UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E COMMERCIO DIPARTIMENTO DI ECONOMIE, SOCIETÀ E ISTITUZIONI TESI DI LAUREA LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO. UNA GRANDE OCCASIONE PERDUTA? Relatore: Ch.mo Prof. SERGIO NOTO Laureando: CARLO DE PELLEGRIN ANNO ACCADEMICO 2004-2005
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI ECONOMIA
La stesura della tesi è iniziata grazie alla volontà del professor Sergio Noto di fare
luce sulla vicenda del Common Rail, il sistema d’iniezione per motori Diesel che, da
dieci anni a questa parte, sta rivoluzionando il mercato automobilistico europeo.
Superficialmente a conoscenza dei fatti, ho accolto con immediato entusiasmo la
proposta del professore, in quanto mi permetteva di coniugare due miei grandi interessi:
ovviamente l’economia, nella sua declinazione di storia delle imprese, e la tecnologia,
in particolare quella motoristica (non posso, infatti, scordare come la mia carriera
universitaria abbia avuto un “prologo” alla Facoltà di Ingegneria Meccanica
dell’Università degli Studi di Brescia nell’anno accademico 1999-2000).
Dato per acclarato il rapporto tra innovazione tecnologica e redditività aziendale,
con questo lavoro ho voluto andare a verificare quale è stato l’impatto economico di
quella che si può definire, senza timore di esagerare, l’invenzione della fine del XX
secolo in campo motoristico: il Common Rail.
La metà delle automobili vendute oggi in Europa è a gasolio. Chissà che cosa
direbbe l’ingegnere tedesco Rudolf Diesel nel vedere il suo motore portato a tanta
gloria. Di questo boom dovrebbe ringraziare anche un gruppo di ingegneri e dottori
italiani che con grande entusiasmo hanno lavorato anni per realizzare proprio il sistema
Common Rail.
Eppure, per vederlo trasformato in realtà industriale, si è dovuto cedere tutto a un
grande gruppo come Bosch. Quegli ingegneri e dottori lavoravano per la Fiat e il
Common Rail è una storia di eccellenza italiana. Il fatto è che, a nove anni dal lancio
dell’Alfa Romeo “156” e della Mercedes-Benz “classe C”, prime auto a esserne
equipaggiate, ben poche persone forse ricordano che questo sistema, ormai impiegato da
oltre quindici costruttori, è stato pensato e sviluppato dentro i nostri confini.
Il mio impegno è stato, dopo una premessa dedicata all’innovazione (definizione,
carattere cumulativo, caso italiano), quello di ricostruire tutta la storia del sistema
Common Rail in un continuo e inevitabile intreccio tra aspetti tecnologici ed economici
dell’attività industriale. Tutto questo è stato finalizzato a cercare di capire, forse
presuntuosamente, perchè da Torino, o meglio da Bari, il Common Rail migrò a
Stoccarda, alla Bosch.
INTRODUZIONE
2
La domanda alla base di questo lavoro è stata: una diversa gestione dell’affare
Common Rail avrebbe potuto modificare il destino del più grande gruppo
imprenditoriale italiano, la Fiat appunto, oppure la scelta industriale di cedere il progetto
ha avuto un compiuto senso economico?
Desidero precisare che per la stesura di questo lavoro è stata fondamentale la
ricerca del materiale sulla rete Internet, che mi ha permesso di reperire informazioni non
ancora disponibili sui tradizionali canali di ricerca e, cosa non secondaria, ha
rappresentato un utile strumento per contattare in tempi rapidi tutti i soggetti
indispensabili alla realizzazione del mio progetto.
Trattandosi di fatti abbastanza recenti, nel mio lavoro di ricerca ho incontrato
diverse difficoltà, poiché non esiste una pubblicistica esauriente che abbia potuto
sostituire le interviste personali. A mia conoscenza è, infatti, la prima volta che la
vicenda del Common Rail Fiat viene affrontata in maniera così completa e sistematica.
In sostanza, l’originalità del mio lavoro deriva proprio dal fatto che si basa, in
buona parte, su fonti che spesso per la prima volta hanno offerto elementi per delineare
un quadro dei fatti. La ricostruzione di questi ultimi non è stata dunque facile e mi ha
imposto di far ricorso a informazioni e dati originali non verificati, ottenuti grazie a
interviste dirette e scambi di e-mail con coloro che sono stati coinvolti, con diversi ruoli
e a diversi livelli, nella “saga” del Common Rail.
Alle citate difficoltà si è aggiunta anche una certa riservatezza dei miei
interlocutori che, in relazione ad alcune dichiarazioni “sensibili”, hanno voluto
comprensibilmente escludere espliciti riferimenti alla loro persona. Certe informazioni
compaiono dunque nel testo della tesi come “Fonte riservata” e ciò non in quanto io
abbia voluto attribuire al mio lavoro un alone di mistero, ma essenzialmente perchè si
tratta di segreti industriali e aziendali e di grandi strategie di mercato che, anche se
riguardanti il passato, gli interessati non hanno voluto giustamente divulgare in
connessione al loro nome.
Dopo una prima valutazione delle informazioni raccolte sulla Rete, ho dato
dunque inizio a una minuziosa attività di contatti personali, in principio attraverso lo
strumento della posta elettronica (alla fine del lavoro le e-mail inviate sono state 215,
per le quali ho ricevuto 134 risposte dagli interpellati) e successivamente anche con
interviste realizzate personalmente.
INTRODUZIONE
3
Questo lavoro non sarebbe mai stato realizzabile senza la fondamentale
collaborazione delle persone che, grazie alla loro estrema disponibilità, mi hanno
permesso di elaborare le parti della tesi relative a: la storia e l’evoluzione del sistema
Common Rail, la Fiat e lo sviluppo del Common Rail, le vicende successive alla
cessione del Common Rail e l’opportunità della stessa. La loro diretta testimonianza ha
dato un valore aggiunto alla mia tesi, in quanto la redazione delle parti in questione ha
avuto luogo soprattutto grazie alle informazioni, altrimenti introvabili, fornite da chi, in
diversi periodi, ha preso attivamente parte alla storia del Common Rail.
Un particolare ringraziamento va, dunque, all’ingegner Francesco Paolo Ausiello,
R&D Diesel and University Relation Director Magneti Marelli PWT, che è stato dal
1985 al 1991 il principale responsabile delle attività di sviluppo del progetto Common
Rail di Fiat. L’ingegner Ausiello, nel corso dell’incontro concessomi il 29 novembre
2005 presso la sede bolognese della Magneti Marelli (si veda Appendice A), ha avuto la
pazienza di spiegarmi dettagliatamente come è nato il progetto Common Rail, quali
erano gli obiettivi di Fiat in relazione al nuovo sistema d’iniezione e quali sono state le
dinamiche connesse alla sua implementazione nel periodo 1985-1991. L’ingegner
Ausiello mi ha anche fornito importanti informazioni circa i precedenti studi sui quali si
è innestata l’attività di Fiat finalizzata allo sviluppo del sistema Common Rail.
Un medesimo particolare ringraziamento va all’ingegner Stefano Iacoponi,
attualmente socio di alcune aziende di progettazione e consulenza tecnica e
organizzativa, che in passato ha ricoperto ruoli di prima grandezza nel gruppo Fiat,
come quello di direttore tecnico di Fiat Auto dal 1991 al 1999 e quello di presidente del
Centro Ricerche Fiat (CRF) dal 1999 al 2003. L’ingegner Iacoponi, attraverso un
intenso scambio di e-mail tra il dicembre 2005 e il febbraio 2006 (si veda Appendice
B), mi ha fornito informazioni che si sono rivelate fondamentali al fine di collegare
l’aspetto tecnologico della vicenda Common Rail con quello economico e di politica
industriale in particolare. Sono particolarmente grato all’ingegner Iacoponi, perchè
grazie a lui sono riuscito a liberarmi da molti preconcetti, legati alla visione quasi
“mistica” del prodotto Common Rail presente su molte pubblicazioni giornalistiche, i
quali mi avevano immancabilmente condotto a considerare la cessione del progetto alla
Bosch come un regalo incomprensibile. Affrancato da questi pregiudizi mi sono
INTRODUZIONE
4
impegnato nel difficile compito di cercare di capire davvero i motivi per i quali si è
giunti a un certo accordo, inserendo il tutto nel contesto storico-aziendale di riferimento.
Un grazie speciale va poi all’ingegner Callisto Genco, attualmente Exhaust
System Project Engineer in un’azienda di sistemistica veicoli del Lussemburgo, che è
stato ricercatore al centro Elasis di Bari dal 1991 al 1996. L’ingegner Genco, nel corso
di una lunga intervista telefonica realizzata il 13 dicembre 2005 (si veda Appendice C),
mi ha informato dell’intensa attività svolta presso il centro Elasis (Società consortile del
gruppo Fiat) di Bari, dove è stato finalizzato il progetto Common Rail successivamente
commercializzato da Bosch. L’ingegner Genco mi ha ragguagliato in particolare sulle
problematiche affrontate per sviluppare il nuovo prodotto e sui brevetti realizzati, sulla
presentazione del prodotto a Mercedes-Benz e Bosch, su alcuni perchè della cessione e
sui termini più generali del patteggiamento Fiat-Bosch.
Un sentito ringraziamento va anche all’ingegner Ferruccio Tonello, dirigente di
Fiat Powertrain Technologies, che al CRF si è occupato della prima applicazione del
Common Rail su motore. L’ingegner Tonello, nel corso dell’incontro concessomi il 17
novembre 2005 presso la sede di Fiat Powertrain Technologies di Torino (si veda
Appendice D), mi ha anch’esso fornito importanti informazioni e pareri sulla storia del
Common Rail alla Fiat.
Grazie infine all’ingegnere svizzero Walter Knecht, direttore generale di Dereco/
Iveco Motorenforschung dal 1982 al 2003, il quale mi ha inviato un suo scritto che si è
rivelato basilare per ricostruire gli studi sul sistema Common Rail antecedenti al
progetto portato avanti dalla Fiat.
Grazie a tutte queste persone e a tutti coloro che mi hanno aiutato e che non ho
potuto citare, grazie soprattutto per la loro gentilezza e disponibilità.
CAPITOLO 1: L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO
ECONOMICO
1.1 I PROCESSI INNOVATIVI
La vita di tutti i giorni è costellata di innovazioni. Alcune di queste entusiasmano,
come nel caso degli ultimi ritrovati della tecnologia quali, per esempio, i navigatori
satellitari o i lettori mp3, altre sono date per scontate, come forme di assistenza medica
più moderne o modelli di formazione di base e continua orientati al futuro, altre ancora,
invece, passano spesso inosservate, come nel caso di un nuovo software gestionale
dedicato al settore della vendita delle bevande in un esercizio ricettivo.
Resta il fatto che le innovazioni, non importa a quale ambito esse si riferiscano,
sono un pilastro importante dell’economia e della società.
1.1.1 Idea, Scoperta, Invenzione
Al concetto di innovazione si è per lo più soliti associare i concetti di idea,
scoperta e invenzione.
Per idea si intende in generale una trovata o una nuova rappresentazione mentale1.
I concetti di scoperta e invenzione sono invece molte volte confusi. L’espressione
scoperta può essere utilizzata in termini generali per designare tutte le forme di
conoscenza della natura, attengano esse alla mera descrizione empirica di determinati
oggetti o fenomeni naturali, ovvero alla spiegazione scientifica delle cause, degli effetti
e delle relazioni intercorrenti tra essi2. Per invenzione si intende invece la soluzione di
un problema tecnico da cui segue la realizzazione, da parte dell’uomo, di qualcosa che
prima non esisteva3.
1 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, ottobre 2005, Innovazione. Appunti per gli studenti sul tema dell’innovazione, <http://www.hk-cciaa.bz.it/servizi/wifo/school/PDF/innovation_it.pdf>, (12.2005), p. 4. 2 Giuseppe SENA, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni fondamentali, in «Rivista di Diritto Industriale», Milano, Giuffrè Editore, 1990, parte I, pp. 318, 319. 3 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), 2004, Creatività ed Innovazione. Una breve storia dei processi che portano al cambiamento della società, <http://www.dintec.it/dispense.pdf>, (12.2005), p. 9.
CAPITOLO 1
6
Fig. 1.1 Idea, Scoperta, Invenzione.
Le prime invenzioni si devono all’ingegno dell’uomo primitivo. Egli si accorse,
ad esempio, che una pietra stretta in mano permetteva di potenziare l’azione del braccio,
rendendo possibili attività prima impensabili come il taglio e la lavorazione del legno e
di altri materiali. Fu questa osservazione che condusse all’invenzione dell’ascia di
pietra.
È inventore chi realizza qualcosa di nuovo o apporta un miglioramento tanto
rilevante in campo tecnico da poter essere definito un’invenzione. Un inventore è colui
il quale:
1. riconosce un problema;
2. ha la volontà di risolvere tale problema tecnico in modo originale e nuovo;
3. è riuscito in questo intento almeno una volta nella sua vita4.
L’immagine classica dell’inventore è quella di una persona particolarmente
creativa, intelligente e spesso stravagante. Alla base di questa figura si possono
individuare, in parte, luoghi comuni nati su leggende metropolitane o su figure
emblematiche (su tutte quella di Leonardo da Vinci) e, in parte, il bisogno di attribuire
4 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 4.
Idea
...nuovo pensiero
Scoperta
...non ancora conosciuto
Invenzione
...qualcosa di nuovo
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
7
caratteristiche eccezionali a persone in grado di trovare soluzioni non convenzionali ai
problemi, siano questi più o meno comuni.
Tuttavia gli inventori moderni necessitano di solide basi tecniche per poter
risolvere le problematiche cui si confrontano ogni giorno. Ciò aiuta a comprendere
perché difficilmente l’inventore sia anche un innovatore. L’inventore si confronta
solitamente con problemi tecnici ed è quindi focalizzato su aspetti tipicamente
tecnologici, piuttosto che economici o sociali; egli solitamente, dopo aver affrontata e
risolta una criticità, volge lo sguardo verso il prossimo ostacolo, piuttosto che fermarsi a
pensare su come impiegare estensivamente l’invenzione. Non si vuole così intendere
che l’inventore non sia in grado di individuare le potenzialità della propria invenzione
ma, piuttosto, che la forte attenzione alle caratteristiche tecniche del progetto gli rende
più difficile tale compito5.
Noti inventori di successo sono lo statunitense “Thomas Alva Edison”6 e il
tedesco “Artur Fischer”7.
1.1.2 Innovazione
Affrontando il tema “innovazione” sicuramente vengono alla mente molti concetti
diversi che scaturiscono dall’esperienza quotidiana, dalle informazioni provenienti dai
mass media e, più in generale, dall’ambiente frequentato. Una cosa è certa però, il
termine innovazione non equivale a quello di invenzione.
cambiamento, mutamento, trasformazione8. L’innovazione è un fenomeno complesso
che si alimenta sia con conoscenze empiriche sia con conoscenze scientifiche,
finalizzate alla creazione di un ritorno economico. Più precisamente, si può parlare di
5 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), Creatività ed Innovazione, cit., p. 9. 6 Thomas Alva Edison (Milan, Ohio - Stati Uniti, 11 febbraio 1847 - West Orange, New Jersey, Stati Uniti, 18 ottobre 1931) fu inventore e uomo d'affari. Edison era considerato uno dei più prolifici inventori del suo tempo, avendo ottenuto il record di 1.093 brevetti a suo nome, ad esempio il fonografo, la lampadina elettrica, la macchina per scrivere. <http://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Alva_Edison>, (12.2005). 7 Artur Fischer (Tumlingen, Baden Württemberg – Germania, 31 dicembre 1919) è inventore e uomo d’affari. Ha ottenuto 1.080 brevetti a suo nome, ad esempio il tassello in nylon. <http://de.wikipedia.org/wiki/Artur_Fischer>, (12.2005). 8 Lucio FELICI et al. (a cura di), 1987, Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana 2003, Milano, Garzanti Linguistica, 2002, p. 1097.
CAPITOLO 1
8
innovazione, quando l’impresa introduce sul mercato una nuova conoscenza o una
nuova modalità di utilizzo di competenze esistenti allo scopo di sfruttarle
economicamente. Alla base dell’innovazione vi può quindi essere un’invenzione, un
brevetto o una semplice intuizione, ma affinché queste si traducano in vera e propria
innovazione è necessario che si attivi un processo di valorizzazione economica. Con il
termine valorizzazione economica di un’innovazione si fa riferimento pertanto alla sua
adozione da parte delle imprese, esistenti o nuove, e alla conseguente traduzione in
risultati economici concreti9.
Appare a questo punto chiara la netta distinzione concettuale tra invenzione ed
innovazione, evidenziata per primo dall’economista austriaco Joseph A. Schumpeter:
“Fintanto che non sono adottate in pratica, le invenzioni dal punto di vista
economico sono irrilevanti. E il portare ad effettuazione un miglioramento è un compito
completamente diverso da quello di inventarlo, e inoltre un compito che richiede tipi di
capacità completamente differenti. Sebbene naturalmente gli imprenditori possano
essere inventori, come possono essere capitalisti, essi non sono inventori a motivo della
natura della loro funzione ma soltanto per coincidenza e viceversa. Non solo, ma le
innovazioni la cui introduzione caratterizza la funzione dell’imprenditore, non devono
affatto essere necessariamente invenzioni.”10.
Il processo di invenzione è dunque legato al campo delle attività tecnico-
scientifiche, mentre l’innovazione si lega alla tecnologia e alle capacità imprenditoriali.
Non è sufficiente saper concettualizzare una nuova idea (perception), si deve essere
anche in grado di agire per introdurre nel mercato l’invenzione (action). L’applicazione
di un’invenzione ad un prodotto/processo richiede una precisa strategia aziendale e
l’operare delle forze del mercato che accolga positivamente l’innovazione,
determinandone il valore per i consumatori. Sono questi ultimi, infatti, a detenere il
potere di selezione positiva o negativa delle innovazioni11.
9 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), Creatività ed Innovazione, cit., p. 3. 10 Joseph A. SCHUMPETER, 1971, Teoria dello sviluppo economico, Firenze, Sansoni, 1971, p. 98; ed. orig. 1911, Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Berlin, Duncker & Humblot, 1946. 11 Fiorenza BELUSSI, marzo 2004, Il management dell’innovazione, <http://www.decon.unipd.it/info/sid/materiale3/bel-management_innovazione.pdf>, (12.2005), pp. 6, 7. Sempre alla pagina 6 di tale contributo si sottolinea anche la distinzione tra scienza e tecnologia. La
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
9
L’innovatore ha dunque il fondamentale ruolo di comprendere fino in fondo il
potenziale che si cela in un’invenzione (ne sia egli stesso l’inventore oppure no),
modificandone eventualmente certi aspetti, integrandone altri, proseguendo sulla strada
aperta dall’inventore. Le competenze che possono portarlo a percorrere il cammino da
lui stesso prefissato sono molteplici, alcune saranno economiche, altre tecniche, altre
ancora sociali, ma tutte dovranno cooperare per realizzare l’interpretazione del valore
rappresentato dall’invenzione iniziale per la società12.
Come detto il concetto di innovazione può avere differenti declinazioni. In ambito
economico Schumpeter suddivide l’innovazione in più forme di cambiamento:
“1. Produzione di un nuovo bene, vale a dire di un bene non ancora familiare alla
cerchia dei consumatori, o di una nuova qualità di un bene.
2. Introduzione di un nuovo metodo di produzione, vale a dire non ancora
sperimentato nel ramo dell’industria in questione, che non ha affatto bisogno di
fondarsi su una nuova scoperta scientifica e che può consistere anche in un nuovo
modo di trattare commercialmente una merce.
3. Apertura di un nuovo mercato, vale a dire di un mercato in cui un particolare
ramo dell’industria di un certo paese non era ancora penetrato, sia che questo
mercato esistesse già prima oppure no.
4. Conquista di una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime e di
semilavorati, anche qui sia che questa fonte di approvvigionamento esistesse già
prima sia che si debba innanzitutto crearla.
5. Attuazione di una riorganizzazione di una qualsiasi industria come la creazione
di un monopolio (ad esempio mediante la formazione di un “trust”) o la sua
distruzione.”13.
scienza, in generale, rappresenta la ricerca di nuova conoscenza connessa alla formulazione di nuove teorie scientifiche. La tecnologia, invece, rappresenta l’applicazione di nuova conoscenza appresa attraverso il metodo scientifico a problemi di tipo pratico. 12 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), Creatività ed Innovazione, cit., p. 9, 10. 13 Joseph A. SCHUMPETER, Teoria dello sviluppo economico, cit., p. 76. Esempi di innovazioni: del tipo 1 sono il personal computer e il motore a reazione; del tipo 2 sono robot e macchine a controllo numerico computerizzato; del tipo 3 è l’internazionalizzazione; del tipo 4 sono la plastica e i nuovi materiali in generale; del tipo 5 sono la forma a matrice e il layout per celle.
CAPITOLO 1
10
Senza la pretesa di esaurire il denso universo delle classificazioni di innovazione,
se ne propongono qui altre due, fra le più significative ed utilizzate. La prima distingue
le innovazioni in:
- assolute (o di mercato), se la corrispondente offerta viene introdotta sul
mercato per la prima volta;
- relative (o d’impresa), se l’offerta risulta un elemento di novità solo per
l’impresa in questione e non per il mercato di per sé14.
La seconda, invece, prevede le seguenti tipologie:
- innovazioni incrementali, se introduzione di miglioramenti in prodotti o
processi esistenti;
- innovazioni radicali, se introduzione di prodotti/processi non esistenti nel
mercato;
- nuove architetture di prodotto, se configurazione dei rapporti di
interdipendenza e integrazione tra componenti di un prodotto;
- nuovi paradigmi tecno-economici, se sistemi di innovazioni radicali e
incrementali collegate con effetti pervasivi anche su organizzazione,
management e istituzioni del sistema economico15.
1.1.3 L’importanza dell’innovazione
L’innovazione è strettamente correlata allo sviluppo economico e al benessere
sociale16.
A tal proposito Schumpeter, già nel 1911, afferma:
14 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 6. Esempio di innovazione assoluta è l’introduzione sul mercato della bevanda Red Bull; di innovazione relativa si può invece parlare nel caso del lancio della barretta energetica Loacker. 15 Salvatore TORRISI, Economia e management dell’innovazione, <http://web.unicam.it/matinf/Dispense/torrisi/Dispense/Economia%20e%20gest%20delle%20imprese/innovazione.pdf>, (12.2005), pp. 4, 5. Esempi di innovazioni: incrementali sono le nuove funzionalità; radicali sono il nylon e il microprocessore. Esempi di nuovi paradigmi tecno-economici sono l’energia elettrica e l’information technology. 16 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 8.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
11
“[...] terzo elemento con cui lavora la nostra analisi, cioè le nuove combinazioni
dei mezzi di produzione e il credito [...] può tuttavia essere indicato come il fenomeno
fondamentale dello sviluppo economico.”17.
E ancora:
“[...] da dove provengono le somme che vengono adoprate per l’acquisto dei
mezzi di produzione necessari per le nuove combinazioni, se il soggetto economico in
questione – in linea di principio – non le ha già? La risposta che di solito sì da è
semplice: dall’aumento annuo del risparmio dell’intera società più la parte di risorse
che ogni anno si rendono disponibili.”18.
L’innovazione viene a costituire, assieme all’aumento dello stock di capitale, un
nuovo fattore per lo sviluppo economico di un paese principalmente attraverso tre canali
diversi:
- lo sfruttamento economico dell’innovazione da parte dell’impresa che per
prima la introduce e compie i primi investimenti;
- gli investimenti indotti dall’innovazione che vanno a sommarsi agli
investimenti del punto precedente;
- il sistema bancario che, attratto dalle opportunità di sfruttamento economico
delle innovazioni, parteciperà sempre più attivamente al loro finanziamento19.
Lo sviluppo economico descrive l’andamento reale (ovvero al netto
dell’inflazione) del PIL (Prodotto Interno Lordo) di un’economia nazionale, calcolato
solitamente su un periodo di riferimento annuale. Un PIL in crescita è indice di
un’attività economica in espansione e si accompagna anche ad un aumento del reddito
nazionale. Lo sviluppo economico incrementa il benessere materiale di un sistema
economico. Lo sviluppo non si concretizza però solo nella crescente disponibilità di
beni materiali, ma comprende anche gli aspetti qualitativi. Prodotti e servizi innovativi
raggiungono generalmente prezzi superiori e conquistano maggiori quote di mercato.
17 Joseph A. SCHUMPETER, Teoria dello sviluppo economico, cit., p. 84. 18 Ibidem, p. 81. 19 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), Creatività ed Innovazione, cit., p. 4.
CAPITOLO 1
12
Appare quindi evidente che l’innovazione rappresenta uno dei pilastri fondamentali del
benessere20.
L’innovazione è essenziale non solo a livello di sistema-paese, ma anche a livello
microeconomico per le singole imprese che vogliono mantenere la propria competitività
ed espandersi.
Il vantaggio competitivo di un’impresa scaturisce dalla capacità di produrre in
modo migliore o meno costoso oppure dalla capacità di realizzare nuovi prodotti. Da ciò
consegue che le imprese possono competere con successo, ad esempio, quando offrono
prodotti e servizi innovativi, migliori e/o più economici, che i mercati e i clienti
richiedono e sono in grado di assorbire, ma che le imprese concorrenti non sono in
grado di produrre oppure non hanno ancora prodotto21.
1.1.4 Il rapporto tra l’innovazione e la ricerca e sviluppo (R&S)
La ricerca è l’indagine sistematica, tesa ad ampliare il complesso di cognizioni e
ad elaborare soluzioni di problemi mediante l’applicazione di metodi scientifici22.
Si può distinguere tra ricerca di base e ricerca applicata. La prima, chiamata anche
ricerca fondamentale o pura, ha come obiettivo primario l'avanzamento della
conoscenza e la comprensione teorica delle relazioni tra le diverse variabili in gioco in
un determinato processo. È esplorativa e spesso guidata dalla curiosità, dall'interesse e
dall'intuito del ricercatore. Viene condotta senza uno scopo pratico in mente, anche se i
suoi risultati possono avere inaspettate ricadute applicative. L'espressione "di base"
indica che, attraverso la generazione di nuove teorie, la ricerca di base fornisce le
fondamenta per ulteriori ricerche, spesso con fine applicativo. Solitamente questo tipo
di ricerca si svolge nelle università. La ricerca applicata è invece svolta allo scopo di
trovare soluzioni pratiche e specifiche. Il suo scopo primario non è l'avanzamento della
conoscenza, bensì lo sfruttamento della conoscenza a fini pratici. È normalmente di tipo
descrittivo e basata su precedenti ricerche di base. Viene eseguita soprattutto nelle
20 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 8. 21 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), Creatività ed Innovazione, cit., p. 3. Assieme all’innovazione, esistono svariati altri fattori determinanti il vantaggio competitivo di un’impresa quali ad esempio il prezzo, la durata, la qualità, il funzionamento, la sicurezza, la facilità di impiego. 22 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 9.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
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imprese oppure in università con finanziamenti provenienti da industrie interessate.
Spesso il confine tra ricerca di base e ricerca applicata non è così netto e il criterio per
classificare una determinata ricerca è piuttosto definito dal presunto intervallo di tempo
in cui la ricerca si dovrà sviluppare prima di portare a ricadute applicative23.
La ricerca di sviluppo (o semplicemente sviluppo) sfrutta la conoscenza di base e
applicata per dare luogo ad applicazioni direttamente commerciali, legate alla
produzione di materiali utili, strumenti, prototipi, processi, sistemi e metodi
industriali24.
L’innovazione rappresenta l’introduzione sul mercato dei risultati della R&S.
Mentre nella R&S si sostengono delle spese per acquisire nuovo sapere, l’innovazione è
la trasformazione del sapere in denaro25. L’attuale rapporto tra l’innovazione e la R&S è
il risultato dell’evoluzione del sistema scientifico avvenuta in parallelo allo sviluppo del
sistema economico moderno, sviluppo che prende le mosse “in Inghilterra alla fine del
‘700, sotto l’impulso di nuovi paradigmi tecnologici: la meccanizzazione dell’industria
tessile e successivamente l’introduzione del motore a vapore e lo sviluppo della rete
ferroviaria”26. Si cercherà di illustrare sinteticamente questa complessa materia
proponendo una periodizzazione delle varie fasi di sviluppo del sistema capitalistico,
rivolgendo l’attenzione all’evoluzione del sistema scientifico che è alla base dell’attività
innovativa.
Nella fase del capitalismo competitivo (1770-1880) gli imprenditori individuali
sono soprattutto artigiani e scienziati dilettanti. Essi provengono sia dalla borghesia
urbana che dalle corporazioni e dalle accademie scientifiche27.
Nella fase successiva, detta del fordismo-capitalismo manageriale (1880-1970),
che culminerà appunto col trionfo delle teorie di Henry Ford e Frederick W. Taylor,
sono le stesse imprese a divenire il perno dei nuovi sviluppi scientifici e tecnologici,
attraverso i loro laboratori industriali di R&S, che si diffondono a partire dalla metà
dell’800 inizialmente nei settori elettro-meccanici e chimici. Per la prima volta l’agente
economico impresa ha un ruolo attivo nello sviluppo della tecnologia e nel progresso
delle conoscenze scientifiche che ne costituiscono il presupposto. Nella grande impresa
23 <http://it.wikipedia.org/wiki/Ricerca>, (12.2005). 24 Alessio MISURI e Sonia CARBONE (a cura di), Creatività ed Innovazione, cit., p. 7. 25 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 10. 26 <http://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_industriale>, (12.2005). 27 Fiorenza BELUSSI, Il management dell’innovazione, cit., p. 1.
CAPITOLO 1
14
la procedura dell’innovazione diventa “routine” e la scoperta di nuove tecnologie è
direttamente collegata all’entità degli sforzi profusi nelle attività di R&S. Col fordismo,
l’apparato scientifico e tecnologico del sistema capitalistico si specializza e vengono
realizzate le istituzioni scientifiche a sostegno della scienza e della tecnologia. Trova
nuovo slancio la costituzione di politecnici e di facoltà universitarie tecniche, si
investono risorse pubbliche per sviluppare la scienza attraverso la creazione di
organismi di ricerca specifici: ad esempio, in Italia, il Consiglio Nazionale delle
Ricerche (CNR). Per quanto riguarda il sistema educativo vengono creati i vari sistemi
di formazione professionale nazionali. Inoltre, in seguito alla Convenzione di Parigi del
1883 si costituisce il sistema brevettuale internazionale. In questa fase nascono
sostanzialmente i primi elementari sistemi innovativi nazionali, caratterizzati da
peculiarità tipiche per ciascun paese che si distingue per il diverso modello di
infrastrutturazione privata e pubblica delle attività di R&S. Dopo la Seconda guerra
mondiale il ruolo dell’intervento pubblico nell’accelerazione del progresso scientifico
assume ulteriore rilevanza, considerato il massiccio finanziamento dei paesi più
sviluppati alle attività di R&S militari e alle attività spaziali28.
Nella terza fase, cosiddetta del post-fordismo specializzazione flessibile (1970-
2006), l’accumulazione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche diviene sempre più
ampia, tanto da spingere le imprese ed i singoli soggetti ad una specializzazione
scientifico-tecnologica sempre maggiore. Così le imprese ed i loro laboratori di R&S
vedono rapidamente cadere i loro margini di auto-sufficienza e di autonomia. Nessuna
impresa è più in grado di dominare da sola lo sviluppo delle nuove tecnologie. Per di
più, il brusco innalzamento dei costi di sviluppo dell’innovazione rende questi ultimi
non più alla portata di una sola impresa. Divengono, pertanto, numerosi i rapporti di
cooperazione nella ricerca tra imprese private e la collaborazione tra pubblico e privato.
La varietà delle soluzioni organizzative diventa dominante: grandi e piccole imprese,
imprese globalizzate e imprese radicate localmente, reti centrate e reti aperte, imprese
specializzate e imprese multiprodotto. Questo ha l’effetto di moltiplicare il numero dei
potenziali agenti innovatori: non più solo la grande impresa e la ricerca pubblica, ma
anche i parchi scientifici, i centri no-profit, laboratori universitari e pubblici collegati ad
enti governativi intermedi (regionali o sovranazionali), la ricerca cooperativa, le start-up
28 Ibidem, pp. 2, 3.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
15
innovative, le grandi reti di ricerca internazionali, gli incubators ecc. Il sistema
scientifico-tecnologico sperimenta una nuova espansione ed aumentano le fonti che
devono essere esplorate dalle imprese per cercare nuova conoscenza da utilizzare per
l’attività innovativa. Alle imprese compete il ruolo di sviluppare internamente nuova
conoscenza, attraverso il laboratorio di R&S o l’uso di altre funzioni aziendali, e di
assorbire, dall’esterno, altra conoscenza rilevante attraverso l’impiego di fonti
pubbliche, l’imitazione di altre imprese rivali, attraverso l’utilizzo di fornitori innovativi
ecc.29.
Tab. 1.1 Le tappe evolutive del sistema scientifico
Capitalismo competitivo (1770-1880)
Fordismo e capitalismo manageriale (1880-1970)
Post-fordismo/specializzazione flessibile
(1970-2006) 1. Inventori individuali e artigiani “scienziati dilettanti” 2. Accademie scientifiche, scuole di formazione professionale per l’industria
3. Laboratori di R&S in-house nelle grandi imprese, istituzione di politecnici, università scientifiche e centri di ricerca pubblici, nascita del sistema brevettuale internazionale (1883) 4. Ricerca pubblica militare
5. Espansione del sistema scientifico pubblico, aumento nelle grandi imprese dell’intensità di R&S 6. Parchi scientifici, sviluppo del “procurement” per la ricerca militare, start-up innovative, nascita di distretti high-tech 7. Aumento dei finanziamenti pubblici per la ricerca medica e sanitaria, start-up biotech
Fonte: Fiorenza BELUSSI, Il management dell’innovazione, cit., p. 5.
Nei moderni sistemi produttivi la funzione innovativa è ancora svolta, almeno in
parte, da innovatori individuali che competono coi colossi dell’industria mondiale,
introducendo continuamente nuove combinazioni produttive nel sistema economico.
Basti pensare, a tal proposito, alla nascita della “Microsoft di Bill Gates”30 o alla
competizione condotta dalla “Apple Computer, fondata dai poco più che ventenni Steve
Jobs e Steve Wozniak”31, alla più grande azienda di informatica nel mondo, l’IBM.
Tuttavia, l’attività innovativa è concentrata soprattutto nelle grandi organizzazioni
private e pubbliche, dove, qualora esse riescano a sconfiggere la quasi naturale tendenza
all’invecchiamento e all’obsolescenza, ha luogo un’accumulazione tecnologica di lungo
periodo. In alcuni settori le grandi imprese hanno creato rilevanti barriere all’entrata di
strutturali traggono origine dai bisogni insoddisfatti dei clienti sul mercato. Tali
esigenze sono riconosciute dalle imprese che sviluppano di conseguenza un nuovo
prodotto in grado di soddisfarle33.
Le innovazioni “market pull” sono solitamente di tipo incrementale, infatti, il
cliente raramente propone innovazioni lontane dalla propria esperienza di consumo. Si
tratta di miglioramenti di prestazioni e di adattamenti dei linguaggi e dei modelli socio-
32 Fiorenza BELUSSI, Il management dell’innovazione, cit., pp. 14, 15. 33 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 11.
Fig. 1.2 Processo innovativo originato dalla domanda. Fonte: Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 11.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
17
culturali che generalmente possono essere sviluppati in tempi relativamente brevi34.
Esempio di innovazione “market pull” è il Post-it della 3M, il quale ha permesso di
risolvere il problema del disordine sulle scrivanie causato dai biglietti volanti.
Un'innovazione che consegue invece da una nuova tecnologia o da una nuova
combinazione di tecnologie esistenti è detta
“technology push”, letteralmente “spinta
dalla tecnologia”. Innovazioni di questo tipo
richiedono solitamente tempi di
preparazione piuttosto lunghi (fino a dieci
anni)35.
Caratteristiche essenziali di
un’innovazione “technology push” sono il
maggior contenuto radicale e la prevalenza
dell’aspetto tecnico su quello di senso36. Esempio di innovazione “technology push” è la
tecnologia digitale che ha portato alla sostituzione degli apparecchi analogici.
1.1.6 La relazione tra invenzione, innovazione e brevetto
Non tutte le invenzioni sono adottate dalle imprese (figura 1.4). Inoltre, solo una
piccola parte delle invenzioni/innovazioni sarà brevettata, sia in relazione alla loro
importanza economica, sia in relazione alla concreta difendibilità dell’innovazione
stessa mediante l’istituto del brevetto. Si deve però presumere che le innovazioni di
base e quelle strategiche, che possono garantire un vantaggio competitivo sugli altri
operatori del settore, saranno protette dalle imprese attraverso lo strumento
brevettuale37.
34 Elvio CICCARDINI, Strategie di sviluppo Innovazione di prodotto, <http://web.unicam.it/matinf/Dispense/ciccardini/Dispense/07_Strategie%20di%20sviluppo.ppt>, (12.2005), p. 33. 35 Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 11. 36 Elvio CICCARDINI, Strategie di sviluppo Innovazione di prodotto, cit., p. 35. 37 Fiorenza BELUSSI, Il management dell’innovazione, cit., p. 7.
Fig. 1.3 Processo innovativo originato dalla tecnologia. Fonte: Oswald LECHNER e Barbara MORODER, Innovazione, cit., p. 11.
CAPITOLO 1
18
Fig. 1.4 Relazione tra invenzione, innovazione e brevetto. Fonte: Fiorenza BELUSSI, Il management dell’innovazione, cit., p. 7.
Per l’impresa, infatti, non è importante solo realizzare un’innovazione o essere la
prima a realizzarla; è altrettanto importante essere l’unica. L’impresa che innova
consegue un vantaggio concorrenziale che svanisce non appena i concorrenti abbiano a
loro volta adottato la medesima innovazione. È dunque fondamentale, per l’impresa,
cercare di conservare l’esclusiva sulla propria innovazione. L’impresa può cercare di
tenere nascosto ai concorrenti la struttura della sua innovazione, in modo da impedire
che essi possano copiarla. Questo è lo strumento del segreto aziendale che però non è in
grado di coprire qualsiasi innovazione e che non sempre raggiunge l’effetto
desiderato38.
Per evitare che la protezione dell’innovazione sia affidata solamente all’insicuro
regime del segreto aziendale esiste il brevetto per invenzione: l’istituto giuridico
attraverso il quale l’ordinamento assicura all’inventore il diritto di utilizzazione
esclusiva dell’invenzione per un certo periodo di tempo. In altre parole, il brevetto è un
diritto esclusivo di utilizzazione dell’invenzione nel territorio dello stato concedente per
un certo periodo di tempo (attualmente, in Italia e quasi ovunque, vent’anni). Va notato,
però, che il brevetto copre soltanto l’innovazione tecnologica; si indirizza, cioè, solo
verso le innovazioni qualificabili come industriali. Restano pertanto scoperte le
innovazioni commerciali ed organizzative, per le quali la sola protezione rimane quella
del segreto39.
38 Adriano VANZETTI e Vincenzo DI CATALDO, 1993, Manuale di diritto industriale, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 308, 309. 39 Ibidem, pp. 309, 310.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
19
La ragion d’essere del monopolio brevettuale consiste nel favorire il progresso
tecnico. Infatti, la presenza del sistema brevettuale:
- è incentivo e stimolo all’attività inventiva, poiché promette a chi realizzi
invenzioni un diritto di esclusiva;
- è incentivo alla rivelazione, da parte dell’inventore alla comunità, delle
invenzioni realizzate, in quanto l’attribuzione del diritto di esclusiva rende
sconveniente la gestione dell’invenzione in regime di segreto;
- è incentivo alla diffusione delle invenzioni, perchè il sistema permette, dietro
compenso, la circolazione del diritto sulle invenzioni, la quale consente il loro
sfruttamento in termini quantitativamente ottimali40.
Alla base del brevetto si trova una logica di rivelazione e di trasparenza sulla
struttura dell’invenzione. Il rilascio del brevetto è, infatti, subordinato ad una completa e
corretta descrizione dell’invenzione da parte del richiedente. Per ottenere un brevetto è
necessario inoltre che l’invenzione possieda i quattro requisiti di validità: industrialità,
novità, originalità e liceità41.
Il sistema vigente ritiene liberamente cedibile il diritto di brevetto ed il diritto su
una domanda di brevetto. Gli atti traslativi tra vivi sono riconducibili a due differenti
modelli: la cessione e la licenza. Si ha cessione, quando il titolare si spoglia del diritto a
favore di altro soggetto. La cessione del brevetto si realizza, in genere, tramite una
vendita, una permuta, una donazione, un conferimento in società. La licenza di brevetto
è di gran lunga il modello preferito per la circolazione delle tecnologie brevettate. Con
la licenza il titolare del brevetto (licenziante), senza spogliarsi di tale titolarità, concede
ad un terzo (licenziatario) il diritto di utilizzare l’invenzione brevettata. Concedendo una
licenza, il titolare del brevetto incrina la pienezza del suo diritto di esclusiva. Questo è
un sacrificio giustificato innanzitutto dal corrispettivo che il licenziatario verserà, ma
anche dal fatto che la licenza consente al titolare del brevetto di migliorare e aumentare
la diffusione del prodotto brevettato. Una delle clausole più incisive che può essere
prevista nel contratto di licenza è la clausola di esclusiva. Con essa il licenziante si priva
del potere di concedere altre licenze a terzi e di attuare egli stesso l’invenzione. Il
40 Ibidem, pp. 311, 312. 41 Ibidem, pp. 309, 310, 335. Per approfondimenti sui requisiti di brevettabilità, previsti dalla legislazione italiana, si rimanda al R.D. 29 giugno 1939, n. 1127, artt. 13, 14, 16, 17.
CAPITOLO 1
20
corrispettivo è fissato in una somma à forfait o, più frequentemente, in pagamenti
periodici (canoni o royalties o redevances), il cui ammontare è di solito determinato in
termini percentuali rispetto a più variabili. La durata è in genere stabilita
convenzionalmente e, solitamente, coincide con la durata del brevetto42.
I brevetti sono dunque fondamentali per proteggere i diritti dell’inventore e dei
finanziatori delle sue ricerche, per incoraggiare la formalizzazione della conoscenza
raggiunta dagli inventori e quindi per permettere la sua classificazione e fruizione: si
forniscono in tal modo i presupposti per un efficace processo di innovazione.
1.2 IL CARATTERE CUMULATIVO DEI PROCESSI INNOVATIVI, ALCUNI
ESEMPI
Sono serviti centinaia di migliaia di anni all’uomo per imparare a coltivare la terra
e addomesticare il bestiame, per innalzarsi in questo modo sopra il livello di sussistenza
di una bestia da preda. Ci sono voluti all’incirca diecimila anni per compiere il
successivo passo avanti di paragonabile portata: l’introduzione di nuove tecniche
industriali alle quali sì da il nome di Rivoluzione industriale. Grazie a questi progressi
sono stati sufficienti meno di duecento anni per passare d’un balzo all’energia atomica e
all’automazione. Nel frattempo il ritmo dei cambiamenti si è accelerato in ogni settore:
basti pensare ai secoli di sviluppo della macchina a vapore e ai decenni del motore a
combustione interna e dei propulsori a reazione43.
