vedove sposavano i guerrieri famosi e rimarca che i
ragazzi erano scartati dalle donne (Henry 1994: 43). D’altra parte, se il lavoro
pesante era tutto sulle spalle di una categoria di donne prigioniere, come si spiega
che dopo la “pacificazione” le donne abbiano continuato a fare praticamente lo
stesso genere di lavori? Ciò nonostante, Henry concorda con Thornton per
quanto riguarda l’acquisto di schiave con fine matrimoniale da parte degli uomini
bijagó e sostiene che il matrimonio con donne schiave determinò probabilmente
l’affiliazione al clan paterno dei bambini nati da questa unione, da cui
l’introduzione di elementi di patrifiliazione48 (Henry 1994: 44).
48 Questa influenza è al giorno d’oggi sensibile: i Bijagó valorizzano molto più il ruolo di marito e di padre che quello di fratello e di zio, come potrebbe sembrare normale in un contesto matrilineare.
48
3. Il progetto Beaver
Secondo quanto sostiene Henry (1994: 45), il XVIII secolo non ci fornisce
molte fonti: all’inizio del secolo il libro di Jean-Baptiste Labat Nouvelle Relation de
l’Afrique occidentale (1728), pochi anni dopo quello di Jean Barbot A Description of
the Coasts of North and South Guinea (1732), e un racconto di Antonio Coelho
(1749); alla fine del secolo il resoconto di viaggio di Silvain Meinard Xavier
Golberry, Fragmens d’un voyage en Afrique fait pendant les années 1785, 1786 et 1787,
pubblicato nel 1802 e quello del luogotenente inglese Philip Beaver, African
Memoranda, pubblicato molto più tardi.
Questa rarità di fonti può essere ricondotta al fatto che in questo periodo la
costa e l’arcipelago sono teatro di un’intensa attività marittima e commerciale e
costituiscono uno dei punti fondamentali della tratta degli schiavi49 (Henry 1994:
45). Gli interessi coloniali si moltiplicano e i rapporti con i Bijagó si fanno più
tesi. Occidentali di tutte le nazionalità rivaleggiano per fare affari con i lançados -
avventurieri bianchi o meticci “lanciati” all’interno delle terre per la raccolta delle
mercanzie da vendersi a coloro che navigavano sulle coste - e per utilizzare al
meglio i servizi dei gurmetes50 - africani più o meno cristianizzati che si mettevano
al servizio dei bianchi come marinai o interpreti. L’ingente traffico di schiavi è
testimoniato anche dai Fragments d’un voyage en Afrique fait pendant les année 1785,
1786 et 1787 di Golberry. Questi, proponendo l’installazione di un avamposto
francese sull’isola di Bolama, precisa che ogni anno circa tremila schiavi escono
da questa regione, dei quali «duemila erano inviati nella colonia portoghese di
49 «L’arcipelago delle Bijogo era il maggior centro di vendita di schiavi, ottenuti in tre differenti modi: a) venivano venduti coloro che avevano commesso un delitto o erano sospettati di stregoneria (cosa che si poteva verificare sacrificando una gallina tagliandole la testa e guardando la direzione che prendeva il corpo decapitato); b) i familiari di un morto potevano esser venduti dall’erede; c) la principale origine di schiavi era il rapimento di persone da popolazioni vicine del continente» (Mota 1974: 31). 50 Gurmete o Grumete erano gli Africani “lusitanizzati” e “cristianizzati”, membri di un gruppo sociale guineense intermediario tra il “branco” (il bianco) e il “selvagem” (il selvaggio) (Pélissier 1989, II: 294).
49
Para, vicino all’imboccatura del Rio delle Amazzoni e altri mille divisi tra Capo-
Verde e Madera» (Golberry in Henry 1994: 47).
Motivazioni antischiaviste sono alla base dell’impresa del capitano Philip
Beaver, che egli racconta in Africa Memoranda, relative to an attempt to establish a
British settlement on the island of Bolama, in the year 1792. Alla fine del XVIII secolo
infatti, in Inghilterra, numerose società filantropiche si organizzarono per lottare
contro la tratta degli schiavi. In questo clima il capitano Philip Beaver fondò la
Bolama Society of London (Stallibrass 1889: 596-597), tra i cui aderenti vi erano
molti discepoli del mistico svedese Swedemborg (Pélissier 1989, I: 82), una
società che aveva per fine di colonizzare l’isola di Bolama. Beaver voleva
dimostrare che gli occidentali potevano lavorare ai tropici senza comportarsi con
la crudeltà degli schiavisti. Con il suo esempio intendeva evidenziare come con la
semplice convivenza si potessero civilizzare gli indigeni e introdurli alla religione,
alle tecniche e alle usanze europee. Come si esprime Pélissier: «si naviga in piena
Arcadia, per non dire nell’Utopia rivoluzionaria» (Pélissier 1989, I: 82).
Così nell’aprile del 1792 tre navi che trasportavano duecentosettantacinque
coloni (donne e bambini inclusi) lasciarono le coste inglesi. Giunti a Bolama
stabilirono un insediamento che chiamarono Port Beaver. Ma i nuovi coloni
furono presto vittime degli attacchi dei Bijagó di Canhabaque. Cinque uomini
inglesi e una donna furono uccisi; quattro donne e tre bambini furono fatti
prigionieri, gli altri riuscirono a raggiungere il battello e a fuggire. I Bijagó
distrussero tutto ciò che gli inglesi avevano dovuto abbandonare. Beaver, con
l’aiuto di alcuni residenti portoghesi, andò a parlare con gli anziani bijagó per
riscattare i prigionieri e concluse un trattato con il re di Canhabaque che gli
vendette l’isola di Bolama per quattrocentosettantatre barre di ferro. Questa
avventura scoraggiò la maggior parte dei coloni che abbandonarono l’impresa.
Solo novanta coraggiosi restarono con Beaver, il quale apprese allora che anche i
re beafade reclamavano la proprietà dell’isola, che, oltretutto, era già stata ceduta
ai Portoghesi nel XVII secolo, in cambio della loro protezione contro i Bijagó. Si
dovette concludere quindi un nuovo trattato.
50
Non si poté gioire per lungo tempo di questo bene acquisito con tanta
difficoltà: i coloni furono decimati dalle malattie. Vedendosi infine malato con un
solo compagno sopravvissuto e due domestici neri, Beaver abbandonò la partita e
raggiunse la Sierra Leone da cui rientrò in Inghilterra. Beaver non riuscì quindi a
dimostrare che i bianchi potevano vivere felicemente ai tropici (Henry 1994: 47-
48; Pélissier 1989, I: 82).
4. Il lamento del mare
Quando Bernatzik domandò al re di Carache la ragione per la quale i Bijagó
non costruiscono piroghe e non amano avventurarsi in mare, questi gli rispose
raccontandogli una leggenda:
«Molto tempo fa, gli uomini della mia terra decisero di costruire una grande piroga.
Lavorarono senza riposo per molti giorni, finché la piroga fu pronta per il suo primo viaggio.
Quando gli uomini più forti spinsero in mare l’imbarcazione, tutti videro come la piroga
dominava le onde increspate del mare. […] Ma quando già la piroga fluttuava in alto mare, una
terribile onda travolse l’imbarcazione con tutti i suoi occupanti. Fu un gravissimo lutto per
l’isola: non c’era una sola famiglia che non avesse un morto da piangere. I sopravvissuti decisero
quindi di castigare il perfido elemento. Ma come punire l’acqua, se non per mezzo del fuoco?
Così furono portate sulla spiaggia grandi quantità di legno e, una volta appiccato il fuoco, i
tizzoni furono lanciati nel mare traditore. L’acqua, al contatto con i tizzoni, produsse uno strano
rumore che fu accolto con grande gioia degli insulari, i quali credettero di ascoltare il lamento
del mare, piegato dal dolore, bruciato dal loro fuoco» (Bernatzik 1967: 111).
Anche la ragione per la quale i Bijagó - in particolare quelli di Carache,
Caravela, Formosa, Ponta e Maio (Henry 1989b: 37) - smisero radicalmente di
navigare, al di là della leggenda, è da ricercarsi nel loro passato. Nel
diciannovesimo secolo, infatti, viene messo in atto un importante intervento volto
a mettere fine alla micro-indipendenza insulare (Pélissier 1989, I: 80) dei Bijagó.
51
Non si tratta - come si potrebbe pensare - di un’azione portoghese, bensì di una
spedizione punitiva dei Francesi, scatenata dal saccheggio della goletta Le Lancier,
arenatasi nel 1852 all’entrata del canale che separa Carache da Caravela: era il
secondo incidente di questo genere in quel mese, per cui il governatore del
Senegal e il Ministero della Marina decisero che i Bijagó meritavano una severa
punizione (Pélissier 1989, I: 117).
Nel febbraio 1853 il governatore Protet ottenne da Parigi l’autorizzazione per
organizzare una grande spedizione punitiva, che partì da Gorée per invadere
l’isola di Caravela. Una volta sbarcati nella parte occidentale dell’isola
mitragliarono i boschi e bruciarono i villaggi. Raggiunsero in seguito la parte
meridionale di Caravela e lì i militari continuarono il loro lavoro bruciando tre
villaggi. Poi la spedizione proseguì la sua rotta verso Canhabaque e si trovò di
fronte a una resistenza molto più viva, che l’obbligò a parlamentare. I Francesi
incontrarono due re, re Manel e re Antonio, ma le negoziazioni finirono male: nel
corso della battaglia furono uccisi duecento Bijagó e quattro Francesi e il re
Antonio rimase ferito. I Francesi si ritirarono dopo aver firmato un trattato di
alleanza con il re Manel, ma i Bijagó non tennero fede agli accordi presi. Secondo
René Pélissier questa spedizione punitiva, che sembra sproporzionata alla
situazione, aveva come reale motivazione di impressionare i Portoghesi e di
dimostrare la potenza francese nelle loro acque (Pélissier 1989,I: 118).
Per quanto concerne i Bijagó, se la spedizione non offese troppo gli insulari
di Canhabaque, che continuarono le loro attività di pirateria, essa ebbe
conseguenze più gravi sulle isole di Carache e Caravela. Essi non riuscirono più a
ricostruire le loro flotti di piroghe e da allora cessarono totalmente di navigare
(Henry 1994: 52). Questa fu una delle più profonde trasformazioni della società
bijagó: un popolo estremamente abile nella navigazione, dedito al saccheggio, alla
pirateria e al traffico di schiavi, fu obbligato a rinunciare a una attività - la guerra -
che costituiva una parte fondamentale della sua cultura. Posto fine alle tradizionali
attività belliche, i Bijagó si trasformarono, come abbiamo visto, in pacifici
agricoltori, perdendo il loro sapere marittimo, lasciando, per usare le parole di
52
Henry, «un passato di audaci marinai» per abbracciare «un presente di pessimi
pescatori» (Henry 1989b: 27, 39).
5. La pacificazione dell’arcipelago
«Quando la tua casa brucia, non ti serve a
niente battere il tam tam»
(Cabral 1971: 84).
Le sanguinose guerre di “pacificazione” messe in atto dal governo portoghese
e da quello francese tra la fine del XIX secolo e il primo trentennio del XX sono
state oggetto di studi storici recenti e approfonditi (Péllisier 1989,I: 80-84, 116-
119 e II: 186-189, 209-214, 251-260; Henry 1994: 65-68). All’inizio del XX
secolo, secondo la ricostruzione degli autori citati, i Portoghesi non esercitavano
effettivamente alcuna sovranità sui popoli guineensi (Henry 1994: 65; Pélissier
1989). Il Portogallo sembrava disinteressarsi a una colonia che non gli portava
grandi guadagni: la maggior parte del commercio era infatti nelle mani di Francesi
e Tedeschi. I funzionari amministrativi non volevano andare in queste colonie
dalla pessima reputazione. Tra il 1900 e il 1910, la Guinea cambiò cinque
governatori. Tra il 1903 e il 1904 l’isola di Bolama vide succedersi venticinque
amministratori.
Alla fine degli anni '20, tuttavia, la Guinea si presenterà come una colonia
conquistata e relativamente prospera. Questo cambiamento fu essenzialmente
opera di un ufficiale: il capitano João Teixeira Pinto. In meno di tre anni, tra il
1912 e il 1915, questo militare “pacificò” pressoché tutta la Guinea, giocando
sugli antagonismi locali e utilizzando le popolazioni islamiche contro quelle
animiste. Dopo la sua partenza, solo i Bijagó non riconoscevano ancora la
dominazione portoghese.
53
In questi anni si susseguirono numerosi interventi atti a piegare la loro
resistenza51, finché nel 1933 arrivò in Guinea un nuovo governatore, il
comandante della cavalleria Luís António de Carvalho Viegas: sotto la sua
amministrazione caddero gli ultimi ribelli alla pace portoghese. Fatto ciò, solo le
isole Bijagó costituivano ancora un’onta per l’amministrazione coloniale
portoghese.
Nel 1935 la situazione era tale che a Canhabaque «tutta l’isola stava in uno
stato di completa ribellione e gli indigeni erano disposti a fare guerra» (Capitão
Sinel de Cordes, capo della Ripartizione Militare, in Luìs Antònio de Carvalho
Viegas, Guiné Portuguesa, II 1939: 27). Dal novembre 1935 al febbraio 1936 una
armata occupò Canhabaque, incendiò i villaggi, spinse gli insulari a nascondersi
nella foresta. Ma l’isola non accettò di firmare la resa. Non lo farà se non in
seguito a lunghe negoziazioni: solo nel 1937 i capi Bijagó accettarono di recarsi a
Bolama e di deporre le armi. Anche Canhabaque poteva godere della pax lusitana
(Henry 1994: 66-67). L’ultimo bastione della resistenza era stato sottomesso: fu
costruita una scuola sull’isola e eretto un monumento commemorativo della
completa sottomissione al governo portoghese, recante la scritta: «A quelli che
caddero per la civilizzazione: pacificazione di Canhabaque» (Henry 1994: 68).
La tenace resistenza bijagó alla “pacificazione” e la dura risposta del governo
portoghese, costituirono un momento importante della tradizione di resistenza
alla colonizzazione del popolo guineense (cfr. Tabella 1 pag. 54). Questa lunga
tradizione, che risale ai primi anni del contatto coi Portoghesi, culminò con il
sorgere del desiderio di libertà e di indipendenza politica del paese.
Nel settembre 1956 nasce infatti nella clandestinità il P.A.I.G.C., Partito per
l’Indipendenza della Guinea Bissau e Capo Verde, movimento rivoluzionario
fondato da Amilcar Cabral, ingegnere capoverdiano nato a Bafatà, nel nord-est
della Guinea (Gallois Duquette 1983: 23). La sua analisi era chiara: la resistenza
dei popoli africani contro il colonialismo portoghese era fallita finora per
51 Nel 1900 viene bombardata Canhabaque; nel 1907 Formosa è occupata dalle truppe portoghesi; nel 1917 è ancora la volta di Canhabaque, i cui re vengono costretti a firmare la pace. Nel 1925 infine, vista l’insolvenza fiscale degli isolani di Canhabaque, venne effettuata una nuova imponente spedizione, ma senza riuscire a piegare la resistenza dei Bijagó (Henry 1994: 65-66 ).
54
mancanza di unità e organizzazione delle forze che lo combattevano. Dopo alcuni
anni di addestramento ideologico e militare, il movimento era pronto per lottare
contro il colosso portoghese e conseguire l’indipendenza politica, al fine di
portare il paese al pieno possesso del suo destino e della sua storia. Le possibilità
che si presentavano erano due: ottenere l’indipendenza attraverso la pazienza e
l’abilità dei negoziati, oppure usare il mezzo della lotta armata. L’alleanza di
Cabral con Agostinho Neto e Mario Andrade, leaders rispettivamente del
movimento di liberazione dell’Angola e del Mozambico, guidò la scelta a favore
della lotta armata (Crowder 1984, VIII: 788).
Durante gli anni della guerra di indipendenza, a causa della sua situazione
geografica, l’arcipelago delle Bijagó non fu coinvolto; al contrario divenne luogo
di villeggiatura per i militari, in specie l’isola di Bubaque. Per i Bijagó la guerra
divenne reale solo quando i giovani fuggirono in segreto dalle isole per
raggiungere l’armata della liberazione (Gallois Duquette 1983: 22).
Dopo quattordici anni di guerriglia, nonostante la scomparsa di Amilcar Cabral
(assassinato il 20 gennaio 1973 a Conakry dalla polizia segreta portoghese), fu
proclamata a Medina Boè l’indipendenza del paese: era il 24 settembre 1973
(Gallois Duquette 1983: 23).
Abbiamo percorso le vicende storiche che coinvolsero i Bijagó basandoci su
fonti scritte da commercianti, viaggiatori, missionari e militari europei, quindi su
documenti ufficiali, nei quali la prospettiva dei colonizzatori bianchi è rimasta
centrale. Benché l’indagine risulti necessariamente limitata e presenti inevitabili
carenze, desiderando riportare in superficie il pensiero e la vita di coloro i quali
furono rilegati ai margini del racconto storico, vorrei concludere questa prima
parte con un frammento di storia raccontato a Hugo Adolf Bernatzik dalla voce
di un anziano del villaggio di Bijante:
«Prima, quando era ancora in vita la nostra regina, ce la passavamo piuttosto bene […] ma oggi i
vecchi si ritrovano a guardare come sfugge la giovinezza e come tutto il nostro popolo,
abbattuto dalla fame e dalle malattie, si va riducendo a esser schiavo dei bianchi. Al principio
55
questi si presentarono come commercianti e scambiavano le loro mercanzie coi prodotti delle
nostre palme. […] Nella mia gioventù combattemmo, con le nostre grandi piroghe da guerra,
contro le vostre navi, combattimenti che coloro che stavano sulle vostre barche ricorderanno
fino alla fine della loro vita. […] La nostra isola visse per molto tempo in pace, poiché i bianchi
rispettavano il potere della nostra grande regina Pampa. Però, alla sua morte, approfittarono
della nostra confusione e del nostro smarrimento, senza trovare la minima resistenza da parte
nostra. […] Centinaia dei più valorosi guerrieri trovarono la morte. Le barche di ferro dei
bianchi solcavano le acque che dividevano le isole tra loro, assalendo i fuggitivi che, nelle loro
piroghe, cercavano di trovare scampo. […] Ah! Come devastarono la nostra terra i nemici!
Conosci Canhabaque, la grande isola vicina al continente? In essa oggi non si erge più una sola
capanna; non molto tempo fa furono tutte abbattute, e tutti i beni dei loro abitanti furono
incendiati. Presto vennero i bianchi e ci promisero pace e giustizia, se avessimo pagato loro certi
tributi. Per vigilare sul rispetto del patto lasciarono sull’isola alcuni stranieri negri armati, e
presto tornò a regnare la miseria, poiché questi uomini rapivano le nostre donne e le nostre
ragazze e le forzavano ai loro piaceri, e, in più, ci rubavano tutto ciò che desideravano. Se ci
difendevamo e uccidevamo per legittima difesa quei criminali, i soldati ci portavano nuovamente
la guerra, e centinaia dei nostri dovevano pagare con la vita la morte di un crudele negro
straniero. Per ogni capanna dovevamo pagare ogni anno una somma straordinaria, così come
un’imposta per il diritto di estrarre il vino di palma dalle nostre palme. Con che diritto potevano
esigere questo da noi, che pagassimo per quello che da tempo immemorabile i nostri padri avevano posseduto e
custodito gelosamente? Le esigenze dei bianchi erano ogni volta in aumento e, di conseguenza, non
avevamo più il tempo per coltivare per noi i campi. Dovevamo forse correre il rischio di
provocare un’altra funesta guerra contro i bianchi? Dovevamo vedere come avrebbero distrutto
del tutto la nostra patria? No! Piuttosto saremmo morti di fame!» (Bernatzik 1967: 34-40).
56
Tabella A. Principali riferimenti cronologici (1853-1937).
Riferimento cronologico Avvenimento storico Nomi dei capi della resistenza
27 febbraio - 15 marzo 1853
grande spedizione francese alle
Bijagó
António di Canhabaque
30-31 maggio 1879
bombardamento di Orango
(isole Bijagó).
Oumpané Caetano
ottobre 1900
spedizione a Canhabaque (isole
Bijagó)
marzo 1907
spedizione fiscale a Formosa ad
opera dei Portoghesi
maggio - novembre 1917
seconda campagna di
Canhabaque
gennaio 1918
“pace” a Canhabaque
18 marzo 14 maggio 1925
terza campagna di Canhabaque
Juliana
10 novembre 1935 - 20 febbraio
1936
maggio 1937
quarta e ultima campagna di
Canhabaque: rivolta e distruzione di Canhabaque
fine del regime militare a
Canhabaque
Amanhã
57
PARTE SECONDA
Genere e identità “Gli uomini e le donne sono, è ovvio, diversi. Ma non sono così diversi come il giorno e la notte, la terra e il cielo, lo yin e lo yang, la vita e la morte. Dal punto di vista della natura gli uomini e le donne sono più simili
58
gli uni alle altre che a qualsiasi altra cosa - alle montagne, ai canguri o alle palme da cocco. L’idea che siano diversi tra loro più di quanto ciascuno di essi lo è da qualsiasi altra cosa, deve derivare da un motivo che non ha niente a che fare con la natura”
(Stella Piccone e Saraceno 1996: 7)
Capitolo III
Lo spazio maschile della foresta
1. Spazio maschile e spazio femminile: una rappresentazione della
differenza di genere 52
11 febbraio 1997, Bijante (Bubaque)
Alcuni uomini, separati dalle donne, intagliano il legno presso la capanna dello
scultore Tcharte Banca, ai margini del villaggio. Parlano tra loro fumando tabacco
e sembrano non fare caso alla mia presenza, nonostante spesso io sorprenda il
loro sguardo seguire i miei movimenti.
Le donne, invece, riunite intorno a un granaio a svolgere i loro compiti
quotidiani, tradiscono la loro curiosità con frequenti scoppi di risa e, senza
52 Il «genere» è un modo di classificare, di indicare l’esistenza di tipi. In particolare, il genere propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine «genere» segnala questa duplice presenza (Stella Piccone e Saraceno 1996: 8).
59
timidezza, mi interrogano sui motivi della mia presenza tra loro, sulla mia
famiglia, sulla mia vita sentimentale. Il desiderio di conoscere il loro modo di
vivere, la loro cultura, con cui giustifico la mia venuta, sembra sorprenderle e
divertirle molto. Cami�o smette di pulire il pesce per procurarmi una panca di
legno, mentre Julia va a chiamare alcune anziane che ancora non conosco. È un
incontro importante, dato il prestigio di cui godono e l’autorità che detengono
all’interno del villaggio, per cui mi procuro qualche litro di vino di palma da
offrire loro. Beviamo tutte insieme e continuiamo a chiacchierare, mentre le mani
sono sempre occupate in qualche lavoro domestico.
I pochi uomini che avevo incontrato ai margini del villaggio sono scomparsi e
con loro Lorenzo; nel villaggio ci sono solo più le donne e i loro bambini. Cala il
sole e si accendono i fuochi; Cami�o si offre di dividere con me la sua cena, cioè
riso, pesce e olio di palma. Finiamo di mangiare, ma gli uomini ancora non si
vedono. Alcune ragazze si accorgono del mio stupore e della mia preoccupazione
ma non sembrano comprenderne il motivo. Mi rivolgo allora alla madre di
Cami�o e le chiedo perché gli uomini non tornino ancora, dove possano essere
andati. Tutte allora iniziano a scherzare e a ridere con la pipa tra i denti : «Tieni un
po’ di tabacco, fuma e non preoccuparti. Così deve essere, è normale: gli uomini stanno in foresta
e le donne al villaggio».
Obiettivo di questo capitolo è tentare di indagare come l’organizzazione bijagó
dello spazio esprima il sistema delle relazioni sociali, soffermandomi in particolare
sulla rappresentazione della differenza di genere. La scelta dell’argomento è
motivata dal fatto che, analizzando il modo in cui lo spazio abitato viene
suddiviso e ripartito secondo linee sociali, risulta possibile evidenziare elementi a
mio parere fondamentali della cultura bijagó, quali la costruzione sociale dei
concetti di maschio e femmina e la riflessione sul rapporto tra i sessi come
continua ricerca di equilibrio e di bilanciamento. Nella costruzione sociale della
loro identità, infatti, uomini e donne vengono simbolicamente opposti e su questa
contrapposizione viene fondato il discorso della complementarità dei ruoli sociali.
60
Come sostiene Françoise Paul-Lévy, l’etnologo comprende meglio una
struttura sociale (un fatto strutturale qualunque, come la differenza di genere per
esempio) quando ne visualizza le caratteristiche attraverso la loro iscrizione in
luoghi determinati. È quindi comprensibile che il materiale spaziale costituisca per
l’osservatore una base solida, si potrebbe dire una infrastruttura, quanto più
l’etnografo è educato alla raccolta di indici materiali (Paul-Lévy 1983: 163).
Lo spazio sociale, infatti, come conferma Francesco Remotti, non è mai neutro
e uniforme:
«è variegato, è fatto di luoghi che si differenziano spesso in modo notevole [...] ogni società
si estende in uno spazio, lo articola e lo organizza in certi luoghi, eleggendo o ritagliando certi
ambiti specifici del suo territorio in quanto destinati a certe attività» (Remotti 1993: 31).
Remo Guidieri, condividendo il pensiero di Remotti, sottolinea:
«La terra abitata è inesauribile; mai passiva, indefinitamente plasmata, costituita da spazi
recintati che accolgono il cibo degli esseri umani, i loro scarti, il loro sangue e le loro ossa»
(Guidieri 1988: 53).
Nell’organizzazione dello spazio possiamo quindi tentare di leggere la
rappresentazione bijagó della differenza di genere, che prende forma nel dominio
stesso della quotidianità. Essere uomini o donne bijagó, infatti, consiste e si
struttura, come afferma - seppur in un altro contesto - Franco La Cecla, negli
spazi dell’abitare, nel modo di costruirli, occuparli e usarli:
«si cresce in quanto uomo o donna rifacendo i modi e i movimenti e gli usi nei due differenti
ambiti, imparando ad impadronirsene e a difenderli dalle intrusioni, facendone uno strumento di
distinzione» (La Cecla 1988: 112).
61
Questa predominanza di un sesso su uno spazio ha una stretta relazione con la
divisione sessuale del lavoro. Come sostiene infatti Daphne Spain, citando
Edward E. Evans Pritchard (The position of women in primitive societies):
«nelle società primitive le sfere di attività dei sessi sono chiaramente separate; e se una donna
non entra nelle attività maschili, nemmeno suo marito cerca di competere con lei nelle attività
femminili» (Spain 1992: 82).
La divisione del lavoro basata sul genere nelle società non industriali, sottolinea
ulteriormente Spain, è sempre accompagnata dalla separazione spaziale dei sessi,
seppur in vari gradi. In alcune società, infatti, spiega l’autrice, gli uomini e le
donne svolgono compiti del tutto differenti in posti completamente diversi,
mentre altre società sono caratterizzate da una divisione del lavoro per la quale
uomini e donne condividono i compiti nello stesso luogo. Tra questi due estremi,
inoltre, cade un ampio spettro di modalità di divisione spaziale del lavoro
maschile e femminile (Spain 1992: 101).
Per quanto riguarda i Bijagó, la complessa rete dei rapporti tra uomini e donne
trova la propria espressione in diverse combinazioni di separazione spaziale dei
sessi, basate sulla divisione dei compiti. L’organizzazione del lavoro determina,
infatti, il modo in cui lo spazio viene suddiviso e ripartito tra uomini e donne,
creando spazi specificatamente legati a ciascun sesso e spazi che potremmo
definire “intermedi”, di riequilibrio, in cui la diversità diviene complementarità.
Anche Christine Henry pone più volte l’accento sull’estrema specializzazione
del lavoro secondo il sesso, che caratterizza tutte le attività bijagó (Henry 1994:
78). Osservando che tuttavia la distribuzione dei ruoli non è legata al possesso di
utensili considerati come specificamente maschili o femminili (al di fuori degli
attrezzi esclusivamente maschili che servono a salire sulle palme o a raccogliere il
vino di palma, uomini e donne utilizzano infatti gli stessi strumenti), Henry
deduce che la netta divisione del lavoro che caratterizza la società bijagó, non
sembra aver altro fine che di mettere in moto uno scambio di servizi, una
cooperazione tra persone di sesso differente (Henry 1994: 78).
62
Prima di affrontare l’argomento prescelto, sarà opportuno indicare gli aspetti
principali della morfologia sociale dei Bijagó e delineare per sommi capi i tratti
della cultura bijagó che risulteranno pertinenti, a cominciare dalla descrizione del
territorio che essi occupano.
2. Divisione del lavoro secondo il genere
L’arcipelago delle Bijagó, bagnato dall’Oceano Atlantico, si situa a nord
dell’undicesimo parallelo, al largo della Guinea Bissau, di cui fa politicamente
parte. I Bijagó (all’incirca 20.000 persone) popolano solo una dozzina delle 88
isole di cui è composto l’arcipelago. Il clima è tipicamente tropicale a due stagioni.
La stagione umida comincia a maggio e termina a novembre ed è caratterizzata da
precipitazioni abbondanti che possono raggiungere la media annuale di 2250
millimetri e da un cielo sempre coperto da nubi. La stagione secca, da dicembre
ad aprile, è caratterizzata da un vento lieve che soffia da N-NE e da temperature
piuttosto elevate, con una media di 26°K. Le isole hanno la fortuna di conservare
intatta l’acqua piovana, che non si mescola mai con l’acqua di mare: in questo
modo la foresta rimane sempre verde, poiché le piante riescono a affondare le
loro radici nell’umidità del terreno e, a ogni mese dell’anno, forniscono i loro
frutti. Questi si trovano selvatici in abbondanza nell’arcipelago, dal mango
(Mangifera indica), ai numerosi alberi di cadju (Anacardium occidentale) il cui
frutto dona un succo asprigno che fermenta rapidamente (vinho de cadju, k.).
Grande ricchezza viene dalla palma da olio (Eleaisi guineensis) che assicura per
tutto l’anno l’olio rosso (siti, k.) e il vino. Si trovano in abbondanza anche
manioca, patate dolci e soprattutto il manacara bijagó (Voandzeia subterrânea), che
attualmente tende a essere rimpiazzato dall’arachide. Il territorio presenta quindi
un aspetto discontinuo: foresta più o meno densa si alterna a territori coltivati,
che si presentano come palmeti dal suolo coperto di sottobosco o di graminacee.
I Bijagó, che si consacravano un tempo alla guerra e alla pirateria, vivono oggi
essenzialmente della coltura itinerante del riso pluviale. La terra scelta per la
63
semina, concessa dal re alle donne e trasmessa matrilinearmente, richiede una
lunga preparazione: all’incirca ogni cinque anni un pezzo di bosco viene adibito
alla coltivazione del riso, viene utilizzato per un anno e poi abbandonato, affinché
gli alberi possano ricrescervi. Il mese di maggio generalmente vede i villaggi
svuotarsi: spesso il campo di riso è in un’isola disabitata e questo obbliga la
popolazione a trasferirsi in case provvisorie (bente, b.) sino al termine della
raccolta. I Bijagó, come ha osservato Henry, presentano una doppia morfologia
stagionale caratterizzata, durante la stagione secca, da un gruppo compatto di
abitazioni costruite di terra e durante la stagione delle piogge, da case disperse
costruite di paglia intrecciata (Henry 1994: 73).
Verso novembre gli uomini disboscano la foresta (cortar o mato, k.): appiccano
poi il fuoco e lo sorvegliano finché brucia tutta l’area preparata. Viene in seguito il
tempo della semina: i ragazzi procedono allineati camminando all’indietro,
bucando il terreno con un bastone lungo e sottile, mentre le donne gettano i semi
nel buco e rimettono a posto la terra avendo cura di non turbare l’ordine delle
cose53 (Scantamburlo 1991: 28). La natura infatti, mi dice Luigi Scantamburlo,
viene considerata dai Bijagó come la “Madre”54 degli uomini, generosa nel donare
loro i suoi frutti e che, perciò, deve essere utilizzata senza recarle danni, senza
turbarla o ferirla55.
53 Riporto un episodio che spiega questo atteggiamento di rispetto. Luigi Scantamburlo voleva far inserire due anelli di cemento nella sorgente del villaggio di Annumba: siccome occorreva allargare la superficie della fonte e tagliare qualche albero, fu chiamata la responsabile delle cerimonie delle donne, l’okinka, perchè indicasse di volta in volta quanto scavare, per non far subire alla Terra dolori o mutamenti irreparabili. 54 «Lo stesso Esiodo non ci presenta la Terra come una dea in senso stretto: l'antico cantore mette in evidenza - analogamente ad altre antiche religioni - la sua maternità, ovvero la inesauribile capacità di dar frutti. Prima di essere accolta come una dea della fecondità, la Terra fu intesa direttamente come Madre, come Terra-Madre. Che la Terra venisse considerata come fonte di forza e di fecondità, lo mostra anche l'uso, noto ai Greci e ai Romani, di far partorire le donne sedute per terra, o comunque ad essa il più vicino possibile, per riceverne la potenza vitale. I bambini abbandonati venivano lasciati per terra: la Terra-Madre avrebbe deciso per loro se tenerli in vita o lasciarli morire» (Potenza e Scarabella 1987: 42). 55 Gallois Duquette riporta questo mito raccolto sul campo nel 1978: «Prima che ci fossero gli uomini, dopo che Nindo ebbe creato la terra ed ebbe deciso di inviarci il primo essere umano, lei (la terra) si lamentò: - Gli uomini mi coltiveranno, lavoreranno su di me, ciò sarà doloroso, come mi ripagherai, Nindo? - e dio disse: - Gli uomini saranno seppelliti nel tuo seno, regolerete i conti» (Gallois Duquette 1983: 135). Il mancato pagamento del debito getterebbe l'intero cosmo al di fuori dell'ordine stabilito e allora non crescerebbero più le piante per nutrire gli uomini e i bambini non nascerebbero. Per i Bijagó la disposizione del cadavere influenza il destino dell'intero mondo delle cose viventi.
64
«Gli uomini tagliano la foresta e la bruciano. Le donne seminano, mondano, difendono le
coltivazione dai macachi e dagli uccelli e infine fanno il raccolto. […] Tutte le donne sposate
tengono una grande parte di terreno con riso per i loro figli e le ragazze nubili ne tengono una
parte più piccola, vicina a quella delle loro madri, con il riso che sarà utilizzato nelle cerimonie
religiose e nelle feste con i loro compagni. Se un uomo ha più di una moglie, deve preparare
campi differenti per ognuno e un campo di maggiore estensione per le necessità di tutta la
famiglia. [...] Seminare o piantare è sempre lavoro delle donne» (Scantamburlo 1991: 28-29).
In un altro contesto etnografico, Francesco Remotti ha osservato al riguardo
che:
«l’attività di coltivazione vera e propria è riservata in modo pressoché esclusivo alle donne, le
quali seminano, curano e raccolgono il prodotto; gli uomini intervengono per disboscare,
bruciare le erbe, abbattere gli alberi e, in genere, per preparare il terreno: sono dunque le fasi
iniziali o i momenti più esterni quelli che competono all’uomo» (Remotti 1993: 28).
Gli strumenti della coltivazione, nonostante le innovazioni proposte dai
progetti di sviluppo agricolo, sono rimasti quelli tradizionali: un coltello simile al
machete per disboscare (nincar, b.; tarcado, k.), un’ascia per abbattere gli alberi e
una zappetta corta per il lavoro femminile. Oltre a questi strumenti agricoli, i
Bijagó utilizzano anche un arpione con due punte di metallo per la pesca e una
lancia (nadai, b.) per la caccia, un tempo utilizzata esclusivamente per la guerra. Si
può comprendere, in questo contesto, l’importanza che il fabbro ha assunto nella
società bijagó. Il fabbro del villaggio (odjiqui, b.) viene infatti considerato, secondo
quanto riporta Augusto J. Santos Lima:
«un avvocato professionale, signore della parola, maestro nell’argomentazione. […] Dicono i
Bijagó che l’odjiqui è un uomo pericoloso, capace di risolvere qualunque cosa, dotato di un
potere al quale gli altri non possono opporre nulla. Egli, con la sua forgia, domina al tempo
stesso il fuoco e il ferro. Pur essendo tale metallo molto duro, non per questo la durezza del
ferro resiste alla sua volontà, che domina, taglia, lima. Con il ferro non si scherza, ma l’odjiqui lo
rende obbediente, ponendolo al suo servizio» (Santos Lima 1947: 80).
65
Dal lavoro del fabbro dipende quello dello scultore, che si serve di utensili
fabbricati dal primo. L’esercizio della scultura, ci dice Gallois Duquette (1983:
189), non è una vera e propria professione nell’arcipelago e non dà uno statuto
sociale definito: un uomo che esegue nel tempo libero maschere, utensili,
ornamenti e statuette (bonecas, k.) per i turisti, è considerato un artista, ma è
generalmente povero e deve contare sul lavoro agricolo per mantenersi. Quando,
al contrario, alla sua funzione di artigiano si aggiungono le conoscenze e
l’attitudine psicologica alla magia, si trova in una posizione più ambigua, poiché
viene temuto e allo stesso tempo stimato e, il più delle volte, diviene anche molto
ricco (Gallois Duquette 1983: 189).
Se la lavorazione del ferro e quella del legno sono compiti specificamente
maschili, l’intreccio di vimini e la preparazione delle zucche56, dalle quali ricavano
bottiglie, cucchiai, scodelle e contenitori per il cibo, compete esclusivamente alle
donne. La zucca (gn’opara, b.; cabassa, k.), oltre a essere l’utensile più usato dalla
donna bijagó in cucina, diventa oggetto d’arte: viene lavorata con un coltello
quando è secca, verso gennaio, tracciando un disegno in nero con una lama
riscaldata a fuoco vivo. A Bubaque, Canhabaque e Soga si decora allo stesso
modo anche il collo delle zucche oblunghe, che vengono fissate sulla cima delle
palme per raccoglierne la linfa.
Sono le donne, quindi, che si occupano del benessere quotidiano della famiglia,
che provvedono alla fabbricazione degli utensili e alla raccolta degli alimenti
necessari alla preparazione dei pasti e che si prendono cura dei bambini,
preoccupandosi anche della loro educazione. Scrive Scantamburlo che “le donne
bijagòs hanno l'incarico di preparare quotidianamente i pasti alla famiglia. Di
mattina, una di loro va alla spiaggia a raccogliere molluschi, granchi e ostriche”
(Scantamburlo 1991: 32). Conferma l’affermazione di Scantamburlo Raul Mendes
Fernandes, il quale, dopo aver considerato che l’alimentazione quotidiana dei
56 Avremo modo nei capitoli successivi di parlare dell’importanza simbolica che la zucca riveste come segno distintivo del potere della sacerdotessa (okinka, b..) e come strumento di comunicazione con l’al di là.
66
Bijagó è costituita principalmente da riso, olio di palma e combè (un mollusco),
afferma che «per quanto riguarda la produzione del riso, ad eccezione dei grandi
lavori di preparazione del terreno (il taglia e brucia), sono le donne ad essere
presenti a tutte le fasi del processo di lavoro; nella produzione dell’olio di palma
sono le donne che si occupano della trasformazione del frutto in olio; nella
raccolta dei combè sono le donne che li cercano sulla spiaggia» e ne deduce che in
tutto ciò che rientra nell’ambito della sopravvivenza fisica la donna svolge un
ruolo essenziale (Mendes Fernandes 1987: 90).
Non solo grazie a queste ultime parole, ma anche ripensando alla divisione
sessuale del lavoro, della quale abbiamo parlato precedentemente, si può scorgere
un profondo significato simbolico. Riprendendo un pensiero di Remotti a
proposito del lavoro femminile tra i Banande dello Zaire, che sono per tradizione
coltivatori, penso di poter affermare che, anche per quanto riguarda i Bijagó, il
lavoro e l’attività femminile rendono possibile la realizzazione di un continuum
tra produzione materiale e riproduzione biologica. Con le parole dell’autore:
«Compete infatti alla donna tutto ciò che rientra nell’ambito della sopravvivenza fisica: essa è
tenuta a produrre cibo, così come è tenuta a produrre figli, e risulta quindi impegnata a tempo
pieno nel lavoro della terra, nella cura e nell’allevamento dei bambini e in tutte le principali
occupazioni domestiche» (Remotti 1993: 28).
Nonostante che il carattere e il grado della asimmetria sociale tra i sessi siano
molto variabili tra culture differenti e tra diversi domini all’interno della stessa
cultura, mi pare tuttavia che si possa affermare che, tra i Bijagó, le donne sono
centrali e gli uomini periferici per quanto concerne la riproduzione fisica, sociale e
culturale: la quotidianità della vita del villaggio. La maggior parte della giornata di
una donna è infatti impiegata a intessere relazioni sociali, a socializzare con altre
donne: nel riposo, nelle visite di cortesia, nel lavoro svolto in comune. In questo
modo le donne maneggiano informazioni, manipolano credenze e norme sociali;
inoltre intessono e infrangono rapporti sociali, creando così situazioni che
mettono in luce il funzionamento dei principi cruciali della società. Con questo
67
non voglio affermare che i sessi siano in guerra, ma piuttosto si trovano in una
relazione dialettica di parti qualitativamente diverse, ancorché socialmente
equivalenti.
La divisione sessuale del lavoro, quindi, rappresenta come sulla
contrapposizione di genere, socialmente costruita, si fondi il discorso della
complementarità dei ruoli sociali, della reciproca dipendenza, che Henry definisce
«cooperazione tra persone di sesso differente» (Henry 1994: 78). La
contrapposizione e la complementarità tra i sessi trovano la propria espressione
anche nell’organizzazione dello spazio. La divisione dello spazio, infatti, fa della
foresta (an’oka, b.) uno spazio maschile e del villaggio (emgbá, b.) uno spazio
femminile, come abbiamo potuto constatare osservando la divisione dei compiti
in base all’appartenenza di genere.
L’an’oka è infatti lo spazio della foresta di palme, nel quale gli uomini
esercitano le loro principali attività produttive, come la raccolta dei caschi di xabéu
(frutti rossi della palma da olio), dei cuori di palma, l’estrazione del vino di palma
e il disboscamento in vista della creazione di un campo di riso57.
L’emgbá, il villaggio, è invece lo spazio privilegiato dei lavori domestici: dalla
costruzione della casa alla preparazione dei cibi; dalle attività di trasformazione, in
particolare la produzione dell’olio di palma e la pilatura del riso, alla raccolta e alla
custodia dei prodotti nei granai (kaorà, b.); dalla confezione di gonne alla
educazione dei bambini. Tutte queste attività competono alle donne.
3. An’oka, la foresta
Nonostante che i Bijagó - come abbiamo precedentemente sottolineato - non
siano tradizionalmente coltivatori sedentari, lo sono divenuti. Fino al secolo
passato si sarebbe potuto dire, parafrasando un’osservazione di Robert
57 Come la foresta, un altro spazio di influenza maschile è il mare: nel mare i Bijagó esercitarono, come abbiamo visto nel capitolo precedente, una feroce attività guerriera e, nonostante oggi la loro principale attività sia l’agricoltura, il mare risulta essere ancora una risorsa importante per l’abbondanza di pesce e costituisce lo spazio di comunicazione tra le isole e il continente.
68
Thompson a proposito degli Ekoi, che tra i Bijagó «a eccezione del
disboscamento della foresta, i lavori agricoli competevano tradizionalmente alle
donne. Ciò significa che gli uomini erano liberi di dedicarsi ad attività marziali e
all’arte della guerra» (Thompson 1974: 173, in Gallois Duquette 1983: 53).
Oggi invece i Bijagó, posto fine alle tradizionali attività belliche, sono divenuti
agricoltori. Se osserviamo il territorio delle isole, possiamo notare che foresta più
o meno densa si alterna a territori coltivati. I compiti tipici degli uomini si
concentrano in questa zona, dalla estrazione del vino di palma alla raccolta dei
caschi di xabéu, al disboscamento con la tecnica del taglia e brucia.
Ogni uomo inoltre - come afferma Henry e secondo le nostre personali
osservazioni - ha in foresta un luogo proprio in cui andrà a bere il vino di palma
coi suoi amici e a offrirlo agli spiriti. È ugualmente in foresta che vi sono gli spazi
consacrati (etute, b.), teatro della celebrazione di alcuni riti maschili, che accolgono
le riunioni del consiglio degli uomini anziani58 (Henry 1994: 73 e Scantamburlo
1991: 94).
Nonostante questa “familiarità” degli uomini con la foresta, ai loro occhi
tuttavia - come afferma Remotti riferendosi ai Banande dello Zaire i quali, come i
Bijagó, hanno provveduto a un intenso disboscamento - «la foresta è un mondo
ignoto e che fa paura» (Remotti 1993: 24). «Sembra lecito - sottolinea Stefano
Allovio in un saggio sul rapporto potere/vegetale nell’antico regno del Burundi -
poter ammettere che l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento abbia creato
un “luogo esterno”, una “terra straniera” da combattere e da neutralizzare, la
foresta» (Allovio 1994: 358). Henry conferma che per i Bijagó «la foresta è quindi
uno spazio particolare, fonte di vita, ma anche di pericoli. Gli stregoni - abane -
sono interrati lì, mentre i morti vengono normalmente sepolti nello spazio del
villaggio» (Henry 1994: 73).
Mi sembra di poter sostenere, basandomi sulla mia esperienza sul terreno, che i
Bijagó riconoscano alla foresta un movimento, una dinamicità che invece viene
negata allo spazio non selvaggio, sebbene esso sia altrettanto mobile. Il
58 Le anziane si riuniscono nel santuario del villaggio.
69
movimento della foresta consiste innanzitutto nel fatto che periodicamente essa
riconquista la terra che il lavoro degli uomini le ha strappato. Inoltre è un
territorio in cui tutto si muove: territorio di sentieri mutevoli, d’apparizioni;
territorio di spiriti dimenticati, terra instabile, dove gli uomini non penetrano che
per prelevare, per passare senza restarvi. Nella foresta, mondo degli animali
selvatici e pericolosi, vagano gli spiriti minacciosi degli stregoni e le anime in pena
dei giovani maschi che non hanno compiuto il cammino iniziatico, mentre nel
villaggio risiedono gli spiriti buoni degli antenati che proteggono e mantengono
l’ordine morale.
Che la foresta simbolizzi il caos, il mondo ostile, la natura incontrollabile, in
opposizione all’ordine della cultura che il villaggio rappresenta, è un’opinione
espressa da molti autori. Françoise Paul-Lévy, ad esempio, autore di Anthropologie
de l’espace, si esprime in questo modo:
«la distinzione tra due tipi di spazio, lo spazio abitato, della sicurezza, dell’ordine da una
parte, e l’“altro” spazio, caotico, pericoloso, non umanizzato, sono considerati come la prima
manifestazione spaziale dei gruppi considerati come umani» (Paul-Lévy 1983: 37).
Pietro Scarduelli, occupandosi del simbolismo spaziale nelle culture
dell’Indonesia, sembra condividere il pensiero di Paul-Lévy, poiché conferma:
«la relazione simbolica che si stabilisce tra il villaggio e la foresta che lo circonda si
caratterizza generalmente per una netta contrapposizione tra i due termini, il primo dei quali - lo
spazio abitato - si identifica con l’universo delle relazioni sociali, mentre il secondo - la foresta -
si configura come il temibile regno del “non-umano”, un mondo “selvaggio” in cui è assente
l’ordine che domina entro i confini della comunità. […] La foresta è infatti il dominio
incontrastato degli spiriti, i quali generalmente sono pericolosi, se non apertamente ostili»
(Scarduelli 1992: 171-2).
Franco La Cecla ci offre un ulteriore spunto di riflessione, riportando un brano
di un articolo di Charles Malamoud in cui si afferma che nell’India brahmanica c’è
un termine sanscrito, aranya, che viene di solito tradotto come «foresta». Questo
70
termine deriva da arana, il cui significato è «strano» ed è a sua volta collegato alla
radice indoeuropea alius, alter, ille. Aranya prima ancora di definire un territorio
distinto dal villaggio per certi tratti materiali - una zona senza agricoltura, coperta
da alberi - designa l’«altro» rispetto al villaggio. Analogamente l’italiano conosce la
connessione tra «foresta» e «forestiero», «selva» e «selvatico» e la contrapposizione
tra «silvano» e «domestico» (La Cecla 1988: 12).
Anche Allovio sottolinea il fatto che la foresta, oltre a essere ciò che è, cioè un
ambiente naturale, rappresenta nell’immaginario collettivo l’idea della natura
selvaggia contrapposta alla società e alla cultura. Tale dicotomia (natura-società) è
rinvenibile presso le popolazioni che, adottando un’economia basata
sull’agricoltura e l’allevamento, hanno da sempre considerato la foresta come
nemico da combattere (Allovio 1994: 357).
Robert Pogue Harrison, come osserva anche Allovio (1994: 360-367), ci invita
invece a considerare le foreste in una nuova prospettiva:
«noi non abitiamo la terra, ma il nostro essere-al-di-là della terra. Noi non abitiamo nella
foresta, ma in una esteriorità correlata col suo spazio chiuso. […] Essere uomini significa, per
così dire, essere già e sempre al di fuori del dentro costituito dalla foresta, in quanto la foresta è
una misura della nostra esclusione» (Pogue Harrison 1992: 224).
La sua proposta è di riflettere sul fatto che si vive, soprattutto dopo la
comparsa dell’agricoltura, nella relazione con la foresta. La foresta sembra essere
un prezioso elemento con il quale, rapportandosi, si costruisce l’identità
dell’uomo e del suo essere sociale. Scrive a questo proposito Allovio:
«l’esigenza della comunicazione e dell’incontro simbolico ha origine nella stessa società,
consapevole da una parte di dover sopravvivere grazie alla sua lotta contro la foresta, ma
dall’altra di dover continuamente inventare se stessa, la sua identità, a partire dalla foresta come
“misura della propria esclusione”, come “alterità” capace di conferire identità» (Allovio 1994:
368).
71
I molteplici spunti di riflessione che ci vengono offerti da Pogue Harrison ci
saranno utili nel compito di delineare i diversi aspetti in cui si articola la
rappresentazione bijagó dello spazio della foresta. Tra i Bijagó, infatti, la foresta è
teatro di apparizioni di spiriti pericolosi di diversa natura; è lo spazio liminare
dell’iniziazione maschile; è il regno dello spirito silvestre Koratakó; è un luogo
simbolicamente legato alla figura del re, rappresentato proprio da una pianta
silvestre.
Nell’illustrare i diversi punti mi concentrerò nel mostrare come, usando lo
spazio come un codice simbolico, possano essere portati all'evidenza molti
importanti concetti sociali. È plausibile aspettarsi, infatti, che l’opposizione
selvaggio/coltivato rappresenti anche contrasti che hanno un più vasto
significato, come bambino/ adulto, uomo/donna, umano/spirituale e altre idee
astratte 59.
4. I kassisa: spiriti maligni della foresta
La foresta - afferma, come abbiamo visto, Henry - è uno spazio particolare,
fonte di vita, ma anche di pericoli, perché qui sono interrati gli stregoni, mentre i
morti vengono sepolti nello spazio del villaggio (Henry 1994: 73). In generale,
afferma anche Jean La Fontaine, la quale affronta il tema del cammino iniziatico
utilizzando lo spazio come un codice simbolico, la foresta è la casa degli esseri
spirituali, mentre il villaggio e i campi coltivati costituiscono l’ambiente proprio
delle persone umane. Gli spiriti, che vagano attraverso la foresta, continua
l’autrice, sono mobili e diffusi, a differenza degli esseri umani che dimorano,
59 Queste rappresentazioni, che assumono talvolta la forma di strutture analogiche e di opposizioni binarie (maschile/femminile, caldo/freddo, vecchio/giovane) sono il risultato di processi di classificazione e categorizzazione che riflettono sia la struttura del reale, sia quella dei processi mentali. Alcuni principi di classificazione, certe associazioni metaforiche e opposizioni binarie, sembrano essere universali, fondate su determinate caratteristiche del reale. In ogni caso, è la cultura a decidere del senso e dell’applicazione di qualità e proprietà naturali: a elaborare rappresentazioni culturali del corpo umano e a proiettarne analogicamente l’immagine sull’organizzazione sociale, a stabilire quando si è “giovani” o “vecchi”, qual è il valore della mascolinità e della femminilità (Fabietti e Remotti 1997: 515).
72
sedentari, in villaggi permanenti. La divisione tra la foresta e il villaggio assume
inoltre un più vasto significato, perché la foresta è associata agli uomini, il
villaggio alle donne e ai loro bambini (La Fontaine 1984: 96-97).
La stessa cosa mi sembra si possa affermare per quanto riguarda le credenze
bijagó legate allo spazio della foresta. In generale, come vedremo più
profusamente nel IV capitolo, le persone che muoiono di una “buona morte” e
che hanno goduto di una buona reputazione all’interno del villaggio, vengono
seppellite nella stanza centrale della casa. Imbarcatisi sulla canoa dei morti, i loro
spiriti (arebok, b.) volgono in seguito verso un luogo di beatitudine dove i defunti
di tutti i tempi si ritrovano60. Giunti nel regno di Nindo, il dio supremo, i loro
spiriti si riuniscono formando una massa indistinta e la rappresentazione materiale
di dio, il grande spirito (Orebok Okotó), diviene il luogo di fissazione degli antenati.
La stessa cosa non accade invece per gli spiriti delle persone ritenute malvagie e
pericolose61.
Scrive al proposito Gallois Duquette:
«quando un essere leale e onesto muore, giunge ad ancaredo e lo si può sapere poiché, anche
nel tempo della secca, cade qualche goccia di pioggia; se si tratta, invece, di qualcuno di
malvagio, s’intende gemere nel bosco in modo spaventoso. […] Nel tempo della secca si
possono vedere le silhouette di questi defunti da lontano e il loro odore è così sgradevole che fa
vomitare. Se questi defunti s’avvicinassero, sarebbe la morte assicurata. […] Le melgas (minuscoli
moschini neri) sono emanazioni delle loro anime» (Gallois Duquette 1983: 136).
Queste persone empie, ritenute capaci di stregoneria e possedute da spiriti
malvagi, vengono chiamate nel bijagó di Bubaque casisa o obané (Scantamburlo
60 Gallois Duquette riporta per designare questo luogo il termine ancaredo (1983: 136), mentre il mio principale informatore mi ha fornito il termine anarebok, ossia “il luogo degli arebok”, delle anime. L’anarebok viene chiamato anche kopagheto che significa “sotto al mare”. 61 «Non tutti possono divenire antenati. Da questo privilegio sono esclusi i bambini e gli adolescenti, i suicidi e i morti di morte violenta, gli stregoni» (Fabietti, Remotti 1997: 50). «Possiamo chiederci se la distinzione tra stregoni, aboro mangu, e coloro che non lo sono, amokundu, si mantenga oltre tomba. […] Mi è stato detto che alla morte gli stregoni diventano spiriti maligni (agirisa). Gli spiriti ordinari, atoro, sono esseri benigni […]. Gli agirisa, al contrario, danno prova di un odio velenoso nei confronti dell'umanità. Essi tormentano tutti coloro che viaggiano nella savana e provocano stati passeggeri di sdoppiamento della personalità» (Evans-Pritchard 1976: 75-76).
73
1991: 71, 90), mentre in quello di Canhabaque abane (Henry 1994: 73). In realtà,
per quanto ho potuto constatare personalmente, sono usati entrambi i termini, ma
c’è tra di loro una lieve differenza.
Il suonatore del tamburo sacro mi ha infatti spiegato che il kassisa62:
«è come un diavolo che incontri nella foresta di notte, un’anima malvagia con tanti capelli,
che emana un odore fetido di decomposizione e vaga senza una direzione per sempre, cercando
di che cibarsi63, mentre la persona viva sospettata di essere uno stregone è detta obané».
L’obané viene chiamato in kriolo feiticeiro64 e, una volta morto, viene seppellito
nella foresta, che, per questo motivo, viene anche chiamata ancaboné o luogo (an-)
degli obané. Recentemente, per influenza dei missionari, il luogo in cui vagano
queste anime dannate viene chiamato anche anutukó, termine che viene
generalmente tradotto con “inferno”, dato che nutukó significa “fuoco” e per i
Bijagó cattolici l’inferno è per l’appunto “an-utukò” il “luogo del fuoco” (20 aprile,
villaggio di Bijante, conversazione con Tetè).
I posseduti feiticeiro, afferma Gallois Duquette, minacciano gravemente la
comunità dei vivi e sono i soli esseri che vengono seppelliti in foresta. Il
posseduto può essere qualcuno del villaggio che conduce una vita ordinaria, fino
al giorno in cui viene preso da tremori, da febbri che possono durare diverse ore.
Il feiticeiro può ugualmente ignorare il male che porta in lui e che provoca al suo
passaggio delle catastrofi (Gallois Duquette 1983: 137).
62 Secondo le ricerche di Gallois Duquette esiste anche un feticcio che porta questo nome, la cui forma asimmetrica l’oppone agli spiriti benefici, che hanno invece una struttura geometrica, semplice e stabile (1983: 202). Si occupa dei posseduti, delle anime delle persone che sono state sepolte nella foresta; la popolazione crede che questo spirito sia stato feiticeiro. Secondo Antonio de Almeida, infatti, il termine kaxixa in kriolo significherebbe feiticeiro (1952: 254). 63 Nell’articolo di Fernando Rogado Quintino “Entre gente temente ao deus-irã”, viene riportata una descrizione simile del kassisa: «È un essere peloso, con odore di caprone, che lancia fiamme dalla bocca e si nutre di anime umane» (Quintino 1968: 109). Teresa Montenegro lo descrive come «un morto in procinto di decomposizione, senza pelle, con gli occhi senza palpebre, la carne corrotta che emana un tremendo odore di putrefazione […] implora alimenti e sacrifici ...ha una voce monocorde e nasale e parla in un modo malarticolato» (Montenegro 1993: 68). 64 E’ interessante vedere che l’antica parola portoghese feitiço, “artificiale” (1605), dalla quale deriva “feticcio”, termine che fu impiegato dagli occidentali per designare gli oggetti magici degli africani, è utilizzata qui dagli stessi bijagó in una accezione ugualmente negativa, per distinguere colui che è posseduto dallo spirito malvagio (feiticeiro) (Gallois Duquette 1983: 136).
74
Analizzando le osservazioni avanzate da Gallois Duquette, due sono gli aspetti
che mi sembrano di maggior rilievo: l’associazione della possessione con la
malattia e il fatto che il feiticeiro può ignorare il fatto di essere posseduto e di
provocare danni al suo semplice passaggio.
Per quanto riguarda il primo punto, è importante ricordare che molti tipi di
possessione, sia quelli causati da spiriti buoni sia quelli provocati da spettri o
fantasmi, tendono a manifestarsi inizialmente sotto forma di malattia, come si è
potuto constatare nella maggior parte delle culture che praticano la possessione
(Lewis 1971). Molte prospettive teoriche hanno attribuito una considerevole
importanza all'associazione, estremamente comune, della possessione con la
malattia. Le interpretazioni di tipo psichiatrico hanno tentato di vedere dietro la
possessione certe malattie mentali, talvolta specificamente identificate con
sindromi di tipo isterico, come ci mostra Joan Lewis, che nel VII capitolo di
Ecstatic Religion ripercorre alcune delle interpretazioni psichiatriche classiche della
possessione.
Secondo quanto mi è stato raccontato dai miei informatori invece,
generalmente si nasce feiticeiro, non lo si diventa ed è una cosa indipendente dalla
propria volontà: per questa ragione il feiticeiro non può portare a termine malefici o
stregonerie per conto d’altri. Per servizi del genere bisogna rivolgersi al
djambacosse65 (k.), detto anche curandeiro (k.), il quale ha appreso la difficile arte della
magia e sa fabbricare unikàn, termine che significa sia medicine a base di erbe, sia
spiriti (Scantamburlo 1991: 66,89).
La distinzione tra obané e ototem, ossia tra feiticeiro e djambacosse, è dello stesso
ordine, a mio parere, della distinzione tra witchcraft e sorcery, traducibili il primo con
“stregoneria”, intesa come potere psichico interno di nuocere e il secondo con
“fattucchieria”, come potere di fare sortilegi mediante simboli esterni, siano essi
parole, incantesimi o pozioni66. Witchcraft viene così a rappresentare il potere non
65 Secondo Gallois Duquette il termine bijagó per designare il djambacosse sarebbe odursseman, nel dialetto di Bubaque ototem (Gallois Duquette 1983: 184). 66 «Per gli Azande stessi - scrive Evans-Pritchard - la differenza tra un fattucchiere e uno stregone consiste nel fatto che il primo adopera la tecnica della magia e ricava il suo potere dalle medicine,
75
necessariamente provocato dalle intenzioni dell’agente che si trova all’interno del
feiticeiro, che «dove passa semina involontariamente catastrofi» (Gallois Duquette
1983: 137); sorcery, invece, il potere controllato del djambacosse, che agisce
coscientemente mediante simboli esterni (Douglas 1993: 163). Al feiticeiro vengono
infatti attribuiti poteri incontrollati, inconsci, pericolosi e vietati, come il maleficio
e il malocchio; al djambacosse poteri controllati, consapevoli, esteriori e approvati
(Douglas 1993: 164).
Solo i feiticeiro, infatti, vengono sepolti in foresta67 e divengono anime erranti e
pericolose. Chiedendo al mio informatore Pedro Banca perché i feiticeiro non
possano essere sepolti come le persone normali in casa, ho ricevuto due risposte
differenti, ma consequenziali. Pedro mi spiega, infatti, che seppellire un feiticeiro
nella stanza centrale della casa, nell’anaanãko (o annani) letteralmente «il ventre
della casa» (Henry 1994: 80), creerebbe in primo luogo un grande disturbo per i
vivi, un tormento.
In secondo luogo, Pedro mette in evidenza più volte che seppellendo un morto
nel centro, nel naa (il ventre), l’anima del defunto ritornerà nel corpo di un
bambino che nasce e così ritornerà in vita il feiticeiro. Si dirà ombà onam odá ossia «il
bambino è rinato», è avvenuta l’odá del feiticeiro, la sua “reincarnazione”, rinascita.
Per questa ragione non si celebra il funerale alle persone riconosciute stregoni,
essi non sono seppelliti nello spazio del villaggio, ma in foresta, al più presto e
preferibilmente in un luogo dove nessuno mai ha provveduto al disboscamento.
Si cerca così di metterli fuori circuito, fuori dal va e vieni degli arebok tra il
villaggio e l’al di là, che rappresenta le nascite e le morti (Henry 1994: 87).
mentre il secondo agisce senza riti e incantesimi e, per raggiungere i suoi fini, si serve di poteri psico-fisici ereditari» (1976: 471-472). 67 In realtà Pedro Banca mi ha spiegato che in foresta viene seppellito anche il cadavere dei suicidi, qualora si siano uccisi per la vergogna di una azione deplorevole (se ci si uccide per disperazione, come nel caso del vecchio re di Bijante che si è suicidato per liberarsi dalla sofferenza di una malattia che lo affliggeva da anni, o perchè non si hanno vie di scampo - ad esempio nel caso in cui l’alternativa sia o il suicidio o la prigionia - il gesto viene compreso e si procede normalmente al funerale). In questo caso nessuna persona può toccare o anche solo avvicinare il cadavere di colui che ha, col suo gesto, maledetto il clan. Il cadavere viene preparato in foresta e non può essere avvicinato che dalle dufuntu (le donne possedute dagli uomini morti). È un affare da sbrigare tra morti - dice Pedro - ma pieno di conseguenze per i vivi: perché la sua anima non diventi pericolosa, bisogna tentare di reintegrarla al circuito regolamentare, e questo spiega i sacrifici espiatori che i viventi s’apprestano ad effettuare, quando qualcuno si suicida.
76
Le parole di Arnold Van Gennep descrivono perfettamente la situazione delle
anime erranti dei feiticeiro:
«gli individui per i quali non sono stati eseguiti i riti funerari sono destinati a una esistenza
miserevole, senza poter mai penetrare nel mondo dei morti né aggregarsi alla società che vi si è
costituita. Sono questi i morti più pericolosi: essi vorrebbe riaggregarsi al mondo dei vivi e, non
potendolo, si comportano nei suoi confronti come stranieri ostili. Sono privi dei mezzi di
sussistenza che gli altri morti trovano invece nel loro mondo e perciò devono procurarseli a
spese dei vivi. Inoltre questi morti, senza casa né tetto, provano un acerbo desiderio di vendetta.
È per questo che i riti funerari sono anche riti utilitaristici che hanno una notevole portata: essi
infatti aiutano coloro che sopravvivono a sbarazzarsi di nemici esterni» (Van Gennep 1996:
140).
Pogue Harrison ci offre lo spunto per un’ulteriore riflessione:
«la natura umana non può fare a meno dei riti funebri; la sepoltura custodisce nella terra
l'essenza della natura umana. L'humus fonda l'umano. […] L’umanità (l’essere uomo) è
essenzialmente un fenomeno storico, cioè extraforestale: essere un uomo significa […] essere
governato dalla memoria. Affidando i morti alla terra, la sepoltura non consegna semplicemente
i progenitori al passato, ma garantisce solennemente che essi continueranno a vivere nella
memoria della tradizione. […] La religione, il matrimonio e la sepoltura dei morti incarnano
l'apertura lineare del tempo: questa apertura non terrena del tempo lineare entro il ciclo chiuso
nascita-morte della natura, è ciò che sta alla base, al livello più profondo, della perpetua ostilità
tra l'ordine istituzionale e le foreste che si estendono ai suoi confini» (Pogue Harrison 1992:
21, 28).
L’osservazione di Pogue Harrison ci invita a riflettere sulla distinzione tra le
due diverse logiche temporali della foresta e del villaggio: la prima chiaramente
ciclica, la seconda lineare. Sono la cultura e la storia, sembra volerci dire l’autore,
che fondano l'essere uomo. La foresta è invece non-culturale, non-umana anche
per quanto riguarda il tempo: se la cultura è tradizione, trasmissione, la natura è
ripetizione dell’identico.