È indubbia l’accelerazione dei progressi della scienza e della tecnologia avvenuta
negli ultimi trecento anni circa. Questa accelerazione è evidente soprattutto se
paragonata al ritmo del cambiamento antecedente alla Rivoluzione industriale.
Una cosa è però innegabile: i grandi sviluppi tecnologici e scientifici, compresi
quelli della stessa Rivoluzione industriale, non furono realizzati di punto in bianco.
42 Ibidem, pp. 413-417. 43 David S. LANDES, 1978, Prometeo liberato, Torino, Einaudi, 1978, pp. 710, 711; ed. orig. 1969, The Unbound Prometeus, Cambridge University Press, 1969.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
21
Sono ben poche le invenzioni che nascono già mature. Al contrario, serve un gran
numero di piccoli e grandi miglioramenti per trasformare un’idea in una tecnica44.
La Rivoluzione industriale ha inaugurato questa avanzata cumulativa ed
autopropulsiva della tecnica. L’innovazione, infatti, difficilmente esce dalla testa di
“zeus”, ma è in genere il frutto di anni di lenta accumulazione delle conoscenze.
Un’invenzione o una scoperta, per quanto possa apparire incredibile e dirompente,
frutto dell’intelligenza di uno straordinario genio, trova solitamente le proprie basi nelle
conoscenze passate. Gli stessi Leonardo da Vinci e Albert Einstein, per citare due
creativi di prima grandezza, non avrebbero potuto realizzare quello che hanno
effettivamente realizzato, senza il substrato di sapere sul quale si sono innestate le loro
indiscutibili qualità personali. Il processo che porta ad un’innovazione è generalmente
più lungo di quello che si potrebbe supporre dopo un’analisi superficiale. L’invenzione,
la scoperta e la successiva innovazione sono il risultato di un flusso continuo di
miglioramenti che permettono di risolvere un’infinità di problemi piccoli e grandi.
Parte del flusso interconnesso di innovazioni potrebbe anche essere frutto di pura
e semplice fortuna. E invece no. I progressi sono possibili perchè i principi che sono alla
base di una determinata tecnica possono assumere svariate forme, trovare numerosi
utilizzi. Decenni di sperimentazione precedono una data innovazione e ad essa fanno
seguito un lungo susseguirsi di miglioramenti resi possibili dall’avanzata della scienza e
della tecnologia. Le innovazioni non nascono dal nulla, ma sono invariabilmente il
frutto di una lunga e attenta preparazione45.
Il ritmo del cambiamento è determinato di solito dalla possibilità di modificare la
tecnologia. La realizzazione di ulteriori miglioramenti dipende dalla maturità delle
singole tecnologie, che attraversano spesso veri e propri cicli vitali, nel corso dei quali
esse prendono l’avvio da un’invenzione o, meno spesso, da una scoperta scientifica, che
a sua volta genera una serie sempre più ampia di ulteriori invenzioni e miglioramenti
indotti46.
44 David S. LANDES, 2000, La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perchè alcune sono così ricche e altre così povere, Milano, Garzanti, 2002, p. 202; ed. orig. 1998, The Wealth and Poverty of Nations, W.W. Norton & Company Inc., 1999. 45 Ibidem, pp. 206-209. 46 Charles SINGER, Eric J. HOLMYARD, Rupert A. HALL, Trevor I. WILLIAMS (a cura di), 1982, Storia della tecnologia. Il ventesimo secolo. L’energia e le risorse, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, vol. 6, tomo I, p. 31; ed. orig. 1978, A History of Technology, Oxford, Clarendon Press, 1978, vol. 6, part I.
CAPITOLO 1
22
Per quanto possa essere breve il tempo che porta ad una nuova invenzione o
scoperta, l’intervallo temporale necessario affinché una nuova tecnologia raggiunga
un’adeguata maturità non è mai breve e, a seconda dei casi, varia dai decenni ai secoli.
Più di tante parole però, alcuni esempi concreti potranno essere maggiormente utili a
chiarire i concetti appena esposti. Pertanto, si darà di seguito spazio alle storie di alcune
celebri invenzioni e scoperte che, al contrario di quanto si possa superficialmente
pensare, hanno impiegato un lungo periodo di tempo per raggiungere la pienezza del
loro sviluppo: la macchina a vapore, l’elettricità, l’aeroplano e l’occhiale.
1.2.1 La macchina a vapore
Il primo congegno conosciuto azionato dalla forza del vapore è la "sfera di Eolo"
o Eolipila inventata da Erone, ingegnere
greco del I secolo d.C. L'eolipila è una
turbina a reazione capace di erogare una
piccolissima potenza, non sfruttabile in
pratica. Essa rappresenta il primo tentativo di
impiegare il vapore per ottenere energia
meccanica. Erone è famoso anche per altri
meravigliosi congegni, uno dei quali serviva
per aprire (e chiudere) automaticamente le
porte di un tempio. Utilizzava l'espansione
dell'aria calda per mettere in pressione l'acqua
di un serbatoio che, attraverso un sifone, andava a riempire un secchio sospeso, il cui
peso, crescente man mano che esso discendeva, serviva a vincere la forza di un
contrappeso e conseguentemente ad aprire le porte del tempio. Se il fuoco veniva
spento, la pressione nel recipiente diminuiva e l'acqua ritornava indietro, svuotando il
secchio. Allora il contrappeso, cadendo, faceva chiudere le porte47.
47 Charles SINGER, Eric J. HOLMYARD, Rupert A. HALL, Trevor I. WILLIAMS (a cura di), 1964, Storia della tecnologia. La rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, vol. 4, tomo I, p. 173; ed. orig. 1958, A History of Technology, Oxford, Clarendon Press, 1958, vol. 4.
Fig. 1.5 “Sfera di Eolo” o Eolipila di Erone, I sec. d.C. Fonte: <http://intermedia.c3.hu/~szmz/comparch/lecture_1/1.html>, (01.2006).
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
23
Un passo importante che condusse all’invenzione della macchina a vapore fu la
scoperta della pressione atmosferica. Secondo gli antichi il vuoto in natura non poteva
esistere. La pompa aspirante sembrava provare questo ragionamento. Uno stantuffo
scorre entro un cilindro aderendo perfettamente alle pareti. Tirato verso l'alto esso lascia
uno spazio "vuoto" sotto di esso. Siccome in natura il vuoto non "può esistere" ecco che
l'acqua arriva subito a riempirlo. Restava da capire perchè, quando si voleva aspirare
l'acqua ad altezze superiori ai 9 metri circa, la pompa non funzionasse più. Fino al 1643
questa impresa non riuscì a nessuno. Galileo Galilei (1564-1642), che si era dedicato a
questo problema, morì prima di risolvere il mistero. L'onore toccò ad un suo allievo:
Evangelista Torricelli (1608-1647). Questi annunciò, nel 1643, che l’atmosfera esercita,
al livello del mare, una pressione uguale a quella di una colonna verticale di mercurio di
76 centimetri circa di altezza e che tale pressione determina l’altezza alla quale un
liquido può essere sollevato per mezzo dell’aspirazione. L’aria ha dunque un suo peso.
Quando il pistone della pompa viene tirato verso l'alto, all'interno del cilindro, si
abbassa la pressione. L'acqua sale nella pompa per effetto del peso dell'aria esterna, non
più controbilanciato. La scoperta suggerì la possibilità di utilizzare la pressione
atmosferica per azionare un pistone sotto al quale poteva essere creato il vuoto. Questo
condusse ad esperimenti che culminarono con l’invenzione della macchina a vapore48.
Molto importanti, prima dell'invenzione della macchina a vapore, furono gli
spettacolari esperimenti fatti nel 1654 dal borgomastro di Magdeburgo Otto von
Guericke (1602-1686). Essi dimostrarono i sorprendenti effetti della pressione
atmosferica. Von Guericke aveva inventato una pompa capace di aspirare l'aria e
produrre forti abbassamenti di pressione. Con questa pompa estrasse l'aria sotto un
pistone, contenuto in un cilindro di 50,8 cm di diametro e sostenuto da una corda che
passava poi attorno a una carrucola. Il pistone, sotto l'azione della pressione
atmosferica, scendeva inesorabilmente nonostante lo sforzo contemporaneo di cinquanta
uomini che tentavano di trattenerlo. Era evidente che, se un vuoto poteva essere creato e
riprodotto a volontà, non si mostrava lontana la possibilità di costruire una macchina
azionata dalla pressione atmosferica49.
Dopo aver aiutato Christian Huygens (1629-1695) nei tentativi di costruire un
motore a polvere da sparo (lo scoppio doveva fare il vuoto sotto un pistone che sarebbe 48 Ibidem, p. 174. 49 Ibidem, p. 174.
CAPITOLO 1
24
poi sceso spinto dalla pressione atmosferica), Denis Papin, nel 1690, ebbe l'idea di fare
la stessa cosa utilizzando il vapore d'acqua. La macchina di Papin era costituita da un
tubo chiuso nella parte inferiore e contenente un pistone sotto al quale si trovava una
piccola quantità di acqua che, trasformata in vapore, spingeva il pistone fino in cima al
cilindro dove si fermava contro un dente di arresto. Raffreddando il cilindro il vapore
condensava producendo un vuoto parziale sotto il pistone. La pressione atmosferica
costringeva il pistone ad una rapida discesa (fase attiva). Il tubo svolgeva la triplice
funzione di caldaia, cilindro del motore e condensatore. La macchina a vapore sarà
realizzata in tappe successive separando queste tre parti50.
Alla fine del 1600 il lavoro nelle miniere inglesi era diventato difficilissimo a
causa dell'acqua che invadeva le sempre più profonde gallerie. Con i sistemi tradizionali
non si poteva più prosciugarle. Thomas
Savery (1650?-1715) fu il primo a tentare di
risolvere questo problema usando il vapore.
La sua pompa obbligava l'acqua a salire in un
cilindro entro il quale era stato prodotto un
vuoto parziale mediante la condensazione del
vapore. L'acqua era poi spinta ancora più in
alto ed espulsa mediante un violento getto di
vapore alla pressione di circa 10 atmosfere.
La pompa di Savery non fa quindi parte del
gruppo dei motori "atmosferici", cioè di quei
motori che usarono vapore alla pressione
atmosferica e fu il primo tentativo (non
riuscito) di usare vapore ad alta pressione. Le
caldaie, i tubi e i cilindri dell'epoca, essendo
saldati a stagno, non furono in grado di
resistere alle forti pressioni richieste per
spingere l'acqua ad altezze utili. Con pressioni
basse la macchina di Savery non era efficiente
e questo fu il suo limite, nonostante molti
50 Ibidem, pp. 175, 176.
Fig. 1.6 “Amico del minatore o macchina per sollevare acqua con il fuoco” di Savery, 1698. Fonte: <http://www.geocities.com/Athens/Acropolis/6914/Savery.htm>, (01.2006).
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
25
sforzi per migliorarla fu poco impiegata e ben presto abbandonata. Questa prima pompa
a vapore era costituita da due cilindri uno dei quali si riempiva, mentre l'altro si vuotava.
Nel 1698 a Savery fu concesso il brevetto per la sua macchina chiamata "L'Amico del
minatore" capace di "tirare su l'acqua col fuoco" e per qualsiasi altra macchina che
prevedesse l'uso del fuoco. La macchina di Savery cadde in disuso nei primi anni del
diciottesimo secolo51.
Un tentativo di perfezionamento fu compiuto nel 1705 da Papin, il quale, però
abbandonò, in tale tentativo, il suo promettente progetto precedente di far muovere un
pistone in un cilindro per mezzo della pressione atmosferica, grazie al vuoto creato sotto
di esso dalla condensazione del vapore. L’idea di procedere secondo i principi originali
di Papin fu concepita indipendentemente da Thomas Newcomen (1663-1729). La
macchina di Newcomen fu la prima ad avere successo e trovò largo impiego anche fuori
dell'Inghilterra. Quando Newcomen, dopo 10 anni e più di lavoro sperimentale, costruì
la sua prima macchina efficiente, si trovò la strada sbarrata dal brevetto concesso a
Savery (per qualsiasi macchina che impiegasse la forza del fuoco) e per
commercializzare la sua invenzione, nel 1712, dovette entrare in società con lui. Attorno
al 1725 la macchina di Newcomen era impiegata in moltissime miniere ma anche per
rifornire di acqua le ruote idrauliche più grandi. Il difetto principale di questa macchina
era il continuo raffreddamento del cilindro che causava un enorme consumo di carbone.
Il suo rendimento termico era solo dell'1 per cento, cioè ogni 100 Kg di carbone bruciati
solo 1 veniva utilizzato per far muovere la pompa. Nonostante questi gravi difetti, la
macchina non ebbe rivali nelle miniere inglesi per circa 60 anni52.
Dopo Newcomen, il primo che fece compiere importanti progressi nella
produzione di energia per mezzo del vapore fu James Watt (1736-1819). Watt fu
nominato nel 1757 "fabbricante di strumenti di precisione" all'università di Glasgow e
nel 1763 fu incaricato di riparare un modellino della macchina di Newcomen che non
voleva funzionare. Dopo un attento studio Watt capì che il modellino consumava più
vapore di quello che la caldaia produceva. Watt si rese anche conto che l'enorme
consumo era dovuto al continuo raffreddamento del cilindro e che, se si apriva una
comunicazione tra il cilindro contenente vapore e un recipiente dal quale l'aria e altri
fluidi fossero stati tolti, allora il vapore, quale fluido elastico, sarebbe penetrato 51 Ibidem, pp. 176-178. 52 Ibidem, pp. 178, 179, 184, 187.
CAPITOLO 1
26
immediatamente nel recipiente vuoto fino a quando non si fosse raggiunto l'equilibrio.
Se il recipiente fosse stato tenuto molto freddo con un'iniezione o altro il vapore si
sarebbe condensato. Costruì un primo modellino rudimentale e decise di far entrare il
vapore sopra il pistone chiudendo il cilindro con un coperchio dotato di premistoppa per
il passaggio della biella, il vapore aiutava così la pressione atmosferica a spingere il
pistone in basso. Nel 1769 Watt chiese e ottenne il brevetto per "un nuovo metodo per
diminuire il consumo di vapore e combustibile nelle macchine a vapore". Per
cominciare a produrre le nuove macchine a Watt mancavano i soldi che arrivarono
quando conobbe Matthew Boulton (1728-1809), uno degli industriali più importanti
dell'Inghilterra. Watt si mise al lavoro nella fabbrica di Boulton e costruì una macchina
con cilindro avente il diametro di 127 cm. Nel 1774 John Wilkinson (1728-1808),
produttore di acciaio, aveva costruito un nuovo tipo di tornio col quale si potevano
alesare i cilindri che servivano a Watt con una precisione mai vista prima. La versione
definitiva della nuova macchina di Watt è quella del 1788. Nel 1782 Watt aveva ideato
la macchina a doppio effetto, eliminando la fase passiva, il pistone cioè era sempre sotto
spinta. Con questo sistema ottenne doppia potenza a parità di cilindrata. Per risparmiare
ulteriormente, la fase di ammissione vapore durava solo per una frazione della corsa
attiva che continuava per il solo effetto dell'espansione del vapore. Nel 1787, per
rendere costante la velocità delle macchine, Watt adottò il regolatore centrifugo, già
usato in precedenza nei mulini a vento, che adesso porta il suo nome53.
Watt aveva sempre ritenuto che l'impiego di vapore a pressione più alta di quella
atmosferica fosse troppo pericoloso, tuttavia l'impiego delle alte pressioni era molto
promettente. I primi a capire che questa era la strada da percorrere furono Richard
Trevithick (1771-1833) in Inghilterra e Oliver Evans (1755-1819) negli Stati Uniti. La
loro ricetta fu: pressioni più alte, velocità più alte, fasi di espansione più ampie, parti più
leggere. La prima macchina di Trevithick ad alta pressione e doppio effetto con
bilanciere e biella entrò in funzione nel 1800 in una miniera della Cornovaglia.
Trevithick ha successivamente ideato la macchina che prenderà il nome di
"Cornovaglia". Essa ebbe grande successo e lunga durata. Era a semplice effetto e a
espansione, funzionava a pressioni di 2,8-3,5 kg/cm² e scaricava nel condensatore. Nel
1801 Trevithick costruì una carrozza a vapore con caldaia a focolare interno. Il cilindro
53 Ibidem, pp. 187-192.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
27
era verticale e lo stantuffo azionava le ruote posteriori per mezzo di una testa a croce
dotata di guida e biella. Il vapore di scarico veniva immesso nel camino per aumentare il
tiraggio della caldaia. Questo veicolo, che non ebbe successo, era in grado di trasportare
parecchie persone, aveva un peso a pieno carico di circa 1524 kg e raggiungeva la
velocità di 14,5 km/h in pianura. Dopo aver sperimentato macchine funzionanti alla
pressione di 10 kg/cm², livello mai raggiunto prima, Trevithick si dedicò alla
locomotiva con la quale sperava di muovere un carico di circa 10 tonnellate su una linea
ferroviaria lunga 15 km con rotaie di ghisa. Questa prima locomotiva diventò operante
nel 1804 e superò l'esame a pieni voti trasportando 25 tonnellate di materiali a una
velocità di 6 km/h. Fu quindi Trevithick il creatore della prima locomotiva. Con essa
dimostrò, tra lo scetticismo generale, che tra le ruote lisce e le rotaie c'era sufficiente
attrito da trasmettere la forza di trazione. Se Trevithick avesse brevettato il suo
congegno per deviare il vapore di scarico nel camino e ottenere un tiraggio migliore
avrebbe dominato lo sviluppo della locomotiva, proprio come Watt, con il brevetto del
condensatore separato, aveva dominato il campo delle macchine a vapore fisse. È molto
probabile che George Stephenson (1781-1848) si sia ispirato ai lavori di Trevithick,
quando nel 1813 costruì la sua prima locomotiva. Con l'inizio del XIX secolo scadde il
brevetto di Watt e l'uso del condensatore separato divenne libero per tutti, gli inventori
poterono scatenare la loro fantasia. I lavori di Trevithick indirizzarono i costruttori
verso le macchine ad alta pressione ad espansione multipla. Il primo a sfruttare
l'espansione multipla fu Arthur Woolf (1776-1837), un ingegnere che aveva lavorato in
Cornovaglia. Egli costruì una macchina a due cilindri. Il vapore, dopo aver lavorato nel
primo cilindro alla pressione di 3-4 kg/cm² non veniva scaricato ma inviato in un
secondo cilindro, più grande, dove continuava a lavorare espandendosi fino a valori di
poco inferiori alla pressione atmosferica. La sua macchina fu più usata in Francia che in
Inghilterra54.
Sono le caldaie, figure di secondo piano nella storia della tecnica, ad assicurare il
buon funzionamento delle macchine a vapore. Esse hanno il compito di fornire il vapore
necessario, sia in condizioni normali sia nelle emergenze. La loro storia cammina
parallelamente a quella delle macchine. La caldaia usata per la macchina di Watt
sopravvisse fino alla metà del XIX secolo, ma dal 1812 era entrata nell’uso generale
54 Ibidem, pp. 194-198.
CAPITOLO 1
28
quella denominata “Cornovaglia”, inventata indipendentemente da Trevithick e da
Evans. Nel 1844 William Fairbairn (1789-1874) e John Hetherington (1790-1872) di
Manchester brevettarono la caldaia Lancashire, idonea a garantire capacità maggiori. I
due tipi furono largamente impiegati fino alla fine del XIX secolo. La caldaia a tubi
d’acqua a circolazione naturale, brevettata nel 1867 dagli americani George Herman
Babcock (1832-1893) e Stephen Wilcox (1830-1893), sancì definitivamente la
superiorità della stessa sui modelli precedentemente utilizzati. Questo progetto rimase
inalterato per numerosi anni, fino a quando, nel 1889, Allan Stirling (1844-1927)
realizzò in America la sua caldaia a tubi perfezionata. Da quest’epoca le caldaie a tubi
d’acqua riuscirono a fronteggiare con successo la richiesta di pressioni più elevate e di
rapida produzione di vapore55.
Una delle più note applicazioni della macchina a vapore è, senza dubbio, la
locomotiva. Dopo i tentativi infruttuosi di Trevithick toccò a Stephenson portare il treno
al successo.
La prima ferrovia pubblica per il
trasporto di passeggeri e merci con
locomotiva a vapore fu la Liverpool-
Manchester, inaugurata nel 1830. I trasporti
ferroviari si affermarono poi in modo
definitivo a partire dal 1850. Le macchine a
vapore per locomotiva dovevano essere
provviste di caldaie in grado di fornire tutto
il vapore necessario. Fu il francese Marc
Seguin (1786-1875) a risolvere il problema
con la sua caldaia a tubi di fiamma multipli,
cosiddetta perchè in essa l'acqua era
suddivisa in tanti tubi, tutti a contatto col
fuoco, aumentando in tal modo la
produzione di vapore. Occorrevano nuovi
55 Charles SINGER, Eric J. HOLMYARD, Rupert A. HALL, Trevor I. WILLIAMS (a cura di), 1965, Storia della tecnologia. L’età dell’acciaio, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, vol. 5, tomo I, pp. 144, 145; ed. orig. 1958, A History of Technology, Oxford, Clarendon Press, 1958, vol. 5.
Fig. 1.7 Locomotiva “Rocket” di Stephenson, 1829. Fonte: <http://www.tiscali.co.uk/reference/encyclopaedia/hutchinson/m0006169.html>, (01.2006).
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
29
sistemi di distribuzione per risparmiare carbone, sfruttando meglio l'elasticità del vapore
e che rendessero possibile l'indispensabile inversione di marcia. Questi meccanismi
furono realizzati attorno al 1840 da Stephenson e da Daniel (1816-1889) e John (1812-
1900) Gooch. Verso il 1850 i treni inglesi raggiunsero la velocità di 96 km/h. Siccome
le caldaie erano in pressione si dovettero studiare pompe e iniettori per alimentarle con
nuova acqua, possibilmente preriscaldata. L'introduzione del carbone "coke" e i continui
perfezionamenti delle caldaie permisero di diminuire drasticamente la quantità di fumo.
Il consumo medio delle migliori locomotive era di 6,5 kg di carbone per chilometro.
Dalla trazione a un solo asse si passò a locomotive con quattro o sei ruote accoppiate. I
cilindri erano quasi sempre due e potevano essere disposti fuori o dentro il telaio56.
Dimensione e potenza delle macchine a vapore erano tuttavia limitate dall’inerzia
del pistone, la cui continua inversione di direzione richiedeva un’enorme energia. Nel
1884 Charles Algernon Parsons (1854-1931) trovò la soluzione a tale problema,
passando dal moto alternativo a quello rotatorio, sostituendo il pistone con una turbina a
vapore. Quest’ultima fu introdotta nelle centrali elettriche nell’ultimo scorcio del XIX
secolo e sulle navi poco tempo dopo57.
È così che, nella seconda metà del XIX secolo, dopo oltre duecento anni dalla
scoperta della pressione atmosferica per opera di Torricelli, la macchina a vapore
conquistò il mondo.
1.2.2 L’elettricità
Le prime informazioni sull'energia elettrica arrivano dall’antica Grecia, circa
all'inizio del VI secolo a.C., da parte di Talètè di Milèto (624/23 a.C.-548/545 a.C.) il
quale scoprì che l'ambra, se strofinata con un panno di lana, acquista la capacità e la
caratteristica di attrarre corpi leggeri quali, per esempio, pagliuzze, foglie secche e altri
leggeri corpuscoli. Solo tre secoli dopo, negli scritti di Teofrasto di Ereso (III sec. a.C.-
287/286 a.C.), si rinvengono citazione di altri materiali aventi le stesse capacità. Anche
Lucio Anneo Seneca (5 a.C.-65 d.C.), ai tempi dell’antica Roma, si occupò di fenomeni
elettrici, distinguendo tre diversi tipi di fulmini e i loro effetti. Nella seconda metà
56 < http://www.geocities.com/Athens/Acropolis/6914/steph.htm>, (01.2006). 57 David S. LANDES, La ricchezza e la povertà delle nazioni, cit., p. 203.
CAPITOLO 1
30
dell’VIII secolo d.C. fu verificato empiricamente che due corpi dello stesso materiale,
carichi elettricamente, si respingono e che invece due corpi di materiali differenti,
anch'essi elettricamente carichi, si attraggono. La logica deduzione fu che esistevano
due differenti gradi di elettrizzazione58.
Alla fine del XVI secolo, il medico inglese William Gilbert (1540-1603) osservò,
in modo sistematico, le medesime proprietà dell'ambra anche in altri materiali, quali
molte pietre dure, il vetro e lo zolfo. Egli chiamò questi fenomeni “elettrici” dal nome
greco dell'ambra (èlektron) e per misurare l'intensità delle forze attrattive utilizzò uno
strumento, precedentemente descritto da Girolamo Fracastoro (1483-1553), costituito da
un piccolissimo e leggerissimo ago girevole sopra un sostegno a punta. Nel 1629 Nicola
Cabeo (1585-1650) descrisse il fenomeno della repulsione elettrica, notando come le
pagliuzze, attratte da un corpo elettrizzato, vengono successivamente da questo respinte,
dopo averlo toccato. Una spiegazione di quanto veniva osservato fu, in un primo
momento, cercata in particolari “fluidi” materiali emanati dai corpi elettrizzati. Galileo
Galilei pensava invece vi fosse coinvolto il movimento dell'aria a causa del
riscaldamento dovuto allo strofinamento. Robert Boyle (1627-1691) nel 1676 osservò
tuttavia che i fenomeni elettrici sembravano verificarsi anche nel vuoto59.
Nel 1660 il tedesco Otto von Guericke (1602-1686) eseguì degli esperimenti
elettrostatici che lo portarono alla
costruzione della prima macchina
elettrostatica a strofinio. Questa era
costituita da una sfera di zolfo, che
veniva fatta girare intorno ad un'asta di
ferro passante per il suo centro ed
elettrizzata per semplice strofinio. Una
volta elettrizzata, la sfera elettrostatica
era utilizzata per esperimenti
sull'attrazione e sperimentazione
elettrica. Nel 1706 Francis Hauksbee (?-1713), fisico sperimentatore presso la Royal
58 Giovanni LENTA, 1996, Storia dell’Energia Elettrica, <http://www.museoelettrico.com/storia/storia.html>, (01.2006). 59 Gianni BONERA, 1999, Il caso dell’elettricità: dalle origini a Volta, <http://ppp.unipv.it/PagesIt/6Dif/6Videoconf/2VideoC.htm>, (01.2006).
Fig. 1.8 La prima macchina elettrica a strofinio dovuta a von Guericke con globo di zolfo, 1660. Fonte: Gianni BONERA, Il caso dell’elettricità: dalle origini a Volta, cit.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
31
Society, sostituì nella macchina di von Guericke la sfera di zolfo con un cilindro di
vetro, ottenendo stati di elettrizzazione più intensi ed osservando che, avvicinando al
viso il cilindro od altro corpo da questo elettrizzato, si avvertiva come un soffio (vento o
soffio elettrico). Nel 1729 Stephen Gray (1666?-1736), osservando come la “virtù
elettrica” eccitata in un corpo per strofinio, possa in alcuni casi trasferirsi anche ad altri
corpi, introdusse il concetto di sostanze isolanti e conduttrici; mostrò che anche queste
ultime possono essere elettrizzate, se isolate dal terreno e da altri corpi. Nel 1733
Charles de Cisternay du Fay (1698-1739) avanzò l'ipotesi dell'esistenza di due soli stati
elettrici distinti che si possono manifestare per strofinio nei corpi e chiamò tali
elettricità, rispettivamente, vetrosa e resinosa dal nome delle sostanze nelle quali
venivano più facilmente eccitate. Gray e du Fay descrissero l'elettricità come una
condizione che poteva essere indotta nella materia. Fu l'abate Jean-Antoine Nollet
(1700-1770) a interpretare in modo giusto i due tipi di elettricità di du Fay come due tipi
distinti di fluido elettrico, uno vetroso e l'altro resinoso. Successivamente, nel 1743
Cristian Ludolff (1707-1763) osservò che la scintilla provocata dai corpi elettrizzati
nello scaricarsi era in grado di infiammare sostanze molto volatili come l’etere solforico
e l’idrogeno. Le macchine elettrostatiche e gli strumenti di misurazione venivano
intanto continuamente perfezionati e si elaboravano teorie scientifiche che tentavano di
spiegare il fenomeno60.
Nel 1745 Pieter van Musschenbroek (1692-1761) realizzò il primo apparecchio
per accumulare elettricità, la cosiddetta “bottiglia di Leida”; un condensatore elettrico
che, generando intense scariche elettriche, permise l'esecuzione di vari esperimenti e
ricerche scientifiche61.
La vera distinzione dei differenti tipi di cariche va attribuita allo scienziato
statunitense Benjamin Franklin (1706-1790), che chiamò "positive" le cariche che si
manifestano nel vetro e "negative" quelle che si manifestano nell'ambra62.
Nel giugno del 1752 Franklin fece il suo famoso esperimento con l'aquilone
scoprendo che i fulmini sono scariche elettriche tra nuvole e terra. Più tardi dimostrò
che alcune nuvole sono "positive" e altre "negative" e inventò il parafulmine63.
60 Ibidem. 61 <http://www.sapere.it/gr/ArticleViewServletOriginal?otid=GEDEA_elettricita&orid=OMNIA_012806 &todo=LinkToFree>, (01.2006). 62 Giovanni LENTA, Storia dell’Energia Elettrica, cit. 63 <http://www.geocities.com/SiliconValley/Circuit/1858/frankl.htm>, (01.2006).
CAPITOLO 1
32
La legge secondo cui la forza esercitata tra cariche elettriche è proporzionale
all'inverso del quadrato della loro distanza fu provata sperimentalmente intorno al 1766
dal chimico britannico Joseph Priestley (1733-1804). Questi dimostrò inoltre che una
carica elettrica si distribuisce uniformemente sulla superficie di una sfera metallica cava
e che, in condizioni di equilibrio, il campo elettrico all'interno di un conduttore è sempre
nullo. Tra il 1785 e il 1787 un celebre fisico francese, Charles-Augustine de Coulomb
(1736-1806), eseguì alcuni importanti esperimenti di elettrostatica, inventando e
costruendo poi la "bilancia di torsione", la quale gli consentì di effettuare alcuni
esperimenti che lo portarono all'enunciazione della legge di Coulomb64.
In due opere pubblicate nel 1791 e nel 1794, il medico bolognese Luigi Galvani
(1737-1798) osservò delle contrazioni muscolari nelle zampe di una rana a contatto con
un conduttore metallico e ipotizzò la presenza di un'elettricità animale65.
Di parere contrario a tale spiegazione fu il fisico comasco Alessandro Volta
(1745-1827), il quale sostenne che le contrazioni
erano causate da una differenza di potenziale
elettrico estrinseca al corpo animale, originata dai
contatti tra metalli diversi dei fili metallici con
cui Galvani collegava la zampa della rana per
tenerla distesa66.
Nel 1799 Volta costruì un dispositivo cui
diede nome di apparato elettromotore, che in
seguito fu denominato semplicemente “pila di
Volta”. La pila di Volta era costituita da una serie
di dischi in zinco e rame impilati uno all'altro,
interposti ad essi vi erano dischi di feltro
imbevuti di sostanza acida; era nato così il primo
generatore statico di energia elettrica, esso diede
un notevole impulso agli studi sugli effetti chimici e termici determinati dalla corrente
elettrica67.
64 Giovanni LENTA, Storia dell’Energia Elettrica, cit. 65 <http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell'elettricit%C3%A0>, (01.2006). 66 Paolo MANZELLI, 1999, Breve Storia del Magnetismo e dell’Elettricità, <http://www.edscuola.it/archivio/lre/stmael.html>, (01.2006). 67 Giovanni LENTA, Storia dell’Energia Elettrica, cit.
Fig. 1.9 Esemplare di “pila di Volta”. Fonte: <http://www.itispanetti.it/portale/volta/8)%20pila%20di%20Volta.gif>, (01.2006).
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
33
La scoperta del campo magnetico che circonda un conduttore percorso da corrente
fu enunciata nel 1820 dallo scienziato danese Hans Cristian Oersted (1777-1851) in un
opuscolo scritto in latino68.
Gli studi di Oersted furono proseguiti dal francese André-Marie Ampère (1775-
1836) che enunciò le leggi dell'elettromagnetismo, nell'opera pubblicata nel 1826. Nello
stesso anno Georg Simon Ohm (1789-1854) enunciò l’omonima legge sulla resistenza
elettrica69.
La pila di Volta e le indagini di Oersted sulle interazioni tra correnti elettriche e
magnetiche interessarono successivamente gli studi di elettrochimica di due chimici
inglesi, Humpry Davy (1778-1829) e del suo giovane assistente autodidatta, Michael
Faraday (1791-1867); essi studiarono le applicazioni delle elettrolisi. In particolare
Faraday, dopo aver studiato le interazioni magnetiche di molte sostanze e scoperto che
tutte quante sono più o meno attratte o respinte da un magnete permanente, formulò il
concetto di “linee di forza di un campo elettromagnetico”, dando spiegazione
dell’azione propagata nello spazio da un magnete permanente. Nel 1831 Faraday
dimostrò inoltre che il movimento di un magnete entro un avvolgimento elettrico
induceva per mutua induzione una variazione della corrente elettrica. Nel 1835
l’insegnante americano, Joseph Henry, inventò il Relè ad induzione magnetica;
dispositivo che al passaggio della corrente elettrica in un avvolgimento, fa aprire o
chiudere l’interruttore di un altro circuito. Tale scoperta fu inizialmente utilizzata per
costruire campanelli elettrici, ma in vero fu l’importante premessa necessaria per la
costruzione dei motori elettrici e del telegrafo70.
Nel 1844 Samuel Morse (1791-1872) sfruttò il passaggio di elettricità in un filo
conduttore come strumento per comunicare, giungendo all’invenzione del telegrafo con
i fili, perfezionato in seguito da Charles Wheatstone (1802-1875), il quale inventò
inoltre un apparecchio per misurare la resistenza (“ponte di Wheatstone”). Nel 1847 il
tedesco Ernst Werner von Siemens (1816-1892) inventò un altro modello di telegrafo e
fondò la compagnia Siemens. Nel 1851 Henrich Daniel Ruhmkorff (1803-1877) costruì
il primo rocchetto ad induzione (“rocchetto di Ruhmkorff”). Nel 1859 Antonio Pacinotti
(1841-1912) inventò l'“anello di Pacinotti”, in grado di trasformare l'energia meccanica
68 <http://www.geocities.com/SiliconValley/Circuit/1858/oersted.htm>, (01.2006). 69 <http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell'elettricit%C3%A0>, (01.2006). 70 Paolo MANZELLI, Breve Storia del Magnetismo e dell’Elettricità, cit.
CAPITOLO 1
34
in energia elettrica continua. Nel 1869 Zénobe Theophilé Gramme (1826-1901)
dimostrò che la dinamo poteva anche lavorare al contrario come motore elettrico e
sfruttò commercialmente la sua invenzione, basata sull'anello di Pacinotti71.
Negli anni ’60 del XIX secolo si utilizzò la corrente elettrica per la lavorazione
del rame. Nel 1864 Wilhelm Eduard Weber (1804-1891) pubblicò un sistema per la
misurazione assoluta della corrente elettrica, nel 1866 Heinrich Rudolf Hertz (1857-
1894) scoprì le onde elettromagnetiche e le loro possibilità di trasmissione attraverso il
vuoto e nel 1873 James Clerk Maxwell (1831-1879) pubblicò la propria teoria sulla
natura unitaria della luce e dei campi elettromagnetici. Negli anni ‘70 videro la luce
alcune delle invenzioni più importanti del XIX secolo: il telefono di Antonio Meucci
(1808-1889), brevettato da Alexander Graham Bell (1847-1922), fondatore della Bell
Telephone Co.; il fonografo e la lampadina a incandescenza di Thomas Alva Edison
(quest’ultimo migliorò la lampadina, dopo aver acquistato i precedenti brevetti, e la
commercializzò a partire dal 1879). Nel 1880 un modello perfezionato di lampadina fu
costruito da Alessandro Cruto (1847-1908), che fondò una piccola industria ad
Alpignano (TO), più tardi assorbita dalla azienda olandese Philips. Negli anni ‘80 si
costruirono le prime centrali elettriche. Nel 1881 Lucien Gaulard (1850-1888) e John
Dixon Gibbs presentarono un "generatore secondario", ovvero un trasformatore, che fu
perfezionato dalla statunitense Westinghouse Electric Corporation e messo in
commercio nel 1886. Nel 1885 Galileo Ferraris (1847-1897) inventò il campo
magnetico ruotante, alla base del motore elettrico polifase, brevettato negli Stati Uniti
da Nikola Tesla (1856-1943); anche questi brevetti furono successivamente acquistati
dalla Westinghouse72.
Hendrik Antoon Lorentz (1853-1928) formulò nel 1892 la teoria elettronica della
materia e nel 1897 Joseph John Thomson (1856-1940) dimostrò l'esistenza
dell'elettrone. Nel 1900 Max Plank (1858-1947) elaborò la teoria dei quanti e nel 1906
Albert Einstein (1879-1955) propose una teoria sulla luce come composta da fotoni. Nel
1919 Carl Ramsauer (1879-1955) elaborò la teoria della natura ondulatoria degli
elettroni. Guglielmo Marconi (1874-1937) realizzò nel 1895 la prima trasmissione a
distanza tramite le onde radio e nel 1901 la prima trasmissione del telegrafo senza fili
attraverso l'Atlantico)73.
Fig. 1.10 Guglielmo Marconi col suo primo telegrafo, 1895. Fonte: <http://www.acmi.net.au/AIC/MARCONI_1895.html>, (01.2006).
Da tali principi avrà origine la radio (prime trasmissioni regolari nel 1922). Nel
1904 John Ambrose Fleming (1849-1945), ottenne il brevetto per il diodo o valvola
termoionica74.
Se il XIX secolo ha visto la realizzazione di molte scoperte sull’elettricità, il XX
secolo può essere definito come il secolo dell'elettricità e, a partire dagli anni ‘60 anche
dell'elettronica (che produrrà il personal computer e quindi internet). All'inizio del
Novecento l'illuminazione stradale e domestica, i mezzi di trasporto basati su motori
elettrici (tram, treni, metropolitane, filobus) cambiarono radicalmente la vita quotidiana.
In particolar modo, l’illuminazione elettrica fece delle città luoghi vivibili anche di
notte. Il titolo di "città della luce" (in francese: Ville Lumière) fu assegnato a Parigi, ma
per estensione potrebbe essere attribuito a tutte le grandi città che si erano dotate in
quegli anni di una rete di illuminazione stradale, prime fra tutte Londra e New York75.
73 Ibidem. 74 Ibidem. 75 Ibidem.
CAPITOLO 1
36
1.2.3 L’aeroplano
Il primo aeroplano propriamente detto vide la luce nel 1903, quando i fratelli
Wilbur e Orville Wright
riuscirono a far spiccare il
volo ad una sorta di aliante
dotato di un motore da 15
CV a Kill Devil Hill presso
Kitty Hawk in Carolina del
Nord, USA. Questo primo
volo durò dodici secondi.
L'inizio dello sviluppo
della tecnologia aeronautica è dovuto ad eventi sportivi che miravano a segnare nuovi
record. In questi primi anni gli aeroplani erano spinti da motori a pistoni collegati ad
un'elica e la struttura era con due piani alari (biplana)76.
L'avvio di uno sviluppo più scientifico avvenne in concomitanza con la Prima
guerra mondiale. Tra il 1914 e il 1918 nacquero moltissimi modelli di biplani destinati
inizialmente a compiti di ricognizione. In seguito i piloti iniziarono a lanciare delle
bombe a mano sul nemico in quello che può essere definito l'antenato del
bombardamento tattico. La naturale risposta fu di dotare i propri piloti di mitragliatrici
con cui sparare ai velivoli nemici per impedirgli di attaccare le proprie linee, dando vita
agli aerei da caccia. Alla fine della Prima guerra mondiale, l'aeroplano uscì
notevolmente migliorato. Erano stati sviluppati motori decisamente più potenti e inoltre
erano stati aggiunti innumerevoli accorgimenti che permettevano una navigazione più
accurata77.
Dagli anni '20 si iniziò a guardare all’aeroplano come un pacifico mezzo di
trasporto. Nacquero così le prime compagnie aeree che richiedevano alle nascenti
industrie aeronautiche modelli da trasporto con adeguate dimensioni, raggio d'azione e
velocità. Rispetto all'iniziale ricerca sportiva e poi militare, era posto in risalto il
problema di produrre aerei con dimensioni che permettessero di trasportare un certo
numero di passeggeri e aumentare l’autonomia di volo. In questi anni l'idrovolante 76 <http://it.wikipedia.org/wiki/Aeroplano>, (01.2006). 77 Ibidem.
Fig. 1.11 Il primo aeroplano: il Flyer dei fratelli Wright, 1903. Fonte: <http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Wrightflyer.jpg>, (01.2006).
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
37
sembrò prendere il sopravvento sull'aereo: il primo, infatti, aveva maggior flessibilità
d'impiego, dal momento che non necessitava di piste preparate78.
La pacifica evoluzione dell'aeroplano subì una nuova accelerazione con i nuovi
venti di guerra che spirarono sul mondo alla metà degli anni '30. Rapidamente tutti i
velivoli biplani furono resi obsoleti dai monoplani: la velocità passò rapidamente da
poco più di 300 Km/h a più di 500 Km/h con evidenti possibilità di migliorare, così
successe per l'altitudine raggiungibile, l’autonomia, la maneggevolezza e
l'accelerazione. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ogni potenza era dotata di
una moderna aeronautica da caccia e da bombardamento e generalmente l'arma aerea
era resa indipendente dall'esercito, al pari della marina. Durante la Seconda guerra
mondiale divenne evidente la necessità dell'arma aerea per vincere un moderno conflitto
nelle operazioni marine e terrestri. In questi anni nacque anche il radar, invenzione
britannica, ma velocemente esportato negli Stati Uniti e adottato anche in Germania,
dapprima solo in postazioni terrestri, poi anche sugli aerei. Gli armamenti impiegati
erano mitragliatrici, cannoni di piccolo calibro, bombe a caduta libera e, con l'avanzare
della guerra, anche razzi. Alla fine della guerra, all'apice dello sviluppo degli aerei ad
elica, una nuova invenzione sviluppata in quegli anni da tedeschi e britannici stava per
rivoluzionare completamente l'aeroplano, per la seconda volta, dopo il passaggio alla
produzione di monoplani: era il motore a getto79.
Arrivati sul finire della
Seconda guerra mondiale è
necessario dividere l'evoluzione
delle tecnologie aeronautiche in
militare e civile. Negli ultimi
mesi della Seconda guerra
mondiale apparvero i primi
modelli di aerei a reazione:
avevano lo schema degli aerei a
eliche con le ali perpendicolari
alla fusoliera e i motori a getto
affogati nelle due semiali. Per la Germania, prima a ideare il motore a getto, fu messo in 78 Ibidem. 79 Ibidem.
Fig. 1.12 Il Messerschmitt Me-262, primo aereo a reazione. Fonte: <http://en.wikipedia.org/wiki/Image:Me262_bw_01.jpg>, (01.2006).
CAPITOLO 1
38
servizio il Me-262, mentre la Gran Bretagna rispose subito con il Gloster Meteor.
Entrambi i velivoli si dimostrarono subito nettamente superiori per maneggevolezza,
velocità, capacità di carico e accelerazione di tutti i loro precursori a eliche, ma i numeri
ridotti di produzione ne limitarono l'impiego bellico. Ma ormai la strada era segnata80.
Era arrivato il tempo della prima generazione di caccia: di questa generazione
fanno parte il Gloster Meteor britannico e il Lockheed P-80 americano, il primo
aviogetto da caccia ad entrare in servizio con le forze armate americane. Questa
generazione durò pochi anni: infatti, già alla fine degli anni '40, gli alleati e i sovietici
riuscirono a sviluppare gli studi tedeschi a proposito dell'ala a freccia, studi di cui erano
entrati in possesso con l'occupazione della Germania. La seconda generazione di caccia
a reazione si distingueva per essere già molto evoluta rispetto ai primi insicuri aerei a
getto, grazie all'adozione di motori decisamente più potenti e sicuri affogati nella
fusoliera e non più nelle semiali, ma soprattutto dell'ala a freccia. Così, la Guerra di
Corea, combattuta tra il 1950 e il 1953, vide volare agili caccia con motori a getto e ala
a freccia capaci di arrivare a più di 900 Km/h, dotati di armamento pesante, mentre gli
aerei a elica, reduci della Seconda guerra mondiale, insieme con i primi jet, rimasero in
servizio ancora per qualche anno per coprire i compiti secondari dove non erano ancora
disponibili i nuovi caccia. I più famosi combattenti della Guerra di Corea furono il
MiG-15 di produzione sovietica, esportato in Corea del Nord, e l'F-86 americano81.
Le industrie aeronautiche dei vari paesi iniziarono a fondersi e, spinti dal clima di
Guerra Fredda l'URSS, gli USA, la Francia e la Gran Bretagna (quest'ultima si ritirò
molto presto), furono gli unici Paesi a potersi permettere di lanciarsi in una gara segnata
da un'evoluzione rapidissima in cui i motori a getto arrivarono a sviluppare potenze
incredibili. Si raggiunse e si abbatté rapidamente il cosiddetto muro del suono (Mach 1):
nella prima metà degli anni '50 erano in servizio aerei capaci di volare agevolmente a
Mach 1.1 - 1.3, ovvero 1200-1500 Km/h, quando fino ad un decennio prima la velocità
massima si era attestata sui 700 Km/h dei più veloci aerei ad elica. Tra i più importanti
ci furono l'F-100 Super Sabre americano, il MiG-19 sovietico ed il Dassault Mystère
francese82.
80 Ibidem. 81 Ibidem. 82 Ibidem.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
39
Alla fine degli anni '50, abbattuto due volte il muro del suono, era venuta l'ora
della terza generazione di caccia. Gli USA misero in campo l'F-4 che in quegli anni
stabilì numerosi primati di velocità, accelerazione, velocità di salita e quota, l'URSS
mise in campo il MiG-21, un agile intercettore leggero da Mach 2, mentre la Francia
creava il Mirage III. Questi 3 velivoli, nonostante siano stati sorpassati, sono ancora
validi nei primi anni del XXI secolo, rimanendo in servizio in numerose forze aeree in
varie parti del mondo. Questi caccia si scontrarono in diverse occasioni negli anni '60 e
'70 nelle guerre arabo-israeliane e nella Guerra del Vietnam. L' F-4 americano era l'idea
vincente: è il primo caccia-bombardiere studiato per essere multiruolo, ossia capace di
compiere tutte le missioni dell'aeronautica, dalla caccia al bombardamento, dall'azione
antinave al supporto ravvicinato, dalla ricognizione tattica all'intercettamento. Durante
la Guerra del Vietnam, i Paesi produttori di aerei da combattimento (URSS e USA in
testa) si dovettero confrontare con le nuove sfide che erano venute alla luce. Così in
URSS nacquero caccia intercettori come i MiG-23, i MiG-25, mentre negli USA
nascevano quelli che sarebbero stati i caccia di maggior successo nei 30-40 anni
successivi: F-14, F-15, F-16 e F/A-18, ancora in prima linea al giorno d'oggi nell'attesa
della sostituzione, non perché obsoleti, ma perché sono ormai arrivati al limite
temporale di impiego83.
Dalla Guerra del Vietnam l'industria aeronautica militare americana imparò molto
più velocemente che i colleghi in Unione Sovietica: così già alla fine degli anni 1970,
gli USA avevano in linea gli F-14, F-15, F-16 e F/A-18 che sono caccia della quarta
generazione, mentre i sovietici avevano messo in cielo macchine del tutto ritenibili di
terza generazione. Così solo a metà degli anni ‘80 l'URSS riuscì a far volare i suoi
caccia di quarta generazione: i MiG-29, MiG-31 e Su-27, del tutto pari ai 4 grandi "F"
americani. Anche la Francia riuscì a sviluppare alcuni buoni aerei come il Mirage F-1
ma soprattutto il Mirage 2000, un vero caccia-bombardiere di quarta generazione.
Nacque anche l'idea di sviluppare aerei da guerra tra più nazioni alleate: così venne alla
luce il Tornado, sviluppato da Gran Bretagna, Germania e Italia che così unite si
riaffacciarono sulla produzione nazionale di aerei da combattimento, svincolandosi
parzialmente dalle importazioni dagli USA84.
83 Ibidem. 84 Ibidem.
CAPITOLO 1
40
Gli aerei di quarta generazione sono caratterizzati da buona elettronica di bordo
con capacità di colpire bersagli a lunga distanza (oltre ai 150 Km) facendo affidamento
al radar di bordo e missili a lungo raggio, ma non perdendo per nulla efficacia a breve
raggio dove contano su una maneggevolezza e rapidità di risposta che portano la
macchina a compiere potenziali evoluzioni che il pilota non può permettersi per non
perdere conoscenza. Sono inoltre dotati di mitragliatrice fissa di bordo e di piccoli e
agili missili a breve raggio a ricerca di calore. La loro velocità massima è compresa tra
Mach 2 e Mach 2.5. Tutto ciò è ottenuto grazie a studi aerodinamici avanzati, materiali
compositi, motori molto potenti e comandi di volo elettronici (fly-by-wire). In questi
aerei il concetto dominante è quello di multiruolo, ovvero capacità di compiere ogni
sorta di missione, ripercorrendo la strada segnalata dall'F-4 vent'anni prima, ma questa
volta potendo contare sulle tecnologie necessarie. Sono anche gli aerei noti per l'uso di
armi guidate85.
All'inizio del terzo millennio, traendo per lo più la loro origine dai quattro grandi
F americani di quarta generazione, si prospetta l'entrata in servizio della quinta
generazione di caccia: il Rafale francese, l'EF-2000 Typhoon europeo, F/A-18E/F Super
Hornet americano e Su-35/37 russo sono cacciabombardieri che posseggono tutti i
concetti della quarta generazione esaltandoli con concetti aggiornati di materiali, di
potenza dei motori e basso consumo di carburante e di elettronica, il tutto per facilitarne
la manutenzione, l'aggiornamento e il dispiegamento, con grande risparmio economico
e in ore lavoro del personale di terra per ora di volo. I cacciabombardieri citati però non
costituiscono un vero passo avanti in prestazioni sui precedenti modelli di quarta
generazione. Dove davvero guadagnerebbero i caccia di quinta generazione sarebbe alle
basi, dove dopo poca manutenzione a costo minore sarebbero già pronti per un nuovo
volo. Per questo tutti i nuovi modelli di caccia che stanno entrando in servizio in questi
anni all'esterno degli Stati Uniti e l'F/A-18E/F vengono anche chiamati di "quarta
generazione e mezza" lasciando la quinta generazione agli F/A-22 Raptor e F-35 JSF
americani che entreranno in servizio tra il 2006 e la fine del decennio in poi. Questi
costituiscono davvero un passo avanti integrando tutte le capacità fin qui concentrate nei
85 Ibidem.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
41
cacciabombardieri con la tecnologia stealth (ovvero accorgimenti per avere una bassa
osservabilità elettronica) di cui fanno uso86.
L’aviazione civile, al termine del secondo conflitto mondiale, si trovò a
disposizione molte tecnologie sviluppate per scopi bellici ma utili anche per fini
pacifici. Prima della guerra erano noti alcuni aerei civili ad elica e alcuni aerei che poi
sarebbero diventati dei bombardieri erano stati sviluppati sotto la falsa immagine di
aerei per il trasporto di persone. Di norma non potevano trasportare più di 20-30
persone. Anche il raggio era limitato (1000 Km circa), per non parlare delle velocità che
si aggiravano sui 300-400 Km/h dei trasporti più veloci87.
Alla scesa in guerra degli Stati Uniti, l'esercito americano si trovò nella necessità
di trasportare al di là degli oceani (Atlantico e Pacifico) grandi quantità di uomini e
mezzi in breve tempo. Così nacquero alcuni notevoli aerei ad elica di grandi dimensioni
e con capacità di carico non indifferenti come i C-54 Skymaster (DC-4 per le
compagnie civili dopo la guerra), i Lockheed Constellation (L049 dopo il conflitto).
Dopo la guerra il grande quantitativo di materiale bellico prodotto, quando possibile, fu
convertito a compiti civili. Così i trasporti militari a elica furono uno dei principali
prodotti di guerra facilmente riadattabili ad un compito civile di aerei di linea e trasporto
merci. Ma anche nel ruolo di aerei di linea la strada della propulsione ad elica era ormai
finita. Iniziava il trasporto di linea moderno, inteso come fenomeno di massa88.
Già dal 1943, in Gran Bretagna si stava studiando una soluzione per un aereo di
linea e da trasporto a propulsione a getto a medio-lungo raggio con una capacità di
carico di 80 persone e velocità di 800 Km/h. Nel 1949, in Gran Bretagna, spiccava il
volo il primo aereo di linea con motori a getto: il De Havilland Comet DH-106. Era
ancora un periodo di studi sull'aerodinamica, quindi è normale che la sua struttura fosse
leggermente diversa da quella che normalmente si è soliti attribuire ad un aereo di linea:
aveva quattro motori a getto incassati in coppia nelle due radici alari e la fusoliera non
era esattamente circolare, ma presentava due rigonfiamenti nella parte sottostante.
Comunque in linea di massima aveva già un design moderno. Il Comet nonostante sia
stato il primo aereo di linea con motori a getto non ha avuto la fortuna che ci si poteva
aspettare: all'inizio degli anni ‘50 si appurò che aveva alcuni problemi strutturali che
86 Ibidem. 87 Ibidem. 88 Ibidem.
CAPITOLO 1
42
avevano portato ad incidenti legati a cedimenti; una volta risolti i problemi era ormai
troppo tardi per recuperare la strada persa sui concorrenti americani Boeing e Douglas
che intanto avevano praticamente monopolizzato il mercato del mondo occidentale89.
Negli anni ‘50, in Francia, la Sud Est mise sul mercato il Caravelle, un velivolo di
forma moderna con due motori a getto in coda. Il Caravelle è stato il primo aviogetto di
linea di completo successo di vendita. Il successo del Caravelle e il successo solo
parziale del Comet, segnarono praticamente la fine della produzione europea di aerei di
linea. Il BAC One Eleven, un aereo per tratte corte prodotto in poche centinaia di
esemplari in Gran Bretagna (ma anche in licenza in Romania) sarà l'ultimo velivolo di
linea europeo fino alla collaborazione franco-britannica per arrivare al Concorde, ma
sopratutto fino alla costituzione del consorzio Airbus negli anni ‘7090.
Negli Stati Uniti le aziende aerospaziali potevano contare su enormi capitali,
grazie all'espansione avuta durante la guerra, se a questo si uniscono la rapida ricerca
tecnologica e l'intuizione del fatto che ormai le aziende aerospaziali dovevano avere
certe dimensioni, si capisce il successo della Douglas e della Boeing.
La Douglas, dopo aver ottenuto successo negli anni ‘30 con i DC-2/3, costruì i
DC-4, velivoli a eliche, ma dalla forma moderna, con il carrello d'atterraggio come è
noto attualmente e della capacità di 60 passeggeri. L'ultimo aereo di linea ad eliche di
successo è stato il DC-7 negli anni ‘50. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni
‘60 la Douglas mise in commercio il DC-8, un aereo del tutto moderno a propulsione a
getto. Infine negli anni ‘70, apparvero i velivoli moderni più noti della Douglas: il DC-9
(un bimotore a medio-corto raggio, con motori in coda e impennaggi a T) e il DC-10, un
trimotore a lungo raggio con un motore alla radice della coda e gli altri 2 sulle ali.
Entrambi i progetti furono aggiornati, quando la Douglas si fuse con la McDonnell
dando origine alla McDonnell-Douglas e ai velivoli MD-80 (ex DC-9) e MD-11 (ex
DC-10)91.
Parlare di Boeing al giorno d'oggi equivale a parlare di aereo civile. Questo è
dovuto all'enorme successo della compagnia americana nel settore degli aerei di linea,
tanto che negli anni ’90 la Boeing è riuscita a comprare la rivale di sempre McDonnell
Douglas. L'enorme successo dei modelli 7n7, come sono chiamati i velivoli di linea
89 Ibidem. 90 Ibidem. 91 Ibidem.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
43
della Boeing, è iniziato nel 1954, quando il 707 spiccò il primo volo. Era un aereo per
tratte medio-lunghe, con quattro motori sotto le ali e fusoliera Wide Body. In breve il
suo modello aerodinamico sarebbe stato riconosciuto come quello di maggiore
successo, tanto che è stato ripreso
su ogni aereo di linea successivo
fino ad oggi. Fu progettato
inizialmente per i militari e in
seguito commercializzato sui
mercati civili, diventando il primo
aereo di linea per il volo
intercontinentale. Il 707 è stato
costruito fino al 1980, Insieme al
707, all'inizio degli anni ‘60,
nasceva il 727, un aereo di linea per brevi e medie tratte con tre motori in coda, ma
condividendo l'aerodinamica del 707. Seguirono tutti i modelli che affollano ancora
oggi gli aeroporti e i cieli del mondo: 737, 747, 757, 767 e ora 777 e in futuro 78792.
In Europa, come nel caso degli aerei militari, il black-out totale nella produzione
aerospaziale durò circa 20-30 anni. A partire da studi separati francesi e britannici degli
anni ‘50 e ‘60, le due nazioni unirono gli sforzi per la produzione di un aereo
commerciale con velocità supersonica e raggio intercontinentale. Nel 1969 il primo
Concorde eseguì il primo volo. L'ambizioso progetto Concorde fu in pratica un
insuccesso visti i limitatissimi numeri di produzione e la mancata esportazione a paesi
terzi. La causa è nota: il Concorde, una macchina dai consumi e dal costo di gestione
elevatissimi soffrì della crisi che investì il settore aerospaziale dopo la crisi del petrolio
degli anni ‘70. Nonostante l'insuccesso concreto, il progetto Concorde ottenne un
grande successo indiretto, proprio per ciò che il suo nome auspicava: la "concordia".
Finalmente le nazioni dell'Europa Occidentale lasciarono da parte le rivalità e le gelosie
nazionali e si unirono anche in campo aeronautico per la realizzazione di grandi aerei di
linea che potessero competere con quelli della Boeing93.
Fortemente voluto dalla Francia, negli anni ‘70 nacque il consorzio Airbus
Industries, dalla fusione di Aerospatiale francese, Hawker Siddley (poi BAe) britannica, 92 Ibidem. 93 Ibidem.
Fig. 1.13 Boeing 737, attualmente l'aereo di linea più diffuso al mondo. Fonte: <http://www.aidan.co.uk/md/ManAptB737RyanEI-CNZ_4524.jpg>, (01.2006).
CAPITOLO 1
44
Fokker VFW tedesca e CASA spagnola. Il primo aviogetto dell'Airbus è stato l'A-300,
seguito da tutta una serie di A-3n0 con impieghi che coprono l'intera gamma di
trasporto civile, dai voli interni fino a quelli intercontinentali. Oggi, agli albori del terzo
millennio, l'Airbus è il nuovo rivale della Boeing, con un successo di vendite pari a
quello del tradizionale gigante americano. Da notare la mancanza dell'Italia, sempre
molto filoamericana dal punto di vista aeronautico, tanto che ancora oggi sia l'Alitalia
che l'Aeronautica Militare Italiana usano diversi velivoli made in USA94.
Infine, si può rilevare che essenzialmente le tecnologie principali dei trasporti
aerei (propulsione, studio aerodinamico) siano ferme circa agli anni '70 (come del resto
si è visto per gli aerei militari), da quando l'innovazione nel settore civile si è soffermata
su risparmio di carburante, comfort per il passeggero, basso inquinamento e materiali
leggeri.
1.2.4 L’occhiale
L’occhiale, strumento così importante e oggi così ovvio, è stato spesso perso di
vista in passato al punto che le sue origini sono tuttora incerte e discussa ne è la
paternità.
È legittimo supporre che i romani, che producevano il vetro molto bene, si
avvalessero di qualche mezzo di ingrandimento, ma nessuno pensò di utilizzarlo per
alleviare la fatica di leggere anche perché allora le occasioni di lettura erano molto rare
e riservate a pochi. È noto che Seneca conosceva l'azione prismatica delle superfici di
vetro sfaccettate e che i piccoli caratteri vengono ingranditi se osservati attraverso una
bottiglia di vetro di forma sferica piena d'acqua. Si sa che Nerone soleva guardare i
giochi del circo attraverso una lente di smeraldo probabilmente perché il colore verde ha
un effetto riposante sulla vista, anche se non si può escludere che, in maniera del tutto
casuale, il taglio particolare di quella pietra acquistasse il pregio di correggere la
miopia. Come mezzo d'ingrandimento abituale, i romani e i greci usavano lo specchio
concavo utilizzato anche per altri scopi: Demostene per esempio studiava davanti allo
94 Ibidem.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
45
specchio le mosse delle sue orazioni ed Archimede, grazie agli specchi ustori, incendiò
le navi romane ancorate sotto le mura di Siracusa95.
I romani usavano poi un tipico elmo da guerra, ocularium, che in corrispondenza
degli occhi aveva uno o due fori coperti da cristalli per proteggerli dalla polvere96.
Di lenti di ingrandimento vere e proprie parla per la prima volta il fisico arabo
Alhazen (996-1038). Questi, nella parte terza del suo celebre trattato di ottica, osserva
che mediante un segmento sferico di vetro (quindi una lente piano-convessa) si possono
ottenete immagini ingrandite. Nel 1268 il filosofo inglese Ruggero Bacone (1214-1294)
scrisse, nel suo Opus Majus, un importante capitolo nella storia dell'occhiale, quando
descrisse l'azione di ingrandimento della lente convessa e ne suggerì l'uso a chi avesse
problemi di vista. Bacone ebbe quindi il merito di intuire che le lenti convesse potevano
essere usate per facilitare la lettura (nella presbiopia), ma non fu lui l'inventore degli
occhiali, anche se fu senza dubbio contemporaneo all'invenzione97.
Infatti, sia Alhazen che Bacone si avvicinarono alla scoperta della lente, ma
rimanendone a un passo: insistevano nel porre la lente sopra l’oggetto da ingrandire
anziché direttamente davanti agli occhi. Si creò comunque una prima distinzione tra
lente di ingrandimento, detta lapides ad legendum o pere da lazer a Venezia e gli
occhiali detti vitreos ab oculis ad legendum o “roidi da ogli”, molto diffusi alla fine del
XIII secolo e considerati un accessorio indicativo del ruolo intellettuale e del rango di
chi li indossava. Si dice che il primo vero occhiale sia comparso per opera di un
anonimo artigiano vetraio italiano, intorno alla metà del XIII secolo, quando fu
formalizzata una serie di norme della corporazione degli artigiani vetrai veneziani.
Allora le lenti erano in cristallo di rocca o in berillio98.
I documenti più antichi che parlano esplicitamente dell'arte di fare lenti per
occhiali e da ingrandimento sono i Capitolari veneziani del 1300. In data 15 Giugno
1301 in un paragrafo riguardante la Corporazione degli artigiani del vetro e del cristallo
di rocca, si prescrive che coloro che intendono fabbricare vitreos ab oculis ad legendum
siano iscritti alla Corporazione dei "cristalleri" e si impegnino a non diffondere
95 Andrea SOLERO, 2003, Breve storia dell’occhiale, <http://www.italyanoptik.com/breve%20storia.html>, (01.2006). 96 Francesca MONTEVERDI, 2002, Occhiali: spizzichi di storia. Da Seneca alla fine del XVII secolo, <http://www.real-eyes.it/html/zoo/zoo_htm/1465.htm>, (01.2006). 97 Andrea SOLERO, Breve storia dell’occhiale, cit. 98 Francesca MONTEVERDI, Occhiali: spizzichi di storia, cit.
CAPITOLO 1
46
all'esterno di Venezia i segreti di quest'arte preziosa. Per i trasgressori erano previste
pene severe99.
Inizialmente dunque, fu severamente proibito ai vetrai di vendere sia gli occhiali
che le lenti come fossero cristalli. Dopo un anno circa, però, i sovrintendenti alle arti
permisero, a chi lo voleva, di fare lenti per occhiali, così che questi prodotti divennero
peculiarità degli artigiani vetrai veneziani100.
Venezia, del resto, era l'unica città d'Europa che nel XIII secolo conosceva i
segreti della fabbricazione del vetro, da quando quest'arte era stata completamente
abbandonata e dimenticata in occidente dopo la caduta dell'Impero Romano. Venezia
custodiva gelosamente questo monopolio al punto che nel 1289 il Consiglio dei Dieci
decise di trasferire tutte le fabbriche di vetro nell'isola di Murano (dove fioriscono
ancora oggi per assicurare una vigilanza più efficace all'arte vetraria e preservarne la
segretezza). Probabilmente Frate Alessandro della Spina, un domenicano di grande
ingegno al quale è stato erroneamente attribuito il merito dell'invenzione degli occhiali,
imparò il metodo di fabbricazione a Venezia, dove l'ordine domenicano aveva un
convento, e lo divulgò in seguito in Toscana. I frati
domenicani svolsero del resto un ruolo decisivo nella
diffusione degli occhiali trovandovi grande
giovamento nella faticosa opera di traduzione di quel
complesso patrimonio letterario e storico della civiltà
araba, greca e romana che grazie a loro ci è stato
tramandato. La più antica figura con occhiali esistente
al mondo è un domenicano: il vescovo Ugone da
Provenza dipinto da Tommaso da Modena nel 1252.
La sua effigie, che per la prima volta testimonia l'uso
dell'occhiale da vista, è conservata nella chiesa di S.
Nicolò a Treviso nella regione Veneto101.
I primi occhiali erano costituiti da due lenti rotonde cerchiate di cuoio riunite da
due piccoli segmenti legati a un perno affinché rimanessero più stabili in viso. Due
99 Andrea SOLERO, Breve storia dell’occhiale, cit. 100 Francesca MONTEVERDI, Occhiali: spizzichi di storia, cit. 101 Andrea SOLERO, Breve storia dell’occhiale, cit.
Fig. 1.14 Effige del vescovo “occhialuto” Ugone da Provenza, 1252. Fonte: Francesca MONTEVERDI, Occhiali: spizzichi di storia, cit.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
47
“legacci”, sempre in cuoio, da annodarsi intorno al capo ne assicuravano maggiormente
la fermezza. Nel Medioevo a stimolare la costruzione di occhiali non furono certo le
necessità degli studiosi, all’epoca una rarità, bensì il numero di contabili in continuo
aumento grazie al crescente progresso sociale ed economico del tempo. Ebbene, fu
proprio la necessità di leggere nitidamente pagine intrise di numeri e ordinativi a
segnare la storia degli occhiali. I primi occhiali avevano lenti convesse e correggevano
solo la presbiopia dei vecchi. Anzianità era sinonimo di saggezza e il più grande
omaggio reso a un uomo di rispetto era ritrarlo con un paio di occhiali inforcati sul
naso102.
Nel Quattrocento comparvero anche le prime lenti concave per i miopi e
l’esigenza di creare un sistema ancor più idoneo che a contenerle divenne urgente,
perché non servivano più solo per la lettura. Furono fermati dietro le orecchie da
un’asola di cuoio passante e sulla fronte da un sostegno verticale di metallo che
curvandosi si affrancava alla testa con un berretto o con una fascia frontale. Da alcune
tracce di rapporti epistolari tra nobildonne e nobiluomini dell’epoca si rileva che il
commercio e l’uso degli occhiali erano a quel tempo molto diffusi (Alessandra
Maccinghi Strozzi li citava nelle sue lettere al figlio; il duca Francesco Sforza ordinò
per lettera a Niccodemo Tancredini tre dozzine di occhiali, un documento che tra l’altro
comprova che anche Firenze si stava specializzando negli occhiali). Nei secoli seguenti,
l’impiego di molle e passi flessibili assicurarono gli occhiali sul naso, e furono
impiegati materiali più leggeri. Il legno e il corno (pesantissimi) provocavano, infatti,
nasi gonfi e insopportabili emicranie103.
Nel XVI secolo i modelli con le stringhe di cuoio per legarli intorno alla testa
assunsero connotazioni sportive, assolutamente impensabili all’epoca: i pescatori
siciliani li usavano tuffandosi per la raccolta del corallo. L’occhiale divenne uno degli
oggetti più preziosi nella mercanzia dei venditori ambulanti. Nel secolo barocco, oro e
argento finemente cesellati, incastonati di gemme, adattarono gli occhiali al gusto
ridondante dei ricchi e dell’epoca. Nel Seicento la lente singola tenuta da un manico
prezioso era in auge per la lettura di corrispondenze galanti, per la “vista lunga” e per
apprezzare anche da lontano le rappresentazioni dei teatri di corte. Nel frattempo fecero
la loro comparsa gli occhiali da parrucca, con un prolungamento metallico per farli stare 102 Francesca MONTEVERDI, Occhiali: spizzichi di storia, cit. 103 Ibidem.
CAPITOLO 1
48
fermi davanti agli occhi, da infilare sotto la parrucca stessa o sotto il berretto. Un
sistema talmente poco pratico che fu presto sostituito dall’invenzione degli “occhiali da
tempia”, ossia con le astine
o stanghette, perfezionate e
commercializzate intorno
al 1727/1730 dall’ottico
londinese Edward Scarlett.
Inizialmente le stanghette
non arrivavano fin dietro le
orecchie, ma esercitando
pressione sulle tempie garantivano comunque stabilità. Spesso erano invece dotate di
anelli cui legare dei nastri da fermare poi dietro la testa, come era in uso nel
Cinquecento e nel Seicento104.
Occorre arrivare alla fine del '700 per trovare gli occhiali bifocali. L'invenzione
delle lenti cosiddette "doppie" è attribuita a Benjamin Franklin che trovando
insopportabile dover cambiare ogni momento occhiali per vedere da vicino e da lontano,
pensò di adoperare per ciascun occhio due lenti spezzate a metà. In realtà Franklin fu
solo uno dei primi illustri utilizzatori delle lenti bifocali ma l'idea e la realizzazione
sembrano spettare a due inventori distinti che in date e luoghi diversi arrivarono a
mettere a punto la stessa geniale soluzione delle lenti bifocali: S. Pierce nel 1760 ed
Addison Smith nel 1783105.
Nel 1825 lo scozzese George Biddell Airy mostrò la prima lente per pazienti
astigmatici e costruì perfino lenti trifocali. Negli anni Trenta del XX secolo si sentiva
l'esigenza di creare delle lenti che proteggessero gli occhi dai raggi solari, così si
cominciò a adattare le montature degli occhiali non più alle esigenze personali ma ai
dettami della moda106.
Man mano che il progresso sociale e l'aumento degli scambi consentivano uno
sviluppo economico più diffuso, l'occhiale diventava un oggetto alla portata di tutti. In
Europa e, più tardi, in America sorsero importanti fabbriche di occhiali, mentre tanti
piccoli artigiani in vari paesi fabbricavano alacremente occhiali di poco costo di solito
104 Ibidem. 105 Andrea SOLERO, Breve storia dell’occhiale, cit. 106 <http://www.paginemediche.it/areapubblica/aree/rubriche/articolo.asp?id=354&canale=1>, (01.2006).
Fig. 1.15 I primi occhiali con astine da tempia di Edward Scarlett, 1727. Fonte: <http://www.eyeglasseswarehouse.com/eyescar.html>, (01.2006).
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
49
venduti nelle vie e nei mercatini insieme a tante altre cianfrusaglie da venditori
ambulanti vestiti in modo chiassoso per attirare l'attenzione dei passanti107.
1.3 L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA IN ITALIA
Obiettivo di questo paragrafo è ricostruire i tratti di lungo periodo del sistema di
innovazione italiano descrivendo la performance innovativa italiana, anche in
prospettiva comparata. Per raggiungere tale scopo è necessario innanzitutto chiarire
cosa s’intende per sistema di innovazione.
L’ipotesi basilare è che i processi innovativi, elemento chiave della crescita
economica, siano da ricondurre ad una vasta gamma di fattori, fortemente
interdipendenti e cumulativi, che concorrono a formare un sistema di innovazione
nazionale. L’assunto fondamentale è che l’innovazione sia legata ad un processo
continuo di apprendimento, basato sull’interazione e sulla collaborazione, che coinvolge
tutti gli elementi del sistema economico e sociale, secondo una prospettiva riconducibile
alle teorie evoluzionistiche. L’innovazione risulta così come un processo dipendente
essenzialmente dal percorso, in cui i piccoli eventi iniziali possono determinare sentieri
di sviluppo divergenti nei diversi contesti nazionali. Nonostante sia stato raggiunto un
certo consenso sulle caratteristiche fondamentali che contraddistinguono un sistema
nazionale di innovazione, esso è stato delimitato in vari modi e non esiste, nella
letteratura, una sua definizione omogenea. Alcuni studiosi lo definiscono come un
sistema di istituzioni, private e pubbliche, le cui attività e interazioni importano,
modificano e diffondono le nuove tecnologie. Altri invece, lo intendono in maniera più
ampia, includendo anche il sistema finanziario, gli aspetti produttivi e il marketing108.
Per misurare la performance di un sistema innovativo si utilizzano degli indicatori
in grado di fornire evidenza dell’intensità del progresso tecnico. Si possono
schematicamente distinguere due tipologie di indicatori: quelli di input e quelli di
output. I primi misurano le quantità di risorse che un sistema nazionale dedica alle
attività di ricerca. L’indicatore standard in quest’ambito è il volume di spesa in R&S
107 Andrea SOLERO, Breve storia dell’occhiale, cit. 108 Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, 2005, Storia dell’impresa industriale italiana, Bologna, il Mulino, 2005, p. 126.
CAPITOLO 1
50
sostenuta all’interno di un paese rispetto al PIL. L’indicatore di output più
comunemente adoperato è invece rappresentato dai brevetti. Utilizzando i registri dei
brevetti disponibili per diversi paesi, è possibile ricostruire serie storiche complete a
partire dalla seconda metà del XIX secolo. Per quanto riguarda le spese in R&S invece,
non è possibile disporre di dati precedenti alla Seconda guerra mondiale109.
1.3.1 Gli investimenti nelle attività di ricerca
Il sistema italiano si caratterizza, nel lungo periodo, per la scarsa attenzione verso
la ricerca scientifica e tecnologica. I pochi dati a disposizione relativi al periodo
precedente la Seconda guerra mondiale confermano questa tendenza. L’immediato
secondo dopoguerra fu caratterizzato da un’ulteriore diminuzione dei fondi disponibili
e, soltanto dalla seconda metà degli anni ’50, si verificò un aumento dei volumi di
spesa, anche per i cospicui fondi investiti nei progetti di ricerca nucleare. I primi dati
disponibili, anche in prospettiva comparata, risalgono agli anni ’60; relativamente alla
metà degli anni ’50 esistono solamente delle stime110.
Tab. 1.2 Peso percentuale delle spese in R&S sul PIL per alcuni paesi e anni benchmark (1955-2000)
Fonti: OECD, Sciense and technology indicators, Paris, 2001; OECD, Factbook 2005: Economic, Environmental and Social Statistics, Paris, 2005, p. 117; per 1955-60 stime basate su Franco MALERBA, 1993, Italy, in Richard R. NELSON (a cura di), National Innovation Systems. A comparative analysis, New York-Oxford, Oxford University Press, 1993, pp. 230-259.
I dati della tabella 1.2 evidenziano l’evoluzione delle spese in R&S in relazione al
PIL per i maggiori paesi industrializzati. In relazione all’Italia si possono notare due
fenomeni: innanzitutto, nella seconda metà del XX secolo, la quota percentuale delle
spese per R&S rispetto al PIL si quintuplica, passando dallo 0,2 per cento del 1955 all’1
109 Ibidem, pp. 127, 128. 110 Ibidem, pp. 128, 129.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
51
per cento del 2000; in secondo luogo il processo di crescita ha avuto un andamento
alterno aumentando fino al termine degli anni ’80, per poi ridursi nell’ultimo decennio
preso in considerazione. In ogni caso il distacco nei confronti dei principali paesi
industrializzati rimane molto grande per tutto il periodo, anche se si può osservare,
almeno fino al 1990, un lento processo di convergenza verso le nazioni guida111.
La distribuzione delle spese in R&S per settore di realizzazione mostra un
andamento particolare. Se nel 1963 la quota percentuale della ricerca effettuata dalle
imprese private era del 53,7 per cento e superava il 62 per cento aggiungendo i dati
relativi alla ricerca svolta dalle imprese pubbliche, dalla fine degli anni ’60 la situazione
muta in maniera radicale. La quota della ricerca svolta dalle imprese private si posiziona
attorno al 40 per cento già dal 1967, per poi scendere gradualmente fino al 30 per cento
nel 1990. Cresce progressivamente la spesa delle imprese pubbliche che, dal 15 per
cento del totale durante gli anni ’60, arriva al 20 per cento sul finire degli anni ’80 per
poi scendere al 16 per cento nel 1990. In leggero e costante aumento sono le spese
sostenute dall’università e dagli altri enti pubblici. Lo sforzo per incrementare i volumi
della spesa in attività di ricerca è stato dunque in gran parte sostenuto dalla pubblica
amministrazione e dalle imprese pubbliche. Inoltre, una parte crescente, passata dal 10
per cento circa degli anni ’70, al 30 per cento circa della fine degli anni ’80, delle spese
sostenute dalle imprese private proviene da finanziamenti pubblici. Col graduale
ridimensionamento dell’impresa pubblica, a seguito delle privatizzazioni nella prima
metà degli anni ’90, il peso delle spese delle imprese private sul totale degli
investimenti in R&S risale a fronte di una diminuzione complessiva dei flussi. La
riduzione dei flussi globali di fondi destinati alla R&S, registrata in Italia a partire dagli
anni ’90, può essere interpretata proprio in relazione al ridimensionamento dell’impresa
pubblica. Questa era, infatti, caratterizzata da grandi imprese nelle quali l’intensità della
ricerca è decisamente più alta che nelle piccole e medie imprese che caratterizzano
l’odierna struttura industriale italiana112.
Neppure la struttura industriale povera di grandi imprese è però sufficiente a
spiegare la bassa intensità di ricerca italiana. Tutta l’industria italiana investe
relativamente poco in R&S. È evidente l’anomalia della situazione italiana
relativamente alla distribuzione della spesa in R&S privata e pubblica. Tutti i paesi più 111 Ibidem, p. 129. 112 Ibidem, pp. 129,130.
CAPITOLO 1
52
avanzati industrialmente presentano una spesa privata decisamente superiore a quella
pubblica: ovviamente gli USA, dove il rapporto è uguale a tre, ma anche la Germania
(un eguale rapporto di tre), la Francia, la Gran Bretagna e la Svezia113.
Fig. 1.16 Investimenti in R&S come percentuale del PIL, anni Duemila. Fonte: Oscar PALLME, Innovazione: Scenario europeo e Processi di sviluppo. Convegno “Innovazione in Europa. Italia alla finestra?”, Milano, 23 novembre 2004, Slide 31.
La figura 1.16 evidenzia la differente distribuzione degli investimenti privati e
pubblici in R&S come percentuale del PIL per l’Unione Europea (15 Paesi) e l’Italia nei
primi anni del decennio in corso. Mentre gli investimenti pubblici italiani in R&S sono
praticamente in linea con la media UE (-0,11 per cento), gli investimenti privati sono
nettamente inferiori (-0,75 per cento). L’anomalia del caso italiano risiede dunque nella
carenza di privati che investano in R&S.
I fattori che influenzano gli investimenti in ricerca e i suoi risultati sono
molteplici. Alcuni elementi fondamentali penalizzano l’attività di ricerca in Italia e
vanno visti in dettaglio. Si possono considerare degli importanti indicatori: livelli di
cooperazione tra imprese e tra imprese e istituti di ricerca, percentuale di imprese minori
che effettuano attività di ricerca (comprese le imprese high-tech), quote di ricerca
universitaria finanziata dalle imprese, finanziamento pubblico della ricerca privata. Tutti
questi indicatori mostrano una grande distanza dell’Italia dai maggiori paesi
113 Carlo M. GUERCI, Lo sviluppo tecnologico dell’industria italiana: una sfida per la competitività. Le tavole rotonde di A.T. Kearney, Milano, 4 giugno 2002, p. 14.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
53
industrializzati. In particolare emerge la scarsa disponibilità alla cooperazione, tipica
dell’individualismo delle imprese italiane, e la scarsità dei rapporti tra impresa e
università114.
Andando a diversi dettagli emerge che l’intensità della ricerca svolta in settori ad
elevato contenuto di ricerca è decisamente inferiore a quella di altri paesi. Ad esempio
lo è nell’industria automotive e nell’elettronica, con l’eccezione dell’industria delle
telecomunicazioni dove l’intensità di ricerca italiana è la più alta, grazie soprattutto agli
sforzi di imprese come Telecom Italia, Pirelli, Italtel e alle presenze locali di Marconi e
di Alcatel. Questi dati erano attesi e sono l’effetto combinato delle minori dimensioni
aziendali e dei minori investimenti di singole aziende rispetto ai concorrenti. I dati più
inattesi riguardano però i settori tradizionali, punto di forza della competitività italiana.
Nel legno l’intensità della R&S italiana è di venti volte inferiore a quella francese e di
venticinque volte inferiore a quella USA; nella carta è inferiore di sedici volte
all’intensità svedese e di dodici volte a quella USA. Analoghi rapporti si ritrovano
nell’industria tessile e in quella alimentare. È dunque evidente che la natura della ricerca
italiana e i suoi modelli organizzativi sono profondamente diversi da quelli di altri
paesi. A queste considerazioni ne vanno accostate altre che riguardano il contesto
generale in cui si sviluppa l’innovazione115.
L’attuale situazione della R&S italiana si può così sintetizzare:
- scarsa disposizione alla ricerca cooperativa;
- bassa quota percentuale di imprese piccole e medie che svolgono ricerca
sistematica;
- bassa quota di ricerca svolta da imprese high tech;
- estremamente bassa la quota di ricerca svolta dalle università per conto delle
imprese, circa il 20 per cento contro l’80 per cento in Usa e il 64 per cento in
Gran Bretagna;
- mediocre finanziamento pubblico della ricerca delle imprese116.
Un altro aspetto negativo è l’ammontare alquanto limitato di investimenti in R&S
svolto dalle maggiori imprese italiane. Un manipolo di cinque imprese sviluppa il 40
per cento (la sola Fiat il 27 per cento) dell’intera spesa per R&S nazionale, che come si
114 Ibidem, pp. 14, 15. 115 Ibidem, p. 15. 116 Ibidem, p. 16.
CAPITOLO 1
54
è gia visto, a sua volta, è bassa rispetto alla spesa totale, notoriamente inferiore a quella
di tutti i paesi avanzati. Un raffronto con gli Stati Uniti mostra che la ricerca privata è
strutturata in un sistema.
Fig. 1.17 Percentuale di spesa in R&S delle prime cinque imprese italiane e statunitensi sul totale della spesa in R&S privata, 2001. Fonte: Carlo M. GUERCI, Lo sviluppo tecnologico dell’industria italiana: una sfida per la competitività, cit., p. 23.
Come avviene per il lavoro poi, dove l’Italia è tra i paesi che sviluppano una
grande quantità di lavoro sommerso che non viene rilevato nelle statistiche, così è per la
ricerca. Le imprese italiane, in particolare quelle piccole, sviluppano una quantità di
ricerca che non compare. Ciò deprime decisamente i confronti della quota di ricerca
sviluppata in Italia rispetto agli altri paesi industriali117.
Tab. 1.3 Spese in R&S come percentuale del PIL, 2002 o ultimo anno disponibile Messico 0,43 Nuova Zelanda 1,03 EU15 1,93 Svizzera 2,63 Turchia 0,64 Italia 1,07 Austria 1,94 Stati Uniti 2,82
Slovacchia 0,65 Irlanda 1,17 Paesi Bassi 1,94 Corea del Sud 2,96
Grecia 0,67 Repubblica Ceca 1,30 Belgio 1,96 Islanda 3,04
Polonia 0,67 Australia 1,53 Danimarca 2,19 Giappone 3,09 Portogallo 0,78 Norvegia 1,62 Francia 2,20 Finlandia 3,40 Ungheria 0,95 Canada 1,85 Totale OECD 2,33 Svezia 4,27 Spagna 0,96 Gran Bretagna 1,90 Germania 2,50
Fonte: OECD, Factbook 2005, cit., p. 117.
117 Ibidem, p. 25.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
55
0
1
2
3
4
5
Messico
Turchia
Slovacc
hiaGrec
ia
Polonia
Portogall
o
Ungheri
a
Spagna
Nuova Z
eland
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Norvegia
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Francia
Totale O
ECD
Germania
Svizzera
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niti
Corea d
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Island
a
Giappon
e
Finland
iaSvezi
a
Fig. 1.18 Spese in R&S come percentuale del PIL, 2002 o ultimo anno disponibile. Fonte: OECD, Factbook 2005, cit., p. 117.
1.3.2 L’attività innovativa
L’analisi dell’attività innovativa italiana di lungo periodo può essere svolta in
prospettiva comparata con altri paesi o facendo riferimento all’evoluzione della
brevettazione svolta all’interno del paese. Per cercare di posizionare l’Italia rispetto alla
frontiera tecnologica si possono valutare i dati riportati nelle tabelle 1.4 e 1.5, dove sono
presentati rispettivamente il peso percentuale dei brevetti rilasciati a residenti dei
principali paesi negli Stati Uniti e il numero di brevetti rilasciati per milione di abitanti.