77
Mi sembra plausibile connettere queste osservazioni di Pogue Harrison al
destino delle anime dei feiticeiros. Le anime che appartengono interamente al
villaggio (le anime delle donne e degli uomini iniziati non sospettati di essere
feiticeiros), compiono un viaggio preciso che li porta fino a Nindo e, diventando
antenati, rimangono nella memoria collettiva e quindi nella storia; le anime che
appartengono alla foresta, invece, rimangono intrappolate in un continuo vagare
al di fuori del tempo e cadono nell’oblio.
5. Gli arebok: spiriti in attesa nella foresta
Vi è un’altra categoria di spiriti che non può guadagnare l’al di là e restano a
vagare sulla terra, nella foresta, minacciando la salute dei vivi: gli oshó, «le anime
degli uomini che morirono prima di terminare tutte le cerimonie e che vagano
manifestandosi ai vivi vestiti di foglie di palma» (Scantamburlo 1991: 71), chiamati
con il termine generico arebok, che potremmo per il momento tradurre con
“spiriti”68.
Si tratta infatti degli spiriti di uomini morti prima di aver svolto la loro
iniziazione. Solo l’iniziazione permette all’essere incompleto che è l’adolescente di
adempiere al suo contratto con la società e con dio (Gallois Duquette 1983: 137).
La morte precoce giunge a contrariare lo sviluppo armonioso dell’individuo, il cui
spirito resta perciò in uno stato liminare, non appartenendo più alla società dei
vivi e non potendo entrare a far parte del mondo dei morti.
Mentre si può agire attraverso sacrifici o preghiere al grande spirito Orebok
Okotó per liberare l’anima di un feiticeiro69, che erri nella foresta o che si sia
momentaneamente incarnato in una persona del villaggio, non si può liberare
quella di un ragazzo morto prima di completare il cammino iniziatico che,
68 Il termine orebok (pl. arebok) ricopre una nozione fondamentale del pensiero dei Bijagó e risulta limitativo tradurlo con una sola parola. In kriolo il termine bijagó orebok viene tradotto in tre modi diversi: almas, spiritu (anima, spirito), dufuntu (riferendosi a queste anime erranti nella foresta) e irãn (cfr. nota 24). 69 La parola feiticeiro si applica sia allo spirito maligno, sia a colui che ne è posseduto. Così l’anima del posseduto defunto può venire a importunare i viventi (Gallois Duquette 1983: 140).
78
ostacolata nel suo viaggio verso l’al di là, diviene una minaccia per la popolazione
e in particolare per sua madre70.
Come Robert Hertz sottolinea:
«l’esistenza dell’anima sulla terra [...] avviene in maniera lugubre e precaria, il suo soggiorno
tra i vivi ha un alcunché di illegittimo, di clandestino; essa vive come al margine tra i due mondi,
intrusa se si avventura nell’al di là, è in questa terra un ospite inopportuno di cui si teme la
vicinanza. Così non avendo un luogo dove riposarsi è condannata a vagare senza requie […]
Non stupisce dunque che in questo periodo l’anima sia considerata un essere malefico: oppressa
dalla propria solitudine essa cerca di trascinare con sé i vivi» (Hertz 1994: 61).
Per premunirsi contro questo pericolo, come vedremo nei prossimi capitoli,
occorre fare attraversare agli arebok degli uomini morti le tappe iniziatiche che essi
non hanno potuto attraversare da vivi. Sono le donne che, possedute da questi
spiriti, si occupano di questo compito.
In questo modo, come osserva Henry, «il ritornante, che è originariamente un
ragazzo morto, una potenza malefica associata agli uomini [e alla foresta], viene
trasformata attraverso la sua iniziazione in una potenza benefica associata alle
donne [e al villaggio]71» (Henry 1994: 147). Da anime che errano pericolosamente
nella foresta, gli oshó vengono infatti trasformati in potenze benefiche, utili
messaggeri tra l’al di là e il santuario del villaggio, o “tempio degli spiriti”
(letteralmente candja caorebok, b.).
70 Secondo le indagini di Gallois Duquette nel villaggio di Eticoka dell’isola di Orango nel 1976, i Bijagó non credono alla reincarnazione, ma tuttavia sostengono che se un bambino muore durante i primi mesi della sua vita, è rimesso al mondo poco tempo dopo da un’altra donna (1983: 140). Scantamburlo non si pronuncia al riguardo, mentre secondo le analisi proposteci da Henry nel capitolo IV (1994: 85-104) e da Oliveira de Sousa nel capitolo III (1995: 61-76), nonché secondo le nostre personali osservazioni, i Bijagó credono e nella trasmigrazione e nella reincarnazione delle anime. «Il
ciclo delle rinascite - mi dice Pedro - è continuo, così non si muore mai definitivamente»
(conversazione con Pedro Banca, 10 marzo, villaggio di Bijante, isola di Bubaque). Van Gennep sottolinea che «qualunque sia la complessità dello schema, dalla nascita fino alla morte, il più delle volte si tratta di uno schema rettilineo. Tuttavia, presso certe popolazioni ... lo schema presenta una forma circolare, cosicché tutti gli individui passano senza posa attraverso una serie di stati e di passaggi, dalla vita alla morte e dalla morte alla vita. Questa forma estrema, ciclica, dello schema ha assunto nel buddismo una portata etica e filosofica, e in Nietzsche, nella teoria dell'Eterno Ritorno, una portata psicologica» (Van Gennep 1996: 170). 71 La parte tra le parentesi quadre è mia.
79
Mi sembra di poter notare che la loro ambivalenza primaria, che noi potremmo
definire spaziale, richiami un’altra ambivalenza, quella sessuale, giacché questi
spiriti di bambini maschi vanno ad esprimersi per bocca di donne adulte. Si
riprende, anche nel caso degli spiriti oshó, il solito gioco delle opposizioni maschile
/ femminile, foresta / villaggio.
6. I ����aro e i ����abido: gli iniziandi nella foresta
I �aro sono i ragazzi che si apprestano a entrare in foresta per affrontare
l’iniziazione (ka�oke, b.; manras, b.; fanado, k.), la “escola do mato”, come dicono
in kriolo, la “scuola della foresta” (Gallois Duquette 1983: 87; Scantamburlo
1991: 81; Henry 1994: 119).
Prima che cominci la reclusione nella foresta, gli anziani rasano loro i capelli,
che vengono consacrati agli spiriti (Henry 1994: 119). Al momento della loro
entrata in foresta, ricevono l’ordine di svestirsi e di dirigersi nudi verso l’interno
del bosco sacro; ancora i capelli, i peli pubici e delle ascelle dei novizi vengono
rasati; sono trascinati con una corda legata al collo, picchiati, frustati, insultati: li si
tratta «come delle scimmie, dei cristiani, dei bianchi», li si obbliga a tacere (Gallois
Duquette 1983: 112; Henry 1994: 122).
La perdita degli abiti, secondo Henry, può essere interpretata come una prima
perdita d’identità; la rasatura dei capelli come un segno di lutto (come vedremo, al
morto e ai suoi parenti stretti vengono rasati i capelli). Henry ne deduce quindi
che la successione delle due azioni potrebbe significare che il novizio porti il lutto
della sua identità anteriore (Henry 1994: 122).
Comunque sia, come conferma Van Gennep, si tratta di elementi fondamentali
dei riti iniziatici:
«il rito di tagliarsi i capelli viene impiegato in circostanze assai diverse […] per indicare che si
entra in un altro stadio. Orbene vi è una spiegazione al fatto che il rito di separazione riguarda i
80
capelli: è che essi, per la loro forma, colore, lunghezza e acconciatura costituiscono un carattere
distintivo sia individuale che collettivo facilmente riconoscibile» (Van Gennep 1996: 146).
Gallois Duquette, inoltre, osserva che in foresta i ragazzi rischiano la vita72,
tant’è che spesso gli anziani affermano che uno degli iniziandi «deve
necessariamente morire nel periodo della reclusione in foresta, perché è il prezzo
che dobbiamo pagare al Grande Spirito che vuole sangue umano» (Gallois
Duquette 1983: 113- 128; Henry 1994: 123). L’opinione di Mary Douglas al
proposito è molto chiara:
«dire che i ragazzi rischiano la vita significa precisamente dire che uscire dalle strutture
formali e introdursi nelle zone marginali equivale ad esporsi a un potere che può o ucciderli o
fare di loro degli uomini» (Douglas 1993: 160).
Sempre in foresta, tramite l’attribuzione di un nuovo nome, i �aro divengono
�abido73 e vengono scarificati seguendo un disegno convenzionale, proprio per
ciascuna isola, che permette di conoscere immediatamente l’origine di un bijagó
iniziato (Henry 1994: 125). L’umanità “marchia” sempre la foresta in un modo o
nell’altro: tagliandola, conquistandola, coltivandola; analogamente, la foresta
marchia quelli che si perdono nel suo groviglio (Pogue Harrison 1992: 123).
Quando i �aro, quindi, divengono �abido, cambiando il nome che portavano
nella vita sociale del quotidiano per assumere un nome iniziatico (secondo Gallois
Duquette sono i nomi dei figli delle quattro antenate claniche trasmessi attraverso
le generazioni), avviene una profonda inversione: se i �aro prima di entrare in
foresta potevano avere delle donne, i �abido non possono nemmeno avvicinarle;
72 L’iniziazione dei Bijagó è citata in tutta la Guinea Bissau come esempio di brutalità e violenza, tant’è che nel 1989 il presidente della Repubblica, informato del fatto che stava per cominciare l’iniziazione a Canhabaque, fece trasmettere agli anziani il messaggio di non brutalizzare eccessivamente gli iniziandi. Lungi dal mostrarsi inquieti da questo intervento dello stato nei loro affari, intervento che nel passato arrivò addirittura all’irruzione della polizia nel bosco sacro dell’iniziazione, gli anziani di Canhabaque se ne mostrano piuttosto soddisfatti. Questa manifestazione ufficiale conferma il fatto che, come loro sostengono, l’iniziazione è “fatale” in tutti i sensi del termine (Henry 1994: 124).
81
se i �aro vivevano nella “casa degli uomini” kadjoko, i �abido vivono in foresta; se
i �aro potevano occuparsi dei loro figli, i �abido devono evitarli; se i �aro
parlavano normalmente, i �abido cambiano voce; se i �aro danzavano portando
una maschera animale, i �abido usciti dalla foresta danzano indossando una
Gli iniziandi errano quindi, come gli spiriti, nella foresta, vivendo in uno spazio
intermedio tra le posizioni assegnate e distribuite dalla legge, dal costume, dalle
convenzioni e dal cerimoniale, tra il mondo degli spiriti e quello degli esseri umani
(Turner 1972: 112; La Fontaine 1984: 97).
Può essere importante considerare il fatto che gli oshó che vagano nella foresta
vengono chiamati, secondo Henry, anche �abido, lo stesso nome dei membri della
classe d’età che sono stati appena iniziati (Henry 1994: 101-102). Il kabido74 è
infatti morto alla sua vita precedente, non è più quel giovane uomo coraggioso di
cui la virilità si esprimeva in danze acrobatiche, che egli eseguiva sotto una
maschera animale (�aro), ma non è ancora un anziano posato (kassuká), in pieno
possesso dei suoi diritti. C’è dunque un’omologia tra lo spirito di un morto non
iniziato e un nuovo iniziato, entrambi kabido: sono due esseri che errano in foresta
in una fase intermedia della loro esistenza.
7. Koratakó: lo spirito silvestre
«Lo spirito del male vive nella foresta - scriveva Rogado Quintino - Là si
realizzano le pratiche di stregoneria e il sacerdote è sempre di sesso maschile»
(Quintino 1964: 31).
73 L’iniziazione, che non è che una fase di un rituale più vasto chiamato �ubir kusina (onorare gli anziani), non fa immediatamente dei novizi degli uomini completi. Accedono solo a un’altra classe d’età, quella dei �abido (sing. kabido) (Henry 1994: 125). 74 Vi è un’altra entità estremamente pericolosa che porta questo nome ed è legata allo spazio della foresta. È uno spirito puro, senza corpo, che si presenta al villaggio vestito di foglie di palma secche e
82
Non è facile comprendere a quale spirito bijagó si riferisse Quintino, dato che,
per quanto ho potuto constatare, non esiste uno “spirito del male” contrapposto a
una entità benefica, quanto piuttosto diverse forze capaci di esercitare il bene
come il male, secondo le circostanze e i rituali impiegati.
Se vogliamo seguire Gallois Duquette, comunque, possiamo ritenere a buon
diritto che Quintino si riferisse allo spirito della foresta Koratakó. Di questo spirito
Gallois Duquette sottolinea innanzitutto il «potere malefico» (Gallois Duquette
1983: 208) e il legame con la sfera maschile («le donne non possono fabbricare
degli iran corataco, possono solo rivolgersi a un sacerdote maschio per ottenere dei
servizi che esse pagano generalmente con rapporti sessuali») e con la foresta
(«L’iran corataco è vegetale, costituito di foglie di palma annodate. Viene fabbricato
nel segreto della foresta, lontano dai rumori del villaggio […] generalmente di
notte, da parte di persone completamente nude») (Gallois Duquette 1983: 207-
208).
L’aspetto sul quale i Bijagó insistono quando parlano dello spirito koratakó è la
sua rapidità: durante il suo soggiorno sul campo nel 1978, un insulare spiegò a
Gallois Duquette che «Orebok non accetta di fare il male, e se accetta ti fa
attendere tre, quattro anni», mentre «una parte di un koratakó in una bibita, può
farti morire nell’arco della giornata» (Gallois Duquette 1983: 208). L’informatore
aggiunse inoltre che «a Koratakó si può domandare di risolvere problemi che non
si osa sottoporre agli spiriti divini [Orebok Okotó]… quando in generale si tratti di
realizzare un fine personale che preveda il danno o la morte di un individuo»
(Gallois Duquette1983: 208).
Gallois Duquette ha osservato al proposito che, mentre il Grande Spirito che
protegge il villaggio, Orebok Okotó, vive nel villaggio, nel santuario delle donne, ed
è scolpito in un legno nobile, con tratti umani e con una forma geometrica
semplice (almeno a Bubaque) ed è reso efficace mediante medicine rare e col
sacrificio di animali scelti col consenso di tutta la popolazione, riunita nella piazza
il cui sguardo può provocare la morte. Parleremo più profusamente di questa entità nella terza parte della tesi.
83
centrale del villaggio in pieno giorno75, il culto per l’iran koratakó è praticato nella
foresta in un “santuario vegetale” costituito da un enorme albero76 (Gallois
Duquette 1983: 63) e l’iran è composto di foglie che marciscono, cui pare possano
aggiungersi ingredienti umani - capelli, peli, unghie, sangue - e viene invocato
individualmente di notte, da esseri nudi che sacrificano animali di poco valore o
decisamente mal visti come i gatti (Gallois Duquette 1983 : 208-211).
Sia Scantamburlo che Henry accennano solo vagamente a questa entità.
Scantamburlo ne parla come di «uno dei poteri magici più temuti dai Bijagó,
anticamente usato dai feiticeiros o da chi desiderava fare del male agli altri» e
descrive un koratakó fatto di sei foglie di palma verde scuro, che rappresentano le
anime dei feiticeiros (obané, b.) e sei foglie verde chiaro, che rappresentano le anime
di persone buone (arebok, b.), usato per proteggere gli adolescenti dal malocchio
(Scantamburlo 1991: 69-70).
Henry ci dice invece che gli Añaki (i Bijagó di Canhabaque) usano il termine
kolarako per designare una palma secca con le foglie annodate che, appesa a un
albero o a un bastone, segnala che l’area in cui si penetra è un luogo particolare,
sacro proprio per il fatto che è stato contrassegnato da un kolarako (Henry 1994:
89).
8. Oro����o: il re come essere della foresta
75 In ogni caso, alle forze spirituali legate al villaggio viene offerto esclusivamente cibo tradizionale, mai prodotti selvatici. 76 Quest’albero che «raggiunge il cielo per la sua taglia, è scelto dagli uomini per esprimere al mondo degli spiriti i desideri violenti che la civiltà delle cerimonie pubbliche del villaggio non prenderebbe in considerazione. Esso catalizza pulsioni che non possono essere controllate, poiché nessuno ha la proprietà ufficiale del luogo» (Gallois Duquette 1983: 63). In effetti anche rimanendo sui sentieri è facile scorgere, per le loro maestose dimensioni, questi alberi sacri. Seguendo uno dei sentieri che dalla strada centrale di Bubaque s’inoltra in foresta, all’altezza del villaggio di Bijante, si arriva ai piedi di un albero (kunné, b.; poilão, k.; Ceiba Pentandra) dove molto spesso si fanno queste cerimonie. Lo scenario è piuttosto suggestivo: già sul sentiero un koratakó di foglie di palma intrecciate segnala che ci si sta inoltrando in un luogo sacro; ai rami dell’albero è appeso un koratakó
molto grande e accanto alle radici si trovano molte bottiglie di vetro vuote (11 agosto 1994). Gallois Duquette deve aver avuto un’esperienza simile perchè scrive «là abita l’iran corataco potenza maligna
84
La forma di potere considerata più fedele alla tradizione bijagó è quella che
vede l’esistenza di un capo (oro�o, b.) per ogni villaggio delle isole.
Attualmente, tuttavia, nell’isola di Bubaque c’è un solo re, nel villaggio di
Bruce. Essere un re, ci spiega il re di Bruce, oro�o Coia77, implica un onere
finanziario pesante, per cui è sempre più difficile incontrare una persona disposta
ad accettare una responsabilità così gravosa, specialmente a Bubaque, dove le
tradizioni attraversano una fase di rapido e intenso mutamento, che influenza
ogni aspetto della vita del villaggio (re Coia, 11 aprile 1997; Scantamburlo 1991:
43). La qualità principale di un re, infatti, è essere uno che oba kapana78, cioè che
ha buone possibilità finanziarie. Un altro requisito indispensabile per diventare re
è mostrarsi rispettoso della tradizione e avere a cuore gli interessi della collettività,
avendo inoltre l’autorità e le capacità politiche per tan toke emba, per «tenere unito
il villaggio». Il re deve, inoltre, essere un kassuká, cioè un uomo iniziato in una
promozione abbastanza anziana da aver già partecipato all’iniziazione di una più
giovane (Henry 1994: 171-172); il re infatti - sottolinea Mendes Fernandes - non è
propriamente il rappresentante del potere all’interno del villaggio, quanto
piuttosto il rappresentante del potere maschile (Mendes Fernandes 1995: 76).
La caratteristica fondamentale del re, tuttavia, è che, pur dovendo appartenere
al clan del fondatore del villaggio79, deve provenire sempre da un altro villaggio,
deve essere uno “straniero”80, un “estraneo”: per rispettarlo «non si deve averlo
visto nascere» (Henry 1994: 171). Agli occhi della comunità il re sarà sempre uno
che viene invocata, al fine di nuocere, molto spesso, a giudicare dalle bottiglie vuote e dalle piume che testimoniano i sacrifici avvenuti» (Gallois Duquette 1983: 63). 77 Coia è stato intronizzato nel marzo del 1976 per la sua reputazione di uomo pacifico e di lavoratore instancabile (Scantamburlo 1991: 49). 78 Questa espressione oba kapana viene spesso usata per indicare qualcuno ricco, ma più che a un’idea di ricchezza, essa rinvia a un’idea di riuscita, di fecondità: sarà oba kapana un uomo che ha molte spose, molti figli e fa raccolti abbondanti (Henry 1994: 172). 79 Il clan cui apparteneva il fondatore del villaggio è padrone della terra, dono do chão (k.), e fornisce le autorità tradizionali del villaggio: i due personaggi rituali più importanti infatti, il re, oro�o, e la sacerdotessa, okinka, sono scelti in questo clan e se possibile nello stesso sotto-clan del fondatore del villaggio. Queste funzioni rituali non sono ereditarie, in modo da non favorire un clan o un lignaggio (Gallois Duquette 1983: 32). 80 «[…] diverso atteggiamento delle popolazioni nei confronti dello straniero: le une lo uccidono, lo derubano, lo maltrattano senza nemmeno istituire un processo; le altre lo temono, lo colmano di attenzioni, lo utilizzano come un essere potente o prendono nei suoi confronti misure di difesa magico-
85
straniero e l’estraneità è un carattere che il re non perderà mai, anche se vivrà per
molti anni nel villaggio che l’ha scelto (Henry 1994: 181).
Gli abitanti del villaggio di Bijante, dove è nato Coia, l’attuale re di Bruce,
amano infatti ripetere che il re è uno straniero, che del villaggio in cui regna non
sa nulla, che è solo, non ha più un posto nel suo villaggio, né una casa o una
famiglia, non ha altri amici che il suo cane, ragion per cui, dicono, alla sua morte il
cane verrà interrato al suo fianco.
Il fatto di dover andare a cercare un re all’esterno del villaggio - afferma Henry
- è per i Bijagó di un’evidenza tale che non ha bisogno di venire sottolineata: il re
è infatti ritenuto un essere che viene dalla foresta, per quanto sia necessario
“costruire” il re come essere della foresta andandolo a prendere all’esterno
(Henry 1994: 171, 181).
Il futuro re viene quindi “catturato” dagli abitanti del villaggio sui quali dovrà
regnare: viene trascinato per una corda che porta intorno al collo, mentre le sue
mogli piangono e gridano; ha la testa rasata ed è ridotto al silenzio. Porta il lutto
della sua propria morte, scrive Henry (1994: 174). È piuttosto evidente l’analogia
con i �aro al momento della loro entrata in foresta: anche loro rasati, ridotti al
silenzio, con una corda al collo (Gallois Duquette 1983: 112; Henry 1994: 122).
Un anziano viene allora mandato in foresta a sradicare una pianta rampicante
dalle foglie lucide che sarà trapiantata sulla piazza del villaggio, sotto il noo, una
piccola capanna in miniatura costruita dalle donne anziane (Scantamburlo 1991:
48). Secondo Henry, questa pianta è detta unikan ulan kabãgo, “la medicina della
pergola regale”, e corrisponde alla “Ritchiea reflexa” (1994: 177). Secondo oro�o
Coia di Bruce, invece, a Bubaque la pianta del re si chiama letteralmente kpau
koro�o81 ed è una pianta che porta fecondità e ricchezza, tant’è che un infuso
delle sue foglie (o, secondo Joaquim Anhikiuena di Bijana, le foglie pestate e
bollite col sale) ha il potere di rendere feconda una donna sterile. Il nome
religiose. Lo straniero per molte popolazioni è un essere sacro, dotato di potenzialità magico-religiose, un benefattore o un malfattore che agisce in modo soprannaturale» (Van Gennep 1996: 22-23). 81 Sul nome bijagó della pianta del re c’è una certa confusione: Scantamburlo riporta il termine unikán
utodjá (Scantamburlo 1991: 48), Gallois Duquette il termine oronio o’metennaco (Gallois Duquette 1983: 66).
86
scientifico di questa pianta, secondo le ricerche di Marina Thereza do Campos,
dottoressa dell’Istituto di Bioscienza dell’Università di São Paolo82, è “Cassia
podocarpa”.
Sia a Canhabaque che a Bubaque, comunque, la salute di questa pianta è
assimilata alla salute del re e alla prosperità del villaggio: ogni anno il re e la
sacerdotessa celebrano infatti una cerimonia per la salute della pianta e del
villaggio. Questa pianta sembra essere dunque il “doppio vegetale” del re: il
trapianto della pianta specifica il re come un essere della foresta installato
all’interno del villaggio. Questa pianta silvestre, che rimarrà nella piazza del
villaggio sotto il noo solo per la durata della vita del re, rappresenta quindi il re
immobile al centro del suo regno. La piazza del villaggio è, per quanto ho potuto
constatare personalmente, il suo centro sacro, e Christine Henry lo conferma
definendo la piazza «santuario collettivo del villaggio» (Henry 1994:182).
Il noo è il centro del centro. Scantamburlo dice che il noo o náo è una capanna
piccola e rotonda costruita dalle donne anziane (Scantamburlo 1991: 48). Henry
aggiunge che «il noo è costruito dalle donne come tutte le case e s'apparenta al naa,
la stanza centrale della casa coniugale» (Henry 1994:182). Mentre il noo custodisce
la pianta da cui dipendono la salute e la fecondità del re e del villaggio, il naa è la
camera propria della donna al centro della casa83, teatro delle nascite, tomba per i
morti che lì verranno seppelliti, «spazio di congiunzione tra l’al di là e l’al di qua»
(Henry 1994:182).
I Bijagó sono virilocali, cosa che si traduce concretamente nella dispersione
delle donne quando si sposano. Mentre al livello del matrimonio è la sposa che si
sposta e che è posta al centro della casa, il femminile è circondato dal maschile, al
livello della regalità è il re che si sposta e che è posto al centro, il maschile è
circondato dal femminile. Il re venuto dalla foresta si trova quindi al centro del
villaggio, come una donna al centro della sua casa, per assicurarne la fertilità.
82 La biologa Campos sta attualmente compilando un inventario delle piante medicinali dell’isola di Bubaque, partecipando a un progetto legato alla creazione di una “riserva di biosfera” nell’arcipelago. 83 «Tradizionalmente le coppie abitano una casa della quale le mura disegnano due cerchi concentrici: la camera della donna occupa la parte centrale, dentro la galleria si trovano le camere dello sposo e dei bambini» (Santos Lima 1948: 421).
87
Essere intronizzato dalle persone del villaggio non è tuttavia sufficiente a un
“essere della foresta” per diventare re: deve essere intronizzato anche dagli esseri
della foresta, dagli arebok o oshó, cioè dai defunti in attesa di iniziazione. A questa
seconda intronizzazione penseranno le donne possedute da questi morti, nel
corso di una cerimonia segreta all’interno della foresta. Scantamburlo sostiene che
questo sia il momento più importante, in quanto, attraverso il contatto tra le
persone vive e i morti (tra gli esseri del villaggio e quelli della foresta) stabilito
dalle donne del villaggio possedute dagli spiriti della foresta, il nuovo re ottiene la
possibilità di dialogare con gli antenati e con Orebok Okotó e la capacità di
intrattenere relazioni con il mondo degli spiriti e le forze vive della natura
(Scantamburlo 1991: 51).
Danza allora il re “la gioia della sua terra” olejan moto molaloge, come danzerà il
suo spirito al momento della sua morte mentre i vivi cercheranno di impedirgli di
tornare in foresta (Marques Duarte 1934: 35-36), come danzano gli arebok dopo la
loro iniziazione, per dimostrare che ora partecipano delle forze benefiche. Si
potrebbe affermare che, in questi casi, la danza nello spazio socializzato del
villaggio si opponga all'errare nella foresta.
Alla morte del re, il noo e la pianta silvestre verranno bruciati in foresta. Il suo
spirito non potrà raggiungere l’al di là per poi reincarnarsi, ma verrà fissato in un
particolare feticcio che riunisce gli spiriti di tutti i re, in modo che non possa
fuggire in foresta, da dove potrebbe attaccare i vivi, come fanno gli spiriti degli
stregoni (kassisa) e quelli degli uomini morti prima dell’iniziazione (arebok). Il suo
corpo non verrà sepolto nella sua casa («è solo, non ha più un villaggio, né una
casa …» dicono i Bijagó), ma nel tempio degli spiriti degli uomini morti prima
dell’iniziazione (candja caorebok, b.), nel quale solo le donne che hanno già avuto
l’esperienza della possessione e le autorità rituali del culto di possessione
La foresta, quindi, come abbiamo visto, oltre ad essere lo spazio in cui gli
uomini esercitano le loro principali attività produttive, territorio occupato dagli
uomini, è anche mondo degli spiriti, territorio di anime dimenticate. Il mondo dei
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bijagó umani viventi e quello degli spiriti sono infatti come mondi paralleli; il
secondo, normalmente invisibile agli umani, ricopre il primo come una carta
trasparente su una mappa: il mondo degli spiriti illumina l’umano,
sottolineandone i contorni e i contrasti.
Le presenze che popolano la foresta (come possiamo vedere anche dalla tabella
2), sono molteplici e le caratteristiche che le contraddistinguono sono segnate in
generale da ambiguità e indeterminatezza. Anche Henry mette in evidenza
l’ambivalenza degli spiriti arebok, scrivendo che non sono «né morti né vivi, né
uomini né donne, a metà tra questo e l’altro mondo e sono caratterizzati
principalmente dalla loro ambiguità» (1994: 149).
Anche il loro aspetto è vago e indeterminato, sono in genere descritti come
forze invisibili e fluide, che si manifestano solo con odori sgradevoli o lamenti
strazianti. Solo il kassisa ha una precisa manifestazione corporea, ma il suo aspetto
testimonia la sua marginalità: come si trova a errare tra il mondo dei vivi e quello
degli antenati senza poter appartenere a nessuno dei due, così, per essere uno
spirito, conserva caratteristiche fisiche troppo materiali - la carne in
decomposizione, i capelli - e per essere un vivo queste proprietà corporee non
sono adatte: conserva infatti il corpo, ma in decomposizione, conserva la voce,
ma monocorde, priva delle tonalità e del ritmo propri della vita; ha bisogno di
cibo, ma non è in grado di procurarselo come fanno i vivi, né ha diritto alle
offerte come gli antenati.
L’indeterminatezza riguarda anche il mondo che ospita gli spiriti: la foresta è
infatti un mondo estraneo separato dal quotidiano, lo spazio del diverso, del caos
in cui si annidano forze straordinarie e pericolose, dell’imprevedibilità, del
disordine in opposizione allo spazio conosciuto del villaggio.
La foresta non è quindi il regno del male, quanto piuttosto il regno
dell’incertezza in cui bene e male si trovano mescolati e soprattutto è «uno spazio
particolare, fonte di vita, ma anche di pericoli» (Henry 1994: 73), lo «spazio senza
il quale non vi è crescita, né vera fecondità», in quanto «un uomo non diviene
veramente un uomo prima di aver vissuto in foresta (di essere stato kabido) e una
89
donna non diviene una vera donna che dopo d’esser stata posseduta da un essere
della foresta (l’anima di un morto non iniziato)» (Henry 1994: 83).
Il potere creativo della foresta deriva proprio dal suo carattere di disordine, di
sospensione della struttura84. Come ha chiaramente messo in evidenza Mary
Douglas:
«ammesso che il disordine rovini il modello, esso fornisce anche del materiale al modello
[…] nel disordine non vi è alcun modello, ma un infinito potere di crearne […] ha delle
potenzialità. Esso simboleggia sia il pericolo che il potere» (Douglas 1993: 157).
Foresta quindi come spazio in cui le varie strutture sociali vengono sospese e
in cui vengono riaffermate le strutture simboliche entro le quali è costituito il
significato dell’esistenza individuale e collettiva (Turner 1972: 10), luogo in cui si
ritorna al principio per recuperare il significato delle trasformazioni istituzionali
(Turner 1972: 21) e esteriorità cui rapportarsi per riscoprire l’identità originaria
dell’uomo in quanto “alterità” rispetto alla natura (Allovio 1994: 372).
Come precisa infatti Pogue Harrison:
«spesso chi vaga in una foresta sperimenta, in modo vuoi terrificante, vuoi affascinante, una
perdita dei confini temporali, quasi avesse fatto ingresso in un mondo di implicazioni in cui le
nostre categorie strutturali più profonde risultassero superflue o irreali […] è il luogo in cui le
nostre categorie soggettive si offuscano»; «è come se i campioni cavallereschi dell’ordine sociale
- i cavalieri - dovessero periodicamente perdersi al di fuori di esso per ritrovarsi al suo interno,
recuperando in tal modo la loro valentìa come difensori dell’ordine sociale» (Pogue Harrison
1992: 10, 83).
84 «L’antistruttura - scrive Victor Turner - è […] il tutto assunto in una situazione di sospensione strutturale, dove ogni membro della società ritrova il significato sociale globale» (Turner 1966: 9).
90
tabella 2. Gli esseri che abitano la foresta.
attori caratteristiche
Gli uomini
I kassisa
svolgono in foresta le loro principali attività (la raccolta dei caschi di xabéu, dei cuori di palma, l’estrazione del vino di palma, il disboscamento in vista della creazione di un campo di riso); il loro abbigliamento tradizionale è costituito da una pelle di capra della foresta, di gazzella o di un altro animale selvatico (Scantamburlo 1991: 40). spiriti maligni degli stregoni sepolti in foresta: riconoscibili per l’odore estremamente sgradevole e l’aspetto da cadavere vivente, sono costretti a vagare senza direzione per sempre.
Gli arebok
I �aro e i �abido
chiamati più correttamente oshó, sono le anime degli uomini morti prima dell’iniziazione, potenzialmente pericolosi per i vivi, in quanto non hanno ancora trovato una collocazione stabile, impossibilitati a raggiungere l’al di là in quanto non sono nemmeno divenuti “uomini”. Si presentano come ombre rivestite di foglie di palma secche. i �aro sono gli iniziandi durante il ritiro nella foresta che diventeranno �abido al momento dell’assegnazione del nuovo nome cambiando tutte le loro caratteristiche; verranno “mutilati dall’umanità comune”(Van Gennep 1996: 146), rasati, nudi, picchiati, insultati, ridotti a essere “semplice materia, sulla quale la società imprime una forma”(Turner 1972: 120).
Koratakó spirito silvestre dotato di un grande potere malefico, cui solo un
sacerdote maschio si può rivolgere; fabbricato in foresta è composto di foglie di palma secche o in procinto di marcire cui si possono aggiungere ingredienti umani, capelli, peli, unghie, sangue.
Oro�o è il re la cui caratteristica fondamentale è l’essere uno straniero
proveniente dalla foresta, viene catturato fuori dal villaggio, rasato ridotto al silenzio, trascinato per una corda; deve essere intronizzato anche dagli esseri della foresta ed è simbolizzato da una pianta silvestre (Cassia podocarpa) la cui salute condiziona il benessere del re e del suo
91
villaggio. La pianta viene curata e conservata in vita solo finché vive il re per poi essere sradicata e gettata nella foresta.
92
Capitolo IV
Emgbá: lo spazio femminile del villaggio
“Quando a lama se transforma em adobe
o sibe vira armação
a palha em cobertura
e o crintim se torna cerca,
è a morança que nasce
fruto de um trabalho colectivo,
lugar onde habitam os homens
das profundezas do Pais”
Carlos Lopes
(Montenegro, De Morais 1984)
[Quando il fango si trasforma in mattone, il sibe85 diventa armatura, la paglia tetto e la
palizzata si piega tutt’intorno, è la morança86 che nasce, frutto del lavoro collettivo, luogo in cui
abitano gli uomini delle profondità del Paese].
L’unità di base, politica e economica, della società bijagó è il villaggio87: esso è
autonomo e generalmente autosufficiente nelle sue attività socioreligiose e
economiche (Scantamburlo 1991: 43). I Bijagó sono un popolo matrilineare e
virilocale: la matrilinearità ha diritti di priorità nel regolare la residenza nel
85 Sibe: pianta simile alla palma, da cui si ricava un legno fatto di fibre molto resistenti, anche alle termiti, ideale per fare l’impalcatura del tetto. 86 Morança: in un villaggio la morança è un insieme di case, vicine le une alle altre, appartenenti a persone unite da legami di consanguineità. 87 Nen o emgbá secondo Scantamburlo (1991: 43); emba a Canhabaque (Henry 1994: 71); anden/neguen in Raul Mendes Fernandes (1989: 5-24).
93
villaggio, la successione nelle cariche e la trasmissione ereditaria delle proprietà88.
D’altro canto un uomo ha diritto di portare la moglie a risiedere nel proprio
villaggio.
Le donne, dalle quali dipende la continuità sociale dei villaggi, non vivono
quindi in questi stessi villaggi, ma in quelli dei mariti, a meno che non risiedano
sole con i loro bambini, ricevendo le visite episodiche dei loro sposi. Spesso,
infatti, per quanto ho potuto constatare nell’isola di Bubaque, le donne decidono
di continuare a vivere nel loro villaggio natale, insieme alle loro sorelle e ai loro
figli.
Come abbiamo già posto in luce nel precedente capitolo, il clan padrone della
terra, cui apparteneva il fondatore del villaggio, fornisce le autorità tradizionali del
villaggio, il re e la sacerdotessa, e benché il re sia considerato uno “straniero”
(deve essere scelto da un altro villaggio ed è considerato un essere legato alla
foresta) e la sacerdotessa una “autoctona” (viene scelta dal re e dal consiglio degli
anziani tra le donne del villaggio) sono considerati come fratello e sorella (Henry
1994: 185; Mendes Fernandes 1995: 76). Siccome la residenza è virilocale e la
discendenza è matrilineare, questo clan può trovarsi in inferiorità numerica nella
popolazione o anche teoricamente sparire, nel caso in cui tutte le madri che
vengono a installarsi appartengano a clan differenti dal clan proprietario del
villaggio. I clan sono esogami o per lo meno lo furono fino a un periodo recente,
quando i criteri del matrimonio cristiano vennero a turbare la proibizione del
costume tradizionale89 (Gallois Duquette 1983: 32). La discendenza per via
88 Secondo il mito, la discendenza matrilineare incominciò a determinare successione e eredità quando, un giorno che si perde nella notte dei tempi, «un re, sentendosi piuttosto malato, chiamò uno dei curatori djambacosse per curarlo, e questo gli rispose che avrebbe potuto esser curato solo con un rimedio preparato col sangue di uno dei suoi figli. Tutte quante le mogli del re non consentirono alla morte di uno dei loro figli; solo una sua sorella, figlia della stessa madre, si fece avanti, chiedendo al djambacosse se il sangue di uno dei suoi figli avrebbe potuto ugualmente salvare la vita del fratello. Il curatore rispose affermativamente; uno dei bambini venne ucciso e il re si salvò. Il re da allora in poi escluse i suoi figli dalla successione al trono e dall’eredità, destinando il tutto per i figli delle sue sorelle» (Lança 1890: 70). Questo mito di origine della matrilinearità è piuttosto comune in Africa Occidentale, essendo stato anche registrato da Almada (Brasio 1964) tra i Jalafos e i Malinké. Carvalho Henrique (1944: 85) e Guimarães (Mota 1947: 160) raccolsero questo identico mito tra i Bijagó. 89 Lo zio chiama i suoi nipoti “figli”, sia di lato materno sia paterno, ma in genere i Bijagó valorizzano lo zio materno e soprattutto la zia materna. Tutti i bambini, fratelli, sorelle, cugini, sono designati nello stesso modo, senza distinzione di sesso. Per contro, la terminologia oppone il fratello più anziano al
94
materna è il principio di unità di tutto il popolo, perché i quattro clan sono
presenti in tutte le isole e anche perché la matrilinearità non permette la divisione
della terra, che, essendo sempre appartenente a uno stesso clan, rimane proprietà
del villaggio.
Direttamente legati al sistema clanico sono gli ancanake, gruppi densi che
ospitano famiglie estese, che si allargano man mano che i ragazzi maschi si
sposano e si stabiliscono con la moglie attorno a loro padre. Ogni ancanake
possiede un suo nome e vive in modo semiautonomo in rapporto all’insieme del
villaggio (Gallois Duquette 1983: 32). Si potrebbe dire che il villaggio, per quanto
sia piccolo, è organizzato in quartieri che hanno un nome specifico, così che ogni
persona potrà dire di abitare il tale o il talaltro quartiere. Benché le case siano
costruite molto vicine le une alle altre, le case del re e della sacerdotessa sono a
una certa distanza e non appartengono a nessun quartiere. La casa del re si trova
nella piazza del villaggio, la casa della sacerdotessa vicino alla candja caorebok, al
santuario degli arebok, ai margini del villaggio. Comunque sia, del re e della
sacerdotessa si dice sempre che abitino l’etadi, la piazza centrale del villaggio
(Henry 1994: 74).
Se osserviamo un villaggio, ad esempio Bijante, possiamo notare che il tessuto
di implantazione delle capanne è irregolare: intorno alla piazza centrale le capanne
sono disperse sulla terra battuta, finché la foresta riprende i suoi diritti (figura 1).
Queste capanne presentano inoltre una differente architettura in relazione alle
persone che ospitano. L’organizzazione della società bijagó, infatti, è in gran parte
fondata su un ciclo rituale che distribuisce gli esseri umani in classi e gradi d’età,
come vedremo meglio nella terza parte della tesi. Tale struttura non è solo ideale,
la si vede nella realtà effettiva:
fratello più giovane e il cugino più anziano al più giovane. Quando due differenti famiglie hanno l’una un figlio, l’altra una figlia, il matrimonio tra questi è impossibile se la madre dell’uno ha o ebbe una relazione col padre dell’altro: si tratterebbe di un incesto, poiché i bambini chiamerebbero la compagna del padre madre. Allo stesso modo due persone dello stesso clan non potrebbero sposarsi: essi sarebbero colpevoli di incesto, perché entrambi figli della “madre” originaria (Gallois Duquette 1983: 33).
95
«dovunque il sistema funzioni è un’esperienza comune constatare […] come i partecipanti si
dispongano secondo l’appartenenza di classe e di grado» (Bernardi 1984: 59).
Henry, riferendosi proprio alla realtà bijagó, ribadisce:
«nel territorio del villaggio è assegnato a ogni persona, secondo il sesso e l’età, un posto
preciso, come se essere del villaggio coincida all’aver interiorizzato una geografia segreta»
(Henry 1994: 194).
Susan Kent, in un lavoro sull’uso dello spazio domestico, sulla stessa linea di
pensiero di Bernardi e Henry, conferma:
«la natura della struttura sociale rappresenta l’influenza primaria sulla configurazione
dell’organizzazione dello spazio domestico sia a livello dell’abitazione individuale, sia a livello
della comunità più ampia; […] la struttura sociale impone sia la forma che la natura delle
relazioni familiari nell’ambiente domestico. In pratica le dimensioni e l’appartenenza a una
comunità domestica, sono definite e lo spazio abitato è organizzato sulla base dei fondamentali
principi psicologici che strutturano la società» (Kent 1990: 153,168).
Secondo Scantamburlo, infatti, possiamo distinguere quattro tipi differenti di
abitazione, destinati a categorie di persone e a usi diversi (vedi figura 2):
1. nancú - la casa di un uomo sposato (kassuká);
2. cadjoco - la casa in cui abitano i giovani prima dell’iniziazione e, talvolta, le
ragazze adolescenti;
3. candja - il tempio nel quale si realizzano le cerimonie segrete, generalmente
rotondo;
4. caora - il granaio per conservare il raccolto, di forma sempre quadrata e col
pavimento sopraelevato per proteggere i beni alimentari dall’assalto delle
formiche e delle termiti; le donne sono le sue uniche proprietarie.
Scantamburlo aggiunge inoltre che «tradizionalmente le donne sono le principali
costruttrici di case, incaricate di portare l'acqua, di preparare il fango rosso, di
96
erigere le pareti, di tagliare e di intrecciare la paglia del tetto, di indurire e livellare
1. nãko - la casa coniugale rotonda, che agli occhi del villaggio connota
l’installazione ufficiale della donna sposata (secondo la tradizione d’altronde
solo le donne sarebbero capaci di costruire muri circolari) e che solo gli uomini
iniziati che già parteciparono all’iniziazione di altri uomini hanno il diritto di
possedere (Gallois Duquette 1983: 38);
2. la casa rettangolare dei ragazzi giovani non iniziati (i �alo);
3. kadibi - il santuario degli spiriti;
4. kaola - il granaio, proprietà delle donne, nel quale, talvolta, vengono accolti gli
ospiti di passaggio (Henry 1994: 80-81) 90.
Se la foresta, come abbiamo visto nel capitolo precedente, era il regno del
disordine e del caos, nel villaggio non ci sono sorprese: c’è un posto per ogni cosa
e ogni persona, conformemente al suo sesso e alla sua posizione nella scala delle
classi d’età, ha una collocazione stabilita dalla tradizione, come mette in evidenza
anche Henry scrivendo che presso i Bijagó «l’organizzazione dello spazio abitato
trasporta su un piano spaziale la progressione in età degli abitanti del villaggio»
(Henry 1994: 83). Il villaggio, dunque, con le parole di un mio informatore, è un
posto “sicuro”. Ogni cosa “diversa” è stata infatti sistematicamente allontanata;
coloro che, per una qualche loro caratteristica, sono stati respinti dal centro della
comunità, si sono alleati con la foresta.
Per tenere sotto controllo il passaggio tra la foresta e il villaggio, tra la piazza
centrale e la foresta si trova il santuario degli arebok (candja caorebok), costruito su
un piano rettangolare. L’edificio si apre da due porte, l’una che dà sul villaggio,
l’altra sulla foresta. Se la foresta che circonda il villaggio generalmente non viene
coltivata per evitare rischi di incendio quando si bruciano le sterpaglie, questa
regola dettata dal buon senso diviene imperativa per quanto concerne la foresta
90 La differenza tra i termini riportati da Scantamburlo e Henry è minima ed è motivata dal fatto che hanno lavorato su differenti isole. Gallois Duquette riporta gli stessi termini di Scantamburlo (Gallois Duquette 1983: 38).
97
che si trova dietro al santuario. Un villaggio, infatti, è di solito circondato da una
cintura di grandi manghi, spazio intermediario tra il villaggio e la foresta. Dietro al
santuario, invece, non ci sono i manghi, ma c’è immediatamente la foresta. Il
santuario costituisce dunque una sorta di limen tra la foresta e la piazza centrale
del villaggio. Sono le donne, le uniche che possono entrare in questo tempio, che
controllano quindi ogni forma di comunicazione tra la foresta e il villaggio (Henry
1994: 74).
Il villaggio bijagó, dunque, non solo è uno spazio collegato alle donne, alle
quali spetta il compito di costruire le case e che lì trascorrono la loro giornata,
svolgendo le loro attività quotidiane, ma è anche l’area sulla quale vigilano gli
antenati e in cui vengono sepolti coloro che sono morti di una “buona morte”.
Esso è il luogo in cui gli arebok, gli spiriti dei giovani morti prima dell’iniziazione,
possedendo le donne, divengono entità benefiche; è lo spazio cui appartengono a
pieno diritto gli uomini solo quando divengono kassuká; è il regno dello spirito
Orebok Okotó protettore del villaggio; è lo spazio nel quale si trova il grande albero
del fondatore del villaggio, doppio vegetale della sacerdotessa okinka.
1. I “buoni morti” sepolti in casa
Come abbiamo già accennato, e come vedremo approfonditamente più avanti,
ogni essere vivente è dotato di uno spirito durevole (orebok), che, a parte i casi
eccezionali che abbiamo visto nel precedente capitolo (paragrafi 4 e 5), dopo la
morte raggiunge un posto chiamato anarebok91, il regno di Nindo. La cosmogonia
bijagó non pone un limite invalicabile tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi:
98
una nascita, infatti, è il ritorno, la reincarnazione dell’orebok di una persona che ha
avuto una regolare sepoltura. I funerali sono quindi concepiti come necessari per
permettere il viaggio degli arebok del villaggio fino all’al di là.
Coloro che hanno avuto una buona morte vengono seppelliti dai loro parenti
nella stanza centrale della casa coniugale. Le case coniugali bijagó, come ho
potuto osservare personalmente e come riportano differenti autori (Verissimo
Fernandes 1946: 74, 1947: 10; Leitão 1946: 64; Santos Lima 1948: 422; Mota e
1983: 41; Paiva 1990: 119-120; Henry 1994: 80) presentano uno spazio centrale
circolare (anaanãko a Canhabaque, annani a Bubaque), circondato da una galleria
(akumo a Canhabaque, ancobanu a Bubaque) divisa in più parti e da una veranda
(etokoba a Canhabaque, eticanaki a Bubaque). Le case possiedono sempre almeno
due porte diametralmente opposte, che corrispondono alle due entrate della
camera centrale (cfr. figura 2).
La stanza centrale92, che è quella in cui si trova il focolare e il letto della
padrona di casa, che divide coi suoi bambini più piccoli (l’uomo di casa e i figli
grandi dormono, infatti, nella galleria ancobanu), si chiama letteralmente «il ventre93
della casa», dato che la radice naa o nã94, significa “ventre” (confermato da Santos
Lima 1948: 422; Almeida 1952: 245; Paiva 1990: 119; Henry 1994: 80).
Mi sembra plausibile dedurne che il ventre della casa sia uno spazio femminile
simbolicamente associato al ventre della madre: è in questo luogo, infatti, che le
donne della casa partoriscono e nel pavimento, in cui sono sepolti i morti, viene
91 Nella lingua bijagó “an” è un prefisso di luogo: anarebok che noi tradurremo con “al di là”, significa quindi letteralmente “il luogo dove sono gli spiriti”. 92 Come hanno messo in evidenza molti autori, la casa è una struttura simbolica di particolare importanza. Scarduelli sottolinea al riguardo che «la distribuzione degli spazi abitati carica la casa di significati simbolici, la trasforma in una mappa del sistema delle relazioni sociali... in una metafora dell’ordine naturale, in un microcosmo che riflette l’immagine della società e dell’universo» (1992: 96) e aggiunge Françoise Paul-Lévy che «la casa, nel dominio della rappresentazione, sembra avere un’importanza considerevole. Mentre la nozione di villaggio è fluida, mal delimitata, inconsistente, lo spazio della casa, ben piantato sui suoi quattro muri, è carico di senso, intessuto di simboli. Il villaggio è già presso la foresta. La casa, ordinata all’estremo, si apre sul disordine di questa foresta» (Paul-Lévy 1983: 45). 93 L’estensione di termini anatomici a soggetti non anatomici è comune tra i Bijagó. 94 Dominique Zahan (1970: 113) associa la casa africana al ventre umano, poiché come gli affari interni o domestici sono associati alla donna, allo stesso modo lo sono gli spazi interni della casa. Secondo Simões (1935: 422), tra i Nalus nã significa “madre”, “ventre materno”.
99
seppellita anche la placenta. Uscito dal ventre della casa materna, è quindi nel
ventre della sua casa che un bijagó tornerà per il suo ultimo viaggio, quello che lo
condurrà all’al di là. Come nella casa del re e nel santuario degli arebok, per entrare
nella camera centrale di una casa coniugale bisogna infatti togliersi le scarpe, per
rispetto ai morti che vi sono seppelliti.
Si comprende allora come la camera centrale, il cui suolo è un memoriale delle
nascite e delle morti della famiglia e che rappresenta il luogo della partenza delle
anime verso l’al di là e del loro ritorno sotto forma di una nascita, costituisca un
luogo di grande rilevanza simbolica: esso è lo spazio dove si congiungono il
mondo dei morti e quello dei vivi, tramite la mediazione delle donne. Alla morte
di una persona, secondo quanto mi è stato detto sul campo, la sua casa sarà
lasciata cadere in rovina (quando si tratti di una casa coniugale, questo non sarà
fatto che alla morte del sopravvissuto della coppia). La casa che ha ospitato la
coppia in vita servirà loro da tomba. Come sottolinea Paul-Lévy, seppur in
generale e senza riferirsi a un preciso contesto etnografico:
«la casa terminata e abitata è assimilabile all’umanità adulta atta a procreare; è il mondo
finito95. Luogo di esistenza della famiglia di cui ella costituisce il punto di partenza e il punto in
cui si conclude l’esistenza umana, la casa costituisce una rappresentazione totale della vita
dell’Universo. Ella è un elemento vivente» (Paul-Lévy 1983: 54).
Nel villaggio, quindi, spazio femminile per eccellenza, come sottolinea Mendes
Fernandes (1989: 5-22), e nella stanza centrale della casa, abitata solo dalle donne
e simbolicamente legata al loro ventre materno, i morti secondo le regole trovano
la giusta sepoltura, che permetterà loro di compiere il viaggio per l’al di là e di
ritornare un giorno nel grembo di una donna.
Questi morti rimarranno inoltre nella memoria del villaggio in qualità di avi
venerati e protettori, in qualche modo integrati alla comunità, per quanto confusi
in una massa indistinta. I Bijagó, infatti, non ricordano i nomi degli antenati (al di
95 I Bijagó di Bubaque per parlare di “casa” in generale utilizzano il termine kadjoko, che al plurale si dice nadjoko e significa anche “il mondo intero”.
100
là delle quattro fondatrici mitiche dei clan) e se nel corso delle cerimonie
invocano dei nomi precisi, si tratta sempre di persone vive e vegete.
Da quanto ho potuto constatare sul terreno, i Bijagó di Bubaque non hanno
nemmeno un termine particolare per designare gli antenati. In genere, per parlare
dei morti, utilizzano sempre il termine arebok, accompagnandolo con aggettivi
qualificativi come okotó (grande), obaju (vecchio) o obuo (anziano) o utilizzano
espressioni quali “okotó opeo” (un vecchio già morto)96.
Anche Henry a Canhabaque ha riscontrato l’assenza di un termine preciso per
designare gli antenati (1994: 92), mentre Scantamburlo scrive che gli avi vengono
chiamati nenti e sono considerati gli elementi più importanti del villaggio, perché,
grazie al loro grande potere, possono aiutare i vivi a mantenere la ricchezza e il
benessere del villaggio (1991: 71).
Scantamburlo mi ha inoltre scritto, in una lettera personale, che, dalle sue
ultime ricerche, risulta che lo spirito protettore del villaggio, Unikan Orebok Okotó
(il termine unikan significa spirito, medicina, fonte di salute)97, altro non è che la
sede delle anime degli antenati con a capo il fondatore del villaggio (come
vedremo meglio nel terzo paragrafo). Egli è l’intermediario tra i viventi e il
mondo degli spiriti e a lui ci si rivolge per comunicare con Nindo. È così viva la
credenza nell’esistenza degli antenati - scrive inoltre Scantamburlo - che il bijagó
pensa che la sua vita sarà piena di successi solo se continuerà a calcare le orme di
coloro che lo hanno preceduto. Le cerimonie di iniziazione non sono altro che il
ripetere le azioni e i ritmi della vita antica dei Bijagó, perché i nuovi arrivati sulla
terra apprendano la storia e le gesta dei loro antenati.
Da quanto ho potuto conoscere dell’iniziazione maschile e soprattutto di
quella femminile, non posso non trovarmi d’accordo con quest’ultima
affermazione di Scantamburlo. Contrariamente a quanto ha sostenuto Henry -
96 «Kopytoff (in Africa 41:2, 1971: 129-42) ha criticato l’opposizione vivi/defunti che nella letteratura antropologica sottende la nozione di antenato, osservando che in molte lingue africane un unico termine denota gli anziani e gli antenati […] Lungi dal costituire figure distinte, anziani e antenati sembrano dunque far parte di un’unica rappresentazione concernente il rispetto della tradizione e dell’ordine costituito e l’esercizio dell’autorità e del controllo sociale» (Fabietti, Remotti 1997: 50).
101
«nella realtà, sono solo le donne che sono possedute […] agli uomini (uomini in
opposizione alle donne) l’inviato di Dio dà i feticci e il potere di fabbricarli […] la
possessione sarà appannaggio delle donne […] Ciò che le donne vivono in una
relazione d’essere, gli uomini la vivono in una relazione d’avere» (1994: 100-104) -
durante la mia permanenza sul campo ho avuto modo di constatare che la
possessione, tra i Bijagó, non è solo un’esperienza femminile.
Come vedremo meglio nella terza parte della tesi, anche gli uomini, nel periodo
liminare dell’iniziazione, nel momento dell’assegnazione del nuovo nome,
vengono posseduti da un antenato della loro famiglia (generalmente prossimo,
della I o II generazione rispetto all’iniziando) che portò lo stesso nome iniziatico
(ossia il nome di uno dei figli delle quattro antenato mitiche; non sono molti e si
ripetono sempre). Tramite questa possessione l’antenato sarà non solo di aiuto nel
superare le dure prove che attendono il novizio, ma lascerà al giovane la saggezza
e il sapere del passato da lui custodito. In questo modo niente viene perso, i
ragazzi diventano uomini acquisendo i ricordi dei loro avi. Tra i Bijagó ad ogni
iniziazione il passato si ripete e torna in vita, così come ad ogni nascita torna a
vivere un defunto.
2. Gli arebok nel corpo delle donne: entità benefiche
Attraverso la possessione, raggiunta con la danza nel cuore del villaggio, le
donne, come abbiamo già avuto occasione di ribadire, ridanno in qualche modo
vita agli uomini che sono morti prima di aver terminato il loro percorso iniziatico.
L’orebok, che è originariamente un ragazzo morto, una potenza malefica associata
agli uomini che vaga senza direzione in foresta, viene trasformato, attraverso
l’iniziazione, in una potenza benefica “vivente” associata alle donne, che danza
pubblicamente nella piazza del villaggio e che si rivela un utile intermediario con
l’al di là. La possessione che ogni donna subisce ad opera di un orebok, causa
97 Anche presso i Banande dello Zaire, come ha messo in evidenza Carlo Buffa in un saggio sulla medicina indigena, gli strumenti empirici di cura (le “erbe”) si presentano, fin dai loro fondamenti, strettamente connessi agli strumenti spirituali (Buffa 1996: 96).
102
quindi non solo un passaggio dal gruppo degli uomini a quello delle donne, ma
anche un’inversione della natura dell’influenza degli spiriti.
Questo compito svolto dalle donne non ha tuttavia come scopo principale il
far guadagnare l’al di là agli arebok, in quanto in realtà questi spiriti rimangono tra i
due mondi fino alla morte della donna che hanno posseduto, con la quale
affronteranno il viaggio verso Nindo. Finché la donna è in vita il suo orebok la
ripossederà periodicamente passando dal mondo dei vivi a quello dei morti,
conservando, quindi, la caratteristica dell’indeterminazione98.
Oltre al fatto che l’orebok non trova comunque una collocazione fissa, il
mistero della possessione crea un ulteriore paradosso, in quanto un uomo morto
e una donna viva si trovano a condividere lo stesso corpo. Secondo Gallois
Duquette, sembra che questa inversione di genere99 in cui una donna svolge il
ruolo di un uomo, sia percepita piuttosto negativamente dagli abitanti
dell’arcipelago, come situazione ambigua in cui non si è più donne, né tanto meno
“quella” specifica ragazza del villaggio che si era prima100 (Gallois Duquette 1983:
154).
Basandomi sulle mie osservazioni personali, invece, mi pare che i Bijagó
facciano un uso affermativo di questa ambiguità potenzialmente distruttiva101.
Abbiamo detto precedentemente che la nascita è il ritorno dello spirito di un
morto che viene a reincarnarsi (prima forma in cui un morto torna in vita
98 14 febbraio, riunione delle donne nella candja caorebok di Etuato, villaggio di Bijante (dato che Bijante è un villaggio piuttosto grande, si è diviso in due parti - in kriolo “de riba” e “de bassa”, ossia Bijante alto e Bijante basso - ciascuna delle quali ha un suo santuario - Etuato e Ancorete -, come se si trattasse di due villaggi separati. Conversazione con Duminga, una delle adepte più anziane. 99 Non sembra si abbiano molti altri esempi di inversione di genere. Gallois Duquette riporta però che nei comandamenti e precetti mormoni, si dice che una donna possa essere battezzata al posto di un uomo morto prima del battesimo (1983: 154). Victor Turner affronta, nel V capitolo de Il Processo Rituale, il tema dell’inversione di status, proprio nel caso che vede le donne attribuirsi ruoli e caratteristiche maschili (1972: 182). 100 Gallois Duquette ha sottolineato che agli occhi della popolazione sembra non ci sia transfert di sesso: l’uomo morto non diviene una donna e, viceversa, la giovane ragazza resta se stessa fino al momento in cui, posseduta, non esiste più in quanto donna (1983: 154). Una officiante di questo culto di possessione mi ha però riferito che, durante la possessione, ambedue le anime [della donna viva e dell’uomo morto] restano nel corpo, benché l’entità maschile sia predominante. Per questo motivo una donna posseduta può dire, ad esempio, “enga uonam munti munri enho enduk” che significa “questo è l’uomo che io porto dentro il mio corpo”. 101 Anche l’ambiguità insita nel mistero del potere della donna di far nascere esseri di due generi a partire da un unico corpo è vissuta come positiva e feconda.
103
attraverso il corpo di una donna) e, come abbiamo appena visto, anche gli uomini
morti prima dell’iniziazione tornano in vita tramite il corpo di una donna. Questa
“doppia nascita”, come ha correttamente messo in evidenza Henry, conferisce
agli arebok un rango di “divinità” che spiega il fatto che, anche una volta terminata
la loro iniziazione, non andranno a fondersi con gli altri spiriti dei morti nell’al di
là (Henry 1994: 148). Non solo, aggiungo io, ma, come ha sottolineato Bruce
Lincon, esaminando diversi rituali iniziatici femminili:
«l’unione tra due forze o entità opposte come maschio e femmina è qualcosa di metafisico,
perché è una vera e propria coincidentia oppositorum, una fusione di opposti che creano da una
separazione una totalità più imponente.[…] Le differenze tra le due entità contrastanti si
risolvono in una sintesi più elevata. […] L’unione complementare degli opposti dà luogo a
un’entità superiore alle proprie componenti» (Lincon 1983: 33, 139, 11).
Riferendosi proprio alle donne bijagó, José Lamy, in un saggio sulla morte
nelle etnie Fulbe e Bijagó, sottolinea questa loro caratteristica di «coincidentia
oppositorum dell’esistenza umana, spazio in cui si regola l’equilibrio cosmico tra vita
e morte» (Lamy 1986: 153).
Questa possessione pare quindi essere una sorta di esperienza mistica che,
permettendo a un principio malefico di rinascere come entità benefica grazie al
medium fisico delle donne, conferma e magnifica le donne in quello che sono già:
delle fonti di vita. È la forza creativa delle donne, la loro “qualità biofila” (Stella
Piccone e Saraceno 1996: 14) che fa da protagonista: il loro ruolo di procreatrici,
di creatrici e sostentatrici di vita.
Questo culto di possessione, nel quale le donne fanno attraversare agli arebok le
tappe dell’iniziazione, costituisce una sorta di percorso iniziatico anche per le
donne, che permette di completare la loro maturazione e socializzazione. Sempre
secondo le ricerche di Lincon sull’iniziazione femminile:
104
«l’iniziazione come rito in cui un individuo immaturo viene completato e reso adulto,
richiede la fusione del maschile col femminile. Una fanciulla diviene donna diventando intera,
definendosi in opposizione e in unione con elementi maschili» (Lincon 1983: 34).
Giacché questa possessione femminile ha, come osserva Henry, «tra gli altri,
anche il fine di costruire l’identità sociale dell’uno e dell’altro sesso» (1994: 147),
sembra che per creare una completa donna bijagó sia necessario l’intervento di un
principio maschile: i Bijagó - scrive anche Henry - fabbricano uomini e donne
adulti dotando gli uomini di qualcosa di femminile e le donne di qualcosa di
maschile (1994: 150). Sembra dunque che, per divenire pienamente adulta,
ciascuna persona debba ricevere il suo completamento dal sesso opposto.
Rivedendo ciò di cui abbiamo finora parlato, possiamo reperire questa logica di
inclusione del contrario in altri domini del pensiero bijagó: quando fondano un
villaggio conservano nel suo centro sacro qualcosa della foresta; quando vogliono
unire un territorio, scelgono come re uno straniero. Ancora una volta il medesimo
gioco delle opposizioni maschile/femminile, morte/vita, foresta/ villaggio.
3. I kassuká, uomini reintegrati al villaggio
Una nuova iniziazione fa passare i �abido, dei quali abbiamo parlato nel capitolo
precedente, allo stadio di kassuká, di anziani. Divenuti tali, gli uomini vengono
reintegrati al villaggio e possono ritornare nella casa paterna o costruirsi una casa
propria, giacché sono i soli uomini che, essendo già stati iniziati e avendo già
partecipato all’iniziazione di altri uomini, hanno il diritto di possedere una
abitazione (Henry 1994: 76).
Acquistano anche il diritto di sposarsi e di vivere con le loro spose, per quanto
non possano riavere le donne che frequentavano quando erano �alo. Sono
considerati padri legali dei loro figli e possono ugualmente allevare i figli ricevuti
in eredità alla morte di un loro fratello uterino o del loro zio materno. Partecipano
al consiglio degli anziani e alle cerimonie riservate agli uomini iniziati; hanno
105
raggiunto una maturità tale da poter fabbricare feticci, qualora siano dotati del
potere di chiaroveggenza “in tu bu” (in significa vedere lontano, tu è un
dimostrativo e bu significa testa, letteralmente: vedere oltre questa testa) e
conoscano le piante (Gallois Duquette 1983: 98; Scantamburlo 1991: 58; Henry
1994: 99, 131).
Diventando anziani - come afferma Mandes Fernandes - gli uomini acquisiscono
quindi il privilegio di vivere nel villaggio, spazio delle donne, il diritto di sposarsi e
la proprietà della terra: l’appartenenza alla classe dei kassuká dà accesso al segreto,
alle donne e alla terra (1989: 19).
4. Orebok Okotó: il Grande Spirito del villaggio
L’unikan Orebok Okotó102 è lo spirito guardiano del villaggio ed è presente nelle
cerimonie pubbliche più importanti (Scantamburlo 1991: 66). Henry, descrivendo
Yakunue, l’Orebok Okotó di un villaggio di Canhabaque, lo definisce “lo spirito
della terra del villaggio”, al quale ci si rivolge in tutte le occasioni che concernono
l’intera comunità, cioè nei riti legati al ciclo agrario, nelle cerimonie di
ringraziamento al re e al momento dell’interrogazione dei morti (Henry 1994: 93).
A Bubaque (come a Canhabaque) solo il Grande Spirito è rappresentato da una
scultura antropomorfa103, mentre tutti gli altri spiriti sono aggregati informi
(Gallois Duquette 1983: 176). L’Orebok Okotó del santuario di Etuato, nel villaggio
di Bijante, si chiama Cungaran104 ed è costituito da due parti: la testa (copricapo,
viso e collo) s’incastra infatti sul bordo superiore di un volume cilindrico
parzialmente svuotato. Gallois Duquette e Henry, che, durante le rispettive
ricerche sul campo, hanno osservato gli Orebok Okotó di altri villaggi, ne danno
una descrizione molto simile (figura 3), scrivendo che «si presenta sotto forma di
un oggetto di base cilindrica coperto di tessuto rosso, cinto di una palma
102 Gallois Duquette sostiene che presso i Nalus vi sia uno spirito molto simile all’Orebok Okotó bijagó (1983: 160). Confronta nel primo capitolo della tesi, il paragrafo intitolato “Precarietà dell’identità e occultamento delle origini”. 103 A Formosa e a Orango, invece, l’Orebok Okotó è di forma sferica e modellato in una materia non identificabile (Gallois Duquette 1983: 176). 104 Cungaran, fratello di Baba del santuario di Ankamona, proviene da terra Nalus (conversazione con Tetè, 14 aprile 1997).