Per fronteggiare i problemi derivanti dalle differenze esistenti tra i diversi sistemi
legislativi vengono, infatti, utilizzati i dati sull’attività innovativa portata a termine da
soggetti di diversa nazionalità all’estero, in un paese terzo. La scelta ottimale in questo
caso è quella degli Stati Uniti, il mercato più importante al mondo. I risultati presentati
escludono dal computo i brevetti rilasciati a soggetti statunitensi e canadesi. Nel caso
degli Stati Uniti si segue la procedura normale per l’analisi dei dati in un paese terzo;
per quanto riguarda il Canada, invece, si sono esclusi i brevetti dei residenti canadesi
poiché, specialmente nei primi anni disponibili, questi sono sovrarappresentativi
dell’effettivo peso della capacità innovativa del Canada118.
118 Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, Storia dell’impresa industriale italiana, cit., pp. 130-132.
CAPITOLO 1
56
Tab. 1.4 Quota percentuale dei brevetti rilasciati negli Stati Uniti a residenti stranieri per paese e anni benchmark (1883-1999)
Fonte: Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, Storia dell’impresa industriale italiana, cit., p. 131, elaborazioni da USPTO e NBER Patent Database. Tab. 1.5 Brevetti rilasciati negli Stati Uniti a residenti stranieri per paese (per milione di abitanti) e anni benchmark (1883-1999)
Fonte: Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, Storia dell’impresa industriale italiana, cit., p. 131, elaborazioni da USPTO e NBER Patent Database.
La tabella 1.4, dove sono riportate le quote dei brevetti per paese, mostra come la
posizione relativa dell’Italia rispetto agli altri grandi paesi europei non muti
radicalmente nel lungo periodo. Spicca invece la notevole ascesa del Giappone che, a
partire dagli anni ’70, conquista rapidamente la leadership fra i paesi più innovatori del
mondo. Al contempo, si nota declino della Gran Bretagna che passa dal 40,5 per cento
dei brevetti registrati negli Stati Uniti da residenti stranieri nel 1950 al 5,4 per cento alla
fine del secolo119.
Osservando, alla pagina successiva, la figura 1.19 si notano, relativamente
all’andamento dei brevetti italiani, quattro distinte fasi: la prima, di forte crescita, si
chiude negli anni ’20, quando l’Italia raggiunge un picco (2,1 per cento) che le consente
119 Ibidem, p. 132.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
57
di sopravanzare alcuni piccoli paesi come il Belgio e di ridurre la distanza con i paesi
leader. Pur in presenza di una crescita costante, questo periodo è caratterizzato dai
risultati conseguiti a cavallo della Prima guerra mondiale, quando si sviluppano alcune
industrie ad alta intensità tecnologica, come la chimica e la siderurgia. Segue un periodo
di arretramento, coincidente con l’avvento del fascismo, il periodo autarchico e la
Seconda guerra mondiale che vede la quota dei brevetti italiani attestarsi a livelli
sensibilmente più bassi rispetto alla fase precedente. Tale risultato non rispecchia
soltanto la diminuzione della capacità innovativa italiana, ma è in buona parte
riconducibile al deterioramento dei rapporti fra Italia e Stati Uniti. Comunque, soltanto
nel 1953 vengono superati nuovamente i livelli registrati negli anni ’20. La terza fase
rappresenta il periodo virtuoso del cosiddetto “miracolo italiano”, quando, nel 1963, la
quota raggiunge il 4,4 per cento sul totale dei brevetti concessi a residenti stranieri negli
Stati Uniti. Successivamente si apre una fase decrescente con un calo costante della
performance che, nel corso degli anni ’70, presenta un valore medio del 3,4 per cento,
mentre negli anni ’80 scende al 3,1 per cento. A partire dagli anni ’90, specialmente
nella seconda metà, il valore si riduce progressivamente ritornando su valori di poco
superiori a quelli degli anni ’20120.
0,0
1,0
2,0
3,0
4,0
5,0
1883
1890
1900
1913
1929
1938
1950
1958
1963
1973
1983
1991
1999
Fig. 1.19 Quota percentuale dei brevetti italiani registrati negli Stati Uniti sul totale dei brevetti rilasciati a residenti stranieri (1883-1999). Fonte: Propria elaborazione da Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, Storia dell’impresa industriale italiana, cit., p. 131.
120 Ibidem, pp. 132, 133.
CAPITOLO 1
58
La tabella 1.5, dove è riportato il numero di brevetti rilasciati per milione di
abitanti, permette di avanzare ulteriori specificazioni. In questo caso, infatti, il confronto
del dato italiano con quelli degli altri paesi, azzerando gli effetti dimensionali, da
risultati ancor peggiori. Il divario con tutti gli altri paesi, eccezion fatta per la Spagna,
rimane notevole per tutto il periodo e la posizione relativa non muta. La prestazione
innovativa italiana di lungo periodo risulta generalmente debole, posizionandosi a
notevole distanza da quella di paesi che presentano simili livelli di reddito.
Particolarmente significativo risulta anche l’evidente peggioramento della capacità
innovativa negli anni ’90121.
La disaggregazione dei brevetti a livello settoriale consente di verificare i modelli
di specializzazione italiana individuando punti di forza e di debolezza. Per il periodo
antecedente alla Prima guerra mondiale il basso numero di brevetti registrati negli Stati
Uniti non consente di esprimere un giudizio complessivo. Adeguate informazioni sulla
specializzazione della capacità innovativa italiana sono disponibili solamente per il
secondo dopoguerra. Analizzando i brevetti rilasciati negli Stati Uniti nel periodo 1963-
1982, l’Italia manifesta una specializzazione in alcuni comparti della chimica, nella
meccanica e nella gomma. In seguito la specializzazione si concentra nei settori
tradizionali: alimentare, tessile, pelletteria, e in alcuni comparti della meccanica. Da
un’analisi disaggregata sui brevetti rilasciati dall’Ufficio Europeo dei Brevetti (UEB) in
due sottoperiodi ( 1978-1985 e 1986-1993) affiora un quadro ancor più preciso della
specializzazione italiana. L’Italia risulta specializzata in settori tradizionali come
l’abbigliamento e le calzature, le fibre naturali e la carta, gli elettrodomestici, i mobili e
le macchine per il trasporto delle merci. Al contrario, i settori per i quali c’è una
maggiore despecializzazione sono quelli ad elevata intensità tecnologica: il nucleare, i
computer, l’ottica ed i composti chimici122.
Appare significativo sottolineare il fatto che l’Italia ha consolidato la sua
posizione nei settori maturi, cioè in quelle classi la cui quota sul totale dei brevetti si
riduce a livello mondiale; mentre presenta considerevoli svantaggi relativi in quasi tutte
le classi che presentano un elevato dinamismo.
L’analisi dei brevetti rilasciati negli Stati Uniti a partire dal 1963 consente di
ricavare ulteriori elementi sul modello di specializzazione italiano. Adottando una 121 Ibidem, p. 133. 122 Ibidem, pp. 133, 134.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
59
classificazione proposta da uno studio del National Bureau of Economic Research
(NBER) che rielabora la classificazione dell’USPTO suddividendola in 36 sottoclassi e
6 classi tecnologiche si può, infatti, seguire l’evoluzione dei modelli di specializzazione.
Per ciascuna classe si può calcolare l’indice di Revealed Technological Advantage
(RTA) che permette di individuare le classi in cui c’è un vantaggio comparato nella
capacità innovativa di un paese123.
Tab. 1.6 Modello di specializzazione (RTA) dell’Italia per categorie tecnologiche (1963-1999) Codice Categoria 1963-1972 1973-1982 1983-1992 1993-1999 Totale
1 Chimica 1,465 1,154 1,046 1,311 1,204
2 Computer e telecomunicazioni 0,708 0,934 0,516 0,403 0,553
Fonte: Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, Storia dell’impresa industriale italiana, cit., p. 34, elaborazioni da NBER Patent Database.
Considerando il più elevato livello di aggregazione, riportato nella tabella 1.6,
quello per 6 classi, si nota una certa stabilità nel corso dell’intero periodo. L’Italia
risulta, infatti, specializzata nel campo farmaceutico e nella chimica, leggermente
specializzata nella meccanica e nelle altre classi, che comprendono molti prodotti
tradizionali, ma fortemente despecializzata nei settori dei computer e delle
telecomunicazioni e nell’elettronica.
L’elenco delle imprese cui è stato concesso il maggior numero di brevetti (tabella
1.7) mostra la presenza di alcune imprese multinazionali, specialmente americane, che
hanno registrato brevetti negli Stati Uniti attraverso le loro filiali italiane. La presenza
delle imprese straniere non è molto rilevante nelle prime posizioni, ma ha tuttavia un
peso notevole in termini assoluti. Nella graduatoria delle prime cinquanta imprese della
classe dei prodotti farmaceutici, ad esempio, appaiono ben venti imprese
multinazionali124.
123 Ibidem, p. 135. L’indice RTA è dato dal quoziente tra lo share dei brevetti di un paese j per un prodotto i sul totale dei brevetti esteri rilasciati in Italia per quel prodotto e lo share dei brevetti del paese j in tutti i prodotti di un settore sul totale dei brevetti stranieri nel settore: RTAij = (Pij/∑jPij)/(∑iPij/∑i∑jPij) dove P è il numero dei brevetti del prodotto i rilasciati a residenti nel paese j. Da qui, quando l’indice assume un valore maggiore di 1 si può dire che questo paese è relativamente avvantaggiato per quel prodotto e, viceversa, quando il valore è inferiore a 1 c’è uno svantaggio relativo. 124 Ibidem, p. 137.
CAPITOLO 1
60
Tab. 1.7 Graduatoria delle prime 10 imprese innovatrici italiane Graduatoria Numero brevetti Società
1963-1972
1 138 Olivetti, Ing. C., + C. S.p.A. 2 48 European Atomic Energy Community EURATOM 3 46 SNAM Progetti S.p.A. 4 34 Gruppo Lepetit S.p.A. 5 16 SAES Getters S.p.A. 6 11 Consiglio Nazionale delle Ricerche 7 8 Carlo Erba S.p.A. 8 7 Coster Tecnologie Speciali S.p.A. 9 6 G.D. S.p.A. 9 6 Minnesota Mining and Manufacturing Company 9 6 W.R. Grace & Co.-Conn. 9 6 SPA-Società Prodotti Antibiotici S.p.A. 1973-1982
1 288 SNAM Progetti S.p.A. 2 278 Montecatini Edison S.p.A. 3 265 Olivetti, Ing. C., + C. S.p.A. 4 186 Montedison S.p.A. 5 116 Gruppo Lepetit S.p.A. 6 102 CSELT - Centro studi e laboratori telecomunicazioni S.p.A. 7 70 Farmitalia Carlo Erba, S.p.A. 8 66 G.D. S.p.A. 9 56 Società italiana telecomunicazioni SIEMENS S.p.A.
10 54 Società italiana resine SIR S.p.A. 1983-1992
1 243 Montedison S.p.A. 2 189 Società italiana resine SIR S.p.A. 3 182 Olivetti, Ing. C., + C. S.p.A. 4 178 G.D. S.p.A. 5 175 Montecatini Edison S.p.A. 6 173 Fiat S.p.A. 7 170 Farmitalia Carlo Erba, S.p.A. 8 161 SGS-Thomson Microelectronics S.r.l. 9 149 CSELT - Centro studi e laboratori telecomunicazioni S.p.A.
10 135 Società italiana telecomunicazioni SIEMENS S.p.A. 1993-1999
1 646 SGS-Thomson Microelectronics S.r.l. 2 230 G.D. S.p.A. 3 163 Fiat S.p.A. 4 159 Ausimont S.p.A. 5 132 Eniricerche S.p.A. 6 116 Pirelli Società per Azioni Centro Pirelli 7 102 Consorzio per la ricerca sulla microelettronica nel Mezzogiorno 8 100 Danieli & Co. Officine meccaniche S.p.A. 9 99 Enichem, S.p.A.
10 95 Farmitalia Carlo Erba, S.p.A.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
61
Tab 1.7 (segue) Graduatoria Numero brevetti Società
1963-1999
1 807 SGS-Thomson Microelectronics S.r.l. 2 607 Olivetti, Ing. C., + C. S.p.A. 3 480 G.D. S.p.A. 4 460 Montecatini Edison S.p.A. 5 431 Montedison S.p.A. 6 414 SNAM Progetti S.p.A. 7 383 Fiat S.p.A. 8 335 Farmitalia Carlo Erba, S.p.A. 9 313 CSELT - Centro studi e laboratori telecomunicazioni S.p.A.
10 261 Gruppo Lepetit S.p.A. Fonte: Renato GIANNETTI e Michelangelo VASTA, Storia dell’impresa industriale italiana, cit., pp. 138, 139, elaborazioni da NBER Patent Database.
Come si nota dalla tabella 1.7, nelle varie fasi emergono soggetti diversi. Nel
periodo 1963-1972 primeggia l’Olivetti che si mantiene stabilmente nelle prime tre
posizioni fino al 1992. Sono presenti anche le attività di brevettazione svolte all’interno
di iniziative pubbliche come l’EURATOM e il Consiglio Nazionale delle Ricerche
(CNR). Fra le prime dieci appaiono anche alcune imprese farmaceutiche, come il
gruppo Lepetit, Carlo Erba e delle imprese straniere. Nel periodo 1973-1982 si osserva
la forte presenza delle imprese chimiche: il gruppo Lepetit, Farmitalia Carlo Erba e
Montedison. Quest’ultima è presente con due società distinte che si posizionano nei
primissimi posti anche nel successivo periodo. In prima posizione c’è la SNAM
Progetti, società pubblica facente capo all’ENI e il Centro studi e laboratori
telecomunicazioni (CSELT), società del gestore pubblico della telefonia, la SIP. Nei due
decenni 1973-1992 si mantiene fra i primi dieci anche la SIR, società chimica del
gruppo Rovelli confluita poi nell’Enichem, ed emerge SGS-Thomson microelectronics
che risulta essere la più innovatrice impresa italiana dell’intero periodo 1963-1999. Si
nota per tutte le diverse fasi e per l’intero periodo, posizionata in terza posizione, la
presenza della G.D., società bolognese specializzata in una produzione di nicchia come
è quella delle macchine per la lavorazione del tabacco. Osservando l’elenco per le
diverse fasi si nota la permanenza di alcuni soggetti, come G.D. e Carlo Erba ed anche
la presenza di imprese pubbliche che, ancora nella fase 1993-1999, posizionano due
società dell’ENI (Eniricerche e Enichem) fra le prime dieci. Si evidenzia peraltro la
scomparsa di altri soggetti importanti come la Montedison, parzialmente rimpiazzata
dall’Ausimont, e l’Olivetti. È infine da segnalare come dal 1983 compaia nella
CAPITOLO 1
62
graduatoria anche la Fiat, andando ad occupare la sesta posizione nella fase 1983-1992,
la terza nella fase 1993-1999 e la settima nel complessivo periodo 1963-1999125.
1.3.3 In sintesi
Gli indicatori di performance illustrati contribuiscono a mettere in luce lo scarso
dinamismo di lungo periodo del sistema innovativo italiano i cui punti di debolezza
prevalgono su quelli di forza. Si evidenziano tuttavia alcuni periodi (i primi anni ’20 o
l’inizio degli anni ’70) in cui la performance innovativa mostra una buona dinamica
convergendo verso i paesi leader, prevalgono però le fasi, come quella dell’ultimo
decennio, in cui emerge un chiaro processo di divergenza.
Un elemento di debolezza di lungo periodo è la scarsa disponibilità di fondi da
destinare alla ricerca scientifica e tecnologica. Dal lato istituzionale, ciò ha determinato
un rapporto conflittuale fra mondo della ricerca e università i cui rispettivi compiti non
sono mai stati delimitati con chiarezza. Dal lato delle imprese, i ridotti volumi di
investimenti da parte dello Stato hanno favorito la permanenza della struttura industriale
esistente, che si è caratterizzata nel lungo periodo con la piccola dimensione e la
specializzazione in settori tradizionali. Si è così innescato un circolo vizioso all’interno
del quale hanno prevalso imprese lontane dalla frontiera tecnologica126.
Il modello italiano di sviluppo economico costituisce un esempio di adattamento
originale ai mutamenti imposti dal susseguirsi dei diversi regimi tecnologici. Alcuni
leggono questo percorso in positivo evidenziando le buone prestazioni di crescita
ottenute nonostante i vincoli imposti dalla scarsa disponibilità di capitali e soprattutto di
risorse. Il mix tecnologico italiano sarebbe, secondo questa visione, soltanto una
risposta razionale alla dotazione fattoriale e al relativo livello dei prezzi. Altri
evidenziano invece come un insieme di fattori istituzionali (sistema educativo,
legislazione sui brevetti e sugli standard industriali), all’interno dei quali
l’organizzazione della ricerca scientifica e tecnologica riveste un ruolo preponderante,
non abbiano permesso un processo di sviluppo più rapido o anche solamente più solido.
Il tratto che emerge con maggior chiarezza è tuttavia relativo alla situazione odierna. La
125 Ibidem, p. 137. 126 Ibidem, pp. 143, 144.
L’INNOVAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO
63
base tecnologica di cui l’Italia dispone oggi, anche tenendo conto della presenza di
imprese dinamiche che operano nei settori tradizionali, non pare, infatti, in grado di
poter garantire i livelli di crescita del passato, specialmente in una fase dello sviluppo
economico in cui la dotazione tecnologica sembra avere un ruolo sempre più centrale127.
Da un quadro così desolante emerge però l’eccezione rappresentata dalla
maggiore realtà industriale italiana, il gruppo Fiat. La Fiat, nonostante la gravissima
crisi nella quale è precipitata dall’inizio degli anni Duemila, le cui cause si possono
probabilmente individuare nelle poco avvedute scelte prese dal gruppo dirigenziale nel
corso degli anni ‘90, sviluppa, come visto in precedenza, il 27 per cento circa dell’intera
spesa per R&S nazionale. Questo dato potrebbe apparire poco significativo
dell’effettivo impegno della Fiat nell’innovazione tecnologica, in quanto rappresenta un
valore assoluto e quindi slegato dall’effettiva dimensione aziendale.
Si può però considerare il peso percentuale delle spese in R&S sul totale dei ricavi
netti delle attività industriali del gruppo Fiat, ottenendo i seguenti valori:
- 2,9 per cento nel 1999128;
- oltre 3 per cento nel 2000129;
- 3,5 per cento nel 2001130;
- 3,5 per cento nel 2002131;
- 4 per cento nel 2003132;
- 4 per cento nel 2004133.
Si tratta di dati in relativa crescita e in ogni caso superiori rispetto al peso
percentuale delle spese in R&S sul PIL dell’Italia che negli ultimi vent’anni si è
attestato, con lievi oscillazioni, attorno all’1 per cento134.
Gli investimenti della Fiat in R&S si concretizzano nelle attività di innovazione
condotte dai singoli settori, integrate dalle ricerche ad alto contenuto innovativo e di
127 Ibidem, p. 144. 128 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 1999. Relazione sulla gestione, Torino, giugno 2000, p. 21. 129 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 2000. Relazione sulla gestione, Torino, maggio 2001, p. 24. 130 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 2001. Relazione sulla gestione, Torino, maggio 2002, p. 24. 131 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 2002, Torino, maggio 2003, p. 14. 132 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 2003, Torino, maggio 2004, p. 15. 133 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 2004, Torino, giugno 2005, p. 19. 134 OECD, Factbook 2005, cit., p. 117.
CAPITOLO 1
64
tipo trasversale sviluppate dalle aziende del Gruppo dedicate, il Centro Ricerche Fiat
(CRF) e l’Elasis135.
Quest’ultime rappresentano due realtà d’eccellenza mondiale nel settore
dell’innovazione tecnologica ed è soprattutto grazie alla loro attività congiunta se,
all’inizio degli anni ’90, è stata raggiunta la fase finale dello sviluppo del sistema
d’iniezione diretta Common Rail per motori Diesel, la più importante invenzione in
campo automobilistico della fine del XX secolo.
135 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 1999. Relazione sulla gestione, cit., p. 21.
CAPITOLO 2: STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA
D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
2.1 LE ORIGINI DEL MOTORE DIESEL E I SUOI PRIMI UTILIZZI IN CAMPO
AUTOMOBILISTICO
La storia del motore a combustione interna ha dell'incredibile ed è basata su due
meraviglie: la prima è che il motore funziona e la seconda è la sua rapida affermazione
(meno di vent’anni), all'inizio del XX secolo, come macchina motrice al posto di quella
a vapore. Se il motore non fosse stato ancora inventato e qualcuno dicesse di aver
pensato a una macchina nella quale un piccolo pistone, muovendosi in un cilindro,
intrappoli un volume di aria pari a quello del cilindro stesso e che l'aria, poi, miscelata
con un combustibile, liquido o gassoso, venga compressa e accesa da una scintilla in
frazioni di millisecondo raggiungendo temperature massime di 2.500°C e pressioni di
una decina di MPa, sostenendo che tale miscela, ad alta pressione e temperatura,
produca in un'ora un lavoro meccanico pari a quello prodotto in un giorno da cinquanta
operai e che il processo si ripeta 3.000 volte al minuto, ovvero 180.000 volte all'ora, con
l'aiuto di valvole che si aprono e si chiudono in frazioni di millisecondo, questo
qualcuno all'ascoltatore sembrerebbe un pazzo. Ebbene, una macchina così fatta esiste.
Ha influenzato e influenzerà ancora molto lo stile di vita di intere generazioni. Tale
macchina è il motore a combustione interna. Esso nelle moderne versioni Diesel può, in
alcuni casi, raggiungere anche rendimenti molto elevati (intorno al 50 per cento) con
bassissime emissioni inquinanti, come il particolato e gli ossidi di azoto (NOx). Nel
futuro, un veicolo passeggeri equipaggiato con un tale motore Diesel, può essere
altamente competitivo addirittura con i nascenti sistemi di propulsione elettrico-fuel
cell1.
L'idea del motore a combustione interna con accensione per scintilla risale al
1854, quando due italiani, il fisico Eugenio Barsanti (1821-1864) e l’ingegnere Felice
1 Felice E. CORCIONE, ottobre 2001, Il motore a combustione interna: il grande sconosciuto, in «Ricerca & Futuro», n. 21, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, <http://www.fi.cnr.it/r&f/n21/corcione.htm>, (01.2006).
CAPITOLO 2
66
Matteucci (1808-1887), brevettarono e successivamente realizzarono il primo motore
termico a combustione interna. Era un monocilindro nel quale l'accensione di una
miscela di gas illuminante (gas ottenuto per distillazione secca del carbone) spingeva in
alto uno stantuffo creando sotto di questo il vuoto. Nella corsa di ritorno, sotto l'azione
della pressione atmosferica, lo stantuffo trasmetteva il movimento all'albero motore per
mezzo di un'asta dentata. Il motore di Barsanti e Matteucci subì nel tempo sostanziali
modifiche sia termodinamiche, per opera del francese Beau de Rochas (1815-1893), che
strutturali, per opera dei tedeschi Nikolaus August Otto (1832-1891) nel 1876 e Gottlieb
Daimler (1834-1900) che nel 1889 brevettò un motore ad accensione per scintilla
veloce, chiamato poi motore a ciclo Otto, utilizzante come combustibile i distillati
leggeri del petrolio, cioè la benzina2.
Si deve invece al tedesco Rudolf Christian Karl Diesel (1858-1913) l’idea del
motore a combustione interna con accensione per compressione.
2.1.1 Rudolf Diesel e l’invenzione del motore ad accensione per compressione
Il 28 febbraio 1892 il trentaquattrenne ingegner Diesel depositava all’Ufficio
Imperiale Brevetti di Berlino la domanda di brevetto per “un nuovo efficiente motore
termico”. Si trattava, come descritto nel brevetto n. 67207 (figura 2.1) rilasciato il 23
febbraio 1893, di “processo lavorativo e progetto per macchine motrici a combustione
interna”, caratterizzato dal fatto che in un cilindro l’aria viene compressa dal pistone di
lavoro con una forza tale che la temperatura risultante è di gran lunga superiore a quella
d’accensione del carburante da impiegare3.
Con questa semplice quanto efficace descrizione nasceva, sul finire del XIX
secolo, il motore ad accensione per compressione, come definito dal suo ideatore, in
contrapposizione al già esistente motore a ciclo Otto o, semplicemente, a benzina, che a
quei tempi era gia vecchio di una trentina di anni. Presto ribattezzato, tout court, con il
nome del suo ideatore, il motore Diesel impiegherà tuttavia molti anni e dovrà
percorrere strade lunghe e tortuose prima di riuscire ad affermarsi.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
67
Fig. 2.1 Il brevetto n. 67207 rilasciato a Rudolf Diesel il 23 febbraio 1893. Fonte: <http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Lumbar_patent_dieselengine.jpg>, (01.2006).
CAPITOLO 2
68
Le sue conquiste avverranno in modo estremamente graduale, ma una volta
raggiunta la vetta il Diesel non l’abbandonerà più: saranno i concorrenti,
inevitabilmente, a soccombere. Così è avvenuto con i motori marini già all’inizio del
secolo scorso, con i camion e gli autobus a partire dagli anni ‘20, con i trattori e i treni
sulle linee non elettrificate dagli anni ’30 e ’40 e, negli stessi anni, con tutte le macchine
destinate ai lavori pesanti, dalle gru agli schiacciasassi. Con le automobili però, il lavoro
di conquista si è rivelato molto più laborioso e soprattutto più lento: va avanti, infatti,
sin dal lontano 1936. Un tempo lunghissimo, tutto sommato, in confronto ai venti-trenta
anni impiegati, per esempio, dal Diesel per scalzare dal suo posto il vecchio motore a
vapore. D’altronde, vero trionfatore della grande Rivoluzione industriale, il motore a
vapore cominciava a denunciare le sue deficienze già alla fine del XIX secolo. E questo
prima ancora che i motori a combustione interna, sia quelli a benzina come quelli
Diesel, muovessero i loro primi passi in Germania, in Francia o in Italia4.
Il motore a vapore era condannato a chiudere quanto prima la sua esistenza.
Infatti, tralasciando i problemi di natura ecologica (l’inquinamento era l’ultima delle
preoccupazioni dei tecnici e dei legislatori dell’Ottocento) connessi con l’alimentazione
a carbone di cui il motore a vapore era un vorace consumatore, questo genere di
propulsore offriva comunque un grande difetto agli occhi dei fisici e degli ingegneri
della seconda metà dell’Ottocento: quello di uno scarsissimo rendimento
termodinamico. In parole povere, un motore a vapore poteva sfruttare nelle ipotesi
migliori appena 700-800 calorie delle 7.500 offerte da un chilogrammo di buon carbone.
Per non parlare poi dell’ancora più basso rendimento quando, al posto del carbone, era
impiegata la legna ed era questo il caso delle locomotive a vapore americane che,
realizzate con basse tecnologie, non avrebbero d’altronde tollerato le temperature troppo
elevate offerte dalla combustione del carbone5.
Il problema, in pratica, può essere così riassunto: un motore a vapore o a
combustione esterna, detto anche esotermico, dove cioè la combustione non avviene
all’interno dello stesso motore, ha sempre e comunque un rendimento termico assai più
basso di un motore a combustione interna, o endotermico, dove invece la combustione
4 Alberto BELLUCCI, 15 luglio 2003, Diesel, una storia infinita prima puntata, tratto da «EcoRenault», <http://www.kwmotori.kataweb.it/kwmotori/kwm.jsp?idContent=426719&idCategory=902>, (01.2006). 5 Alberto BELLUCCI, 22 luglio 2003, Diesel, una storia infinita seconda puntata, tratto da «EcoRenault», <http://www.kwmotori.kataweb.it/kwmotori/kwm.jsp?idContent=433033&idCategory=902>, (01.2006).
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
69
avviene all’interno del motore stesso. Seguendo questo principio, sempre più vincente
nei successivi anni, il motore ideato e messo a punto dall’ingegner Diesel sul finire
dell’Ottocento si rivelerà decisamente il migliore fra tutti quelli endotermici realizzati a
quell’epoca. Il suo rendimento teorico sarebbe stato, infatti, addirittura superiore al 70
per cento, cioè 7-8 volte più del rendimento di un motore a vapore e il 30-40 per cento
più di un motore a benzina6.
Questo almeno in teoria: in pratica, Diesel e molti altri validi tecnici dopo di lui
impiegheranno anni per la messa a punto del propulsore, quanto mai lenta e laboriosa, e
per la ricerca di un risultato pratico che si avvicinasse il più possibile a quello teorico
del motore ideato dal geniale ingegnere. Se è vero, infatti, che il secondo principio della
termodinamica afferma l’impossibilità di realizzare un motore il cui rendimento sia pari
al 100 per cento, è anche vero che Diesel si era molto avvicinato a quel livello
impossibile. Molto di più, soprattutto, di quanto si fossero avvicinati i realizzatori dei
primi motori a benzina. D’altra parte, sebbene apparentemente simili, i due propulsori
erano in realtà molto diversi. Mentre, infatti, nel motore a benzina l’accensione della
miscela (aria più benzina) deve essere necessariamente provocata da una scintilla, nel
Diesel l’accensione è spontanea: essa avviene impiegando l’alta temperatura, circa
900°C, raggiunta dall’aria sottoposta a fortissima pressione (almeno tre volte superiore
che in un “benzina”) all’interno del cilindro. È proprio in questo che risiede la genialità
del principio del motore Diesel: il comprimere cioè ad altissime pressioni (già allora di
210 Kg/cm2) l’aria che, raggiunta mediante un iniettore e al momento giusto da una
spruzzata di combustibile, provocherà una sostanziosa esplosione. Assai più violenta e
generatrice di forza rispetto allo scoppio offerto dal motore a benzina7.
Si deve poi considerare un altro particolare tutt’altro che trascurabile. Il motore
ideato da Diesel utilizzava e utilizza ancora oggi un combustibile assai meno costoso e
nobile della benzina che negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento era talmente
preziosa da essere venduta in latte di pochi litri in farmacia o presso qualche rara
drogheria. Mentre la raffinazione e la lavorazione in generale della benzina richiedeva
allora tecnologie evolute e costose, il combustibile previsto all’inizio da Diesel per
alimentare il suo motore, il cosiddetto olio pesante, corrispondeva pressappoco al
petrolio grezzo della migliore qualità. In pratica, un buon light crude poteva già essere 6 Ibidem. 7 Ibidem.
CAPITOLO 2
70
impiegato dopo un semplice filtraggio e una rudimentale raffinazione. Inoltre, altro
grande pregio, l’olio combustibile e il gasolio sono assai meno infiammabili della
benzina che, già a una trentina di gradi di temperatura ambientale, produce gas
esplosivi, se messi a contatto con una fiamma o una semplice scintilla. Per avviare la
gassificazione del gasolio occorre invece una temperatura all’incirca doppia. Proprio per
questo motivo, ancora oggi, chi vuole andar per mare con maggiore sicurezza sceglie
inevitabilmente un motore Diesel per la propria barca8.
Tuttavia, sebbene ricco di pregi, sin dal suo apparire il motore Diesel mostrò
subito alcuni grossi inconvenienti che richiederanno lunghi, anzi lunghissimi, anni di
sperimentazioni e messe a punto: una vera e propria storia infinita.
Anche se brevettato all’inizio del 1892, il motore ad accensione per compressione
comincerà a muovere i primi passi, o meglio i primi giri, soltanto verso il finire
dell’Ottocento. Troppo elevata era, infatti, la compressione che l’ingegner Diesel aveva
programmato per il suo motore, in rapporto alle tecnologie dell’epoca, al punto che
molti inconvenienti si verificarono nel
corso dei primi esperimenti. Nel 1894,
ad Augsburg, nei pressi di Monaco di
Baviera, uno dei primi motori esplose
addirittura nello stabilimento della
“Maschinenfabrik Augsburg AG (più
tardi MAN AG)”9, dove Diesel compiva
i suoi collaudi e lo stesso progettista
rimase seriamente ferito. Ciononostante
il testardo ingegnere non si perse
d’animo e, rinunciando a qualche
atmosfera di pressione interna nonché
migliorando la circolazione dell’acqua
per ottimizzare il raffreddamento, riuscì
finalmente a far funzionare con successo
un grosso monocilindrico che, con una
compressione finale di 32 atmosfere, rendeva 25 CV con consumi decisamente inferiori 8 Ibidem. 9 <http://de.wikipedia.org/wiki/MAN_AG>, (06.2006).
Fig. 2.2 Il terzo motore realizzato da Diesel, il primo adatto all’uso pratico, febbraio 1897. Fonte: <http://www.deutsches-museum.de/mum/interakt/big/e_vr2.htm>, (01.2006).
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
71
rispetto a un analogo motore a benzina. Era il febbraio del 1897 ed erano già passati
cinque anni dal deposito del primo brevetto10.
Nel frattempo, superate agevolmente alcune dispute legali sulla priorità del
brevetto, soprattutto con il francese Emile Capitaine, ed esposto con grande successo
alla mostra di Monaco di Baviera del 1898 il suo monocilindrico in una versione
migliorata e corretta, Diesel cominciò a girare il mondo come ambasciatore e piazzista
di lusso della propria invenzione. Questo, nonostante avesse già ceduto, sempre nel
1898, i brevetti e i diritti per lo sfruttamento delle proprie invenzioni ad una società
finanziaria per l’enorme somma di 3,5 milioni di marchi dell’epoca. Il controllo di
Diesel era però assolutamente necessario affinché il motore a combustione per
compressione fosse utilizzato non solo in modo corretto, ma anche nel più ampio
ventaglio di impieghi possibili e non soltanto come stava avvenendo negli Stati Uniti.
Qui, infatti, dopo che la fabbrica di birra Busch aveva acquisito i diritti di sfruttamento
del motore Diesel per il Nord America, l’impiego sembrava circoscritto alle sole
postazioni fisse, per produrre cioè forza motrice o corrente elettrica, come avveniva
appunto presso la stessa birreria Busch11.
Ben altri erano però i progetti di Diesel, come per esempio sostituire, in breve
tempo su tutte le navi, il vecchio motore a vapore con il suo propulsore: quest’ultimo
era, infatti, decisamente più moderno, più parco nei consumi e anche più sicuro grazie
all’eliminazione del fuoco vivo presente nelle caldaie destinate alla produzione di
vapore. Già nel 1903 fu avviata in Francia la produzione dei primi Diesel per battelli
fluviali, mentre a partire dal 1905 l’azienda svizzera Gebrüder Sulzer AG cominciò a
produrre motori più grandi per equipaggiare le navi, seguita nel 1908 dalla Fiat che
divenne presto il maggior produttore dell’epoca. Nel 1912 poi, il bastimento Selandia
portò a termine la prima traversata atlantica con motori Diesel. D’altronde, quando era
primo Lord dell’Ammiragliato britannico, Winston Churchill intuì subito le grandi
possibilità dei motori Diesel. È proprio per questo motivo che Diesel fu segretamente
convocato presso lo stesso Ammiragliato britannico per il 30 settembre 1913, ma il
10 Alberto BELLUCCI, 29 luglio 2003, Diesel, una storia infinita terza puntata, tratto da «EcoRenault», <http://www.kwmotori.kataweb.it/kwmotori/kwm.jsp?idContent=439354&idCategory=902>, (01.2006). 11 Ibidem.
CAPITOLO 2
72
geniale inventore scomparve misteriosamente dalla nave che lo stava trasportando dal
Belgio alla Gran Bretagna proprio nella notte antecedente l’appuntamento12.
2.1.2 Robert Bosch e Harry Ricardo: il motore Diesel “si accomoda in automobile”
Fino agli anni ’20 l’impiego della propulsione a gasolio fu circoscritto ai soli
motori di grandi dimensioni, soprattutto per un motivo: l’impossibilità di miniaturizzare
l’impianto di iniezione da cui dipende in buona parte l’efficienza del motore Diesel.
Infatti, più è polverizzato omogeneamente lo spruzzo di carburante introdotto nel
cilindro, maggiore è il rendimento. Sui motori delle navi, particolarmente grandi e lenti,
era invece sufficiente la più rudimentale iniezione pneumatica messa a punto dallo
stesso Diesel già nei primi esperimenti e consistente nell'insufflare tramite aria
compressa carburante nella camera di combustione. Nel 1923 la Benz & Co. di
Mannheim riuscì però a mettere in produzione il primo autocarro al mondo con motore
a gasolio: un quattro cilindri in grado di sviluppare 45 CV a 1.000 giri/min. che
impiegava una rudimentale pompa meccanica di iniezione13.
Sarà tuttavia il lavoro di puntigliosa messa a punto svolto dall’industriale tedesco
Robert Bosch (1861-1942) a far decollare definitivamente il Diesel sui motori di minore
cilindrata. Alla fine del 1922 Bosch decise di iniziare la progettazione di un nuovo
sistema d'iniezione per motori Diesel. Le premesse tecniche erano molto favorevoli:
c'era già una lunga esperienza fatta con i motori a combustione, la tecnica di produzione
era molto avanzata, ma soprattutto si potevano utilizzare tutte le esperienze fatte in
azienda durante la produzione delle pompe di lubrificante. Bosch ed i suoi collaboratori
lavorano senza pausa per questo nuovo progetto. Già agli inizi del 1923 era stata
progettata circa una dozzina di diverse pompe d'iniezione, mentre verso la metà dello
stesso anno venivano eseguite le prime prove sul motore. Gli specialisti attendevano
giorno per giorno l'immissione sul mercato delle pompe d'iniezione, dalle quali essi si
12 Ibidem. 13 Alberto BELLUCCI, 5 agosto 2003, Diesel, una storia infinita quarta puntata, tratto da «EcoRenault», <http://www.kwmotori.kataweb.it/kwmotori/kwm.jsp?idContent=444683&idCategory=902>, (01.2006).
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
73
attendevano nuovi impulsi per la produzione di motori Diesel. Nell'estate 1925 veniva
deliberato il progetto definitivo per la costruzione della pompa14.
Due anni dopo, nel marzo 1927, fu rilasciato il benestare alla produzione di
pompe di iniezione singole, che furono messe a disposizione dei produttori di motori.
La funzionalità delle pompe, dimostrata nell’ambito di numerose prove, spianò quindi la
strada verso il cosiddetto “nullaosta per la produzione in grandi volumi”, rilasciato il 30
novembre 1927. Il primo cliente delle pompe di iniezione prodotte in serie da Bosch fu
la MAN, che montò il nuovo sistema di iniezione a bordo dei propri autocarri. In
seguito, l’evoluzione si susseguì a un ritmo ininterrotto: nell’ottobre 1928 Bosch
festeggiò la produzione della pompa di iniezione numero 1.000, nel 1934 gli
stabilimenti produttivi sfornarono la pompa numero 100.00015.
Fig. 2.3 Una delle prime applicazioni della pompa in linea Bosch, 1927. Fonte: Bernd MAHR, Future and Potential of Diesel Injection Systems, Thiesel 2002 Conference on Thermo- and Fluid-Dynamic Processes in Diesel Engines, Valencia, 11-13 settembre 2002, p. 7.
14 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, L’iniezione diesel di Bosch compie 75 anni. Dal 1927, grazie a Bosch, il diesel è entrato nella vita delle automobili, Milano, 16 ottobre 2002. 15 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, L’iniezione Diesel di Bosch compie 75 anni: La produzione di serie delle pompe di iniezione rivoluzionò la produzione dei motori a gasolio, Milano, 5 novembre 2002.
CAPITOLO 2
74
Nel frattempo, l’ingegnere inglese Harry Ralph Ricardo (1885-1974) intraprese
una lunga serie di approfonditi studi ed esperimenti pratici sul rendimento dei motori
endotermici. Questi esperimenti lo portarono a realizzare, da un lato, le più evolute
camere di combustione per motori a benzina e, dall’altro lato, le prime precamere ad
alta turbolenza per motori Diesel. È solo per merito delle precamere di Ricardo che fu
finalmente possibile impiegare il Diesel anche sulle automobili, grazie alla forte
riduzione delle vibrazioni e della rumorosità altrimenti presenti nei motori ad iniezione
diretta. In sostanza, a fronte di una non eccessiva perdita in rendimento termico, il
motore ad iniezione indiretta con precamera tipo Ricardo si rivelò decisamente meno
ruvido, più “civilizzato” e quindi più
automobilistico dell’altro, dove
l’iniezione di carburante avveniva
direttamente all’interno della camera di
combustione. Gli studi dell’ingegnere
inglese consistevano, in pratica,
nell’adozione di una camera di
combustione “esterna”, simile a una
piccola sfera cava, direttamente collegata
con la camera di combustione vera e
propria. Questa precamera ospitava
l’iniettore del gasolio e, grazie agli studi
di Ricardo, era opportunamente
configurata e sperimentata per assicurare la migliore turbolenza possibile: ciò per
favorire la miscelazione tra il gasolio iniettato al suo interno e l’aria compressa ricevuta
dalla camera di combustione attraverso un condotto. Tuttavia, nonostante i lunghi e
complessi esperimenti dell’inventore britannico, il sistema a precamera denunciava una
perdita in rendimento e dunque un aumento dei consumi di circa il 15-20% rispetto
all’iniezione diretta. Richiedeva inoltre una candeletta elettrica di preriscaldamento,
all’interno della precamera stessa, per elevare la temperatura dell’aria al momento
dell’avviamento. In ogni caso, senza questo sistema, all’epoca non sarebbe stato
possibile montare un tradizionale propulsore a gasolio su una comune automobile16.
16 Alberto BELLUCCI, Diesel una storia infinita quarta puntata, cit.
Fig. 2.4 Precamera a turbolenza “Comet Mark III” di Ricardo, primi anni ‘30. Fonte: <http://www-g.eng.cam.ac.uk/125/achievements/ricardo/images/FS-R33.jpg>, (01.2006).
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
75
Grazie, dunque, agli studi della Bosch e dell’ingegner Ricardo, il motore Diesel
era ormai sufficientemente miniaturizzato e “civilizzato” da poter essere finalmente
adottato anche sulle automobili. Dopo alcuni semplici quanto sporadici esperimenti, tra
i quali quelli dell’americana Cummins che trasferì su alcune auto i propri Diesel nautici
con risultati soddisfacenti e conquistando addirittura un record di velocità (160 Km/h), i
primi tentativi con un minimo seguito commerciale per “dieselizzare” un’automobile
vanno ascritti alla britannica Perkins. Sin dal 1932, infatti, questa azienda aveva avviato
la produzione in serie di motori a gasolio con precamera relativamente piccoli e
destinati soprattutto a imbarcazioni e trattori. Piuttosto compatti e particolarmente
veloci (la cilindrata era limitata a 2.700 cm3, mentre il regime di rotazione toccava già i
3000 giri/min.), questi Diesel finirono presto per equipaggiare alcune automobili e
addirittura con ottimi risultati: nel 1933 una Hillman Minx con motore Perkins coprì il
lungo percorso Londra-Mosca consumando meno di 7 litri di gasolio per 100 Km. A
quella prima Hillman seguirono presto alcune decine di altre vetture, soprattutto di
marche americane (Nash, Ford, Studebaker ecc.) perché più adatte a sopportare il
maggior peso e le più elevate vibrazioni di quei primi Diesel. Molte di queste auto
restarono a lungo in servizio, come taxi, sulle strade inglesi17.
La prima automobile Diesel del mondo, equipaggiata da un motore con precamere
a turbolenza “Comet Mark III” sviluppato da Ricardo, fu la Citroën Rosalie del 193518.