106
annodata. Ne emerge un collo allungato, sormontato da una piccola sfera in legno
scolpita, che gli abitanti del villaggio descrivono come una testa» (Gallois
Duquette 1983: 177; Henry 1994: 93).
Gli elementi più importanti della scultura sono quindi la testa e il ventre, per
quanto per scolpire il ventre, che riceverà i miscugli sacri e le libagioni, si impieghi
un legno di qualità migliore che per la testa dell’effigie (Gallois Duquette 1983:
167, 177, 194). Il legno generalmente usato, chiamato in bijagó unikan mborebok
(letteralmente “medicina dello spirito”), cresce nei pantani di acqua dolce e ha una
corteccia rossastra che, schiacciata, viene utilizzata come medicina contro i dolori
di cuore e intestinali. Gli altri legni usati per scolpire la statua, secondo la
tradizione del villaggio, sono l’econtonto (dalberga saxatilis, della sottofamiglia delle
Papilionoideae), il camudú (della famiglia delle leguminoseae) e il consondró (khanya
senegalensis, della famiglia delle meliaceae) (Gallois Duquette 1983: 177).
L’essenziale per la consacrazione dell’orebok okotó è però un ingrediente fatto di
sangue animale, uova e foglie di piante, che viene collocato nel ventre della
Fernandes 1946: 16). In particolare Santos Lima nel 1947 sottolineò che
105 Secondo i miei informatori, per quanto l’Orebok Okotó sia la somma di tutti i morti del villaggio, non è comunque riducibile a questo. Non bisogna dimenticare, infatti, che è una potente entità spirituale che si trova tra Nindo e gli uomini, quasi rappresentazione di Nindo in terra.
108
«l’interpretare i desideri di Orrebuco Ocotô in un chiesa propria è sempre
compito di una donna: quella donna, nella lingua bijagó si chiama oquinca e la sua
chiesa Candja-m» (1947: 75). In tempi più recenti André Gordts, in un articolo
sulla statuaria tradizionale bijagó, ha definito l’okinka come «la sacerdotessa
dell’Orebok Okotó, incarnazione della generazione della terra e mediatrice tra dio e
il popolo» (1976: 11) e Henry sottolinea che, per “nutrire” l’Orebok Okotó, la
sacerdotessa deve tenere continuamente acceso il fuoco in casa e fare frequenti
libagioni (1994: 93).
5. L’okinka e l’albero del fondatore del villaggio
L’interesse degli autori del periodo coloniale fu a lungo catalizzato dalla figura
dell’okinka, in particolare per tentare di comprenderne l’effettiva funzione: molti
autori di inizio secolo credettero infatti di trovarsi di fronte a potenti regine e
parlarono dell’arcipelago delle Bijagó come di un regno matriarcale. Per questa
ragione, prima di affrontare direttamente l’argomento centrale del paragrafo, mi
sembra opportuno delineare per sommi capi le analisi proposteci da questi autori
Bernatzik 1967) integrandole con indagini recenti (Gallois Duquette 1983;
Pélissier 1989; Scantamburlo 1991; Henry 1994), che offrono una diversa
soluzione del problema.
All’inizio del XX secolo, più precisamente negli anni 30, un esploratore
austriaco, Hugo Adolf Bernatzik, percorse l’arcipelago accompagnato da uno
specialista di antropologia fisica, il professor Struck, effettuando un lungo
soggiorno nell’isola di Orango, che egli descrisse come «una monarchia assoluta,
poiché nessun villaggio ha un capo proprio, come nelle altre isole, ma tutti
dipendono dal re che risiede a Etikoka, il più grande villaggio dell’isola»
(Bernatzik 1967: 42). Bernatzik era arrivato probabilmente sull’isola poco tempo
109
dopo la morte della regina Pampa106 e a questo regno egli attribuì una evidente
fisionomia matriarcale, tant’è che scrisse che «sotto il governo di questa sovrana i
diritti della donna si moltiplicarono considerevolmente rispetto a quelli degli
uomini» (Bernatzik 1967: 31). Bernatzik racconta anche di un’altra donna che
aveva regnato a Canhabaque e che era morta poco tempo prima del suo
soggiorno nell’arcipelago, la regina Idiana Ibop107 (Bernatzik 1967: 184).
Già nel 1936 il maggiore Luís António de Carvalho Viegas, nel corso delle sue
ricerche nell’arcipelago, aveva creduto di trovare il potere regale nelle mani delle
donne, tant’è che scrisse che «la regina Pampa, scomparsa da pochi anni, ebbe più
potere che molti re di altre tribù» e che «la regina Juliana fu la grande animatrice
della resistenza dei canhabaquesi, fino al 1926» (1936: 151). Dieci anni dopo, Jose
Mendes Moreira confermava le affermazioni di Viegas precisando che «Donna
Aurelia e Donna Juliana108 furono regine di Canhabaque e la “rachitica” ma
energica Pampa fu regina di Orango» (1946: 106).
Nello stesso anno tuttavia Augusto Santos Lima sostenne la tesi opposta,
osservando che «le Aurelie, le Juliane, le Pampa, avvolte nelle nubi delle nostre
leggende, mai furono regine, per la irrevocabile motivazione che a una donna è
proibito - per la loro legge consuetudinaria, politica, sociale e religiosa - ascendere
a questa dignità» (1947: 74). Basandosi sulle sue indagini storiche e su diversi
colloqui con gli anziani, ipotizzò questa soluzione del problema:
106 La regina Pampa morì, si dice, a più di cent’anni, nel 1929 (Gallois Duquette 1983: 59). 107 Secondo René Pélissier la regina Idiana Ibop, vedova di un capo molto potente, cui succedette, venne ricordata anche col nome di Juliana. Le sue reali funzioni erano di sacerdotessa, ma tutti i capi delle altre isole la ricordarono per la sua tenace ostilità contro i Portoghesi e per la sua fierezza di regina (1989: 212, 253). 108 Sembra che il colonnello Joaquim Antònio de Matos (1788 - 1843) e Caetano José Nosolini (1800-1850) avessero per compagne due donne bijagó, o supposte tali, Julia e Aurelia (Carreira 1981: 31). Julia da Silva, secondo Pélissier era cugina di un re di Canhabaque (Pélissier 1989: 83), mentre Mendes Moreira ce ne parla come di una «regina di Canhabaque, che animò l’insurrezione di quegli irrequieti bijagós contro al nostro dominio fino al 1925» (Mendes Moreira 1946: 110). Aurelia è stata considerata regina dell’isola di Orango. Ma, contrariamente alla leggenda, Pélissier sostiene che non siano mai esistite regine, ma che si trattasse di sacerdotesse che svolgevano un ruolo importante, tanto spirituale che secolare (Pélissier 1989: 44).
110
«la legge tradizionale dei Bijagós stabilisce che, in caso di morte del re e nel caso in cui non
sia possibile fargli succedere un uomo appartenente alla “Geração do Chão”109, salga al trono,
debitamente consigliata dalla Grandesa110, dall’Oamcandjam-ô 111 e dal fabbro (Odjiqui)
l’Oquinca112. Sono così spiegate le Aurelie, le Juliane e le Pampa. Queste donne erano Iaquinca
(sacerdotesse). Per diritto proprio alla loro funzione possono ascendere alla reggenza, ma non
divengono veramente Regine, perché tra i Bijagós le donne non possono essere regine» (Santos
Lima 1947: 77).
Il ragionamento di Santos Lima pare fondato: dalle ricerche di Gallois
Duquette, infatti, risulta che, ancora all’inizio di questo secolo, la sacerdotessa
aveva sufficiente importanza da poter rimpiazzare il sovrano dopo la sua morte
per diversi anni. Più precisamente, durante il suo soggiorno sul campo nel 1976,
gli anziani di Canhabaque spiegarono a Gallois Duquette che l’okinka è “come
una regina”, pur non essendo né una regina, in quanto non esiste questo ruolo, né
la donna del re (che in bijagó viene chiamata orema) (Gallois Duquette 1983: 74).
In effetti la regina Pampa dimorò e fu sepolta nel santuario di Orango, tutt’oggi
luogo di culto e, come Gallois Duquette mette in evidenza, solo le okinke, tra le
donne, possono abitare ed essere seppellite nel tempio (1983: 59). A Etikoka, il
villaggio che fu di Pampa, ancor oggi le okinke abitano il santuario, rinunciando
completamente alla vita di famiglia.
Sfatato quindi il mito dell’esistenza di regine e del matriarcato nell’arcipelago
delle Bijagó, possiamo entrare nell’argomento prescelto descrivendo la figura
dell’okinka, come è stata delineata dagli autori recenti (Gallois Duquette 1983;
Henry 1994; Mendes Fernandes 1995) e basandomi sulle mie personali
osservazioni.
L’okinka, tradizionalmente designata dal re su proposta degli anziani, è scelta
tra le “donne grandi” (akanto bowa) di una classe d'età che abbia già compiuto i
109 Geração do Chão: clan padrone della terra (in kriolo). 110 Grandesa: il consiglio degli anziani (in kriolo). 111 Oamcandjam-ô: sacerdote - officiante (in bijagó). 112 Oquinca: sacerdotessa (in bijagó).
111
rituali iniziatici113 e abbia guidato una promozione minore (Henry 1994: 185): una
donna di una certa età, dunque, ma non per forza una donna anziana.
Generalmente la sacerdotessa ha la reputazione di essere posseduta da un morto
potente114, posizione che si traduce nella vita corrente in una autorità che sconfina
largamente il dominio rituale. L’okinka veglia infatti il fuoco sacro, interpreta i
movimenti degli uccelli sacrificati davanti al Grande Spirito e agli altri iran della
geração dona do chão (il clan padrone della terra), è guardiana dello spirito che
garantisce la salute del ventre delle donne (e di conseguenza protegge le donne
nella loro funzione di riproduzione), dirige le cerimonie femminili del dufuntu ed è
in costante relazione con gli spiriti, che può interpellare anche al di là del suo
periodo di possessione115 (Gallois Duquette 1983: 74-75; Mendes Fernandes
1995: 76).
La sacerdotessa dunque si distingue dalle donne comuni nella relazione con gli
arebok per l'atto divinatorio. Un donna ordinaria può proferire parole oracolari
quando, posseduta, entra in trance, ma le è impossibile, fuori da questo momento,
poter vedere o consultare il suo spirito possessore. Per contro, quando si consulta
una sacerdotessa, lei sacrifica dentro al santuario all’Orebok Okotó e quindi, tramite
il Grande Spirito, l'insieme dei morti del villaggio garantisce la verità delle sue
parole (Gallois Duquette 1983: 60; Henry 1994: 187).
113 Le donne non sono escluse dal sistema iniziatico, in quanto come abbiamo già avuto modo di sottolineare, hanno l’incarico di iniziare i giovani morti prima di aver terminato il percorso iniziatico. La realizzazione di questa iniziazione rappresenta in forma simbolica - secondo Mendes Fernandes (1995: 73) - il potere femminile di controllare la minaccia degli spiriti, poiché solo le donne hanno il potere di fare loro percorrere il cammino iniziatico trasformandoli in entità benefiche, porta-parola dell'al di là e garanti della tradizione, delle quali esse restano le sole interpreti. 114 Quando le donne bijagó desiderano valorizzarsi, dicono generalmente “orebok okotó”, “il mio orebok è grande, è potente”. 115 Secondo quanto mi ha raccontato il suonatore del tamburo sacro del villaggio di Bijante, l'okinka era l’unica donna che poteva entrare, anticamente, nell’ambito iniziatico maschile, per quanto questa usanza si sia persa. L’okinka, però, conosce e, a differenza delle donne normali, ammette pubblicamente di conoscere, ciò che accade ai novizi durante la reclusione in foresta. Spartirà in segreto questo sapere con le altre donne, durante il periodo della loro possessione. Già alle origini, aggiunge Pedro, quando furono stabilite le regole del manras, termine che significa sia «iniziazione» sia «patto», l’okinka e le altre donne parteciparono delle decisioni e condivisero i segreti. Colui che decise di porre questa regola per meglio organizzare la società bijagó, colui che propose il manras, il patto, “oukout iabon’gha diquidik, iaudé na okãnto, n’bonaqui na iag”, ossia «chiamò i grandi tutti, uomini con donne, e conversò con loro».
112
Anche il suo abbigliamento è diverso da quello delle donne normali: il petto è
generalmente coperto da una seconda gonna di fibra appoggiata sulle spalle e
porta sulla testa, come nessuna altra persona, una mezza zucca incisa. Già Santos
Lima aveva notato questa sua peculiare caratteristica, poiché scrive che «come
segno distintivo della sua funzione l’oquinca porta, calcata sulla testa, come se
fosse un cappello, una mezza zucca adatta alla sua taglia» (1947: 76).
Il particolare della zucca mi pare in realtà rivestire un profondo significato
simbolico. Abbiamo già avuto modo di vedere, nel capitolo precedente, parlando
della divisione del lavoro, che la preparazione e la decorazione delle zucche
compete esclusivamente alle donne e che la zucca è l’utensile più usato dalle
donne per cucinare e raccogliere i cibi. L’associazione donna/zucca appare in
molti altri ambiti della cultura bijagó, come ad esempio nella cerimonia della scelta
del coniuge: è in una zucca che la donna colloca il riso che offre, per proporsi in
matrimonio, all’uomo che le interessa (Valoura 1972: 266). Inoltre, come è stato
appena messo in evidenza, la zucca riveste funzione metonimica in quanto
simbolo del potere della sacerdotessa.
Non è raro nell’Africa occidentale incontrare la zucca come segno distintivo di
funzioni tipicamente femminili. Nel Tchad, presso i Mudang, la grande figura del
potere femminile, una guaritrice incaricata di prendersi cura delle ragazze durante
la gestazione e il parto, utilizza una zucca come strumento di guarigione
necessario all’efficacia del suo rituale: è la zucca che attira i chinri, le anime della
malattia, per farle uscire dal corpo della paziente (Zenpleni 1973: 141-178). Come
nota Denise Paulme:
«metafora o metonimia, la zucca, per tutta l’Africa è di segno femminile. Strumento di lavoro
domestico per eccellenza, la padrona della casa vi conserverà i liquidi, il grano, i condimenti; le
più piccole serviranno da cucchiaio o da mestolo, le grandi ospiteranno stoffe, vestiti, conchiglie
[...]. Per i suoi molteplici utilizzi [la zucca] evoca a un tempo, oltre alla cucina, attività femminile
in primo luogo, l’idea di abbondanza, principalmente sotto la forma di semi o di liquidi, cioè
un’abbondanza rappresentata in modo molto adeguato dal simbolo della donna o della madre»
(Paulme 1976: 282).
113
La zucca, insegna della funzione di okinka, viene posta sul capo della
sacerdotessa dal suonatore del tamburo sacro e questa costituisce l’unico
momento pubblico del suo rito di intronizzazione, per il resto molto segreto.
Dopo la designazione, la futura sacerdotessa trascorre un periodo di ritiro dentro
al santuario dei ritornanti, in compagnia delle altre sacerdotesse dell'isola; in
seguito le donne del villaggio la fanno uscire dal santuario, stringendosi intorno a
lei in un cerchio compatto per nasconderla alla vista, e la fanno entrare nella sua
casa dalla porta posteriore. Infine, la sacerdotessa esce dalla porta anteriore e si
mette sulla soglia. Più tardi si procurerà un bastone dipinto o scolpito, secondo
emblema del suo nuovo status (Henry 1994: 185).
Per quanto la cerimonia per l’intronizzazione di una sacerdotessa resti per
molti versi oscura, è certo che la sua messa in carica non necessita del
riconoscimento degli arebok della foresta (come accade invece per il re),
probabilmente in quanto ella è già naturalmente, per la sua posizione di donna, in
stretti rapporti con questi spiriti.
L’okinka instaura con il villaggio, nel quale esercita la sua funzione, un rapporto
differente rispetto a quello del re: la sacerdotessa, infatti, deve appartenere al clan
padrone della terra, ma deve anche essere una autoctona, ossia deve appartenere
al villaggio del quale sarà okinka. L’esteriorità del re - commenta Mendes
Fernandes in un saggio sull’organizzazione della società bijagó - contrasta con
l’interiorità della sacerdotessa (1995: 76). Se infatti la presenza del re sulla piazza è
rappresentata da una pianta rampicante raccolta nella foresta, la sacerdotessa
trova il suo doppio vegetale nell’albero del fondatore del villaggio. Per fondare un
nuovo villaggio bisogna infatti scegliere un bell’albero (in genere un grande
mango, Mangifera Indica) che costituisce il punto centrale intorno al quale si
organizza lo spazio. Il villaggio bijagó si presenta dunque come un
raggruppamento serrato di case attorno a una piazza centrale, ombreggiata da un
grande albero.
In questa piazza al centro del villaggio ci sono quindi due elementi silvestri,
simbolicamente in contrapposizione: l’albero infatti è autoctono come la
114
sacerdotessa, la pianta è trasferita come il re; l’albero duraturo come un villaggio,
la pianta effimera come un regno. Sia Henry che Mendes Fernandes hanno
affermato al riguardo che, se il culto del re è circoscritto nello spazio e nel tempo,
quello della sacerdotessa è permanente e collettivo e che, se i Bijagó manifestano
una certa malevolenza nei confronti del re, la sacerdotessa gode di una stima e di
un rispetto assolutamente senza riserve (Henry 1994: 185; Mendes Fernandes
1995: 76). Se il re, quindi, è un essere che giunge dalla foresta, uno straniero che
viene da fuori, la sacerdotessa è da sempre legata al villaggio, è “il dentro”,
l'immagine della comunità ripiegata su se stessa.
Come è stato messo in evidenza, quindi, il villaggio, contrariamente alla
foresta, è uno spazio perfettamente organizzato, nel quale tutto è definito sulla
base delle regole che strutturano la società e, per quanto possibile, protetto dalle
intrusioni del mondo esterno. Le vie di comunicazione con il mondo della foresta
sono controllate: abbiamo visto che la candja caorebok, il santuario delle donne
possedute dagli arebok, rappresenta, o deve idealmente rappresentare, una sorta di
frontiera tra la foresta e il territorio occupato dagli uomini. Coloro che fanno
parte del villaggio, le presenze umane o spirituali che lo popolano, hanno
caratteristiche (tabella 3) molto diverse da quelle delle entità in relazione alla
foresta (tabella 2, capitolo III).
tabella 3. Gli esseri in relazione al villaggio
attori caratteristiche
le donne
Svolgono nel villaggio le loro principali attività (intreccio dei vimini per la realizzazione dei cesti per custodire le sementi (nosaco), per mondare il riso (ninsár) e per trasportare l’olio di palma col quale ungono i neonati (nandá); preparazione delle zucche; cura dei
115
i buoni morti
gli arebok nel corpo delle donne
I kassuká
Orebok Okotó
l’okinka
bambini; preparazione dei pasti e tutte le principali occupazioni domestiche); il loro abbigliamento tradizionale è costituito da una gonna tradizionale fatta di paglia (candí), costituita da tre strati detti in ordine dall’interno all’esterno (varicokwe, carétena, carabene), colorata di bianco, nero o rosso con differenti disegni (Gallois Duquette 1983: 130; Scantamburlo 1991: 40). Coloro che hanno avuto una buona morte vengono seppelliti dai loro parenti nella stanza centrale della casa coniugale. Il loro viaggio verso l’anarebok, l’al di là, sarà lineare e rimarranno nella memoria del villaggio in qualità di avi venerati. Al posto di costituire fonte di pericolo, aiutano i vivi a mantenere la ricchezza e il benessere del villaggio. Lo spirito protettore del villaggio, l’Unikan Orebok Okotó, è la sede delle anime degli antenati, con a capo il fondatore del villaggio. Le anime degli uomini morti prima dell’iniziazione, possedendo il corpo delle donne, diventano potenze benefiche “viventi”, che danzano pubblicamente nella piazza del villaggio e che si rivelano utili intermediari con l’al di là. Quando, tramite una nuova iniziazione, i �abido divengono kassuká, vengono reintegrati nel villaggio, spazio delle donne, e acquisiscono il diritto di sposarsi, la proprietà della terra, la possibilità di avere una casa propria: l’appartenenza alla classe dei kassuká dà accesso al segreto, alle donne e alla terra. È lo spirito guardiano del villaggio che è presente nelle cerimonie pubbliche più importanti. È rappresentato da una scultura antropomorfa che presenta caratteristiche femminili; contiene i defunti di tutti i tempi, che tramite lui possono essere contattati: dimora nel santuario delle donne (candja caorebok), protetto dalla sacerdotessa okinka. È composto di legni pregiati e gli vengono sacrificati esclusivamente animali domestici o cibo tradizionale, mai prodotti selvatici. È la sacerdotessa la cui caratteristica fondamentale è l’essere scelta tra le donne del villaggio nel quale è nata; gode di una stima e di un rispetto senza riserve; non deve essere intronizzata dagli esseri della foresta, poiché, in quanto donna, è già in relazione con gli arebok; è simbolizzata dall’albero del fondatore del villaggio, che si trova nella piazza centrale ed è uno dei punti fondamentali attorno al quale si organizza lo spazio. Sorveglia la candja caoerbok come frontiera tra i vivi e i morti, si occupa di mantenere acceso il fuoco sacro dell’Orebok Okotó.
Se mettiamo in comparazione i due mondi, foresta e villaggio, e le figure a loro
collegate, trattandoli come se fossero categorie (frutto quindi di astrazione116)
sotto le quali raccogliere una serie di attributi, possiamo notare che alla foresta
sono connessi concetti quali negatività, disordine, ambiguità, alterità,
straordinarietà, vaghezza, destrutturazione, dissolvimento della forma, precarietà,
pericolo, mancanza del tempo e del ricordo; al villaggio sono invece legate idee
116 Sarebbe importante comprendere fino a che punto questa duplicità di dimensioni sia rintracciabile nella “coscienza” che la cultura bijagó ha di se stessa.
116
quali positività, ordine, chiarezza, identità, ordinarietà, certezza, strutturazione,
mantenimento della forma, stabilità, sicurezza, tempo che scorre e memoria
(tabella 4).
Ma foresta e villaggio non possono esistere l’uno senza l’altro: i poli di
opposizione sono necessariamente anche in rapporto dinamico, in costante
tensione dialettica, non quindi categorie tipologiche rigide, ma mondi in
connessione, tra i quali esistono legami e vie di attraversamento. Nella sicurezza e
nella positività del villaggio si annida, infatti, la debolezza che deriva dalla
ripetitività, dalla staticità. La foresta «spazio senza il quale non vi è crescita, né
fecondità» (Henry 1994: 83) è necessaria al villaggio, così come l’antistruttura alla
struttura, affinché «grazie alla processualità antistrutturale, la struttura sociale non
si esaurisca in se stessa» (Turner 1972: 20). Al contempo, per quanto
l’antistruttura sia necessaria per mantenere viva la struttura e per quanto nessuna
società possa funzionare adeguatamente senza questa dialettica (Turner 1972:
145), è comprensibile che, dal punto di vista di chi è interessato al mantenimento
della struttura, ogni manifestazione di antistruttura appaia come pericolosa: ciò
che non può essere classificato chiaramente nei termini dei criteri tradizionali di
classificazione infatti - come ha dimostrato Mary Douglas - è considerato
ovunque pericoloso (Douglas 1993: 77).
Nella tabella 4 possiamo quindi vedere rappresentata questa comparazione
astratta. Le due colonne non sono state separate per dare in qualche modo anche
graficamente l’idea della connessione e della reciproca dipendenza.
tabella 4. Comparazione tra foresta e villaggio
foresta villaggio
uomini
kassisa
arebok
����alo e ����abido
donne
buoni morti
gli arebok nel corpo delle donne
kassuká
117
koratakó
oro����o
Orebok Okotó
okinka
negatività positività
disordine ordine
ambiguità chiarezza
alterità identità
straordinarietà ordinarietà
vaghezza certezza
destrutturazione
dissolvimento della forma
precarietà
pericolo
tempo dell’indifferenziazione (mancanza
del ricordo)
strutturazione
mantenimento della forma
stabilità
sicurezza
tempo dell’individuazione (della
memoria)
Foresta e villaggio non sono dunque spazi autarchici e fissi e non si possono
ridurre a un codice binario: nella realtà, infatti, vi è reciprocità, attiva influenza e
dialettica costante. Abbiamo già accennato a un canale di comunicazione tra
foresta e villaggio, cioè il santuario degli arebok (candja caorebok), che si apre sul
villaggio e sulla foresta. La connessione tra foresta e villaggio e il riequilibrio dei
poteri maschile e femminile è visibile anche in determinati spazi che potremmo
definire “intermedi”, come suggerisce Mendes Fernandes (1989: 7-8).
All’interno dello spazio maschile infatti (an’oka, la foresta) si installa una
regione ben limitata di potere femminile (an’oka arebok, la foresta degli arebok)
dove le donne, trasformatesi in arebok, compiono il cammino iniziatico.
All’interno dello spazio femminile (emgbá, il villaggio) invece si trovano il noo, il
piccolo santuario sotto il quale vive la pianta sacra doppio vegetale del re, e la casa
stessa del re, entrambi elementi che simbolizzano il potere maschile nel villaggio.
Anche il campo di riso (an’kunu) occupa una posizione particolare: questo
spazio, infatti, quando è investito dall’energia viva degli uomini nei lavori di
118
disboscamento e della bruciatura, è uno spazio maschile, ma, quando le donne si
occupano dei restanti compiti (mondare, seminare, raccogliere), diviene
simbolicamente femminile. Potremmo altrimenti dire che in un primo momento
questo spazio fa parte della foresta e in un secondo del villaggio: infatti al suo
interno si installano accampamenti provvisori nei quali le famiglie abitano per
tutto il periodo delle piogge (Mendes Fernandes 1989: 8). Foresta e villaggio,
uomini e donne, oro�o e okinka, quindi, non rappresentano forze in opposizione,
in guerra, ma piuttosto forze in positiva tensione dialettica: solo la loro influenza
reciproca, i loro legami, i loro contrasti possono rappresentare la complessità della
vita, nella quale i Bijagó intrecciano la loro esistenza.
119
PARTE TERZA
Le piroghe d’anime
Capitolo V
120
Il ciclo di vita come percorso di costruzione dell’essere umano
1. Premessa teorica
Nessuna cultura può prescindere dalla formulazione di una qualche
antropologia, ovvero di una qualche immagine dell’uomo, di ciò che l’uomo (o la
donna) è e di ciò che dovrebbe essere. Secondo Clifford Geertz, infatti, si può
ragionevolmente affermare che “almeno una qualche idea di cosa sia l’essere
umano, in contrapposizione ad una roccia, un animale, un temporale o un dio, è
universale” (Geertz 1988: 75).
L’impegno fondamentale di ogni cultura, evidenzia Remotti che si è
recentemente occupato dei processi di costruzione dell’essere umano117, consiste
non soltanto in una teorizzazione di ciò che l’uomo è, quanto piuttosto nel
compito di dar luogo a una qualche forma di umanità, di costruire, di fabbricare,
di foggiare un qualche tipo di uomo (Remotti 1996: 165).
L’uomo non è, ma diventa - dice Remotti, riprendendo Herder118. È però
impossibile diventare uomini o donne in modo neutro, pacifico, naturale; lo si
diviene sempre in modo particolare, conflittuale, socialmente negoziato,
culturalmente condizionato (Remotti 1996: 22). Per tentare di definire l’essere
umano, per “inventare”, “modellare” una specifica forma di umanità non si può,
inoltre, fare a meno di riflettere sui rapporti tra i sessi, stabilendo anche in questo
caso un insieme di differenze e di comunanze.
In questo capitolo mi occuperò di determinare l’idea che i Bijagó hanno (ma
che solo in parte si rendono conto di avere) della differenza tra uomini e donne e
di mettere in luce, analizzando il lungo cammino di formazione e di costruzione
117 Interesse che si inscrive nell’ottica del progetto di ricerca, presentato nel giugno 1995 al C.N.R. dal Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’Università di Torino, intitolato “Antropo-poiesi: idee e processi di costruzione dell’essere umano in una prospettiva inter-culturale”.
121
della persona umana, in che modo è possibile divenire un uomo (o una donna)
bijagó. Ho cercato di raggiungere quest’idea ricercando e analizzando le forme
simboliche - parole, immagini, istituzioni, comportamenti - nei termini in cui le
persone rappresentano se stesse agli altri nella vita di tutti i giorni. Poiché, come
ha giustamente sottolineato Bob Connell, uno dei più originali scrittori
avventuratasi nel terreno delle relazioni di genere, “il genere è un processo
piuttosto che una cosa, ed è un processo strettamente sociale” (Connell 1987:
141)119, ho cercato di ricostruire questo processo osservando come la cultura
bijagó “costruisca” il genere120, ossia come “crei” le differenze tra ragazze e
ragazzi, tra donne e uomini, differenze che non sono naturali, essenziali o
biologiche (West, Zimmerman 1987: 24).
In ogni cultura, infatti, sono presenti delle linee di demarcazione a seconda del
sesso e, come suggerisce Gianfranca Ranisio, che si è a lungo occupata di queste
problematiche, è importante rilevare come i comportamenti ritenuti “connaturati”
al sesso maschile o femminile varino a seconda delle società e, quindi,
approfondire e problematizzare il ruolo svolto dalla cultura nel determinare ciò
che è maschile e ciò che è femminile (Ranisio 1996: 10).
L’osservazione della differenza tra sessi si trova alla base del pensiero, sia
tradizionale sia scientifico. Fin dalla nascita del pensiero, infatti, osserva Françoise
Héritier che alla costruzione dell’opposizione maschile/femminile ha dedicato il
suo ultimo lavoro, la riflessione degli esseri umani non ha potuto dirigersi che su
quanto era loro dato di osservare più da vicino, cioè il corpo e l’ambiente nel
quale il corpo è immerso. Il corpo umano, luogo di osservazione di costanti - sede
degli organi, delle funzioni elementari, degli umori - presenta tuttavia un tratto
notevole e certamente scandaloso: la differenza sessuale e il differente ruolo dei
118 “Noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno” (Herder 1971: 217). 119 Con le parole di Henrietta Moore, “il genere è un processo, piuttosto che una categoria, ossia come l’individuo diventa [uomo o donna], piuttosto di che cosa l’individuo è [di cosa rientra nelle categorie “uomo” e “donna”” (Moore 1994: 820). 120 Rubin Gayle, nel saggio The Traffic in Women del 1975, ha introdotto ufficialmente nel discorso scientifico il termine “genere”, dall’autrice inglobato nell’espressione sex-gender system. Con sex-
gender system Rubin denomina l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e
122
sessi nella riproduzione (Héritier 1997: 6). Come Ranisio, anche Héritier ci invita
a osservare le categorie di genere non come fenomeni a valore universale, generati
da una natura biologica, bensì come costruzioni culturali121. Infatti, per usare le
sue parole, “con uno stesso ‘alfabeto’ simbolico universale, ancorato a questa
natura biologica comune, ogni società elabora ‘frasi’ culturali particolari e che le
sono proprie” (Héritier 1997: 8).
Negli anni recenti si è sviluppato un intenso dibattito teso a stabilire la misura
in cui alcune caratteristiche ricorrenti delle personalità, associate rispettivamente a
uomini e donne, esprimano semplicemente un aspetto della natura umana oppure
la conseguenza di un condizionamento culturale.
I discepoli di Sigmund Freud sostenevano che le caratteristiche anatomiche e i
ruoli riproduttivi diversi dell’uomo e della donna determinassero a priori il destino
di entrambi e, quindi, anche le loro personalità fondamentalmente differenti: gli
uomini più “maschili” (attivi, aggressivi e violenti) e le donne più “femminili”
(passive, sottomesse e pacifiche). La definizione, elaborata a Vienna da Freud, di
un temperamento specificamente maschile e di uno femminile non è universale,
come oggi ammettono le recenti correnti etnopsichiatriche122, che, avvicinandosi
all’antropologia, oppongono alla tendenza a leggere il dato biologico in maniera
organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro: creando appunto il “genere” (Rubin 1975: 157; Piccone, Saraceno 1996: 7). 121 Nelle discussioni sul sesso e sul genere è emerso un termine che si è rivelato particolarmente problematico: questo termine è “naturale”. Nel dibattito riguardo alle origini delle cosiddette differenze sessuali e riguardo alla natura delle relazioni tra uomini e donne, sono state presentate diverse asserzioni, che avevano il tratto comune di utilizzare la parola “naturale”, descrivendo le differenze presenti nella vita sociale tra uomini e donne come originate dalla differenza biologica. Queste posizioni sono state duramente criticate negli ultimi decenni e i recenti studi sul genere, avvalendosi anche di diversi lavori etnografici, hanno messo in luce che tutte le nozioni su ciò che il genere è, su ciò che uomini e donne sono e su quali tipi di relazioni instaurano, non si basano su “dati” biologici, ma sono prodotte da processi sociali e culturali. Gli studi etnografici hanno mostrato infatti che, all’interno di differenti tradizioni culturali, l’enfasi posta sui fattori biologici è variabile; alcune culture sottolineano che le differenze maschio-femmina, sono assolutamente fondate biologicamente, mentre altre danno alla diversità biologiche un’enfasi veramente minima. Sia sesso che genere (non solo il genere), quindi, sono socialmente costruiti, l’uno in relazione all’altro. Le parti del corpo e i processi fisiologici non hanno significato al di fuori delle concezioni socialmente costruite per comprenderli: lo stesso corpo umano è un artefatto umano e la riproduzione sessuale non è tanto un processo fisiologico, quanto una attività sociale (Moore 1994: 819-820). 122 Discussioni avvenute in occasione del convegno “Cliniche in situazioni transculturali. Incontro-confronto con Tobie Nathan”, Torino 10-12 ottobre 1997.
123
deterministica, la grande varietà di interpretazioni che il dato biologico di fatto
riceve nelle diverse culture umane.
Ruth Benedict e Margaret Mead già molti anni prima (nella prima metà del
secolo) avevano dimostrato che l’individuo è il prodotto della cultura nella quale è
inserito. Mead, in particolare, affermò che i tratti del carattere maschile e
femminile derivassero dai messaggi culturali appresi e interiorizzati dagli individui
dei due sessi, diversi quindi tra loro non tanto per predisposizione organica,
quanto per la differenza esercitata dalla cultura su di essi123 (Mead 1935; 1949). La
differenza tra i sessi appare perciò soprattutto come differenza di ruoli che ogni
società riproduce e tramanda come stereotipi (Cavarero ed altri, 1987: 27). Mead
studiò infatti tre tribù della Nuova Guinea - gli Arapesh, i Mundugumor e i
Tchambuli - e dimostrò in diverse culture che possono esistere netti contrasti per
quanto riguarda i ruoli sessuali (Harris 312).
In particolare, per costruire la trama di questo capitolo, ho fatto riferimento al
primo lavoro di Mead, frutto di una ricerca nelle isole Samoa (Coming of Age in
Samoa - 1928), nel quale si mostra come a valori culturali diversi corrispondano
modelli educativi differenziati e come questi ultimi diano luogo alla formazione di
personalità individuali diversamente orientate.
Sulla traccia della Mead, ho cercato di seguire le varie tappe del ciclo di vita,
come viene concepito dai Bijagó, soffermandomi sui momenti fondamentali di
trasformazione dell’essere umano, per ricostruire il processo con il quale si dà
forma e si crea una “persona completa”.
123 L’idea che i termini “donna” e “uomo” denotino costrutti culturali, piuttosto che tipi naturali, è stata avanzata da Margaret Mead che, in Sex and Temperament, ha arguito che esiste una considerevole variabilità culturale nelle definizioni di femminilità e mascolinità. Questo approccio fu esteso e sviluppato nel 1970 e le recenti ricerche etnografiche sulla variabilità dei modi in cui le categorie “uomo” e “donna” vengono considerate in differenti contesti culturali, dimostrano chiaramente che le differenze biologiche tra i sessi non possono costituire una base universale per le definizioni sociali. In altre parole, non si può dire che le differenze biologiche determinino le costruzioni di genere, ragion per cui risulta che non ci può essere un significato unico o essenziale attribuibile alla categoria “donna” o alla categoria “uomo”. La distinzione tra sesso biologico e genere si è rivelata assolutamente cruciale per lo sviluppo delle analisi femministe nelle scienze sociali, perché ha permesso a questi studiosi, di dimostrare che le relazioni tra donne e uomini e i significati simbolici associati alle categorie “donne” e “uomo”, sono socialmente costruiti e non possono essere assunti come naturalmente fissati o predeterminati (Moore 1994: 815).
124
Tale “processo di fabbricazione”, che si attua nel corso della vita, è un
cammino che conduce dall’incompletezza alla completezza, dalla malleabilità alla
durezza, dal chiaro allo scuro. Cercherò, quindi, di ricostruire questo percorso,
questo “viaggio antropopoietico”, basandomi essenzialmente sulle mie
osservazioni sul campo, iniziando dalla nascita - dal momento cioè in cui, nel
pensiero bijagó, un antenato torna in vita entrando nel ventre di una donna - fino
al raggiungimento della vecchiaia e della morte, concepita quindi non come il
termine della esistenza, ma come un passaggio del tragitto ciclico (il ciclo della
vita), che costituisce il fondamento per una nuova nascita biologica.
Poiché per affrontare questo argomento mi baserò principalmente sulla mia
esperienza sul terreno (non essendo stato mai approfondito dagli autori che si
sono occupati dei Bijagó), prima di svolgere questo compito, tenterò di rendere
trasparenti i diversi fattori che hanno condizionato - e permesso - la mia ricerca e
la mia interpretazione, a cominciare da come il mio “essere come sono” ha
influenzato il corso della mia ricerca sul campo, fino a mettere in luce il rapporto
tra le mie interpretazioni e le parole dei miei informatori.
2. La mia presenza
Negli ultimi anni si è scritto molto riguardo all’ineludibilità del genere nel
lavoro di ricerca sul campo (Agar 1980; Shaver, Hendrick 1987; Golde 1988;
Boddy 1989; Maher 1989; Lorber, Farrell 1991; Okely, Callaway 1992; Hill e
Irvine 1993; Valle 1993). Questi studi ci hanno mostrato che la generale pretesa di
neutralità deve essere abbandonata. Non c’è modo di eliminare la nostra
presenza/coscienza dalle nostre attività sul campo; la nostra fisicità e il nostro
background costituiscono parte della realtà. Questo implica non solo la
consapevolezza che l’etnografo è una persona con una distinta biografia, ma porta
anche a rendersi conto che la propria cultura, il proprio vissuto, guida i propri
125
interessi, condiziona il modo di osservare, di comprendere, di interpretare.
Michael Agar, in un capitolo significativamente intitolato Who are you to do this?,
giunge ad affermare che, qualora diverse persone esaminino la stessa area, le
differenze delle loro passate esperienze, del loro background, saranno causa di
contraddizioni nei loro risultati (Agar 1980: 49).
Dopo aver compreso e accettato il fatto che l’identità del ricercatore può
cambiare gli scopi, i metodi della ricerca e i suoi paradigmi interpretativi, compare
la consapevolezza che ciò che i locali si aspettano su cosa l’etnografo vuole da
loro imparare e le loro decisioni su cosa potergli dire, derivino, almeno
parzialmente, dalla loro percezione di chi lui o lei è (Agar 1980: 41). Ranisio, che
si è occupata di credenze e rituali relativi al parto, ha osservato che l’antropologa,
in quanto donna, nel fare ricerca sul terreno scopre di non essere considerata
sessualmente neutra e di portare contemporaneamente sul campo la sua
caratterizzazione di genere (Ranisio 1996: 8; Maher 1989: 13-24).
Nel lavoro sul terreno si mettono in gioco, quindi, non solo le caratteristiche
esteriori, quali il sesso, l’età, la personalità, l’aspetto, ma anche il ruolo di
interazione sociale che si intende rivestire in quel determinato contesto, ossia, non
solo “chi sei”, ma soprattutto “cosa vuoi”.
Spiegare il motivo della propria assidua presenza, della costante partecipazione
a ogni attività del villaggio, della registrazione di discorsi appartenenti al
quotidiano, della curiosità per azioni ordinarie - interesse che desta in genere un
certo stupore - non è cosa semplice. Come ha giustamente sottolineato Agar, se si
intende spiegare la propria presenza dicendo “sono un antropologo e sono qui
per studiare le vostra cultura”, la descrizione, sebbene tecnicamente corretta,
potrebbe rivelarsi non veramente informativa, specialmente per un gruppo che
non abbia idea di cosa si intenda con “antropologia” e “cultura” (Agar 1980: 55).
Altrimenti si può spiegare il proprio interesse per un modo alternativo di vivere,
stimolando il confronto, insinuando nel proprio interlocutore la curiosità di
paragonarsi, sebbene, anche in questo caso, si debba tener presente che non
sempre le altre persone sono interessate a conoscere un pensiero differente.
126
Allo stesso tempo, emerge il problema dell’orientare e portare a termine una
ricerca, cercando di osservare tutto, di domandare, di non perdere parole
significative, sapendo - e nel lavoro sul campo è un peso che grava sulle spalle
dell’etnografo - di essere lì per concludere qualcosa, per scrivere un saggio, un
libro, nel mio caso una tesi di laurea. Remo Guidieri ha dedotto dalla sua
esperienza sul campo che “l’ascolto etnografico non può produrre che degli
oggetti irrimediabilmente segnati da due attributi: l’incompletezza e l’inquietante
estraneità dell’alterità. L’incompletezza deriva dal tipo stesso d’interrogazione con
cui si raccolgono informazioni; il senso d’alterità è legato alla preoccupazione che
ha motivato quell’interrogazione” (Guidieri 1988: 23).
Cercare di vivere le situazioni e i rapporti dimenticando di dover poi scrivere
un testo, senza pensare di dover poi “rendere in frasi la vitalità del reale” (Geertz
1990: 152), perdere la preoccupazione cui, come scrive Guidieri, è legato il senso
di alterità, è un compito estremamente difficile.
John Miller Chernoff, etnomusicologo, raccontando in modo estremamente
personale e originale le sue sensazioni sul campo, scrive che quando “con calma
soddisfazione realizzai di non aver nulla da dire, […] persi il mio desiderio di
scrivere tutto su ciò che imparavo e iniziai ad avvicinarmi al modo di vita africano
come a una personale alternativa” (Chernoff 1979: 7-9). Anche Agar sperimenta
la stessa sensazione e decide di “smettere di cercare di vedere tutto” per iniziare a
vivere le relazioni in modo personale (Agar 1980: 47).
Condividendo il pensiero di Chernoff e Agar, ho cercato di vivere insieme alle
donne bijagó124 dimenticando, per quanto possibile, lo scopo della ricerca,
lasciando che le informazioni che accumulavo giorno per giorno s’organizzassero
da sé. Cercherò quindi di descrivere ciò che ho visto, le situazioni vissute
direttamente o indirettamente, le discussioni e i discorsi ascoltati, i gesti osservati,
tentando di rappresentare il processo di ricerca nel prodotto della ricerca.
Mettendomi in campo, non fingendomi neutra rispetto alla ricerca e non
occultando le voci singole dei miei informatori, cercherò di continuare a
124 Al di là dello scambio di convenevoli superficiali, o di conversazioni di ordine molto generale, mi è risultato impossibile, in quanto donna, instaurare rapporti di confidenza con gli uomini.
127
relazionarmi con i miei interlocutori indigeni nel testo scritto come soggetti e non
come oggetti, pur nella consapevolezza che poi sono io che scrivo, con tutti i
problemi di trasportare il contesto condiviso nel testo scritto. Tenterò inoltre di
spiegare perché, in una società dove l’essere uomo o donna costituisce un
elemento discriminante nel determinare quali tipi di relazione si possono
instaurare e quali tipi di conoscenza possono essere esplorati, il mio principale
amico e informatore è stato un uomo, anche rispetto ad ambiti che, in quanto
uomo, gli sarebbero stati preclusi.
Comincerò quindi col presentare il mio principale informatore e amico, i cui
commenti e le cui osservazioni mi hanno aiutato a comprendere, mi hanno spinta
a riflettere e i cui consigli pratici hanno guidato il mio comportamento rivelandosi
preziosi.
3. Pedro Banca
Ho conosciuto Pedro cercando qualcuno che potesse aiutarmi a tradurre in
kriolo alcuni canti femminili che avevo registrato e dei quali mi interessava,
ovviamente, comprendere il significato. Mi era stato indicato come un valido
aiuto per almeno due motivi: innanzitutto per la sua fama di uomo legato ai valori
della società bijagó e di profondo conoscitore della sua cultura, essendo anche per
nascita legato a personalità rituali del villaggio (sua madre è infatti l’okinka del
villaggio di Ancamona e suo padre, Tcharte Banca, è lo scultore-guaritore-
pautero125 del villaggio di Bijante, una persona dotata di grande cultura, un uomo
stimato da tutti); in secondo luogo per la sua abbondanza di tempo libero, a causa
di un incidente che purtroppo lo ha costretto all’immobilità.
Abbiamo fatto la reciproca conoscenza allietati dal vino di palma e Pedro, a
differenza degli altri uomini, che raramente si rivolgevano a me se non per
scherzare o per fare i galanti, si è rivelato un amico acuto e pronto a parlarmi con
125 Essere pautero (in bijagó �o djoun ta bù) significa essere dotato dalla nascita della capacità di smascherare i feiticeiros, di conoscere e utilizzare le erbe medicinali, di contattare gli spiriti.
128
serietà, interessato alle mie domande e a sua volta stimolato dal mio interesse ad
approfondire le questioni che affrontavamo.
Il mio rapporto con Pedro si rivelava quindi piuttosto inconsueto,
specialmente in una società in cui uomini e donne raramente si confrontano
dialetticamente126. Lo stesso Pedro d’altronde si trova in una situazione
particolare nei confronti della comunità bijagó: la sua posizione è infatti
‘marginale’ quanto meno in due sensi. Innanzitutto, essendo rimasto paralizzato
cadendo da una palma, si trova costretto a rimanere al villaggio con le donne,
mentre gli uomini vanno in foresta o a pescare. Questa sua condizione lo rende
quindi molto vicino al mondo delle donne, e perché impossibilitato a prendere
parte alle attività maschili, e perché vive in una casa di sole donne - sua madre e le
sue sorelle con i loro bambini - non avendo potuto costruirsi una famiglia.
In secondo luogo, forse sempre a causa della forzata immobilità, si è dedicato
per anni a coltivare attività intellettuali, fino a sviluppare un grado di obiettività
sorprendente riguardo ai valori della sua società. Per un breve periodo inoltre, per
vedere se la medicina occidentale poteva aiutarlo, ha vissuto in Italia, a Torino
(avvalendosi dell’aiuto finanziario della missione cattolica di Bubaque). Se
purtroppo non ha potuto risolvere il suo problema, ha però vissuto la sua
permanenza con l’interesse, la voglia di conoscere e di imparare di un
antropologo sul campo. Forse si è rivelato un valido informatore proprio perché
le sue esperienze lo portarono a comprendere, con autentica sagacia, che cosa
comportasse un atteggiamento etnografico verso la cultura.
Questa esperienza lo ha messo in una posizione particolare nei confronti degli
altri abitanti di Bubaque, facendogli rivestire il ruolo di quello che “ha conosciuto
altri posti, altri modi di vivere” (si tenga presente che la maggior parte degli
insulari, in special modo le donne, non si spostano mai dall’arcipelago) e
126 Mi sembra di poter affermare che gli uomini e le donne bijagó utilizzino differenti forme di espressione in diverse situazioni, per cui se le donne tra di loro spettegolano e chiacchierano animatamente, raramente intervengono alla discussione in presenza di uomini, limitandosi apparentemente ad ascoltare. Recenti studi sul genere hanno messo in evidenza che le relazioni di genere sono create non solo da una divisione sessuale del lavoro e da una serie di immagini simboliche, ma anche attraverso contrastanti possibilità di espressione per uomini e donne (Smith-Rosenberg 1985: 11, 26; Leonardo 1991: 175-200).
129
portandolo a sviluppare una ammirevole capacità di osservazione critica. Si
aggiunga inoltre la sua personale vivacità intellettuale, che lo portava a chiedere, a
interrogarsi, a informarsi sul ‘nostro’ modo di vivere e ad approfondire gli aspetti
della ‘sua’ cultura che venivano messi in luce dai nostri discorsi e dai suoi
commenti.
Scantamburlo ha scritto che i Bijagó sono un popolo pragmatico che rivela
poco interesse per i pensieri teorici e filosofici (Scantamburlo 1991: 65). Io non
ho conosciuto i Bijagó. Per quanto riguarda Pedro, però, posso dire che questa
descrizione non gli si adatta affatto. Vi sto parlando di un uomo che si faceva
raccontare i libri che avevo letto per poi discuterne insieme, che osservava con
me lo svolgersi della vita al villaggio, rivelandosi interprete appassionato delle
sfumature e delle profondità della consuetudine, un amico che, quando l’ho
scherzosamente paragonato a Muchona127 il “piccolo uomo con una grande
mente” (Turner 1992: 185), amico e informatore di Victor Turner, si è
commosso.
Soprattutto grazie alla sua amicizia ho potuto partecipare a momenti privati e
‘di crisi’ della vita degli abitanti di Bubaque - come la nascita e la morte - e ho
avuto modo di approfondire e comprendere il significato ‘emico’ dei gesti che
osservavo quotidianamente compiere dalle donne di Bijante.
4. Venire al mondo
Come abbiamo precedentemente affermato, la nascita costituisce il ritorno in
vita di un antenato. I Bijagó credono, infatti, nella reincarnazione: nel loro
pensiero vita e morte sono “due poli di continuità” (De Jong 1988: 5). Anche
Henry lo sottolinea spesso nella sua ricerca, scrivendo che “la cosmogonia bijagó
127 Confronta il capitolo VI di La foresta dei simboli, il terzo libro di Turner sugli Ndembu, intitolato “Muchona il calabrone, interprete religioso” (Turner 1992: 164-185), dedicato al suo più valente informatore, Muchona, un guaritore rituale, che Turner paragona a un docente universitario.
130
non pone un limite invalicabile tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi, poiché
una persona deve la vita a un orebok che è ritornato” (Henry 1994: 87, 92).
Aníbal Josè Lamy, docente di antropologia dell’Università Nova di Lisbona,
che si è occupato dei rituali funebri nelle etnie FulBe e Bijagó, riferendosi proprio
alla credenza bijagó nella reincarnazione dei morti, ha osservato inoltre che “il
mistero della vita passa attraverso l’utero femminile, a causa della sua forza
generatrice: solo attraverso l’utero la vita emerge dalla morte” (Lamy 1985: 150).
Significativamente, quando si domanda alle donne di Bijante da dove vengono
i bambini, la risposta solitamente è che i bambini vengono “dall’anarebok, la sede
delle anime” e che poi “entrano nel ventre della donna, quando un uomo e una
donna hanno una relazione”. Il ciclo delle nascite è continuo, mi spiega Pedro, in
realtà “non si muore mai definitivamente”, si è sempre suscettibili di una odá, di
una “rinascita”.
Nonostante i Bijagó credano che ogni spirito prima o poi si reincarni in un
bambino, non ritengono che l’identità personale resti immutata, attraverso tutto il
processo. Nessuno cioè sa di chi il bimbo sia la reincarnazione, chi egli sia stato
nell’esistenza precedente. Henry al proposito osserva che se un vivente deve la
vita a un orebok che si è reincarnato, comunque non si cercherà mai di identificare
colui che è ritornato (Henry 1994: 92).
Talvolta però, mi racconta Pedro, accade che il bambino parli prima del tempo,
dicendo cose che non può ancora aver appreso, o parlando il dialetto di un’altra
isola. Generalmente tuttavia risulta impossibile comprendere quale antenato si sia
reincarnato, poiché l’anima, mentre attende di reincarnarsi soggiornando
nell’anarebok, dimentica la sua vita passata e rinasce come un essere nuovo.
L’elemento fondamentale perché questa rinascita avvenga è la donna: “noi
uomini - spiega Pedro - dipendiamo dalle donne: nel corteggiamento sono le
donne che decidono per noi; l’umanità è stata generata da quattro donne [le
antenate mitiche]; tutto ciò che ho deriva da mia madre [discendenza
matrilineare]; sono le donne che ci possono fare vivere anche se siamo morti
131
[possessione]128 ed è tramite le donne che i morti possono rinascere come
bambini, l’uomo non c’entra”.
Mi sembra, alla luce di queste osservazioni, di poter affermare che i Bijagó
abbiano una teoria dell’origine della vita umana e della nascita coerente e
coordinata; essa inoltre offre una buona base teoretica alla matrilinearità, dato
che, in questa teoria, vediamo svolgersi l’intero processo di formazione di una
nuova vita fra il mondo degli spiriti e l’organismo della donna, senza uno spazio
significativo per la figura del padre biologico (Gallois Duquette 1983: 37).
Un pensiero sull’origine della vita, sul “venire al mondo” molto vicino a quello
bijagó, ci viene presentato da Bronislaw Malinowski in un libro significativamente
intitolato The father in primitive psychology, nel quale l’autore racconta come, secondo
la tradizione dei Trobriandesi, ogni vita incominci con una morte, poiché, dopo
un periodo di attesa sull’isola dei Morti, gli spiriti dei defunti tornano a essere
bambini in procinto di nascere. Gli infanti non nati trovano la strada per tornare
alle Trobriand nel ventre di una donna, per cui la causa reale di una nascita altro
non è, come anche nel pensiero bijagó, che un’azione spirituale (Malinowski 1990:
87-88). Malinowski però si interroga anche su come i processi fisiologici si
combinino con l’influsso dello spirito, e quindi si chiede se gli indigeni siano
davvero totalmente ignoranti della paternità fisiologica, ottenendo diverse
risposte, incerte e non sempre fra loro coerenti (Malinowski 1990: 98).
I Bijagó, nonostante abbiano una teoria della nascita coerentemente strutturata,
basata su un’azione spirituale, sembrano trovare una risposta alla questione di
Malinowski, in quanto nel loro pensiero una nascita è dovuta
contemporaneamente alla congiunzione di tre fattori: il desiderio di
reincarnazione di un orebok, la volontà divina (di Nindo per tramite dell’Orebok
Okotó) e l’incontrarsi nel ventre di una donna del sangue femminile e dello sperma
(�o, che significa ugualmente ‘acqua’) dell’uomo.
Nonostante il fatto che per i Bijagó “padre” sia una definizione, più che
biologica, sociale (“non so chi sia il padre dei miei figli - mi dice Joacchina - dato
128 La parte tra le parentesi quadre è mia.
132
che ho tre compagni. I figli sono sempre della madre, per questo vivono con me e
li cresco io”), esiste tuttavia una condizione ulteriore che ritengono indispensabile
per il concepimento e per la nascita, ossia l’avere una relazione sessuale con un
uomo.
Ho discusso di questi argomenti con Joacchina, una donna del villaggio di
Bruce (isola di Bubaque). Il mio essere donna mi ha permesso, infatti, di
affrontare in profondità particolari aree della vita femminile, tra le quali la sfera
della maternità, nonostante il mio non essere ancora madre spesso mi sia stato di
ostacolo. Le donne che non hanno ancora avuto figli, infatti, non vengono in
genere informate sugli affari della gestazione e, non potendo assistere ai parti in
ragione del loro status di nulligeste, sono mantenute al di fuori delle discussioni e
dei segreti della maternità. Le donne bijagó con cui ho stabilito rapporti di
amicizia, però, amavano molto discutere di argomenti come la gravidanza e il
parto e confrontare le loro esperienze, per cui spesso mi rendevano partecipe,
sollecitandomi a raccontare i ricordi di mia madre del momento della mia nascita.
Mentre non è perfettamente chiaro come i processi fisiologici della gestazione
si combinino con l’influsso dello spirito, risulta invece evidente il rapporto fra il
sangue mestruale, l’acqua dell’uomo e la formazione del feto. Quando una donna
resta incinta nota ovviamente che le si sono fermate le mestruazioni. Da queste
discussioni e dalle confidenze di Joacchina, ho compreso che la ragione per cui il
sangue mestruale cessa di fluire, allorché una donna resta incinta, è che il sangue
forma il corpo del neonato e lo nutre. “Il bambino è fatto di sangue mestruale”,
dice Joacchina. I Bijagó, per parlare sangue mestruale, utilizzano in genere il
termine enokãnto, che deriva dalla radice -okãnto (donna), oppure la parola etáko,
che significa anche “mese”, mentre per designare il sangue in generale direbbero
“nenhén”.
A questo sangue si aggiunge l’“acqua” dell’uomo, che si deposita nel ventre
accogliente della donna. Il termine bijagó per designare lo sperma, l’“acqua”
dell’uomo, è infatti �o129, che ha come primo significato “acqua da bere”.
129 Esiste inoltre una espressione per designare l’eiaculazione, che è opetac �o.
133
Significativamente il verbo utilizzato per “bere” è �uni, mentre “restare incinta” si
quindi la sua acqua da bere al ventre della donna: Joacchina mi dice che
un’espressione maschile molto usata nell’atto sessuale è nten �akamat kanamó
“aspetta, ora io offro”.
Dal momento in cui una donna si rende conto di aspettare un bambino, inizia
una lunga serie di regole e proibizioni. Dovrà evitare i luoghi abitati da spiriti
malvagi e gelosi della sua gravidanza. Non dovrà avvicinarsi al bordo del mare,
per timore degli ippopotami che potrebbero attaccarla, e non dovrà frequentare
tutti i luoghi considerati pericolosi perché abitati dai feiticeiros. In primo luogo
quindi non potrà assolutamente avventurarsi nella foresta o anche solo uscire un
poco dai sentieri battuti, né potrà esporsi da sola all’oscurità della notte (Oliveira
1995: 66).
La donna gravida è quindi in pericolo rituale. Si pensa cioè che sia esposta a
molti rischi perché si trova in uno stato di “transizione”: il suo corpo sta
cambiando rapidamente, non è ancora madre e allo stesso tempo non è più
vergine, non ha più il regolare ciclo mestruale. Si è lasciata alle spalle uno status,
ma non si è ancora insediata in un altro. Si trova in una situazione marginale di
esistenza. Il bambino non ancora nato è, del pari, in pericolo rituale. Non ha
ancora alcun posto nella società. Nessuno sa quale sarà il suo sesso, che aspetto
avrà o se sopravviverà. Così, anche lui si trova in uno stato marginale ed è quindi
molto vulnerabile (Van Gennep 1996: 46; Kitzinger 1980: 72; Douglas 1993:
158).
Per questo motivo la donna si unge regolarmente il ventre di olio di palma,
affinché il bambino cresca forte e in salute e “per rendere forte la gravidanza”
(Scantamburlo 1991: 59; Oliveira 1995: 66). Nel periodo dell’attesa la gestante si
tatuerà inoltre un disegno di linee orizzontali sui fianchi “per aiutare ad aprire il
cammino al bambino” (Moreira 1946: 100; Scarpa 1960: 162-163; Carreira 1963:
135; Oliveira 1995: 66).
A differenza di quanto accade agli uomini, infatti, le scarificazioni (ikento) sul
corpo femminile non sono legate al processo dell’iniziazione, ma alla maternità.
134
La pratica del tatuaggio nelle donne presenta obiettivi terapeutici ed estetici. Le
donne puberi si fanno segni protettivi sulle braccia, sul seno e sul ventre. Questi
ultimi segni in particolare si crede permettano di aumentare l’elasticità del ventre
per far stare più comodo il nuovo essere in gestazione e, dopo il parto, con l’aiuto
di una cintura larga (kabukô) di corteccia di caucciù assottigliata e finemente
decorata, permettono ai muscoli del ventre di tornare approssimativamente come
prima del parto (Bernatzik 1967: 126; Scarpa 1960: 160; Mendes Fernandes 1989:
9-10).
Figura 4. Scarificazioni femminili (Gallois Duquette 1983)
135
Il fatto che gli uomini siano scarificati al momento del ritiro iniziatico e le
donne al momento o in previsione di una gravidanza, ci fa pensare che
l’iniziazione stia agli uomini come la gravidanza alle donne: se per gli uomini le
scarificazioni mostrano la loro rinascita come adulti sociali, per le donne indicano
la loro capacità di far nascere (Henry 1994: 147, Mendes Fernandes 1989: 9-10).
Nel pericoloso periodo della gravidanza la donna inoltre “protegge il suo ventre
dagli sguardi malevoli con una gonna” (Moreira 1946: 100) o con un panno
(Quintino 1964: 38). Non dovrà osservare particolari proibizioni alimentari, ma
tutti i piatti all’olio di palma saranno vivamente consigliati, come capaci di
fortificarla.
5. Il parto
Quando il parto s’avvicina, la donna incinta si reca sulla spiaggia con le altre
donne della sua famiglia, per lavarsi il ventre nell’acqua del mare. Si lava con la
marea alta, poi con la marea bassa, poi, quando l’acqua sale, si accovaccia e si
lascia portare dalle onde, perché “il bambino che ha dentro fluttui” in modo da
mettersi in una buona posizione, con la testa verso il basso. Molte donne vanno a
lavarsi il corpo addirittura prima del momento del parto, per mettere da subito il
bambino in buona posizione e premunirsi così da problemi futuri. Altre, invece,
non vanno se non nel caso in cui il bambino abbia dei problemi a nascere. In
effetti, non è raro che il parto avvenga sulla spiaggia, perché la partoriente non ha
più il tempo di ritornare nella sua casa al villaggio (Viegas 1937: 27; Oliveira 1995:
66).
Qualcosa del genere accade anche agli uomini durante il ritiro iniziatico.
Gallois Duquette infatti riporta questo racconto:
“gli anziani dicono ai ragazzi: “andate nel luogo dove i camabi hanno portato le palme.
Quando l’acqua sarà alta voi vi metterete sui tronchi e ci resterete fino alla marea bassa.
136
Attenderete il riflusso e ritornerete con l’alta marea fino al luogo da dove voi siete partiti”. I
cabaro trascorrono nell’acqua le sei ore della bassa marea trasportati fino a un chilometro dalla
spiaggia; poi di nuovo, di notte, le sei ore dell’alta marea. Al mattino, infine, si presentano ai
grandi” (Gallois Duquette 1983: 113).
Allo stesso modo, anche le ragazze all’inizio e alla fine della cerimonia di
possessione e i morti prima di essere mostrati pubblicamente, vengono immersi
nel mare e vengono lavati. Sembra quasi che l'acqua sia considerata e usata come
una sostanza mediatrice e che l’entrata nel mare simbolizzi un passaggio, una
trasformazione. L’acqua, infatti, osserva Michael Kenny, in un saggio sul lago
Vittoria, è senza forma, trasparente e le altre cose si dissolvono in essa, proprietà
che la rendono adatta al ruolo simbolico di trasformatrice (Kenny 1977: 719).
La situazione ideale prevede però che la donna, dopo aver sistemato il
bambino galleggiando nell’acqua, partorisca nella stanza centrale della sua casa,
nell’annani, il “ventre” della casa (confronta capitolo IV: 95). Come ha osservato
Santos Lima, da questa stanza escono i figli appena nati e il cibo per nutrire la
famiglia: nella filosofia bijagó, infatti, aggiunge Lima, come il ventre è la parte più
importante del corpo, il “ventre della casa” è la parte fondamentale
dell’abitazione, che “crea e alimenta il villaggio” (Santos Lima 1948: 420). L’annani
è inoltre la stanza più privata della casa. Anche il parto è un affare privato,
familiare, perché è in quel momento che la madre e il neonato sono più esposti
alle sorti gettate dalle “altre famiglie e dai visitatori malevoli” (Oliveira 1995: 66).
Attorno a lei ci saranno solo sua madre e le donne del suo parentado materno: la
ragione di questo comportamento non è solo dare alla donna un aiuto fisico e
psicologico per il parto, quanto proteggerla dalle forze malvagie, alle quali in
questo momento la donna è molto vulnerabile.
Analogamente a molti altri processi fisiologici, il parto non è mai
semplicemente “naturale”. Come il mangiare, il bere, l’evacuazione corporea, il
movimento fisico, il rapporto sessuale, la pubertà, la maturità, la vecchiaia e la
morte sono culturalmente condizionati, così la nascita riflette valori sociali e varia
nelle diverse società (Kitzinger 1978: 88). Una donna in travaglio sembra essere
137
impegnata in una attività puramente fisiologica e per molti versi solitaria. Ma
anche se partorisce completamente sola, comunque la società esprime, attraverso
di lei, i suoi valori sulla gravidanza e sul parto, l’importanza che rivestono, i rischi
che comportano e il loro significato. Il parto umano è un atto culturale, nel quale i
processi fisiologici spontanei operano in un contesto di usanze, il rispetto delle
quali è considerato essenziale o auspicabile per un buon esito (Kitzinger 1978:
88).
Gli atteggiamenti e i comportamenti del parto sono, quindi, socialmente
controllati. La tradizione bijagó non prevede che le donne in travaglio stiano a
letto. Si muovono, cambiano posizione frequentemente e la postura più
comunemente adottata, probabilmente quella fisiologicamente più proficua, da
quanto ho avuto modo di vedere, comporta che la donna stia inginocchiata
mentre le altre donne della famiglia la sorreggono. Al momento cruciale del parto,
chiamato otónumatenô (Almeida 1952: 272), il ventre della partoriente viene
massaggiato con olio di palma, al fine di facilitare l’espulsione del bambino.
Non appena il bambino nasce, il cordone ombelicale viene tagliato con una
delle conchiglie d’ostrica che si trovano in casa e annodato con una fibra
proveniente dalla gonna di una delle donne presenti (Scantamburlo 1991: 59).
Quando si utilizza invece un coltello, lo si conserva nascosto, per paura che venga
rubato da un feiticeiro e utilizzato per gettare “mala sorte” contro la madre o il
bambino (Oliveira 1995: 67). Questa prima separazione esprime il distacco dalla
madre sia sul piano reale che simbolico130.
La donna attende in seguito di espellere la placenta. La placenta ha
un’importanza particolare nelle usanze relative al parto. È la cosa più intimamente
collegata al neonato, esso la porta con sé dal mondo, intrauterino o degli spiriti
che sia, da cui proviene (Ranisio 1996: 96). Chiunque si appropri della placenta
può quindi esercitare un potere sul bambino, ragion per cui si deve aver cura di
eliminarla in segreto, seppellendola. La placenta viene immediatamente interrata
130 "Orbene il bambino, come lo straniero, deve prima di tutto essere separato dal suo mondo precedente […] la più importante separazione di questo genere si esplica mediante la resezione cerimoniale del cordone ombelicale " ( Van Gennep 1996: 44).
138
nel luogo stesso del parto, poiché “non si vuole che qualcuno mal intenzionato se
ne impossessi, o che i cani o gli avvoltoi la mangino” (Oliveira 1995: 67). Infine si
lava il bambino e lo si unge di olio di palma per renderlo più forte (Almeida 1952:
275; Scantamburlo 1991: 59). La madre, invece, viene lavata con foglie della stessa
pianta che si usa per consacrare la statua di Orebok Okotó (Scantamburlo 1991: 59).
Da questo momento in poi l’unica preoccupazione sarà proteggere il bambino
dal “vento malvagio”, che può entrare nel suo ombelico ancora umido e renderlo
malato (Oliveira 1995: 67). Questo “vento” tanto temuto dalle partorienti, non si
riferisce evidentemente a un fenomeno meteorologico, ma al malocchio che i
nemici della famiglia potrebbero voler “soffiare” sulla giovane mamma e sul suo
bambino.
Così madre e neonato sono custoditi all’interno della casa al riparo dagli
sguardi e dai venti malvagi, per il tempo necessario alla cicatrizzazione
dell’ombelico e al recupero della madre. Una volta che il cordone cade, si mette
della cenere (proveniente dal fuoco sul quale si cucina) sull’ombelico per seccarlo
rapidamente e così chiudere bene l’entrata e non lasciare penetrare il vento.
Questa reclusione al riparo da uomini e estranei, vegliata dalla madre e dalle zie
materne, dura tra i cinque e i dieci giorni. Nei tempi antichi - scrive Oliveira de
Sousa - non si lasciava mai uscire il bambino prima che egli non avesse già
qualche settimana. Non si permetteva a nessuno di entrare, eccetto alle donne di
famiglia che potevano venire ad aiutare la madre; le altre non erano autorizzate
(Oliveira 1995: 67). Al giorno d’oggi, nella settimana successiva al parto, la
giovane madre resta in casa accovacciata accanto al suo bambino, vicino a un
fuoco mantenuto costantemente acceso. Alla fine di questo periodo, la puerpera
ingerisce un infuso diuretico di enhaunhama (Sarcocephalus latifolius) e con lo
stesso preparato si lava il corpo131. Questo rituale precede il ritorno della puerpera
dal parto ‘sociale’ e la sua reintegrazione nella vita del villaggio.
131 L’esperto in terapia tradizionale che ha fornito quest’informazione è Sebastião Airom del villaggio di Agumpa. Il nome scientifico della pianta è stato ricavato dall’inventario di piante medicinali compilato dalla biologa Marina Thereza do Campos, dell’Università di São Paolo (Campos 1996).
139
È solo quando la madre esce dalla casa col bambino, che quest’ultimo riceve
un nome, in genere sette giorni dopo la nascita. Erano generalmente uno zio o
una zia, o in loro mancanza la madre, a scegliere il nome per il nuovo nato
(Moreira 1946: 100-101). Scelto al giorno d’oggi indifferentemente da qualcuno
della famiglia, il nome del bambino evoca un essere caro, una persona che
diviene, da allora, la protettrice del bambino. Dare al bambino un nome non
bijagó, mi dice Pedro, è un modo invece per proteggerlo: risulterà più difficile che
le persone invidiose riescano a fargli del male.
Non ho potuto osservare personalmente nessun rituale di aggregazione o di
presentazione del nuovo nato alla famiglia e alla società. Secondo Pedro, a
Bubaque non si fa altro che ringraziare il grande spirito del villaggio con una
offerta ancandja �corebok okotó, ossia nel tempio dell’Orebok Okotó.
Henry invece riporta questo rituale, probabilmente osservato a Canhabaque.
Cinque giorni dopo la nascita, racconta Henry, la sacerdotessa procede al rito di
uscita del bambino e della madre. L’okinka esce dalla casa, seguita, se il bambino è
un maschio, da un uomo (che non deve essere il padre né qualcuno della famiglia)
che porta il bambino e alcuni utensili specificatamente maschili: ad esempio la
corda per salire e il coltello per incidere le palme. Questi sono seguiti dalla madre.
Il piccolo gruppo fa il giro della casa, poi rientra. Se il nuovo nato è una femmina,
viene portata da una donna, insieme ad alcune stoviglie e al piatto di legno, del
quale le donne si servono quando raccolgono le conchiglie e preparano la salsa di
noci di palma. La madre ha cucinato un piccolo piatto di riso senza sale che i
partecipanti mangiano insieme (Henry 1994: 82).
Il bambino è una sorta di "straniero", il suo principio vitale viene dall'al di là.
Facendo il giro del suo "territorio", egli diviene un bambino di questo mondo.
Portato da qualcuno che non è della famiglia, diviene un bambino del villaggio. Il
bambino è quindi in un certo senso “territorializzato”, umanizzato (gli si lega al
polso un braccialetto protettivo e una cinturina in vita per allontanare la
malevolenza) e soprattutto gli viene dato un nome, affinché possa lasciare lo stato
di straniero, stato che conserva finché questa ambiguità di residenza non è tolta.
140
Nonostante queste pratiche, il bambino comunque è ancora molto fragile e
debole. Le donne lo ungono continuamente di olio di palma, per renderlo “nero
più in fretta” e per rinforzarlo, per trasformare il materiale grezzo - il neonato - in
un membro della società. Tutte le madri, come riporta Scantamburlo e come si
può facilmente osservare, portano in un piccolo cesto un recipiente di olio di
palma (nandá) per ungere il bambino (Scantamburlo 1991: 40). In questo modo
possono renderlo nero in fretta, dato che il colore bianco, che i bambini hanno
effettivamente nelle ore successive alla nascita, è percepito come un segno di
debolezza. Il bambino, dice Joacchina, è anche molle e fragile, per cui è
necessario massaggiarlo con una medicina composta di foglie secche di palma da
banane, bollite in acqua (�aó �a �un �anak letteralmente “foglie dell’albero di
banana”). Questo lo aiuterà a formarsi, a indurirsi, a fortificarsi.
La concezione del bambino come un essere molle e bianco e l’idea del
processo di crescita come passaggio dal molle verso il duro, fino alla sua
integrazione nella vita sociale, è piuttosto comune in Africa (Belmont 1988: 13-
momenti significativi della sua crescita sono segnati da rituali volti a orientare la
struttura del bambino dal molle al duro, dall’umido al secco. Significativamente il
“seccamento” e la caduta del cordone ombelicale rappresentano la prima
solidificazione.
Fintanto che è bianco e molle, fino al momento della sua piena integrazione
sociale, il neonato non viene considerato una vera persona umana, a tal punto che
la sua morte non verrà pianta e la sua scomparsa sottenderà automaticamente il
suo immediato ritorno da dove è venuto (Zahan 1975: 123). Il parto, infatti, non
ha introdotto un cambiamento d’identità: non è cioè perché si passa la tappa della
nascita e si ha l’apparenza di un essere umano che si è effettivamente una
persona. Un neonato, fino allo svezzamento, è più vicino alla categoria “spirito”
che alla categoria “persona”. L’insieme di queste rappresentazioni testimonia
l’idea di una “creazione progressiva della persona”. Il neonato è ancora un
“embrione non socializzato” (Bonnet 1994: 96).
141
Il bambino è incompleto, è ancora senza identità, perché - racconta un
informatore bijagó a Oliveira de Sousa - “nessuno lo conosce, non ha mai parlato
e non ha niente nella testa” per cui “non ha avuto importanza” (Oliveira 1991:
61). Se dovesse morire, la sua morte non sarebbe pianta: non avendo infatti alcun
significato sociale, non essendo ancora una persona, non avrebbe alcun significato
nemmeno come defunto. Robert Hertz, che, nel suo studio sulla rappresentazione
collettiva della morte, ha posto in luce la scarsa importanza attribuita alla morte di
un bambino, sottolinea:
“la morte dei bambini provoca una reazione socialmente debole e in breve tempo conclusa.
Dato che i bambini non sono ancora entrati nella società visibile, non vi è modo di escluderli da
essa in modo penoso e lento” (Hertz 1994: 102).
Se una donna bijagó partorisce un bambino nato-morto o se il bambino muore in
tenera età, infatti, nessuno lo piange e il cadavere viene interrato rapidamente in
un posto qualsiasi, poiché “non conta come essere umano, è più spirito che
uomo”. In virtù del loro stato di appartenenza all’al di là, al regno degli arebok,
l’anima dei neonati e dei nati morti - a differenza di quanto accade per le donne e
gli uomini adulti - può ritornare in vita132, poco tempo dopo, attraverso il
medesimo ventre. È anche per questa ragione che ci si inquieta se una madre
piange un bambino morto alla nascita, poiché “così affliggerà la sua anima ed egli
avrà paura di ritornare nel ventre della stessa madre”. In ogni caso le madri
tenteranno di rimanere di nuovo incinte senza tardare. Questi bambini senza
identità, perché “non hanno mai parlato”, e dei quali non ci si ricorda, perché
“non hanno avuto importanza”, hanno pertanto lasciato un ricordo nel ventre
della loro madre.
Come sottolinea Allovio, commentando l’articolo di Roumeguère-Eberhardt
sulla nozione di vita del popolo Venda del Nord del Transvaal, e come abbiamo
visto tra i Bijagó, diventare un essere umano, una volta nato, sembra essere una
142
possibilità (Allovio, Favole 1996: 28). Il neonato è fragile e molle, non è ancora
una persona e per diventarlo deve compiere un lungo cammino di formazione e
di costruzione che conduce dall’incompletezza alla completezza, dalla malleabilità
alla durezza, dall’umido al secco, dal colore bianco al nero.
Tabella 5. Rappresentazione del percorso antropopoietico del neonato, in cui A è il
punto di partenza e B il punto d’arrivo.
A B
molle
bianco
solido
nero
debole
umido
forte
secco
bambino
senza pensieri
uomo
con i pensieri
Se diventare un essere umano è solo una possibilità, questo significa però che
possono esserci dei casi devianti, possono comparire delle anomalie, si possono
verificare situazioni, a causa delle quali questa possibilità non viene attualizzata. Il
bambino può non avere la forza di introdursi nel ventre della madre o di venire al
mondo (sterilità o aborti naturali), può presentare malformazioni o gemellarità o
solidificarsi in modo disumano.
6. Le anomalie
Esiste pertanto la possibilità che il bambino non riesca a cominciare il suo
“percorso”, oppure che la sua “solidificazione” avvenga in modo inadeguato.
Analizziamo brevemente le diverse anomalie o contraddizioni che possono
132 “L’idea che il bambino può a suo piacimento ripartire e, eventualmente, ritornare, è comune a numerose società dell’Africa occidentale (Bambara, Wolof, Lebou, Sereer, Evhé, Yoruba)” (Bonnet 1994: 94).
143
verificarsi quando non si realizzano le normali aspettative e le azioni che possono
riportare le situazioni devianti alla normalità.
6. 1. Il filho de osso (kapenó kombá)
Per quanto, nel caso in cui non si riesca ad avere figli propri, esista la
possibilità di avere dei bambini in dono133, nella società bijagó la pressione
psicologica esercitata sulle donne affinché diventino al più presto madri è grande.
Fin da bambina una donna è allevata ed educata con la precisa idea di fare di lei
una madre. La maternità è considerata un evento “forte” della vita femminile,
carico di significati profondi: è un’esperienza che rende la donna in quanto tale
titolare di una differenza, che dà alla donna il potere di avere in sé un nuovo
essere, qualcosa cioè che il maschio non può esperire. Nell’atto riproduttivo,
osserva Ranisio (1996: 13), la donna svolge un ruolo fondamentale che assicura la
continuità, sia sul piano biologico che culturale, di una società. È necessario
quindi proteggere e salvaguardare la possibilità di ogni donna di diventare madre.
Le ragazze bijagó fin dalla più tenera età imparano a prendersi cura dei fratelli
più giovani. Da bambine giocano “alla mamma” con bambole fatte con l’osso del
garretto della vacca, che vestono con minuscole gonne di fibre vegetali e
adornano con conchiglie. Nei giochi le ragazzine manifestano il loro amore
materno e i loro parenti osservano come trattano le bambole, consigliandole e
riprendendole, come se avessero a che fare con bambini veri (Duquette 1983:
132-133; Paiva 1990: 144).
Le donne bijagó, però, da quanto mi è stato detto sul terreno da diversi
interlocutori, considerano questo oggetto non semplicemente come un giocattolo,
ma piuttosto come dotato del potere di causare cambiamenti, ossia “un figlio per
gioco che facilita la venuta di uno vero”, un gioco “catalizzatore di fecondità”
(Carreira 1971: 347; Cameron 1997: 22). Questa bambola, infatti, non solo
assicura la fertilità, ma protegge la donna incinta e aumenta la sua possibilità di
144
concepire (Carreira 1971: 334; Cameron 1997: 29). Le ragazze infatti, come ha
osservato Gallois Duquette a Orango, la portano sul dorso più o meno fino
intorno ai vent’anni (Gallois Duquette 1983: 132).
Chiamata in kriolo filho de osso, bambino di osso, è non solo trasportata sulla
schiena come abitualmente si fa con i bambini piccoli, ma anche vestita come un
vero bambino con ornamenti adeguati al sesso e coccolata, vezzeggiata e trattata
come una persona viva (Carreira 1971: 346-347). I materiali utilizzati nella sua
fabbricazione sono simbolicamente contraddittori: concretamente è un pezzo di
scheletro, un osso, e quindi un segno di morte, ma attraverso i simboli della
femminilità (la gonna, le collane) e della fecondità (la vacca), rappresenta il
bambino futuro. Questi elementi congiunti evocano, nella loro unione, la
dialettica simbolica morte/vita con il tramite della donna, che è una struttura
133 Le donne sterili, per quanto vivano la loro situazione come un disgrazia, non sono socialmente svalorizzate. Il fatto di essere sterili non impedisce loro di diventare madri o educatrici dei bambini che saranno offerti in dono a suo marito (Henry 1994: 147).
145
Figura 5. Bambole della fertilità: 1. filho de osso; 2. bambola di legno (Gallois
Duquette 1976, 18: 37).
È altrettanto comune l’uso di una bambola di legno, costituita da un lungo
corpo cilindrico, che si divide al livello delle gambe per poter abbracciare le anche
della ragazza, nel modo in cui si portano spesso i bambini (Paiva 1990: 144). A
Bubaque questo tipo di bambola viene chiamata eiangbá in opposizione al vero
bebè detto ongbá. Le ragazze l’utilizzano nelle feste che precedono l’iniziazione per
mostrare che non hanno ancora avuto un vero bambino. Bernatzik ha fotografato
una ragazza che porta una di queste bambole e, come si può vedere (figura 6),
non si tratta certo di una bambina (Bernatzik 1967: 136). Entrambe le bambole
condividono la funzione di assicurare la fertilità delle donne.
146
Figura 6. Donna bijagó con la sua bambola della fertilità (Bernatzik 1967: 136).
Esiste tuttavia almeno un altro modo per aiutare la donna a restare incinta, da
quanto mi spiega Pedro. Come per ringraziare il dono di una nascita, ancora una
volta è bene rivolgersi all’ancandja �corebok okotó (al Grande Spirito del tempio),
nel caso in cui la donna non riesca a restare incinta. Abbiamo precedentemente
affermato che una nascita è dovuta alla congiunzione di tre fattori, dei quali uno,
fondamentale, è la volontà divina. È infatti per volontà dell’Orebok Okotó che
un’anima entra nel corpo di una donna quando questa ha una relazione sessuale,
poiché è nel ventre dell’Orebok Okotó che stanno le anime di tutti gli antepassati,
che saranno le anime dei bambini che devono ancora nascere (figura 3, capitolo
IV). Si agisce quindi facendo una ragionevole offerta all’Orebok Okotó, ad esempio
dicendo: “se resto gravida ti darò dieci litri di vino di palma, una capra, una
gallina”. Il patto ovviamente sarà da rispettarsi solo se si rimarrà effettivamente
incinta. Antonio de Almeida (1952: 272) riporta addirittura una orazione destinata
a favorire la gravidanza, che le donne sterili rivolgono all’Orebok Okotó, che recita:
màdá, òkanto; màdá ná kàno òkanto òkàmáti induga ombra
da a me, donna; da a me il ventre e il corpo di una donna e un figlio vivo
6. 2. Gemellarità e malformazioni
147
Ogni società si fa un’idea particolare di quel che è umano e di quello che non
lo è e su questa classificazione costruisce l’ordine delle cose, ossia un disegno
generale del mondo. Come insegna Douglas nel terzo capitolo di Purezza e pericolo
(1993: 85-105), tutto ciò che se ne discosta o che introduce corti circuiti o
contaminazioni tra generi che devono essere tenuti separati, è pericoloso per
l’individuo e per la collettività.
Anche i Bijagó temono tutto ciò che turba l’ordine delle cose, creando
confusione, incoerenza, asimmetrie e ambiguità. Per quanto riguarda la maternità,
due in particolare sono le situazioni “devianti” che si possono verificare: la nascita
di gemelli (kantiá) e la nascita di bambini che presentano malformazioni fisiche.
Secondo le ricerche di Sheila Kitzinger sulla maternità in Africa, sembra che in
molte parti dell’Africa sia tradizione, quando nasce una coppia di gemelli,
ucciderne uno (Kitzinger 1978: 66). La letteratura etnografica sui Bijagó è molto
scarsa su queste questioni. Antonio Carreira sostiene che nessuno conosca il
comportamento dei Bijagó di fronte ad anormalità e anomalie, a causa forse del
loro isolamento geografico, e riporta come unica fonte in cui viene affrontato
l’argomento la Resposta ao questionario etnografico de 1946: Bijagós de Bubaque di
Verissimo Fernandes (Carreira 1971: 186). Basandosi sulla sua permanenza a
Bubaque come amministratore coloniale, Verissimo concludeva che “la nascita
dei gemelli non è considerata un evento speciale che meriti attenzione, più di
quanto un parto normale” e non accennava affatto al comportamento dei Bijagó
di fronte ai bambini malformati (Verissimo 1946: 81).
differenti. Gallois Duquette in particolare riferisce che, almeno fino a qualche
anno prima del suo soggiorno alle isole, quando nascevano dei gemelli uno di essi
veniva lasciato morire. Nel 1978 un abitante di Bubaque le spiegò che veniva data
precedenza al secondo nato, “il più forte in quanto fa passare davanti il gemello
debole al fine di occupare, solo, tutto il ventre materno”. Questo comportamento,
sempre secondo Gallois Duquette dovuto alla paura che circonda i gemelli, sta
lentamente scomparendo (1983: 88).
148
Lamy, invece, sostiene che i Bijagó continuino a praticare l’infanticidio del
primo nato della coppia di gemelli, poiché “credono che un parto multiplo sia un
fattore di disequilibrio” (Lamy 1985: 150). In questa osservazione Lamy si
avvicina all’analisi che Turner fa della gemellarità nel secondo capitolo de Il
processo rituale, intitolato appunto “Paradossi della gemellarità nel rituale ndembu”
(1972: 69-110). Turner si esprime al riguardo chiaramente:
“ovunque la parentela abbia un’importanza strutturale e fornisca un quadro di riferimento
per i rapporti della comunità e lo status sociale, la nascita dei gemelli è fonte di imbarazzo nella
classificazione. È infatti diffusa la convinzione, in Africa e altrove, che i bambini nati in uno
stesso parto siano misticamente identici. Ma, secondo le norme ascrittive associate ai sistemi di
parentela, nella struttura della famiglia o nel gruppo parentale non c'è che una sola posizione che
essi possono occupare. La gemellanza presenta questo paradosso, che ciò che fisicamente è
duplice strutturalmente è unico e quello che misticamente è uno empiricamente sono due.
[…]Ma questo non è l’unico paradosso: i gemelli infatti sono contemporaneamente buona
fortuna e fecondità ragionevole e cattiva fortuna e fecondità eccessiva” (Turner 1972: 70-71,
84).
Per questi motivi, anche per i Bijagó, da quanto ho saputo dai miei
interlocutori, uno dei rimedi contro la contraddizione strutturale dovuta alla
gemellarità consiste nell’uccidere uno dei gemelli (Turner 1972: 71). L’anormalità
dell’evento fa pensare, infatti, che uno dei due gemelli non sia un essere umano,
ma uno spirito, un iran. Per comprendere quale dei due sia umano, si procede con
la seguente prova: si prepara della farina di riso lasciando macerare il riso in acqua
qualche ora, si aggiunge del siti - olio di palma - e si formano delle polpettine che
verranno riposte in una zucca. Si portano poi i bambini sulla riva del mare
durante la bassa marea e li si lascia lì a mangiare le polpette, mentre, nascosti, li si
osserva per valutarne le reazioni. Se il bambino piange e si dispera, se ha paura,
allora è un essere umano. Se rimane lì finché l’alta marea lo inghiotte, vuol dire
che era un iran. In quest’ultimo caso la madre non dovrà piangerlo, per evitare un
possibile ritorno dell’iran nel suo ventre, nel caso di una nuova gravidanza. Per lo
stesso motivo è bene lasciare che il mare inghiotta questi bambini prima che
149
abbiano raggiunto la capacità di distinguere la madre dalle altre persone, altrimenti
potrebbero ricordarsi di lei e ritornare nel suo corpo.
Stessa sorte condividono i bambini malformati, che vengono considerati non-
umani interiormente e esteriormente: sono cioè spiriti iran interiormente e animali
nell’aspetto, poiché è sempre ad animali che questi bambini vengono paragonati. I
miei interlocutori mi hanno fornito due spiegazioni per giustificare la nascita di un
iran, l’una che vede l’intervento umano e l’altra che vede l’azione diretta degli
spiriti: in ogni caso iran, streghe (okãnto obin cunsaro, letteralmente “donna che ha
un malvagio modo di vivere”), feiticeiros e persone invidiose che pronunciano
maledizioni, sono i soli responsabili di queste nascite devianti dalla norma.
Quando gli agenti sono umani, ossia streghe, feiticeiros e persone invidiose o che
vogliono vendicarsi di un’offesa che ritengono di aver subìto, possono operare in
modo diretto sulle loro vittime oppure in modo indiretto, per mezzo di medicine
o attraverso la mediazione dello spirito silvestre koratakó, cui abbiamo accennato
precedentemente (capitolo III). I Bijagó di Canhabaque sono famosi per la loro
abilità nella stregoneria in tutta la Guinea Bissau. Se colpita da stregoneria la
donna partorirà più volte di seguito degli iran, che si riconosceranno, oltre che per
l’aspetto dis-umano, per determinati comportamenti dis-umani, come il succhiare
dal seno materno non il latte ma il sangue della madre, fino a ucciderla.
In altri casi la nascita di un bambino-iran è dovuta alla azione stessa di uno di
questi spiriti. Gli iran vivono generalmente vicino ai corsi d’acqua, in luoghi
freschi ai margini della foresta, o addirittura nelle fonti di acqua dolce, in attesa di
poter entrare nel corpo di una donna che sta facendo il bagno. Questo modo di
vedere è suffragato da talune regole cui si attengono le ragazze, le quali non
entrano volentieri nell’acqua per paura di poter concepire un iran. Se l’iran riesce a
entrare nel ventre di una donna che si lava a una fonte, questa probabilmente
inizierà a comportarsi in modo anomalo, manifestando questa presenza aliena nel
suo corpo. Si potrà allora consultare un djambacosse, un guaritore, e procedere alla
cerimonia di liberazione.
Se comunque non si riuscisse a cacciare l’iran dal ventre della donna, sarà bene
consegnare il neonato deforme all’acqua il più presto possibile e in modo
150
sbrigativo, come si scarta un oggetto mal riuscito. Dominique Zahan, dopo aver
analizzato diversi rituali che prevedono l’acqua come elemento simbolicamente
dominante, ha osservato che l’acqua è rivelatrice di una norma. I riti relativi ai
gemelli e ai bambini deformi, entrambi esseri non conformi alla norma sociale,
secondo l’analisi di Zahan, esprimono questa credenza nella “normatività”
dell’acqua. Tutti gli esseri umani devono infatti essere “normalizzati” e
conformarsi a un certo schema. Ora, i bambini deformi e i gemelli, devianti dalla
norma, ambigui e quindi pericolosi (Douglas 1993: 158), devono essere restituiti
all’acqua (Zahan 1995: 53).
Diventare esseri umani, come abbiamo visto, non è quindi una certezza, ma
solo una possibilità e, come tale, non è detto che si verifichi. Qualora non si
presentino anomalie (malformazioni o gemellarità) e il processo di solidificazione
avvenga nel modo previsto dalla norma, il bambino abbandona lo stato marcato
d’ambivalenza che lo caratterizzava, per diventare un essere sociale sottomesso
alle leggi della società. È ancora, tuttavia, un essere difettoso, indeterminato,
molle e dunque malleabile: è perciò necessario definirlo in confronto al mondo
che lo circonda e quindi modellarlo, dargli una forma (Connell 1987: 193;
Belmont 1988: 24; Allovio, Favole 1996: 29).
La sua fragilità e la sua incompletezza lo rendono facile bersaglio delle azioni di
stregoneria: occorre quindi proteggerlo con amuleti (Gallois Duquette 1983: 88) e
la madre dovrà osservare diverse prescrizioni, per evitare che i suoi
comportamenti danneggino il piccolo. La tradizione, infatti, proibisce alla madre
di avere contatti sessuali durante il periodo di allattamento del bambino, che dura
due o tre anni. In caso contrario l’“acqua dell’uomo” guasterà la qualità, la
quantità, l’odore e il gusto del latte e il bambino non potrà più berlo, dimagrirà, gli
verrà la febbre e in fine morirà134. Per questa ragione, se durante lo svezzamento
134 Françoise Héritier, nel sesto capitolo del suo ultimo libro Masculin / Féminin, La Pensée de la
Différence, intitolato proprio “La mauvaise odeur l’a saisi. De l’influence du sperm et du sang sur le lait nourricier”, sostiene che la spiegazione della malattia del bambino, e quindi dell’incompatibilità di sostanze quali latte materno e sperma, sia da ricercarsi nell’idea che l’unione di sostanze caratteristiche a ciascun sesso, produca un equilibrio nefasto e pericoloso, poiché non si possono mettere insieme due
151
un uomo desidererà avere rapporti con la sua donna, dovrà portare il bambino in
foresta - quindi nell’unico luogo precluso alla madre - e dargli del vino di palma al
posto del latte (Scantamburlo 1991: 56), segnando così simbolicamente il distacco
dalla madre e l’inizio della sua integrazione nella società.
Non appena il bambino viene simbolicamente “svezzato” e separato dalla
madre, inizia a essere considerato come facente parte della più ampia comunità
del villaggio. Fino a questo momento il bambino aveva solo un sesso biologico,
ma non un genere sociale, un’identità individuale, non una sociale. Da questo
momento in poi la società provvede a una serie di prescrizioni, forme o modelli di
comportamento appropriati a ciò che il bambino deve diventare.
Sono stati fatti innumerevoli studi antropologici riguardo a infanzia, personalità
e cultura. Nella maggior parte di questi studi il ricercatore ha sostenuto che la cura
del bambino, della sua pulizia, e tutte le altre normali esperienze cui il bambino
viene sottoposto in una data cultura, possono essere considerate, da un punto di
vista sociologico, come un processo di socializzazione ad opera della società. In
questa prospettiva, il problema della comunità è trasformare il materiale grezzo -
che è un bambino appena nato - in un adulto membro della società; quasi tutto
ciò che accade al bambino viene quindi interpretato come destinato a svolgere un
ruolo in questa trasformazione (Connell 1987: 191; Riesman 1992: 8).
Nel prossimo capitolo seguiremo allora l’infanzia di un bambino bijagó come
processo di determinazione, definizione e differenziazione nei confronti di ciò
che lo circonda, come continuo accumularsi individuale dell’esperienza e costante
ridefinizione di questa in rapporto agli altri. Seguendo questo processo - in cui,
riprendendo un’affermazione di Roumeguère-Eberhardt, “il bambino si
completerà a contatto con gli altri” (1996: 38) - vedremo come, attraverso le
diverse tappe della crescita, i bambini verranno “modellati dalla società” (Bateson
1988: 165) fino a diventare “uomini e donne”.
umori della stessa natura o origine, perché si distruggono o respingono a vicenda (Héritier 1996: 153-162).
152
Capitolo VI
Diventare uomini e donne
1. L’infanzia
Come succede in molte società, all’inizio, ovvero nei primi anni di vita, maschi
e femmine sono per i Bijagó terminologicamente indistinguibili: dalla nascita ai
due anni di età, il bambino verrà chiamato genericamente nea, e dai due ai sei anni
ongbá (Gallois Duquette 1983: 88; Scantamburlo 1991: 58). Almeida, nel suo
trattato di medicina bijagó, riferisce dei termini lievemente diversi. Riporta infatti
ombánea per designare il neonato indipendentemente dal sesso, seguito da una fitta
serie di termini che segnalano una distinzione di genere già nei primissimi anni di
vita. Secondo Almeida, infatti, nei primi mesi di vita il maschio si chiamerà omba-
ontise, mentre la bambina amba-okãnto (Almeida 1952: 251).
Comunque sia, per quanto differenti autori riportino diverse terminologie
1991: 58), in tutti i casi si assiste a una differenziazione dei nomi, man mano che il
bambino cresce. Come vedremo, non è semplicemente il passare del tempo ciò
che conduce a raggiungere le condizioni di “uomo” e “donna”.
Diversi studi sulle attività di gioco dei bambini, analizzate come occasioni
privilegiate di espressione di caratteristiche proprie di ciascun genere, hanno
gettato una nuova luce su come la nostra identità sociale e il nostro genere sono
socialmente costruiti (Lorber, Farrell 1987: 29). Fin dalla prima infanzia, nei
153
giochi che sono loro insegnati e nell’educazione che viene loro impartita, maschi e
femmine vengono simbolicamente opposti nella costruzione sociale della loro
identità. Nel periodo che va approssimativamente dai due ai sette anni i bambini a
Bubaque vengono chiamati ongbá, indipendentemente dal sesso, per quanto ho
potuto constatare personalmente sul campo. Durante questo periodo fratelli e
sorelle restano sempre vicino alla loro madre, seguendola ovunque e osservando
tutte le sue attività: i maschietti sono generalmente nudi, mentre le bambine, fin
dalla più tenera età, indossano una gonnellina di fibre vegetali che si annoda sopra
al pube e scende a metà coscia (candi, b.; sailla, k.).
La madre generalmente li tratta nella stessa maniera. È nei giochi che
cominciano a delinearsi le differenti identità di maschio e femmina. Il ragazzino,
infatti, gioca alla guerra o alla lotta in gruppi piuttosto ampi, litigando con gli altri
bambini e creando situazioni competitive per decidere chi sarà il “capo”.
Miniature di armi (Duquette 1983: 89) e di piroghe (Paiva 1990: 142) divengono
nei giochi simbolo dell’“ethos” maschile, ispirato dai racconti delle imprese
belliche degli anziani.
La bambina, invece, gioca “alla mamma” in piccoli gruppi, ripetendo per
imitazione i gesti delle donne del villaggio. In questo periodo apparentemente non
viene richiesto alla bambina nessun compito materiale, ma in realtà già comincia
ad avere le sue prime responsabilità. Giocando alla mamma, mentre la madre
svolge altri compiti, la bambina si prende realmente cura dei fratelli più giovani,
spazza la veranda, raccoglie i manghi e i frutti di cadjù da far succhiare ai più
piccoli, sempre accompagnata dai consigli e dai rimproveri delle donne del
villaggio, che seguono attente i suoi gesti.
La bambina registra le raccomandazioni che le vengono rivolte senza
intervenire, pronta solamente a obbedire agli ordini. In questo periodo, infatti,
come ha osservato anche Gallois Duquette (1983: 89), i bambini sono
costantemente muti in società. Non è previsto che i bambini possano
interrompere le parole degli adulti, fosse anche per chiedere spiegazioni o
delucidazioni. Alla bambina in particolare vengono rivolte molte raccomandazioni
su come svolgere al meglio i compiti quotidiani, dalla pulitura del pesce alla
154
pilatura del riso, non in un contesto preciso, ma nel corso della giornata, quando
le circostanze richiedono un buon consiglio. La bambina ascolta in silenzio senza
interrompere, concentrata e desiderosa di ricevere l’approvazione delle donne
adulte.
I Bijagó pongono una stretta connessione tra l’uso del linguaggio e l’emergenza
del sé. Il bambino piccolo parla raramente e d’altronde nessuno pare interessato
ad ascoltarlo. “Non capisce niente, non sa niente, è solo un bambino” dicono
spesso e per questa ragione i bambini possono entrare anche in ambiti molto
segreti senza che nessuno intervenga per allontanarli. Questo modo di
comportarsi, secondo Gallois Duquette, è uno dei motivi per cui i piccoli bijagó,
giunti verso i sette anni ai banchi di scuola, hanno difficoltà a partecipare al
sistema di insegnamento occidentale proposto dalla missione cattolica, basato sul
sistema domanda/risposta (Gallois Duquette 1983: 89).
Oltre a non aver diritto alla parola, i bambini mangiano sempre dopo che si
sono serviti gli adulti e spesso quindi non resta loro che il riso, in quanto il pesce
è stato già consumato. Questo periodo, nel quale si ha davvero poca importanza
all’interno della comunità, viene superato man mano che si percorrono le tappe di
integrazione alla società.
2. Diventare uomini: il ciclo ����ubir kusina e l’organizzazione in gradi d’età
Dai sette anni fin verso la pubertà, il bambino è chiamato kadene. Questo
mutamento di status è contrassegnato da una cerimonia nella quale il bambino
impara a suonare lo iangaran ietiss, ossia un tamburo corto che egli percuote con
un bastoncino (Gallois Duquette 1983: 90). Il ragazzino si separa dalla madre e
dalla vita femminile del villaggio e comincia ad accompagnare gli uomini nella
foresta, quando vanno a caccia o a raccogliere i frutti delle palme. La cosa più
155
importante tuttavia è che da questo momento il bambino incomincia a partecipare
al �ubir kusina, un ciclo rituale che distribuisce gli esseri umani in classi e gradi
d’età135 e organizza una circolazione dei beni dai giovani verso gli anziani.
Il ciclo rituale iniziatico �ubir kusina lega gli abitanti tra di loro disponendoli in
gradi d’età e sottolinea l'unità politico-rituale dell'isola: l’organizzazione del �ubir
kusina ha quindi l’effetto di rinforzare il sentimento di appartenenza al villaggio e
di creare un sentimento di appartenenza a una unità più grande. Uno degli aspetti
più significativi dell’età, quale principio strutturale, come ha messo in evidenza
Bernardo Bernardi riferendosi ai sistemi delle classi d’età, è proprio la sua efficacia
unitaria: essa introduce unione laddove gli altri elementi producono divisione.
L’età, infatti, quand’è manipolata per scopi strutturali, non conosce confini
territoriali né divisioni di parentela (Bernardi 1984: 22).
In effetti, da un lato un individuo segue sempre i rituali �ubir kusina del suo
villaggio (una donna sposata e residente in un’altra isola o in un altro villaggio
ritornerà nel suo villaggio di origine); dall’altro lato, essendo raggruppati e legati
tra loro più villaggi in modo da dipendere gli uni dagli altri, i Bijagó acquistano la
coscienza di formare una stessa collettività (Henry 1991: 43-63).
Questo rituale, che include l’iniziazione, sottintende, come abbiamo
precedentemente affermato, l’organizzazione della popolazione maschile in gradi
d’età136. La singolarità di questo sistema consiste nell’utilizzazione del principio
dell’età per l’ordinamento sociale: in base a questo principio si classificano gli
individui, si definiscono i rapporti reciproci e le funzioni particolari dei gradi, si
135 Radcliffe-Brown, con una lettera alla rivista Man, suggerisce di rinunciare all’espressione age-class perché ritiene che la parola “classe” sia estremamente generica e suggerisce di adottare age-set per indicare quel gruppo del quale, una volta entrata, una persona resta membro per tutta la vita, e il termine age-grade per le divisioni della vita di un individuo quali, ad esempio, infante, ragazzo, giovane, sposato, anziano e simili (Radcliffe-Brown 1929: 21). Bernardo Bernardi suggerisce di chiamare classe d’età l’age-set di cui parla Radcliffe-Brown e grado d’età l’age-grade (Bernardi 1984: 48). Si può quindi affermare che ogni classe d’età attraversa nel corso della sua esistenza vari gradi d’età, che corrispondono a determinati status sociali e danno il diritto ai suoi membri di partecipare legittimamente alla vita sociale con compiti precisi. 136 Formazione di classe e promozione di grado costituiscono due aspetti di uno stesso fenomeno di istituzionalizzazione formale: il reclutamento dei candidati di una classe comporta la loro promozione a un grado. Ad ogni grado corrisponde una posizione sociale con status e prerogative che costituiscono l’appannaggio delle classi, un appannaggio peraltro solo temporaneo. L’interconnessione tra classi e gradi costituisce quello che chiamiamo sistema delle classi d’età (Bernardi 1984: 17).
156
stabiliscono le norme per il superamento delle tensioni e dei conflitti. Inoltre,
attraverso l’appartenenza di classe e la promozione nei gradi, il sistema definisce il
termine di riferimento per determinare l’identità sociale e l’area di competenza di
ogni persona nell’ambito globale dell’attività sociale (Bernardi 1984: 283).
L’obiettivo di questo rituale è fabbricare ato okotó, persone “grandi” e per
raggiungere questo fine i giovani sono arruolati in promozioni parallele la cui
attività principale è pagare i loro rispettivi “grandi”.
Attraverso questa istituzione il ragazzo bijagó, nel corso della sua esistenza, è
chiamato, come mostra la Tabella 6, a esperire in modo socialmente controllato
modi diversi di concepire l’umanità, rappresentando e interpretando ruoli diversi
a seconda della sua posizione sociale (l’irruenza del guerriero, la ponderatezza
dell’uomo adulto, la saggezza e i poteri rituali dell’anziano).
Nella filosofia bijagó, infatti, la vita avanza passo a passo:
“il sistema di gradi d’età permette la divisione dei doveri e delle responsabilità tra i membri
del villaggio in accordo con le capacità di ognuno, che si suppone aumentino con l’esperienza.
Ogni individuo deve imparare ad adattarsi al meglio agli altri e a intrecciare relazioni all’interno
del villaggio” (Scantamburlo 1991: 57).
Come sottolinea Allovio, commentando l’articolo di Roumeguère-Eberhardt
sul processo di costruzione dell’“uomo Venda”, cui abbiamo già accennato, il
completamento dell’uomo non è una faccenda privata (Allovio, Favole 1996: 30).
Anche l’uomo bijagó pare, infatti, completarsi solo a contatto con gli altri,
tessendo rapporti con gli altri componenti della società. Tra i membri della stessa
classe d’età si instaurano rapporti di uguaglianza e parità, come è dimostrato da
alcune norme di comportamento che tutti devono rispettare in quanto formano
un gruppo corporato. Al contempo i giovani vengono educati a rispettare i
membri del grado superiore e soprattutto gli anziani e a dividere con questi i loro
beni.
Questa distribuzione di beni è così importante che, nella maggior parte delle
cerimonie cui gli adolescenti partecipano prima di raggiungere l’età adulta, è
157
implicata e incoraggiata l’offerta di cibo ai più vecchi. Dividere i beni con gli
anziani è, infatti, la caratteristica principale dei giovani: in questo modo loro
divengono partecipi di nuove conoscenze e al contempo, mettendosi in luce con
la loro generosità, vengono conosciuti da coloro che dirigono il villaggio. Così il
legame tra il dare e il conoscere è appreso per sempre e, quando i ragazzi
diventeranno anziani, insegneranno a loro volta questa stessa regola di
responsabilità sociale (Scantamburlo 1991: 58). Onorare gli anziani per diventare
anziani, per crescere, questo è il senso ultimo della filosofia bijagó e “�ubir
kusina”137 è la legge di questa società.
Il termine “�ubir” significa “domandare” o “offrire”, ma offrire con l’idea che
se ne otterrà qualcosa in cambio (Henry 1994: 105). Ad esempio, quando un
villaggio chiede un re a un altro villaggio e, per fare questo, offre una serie di
doni, si dirà che la gente di tale villaggio �ubir oro�o, offre per ottenere un re. Si
possono anche prendere in esame due espressioni che si riferiscono alla
possessione delle donne, ossia �ubir orebok, che significa nel linguaggio corrente la
situazione di chi sta per essere posseduta e letteralmente “domandare per avere
un’anima”, e �ubir �abido138, termine con cui viene chiamato un momento
specifico del rituale dufuntu, che letteralmente significa “chiedere per avere un
kabido139 ”.
Più difficile è tradurre il termine kusina. Certi informatori sostengono che il
termine significhi letteralmente “gli anziani”, altri l’insieme dei regali che vengono
137 Scantamburlo riporta invece l’espressione “Notomàt nokotó” o “notomàt cosina” che significa “pagare agli uomini grandi” o “pagare per diventare un uomo grande”(Scantamburlo 1991: 57). Pur lavorando sullo stesso terreno (isola di Bubaque, villaggio di Bijante), io ho raccolto un’espressione un poco differente, concordante invece con quella registrata da Henry nel corso della sua ricerca tra gli Añaki (i Bijagó di Canhabaque). Scrive infatti Henry: “Gli Añaki dicono che, essere un oñaki è �ubir
kusina” (Henry 1994: 105). 138 Scantamburlo riporta il termine Nobanabidu, ma non ne riporta il significato (Scantamburlo 1991: 110). Secondo Henry nel dialetto di Canhabaque significherebbe “possedere i nabidu” (Henry 1994: 137). 139 Nel dialetto di Bubaque è il termine che designa il camabi, di cui Scantamburlo dice che “non possiede nulla, nemmeno i propri abiti e deve fare i lavori pesanti del villaggio; gli è proibito avere relazioni sessuali con qualche amante e all’inizio di questo periodo non può parlare a nessuna donna, nemmeno alla madre, se non tramite un intermediario” (1991: 61). Al ritorno dall’iniziazione in foresta (ka�oke), che dura all’incirca sei mesi, i �abido, infatti, perdono tutti i diritti di cui avevano goduto precedentemente: perdono la loro casa, le loro amanti e i loro figli, che sono, da allora in poi, costretti a evitare.
158
offerti agli anziani. Più generalmente sembra si possa utilizzare il termine nel
senso di ciò che è bene, ciò che è buono (Henry 1994: 105). Letteralmente
l’espressione �ubir kusina potrebbe tradursi con “domandare per ottenere il
bene”. Pedro e altri informatori lo traducono in kriolo con due espressioni: pidi
grandesa o paga grandesa. Pidi significa domandare, paga pagare. Il termine grandesa
designa l’insieme degli anziani o la dignità dell’essere un anziano. In kriolo
quest’espressione comporta dunque un’ambiguità, giacché significa sia “pagare o
domandare agli anziani”, sia “pagare o chiedere la dignità dell’essere anziano”.
Questo doppio senso è effettivamente presente nel rituale, in quanto “ciò che è
bene”, la “maggior dignità” per i Bijagó è essere un anziano, una persona in pieno
possesso dei suoi diritti, una persona ormai completa, che fa parte di quelli che
mangiano e non più di quelli che offrono (i regali sono generalmente beni di
sussistenza, riso, olio e vino di palma, pesce e crostacei), di quelli che si riposano e
non più di quelli che faticano per riunire i doni (Henry 1994: 106).
Alcuni amministratori portoghesi dedussero dall’analisi di questo ciclo rituale
che il sistema politico bijagó era una gerontocrazia, tanto che nel 1955 comparve
un saggio intitolato “A Gerontocracia Bijagós”140. Secondo Bernardi tuttavia,
nonostante in questo contesto l’anzianità costituisca il culmine massimo della
condizione sociale, definire il sistema in termini di gerontocrazia, come spesso
avviene, significa non percepirne criticamente la natura:
“Gli anziani non detengono l’intero blocco del potere e qualunque sia la forma di potere che
essi esercitano, l’esercitano solo temporaneamente, non nel senso che sono anch’essi
condizionati dalla morte come ogni altro uomo, ma perché lo devono passare ai loro successori
140 “Con l’età si acquisiscono diritti, mentre diminuiscono gli obblighi in modo progressivo. Senza mai dimenticare i suoi doveri nei confronti della famiglia il Bijagó presta vassallaggio a determinati membri di un’altra classe sociale più elevata, costituita dai più vecchi, presentandosi ora con zucche piene di vino di palma, ora con pesce fresco, riso, olio di palma, grappa, e ricevendo identiche offerte da individui della classe loro inferiore. Si stabilisce quindi una interdipendenza tra le differenti classi. Nella tribù Bijagó il vecchio (cabonga) rappresenta una figura primordiale nell’organizzazione sociale. È, diciamo, il legislatore rispettosamente ascoltato ed obbedito. La sua saggezza ed esperienza sono considerate universali. È lui che organizza e dirige il “manratche”, l’iniziazione, è a lui che si ricorre se bisogna prendere qualche decisione importante e la sua volontà è sempre seguita. In ogni villaggio funziona un “consiglio dei grandi”, al quale sono attribuite funzioni consultive e direttive. Questo consiglio conserva tutta l’antica competenza negli aspetti sociali e privati della vita Bijagó” (Silva Marques 1955: 294-295).
159
in un momento preciso determinato dagli scatti promozionali dei gradi d’età” (Bernardi 1984:
62-63).
Claude Meillassoux, sottolineando la situazione di privilegio in cui si trova
l’anziano, afferma che
“i primi, quelli ai quali sono dovuti i beni di sussistenza e le sementi, sono gli anziani. Tra di
essi, il più vecchio nel ciclo produttivo non deve più niente a nessuno, fuorché agli antenati,
mentre egli concentra su di sé la totalità di ciò di cui i cadetti sono debitori alla comunità che egli
viene in tal modo a incarnare” (Meillassoux 1978: 52).
E Mandes Fernandes, riferendosi direttamente al contesto sociale bijagó
(tabelle 7 e 8), aggiunge:
“diventando anziani gli uomini acquisiscono il diritto di vivere nel villaggio, spazio delle
donne, il diritto di sposarsi e la proprietà della terra: l’appartenenza alla classe dei kusuka dà
accesso al segreto, alle donne e alla terra” (Mandes Fernandes 1989: 19).
Solo una volta divenuti anziani, gli uomini avranno il diritto di sposarsi e di
essere i padri legali dei bambini che genereranno, condizione che darà loro non
solo maggior prestigio e un sicuro sostegno, ma anche la possibilità di avere una
cerimonia funebre fastosa, della quale si conserverà la memoria per molti anni.
Viene quindi negato ai giovani adulti sia uno stato autonomo, sia la possibilità di
fondare una famiglia e vengono loro imposte dagli anziani pesanti prestazioni
materiali.
Questa situazione al giorno d’oggi, specialmente in un’isola come Bubaque,
nella quale stanno avvenendo rapide trasformazioni in seguito al contatto con altri
popoli e altre culture, crea diverse proteste in seno alle giovani coppie. Durante la
ricerca sul terreno ho dovuto prendere atto del fatto non è possibile leggere la
realtà etnografica come se si trovasse in un tempo eterno e immobile, ma che è
necessario considerarla inserita in un presente che muta continuamente e che tale
160
mutamento si riflette e intacca la configurazione dell’intera struttura sociale.
L’arcipelago e in particolare l’isola di Bubaque si trovano in una congiuntura
storica particolare, caratterizzata da modificazioni rapide e profonde e, siccome il
sistema dei gradi d’età è un dato storico che può mutare e che effettivamente
muta, le relazioni conflittuali tra giovani e anziani non sono che uno degli aspetti
più notevoli e evidenti di questa trasformazione.
Un giovane che matura vorrebbe, infatti, affermare se stesso e la propria
personalità; vorrebbe svolgere una propria attività, sposarsi e mettere su casa,
producendo i mezzi di sostentamento necessari a lui e al suo gruppo familiare.
Non potendo invece possedere della terra propria i �aro141, per quanto lavorino,
non potranno tenere per la loro famiglia nemmeno una parte del raccolto e
qualora guadagnino del danaro in altro modo, saranno tenuti a versarne gran
parte agli anziani.
Le mogli, quindi, spesso spingono i mariti a ribellarsi a questa legge pesante, in
modo da poter migliorare il loro tenore di vita, magari trasferendosi nella capitale,
in cerca di un lavoro salariato. La responsabilità della situazione di costante
deterioramento dei rapporti tra i giovani e gli anziani, secondo quanto ci dicono le
donne, viene attribuita agli anziani stessi, che abusano della loro autorità,
impedendo di fatto il matrimonio e la promozione sociale dei giovani. Queste
pressioni sovversive sono motivo di preoccupazione per gli anziani, i quali dal
loro canto sostengono che la tradizione non venga più rispettata e che i giovani
che stanno nella “praça”, nella piazza, la zona del porto di Bubaque, orientata
verso l’esterno e un po’ all’infuori dalla vita del villaggio, abbiano dimenticato le
basi della loro cultura. “Si possono conoscere cose nuove - dice l’anziano Tetè di
Bijante - andando a studiare a Bissau, si possono fare esperienze diverse senza per
questo dimenticare o disprezzare la propria cultura, ricordando sempre la legge
del “paga grandesa”, così come noi abbiamo fatto da giovani”.
141 I �aro (plurale di karo) corrispondono, nel dialetto di Bubaque, a quelli che Scantamburlo chiama cabari. In questa tappa i giovani adulti possono contrarre una forma di matrimonio (eshonì) che non suppone la coabitazione degli sposi, ma non saranno riconosciuti padri dei bambini che genereranno e non hanno nemmeno accesso alla terra. Ciò nonostante Scantamburlo ci dice che “è l’epoca più felice
161
La situazione crea evidentemente un deterioramento continuo dei rapporti tra i
giovani, insofferenti e desiderosi di cambiare, e gli anziani, più pacifici e pronti al
dialogo. Di conseguenza il gruppo escogita delle risposte per mitigare e
ridimensionare questo conflitto di interessi. Può essere utile riportare, come
esempio di infrazione della norma sociale �ubir kusina, il caso di un karo di
Bubaque, che decise di andare a vivere con la sua compagna e di lavorare
esclusivamente per il benessere del suo nucleo familiare, senza dividere i beni con
gli anziani142. La giovane coppia viene perseguitata dalla sfortuna, la donna
partorisce sempre bambini nati morti o che comunque si ammalano e muoiono
nel corso dei primi mesi di vita. In questa situazione la sfortuna venne interpretata
dalla donna come causata dagli anziani del villaggio, invidiosi della loro posizione
finanziaria e in collera per il loro rifiuto di “offrire agli anziani”, come vuole la
tradizione.
Gli anziani, invece, e tra loro il djambacosse, il curatore/divinatore, attribuirono
la causa di questi strani decessi a spiriti irritati da disturbi di ordine morale,
spostando così l’attenzione sulla cattiva condotta delle vittime della sfortuna e
sulla loro grave infrazione della più importante norma sociale bijagó143.
Osservando il fatto che sono state sostenute due diverse teorie da parti con
interessi diametralmente opposti ci è possibile comprendere sia come agiscono i
della vita di un bijagó, ricordata con nostalgia da tutti come periodo di libertà, amore e apertura verso il mondo” (1991: 60). 142 Un caso simile viene raccontato, in un film etnografico sulla società bijagó girato da Jean-Paul Colleyn (docente di antropologia visuale all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi), da Dina, una ragazza di Bubaque. Il discorso di Dina viene così riportato in francese: “Aujourd’hui les jeunes hommes veulent être avec leurs femmes. Ils veulent en finir avec ces histoires de cérèmonies, attendre le fanado (initiation), attendre de devenir un vieux pour aprés s’installer avec sa femme. Aujourd’hui, ils veulent s’asseoir avec leur femmes... Moi j’ai dit à André: “cherche un travail, pour qu’on aille en ville, pour qu’on reste la-bas, pour qu’on devienne des gens, pour qu’on ne reste pas en forêt”... André ne veut pas attendre, mais il n’a pas de travail. Les Bijagó, quand ils deviennent âgès, ils ne laissent pas leurs enfants mâles aller en ville pour trouver du travail. Il veulent qu’ils restent sous leur toit pour travailler les champs, pour cultiver du riz et couper les grappes de palme...”. Il documento filmato cui mi riferisco è stato girato dallo stesso Colleyn e da Alexandra Oliveira Oliveira nel 1991. 143 Scantamburlo mi raccontò che nel villaggio di Uite, nell’isola di Orangozinho, un ippopotamo rovesciò una canoa e uccise due giovani che erano appena andati dall’Amministratore di Bubaque a chiedere il cambiamento della legge che obbligava i giovani iniziandi a abbandonare le amanti avute prima della cerimonia iniziatica. Questo fatto fu spiegato dal djambacosse come una punizione da parte degli spiriti per la loro cattiva condotta. Il cambiamento, mi dice Scantamburlo, non è mai visto
162
conflitti di interesse che esistono nel villaggio, sia come le persone coinvolte
manipolino le credenze mistiche per difendere i propri interessi144.
La realizzazione del kusina si manifesta quindi come una diseguaglianza sociale,
ma nel frattempo la sua riproduzione sociale implica che il grado inferiore
prestativo si trasformi in grado superiore recettivo di prestazione. In questo modo
la realizzazione del kusina ristabilisce eguaglianza sociale. Si può quindi affermare
che nella sua realizzazione il kusina ha un momento di disequilibrio e nella sua
riproduzione un ristabilimento dell’equilibrio. Bernardi si esprime al riguardo in
questo modo:
“mentre l’ordinamento gerarchico è il prodotto ineluttabile del fattore classificatorio,
l’egualitarismo è il prodotto rinascente della mobilità sociale, che garantisce ai membri della
società di aver pieno accesso agli stessi gradi e di percorrere l’intera serie dei gradi grazie
all’appartenenza di classe” (Bernardi 1984: 272).
Il processo di avvicendamento di individui di generazioni differenti nel ruolo
di anziani, infatti, conferisce a chiunque la possibilità di beneficiare, una volta
raggiunta l’anzianità sociale, del lavoro di chi viene dopo di lui. Mendes
Fernandes (1995: 73), avvicinandosi, mi sembra, al pensiero di Meillassoux (1978:
96-97), asserisce che
“la peculiarità di questo tipo di società coincide con la possibilità che tutti gli uomini hanno,
durante il ciclo della loro vita, di accedere ai mezzi della riproduzione sociale, e cioè i beni di
sussistenza e le donne”.
Ciclo produttivo e ciclo riproduttivo vengono così a essere strettamente
connessi, dal momento che non è possibile, per un individuo pre-produttivo (cioè
troppo giovane), acquisire i mezzi della propria riproduzione sociale, e cioè una
troppo positivamente dai Bijagó, e, quando avviene, viene ridimensionato, inserendolo in una serie di comportamenti istituzionalizzati in modo da fargli assumere una forma familiare. 144 Si veda in Turner Schism and Continuity in an African Society, il concetto di social drama (dramma sociale), che mi ha aiutato nell’analisi di questo conflitto che caratterizza la società bijagó (1976: 147-207).
163
donna. È vero comunque che, parlando con gli abitanti di Bijante, gli uomini
giovani e i vecchi descrivono sempre �ubir kusina come un lavoro, poiché,
dicono, “la maturità si paga e ce la si deve guadagnare”. Un lavoro indispensabile,
quindi, perché il principale aspetto del rituale concerne proprio la costruzione
della persona: è nel nutrire gli anziani, nel fare loro doni, che si diviene okotó,
grandi, adulti, ossia persone complete.
Tabella 6. L’organizzazione maschile in gradi d’età.
età media
gradi d’età maschile
caratteristiche
1
2-6
nea
ongbá
Vive, come le bambine, costantemente insieme alla madre in quanto non ancora svezzato. Vive al villaggio giocando con gli altri bambini.
7-11
kadene
Entra nel ciclo �ubir kusina; gli viene insegnato il rispetto e l’obbedienza per i più anziani e inizia a “pagare” i k��okam.
12-17
k��������okam
Esegue danze di guerra ed è caratterizzato da specifici ornamenti marziali. È considerato il protettore del villaggio. Non offre ai membri della classe successiva, ma agli anziani della sua stessa classe d’età, poiché i k��������okam sono così disprezzati, che i karo non vogliono nulla da loro.
18-30
karo o cabaro
Si entra in questa classe con una cerimonia in cui si veste la cintura kampende, ossia una cintura di conchiglie che viene adagiata sulle anche, simile alle cinturine che le ragazze bijagó usano per ornare i fianchi (Gallois Duquette 1983: 90; Scantamburlo 1991: 59). Questo è il periodo più felice della vita di un ragazzo bijagó e precede l’entrata in foresta. Il karo si preoccupa soprattutto del suo corpo e esteriorizza la sua potenza fisica nello stesso tempo in cui adotta ornamenti femminili. Può avere diverse donne e contrarre una forma di matrimonio detta eshoní. Esegue la danza del toro selvaggio. È in questa classe d’età che gli uomini iniziano il percorso iniziatico in foresta (kañoke).
31-40
kabido o camabi
È il periodo più penoso della vita di un bijagó: di ritorno dall’iniziazione, il kabido perde tutti i diritti che aveva quando era karo, non possiede nulla, nonostante debba lavorare duramente. Sperimentando una così dura esistenza, perde tutta l’esuberanza del karo e rinforza la sua struttura psichica (Silva 1984: 72). Non porta alcun ornamento e in foresta rimane nudo (Duquette 1983: 94; Viegas 1937: 11). Il kabido porta con sé una figura scolpita che simbolizza il suo lento passaggio dallo stato di immaturità proprio del karo, alla condizione di uomo esperto cui arriverà, nella sua pienezza, quando sarà al termine della sua vita (Gallois Duquette 1983: 120-121). Questa scultura rappresenta una faccia femminile che evoca la femminilità del karo, che non sa ancora nulla della vita, opposta alla faccia maschile che simbolizza la virilità del kabido, che già possiede alcune conoscenze. Non avendo alcun diritto è l’essere asociale, l’outsider, per eccellenza.
41-55
kassuká
È l’uomo adulto nella sua interezza, che gode i privilegi degli anziani, ha una casa, ha diritto di paternità legale sui suoi figli e può sposare la sua donna con la cerimonia koneió. Mentre ai �aro erano associati valori quali forza fisica e irritabilità, ma anche vanità e irresponsabilità, i valori associati al kassuká sono differenti: ragionevolezza, sobrietà negli abiti e nel comportamento, responsabilità verso i figli e la famiglia.
164
dopo i 55
okotó o kabu����a
Tre iniziazioni dopo la sua, il bijagó diviene un anziano, detentore di una autorità che gli permette di avere grande potere decisionale e di essere rispettato e onorato da tutti.
Tabella 7. Organizzazione dei partecipanti al ciclo ����ubir kusina
non iniziati iniziati grado d’età kadene k��okam karo kabido kassuká okotó età media 7-11 12-17 18-30 30-40 41-55 dopo i 55
Tabella 8. Organizzazione in funzione all’accesso alla terra e alla paternità
non iniziati
iniziati
iniziati iniziatori
grado d’età kadene k��okam karo kabido kassuká okotó accesso alla
terra negato negato negato negato concesso concesso
potere di generare
negato negato concesso negato concesso concesso
Al termine di questa schematica descrizione del percorso dell’uomo
dall’infanzia all’età matura, le ipotesi precedentemente avanzate vengono
confermate. Il �ubir kusina designa un insieme di rituali disposti su una trentina
d’anni, che fanno passare gli uomini attraverso differenti gradi d’età. L’iniziazione
è il momento cruciale, il quale giustifica il fatto che coloro che subiscono la stessa
prova nello stesso momento vengano chiamati con lo stesso nome per tutta la vita
(age-set, ‘classe d’età’). L’esistenza di un age-set permette e di gerarchizzare gli
uomini che sono ormai giunti all’ultima classe d’età e di stabilire delle relazioni tra
uomini e donne, in quanto le donne, come vedremo tra poco, non sono
distribuite in gradi d’età (age-group), ma solamente in classi d’età (age-set).
3. Diventare donne: la consapevolezza del potere di dare la vita
Mentre gli uomini, come abbiamo visto, passano attraverso gradi di età, mi
sembra di poter affermare, basandomi sulla mia esperienza sul campo, che le
165
donne non conoscano queste divisioni. La lingua distingue solo la ragazza
(kampuni) dalla donna (okãnto). La bambina verrà chiamata kampuni quando i suoi
seni cominceranno a crescere e okãnto quando avrà generato un figlio
(Scantamburlo 1991: 63). La terminologia, quindi, a proposito della donna,
segnala solo gli avvenimenti che provocano i suoi più rilevanti mutamenti di
status: quando cioè diviene fisicamente donna e al momento della prima genitura.
Buon indicatore dell’età della donna è la lunghezza della sua la gonna: le giovani
kampuni usano gonne corte e stanno a petto nudo, le okãnto gonne un po’ più
lunghe e generalmente coprono il seno con una maglietta o un panno, mentre le
donne anziane indossano gonne decisamente più lunghe e portano una gonna al
collo a nascondere la parte superiore del corpo (Pereira 1914: 28; Simões 1935:
147; Costa 1957: 196; Almeida 1939: 46; Duquette 1983: 129).
A parte la lunghezza della gonna, l’abbigliamento della adolescente e quello
della donna sposata non sono molto differenti. Le loro gonne conservano in
genere il colore naturale delle fibre vegetali (Scantamburlo 1991: 38, Duquette
1983: 32). Molti vegetali servono alla fabbricazione delle gonne; alcuni sono
preferite per la loro impermeabilità nella stagione umida, altri per la loro solidità,
altri ancora per la loro qualità estetica. Talvolta le kampuni colorano vezzosamente
le fibre delle loro gonne: l’ocra e il succo di foglie bollite forniscono il rosso il
bruno e il nero, il colluttorio orale che l’ospedale di Bubaque regala in gran
quantità, il viola. Da ragazze amano indossare bijoux di plastica o di ferro,
orecchini di legno e braccialetti. All’inizio del secolo, il viaggiatore Gustave de
Coutouly scriveva che “il loro solo lusso, i loro soli gioielli, erano dei braccialetti
di latta o di cuoio ai polsi o alle caviglie, e degli anelli dello stesso metallo a guisa
di orecchini” (Coutouly 1921: 24). Oggi le kampuni valorizzano gli oggetti di
provenienza occidentale al punto da adornare i loro capelli intrecciati con spille da
balia o da sospendere al collo, come ciondoli, dei tappi di bottiglia (Gallois
Duquette 1983: 131).
Le donne adulte, già okãnto, abbandonano le treccine per portare i capelli molto
corti, cingendosi il capo con un foulard e, allo stesso modo, rinunciano alla
maggior parte dei loro bijoux. Hanno tuttavia decorato il loro ventre, le braccia e
166
il seno con delle scarificazioni145, che in genere riproducono un motivo
ornamentale che Gallois Duquette chiama “diabolo” (1983: 81, 132). Questo
motivo associato alla donna è piuttosto ricorrente: lo dipinge sulle pareti esteriori
della sua casa e sul muro esterno del santuario (candja caorebok), lo traccia
colorando la sua gonna, lo disegna sulla cintura che porta in vita quando è incinta
(utocodo), lo scolpisce sugli oggetti di uso quotidiano. Il “diabolo” è un motivo
composto da due coni opposti per i vertici e, secondo Gallois Duquette, è un
simbolo di equilibrio: i “diabolo”, sempre più ammorbiditi nella rappresentazione,
fino a sembrare due curve intrecciate, rappresentano ideologicamente il mondo
maschile e il mondo femminile che si ricongiungono (1983: 82).
La donna, quindi, non sembra passare, a differenza degli uomini, attraverso
gradi d’età. Il processo di maturazione non è concepito in maniera identica per gli
uomini e per le donne, in quanto gli uomini vengono iniziati e passano attraverso
gradi d'età, mentre le donne non sono iniziate e non sono divise in veri e propri
gradi d'età. Le donne, comunque, non sono escluse dal sistema iniziatico, in
quanto, come abbiamo già accennato e come vedremo meglio nella terza parte
della tesi, hanno l’incarico di iniziare i giovani morti prima di aver terminato il
percorso iniziatico (in questo caso il percorso iniziatico viene chiamato
comunemente con il termine kriolo dufuntu, ossia letteralmente “defunto”).
Nel momento di questo tempo rituale, realizzando le cerimonie iniziatiche
possedute dagli spiriti dei giovani uomini defunti, le donne passano per gli stessi
stadi degli uomini, ossia karo, kabido e kassuká. Mi pare dunque di poter
concludere che in questo caso non si possa parlare tanto di gradi d’età femminili
autonomi, quanto di forme parallele ai gradi d’età maschili, gli unici formalmente
costituiti.
Scantamburlo è di diversa opinione. Secondo quanto ci dice, le donne passano,
nel corso della loro vita, attraverso veri e propri “gradi d’età femminili”, che qui
riporterò schematicamente servendomi delle indagini svolte da Scantamburlo
145 Confronta nel quinto capitolo i paragrafi 4 e 5, ossia “Venire al mondo” e “Il parto”.
167
(1991: 58-63), Santos Lima (1947: 51) e Carreira (1961: 670) e utilizzando la
terminologia dell’isola di Bubaque.