Tuttavia, l’intera documentazione relativa a questo modello è andata perduta
durante la Seconda guerra mondiale e nessuno sa con certezza se fu realizzato un
numero di esemplari sufficiente a costituire una vera produzione di serie19.
Appunto per questo si deve affermare che la prima vettura Diesel di fatto destinata
alla produzione di serie vide la luce soltanto nel febbraio del 1936. Fu al Salone di
Berlino di quell’anno, infatti, che la Mercedes-Benz presentò in anteprima la sua 260D,
una grossa berlina/limousine (numerose erano le carrozzerie disponibili) derivata dal
telaio della 6 cilindri 230. Il motore era un quadricilindrico di 2.545 cm3 dotato di
precamere e della pompa d’iniezione Bosch, sviluppava 45 CV ed era in grado di
imprimere all’auto una velocità massima di 95 Km/h con un consumo medio di circa
17 Ibidem. 18 <http://www.ricardo.com/investors/companyprofile.aspx?page=companyhistory>, (01.2006). 19 DIESEL Power. The ultimate guide to diesel motoring, p. 6, allegato a «Diesel Car», n. 181, Exeter, Predator Publishing, giugno 2003.
CAPITOLO 2
76
10-11 litri per 100 Km, cioè il 30% in
meno della corrispondente versione a
benzina. Proprio per suo il basso
consumo unito alla robustezza del
motore, già allora una prerogativa
decisamente vincente anche sui piccoli
Diesel, la 260D divenne presto l’auto
preferita dai tassisti tedeschi20.
A conferma di ciò basti pensare che
questo modello fu venduto in 1.967
esemplari fino al 1940, risultato senza
dubbio rilevante considerando l’epoca e il
nuovo tipo di alimentazione21.
Fig. 2.6 La Mercedes-Benz 260D del 1936, prima vettura Diesel destinata alla produzione di serie. Fonte: <http://www2.uol.com.br/bestcars/ph2/206b.htm>, (01.2006).
20 Alberto BELLUCCI, 12 agosto 2003, Diesel una storia infinita quinta puntata, tratto da «EcoRenault», <http://www.kwmotori.kataweb.it/kwmotori/kwm.jsp?idContent=449650&idCategory=902>, (01.2006). 21 DIESEL Power, cit., p. 6.
Fig. 2.5 Il propulsore della Mercedes-Benz 260D, si possono notare: una delle precamere (ricavate nella testata) e la pompa d’iniezione Bosch (in azzurro). Fonte: <http://automobile.nouvelobs.com/mag/img.asp?src=011105/260d/images/coupe.jpg>, (01.2006).
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
77
Nel dopoguerra la Mercedes-Benz non ripropose più il grosso motore di 2.545
cm3, ma, a partire dal 1949, uno più piccolo di 1.697 cm3 e 38 CV che andò ad
equipaggiare la 170D: l’unico modello della casa in produzione subito dopo il conflitto.
D’altra parte, ancora per qualche anno, ben poche marche europee vollero cimentarsi
nel difficile settore dell’auto a gasolio. Ci provò, all’inizio degli anni ’50, la tedesca
Borgward con la sua Hansa 1800 che tuttavia restò in produzione per pochi anni e con
scarso successo. Tentò anche la Fiat, a partire dal 1953, con la sua 1400 Diesel
(cilindrata di 1.901 cm3 e potenza di 40 CV) che fu prodotta per circa quattro anni in
neppure 14.000 unità. Ci provò ancora la britannica Standard con la sua Vanguard
(equipaggiata con un 4 cilindri di 2.088 cm3 e 40 CV), presentata nel 1953, ma senza
successo. A partire dal 1959 arrivò poi il turno della francese Peugeot 403 con un
quadricilindrico di 1.816 cm3 da 55 CV. L’accoglienza riservata dagli automobilisti
europei a questi primi modelli Diesel fu, nel migliore dei casi, appena tiepida: soltanto i
tassisti e i viaggiatori di commercio sembravano apprezzare, infatti, questo genere di
motorizzazione. Per lunghi anni il rumore, a volte indiscutibilmente fastidioso, di quei
primi Diesel fu definito da molti automobilisti semplicemente come il “rumore della
miseria”. D’altra parte, non solo la silenziosità faceva difetto a quei vecchi motori:
l’assenza di prestazioni decenti rappresentava, per esempio, un handicap altrettanto
insormontabile. Ancora all’inizio degli anni ’70 non c’era neppure un’auto con motore
Diesel in grado di superare i 135 Km/h22.
È quindi logico che la stragrande maggioranza dei più importanti costruttori
automobilistici abbia trascurato il Diesel finché questo, grazie ai progressi della
tecnologia, non fosse divenuto realmente adulto offrendo prestazioni e silenziosità
adeguate, riducendo i suoi già bassi consumi e migliorando, allo stesso tempo, la
tradizionale robustezza ed affidabilità. Per raggiungere questi obiettivi il Diesel
automobilistico dovette ritornare, dopo una sessantina d’anni dagli esperimenti di
Ricardo, all’iniezione diretta. Grazie, infatti, alle nuove tecnologie, alle più efficienti
insonorizzazioni e alle migliori equilibrature dei motori moderni, il Diesel riuscì a
recuperare, sul finire degli anni ’80, quel rendimento termico cui dovette rinunciare con
la precamera di accensione e senza, per questo, doversi più privare del confort di
marcia.
22 Alberto BELLUCCI, Diesel una storia infinita quinta puntata, cit.
CAPITOLO 2
78
2.2 ALCUNI PASSI STORICI NELLO SVILUPPO DEL SISTEMA D’INIEZIONE
DIRETTA DIESEL COMMON RAIL
Il difetto del gasolio è quello di “bruciare di colpo” e quindi di “prendere a
martellate” i pistoni del motore. Quando la prima gocciolina di gasolio viene iniettata
nella camera, non brucia istantaneamente, anche se le condizioni di pressione e di
temperatura lo consentirebbero. Deve passare un certo tempo (detto “ritardo
d’accensione”), in pratica qualche millisecondo, durante il quale la combustione effettua
un suo periodo d’incubazione. In questo intervallo di tempo il gasolio viene iniettato nel
cilindro e, quando s’incendia, è un’esplosione. Al confronto, la benzina brucia
lentamente e in modo progressivo23.
Ovviamente, moltissimi ingegneri si sono cimentati nell’impresa di rallentare la
combustione del gasolio. Il sistema più logico era quello di allungare il tempo
d’iniezione, ovvero usare pressioni più basse, ma ciò è in netto contrasto con l’esigenza
di polverizzare il gasolio. Anzi, i motoristi sono sempre andati alla ricerca di pressioni
più elevate sugli iniettori, per ovviare a due problemi: l’imbrattamento degli iniettori al
minimo e il fumo nero a piena potenza. La precamera ha sotterrato per sessant’anni
questi problemi, risolvendoli brillantemente per altre vie. Invece di rallentare la
combustione del gasolio, ne rallenta l’espansione. La ricerca è andata avanti così,
cercando di migliorare il motore a precamera, modificandone la forma, introducendo
alta turbolenza, alimentando con aria compressa, gestendo elettronicamente l’inizio
dell’iniezione. In poche parole, pur di mantenere la dote di una combustione più
morbida, si è conservato il compromesso iniziale di un minore rendimento24. Si giunge
così alla seconda metà degli anni ’80, quando la supremazia tecnologica della
precamera viene incrinata dalle prime automobili al mondo a iniezione diretta di
gasolio.
Si tratta della Fiat “Croma” 1.9 TD i.d., presentata nel 198625 e della Audi “100”
2.5 TDI, presentata nel 198926.
23 Enrico DE VITA, Iniezione diretta: cambia il diesel, in «Quattroruote», n. 477, Milano, EditorialeDomus, luglio 1995, p. 220. 24 Ibidem, pp. 220, 222. 25 <www.newmobility.fiatauto.com/ eng/Ambiente/ric_diesel.htm>, (01.2006). 26 <http://www.audi.com/audi/com/en1/company/history/chronicle/chronicle_1975-1989.html>, (01.2006).
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
79
Tuttavia, il vero salto tecnologico dei motori Diesel a iniezione diretta si è avuto,
negli anni ’90, con l’uso del sistema Common Rail che ha permesso di raggiungere
pressioni elevate e mantenerle costanti all’interno di un piccolo serbatoio di accumulo
(rail) adibito all’alimentazione comune (common) di elettroiniettori comandati da una
centralina elettronica di bordo. Con questo sistema è stato possibile gestire in modo
completamente indipendente dalla velocità di rotazione del motore la pressione di
iniezione, l’inizio della fase di iniezione, la quantità di combustibile iniettata e il
numero di iniezioni per ciascun ciclo del motore. Il risultato di questa gestione è il
contemporaneo miglioramento del rendimento del motore, l’abbattimento del rumore di
combustione e la minimizzazione delle emissioni inquinanti dei motori27.
2.2.1 I primitivi sistemi d’iniezione Common Rail
L’invenzione che ha consentito il balzo in avanti era nota, almeno sulla carta, da
molti anni. Lo stesso Diesel, infatti, nel suo libro Die Entstehung des Dieselmotors,
pubblicato a Berlino nel 1912, sostiene che la soluzione migliore per alimentare il suo
propulsore sia un’iniezione estratta da una linea di combustibile a pressione costante28.
Per gestire al meglio la combustione del gasolio bisogna poi iniettarlo a pressioni
decisamente superiori ai 1.000 bar. Come si vede, non si tratta di invenzioni, ma
piuttosto di condizioni fisiche. Negli anni ‘90, per la prima volta, la tecnica è stata in
grado di raggiungerle, grazie al progresso delle tecnologie produttive e, soprattutto, al
contributo dell’elettronica29.
Non mancano comunque, già a partire dai primi decenni del Novecento, esempi di
primitivi sistemi Common Rail che hanno trovato applicazioni non nel settore
automobilistico, bensì in quelli navale e ferroviario.
Nel 1910 James McKechnie fu eletto nel consiglio di amministrazione della
Vickers Sons & Maxim Ltd., società dedita alle costruzioni navali e alla fabbricazione
di armamenti con sede a Barrow-in-Furness (Gran Bretagna). Proprio per la sua
posizione nella società, McKechnie fu indicato come inventore, anche se è molto
27 Felice E. CORCIONE, Il motore a combustione interna: il grande sconosciuto, cit. 28 Rinaldo RINOLFI, vicepresidente Centro Ricerche Fiat (CRF), The Future of Powertrain Technology, Automotive News Europe Congress, Barcelona, 4–6 Maggio 2005, slide 3. 29 Enrico DE VITA, Iniezione diretta: cambia il diesel, cit., p. 220.
CAPITOLO 2
80
probabile che non lo fosse, in molti brevetti della Vickers relativi all’iniezione di
combustibile. Sempre nel 1910 McKechnie ottenne il brevetto britannico n. 27,579 per
“Miglioramenti nei motori a combustione interna” nel quale era descritto un sistema
d’iniezione idraulica diretta del combustibile (iniezione liquida) con un accumulatore
fra la pompa e l’iniettore meccanico (figura 2.7). Questo sistema d’iniezione liquida
rappresentò una svolta epocale rispetto a quelli impiegati nei primi motori Diesel che
funzionavano invece ad aria compressa e richiedevano raffreddatori, separatori d’olio,
tubazioni ad alta pressione, ma soprattutto costosi compressori che consumavano
energia e creavano problemi30.
F = valvola attuata meccanicamente; f1 = leva; f2 = camma; f3 = asse; C = pistone di
pompaggio del combustibile; a1 = fori dell’ugello. Fig. 2.7 Il sistema d’iniezione di James McKechnie, brevetto britannico n. 27,579 del 1910. Fonte: Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 92.
Nel 1909 la Vickers produsse il primo sommergibile con motore Diesel. I primi
motori Diesel della Vickers funzionavano con iniezione ad aria compressa, ma,
presumibilmente per problemi relativi ai compressori, l’azienda passò all’iniezione 30 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, in «Trans. Newcomen Soc.», n. 74, 2004, pp. 89-93.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
81
liquida con pompe di combustibile individuali per ciascun cilindro. Fu presto chiara la
necessità di una qualche forma di accumulatore di combustibile. D’altro canto, i motori
non funzionavano in maniera soddisfacente e non raggiungevano la potenza richiesta.
Infatti, alla Vickers non si erano inizialmente resi conto che nell’iniezione liquida il
disegno dell'ugello era molto più critico che in quella ad aria compressa. Importanti
miglioramenti si dovettero successivamente a W.F. Rabbidge R.N. che, a partire dal
maggio 1913, fu incaricato presso la Vickers della progettazione dei motori Diesel per
sommergibili. Egli migliorò specialmente il disegno dell'ugello dell'iniettore e questo
condusse al brevetto n. 1059 del gennaio 1914, nel quale è menzionata la valvola a
spillo azionata idraulicamente, ma in realtà la Vickers usò sempre quella azionata
meccanicamente. È così che, dal 1915 in poi, i motori Vickers funzionarono con
l’iniezione liquida. W.F. Rabbidge attribuì l’esistenza stessa del Servizio sommergibile
della marina reale britannica (Royal Navy Submarine Service) all’idea del sistema
d’iniezione Common Rail. Durante la Prima guerra mondiale la Vickers impiegò il
nuovo tipo di iniezione sui propri motori Diesel per sommergibile, mentre nel resto del
mondo il passaggio dall’iniezione ad aria compressa a quella liquida avvenne circa un
decennio dopo. Tutti i motori Diesel progettati dalla Vickers furono caratterizzati
dall’iniezione Common Rail fino al 1943, anno in cui l’impresa inglese costruì il suo
ultimo motore31.
Nel 1915 la Gebrüder Sulzer AG di Winterthur (Svizzera) effettuò, su ispirazione
del lavoro svolto dalla Vickers, dei test su un sistema d’iniezione non ad aria compressa
(figura 2.8). A scopo di semplice prova, si era adattato a un motore Diesel
monocilindrico a quattro tempi un primitivo sistema d’iniezione, con valvola del
combustibile meccanica, che non era dotato però di alcun accumulatore, presente invece
nei motori di produzione Vickers. La Sulzer stava cercando un’alternativa al sistema
d’iniezione ad aria compressa che, come detto, presentava parecchie problematicità. Su
questa base il sistema sviluppato sembrava promettente; raggiunse, infatti, una
pressione d’iniezione fino a 550 bar con un’apprezzabile stabilità di funzionamento.
Tuttavia la potenza e il consumo di combustibile si mostrarono equivalenti a quelli di un
propulsore con iniezione ad aria compressa. Infatti, la più elevata pressione massima
raggiungibile era corretta attraverso il cambiamento della velocità d'iniezione, ma
31 Ibidem, p. 93.
CAPITOLO 2
82
proprio questo conduceva ad un maggior consumo di combustibile. Il sistema in
questione non fu mai sviluppato per i motori di produzione, molto probabilmente a
causa delle preoccupazioni relative alle maggiori pressioni generate dal cilindro rispetto
ad un motore con iniezione ad aria compressa. Ciononostante alla Sulzer si era imparata
un’importante lezione e cioè che, per una buona combustione, l'atomizzazione del
combustibile con l'iniezione liquida doveva essere buona quanto quella con l'iniezione
ad aria compressa. L‘iniezione diretta senz’aria compressa fu impiegata in tutti i motori
della Sulzer a partire dal 1929 circa in poi32.
a = tubazione di alimentazione carburante; b = tubazione all’iniettore; c = tubazione di
ritorno carburante Fig. 2.8 Sistema d’iniezione Sulzer con controllo di pressione tramite valvola di regolazione, 1915. Fonte: Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 94.
Dopo la Prima guerra mondiale l’Atlas-Imperial Diesel Engine Company sviluppò
un primitivo sistema Common Rail composto da: una pompa ad alta pressione con
pistoni multipli che inviava il combustibile ad un accumulatore e agli ugelli attuati
32 Ibidem, p. 93, 106, 107.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
83
meccanicamente; una valvola limitatrice della pressione. Le valvole dell’ugello caricate
a molla venivano alzate meccanicamente da aste di spinta e da leve azionate dalle
camme. All’inizio degli anni ’30, sempre l’Atlas-Imperial, produsse un sistema
Common Rail che utilizzava per la prima volta un iniettore attuato
elettromagneticamente. Le pressioni d'iniezione variavano fra i 280 e i 560 bar. Il
sistema era progettato per piccoli motori Diesel ad alta velocità e il combustibile era
assicurato alla valvola a pressione costante da un accumulatore33.
All'inizio degli anni ‘30, la Cooper-Bessemer Corporation introdusse il cosiddetto
Controlled Pressure System, un sistema d’iniezione Common Rail con controllo di
pressione integrato con una pompa del carburante a scarico variabile. In questo sistema
fu introdotto un distributore per regolare e misurare la quantità di combustibile. Gli
ugelli azionati meccanicamente furono sostituiti da ugelli funzionanti a pressione. La
Cooper-Bessemer sviluppò tali sistemi per pressioni fra i 200 e i 700 bar e li produsse
per varie applicazioni fino al 197434. Il motore Cooper-Bessemer GN-8 del 1942 è un
esempio di motore Diesel Common Rail ad azionamento idraulico, conosciuto anche
come Common Rail modificato35.
Dal 1915 al 1929 presso la Sulzer lavorò l’ingegnere tedesco Gustav Eichelberg
(1891-1976), dapprima nella costruzione di macchine a vapore, poi in quella di motori
Diesel; nel 1921 divenne direttore della ricerca36. All’incirca nello stesso periodo egli
collaborò anche con la Schweizerische Lokomotiv und Maschinenfabrik SLM di
Winterthur (Svizzera). Eichelberg fu poi professore ordinario di termodinamica e motori
a combustione presso il Politecnico federale svizzero (Eidgenössische Technische
Hochschule – ETH) di Zurigo dal 1929 al 1959. In questo periodo portò avanti lo
sviluppo e la sperimentazione dell’iniezione ad accumulo con differenti sistemi
d’attuazione (figura 2.9)37.
33 Ibidem, pp. 93, 96. 34 Ibidem, p. 96. 35 <http://it.wikipedia.org/wiki/Common_rail>, (02.2006). 36 Meinrad K. EBERLE, 1992, Zum 100. Geburtstag von Prof. Dr. G. Eichelberg 21.11.1991. Gedenkschrift, Politecnico federale svizzero di Zurigo (ETH), 1992, p. 2. 37 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., pp. 96, 107.
CAPITOLO 2
84
Iniezione ad accumulo (Akkumulierungseinspritzung, in lingua originale tedesca):
è questo il nome inizialmente dato dal professor Eichelberg al sistema che si sarebbe poi
evoluto nell’attuale Common Rail38.
Fig. 2.9 Primitivi sistemi d’iniezione ad accumulo (Akkumulierungseinspritzung) sviluppati dal professor Gustav Eichelberg durante gli anni ’30 e ’40. Fonte: Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 96.
2.2.2 La via verso l’odierno sistema d’iniezione Common Rail
Alla fine degli anni ’60 la compagnia francese Société des Procédés Modernes
d’Injection (Sopromi) sviluppò un sistema d’iniezione ad attuazione elettromagnetica
(figura 2.10). Inoltre, sempre in Francia, la Société Francaise d’études et de
38 DPF-Retrofit for an Antique, <www.akpf.org/misc/2004_eth_pics.pdf>, (02.2006), p. 3.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
85
development de l’injection (Sofredi) brevettò,
nel 1970, un iniettore di combustibile a
controllo elettromagnetico. I successivi
progetti furono simili39.
Così afferma l’ingegner Francesco Paolo
Ausiello:
“Va detto che questo iniettore
[elettromagnetico] era stato brevettato negli
anni ’70 da due aziende francesi, una si
chiamava Sopromi e l’altra si chiamava
Sofredi.”40.
Il successore di Eichelberg all’ETH fra
il 1959 e il 1983 fu il professor Max Berchtold
(1916-1995). Questo instaurò una
collaborazione con lo svizzero Robert Huber
che, negli anni ‘60, ottenne un certo numero di
brevetti riguardanti i sistemi ad accumulo.
Sembra che Huber avesse studiato
estesamente gli iniettori a controllo
elettromagnetico. Egli concepì dei sistemi elettromagnetici che erano molto simili agli
attuali Common Rail e che usavano un accumulatore di combustibile esterno
all’iniettore. Huber e Berchtold ebbero dei contatti col direttore generale della Sopromi,
il francese Louis Monpetit che a sua volta pare avesse un contatto con la Renault. A
partire approssimativamente dal 1980 la Renault studiò i sistemi Common Rail e J. P.
Jourdes fu il project leader. I risultati di test sul motore divennero noti nel 1983.
Successivamente la Renault cercò dei contatti con produttori di sistemi d’iniezione e
39 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 97. 40 Francesco Paolo AUSIELLO, R&D Diesel and University Relation Director Magneti Marelli PWT, intervista realizzata personalmente, Bologna, 29 novembre 2005. Si veda Appendice A.
Fig. 2.10 Iniettore elettromagnetico Sopromi del 1969, inventori: Louis Monpetit, Robert Huber e Jacek Ufnalewski. Fonte: <http://v3.espacenet.com/textdoc?DB=EPODOC&IDX=US3680782&F=0>, (02.2006).
CAPITOLO 2
86
probabilmente fu assegnata una licenza alla giapponese Nippondenso (attualmente
Denso Corporation)41.
Così Ausiello:
“Queste aziende [Sopromi e Sofredi] lavoravano, quasi certamente, per la
Renault e avevano realizzato una serie di brevetti che la Renault stava utilizzando o
cercava di utilizzare per produrre veicoli industriali. La Renault licenziò questi brevetti
alla Denso. Quindi dal filone Renault si passa alla Denso [...]. Non esiste traccia, a me
nota, del rapporto tra Renault e Denso. Sta di fatto che nel 1987 i tecnici della Renault
sapevano perfettamente del Common Rail. Io ho parlato con loro e in quell’occasione
loro citarono la Denso.”42.
Tutti i brevetti sull’iniettore, depositati dalla Sopromi e dalla Sofredi tra la fine
degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, molto probabilmente nell’interesse della
Renault, furono comunque abbandonati all’incirca nel 1987. I brevetti non erano
scaduti, ma semplicemente non furono rinnovati i relativi diritti in quanto gli iniettori in
oggetto peccavano nella realizzabilità del controllo elettronico. Il concetto dell’iniettore
per il sistema Common Rail divenne quindi assolutamente libero sul mercato43.
Sempre Ausiello:
“Di fatto, come spesso accade, i grandi brevetti vengono depositati molto prima
che il loro utilizzo divenga praticamente realizzabile”44.
All'inizio degli anni ‘70, presso l’ETH di Zurigo, furono costruiti e testati dei
sistemi d’iniezione Common Rail ad attuazione elettromagnetica. La società svizzera
Adolph Saurer AG di Arbon assunse interesse per i sistemi ad accumulo e progettò
componenti per gli iniettori dell’ETH. Fra il 1978 e il 1983 il lavoro svolto all’ETH da
Marco Ganser, uno studente del professor Berchtold, condusse ad un progresso
considerevole nello sviluppo di questo sistema di iniezione. Fu proprio in questo
41 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 97. 42 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 43 Ibidem. Si veda Appendice A. 44 Ibidem. Si veda Appendice A.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
87
periodo che si conseguì un particolare progresso nei miglioramenti degli elettromagneti.
Ganser era molto fiducioso in questo sistema di iniezione e, nel luglio 1985, fondò la
società Ganser Hydromag AG, che ha fornito sistemi di iniezione Common Rail, per più
di cinquanta progetti, sia a costruttori di motori che a potenziali fornitori45.
Nel 1982, la Saurer e l’impresa di veicoli industriali Iveco (gruppo Fiat)
sottoscrissero un accordo per la fondazione di una nuova società denominata Dereco
(Diesel Engine Research and Engineering Co.)46. Le quote di partecipazione in questa
società furono le seguenti: Saurer 40 per cento, Iveco 40 per cento, Banca Unione di
Credito in Lugano 20 per cento47. Nel 1989 Iveco acquistò poi la quota azionaria della
Saurer e nel 1990 il nome della società fu cambiato da Dereco in Iveco
Motorenforschung AG48.
Nei primissimi anni ’80 fu assunto alla Dereco uno studente del professor
Berchtold. Si trattava di Christian Mathis che perorò presso l’allora direttore generale,
Walter Knecht, la causa del sistema d’iniezione sperimentato all’ETH dal gruppo dello
stesso Berchtold49. Forse anche per questa ragione, nel 1982 la neonata Dereco, che
altro non era nei fatti se non il precedente dipartimento R&S motori della Saurer,
comprò dall’ETH un sistema d’iniezione completo e iniziò sistematici test sul piccolo
motore Diesel ad alta velocità Iveco 8140.21 di 2.500 cm3 di cilindrata. Questi test,
nonostante alcuni difetti dell’iniettore, mostrarono risultati molto promettenti e
condussero presto ad uno sviluppo interno. Per studiare l'effetto dei cambiamenti di
progetto sul processo di iniezione furono estesamente usate le simulazioni al computer e
il loro utilizzo condusse a considerevoli miglioramenti del progetto stesso. Nel progetto
di ricerca Dereco fu coinvolta la Magneti Marelli (gruppo Fiat), della quale divennero
disponibili, nel 1987, il sistema di controllo e il regolatore di pressione50.
Durante gli anni ’60 e ’70 lo sviluppo si concentrò sull’adattamento della camera
del combustibile ad alta pressione (volume d’accumulo) dentro all’iniettore. Alla metà
degli anni ’80 fu introdotto il Common Rail con tubazioni corte verso gli iniettori. Fu 45 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 97. 46 <http://www.iveco-arbon.ch/1firmengeschichte.htm>, (02.2006). 47 Walter KNECHT, direttore generale Dereco/ Iveco Motorenforschung dal 1982 al 2003, e-mail ricevuta, 29 dicembre 2005. 48 <http://www.iveco-arbon.ch/1firmengeschichte.htm>, (02.2006). 49 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 50 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 97.
CAPITOLO 2
88
disegnata e testata una pompa ad alta pressione con pistoni radiali e distribuzione
variabile che raggiunse una pressione fino a 2000 bar. A prescindere dai test sul piccolo
motore ad alta velocità 8140.21, il sistema Common Rail fu investigato sui motori
Diesel da camion. Entro il 1988 un Iveco TurboDaily prototipo fu equipaggiato con un
sistema Common Rail per le prove su strada51.
Fig. 2.11 Il Motore Diesel Iveco 8140.21 col primitivo sistema d’iniezione Common Rail cosiddetto “Dereco-Berchtold”, 1984. Fonte: Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 100.
Nel 1986 la Fiat, che aveva iniziato a lavorare allo sviluppo di motori Diesel con
alimentazione ad iniezione diretta per applicazioni automobilistiche già a partire dal
1976, presentò, come scritto in precedenza, la “Croma” 1.9 TD i.d.52.
Proprio la Fiat divenne sempre più interessata al sistema di iniezione Common
Rail e, in base all'attività di analisi e ricerca della Dereco, decise di iniziare un progetto
51 Ibidem, p. 97. 52 Stefano IACOPONI, direttore tecnico Fiat Auto dal 1991 al 1999 - presidente Centro Ricerche Fiat dal 1999 al 2003, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
89
strategico per verificare la fattibilità industriale del sistema in oggetto. Tra il 1986 e il
1988 il know-how acquisito fu trasferito alla Fiat. All’inizio del 1989 l’Elasis (Società
consortile per azioni del gruppo Fiat) stabilì a Bari un centro di ricerca specializzato
negli apparati d’iniezione diretta; Magenti Marelli fece parte della Società consortile53.
Negli anni seguenti, in una stretta cooperazione interfunzionale fra Elasis e Centro
Ricerche Fiat (CRF), si riuscirono a superare i problemi tecnologici chiave e si migliorò
il progetto principalmente dal punto di vista della produzione. Per esempio, furono
introdotti il sistema con due aghi e l’alloggiamento sferico dell'ago di controllo. Il CRF
sperimentò il sistema, ribattezzato Unijet, sul motore e introdusse delle misure per
migliorarne il funzionamento. A ciò seguirono dei test veicolari che dimostrarono i
vantaggi del sistema Common Rail sulle automobili. Entro la fine del 1991 i prototipi
della seconda generazione del sistema Unijet dimostrarono completamente il loro
potenziale di funzionamento. Al termine del 1992 furono superate in modo
soddisfacente le prove preliminari di affidabilità e durata sia sui motori che sui veicoli.
Per la fine del 1993 fu disponibile una versione pre-industrializzata del sistema Unijet.
Nella primavera del 1994 il gruppo Fiat firmò un accordo con la Robert Bosch per
l'industrializzazione e ulteriore sviluppo del sistema. Nell’ottobre 1997 la Fiat
introdusse sul mercato la vettura Alfa Romeo “156” JTD, equipaggiata con due motori
Diesel a iniezione diretta (un 4 cilindri di 1.900 cm3 e un 5 cilindri di 2.400 cm3)
entrambi utilizzanti il sistema Common Rail (Unijet) prodotto dalla Bosch54.
Subito dopo, Mercedes-Benz lanciò la sua “classe C” 220 CDI equipaggiata con
un motore Diesel di 2.200 cm3 dotato anch’esso di Common Rail Bosch55. Nel 1997 la
Fiat iniziò a lavorare alla seconda generazione del Common Rail, battezzata Multijet per
distinguerla dall’originale Unijet. La differenza nel nome derivò dalla possibilità
consentita dal sistema Multijet di gestire, all’interno dello stesso ciclo di combustione,
iniezioni multiple56. Il sistema Multijet, frutto dell’attività di R&S svolta dal CRF, trovò
poi le sue prime applicazioni nel 2002 sui motori Diesel 1.9 che equipaggiavano le
53 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 100. 54 Ibidem, pp. 100, 101. 55 Corrado CANALI, Mercedes rilancia il Diesel, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 15 novembre 1997. 56 Luca CIFERRI, In 2003, Fiat Auto will launch a revolutionary common rail 1.3-liter Multijet engine, in «Automotive News Europe», Munich, Crain Communications, settembre 2002.
CAPITOLO 2
90
vetture Alfa Romeo. Nella prima metà del 2003 inoltre un motore 1.3 Multijet andò ad
equipaggiare anche le City Car di casa Fiat57.
Un sistema in qualche modo differente è stato concepito dalla Cummins Inc. Il
sistema CAPS (Cummins Accumulator Pump System) unisce le caratteristiche
convenienti di un sistema ad alta pressione Common Rail con quelle di un sistema
pump-line-nozzle58.
A partire dal 1996 la MTU Motoren-und Turbinen Union incorporò nei suoi
motori industriali dei sistemi d’iniezione Common Rail prodotti dalla L’Orange
GmbH59.
Il più grande sistema Common Rail per grandi motori marini è stato sviluppato
dalla Wärtsilä NSD di Winterthur60. NSD sta per New Sulzer Diesel, società nata nel
1990 dalla divisione motori Diesel della svizzera Sulzer. Nel 1997 poi, la NSD fu
assorbita dalla Wärtsilä dando origine alla nuova società Wärtsilä NSD61. È da notare
che alla Sulzer, alla fine degli anni ’60, l’ingegner Anton Dolenc lavorò a sistemi
d’iniezione Common Rail a controllo elettromagnetico62.
Nel 1993 la Caterpillar Fuel Systems ha introdotto un’unità d’iniezione elettronica
ad attuazione idraulica e attualmente è in sviluppo la generazione successiva. La
giapponese Denso, probabilmente grazie anche ai brevetti sull’elettroiniettore che la
Renault le licenziò, ha introdotto un sistema Common Rail per camion nel 1995 e per
automobili nel 1999. Si deve infine accennare al fatto che, in passato, altre aziende
hanno sviluppato sistemi d’iniezione Common Rail come la MAN e nuovi sistemi sono
stati presentati dalla Delphi Automotive Systems (in precedenza Lucas Diesel Systems)
e dalla Siemens Automotive63.
57 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato e d’esercizio al 31 dicembre 2002, cit., p. 14. 58 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 101. 59 Ibidem, p. 101. 60 Ibidem, p. 101. 61 <http://en.wikipedia.org/wiki/Sulzer_Ltd.>, (02.2006). 62 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 101. 63 Ibidem, pp. 101, 104.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
91
2.3 LE CARATTERISTICHE GENERALI DEL SISTEMA D’INIEZIONE COMMON
RAIL
Seguendo l’evoluzione del motore Diesel tracciata nei precedenti paragrafi, si è
giunti all’introduzione del Common Rail, il sistema d’iniezione che ha contribuito in
maniera preponderante al boom delle vendite di automobili a gasolio registrato negli
ultimi anni. Facendo riferimento all’apparato d’iniezione Bosch nella sua versione del
1997 e cioè, come visto, all’Unijet Fiat, si affronterà una prima analisi dei singoli
componenti di tale sistema seguita da una breve descrizione del suo funzionamento.
2.3.1 I componenti del sistema
Fig. 2.12 Sistema d’iniezione Common Rail: schema generale Fonte: Davide MERCURI, Analisi di metodologie automatiche per la calibrazione dei motori Diesel Common Rail. Tesi di Laurea in Ingegneria Meccanica, Politecnico di Torino, 2002, p. 5.
Il Common Rail (in italiano “binario comune”) è un sistema d’iniezione,
completamente gestito da centralina elettronica, in grado di generare elevatissime
pressioni d’iniezione e di controllare elettronicamente l’inizio e la quantità di gasolio da
iniettare. È un sistema modulare, costituito da vari elementi funzionali (figura 2.12):
CAPITOLO 2
92
- pompa ad alta pressione;
- serbatoio accumulatore (Rail) e condotti d’alta pressione;
- iniettori;
- centralina elettronica;
- sensori e valvole di regolazione64.
La pompa ad alta
pressione di alimentazione
del sistema Common Rail
(figura 2.13) è denominata
Radialjet perché l’effetto
pompante viene realizzato
mediante tre elementi
pompanti (pistoni) disposti
in direzione radiale
rispetto all’asse di
rotazione dell’albero della
pompa. La distanza
angolare tra un elemento
pompante e l’altro è pari a
120°. La pompa viene
trascinata dal motore ad una velocità di rotazione pari a circa la metà di quella del
motore stesso tramite una trasmissione a cinghia dentata. Tale pompa assolve il solo
compito di mantenere permanentemente il combustibile contenuto nel collettore (Rail)
al livello di pressione richiesto. Il movimento degli stantuffi è determinato dalla
rotazione di un eccentrico di forma triangolare solidale all’albero della pompa. Tale
eccentrico determina il movimento in successione dei tre pistoni mediante lo
spostamento di un’interfaccia meccanica (punteria) frapposta tra l’eccentrico ed il piede
dello stantuffo. Ogni gruppo pompante è dotato di una valvola di aspirazione a piattello
e di una valvola di mandata a sfera. Tutte e tre le mandate degli elementi pompanti sono
riunite internamente alla pompa ed inviano il combustibile al collettore comune per
64 Chiara GUIDO, Sviluppo ed applicazione di una metodologia di prova per l’ottimizzazione di motori Diesel a bassissime emissioni. Dottorato di ricerca in ingegneria dei sistemi termomeccanici. XVI ciclo, Università degli Studi di Napoli Federico II, novembre 2004, pp. 29, 30.
Fig. 2.13 Pompa ad alta pressione Radialjet. Fonte: Ralf ISENBURG e Michia MÜNZENMAY, 1998, Sistema d’iniezione Diesel Common Rail. Informazione tecnica, Stuttgart, Robert Bosch GmbH, 1999, p. 18.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
93
mezzo di un unico condotto. Una particolarità di tale pompa è quella di essere
contemporaneamente lubrificata e raffreddata dallo stesso gasolio circolante al suo
interno, attraverso opportune luci di passaggio. Per la regolazione della pressione di
mandata sulla pompa è presente una valvola regolatrice di pressione (anche nota come
regolatore di pressione)65.
Il collettore di accumulo del gasolio ad alta pressione (Rail), ha lo scopo di
smorzare le oscillazioni di pressione presenti all’interno del combustibile dovute sia alle
tre mandate consecutive, che si susseguono durante ogni giro della pompa Radialjet, sia
alle aperture periodiche degli iniettori. Il volume interno del Rail è stato studiato
opportunamente in modo da smorzare tali oscillazioni di pressione, evitando però sia
l’insorgenza di ritardi di adeguamento della pressione durante i transitori sia problemi di
riempimento in fase di avviamento. Il Rail ha la forma di un parallelepipedo molto
allungato (figura 2.14) nel quale è stata ricavata una cavità cilindrica ed è realizzato in
acciaio per resistere alle elevate pressioni in esso presenti durante l’esercizio66.
Fig. 2.14 Accumulatore dell’alta pressione (Rail). Fonte: Ralf ISENBURG e Michia MÜNZENMAY, Sistema d’iniezione Diesel Common Rail, cit., p. 21.
65 Davide MERCURI, Analisi di metodologie automatiche per la calibrazione dei motori Diesel Common Rail, cit., p. 8. 66 Ibidem, p. 11.
CAPITOLO 2
94
Alle estremità del Rail sono praticati due fori filettati, di cui il primo per il
montaggio del sensore di pressione ed il secondo per l’introduzione di un tappo filettato.
L’alimentazione del Rail è prevista tramite un foro filettato presente al centro del Rail
stesso o ad una sua estremità. Le mandate agli iniettori sono affidate a fori disposti
lungo il Rail in posizioni ben precise67.
L’elettroiniettore prevede una sola alimentazione in alta pressione che, una volta
raggiunto l’interno dell’iniettore, viene ripartita in due distinte parti, di cui una destinata
principalmente all’alimentazione del polverizzatore, l’altra al controllo dell’asta di
pressione. Entrambe le suddette frazioni di portata contribuiscono inoltre alla
lubrificazione degli organi in movimento dell’elettroiniettore, grazie ai consistenti
trafilamenti presenti in un sistema di iniezione lavorante a così elevate pressioni di
esercizio. È presente inoltre un ricircolo a pressione atmosferica, necessario per lo
smaltimento del gasolio utilizzato per il funzionamento della valvola pilota e per il
convogliamento dei trafilamenti sopra menzionati68.
Gli elementi fondamentali dell’elettroiniettore (figura 2.16) sono: il polverizzatore
a fori, di tipo VCO (figura 2.15) o Mini-Sac, in cui i fori sono alimentati da un piccolo
volume a valle della zona di tenuta tra l’ago dell’iniettore
(11) e la sua sede; l’asta di pressione o perno comando
valvola (9), il cui moto è controllato dalla pressione
esistente nel piccolo volume di controllo posto sulla sua
parte superiore (8); la valvola elettromagnetica o
elettrovalvola (3), posta nella parte superiore dell’iniettore,
che ha la funzione di scoprire il foro calibrato di scarico
(6) per realizzare l’iniezione69.
La centralina elettronica incorpora due unità: la EPU (Electronic Power Unit) e la
ECU (Electronic Control Unit) ovvero l’unità di controllo. La prima è adibita al solo
comando degli iniettori; in essa sono contenuti i circuiti di potenza necessari per
67 Ibidem, p. 11. 68 Ibidem, pp. 11, 12. 69 Lucio POSTRIOTI, Il sistema di iniezione a controllo elettronico common-rail, Corso di Progetto di Macchine, Sezione Macchine – Università di Perugia, A.A. 2003/2004, p. 5.
Fig. 2.15 Polverizzatore VCO. Fonte: Ralf ISENBURG e Michia MÜNZENMAY, Sistema d’iniezione Diesel Common Rail, cit., p. 29.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
95
produrre l’eccitazione dei “solenoidi”70 e realizzare quindi il controllo degli
elettroiniettori. Alla ECU è affidato, invece, il controllo dell’intero sistema. Una vera e
propria mappatura permette alla centralina di gestire il sistema d’iniezione in ogni
situazione di velocità e carico. Essa provvede all’elaborazione dei dati ed al controllo
dell’unità di potenza, gestisce inoltre i comandi per il regolatore di pressione, per
l’attuatore del sistema di ricircolo dei gas di scarico (EGR) e per l’attuatore del turbo a
geometria variabile, ove presente. Per operare necessita di informazioni (trasmesse da
vari sensori) riguardanti le condizioni di funzionamento del motore. La ECU svolge più
di venti funzioni di controllo, tra queste le più importanti ai fini del dosaggio e della
polverizzazione del combustibile sono: il controllo della pressione nel Rail e il controllo
dei tempi d’iniezione71.
2.3.2 Il funzionamento del sistema
Si esamina ora brevemente il principio di funzionamento del sistema Common
Rail. Il gasolio, spinto dalla pompa elettrica, giunge alla pompa ad alta pressione ad una
pressione mantenuta sui 2 bar da un regolatore di pressione posto sul filtro del
carburante. Questa pressione è necessaria per alimentare la pompa ad alta pressione in
quanto questa non è in grado di aspirare. Il gasolio ad alta pressione giunge al Rail cui
sono collegati gli elettroiniettori. La centralina regola l’alta pressione attraverso
l’elettrovalvola posta sulla pompa di alta pressione e attraverso il sensore di pressione,
posto sul Rail. Con il motore al minimo la pressione nel Rail rimane a 300 bar, in fase
di accelerazione e in funzione della potenza richiesta al motore la pressione viene fatta
aumentare fino a valori che possono raggiungere i 1.450 bar. Si tratta di pressioni
paragonabili a quelle che spingono un proiettile fuori dalla canna di un fucile. Oltre alle
grandi doti meccaniche del Rail che resiste a pressioni elevatissime senza neanche
entrare in risonanza, anche gli iniettori rappresentano una grande soluzione tecnica.
Infatti, mentre in un motore a benzina il piccolo elettromagnete presente negli iniettori è
70 Un solenoide è un dispositivo, costituito da un conduttore elettrico avvolto a elica su una struttura cilindrica, che genera, con il passaggio della corrente al suo interno, un campo magnetico. Lucio FELICI et al. (a cura di), Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana 2003, p. 2139. 71 Chiara GUIDO, Sviluppo ed applicazione di una metodologia di prova per l’ottimizzazione di motori Diesel a bassissime emissioni, cit., pp. 40, 41.
CAPITOLO 2
96
sufficiente ad aprirli dato che devono vincere una pressione di soli 3 bar, in un motore
Diesel bisogna aprire l’iniettore con pressioni dell’ordine del migliaio di bar. Per
risolvere questo problema è stato creato un iniettore che sfrutta la forza dell’avversario,
per così dire72.
Il carburante (figura 2.16) fluisce dal raccordo ad alta pressione (4), attraverso un
condotto di mandata (10), all’iniettore e contemporaneamente nella camera comando
valvola (8), attraverso un foro calibrato di alimentazione (7). La camera comando
valvola è collegata con il ritorno carburante (1) attraverso il foro calibrato di scarico (6)
che può essere aperto comandando una valvola elettromagnetica. Quando il foro
calibrato di scarico è chiuso la forza idraulica che agisce sul perno comando valvola (9)
è superiore alla forza esercitata sulla spalla di pressione dell’ago dell’iniettore (11). Di
conseguenza l’ago dell’iniettore viene premuto nella sua sede e l’iniettore rimane
chiuso. Ciò significa che il carburante non può essere iniettato nella camera di
combustione. Comandando elettricamente la valvola elettromagnetica il foro calibrato di
scarico si apre riducendo così la pressione nella camera comando valvola e quindi la
spinta idraulica esercitata sul perno comando valvola. Non appena la spinta idraulica è
inferiore a quella esercitata sulla spalla di pressione dell’ago dell’iniettore, l’ago stesso
si alza e il carburante viene iniettato nella camera di combustione attraverso i fori di
spruzzo (figura 2.16). Questo tipo di azionamento indiretto dell’ago dell’iniettore
mediante un sistema idraulico di amplificazione della forza viene adottato perchè non è
possibile generare direttamente con la valvola elettromagnetica le forze necessarie per
una rapida apertura dell’ago dell’iniettore. La cosiddetta quantità di comando e il
carburante in eccesso vengono inviati nel ritorno carburante attraverso i fori calibrati
della camera di comando. Oltre alla quantità di comando si verificano piccoli
trafilamenti sulle guide dell’ago dell’iniettore e del perno comando valvola. Questo
carburante viene rinviato al serbatoio attraverso il ritorno carburante stesso in un
condotto comune nel quale fluiscono anche gli scarichi della valvola di troppo pieno,
della pompa ad alta pressione e della valvola regolatrice di pressione73.
72 Davide LA MANTIA, 2004, Sistema di iniezione elettronica diesel Common Rail, <http://www.electroportal.net/vis_resource.php?section=RP&id=75>, (02.2006). 73 Ralf ISENBURG e Michia MÜNZENMAY, Sistema d’iniezione Diesel Common Rail, cit., p. 25.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
97
Fig. 2.16 Elettroiniettore (schema). Fonte: Ralf ISENBURG e Michia MÜNZENMAY, Sistema d’iniezione Diesel Common Rail, cit., p. 26.
CAPITOLO 2
98
2.3.3 Prestazioni e vantaggi del sistema
Rispetto ai dispositivi di iniezione tradizionali, il sistema Common Rail-Unijet
assicura un importante miglioramento complessivo delle prestazioni e una maggiore
silenziosità di funzionamento. Negli impianti a precamera o a iniezione diretta
precedentemente in uso l'alimentazione degli iniettori di gasolio era comandata da una
pompa meccanica (spesso controllata elettronicamente) e la pressione d'iniezione
cresceva insieme con il crescere della velocità di rotazione del motore. Caratteristica
che rappresentava un limite all'ottimizzazione della fase di combustione e quindi delle
prestazioni, della silenziosità e delle emissioni74.
Nel sistema Common Rail-Unijet, invece, la pressione di iniezione è indipendente
dalla velocità di rotazione del motore e dal carico (posizione dell'acceleratore) dal
momento che la pompa di iniezione genera la pressione per accumulo. Grazie al
controllo elettronico della pompa stessa e degli iniettori, inoltre, è possibile ottimizzare,
per ogni punto di funzionamento del motore, sia la pressione di iniezione sia la quantità
di combustibile iniettata. Da qui la possibilità di impiegare, da un lato, una pressione di
iniezione molto elevata e, dall'altro, di erogare (grazie al controllo elettronico) minime
quantità di combustibile, cioè di realizzare una preiniezione detta iniezione pilota. Due
caratteristiche che assicurano grandi vantaggi al guidatore. Alla prima (concetto di
accumulo) si deve, infatti, una combustione più efficiente e quindi migliori prestazioni;
mentre la seconda (iniezione pilota) garantisce una drastica riduzione del rumore di
combustione75.
L'alto valore di pressione permette di ridurre sensibilmente i consumi e la
fumosità, mentre l'iniezione pilota consente di creare nella camera di combustione le
condizioni di temperatura e pressione ideali per la realizzazione della combustione
principale. Preriscaldando la camera di scoppio, infatti, si riduce drasticamente il
gradiente di pressione lungo il ciclo, causa della ruvidità di combustione, e quindi del
tipico rumore metallico dei motori a iniezione diretta tradizionali. Tutto questo per il
guidatore vuol dire migliori prestazioni, grande efficienza e consumi ridotti, in media,
del 15% rispetto ad un motore Diesel con precamera. Il risultato dunque, è un motore
74 FIAT AUTO S.p.A. – Ufficio Stampa, Alfa 156 al 57° Salone di Francoforte, Torino, 1° settembre 1997. 75 Ibidem.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA D’INIEZIONE PER MOTORI DIESEL
99
molto affidabile che conferisce alle vetture Diesel grandi doti di comfort, tra le quali
dominano l'assenza di vibrazioni e una silenziosità in precedenza impensabile per una
vettura a gasolio76.
Ultimo, ma non ultimo vantaggio offerto dal sistema Common Rail è la sua
adattabilità a motori già progettati, semplicemente apportando delle piccole modifiche.
Questa fu, con ogni probabilità, la motivazione principale dell’iniziale successo del
Common Rail che, al contrario di altri sistemi concorrenti, non richiedeva la
progettazione ex-novo del motore77.
Così Ausiello:
“Questa è stata la ragione del successo vero del Common Rail, era
intercambiabile ai vecchi sistemi, senza cambiare il motore.”78.
La trasformazione di un propulsore Diesel iniezione indiretta o a precamera
(figura 2.17 A e B) in iniezione diretta Common Rail (figura 2.17 C) richiede, oltre
all’ovvia applicazione di tutti i componenti del sistema, la sostituzione di:
- testa del cilindro (deve essere eliminata la precamera);
- pistone (in quanto per l’iniezione diretta serve una camera di combustione
specifica, ricavata nel pistone stesso e detta a Omega perchè simile alla forma
di tale lettera dell’alfabeto greco)79.
Fig. 2.17 Motori Diesel: a precamera (A), a precamera di turbolenza (B) e iniezione diretta Common Rail (C). Fonte: <http://www.rivistamotor.com/tecnica/tecnica4.htm>, (02.2006).
76 Ibidem. 77 Enrico DE VITA, Iniezione diretta: cambia il diesel, cit., pp. 224, 225. 78 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 79 Ferruccio TONELLO, dirigente Fiat Powertrain Technologies, e-mail ricevuta, 3 febbraio 2006.
CAPITOLO 3: LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA
COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
3.1 LA CRISI PETROLIFERA DEGLI ANNI SETTANTA: ALL’ORIGINE DELLE
RICERCHE FIAT
“Nessuno poteva del resto prevedere che la nuova guerra fra l’Egitto e Israele,
scoppiata il 6 ottobre [1973], il giorno della festa ebraica del Kippur, provocasse effetti
così devastanti sulle economie dell’Occidente da oscurare persino quelli scaturiti due
anni prima, nell’agosto 1971, dall’annuncio di Nixon sull’inconvertibilità del dollaro.
Ben più rovinoso si rivelò infatti l’impatto sui paesi industrializzati dovuto alla
risoluzione dei governi arabi di ridurre (per ritorsione nei confronti dei governi
occidentali accusati di aver appoggiato gli israeliani) la produzione dei loro pozzi di
petrolio, giacché essa provocò fin da subito un vertiginoso aumento delle quotazioni del
greggio. Sull’economia italiana la brusca impennata dei prezzi petroliferi, e di
conseguenza di tutti gli altri prodotti e non solo del carburante, si abbatté con la
violenza di un ciclone. Se tutti i settori vennero colpiti dall’embargo e dal rialzo dei
prezzi dell’oro nero, quello automobilistico si trovò a subire i maggiori danni.
D’altronde, rispetto alle principali case automobilistiche europee, la sorte peggiore
toccò alla Fiat. [...] alle pesanti ripercussioni sulla domanda dovute al notevole rincaro
della benzina, vennero ad aggiungersi gli effetti negativi determinati dalle misure di
austerità assunte [...] dal governo per contenere i consumi petroliferi. [...] Quando alla
fine del primo semestre del 1975 si cominciarono in corso Marconi [sede Fiat S.p.A.] a
tirare i conti sull’andamento dell’attività, l’effetto fu a dir poco traumatico. La
situazione s’era ancor più aggravata: la Fiat aveva venduto 130.000 auto in meno
rispetto allo stesso periodo del 1974. In queste condizioni non restò altro che dar fondo
alle riserve fino all’ultima lira. Mai la Fiat aveva conosciuto nella sua esistenza dei
cambiamenti di portata tanto vasta e così impegnativa. D’altronde la generazione di
cassa del core business s’era ridotta drasticamente, tant’è che non era più in grado di
coprire i propri fabbisogni, anche per via delle nuove esigenze manifestatesi
CAPITOLO 3
102
congiuntamente in seguito alla crisi energetica: da un rinnovo più rapido dei modelli
per affrontare la concorrenza, alla ricerca di efficaci soluzioni per il risparmio del
carburante, all’adozione di adeguati provvedimenti per la riduzione delle emissioni
nocive.”1.
Come sempre, perchè le invenzioni si trasformino in realtà quotidiane ci deve
essere un bisogno. Il bisogno, all’indomani della crisi petrolifera di metà anni ’70, fu la
ricerca sul possibile impiego dell’iniezione diretta Diesel sulle autovetture per ridurne i
consumi2.
Alla Fiat si decise di affidare questo studio al neonato Centro Ricerche Fiat
(CRF)3, fondato nel 1976 come polo di riferimento per l’innovazione e servizi di ricerca
& sviluppo delle aziende del gruppo torinese4. Al CRF operava il gruppo dell’ingegner
Lorenzo Morello e il primo risultato della ricerca fu la constatazione che, anche se
potenzialmente il motore Diesel a iniezione diretta era un eccellente propulsore per le
auto, non esistevano impianti di iniezione adeguati al corretto sviluppo di un sistema
che rispondesse alle aspettative del pubblico in termini di prestazioni e rumorosità, e
contemporaneamente alle norme sul contenimento delle emissioni inquinanti che già
prendevano corpo nelle varie legislazioni. Quindi una cosa era ben chiara: il nuovo
motore Diesel Fiat avrebbe dovuto essere alimentato da un sistema di iniezione diretta
di tecnologia adeguatamente evoluta5.
Nel 1977 il “Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)”6 varò il Progetto
Finalizzato Energetica 1 (PFE1), tra i cui obiettivi vi era proprio la realizzazione di un
motore Diesel ad iniezione diretta destinato alle autovetture. Iniziarono così in Italia, sia
1 Valerio CASTRONOVO, 2005, FIAT. Una storia del capitalismo italiano, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 591, 592, 618. 2 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, in «Quattoruote» n. 567, Milano, EditorialeDomus, gennaio 2003, p. 188. 3 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 11 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 4 <http://www.crf.it/1_siamo.htm>, (02.2006). Il CRF, costituito in forma di Società consortile per azioni con sede a Orbassano in provincia di Torino, svolge un'attività di ricerca su motori, veicoli, sistemi elettronici, processi produttivi e metodologie tecnico-gestionali. <http://www.fiatgroup.com/main.php?w=W7OE8IQRZBJ16L9M5UUT&tl=Gruppo%20Fiat&gs=Ricerca%20e%20formazione>, (02.2006). 5 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 11 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 6 Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) è Ente pubblico nazionale con il compito di svolgere, promuovere, diffondere, trasferire e valorizzare attività di ricerca nei principali settori di sviluppo delle conoscenze e delle loro applicazioni per lo sviluppo scientifico, tecnologico, economico e sociale del Paese. <http://www.cnr.it/sitocnr/home.html>, (02.2006).
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
103
nei centri di ricerca industriali che pubblici, (CNR ed Università), una serie di attività di
studio mirate allo sviluppo di un sistema di combustione in grado di immettere il motore
Diesel a iniezione diretta nel mercato automobilistico. Già verso la fine degli anni ’70 il
CRF presentò, come risultato finale delle ricerche svolte nell’ambito del PFE1, un
prototipo di motore Diesel a iniezione diretta quattro cilindri, tre valvole per cilindro,
dotato di pompa di iniezione Bosch in linea. L’apparato di iniezione non era però in
grado di soddisfare appieno le esigenze di potenza delle autovetture cui era destinato,
per questo non ne seguì la successiva fase di ingegnerizzazione7.
3.2 I “RUGGENTI” ANNI OTTANTA DELLA FIAT: VITTORIO GHIDELLA
SCOMMETTE SULL’INIEZIONE DIRETTA DIESEL
Alla fine degli anni ’70 la Fiat era al limite della sopravvivenza. Nel 1978 il
complesso degli autoveicoli usciti dagli stabilimenti del gruppo, meno di un milione e
mezzo di unità, era quanto bastava solo per sopravvivere o poco più, dato anche il basso
valore di fatturato, in media per vettura prodotta, dovuto all’assoluta prevalenza, nel
complesso delle auto commercializzate, di utilitarie e di piccole cilindrate. Si spiega
perciò come si continuasse a setacciare le finanze e il patrimonio della società per
tagliare i ponti coi mercati meno redditizi, individuare quali fossero i pezzi da vendere o
da liquidare. Per il resto occorreva che l’azienda producesse dei profitti, anche perchè in
caso contrario non sarebbe stato più possibile procedere ulteriormente nel rinnovo delle
attrezzature e della gamma prodotti8.
Nel corso del 1978 si era proceduto anche allo scorporo della Fiat Auto, grazie
anche alle nuove disposizioni fiscali in materia di trasformazioni e fusioni. Al momento
della trasformazione del settore dell’auto in società per azioni, ai primi di ottobre, si
manifestò una scottante questione. Fra Nicola Tufarelli, investito dell’incarico di
amministratore delegato, e l’ingegner Vittorio Ghidella, chiamato a reggere la direzione
generale, era insorta una netta divergenza di vedute. Ghidella era proveniente dalla Riv-
Skf ed era approdato alla divisione auto come responsabile del marchio Fiat, rivelando
7 Chiara GUIDO, Sviluppo ed applicazione di una metodologia di prova per l’ottimizzazione di motori Diesel a bassissime emissioni, cit., pp. 10, 11. 8 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., pp. 662, 663.
CAPITOLO 3
104
subito un notevole talento come progettista. Perciò, dopo pochi mesi, per evitare che il
dissidio avesse serie ripercussioni sull’attività del settore, i vertici Fiat decisero di
affidare a Ghidella (altrimenti pronto ad andarsene) la guida della Fiat Auto e di
nominare Tufarelli secondo amministratore delegato del Gruppo9.
Il nuovo organigramma, varato il 23 gennaio 1979, prevedeva quanto segue:
- “Gianni Agnelli (1921-2003)”10, presidente Fiat (ruolo che già ricopriva dal
1966);
- Cesare Romiti, amministratore delegato Fiat (ruolo che già ricopriva dal
- Vittorio Ghidella, amministratore delegato Fiat Auto12.
Alla Fiat si tornava dunque a un “triumvirato”, a una direzione collegiale con tre
amministratori come nel 1976 (Romiti, Umberto e Carlo De Benedetti)13. Come il
precedente, anche questo secondo “triumvirato” ebbe vita breve. Infatti, già l’anno
successivo, il 1980, prima Tufarelli e poi Umberto cessarono dalla carica di
amministratore delegato Fiat14.
Il periodo che va dal 1981 al 1985 fu, per la Fiat, quello della ristrutturazione. La
direzione aziendale mandò a casa il personale in esubero o meno qualificato e s’avvalse
della Cassa integrazione per allontanare dalle fabbriche i militanti sindacali più
combattivi. Una volta ripristinate le condizioni di agibilità in fabbrica, la Fiat mirò a
rendere sempre più intensa e diffusa l’automazione dei processi produttivi. Inoltre, da
quando era approdato in Fiat l’ingegner Ghidella, avevano preso sempre più consistenza
i propositi dell’azienda di rivedere i parametri della fabbrica teyloristica: anche perchè
la mutevolezza della domanda e le oscillazioni della congiuntura non consentivano più
il mantenimento di un sistema che si fondava, allo stesso modo che sulla stabilità delle
procedure lavorative, sulla certezza di un ciclo economico in continua espansione. Si
realizzò così una progressiva transizione verso modelli tecnico-organizzativi più 9 Ibidem, pp. 663, 664. 10 <http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Agnelli>, (02.2006). 11 <http://it.wikipedia.org/wiki/Umberto_Agnelli>, (02.2006). 12 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., pp. 527, 626, 664. 13 Ibidem, pp. 626, 664. 14 Antonella GALASCO, addetta stampa Fiat S.p.A., Elenco amministratori delegati Fiat - e-mail ricevuta, 13 dicembre 2005.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
105
flessibili. Il disegno concepito dalla dirigenza Fiat era di produrre in modo sempre più
autonomo dalle sue maestranze, e quindi senza più conflitti paralizzanti in fabbrica,
affidando l’esecuzione di una parte rilevante delle lavorazioni ai nuovi congegni
meccanici resi possibili dai progressi della robotica e dell’elettronica. In pratica, la
ristrutturazione labour saving determinò un notevole calo degli addetti alla Fiat Auto,
pari a una media annua superiore al 9 per cento15.
Se la Fiat riuscì a riprendere quota, fu perchè vinse il confronto sul mercato con le
maggiori case europee. Gli interventi posti in atto per ridare vigore e smalto a
un’azienda che aveva accusato una battuta d’arresto dopo l’altra, coinvolsero pressoché
tutti i settori del Gruppo. Insieme alle innovazioni di processo, che interessarono dal
1982 anche il lavoro impiegatizio, non mancarono quelle di prodotto. La più importante
fu quella che diede luogo a un tipo di motore assolutamente originale, il “Fire” (Fully
Integrated Robotized Engine). Frutto di un complesso di sinergie progettative e di un
sistema di produzione ad altissima automazione, questo nuovo propulsore, realizzato a
partire dal 1982, determinò un vero e proprio salto di qualità. Queste e altre novità di
rilievo, tanto per la parte motoristica quanto per quella meccanica, consentirono
un’efficace politica di aggiornamento dei prodotti. Furono dunque queste e altre
innovazioni tecnologiche a spingere la Fiat sulla via della ripresa, allorché si trattò nel
successivo decennio non solo di recuperare terreno in efficienza e produttività, ma di
rispondere ai mutamenti della domanda sia in termini quantitativi che qualitativi16.
Nel 1983 avvenne un nuovo exploit della Fiat e risultò superiore a ogni
previsione. La “Uno”, l’agile vettura presentata nel gennaio di quell’anno, rinverdì
l’immagine della casa torinese e le diede modo di conquistare forti posizioni di mercato.
Tanto da essere considerata un modello per tanti aspetti rivoluzionario nel suo genere.
La “Uno” venne, infatti, prodotta interamente su linee di montaggio robotizzate. Inoltre,
presentava alti contenuti di funzionalità, economicità di esercizio e affidabilità. Oltre a
montare un motore dalla concezione assolutamente nuova come il "Fire", l’auto allestita
sotto la regia di Ghidella presentava standard relativamente superiori a quelli di altre
vetture dello stesso segmento in fatto di abitabilità, comfort, prestazioni e risparmio
energetico; e il suo design recava la firma di uno stilista di talento come Giorgio
Giugiaro. Queste peculiari caratteristiche decretarono il successo della “Uno” sul 15 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., pp. 699-702. 16 Ibidem, pp. 703, 704.
CAPITOLO 3
106
mercato nazionale e su quello europeo. In pratica, furono i brillanti risultati commerciali
e di prestigio che il nuovo modello ottenne fin dall’inizio ad arrestare il declino della
Fiat e a propiziare la sua ripresa in forze. Anche perchè l’exploit della “Uno” permise di
sfruttare appieno le economie di scala. La Fiat si trovò così in condizioni più
vantaggiose rispetto alla concorrenza. Per il gruppo torinese, come per l’industria
automobilistica europea, le prospettive di sviluppo dipendevano dalla capacità di
sostenere un grande sforzo destinato sia a razionalizzare e ad ammodernare gli impianti,
sia a innovare la gamma produttiva in linea con gli orientamenti della domanda. Di
fatto, l’investimento globale nel settore auto, che già nel corso del 1982 era aumentato
del 105 per cento rispetto all’anno precedente, raggiunse nel corso del 1983 la cifra di
902 miliardi di Lire per sfiorare l’anno dopo la somma di 1.000 miliardi di lire17.
Al rafforzamento e all’espansione della Fiat durante quelli che sarebbero stati
definiti gli “anni ruggenti” del gruppo torinese, contribuirono una serie di iniziative, in
parte connesse alla produzione automobilistica, in parte intraprese su altri versanti. Due
erano i principali motivi ispiratori di questa strategia: da un lato, si trattava di
razionalizzare alcune attività che concorrevano in un modo o nell’altro al ciclo
produttivo del comparto autoveicolistico; dall’altro, di valorizzare, ed eventualmente
ampliare, la presenza della Fiat in taluni settori nevralgici d’avanguardia. Nei piani della
Fiat figurava anche la ricerca di forme di collaborazione con altre imprese italiane ed
estere che risultassero reciprocamente vantaggiose. In conformità a questo orientamento
si era giunti a ridefinire le strategie di collaborazione, cominciando col depennare
alcune intese che non presentavano più condizioni tali da assicurare concreti vantaggi
sotto il profilo tecnologico o un adeguato ritorno di redditività. Fra quelle disdette, la
più significativa fu l’uscita nel maggio 1981 dalla casa automobilistica spagnola Seat18.
Fin da quando aveva assunto l’incarico di amministratore delegato di Fiat Auto,
l’ingegner Ghidella era convinto che una politica di accordi fra i grandi gruppi del
settore fosse una strada obbligata per crescere di statura ed essere competitivi. D’altro
canto, dopo la riduzione degli effettivi del Gruppo e dopo lo smagliante successo
riportato dalla “Uno”, la Fiat si trovò a disporre di un maggior potere contrattuale. Nel
corso del 1984 aveva cominciato a delinearsi la prospettiva di un accordo con la Ford.
Nell’autunno di quell’anno aveva preso il via un negoziato, sia al massimo livello sia a 17 Ibidem, pp. 704-706. 18 Ibidem, pp. 706, 707.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
107
quello tecnico-operativo, fra le delegazioni delle due imprese. Nel febbraio 1985
Ghidella e Bob Lutz, capo dell’esecutivo della Ford Europe, non soltanto confermarono
ufficialmente l’esistenza del negoziato, ma fecero capire che si era prossimi a
concluderlo. Nel qual caso le rispettive holding avrebbero costituito una nuova società
in comune dove far confluire le rispettive attività automobilistiche. Rimaneva un ultimo
punto da stabilire: ossia a chi spettasse il controllo azionario della futura società. Se
sulla direzione operativa da affidare a Ghidella, la Ford non aveva nulla da eccepire, era
invece restia ad ammettere che la Fiat avesse la maggioranza del capitale sia pur al 50,1
per cento. A sua volta, la Fiat non vedeva di buon occhio la proposta della Ford per un
“cambio della guardia” al vertice della nuova società a metà del percorso. Successive
trattative non valsero a superare questo scoglio, malgrado l’impegno profuso da
Ghidella per non gettare a mare i risultati di un anno e mezzo di lavoro e vedere sfumare
la possibilità di ricoprire il ruolo primario che avrebbe assunto in caso di accordo.
Stando così le cose non rimase altro da fare che prender atto delle reciproche riserve e
rilasciare nell’ottobre 1985 un comunicato per dire che una joint-venture tra la Fiat Auto
e la Ford Europe non era praticabile19.
Nel giro di pochi mesi la Fiat e la Ford si tramutarono da promessi sposi in
avversari, in aspra contesa fra di loro per disputarsi le spoglie dell’Alfa Romeo. A metà
degli anni ’80 la casa di Arese era così malridotta e strutturalmente passiva, che i
dirigenti di Finmeccanica e il presidente dell’Iri, Romano Prodi, avevano maturato in
via definitiva la decisione di alienare l’azienda. Anche perchè la Ford s’era dichiarata
disposta a rilevare la proprietà dell’impresa. Allorché il vertice della Fiat fu messo al
corrente dell’offerta della casa americana, la sua reazione sulle prime fu di lasciar
perdere. Ma presto a Torino finì però col prevalere l’opinione che non si potesse
rimanere alla finestra. La proposta che Romiti e Ghidella illustrarono nell’ottobre 1986
consisteva in un triplice impegno: rilevare l’intera proprietà dell’Alfa, costruire una
società unica con la Lancia, in grado di produrre vetture di classe superiore, garantire il
mantenimento del lavoro di tutti i dipendenti dell’impresa milanese. Da un’analisi
comparata risultò che l’offerta del gruppo torinese era migliore di quella della Ford. La
decisione di cedere l’Alfa alla Fiat venne presa in novembre. La Fiat s’impegnava ad
acquisire il 100 per cento dell’Alfa Romeo per 1.050 miliardi di lire da pagare in cinque
19 Ibidem, pp. 707-709.
CAPITOLO 3
108
anni a partire dal 1992. Si assumeva anche i circa 700 miliardi di debiti della società e
metteva in conto una serie di perdite, fino al termine del risanamento, previsto per il
1991, pari a circa 500 miliardi. A partire dal gennaio 1987 si sarebbe formata una nuova
società denominata Alfa Lancia Industriale. Senza dubbio la Fiat poteva considerarsi più
forte quando non possedeva la casa di Arese, ma sarebbe stata molto più debole se
l’Alfa fosse stata comprata dalla Ford. Infatti, dagli studi di mercato risultava che gli
acquirenti si orientavano sempre in maggior numero verso macchine più prestigiose, e
che continuare a produrre solo la “Uno” e modelli simili non sarebbe bastato in futuro.
Solo con un’offerta globale in tutti i segmenti del mercato si sarebbe potuta conservare
la leadership in Europa. Il gruppo torinese aveva cominciato a farlo dal 1985 con la
Lancia “Thema” e la Fiat “Croma” e ora aveva la possibilità di rilanciare anche i
modelli dell’Alfa Romeo20.
Ancor prima di annettersi l’Alfa Romeo, la Fiat s’era riportata nel gruppo di testa
dell’industria automobilistica europea. Nel 1985, con una quota di mercato pari al 12,6
per cento essa figurava al primo posto nella graduatoria su scala europea. Agli sviluppi
dell’automazione si doveva anche, per tanta parte, il risanamento finanziario del
Gruppo. Le risorse di cui la società aveva bisogno per riprendere fiato erano, infatti,
talmente considerevoli che non avrebbe potuto procurarsele se non da una maggiore
redditività del settore autoveicolistico. Dal passivo di 422 miliardi di lire che il Gruppo
accusava nel 1980 si era giunti a realizzare nel 1985 un utile consolidato di 1.682
miliardi, mentre i debiti che ammontavano cinque anni prima a più di 7.000 miliardi
s’erano ridotti di due terzi (per poi quasi azzerarsi l’anno successivo). E ciò era
avvenuto, per l’appunto, grazie al capovolgimento della posizione debitoria della Fiat
Auto, tramutatasi da una sofferenza di 3.381 miliardi del 1980, pari al 42,2 per cento del
fatturato, a una posizione creditoria netta di 158 miliardi. L’apporto del settore
automobilistico tanto al fatturato quanto agli utili della holding sarebbe cresciuto ancor
più nel successivo biennio. I successi acquisiti grazie alla redditività della gestione
industriale (nel 1986 R.O.E. = 45,5 per cento) avevano prodotto una massa ingente di
liquidità, tanto da rendere possibile non solo l’incorporazione dell’Alfa ma anche
l’estensione o il rafforzamento delle partecipazioni in molteplici campi d’attività21.
20 Ibidem, pp. 710-713. 21 Ibidem, pp. 713, 714.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
109
Data la florida situazione finanziaria del Gruppo, in corso Marconi si pensava che
fosse giunto il momento di togliersi una grossa spina dal fianco com’era diventata ormai
la partecipazione della Lybian Bank nella proprietà della Fiat. Quel che rendeva sempre
più ingombrante e pericolosa la promiscuità con i capitali della finanza libica era la
politica accesamente antioccidentale del presidente della Libia, Muammar Gheddafi.
Per di più, il fatto che il leader libico fosse il principale azionista della società dopo
Agnelli aveva attirato sul gruppo torinese i fulmini degli americani e dato il via a una
campagna di boicottaggio nei confronti dei suoi prodotti. Inaspettatamente, furono i
banchieri libici a farsi avanti per primi nell’agosto 1986. I libici riuscirono a spuntare,
per il riscatto dei titoli di cui disponevano, tre miliardi e 182 milioni di dollari. Risolto il
rapporto con Tripoli il 23 settembre, si trattava, da un lato, di rafforzare il gruppo di
controllo della Fiat e, dall’altro, di collocare il resto dei titoli sul mercato. Si trattò di
un’operazione macchinosa, escogitata e condotta dal “direttore generale di Mediobanca,
Enrico Cuccia (1907-2000)”22, attraverso dei veri e propri “giri di valzer” finanziari, ma
proprio per questo destinata a suscitare un coro di obiezioni e di censure23.
Alla fine del 1986 il fatturato del Gruppo sfiorava i 30.000 miliardi di lire, con un
utile operativo di quasi 3.000 miliardi. Quella che all’inizio degli anni ’80 sembrava
un’impresa sull’orlo del collasso, sprizzava adesso salute da tutti i pori. Alla fine del
1987, il gruppo torinese, da solo, guadagnava quasi come tutti gli altri sessanta grandi
complessi industriali italiani messi insieme, nonostante gravassero sul suo bilancio
consolidato i conti di un’azienda malandata come l’Alfa Romeo. Ormai la Fiat, al
secondo posto della classifica per fatturato, tallonava da vicino l’Iri, e per il 1988 si
prevedeva che avrebbe accelerato la sua andatura, tanto da superare i 40.000 miliardi di
fatturato, grazie alla marcia in più che il settore auto continuava a imprimere a tutto il
Gruppo. Nel 1987 aveva oltrepassato la soglia di due milioni di vetture. Il dato più
importante era però che, mentre nel 1981 si dovevano vendere 1.650.000 automobili per
raggiungere il punto di pareggio fra costi e ricavi, ora il break even s’era abbassato a
non più di 1.400.00024.
Non c’era nel firmamento dell’industria privata italiana un gruppo nemmeno
lontanamente comparabile alla Fiat, tanto era siderale la distanza che la separava da
22 <http://www.romacivica.net/anpiroma/antifascismo/biografie%20antifascisti61.html>, (02.2006). 23 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., pp. 715, 716. 24 Ibidem, pp. 717, 718.
CAPITOLO 3
110
altre imprese per dimensioni, giro d’interessi e titoli in portafoglio. Tuttavia, la Fiat non
era una stella di prima grandezza al confronto dei principali gruppi stranieri. Nella
classifica delle case automobilistiche si trovava all’ottavo posto con un fatturato
inferiore di oltre cinque volte a quello della General Motors e di una volta e mezzo
rispetto ai ricavi della Daimler-Benz e della Toyota. Una volta recuperata la
competitività perduta nel corso degli anni ’70, e riportato sotto controllo
l’indebitamento finanziario, occorreva perciò riprendere l’iniziativa nei circuiti
internazionali. Non si riteneva tuttavia che ciò bastasse, tanto più in vista dell’avvento
del mercato unico europeo e della parziale liberalizzazione delle importazioni dai paesi
terzi a partire dal gennaio 1993. In vista di questa scadenza Agnelli andava ripetendo
che, per sopravvivere autonomamente, occorreva adeguare in modo rapido la gamma
dei prodotti e le logistiche, rendere più efficiente l’organizzazione commerciale,
mobilitare più risorse in ricerca e investimenti come quelli relativi alla sicurezza e
all’ecologia. Le innovazioni tecnologiche, all’insegna della meccatronica, avevano
consentito di eliminare il “lavoro sporco” alla catena di montaggio e di ridurre l’area
delle prestazioni esecutive più dequalificanti. In concomitanza con l’introduzione di
nuovi metodi di lavoro o di determinati correttivi a quelli precedenti, s’era posto mano a
una serie di iniziative per rendere il personale, anche quello di categorie inferiori, più
interessato e motivato al proprio lavoro. Unicamente all’Alfa Romeo l’atmosfera era
tesa, anche se non più in modo così marcato come al tempo in cui la casa di Arese
apparteneva all’Iri. Negli altri stabilimenti della Fiat, s’erano infine riaperte dalla fine
del 1987 le assunzioni, ed erano già in corso vari passaggi di categoria25.
Nell’aprile 1988 Ghidella aveva annunciato che si sarebbero investiti 1.000
miliardi di lire nel triennio successivo per “cambiare gli uomini” e addestrarli a “un
nuovo modo di progettare, di produrre e di vendere”. Per tenere il passo con
l’evoluzione del mercato automobilistico e per risparmiare tanto in tempi di lavoro
quanto in energie e materiali, non bastava più implementare il modello tecnologico della
“fabbrica ad alta automazione”. I nuovi obiettivi avrebbero dovuto essere, a suo avviso:
“Qualità crescente, volumi costanti, costi decrescenti”. Ghidella era un progettista di
prim’ordine e un ottimo manager. A lui si doveva la paternità, oltre che della “Uno”, di
una serie di vetture che avevano rinnovato e ridato lustro alla filiera automobilistica del
25 Ibidem, pp. 722-724.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
111
Gruppo (dalla “Thema” alla “Y10”, dalla “Croma” alla “Tipo”). Grazie alla regia di
Ghidella, gli uomini della produzione erano tornati così a esercitare un ruolo preminente
e avevano rafforzato le loro credenziali rispetto agli uomini della finanza. Era la Fiat
Auto ad aver assicurato negli ultimi quattro anni ben 1.342 miliardi di lire al bilancio
del Gruppo (“è il prodotto a generare finanziamenti e non viceversa”, andava ripetendo
da tempo Ghidella)26.
A Ghidella il ruolo di comprimario stava sempre più stretto. Non solo perchè il
settore cui sovrintendeva garantiva al gruppo torinese quasi il 60 per cento del fatturato
e il 67 per cento dei profitti della holding. Avrebbe voluto che la Fiat assumesse le
dimensioni di una mega-impresa, in grado di scavalcare la Volkswagen e la Renault per
poi espandersi fuori dell’Europa. Era stato questo l’obiettivo che lo aveva portato, tre
anni prima, a caldeggiare l’apparentamento con la Ford europea. Sennonché, per
praticare una politica ben più aggressiva e di vasto respiro internazionale, occorrevano
moltissimi soldi: tanto più se non si giungeva a stabilire un’alleanza conveniente con
altre case automobilistiche. Non rimaneva perciò che far da soli, riducendo gli
investimenti in altri business per concentrarli sempre più intensamente e rapidamente
sull’auto. L’idea di Ghidella era di fare del settore automobilistico una sorta di sub-
holding autonoma, e questo voleva dire trasferire dalla Capogruppo alla Fiat Auto il
coordinamento e il controllo di altre aziende come l’Iveco o come la Marelli (che si
occupava di componentistica elettronica e che era pertanto essenziale rafforzare),
nonché tutte le imprese che anche indirettamente avessero a che vedere con i motori e
con il trasporto su quattro ruote. Insomma, dall’accorpamento in un unico blocco di una
costellazione di attività che rappresentavano in complesso oltre l’80 per cento di tutto il
fatturato del Gruppo, e più del 90 per cento degli utili, avrebbe dovuto venire alla luce
una vera e propria corporate all’americana, destinata ad avere un ruolo strategico e un
peso sempre più rilevante nella galassia della società torinese27.
Era ormai palese come fra Ghidella e Romiti non corresse buon sangue per via del
profondo contrasto che li divideva e rifletteva sia una divergenza di orientamenti e di
strategie sia un conflitto di potere e di personalità. L’uno mirava in pratica a creare una
specie di Fiat Due, aggregando le province limitrofe e puntando tutto sull’auto; e
intendeva agire quindi per conto proprio, senza dover dipendere da altri fuorché 26 Ibidem, pp. 724, 725. 27 Ibidem, pp. 725, 726.
CAPITOLO 3
112
dall’azionista di riferimento. L’altro invece, aveva in mente di fare della Fiat una
conglomerata giocando su più tavoli, ampliando la sfera delle attività diversificate e
delle società collegate. Agnelli aveva cercato di neutralizzare le tensioni fra i due
protagonisti del rilancio della Fiat: Ghidella, l’alfiere della riscossa dell’appannato
marchio Fiat; Romiti, l’artefice del risanamento finanziario e della normalizzazione
sindacale. Si trattava di trovare il modo per farli convivere. La soluzione cui Agnelli era
giunto, l’aveva comunicata nel dicembre 1987: quanto alla proprietà azionaria, il suo
erede sarebbe stato il fratello Umberto; quanto al top management, il successore di
Romiti, alla scadenza del mandato, sarebbe stato l’ingegner Ghidella. Il rimedio
dell’Avvocato sortì però l’effetto opposto. Romiti aveva allora sessantaquattro anni e
perciò Ghidella avrebbe dovuto aspettare un bel pezzo per prenderne il posto. Da
progettista e costruttore di automobili qual’era, avvezzo a vedere le cose nella
prospettiva di quattro-cinque anni, temeva che, se non si sfruttava al massimo il
momento favorevole, non ci sarebbero state più le condizioni ideali perchè la Fiat
compisse quella forte avanzata a livello mondiale che egli sognava di pilotare. Ghidella
continuava a scalpitare per ottenere quanto si proponeva di raggiungere, convinto che il
futuro della Fiat dipendesse dal potenziamento al massimo del comparto
automobilistico, e non già da una costellazione di tanti business eterogenei e per lo più
in alcuni settori sottodimensionati. Di fatto, se Ghidella non intendeva deflettere dal suo
piano delle “due Fiat”, era altrettanto scontato che Romiti si chiedesse che cosa gli
sarebbe rimasto da fare alla guida di un Gruppo senza auto. Avrebbe dovuto mettere una
pietra sopra i suoi progetti di fare della Fiat una grossa conglomerata. Era pertanto
inevitabile che fra lui e Ghidella si arrivasse a uno scontro aperto28.
Il casus belli fu un’inchiesta, predisposta in corso Marconi, sulla selva dei
fornitori di componenti, da cui saltò fuori l’ipotesi che Ghidella fosse ancora
cointeressato a un’impresa dell’indotto che lavorava per la Fiat. Fioccarono le smentite
e scese in campo anche Agnelli per dire che non era vero niente e che tutto era regolare.
Ma Ghidella si rese conto che si stava tramando ai suoi danni e lasciò capire che la
manovra partiva da Romiti. Per evitare che Ghidella si dimettesse, come correva ormai
la voce, e che la sua uscita dalla Fiat avesse serie conseguenze per l’azienda e
l’immagine esterna del Gruppo, l’Avvocato tentò in extremis di riconciliare i due
28 Ibidem, pp. 726, 727.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
113
contendenti. Ma il dissenso appariva ormai insanabile e, sebbene ad Agnelli non
piacesse affatto privarsi dell’uomo che aveva saputo ridare smalto alla produzione della
Fiat e ristrutturare le sue fabbriche, il braccio di ferro fra Ghidella e Romiti si risolse
alla fine in favore di quest’ultimo. Il 25 novembre 1988, al consueto vertice annuale a
Marentino, Agnelli annunciò il divorzio fra la Fiat e Ghidella spiegando che la Fiat
doveva rimanere una holding industriale a matrice automobilistica con intorno una
corona di altre attività non più ancillari, in sintonia con la visione e la strategia “gruppo-
centrica” di Romiti29.
Così la Fiat perse l’uomo che sapeva fare le automobili (forse il più bravo al
mondo in quel momento). La porta si chiuse alle spalle di Ghidella. Nello stesso
momento un’altra porta si chiuse dietro alla Fiat: quella di un’epoca. Quella dove la Fiat
aveva come interesse primario progettare, costruire, vendere, fare automobili. Si ritiene
pertanto corretto sospendere qui la sintetica narrazione delle vicende generali del
gruppo torinese per addentrarsi finalmente nel cuore di questo lavoro, ovvero nella
ricostruzione della storia del Common Rail Fiat, il progetto che proprio l’ingegner
Ghidella autorizzò e sollecitò diventandone in un certo senso lo “sponsor”.
3.2.1 Il primo risultato concreto, la Fiat “Croma” 1.9 TD i.d.
Nei primi anni ’80 la divisione motori del CRF capeggiata dall’ingegner Morello
proseguiva, con modestissimi finanziamenti del CNR, lo sviluppo del propulsore Diesel
a iniezione diretta iniziato nel 1976. Accanto a Morello fu messo un consulente,
l’ingegner Alberto Guglielmotti, ex direttore tecnico della Grandi Motori Trieste 30. Alla
Grandi Motori usavano per le navi un sistema primitivo di Common Rail, con un
binario ad alta pressione e gli iniettori comandati meccanicamente31.
Guglielmotti nutriva dei forti dubbi sulla possibilità di realizzare un propulsore
Diesel automobilistico a iniezione diretta che potesse raggiungere prestazioni ed
emissioni paragonabili a quelle dei motori con impianti d’iniezione tradizionali. Morello
si rese quindi conto della necessità di sviluppare non solo un sistema ad alta pressione,
ma anche a pressione controllabile. Poiché le pompe meccaniche allora note erano 29 Ibidem, pp. 727, 728. 30 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 31 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 190.
CAPITOLO 3
114
estremamente complesse da progettare e modificare e poiché la Bosch agiva più come
freno che come fornitore pronto e disponibile, fu da lui valutata proprio la potenzialità
del sistema ad accumulo, di tipo Common Rail, già in uso sui grandi motori Diesel
navali. Tale sistema era in teoria più semplice da progettare, costruire e controllare. Il
progetto proseguì come ricerca “strategica” del CRF. A qui tempi, infatti, la tecnologia
critica era l’elettronica e il CRF possedeva un’esperienza sicuramente superiore alla
media dei concorrenti. Il primo team leader a dedicarsi all’argomento fu l’ingegner
Giovanni Cipolla che utilizzò un iniettore Diesel convenzionale e dell’elettronica fatta
in casa per capire, come prima cosa, se l’oggetto poteva avere un’utilità32.
Il progetto fu portato lentamente avanti fra la carenza di finanziamenti e le
oggettive difficoltà tecniche. Contemporaneamente gli ingegneri tentavano di
convincere i manager delle grandi prospettive del Diesel a iniezione diretta, nonostante i
problemi di rumorosità ed emissioni. Nel 1984 Fiat Auto decise di mettere in
produzione il risultato
delle ricerche svolte al
CRF, il motore Diesel
1.930 cm3 a iniezione
diretta, noto con la sigla
“M711”33. Proprio a tal
scopo, sempre nel 1984,
Morello si trasferì dal CRF
alla Fiat Auto e nel 1986
venne presentata la prima
automobile al mondo ad
iniezione diretta di gasolio, la Fiat “Croma” 1.9 TD i.d. 34.
La commercializzazione iniziò nel 1988, grazie anche all’immissione sul mercato
della pompa di iniezione rotativa Bosch VE nella versione “ad alta pressione” (600 bar),
fino ad allora esclusivamente applicata ai motori a precamera35. La “Croma” 1.9 TD i.d.
32 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 33 Chiara GUIDO, Sviluppo ed applicazione di una metodologia di prova per l’ottimizzazione di motori Diesel a bassissime emissioni, cit., p. 11. 34 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 35 Chiara GUIDO, Sviluppo ed applicazione di una metodologia di prova per l’ottimizzazione di motori Diesel a bassissime emissioni, cit., p. 11.
Fig. 3.1 La Fiat “Croma” 1.9 TD i.d., prima automobile al mondo a iniezione diretta di gasolio. Fonte: <http://www.omniauto.it/multimedia/photogallery/3945/fiat_croma.html>, (02.2006).