Tabella 9. I gradi d’età femminili in Scantamburlo (1991: 58), in Santos Lima (1947: 51) e
in Carreira (1961: 670).
età media grado d’età femminile caratteristiche dai due ai sei anni nea e ongbá La neonata viene chiamata neéa e, quando inizia a
pronunciare le sue prime parole, ongbá. Per designare questo periodo antecedente la pubertà si usano gli stessi termini sia per gli uomini sia per le donne.
dagli 11 ai 20 anni capuni (kampuni) Si chiamano capuni le ragazze cui i seni cominciano a crescere; è il gruppo d’età che partecipa alle cerimonie iniziatiche dufuntu (orebok, b.). “Capuni Carák Orebok”, dicono i Bijagó di Bubaque, ossia letteralmente “la ragazza danza l’anima”. Le ragazze che attraversano questo periodo, diventano cabaro, camabi 146 e kassuká come i corrispondenti gruppi d’età dei ragazzi.
tra i 21 e i 50 anni ocanto (okãnto) È il nome dato alla donna allorché diviene madre. Ocanto si riferisce anche alla capuni che partorisce prima della cerimonia dufuntu. Avere un bambino prima di questa cerimonia è considerato una grande vergogna.
dopo i 55 anni okotó o kabu����a È il gruppo d’età delle anziane dopo la menopausa che controlla le cerimonie delle donne e che non teme gli spiriti dei morti coi quali conversa in forma amichevole: sono le uniche donne cui è permesso parlare delle cerimonie dufuntu
Come possiamo notare dallo schema che ho costruito, sia per il periodo
prepuberale sia una volta divenuti anziani, gli uomini e le donne vengono definiti
con lo stesso termine. Questi gradi d’età condividono una posizione di marginalità
che comporta ambiguità e in qualche modo ambivalenza.
Nel caso dei membri della classe che occupa l’ultimo grado - gli anziani okotó -
viene normalmente loro attribuito un valore rituale e simbolico di connessione tra
i vivi e gli antenati. In qualche modo sono già considerati appartenenti all’al di là,
146 Cabaro: karo; Camabi: kabido.
168
per il quale fanno da tramite, per cui, ad esempio, la loro morte non verrà pianta,
in quanto non sarà considerata se non un “cambiamento di residenza”:
“gli anziani che occupano questo grado vivono sulla soglia della morte. È in questo senso
che essi hanno un carattere liminare e che la liminarità è il marchio distintivo del grado. Per tale
ragione chi appartiene a questo grado viene rispettato perché il suo status lo congiunge con l’al
di là dove tanti dei suoi compagni sono ormai entrati. Pertanto gli appartenenti a questo grado
rappresentano la tradizione e la sacralità dei valori comunitari” (Bernardi 1984: 103).
Analogamente i membri della classe che occupa il primo grado - i nea, gli
infanti - sono considerati essere in una condizione marginale e ambigua, e
pertanto in uno stato ancora marcato d’ambivalenza, tra il mondo degli spiriti e
quello degli uomini. Come abbiamo visto, infatti, il neonato, almeno fino allo
svezzamento, è piuttosto lontano dalla categoria “persona”.
Considerando queste riflessioni e i dati che Scantamburlo riporta, potremmo
ipotizzare che la condizione della donna, prima di diventare potenzialmente
feconda e una volta divenuta incapace di procreare, sia simile a quella dell’uomo,
come la terminologia indigena sembrerebbe indicare. Come abbiamo appena visto
infatti, e come è visualizzato nelle tabelle 6 e 9, nei primi e negli ultimi anni di
vita, maschi e femmine per i Bijagó sono terminologicamente indistinguibili.
A questo punto, nonostante Scantamburlo ritenga che anche le donne siano
organizzate in gradi d’età (mentre, basandomi sulle mie indagini, io sostengo che
le donne non conoscano, contrariamente agli uomini, una divisione in gradi
d’età), entrambi concordiamo nell’affermare che la lingua bijagó in realtà distingue
solamente la ragazza adolescente (kampuni) dalla donna già madre (okãnto) 147.
La nozione di “donna” viene così a ricoprire, nella società domestica, funzioni
precise legate all’entrata nella pubertà e alla maternità, ossia agli avvenimenti più
147 La progressione di una donna non comporta comunque degli stadi ben contraddistinti da diritti e doveri differenti, come quelli di un uomo. Mentre un uomo non può essere padre e non ha diritto alla terra se non quando diviene kassuká, non è lo stesso per le donne. Qualunque sia la sua età e il suo avanzamento nel ciclo rituale, una donna è sempre considerata la madre dei suoi bambini e trasmette loro la sua appartenenza clanica.
169
importanti della sua vita, che la rendono, in quanto donna, titolare di una
differenza. Meillassoux esprime questo concetto chiaramente:
“il ruolo sociale della donna comincia con la pubertà, con la comparsa delle sue capacità
potenziali di riproduttrice […]. Una volta entrata in menopausa e una volta divenuta anziana,
essa viene, per contro, liberata da tutti questi impedimenti sociali, si apre alla società e acquisisce
un’autorità che le era negata in precedenza, quando era cioè sposa e madre. […] È quando ha
perduto le sue capacità fisiologiche di riproduttrice che essa può acquisire le capacità sociali”
(Meillassoux 1978: 91-92).
Prima di avere la possibilità di procreare e dopo la menopausa, quando cioè
non può dare la vita, la donna viene considerata infatti socialmente simile
all’uomo, la terminologia bijagó non li distingue (tabelle 6 e 9), e in effetti il loro
comportamento viene percepito come al di là del contrasto uomo/donna, che
emerge chiaramente in altri momenti della vita (ad esempio nel periodo in cui la
donna è feconda). Questo caso sembra dimostrarci che immaginare che le società
abbiano un solo modello o un solo pensiero sul genere e sulle relazioni di genere
potrebbe rivelarsi un errore. Sembra, infatti, che tra i Bijagó esistano
simultaneamente diversi modelli di genere, ossia che le categorie “maschio” e
“femmina” si modifichino a seconda del momento e della situazione, come se tra
i molteplici modelli di genere alcuni si rivelassero più appropriati a particolari
contesti o a particolari momenti del ciclo di vita che altri. In altre parole, le
persone che possiedono gli attributi fisici appropriati, in questo caso i genitali
femminili, non sono sempre considerate essere membri della categoria “donne” o
per lo meno non in tutti i contesti.
L’appartenere pienamente alla categoria “donna”, come la terminologia bijagó
e le nostre indagini sembrano dimostrare, pare coincidere con la possibilità di
avere nel proprio corpo un nuovo essere. Fin dalla infanzia abbiamo visto che
l’educazione della bambina mira a fare di lei una futura madre. Il momento in cui
la giovane si trasforma in donna, sottolineato dalle scarificazioni corporali sul
170
ventre, sembra mettere in evidenza la pubblica presa di coscienza del ruolo
produttivo-riproduttivo che maggiormente la caratterizza.
Nonostante questo, mi pare di poter affermare che l’essere donna tra i bijagó
non sia esclusivamente riducibile all’essere potenzialmente madre. Mi sembra
piuttosto che il momento forte del formarsi della “coscienza femminile” sia
l’entrare a far parte del gruppo delle arebok, in kriolo delle dufuntu, ossia
dell’associazione delle donne che fanno percorrere agli spiriti dei ragazzi morti il
cammino iniziatico, per quanto, come vedremo nella terza parte della tesi,
paradossalmente questa esperienza comporti un cambiamento o, per essere più
precisi, una inversione di genere.
Remotti, pur riferendosi a un diverso contesto etnografico e a un differente
rituale femminile148, osserva che si diventa donna “confluendo” in
un’associazione esclusivamente femminile, che presenta, come sue caratteristiche
fondamentali, rivendicazione di esclusività, di segretezza, di solidarietà (Remotti
1996: 175).
Separazione, segregazione, segretezza e opposizione rispetto al mondo
maschile sono note distintive anche del rituale dufuntu delle donne bijagó: si
compie un cammino per gli uomini (morti prima dell’iniziazione), ma cosa accade
in realtà gli uomini non lo possono sapere nel modo più assoluto. “Per le donne
tutto è un segreto - dice Pedro riferendosi scherzosamente a questi rituali - non
dicono nulla se non “bu na muri”149”.
Questi rituali permettono a una giovane kampuni di diventare una donna, una
vera okãnto, anche perché la tradizione vuole che non si abbiano figli se non dopo
aver compiuto il dufuntu. Questi riti, infatti, incidono notevolmente, per quanto
nessun autore l’abbia mai sottolineato e messo in evidenza, sulla persona delle
iniziande, modellandone i pensieri, le emozioni e forgiando la loro nuova identità
148 Remotti si riferisce al rituale femminile nande eri-hinga, che indica il momento in cui una giovane nande “diviene donna” (1997: 174). 149 L’espressione kriola bu na muri, che significa letteralmente “tu muori”, è veramente molto usata ogni qual volta si chieda alle donne bijagó qualcosa sui rituali dufuntu. Le loro risposte suoneranno sempre più o meno “si bu cunsi, bu na muri; si bu papia bu na muri”, ossia “se lo viene a sapere, tu muori; se ne parli, tu muori”. Anche Henry sottolinea che “parlare dei segreti delle donne farà morire loro e i loro interlocutori” (1994: 142).
171
e inoltre, a mio parere, in questo periodo rituale viene posta ancora una volta
l’attenzione sul ruolo procreativo femminile come “apertura della donna all’al di
là, al trascendente, al mondo dei morti” (Magli 1982: 32).
Potere procreativo legato all’idea di “poter avere in sé un altro essere” (Combi
1990: 44) e all’idea di essere un “tramite” (Remotti 1997: 181). Non solo, infatti,
nel pensiero bijagó, è tramite le donne che gli uomini sono in questo mondo (sia
l’umanità in riferimento al mito delle origini, sia i singoli uomini al momento di
ogni nuova nascita). Ma anche tramite le donne i ragazzi morti possono tornare in
vita per finire ciò che hanno lasciato a metà e sempre tramite le donne è permessa
la comunicazione tra il mondo degli antenati e il mondo degli uomini viventi.
La kampuni diviene una okãnto nel momento in cui prende pienamente
coscienza di questo suo potere di mediazione tra i due mondi e della sua
possibilità di contenere nel suo ventre un altro essere e di potergli dare la vita.
Secondo la filosofia bijagó infatti il ciclo della vita, le nascite, dipendono dal
movimento degli arebok, dal loro va e vieni tra l’al di là e il mondo umano e il
mantenimento della fluidità del movimento degli arebok, che permette la vita, è
sotto la direzione delle donne150.
Mettendo al mondo i bambini e riportando in vita i ragazzi defunti, in modo
che possano diventare antenati e così anche rinascere (eliminando quindi quello
che si rivelerebbe essere un intoppo al va e vieni degli arebok), le donne
permettono la circolazione degli arebok, ossia permettono la vita. “Questa è la
cosa più importante, è che le donne sono madri e questo dà loro un grande potere
sugli uomini, un potere che gli uomini non possono avere” - mi dice Pedro.
L’importanza della capacità della donna di generare è così sentita che Tetè, il
suonatore del tamburo sacro, parlandomi in generale dell’iniziazione maschile mi
ha detto che il fanado (iniziazione) dà agli uomini la completezza e la maturità per
150 Gallois Duquette, benché non affronti l’argomento, ha sicuramente notato l’importanza attribuita alle donne nel pensiero bijagó, poiché scrive, anche se in realtà in modo non troppo perspicuo, che le donne Bijagó “partecipano di un mistero religioso, più che di un manifesto iniziatico” (Gallois Duquette 1983: 154).
172
poter, dopo la morte, raggiungere Nindo151, mentre le donne non hanno bisogno
di essere iniziate in quanto, essendo madri, hanno già raggiunto la completezza
che permette loro di raggiungere l’al di là. Anche gli informatori di Henry devono
averle raccontato qualcosa di simile, in quanto lei riporta che “il passaggio
all’ancestralità viene acquisito dagli uomini quando compiono il rito ka�oke152,
mentre per le donne è direttamente legato al fatto che loro possono fare nascere”
(Henry 1994: 147).
Un potere così grande da permettere alle donne di essere accettate da Nindo,
mentre gli uomini devono necessariamente essere iniziati, è concepito anche
come pericoloso: Lamy, infatti, in un articolo sulla concezione bijagó della morte,
sostiene che, per i Bijagó, questo potere di procreare “si apre sugli orizzonti
misteriosi della creazione” in modo anche potenzialmente distruttivo in quanto
“ciò che crea, uccide anche” (Lamy 1985: 150). Scantamburlo conferma,
riportando una credenza molto diffusa sull’isola di Bubaque, per la quale un figlio
mai offenderà sua madre, credendo che lei possa chiamarlo nuovamente al suo
ventre e causargli così la morte (Scantamburlo 1991: 83).
Un potere di vita e di morte quindi che rende le donne e i loro rituali “kil cusa
muito mas perigoso do mundo bijagó”, la cosa più pericolosa del mondo bijagó, come
afferma Tetè. Oltre al rispetto dovutole per il fatto di avere il potere di far
emergere attraverso l’utero la vita dalla morte (Lamy 1985: 150), compiendo i riti
dufuntu una donna acquisisce ulteriore prestigio e potere: viene considerata
potente per il fatto di essere posseduta da un morto e viene rispettata e temuta
poiché, attraverso l’intermediazione del suo spirito possessore, entra in relazione
con l’al di là e diviene suscettibile di esserne l’interprete.
Questa posizione si traduce nella vita corrente, particolarmente per le donne
che hanno la reputazione di essere possedute da un morto potente, con una
autorità che sconfina largamente il dominio rituale. Il raggiungimento di questa
condizione prestigiosa non è direttamente legato all’età né a qualche legame
151 Come abbiamo spesso ripetuto, gli uomini morti prima di aver terminato il ciclo iniziatico non possono raggiungere Nindo. 152 Ka�oke è il termine bijagó che designa il momento dell’iniziazione maschile in foresta.
173
privilegiato con le anziane, che non fanno che guidare le giovani donne su una via
aperta a tutte (Henry 1994: 135).
Una donna tuttavia diventerà effettivamente una “donna grande” solo quando,
istituita una nuova classe, parteciperà all’istruzione delle sue cadette. Essa potrà
allora sedere con le anziane alle riunioni del loro consiglio.
4. L’unione tra uomini e donne: il matrimonio
I Bijagó, mi spiega Pedro, basandosi sul sistema dei gradi d’età maschili,
distinguono due forme di matrimonio, l’una propria dei �aro, chiamata eshoní, che
non prevede la coabitazione degli sposi né il diritto alla paternità sociale, l’altra,
che può essere contratta solo da un kassuká, detta koneió153, che s’accompagna al
diritto di paternità e suppone la residenza comune, neolocale e virilocale154.
Queste due differenti forme di matrimonio sembrano dunque essere
unicamente legate allo status acquisito dal marito nella progressione dei gradi
d’età. Per quanto concerne le donne, Henry e i miei informatori non riportano
nessuna regola precisa (Henry 1994: 152), mentre altri autori (Santos Lima 1947;
Scantamburlo 1991) segnalano che la donna non può sposarsi se non quando ha
compiuto i riti iniziatici. Siccome né Santos Lima né Scantamburlo distinguono le
due forme differenti di unione (l’uno perché non le ha notate, scambiando la
prima per una manifestazione di licenza sessuale, e l’altro perché sostiene che
questa distinzione non sia più osservata a Bubaque [1991: 53]), è difficile sapere se
questa regola si riferisce al matrimonio eshoní o al matrimonio koneió.
Tuttavia Scantamburlo riporta che a Bubaque si distinguono due tipi di
relazioni tra uomini e donne: quelle precedenti al periodo di iniziazione, in cui un
153 Henry ha rilevato termini lievemente differenti per designare gli stessi tipi di matrimonio sull’isola di Canhabaque. Dalle sue ricerche risulta che la prima forma di matrimonio si chiama isuni, mentre la seconda forma koneo (Henry 1994: 152). Da quanto ho saputo sul campo, a Bubaque (come a Canhabaque) non esistono termini specifici per designare i coniugi, che verranno nominati usando gli stessi termini utilizzati per le due forme di matrimonio (eshoní o oshoní, koneió o omeió). 154 Già Fernando Rogado Quintino aveva osservato che i Bijagó celebravano due tipi di matrimonio, l’uno provvisorio tipico delle unioni tra giovani, l’altro definitivo proprio degli adulti (1969: 900).
174
ragazzo ha il diritto di avere diverse relazioni, ma non ha il diritto di possedere
una casa propria per vivere con le sue amanti e non è considerato padre dei suoi
figli e quelle dopo le cerimonie iniziatiche che si formalizzano in un vero
matrimonio in cui l’adulto, ormai elemento del villaggio a pieno diritto, può
vivere con la sua donna e essere padre di suoi figli (Scantamburlo 1991: 54).
Nonostante Scantamburlo abbia affermato che non esistono due differenti forme
di matrimonio a Bubaque, mi sembra che questi due tipi di relazioni sessuali che
egli riporta siano facilmente assimilabili ai due modelli di unione eshoní e koneió
rilevati anche da Henry a Canhabaque (1994: 152).
Né l’eshoní, né il koneió danno luogo a particolari prestazioni di servizio o a
gravosi compensi matrimoniali155. Nel passato l’iniziativa del matrimonio e
dell’alleanza spettava alla donna, come riportano differenti autori (Moreira
Quintino 1969: 900; Handem 1986: 73-74; Scantamburlo 1991: 54) e se, al giorno
d’oggi essa può provenire e dall’uomo e dalla donna, restano numerose tracce del
ruolo predominante di quest’ultima. Sono infatti le ragazze che prendono
l’iniziativa della fase orale attiva del corteggiamento amoroso, mentre i ragazzi si
accontentano di un ruolo più passivo, che consiste nel tentare di attirare la loro
attenzione.
È inoltre opinione comunemente condivisa, per quanto non mi sia mai
capitato di vedere tale situazione svolgersi nella vita reale, che un ragazzo non
possa assolutamente rifiutarsi, qualora una donna gli si proponga156. Ad esempio,
nonostante entrambi i matrimoni seguano la regola esogamica (ego non si sposa
nel suo sotto-clan), si dice che comunque, qualora una donna volesse sposare un
uomo del suo sotto-clan, quest’ultimo non potrebbe respingere la vergognosa
proposta. Pedro, commentando quest’affermazione, aggiunge che questo indica
quanto “na tribu bidjugo mindjer i tene força grandi, dipus mindjer i livre: i ta casa ku kin ki
155 Secondo Pedro in genere il ragazzo regala alla famiglia della ragazza il cumpudè, ossia un piatto di pesce racchiuso in foglie di palma, più del vino di palma e del tabacco. 156 Contrariamente all’uomo, scrive Scantamburlo, la donna ha diritto di rifiutare qualsiasi proposta (1991: 54).
175
misti, i ta sinta unde ki el misti” (nella tribù bijagó la donna ha un grande potere ed è
libera: si sposa con chi vuole e sta dove vuole stare).
Questa libertà della donna nello scegliersi gli amanti e i mariti e la facilità con la
quale cambia i suoi compagni è stata più volte sottolineata dagli autori portoghesi,
che hanno creduto di trovarsi di fronte a un raro caso di poliandria (Moreira
Mendes 1946: 99) coesistente alla poligamia (Leitão 1946: 63), in un clima di
licenza e irresponsabilità (Scantamburlo 1991: 56).
Al giorno d’oggi, da un’analisi della situazione dei matrimoni sull’isola di
Bubaque (Oliveira 1995: 47) e Canhabaque (Henry 1994: 152-164), si può
sostenere che la poligamia è possibile quanto la poliandria, benché quest’ultima
sia più rara e autorizzata unicamente a condizione che solo uno dei mariti sia
kassuká157. Si possono inoltre osservare due regole tacite che riguardano le donne:
una è che raramente si sposano in età precoce e l’altra il rispetto dell’uguaglianza
di età nel matrimonio, con una leggera tendenza da parte delle donne a sposare
uomini più giovani di loro (Henry 1994: 154).
Questo fatto può essere spiegato se consideriamo che il ciclo iniziatico delle
donne è anteriore a quello degli uomini (Tetè sostiene che la ragione sia da
ricercarsi nel fatto che “minjer ten prioritade pabia i es ke padinu i pabia i elis tamben ki
na bin tratanu odja ki no sai: elis i no mamè i antis di killa i elis, si no sai, ki na prepara, ki
na kusinha”, ossia “la donna ha la priorità perché ci ha partoriti e si prende cura di
noi quando noi usciamo [si riferisce al ritiro iniziatico]: è nostra madre e prima di
questo è lei, quando usciamo, che ci prepara e che cucina”). Conseguentemente a
questa anteriorità nella realizzazione del ciclo iniziatico, le donne diventano
socialmente adulte prima dei ragazzi della stessa generazione. Nella alleanza
matrimoniale eshoní, quindi, le ragazze godono di uno statuto sociale superiore, in
quanto già sono state arebok, mentre i loro giovani mariti non sono ancora stati
iniziati.
157 Al momento dell’inchiesta di Oliveira sull’isola di Bubaque, pressoché tre quarti delle donne indagate (458/639) avevano un solo partner, mentre le restanti due o più di due, ma comunque mai più di quattro partners (Oliveira 1995: 46-48).
176
Henry sottolinea inoltre che le donne di una data classe d’età (age-set) sono più
giovani degli uomini della classe d’età parallela (Henry 1994: 109). Ne risulta una
ipogamia di unioni all’interno della stessa classe d’età, in quanto generalmente le
donne sposano uomini della classe d’età inferiore alla loro158 (Henry 1994: 154).
Dato che il tragitto di un uomo attraverso i gradi d’età si traduce, in quanto al suo
percorso matrimoniale, con la successione eshoní, iniziazione e celibato, koneió, cui
si aggiunge l’interdizione, seppur sempre meno rispettata, di riprendere allo stadio
koneió le unioni fatte allo stadio eshoní, non solo una eshoní sarà una unione
destinata a spezzarsi, ma inoltre gli uomini per un lungo periodo saranno messi
fuori dal gioco matrimoniale.
Le giovani donne che perdono i loro mariti hanno però la possibilità di
sposarsi con i ragazzi che accedono alla coniugalità, o con gli uomini della classe
d’età parallela alla loro, che esse lasceranno per unirsi ai loro coetanei quando
torneranno sul mercato matrimoniale.
L’età avanzata alla quale un uomo accede al matrimonio koneió e questa pratica
dell’uguaglianza d’età nel matrimonio, fanno sì che la maggior parte dei bambini
nasca da matrimoni eshoní. Mentre un uomo è obbligato a contrarre forme di
unione legate al suo grado, una donna non ha quest’obbligo e può, durante la sua
vita, contrarre soltanto matrimoni eshoní. Il padre di un bambino nato in un
matrimonio eshoní, dato che il suo padre biologico, essendo un karo, non ha diritto
alla paternità legale, sarà il padre di sua madre, sempre che lei sia nata da un
matrimonio koneió. Altrimenti, si risalirà alla madre della madre o alla più lontana
nonna materna del bambino, fino a trovare una donna nata da un koneió. Il padre
di questa donna sarà il padre del bambino. Se quest’uomo è morto, il padre sarà il
suo erede. Il diritto di paternità si può infatti trasmettere in linea uterina al più
vecchio dei fratelli del morto, poi al nipote in assenza di fratelli.
158 Henry riporta un esempio chiarificatore. Consideriamo quattro classi d’età dalle più giovani alle più anziane: Añominka, Apuduta, Arangui, Apuda. Sulle ventisei donne Apuduta, sei non sono sposate, due hanno contratto alleanza con uomini Apuduta, e diciotto tra loro dei matrimoni con uomini Añominka. Sulle diciannove donne della promozione Arangui, due sono sposate a uomini Añominka, quattordici hanno un’alleanza con uomini Apuduta e tre a uomini Arangui. Sulle dodici donne della promozione Apuda, dieci sono alleate a uomini Arangui, una ad un uomo Apuduta ed una è vedova di un Apuda (Henry 1994: 154-155).
177
Niente contesta invece a una donna il fatto di essere madre dei bambini che ha
messo al mondo, ma lei non sarà obbligata ad allevare quelli nati dai suoi
matrimoni eshoní. Finché i bambini saranno in tenera età, se ne occuperà la madre.
Se nel frattempo lei contrarrà un matrimonio koneió, porterà i piccoli con sé e suo
marito diverrà il padre legale dei bambini. Questo bambino verrà allora chiamato
“il regalo del koneió” (Henry 1994: 154).
Figura 7. Paternità legale: X è il padre di Ego
Tutto si svolge come se i bambini nati da eshoní costituissero uno stock di
bambini “mobili”, dei quali la distribuzione permette di accontentare i desideri di
ognuno e, tra le altre cose, di dare bambini alle coppie che non ne hanno.
Essendo irrevocabile l’appartenenza di un bambino al gruppo di filiazione di sua
madre, ciò che è in gioco nella circolazione dei bambini è dunque unicamente la
responsabilità della paternità. Il dono di un bambino, che implica un transfert di
178
paternità, non potrà dunque farsi che tra uomini che abbiano raggiunto lo stadio
di kassuká, cioè tra uomini cui la paternità è autorizzata159.
Figura 8. Possibili transfert di paternità: B è il padre del bambino F, figlio di d. A, C, E sono in posizione di poter diventare padre di questo bambino: A per eredità, C e E per dono (E se il bambino è piccolo quando sposa d, C perché B può, volendo, darglielo in dono).
Se questo stato di cose può soddisfare gli adulti, secondo le impressioni di
Henry, non corrisponde affatto al benessere dei bambini. I bambini nati da eshoní
vengono spesso trasferiti e hanno la tendenza a considerarsi come svantaggiati in
confronto ai bambini nati da koneió. Henry prende in analisi il tragitto ordinario di
un bambino nato da eshoní. La sua prima infanzia non differisce da quella di un
bambino nato da koneió, ma il giorno in cui suo padre partirà per l’iniziazione,
perderà questa prima figura paterna e non la ritroverà mai più. Se il suo padre
legale sarà il padre di sua madre e se è in questa casa che egli sarà allevato, resterà
in un ambiente familiare, ma dovrà lasciare la sua prima casa per raggiungerne
159 È molto frequente che venga affidata una bambina ad una donna sola o ad una coppia senza figli affinché sia d’aiuto nei compiti domestici: questo spostamento tuttavia non comporta un transfert di paternità.
179
un’altra, dove si troverà in concorrenza con dei bambini di koneió, con i “veri”
bambini di suo padre, ed egli sa che passerà sempre dopo loro nell’affetto e
nell’attenzione dei suoi nuovi parenti. Capita anche, in questa situazione, che il
suo padre legale sia molto vecchio e muoia, nel qual caso egli cambierà ancora
padre e casa. La vita di un bambino di eshoní è sempre marcata da rotture e
instabilità, mentre quella di un bambino di koneió si svolge nella continuità (Henry
1994: 158).
Per quanto all’occhio occidentale l’analisi di Henry dell’infanzia di un bambino
nato da eshoní sembri logica, e consequenziale il suo destino di instabilità e disagi,
per i Bijagó, da quanto ho potuto constatare durante la mia permanenza a Bijante
e da ciò che mi hanno spiegato i miei interlocutori, è decisamente meglio essere
figli di �aro, e quindi nati da matrimonio eshoní, piuttosto che essere figli di
kassuká e quindi nati da un’unione konieó. Certo, questi ragazzi, anche una volta
diventati adulti, si lamentano spesso del fatto di non aver avuto accanto un padre
o di aver cambiato più volte casa e villaggio. M’beni, un karo di Bijante, originario
però di Canhabaque, mette in gioco questa sua estraneità di ragazzo “adottato” e
senza padre, ogni qual volta si riveli utile nelle dispute suscitare la compassione
generale. Ma in realtà tutti sorridono di queste sceneggiate, e gli rispondono che i
figli di eshoní, proprio per il fatto di non avere la presenza costante del padre, sono
considerati figli dell’intero villaggio e tutti si prendono cura di loro.
Se non sono ritenuti effettivamente così sfortunati, i bambini nati da eshoní
sono, a differenza di quelli nati da koneió, considerati dai Bijagó come bambini di
donne, bambini nati senza l’intervento di un uomo. La regola che impone a un
uomo, dopo la sua iniziazione, di evitare le sue precedenti compagne e i suoi figli
biologici, l’interdizione di riprendere allo stadio koneió un matrimonio eshoní,
manifestano la volontà di fare sparire socialmente il padre, anche quando, avendo
acquisito lo status di kassuká, potrebbe ottenere la paternità legale dei suoi figli.
Inoltre, poiché il padre legale di un bambino eshoní è il padre di sua madre, sotto
180
questo aspetto una donna e il suo bambino eshoní sono identificati e messi sullo
stesso piano generazionale160.
A quanto pare, il primo matrimonio non comporta la costruzione di una nuova
casa, la coabitazione e il diritto alla paternità sociale, per cui solo il secondo, il
koneió può essere considerato un “vero” matrimonio. Nonostante che neppure in
questo caso vengano celebrate cerimonie particolari, l’essere uniti da matrimonio
koneió sottolinea, soprattutto per l’uomo (in quanto la donna è madre e ha diritto
alla terra a prescindere dal matrimonio che contrae e dal suo avanzamento nel
ciclo rituale161), l’ingresso alla piena condizione di uomo adulto, al potere
decisionale nei consigli degli anziani, in una parola alla maturità.
Scantamburlo, relativamente al matrimonio koneió, riporta una cerimonia
speciale alla quale solo le persone sposate col matrimonio koneió possono
partecipare. I più vecchi, riferisce Scantamburlo, uomini e donne, accompagnano
la sposa a casa dello sposo che sta aspettando seduto sul letto in camera. Le
donne domandano alla donna di sedersi vicino al suo sposo. Intanto pronunciano
le seguenti parole: “Figliola, guarda il marito che ti diamo in matrimonio”. Gli
anziani allora, consigliando il promesso sposo, suggeriscono: “Prenditi cura della
tua promessa sposa, lavora duramente per lei e non lasciare che vada a chiedere
del cibo agli altri. Dalle ospitalità, ma rimandala indietro a casa di sua madre se
sarà sterile”. E infine dicono alla donna: “Vigila il granaio, stai in casa aspettando
che tuo marito torni dal lavoro e dedicati a lui” (Scantamburlo 1991: 55).
Come ho già precedentemente affermato, i miei principali informatori mi
hanno detto che questa cerimonia, forse appartenente al passato, oggi non è più
160 Bisogna notare la convergenza che esiste tra i bambini nati da eshonì connotati come bambini di donne e gli arebok, i ragazzi morti che possiedono le donne. Dato che i Bijagó stabiliscono essi stessi una identità tra gli arebok e la classe dei �abido, si può dedurne che vi è un analogia tra queste tre categorie: i bambini nati da eshonì, gli arebok e i �abido. Sono in effetti delle categorie sessualmente ambivalenti: i bambini da eshonì sono considerati come nati da una partenogenesi, il kabido è un maschio desessualizzato allontanato dalle donne e l’orebok è un maschio femminizzato. 161 La terra è concessa dal re alle donne e trasmessa matrilinearmente (Gallois Duquette 1983: 50). Qualunque sia la sua età una donna ha accesso alla terra; le donne sposate con un kassuká ottengono dal marito una parte di terreno piuttosto grande in cui coltivare il riso, le ragazze nubili o unite con dei �aro ottengono dai loro padri legali o dalla madre un campo più piccolo per coltivare il riso da utilizzare nelle cerimonie religiose (Scantamburlo 1991: 28).
181
in uso, al punto che molti sostengono di non averne mai sentito parlare. Pedro,
Tetè e le diverse donne con le quali ho affrontato il tema del matrimonio però si
sono dimostrati concordi nel sottolineare l’importanza di queste unioni, in specie
il matrimonio koneió, per la completa maturazione dell’individuo, per ottenere una
maggior considerazione sociale e, essendo pragmatici, per migliorare la propria
condizione economica (“si bu tene mas famiglia bu tene mas espaço de tarbadju, bu tene
bon purduçon; então bu tene tendencia di sedo rico, pabia di ki manga di fidjus ku bu tene”,
ossia “se hai una grande famiglia avrai più terra da lavorare e una maggior
produzione; quindi avrai la possibilità di essere ricco, perché hai molti figli”).
La vita adulta quindi è ritmata dal matrimonio, dalla nascita di figli e
dall’accesso all’età matura, che permette a un uomo di svolgere un ruolo attivo
negli affari della tribù, di acquisire nuovi poteri rituali e di ottenere maggior
rispetto. Una volta kassuká un uomo, oltre a godere dell’autorità dell’esperienza
(La Fontaine 1978: 141-161), vede accrescere le sue ricchezze, grazie alla
possibilità di avere più mogli e soprattutto molti figli (anche in dono, come
abbiamo visto). Anche una donna sposata acquisisce una maggiore indipendenza,
in primo luogo perché, già nel corso del primo matrimonio eshoní, diventa madre,
accede al suo ruolo di procreatrice e di mediatrice tra vivi e morti e quindi lascia il
suo stato di kampuni per diventare una donna completa okãnto; in secondo luogo,
perché costruisce con le sue mani la casa che accoglierà la coppia koneió, che
quindi da quel momento le apparterrà (Moreira Mendes 1946: 98). Quando la
donna raggiungerà la menopausa verrà integrata nel gruppo delle okotó, le anziane,
che, come abbiamo visto precedentemente, condividono non solo il nome, ma
anche i diritti degli uomini anziani.
La vecchiaia è simbolo di saggezza: le persone anziane conservano i valori della
tradizione e sono responsabili della loro continuità. Conoscono ormai tutto: sono
stati iniziati e hanno partecipato alle iniziazioni altrui e, nella loro consapevolezza,
sono gli unici che possono parlare dei segreti iniziatici senza pericolo per nessuno.
La loro prossimità alla morte li rende in grado di ascoltare le parole degli antenati,
delle quali essi si propongono come interpreti, al fine di assicurare la vita e la
fecondità delle donne. Anche per questo motivo, coloro che sono molto anziani
182
vengono accomunati agli antenati e la loro morte non sarà interpretata come
qualcosa di innaturale, opera di stregoneria, ma come un viaggio atteso e
auspicato. Come infatti i bambini, individui incompleti, si incamminano verso la
vita lasciando la loro condizione di “spiriti” per diventare “persone”, i vecchi,
detentori della tradizione e completatisi interamente nel corso degli anni, si
incamminano verso lo stato di antenati, di spiriti, lasciando il loro status di
“persone complete”.
La reazione sociale alla morte di un anziano sarà quindi positiva, come alla
morte di un bambino, in quanto l’uno è già completo e pronto a ricongiungersi a
Nindo nell’anarebok, l’altro ancora incompleto e in relazione diretta con il regno
degli spiriti. La morte di un uomo che si sta completando, di un giovane, sarà
sempre considerata un evento infausto e spaventoso, non naturale, per cui sarà
necessario ricorrere alle cerimonie di interrogazione del morto per comprendere
la causa del decesso. Come abbiamo già accennato nel quinto paragrafo del terzo
capitolo, parlando degli spiriti pericolosi della foresta, e come vedremo
approfonditamente nella terza parte della tesi, sarà necessario l’intervento delle
donne per dare a questi morti la possibilità di raggiungere Nindo. Anche la morte
di una giovane donna sarà sentita come una disgrazia innaturale, probabile opera
di stregoneria, per quanto, come vedremo nel prossimo capitolo, ella potrà
facilmente, indipendentemente dalla sua età e dalla sua posizione nelle tappe della
vita, raggiungere il regno degli spiriti.
Come abbiamo visto, seguendo il processo di formazione della persona e di
costruzione della differenza di genere, si diventa “uomini e donne bijagó”
percorrendo un cammino fondamentalmente differente. Se nella prima infanzia,
come è messo in evidenza dalla terminologia indigena, l’opposizione
maschile/femminile non è sentita come rilevante, non appena si entra nella
pubertà viene posto l’accento sulla differenza di genere, diversificando i percorsi
di crescita che i maschi e le femmine dovranno attraversare.
Il ragazzo percorrerà infatti un cammino caratterizzato da una lunga serie di
passaggi, che prevede, a ogni scalino (grado d’età) l’esperienza di un diverso modo
183
di concepire l’umanità, per cui, come è visualizzato dalla tabella 6, interpreterà
diversi ruoli, utilizzando differenti modalità espressive e adottando distinti
comportamenti, a seconda della sua posizione sociale.
Questo percorso lo porterà da uno stato di incompletezza, ambiguità e
precarietà, proprio del k��okam, del karo, del kabido e dello spazio che è loro
simbolicamente associato - la foresta (capitolo IV) - fino al raggiungimento di una
condizione di compiutezza, sicurezza, stabilità, propria dei kassuká e degli anziani
okotó e dello spazio che ora hanno il diritto di occupare - il villaggio (capitolo IV,
tabella 4: i kassuká sono associati alle donne e al villaggio).
Questa completezza, che l’uomo raggiungerà solo negli ultimi gradi d’età del
suo percorso di vita, quando cioè avrà terminato il suo cammino iniziatico e avrà
assistito all’iniziazione della classe d’età inferiore, appartiene alla donna da
sempre, sia quando è una kampuni, una ragazza, sia, e a maggior ragione, quando
diviene una okãnto, una donna sposata e madre.
Come mostrano le tabelle 8 e 10, l’uomo raggiunge i diritti e condivide le
caratteristiche che la donna possiede per tutta la vita, solo quando diviene kassuká,
ossia solo al termine del suo “viaggio antropopoietico”. Questo sembra
confermare il fatto che, a differenza degli uomini, le donne nascano già in una
sorta di completezza, legata al principio di fecondità che incarnano, che
conferisce loro l’ancestralità a prescindere dall’età, dal momento della vita, in cui
avviene la morte (come approfondiremo nel prossimo capitolo).
Tabella 10. Caratteristiche e diritti della donna, che l’uomo acquisisce solo negli ultimi
gradi d’età.
donna kassuká e okotó
• maternità sociale • paternità sociale
184
• diritto a possedere una casa • diritto a possedere una casa
• condivisione spazio del villaggio • condivisione spazio del villaggio
• possibilità di contrarre il “vero” matrimonio
koneió
• possibilità di contrarre il “vero”
matrimonio koneió
• proprietà della terra • proprietà della terra
• capacità di fare nascere (i bambini) e
rinascere (gli arebok)
• capacità di fare rinascere (morte
simbolica e rimessa al mondo degli
iniziati da parte degli iniziatori nel
corso del rito iniziatico)
• possibilità di costituire un tramite per l’al di
là e di parlare con i morti
• possibilità di costituire un tramite per
l’al di là e di parlare con i morti
• non forza fisica, non aggressività, ma
potenza rituale e discorsi tranquilli
• non forza fisica, non aggressività
(propria dei �aro) ma potenza rituale e
discorsi tranquilli
• il loro spirito, una volta morte, non può
trasformarsi in un’entità malefica, per cui
non è mai pericoloso per i vivi
• possibilità, alla morte, di raggiungere Nindo e
l’anarebok
• completezza
• il loro spirito, una volta morti, non
può più trasformarsi in un’entità
malefica, per cui non è più pericoloso
per i vivi
• possibilità, alla morte, di raggiungere
Nindo e l’anarebok
• completezza
185
Capitolo VII
La morte
Ancamona, 12 aprile 1997
Le donne di Ancamona hanno attraversato l’isola in lacrime, intonando un
lamento funebre, per portare a tutti i villaggi la triste notizia della morte di
Cadina, una cugina di Pedro. Il corteo raggiunge Bijante e ci uniamo alle donne,
che diventano via via sempre più numerose. Una di loro porta un tamburo, i
pianti si trasformano definitivamente in canti e il camminare diviene una danza.
Riconosco un ritmo ripetitivo chiamato �um �arebok, ossia “ritmo delle anime”,
suonato in genere durante le cerimonie di possessione femminili.
Il gruppo, sempre più folto man mano che vi si aggiungono le donne dei
villaggi che attraversiamo, si avvicina ad Ancamona, il villaggio di Cadina. Non
appena s’intravede la casa della defunta, le donne cominciano a correre
interrompendo la danza, il canto ritorna ad essere un pianto disperato, alcune
urlano il loro dolore, le braccia alzate e le mani rivolte verso il cielo.
Pedro è affranto: Cadina aveva solo vent’anni e un bambino appena nato da
accudire. Il marito di Cadina ci vede, ci riconosce e ci corre incontro, con il viso
stravolto dalla sofferenza. Grida con rabbia contro questa morte precoce, inattesa
e ingiusta; si getta al suolo dibattendosi, mentre alcuni amici cercano di calmarlo.
186
Con un nodo alla gola mi allontano per raggiungere le altre donne, sedute
all’ombra della veranda della casa della defunta. Mentre attraversavamo l’isola per
avvertire i villaggi del lutto, la zia materna di Cadina e le sue sorelle hanno
preparato il corpo. Quando mi avvicino per offrire le stoffe che ho portato per
l’occasione, Cadina è già stata vestita con alcune tee-shirts vivaci, la sua gonna di
paglia è ricoperta di panni e foulard coloratissimi, che gli amici hanno portato in
dono, indossa dei sandali di plastica azzurri e degli occhiali da sole. Il suo corpo è
stato legato in qualche modo a una sedia, la testa è avvolta in un foulard allegro
inchiodato per un angolo al muro, in modo da mantenerla ferma e ritta. Cadina
siede quindi tra di noi sulla veranda e credo che, a una prima occhiata, nessuno si
accorgerebbe che non è più in vita.
Una donna intona un canto dufuntu, proprio cioè delle cerimonie di possessione
delle donne, e lentamente tutte si uniscono formando un coro.
Munkude mu ri brama mu ����wodon ����tun neba����o n’ni����o, ����i djinok owonin
����u di wodon ����naka canen
gli uccelli si sono già stancati, ma io continuo a cantare, perché ho tanta nostalgia di
lei, nostalgia che ora è dentro di me
����i boun ouwog hò kan curù ani����o ����o porontè ca ����e tewi dequi ta ����acò
io chiamo mia madre, che non mi risponde, mentre io sono disperato e solo tra gli
altri; io piango nel mare di Orango, perché sono pieno di paura e sono solo con me
stesso 162.
162 Pedro Banca ha curato la trascrizione e la traduzione dei canti, dei quali comunque conservo la registrazione.
187
Cadina è in effetti vestita in gran parte come una dufuntu: in genere le donne
stanno a piedi nudi e sono vestite solo con una gonna di paglia adagiata sulle
anche, che arriva a metà coscia. Durante le cerimonie di possessione, invece,
indossano fino a sette gonne di paglia molto spesse, pesanti e lunghe e vestono
delle tee-shirts di colore vivo. Si riparano il capo con foulard annodati sotto il
mento, mettono delle ciabatte o dei sandali di plastica, degli occhiali da sole e si
armano di grandi ombrelli. L’abbigliamento di Cadina sembra trovarsi tra questi
due modelli: indossa infatti una gonna corta, propria della sfera del quotidiano e
ornamenti e accessori del momento rituale. Inoltre le hanno rasato i capelli e
ricoperto il cranio di ocra rossa (nogedja noese) e di carbone (okue) e olio di palma.
Questo impasto di carbone, ocra e olio di palma, mi spiega Pedro, serviva a
ricoprire il capo dei neonati, oggi viene usato per le donne possedute durante
tutto il tempo del “piccolo fanado 163 ” e per i cadaveri 164.
Mentre le donne continuano a portare quanto hanno di più bello per ornare il
corpo di Cadina, i suoi capelli vengono raccolti in una zucca e arrotolati in piccole
ciocche in modo da formare dei braccialetti, che vengono poi distribuiti tra i
presenti. Nel frattempo il marito ricompare, si butta in ginocchio abbracciando le
gambe della moglie defunta, aggrappandosi alle sue mani, apparentemente senza
controllo, al punto da minacciare il fragile equilibrio del corpo di Cadina. Le
donne lo allontanano con violenza e alcuni uomini lo portano a sfogare il suo
dolore nell’oscurità della sua casa. Sulla scena rimaniamo ancora una volta solo
noi donne. Vengono intonati diversi canti dufuntu, e Cadina viene sollevata e
mossa come se danzasse al ritmo del tamburo. Tutte dicono che Cadina è proprio
come al giorno del suo kanunake165.
163 Il “piccolo fanado” è l’espressione kriola per indicare, come vedremo nel prossimo capitolo, la prima fase della cerimonia di possessione femminile, detta, in bijagó kanunake. 164 Questa affermazione di Pedro è confermata dalla letteratura (Almeida 1952: 283; Gallois Duquette 1983: 135, 142). 165 Confronta nota 2.
188
Figura 8. Cadina.
Questa volta, tuttavia, si agisce per liberare lo spirito dell’uomo che la
possedeva, dal legame col suo corpo senza vita. Una donna porta una ciotola di
riso crudo e la versa sul capo della defunta. Il riso poi viene raccolto per essere
cucinato e ridistribuito più avanti nel corso della giornata.
Mentre la zia materna di Cadina (la madre di Pedro) si occupa di profumare il
corpo e le stoffe che ricoprono la defunta, bruciando foglie odorose, compaiono
alcuni uomini della famiglia e, come il marito, si gettano al suolo urlando e
cercano di afferrare le mani della giovane. Ancora una volta vengono rapidamente
189
respinti, e una anziana che mi siede accanto mi sussurra, con tono di
condiscendenza, che gli uomini non sanno gestire la situazione.
Viene in seguito fatto cenno a tutte di allontanarsi dalla veranda, mentre la zia
rimuove il corpo per porlo su una stuoia, avvolto tra stoffe variopinte. Bisogna
aspettare che arrivino l’oro�ò Coia e Tetè, l’oum, il suonatore del tamburo sacro,
per procedere alla cerimonia dell’interrogazione del morto. Gli anziani riuniti nel
santuario hanno infatti deciso di scoprire le cause di questa morte “innaturale,
senza ragione”, indagando eventuali colpe della defunta o cercando di scoprire
l’azione maligna di un feiticeiro. Nell’attesa, tutto il villaggio si riunisce nella piazza
centrale, l’etadi. Il cadavere è stato portato al centro della piazza, accanto a tre
Arebok Okotó, tra i quali riconosco Baba, l’Orebok Okotó di Ancamona. Al lato
sinistro degli Arebok, siedono l’oro�ò Coia e l’oum Tetè, che nel frattempo sono
arrivati, e tutti gli uomini dai più anziani ai più giovani. Dal lato destro, accanto al
corpo steso di Cadina, l’okinka e le donne anziane, fino alle giovani kampuni. Io
prendo posto nel punto in cui le donne giovani si uniscono, formando un cerchio,
ai ragazzi.
Al centro del cerchio vengono posti tutti i doni e le offerte in danaro per il
funerale di Cadina. Un uomo si occupa di spostare pubblicamente ogni singolo
oggetto dal centro al corpo della defunta, specificando ad alta voce chi ha regalato
cosa. Questa dimostrazione pubblica della generosità e della benevolenza dei
presenti nei confronti della defunta procede per molte ore, finché il cadavere
scompare sotto un numero incredibile di stoffe e vengono riempite diverse
zucche di denaro. Molti indugiano per vedere prima cosa danno gli altri, per non
sfigurare o per cogliere il momento appropriato per entrare in scena mostrando
un nuovo dono, tenuto nascosto fino all’ultimo. Ogni singolo panno viene
spiegato e mostrato alle donne: di ogni foulard viene lodata la qualità della stoffa e
il disegno. Questi doni in parte verranno seppelliti con la defunta, per permetterle
di pagare i traghettatori dell’al di là, in parte saranno usati per pagare il funerale o
ridistribuiti tra le donne della famiglia.
190
Figura 9. L’interrogazione del morto. Ancamona, 12 aprile 1997.
Il sole ormai è calato e il re cerca di affrettare un po’ le cose, per procedere con
l’interrogazione del morto. Quando capitano disgrazie simili - mi spiega Pedro,
che è venuto a sedersi accanto a me - ci sono due possibili spiegazioni: può essere
il risultato della cattiva condotta della vittima, oppure può essere dovuto alla
malvagità degli altri. Questa volta le cause della morte non sono chiare: vengono
avanzate diverse teorie da parti con interessi diametralmente opposti, tant’è che
alcuni si rivolgono al djiambacosse, divinatore accreditato, per avere un responso
convalidato dalle credenza magiche.
Si alza per primo il djambacosse di Ancamona e avanza l’ipotesi che la morte di
Cadina sia dovuta al fatto che la sua famiglia non ha mai accettato la sua unione
con il marito, un giovane karo. Questa ipotesi solleva le emozioni della gente,
191
facendo affiorare i conflitti latenti di varia natura, che esistevano nel villaggio.
Alcuni accusano apertamente la famiglia della defunta, forti del responso del
djiambacosse, di aver sempre ostacolato il matrimonio tra i due, ma interviene a
sorpresa lo stesso marito che smentisce le accuse. L’oro�ó Coia procede
ugualmente: prende una gallina e, tenendola per il collo, l’avvicina al volto di
Cadina e poi al ventre dei tre arebok okotó, che raccoglie le anime dei defunti del
villaggio, pronunciando questa formula:
“����i rin na mò, Baba; ����i rin na mò iarebok dikidik; ����i rin na mò, Cadina; ����i
dika na ka ����aqui, neren cabonaque, enka ka ribo iato, ����o bour ����o nama ����pe
a����ou ����cabonaque ke eshoní: miriba����o!”
“io parlo con te, Baba; io parlo con voi, arebok tutti; io parlo con te, Cadina; io voglio
che tu ti alzi e rispondi a queste domande, a quel che la gente dice, se è vero che sei
morta per un problema legato al tuo matrimonio (eshoní): dimmi tutto!”
Al centro del cerchio composto dai presenti alla cerimonia viene posta una
zucca rovesciata come punto di riferimento, poi viene tagliata la testa alla gallina e
il corpo decapitato viene lasciato sobbalzare a caso. I sussulti dell’animale
vengono interpretati dal re. Se la gallina si dirigerà verso la zucca al centro del
cerchio, allora vorrà dire che la causa della sua morte era proprio questa ostilità
tra famiglie, se invece andrà verso gli arebok, l’accusa si rivelerà infondata. La
gallina salta tra i due punti, mentre le persone sospettate si difendono, facendo
valere i loro comportamenti positivi con la scomparsa. La gallina, con un ultimo
sobbalzo, si ferma di fronte agli Arebok Okotó: l’accusa quindi si manifesta priva di
fondamento e occorre cercare un’altra spiegazione per la morte di Cadina.
La sua morte potrebbe essere stata causata infatti anche da forze misteriose, la
cui azione viene associata a disturbi di ordine morale: viene perciò vagliato il
comportamento di Cadina nel recente passato, per scoprire possibili
responsabilità. Finalmente, dopo aver sacrificato diverse galline senza aver
192
raggiunto un esito certo, alcune galline di seguito sobbalzano dai piedi di oro�ó
Coia, agli Arebok Okotó, per andare a morire tra le donne.
Il responso si delinea con maggiore chiarezza: oro�ó Coia simbolizza la sfera
rituale, gli Arebok l’ambito cerimoniale e religioso legato alla vita e alla morte e
infine il gruppo delle donne l’ambito femminile in senso lato. Cadina, conclude
quindi Coia dopo essersi consultato con le maggiori autorità rituali, è quindi
morta per una sua colpa legata alle cerimonie di possessione femminile:
probabilmente ha infranto una norma importante, ma, poiché tutto ciò che
circonda questo culto è segreto, la questione viene lasciata alle analisi dell’okinka,
che si ritira nel suo tempio.
Qualcuno tuttavia non sembra essersi accontentato di questo responso e
continua a insistere sul fatto che il problema sarebbe stato da ricercarsi piuttosto
nel matrimonio di Cadina. Il marito allora, furioso, chiude la questione uccidendo
un gallo e lanciandolo verso gli Arebok Okotó, mentre, rivolto agli accusatori, urla
— Non vedete dove va il gallo?
Oro�ó Coia, desideroso di mantenere l’equilibrio tra le aggressività che
possono manifestarsi, mette fine al diverbio, offrendo per primo un capretto agli
Arebok; si fanno avanti allora gli amici della famiglia di Cadina, sacrificando galline
e capre, mentre le donne, riprendendo le lamentazioni funebri, portano il corpo in
casa in attesa di seppellirlo.
1. L’innaturalità della morte
Un evento come quello della morte della giovane Cadina non viene mai
spiegato come un fatto casuale o naturale: la morte di un giovane è sempre
considerata un fatto incontrollabile e fuori dalle leggi della natura, che tuttavia
richiede una spiegazione.
La concezione bijagó della malattia, della morte e delle disgrazie è analoga ad
altre concezioni africane (Evans-Pritchard 1937), nelle quali fatti diversi - malattie,
193
incidenti, morte - vengono spiegati facendo riferimento a un unico paradigma
interpretativo, quello delle cause spirituali. Si ipotizza infatti che le malattie, la
sterilità, gli infortuni o i decessi improvvisi siano causati dagli spiriti degli antenati,
insoddisfatti per essere stati trascurati o dall’infrazione di un tabù, o da una
stregoneria compiuta da una persona malevola.
Il caso del decesso di Cadina è esemplare: si tratta di una ragazza molto
giovane, da poco madre, morta improvvisamente in modo piuttosto misterioso.
Anche il caso in cui una donna giovane e in apparenza forte e sana non riesce a
portare a termine una gravidanza o continua a partorire bambini nati morti
costituisce un’evidente prova di stregoneria. Lo stesso incidente accaduto a Pedro
- la caduta dalla palma - per il quale è rimasto paralizzato è ritenuto essere causato
da forze non umane.
Anche tra i Bijagó, come osserva Evans-Pritchard a proposito della stregoneria
zande, la dimensione empirica dei fenomeni non è ignorata: le malattie, le
disgrazie, sono evidentemente provocate da cause empiriche ben note, la gente
riconosce l’importanza delle cause naturali (come, nel caso di Pedro, il fatto che la
corda de subir, la corda di foglie di palma intrecciate, che viene utilizzata come
cintura per mantenersi in equilibrio mentre ci si arrampica sul tronco, fosse stata
legata male o fosse marcita). Tuttavia, come nel classico esempio riportato da
Evans-Pritchard, nonostante che la gente sappia benissimo che è nella natura dei
granai vecchi e cadenti il rischio di rovinare, emerge il problema del perché il
granaio sia dovuto cadere proprio quando cadde e soprattutto del perché sia
avvenuto proprio quando c’ero sotto io.
I Bijagó, insomma, non si accontentano delle nozioni di causazione naturale,
poiché esse non sembrano sufficienti a spiegare per quale motivo proprio quel
granaio tra tanti altri sia crollato, e come mai la giovane Cadina, e non un anziano,
sia dovuta morire. Le questioni vitali della visione del mondo bijagó sono le stesse
che per gli Azande: perché proprio quest’uomo è stato attaccato da un
ippopotamo durante la pesca e non un altro (come nel caso riportato nel secondo
paragrafo del sesto capitolo), perché a quella donna sono morti tutti i bambini,
perché è capitato a me e non a un altro. Queste insistenti domande di spiegazione
194
sono difficilmente soddisfatte da una prospettiva che si fermi al dato empirico: le
persone colpite dalla sfortuna vogliono sapere perché è capitato proprio a loro,
perché la loro vita è cambiata così rapidamente e drasticamente, che cosa possono
aver fatto per meritarsi una simile sventura.
I parenti di Cadina vogliono sapere perché, hanno bisogno di trovare una
ragione, qualcosa che possa spiegare come mai una simile disgrazia è capitata
proprio alla loro famiglia: la morte di Cadina è stata causata da un nemico, da
qualcosa che lei o la famiglia ha fatto, dall’infrazione di un tabù? Quando una crisi
seria colpisce l’individuo o la famiglia è necessario quindi rivolgersi a qualcuno (in
genere al djiambacosse), che sappia trovare una spiegazione, che sappia
diagnosticare il problema e indicare cosa si deve fare per risolverlo, che sappia
smascherare il colpevole, lo stregone feiticeiro, in modo che lo si possa punire,
proteggendo così il resto della comunità dalla sua malvagità.
Douglas, che ha affrontato in diverse opere il tema della stregoneria (Douglas
1966, 1970), sottolinea che
“nelle strutture sociali di piccole dimensioni e semplici, in cui i ruoli sono assai scarsamente
differenziati, sono poco sviluppate anche le tecniche atte a mantenere le distanze, a
regolamentare e a riconciliare; la dottrina incentrata sulla credenza nelle streghe viene usata
come idioma di controllo per eccellenza, in quanto concentra il biasimo per le eventuali sciagure
sugli individui turbolenti e devianti” (Douglas 1979: 154).
Anche i Bijagó utilizzano l’accusa di stregoneria come uno strumento di
controllo e come un mezzo per rompere dei rapporti, dei vincoli non voluti.
Innanzitutto la credenza nella stregoneria ha un effetto normativo sul
comportamento: il feiticeiro (obané in bijagó) può essere qualcuno del villaggio che
conduce una vita ordinaria ed è apparentemente una persona del tutto normale,
ragion per cui non si può mai sapere con chi si ha a che fare. Diventa necessario,
per cercare di proteggersi dai malefici, non creare rancori, tensioni o conflitti - per
quanto possibile - cercando di essere gentili e disponibili con tutti, controllando la
gioventù turbolenta ed evitando di usurpare i diritti altrui (capitolo VI, paragrafo
195
2). Diviene inoltre consigliabile essere benvoluto dalla comunità, in modo da
evitare di essere accusato di stregoneria. Le pene inflitte agli stregoni sono infatti
piuttosto spiacevoli: la tradizione vuole che gli stregoni vengano uccisi, per
quanto oggi il castigo spesso si limiti all’espulsione dei dissidenti dalla comunità
del villaggio (Scantamburlo 1991: 76). Nonostante che i casi in cui il feiticeiro viene
ucciso siano effettivamente sempre più rari, durante la mia permanenza sul
terreno alcuni uomini dell’isola di Soga sono stati accusati al tribunale di Bissau,
per l’omicidio di un ragazzo, accusato di essere un obané.
Sempre praticata, come abbiamo osservato nel quarto paragrafo del terzo
capitolo, è la sepoltura degli individui accusati di stregoneria nella foresta, in quel
mondo in cui vagano gli spiriti malevoli e nel quale gli stregoni effettuano le loro
malvagie pratiche rivolgendosi a Koratakó (capitolo III, paragrafo 7). Da questo
territorio posto al di là dei confini della cultura, dal regno della confusione, forze
estranee, indefinibili e informi, incorrono nella realtà quotidiana. L’accusa è l’arma
che gli uomini hanno a disposizione per riportare quell’ordine che deve regnare
all’interno della società, per chiarire e rafforzare la struttura, inchiodando lo
stregone come fonte di confusione e di ambiguità.
La sola accusa però non è sufficiente: il colpevole deve essere smascherato e
per questo fine si esegue non solo il rito dell’interpretazione dei sussulti della
gallina di cui abbiamo parlato prima, ma anche la cerimonia dello dijongago (naua,
b.), un rituale di interrogazione del morto diffuso in tutta la Guinea (Gallois
Duquette 1983: 138; Lamy 1985: 155; Scantamburlo 1991: 74). I movimenti dello
dijongago, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, riveleranno pubblicamente
l’identità del feiticeiro, che verrà inizialmente allontanato e, alla sua morte,
seppellito in foresta, in modo da escluderlo dall'ordine sociale, dall'equilibrio
naturale, dallo spazio o comunità dei trapassati.
196
2. Il dijongago
18 luglio 1994 166
— Oringa, sei lì? – il dijongago risponde “sì” muovendosi verso destra
— Tu sai chi ha causato la tua morte? – sì
— È da parte della mia famiglia che viene chi ti ha ucciso? – no
— Qualcuno del nostro clan aveva dei problemi con te? non c’è risposta
— Devo lasciare perdere la questione? – sì
Si alza un anziano parente del morto
— Oringa, sei lì? – sì
— Oringa, sono io che ti ho ucciso? – no
— Ho saputo che un mio fratello aveva discusso con te per del riso, Oringa, è stato lui
che ti ha ucciso? – no
— Quando ti sei ammalato abbiamo consultato molti guaritori, ma sei morto, ora devi
dirci chi ti ha ucciso. È stata una donna? – sì
— Una donna ha avuto un litigio con te a Bissau, dice che le hai rubato qualcosa, è
dunque tua la colpa? – no
— Oringa hai rubato? – no
— È quindi la donna di Bissau che ha mentito? – sì
— È lei che ti ha ucciso? – il cadavere avanza verso il re, il mormorio aumenta: deve essere
stata la donna a causare la morte!
— Rispondi, Oringa, è la donna che ti ha ucciso? – sì
La cerimonia termina, la gente si allontana. La donna con la quale Oringa aveva
litigato non è Bijagó, e nessuno si ricorda dove abitasse, o il suo nome. La
questione si chiude così.
166 Dal mio primo diario di viaggio. Sono riportati solo alcuni momenti dell’interrogazione del morto (in realtà molto più lunga), dei quali un informatore (l’anziano Dumingo) mi ha fornito la traduzione.
197
Il dijongago è una struttura composta da canne di bambù legate con corde fatte
di foglie di palma, che assomiglia in qualche modo a una cassa da morto, ricoperta
da un panno e trasportata sulle spalle di due donne o uomini, a seconda del sesso
del defunto167. In questa struttura vengono riposte alcune foglie di una pianta
speciale, che si crede possa evocare l’anima della persona deceduta, insieme
all’unikan orankoko del villaggio (Scantamburlo 1991: 75).
L’unikan orankoko è una scultura sacra che si porta in mano, simbolo del potere
regale (Scantamburlo 1991: 68). Il termine unikan ha una connotazione
terapeutica: i rimedi tradizionali, le medicine, sono chiamati unikan. Per estensione
unikan significa oggetto sacro, spirito. La parola koko vuol dire “mano”, per cui
l’unikan orankoko letteralmente potrebbe essere tradotto con “spirito di mano”. In
kriolo l’espressione viene tradotta con iran de mão, “spirito della mano”, con
allusione al fatto che viene portato in mano dal re e dalle persone che
attraversano le tappe cruciali della vita, come l’iniziazione (è portato infatti dai
�abido e dalle donne dufuntu durante il loro percorso iniziatico). La stessa
locuzione viene anche tradotta in kriolo mão de iran, ossia “mano dello spirito”, e
questa definizione fa appello al significato religioso dell’oggetto. Questa scultura,
secondo Scantamburlo (1991: 68) e Gallois Duquette (1983: 122), altro non è che
l’Orebok Okotó, il grande spirito, in una forma tale da poter essere portato dalle
persone nel loro cammino.
Le cerimonie dello dijongago (naua, b.) sono realizzate il più presto possibile
quando il morto è un giovane o quando la morte è legata a qualche causa
misteriosa. Attraverso il dijongago l’anima riappare per fare chiarezza sulla causa
della morte. Le persone del villaggio si riuniscono quindi nella piazza centrale e
tutte le persone interessate pongono le domande che ritengono utili per spiegare
l’inatteso decesso. Ad ogni domanda i portatori tentennano, per poi rispondere
“sì” facendo pendere il dijongago verso destra, o “no” facendolo scuotere come
una testa che si muove per negare. I presenti sospettati si difendono, raccontando
167 Più precisamente le donne hanno l’incarico di portare il djongago al momento dell’interrogazione del morto, quando si tratti di donne o uomini non iniziati.
198
della loro amicizia con lo scomparso e minimizzando gli eventuali litigi, in modo
da placare le reazioni aggressive che potrebbero manifestarsi.
La cerimonia dello dijongago è indubbiamente una rappresentazione carica di
forti emozioni drammatiche: fornisce un ambiente in cui viene dato sfogo
all’espressione dei problemi e dei conflitti, che si riferiscono alle situazioni di vita
dei partecipanti. Come suggerisce Turner, analizzando il concetto di “dramma
sociale”, lo dijongago è un meccanismo sociale che prevede modi di
comportamento istituzionalizzati, escogitati dall’esperienza di gruppo, per
controllare, mitigare, ridimensionare o risolvere i conflitti che vengono a crearsi
nella società (Turner 1976: 152-153). In queste cerimonie vengono “messi in
scena” con grande forza simbolica i conflitti di interesse, che nella vita normale
non sono mai espressi. Oltretutto la cerimonia dijongago riesce a riunire le persone
di molti villaggi, spesso anche di altre isole, attirando, oltre i diretti interessati, una
gran folla di curiosi: riuscendo quindi a coinvolgere molte persone, al di sopra di
ogni conflitto tra famiglie o individui, questo rituale rafforza i valori comuni della
società, e rappresenta una occasione per ribadire le norme che reggono la società
bijagó (Turner 1976: 149).
3. Il trattamento del cadavere e la sepoltura
Il trattamento del cadavere è un caso speciale dell'uso del corpo umano come
simbolo (Douglas 1970) e l’attenzione per gli attributi simbolici del corpo morto
costituisce una via per la comprensione della natura della morte, da parte di una
cultura. La prima cosa che colpisce, osservando il modo in cui i Bijagó di
Bubaque si occupano del cadavere, è che sono le donne168, che preparano il corpo
in vista della sua pubblica esposizione. Jean Guiart, che ha curato una raccolta di
168 Secondo Pedro, in alcuni casi, anche gli uomini anziani - che, come abbiamo visto nella tabella 10, condividono alcuni compiti e diritti delle donne - si occupano della toilette del cadavere, mentre, nel caso dei suicidi, il compito passa alle donne che sono in quel momento possedute, alle dufuntu, poiché “è un affare da sbrigare tra morti”.
199
monografie riguardanti i rituali funebri, ha osservato che proprio in quanto
donatrice di vita e in genere a partire dal momento in cui, avendo già avuto
l’esperienza del parto, viene considerata socialmente adulta e simbolo di fertilità e
generazione, la donna ha l’incarico di preparare il corpo del defunto, chiaramente
simbolo di morte (Guiart 1979: 8).
La morte è d’altronde, nel pensiero bijagó, come abbiamo messo in evidenza
diverse volte, collegata alla vita, a quella recente del defunto, a quella che egli ha
generato e che ora lascia alle proprie spalle e a quella che genererà, ritornando nel
ventre di una donna per rinascere. La vita continua generazione dopo generazione
e, grazie alla possibilità di ritornare al mondo con una nuova nascita biologica, la
morte diviene solo più una tappa della vita che continua senza fine, al di là della
vita lineare e breve del singolo individuo. Nel 1946, José Mendes Moreira,
osservando che nei funerali bijagó le rappresentazioni di morte e di separazione
erano accompagnate da segni di vita, di sessualità e di fertilità, rappresentati in
canti e danze, aveva pensato che questo derivasse dal fatto che il morto si sarebbe
comunque presto reincarnato in un altro individuo, ritornando in vita (Mendes
Moreira 1946: 104).
Il primo compito di cui si occupano le donne è portare il cadavere al mare per
lavarlo, come hanno sottolineato diversi autori (Quintino 1969: 914; Gallois
Duquette 1983: 135; Scantamburlo 1991: 73). L’acqua, come abbiamo
precedentemente sottolineato (capitolo V, paragrafo 4), è associata, nella
terminologia bijagó, allo sperma, ai rituali relativi al parto, all’iniziazione maschile
e alla possessione femminile (capitolo V, paragrafo 5). Sembra quindi essere
simbolicamente associata ai momenti di crisi della vita umana, alla nascita, alla
crescita e alla morte. L'acqua infatti, come sottolinea Douglas citando Eliade, è
considerata e usata come una sostanza liminare e mediatrice:
“l'immersione è l'equivalente a livello umano di quello che, a livello cosmico, è la morte […];
distruggendo tutte le forme, cancellando il passato, l'acqua possiede quindi il potere di
purificare, di rigenerare, di ridare nuova vita […] ed è perciò un simbolo adatto della nascita e
della crescita così come lo è della morte” (Douglas 1993: 247).
200
Anche La Fontaine considera l’acqua, come il fuoco, un elemento potente,
metafora della procreazione, usato per il suo potere di modificare le sostanze con
le quali entra in contatto come per rappresentare il potere della riproduzione (La
Fontaine 1984: 189).
In seguito le donne rasano i capelli del defunto, così come si raseranno i suoi
familiari in segno di lutto. Come l’acqua, il rito di rasarsi i capelli si ritrova in tutti
i momenti della vita in cui avviene un importante passaggio, come simbolo di
separazione dall’identità precedente: si rasano i ragazzi entrati in foresta per la
reclusione iniziatica; si rasano le ragazze al momento della loro iniziazione al culto
di possessione; viene rasato il re e la sua famiglia al momento dell’intronizzazione;
vengono rasati i morti. Come nota Edmund Leach (1958: 149-164), le pratiche
che implicano il taglio speciale dei capelli sono diffuse in tutto il mondo e sono
particolarmente importanti nelle cerimonie funebri. Van Gennep, infatti, con una
affermazione generale che illustra perfettamente le pratiche bijagó, sottolinea:
“Il rito di tagliarsi i capelli viene impiegato in circostanze assai diverse: si rade la testa del
bambino per indicare che entra in un altro stadio, cioè nella vita vera e propria; si rade la testa
della ragazza quando si sposa, perché ciò sta a significare il cambiamento di classe d'età;
analogamente le vedove si tagliano i capelli per distruggere il legame prodotto dal matrimonio,
dal momento che deporre la capigliatura sulla tomba del defunto rafforza il rito. Talvolta è al
morto che si tagliano i capelli, sempre per la stessa ragione. Orbene vi è una spiegazione al fatto
che il rito di separazione riguarda i capelli: è che essi, per la loro forma, colore, lunghezza e
acconciatura costituiscono un carattere distintivo sia individuale che collettivo facilmente
riconoscibile” (Van Gennep 1996: 146).
In seguito il cranio del defunto viene ricoperto, come abbiamo posto in luce
nel racconto del funerale di Cadina, con la pasta di carbone, ocra rossa e olio di
palma, che si usa per i neonati, per i �aro al momento dell’entrata in foresta e per
le donne dufuntu. Ancora una volta troviamo un elemento che, come l’acqua e la
rasatura dei capelli, è associato ai più importanti momenti di passaggio .
201
Viene poi serrata con attenzione la mascella inferiore del defunto per impedire
alla bocca di aprirsi, legandola con un panno; si immobilizza la testa controllando
ripetutamente che gli occhi siano ben chiusi e tutti gli orifizi corporali vengono
riempiti di tappi di stoffa. “Gli orifizi del corpo - suggerisce Mary Douglas in
Purezza e pericolo - simboleggiano i suoi punti di speciale vulnerabilità. Il materiale
che essi emettono è sostanza marginale del tipo più ovvio” (Douglas 1993: 194).
È quindi molto importante che non fuoriescano secrezioni o sangue, perché
altrimenti l’influenza malefica insita nel cadavere ed estrinsecata dal cattivo odore
che emana, potrebbe diffondersi recando danno ai vivi. In questo momento
critico inoltre è necessario difendere lo stesso defunto “dalle maligne influenze
che sempre insorgono in tali occasioni” (James 1990: 35): il cadavere è infatti
facile preda degli spiriti maligni ed è esposto a tutte le influenze nocive. Da tale
preoccupazione dipende, almeno in parte, l’usanza, tra l’altro molto diffusa, di
chiudere gli occhi e gli altri orifizi del defunto (Hertz 1994: 58).
Mentre il corpo si raffredda, l’anima se ne va e inizia un periodo pericoloso,
nel quale il defunto si aggira intorno alla sua dimora costituendo un pericolo per i
vivi e per se stesso, in quanto potrebbe essere preda degli attacchi dei feiticeiros. Il
corpo del morto viene quindi al più presto avvolto in una stuoia e seppellito
all’interno della casa.
Come abbiamo affermato nel primo paragrafo del quarto capitolo, intitolato
appunto “I “buoni morti” sepolti in casa”, coloro che hanno avuto una buona
morte vengono seppelliti dai loro parenti nell’annani, il ventre della casa, la stanza
cioè nella quale le donne partoriscono.
La buona morte, spiegano Richard Huntington e Peter Metcalf, deve avvenire
“dopo che si è compiuto il proprio compito nella vita, ed essere per questo una morte
accettata169” (Huntington e Metcalf 1985: 26). La mala morte, come abbiamo visto
(paragrafi quattro e cinque del terzo capitolo), implica l’eterna liminarità, il
perenne fluttuare senza pace, l’esclusione dal regno dei morti. La sepoltura, se è
un obbligo per i vivi, è soprattutto necessaria affinché il defunto abbia una buona
169 Il corsivo è loro.
202
morte: un morto senza sepoltura è un’anima senza posto e un’anima senza posto è
un’anima in pena, vagabonda. Se il morto non ha ricevuto la giusta sepoltura, la
sua anima abbandonata non potrà ricevere le offerte e non potrà rimanere in
relazione con i vivi.
I �alo scavano la fossa, un buco circolare di un metro di diametro, profondo
circa un metro e mezzo, al fondo del quale si apre una galleria sotterranea
orizzontale, che permette al cadavere di stare sdraiato sul lato sinistro. Il cadavere
quindi, avvolto in una stuoia, viene adagiato in questa galleria con la testa volta
verso occidente e le gambe flesse, come se dormisse. Coloro che hanno scavato la
fossa, ricoprono il morto di terra, mentre a ogni palettata le donne, sempre
presenti al momento dei funerali, urlano. Prima di chiudere la tomba, i parenti
dello scomparso mettono nell’orifizio circolare, che sormonta la galleria, delle
zucche di riso, dei vasi d’acqua, dei tessuti, le armi o i gioielli del defunto a
seconda del sesso. Tutto ciò che è seppellito con il morto gli servirà a pagare i
traghettatori dell’al di là, che sono venuti a cercarlo con la loro canoa. Secondo
Almeida, si seppelliva anche il cane del morto, affinché “lo accompagnasse nel
cammino verso il nuovo mondo” (1952: 284). Sulla tomba rimane l’unikan
orankoko del defunto, che verrà conservato dalla famiglia, e sulla casa viene appeso
un telo bianco per indicare il recente lutto (Scantamburlo 1991:74; Gallois
Duquette 1983: 136).
Esiste un mito bijagó per spiegare il rituale della sepoltura, riportato da Gallois
Duquette:
“Prima che ci fossero gli uomini, dopo che Nindo ebbe creato la terra ed ebbe deciso di
inviarci il primo essere umano, la terra si lamentò: - Gli uomini mi coltiveranno, lavoreranno su
di me, ciò sarà doloroso, come mi ripagherai, Nindo? - e dio disse: - Gli uomini saranno
seppelliti nel tuo seno, regolerete i conti” (Gallois Duquette 1983: 135).
Il debito degli uomini con la terra costituisce la motivazione di fondo del
rituale della sepoltura: l’abbondanza dei doni della terra, necessari alla
203
sopravvivenza degli uomini, e le colpe degli agricoltori, che, disboscando e
bruciando la foresta, feriscono la terra, dovranno essere pagate con i loro corpi.
4. Il viaggio
Dopo la sepoltura, l'anima del defunto, si appresta a compiere un lungo
viaggio, insieme ai viveri, ai beni personali e alle offerte che sono state messe nella
sua tomba, per permettergli di percorrere il cammino nel migliore dei modi.
“Dovendo il morto compiere un viaggio i vivi si preoccupano di rifornirlo di tutti gli oggetti
necessari, sia materiali […] sia magico religiosi; […] questi sono destinati ad assicurargli, proprio
come se fosse un viaggiatore vivo, un cammino o una traversata e poi un'accoglienza
favorevole” (Van Gennep 1996: 133-134).
I beni che porta con sé infatti gli serviranno per pagare i traghettatori dell'al di
là, che vengono a prenderlo in canoa. Il defunto viaggerà quindi di località in
località da un'isola all'altra:
“questi viaggiatori d’oltre tomba andranno da principio verso il villaggio d’Agn’or nell’isola
di Orango, poi, attraverso tappe successive, raggiungeranno Bruce, situata all’estremità
occidentale dell’isola di Uno; saranno poi condotti nella foresta ad ovest di Equinar, sull’isola di
Unhocomozinho, e dall’altro lato del braccio di mare, approderanno sulla spiaggia dell’isola di
Unhocomo. Infine, l’equipaggio giungerà al termine del viaggio terrestre su una altura boschiva
dell’isola di Unhocomo, nel punto più occidentale dell’arcipelago” (Gallois Duquette 1983:
136).
Le versioni raccolte personalmente sul campo delle tappe del viaggio
ultraterreno sono molteplici e spesso discordanti, ma tutti concordano sul fatto
che l’equipaggio sbarcherà sull’isola di Unhocomo, nella quale si trova
204
effettivamente una capanna definita candja �ocante ambu, “tempio della fine del
mondo” o candja canxanná catammé orebok, ossia “la capanna segreta che mostra il
In questo santuario i defunti di tutte le isole attenderanno che i vivi terminino
le cerimonie funebri, per un periodo di durata variabile. Nei dintorni di questo
santuario, dicono gli anziani, sulla spiaggia o nella foresta, si possono percepire
delle ombre che errano in attesa di partire. Al termine dei rituali del choro, una
grande barca verrà a prenderli per portarli definitivamente nell’al di là,
nell’anarebok, luogo di beatitudine dove i defunti di tutti i tempi si trovano.
Quest’ultima parte del viaggio è difficile e pericolosa:
“benché la parola non venga pronunciata, si tratta di una vera iniziazione; come il giovane
deve superare le prove imposte, prima che gli siano rivelati i segreti del gruppo, così il morto
non può passare immediatamente dal suo stato di miseria alla beatitudine” (Hertz 1994: 92).
A ogni passaggio dell’anima, infatti, il Grande Spirito, Orebok Okotó,
rappresentazione di Dio e luogo di fissazione delle anime degli antenati, è
presente, non nella sua forma materiale di scultura, ma nella sua essenza
spirituale, che entra nel corpo scolpito della statua nel santuario, quando l’invoca
la sacerdotessa. L’Orebok Okotó chiede conto al defunto dei suoi errori e, in base
alle colpe commesse in vita, lo spirito del defunto può venire punito con
un'ulteriore attesa sulla terra, durante la quale l’ombra del defunto, errante,
impaziente e maleodorante, può essere percepita dai vivi (Gallois Duquette 1983:
137). Ma quando una persona leale e onesta muore giunge all’anarebok senza
problemi, non appena il suo choro sarà concluso. La durata del choro dipenderà
dall’importanza del morto.
L’anarebok è rappresentato, nel pensiero bijagó, come un luogo di beatitudine,
nel quale gli arebok, gli spiriti dei defunti, si uniscono in Nindo: questa unione è
simboleggiata dall’Orebok Okotó, rappresentazione materiale di dio, che custodisce
nel ventre gli spiriti degli antenati, ossia non solo il passato di tutto il villaggio, ma
anche, in virtù della reincarnazione, il suo futuro. Questo mondo è la dimora delle
205
persone che sono morte di una buona morte, cioè, come abbiamo precedentemente
spiegato, dopo che hanno compiuto il proprio cammino nella vita e che hanno
raggiunto la completezza, avendo percorso le tappe iniziatiche, che conducono
alla formazione dell’essere umano nel suo pieno significato, e avendo ricevuto le
regolari cerimonie funebri, ossia l'interrogazione del morto (che certifichi che non
si è un feiticeiro), la sepoltura (che deve quindi esser fatta in casa e non in foresta) e
il choro.
Questo ancora una volta spiega perché i bambini (che non sono nemmeno
considerati totalmente “umani”), i ragazzi morti prima dell’iniziazione (che sono
ancora incompleti) e i feiticeiro (che devono essere messi fuori dal circolo di nascite
e rinascite), non possedendo i requisiti necessari, non vengono ammessi
all’anarebok.
5. Il choro
Il cataba, in kriolo choro dos dufuntu, pianto del defunto, generalmente ha luogo
da sei mesi a un anno dopo la sepoltura.
Come la sepoltura e il dijongago, il choro riunisce la popolazione al completo e, a
dispetto del suo nome, si svolge in una atmosfera gioiosa: lo scopo della
cerimonia è ricordare lo scomparso, per cui si riuniscono vino, cibo e tabacco e ci
si prepara a un gradevole incontro. Si parla del defunto osservando alcuni oggetti
che lo ricordano, scambiandosi i ritagli delle sue unghie e dei suoi capelli, che
qualcuno ha conservato (Gallois Duquette 1983: 138).
Il choro completa i funerali, cominciati con la sepoltura e seguiti
dall’interrogazione del morto, dando la possibilità all’anima dello scomparso, che
ritardava la sua partenza per l’anarebok, di realizzare il suo viaggio. Fernando
Rogado Quintino ha più volte sottolineato che il choro è legato esclusivamente alle
donne (1962: 309; 1969: 914), limitandosi, credo, al significato letterale del
termine (pianto). In realtà il choro è un momento di coesione per tutto il villaggio,
che sottolinea il fatto che, nonostante la morte costituisca una seria minaccia di
206
disintegrazione della società (Remotti 1993 b: 83) e a dispetto del fatto che i
legami sociali si sono alterati e indeboliti, i superstiti rinnovano i loro legami con
la comunità dei vivi, creando, con una gioiosa riunione, un sentimento positivo di
coesione sociale. Questo momento di comunione, inoltre, serve ad appianare le
tensioni che hanno potuto nascere dalla cerimonia dell’interrogazione del morto.
Queste manifestazioni (canti, pianti, danze, banchetti) non sono inutili, perché
aiuteranno il morto ad attraversare un passaggio difficile, che lo porterà
finalmente nel mondo dei morti: il suonatore del tamburo sacro suonerà, infatti,
un ritmo, chiamato toca choro, che insegnerà all’anima come compiere l’ultima
parte del viaggio. La presenza dell’oum, il suonatore del tamburo sacro, al choro,
quindi, s’impone, affinché sia d’aiuto al defunto; il toca choro, che può durare fino a
sette giorni, secondo l’importanza del defunto (e del denaro dei superstiti),
permette inoltre che la notizia della cerimonia si trasmetta di villaggio in villaggio.
Needham sostiene che il “fracasso da percussione non è limitato solo ai funerali,
ma lo si trova nelle feste di nascita e di matrimonio, di iniziazione e di raccolto e
in tutti i vari tipi di riti di passaggio. Il rumore delle percussioni - continua
Needham - sembra scandire e dividere il tempo, "segnare il tempo", nella stessa
maniera in cui una linea o un muro demarcano lo spazio”: si tratta quindi di un
simbolo che segna un cambiamento temporale di status e specialmente uno così
irreversibile come la morte. Un altro aspetto del tamburo, che Needham nota, è
che esso produce un suono relativamente forte e ne conclude che il “gran rumore
è un modo per facilitare la comunicazione tra gli uomini e il soprannaturale”
(Needham 1967: 606-614).
Se il morto aveva un funzione religiosa o ricopriva un’importante carica rituale,
a maggior ragione la venuta dell’oum e delle dufuntu s’impone. Se la morte di ogni
membro del gruppo, specialmente nelle società di piccole dimensioni, costituisce
un evento lacerante che pervade l’intera struttura sociale, occorre necessariamente
tenere conto che l’intensità dello “shock” varierà con l’importanza sociale del
defunto. Nonostante la consapevolezza che l’anima del defunto, nel periodo di
attesa tra la sepoltura e il choro, soffrirà molto, per l’okinka e l’oro�o, è necessario,
207
mi dice Pedro, preparare un choro molto fastoso, nel corso del quale si
sacrificheranno molte vacche, di modo che la gente se ne possa ricordare a lungo.
Il choro che si fa per l’oro�ò “i ka ke un alguin simples assim”, ossia “è differente
dal choro di una persona qualsiasi”, mi dice Tetè, l’oum di Bijante, “i tene ki ten
bombolon i dufuntu na mati lá”, “ci deve essere il tamburo sacro e le dufuntu devono
partecipare”. Alla sua morte, annunciata da cinque tamburi (Carvalho Viégas
1937: 34; Bernatzik 1967: 68), tutte le insegne dell’autorità (la lancia tridentata, le
sedia scolpita, l’unikan orankokò) verranno seppellite con lui; la sua casa, il noo e la
pianta silvestre simbolo del suo potere al villaggio (come abbiamo visto
nell’ottavo paragrafo del terzo capitolo) saranno distrutti e bruciati in foresta.
L’oro�ò non verrà sepolto quindi nella sua casa, ma, come l’okinka, nella candja
caorebok, e il suo orebok non guadagnerà l’al di là, ma rimarrà fissato in uno speciale
feticcio, detto kamba, che contiene gli arebok di tutti i re che regnarono nel
villaggio. Quest’oggetto è sempre tenuto nascosto e non viene esposto che di
notte in occasione dei funerali reali. Se qualcuno di giorno lo vedesse, morirebbe
all’istante (Henry 1994: 178).
L’okinka, come il re, viene seppellita, secondo la tradizione, nella candja caorebok,
per quanto, secondo Tetè, oggi le regole stiano rapidamente cambiando (Carvalho
Viégas 1937: 31-36; Valoura 1972: 270; Gallois Duquette 1983: 59). Il choro
celebrato per integrare l’anima della sacerdotessa alla comunità degli antenati,
come quello per il re, richiede la presenza delle accolite dufuntu (le arebok) e
dell’oum e in genere richiama gente addirittura dalle isole vicine, per la grandiosità
della festa. Non avendo mai assistito a questo tipo di choro e data la carenza e i
limiti delle fonti, non mi è possibile avanzare ipotesi. I miei interlocutori
ripetevano però spesso i racconti legati alla morte di Pampa, la leggendaria
okinka/regina di Orango Grande, Unhocomo e Unhocomozinho, alla quale
abbiamo precedentemente accennato.
Il mito vuole che la morte di Pampa, avvenuta in un momento in cui il popolo
aveva bisogno di lei, fu mantenuta segreta per diversi giorni (Bernatzik 1967: 68).
Il suo corpo, essendo una okinka, fu sepolto nella candja caorebok, ma, e questo
costituisce un’eccezione, anche i membri della sua famiglia furono seppelliti nel
208
santuario, che divenne un vero e proprio tumulo regale e che è ancor oggi luogo
di culto (Gallois Duquette 1983: 59). Alla celebrazione del suo funerale gli anziani
tramandano che, con il suo cadavere, le offerte, il cibo e il cane, furono sepolti
vivi molti giovani e ragazze vergini. “Si sentivano gemere dalla tomba”, racconta
Pedro e il suo amico Okanti, originario di Orango, aggiunge: “è una storia orribile
che mi è stata raccontata dagli anziani, ma è la verità. La regina Pampa non poteva
morire sola: il mondo intero doveva piangere e soffrire con lei”. Queste
informazioni sono confermate anche dai dati raccolti dagli amministratori
coloniali portoghesi, che visitarono Orango pochi anni dopo la morte di Pampa,
avvenuta intorno agli anni trenta (Viégas 1936: 151; Verissimo Fernandes 1946:
54; Quintino 1962: 320). La leggenda che circonda la morte di Pampa, mi ha
riportato alla mente un passo di Shakespeare:
“quando la maestà si estingue \ non muore sola, ma come un vortice attrae con sé \ ciò che
le è vicino […]. Non mai da solo \ sospirò il re, ma con un gemito universale” (Amleto, Atto
III, scena III).
6. Conclusioni: la relazione tra le donne e la morte
Con la morte sullo sfondo, cercheremo ora di mostrare, attraverso l’analisi del
differente cammino antropopoietico di uomini e donne (confronta la parte
conclusiva del sesto capitolo), come i due piani si illuminino reciprocamente,
rivelando gli assi portanti del pensiero bijagó.
Come abbiamo già accennato, anche di fronte alla morte, il destino di donne e
uomini è differente, in quanto, mentre le prime possono sempre raggiungere
l’anarebok indipendentemente dalla loro posizione nelle tappe della vita, i secondi
potranno accedere al mondo degli antenati solo quando avranno terminato il
percorso iniziatico e avranno assistito all’iniziazione della classe d’età inferiore. Le
donne sembrano quindi possedere, in virtù del potere di generare che è stato loro
209
concesso, una completezza tale da conferire loro l’ancestralità a prescindere dal
momento in cui avviene la morte.
Gallois Duquette, per quanto non si soffermi sulla questione, si pone
comunque un quesito:
“Perché le ragazzine bijagó morte prima dell'iniziazione non sono impedite nel raggiungere
lo spazio degli antenati? Non sarà perché le donne non hanno bisogno di una iniziazione per
essere guardate come degli esseri completi dal Creatore?” (Gallois Duquette 1983: 154).
Henry tenta di fornire una risposta agli interrogativi della Duquette:
“normalmente l’orebuko di una donna (qualunque sia la sua età) o di un uomo iniziato, alla
morte, guadagna l'al di là, da dove, al termine di un tempo indeterminato e in un modo che non
è specificato, potrà ritornare al momento di una nuova nascita. Quando i Bijogo pensano che gli
arebuko dei morti maschi non iniziati non abbiano la forza di raggiungere l'al di là, sembrano
ammettere che l'orebuko di un giovane uomo sia meno forte di quello di una ragazza o di una
donna. […] I Bijago riconoscono che le donne possiedono congenitamente una forza vitale
superiore a quella degli uomini perché esse sono capaci di generare. Gli uomini hanno bisogno
di essere iniziati e di iniziare per acquistare una forza comparabile a quella delle donne”
(Henry 1994: 103).
Le tabelle 8 e 10 del capitolo precedente, mostrano infatti l’analogia che viene
a crearsi tra le donne e gli uomini, quando questi, raggiungendo gli ultimi gradi
d’età, al termine del loro “viaggio antropopoietico”, acquisiscono caratteristiche e
diritti propri alle donne.
Le donne, d’altronde, non solo partecipano del movimento degli arebok tra il
mondo dei vivi e l’al di là, per il potere biologico di riportare alla nascita l’orebok di
un defunto, ma costituiscono anche un trait d’union tra i due mondi. Ciò si verifica
quando si tratti di rimettere in circolo un bambino nato morto, il quale può
tornare al mondo direttamente rientrando nello stesso ventre materno o passando
nel corpo di un’altra donna della famiglia, o di dare una qualche forma di vita agli
oshó, attraverso la possessione. Le donne non hanno quindi solo il potere di dare
210
la vita, ma quello ancora più grande di trasformare la morte in vita (Henry 1994:
150). Come l’annani, il ventre della casa, il ventre della donna è quindi il luogo in
cui la morte si tramuta in vita. Già i miti di origine bijagó mostrano la donna
come genetrix mundi (Lamy 1985: 152), veicolo privilegiato dell’azione creatrice di
Nindo, quando non è lei stessa, sola, a dare nascita all’umanità, generando maschi
e femmine a partire dal suo unico corpo. La dialettica morte/vita in relazione alla
donna è inoltre rappresentata anche dal filho de osso, garanzia di fertilità, dotato del
potere di facilitare la gravidanza di una donna; materialmente un pezzo dello
scheletro della vacca.
L’analisi del funerale di Cadina mostra inoltre la maggiore familiarità delle
donne con la morte, non solo perché si occupano della cura del cadavere
(capitolo VII, paragrafo 3), ma anche perché sono le protagoniste della scena
(“sulla scena rimaniamo ancora una volta solo noi donne”) e sanno, a differenza
degli uomini, come controllare le loro emozioni (“il marito […] apparentemente
senza controllo; […] compaiono alcuni uomini della famiglia e, come il marito, si
gettano al suolo urlando. […] Gli uomini non sanno gestire la situazione”).
Occorre non dimenticare che, come per la vita, anche l’origine della morte è
femminile:
“dopo la morte della prima donna Akapakama, trascorse un certo lasso di tempo, poi ella
riapparve giovane e bella. Le sue quattro figlie prepararono col padre una grande festa, battendo
le mani e urlando “Akapakama è morta e ritornata!”. Ma la madre era scontenta, poiché riteneva
che la si considerasse come l’incarnazione del malvagio spirito feiticeiro e non come una che
ritorna da un viaggio, fresca e bella. Ella decise allora che sarebbe morta ancora e non sarebbe
tornata più” (Gallois Duquette 1983: 34-35).
“Prima della morte della prima donna, nessun essere umano era mai morto, la
morte - commenta Lamy - non esisteva: questa, volontaria, è la prima morte
umana” (Lamy 1985: 156). L’origine della morte risale quindi a un atto volontario
femminile e il mito riporta anche una prima interpretazione della morte, che
l’identifica con un viaggio, dal quale Akapakama ritorna fresca e bella. Vi è quindi
211
rappresentato anche il primo atto in cui una donna dalla morte ritorna al mondo,
fresca, riposata, ma soprattutto viva, e questo potrebbe essere letto come una
rappresentazione della continuità della vita, attraverso la possibilità, introdotta da
una donna, di ritornare in qualche modo al mondo.
La donna, quindi, a differenza dell’uomo, sembrerebbe poter accedere all’al di
là indipendentemente dall’iniziazione al culto di possessione, in quanto i Bijagó la
ritengono “essere già nata in una sorta di completezza che le garantisce
l’ancestralità” (Henry 1994: 149). Durante la mia permanenza sul campo, ho
affrontato la questione durante una cerimonia effettuata nella candja caorebok di
Etuato (la parte alta di Bijante170), per chiedere la protezione dell’Orebok Okotó
Cungaran, affinché vegliasse sulla buona riuscita della mia ricerca171. Alla
cerimonia partecipavano le anziane di Etuato e le dufuntu di Bijante (ovviamente
l’entrata al tempio è preclusa agli uomini). Dopo aver consultato il Grande Spirito
e aver bevuto una discreta quantità di vino di palma e cana (acquavite di canna da
zucchero), Duminga, che probabilmente diventerà presto okinka, mi ha spiegato
che, per quanto non sia necessario, è comunque consigliabile che la donna, prima
di morire, abbia celebrato le cerimonie dufuntu. “Se hai già fatto completare al tuo
spirito dufuntu il fanado (l’iniziazione) - chiarisce Duminga - alla tua morte egli
verrà a prenderti, di modo che tu non possa smarrirti o commettere errori nel
lungo viaggio che ti attende per raggiungere Nindo. Andrete insieme nell’anarebok
per mano: ecco perché il defunto già iniziato comunque non raggiunge
immediatamente l’al di là, perché ti deve aspettare!”. Henry ha notato il fatto che,
per quanto il fine delle cerimonie dufuntu sia di far guadagnare l’al di là ai ragazzi
morti prima dell’iniziazione, tuttavia gli arebok già iniziati non perdono la loro
indeterminazione spaziale e continuano a rimanere in attesa, viaggiando tra i due
mondi, senza raggiungere definitivamente l’anarebok (Henry 1994: 148), ma non
riesce a comprendere il motivo di questa discrepanza.
170 I villaggi più grandi, oltre alla divisione in quartieri, sono divisi in due metà: akpenena e aletana, l’alto e il basso. 171 Bijante, 14 febbraio 1997.
212
Duminga offre invece una valida risposta, aggiungendo che “con le cerimonie
dufuntu entrambi (la donna posseduta e lo spirito possessore) si diventa più forti.
Se una bambina muore senza aver fatto neanche il kanunake172, la sua anima ha
difficoltà a compiere il viaggio, può perdersi: pensa, è sola, non conosce la strada.
L’unico modo per aiutarla è riunire le dufuntu del villaggio, affinché cantino e
battano le mani”. Duminga mima il gesto di battere le mani rapidamente e reclina
violentemente il capo all’indietro, poi mi guarda: “Vedi, così gli arebok che stanno
dentro le donne dufuntu possono uscire e accompagnare la bambina fino a Nindo,
per poi tornare al più presto” 173.
Anche le donne, pur nella loro completezza, sembrano quindi dipendere in
qualche modo dalle cerimonie dufuntu e dal principio maschile che esse incarnano
(l’oshó), per poter passare all’al di là. Per quanto, quindi, il passaggio all’ancestralità
sia legato al fatto di essere capaci di generare, mi sembra tuttavia che la
maturazione e la socializzazione dipendano anche dal potere di trasformazione
personale conferito dall’esperienza della possessione, nella quale una entità
maschile e malefica, nel corpo di una donna, diviene un principio benefico e
“femminilizzato”. Una donna quindi si completa definendosi in opposizione e in
unione con elementi maschili e, grazie a questo principio che la possiede, è
facilitata a compiere il viaggio verso l’al di là nel migliore dei modi, per quanto
non sia un elemento indispensabile.
Il percorso della vita di una donna (come quello di un uomo che ha raggiunto
gli ultimi gradi d’età) potrebbe essere rappresentato da un cerchio, giacché il
passaggio tra la vita e la morte, tra il mondo umano e quello degli spiriti, non è
impedito in alcun modo (come invece accade per gli uomini non iniziati): la vita
lineare della singola persona è inserita quindi nella vita senza fine, che continua,
legando tra di loro le morti e le “rinascite”174.
172 Il kanunake è la prima fase della cerimonia di possessione, come vedremo nel capitolo VIII. 173 Nel periodo in cui ho vissuto a Bubaque, non mi è mai capitato di assistere al funerale di una bambina, perchè, fortunatamente, le famiglie con le quali ho intessuto rapporti di amicizia, avevano figli in buona salute. 174 Una concezione della vita che può essere posta in connessione dialogica con quella bijagó, è riportata nell’articolo di Roumegère-Eberhardt, sulla nozione di vita dei Venda del Nord del Transvaal (Roumegère-Eberhardt 1996: 33-50).
213
È possibile rappresentare il percorso compiuto da una donna o da un uomo
iniziato, cioè il percorso che potremmo definire “regolare”, con un semplice
schema175 costruito sugli assi cartesiani, in cui l’asse verticale divide gli attori (a
destra) dalla scena nella quale si svolgono le loro azioni (a sinistra), e l’asse
orizzontale separa l’invisibile (sopra), dal visibile (sotto). Lo schema mostra,
seguendo la freccia, come lo spirito di un antenato viene al mondo attraverso il
corpo di una donna. Dopo il percorso iniziatico in foresta, obbligatorio affinché
un uomo possa aver accesso all’anarebok, ma non indispensabile per una donna,
seguito dalla permanenza al villaggio fino al giorno della morte, questi possono
riunirsi agli altri defunti nel regno di Nindo, dopo un breve periodo di attesa.
Lasceranno l’anarebok, nel quale vivranno per un tempo indeterminato in qualità
di antenati venerati, per ritornare nel mondo umano, attraverso una nuova nascita
biologica.
175 Gli schemi utilizzati sono soltanto strumenti, mediante i quali visualizzare differenti modi di accesso all’al di là.
214
Schema 1: il percorso di vita “regolare” delle donne e degli uomini iniziati.
Servendoci del medesimo schema, è possibile rappresentare anche il percorso
di un bambino nato morto, o morto alla nascita. Il suo destino è infatti peculiare,
non essendo ancora un essere umano, ma non essendo neanche più solo un’entità
spirituale. Il suo orebok, che era appena arrivato nel mondo umano, venendogli a
mancare il supporto materiale (il corpo del bambino), si ritirerà nel “santuario
della fine del mondo” o rimarrà a vagare sulle spiagge dell’isola di Soga, per poi
ritornare con assoluta precedenza nel ventre della stessa donna o di una sua
parente prossima. Questo è un altro motivo per cui le madri non piangono la
morte dei neonati. Secondo Doris Bonnet, che si è occupata della concezione del
bambino tra i Moose del Burkina Faso, in un articolo significativamente intitolato
“L’éternel retour ou le destin singulier de l’enfant”, “il ritorno dell’antenato e la
reincarnazione dello stesso bambino, appartengono al medesimo ciclo di
credenze” (Bonnet 1994: 104). Una volta ritornato al mondo, la sua vita
procederà regolarmente, come evidenziato nel precedente schema.
215
Schema 2: il percorso dei bambini nati morti o morti nei primi istanti della vita.
Evidenziamo, infine, il caso in cui il ragazzo muoia prima di essere entrato in
foresta e di avere quindi compiuto i rituali iniziatici. In questo caso, sempre
seguendo il percorso delle frecce, è possibile vedere che gli orebok di questi uomini
vengono messi “fuori circuito”, diventando oshó, ossia anime in pena, che vagano
tormentando i vivi. Appartengono come attori al regno dell’invisibile, ma, per
quanto non sia stato possibile sottolinearlo nello schema, come abbiamo già
ripetuto, vivono nella foresta. Ritornano a essere visibili servendosi del corpo
della donna che possiedono e, a quel punto, è più corretto chiamarli arebok, ossia
in kriolo dufuntu. Le donne possedute, che incarnano questi spiriti, percorreranno,
al posto di e come se fossero uomini, le tappe dell’iniziazione maschile. Al
termine del cammino iniziatico, come vedremo più approfonditamente nei
prossimi capitoli, questi spiriti continueranno, in determinate circostanze (ad
esempio in occasione del choro dell’oro�o e dell’okinka), a possedere le donne che
sono servite loro da “supporto” per completare il percorso dell’iniziazione. Alla
morte della donna, come spiega Duminga, entrambi gli arebok (della donna e del
ragazzo) raggiungeranno l’al di là.
216
Schema 3. Il caso dei ragazzi morti prima di essere iniziati.
6 .1. Il bisogno di dimenticare
Per concludere questo discorso sul pensiero bijagó riguardo alla morte, è
importante considerare un ultimo aspetto, messo in evidenza graficamente in
particolare dal primo schema, che visualizza un percorso “regolare”. La vita,
come abbiamo precedentemente spiegato, in realtà non si conclude mai: per usare
le parole di Bonnet, ci troviamo di fronte a un éternel retour, a una vita ciclica in cui,
in realtà, non si muore mai definitivamente, o meglio, muore il supporto materiale
217
dell’orebok, dello spirito, il kubi kodjoko, il corpo umano, ma l’orebok continua la sua
eterna esistenza, costituendo il fondamento di una nuova nascita (Scantamburlo
1991: 72). Il fatto che gli spiriti che si reincarnano siano, quindi, sempre gli stessi,
crea un forte legame di "continuità" tra i vivi e i morti.
L’elaborazione culturale della morte, suggerisce Remotti, che ha riflettuto sul
tema del rapporto con gli antenati, il ricordo, il passato (Remotti 1990: 224-232;
1993b: 53-59, 76-89), deve tuttavia provvedere a stabilire legami sia di continuità,
sia di discontinuità, perché non tutto il passato può rimanere, non tutto il passato
può o deve essere collegato con il presente, e tanto meno presentificato (Remotti
1993b: 83). Una concezione solo ciclica della vita, in cui le persone sono in fondo
sempre le stesse, non sarebbe in grado di rendere conto del mutamento, delle
trasformazioni, in ultima analisi, del tempo:
“appiattirsi come una fotocopia sul passato […] non garantirebbe l’identità del “noi” dei vivi
rispetto al passato” (Remotti 1990: 226).
I Bijagó si servono di un sottile escamotage per salvare la specificità di ogni
nuova generazione, spezzando il filo che la legherebbe a tutte le generazioni
precedenti: non appena giungono nell’anarebok, gli arebok delle singole persone
perdono infatti la loro individualità, i loro ricordi, non hanno più un nome né un
sesso e si fondono in una massa indistinta (Henry 1994: 191). Anche per i vivi,
dopo un certo periodo di tempo, i morti (quanto meno le persone comuni)
scompaiono in un anonimato generale e presto nessuno si ricorderà più di loro.
Alla morte dei suoi abitanti, sepolti nella stanza centrale della casa coniugale, la
casa sarà lasciata cadere in rovina, sicché la casa che ha ospitato la coppia in vita
farà loro da tomba. Come sparisce il ricordo, così anche le case/tombe sono
destinate a scomparire, a essere forse inghiottite dalla foresta, se si trovano ai
margini del villaggio, o sostituite da nuove case e nuove famiglie, comunque
dimenticate176. Quando li interrogavo sul passato più o meno recente, gli anziani,
176 Si può scorgere un’analogia tra le case/tombe, che vengono lasciate cadere in rovina ed il bananeto nande, luogo di dimenticanza, in cui i morti sono destinati a scomparire (Remotti 1990: 225, 231;
218
probabilmente nella speranza che la smettessi di fare domande, dicevano spesso:
“perché ricordare tutto?”. La dimenticanza attenua il peso e l’incidenza del
passato, garantendo l’originalità, l’imprevedibilità e la singolarità della vita.
La rappresentazione bijagó del tempo, a conferma di quanto detto, non è “né
lineare né ciclica, ma piuttosto pendolare, fondata su un va e vieni tra i due poli”
(Henry 1984: 144), giacché, con le parole di Remotti:
“una concezione che voglia “addomesticare” in qualche modo il tempo (renderlo
intelligibile) non può fare a meno di mescolare ciclicità e linearità, prevedibilità e imprevedibilità,
ripetibilità e irripetibilità, reversibilità e irreversibilità, intelligibilità e inintelligibilità” (Remotti
1993b: 56).
Capitolo VIII
Uruté arebok: le piroghe d’anime
Bijante, 14 febbraio 1997
1993b: 86), in quanto in entrambi i casi si può parlare di “strategie” per liberarsi dal passato (“per ogni agire ci vuole oblio”) (Nietzsche 1972: 264).
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Pochi giorni fa Martina è passata per avvertirmi che, durante la notte, il
tamburo sacro ha trasmesso un messaggio, «arebok aminte» (in kriolo dufuntu i na
bin): sono arrivati gli arebok a ripossedere le donne iniziate di Bijante. In effetti,
mentre la accompagno fino al mercato, incontriamo tre donne dufuntu, che mi
rivolgono la parola. Martina si offre di aiutarmi nella traduzione, poiché, per
quanto nella vita quotidiana le donne parlino generalmente in kriolo, durante i
periodi di possessione adottano un linguaggio particolare, potremmo definirlo
una “distorsione” del bijagó, in cui vengono usati termini comuni dotandoli di un
significato differente, molto difficile da comprendere anche per gli stessi uomini
bijagó.
Martina le conosce e mi spiega che hanno fatto il fanado177 all’incirca nove anni
fa, e che ora sono in una fase di ripossessione. Una dufuntu prende la parola e si
presenta con il suo nome di fanado, Ne�a Baba, chiamata anche, scherzosamente,
oro�o Coia, perché lo spirito che la possiede ne ha adottato l’abbigliamento e gli
atteggiamenti. Questa dufuntu, apparentemente più importante delle altre, mi invita
a partecipare a una cerimonia nella candja caorebok, a condizione che le anziane
diano il loro consenso. Conosco già Duminga, che presto diventerà okinka, per
cui conto sulla sua approvazione.
In effetti poco dopo viene la stessa Duminga, accompagnata da altre due
donne, per accompagnarmi all’interno della candja. Le anziane, dopo avermi
invitata a togliermi le scarpe, mi indicano un posto a sedere, tra le dufuntu e
l’Orebok Okotó Cungaran. Duminga prende il corno che si trova nel ventre di
Cungaran e lo riempie di cana (acquavite di canna da zucchero), ne beve un sorso,
poi lo passa alle altre anziane, infine a me. Le ultime gocce vengono rovesciate nel
ventre dell’Orebok Okotó.
Nel frattempo osservo l’interno del tempio, le cui pareti sono state interamente
dipinte dalle donne iniziate. I temi ricorrenti sono l’immagine dell’orebok,
177 Fanado: iniziazione (kriolo).
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rappresentato come un guerriero dalla pelle bianca178 che entra nel corpo della
ragazza, e la piroga da guerra bijagó (uruté), della quale nell’arcipelago non vi è più
traccia, associata alla donna posseduta.
Duminga segue il mio sguardo e mi indica i disegni che ha fatto sua figlia, che
rappresentano sempre questa grande piroga spinta da una dufuntu. Le chiedo di
spiegarmene il significato e lei, indicandomi sia l’imbarcazione, sia la donna
posseduta, mi risponde, laconica, uruté arebok, ossia “piroghe d’anime”.
178 Nell’immaginario bijagó, gli spettri vengono sempre descritti come ombre bianche, o come figure umane dalla pelle chiara. Non è raro quindi che i più piccoli, quando fuggono in lacrime di fronte agli europei, dichiarino di aver visto un fantasma.
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Figure 10, 11, 12. Pitture parietali della candja caorebok di Bijante, Bubaque.
1. Le donne come piroghe d’anime
Duminga, con questa sua affermazione, si riferiva sia alla piroga sia alla donna
posseduta. Non bisogna dimenticare che, come abbiamo visto nel precedente
capitolo, i morti viaggiano in piroga da un’isola all’altra fino al “tempio della fine
del mondo” e da lì è sempre una grande canoa che viene a recuperarli per
condurli all’anarebok.
Al contempo, questa definizione si adatta perfettamente alla funzione della
donna posseduta, che è quella di “trasportare” un’anima, affinché possa compiere
il suo percorso iniziatico nel mondo dei vivi. Il termine uruté (o, in alcuni casi,
entunqué), in particolare, viene adoperato esclusivamente per riferirsi alle piroghe
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usate un tempo in battaglia, oggi scomparse dall’arcipelago179, in quanto per
designare le canoe usate per la pesca, si userebbe la parola kadúme (plur. �adúme).
Le dufuntu condividono la stessa sfera simbolica dell’uruté, che potremmo definire
marziale: quando una donna è posseduta, infatti, adotta la personalità e le armi di
un guerriero, canta solo canti di guerra, non allatta più, non cucina più, né si
comporta più in alcun modo come una donna (Gallois Duquette 1983: 147;
Oliveira 1995: 73).
Gallois Duquette, occupandosi della produzione artistica bijagó, descrive
l’utilizzo, da parte delle donne possedute, di copricapi scolpiti, che rappresentano
spesso delle piroghe (confronta figura 14, al termine del capitolo) (Gallois
Duquette 1983: 145) e la sua affermazione trova conferma in Henry (1994: 143).
Oliveira de Sousa, invece, che ha trascorso alcuni mesi a Bubaque, racconta una
scena di possessione della quale è stata testimone, che mi sembra, in questo
contesto, molto significativa:
«i tamburi si animano, le defunto danzano mimando l'atto di remare, cantando "vieni ad
aiutarmi, vieni ad aiutarmi, la piroga è pesante", mentre la folla risponde in coro "la piroga è pesante". Il
suo corpo si bilancia in avanti e indietro, la sua arma si leva seguendo un ritmo ora forte, ora
debole, ma sempre più frenetico, mentre il suo viso imperlato di sudore, resta impassibile. Tutto
a un tratto essa crolla; la testa sulle ginocchia di una spettatrice: è la madre del bambino morto,
divenuta sua propria madre» (Oliveira 1991: 68).
Questa espressione, quindi, sintetizza al meglio le principali caratteristiche delle
donne, cioè la possibilità di portare all’interno del proprio corpo un altro essere, e
delle donne dufuntu, ossia l’incarico di prestare il loro corpo per trasportare “come
piroghe” le anime dei ragazzi morti, richiamando l’attenzione, attraverso la
metafora della piroga da guerra, sui loro nuovi attributi marziali, caratteristici del
loro stato.
179 Probabilmente l’ultima immagine di una piroga da guerra bijagó, secondo gli autori recenti (Gallois Duquette 1983: 224; Henry 1980, 1989), è quella scattata da Bernatzik negli anni trenta (Bernatzik 1967: 153).
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Come abbiamo visto nel capitolo precedente, in particolare nello schema che
visualizza il ciclo di vita degli uomini morti prima di aver compiuto il percorso
iniziatico, l’iniziazione di questi defunti, la ka�oke karebok, costituisce lo scopo
principale del �ubir kusina al femminile e, al contempo, uno dei momenti forti del
formarsi della “coscienza femminile”, in quanto la donna, entrando a far parte del
gruppo delle dufuntu, prende pienamente coscienza del suo potere di mediazione
tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, grazie alla possibilità, insita nel suo
corpo, di poter contenere un altro essere e di potergli donare la vita. Quale altro
scopo avrebbe il �ubir kusina per le donne, se non questa “presa di coscienza”,
che si traduce, nell’ambito del quotidiano, in un aumento di prestigio e di potere?
Per quanto riguarda gli uomini infatti, considerando che un giovane maschio
deve essere iniziato affinché il suo principio vitale (orebok) possa guadagnare l’al di
là, possiamo affermare che, nel corso del rituale �ubir kusina, gli uomini “pagano”
i loro anziani in cambio dell’iniziazione, che permetterà loro di acquisire lo stato
di uomo completo, con tutti i diritti che l’accompagnano (capitolo VI, tabella 10).
Dal lato maschile la relazione tra i giovani e gli anziani sembra, dunque,
presentarsi come uno scambio.
Non sembra essere la stessa cosa per le donne. In cambio dei loro doni che
cosa le anziane potrebbero donare alle loro cadette, che queste ultime già non
possiedano? «Gli uomini hanno bisogno di essere iniziati e di iniziare per
acquistare una forza comparabile a quella che le donne possiedono
congenitamente» (Henry 1994: 103). Il rituale non modificherebbe dunque le loro
qualità intrinseche di donne: «qualsiasi cosa sia - aggiunge Henry - esse
partoriscono e sono capaci di lavorare la terra» (Henry 1994: 136). Il fine del
�ubir kusina al femminile, ipotizza l’autrice, sembra sia da ricercarsi non tanto
nella regolazione dei rapporti tra giovani e vecchi, quanto piuttosto
nell’articolazione di tre serie di relazioni: giovani / vecchi, vivi / morti, uomini /
donne (Henry 1994: 136). Osservando i rituali femminili, Henry nota infatti che le
donne onorano le loro anziane e, tramite loro, gli arebok che le anziane incarnano.
L’autrice, quindi, avanza l’ipotesi che il rituale dufuntu sia in realtà un culto dei
morti. In secondo luogo, Henry sottolinea che il rituale è sia un apprendistato alla
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possessione per quanto riguarda le donne, sia la trasformazione di una forza
dannosa in un’entità benefica dal lato degli uomini: è quindi il luogo di una
doppia iniziazione, quella delle ragazze alla possessione e quella dei defunti tornati
in vita (Henry 1994: 146).
Data la segretezza che circonda questi rituali, «al punto che la loro esistenza è
rimasta per molto tempo totalmente ignorata», e poiché «non esiste al giorno
d’oggi il racconto di un testimone della parte segreta di questi rituali» (Henry
1994: 136), l’autrice si trova nella situazione di poter disporre, per tentare di
verificare le sue ipotesi e per comprenderne la portata, solo delle rare
informazioni raccolte rimanendo al villaggio. Poiché tutta la conoscenza
riguardante le cerimonie femminili e, in generale, gli arebok, è preclusa agli uomini
e alle donne non iniziate, e coloro che già sono state iniziate al culto di
possessione non ne possono parlare con nessuno, la curiosità di Henry incontra
un muro di «mutismo e imbarazzo», in cui le «diventa pressoché impossibile
ottenere informazioni» (Henry 1994: 88).
È perciò, per Henry, molto difficile addentrarsi nella descrizione delle
cerimonie legate alla possessione femminile, riguardo alle quali sono tutti «plus
muets que des carpes» (Henry 1994: 142), come lo era stato qualche anno prima per
Gallois Duquette, la quale sottolineava che «tutto ciò che succede o si dice
dell’iniziazione è assolutamente segreto; se un bijagó parlasse, morirebbe» (Gallois
Duquette 1983: 97). Scantamburlo incontra difficoltà anche maggiori, essendo
l’ambito delle cerimonie dufuntu assolutamente precluso agli uomini. I tre autori
comunque, cercano di ricostruire schematicamente la sequenza delle cerimonie
dufuntu: Henry basandosi sui commenti raccolti al villaggio; gli altri due
utilizzando il diario di padre Formenti, missionario a Bubaque nel 1968, oggi
conservato proprio da Luigi Scantamburlo180. Prima di presentare le mie personali
osservazioni, riporterò, quindi, il contributo di questi autori, attenendomi alla loro
sequenza temporale.
180 Si tratta di un diario privato, mai pubblicato, nel quale vengono riportate informazioni sull’iniziazione maschile e su quella femminile. Non ho, come Henry, avuto modo di consultarlo, poiché Scantamburlo non intende divulgarne il contenuto.
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Luigi Scantamburlo (1978), dopo aver descritto come, solo attraverso il tramite
delle donne, i ragazzi morti possano diventare veri membri della società bijagó e
aver intravisto l’analogia tra il potere di generare e questa possessione - «una
donna per diventare una vera madre e un autentico membro della società, deve
generare non solo fisicamente, ma anche spiritualmente» (Scantamburlo 1991: 82)
- distingue tre momenti fondamentali nel rituale dufuntu:
1. canunake, che significa “dividere il riso” e dura dieci giorni. Questa cerimonia
si svolge nel santuario del villaggio ed «è la prima esperienza delle ragazze con le
anime» (1991: 83). Apprendono in questo momento a danzare la danza
particolare delle anime, indossando lunghe gonne di fibre vegetali caratteristiche
del loro stato. L’autore aggiunge di aver assistito a una cerimonia in cui l’orase (di
cui parleremo in seguito) sacrificò una gallina per ogni ragazza iniziata, bagnando
i suoi piedi col sangue, come si fa con lo spirito Orebok (Scantamburlo 1991: 83);
2. nobanabido, termine del quale l’autore non riporta la traduzione, è il periodo
prima dell’entrata in foresta, in cui le donne ricevono un nuovo nome e imparano
come comportarsi nei confronti del mondo degli spiriti (Scantamburlo 1991: 84);
3. canhoke, è il periodo che le donne trascorrono in foresta e che va da due mesi
a un anno. Durante questa permanenza, le donne vengono iniziate ai lavori
agricoli, alla ricerca di molluschi e di legumi selvatici. Usciranno dalla loro
reclusione vestite da uomini, con i pantaloni: le donne sono divenute camabi
(kabido) (Scantamburlo 1991: 84).
L’autore non precisa quanto tempo passa tra i tre momenti, né descrive
ulteriormente le cerimonie di possessione.
Anche Gallois Duquette (1983) segnala tre periodi, ma li collega l’uno all’altro
a livello temporale:
1. coanake, o “piccolo fanado”, che dura qualche giorno: la ragazza diviene kabaro
(karo) e la cerimonia è celebrata l’anno che segue l’iniziazione maschile;
2. canioke, o “grande fanado”, celebrato due anni più tardi, dura tre mesi: la giovane
ragazza diviene camabi (kabido) e una festa di tre giorni, chiamata cabugn’a,
chiude questo periodo;
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3. per circa altri dieci anni, la ragazza resta camabi: durante il primo anno, ella non
potrà avere relazioni sessuali; al termine dell’anno, la donna sarà scarificata.
Diverrà cassukai (kassuká) quando parteciperà all’iniziazione della classe d’età
inferiore: il suo ruolo è allora terminato, «non ha più l’incarico dell’anima»
(Gallois Duquette 1983: 141).
Henry, invece, divide le cerimonie femminili in ben sette momenti. Possiamo
giustificare questa diversità ricordando che, a differenza dei primi due autori, che
hanno svolto le loro ricerche sull’isola di Bubaque, Henry ha condotto le sue
indagini nell’isola di Canhabaque.
1. kosupone, fase che potrebbe corrispondere al caonake degli autori precedenti.
Durante questo periodo di ritiro, infatti, le donne cominciano a fare
l’esperienza della possessione. Henry dice di ignorare in quale maniera i morti
siano identificati o attribuiti, ma ritiene che non siano dello stesso clan o della
stessa famiglia delle ragazze che essi possiedono. Diversi divieti pesano sulle
donne all’uscita dal periodo kosopune: l’interdizione di avere rapporti sessuali, di
tagliarsi i capelli e di intrecciarli, di lavarsi col sapone (Henry 1994: 140);
2. nolapo, termine che designa una specie di damigiana di vetro. In occasione della
cerimonia così chiamata, le donne effettuano infatti una ritirata nel santuario e
ognuna deve offrire cinque litri d’alcool di canna alle anziane (Henry 1994:
141);
3. nubir oloño, “onorare il re”: al termine di una ritirata nel santuario, le giovani
ragazze danzano sulla piazza del villaggio in onore del re. Quest’ultimo, messo
sotto la sua pergola, riceve le loro offerte: tabacco e alcool (Henry 1994: 141);
4. noramake nabe, “cominciare il cammino”: queste cerimonie si svolgono nel
corso dell’anno che precede l’iniziazione. Le ragazze vanno di villaggio in
villaggio per fare sapere che presto entreranno nel loro bosco sacro (Henry
1994: 143);
5. kañoke, “l’iniziazione”, comporta una reclusione in foresta, che dura circa sei
mesi. Ogni donna si è procurata un maiale che sarà sacrificato durante il rito.
Durante questo periodo le donne non sono maltrattate dalle loro anziane,
anche se sono obbligate a procurare loro il cibo e a cucinarlo. Contrariamente
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all’iniziazione degli uomini, della quale tutti parlano come di una prova
terrificante sulla quale grava l’ombra della morte, i pochi accenni che si
possono carpire alle donne tendono a presentare l’iniziazione femminile come
un periodo di abbondanza e di piacere consacrato alla danza e al canto, come il
momento, insomma, di una piacevole rottura con la vita quotidiana e le sue
preoccupazioni (Henry 1994: 144);
6. kapona, le donne escono dal bosco sacro e s’installano su un’area vicina al
villaggio chiamata kapona. La sera, le giovani ragazze vanno a danzare sulla
piazza del villaggio vestite con costumi maschili: un pantalone nero, una
camicia rossa e una cintura di conchiglie e campanelli. Sono allora considerate
come dei �abido (Henry 1994: 144);
7. noroydi nara, “bruciare il riparo”: nel momento di questa cerimonia viene
bruciata la capanna che le ragazze avevano costruito sulla kapona per abitarci.
Ormai le ragazze sono definitivamente reintegrate alla vita del villaggio e non
effettueranno più soggiorni in foresta (Henry 1994: 145).
Per quanto riguarda, quindi, le ricerche svolte da Henry, mi risulta impossibile
pronunciarmi, data la differente scelta del terreno. Inevitabilmente però, per le
motivazioni che la stessa autrice ha esposto e che noi abbiamo sopra riportato, la
sua indagine, riguardo alle cerimonie femminili, risulta limitata e poco
approfondita.
Scantamburlo, invece, come Gallois Duquette, ha svolto le sue ricerche sui
rituali femminili basandosi sulla sua esperienza a Bubaque: condividendo quindi
lo stesso terreno, diventa possibile il confronto. Innanzitutto, per quanto io non
abbia partecipato alla reclusione in foresta del ka�oke (canhoke, nella trascrizione
di Scantamburlo), mi sembra quantomeno poco verosimile che le donne, come
scrive l’autore, apprendano in questo periodo a lavorare i campi e a raccogliere i
molluschi e i frutti selvatici. In base alle mie ricerche, infatti, se una ragazza
affronta la prima cerimonia (kanunake) all’età di dieci anni, avrà all’incirca
trent’anni al momento del ritiro in foresta (ka�oke), età nella quale, in genere, una
donna non ignora più nulla dello svolgimento dei suoi compiti quotidiani. È
probabile, per contro, che, come gli uomini, le donne imparino a comprendere il
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linguaggio del tamburo sacro e a parlare la lingua delle iniziate. Inoltre
Scantamburlo sostiene che le donne possedute divengano �abido (camabi nella
trascrizione di Scantamburlo), solo dopo la reclusione del ka�oke. In base alle
mie indagini invece, mi sembra di poter affermare che le donne passino da �alo a
�abido nel momento chiamato appunto �ubir �abido, termine del quale
Scantamburlo non riporta la traduzione, e che, secondo i miei informatori,
significherebbe appunto “chiedere per avere un kabido” o “essere posseduto dai
�abido”, dato che l’espressione “�ubir orebok” viene utilizzata per designare lo
stato di possessione in generale (Pedro, 10 marzo 1997).
Gallois Duquette non prende nemmeno in considerazione il momento del
quale abbiamo appena parlato, il �ubir �abido, inglobandolo nel “grande fanado”
(Gallois Duquette 1983: 145). Il suo lavoro, molto dettagliato per quanto riguarda
la descrizione dei costumi e dei momenti pubblici del rituale (il capitolo si intitola
appunto “Contexte visuel et dialectique de l’initiation des femmes”), s’arresta di
fronte alle questioni “segrete”, non potendosi basare se non sul diario di padre
Formenti.
I Bijagó, come credo risulti ormai evidente, insistono molto sull’importanza del
L’infrazione della norma del “mantenere il segreto” comporta la morte di
entrambi gli interlocutori (confronta capitolo VI, nota 15): a coloro che ne
dubitano «le interrogazioni del morto vengono periodicamente a rinfrescare la
memoria» (Henry 1994: 142), in quanto spesso le morti improvvise vengono
spiegate come causate dall’infrazione di un segreto, in specie in presenza di un
etnografo curioso.
«Se ci si rivolge a una persona giovane, non iniziata questa vi risponderà che non sa niente,
che non ha la “forza” che le permetterebbe di sapere, e se ci si rivolge a un’anziana, vi
risponderà che è comunque pericoloso parlarne. […] Parlare [degli arebok] senza ragione, fuori
dai momenti ritualmente controllati, sarebbe mettere in movimento delle potenze di cui non
saprebbero controllare gli effetti» (Henry 1994: 88).
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Per questo motivo le donne iniziate devono astenersi dal parlare con le donne
non iniziate e, in particolar modo, con gli uomini: da qui forse l’utilizzo di un
linguaggio che è loro proprio e che non viene compreso dai non iniziati. Parlando
delle questioni “segrete”, infatti, le donne possedute utilizzano una parola per
esprimere il significato opposto, adottando
«un linguaggio speciale che comporta talvolta tutto un vocabolario sconosciuto o inconsueto
per la società generale; […] si tratta di un fenomeno dello stesso tipo del cambiamento di
costume, delle mutilazioni del corpo, dell’alimentazione speciale (tabù alimentari), di un
procedimento cioè di differenziazione assolutamente normale» (Van Gennep 1996: 148).
Anche Michel Leiris, occupandosi del culto degli zar, accenna all’uso, da parte
degli iniziati alla possessione, di una lingua speciale, costruita, come nel nostro
caso, da «espressioni non deformate, ma che hanno significato opposto a quello
che dovrebbero avere» (Leiris 1988: 21).
La condivisione di questo vocabolario speciale e dei segreti dell’iniziazione crea
un senso di solidarietà, attraverso il quale le donne si distinguono dagli uomini,
affermando se stesse e la propria diversità (Lincon 1983: 132). La divisione tra
uomini e donne è infatti sottolineata dalla distanza causata da questi segreti. Le
ragazze, durante l’iniziazione, apprendono un sapere capace di renderle partecipi
di due mondi - quello dei vivi e quello dei morti - e di due ambiti spaziali - il
villaggio e la foresta - , con la possibilità di accedere agli affari delle donne e a
quelli degli uomini, tramite gli spiriti che esse incarnano. Questo sapere, che dà
loro un così grande potere, deve essere custodito gelosamente e, soprattutto, non
divulgato agli uomini: l’insistenza sul segreto sottolinea quindi l’opposizione di
genere.
Ma se «parlare di iniziazione equivale quasi necessariamente a parlare di
segreto» (Rouget 1986: 69), è anche vero che «dove è fatta mostra di segretezza,
c'è la consapevolezza che ciò che così gelosamente viene custodito potrebbe
essere banale, o la segretezza una finzione generalmente mantenuta» (La Fontaine
1984: 15). Tra i Bijagó sembra che le cose stiano proprio in questo modo:
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Scantamburlo, che è stato ammesso alle iniziazioni maschili, mi ha raccontato che
«i segreti dell’iniziazione maschile sono fini a se stessi, non nascondono nulla
d’importante: l’importante è il fare mostra di segretezza di fronte alle donne e ai
non iniziati». Per quanto riguarda le cerimonie femminili alle quali ho partecipato,
non posso se non trovarmi d’accordo con Scantamburlo, anche perché mi sembra
di poter affermare che la stessa inviolabilità del segreto è una finzione: in realtà,
come spiegheremo più avanti parlando della figura dell’oum, le donne sanno ciò
che fanno gli uomini in foresta e viceversa. Scrive La Fontaine riguardo ai rituali
iniziatici delle Wogeo Islands (costa nord della Nuova Guinea):
«la finzione è presto smascherata in quanto nella loro iniziazione le donne mostrano di aver
conoscenza di ciò che è accaduto. Gli uomini sanno che le donne sanno e viceversa:
stratagemma e finzione accompagnano in modo inquietante le riflessioni sull'umanità» (La
Fontaine 1984: 127).
Allovio e Favole, commentando l’articolo di Jean-Claude Muller sui Dìì
dell’Adamawa (Nord Camerun), aggiungono che
«la finzione è presto smascherata: gli uomini sanno che le donne sanno e le donne sanno che
gli uomini sanno che esse sanno...» (Allovio, Favole 1996: 57).
In ogni caso, nonostante la finzione venga “smascherata” nei momenti del
ritiro iniziatico, che rappresentano una frattura rispetto al normale svolgimento
della vita quotidiana, al di là di questa “fase di riflessione” (Turner 1992: 137) tutti
si comportano fingendo di non essere a conoscenza di nulla, come «prigionieri
della finzione che mettono in scena» (Allovio, Favole 1996: 134). Per questa
ragione, affrontando il discorso delle cerimonie femminile, terrò fede ai
giuramenti effettuati durante la cerimonia di iniziazione alla possessione, il
kanunake, non parlando se non di ciò di cui mi è stato concesso parlare.
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2. Il kanunake: la prima fase delle cerimonie di possessione
L’unica descrizione, seppur vaga e frutto di un’osservazione esterna, del
kanunake, è quella trasmessaci da Gallois Duquette (1983: 141-146), basata sulla
ricostruzione di padre Formenti e tesa essenzialmente a dimostrare il valore
artistico del costume delle donne possedute. Dopo aver osservato che a Bubaque
il kanunake, che l’autrice chiama piccolo fanado (in effetti spesso le donne,
parlando in kriolo, lo definiscono fanadosiño), riunisce le ragazze sotto la tutela
della sacerdotessa nella baloba dos dufuntu (candja caorebok) per un periodo di tre
giorni, Gallois Duquette sposta l’attenzione al costume delle possedute,
chiudendo la precedente questione, in quanto «il segreto che circonda le loro
azioni è, se possibile, meglio rispettato che per quanto riguarda l’iniziazione
maschile, per cui nessuno può avvicinarsi alla baloba e meno ancora rivolgere la
parola alle postulanti» (Gallois Duquette 1983: 141).
L’autrice riporta essenzialmente tre caratteristiche distintive dello stato di
donna/dufuntu: la lunghezza e lo spessore della gonna (�o �orebok), l’insistente
presenza del rosso e del nero, colori caratteristici dell’Orebok Okotó - non
dimentichiamo che ora anche la donna è chiamata in bijagó “orebok” - , le
decorazioni di ocra rossa, carbone, olio di palma e conchiglie cauris181 (Ciprae
moneta) che ricoprono il suo cranio rasato (Gallois Duquette 1983: 141). Abbiamo
già accennato a questa pasta con la quale le dufuntu si ricoprono il capo - come i
neonati, i �aro al momento dell’entrata in foresta, i cadaveri prima della sepoltura
- e alla sua importanza come simbolo di un momento di passaggio (capitolo VII;
confronta figura 15 al termine del capitolo).
Gallois Duquette ritiene che questo sia il costume distintivo della dufuntu, della
donna posseduta, indipendentemente dalle tappe rituali percorse. Henry fa
proprie le osservazioni di Gallois Duquette, ma nota che «non tutte le giovani
ragazze sono vestite nello stesso modo, certe non portano le lunghe gonne che
181 La conchiglia cauris, già in uso come moneta in Sudan o in Mali nel XIV secolo, è al giorno d’oggi alle Bijagó un oggetto raro, di cui le dufuntu fanno largo uso per ornare i loro costumi (Gallois Duquette 1983: 141).
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caratterizzano le dufuntu182, ma degli abiti maschili molto decorati», deducendone,
nonostante «gli abitanti del villaggio rispondano che si tratta di un problema
d’età», che «forse, piuttosto, queste ultime non sono ancora possedute da un
morto» (Henry 1994: 141). In realtà, il costume descritto da Gallois Duquette è
usato dalla donna dufuntu solo finché il suo spirito possessore appartiene al grado
d’età karo, poiché quando, dopo il �ubir �abido, lo spirito diviene un kabido,
cambia, con il grado d’età, anche il suo costume e così anche all’uscita del periodo
di reclusione in foresta, quando diviene kassuká, come vedremo in seguito.