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
115
fu prodotta dal 1988 al 1996 in 64.599 esemplari36. Il propulsore M711 segnò la strada
per i futuri sviluppi. Il suo sistema di alimentazione rappresentava l'ottimizzazione di
quanto era disponibile all’epoca nel settore delle pompe di iniezione di tipo rotativo.
Tuttavia, nonostante i notevoli risultati, si sapeva benissimo che per conseguire tutti gli
obiettivi che erano alla portata di un Diesel evoluto ad iniezione diretta, la ricerca
doveva proseguire soprattutto nel settore del sistema di alimentazione37.
3.2.2 Fiat Auto punta sull’iniezione diretta Diesel: si affida il progetto alla Magneti
Marelli
Dopo aver deciso di mettere in produzione il motore Diesel a iniezione diretta
sviluppato dal CRF, Fiat Auto iniziò a finanziare adeguatamente questa ricerca. Allo
stesso tempo apparve evidente che la Bosch non aveva grande volontà di sviluppare
impianti, sia pure tradizionali, per motori automobilistici a iniezione diretta; forse era
già impegnata nelle ricerche sul sistema (iniettore-pompa) che negli anni ’90 sarebbe
diventato l’antagonista del Common Rail38.
Così afferma l’ingegner Stefano Iacoponi:
“L’ingegner Ghidella, messo al corrente di questa situazione e convinto del
futuro sviluppo del Diesel a iniezione diretta, autorizzò e sollecitò il progetto Common
Rail che stava lentamente avanzando al CRF divenendone lo “sponsor”. Aveva, infatti,
intravisto non solo la possibilità di affrancarsi da Bosch, ma anche la possibilità di un
nuovo business per il gruppo Fiat (Magneti Marelli)”39.
Ghidella riteneva strategica per l’azienda l’introduzione di motori a iniezione
diretta e il CRF ricevette tutti i finanziamenti necessari. Il dottor Rinaldo Rinolfi fu
scelto come responsabile del progetto, alla cui supervisione venne posto un “comitato
guida” interaziendale così composto:
36 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, in «Automotive News Europe», Munich, Crain Communications, luglio 1999. 37 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 11 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 38 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 39 Ibidem. Si veda Appendice B.
CAPITOLO 3
116
- Gian Carlo Michellone (Innovazione Fiat Auto);
- Pier Giorgio Cappelli (Innovazione Magneti Marelli);
- Rinaldo Rinolfi (CRF);
- Stefano Iacoponi (Ingegneria motopropulsori Fiat Auto);
- Lorenzo Morello (Progettazione motori Fiat Auto)40.
Si trattava di un progetto interaziendale e di conseguenza l’interesse seguiva la
convergenza delle convenienze delle singole imprese coinvolte. La Fiat Auto, cliente
principale del prodotto finale, era interessata al rapporto costi/prestazioni. Il CRF, leader
dello sviluppo del sistema completo, era interessato a portare avanti un progetto di
ricerca. La divisione Autronica della Magneti Marelli era interessata alla produzione
dell’hardware elettronico (la centralina). La divisione “Weber-Altecna” 41 della Magneti
Marelli era infine interessata alla produzione di iniettori e pompe ad alta pressione per
motori Diesel42.
In particolare, nel 1985 la “Fiat Componenti”43, nella persona del suo
amministratore delegato dottor Gian Alberto Saporiti, lanciò, con la partecipazione della
Fiat Auto e dell’Iveco, il progetto “iniezione ad alta pressione” di cui prese la
conduzione l’ingegner Ausiello in ambito Magneti Marelli e Weber-Altecna.
L’obiettivo del progetto era trovare una soluzione alternativa alla pompa in linea per
sistemi Diesel a iniezione diretta prodotta, con marchio Fiat su licenza Bosch, proprio
nello stabilimento Altecna di Bari. Infatti, la licenza era in scadenza e la fabbrica
sarebbe stata destinata a cessare la produzione44.
Proprio l’Iveco, che attraverso la sua partecipata Dereco stava indipendentemente
lavorando sull’iniezione ad alta pressione avvalendosi della consulenza dell’ingegner
Guglielmotti, aveva nel frattempo commissionato all’ingegner Mario Montuschi uno
studio che comprendeva una survey di trenta sistemi. Questi rappresentavano tutte le
40 Ibidem. Si veda Appendice B. 41 Nel 1970 la Fiat, che dal 1937 aveva partecipazioni nella Weber, avviò la costruzione della fabbrica Altecna nella zona industriale di Modugno in provincia di Bari; <http://www.boschrexroth.com/country_units/europe/italy/it/chi_siamo/storia/cronologia_fino_fusione/index.jsp>, (02.2006). L’azienda barese venne poi acquistata dalla Weber e entrambe, nella seconda metà degli anni ’80 furono inserite nel complesso della Magneti Marelli; <http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=14&id=36379>, (02.2006). 42 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 43 La Fiat Componenti era il precursore del settore componentistico, prima che si costituisse la grande Marelli. Riuniva diciassette società, fra le quali: Gilardini, Magneti Marelli, Weber, Lubrificanti. Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 44 Ibidem. Si veda Appendice A.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
117
principali opzioni, presenti in quel momento, per la realizzazione di sistemi d’iniezione
diretta Diesel. Quando partì il progetto “iniezione ad alta pressione”, l’ingegner
Cappelli, responsabile dell’innovazione Magneti Marelli, assunse Guglielmotti e lo
affiancò ad Ausiello. Nel luglio 1985 lo studio inizialmente realizzato da Montuschi per
l’Iveco, fu posto alla base del lavoro di Ausiello che fu incaricato di scegliere fra i
diversi sistemi quello che aveva la possibilità di diventare un oggetto industriale.
Ausiello scelse di investigare più attentamente due sistemi:
- il Servojet Cridec;
- l’iniettore sperimentale Dereco-Berchtold45.
La prima analisi esplorativa fu eseguita sul “Cridec”46, una proposta statunitense,
e si risolse in una diagnosi di non fattibilità condivisa col CRF, perchè il sistema si
rivelò inadatto per precisione e per caratteristiche tecniche. Il team di Ausiello passò
allora ad analizzare più a fondo il sistema Dereco (figura 3.2), derivato, come già visto,
dagli studi condotti dal professor Berchtold al Politecnico di Zurigo47.
Fig. 3.2 Iniettori prototipali Dereco e pompa commerciale Wimmer, 1985. Fonte: Francesco Paolo AUSIELLO, e-mail ricevuta, 4 gennaio 2006.
45 Ibidem. Si veda Appendice A. 46 Il Servojet Cridec era un sistema Common Rail a bassa pressione che usava un intensificatore di pressione sugli iniettori. Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones – e-mail ricevuta, 4 gennaio 2006. Si veda Appendice A. 47 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A.
CAPITOLO 3
118
Del progetto Dereco l’unico componente esistente era l’iniettore che però
richiedeva un elevatissima potenza elettrica per essere azionato. La pompa ad alta
pressione utilizzata era da sperimentazione e mancavano il regolatore di pressione e la
centralina di controllo (elementi fondamentali del sistema Common Rail). Per realizzare
il Common Rail fu quindi fatto una specie di collage. Si prese l’iniettore di cui sopra
accoppiandolo a una pompa di commercio (selezionata dal team Marelli per la
potenziale capacità di lavorare senza lubrificante) prodotta dalla azienda tedesca
Rexroth, fu inventato un regolatore di pressione per opera del dottor Mario Ricco e fu
costruito un controllo elettronico, il più potente che si potesse avere all’epoca, che
derivava da una centralina elettronica impiegata nelle competizioni sportive. Per
l’elettromagnete la scelta cadde su un materiale, definito dalla Magneti Marelli
Macchine Rotanti, ad alta resistività magnetica, il Corovac, prodotto da una ditta
tedesca. Mettendo assieme questi ed altri elementi fu possibile impostare la
progettazione del sistema48.
Nel gennaio 1986, fu preparata la prima specifica del sistema che allora si
chiamava E.D.I.A.I., un acronimo scelto dall’Iveco che, con la Dereco, fu lo “sponsor”
dell’iniettore. Il nome Unijet nacque successivamente, nel 1988, e fu inventato
dall’ingegner Livio Montefameglio, amministratore delegato della Magneti Marelli
divisione Alimentazione motore49. Il termine Common Rail fu infine coniato dalla
Bosch dopo l’acquisto del progetto50.
In ogni caso, come si può vedere confrontando la figura 3.3 con la 2.12, già nel
1986 il sistema aveva assunto la configurazione attuale con l’unica differenza
rappresentata da un enorme vaso di espansione (numero 13) al posto del Rail51.
Quando il progetto venne presentato per la prima volta, Ausiello ricorda che il
responsabile motori di Fiat Auto, l’ingegner Morello, e l’ingegner Martinez reagirono
entusiasticamente esclamando: “Questa è musica per le nostre orecchie”. A loro spetta il
48 Ibidem. Si veda Appendice A. L'elettromagnete, chiamato anche elettrocalamita, è un elemento elettrotecnico costituito da un nucleo in materiale ferromagnetico su cui è avvolto un solenoide, ovvero una bobina di molte spire di filo elettrico. Lo scopo dell'elettromagnete è di generare un campo magnetico da una corrente elettrica; <http://it.wikipedia.org/wiki/Elettromagnete>, (02.2006). 49 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 50 Gian Carlo MICHELLONE, Amarcord, in «Innovazione Competitività», n. 5, Centro Ricerche Fiat, Torino, 18 aprile 2002, p. 2. 51 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
119
merito di aver in seguito accompagnato in produzione i primi motori Fiat equipaggiati
col Common Rail (Unijet) 52.
Fig. 3.3 Schema del sistema E.D.I.A.I., poi Unijet-Common Rail. Disegno autografo dell’ingegner Francesco Paolo Ausiello, marzo 1986. Fonte: Francesco Paolo AUSIELLO, e-mail ricevuta, 21 dicembre 2005.
Fino al 1986 la progettazione dell’iniettore, il componente più critico dell’intero
sistema, rimase di competenza diretta della Dereco. In seguito, alla Magneti Marelli,
l’operazione ebbe luogo inizialmente sotto forma di pool. La divisione Autronica si
occupava del controllo motore e quindi della parte elettronica, la divisione Macchine
rotanti si occupava del solenoide (come visto, un elemento essenziale dell’iniettore
Common Rail) e infine la divisione Altecna di Bari, in collaborazione con la Rexroth, si
occupava della parte idraulica ( essenzialmente iniettore e pompa ad alta pressione)53.
Successivamente fu presa la decisione di fondare un centro di sviluppo unico che
integrasse tutte queste attività. La sede prescelta fu lo stabilimento Altecna di Bari-
Modugno, dove operava la divisione Alimentazione motore della Magneti Marelli.
Ausiello si trasferì dunque qui nel novembre 1987. Si trattava di un progetto senza
dubbio molto importante54.
52 Ibidem. Si veda Appendice A. 53 Ibidem. Si veda Appendice A. 54 Ibidem. Si veda Appendice A.
CAPITOLO 3
120
Così afferma Ausiello:
“All’epoca il progetto valeva, grosso modo, 5 miliardi di lire l’anno di spese in
ricerca e sviluppo, solo per la parte di Magneti Marelli. [...] Il gruppo di Bari era forte
di cinquanta o sessanta persone [...]”55.
Bisogna ricordare che la responsabilità del progetto non era solo della Magneti
Marelli, ma era condivisa col CRF. In particolare Ausiello, per la Magneti Marelli, si
occupava di realizzare l’insieme dei componenti utili per la produzione, alla cui
applicazione sul motore, sperimentazione e certificazione si dedicava, per il CRF, il
dottor Rinolfi56.
Si fa notare, come già scritto in una precedente parte di questo lavoro, che tutti i
brevetti sull’iniettore elettromagnetico, depositati dalle società francesi Sopromi e
Sofredi tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, furono abbandonati all’incirca
nel 1987. I brevetti non erano scaduti, ma semplicemente non furono rinnovati i relativi
diritti. Il concetto dell’iniettore per il sistema Common Rail divenne assolutamente
libero sul mercato57.
Fra il 1987 e il 1988 furono progettati e fabbricati quasi tutti i componenti, furono
depositate parecchie domande di brevetto in Europa, Giappone e Stati Uniti e furono
prodotti più di 20 sistemi completi, insieme a più di 200 iniettori58. Ad ogni modo, i
primi risultati concreti furono raggiunti proprio nel 198759. In quell’anno, infatti, il
primo prototipo di sistema Common Rail fu applicato al motore Diesel a iniezione
diretta 1.930 cm3 (quello della “Croma” 1.9 TD i.d.) e fu fatto girare al banco prova60.
L’anno successivo poi, esattamente in giugno, si arrivò alla prima applicazione su
veicolo. Si trattava di una “Croma” che, sulla pista di Marene (oggi autostrada Torino-
Savona) in provincia di Cuneo, raggiunse su cinque passaggi la velocità massima di 200
Km/h. La “Croma”, col sistema d’iniezione tradizionale, non aveva mai superato i 185
Km/h, ma non era l’incremento di velocità il fatto essenziale. La cosa fondamentale era
55 Ibidem. Si veda Appendice A. 56 Ibidem. Si veda Appendice A. 57 Ibidem. Si veda Appendice A. 58 Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones. Si veda Appendice A. 59 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 60 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
121
che il sistema sviluppato dal team di Ausiello permetteva di aumentare la potenza del
motore riducendo l’emissione di fumo e quindi delle sostanze inquinanti. All’epoca il
sistema era molto rudimentale (eseguiva una sola iniezione, senza quella pilota tipica
del Common Rail in versione definitiva) e produceva un rumore molto forte. Questo,
sommato all’eccessiva voluminosità della centralina elettronica (circa 10 litri), rendeva
ancora prematura la commercializzazione del sistema, anche se il piano originale era di
andare in produzione nel 199261.
Sempre nel 1988, ricorda l’ingegner Iacoponi, durante una riunione in Germania,
per la presentazione del piano di innovazioni della Bosch per i successivi dieci anni, ci
fu il tentativo di capire se l’azienda tedesca avesse in sviluppo un sistema del tipo
Common Rail. Fu evidente che per la Bosch il futuro era allora rappresentato da altri
sistemi, come l’iniettore-pompa (di cui si è già detto) e la pompa rotativa ad alta
pressione a controllo elettronico del riflusso. Nessuno degli uomini Fiat parlò degli
sviluppi sul Common Rail alla Bosch, né quest’ultima chiese informazioni al riguardo62.
3.2.3 La costituzione di Elasis
Sul finire del 1988 si verificarono due importanti eventi sia per la Fiat in generale
che per il progetto Common Rail in particolare. Del primo si è già detto ed è
rappresentato dalle dimissioni, in novembre, dell’amministratore delegato della Fiat
Auto, Vittorio Ghidella.
Il secondo, in ottobre, fu la costituzione di “Elasis”63, Società consortile del
gruppo Fiat per la realizzazione nel Mezzogiorno di una rete tecnico-scientifica che
operasse al servizio dell’innovazione delle unità produttive Fiat nel Sud Italia e, più in
generale, dell’apparato produttivo meridionale64. Sede principale della neonata società,
tuttora operante nel settore dello sviluppo e innovazione di prodotto, fu scelta
61 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 62 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 63 Fiat decise di chiamare i suoi centri di ricerca: Elasis, termine che deriva dal greco “ελασις” e significa fare da guida, avanzare, condurre. Mariano MAUGERI, Diesel, la scommessa pugliese di Bosch, in «Il Sole 24 Ore – Italia Economia», Milano, Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2000. 64 FIAT S.p.A. – Ufficio Stampa, Elasis. Sistema ricerca Fiat nel Mezzogiorno, Torino, 5 luglio 1995, p. 1.
CAPITOLO 3
122
Pomigliano D’Arco in provincia di Napoli65. Nella compagine azionaria, con in testa
“Fiat Auto”66 figuravano varie società del gruppo torinese e fra queste la “Magneti
Marelli”67. Il CRF è invece entrato nel consorzio Elasis solo da pochi anni68.
Il piano Elasis prevedeva investimenti per circa 400 miliardi di lire (207 milioni di
euro) per la realizzazione di dieci centri ricerche e quattro laboratori e spese di circa 430
miliardi di lire (222 milioni di euro) per progetti di ricerca; il personale previsto a
regime, tra ricercatori e tecnici, sarebbe stato di circa 1000 addetti. I settori industriali
per i quali Elasis avrebbe dovuto svolgere la sua attività erano: veicolistica,
telecomunicazioni, aeronautica, ambiente e territorio. Il settore veicolistico avrebbe
avuto un peso determinante nelle attività ricerca, ad esso, infatti, sarebbero stati dedicati
sei centri di ricerca69.
Elasis è dunque nata per sviluppare un sistema di ricerca industriale nel
Mezzogiorno anche facendo conto sull’apporto finanziario del Governo nell’ambito
della legge n. 64 del 198670. Tale legge, al punto 13 dell’articolo 12, afferma:
“Ai consorzi e alle società consortili di ricerca ubicati nei territori meridionali
possono essere concesse le agevolazioni [...], nonché contributi nella misura dell'80 per
cento sia per l'adeguamento e l'ammodernamento funzionale degli impianti e delle
attrezzature sia per la realizzazione dei progetti di ricerca finalizzati all'espansione e
alla qualificazione dell'apparato produttivo del Mezzogiorno”71.
Elasis avviò rapidamente le sue iniziative e fra il 1988 e il 1991 i suoi centri di
ricerca si svilupparono in prossimità dei siti produttivi delle società consorziate, con
l’obiettivo di favorire la ricaduta dei risultati di ricerca sull'apparato industriale72. Due
di questi centri di ricerca sorsero a Bari:
65 <http://www.elasis.it/index.jsp?inc=2_livello&idcategoria=83&idcategoria_liv2=100>, (02.2006). 66 Rodolfo BOSIO, Elasis, 400 miliardi per la ricerca al Sud, in «Il Sole 24 Ore – Economia Italiana», Milano, Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 1998. 67 Walter KNECHT, Some Historical Steps in the Development of the Common Rail Injection System, cit., p. 100. 68 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 69 FIAT S.p.A. – Ufficio Stampa, Elasis, cit., p. 1. 70 Massimo MASCINI, Auto, ricerca targata Sud, in «Il sole 24 Ore – Economia Italiana», Milano, Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 1998. 71 LEGGE 1° marzo 1986, n. 64, “Disciplina organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno”, Art. 12 Incentivi per servizi reali, innovazioni tecnologiche e ricerca scientifica, punto 13. 72 <http://www.elasis.it/index.jsp?inc=2_livello&idcategoria=83&idcategoria_liv2=98>, (02.2006).
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
123
- il “Centro Ricerche Software per Telecomunicazioni”73, noto anche come
“laboratorio Bari 1 e vicino alle attività della Telettra”74;
- il “Centro Ricerche Alimentazione Motori”75, noto anche come “laboratorio
Bari 2 e vicino alle attività della Magneti Marelli-Altecna”76.
È proprio sul Centro Ricerche Alimentazione Motori Elasis di Bari che si
concentrerà successivamente l’attenzione. Fu proprio qui che, dopo le “campagne di
assunzioni del 1989”77, si accentrò, a partire dal gennaio 1990, l’attività di ricerca e
sviluppo del sistema Common Rail78.
Elasis ha rappresentato un impegno di Fiat verso il Mezzogiorno, ma anche una
svolta nella strategia di ricerca ed innovazione tecnologica del Gruppo, perchè la nuova
Società di ricerca si è configurata come un importante sforzo aggiuntivo che Fiat ha
operato nell’investimento per il futuro della sua tecnologia in una logica di crescente
competitività internazionale79. Tutto questo si sposava in pieno con la strategia “auto-
centrica”80 dell’ingegner Ghidella e sarà anche del tutto casuale, ma si fa notare come la
nascita di Elasis (“13 ottobre 1988”81) sia avvenuta poco più di un mese prima del
divorzio tra lo stesso manager vercellese e la Fiat (25 novembre 1988). A questo punto
è bene tornare a trattare delle vicende generali del gruppo di Torino che, tra la fine degli
anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, indirizzarono l’evoluzione del progetto Common Rail
su binari differenti da quelli segnati da Ghidella nei “ruggenti” anni ‘80 della Fiat.
73 FIAT S.p.A. – Ufficio Stampa, Elasis, cit., p. 2. 74 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. La Telettra è stata una delle principali imprese italiane di progettazione e produzione di apparati per le telecomunicazioni. Fu acquisita nel 1976 dalla Fiat e da questa ceduta nel 1990 alla multinazionale francese Alcatel, che ne assorbì tutte le attività cancellandone, di fatto, il marchio; <http://it.wikipedia.org/wiki/Telettra>, (02.2006). 75 FIAT S.p.A. – Ufficio Stampa, Elasis, cit., p. 2. 76 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 77 Callisto GENCO, Exhaust System Project Engineer in un’azienda di sistemistica veicoli del Lussemburgo - ricercatore al centro Elasis di Bari dal 1991 al 1996, intervista realizzata telefonicamente, 13 dicembre 2005. Si veda Appendice C. 78 Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones. Si veda Appendice A. 79 FIAT S.p.A. – Ufficio Stampa, Elasis, cit., p. 1. 80 Valerio CASTRONOVO, Le ragioni di Ghidella, in «Il Sole 24 Ore – Prima Pagina», Milano, Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2002. 81 CAMERA di Commercio di Napoli, Dati identificativi dell’impresa Elasis S.C.p.A. Visura senza valore di certificazione storica, 19 dicembre 2005, p. 1.
CAPITOLO 3
124
3.3 DAL BOOM ALLA CRISI DEI PRIMI ANNI NOVANTA: IL PROGETTO
COMMON RAIL PROSEGUE, MA SENZA GHIDELLA LA FIAT NON CI CREDE
FINO IN FONDO
Rimasto vacante il posto di Ghidella, non restò per il momento che passare le
consegne al suo antagonista Romiti, che così assunse anche l’incarico di amministratore
delegato della Fiat Auto. Inizialmente il mandato di Romiti era a tempo determinato e
avrebbe dovuto concludersi dopo l’approvazione del bilancio 1993, in coincidenza col
congedo dell’avvocato Agnelli dalla presidenza. D’altra parte, nel corso dei cinque anni
che lo separavano da quella scadenza, il regno di Romiti fu tutt’altro che assoluto e
incontrastato. È vero che alla fine del 1988, cumulando la carica di amministratore
delegato della holding con quello di responsabile della Fiat Auto, Romiti s’era trovato a
disporre di prerogative tali da assicurargli il totale governo del Gruppo. Poteva inoltre
far conto su un’enormità di utili, più di 3.000 miliardi di lire, a contare solo quelli
ereditati dall’ultimo esercizio. Ma da lui ci si aspettava non solo una ripetizione dei
successi che avevano coronato negli ultimi anni l’andamento del comparto
automobilistico, ma anche, in virtù della logica polisettoriale proprio da lui rivendicata,
una sensibile crescita del fatturato e dei profitti in altri business: tutto ciò in base a una
strategia che avrebbe dovuto proiettare sempre più la Fiat da una cornice domestica
verso uno scenario internazionale82.
Il percorso di Romiti invece, si rivelò immediatamente molto più accidentato di
quanto si prevedesse. Alla Fiat Auto il congedo di Ghidella aveva suscitato sconcerto e
delusione. Nessuno negava i meriti di Romiti, ma per la gente della produzione era pur
sempre un uomo senza quel genere di inventiva e di progettualità che, secondo i
“ghidelliani”, costituiva il motore creativo di un’impresa automobilistica. Ancor più
carica di sospetti e diffidenze nei confronti di Romiti era l’aria che spirava fuori della
Fiat. Si presumeva che, non pago del potere ottenuto alla Fiat, egli volesse accrescerlo,
con forti incursioni, sotto la sua personale egida seppur in concerto con Mediobanca, in
altri settori industriali e finanziari. L’ipotesi che si venisse a creare un superpolo
82 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., pp. 728-730.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
125
industrial-bancario era un’altra delle ragioni che spingevano vari politici ed economisti
a considerare Romiti un personaggio da neutralizzare83.
Alla fine del 1989, alla chiusura del primo esercizio che portava unicamente la
firma di Romiti, il gruppo torinese esibì un bilancio record. Il fatturato consolidato di
oltre 52.000 miliardi di lire equivaleva al 18 per cento in più rispetto a quello realizzato
l’anno precedente e l’utile operativo era cresciuto di quasi il 30 per cento. In tal modo la
Fiat, che figurava come la cinquantesima azienda al mondo per fatturato, era giunta ad
occupare la quinta o sesta posizione in termini di utili. D’altronde, c’era da aspettarsi
un’offensiva in grande stile delle marche giapponesi e, in prospettiva, di quelle della
Corea del Sud, in vista di una pur graduale liberalizzazione delle frontiere della Cee con
i paesi terzi. Negli ultimi anni la Fiat aveva puntato, con la fabbrica ad alta
automazione, su un aumento della produttività e l’obiettivo era stato raggiunto. Ma
adesso occorreva fare un passo avanti, ridefinire tanto i contenuti del prodotto quanto i
modi di produzione. Nell’ottobre 1989 avvenne l’atto di battesimo di un piano
pluriennale per la qualità totale che avrebbe dovuto modificare radicalmente la
fisionomia della Fiat ed elevarne i livelli di efficienza e di competitività. In pratica, per
raggiungere un maggior grado di flessibilità e di aderenza alle mutevoli esigenze del
mercato, non bastava più una tecnologia sofisticata e molecolare; occorreva un
ripensamento della cultura e della strategia aziendale tanto nelle logiche di
funzionamento interne, quanto nel modo di gestire le relazioni con i fornitori, i
concessionari e i clienti. Fu allora che anche alla Fiat si iniziò a parlare di time to
market, just in time e lean production84.
Nel febbraio 1990 venne tracciato un nuovo organigramma di vertice del Gruppo.
Fece il suo debutto una triade di direttori centrali: Francesco Paolo Mattioli, confermato
a capo degli affari generali e finanziari; Carlo Callieri, quale responsabile delle attività
industriali; Giorgio Garuzzo, chiamato a sovrintendere all’intero settore
autoveicolistico. Per il momento, Romiti mantenne l’incarico di amministratore
delegato della Fiat Auto. Nella attesa di una decisione definitiva, venne istituita una
direzione generale bipartita affidata a Paolo Cantarella, per la sovrintendenza delle
attività di progettazione e sviluppo, degli acquisti e della produzione, e a Luigi
Francione, per la supervisione delle diverse aree di business dell’Alfa-Lancia. A queste 83 Ibidem, p. 730. 84 Ibidem, pp. 735-737.
CAPITOLO 3
126
due squadre fu affidato il compito di convertire la Fiat alla qualità totale. Sennonché la
sfida della qualità totale venne a cadere in un periodo in cui si stava determinando
un’inversione della congiuntura. Proprio nel momento in cui prese il via un piano così
complesso e impegnativo, che avrebbe comportato un investimento di 2.300 miliardi di
lire l’anno per almeno un quinquennio, la Fiat si trovò improvvisamente ad accusare un
vistoso calo delle vendite85.
“La festa è finita”, aveva ammonito l’Avvocato quando s’era trovato sotto gli
occhi i primi dati che segnavano un ribasso progressivo della quota della casa torinese
sul mercato europeo contro un aumento della Volkswagen e di altri costruttori. Si
pensava a una crisi passeggera, dovuta anche alle perturbazioni provocate dalla Guerra
del Golfo. Di fatto, in chiusura d’esercizio, il fatturato del settore auto era calato di
1.000 miliardi di lire e per la prima volta nella storia della società risultava inferiore a
quello delle sezioni diversificate. Il compito di pilotare l’azienda fuori dalle secche della
recessione venne affidato all’ingegner Garuzzo, nominato nel dicembre 1990, direttore
generale della casa torinese con l’incarico di sovrintendere al coordinamento strategico
di tutto l’automotive del Gruppo, ossia al 70 per cento dell’intero giro d’affari della Fiat.
Il resto, le cosiddette attività diversificate, passò in consegna a Mattioli. Venne
attribuito a Garuzzo, nuovo “numero tre” dell’azienda, il ruolo che a suo tempo
Ghidella aveva rivendicato per sé e che non aveva ottenuto. Garuzzo avrebbe dovuto
riorganizzare il comparto automobilistico, da un lato comprimendo i costi di produzione
e, dall’altro, dando corso al piano della qualità totale. Quella che la Fiat doveva
affrontare era, infatti, una sfida da giocare tanto sul versante tecnologico e gestionale
quanto su quello dell’internazionalizzazione e del marketing86.
A tal fine si era pensato di affiancare a Garuzzo un tecnico come Paolo Cantarella,
sia per la transizione alla fabbrica postfordista sia per la messa in cantiere di una nuova
gamma di modelli: di qui la sua promozione, nel dicembre 1990, ad amministratore
delegato della Fiat Auto. L’idea di Garuzzo era che la Fiat avrebbe dovuto
denazionalizzarsi ben più di quanto già non fosse. In pratica, il piano di Garuzzo, sia per
accrescere la presenza all’estero, sia per attuare un maggiore snellimento delle strutture
produttive e il rinnovo dei modelli, contemplava per il quinquennio successivo il
raddoppio degli investimenti e delle spese di ricerca. Sennonché, queste ed altre terapie 85 Ibidem, pp. 736, 737. 86 Ibidem, pp. 737, 738.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
127
non erano tali da poter essere attivate a breve termine e da determinare perciò una
subitanea inversione di rotta. Di fatto, nel corso del 1991 la Fiat continuò a perdere
terreno, al contrario di altre case automobilistiche. Sul mercato italiano, fra il novembre
1990 e l’ottobre 1991, aveva venduto quasi il 15 per cento in meno di vetture rispetto
allo stesso periodo dell’anno precedente. Mai prima di allora la Fiat s’era trovata ad
accusare sulle piazze domestiche una crisi di mercato, e insieme di immagine, così
grave87.
Nel gennaio 1991 Umberto Agnelli, presidente della “Ifil” 88, la finanziaria di
partecipazioni diversificate della famiglia Agnelli, scrisse una nota a Romiti nella quale
rivelava come i risultati della Fiat fossero in realtà meno soddisfacenti di quanto
apparissero nella bozza di lettera agli azionisti. Per Umberto l’origine di tutti i mali era
l’eccessivo accentramento del potere in cima alla holding e, di conseguenza, auspicava
una ridefinizione di ruoli e funzioni della Capogruppo. In autunno la situazione era
divenuta così grave da costringere la Fiat ad aumentare le settimane di Cassa
integrazione per rallentare la produzione. La Fiat continuava a perdere colpi anche
perchè, dopo la “Tipo”, uscita nel 1988, non aveva più lanciato sul mercato una nuova
auto. In realtà, a Torino si erano messi in conto investimenti per 45.000 miliardi di lire
destinati in buona parte alla realizzazione di nuovi modelli. Si sapeva anche quale
sarebbe stata la capofila della nuova serie, indicata provvisoriamente con l’appellativo
“Tipo B”. Ma l’uscita di questo modello, successivamente battezzato “Punto”,
continuava ad essere rimandata; anche la data dell’ultima programmazione per la fine
del 1992 aveva subito un ulteriore rinvio. Alla Fiat si diceva che per una nuova gamma
di modelli sarebbe stato opportuno avvalersi delle procedure organizzative più modulari
in corso di definizione. Fatto sta che nel frattempo la casa torinese arrancava e cresceva
ogni giorno lo stock di auto invendute, col risultato di produrre altri grossi squarci nel
fatturato del gruppo89.
87 Ibidem, p. 738. 88 L’Ifil Investments S.p.A. è una società d'investimento controllata dalla famiglia Agnelli tramite l'Ifi che attualmente ne detiene il 63,59 per cento del capitale. Quotata alla borsa di Milano, è oggi tra le più importanti holding europee grazie alla gestione di un portafoglio valutato in 5 miliardi di euro. La società opera in due campi ben distinti: da una parte il presidio e la gestione del gruppo Fiat di cui Ifil detiene il 30 per cento, dall'altra parte invece una gestione dinamica del portafoglio di partecipazioni, un portafoglio che spazia dal turismo (Alpitour) al settore bancario (San Paolo IMI). <http://it.wikipedia.org/wiki/IFIL>, (02.2006). 89 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., pp. 739, 740.
CAPITOLO 3
128
Alla fine del 1991 il titolo in borsa della Fiat risultava sceso di più del 15 per
cento rispetto al 1990. Nel gennaio 1992, con una lettera a Garuzzo, Umberto Agnelli
era tornato a porre nuovi quesiti e, in un promemoria indirizzato al fratello Gianni,
ribadì le sue inquietudini per una non-coscienza e per una non-gestione della situazione
reale dell’azienda su temi di fondo. Umberto proseguì la sua lotta contro Romiti,
chiedendo di fatto che venisse riorganizzato tutto il vertice Fiat. Alla fine l’Avvocato
riuscì ad ottenere una tregua. Il compromesso raggiunto fra “romitiani” e “umbertiani”
diede luogo, sempre nel gennaio 1992, a un rimpasto nel top management del Gruppo.
La squadra cui Agnelli e Romiti assegnarono l’incarico di arginare la crisi era pressoché
la stessa di prima, ma con alcune varianti nella ripartizione degli incarichi e un paio di
uomini nuovi. Il dato più significativo stava nel rafforzamento dei poteri di Garuzzo, in
quanto a lui vennero attribuiti sia un ruolo centrale di indirizzo e di coordinamento di
tutti i settori industriali, sia nuove leve gestionali. Gli venne inoltre affidato il
coordinamento di alcuni staff centrali. In questa sua nuova veste, Garuzzo avrebbe
potuto contare sull’apporto di Cantarella (confermato alla Fiat Auto). Mattioli restava
invece a capo della finanza Fiat. La questione su cui sembrava che Umberto Agnelli
l’avesse spuntata era proprio la netta separazione fra attività industriale e finanziaria90.
Dal 1993 vennero smantellate le ultime barriere fra i paesi della Comunità
europea il che significava libertà assoluta di concorrenza, apertura dei mercati,
circolazione senza più ostacoli di prodotti e di servizi. Ma questa svolta coincise con
una fase di perdurante crisi economica e industriale, in particolare per il settore
automobilistico. Nel 1993 la quota di autovetture Fiat sul mercato italiano s’era ridotta
al 44,5 per cento, l’utile netto s’era dimezzato rispetto all’esercizio precedente e
l’indebitamento era salito a 3.849 miliardi di lire. In pratica, alla fine dell’anno, la
perdita operativa sarebbe potuta ammontare a circa 2.000 miliardi, ossia una cifra quasi
pari al capitale sociale. Un gruppo di banche, con capofila l’Istituto San Paolo di
Torino, stava perciò intervenendo in soccorso del Gruppo con l’apertura di una linea di
credito standby per un ammontare equivalente a tale somma. Ma intanto il cash-flow
continuava ad assottigliarsi e non era in vista un mutamento di scenario a breve
scadenza91.
90 Ibidem, pp. 740-742. 91 Ibidem, pp. 742, 743.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
129
La società torinese si sarebbe trovata di lì a pochi mesi di fronte a una voragine di
perdite sempre più profonde. E ciò, malgrado fosse infine uscita in agosto la nuova
vettura tanto agognata, la “Punto”, che, per gli uomini della Fiat, avrebbe dovuto
rinverdire i fasti della “Uno”. Si pensava, infatti, che le vendite, bene che fossero
andate, avrebbero cominciato a incidere sensibilmente soltanto sul bilancio del 1994. Di
sicuro si sapeva soltanto che, dovendo continuare a investire per produrre “alla
giapponese” nel nuovissimo stabilimento di Melfi e per sostenere il rilancio
dell’azienda, la Fiat non poteva abbassare il suo impegno finanziario al di sotto della
somma di 6-7.000 miliardi di lire preventivata per il 1993: si prevedeva perciò che essa
avrebbe finito per indebitarsi oltre la cifra di 10.000 miliardi. Alla Fiat occorreva ormai
una gran mole di denaro fresco per tamponare l’emorragia. Ci si chiedeva perciò come e
a che prezzo sarebbe stata in grado di rastrellarla trovandosi nell’occhio del ciclone e
oltretutto alla vigilia del cambio della guardia al suo vertice. Nel giugno 1993 Gianni
Agnelli aveva, infatti, ribadito che, di lì a dodici mesi, avrebbe lasciato la presidenza
della società al fratello92.
Prima di agosto, Umberto s’era preoccupato di stendere un piano di salvataggio in
base al quale si sarebbe dovuto porre mano al risanamento della Fiat per le linee interne,
vendendo tutto ciò che non aveva a che fare con il settore automobilistico per far cassa e
consentire di attendere i risultati commerciali della “Punto”, senza dover ricorrere a
misure straordinarie. Sennonché, la massa dei debiti, in continuo aumento, era talmente
enorme che appariva difficile evitare una considerevole ricapitalizzazione della società.
C’era anzi il rischio che il deterioramento delle sue residue risorse non rendesse più
possibile neppure questo passo estremo. Una forte ricapitalizzazione era ormai l’unica
cosa da fare, ma ciò comportava un prezzo: ossia una ridefinizione dell’assetto
azionario del Gruppo. Di fatto, un’operazione del genere non avrebbe potuto svolgersi
se non con la regia di Mediobanca e a una condizione: la permanenza tanto
dell’Avvocato quanto di Romiti al timone della società per tutto il tempo necessario al
totale assestamento della Fiat93.
Fu così che il 28 settembre 1993 il Consiglio di amministrazione della Fiat
rinnovò il mandato di Agnelli e di Romiti per tre anni e varò un maxiaumento del
capitale di 4.285 miliardi di lire, il più elevato mai richiesto a Piazza Affari. Accanto a 92 Ibidem, p. 743. 93 Ibidem, p. 744.
CAPITOLO 3
130
Mediobanca e alla Deutsche Bank, con una quota rispettivamente del 3,1 e del 2,4 per
cento si sarebbero affiancati alla “Ifi”94-Ifil (con il 20 per cento) due nuovi soci: le
Assicurazioni Generali (col 2,4 per cento) e la francese Alcatel-Alsthom (col 2,1 per
cento). Si sarebbe costituito in tal modo un sindacato di blocco, sul 30 per cento del
capitale ordinario della società, munito dei poteri esercitati in precedenza dal Comitato
esecutivo della Fiat, e destinato a durare fino al 1999, nell’ambito del quale ogni
membro avrebbe avuto in pratica diritto di veto sulle decisioni fondamentali95.
La forzata rinuncia di Umberto Agnelli alla successione e il fatto che la famiglia
Agnelli dovesse spartire con altri partner il governo dell’azienda, suscitarono grande
scalpore. In effetti, la famiglia Agnelli non sarebbe stata più l’unica a dettar legge alla
Fiat, anche se l’Ifi-Ifil avrebbe detenuto, dopo l’aumento di capitale, il 30 per cento
delle azioni ordinarie del Gruppo, equivalente al 15 per cento del capitale totale. Ciò che
contava era, infatti, quanto disposto dal patto di sindacato, per cui la famiglia Agnelli,
pur vincolando un 20 per cento delle azioni in suo possesso rispetto al 10 per cento in
mano agli altri quattro grandi soci, avrebbe pesato nondimeno tanto quanto ciascuno di
essi per le decisioni più importanti. Perciò, la finanziaria della famiglia Agnelli non
avrebbe potuto, ancorché si fosse alleata con qualche altro gruppo, sommando così le
rispettive quote, raggiungere una maggioranza tale da superare il quorum fissato da
Enrico Cuccia a presidio del potere di veto del binomio fra Mediobanca e Assicurazioni
Generali. Il patron di Mediobanca aveva così ripetuto con la Fiat il gioco già fatto con
altri grandi gruppi industriali96.
A Umberto Agnelli toccò il compito di mettere in vendita, per concorrere alla
quota parte della Famiglia nell’aumento di capitale (pari a 887 miliardi di lire), alcune
partecipazioni dell’Ifil. A metà novembre, quando giunse a compimento il riassetto del
vertice della Fiat, Umberto era stato messo da parte e l’Avvocato non avrebbe potuto
decidere in modo unilaterale senza il consenso dei soci più importanti del patto di
sindacato. È vero che quello avvenuto alla Fiat era una specie di commissariamento e
94 Ifi: Istituto finanziario industriale, è una società fondata nel 1927 dal senatore Giovanni Agnelli allo scopo di riunificare sotto un unica ragione sociale le varie partecipazioni azionarie da lui acquisite, principalmente in settori industriali. Quotata alla Borsa di Milano dal 1968, l'azienda (spesso indicata anche come finanziaria di famiglia, sottintendendo la famiglia Agnelli) è oggi controllata tramite la Giovanni Agnelli e C. S.a.p.az dalle famiglie Agnelli e Nasi, dirette discendenti del senatore Giovanni Agnelli. <http://it.wikipedia.org/wiki/Ifi>, (02.2006). 95 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., p. 744. 96 Ibidem, p. 745.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
131
che l’ago della bilancia si era spostato a favore del top management, e in particolare di
Romiti, mentre Gianni Agnelli e suo fratello avevano dovuto rimettersi alle prescrizioni
di Cuccia. Ma la Fiat non era passata nelle mani delle banche e intanto si era portata
fuori dal gorgo che nel 1993 minacciava di affondarla sotto un fardello di 1.800 miliardi
di perdite97.
Fu proprio nel bel mezzo dell’”incubo di Mediobanca”98, ed esattamente fra il
1993 e il 1994, che la Fiat, raggiunta la fase di preindustrializzazione del sistema
Common Rail-Unijet, prese la decisione ultima di cederlo alla azienda tedesca Bosch99.
Dei perchè, della ragionevolezza, dei benefici o degli svantaggi di
quest’operazione si tratterà nell’ultima parte del presente lavoro. Preme qui invece
tornare alla fine degli anni ‘80 per ricostruire attentamente le vicende del progetto
Common Rail Fiat da allora fino al momento della sua cessione.
3.3.1 Elasis inizia a lavorare al Common Rail e Magneti Marelli minimizza la sua
attività operativa nel progetto
Gli anni 1989 e 1990 rappresentarono per il progetto Common Rail un periodo di
transizione e, in un certo senso, di rallentamento.
A cavallo di questi due anni fu eseguita una vasta business simulation, la quale
evidenziò che:
- il Common Rail-Unijet era un sistema industriale molto promettente;
- l’aspetto economico era interessante, ma per una dato segmento del
mercato automobilistico (quello dei Diesel);
- lo sforzo industriale richiesto era ancora molto alto;
- alcuni componenti, e cioè gli iniettori, la pompa e la centralina elettronica
(ECU), richiedevano ulteriore lavoro per dimostrare la loro affidabilità e
realizzabilità industriale;
97 Ibidem, pp. 745, 746. 98 Giuseppe TURANI, 2002, Giovanni Agnelli. La Biblioteca di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2006, p. 363. 99 Lucio POSTRIOTI, Il sistema di iniezione a controllo elettronico common-rail, Corso di Progetto di Macchine, Sezione Macchine – Università di Perugia, A.A. 2003/2004, p. 1.
CAPITOLO 3
132
- era necessaria una prova estesa per dimostrare il reale potenziale del
sistema ai possibili clienti100.