Il kanunake costituisce il primo scalino delle cerimonie dufuntu ed è una vera e
propria iniziazione alla possessione, in cui la donna apprende la danza degli arebok
ed esperisce per la prima volta la trance. Nelle parole dei miei interlocutori sul
campo, è il momento in cui, per la prima volta orebok oba183 okãnto, “lo spirito
possiede la donna” e in cui l’inizianda impara a oreme184 alo orebok, ossia a
“dialogare col suo spirito”. Come le affermazioni di Gallois Duquette e di Henry
hanno messo in evidenza, partecipare dei segreti della possessione, essere iniziate
al culto, diviene l’unica strada possibile per aver accesso a un dominio nomeké e
�oratoke koratakó, “segreto e sacro”.
Il desiderio di comprendere cosa effettivamente le donne dufuntu pensino di
stare facendo, il tentativo, per altro piuttosto utopico, di «vedere le cose dal punto
di vista dei nativi» (Geertz 1988: 74) e la necessità pratica di dover aprire un
canale di comunicazione con le donne possedute, mi portarono a cercare di
entrare nell’unico contesto in cui questa interazione poteva aver luogo, ossia nel
culto di possessione. Pur nella consapevolezza di non poter percepire ciò che
percepivano le mie interlocutrici e del rischio di entrare «in una sintonia di spirito
troppo stretta con i propri informatori», presa dalla «passione di lasciarmi
trascinare dal flusso della loro esperienza» (Geertz 1988: 74), l’interesse per
questo culto di possessione era diventato, per così dire, più che accademico,
182 In realtà Henry non utilizza il termine dufuntu, ma si riferisce alle donne possedute con l’espressione “les revenants”, i ritornanti, in riferimento (come anche per il termine dufuntu, defunto) agli spiriti possessori. 183 Noba è il verbo che si utilizza sia per significare il possesso su un oggetto sia nel senso di dominio rituale - quando si dice, per esempio: oro�o oba moto “il re possiede la terra”.
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personale. Volevo cioè in qualche misura condividere l’esperienza che cercavo di
comprendere, confluendo in questa comunità esclusivamente femminile, costruita
su una rete di relazioni di “parentela simbolica”, che crea un modello di società,
esclusivo, segreto, solidale, separato e in opposizione rispetto al mondo maschile.
Le donne possedute dagli arebok, infatti, stabiliscono tra loro relazioni intense
che rinforzano la loro unità e forza sociale. Il caso più esemplificativo, osservato
anche da Mendes Fernandes, è quello della “maternità simbolica”, ossia il fatto
che le madri dei ragazzi morti prima dell’iniziazione, si considerano madri delle
donne possedute dai loro figli (Mendes Fernandes 1995: 73). In virtù del
cambiamento di identità, implicito nel fenomeno della possessione, per il quale la
donna viene effettivamente considerata un uomo - «i Bijogó non parlano mai
“della defunto” ma sempre “del defunto”» (Gallois Duquette 1983: 154) - i genitori
del ragazzo morto accolgono nella loro casa la donna posseduta, come un figlio
ritrovato, chiamandolo «bambino mio amatissimo» e interessandosi «del suo
lavoro e prendendosi cura della sua salute» (Gallois Duquette 1983: 143).
Questa maternità simbolica è riaffermata nell’ambito cerimoniale da un insieme
di obblighi e diritti che una madre ha nei confronti del suo figlio orebok. Ogni
madre “simbolica”, essendo a sua volta passibile di essere posseduta in qualsiasi
momento dal suo orebok, è allo stesso tempo “figlio simbolico” di un’altra donna.
Gli stessi arebok, inoltre, riconoscono tra loro legami di parentela, per cui una
donna posseduta potrà dire di un’altra: “questo è mio fratello”. Si stabilisce in
questo modo una rete di relazioni di parentela che ha come risultato pratico un
rafforzamento delle interrelazioni e degli aiuti tra donne appartenenti a classi di
età differenti. Entrare a far parte di questa rete di relazioni mi avrebbe permesso
di stabilire, seppur limitatamente ai periodi di possessione, rapporti molto intimi
con le altre donne, sia nell’ambito del culto, sia, e particolarmente, con la mia
“madre simbolica”.
La mia richiesta di poter essere ammessa al rituale di possessione aveva
suscitato quanto meno un certo scalpore: gli uomini di Bijante si astenevano da
184 Noreme è il verbo che si impiega per esprimere il concetto di divinazione.
234
ogni commento, in quanto non era “un affare di uomini”, mentre le donne del
villaggio si erano divise in due fazioni: favorevoli e contrarie. Le discussioni e le
negoziazioni sembravano non dover avere fine, finché, grazie all’intervento della
donna più anziana di Bijante e della sorella di re Coia, la mia domanda fu accolta.
Questo fu l’inizio di un periodo di fermento al villaggio: la notizia passava di
bocca in bocca, le ragazze raccoglievano lingaron (frutti di mare), gli uomini in
foresta estraevano grandi quantità di vino di palma e, attraverso i villaggi, già la
novità era diventata un canto185:
Òroura una wa ba ����iok n’dè mata erogonu
Si dice che una bianca va al fanado, la notizia arriva [da Bijante]
Enhominka ne peda tan komba ku����oco ti ba ban orebok kanourora
Nhominka186 venite tutti dai tre villaggi187, per porre un defunto nella bianca
Bijante, 3 marzo 1997.
I preparativi per il mio kanunake sono quasi terminati e Julia, una donna della
classe d’età Nhominka, mi invita a seguirla nella sua casa al villaggio e a cambiarmi
d’abito. La mia situazione è, evidentemente, piuttosto originale e le donne hanno
escogitato uno stratagemma per riportare, nei limiti del possibile, l’eccezione alla
norma. Julia e Cami�o mi aiutano a liberarmi dai miei vestiti “occidentali” e dalle
scarpe, per farmi rapidamente indossare una gonna di paglia, una cinturina di
cauris e una maglietta colorata. Sul momento non capisco a che scopo mi abbiano
fatta cambiare, finché Julia mi spiega: «oggi ti vesti come una kampuni (ragazza)
bijagó e per tutti sei una ragazza del villaggio». Mi sembra una soluzione singolare
per attenuare la mia estraneità, in quanto l’essere una donna bianca “travestita” da
185 Sono disponibili le registrazioni di tutti i canti riportati nel capitolo. 186 I Bijagó, per nominare le classi d’età (capitolo VI, nota 1 e 2), cioè quei gruppi dei quali, una volta entrata, una persona resta membro per tutta la vita, utilizzano i nomi con i quali definiscono le altre etnie, come ad esempio proprio Nhominka (termine che designa un gruppo di pescatori senegalesi installati nell’arcipelago delle Bijagó) (Mendes Fernandes 1987: 58-94). 187 I villaggi in questione sono Ancadona, Bijante e Enen, che appartengono allo stesso gruppo di fanado.
235
bijagó a Bijante, a parer mio, costituiva un caso, oltre che insolito, piuttosto
spassoso. Ciò nonostante, quando esco dalla casa di Julia, nessuno sembra
accorgersi del mio cambiamento, nessuno ride, nessuno commenta, anzi, alcune
donne mi coinvolgono nella raccolta delle sterpi da bruciare.
Dopo aver trascorso al villaggio buona parte del giorno, un gruppo di donne
arriva dalla foresta cantando e battendo ritmicamente le mani: le attività
quotidiane si interrompono immediatamente. Sempre cantando formano un
cerchio intorno a me, nella piazza centrale del villaggio, come a volermi
nascondere dagli sguardi degli uomini; mi infilano dei bracciali di legno insieme a
diverse foglie di mango e una pesante campana intorno al collo, che mi ordinano
di suonare con forza: «devono sentirla in tutti i villaggi, devono sapere che una
kampune va nella foresta» (confronta figura 16, al termine del capitolo). Una delle
mie amiche mi presta un paio di ciabatte di plastica blu, perché «la strada è lunga,
il cammino difficile», mi dice. Il suo gesto non passa inosservato e, mentre vengo
letteralmente trascinata verso la foresta al ritmo dei tamburi, le anziane rimaste al
villaggio cantano:
udò ta ����assocop a nan ����uno, obatan “Basena” ubaka
lei indossa delle ciabatte nella foresta, se arriva “Basena”188 gliele toglie
Danzando al ritmo dei tamburi, in quest’occasione suonati dalle donne189
(confronta figura 17, al termine del capitolo), percorriamo un sentiero che,
attraverso la foresta, porta fino al mare, mentre alcune donne modulano il tipico
urlo della dufuntu, segno della sua nuova forza, del suo potere. Raggiungiamo il
mare, dove alcune donne mi lavano e iniziano a discutere cosa fare riguardo ai
188 È l’ocandegn’ di Bijante. Parleremo più avanti di questo officiante rituale. 189 Nel corso delle cerimonie dufuntu le ragazze sono autorizzate a suonare il tamburo. Questa particolarità, che distingue i Bijagó da tutte le etnie della Guinea continentale, si comprende ricordando che le dufuntu sono donne, ma possedute da esseri maschili, tant’è che, quando il ciclo iniziatico termina, non possono più suonare il tamburo. Lo strumento utilizzato dalle donne è il tamburo corto (iangaran eden�a), suonato anche dai giovani �aro e dai �abido. Questo tamburo, che si può vedere appeso nel santuario delle dufuntu tra i periodi rituali, è il solo che viene utilizzato dalle
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miei capelli. Secondo la tradizione, infatti, dopo avermi lavata, dovrebbero
rasarmi, come si fa d’altronde con i cadaveri, ma alcune anziane si mostrano
contrarie, perché le mie chiome sono uboga, gialle, e, secondo loro, è un peccato
tagliarle. Io non vengo consultata e quando provo a dire la mia, mi avvertono che
non ho diritto alla parola.
Decidono infine di non rasarmi i capelli, mi rivestono e ripartiamo correndo
verso il villaggio. Al confine tra la foresta e il villaggio, tra gli alberi di mango, le
donne, armate di bastoni, formano una galleria, sotto la quale devo passare per
raggiungere la piazza. L’intensità della punizione dipenderà dal mio
comportamento passato nei confronti degli anziani e delle altre donne del
villaggio. Fortunatamente me la cavo con poco, Julia cerca di proteggermi dai
colpi, ma le donne urlano verso gli uomini «ascoltate le sue urla, torna dalla
foresta». Una donna mi infila una corda intorno al collo trascinandomi nella candja
caorebok, mentre alcune ragazzine si occupano di chiuderne l’entrata con delle
stuoie in modo che niente possa trapelare. Lorenzo, seduto insieme agli uomini di
Bijante, inizia a dare segni di preoccupazione e a informarsi sul mio destino. Le
donne intonano:
Lorenço, s’eita ncoudon na rin mou ka ����ô òpani ����aba ����asonma
Lorenzo, tu non devi chiedere le cose del dufuntu, (le cose) di questa mattina
Vengo di nuovo spogliata e mi fanno sedere tra i due Orebok Okotó della candja
di Etuato, Cungaran e Sidammà, accanto alla sacerdotessa. Mi impongono una
posizione piuttosto scomoda, con le gambe molto tese e i piedi a martello e sono
sempre pronte e intervenire quando, con indifferenza, cerco di muovermi. Julia
porta poi una ciotola di riso e me ne fa mangiare qualche pugno, imboccandomi,
poiché non mi è permesso muovermi. Il riso è stato cucinato in modo particolare,
senza sale e olio di palma, ma con molluschi decisamente inusuali nella cucina
donne. Per contro le donne sono le sole a suonare le zucche, sulle quali battono con le dita tese o con un bastoncino.
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quotidiana. Le altre donne mangiano a parte, insieme, cibo norede, ordinario, riso
bollito, salato e condito con l’olio di palma e il pesce. Vengono poi portate delle
zucche piene di vino di palma e alcune bottiglie di cana (acquavite di canna da
zucchero), che, dopo avermi fatto bere, le partecipanti alla cerimonia dividono tra
loro. Allora tutte iniziano a suonare i ritmi dufuntu e a cantare per «chiamare un
defunto che possa entrare nel mio corpo».
Iakanto naribikan nô orebok, ò còna n’����iguen, kampuni kokè n’����iguen ai-ou:
òna n’n����iguen
Le donne conversano con i defunti, perché li conoscono, le ragazze non li conoscono: è
meglio conoscerli
Una donna mi mostra come danzare il dufuntu: il busto è reclinato in avanti, i
piedi battono il suolo rapidamente, brandisce una piccola ascia di legno e si
protegge con uno scudo, il viso fermo, l’aria concentrata come se stesse contando
i passi (confronta figure 18 e 19, al termine del capitolo). Questa danza «sembra
essere estremamente studiata, benché la ballerina non sia obbligata a eseguire
alcun passo determinato» (Gallois Duquette 1983: 150). La danza delle dufuntu,
che serve a richiamare gli arebok, non assomiglia affatto alla danza ordinaria delle
ragazze, al cundere: se infatti le ragazze generalmente danzano formando un
cerchio, il corpo rivolto verso la ragazza accanto, come a volerla seguire e quasi
toccandola, le donne dufuntu danzano una per volta o, se in gruppo,
indipendentemente le une dalle altre, tenendosi a distanza e mostrando gli
attributi marziali, per manifestare la loro virile bellicosità (confronta figure 20, 21
e 22, al termine del capitolo)190. Inoltre, mi spiega la mia “insegnante”, ogni
danzatrice può introdurre delle particolarità nella sua prestazione, che saranno
considerate come le manifestazioni singolari del defunto che la possiede.
190 Sono state effettuate videoregistrazioni, per un totale di novanta minuti, delle danze femminili bijagó (sia dufuntu che cundere), in modo da poter documentare, con un approccio visuale e sonoro, gli aspetti performativi di questa cultura.
238
Inizio allora a danzare, accompagnata dal ritmo dei tamburi, ora lento, ora
frenetico, nel buio della candja caorebok. Non posso fermarmi, mi spiega la
sacerdotessa: è nella danza che il defunto prenderà possesso del mio corpo.
Alcune donne mi asciugano il sudore, mentre altre mi accostano una ciotola di
vino di palma alla bocca, affinché io possa dissetarmi. Tutte iniziano a urlare
«Etuato!» (il nome del santuario) ritmicamente, come a incoraggiarmi, mentre il
ritmo incalza e la sacerdotessa mi incita a danzare con più forza, brandendo le
armi con aggressività. L’accellerarsi del tempo va di pari passo con l’intensificarsi
del suono, anche perché le percussioniste mi accerchiano: una di loro si tiene
vicina a me e non mi abbandona, segue i miei movimenti, accelera il tempo, lo
rallenta, adegua l’intensità del suono in un continuo crescendo: vengo spronata da
tutte a mantenere il ritmo, finché, per il vino, il caldo, la tensione, la danza, inizio
a sentirmi male. Un’anziana urla Orebok madak! , “anima danza!” e le altre mi si
fanno intorno dicendomi dufuntu i na bin, il defunto è arrivato, balla ancora, fallo
entrare.
La sacerdotessa finalmente mi invita a sedermi «bin, sinta, descansa», “vieni,
siediti, riposa” e, mentre gentilmente Cami�o mi deterge il sudore, le donne del
villaggio sfilano di fronte a me, salutandomi e chiedendo il mio nuovo nome.
L’okinka mi suggerisce cosa rispondere; alcune mi chiedono di portare messaggi ai
loro morti. Infine la sacerdotessa si alza e ordina alle adepte di vestirmi, perché il
mio orebok deve uscire nel villaggio. Indosso allora la pesante gonna caratteristica
del mio nuovo stato, un panno annodato sopra il seno, delle stoffe ad adornare le
braccia, un copricapo e delle cavigliere tintinnanti. Come aveva scritto
Scantamburlo, un officiante rituale uccide una gallina e ne lascia gocciolare il
sangue sui miei piedi, come si fa per inaugurare una nuova scultura
rappresentante Orebok Okotó, forse perché entrambi ora portiamo nel nostro
ventre dei defunti, entrambi siamo degli orebok191.
Prima di uscire sulla piazza del villaggio la sacerdotessa mi dà alcuni consigli:
«non ridere, tieni il volto inespressivo, non guardare Lorenzo, non parlare e, se
191 Anche la puerpera viene lavata con le foglie della pianta usata per consacrare le statue dello spirito Orebok (Scantamburlo 1991: 59).
239
senti pronunciare il tuo nome, non ti voltare». Le donne escono dal santuario e si
siedono formando un semicerchio. Ricominciano le musiche e i canti, mentre le
anziane mi accompagnano danzando verso lo spiazzo centrale. I canti delle
dufuntu sono armoniosi e le melodie varie, benché siano animate da uno stesso
principio, essendo tutti canti antifonici (cantati cioè da una solista e un coro in
alternanza). Mentre nei canti degli uomini vengono intonati assoli molto lunghi,
inventati dallo stesso cantante e interrotti da scoppi di risa, i canti delle donne
sono più regolari, specialmente quelli utilizzati durante i rituali di possessione. Le
ragazze possedute si esprimono quasi esclusivamente attraverso il canto: le loro
canzoni dipingono le gesta dell’orebok che le possiede, raccontando le sue
avventure alla pesca, alla guerra o le sue conquiste amorose.
Aì, nabanme è tourebok n’na turè
Hai, mi avete messo dentro un defunto
Cantano le donne, mentre la madre del ragazzo morto, rivolgendosi al figlio
defunto, intona:
Orebok, n’codon n’wenni, ����unte ka medewe n’ne wenni, kanti mi na bei, orebok,
kanti mi djan ancaden
Defunto, non mi castigare più, poiché mi hai già castigata, perché non mi tagli i capelli,
defunto, e non coltivi il riso per me
Riprendo a danzare pubblicamente la danza delle anime che mi hanno
insegnato nel santuario, mentre la gente che si è raccolta al villaggio acclama
«orebok, orebok». «È l’orebok che fa muovere il suo corpo», dichiara una anziana,
mentre gli altri assentono. Il fatto che sia un defunto a far muovere il mio corpo,
rende immediatamente e pubblicamente evidente il mio stato di possessione. Il
suono ritmico e ripetitivo dei tamburi guida la danza, le musiciste ripetono un
240
ritmo chiamato �um �arebok, “ritmo delle anime”, quasi a voler suggerire che in
quel momento io stia ballando spinta da un impulso esterno. Attraverso la danza
che mi hanno insegnato cerco di mettere in scena il mio orebok, con le sue
caratteristiche e prerogative. Se gli elementi marziali che stringo tra le mani e
brandisco minacciosa, mostrano che sono ormai un essere virile, la mia pesante
saia (gonna di paglia) è un chiaro simbolo di femminilità: i principi “maschile” e
“femminile”, l’uno aggressivo, l’altro di fecondità, l’uno di morte, l’altro di vita,
sono illustrati attraverso la danza, con un linguaggio efficace e suggestivo
(confronta figura 23, al termine del capitolo). Il canto delle adepte al culto,
guidate dalla mia “madre simbolica”, sottolinea ai presenti il mio nuovo stato:
Chiara ����obe orebok, ����onan ����ocouton, open npennan ����og, ����onan ����ocouton.
Chiara massaba����i, ����ou ����o orebok. Ndjoun, ����obè kadjabanne ka na te ����ona ta
banme orebok ka nô òrora; ����o sena ����ate tan ����abù ����ona nban te mecan ����og.
Chiara è posseduta da un defunto, è una cosa grande, mia figlia si sforza, perché è una
cosa grande.
Chiara ora ha un segreto, ed è cosa di defunto. Guarda, la gente sorride perché noi
abbiamo posto un defunto in una bianca; con nostra grande gioia, tu conosci il segreto.
Continuano a farmi bere durante le danze, finché rischio di perdere i sensi e
vengo riportata nel santuario. «È il dufuntu, si sta male quando entra»; mi tolgono
il costume rituale e mi lavano con foga dicendomi: «facciamo uscire il dufuntu, ora
tu odjé �adjoko, vedi il mondo di nuovo»192. Mi insaponano massaggiandomi a
lungo, come massaggiano i neonati con l’olio di palma, e mi dicono: «ora sei come
una bambina, sei morbida». Mi hanno temprato, modellato, travestito per
diventare un uomo, un orebok, e ora riprendono a trasformarmi in una donna,
plasmando il mio corpo come si fa con i bambini.
192 «È cospargendole d’acqua che la sacerdotessa liberava, alla fine di diversi giorni, le anime dei defunti e metteva fine alla possessione» (Gallois Duquette 1983: 144).
241
Mi avvolgono, infine, in un panno e mi invitano a stendermi su una stuoia.
Allora alcune anziane mi chiedono di confessare se ho già conosciuto
intimamente un uomo o se ho mai avuto dei bambini. La tradizione vorrebbe che
le ragazze arrivassero vergini al kanunake, per quanto gli autori portoghesi abbiano
sempre insistito sulla estrema libertà sessuale delle ragazze bijagó (Carreira e
Quintino 1964: 240). La verginità in realtà non ha, nel pensiero bijagó, valore in
sé, se non quando viene legata al fatto di non essere incinta durante le cerimonie
di possessione. Dalle analisi della dottoressa Oliveira De Sousa, possessione e
gestazione simultanee presentano una contraddizione alla quale le donne non
sanno far fronte: durante il periodo rituale, la donna dufuntu diviene infatti un
uomo, ne adotta la personalità, il nome e anche il genere. Ella non può, dunque,
né essere incinta né nutrire i suoi bambini. Così, usando metodi efficaci e
accessibili, le gravidanze precoci, ma soprattutto quelle durante i periodi di
possessione, finiscono per diventare morti interuterine (Oliveira 1995: 81-82).
Durante il kanunake, infatti, le donne adulte insegnano alle ragazze come
utilizzare le piante abortive, di cui si fa un discreto uso nell’arcipelago, per quanto
non se ne parli mai pubblicamente193: foglie di econto erado, da bere in decotto con
zucchero - secondo Gallois Duquette dovrebbe trattarsi del kinkeliba (Combretum
micratum), una tisana diuretica molto conosciuta presso i Fula (Gallois Duquette
1983: 143) - o la buccia del mango bollita con i frutti della palma da olio, secondo
il djambacosse di Ancamona.
Una delle donne, contraria fin dall’inizio al mio ingresso nel gruppo delle
dufuntu, propone allora di fare la prova con il munte, con fare minaccioso. Avevo
letto qualcosa di questa pratica in Gallois Duquette (1983: 152), in alcuni autori
269) e in un lavoro dattiloscritto di Celestino Neto Santiago (1991), un uomo di
etnia pepel, sposato con una bijagó di Bubaque. Questi autori parlavano di una
deflorazione artificiale tramite uno strumento di legno (amunte o munte), pur
ammettendo che «il segreto sulle cerimonie delle ragazze è di un tale rigore che
193 «La conoscenza riguardante le piante abortive è generalmente segreta o poco divulgata ed è spesso una prerogativa esclusivamente femminile» (Riggouzo 1993: 94).
242
non credo che qualcuno sia in grado di affermare che una donna o un’altra gli ha
fatto simili confidenze, anche parzialmente» (Santos Lima 1947: 97).
Inizia allora una disputa tra le donne; alcune letteralmente si accapigliano. Io
sono, in tutta onestà, quanto meno preoccupata. Cerco di non mostrare la mia
paura, perché Julia mi aveva avvertito che si cerca sempre di spaventare le
iniziande, per vedere fin dove arriva il loro coraggio e la loro forza e, suppongo,
per provocare nella donna, tramite umiliazioni e mortificazioni, l’aggressività del
guerriero che andrà a incarnare. Nonostante che stiano facendo, probabilmente,
solo una messa in scena per spaventarmi, devo dire che ci stanno riuscendo
benissimo. Mentre mi sforzo di trattenere le lacrime e maledico la mia ricerca e
l’idea assurda di fare il kanunake, incontro lo sguardo dolce e comprensivo di
Nton, la donna più anziana di Bijante, che ha per me un occhio di riguardo e che
con un sorriso mi sussurra: «non faranno nulla, ti vogliono solo spaventare, tra
poco torni a casa». Non saprei dire se è stato il momento, la suggestione o il vino
di palma, ma mi sembrava parlasse con la voce di mia madre.
3. Il ����ubir ����abido
Koca ����abido, nete n’kumqui tan cono ca manras, tame entunqué,194 e qui nio����i!
Ane, ����abido, niongongog, tan cono ka niago, tame entunqué, e qui nio����i!
Poveri �abido, voi vi alzate e gridate durante il fanado, dentro la piroga, state zitti!
Voi, �abido, senza controllo, fate troppo rumore vicino alla capanna iniziatica, dentro la
piroga, state zitti!
Come abbiamo visto nel precedente paragrafo, solo Scantamburlo accenna a
questo momento delle cerimonie dufuntu, che definisce come «il periodo anteriore
alla reclusione in foresta, in cui le donne ricevono un nuovo nome»
243
(Scantamburlo 1991: 83). Dal mio canto, non avendo ancora compiuto questo
passaggio, devo alla collaborazione delle anziane di Bijante, le uniche persone che,
volendo, possono affrontare questi temi al di fuori dell’ambito iniziatico, le
notizie raccolte su questa cerimonia. Il giorno seguente al mio kanunake, infatti, le
anziane mi hanno convocato nella candja caorebok per darmi il “consiglio”, un
insieme di regole morali per il buon vivere nella società. Dopo avermi istruita sul
comportamento da tenere nei confronti delle mie superiori (rispetto al grado e alla
classe d’età) e avermi insegnato il saluto distintivo delle iniziate, grazie al quale è
possibile riconoscersi immediatamente pur provenendo da villaggi diversi, si
offrono, sollecitate dalla mia curiosità, di rispondere ad alcune delle mie
domande.
Innanzitutto pongo loro un quesito rimasto finora irrisolto: se tutte le ragazze
di un villaggio devono essere possedute, ciascuna da un orebok differente (quello
di un bambino morto nel villaggio), bisognerebbe che siano morti altrettanti
bambini quante sono le ragazze. Ciò significa, secondo i calcoli di Henry, che
dovrebbe nascere il doppio degli uomini a confronto delle donne e che dovrebbe
morire quasi la metà dei bambini maschi (Henry 1994: 109-110). Per ragioni
evidenti, il meccanismo non può essere questo. Tuttavia, la possessione delle
donne pone un problema di ordine demografico. Non solo, infatti, tutte le
ragazze devono essere possedute, ma non dobbiamo dimenticare che non tutti gli
arebok dei bambini morti sono suscettibili di questa forma di ritorno: gli arebok dei
bambini morti nella prima infanzia, ad esempio, sono considerati ritornare
automaticamente in un al di là, che essi avevano appena lasciato e venire al
mondo in occasione di una nuova nascita. Henry, analizzando la situazione della
classe Apuduta di Inorei, osserva che la morte del primo bambino “ritornante”
della classe risale al 1961 e l’ultima al 1983 e che quindi sono serviti più di
vent’anni, affinché le ventisei donne che compongono questa classe fossero tutte
possedute (Henry 1994: 110).
194 Il termine entunqué viene usato raramente per designare la piroga da guerra, comunemente chiamata uruté.
244
L’anziana Nton, invece, mi spiega che, poiché l’età in cui gli uomini fanno il
fanado è piuttosto elevata (ci sono uomini che compiono il ritiro in foresta a
cinquant’anni, conferma Pedro195), sono passibili di possedere una donna tutti gli
uomini morti prima di questo momento. Alla luce di questa precisazione
innanzitutto diventa poco corretto parlare, come fa Henry, di bambini, e, in
secondo luogo, il numero degli arebok degli uomini morti, che possono ritornare,
aumenta considerevolmente. Se la norma è questa, non mancano le eccezioni:
spesso, almeno a Bubaque, alcune donne vengono possedute da uomini morti
addirittura nelle guerre di indipendenza dal dominio coloniale, uomini dei quali,
quindi, solo i più anziani conservano il ricordo. Con questo voglio dire che nella
pratica le regole sono molto più elastiche che nella teoria, come possiamo vedere
nel caso esemplificativo, che mi accingo a esporre.
Inaçia è una ragazza originaria di Angumba, nell’isola di Canhabaque, ma dalla
più tenera infanzia vive a Bijante, nella casa di sua nonna materna. Secondo le
regole dettate dalla tradizione, Inaçia avrebbe dovuto prendere in carica un orebok
del suo villaggio, o quanto meno della sua isola di origine, ma la nonna ha insistito
affinché la nipote, cresciuta a Bijante e considerata oramai alla stregua di una
autoctona, facesse a Bubaque le cerimonie dufuntu. I parenti di Canhabaque danno
il loro consenso e Inaçia viene iniziata alla possessione nella candja di Ancorete (il
santuario della parte bassa di Bijante), accogliendo nel suo corpo un defunto del
villaggio. Il caso vuole che una sua sorella di Canhabaque, sposatasi con un uomo
di Bissau e trasferitasi nella capitale, decida di non voler aver più nulla a che fare
con le “superstizioni” bijagó e rifiuti di fare il dufuntu. La sua decisione provoca
un certo scalpore: questo rifiuto inaspettato, effettivamente inusuale, pone la
famiglia di Inaçia in una situazione di crisi. La nonna, molto rispettata per la sua
saggezza, escogita una soluzione per porre riparo al problema proponendo che
Inaçia, come avrebbe già dovuto fare se avesse seguito le regole, sostituisca sua
sorella e segua le cerimonie di Canhabaque, prendendo in carica un ragazzo
195 Scantamburlo e i miei informatori sottolineano che l’ultima iniziazione maschile a Bubaque è avvenuta nel 1977. Oggi, quindi, ci sono dei �aro, come M’beni, che devono ancora fare il fanado ed hanno già più di trent’anni.
245
morto di Angumba. Oggi Inaçia ha un defunto karo a Bubaque e uno kabido a
Canhabaque e segue le sorti di entrambi, compiendo due differenti percorsi
iniziatici, in due diverse isole.
Se nella pratica non esistono vere e proprie regole da rispettare per decidere da
chi le donne debbano essere possedute, è comunque condivisa l’idea che siano i
defunti stessi a scegliere la donna che andranno a possedere. «Poiché il più grande
segreto circonda i rituali femminili» Henry ignora in quale modo gli arebok
eleggano le giovani donne che essi possederanno (Henry 1994: 140). I ricercatori
che hanno lavorato a Bubaque, danno al proposito informazioni contraddittorie:
Scantamburlo sostiene che sia la madre del ragazzo morto a riconoscere il suo
figlio defunto nel corpo della donna e, quindi, a identificarlo (1991: 84), mentre
secondo Gallois Duquette questa attribuzione deriva da un accordo preciso tra la
madre del morto e la madre della ragazza. Entrambi gli autori insistono inoltre sul
fatto che il morto e la ragazza debbano essere dello stesso clan, mentre i risultati
delle mie ricerche concordano con Henry nel mettere in luce che nella realtà «è
lontano dall’essere sempre così», poiché, per quanto effettivamente si possa
pensare che questa costituisca la situazione ideale, tuttavia «le ristrettezze
demografiche pesano sul sistema, non permettendo che raramente di rispettarlo»
(Henry 1994: 140).
Le anziane con le quali discuto di questi temi, sottolineano con insistenza, al di
là dell’identità dell’orebok e della sua attribuzione alla donna, che in realtà «tutto è
nelle mani della sacerdotessa, è lei che decide, perché sa trattare con i morti» ed è
lei che si occupa di controllare, come si può comprendere dal racconto del mio
kanunake, la disposizione psicologica dell’inizianda. Se infatti è sufficiente
“gettare” i karo nella foresta sacra, affinché siano pronti a essere iniziati, non può
andare nello stesso modo per le donne: la loro possessione richiede una
In particolare l’okinka deve essere presente nel difficile momento del �ubir
�abido, il secondo passaggio delle cerimonie dufuntu, in cui le donne possedute, le
arebok, come solo Scantamburlo ha posto in luce, ricevono un nuovo nome
(Scantamburlo 1991: 84). Nel corso di questa cerimonia, che prevede un periodo
246
di reclusione in foresta di circa due settimane, infatti, le donne possedute ricevano
i loro nomi di fanado - Ompané, Oramia, Nemapa e così via - prima di aver fatto
effettivamente il fanado (ka�oke). Dice un’anziana:
«����ubir ����abido i significa cuma alguin ki baiba dja fanado, ma na parte di minjer i ka
kil là: pa minjer i ta bai là i ta fasi kil sirmonia di ����ubir ����abido i ta tissi nome di fanado,
i ta tissi, ma i ka bai inda fanado. Dufuntu i ta tene nome suma omi odja ki bai fanado,
ma i ka bai inda fanado»
«il �ubir �abido significa che qualcuno è già andato al fanado, ma per le donne non è così: per
le donne vai là e fai la cerimonia del �ubir �abido e prendi il nome di fanado, lo prendi, ma non
sei ancora andata al fanado. La dufuntu ha il nome di un uomo che è già andato al fanado, ma non
è ancora andata».
Il termine �abido, plurale di kabido, che, riferito agli uomini, definisce il gruppo
d’età che ha già superato il periodo di reclusione in foresta (capitolo VI, tabella 6),
«kil grandi ki bai djà fanado», “quello grande che è già andato al fanado”, nei riguardi
delle donne dufuntu, pare, quindi, venga attribuito prima dell’iniziazione vera e
propria. Durante la notte le dufuntu karo entrano nella foresta e raggiungono
l’amunú, il centro sacro della reclusione iniziatica, mentre le madri dei ragazzi
morti si preparano a seguire il �ubir �abido dei loro figli (mamè di cada filho i na
prepara pabia si filho i na fasi �ubir �abido).
Il segreto che circonda questa cerimonia mette in crisi molte delle ipotesi che
sono state avanzate per interpretare la possessione delle donne bijagó, in
particolare quelle di Henry. Le sue ricerche sulle cerimonie femminili, infatti, la
portano a considerare la possessione come appannaggio esclusivo delle donne,
trovando in questa esclusività la ragione dell’effettivo prestigio di cui queste
godono nell’arcipelago. Henry parla, infatti, di due modi di comunicazione col
divino, basati sulla differenza di genere: un modo diretto, la possessione,
prerogativa esclusivamente femminile, e un modo indiretto, il culto reso ai feticci,
proprio degli uomini (Henry 1994: 99-100). Basandosi su questa sua ipotesi,
Henry arriva a sostenere che «è impossibile pensare la natura degli arebuko senza
porci la questione della differenza tra i sessi: ciò che le donne vivono in una
247
relazione d’essere, gli uomini la vivono in una relazione d’avere» (Henry 1994:
103).
Le mie ricerche smentiscono le ipotesi di Henry, in quanto il senso del �ubir
�abido delle donne è da ricercarsi in un importante momento del fanado degli
uomini: la possessione. Un informatore, che mi ha esplicitamente chiesto di
rimanere anonimo, mi ha spiegato che il fulcro dell’iniziazione maschile è
l’attribuzione dei nomi del fanado, momento in cui vengono attribuiti agli iniziandi
i nomi dei figli delle quattro antenate mitiche, trasmessi attraverso le generazioni
(Gallois Duquette 1983: 114). L’imposizione del nuovo nome, che segna per il
ragazzo il cambiamento del gruppo d’età (da karo a kabido), causa soprattutto
un’altra trasformazione nell’iniziando, in quanto il suo corpo viene posseduto dal
suo antenato più prossimo, cui fu assegnato lo stesso nome196. Questa
possessione costituisce un legame tra tutti gli uomini, al di là del mutamento insito
nel passare del tempo, creando uno spazio astorico che unisce nel presente gli
antenati mitici, figli delle quattro donne che hanno fondato la società bijagó, e le
future generazioni. Non a caso, questo momento in cui la società si riproduce
avviene nella cornice della foresta, spazio al di là della storia, teatro della
ripetizione dell’identico (Pogue Harrison 1992: 21, 28)197. Il sapere di tutti i tempi
passati, che il ragazzo posseduto incarna, gli sarà d’aiuto per superare le difficili
prove che l’attendono e costituirà un passo fondamentale per la sua maturazione
personale.
Ma cosa succede dal lato delle donne? Nel corso della cerimonia del �ubir
�abido, al momento dell’assegnazione dei nomi, il defunto che la donna incarna
vivrà la stessa esperienza degli uomini vivi, per cui il corpo della donna, se così si
può dire, diviene il teatro di una doppia possessione. Con le parole del mio
informatore, la donna ha «un aumento di arebok». La donna sarà infatti posseduta
dall’orebok del ragazzo morto, a sua volta posseduto da un antenato prossimo con
196 Alcuni autori portoghesi hanno cercato di comprendere il significato di questi nomi, per quanto spesso siano giunti a risultati discordanti. Secondo Carreira e Quintino, ad esempio, Banca, il nome di Pedro, significherebbe “colui che evita il disordine”, Ompané “colui che ha fortuna” e così via (Carreira e Quintino 1964: 283). 197 Confronta capitolo III, paragrafo 4.
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lo stesso nome di fanado, che contemporaneamente incarna tutti coloro che
portarono lo stesso nome, fino agli antenati mitici.
All’uscita dalla foresta la donna indossa un nuovo costume, costituito da una
gonna di stoffa colorata e decorata con specchietti e bijoux di vario genere (�andè
kandì kebate kabido), una maglietta e il cappello di stoffa degli homem grandi, degli
anziani, e danza dufuntu nella piazza del villaggio, mentre i giovani karo suonano i
loro ritmi.
4. Il ka����oke
Quelle, sgombrando dalle ciglia il fiore / greve del sonno, sorsero d’un balzo, / ordinate e composte, meraviglia /
a vederle, e giovani e vecchie / e vergini che ancora non conobbero / il giogo. […] E quante erano / madri da
poco e a cui, lasciati i pargoli, / turgeva ancora il seno, chi un cerbiatto, / tenendo tra le braccia, ed altre i
cuccioli / selvatici dei lupi / li nutrivano / col loro latte bianco. Euripide, Le Baccanti (Terzo
Episodio, 1° messaggero)
Secondo Scantamburlo (1991: 84) e in base a quanto mi è stato riferito dai miei
informatori, il ka�oke, l’iniziazione, comporta, anche per le donne, un periodo di
reclusione in foresta di circa sei mesi. La classe d’età Nhominca, cui appartengo,
dovrebbe attraversare questo importante passaggio il prossimo anno, nel periodo
della stagione secca, ma gli anziani, sotto la direzione del re Coia e delle
sacerdotesse, stanno ancora decidendo. Il segreto in relazione a questo periodo
rituale è molto rispettato e le anziane generalmente si sono limitate a consigliarmi
di frenare la mia curiosità fino al tempo del fanado, cui potrò partecipare
unitamente agli altri membri della mia classe d’età.
Al richiamo del tamburo sacro, le attività del villaggio cessano e le donne
abbandonano il loro lavoro e la loro famiglia per ritirarsi nella foresta. I loro figli
non le rivedranno che da lì a sei mesi e nel frattempo verranno allevati da altre
donne del villaggio. La mascolinizzazione della personalità delle donne possedute
e l’esilio in foresta non sono, infatti, compatibili con lo status di giovani madri. I
bambini risentono duramente di questo lungo distacco, spesso piangono «mamè i
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ka na sta mas», “la mamma non c’è più” e le nonne rispondono «i bida dufuntu», “è
diventata un defunto”.
Oliveira de Sousa, durante le sue indagini mediche, ha notato una correlazione
tra il periodo di possessione e l’aumento della mortalità infantile (1995: 83), in
quanto spesso le madri, entrando nella foresta, sono costrette ad abbandonare i
neonati durante il periodo dell’allattamento e non sempre vi è un’altra donna
disposta a prenderli al seno. Ma le dufuntu sono esseri virili; in loro, come abbiamo
visto, si è compiuta una inversione di genere, che comporta anche uno
spostamento nello spazio: sono come uomini, possedute da esseri della foresta e
alla foresta esse devono tornare. Lasciano, quindi, gli abiti femminili, la famiglia, i
loro compiti quotidiani, le abitazioni umane, lo spazio strutturato e organizzato
del villaggio, per passare al regno del disordine, dell’ambiguità e dell’alterità
rappresentato dalla foresta. Come donna rappresentava il ricordo, la tradizione, il
“dentro”, la sicurezza di un mondo in cui esistono delle regole e sul quale
vegliano gli antenati e lo spirito buono Orebok Okotó. Diventando un uomo, la
dufuntu abbandona tutto ciò che la lega al suo genere precedente, in primo luogo i
figli, per affrontare la foresta. Come potrebbe d’altronde, osserva Gallois
Duquette (1983: 144), portare due esseri nello stesso corpo?
Le poche persone abilitate a parlare del manras arebok, l’iniziazione delle donne,
sono i suoi più importanti protagonisti: l’okinka, l’oro�o, l’orase, l’oum e l’ocandegn’.
Questi però sono anche i personaggi più fedeli alla tradizione e i meno disposti a
raccontare le questioni dell’an’oka, della foresta, a vanvera. Della sacerdotessa
okinka e del re oro�o abbiamo già parlato precedentemente; vedremo ora quindi
chi sono le altre importanti figure dell’ambito iniziatico femminile.
4. 1. L’orase
«Orase i omi ki ta suporta tudu», “l’orase è un uomo che sopporta tutto”. Questa
definizione, proposta scherzosamente da Tetè, l’oum, o suonatore del tamburo
250
sacro, di Bijante, dipinge perfettamente la principale caratteristica di questo
officiante rituale.
Potremmo definire l’orase il “factotum” delle donne; i miei informatori
traducono “orase” con il termine “prigioniero”198. Quando si cerca di sapere quale
privilegio permetta a quest’uomo, che non è né il re, né il suonatore del tamburo
sacro, di penetrare nell’ambito iniziatico femminile, la risposta mette sempre in
rilievo l’utilità e la forza fisica dell’individuo. Come i ragazzi durante la loro
iniziazione, le donne rimarranno nella foresta all’incirca sei mesi: avranno quindi
bisogno di un uomo disposto a svolgere i lavori più pesanti, come bruciare le
sterpaglie del sottobosco nella radura della capanna iniziatica, disboscare i sentieri
che vi conducono, tagliare il legno per le capanne che vi saranno costruite, salire
sulle palme e gettare la rete per la pesca. L’orase sarà anche un utile messaggero tra
il villaggio e le donne isolate in foresta.
La scelta dell’orase cade, quindi, sempre su un uomo che abbia dimostrato forza
e abilità nello svolgimento dei principali compiti maschili quotidiani, serietà,
ponderatezza, discrezione e soprattutto pieno controllo di sé (Scantamburlo mi fa
presente che le donne in foresta, come anche gli uomini, sono nude): per questi
motivi un karo, con la sua virile impetuosità e immaturità, non potrà mai essere
scelto come orase. Saranno preferiti quindi gli uomini adulti, per quanto non
troppo anziani, che abbiano già fatto il fanado: la scelta dell’orase ricade, in genere,
sui kassuká.
Secondo il parere di un orase dell’isola di Bubaque, questo è un ruolo che
conferisce prestigio, ma che è molto difficile da svolgere: innanzitutto costringe
gli uomini a ritirarsi un’altra volta nella foresta e a lavorare duramente per le
donne, trascurando così la famiglia e i compiti quotidiani, senz’altro più redditizi.
Inoltre essi sono tra i pochi (con l’oro�o, l’okinka e l’oum) a conoscere sia i segreti
degli uomini sia quelli delle donne, ma di questa responsabilità si mostrano più
inquieti che fieri. Parlare dei segreti delle donne li farebbe morire, e farebbe
198 Roger Bastide (1978: 48) ha rimarcato che ogni culto di possessione comporta la presenza di persone “non passibili di possessione”, chiamati “ prigionieri” tra i Songhay, “schiavi” tra i Fon o “servitori” tra gli Hausa (Henry 1994: 142).
251
morire i loro interlocutori, per cui sicuramente gli orase risentono
psicologicamente delle minacce che gravano sulla loro testa.
Sottolinea la sgradevolezza di questo compito una cerimonia chiamata «arebok
iabbak otó anami orase», cioè letteralmente “i defunti vengono a prendere uno
affinché sia orase” in cui le dufuntu mettono in scena un vero e proprio rapimento.
Le donne possedute, infatti, arrivano di sorpresa al villaggio formando un gruppo
compatto (confronta figura 24, al termine del capitolo). Accerchiano quindi la
casa del predestinato e cercano di rapirlo. L’uomo oppone resistenza con forza,
aiutato da tutta la sua famiglia, ma le dufuntu avranno la meglio e lo trascineranno
con loro al di fuori della vita normale del villaggio, scomparendo nella foresta.
4. 2. L’ocandegn’ e l’oum
Gli autori che hanno svolto le loro ricerche nell’arcipelago, hanno trascurato
l’importanza di questi due personaggi rituali, non parlando addirittura del primo e
accennando solo marginalmente al secondo. L’ocandegn’ è un individuo (maschio o
femmina a seconda dell’ambito iniziatico) scelto dagli anziani a capo di ogni classe
d’età, il cui compito consiste nel controllare lo svolgimento del fanado,
nell’organizzare le varie cerimonie della sua classe d’età e nel mantenere la
concordia e la pace tra i membri del gruppo iniziatico, i quali si rivolgeranno a lui
per ogni problema. Il suo è quindi un incarico di responsabilità: la scelta degli
anziani dovrà ricadere sul giovane che saprà ispirare maggiore fiducia, il più
moderato e al contempo il più capace e forte, di modo che sia in grado di
guadagnarsi il rispetto dei suoi compagni.
L’oum invece è il suonatore del kumbonki, il tamburo sacro di legno, chiamato
in kriolo bombolon. Abbiamo già accennato alla sua importanza parlando
dell’interrogazione del morto e del choro, ma è necessario ricordare che è richiesta
la sua presenza in tutte le cerimonie importanti del villaggio. Riguardo
all’iniziazione, l’oum ha libero accesso sia a quella maschile, sia a quella femminile,
in quanto l’insegnamento fondamentale che viene impartito agli iniziandi di ambo
i sessi è il comprendere il senso del linguaggio del tamburo. Chi non è stato
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iniziato, quindi, non può comprendere i messaggi che il grande tamburo di legno
trasmette di villaggio in villaggio. Poiché l’oum può partecipare a entrambe le
reclusioni iniziatiche in foresta, riveste un importante ruolo di connessione tra i
due distinti ambiti. Come abbiamo accennato nel primo paragrafo, questo
officiante non solo custodisce i segreti degli uomini e delle donne, ma, da quanto
mi è stato detto sul campo, gli è permesso rivelarli. Uno dei momenti più
importanti di ciascuna iniziazione, infatti, pare sia proprio la conoscenza di ciò
che gli altri nascondono, per quanto nessuno lo ammetta se non nei momenti di
frattura rispetto al normale corso della vita quotidiana.
Si può rintracciare un nesso, sulla scia di Lattas, tra i riti di iniziazione e lo
svelamento delle illusioni e dei segreti (Lattas 1996: 155). Nello spazio riflessivo
del rito, infatti, gli iniziandi divengono consapevoli del fatto che, nella maggior
parte dei casi, il segreto consiste nella simulazione del possesso di qualche realtà,
piuttosto che nel “vero” possesso di qualche “reale” verità (Lattas 1996: 156).
Ciò nonostante apprendono anche che è importante mantenere un «ambito
riservato di significato privilegiato» (Lattas 1996: 156), tramite un processo di
occultamento che crei l’effetto che quei contenuti esistano. Realtà e invenzione
non sono opposti che si escludono a vicenda, come nella nostra ontologia della
verità, ma due domini interdipendenti di significato (Lattas 1996: 141). La stessa
iniziazione nasce da una “invenzione” per creare ordine all’interno della società,
attraverso la condivisione di segreti e il giuramento di fedeltà reciproca. Alla base
della società, al cuore della realtà ordinata, si trova dunque un’invenzione umana,
un patto segreto, un accordo, un “giuramento”, come la terminologia indigena
suggerisce: l’iniziazione viene infatti definita anche manras, ossia “il patto
originario”, il “giuramento”. La condivisione dei segreti, la promessa di celarli, la
convenzione originaria che si trova alla base della società costituiscono un grande
«fattore di coagulo, di integrazione e di solidificazione di un Noi» (Remotti 1993b:
109). La finzione e la manipolazione dei segreti nascono quindi dall’esigenza di
produrre e salvaguardare l’identità sociale. «Se il re è il presidente dell’iniziazione,
il tocador di bombolon, l’oum, è il suo primo ministro, quello che davvero decide
tutto, il legislatore. L’oum conosce come è stata creata la società ed è l’unico che lo
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può spiegare», mi dice Pedro, spiegandomi l’onore che Tetè mi ha concesso,
�abido sentite raccontare di Orakuma199, è un discorso che viene trasmesso dal tamburo
sacro
ouquei ancana cube, n’gueni kumbonki
segui il cammino, ascolta il tamburo sacro
Sulla presenza dell’oum e dell’oro�o nell’ambito iniziatico femminile, gli uomini
dicono molto: Gallois Duquette, basandosi sui suoi informatori, racconta che le
ragazze nella foresta sono obbligate ad avere relazioni sessuali con questi due
personaggi rituali, e che «morirebbero, se rifiutassero» (Gallois Duquette 1983:
152). Scantamburlo, invece, in una nostra conversazione privata, ha sostenuto di
non aver mai sentito parlare di queste usurpazioni. Dal mio canto devo dire che
molti informatori mi hanno raccontato di questo diritto del re e del suonatore del
tamburo sacro ad aver rapporti sessuali con le iniziande: secondo Gallois
Duquette, ricorda un mito bijagó dell’origine del mondo che associa Dio e la
prima donna in una unione fecondatrice (1983: 153). Avendo fatto il kanunake e
in virtù della mia amicizia con le anziane di Bijante, con Tetè e con re Coia,
assiduo frequentatore della mia casa (e dei miei spaghetti), ho chiesto loro di
spiegarmi cosa in realtà succeda nella foresta, ma questa è una delle cose che non
mi è stato concesso divulgare.
199 Orakuma è la più anziana delle quattro antenate mitiche, che costituì il clan della regalità e della religione.
254
5. Il kabido asenghé o djaghi djaghi corebok
Uscite dalla foresta, le dufuntu vestono pantaloni da uomo e il loro corpo è
coperto di foglie di palma, come anche gli uomini al momento della loro uscita
dal periodo di reclusione nel bosco sacro: sono infatti diventati entrambi �abido.
La sera, le donne possedute vanno a danzare sulla piazza del villaggio: il momento
saliente dell’esibizione è l’entrata in scena di una maschera, chiamata, come le
donne e gli uomini iniziati, kabido.
Questo personaggio, detto anche kabido asenghé o djaghi djaghi corebok, è l’orebok
di un ragazzo morto prima di aver terminato le cerimonie iniziatiche, che non si è
reincarnato in una donna, ma è ritornato al villaggio con il suo corpo (Henry
1994: 145). Secondo Chicu e Pedro, questo essere, che si manifesta come un
corpo ricoperto di foglie di palma secche e che non appare pubblicamente se non
in quella occasione, è annunciato con un suono di campanelli che terrorizza gli
appartenenti al villaggio, i quali fuggono a chiudersi nelle loro case. È un oshó, una
potenza malefica e pericolosa associata alla foresta: incontrarlo, vederlo,
comporterebbe la morte.
Questo kabido particolare, secondo Henry, è l’orebok di un ragazzo che
apparteneva al clan padrone della terra. Esso è legato a una classe femminile, ma
non è iniziato da essa. Soltanto quando sarà creata una nuova classe questo kabido
cadrà nel gruppo degli arebok ordinari, possederà una giovane donna della nuova
classe e sarà iniziato attraverso lei (Henry 1994: 101-102). A Bubaque, da quanto
ho potuto constatare personalmente, ogni villaggio possiede il suo kabido asenghé e
se il villaggio, come Bijante, è diviso in due parti, allora ci saranno due �abido,
legati alle rispettive candja caorebok. Quest’entità, legata alla classe femminile in
esercizio, possederà una donna della classe seguente e sarà iniziato da essa, mentre
la nuova classe sceglierà un nuovo kabido.
Gli abitanti di Bijante dicono che il termine kabido, oltre che ai ragazzi iniziati e
alle dufuntu dal �ubir �abido in poi, si riferisce in generale ai morti che ritornano. Si
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potrebbe ritenere che questo termine venga applicato ai ragazzi appena iniziati,
perché essi “ritornano” dalla “morte” iniziatica. Come abbiamo visto
precedentemente (capitolo III, paragrafo 6 e capitolo VI, tabella 6), l’iniziazione,
fase di un rituale più vasto chiamato �ubir kusina, non trasforma immediatamente
i novizi in uomini completi. I �aro accedono solo a un altro grado d’età, quello
dei �abido, caratterizzato da isolamento, continenza sessuale, duro lavoro: gli
iniziati infatti non godono ancora dei loro diritti di uomini completi, come la
paternità legale e l’accesso alla terra (capitolo VI, tabella 10). Il kabido, morto alla
sua precedente vita di karo impetuoso e virile, non è ancora un kassuká, in pieno
possesso dei suoi diritti. C’è dunque un’omologia tra l’orebok di un morto non
iniziato e un nuovo iniziato, in quanto, come abbiamo posto in luce nel terzo
capitolo, sono due esseri che errano nella foresta, in una fase intermedia della loro
esistenza.
L’identità del kabido è uno dei segreti dell’iniziazione maschile, comparabile,
pur trattandosi di contesti etnografici molto distanti, al tambaran maschile Varku,
di cui si è occupato Andrew Lattas nel corso delle sue ricerche nella Nuova
Britannia Occidentale. Il tambaran Varku è un essere mostruoso, prodotto in
modo illusorio dagli uomini durante i rituali di iniziazione; gli uomini stessi
considerano il tambaran un trucco, una menzogna, una finzione «reiterata
periodicamente per terrorizzare i non iniziati» (Allovio, Favole 1996: 131). Come
il tambaran Varku, anche il kabido asenghé è però una finzione capace di incidere in
modo determinante sulla realtà sociale e culturale. In entrambi i casi, non è
importante la loro effettiva realtà: «la cosa importante è che uomini e donne si
comportino come se Varku esistesse» (Allovio, Favole 1996: 132).
Suppongo che i Bijagó si rendano conto (forse non i bambini, ma con certezza
gli adulti e in specie le donne che lo portano in scena) che il kabido asenghé, lo
spirito senza il corpo, è una finzione che le iniziande dipingono come realtà. Ciò
nonostante, alla sua apparizione si risponde culturalmente come se fosse reale:
fuggono infatti anche le donne che, nel segreto del ritiro iniziatico, smontano e
banalizzano l’inganno.
256
La sua apparizione minacciosa al villaggio, che terrorizza uomini, donne e
bambini, celebra ancora una volta il potere femminile di trasformare forze
pericolose della foresta (gli oshó) in entità benefiche (gli arebok). Dopo la gioiosa
entrata al villaggio, al termine del ritiro iniziatico, delle donne possedute dai
�abido, che si esibiscono in danze nella piazza centrale, cui tutti assistono con
piacere, appare quest’essere, uguale in tutto e per tutto alle prime (anche loro
coperte di foglie di palma secche) e che si chiama con il loro stesso nome (kabido),
ma che possiede una terribile forza mortifera. Solo l’okinka, posseduta da un
orebok okotó, grande, potente, può avvicinare quest’essere e ricacciarlo in foresta.
Il kabido asenghé sembra voler ricordare al villaggio l’importanza del compito
delle donne, che controllano le potenze della foresta proteggendo il villaggio,
esaltando proprio la figura femminile più importante e più intimamente legata alla
tradizione e al cuore della società200: solo l’okinka riesce infatti ad allontanare un
essere che ucciderebbe chiunque con un solo sguardo. La gente uscirà dalle case
solo quando la sacerdotessa li avvertirà dello scampato pericolo. Tutti allora
andranno a ringraziarla.
La possibilità di riportare alla vita i ragazzi morti prima dell’iniziazione,
ristabilendo così l’equilibrio tra il mondo dei vivi e il regno dei morti e
permettendo il flusso degli arebok, che garantisce il continuare della vita, e la
capacità di proteggere il villaggio dalle forze pericolose che dimorano nella
foresta, sono senza dubbio una fonte di potere importante per le donne bijagó.
Sembra tuttavia che questo potere scaturisca da finzioni: il kabido asenghé è una
illusione, un inganno messo in atto dalle donne per sottolineare la loro
importanza e il loro potere nella società. Eppure, nonostante che molti aspetti
delle cerimonie dufuntu siano semplicemente finzioni, invenzioni arbitrarie, si
tratta di finzioni capaci di creare effettivi cambiamenti nella realtà, sia a livello
sociale, sia da un punto di vista psicologico, come vedremo nel prossimo capitolo.
200 Come è stato messo in evidenza nel quarto capitolo, l’okinka è simbolizzata dall’albero del fondatore del villaggio, che si trova nella piazza centrale ed è uno dei punti fondamentali attorno al quale si organizza lo spazio (capitolo IV.5).
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Capitolo IX
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La possessione dufuntu: interpretazioni
1. Pedro come Lewis: la possessione è ciò che la possessione fa201
Dopo aver vissuto l’esperienza del kanunake e aver assistito, in quanto iniziata,
alla stessa cerimonia nel villaggio di Anhimango202 (21 marzo 1997) cercando di
leggere i significati incorporati nelle azioni, mi trovavo nella situazione di dover
“tradurre” le interpretazioni indigene della possessione. Questo tentativo di
traduzione si presentava come un movimento tra il “dentro” e il “fuori”, tra il
“vicino” e il “lontano”, rivelando l’aspetto fondamentale della conoscenza, ossia
la necessità dell’esteriorità rispetto all’oggetto, l’esigenza del distanziamento.
Dovevo compiere la delicata operazione di cogliere concetti “vicini
all’esperienza”, per le donne possedute, collocandoli in connessione con concetti
“distanti dall’esperienza”, costruiti dai teorici del rituale (Geertz 1988: 74). Se da
un lato temevo di poter rimanere intrappolata, imprigionata nell’immediatezza del
linguaggio comune, dall’altro cercavo di non dimostrarmi sorda alle voci indigene
e alle tonalità peculiari del rituale, in modo da non ottenere, parafrasando Geertz,
un’etnografia della possessione scritta da una posseduta, né “scritta da un
geometra” (Geertz 1988: 73).
Nell’incapacità di sentire ciò che le azioni sociali, in questo caso le cerimonie di
possessione, “dicevano”, attraverso l’uso dei simboli, nel momento stesso in cui si
verificavano, mi rivolsi, come sempre, al mio amico e principale informatore
Pedro Banca. Come abbiamo già accennato, non solo Pedro ha approfondito le
sue conoscenze, dedicandosi a diverse letture che gli hanno permesso di
201 “Per quel che vale, il mio modesto slogan nel presente contesto è che, in misura significativa, la possessione è ciò che la possessione fa” (Lewis 1971: 28). 202 Mi è stato possibile filmare la parte pubblica del kanunake di Anhimango. È quindi disponibile la videocassetta, per una eventuale visione.
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sviluppare un notevole grado di obiettività riguardo a diversi aspetti della sua
cultura, ma ha anche avuto occasione di esperire un distanziamento concreto
(oltre a quello, potremmo dire, “concettuale”) dalla società bijagó, in occasione di
un suo soggiorno in Italia. Queste esperienze, unite alla sua prontezza intellettuale
e alla sua grande curiosità, lo hanno portato a interrogarsi sulla sua cultura, sul
significato di credenze e cerimonie, e a formulare alcune personali interpretazioni,
che mi hanno aiutata a vedere le cose, se non proprio “dal punto di vista dei
nativi” (Geertz 1988: 71), quanto meno da una diversa prospettiva.
Riguardo al dufuntu, Pedro aveva formulato un’interpretazione, per altro
condivisa da altri uomini con i quali ho affrontato questo argomento, che vedeva
la possessione come un mezzo, tramite il quale le donne potevano richiamare
l’attenzione e ottenere ciò che, nel dominio del quotidiano, veniva loro negato.
Non dobbiamo dimenticare che, come abbiamo sottolineato in precedenza, le
dufuntu godono di un grande potere: sono loro dovuti rispetto e devozione e nulla
si può loro negare. Di questa posizione di autorità, secondo Pedro e gli altri miei
informatori, sembra che le donne tendano ad approfittare in diversi modi:
esigono cibo, vino, tabacco e, nell’isola di Bubaque, in cui stanno avvenendo
rapide trasformazioni e in cui è possibile effettuare scambi commerciali con
Bissau, le richieste tendono a diventare sempre più pesanti. La possessione dufuntu
diventa così, agli occhi degli uomini, l’occasione in cui le donne, attraverso gli
spiriti che incarnano, possono ottenere vestiti, scarpe, bijoux e alimenti “sabi”,
saporiti, golosi, come i biscotti, la maionese, il cioccolato.
Durante il dufuntu inoltre, poiché le donne possedute dagli arebok vengono
considerate uomini, i mariti non possono avere rapporti sessuali con loro, né
tanto meno picchiarle, alzare la voce o mancare loro in qualche modo di rispetto.
“È un bene - osserva il giovane Okanti, non senza una punta di ironia - che le
donne, anche al termine del ka�oke, vengano possedute episodicamente dal loro
orebok”. Come hanno sottolineato Scantamburlo e Gallois Duquette, infatti, fino
al raggiungimento della vecchiaia, le donne, almeno una volta all’anno, saranno
ripossedute dallo stesso spirito: lasceranno allora la loro casa e la famiglia, per
andare a dormire nel santuario, dopo aver trascorso la giornata in giro per i
260
villaggi, partecipando a tutte le cerimonie che hanno in qualche modo a che fare
con il mondo degli spiriti (interrogazione del morto, choro, intronizzazione e
decesso del re e della okinka, consacrazione delle sculture del grande spirito)
Queste ripossessioni, per quanto le donne sostengano di non poterle
prevedere, hanno, in linea di massima, un andamento periodico che coincide con i
momenti dell’anno in cui le relazioni sociali si fanno più intense, per sparire nei
periodi in cui la stagione o le contingenze economiche intralciano i rapporti
interpersonali. Le donne divengono arebok quando i lavori non sono troppo
coinvolgenti e quando regna l’abbondanza, in genere nella stagione secca (in
quanto la stagione delle piogge vede i villaggi svuotarsi, poiché spesso i campi di
riso sono in isole disabitate203): risulta evidente, quindi, il legame della possessione
con la vita sociale.
Il rispetto dovuto comunque alla donna - in virtù della sua fondamentale
importanza biosociale, perché “i padi nu, i no mamè”, ossia “ci ha partoriti, è nostra
madre”, con le parole di Pedro - aumenta nel momento della possessione dufuntu.
Come la minacciosa apparizione del kabido asenghé sottolinea pubblicamente, la
donna, grazie al suo potere di dare la vita, permette infatti a un essere
potenzialmente pericoloso di ritrovare la pace, trasformandolo in una entità
benefica. Questo “contropotere mistico”, quindi, secondo i miei informatori,
sembra conferire alle donne, escluse dalla gestione del potere politico (sia nelle
società patrilineari sia in quelle matrilineari, contrariamente alle affermazioni degli
autori portoghesi, che hanno descritto la società bijagó come un “matriarcato”
204), l’occasione di modificare il loro status sociale e di raggiungere un grado
inusitato di autorità nella gestione del rituale.
L’interpretazione che Pedro offre delle cerimonie dufuntu non può non
richiamare alla mente la teoria della possessione elaborata da Ioan Lewis (1971),
che egli deriva essenzialmente dal suo lavoro sul campo tra i pastori somali
dell’Africa nord-orientale. Secondo questa teoria, persone in “situazioni
203 Confronta capitolo III, paragrafo 2. 204 Astrie 1886; Carvalho Viegas 1936; Mendes Moreira 1946; Santos Lima 1946; Bernatzik 1967.
261
periferiche” (come le donne in società dominate da uomini, o gli uomini oppressi
e discriminati), sono afflitte da “spiriti periferici”, ossia spiriti che non hanno un
ruolo diretto nel sostenere il codice morale della società (Lewis 1972: 24-25).
Lewis suggerisce che questi spiriti vengano usati come “strategie aggressive
indirette” (1972: 25) per ricevere attenzione, fare rimostranze e ottenere
concessioni dai superiori. “Nel suo stato di possessione - scrive infatti l’autore - il
paziente è una persona altamente privilegiata: gli sono permesse molte libertà con
coloro che, in altre circostanze, deve trattare con rispetto” (1972: 25). Sulla stessa
linea di pensiero, quindi, Pedro e Lewis, sostengono che la possessione faccia gli
interessi di coloro i quali diversamente, non avrebbero mezzi efficaci per ottenere
attenzione e rispetto (1972: 25).
In definitiva, la teoria propostaci da Pedro e Lewis sembra propendere per una
concezione della possessione che la identifica, e la riduce, all'espressione del
disagio fisico e sociale. Secondo Lewis, infatti, l'esperienza mistica, come ogni
altra esperienza, è radicata nell'ambiente sociale in cui è ottenuta e con esso deve
venire messa in relazione: l'antropologo, quindi, non solo può studiare il modo in
cui le differenti società concettualizzano e trattano l'estasi, ma può addirittura
esplorare il modo in cui l'uso fatto dell'esperienza estatica varia con il variare delle
condizioni sociali in cui ha luogo.
Molte prospettive teoriche hanno attribuito grande importanza all'associazione
della possessione con la malattia, la sofferenza e il disagio fisico e sociale (Beattie
e Middleton 1969; Lewis 1971; Douglas 1979). Lo stesso Lewis, ripercorrendo la
letteratura etnografica sull’argomento, mette in evidenza come la possessione
tenda sempre a manifestarsi inizialmente sotto forma di malattia. Anche la
possessione dufuntu sembra presentarsi, almeno all’inizio, sotto forma di malattia:
“È il dufuntu, si sta male quando entra”, mi dicevano le donne nel santuario.
L’esperienza vissuta nel kanunake, nel momento in cui per la prima volta l’orebok
prende possesso del corpo della giovane inizianda, per quanto ho potuto
constatare confrontandomi con le altre adepte, è sempre connotata da una
concreta e profonda sofferenza. Scrive al proposito Scantamburlo: “la relazione
con l’anima di un morto è vista dai membri del villaggio e soprattutto dalle donne,
262
come una sofferenza necessaria ed è considerata un’esperienza pericolosa”
(Scantamburlo 1991: 82).
Se la possessione dufuntu sembra presentarsi, quanto meno inizialmente, sotto
forma di malattia, non si tratta però di un disagio che “richiede una cura” (Lewis
1972: 25): indagini più approfondite mostrano che questa sofferenza è invece
cercata, in quanto necessaria per consentire la profonda trasformazione della
donna posseduta, che non solo le permette di accedere a un potere superiore, ma
coinvolge la sua stessa personalità. La sofferenza provata durante la possessione
deve, quindi, essere manifestata, messa in scena, di fronte all’intero villaggio, in
modo da sottolineare la dolorosa trasformazione avvenuta nella donna.
Trattando il contesto delle cerimonie dufuntu sembra essere, dunque,
opportuno abbandonare gli approcci epidemiologici, per rivolgersi piuttosto a
strumenti concettuali che consentano di comprendere gli aspetti espressivi della
possessione.
2. Dufuntu i na fasi teatro: la metafora teatrale
Per descrivere la fase iniziale della possessione, le donne parlano in genere di
“visioni” e di “ombre” che sono loro apparse in sogno o nella veglia, durante la
giornata. Queste apparizioni spaventano molto le donne, tant’è che, come
descrive Gallois Duquette, spesso “accade che una donna che era innocentemente
occupata nel suo lavoro si metta improvvisamente a gridare e a correre” (1983:
140). Dopo l’incontro con queste misteriose presenze, le donne non ricordano
più nulla di ciò che facevano poco prima; sono “come in un altro mondo:
ricordano solo di aver visto un’ombra attraversare la stanza, dopo di che il loro
corpo comincia a indebolirsi e la coscienza a svanire gradualmente”
(Scantamburlo 1991: 82).
Alfred Métraux (1958) e Michel Leiris (1958), i quali hanno inaugurato una
nuova strada per comprendere il significato della possessione, proponendo
263
strumenti concettuali in grado di valorizzarne gli aspetti "performativi", si sono
soffermati sul significato dello stato di dissociazione e di amnesia, in cui i
posseduti dichiarano di trovarsi. Entrambi, infatti, hanno asserito che quei
fenomeni che noi definiamo comunemente amnesia e isteria, assumono significati
completamente diversi all'interno del loro specifico contesto culturale,
anticipando così la tesi fondante delle recenti ricerche etnopsichiatriche (Nathan
1986, 1988, 1993; Gaboriau 1993).
Le categorie con cui siamo soliti definire questo tipo di fenomeni parrebbero
rivelarsi, quindi, inadeguate e fuorvianti. La cosa più importante sembra dunque
essere non tanto sapere se convenga o meno far entrare la possessione in questa o
quella categoria della nosografia occidentale contemporanea, quanto sapere in
quale categoria la collochino i Bijagó stessi all'interno del loro pensiero205. La
possessione vodu, afferma infatti Métraux, “non può essere spiegata in puri termini
di psicopatologia” (1971: 136) e Leiris, dal suo canto, conviene che è più
plausibile “spiegare con la vanità e il puro gusto per le smargiassate quanto
altrimenti si sarebbe tentati di attribuire a una vera turba mentale, la
megalomania” (1988: 20).
“Allo stato attuale delle nostre conoscenze la possessione da parte di zar è definibile sia
come spettacolo nel senso proprio della parola, e cioè come pretesto di canti e danze pubbliche;
sia come teatrale per quanto vi è di stereotipato nelle forme fissate dal rituale, e soprattutto,
perché vi interviene un gruppo di personalità immaginarie, con tratti prefissati, che il malato può
rappresentare oggettivamente, a volte perfino servendosi di attrezzi o di accessori speciali, che,
come una maschera, sottolineano la sparizione di chi li porta dietro l’entità da lui incarnata”
(Leiris 1988: 10-11).
L’osservazione di Leiris sembra adattarsi molto bene al contesto rituale della
cerimonia dufuntu, della quale non si deve ignorare l'elemento di intrattenimento
205 Georges Lapassade riprende lo stesso punto, sostenendo che “non abbiamo da decidere, noi che siamo gli osservatori di queste trance, se tale trance, o tale rituale deve essere compreso in termini di possessione o altrimenti. Noi dobbiamo, al contrario, ogni volta che sarà necessario, ristabilire il significato di queste pratiche tale quale è descritto dai membri di un certo contesto di credenze, di rappresentazioni sociali e di pratiche ritualizzate” (Lapassade 1990: 29)
264
offerto da canti, danze e dai festeggiamenti che solitamente li accompagnano,
molto graditi ai partecipanti. La riunione di molte persone in occasione delle
cerimonie dufuntu, permette ad amici e parenti di incontrarsi, di intrattenersi
piacevolmente, di chiacchierare. Queste grandi feste sono inoltre, come per il caso
del choro, motivo di orgoglio per tutto il villaggio.
Le dufuntu indossano un vero e proprio “costume di scena”, indispensabile per
mostrare pubblicamente il raggiungimento del nuovo stato di orebok, che è, come
si può vedere dalle immagini riportate, veramente molto coreografico. Vengono
utilizzati inoltre dalle dufuntu tutti gli ornamenti più spettacolari che riescono a
procurarsi, grandi ombrelli colorati, foulard variopinti, occhiali da sole, copricapi
vistosi, o addirittura tubi al neon luminosi (Henry 1994; Kipp 1994; vedi figure 25
e 26 al termine del capitolo). Nel santuario, come presumo capiti dietro le quinte
prima di uno spettacolo a teatro, le donne si preparano con grande cura,
indossando, oltre al costume, cavigliere, bracciali, campanelli, tutto ciò che può,
insomma, tintinnare durante la danza e si cospargono di borotalco (si immagina
che gli spiriti dei morti siano bianchi, come abbiamo visto nella nota 2 del
precedente capitolo). Non a caso l’espressione kriola utilizzata per contrassegnare
lo stato di donna posseduta è “bu na bisti dufuntu”, “tu vesti il defunto”, come se
effettivamente la possessione coincidesse con una maschera, un costume da
indossare.
“L’ingresso dell'iniziato in trance evoca l'ingresso a un ballo in maschera,
intriso com'è del senso dello spettacolo e della rappresentazione. Sono esperienze
"artificiali", create da persone e rappresentate in un modo, posto e tempo scelto
da coloro che dirigono la messa in scena” (Leiris 1988: 22). “Non contribuisce,
infatti, il mascherarsi a cancellare la persona travestita, il cui proprio io si dissolve
nello spirito del morto o dell’antenato reincarnato?” si chiede Claude Calame
(1991: 160). Posseduta dallo spirito, la dufuntu ha ormai perduto la sua personalità
umana: “non è più lei”, dicono al villaggio, si è interamente identificata con
l’essere che il costume che indossa rappresenta. Contiguità, identificazione,
possessione, alienazione: è questo il percorso che conduce, attraverso e dentro la
maschera, dal “se stesso” all’“altro” (Calame 1991: 161).
265
Prima di uscire sulla scena, mentre le possedute controllano che la gonna sia
ben allacciata e che il copricapo non rischi di cadere nella foga della danza, le
anziane - come è riportato nel racconto del mio kanunake e come ho potuto
constatare nel corso delle cerimonie dufuntu di Anhimango - danno gli ultimi
preziosi consigli alle iniziande: “non voltarti verso le persone della tua famiglia,
non ridere, danza con forza, sei un orebok ora!”. La descrizione del “dietro le
quinte” delle cerimonie dufuntu, richiama alla memoria un racconto riportato in
una lettera di un etnomusicologo del Benin residente a Parigi, citata da Gilbert
Rouget:
“io, che non conosco nessuno ad Allada, ero andato un po' in giro. Una porta di canne
semichiusa e centro di grandi andirivieni, attirò la mia curiosità. Entrai. Erano né più né meno le
quinte! Sai che Sakpatasi206 le indossano gonne molto strette in vita. Due di loro le stavano
accomodando, indaffaratissime ad annodare i cordoncini che le chiudono, e ancheggiavano per
vedere se la gonna reggeva. Più in là, una donna, anch’essa palesemente una fedele del vodun, si
faceva bella, aiutata da una compagna che le porgeva uno specchio. Mi ero molto divertito.
Avevo visto raramente il rovescio della scena e come ci si prepara ad entrarvi. Avevo scoperto
che le grandi cerimonie per i vodun sono spettacoli che richiedono tutta una preparazione e un
lavoro di quinte, e in questo frangente gli adepti che s'accingono ad entrare in trance e ad essere
posseduti dai loro dèi si comportano così come si comportano altrove gli attori di teatro”
(Rouget 1986: 331-336).
Non bisogna inoltre dimenticare che la possessione dufuntu è raggiunta
attraverso la danza ed è tramite la danza che viene manifestata pubblicamente.
Non solo, ma nel corso di queste danze pubbliche, le possedute mimano i gesti
dei loro ritornanti, dando loro un carattere e una singolarità: “ogni ragazza
realizza una danza specifica in accordo con il desiderio dell'anima che ha in sé”
(Scantamburlo 1991: 84). Questa affermazione di Scantamburlo richiama la
“divisa musicale”, di cui parla Rouget, cercando di comprendere il collegamento
tra la musica e l’induzione della trance. “La musica, se opera - sostiene infatti
l’autore - è in quanto divisa, in altre parole, in quanto segnale” (1986: 281) e più
206 Sakpatasi: le spose di Sakpata, dio della terra e del vaiolo (Rouget 1986: 336).
266
avanti: “la divisa musicale ha una parte fondamentale nella possessione: […] il
potere significante di tale segno è particolarmente ampio, poiché interessa insieme
lo spirito e il corpo, l'intelligenza e la sensibilità, la facoltà di ideazione e il
movimento” (1986: 141). Aria o divisa, quindi, si tratta di un messaggio musicale
che ha un notevole impatto psicologico sul soggetto di cui si prepara la caduta in
trance. La possessione, conclude l’autore con una affermazione che ben si adatta
anche alla possessione dufuntu, consiste per lo più nel danzare al suono della
musica della divinità possedente, oppure, se si è in più di uno a essere posseduti,
al suono di una musica che corrisponde collettivamente a tutte le divinità presenti
(Rouget 1986: 433).
Che la danza abbia una fondamentale importanza nel contesto della
possessione dufuntu è testimoniato, oltre che dal fatto che, in definitiva, la
reclusione nel santuario, come abbiamo visto, serve a imparare il ballo delle
anime, dal divieto assoluto di mimarne i passi al di fuori dei periodi di
possessione. Scrive ancora l’etnomusicologo del Benin:
“A costruire la particolarità dell'opera e ad avvicinarla strettamente ad una cerimonia - stavo
per dire a uno spettacolo - di vodun, è il rapporto con la musica. […] In entrambi i casi, è infatti
la musica a organizzare la rappresentazione, a conferirle la sua struttura, a regolarne lo sviluppo,
a dettarne i movimenti, a far alternare i momenti di tensione e di distensione. La differenza
sostanziale, dal punto di vista del rapporto con la musica, sta palesemente nel fatto che in una
cerimonia di vodun i posseduti danzano e non cantano, mentre all'opera gli attori - stavo per
dire i posseduti - cantano e non danzano; oppure che l'attore del vodun incarna il suo
personaggio danzandolo, mentre l'attore d'opera lo incarna cantandolo” (Rouget 1986: 331-
336).
Queste osservazioni ci portano a non concepire esclusivamente la possessione
come sofferenza: essa, infatti, mette in scena degli spettacoli piuttosto piacevoli.
Vi sono addirittura, nelle cerimonie dufuntu, alcune pratiche, il cui fine principale
sembra essere semplicemente quello di divertire il pubblico, ad esempio brevi
scene parodistiche, che talvolta le donne possedute improvvisano, portando in
scena le caratteristiche comiche del defunto che incarnano (come i difetti fisici o
267
le abitudini divertenti), in modo da ridestarne il ricordo nel pubblico, dipingendo
proprio le sue qualità distintive più memorabili. Nel pensiero bijagó, non è la
donna che agisce, ma lo spirito, la presenza aliena. Lo spirito, quindi, attraverso la
donna, proclama la sua identità: rivela caratteristiche, una tipica gestualità, una
propensione particolare per certi cibi, colori o attività, specifiche della sua
personalità.
Uno degli aspetti maggiormente significativi della possessione dufuntu, come
sottolinea Leiris riferendosi al culto zar, sembra quindi essere il fatto che in essa
“la barriera tra finzione e manifestazione reale è imprecisa” (Leiris 1988: 22). Il
problema della autenticità della dissociazione viene così superato: la possessione
non nasconde, infatti, il suo carattere di finzione, che anzi dichiara continuamente
attraverso il ricorso ad artifici teatrali, quali i costumi, la musica, la danza. Non
esiste infatti, secondo Leiris, alcun caso di possessione del tutto esente da artifici
(1988: 22), come possiamo comprendere anche dalla manifestazione del kabido
asenghé: come in una rappresentazione teatrale questa maschera, questa finzione,
che irrompe nel bel mezzo delle danze dufuntu, costituisce un effetto speciale per
creare impressione.
Per quanto la possessione sia già in sé teatro, in quanto “raffigurazione di un
personaggio mitico o leggendario tramite un attore umano” (Leiris 1988: 70) e
benché la musica e i canti dufuntu servano sia per evocare gli spiriti sia per creare
un’atmosfera e per suscitare entusiasmo nell’assemblea (al punto che ogni
posseduta ha i suoi appassionati, che la incitano, la acclamano e non si fanno
scrupolo di valutarla da un punto di vista estetico), questo non impedisce che le
dufuntu agiscano in buona fede, credendo di essere guidate da una forma estranea.
Se è vero, infatti, che le danze dufuntu, fissate dal costume, vengono insegnate
nell’iniziazione, così come viene insegnato il controllo del corpo e dell’espressione
del volto (per quanto ogni tanto capiti che una posseduta smetta di ballare e
fugga, apparentemente senza controllo, verso la foresta), è anche vero che
“sforzarsi di regolarizzare e formalizzare la trance non vuol dire affatto inventarla
di sana pianta” (Leiris 1988: 22). L’iniziato non è solo, ma vive all’interno di una
società e di una cultura della quale subisce l’influenza: non può non essere stato,
268
quindi, in qualche misura “iniziato” alla possessione dagli esempi che ha visto
(Leiris 1988: 61).
Fin dall’infanzia, infatti, le donne bijagó hanno avuto occasione di frequentare i
“teatri” della possessione rituale e di assistere a “spettacoli” pubblici, nel corso di
diverse cerimonie (kanunake, �ubir �abido, ka�oke, choro, intronizzazioni e funerali
e così via). Non è raro che le madri, per quanto la norma non lo permetterebbe,
incitino le bambine a imitare, in privato, le dufuntu che danzano, battendo il ritmo
con le mani. Le donne, quindi, da sempre gravitano intorno all'ambiente delle
dufuntu e si sono “impregnate dell'atmosfera musicale delle sedute di possessione”
(Rouget 1986: 94; Lapassade 1990: 57).
“Bin djubi, dufuntu i na fasi teatro”, “vieni a vedere, le defunto fanno il teatro”, si
dice comunemente per invitare qualcuno ad assistere alle cerimonie di
possessione. Questo teatro tuttavia, conclude Leiris, “è di un tipo tanto
particolare, che non può mai riconoscere la sua natura teatrale” (1988: 67): è un
“teatro vissuto” e non recitato, o meglio “un teatro forse recitato anch'esso, ma
con un artificio minimo” (1988: 64). Attori e pubblico, infatti, restano
costantemente immersi nella convenzione stabilita dalla possessione, che non
possono svelare. Come nel miglior teatro, le attrici dufuntu dimenticano la finzione
e provano una sofferenza e un coinvolgimento reali, che finiscono con il produrre
in loro una concreta trasformazione. Con le parole del critico teatrale Charles
Morgan, “il grande impatto del teatro non dipende né da una persuasione
intellettuale né da una fascinazione dei sensi. […] È l’azione coinvolgente
dell'intero pezzo teatrale sull’animo umano. Noi ci arrendiamo e veniamo
cambiati” (Geertz 1988: 37).
3. La possessione come trasformazione
Le cerimonie di possessione dufuntu sembrano coinvolgere, come abbiamo
appena osservato, una sequenza di atti capace di trasformare gli individui che le
269
intraprendono. Oltre che un rito transizionale, che condivide le caratteristiche
tipiche dei rituali di passaggio (separazione, reclusione, aggregazione), il dufuntu
sembra possedere un carattere trasformazionale. Non solo, infatti, prevede il
passaggio di diverse soglie fisiche (da villaggio a foresta, sotto la “galleria” delle
donne armate di bastoni, da foresta a villaggio e infine l’entrata nel santuario) e
rituali (taglio dei capelli, purificazione nel mare, eliminazione degli abiti), ma
struttura il campo psicologico in cui l’individuo si muove, modellando le sue
emozioni e foggiando la sua nuova identità.
Questo rituale, infatti, oltre che per il ragazzo morto, costituisce un’iniziazione
per la donna che lo porta in corpo. Degli autori che si sono occupati dei Bijagó,
solo Henry ha avanzato l’ipotesi che il dufuntu possa costituire anche “un processo
di maturazione e di socializzazione” per le donne (1994: 149). Innanzitutto, come
sottolinea Oliveira de Sousa, “si tratta di una delle rarissime società conosciute
dove la possessione s’impone, senza eccezione, a tutte le donne” (1995: 74).
Inoltre gli stessi Bijagó, per spiegare per quale motivo non si dovrebbero avere
figli prima di aver compiuto il passaggio del kanunake, insistono sul fatto che
“solo dopo questa prima cerimonia la ragazza (kampune) è pronta per essere
madre (omishúm) e quindi donna (okãnto)”. Anche Scantamburlo sembra
ammettere quest’ipotesi, per quanto non esplicitamente, quando afferma: “non è
sufficiente diventare madre, affinché la donna sia pienamente un membro della
società. […] Il dufuntu è necessario perché una donna diventi una autentica madre
e un membro creativo della società” (1991: 82). Gallois Duquette conferma: “se la
ragazza non deve aver avuto dei bambini prima del primo ritiro del fanado, è
perché esso sarà il luogo di una maturità simbolica più importante” (1983: 143).
Se da un lato le donne danno, attraverso la messa in corpo della possessione, la
possibilità a dei morti di rinascere, tramite una “generazione di ordine spirituale”
(Gallois Duquette 1983: 144; Scantamburlo 1991: 82), dall’altro anche le donne ri-
nascono socialmente. Questa rinascita è espressa, nel contesto del rito, dalla
metafora della morte (la donna, come il cadavere, viene portata al mare, viene
lavata e il suo cranio rasato viene ricoperto dell’impasto di ocra rossa, carbone e
270
olio di palma, del quale abbiamo parlato nel capitolo sulla morte207) e, al termine
delle cerimonie, dall’espressione “odjé �adjoko”, “ora tu vedi il mondo di nuovo”.
Con le parole di Rouget, mi sembra, quindi, si possa affermare che
“l’iniziazione mira a due obiettivi, complementari ma distinti. Il primo consiste nel formare
degli iniziati, vale a dire nel trasformare una persona tanto nella struttura interna quanto nei
rapporti sociali […]. Il secondo obiettivo consiste nel formare dei posseduti” (Rouget 1986:
84)
Come abbiamo messo in evidenza nei paragrafi precedenti, affrontando il tema
della sofferenza legata alla possessione, le cerimonie dufuntu implicano una
profonda trasformazione anche a livello psicologico, modellando la sfera delle
emozioni. La teoria trasformazionale del rito non è solamente una mia
costruzione. La trasformazione è espressa dai simboli coinvolti nelle azioni delle
possedute. La donna, per prima cosa, come abbiamo già sottolineato, ha delle
“visioni”, vede delle “ombre” e contemporaneamente perde i suoi ricordi, la
ragione, la consapevolezza: “gradualmente la coscienza svanisce” (Scantamburlo
1991: 82). “Non ti ho riconosciuta, non ero consapevole”, mi dice Ne�a Baba,
chiamata anche oro�o Coia (la posseduta della quale abbiamo parlato all’inizio
dell’ottavo capitolo), quando mi incontra al mercato ed è ritornata a essere Felipa,
una donna del villaggio.
In seguito “si mette improvvisamente a gridare […] modulando un lungo grido
perforante” (Gallois Duquette 1983: 140, 147) e fugge da casa, dallo spazio
domestico, verso quel luogo denso di significati simbolici, come abbiamo visto
nel terzo capitolo, che è la foresta. Il tema della fuga compare spesso nei racconti
delle iniziate: simboleggia il distacco dalla società e l’ingresso nell’inquietante
natura selvaggia. La donna non solo abbandona i suoi figli, la sua casa, il suo
lavoro, ma dimentica anche le più banali regole della vita sociale: nella foresta si
spoglia dei suoi vestiti e parla in modo incomprensibile.
207 Confronta capitolo VII.
271
Le donne possedute inoltre, come è stato messo in evidenza dal racconto del
mio kanunake, non mangiano il cibo ordinario, quello di ogni giorno, chiedendo
che vengano cucinati per loro dei piatti particolari. Il cibo quotidiano, cucinato
all’interno del villaggio, diventa in qualche modo parte della famiglia che l’ha
preparato, della stessa società, perché il cibo cucinato è passato dal mondo
naturale al mondo umano, culturale (Dumont 1991: 262). Scantamburlo sostiene
che gli stessi Bijagó distinguano terminologicamente il cibo ordinario (norede) -
composto da riso, olio di palma e pesce - e il cibo speciale (contano) - senza sale né
olio - legato all’ambito cerimoniale (1991: 41). Henry ha a sua volta osservato che
il cibo per le dufuntu deve essere cotto “in pentole di coccio, che solo poche
donne sanno ancora fabbricare” e che “questi morti amano dei molluschi (Barnea
candida) particolarmente difficili da trovare” (1994: 139). Nessun’altra persona
del villaggio può inoltre condividere con le dufuntu questo cibo, né assaggiarlo
prima di portarlo al santuario, altrimenti “si dice che morirebbero” (Henry 1994:
140). Il rifiuto di condividere il cibo quotidiano assume, ancora una volta, il
significato dell’impossibilità di conservare i rapporti con la società. Il cibo
ordinario, infatti, è uno dei contenuti fondamentali dello scambio sociale. Non
ricordo di aver mai visto un Bijagó mangiare da solo: la condivisione del cibo, la
commensalità, unisce i membri della famiglia e del villaggio.
L’intera situazione rappresenta un’uscita dai confini della cultura e dalle regole
della società, simboleggiata dal rifiuto del cibo, dall’incapacità di riconoscere gli
amici, dall’impossibilità di farsi comprendere, dalla perdita della coscienza, del sé,
degli abiti, e dalla fuga nello spazio incolto, in cui vivono solo gli spiriti e gli
animali selvatici. Riprendendo una riflessione di Remotti (1993 b), possiamo
affermare che la rottura dei rapporti con la società può essere riassunta dal fatto
che, per prima cosa, la dufuntu abbandona la sua casa, la sua abitazione nel villaggio,
e i suoi abiti. Remotti, che ha approfondito i significati e le connessioni
etimologiche di “abitare”, ha riscontrato la compresenza in questo contesto
semantico di “abitare”, “avere abitudini” e “indossare certi abiti”, deducendone
che “come gli abiti-abitudini foggiano il comportamento, così gli abiti-vestiti
danno una foggia al corpo” (Remotti 1993b: 33). La connessione tra gli abiti e le
272
abitudini non affiora tuttavia soltanto nelle diramazioni semantiche della matrice
habeo; questa identica connessione è reperibile ad esempio anche nel termine
“costume”. Il termine latino mos, moris, continua l’autore, rinvia, infatti, da una
parte ai costumi in senso morale, e dall’altra alla “moda”, alla foggia
dell’abbigliamento (Remotti 1993b: 33).
Rinunciando alla sua abitazione e ai suoi abiti, la dufuntu simbolicamente
rinuncia anche alle sue precedenti abitudini, ai costumi della sua società, al
comportamento normale, per trasformarsi, da donna appartenente alla sfera
umana del villaggio, a uomo associato agli spiriti della foresta. La sua precedente
personalità è stata annullata, la dufuntu non solo è uscita dai territori familiari del
villaggio e della casa, ma anche da quelli della coscienza. Non possiede più niente:
è nuda, non ha più una famiglia, una abitazione, uno status, nulla che possa
evocare il suo precedente ruolo nella società, ha perso la sua coscienza, la
memoria del suo passato. Gli attributi che, nell’ordine sociale strutturato,
distinguono categorie e gruppi, nella foresta subiscono una sospensione: la dufuntu
viene ridotta o livellata a una condizione uniforme per poterla rimodellare da
capo (Turner 1972: 112).
Le stesse azioni destinate a mortificare l’inizianda - come l’impossibilità di
muoversi, di nutrirsi o dissetarsi con le proprie mani, il divieto di interferire nei
discorsi delle anziane - e a spaventarla - nel mio kanunake la minaccia della prova
con il munte - mostrano come “di per se stessa non sia che argilla o polvere,
semplice materia, sulla quale la società imprime una forma” (Turner 1972: 120).
Nuda, rasata, immobile, muta, impossibilitata a mangiare o a bere senza aiuto e
umiliata, l’inizianda è ridotta a una “tabula rasa, una lavagna vuota” (Turner 1972:
119). L’uscita dalla società prevede però un ritorno, anch’esso programmato e
costruito con mezzi culturali.
Nella foresta, ma soprattutto nel santuario, partendo dal materiale grezzo di un
corpo di donna svuotato dalla coscienza e dalla personalità, spogliato dai suoi
“costumi”, la dufuntu viene “costruita” e messa in scena sulla piazza del villaggio.
Non a caso, quando l’inizianda appare, trasformata in dufuntu, non è più nuda,
immobile, muta, ma indossa un “costume” (per quanto fuori dall’ordinario),
273
diletta l’assemblea danzando (ma una danza che non ripeterà mai fuori
dall’ambito cerimoniale), canta (anche se spesso dota le parole di un significato
opposto).
Il “personaggio” rappresentato dalla dufuntu viene indubbiamente costruito,
fabbricato: la donna viene trasformata nell’aspetto, le viene insegnato,
direttamente o indirettamente (dall’osservazione delle cerimonie altrui), come
atteggiarsi per mostrare l’avvenuta trasformazione. Sembra plausibile parlare di
finzione nel senso più ampio del termine, cogliendo tutte le connessioni
etimologiche e i significati racchiusi nella matrice latina fingere, ossia “costruire”,
“modellare”, “trasformare”, “rappresentare”, “fare la parte di qualcuno”. Le
stesse diramazioni semantiche del verbo richiamano gli aspetti caratteristici di
questo rituale: il mutamento di identità, la costruzione di un “personaggio” e la
sua rappresentazione pubblica.
Un racconto riportato da Henry offre un chiaro esempio di questa
trasformazione psicologica:
“per affermare che Quinta non è più la stessa è sufficiente vedere la maniera maschile con
cui essa aveva raddrizzato una delle piccole sedie per sedervisi a cavalcioni, osservare il modo in
cui beveva il vino di palma alla bottiglia come se le offerte le fossero state destinate, e più ancora
guardarla afferrare i polli decapitati per imbrattarsi la bocca e succhiare il sangue che colava
ancora dal loro collo” (Henry 1994: 86).
L’intera trasformazione della donna in dufuntu può essere riletta utilizzando le
tabelle 2 (capitolo III), 3 e 4 (capitolo IV), come chiavi interpretative. Non
dobbiamo dimenticare che questa possessione, la quale prevede uno spostamento
tra il villaggio - spazio femminile per eccellenza - e la foresta - terra di spiriti
dimenticati e del lavoro degli uomini - comporta anche il passaggio da spirito oshó
pericoloso per i vivi a entità benefica “vivente” arebok, dalla precarietà e il
disordine, alla sicurezza e l’ordine. La possessione sembra dunque implicare
un’inversione di genere (da donna a uomo), che può essere compresa solo
vedendola come opposizione di simboli. L’atteggiamento maschile della donna
274
posseduta, quasi caricaturale, enfatizza, infatti, le particolari qualità associate alla
polarità di genere. Queste idee astratte sono rese manifeste nelle persone delle
dufuntu, attraverso il suggestivo linguaggio della loro danza e delle loro azioni, che
diventano così simboli viventi di concetti fondamentali legati a categorie culturali
profonde, come la virilità e la femminilità. La possessione dufuntu, in qualche
modo, non solo “riflette” o “esprime” la percezione che uomini e donne hanno di
se stessi e l’uno dell’altro, ma in qualche modo spesso costituisce una critica,
diretta o velata, dei rapporti sociali tra i generi, ad esempio attraverso la messa in
scena di atteggiamenti maschili che non vengono mai discussi o disapprovati dalle
donne nella vita quotidiana. Il potere femminile di proporre “una prospettiva
nuova dalla quale osservare la struttura” (Turner 1972: 199) è reso culturalmente
possibile dall’esistenza di un tempo e uno spazio riservati alla possessione, che
rappresentano una frattura rispetto al normale svolgimento della vita quotidiana, e
dal fatto che colei che apparentemente avanza la critica, non ne è l’autrice,
potendo attribuirne la responsabilità allo spirito che incarna.
“Ciò che accade nella vita rituale delle donne bidjogo differisce sensibilmente
da ciò che si constata tra le altre etnie. Ci sono precisamente delle donne che
giocano il ruolo di uomini e non sembra si abbiano molti altri esempi di questa
inversione” (Gallois Duquette 1983: 154). L’interpretazione dei fenomeni di
inversione di genere, come testimoniano gli autori che se ne sono occupati
(Tcherkezoff 1993; Brett-Smith 1994), presenta una seria difficoltà concettuale.
Nel pensiero occidentale, infatti, persone che possiedono gli attributi fisici
appropriati, in questo caso i genitali femminili, sono considerate essere membri
della categoria “donne”. La variazione, quando esiste, risiede nei differenti
significati attribuiti a quella categoria e nelle differenti credenze e compiti
prescritti per le persone che sono in tal modo caratterizzate. L’inversione di
genere, implicita nella possessione dufuntu, fa emergere un particolare tipo di
difficoltà, in quanto le donne, pur mantenendo inalterate le loro caratteristiche
fisiche femminili, non sono sempre considerate “donne”. Scrive Gallois Duquette
che la dufuntu “non esiste più in quanto donna” (1983: 154) e Pedro conferma
osservando che “dufuntu i ka na dita ku omi, pabia di ke i omi tamben”, “il defunto
275
non dorme con gli uomini, perché è anch’esso uomo”. Piuttosto, sempre con le
parole di Gallois Duquette, “indirizza parole d’amore all’amante (che fu quella del
ragazzo morto)” (Gallois Duquette 1983: 149).
Anche l’antropologo, in quanto occidentale, non trova facile comprendere
come delle persone possano essere talvolta in una categoria e talvolta non esserlo.
Secondo Henrietta Moore
“questo è dovuto alla complessa serie di legami che il discorso occidentale stabilisce tra
sesso, identità di genere e formazione della personalità: nel discorso occidentale, infatti,
“sesso/genere” è il cuore della formazione della personalità, a tal punto che se qualcuno che si
conosce come un uomo, annuncia improvvisamente che è una donna, diventa letteralmente
un’altra persona” (Moore 1993: 201).
Se, quindi, per un occidentale può sembrare inconcepibile che una donna, pur
mantenendo inalterati i suoi attributi sessuali, venga considerata effettivamente un
uomo, non dobbiamo dimenticare che in altre culture l’essere umano può essere
visto non come entità rigida e definita una volta per tutte, classificato in categorie
di genere binarie, costruite sulla differenza sessuale, quanto piuttosto come una
creatura in continua trasformazione, in divenire, plasmabile a seconda delle
circostanze e degli eventi della vita. Come abbiamo visto precedentemente
affrontando il tema della costruzione della persona umana (capitolo V e VI), nel
pensiero bijagó convivono contemporaneamente diversi modelli di genere: le
categorie “maschio” e “femmina” sembrano potersi modificare secondo i
momenti del ciclo di vita e le circostanze rituali. Il processo attraverso il quale si
diviene “uomini e donne” bijagó è quindi un processo aperto, continuamente
ridefinibile e rinegoziabile e la possessione dufuntu, per quanto esperienza
circoscritta ad alcuni momenti della vita, sottolinea ancora una volta la fluidità dei
confini tra i generi208.
208 Gallois Duquette ha osservato che la scure, che le dufuntu brandiscono per mostrare che sono divenute guerrieri virili e che in alcune isole viene seppellita con la donna al momento della sua morte, riassume, sotto forma plastica, il fenomeno dell’identificazione di un uomo morto con una giovane donna. La lama dell’ascia è infatti inserita in un manico che, in genere, rappresenta il corpo di una donna, la cui capigliatura molto elevata serve di guaina. La scure mette in evidenza gli aspetti che
276
4. Possessione e maternità
Janice Boddy, che ha svolto una ricerca sulla possessione za�r a Hofriyat, nel
Sudan settentrionale, notando la forte presenza di donne possedute, si domanda:
“Perché le donne? Perché non gli uomini?” (1989: 141). Ponendo lo stesso
quesito sul campo, ho ricevuto risposte confuse e discordanti. Le indagini
condotte da Boddy sembrano evidenziare una naturale predisposizione della
donna alla possessione, perché “le donne subiscono più condizionamenti morali
che gli uomini, […] perché gli spiriti sono attratti dalle donne […] e perché la
possessione è strettamente legata alla fertilità con quale la donna è identificata”
(Boddy 1989: 138-141). In virtù della sua femminilità, quindi, la donna pare essere
più vulnerabile agli attacchi degli spiriti, come le credenze bijagó relative agli
spiriti iran sembrano confermare.
Come abbiamo visto, affrontando il tema della nascita e delle possibili
anomalie del bambino, si crede che gli iran, attratti dalla nudità delle donne che si
lavano alle fonti, possano scivolare nel loro ventre e ingravidarle. Lo stesso Baba,
l’Orebok Okotó del villaggio di Ankamona che viene dalla terra dei Nalus, del quale
abbiamo parlato nel primo capitolo “prese possesso del corpo di una giovane
donna, la quale iniziò a parlare la lingua dei Nalus”, racconta Tetè. Anche la
credenza nella reincarnazione degli antenati, che rinascono entrando “nel ventre
della donna, quando un uomo e una donna hanno una relazione”, sembra evocare
in qualche modo una relazione intima tra gli spiriti e le donne.
Nei casi in cui la possessione è legata alla fertilità, prosegue Boddy, “gli spiriti
tendono a possedere donne la cui fertilità è già avviata”, non le bambine né le
anziane (1989: 167). Anche nel pensiero bijagó abbiamo visto che lo spirito si
incarna nella donna “quando il suo corpo di bambina si trasforma in un corpo di
donna” (Scantamburlo 1991: 81), per lasciarlo quando entrerà in menopausa.
convivono nel corpo della dufuntu: l’aggressività maschile è manifestata dalla lama, mentre la fecondità appare dal corpo formoso della portatrice (Gallois Duquette 1983: 146-147).
277
Il legame tra la possessione e la fertilità della donna, come possibilità di portare
dentro al proprio corpo un altro essere, è particolarmente evidente nei riti che
accompagnano il parto. Coma abbiamo sopra ricordato, attraverso la maternità la
donna bijagó permette, come nella possessione, a un morto di ri-nascere, di
tornare alla vita. Se confrontiamo i rituali che accompagnano il parto con il
kanunake, possiamo notare diversi richiami. In entrambi i casi la donna esce dal
villaggio e, attraverso la foresta, raggiunge il mare per lavarsi; poi rientra e in un
caso si chiude nella stanza centrale della casa, avendo cura di tenere lontani gli
sguardi malevoli, nell’altro si ritira nel santuario e viene appesa una stuoia sulla
porta, affinché nessuno veda cosa accade all’interno. Come abbiamo visto
precedentemente, sia per entrare nel santuario che per passare dal vestibolo
esterno al “ventre della casa” è necessario togliersi le scarpe, in segno di rispetto.
In ambo i casi inoltre la donna viene paragonata a Orebok Okotó: dopo il parto,
quando verrà lavata con le foglie che servono a consacrare l’immagine del Grande
Spirito, nel kanunake nel momento in cui un officiante rituale, come si fa per
onorare Orebok Okotó, le bagnerà i piedi con del sangue. Non dobbiamo
dimenticare che la nascita, come testimoniano i riti per curare la sterilità (capitolo
V, paragrafo 6), prevede un passaggio di uno spirito dal ventre di Orebok Okotó,
che raccoglie le anime di tutti i defunti, e il ventre della donna.
Secondo Henry, gli stessi Bijagó confrontano il paradosso della maternità (non
solo perché due esseri condividono lo stesso corpo, ma anche perché una donna
può dare alla luce persone di entrambi i sessi) con quello della possessione (Henry
1994: 149).
Il legame tra la possessione e la maternità è espresso inoltre dalla loro assoluta
incompatibilità, dall’impossibilità di portare nello stesso ventre due esseri
(entrambi spiriti di persone morte) contemporaneamente. Non potendo portare
alla vita un bambino e un ragazzo morto nello stesso momento, la tradizione
impone una regola nella successione degli avvenimenti: si deve prima
sperimentare la possessione - attraverso il passaggio del kanunake - per poter in
seguito concepire un figlio. Questa, secondo Gallois Duquette, è probabilmente
una delle ragioni che hanno fatto abbassare considerevolmente l’età
278
dell’iniziazione dufuntu (1983: 142). Nonostante sia diventata negli anni più
elastica, questa norma al giorno d’oggi traspare dall’angoscia e dalla vergogna delle
ragazze rimaste incinte prima di questa cerimonia, le quali, stando a quanto
sostiene Oliveira de Sousa, cercano in ogni modo di abortire (Oliveira 1995: 74).
Le donne che hanno partorito prima di ricevere il dufuntu, inoltre, potranno
partecipare alle cerimonie solo quando i segni della maternità saranno
completamente scomparsi dal loro corpo (Oliveira 1995: 75).
Quando ho domandato a Tetè, il suonatore del tamburo sacro, perché proprio
alle donne era stato affidato il compito di iniziare, attraverso la possessione, i
ragazzi morti prima di aver terminato la loro maturazione sociale, egli mi ha
risposto: “le donne sono più importanti, sono le madri”. I Bijagó, conclude
Gallois Duquette, “hanno scelto il simbolo migliore affinché i defunti rinascano e
vivano la loro iniziazione, poiché chi meglio della donna può donare la vita?”
(1983: 142). La possessione dufuntu sembra quindi costituire una esperienza che,
permettendo a un principio malefico di rinascere come entità benefica, prepara le
donne a essere ciò che ci si aspetta diventino, madri complete, e, al contempo,
conferma e valorizza la fecondità e possibilità di tramutare la morte in vita, insita
nella loro stessa costituzione biologica.
Attraverso il dufuntu le donne, fonti di vita, restaurano l’armonia tra il mondo
degli esseri umani e il mondo degli spiriti, proteggendo il villaggio minacciato
dagli spiriti della foresta e permettendo agli arebok dei ragazzi morti prima
dell’iniziazione di compiere il percorso iniziatico, raggiungendo così la
completezza, che garantirà loro l’accesso all’al di là e la possibilità di ritornare al
mondo in occasione di una nuova nascita. Non solo, quindi, le donne proteggono
i vivi, trasformando pericolosi spiriti maligni in entità benefiche legate al villaggio,
ma, risolvendo ogni possibile intoppo (capitolo VII, schema 2 e 3), consentono la
libera circolazione degli arebok tra i due mondi (capitolo VII, schema 1), ossia, in
definitiva, permettono l’inarrestabile flusso della vita.
279
Conclusione
La logica dell’inclusione dell’altro
La possessione, nel pensiero bijagó, come abbiamo visto negli ultimi capitoli,
non è solo una prerogativa femminile. Contrariamente alle ipotesi di Henry, che
ha visto nella possessione un modo di comunicazione privilegiato con l’al di là,
280
appannaggio esclusivo delle donne, le nostre indagini hanno posto in luce come
anche gli uomini, nel corso del ritiro iniziatico, esperiscano una forma di
possessione da parte degli antenati, che trasmettono loro il sapere del passato.
A maggior ragione, pensando alle cerimonie dufuntu, ritorna con pregnanza il
quesito che Boddy si poneva osservando i culti za�r: ma allora «perché le
donne? Perché non gli uomini?» (1989: 141). Perché sono le donne a dover
trasportare, come piroghe, gli spiriti degli uomini morti prima dell’iniziazione
attraverso i passaggi iniziatici?
Abbiamo già tentato di rispondere a questa domanda nell’ultimo paragrafo del
capitolo precedente, mettendo in evidenza la possibilità femminile, implicita nella
concezione bijagó della nascita, di portare alla vita dei morti e di contenere due
esseri nello stesso corpo. In virtù di questa loro caratteristica, le donne vengono
considerate dotate di una completezza capace di garantire loro l’ancestralità.
«Perché le ragazzine bidjago morte prima dell’iniziazione non sono impedite nel
raggiungere lo spazio degli antenati? Non sarà perché le donne non hanno
bisogno di una iniziazione per essere guardate come degli esseri completi dal
Creatore?», si chiede Gallois Duquette (1983: 154). I Bijago, risponde Henry,
«riconoscono che le donne possiedono congenitamente una forza vitale superiore
a quella degli uomini perché esse sono capaci di generare, mentre gli uomini
hanno bisogno di essere iniziati e di iniziare per acquistare una forza comparabile
a quella delle donne» (Henry 1994: 103).
D’altra parte, suggerisce Duminga, la futura okinka di Bijante, «è meglio per le
donne aver fatto il dufuntu prima di morire, altrimenti la sua anima potrebbe
perdersi» (capitolo VIII). Tetè, il suonatore del kumbonki, sembra riprendere
Duminga, in quanto mi spiega che «l’uomo ha bisogno di fare il manras (fanado); la
donna non ha un suo manras: può solo sperimentare quello degli uomini,
portando il defunto». Ma è importante anche per la donna, oltre che per il morto
che ella incarna, compiere un percorso iniziatico? C’è qualche differenza tra una
donna che ha attraversato il passaggio del manras arebok (l’iniziazione dei defunti) e
una ragazza che non ha ancora preso in carica un morto? Tetè risponde: «ascolta
cosa cantano le defunto di Anhimango, loro ti rispondono».
281
Iakanto naribikan nô orebok, ò còna n’����iguen, kampuni kokè n’����iguen ai-ou:
òna n’n����iguen
Le donne conversano con i defunti, perché li conoscono, le ragazze non li conoscono: è
meglio conoscerli
La maturazione e la socializzazione delle donne, nonostante siano
congenitamente dotate di maggiore completezza rispetto agli uomini, sembrano
comunque comportare l’intervento del principio maschile, che esse si occupano di
femminilizzare. L’iniziazione dufuntu pare quindi avere, tra gli altri, anche il fine di
costruire l’identità sociale della donna. Il rituale �ubir kusina adempie a questo
compito utilizzando esseri che, né uomini né donne, né morti né vivi, a metà tra
questo e l’altro mondo, si caratterizzano prima di tutto per la loro ambiguità. La
donna, quindi, attraverso l’esperienza della possessione, che comporta la “messa
in corpo” di una entità maschile, acquisisce una maggiore maturità e completezza,
sia a livello psicologico, sia sul piano sociale, in quanto questo cambiamento
interiore si traduce in un aumento di prestigio. Anche l’orebok che la possiede
raggiunge, tramite l’iniziazione, la maturità sociale che gli permetterà l’accesso
nell’al di là, che prima gli era stato negato: in questo caso, però, il processo di
completamento prevede una femminilizzazione dell’orebok. Da ragazzo, morto,
pericoloso, che erra senza direzione nella natura selvaggia della foresta, l’orebok
diviene un’entità benefica, associata al villaggio e alla cultura (danza, canta, suona
il tamburo), che si esprime per bocca di una donna viva. I Bijagó, suggerisce
Henry, sembrano dunque «fabbricare uomini e donne adulti, dotando gli uomini
di qualcosa di femminile e le donne di qualcosa di maschile» (Henry 1994: 149).
Questa logica di inclusione dell’altro è reperibile in altri domini del loro pensiero.
Se ripercorriamo i capitoli di questa tesi, possiamo vederla affiorare come un
secondo livello, che ricopre, come una carta trasparente su una mappa, i diversi
aspetti di questa cultura, sottolineandone i contorni e i contrasti.
282
Nel primo capitolo, nel paragrafo intitolato «Precarietà dell’identità e
occultamento delle origini», abbiamo posto in luce come i confini del «noi» bijagó
siano in realtà effimeri e sfumati, al punto che il «noi» è costituito, proprio negli
aspetti più coagulanti, che dovrebbero garantirne la compattezza (l’iniziazione, la
credenza negli spiriti), da «altri». Uno dei segreti svelati nell’iniziazione è proprio
la presenza degli «altri» nalus, nel cuore del «noi» bijagó: i rituali, le credenze, gli
spiriti che vengono venerati - come Baba - e la stessa iniziazione, derivano infatti
dai Nalus. L’intuizione dell’alterità di cui il «noi» è in fondo costituito,
l’ammissione del fatto che l’alterità è un ingrediente fondante dell’identità e,
quindi, la consapevolezza della precarietà del proprio modello di umanità, non
può però affiorare al di fuori del momento della reclusione iniziatica. Questa
presa di coscienza, infatti, rende l’identità del «noi» una dimensione parziale e
provvisoria (Remotti 1990: 261): nasce perciò l’esigenza di difendere l’identità del
«noi», irrigidendo i confini, erigendo barricate attraverso l’occultamento del
ricordo dell’alterità originaria («non si può parlarne; è necessario tacere»209).
Il pensiero dell’inclusione degli altri nel cuore del noi, la consapevolezza che
«questo è il nostro “noi”, qui abbiamo tracciato i suoi confini, ma potevamo pure
tracciarli in un altro modo e noi saremmo stati diversi» (Remotti 1990: 222),
affiora proprio nell’unica istituzione che, in assenza di un’organizzazione politica
centralizzata, comprende tutta la società bijagó, garantendone la coesione e
l’ordine: il ciclo rituale iniziatico �ubir kusina. Se da un lato, infatti,
l’organizzazione del �ubir kusina ha l’effetto di rinforzare il sentimento di
appartenenza al villaggio e di creare la coscienza di appartenere a una unità più
grande, che «rende i Bijagó consapevoli di formare una stessa collettività» (Henry
1991: 43-63), dall’altro fa emergere, attraverso i nomi dati alle classi d’età, la
consapevolezza della pluralità delle scelte che si trovano all’origine del «noi».
Come abbiamo accennato nella seconda parte della tesi, infatti, i Bijagó per
nominare le classi d’età - ossia quei gruppi dei quali un individuo resta membro
per tutta la vita, pur procedendo nella successione dei gradi d’età - utilizzano i
209 Affermazione di Tetè riportata nel terzo paragrafo del primo capitolo.
283
nomi con i quali definiscono le altre etnie, gli altri popoli. Le classi d’età tuttora
presenti a Bubaque, sono, dalla più antica alla più recente, “Iasùga” (gente di
Soga), “Iapùda” (i Fula), “Iatangùnti” (i Pepel), “Apudutà” (i Felupe), “Nhominca”
(etnia di pescatori proveniente dal Senegal). Ancora una volta compaiono gli
«altri» all’interno del «noi», se non altro come possibilità scartate (Remotti 1993b:
179).
Se il «noi» - sottolinea Remotti - è un contesto prodotto da scelte, esso dipende
sostanzialmente dalla ripetizione delle scelte e la caratteristica fondamentale della
scelta è che può non essere ripetuta, può essere revocata (1993b: 179). Come
Remotti, anche i Bijagó sembrano aver riflettuto sull’esistenza di possibilità
scartate alla radice della costruzione del «noi», tant’è che, talvolta, come vedremo
riportando un esempio chiarificatore, revocano le loro scelte più costitutive e
fondanti, per recuperare le possibilità che avevano scartato. Scantamburlo e Pepà,
un anziano del villaggio di Enem, hanno ricordato, durante una nostra
conversazione, un periodo di grave crisi per la gente di Bubaque, a causa di una
epidemia, che aveva gravemente colpito la popolazione. Furono rivolte molte
preghiere agli Orebok Okotó, fu interpellato Nindo stesso, ma fu tutto inutile. Gli
anziani dell’isola, dopo essersi consultati, decisero allora di sacrificare una vacca a
Nindo, non nel modo usuale - cucinandola al villaggio e dividendola tra i suoi
abitanti - ma gettandola nella foresta con queste parole: «Nindo, ti sei dimenticato
di noi: prendi questa vacca, allora, ma la mangerai da solo. Noi non dividiamo più
il pasto con te». Dopo di che, una delegazione di anziani fu inviata in terra pepel,
per chiedere uno spirito più potente, che potesse sostituire Nindo, giacché si era
dimostrato sordo alle richieste degli uomini o, peggio ancora, incapace di
esaudirle.
Remotti riporta, in un paragrafo intitolato “Una desacralizzazione indigena”
(1993b: 149-157), un caso simile presso i Tonga, un’etnia di coltivatori dello
Zambia. L’interesse dei Tonga per la buona resa del territorio, trova espressione
nell’esistenza di “altari della pioggia”, dedicati a uno spirito capace di esercitare un
qualche potere sulla pioggia. Se anche costituiscono un fattore di coagulo nella
società Tonga, questi altari non è detto che durino nel tempo. La loro sacralità, il
284
loro potere, devono essere continuamente verificati: se un altare non funziona, la
sua sacralità si spegne (Remotti 1993b: 155). I Tonga si rivolgono quindi agli
spiriti degli altari della pioggia pregando: «aiutaci! Non ci siamo scordati di ciò che
tu ci hai detto. Non ci siamo scordati di te». “Non ci siamo scordati …” - osserva
Remotti - ma potremmo anche farlo (1993b: 155). I Bijagó, invece, come
abbiamo visto, compiono una scelta ancor più desacralizzante: non dividono il
cibo con Nindo, escludendolo in qualche modo dal rapporto con gli uomini, e si
rivolgono a un’altra etnia, ad altre credenze, per trovare uno spirito che faccia al
caso loro. “Nindo, ti sei dimenticato di noi ...” - sembrano voler dire - e noi ora ci
dimenticheremo di te.
Entrambi i casi riportati sembrano dimostrare che quanto è stato costruito può
essere disfatto, che il «noi», che in queste istituzioni - la credenza in Nindo e gli
altari della pioggia - in buona parte si identifica, può essere messo in discussione,
che è possibile rivalutare le possibilità scartate. La certezza dei confini e della
solidità del «noi» è irrimediabilmente persa: non esistono rigidi barriere già
tracciate, ma solo confini provvisori tracciati da noi.
Anche le categorie concettuali che i Bijagó utilizzano per porre ordine alla
propria esperienza nel mondo, sono caratterizzate da confini sfumati, non precisi
né delineati, fragili, precari. Nel terzo e nel quarto capitolo abbiamo visto come,
nel pensiero bijagó, le donne vengano associate al villaggio - condividendo le
caratteristiche della altre entità che lo abitano (tabella 3) - e gli uomini alla foresta
e agli spiriti che la frequentano (tabella 2). Se osserviamo però, alla luce degli
ultimi capitoli, le due figure principali della società bijagó, l’oro�o e l’okinka, che
Henry definisce «rappresentativi dell’opposizione dialettica tra il polo femminile e
il polo maschile» (1994: 192), traspare come anche questi due “poli di
opposizione” - e i concetti cui sono legati - non possano venire pensati in
rapporto a categorie tipologiche rigide (come quelle implicite nella classificazione
binaria donna/uomo, villaggio/foresta, okinka/oro�o). Se il re è un “essere della
foresta”, uno “straniero”, uno che “viene da fuori” (confronta capitolo III),
comunque risiede al centro del villaggio, e ne è il capo. La fertilità dei campi e la
fecondità delle donne del villaggio, inoltre, dipendono dalla salute della pianta che
285
costituisce il “doppio vegetale” del re: anche questa presa nella foresta e
trapiantata al centro del villaggio. L’oro�o viene dalla foresta, dunque, ma da lui
dipende il villaggio. La sacerdotessa, rappresentata dal grande albero del
fondatore del villaggio, è invece considerata come l'immagine stessa della
comunità, della tradizione. Ciò nonostante questa donna è la persona che ha
relazioni più strette con la foresta e con gli spiriti che la frequentano: non solo
guida le arebok durante la reclusione iniziatica, ma è l’unica, come dimostra
l’apparizione del kabido asenghé, in grado di controllare - e ricacciare indietro,
salvando il villaggio - le entità pericolose legate alla foresta.
I confini del «noi» si sono dunque dimostrati labili e le sue scelte costitutive
revocabili. Le stesse categorie concettuali che la mente utilizza per porre ordine
alla propria esperienza nel mondo, sembrano essere caratterizzate da contorni
sfumati, non precisi, non delineati. Anche l’essere umano, come dimostrano i
capitoli cinque e sei, non è visto come una entità rigida e definita una volta per
tutte, quanto piuttosto come una creatura in continuo divenire, plasmabile e
capace di trasformarsi a seconda delle circostanze e dei momenti della vita. Anche
l’esperienza della fluidità, della labilità dei confini del sé, propria della possessione,
sembra confermare questa concezione dell’essere umano come entità in continuo
mutamento, capace di trasformarsi tanto da poter modificare, come nel caso del
dufuntu, addirittura la propria identità, la personalità, il genere.
Nonostante che - come abbiamo visto ripercorrendo i capitoli di questa tesi -
le azioni e i rituali bijagó lascino affiorare questa logica dell’inclusione dell’altro, la
quale mette in crisi le categorie rigide e, con esse, la solidità e la compattezza del
«noi», «ci devono essere cose che non si mettono in discussione», dice Pedro:
emerge, cioè, la necessità di solidificare, di trovare espedienti che garantiscano la
sopravvivenza e la permanenza del «noi», contro il flusso e le possibilità
alternative (Remotti 1993b: 181).
«Se, ad esempio, critichiamo e togliamo l’autorità agli anziani non ha più motivo di esistere il
�ubir kusina, il paga grandesa. Certo, noi giovani non dovremmo più lavorare per pagare gli
anziani, ma che ne sarebbe dell’ordine? In questo modo ritorneremmo alla situazione di
286
disordine e anarchia che c’era prima del manras, del “patto”, del “giuramento”. Nel disordine,
però, non si poteva vivere, nessuno giudicava, non c’era l’oum a dare le leggi, ci si poteva anche
uccidere l’un l’altro. Per questa ragione un uomo saggio “oukout iabo�a n’bonaqui na iag”, ossia
chiamò gli anziani e parlò con loro per decidere cosa fare: essi fecero un “patto” (manras), e da
questo nasce la nostra società e il �ubir kusina è la sua legge. Per questo è importante per i
giovani fare il manras, per conoscere la società e la sua legge. Noi siamo i Bijagó, noi crediamo in
queste cose. Bisogna mantenere le nostre tradizioni, come ripetono sempre gli anziani»
(Pedro, 18 aprile, 1997).
Pedro, con queste parole, sembra voler dire che, se i confini del «noi» bijagó
sono sfumati, labili e precari, e l’illusione dell’oggettività delle categorie
concettuali è irrimediabilmente persa, «per sopravvivere occorre rimediare alla
precarietà, ridurne il raggio d’azione, ottunderne la consapevolezza» (Remotti
1990: 156). L’arbitrarietà, la precarietà dei confini, richiede dunque il manras, il
patto, l’accordo sociale.
La consapevolezza della permeabilità dei confini e della possibilità di stabilire
infiniti legami e connessioni, che affiora in diversi ambiti della cultura bijagó,
inoltre, mi ha posto in guardia rispetto alle categorie tendenzialmente rigide,
frutto di astrazione, mediante le quali è possibile tagliare, per organizzarli a nostra
discrezione, i contesti culturali. Grazie a quest’esperienza di lavoro sul terreno,
infatti, ho avuto modo di comprendere a livello pratico che «un interesse troppo
spinto per la classificazione dei fatti etnografici, procura un oscuramento, anziché
un’illuminazione della realtà indigena» (Remotti 1990: 196) e che le possibili
connessioni travalicano i recinti, i confini stabiliti dalle tipologie. Possiamo forse
trovare confini oggettivi nella realtà, nel fluire della vita, nel succedersi delle
azioni? «No. Puoi tracciarne qualcuno, perché non ce ne sono di già tracciati»
(Wittengstein 1980: 48). Le mie ultime parole, dunque, sono dedicate a Pedro e a
tutti i Bijagó di Bubaque, che mi hanno permesso di cogliere, attraverso i
significati impliciti nelle loro azioni e nelle loro parole, i pensieri che io, come loro
allieva e loro testimone, riporto in questo lavoro.
287
Glossario
(sono state riportate le parole usate nel contesto della tesi)
288
�oratoke koratakó: sacro
�um �arebok: ritmo delle anime
�o: sperma, acqua da bere
�o �orebok: gonna delle possedute
�uni: bere
�unina: restare incinta
�abido (plurale di kabido): classe d’etá maschile
�aro (plurale di karo): classe d’etá maschile
�ubir �abido: secondo passaggio del culto di possessione femminile
�ubir kusina: un ciclo rituale che distribuisce gli esseri umani in classi d’etá e
organizza una circolazione dei beni dai giovani verso gli anziani
�ubir: domandare o offrire
abane (plurale di obané): stregone
akanto bowa: donne grandi
akumo: galleria (dialetto di Canhabaque)
amba-okãnto: neonato di sesso femminile
amunú: il centro sacro della reclusione iniziatica
an’kunu: campo di riso
an’nadjoko: la natura
an’oka: la foresta (vedi mato)
an-: prefisso di luogo
anaanãko: il ventre della casa (dialetto di Canhabaque)
anarebok: luogo degli spiriti dei morti, al di lá
ancaboné: luogo nell’al di lá degli obané
ancanake: gruppi familiari dello stesso clan
ancaredo: al di lá
ancobanu: galleria (dialetto di Bubaque)
Anhaki: gli abitanti di Canhabaque
annani: stanza centrale della casa, ventre della casa (dialetto di Bubaque)
anutukó: inferno, luogo del fuoco
289
Asuga: gli abitanti di Soga
asuka o usuka: anziano
Até: noi
Ateadjogo: noi, gli uomini; é il nome con cui si definiscono i Bijagó
ato okotó: persone grandi
Baba: Grande Spirito del villaggio di Ankamona
baloba dos dufuntu: (kriolo) tempio degli spiriti dei morti (vedi candja caorebok)
baloba: santuario, tempio (vedi candja)
bente: case provvisorie, in isole disabitate, durante la coltivazione del riso
bonecas: (kriolo) statuette di legno
bombolon: kriolo per tamburo sacro (vedi kumbonki)
cabaro: karo, classe d’etá maschile
cabassa: (kriolo) zucca ( vedi gn’opara)
cadene: bambino dai sette anni fin verso la pubertá
cadjoco: una casa in cui abitano i giovani prima dell’iniziazione
camabi: kabido, classe d’etá maschile
camudú: legno pregiato (della famiglia delle leguminoseae) in cui viene
intagliato l’Orebok Okotó
camudú: pianta i cui semi stanno all’interno dell’Orebok Okotó
cana: (kriolo) acquavite di canna da zucchero
candi: gonnellina di fibre vegetali che si annoda sopra al pube e scende a metá
coscia (vedi sailla)
candja �'ocante ambu: tempio della fine del mondo
candja canxanná catammé orebok: la capanna segreta che mostra il cammino
all’anima
candja caorebok: tempio degli spiriti dei morti (vedi baloba dos dufuntu)
candja caukinka: santuario della sacerdotessa
candja: tempio, santuario
carsi: coda di vacca
cataba: il pianto, la cerimonia che conclude il lutto (vedi choro)
choro: (kriolo) il pianto, la cerimonia che conclude il lutto (vedi cataba)
290
consondró: legno pregiato (khanya senegalensis, della famiglia delle
meliaceae) in cui viene intagliato l’Orebok Okotó
contano: cibo usato nelle cerimonie, senza sale, né olio
corda de subir: (kriolo) la corda di foglie di palma intrecciate, che viene
utilizzata come cintura per mantenersi in equilibrio mentre ci si
arrampica sul tronco
cortar o mato: (kriolo) disboscare la foresta
cundere: danza delle ragazze, nella vita quotidiana
curandeiro: guaritore, colui che conosce le erbe e sa usare poteri magici
dijongago: (kriolo) rituale di interrogazione del morto (vedi naua)
djambacosse: guaritore (vedi curandeiro e ototem)
dufuntu: (kriolo) morto, defunto (vedi orebok)
econtonto: legno pregiato (dalberga saxatilis, della sottofamiglia delle
Papilionoideae) in cui viene intagliato l’Orebok Okotó
Worthman, M.Carol, 1995, Hormones, Sex, and Gender, Annual Review of Anthropology 24:
593-616.
Zahan, Dominique, 1975, Coleurs et peintures corporelles en Afrique noire. Le problème du
half-man, Diogène n°90: 115-135, Gallimard.
Zahan, Dominique, 1995, Le feu en Afrique, L’Harmattan, Paris.
Zenpleni, Andras, 1973, Pouvoir dans la Cure et pouvoir social, Nouvelle Revue de Psychanalyse,
Gallimard, 8: 141-178.
Zuzarte Cortesao, Armando, 1931, Subsidio para a historia do descobrimento da Guiné e de
Cabo Verde, Boletim da Agência Geral das Colonias, Ano Vll, n.o 76: 3-39.
323
TESI DI LAUREA.....................................................................................................................................1 URUTÉ AREBOK: LE PIROGHE D’ANIME ...................................................................................1 CULTO DI POSSESSIONE E MATERNITÀ SIMBOLICA TRA I BIJAGÓ DELLA GUINEA BISSAU......................................................................................................................................1
PARTE PRIMA...........................................................................................................................................8 Le origini mitiche e il percorso storico................................................................................................9
Capitolo I .............................................................................................................................................9 La genesi : ipotesi sulle origini ..............................................................................................................9
1. Le fonti ...........................................................................................................................................9 2. L’origine dei Bijagó secondo gli autori occidentali ................................................................14 3. L’origine dei Bijagó nell’immaginario popolare .....................................................................20 3. 1 Il nome ......................................................................................................................................20 3. 3. Il mito garanzia di identità e metacommento sociale........................................................27 Capitolo II .........................................................................................................................................37
Dai primi contatti con gli europei all’indipendenza della Guinea Bissau.....................................37 1. Un passato di fieri guerrieri .......................................................................................................38 2. La guerra e l’organizzazione della società................................................................................43 3. Il progetto Beaver ........................................................................................................................48 4. Il lamento del mare .....................................................................................................................50 5. La pacificazione dell’arcipelago..................................................................................................52
PARTE SECONDA.................................................................................................................................57 Genere e identità ...................................................................................................................................57
Capitolo III........................................................................................................................................58 Lo spazio maschile della foresta .........................................................................................................58
1. Spazio maschile e spazio femminile: una rappresentazione della differenza di genere ..58 2. Divisione del lavoro secondo il genere....................................................................................62 3. An’oka, la foresta.........................................................................................................................67 4. I kassisa: spiriti maligni della foresta.........................................................................................71 5. Gli arebok: spiriti in attesa nella foresta....................................................................................77 6. I �aro e i �abido: gli iniziandi nella foresta ..............................................................................79 7. Koratakó: lo spirito silvestre .......................................................................................................81 8. Oro�o: il re come essere della foresta ......................................................................................83 Capitolo IV........................................................................................................................................92
Emgbá: lo spazio femminile del villaggio..........................................................................................92 1. I “buoni morti” sepolti in casa..................................................................................................97 2. Gli arebok nel corpo delle donne: entità benefiche ............................................................. 101 3. I kassuká, uomini reintegrati al villaggio ................................................................................ 104 4. Orebok Okotó: il Grande Spirito del villaggio........................................................................ 105 5. L’okinka e l’albero del fondatore del villaggio ..................................................................... 108
PARTE TERZA..................................................................................................................................... 119 Le piroghe d’anime ............................................................................................................................ 119
Capitolo V....................................................................................................................................... 119 Il ciclo di vita come percorso di costruzione dell’essere umano................................................ 120
1. Premessa teorica....................................................................................................................... 120 2. La mia presenza........................................................................................................................ 124 3. Pedro Banca .............................................................................................................................. 127 4. Venire al mondo....................................................................................................................... 129 5. Il parto ....................................................................................................................................... 135
324
6. Le anomalie ............................................................................................................................... 142 6. 1. Il filho de osso (kapenó kombá) ............................................................................................ 143 6. 2. Gemellarità e malformazioni............................................................................................... 146 Capitolo VI ..................................................................................................................................... 152
Diventare uomini e donne................................................................................................................ 152 1. L’infanzia ................................................................................................................................... 152 2. Diventare uomini: il ciclo �ubir kusina e l’organizzazione in gradi d’età......................... 154 3. Diventare donne: la consapevolezza del potere di dare la vita ......................................... 164 4. L’unione tra uomini e donne: il matrimonio ....................................................................... 173 Capitolo VII ................................................................................................................................... 185
La morte .............................................................................................................................................. 185 1. L’innaturalità della morte ........................................................................................................ 192 2. Il dijongago ................................................................................................................................... 196 3. Il trattamento del cadavere e la sepoltura ............................................................................ 198 4. Il viaggio .................................................................................................................................... 203 5. Il choro ......................................................................................................................................... 205 6. Conclusioni: la relazione tra le donne e la morte................................................................ 208 6 .1. Il bisogno di dimenticare ..................................................................................................... 216 Capitolo VIII.................................................................................................................................. 218
Uruté arebok: le piroghe d’anime .................................................................................................... 218 1. Le donne come piroghe d’anime........................................................................................... 221 2. Il kanunake: la prima fase delle cerimonie di possessione.................................................. 231 3. Il �ubir �abido ........................................................................................................................... 242 4. Il ka�oke.................................................................................................................................... 248 4. 1. L’orase ...................................................................................................................................... 249 4. 2. L’ocandegn’ e l’oum................................................................................................................... 251 5. Il kabido asenghé o djaghi djaghi corebok ..................................................................................... 254 Capitolo IX..................................................................................................................................... 257
La possessione dufuntu: interpretazioni ........................................................................................ 258 1. Pedro come Lewis: la possessione è ciò che la possessione fa......................................... 258 2. Dufuntu i na fasi teatro: la metafora teatrale ............................................................................ 262 3. La possessione come trasformazione ................................................................................... 268 4. Possessione e maternità .......................................................................................................... 276 Conclusione.................................................................................................................................... 279
La logica dell’inclusione dell’altro.................................................................................................... 279 Glossario ......................................................................................................................................... 287 Bibliografia...................................................................................................................................... 295