Per continuare lo sviluppo industriale del sistema con un gruppo completamente
dedicato, Fiat, CRF e Magneti Marelli decisero di fondare, sempre nella “zona
industriale di Modugno in provincia di Bari”101, un centro ricerche Elasis102. Tra le
motivazioni di quest’operazione, come visto in precedenza, non fu secondaria quella di
ottenere un apporto finanziario governativo nell’ambito della legge n. 64 del 1986103.
Così afferma l’ingegner Ausiello:
“[...] il passaggio a Elasis fu fatto [...] per permettere di avere finanziamento
pubblico, come era giusto per un’operazione di questo genere”104.
In tal senso, nel 1989 tra il gruppo Fiat e il Governo fu stipulato un accordo che
concedeva un finanziamento per la prosecuzione degli studi sull’innovativo sistema
legandolo a una condizione: che le ricadute occupazionali restassero nell’area di Bari105.
Nel febbraio e nel novembre 1989 si svolsero le campagne di assunzioni per
completare l’organico del nuovo centro che da lì a poco sarebbe subentrato alla Magneti
Marelli-Altecna106. Proprio da quest’ultima fu trasferito all’Elasis tutto il personale che
fino a quel momento s’era occupato dello sviluppo del Common Rail, ma anche dei
sistemi d’iniezione tradizionali in produzione sempre nella struttura di Bari107. Si
trattava in pratica delle persone ritenute più dotate e avanzate, più in grado di continuare
lo sviluppo prodotto108. Fra queste meritano d’essere senz’altro citati il dottor Mario
Ricco e l’ingegner Sisto De Matthaeis, entrambi laureati all’Università di Bari, che tanto
merito ebbero nello sviluppo del sistema Common Rail109. Nella nuova struttura furono
100 Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones. Si veda Appendice A. 101 CAMERA di Commercio di Napoli, Dati identificativi dell’impresa Elasis S.C.p.A., cit., p. 22. 102 Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones. Si veda Appendice A. 103 MINISTERO delle Attività Produttive – Ufficio Stampa, Primo contratto di Programmazione Negoziata dal Ministero delle Attività Produttive: accordo con gruppo Bosch S.p.A., Roma, 22 novembre 2001. 104 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 105 Roberto LO VECCHIO, Italia tecnologia. A Modugno, dove nasce il common rail, in «Quattroruote», n. 542, Milano, EditorialeDomus, dicembre 2000, p. 171. 106 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 107 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 108 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 109 Mariano MAUGERI, Diesel, la scommessa pugliese di Bosch, cit.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
133
trasferiti anche degli operai di lunga data che lavoravano sugli iniettori Diesel
tradizionali, la cui esperienza si rivelò utile proprio per continuare lo sviluppo del nuovo
prodotto110.
A partire dal gennaio 1990 il centro Elasis di Bari iniziò ad operare a pieno
regime111. Magneti Marelli, probabilmente in seguito ai risultati della business
simulation di cui sopra, valutò troppo prematuro l’investimento in questa tecnologia112.
Nel “giugno 1990”113, pur rimanendo nel Comitato guida e continuando a partecipare
alle decisioni strategiche sul Common Rail, delegò la maggior parte delle sue attività
nel progetto114. In pratica, da allora e fino al 1993, si limitò a fornire la centralina
elettronica di controllo sistema. Simultaneamente all’uscita di Magneti Marelli,
l’ingegner Ausiello si trasferì a Bologna, da dove, ancora per un anno, continuò
comunque ad essere il responsabile del gruppo di ricerca di Bari115. Una cosa era
evidente, dopo l’uscita di scena di Magneti Marelli e dell’ingegner Ausiello, la
leadership tecnica dell’operazione Common Rail restava interamente nelle mani del
CRF e in particolare del dottor Rinolfi.
Come se tutti questi cambiamenti non bastassero, nello stesso periodo venne
deciso di verificare l’applicabilità del sistema all’iniezione diretta di benzina116.
Quest’ultima veniva ipotizzata in quegli anni come l’unico sistema per ridurre i
consumi dei motori e al contempo rispettare le future norme sulle emissioni
inquinanti117. I componenti e i materiali del sistema Common Rail erano però dedicati
ad applicazioni Diesel e sarebbe quindi stato necessario rivederli per il benzina118. Di
questo si ha conferma dalle parole dell’ingegner Callisto Genco, ricercatore al centro
Elasis di Bari dal 1991 al 1996:
110 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 111 Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones. Si veda Appendice A. 112 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 113 Francesco Paolo AUSIELLO, Unijet Development Milestones. Si veda Appendice A. 114 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 115 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 116 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 117 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B 118 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C.
CAPITOLO 3
134
“Noi abbiamo sperimentato le pompe Rexroth Diesel per verificarne la durata nel
caso di alimentazione a benzina. Ovviamente decadevano rapidamente in prestazioni
dovendo rivedere i materiali utilizzati”119.
Rinolfi continuò comunque a lavorare sul Diesel, assieme al dottor Ricco,
successore di Ausiello come capo della struttura di Bari, e al dottor Roberto Imarisio,
responsabile dell’applicazione sul motore120. Il 1989 e soprattutto il 1990 furono due
anni di cambiamenti e probabilmente di rallentamento per il progetto Common Rail, ma
ricorda Ricco:
“La frenata del 1990 fu provvidenziale: ci diede il tempo di rivedere con calma
ciò che non andava”121.
Vennero, infatti, rivisti alcuni importanti elementi per poter utilizzare al meglio le
tecnologie esistenti all’epoca sul mercato122. Sempre nel 1990, infine, il progetto
Common Rail smise di essere top secret. Col tacito accordo dei tecnici Fiat, Rinolfi
sulla base delle sue personali conoscenze dei tecnici Mercedes-Benz fece loro provare il
nuovo sistema in fase di sviluppo alla Fiat123. A tal proposito afferma l’ingegner
Iacoponi:
“Nessuna meraviglia: nel business dell’auto non c’è nulla di veramente segreto
anche perché, alla fine, i fornitori di componentistica (Magneti Marelli, Bosch, Valeo
ecc.) vogliono e devono vendere i loro prodotti a tutti. [...] Se il Common Rail fosse
stato prodotto da Magneti Marelli, sarebbe stato offerto e fornito da subito anche agli
altri car maker”124.
119 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 120 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 121 Ibidem, p. 191. 122 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. Sempre Ausiello ricorda che proprio nel 1990 si decise, per esempio, di adottare un polverizzatore (si veda p. 94 del presente testo) standard e non uno speciale. 123 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 124 Ibidem. Si veda Appendice B.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
135
3.3.2 Tutto (o quasi) a Bari
Dopo il “rimpasto” del 1990, e fino al 1993, le competenze e le attività all’interno
del progetto Common Rail furono così ripartite:
- il CRF (Orbassano-Torino) manteneva la leadership tecnica dell’intera
operazione e la competenza sulla sperimentazione e applicazione dei
componenti al motore, nonché sullo sviluppo del “software”125 per la
centralina elettronica126;
- la Magneti Marelli (Bologna), come detto, minimizzata la sua partecipazione,
si limitava a fornire l’”hardware”127 – centralina elettronica;
- l’Elasis (Modugno-Bari) prendeva il posto dell’Altecna nello sviluppo della
cosiddetta “parte bagnata”128 del sistema, ossia iniettore, regolatore di
pressione, rail e pompa129. Per quest’ultima continuava la collaborazione,
iniziata nella seconda metà degli anni ’80, con la tedesca Rexroth130.
Nonostante questa formale tripartizione delle competenze, il progetto Common
Rail ebbe il suo centro nevralgico all’Elasis che raccolse, per così dire, il testimone della
ricerca & sviluppo dalla Magneti Marelli-Altecna. È per questo motivo che d’ora
innanzi si concentrerà l’attenzione sull’attività del Centro Ricerche Alimentazione
Motori Elasis di Bari, dove, e lo si afferma senza timore di smentite, nacque il Common
Rail successivamente commercializzato dalla Bosch.
Nei primissimi anni ’90, all’Elasis di Bari, che allora contava soltanto una
quarantina di persone fra impiegati, tecnici ed amministrativi, le cose erano abbastanza
difficili. Si conosceva poco del sistema, soprattutto non c’era molta concorrenza dalla
125 Inteso come le logiche attraverso le quali i dati in ingresso in una centralina elettronica vengono trasformati nei valori in uscita dei comandi degli attuatori. Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 11 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 126 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 127 Inteso come la realizzazione fisica (tramite alimentatori, microprocessori, filtri, stadi di potenza ecc.) che consente l’applicazione del software. L’insieme degli elementi citati, racchiuso in un contenitore con la funzione di protezione dall’ambiente e di dispersione del calore è detto centralina. Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 11 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 128 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 129 Callisto GENCO, 17 novembre 2005, giudizio sul documento “Common Rail” a cura di Davide La Mantia, <http://www.electroportal.net/vis_resource.php?section=RP&id=75>, (02.2006). 130 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A.
CAPITOLO 3
136
quale studiare. Sul mercato non c’era nulla e di conseguenza non si poteva nemmeno
copiare. Si trattava di una vera e propria sfida tecnologica131. Ricorda il dottor Ricco:
“La sfida maggiore è stata l’iniettore che ancor oggi, io dico, è stato un miracolo
di San Nicola, perchè pensate [...] la meccanica è paragonabile a quella degli orologi,
ma qui ci sono in gioco forze elevatissime e quel povero spillo che fa da rubinetto, e si
deve aprire e chiudere in modo riproducibile, era una scommessa che aveva spaventato
chiunque vi si fosse cimentato prima. Per questo, il Common Rail si conosceva in
teoria, ma nessuno lo aveva proprio fatto”132.
Nel 1991 si riuscì ad
individuare per gli
elettroiniettori un’adeguata
soluzione (figura 3.4). Si
trattava comunque di una
versione prematura per la
produzione industriale,
caratterizzata ancora dalla
presenza di due tubi di
mandata gasolio per ogni
iniettore (uno per il controllo e l’altro per alimentare il motore, poi razionalizzati a uno),
da un’insufficiente pressione d’iniezione e da un eccessivo assorbimento di corrente
elettrica133. Nel 1992, grazie alla già citata collaborazione con la Rexroth, si concluse
con discreto successo lo sviluppo della pompa ad alta pressione con l’avveniristica
gestione a 1350 bar134. Nello stesso anno si realizzò anche un regolatore di pressione
veramente funzionale avente la stessa valvola dell’iniettore135. Questi ultimi due
131 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 132 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 133 Ibidem, p. 191. Alla stessa pagina si specifica che l’elettroiniettore prototipale del 1991 raggiungeva una pressione d’iniezione di 800-1000 bar e richiedeva una corrente di picco per essere azionato di 80 Ampere (che all’inizio erano addirittura 700 A). Al momento del lancio sul mercato, nel 1997, la pressione d’iniezione era salita a 1400 bar e la corrente assorbita era scesa a 20 A. 134 <http://www.genco.org/>, (02.2006). Alla stessa pagina internet l’ingegner Genco aggiunge: “Un tormento però le continue fughe dalla testa pompa e la scomparsa degli o-ring di tenuta completamente sciolti ed estrusi dalla alta pressione”. 135 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C.
Fig. 3.4 Elettroiniettori prototipali sviluppati all’Elasis di Bari, 1991. Fonte: Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
137
componenti, assieme al rail, non furono critici per lo sviluppo del sistema136. In
particolare, l’importanza della pompa ad alta pressione è dovuta alle quantità che
vengono prodotte oggi per le applicazioni Common Rail rispetto a quando era utilizzata
esclusivamente negli impianti idraulici (milioni di pezzi anziché decine di migliaia).
Quindi, anche se si tratta di un componente altamente sofisticato, le problematiche
furono essenzialmente tecnologiche ed economiche, solo limitatamente tecniche137.
Se la ricerca sui componenti idraulici (o parte bagnata) rappresentava il compito
d’elezione del team di Bari, non altrettanto poteva dirsi di quella sulla centralina
elettronica, il cui sviluppo, come visto, era ufficialmente affidato alla Magneti Marelli e
al CRF. In realtà, lo sviluppo del progetto divenne così dinamico che Elasis Bari aveva
l’esigenza di ricalibrare sulle esigenze del momento le centraline fornite “per contratto”
dalla Magneti Marelli. Nella struttura di Bari era presente un ingegnere elettronico,
Nicola Pacucci, che si occupava proprio di modificare il supporto centralina e di
adattare il software alle mutevoli esigenze di progetto. Dal 1992 le dinamiche e le
esigenze quotidiane di sviluppo non riuscirono più ad essere rette dalla Magneti Marelli
che a un certo punto cessò di fornire direttamente le centraline. Il Centro Elasis ricevette
allora aiuto dal CRF che faceva leva sui fornitori locali di parti elettroniche. Proprio dal
CRF il responsabile del progetto, Rinolfi, si recava, assieme a Imarisio, quasi
mensilmente a Bari per tenere le riunioni di aggiornamento tecnico col personale138.
Ad ogni modo fra il 1992 e il 1993 ci fu un cambio globale della centralina fornita
da Magneti Marelli che, ancora troppo voluminosa, fu successivamente ridotta di
dimensioni e sulla quale furono realizzati dei brevetti intelligenti per quanto riguarda la
gestione energetica139.
Il 1993 si rivelò, per il progetto Common Rail, un anno cruciale sotto più aspetti.
Dal punto di vista tecnico fu l’anno del “grande salto”. Si ebbero buone idee per gli
iniettori che finalmente erano concettualmente giusti, anche se non ancora pronti per la
produzione industriale poiché c’era ancora da eseguire tutto lo studio sulle tolleranze di 136 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 137 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 11 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 138 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 139 Ibidem. Si veda Appendice C. Ancora Genco ricorda che le centraline prototipali proposte da Magneti Marelli tra il 1992 e il 1993 avevano una base di 30 cm per 30 cm e non erano certamente adatte agli esigui ingombri del vano motore. Fra le modifiche d’interesse realizzate sulla centralina si ricorda la scissione del modulo di potenza (EPU) dalla parte di controllo (ECU). Il microprocessore utilizzato era simile a quello del computer Apple IIe. Per una breve disanima tecnica su EPU ed ECU si vedano pp. 94, 95 del presente testo.
CAPITOLO 3
138
prodotto e di processo. Infatti, gli iniettori funzionavano bene, ma gli scarti di
produzione sarebbero stati alti140. Produrne 100 significava ancora scartarne 80 e una
difettosità dell’80 per cento, in tutti i settori industriali e ancor più in quello automotive,
era ed è inimmaginabile141. Basti pensare che normalmente gli standard di qualità
automobilistici richiedono uno scarto massimo di 50-70 parti per milione142. Nonostante
ciò il 20 per cento degli iniettori raggiungeva gli obiettivi perseguiti in tanti anni di
ricerche.
Al CRF fu allestita una Fiat “Croma” 1.9 TD i.d. con quattro di questi iniettori
Common Rail per le prove su strada. I risultati furono eccezionali: 10 per cento di
potenza in più e consumi mediamente più bassi del 10 per cento. Su questa “Croma” era
prevista una grossa sperimentazione che però fu possibile realizzare solo parzialmente,
in quanto l’auto, dopo aver percorso circa 25.000 Km, ebbe un incidente durante un test
in montagna143.
Era il 1993 e, soddisfatti i test di durata e di affidabilità, la versione
preindustrializzata del Common Rail-Unijet era finalmente disponibile144. Il
proseguimento degli sviluppi nell’ambito del gruppo Fiat fino alla realizzazione del
sistema preindustrializzato era stato perorato dall’ingegner Iacoponi (Direttore tecnico
di Fiat Auto), dal dottor Rinolfi (Responsabile dello sviluppo motori del CRF) e
dall’ingegner Giovanni Biaggini (General manager dell'ingegneria motori di Iveco).
Questi volevano essere sicuri che lo sviluppo del sistema, in mano ad altri, non subisse
rallentamenti, visto che ne avevano già pianificato l’utilizzazione. Ciò fu concesso
dall’allora direttore generale della Fiat, ingegner Giorgio Garuzzo, che gestiva gli
aspetti finanziari del Gruppo145.
Proprio nel 1993 però, i finanziamenti al progetto che erano stati sempre adeguati
a sostenere gli sviluppi del sistema, subirono una riduzione146. Questa era quasi
140 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. Genco ricorda in particolare che proprio in quel periodo furono realizzati vari brevetti sull’iniettore fra i quali la valvola cono-sfera e l’ancoretta sdoppiata. Questi, successivamente modificati e ribrevettati da Bosch, costituiranno il pacchetto di brevetti ombrello coi quali l’azienda tedesca bloccherà molti concorrenti nel tentativo di realizzare simili soluzioni tecniche. 141 Fonte riservata 1. 142 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 143 Ibidem. Si veda Appendice C. 144 Davide MERCURI, Analisi di metodologie automatiche per la calibrazione dei motori Diesel Common Rail, cit., p. 2. 145 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 146 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
139
sicuramente il riflesso della grave crisi economica e finanziaria attraversata dal Gruppo
Fiat e in particolare dal settore Auto in quel periodo. Fatto sta che, dimostrata la
fattibilità industriale del progetto, bisogna decidere cosa farne.
Alla Fiat fu disposto uno studio di fattibilità industriale sul progetto Common Rail
che parlava di un investimento iniziale di circa 150 miliardi di lire (pari a 77,5 milioni
di euro) per partire con le prime linee di produzione147. A questo punto però, in
mancanza del fautore dell’operazione iniezione diretta, l’ingegner Ghidella, Magneti
Marelli iniziò a dubitare della propria capacità di gestire il nuovo business, sia in
relazione alla sua redditività, dovendo andare a combattere un gigante come Bosch
proprio nel suo prodotto di elezione, sia in relazione alla elevata criticità tecnologica
della realizzazione degli iniettori, ai quali si richiedeva una incredibilmente elevata
costanza e stabilità della taratura nel tempo. Magneti Marelli aveva compiuto delle
valutazioni costi-benefici sul business di questo nuovo prodotto e, giuste o sbagliate che
fossero, la portarono a ritenerlo non conveniente dal punto di vista industriale148.
Sempre a tal proposito afferma l’ingegner Ausiello:
“In definitiva non si giudicava che il gruppo avesse le competenze adatte per
avere successo in una tecnologia di questo genere e alla fine si valutò che il rischio
tecnico-economico d’affrontare fosse troppo grande”149.
Questo era anche il periodo in cui alla Fiat stava prendendo piede la politica di
acquistare la maggior parte non solo dei componenti, ma anche dei sistemi integrati da
fornitori terzi (logica buy) piuttosto che realizzarli internamente (logica make). Tutto
ciò, calato nel periodo di crisi che stava attraversando il Gruppo, condusse alla
considerazione finale che un investimento da 150 miliardi per industrializzare il
Common Rail non sarebbe stato recuperato che a lungo termine150. Si decise quindi che
per industrializzare quest’ultimo occorreva un partner con grande esperienza nel settore
iniezione. In competizione ci furono inizialmente tre grandi aziende: Bosch, Lucas,
Denso151.
147 Ibidem. Si veda Appendice C. 148 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 149 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 150 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 151 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191.
CAPITOLO 3
140
3.3.3 La cessione del Common Rail alla Bosch
La scelta di Fiat per industrializzare il sistema Common Rail-Unijet cadde su
Bosch, anche perchè questa rappresentava per Fiat un fornitore leader e strategico,
collegato a Magneti Marelli per altri business di cui il Common Rail poteva essere una
parte. Bosch però non credeva nel Common Rail o almeno aveva fatto altre scelte che
avrebbe dovuto rinnegare152. In particolare, l’azienda tedesca aveva da tempo puntato
sulla sua pompa rotativa a controllo elettronico. Si trattava del nuovissimo prodotto
Bosch che stava entrando in produzione in quegli anni e che sarebbe stato
successivamente cannibalizzato proprio dal Common Rail153. Non era facile far
ammettere un errore al produttore leader mondiale di impianti di iniezione e così alla
Fiat, per convincere Bosch a industrializzare il proprio sistema Common Rail, si seguì
una via “indiretta”.
Ancora nel 1993 fu acquistata una vettura non Fiat, esattamente una Mercedes-
Benz 250D che fu allestita al CRF col sistema Unijet dotato di quelli che i tecnici
dell’Elasis di Bari chiamavano i Four Diamonds, iniettori eccellenti per caratteristiche e
durata. Gli iniettori furono sigillati e un notaio certificò che questi erano stati prodotti e
montati su vettura in ambito Fiat. L’auto in questione fu portata in Sud Africa, per le
prove a caldo, e in Svezia, per le prove a freddo. Durante questi test la Mercedes 250D,
attrezzata col sistema prototipale Unijet Fiat, percorse quasi 100.000 Km senza
evidenziare problemi. All’inizio del 1994, sulla pista di Stoccarda, fu organizzata una
dimostrazione dell’auto per Mercedes-Benz e fra gli invitati figurarono anche i top
manager della Bosch154.
Per chi non conoscesse la realtà del settore automotive europeo, potrebbe
sembrare per lo meno strana questa doppia presentazione a Mercedes-Benz e Bosch.
Tutto si spiega facilmente dicendo che le due società tedesche, “entrambe con sede
principale nella città di Stoccarda”155, sono sempre state molto influenti una sull’altra.
152 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 153 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 154 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 155 DATAMONITOR, DaimlerChrysler AG. Company Profile, marzo 2005, p. 4. DATAMONITOR, Robert Bosch GmbH. Company Profile, luglio 2005, p. 4.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
141
Ad ogni modo, “Mercedes-Benz rimase favorevolmente colpita dalle potenzialità
del sistema Unijet”156 e redarguì Bosch circa la sua stagnante metodologia di sviluppo
prodotto. Mercedes-Benz, “che nel frattempo si era dichiarata addirittura disponibile ad
acquistare parte di un’ipotetica produzione Common Rail realizzata di Magneti
Marelli”157, forzò l’acquisto del progetto da parte di Bosch158. Quest’ultima, in sostanza,
mai avrebbe fatto il passo sul Common Rail senza l’esplicita richiesta di Mercedes-
Benz159.
Si arrivò così all’aprile 1994, quando venne firmata la cessione dell’intero
progetto Common Rail da Fiat a Bosch160. Dopo un intenso lavoro di ricerca, non certo
favorito dal riserbo che domina a Torino su questo argomento, si è riuscito a scoprire
chi, per conto di Fiat, dovrebbe aver posto (il condizionale è qui d’obbligo) la propria
firma sul contratto di cessione: l’allora direttore generale e “numero tre” del gruppo
torinese e l‘amministratore delegato e direttore generale del CRF161. Se l’informazione è
corretta, e c’è motivo di crederlo non avendo ricevuto alcuna smentita di essa
dall’ufficio relazioni esterne Fiat, le persone in questione sono, nell’ordine, gli
ingegneri “Giorgio Garuzzo”162 e “Gian Carlo Michellone”163.
Anche scoprire quali furono i termini del patteggiamento tra Fiat e Bosch non s’è
rivelato un compito facile. Si è dovuto fare ricorso oltre che alle fonti ufficiali anche e
soprattutto a quelle ufficiose e confidenziali. Queste ultime si sono rivelate però l’unico
metodo per ottenere informazioni di un qualche interesse per il presente lavoro. Fatta
questa doverosa premessa, si passa ora ad esaminare i termini del patteggiamento in
questione. Da parte sua, Fiat si impegnava a:
- cedere a Bosch la tecnologia Common Rail-Unijet e tutti i diritti per
sfruttarla164. Si trattava di un pacchetto di brevetti relativo a quasi quaranta
componenti165. Fra questi si ricordano solo i principali: iniettore, pompa
156 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 157 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 158 <http://www.genco.org/>, (02.2006). 159 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 160 Giovanni M. RICCI, Innovazione. La porta verso il futuro, in «Qualitas» rivista interna al gruppo Fiat, documento ricevuto da Antonella Galasco, addetta Stampa Fiat S.p.A., 27 ottobre 2005, p. 2. 161 Fonte riservata 2. 162 Valerio CASTRONOVO, FIAT, cit., p. 737 163 <http://qui.uniud.it/notizieEventi/ateneo/documento.2006-02-01.0688417244>, (02.2006). 164 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 165 Mariano MAUGERI, Diesel, la scommessa pugliese di Bosch, cit.
CAPITOLO 3
142
radiale ad alta pressione, regolatore di pressione, rail, software e hardware
centralina.
Si propone qui il disegno dell’iniettore
elettromagnetico contenuto nel brevetto
europeo EP0450532 (B1), depositato il 28
marzo del 1991 e relativo a un
Electromagnetically actuated fuel injection
device for an internal combustion engine;
titolare del brevetto era Elasis, inventori i già
citati Francesco Paolo Ausiello e Mario
Ricco166. L’iniettore qui rappresentato, ai suoi
primi stadi di sviluppo e mancante di molte
peculiarità importanti, dovrebbe aver fatto
parte dei brevetti ceduti e anzi dovrebbe essere
stato uno dei più significativi167. Si noti
l’estrema somiglianza col disegno in figura
2.16 del presente testo, tratto dalla
pubblicazione specialistica Bosch sul Common
Rail del 1999;
- cedere a Bosch il 50 per cento del Centro
Ricerche Alimentazione Motori Elasis,
finalizzando l’attività svolta a Bari anche e
soprattutto al trasferimento verso Stoccarda del
know-how sul sistema Common Rail, in vista
del lancio sul mercato di quest’ultimo da parte
dell’azienda tedesca168;
- accettare (con Fiat Auto e Magneti Marelli) una clausola di non concorrenza
quinquennale nei sistemi d’iniezione diretta Common Rail169.
166 <http://v3.espacenet.com/origdoc?DB=EPODOC&IDX=US5154350&F=0&RPN=EP0450532&DOC=cca34af1984f0ac67d39f3ac752dd4a44b>, (02.2006). 167 Callisto GENCO, e-mail ricevuta, 25 febbraio 2006. 168 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 169 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit.
Fig. 3.5 Disegno dell’iniettore elettromagnetico contenuto in uno dei brevetti ceduti a Bosch. Fonte: <http://v3.espacenet.com/origdoc?DB=EPODOC&IDX=US5154350&F=0&RPN=EP0450532&DOC=cca34af1984f0ac67d39f3ac752dd4a44b>, (02.2006).
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
143
Corrispondentemente Bosch s’impegnava a:
- versare a Fiat circa 26 miliardi di lire (pari a 13,4 milioni di euro) per
acquistare il pacchetto di brevetti relativo ai quasi quaranta componenti del
sistema Unijet170;
- versare a Fiat circa 70 miliardi di lire (pari a 36,2 milioni di euro) per acquisire
il 50 per cento del Centro Elasis di Bari e garantirsi che quest’ultimo
lavorasse, in sostanza, nel proprio interesse industriale171;
- concedere a Fiat Auto l’esclusiva sul lancio in produzione di un’automobile
dotata del sistema Common Rail prima di Mercedes-Benz e di qualsiasi altro
cliente172;
- applicare a Fiat Auto uno sconto di un certo rilievo sui vari componenti
Common Rail fino all’incirca al 2002173;
- rispettare l’accordo stipulato nel 1989 tra il gruppo Fiat e il Governo, il quale
concedeva un finanziamento per la prosecuzione degli studi sul sistema
Common Rail legandolo a una condizione: che le ricadute occupazionali
restassero nell’area di Bari174. In forza di questo accordo, Bosch non avrebbe
mai potuto acquistare il progetto Common Rail e “sradicarlo” completamente
da Bari. In tal caso, infatti, il gruppo Fiat avrebbe dovuto pagare delle penali175
e Bosch non avrebbe potuto successivamente usufruire, come di fatto fece,
degli incentivi della legge n. 488 del 1992176.
La società tedesca si assunse quindi l’onere di sviluppare e produrre almeno un
componente del sistema Common Rail esclusivamente in provincia di Bari177. A tal
scopo, nel maggio 1994 venne costituita, sempre nella zona industriale di Modugno, la
Tecnologie Diesel Italia (TDIT) S.p.A178. Si trattava di una società, per l’esattezza una
170 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 171 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 172 Ibidem. Si veda Appendice C. 173 Fonte riservata 1. 174 Roberto LO VECCHIO, Italia tecnologia, cit., p. 171. 175 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 176 Martino CAVALLI, Bosch riscopre l’Italia, in «Il Sole 24 Ore – Economia Italiana», Milano, Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 1997. LEGGE 19 dicembre 1992, n. 488, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 ottobre 1992, n. 415, recante modifiche alla legge 1° marzo 1986, n. 64, in tema di disciplina organica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno e norme per l'agevolazione delle attività produttive”. 177 Mariano MAUGERI, Diesel, la scommessa pugliese di Bosch, cit. 178 CAMERA di Commercio di Bari, Dati identificativi dell’impresa Tecnologie Diesel Italia S.p.A. Visura senza valore di certificazione storica, 19 dicembre 2005, p. 1.
CAPITOLO 3
144
“joint-venture”179, fondata in compartecipazione paritetica fra Bosch e Magneti
Marelli180. La partecipazione di quest’ultima non aveva una finalità strategica di
sviluppo e produzione congiunti del sistema, ma uno scopo essenzialmente legale per
non infrangere i vincoli governativi sui contributi erogati all’Elasis181. In proposito
ricorda l’ingegner Genco:
“[...] noi all’Elasis facevamo le revisioni di progetto e i rapporti da mandare al
ministero del lavoro. E questo lavoro faceva parte del progetto di ricerca co-finanziato
dal governo”182.
La Bosch, tramite la TDIT, fece il suo ingresso nel consorzio Elasis183 e ciò
probabilmente perchè la società tedesca non poteva acquisire per intero il Centro
Ricerche di Bari, fino a quando non fosse spirato un certo termine temporale dalla
stipula, tra Fiat e Governo, del già citato contratto di finanziamento pubblico.
Quest’ultimo, in base a quanto disposto dalla legge n. 64 del 1986, prevedeva un
vincolo di dieci anni relativo alla destinazione degli immobili184. Stipulato il contratto
nel 1989, il vincolo di destinazione scadde nel 1999 ed è significativo evidenziare come:
- nel 2000 Bosch rilevò al 100 per cento il Centro Elasis costituendo il “Centro
Studi Componenti per Veicoli (CSIT) S.p.A.”185 nel quale continua tutt’oggi a
studiare gli sviluppi del Common Rail186;
- sempre nel 2000 Magneti Marelli uscì dalla joint-venture che aveva dato vita
alla TDIT187.
- nel 2003 Bosch – TDIT uscì dal consorzio Elasis188;
179 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 180 <http://www.boschrexroth.com/country_units/europe/italy/it/chi_siamo/storia/cronologia_fino_fusione/index.jsp>, (02.2006). 181 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 182 Ibidem. Si veda Appendice C. 183 Ibidem. Si veda Appendice C. 184 LEGGE 1° marzo 1986, n. 64, cit., Art. 12 Incentivi per servizi reali, innovazioni tecnologiche e ricerca scientifica, punto 8. 185 <http://www.boschrexroth.com/country_units/europe/italy/it/chi_siamo/storia/cronologia_fino_fusione/index.jsp>, (02.2006). 186 Roberto LO VECCHIO, Italia tecnologia, cit., p. 172. 187 Roberto LO VECCHIO, Italia tecnologia, cit., p. 171. 188 Chiara BRACCELARGHE, dipendente Bosch S.p.A., e-mail ricevuta, 9 marzo 2006.
LA FIAT E LO SVILUPPO DEL SISTEMA COMMON RAIL AUTOMOBILISTICO
145
Si è qui cercato di elencare e spiegare sinteticamente i principali elementi del
contratto di cessione del progetto Common Rail-Unijet da Fiat a Bosch. Per un’analisi
dei perchè, della ragionevolezza, dei benefici o degli svantaggi di quest’operazione si
rinvia nuovamente alla parte finale di questo lavoro. Sarà lì che si cercherà di capire se
la cessione del Common Rail, nel modo in cui avvenne, rappresentò per Fiat una più o
meno grande occasione perduta.
CAPITOLO 4: DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL
ALLA BOSCH
4.1 VERSO LA COMMERCIALIZZAZIONE DEL NUOVO SISTEMA
Nella primavera del 1994, a quasi dieci anni dall’inizio dell’attività di R&S
finalizzata, il cuore del progetto Common Rail-Unijet iniziava a “migrare” dall’Italia
verso la Germania. Ci si occuperà subito proprio di questo, del trasferimento del know-
how da Bari a Stoccarda, in vista dell’industrializzazione e dell’imminente
commercializzazione di quello che non sarebbe più stato il sistema Unijet Fiat, ma il
Common Rail Bosch.
4.1.1 L’arrivo di Bosch a Bari e il trasferimento del know-how a Stoccarda
Nel maggio 1994, come visto, fu costituita la Tecnologie Diesel Italia tramite la
quale la tedesca Bosch effettuava, ”sbarcando” a Bari, il suo ingresso nel progetto
Common Rail.
Inizialmente Tecnologie Diesel Italia convisse con Elasis nella medesima struttura
della zona industriale di Modugno. Fu semplicemente distaccato un dipartimento del
Centro ricerche che divenne TDIT. Bosch inviò immediatamente a Bari i suoi resident
engineer col compito di eseguire i rapporti di prestazioni e di utilizzo degli iniettori,
delle metodologie e dei materiali utilizzati ecc. Le prime cose ad essere passate furono
le cosiddette “distinte base”, cioè tutti i disegni e le relative specifiche, perchè il
progetto doveva essere trasferito. Questo comportò un intenso lavoro di
documentazione, in quanto la Bosch approfittò del trasferimento per adeguare lo
standard di Elasis al proprio. I tecnici tedeschi impiegavano, infatti, le Bosch norm e
tutto quanto era stato in precedenza specificato con le Fiat norm dovette essere
riclassificato1. Tra il 1994 e il 1995 divennero sempre più frequenti le trasferte alla sede
della Bosch in Germania da parte del personale Elasis. Per quattro o cinque di questi il 1 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C.
CAPITOLO 4
148
viaggio Bari-Stoccarda-Bari era da compiere finanche a due volte la settimana2. Il
mandato era però chiaro: il know-how doveva essere trasferito in Germania, il quartier
generale del progetto Common Rail doveva diventare Stoccarda3.
Il progetto subì una notevole accelerazione con l’arrivo di Bosch4. Quest’ultima
comprese appieno le potenzialità del sistema, rivide il software e il supporto centralina e
faticò non poco a realizzare la messa a punto dell’iniettore5. La pompa ad alta pressione
invece non fu mai un componente veramente problematico, anche se Bosch ne modificò
la testa per minimizzare i costi. In questi anni la società tedesca depositò moltissimi
brevetti che successivamente le permisero di bloccare efficacemente i concorrenti nel
tentativo di realizzare sistemi d’iniezioni simili6.
Nel 1995 arrivò a Bari un co-direttore tedesco, dottor Banzaff, il quale, curando
l’interesse produttivo, affiancò il dottor Ricco, responsabile dello sviluppo prodotto,
nella gestione del Centro ricerche. Quest’ultimo si trovava allora in una situazione che
si potrebbe definire “ibrida”, in quanto Elasis e TDIT convivevano ancora nella stessa
struttura7.
Si giunse così al 1996, quando Fiat cominciò a spingere con più insistenza per
arrivare alla produzione8. Le finalità del lavoro iniziarono a cambiare, dovendosi
“congelare” lo sviluppo allo stato in cui si trovava proprio per andare il prima possibile
in produzione9. I viaggi a Stoccarda erano ormai una routine per i tecnici di Elasis. A
Bari si effettuavano le prove sperimentali sui vari componenti del sistema fino a quando
i centri di Stoccarda e di Bamberg non furono attrezzati adeguatamente10.
2 <http://www.genco.org/>, (03.2006). 3 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 4 Ibidem. Si veda Appendice C. 5 <http://www.genco.org/>, (03.2006). In particolare Genco ricorda che la centralina venne ridotta ad un solo componente che racchiudeva l’unità di potenza (EPU). L’accoppiamento fu possibile grazie a un’idea geniale che venne al Centro di Bari. Si parlava dell’iniettore come parte della induttanza della centralina. Le bobinette degli iniettori funzionavano da serbatoio di energia, quando non iniettavano, potendo così ridurre la grossa induttanza nella centralina. Il software, dapprima in Assembler, venne riscritto in linguaggio C. Fu cambiato il microprocessore della centralina. Motori quattro e cinque cilindri a iniezione diretta che iniziavano a girare al banco con una nuova camera di combustione funzionavano bene e confermavano i trend visti col vecchio motore 1.930 cm3 della Croma TD i.d. Anche la rumorosità calava. 6 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 7 Ibidem. Si veda Appendice C. 8 <http://www.genco.org/>, (03.2006). 9 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 10 <http://www.genco.org/>, (03.2006).
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
149
In base al patteggiamento del 1994 Bosch, come già precisato, avrebbe dovuto
sviluppare e produrre almeno un componente del sistema Common Rail esclusivamente
in provincia di Bari11. Inizialmente l’azienda tedesca si impegnò addirittura per due
componenti: pompa ad alta pressione e iniettore. Ben presto però, adducendo a
giustificazione la reale mancanza di strutture che avrebbe determinato fortissimi ritardi
nella produzione, l’attività di sviluppo e di produzione dell’iniettore (il vero elemento
critico dell’intero sistema Common Rail) fu trasferita nella città tedesca di Bamberg12.
Qui Bosch disponeva e dispone tutt’oggi di “un avanzatissimo centro prototipi”13 e di
uno stabilimento che già nel 2000 è arrivato a produrre 16.000 iniettori Common Rail al
giorno14.
Ancora nel 1996 Bosch acquistò un nuovo strumento di misurazione, noto come
EMI 2, col quale si poteva finalmente verificare la qualità degli iniettori uno dopo
l’altro. Tale strumento di misurazione gettò i ricercatori italiani e tedeschi nel panico più
completo. Infatti, gli iniettori, benché rispettassero le tolleranze previste, si
caratterizzavano diversamente l’uno dall’altro. Bosch acquistò nuovi macchinari di
lavorazione di altissima precisione. Tolleranze di lavorazione anche nell’ordine di
millesimi di millimetri non erano però sufficienti a garantire la ripetibilità per ogni
singolo pezzo. In sostanza il sistema Common Rail funzionava, ma gli iniettori prodotti
non erano tutti uguali. Lo scarto di prima produzione (FTQ) fu davvero elevato,
nell’ordine del 30 per cento15. Per evidenziare l’entità di tale valore si ricorda
nuovamente che nel settore automobilistico gli standard di qualità prevedono livelli di
difettosità entro le 50 o 70 parti per milione, non per cento. A questo punto però Bosch
doveva comunque avviare la produzione, perchè l’accordo coi clienti, Fiat e Mercedes-
Benz, era già stato siglato.
11 Mariano MAUGERI, Diesel, la scommessa pugliese di Bosch, cit. 12 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 13 Ibidem. Si veda Appendice C. 14 Valerio MONACO, Common rail sempre più di qualità, in «Il Sole 24 Ore – Rapporti Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2000. Sempre in questo articolo si apprende che le tolleranze di assemblaggio delle parti in movimento di un iniettore oscillano nell’ordine di pochi millesimi di millimetro, mentre i fori attraverso i quali esce il gasolio vaporizzato sono così piccoli che la Bosch ha dovuto inventare un procedimento elettromagnetico per realizzarli. Nella struttura di Bamberg si è dovuto quindi lavorare a lungo e investire moltissimo nella sperimentazione e nelle nuove tecnologie costruttive: 210 milioni di marchi tedeschi ( circa 107 milioni di euro) nel 1998, 240 milioni (circa 123 milioni di euro) nel 1999 e 150 milioni (circa 77 milioni di euro) nel 2000. 15 <http://www.genco.org/>, (03.2006).
CAPITOLO 4
150
Nel luglio 1996 avvenne la prima divisione tra Elasis e TDIT16. Circa 70
ricercatori di Elasis si trasferirono, infatti, alla Tecnologie Diesel Italia17. Il 30 giugno
1996 è l’esatta data d’inizio ufficiale dell’attività relativa a “Industrializzazione
componenti per sistemi di iniezione motori Diesel, produzione pompe ad alta pressione
e linee sistemi iniezioni Diesel” alla TDIT18. Quest’ultima, nella attesa della costruzione
di un nuovo stabilimento, avviò concretamente la produzione di pompe ad alta pressione
nel 1997 in una fabbrica arrangiata19. Di fabbrica arrangiata si può parlare in quanto si
trattava semplicemente di alcuni locali che la TDIT aveva ottenuto dalla Magneti
Marelli20.
Ad ogni modo nel 1997, a 105 anni dall’invenzione di Rudolf Diesel, a 61 dal
lancio della Mercedes-Benz 260D, a 28 dal deposito del brevetto dell’iniettore
elettromagnetico Sopromi e a 12 dall’avvio degli studi finalizzati di Fiat, il motore a
gasolio dotato del sistema d’iniezione Common Rail, era finalmente pronto ad
“accomodarsi” sulle automobili.
4.1.2 Il lancio al pubblico delle prime auto Common Rail
Fiat Auto e Mercedes-Benz cooperarono con la Bosch nello sviluppo industriale
del Common Rail21. Per quanto riguarda Fiat Auto, quest’ultima, assieme a Iveco, dal
1994 portò avanti, senza soluzione di continuità, lo sviluppo della applicazione del
sistema Common Rail ai motori Diesel di propria fabbricazione con particolare riguardo
alla definizione delle tarature per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali in
termini di emissioni inquinanti, consumi, potenza, rumorosità, affidabilità ecc. Questa
attività, che rappresenta una professionalità diversa da quella richiesta dallo sviluppo e
dalla industrializzazione del sistema d’iniezione, richiese anni22.
In particolare Fiat Auto si occupò dell’applicazione del sistema Common Rail ai
suoi due propulsori Diesel:
16 Fonte riservata 1. 17 Martino CAVALLI, Bosch riscopre l’Italia, cit. 18 CAMERA di Commercio di Bari, Dati identificativi dell’impresa Tecnologie Diesel Italia S.p.A., cit., p. 2. 19 Mariano MAUGERI, Diesel, la scommessa pugliese di Bosch, cit. 20 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 21 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 22 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
151
- 1.9 litri, 4 cilindri, 100CV, commercializzato col nome TD100;
- 2.4 litri, 5 cilindri, 125 CV, commercializzato col nome TD12523.
Questi erano due propulsori Diesel a iniezione indiretta (o a precamera) che, con
la sostituzione della testa cilindri e dei pistoni, furono trasformati in Common Rail. Dal
1.9 TD100 e dal 2.4 TD125 derivarono rispettivamente il 1.9 e il 2.4 JTD (“uniJet
Turbo Diesel”24)25. Questi propulsori
furono presentati per la prima volta al
grande pubblico in occasione del 57°
Salone internazionale dell’automobile
di Francoforte (11-21 settembre 1997)
in abbinamento alla nuova Alfa Romeo
“156” (figura 4.1) che si assicurò così
il titolo di prima auto al mondo
equipaggiata con motori Diesel
Common Rail. L’Alfa “156” 2.4 JTD
da 136 CV fu commercializzata,
assieme al resto della gamma, a partire
dalla fine di ottobre 1997 al prezzo chiavi in mano di 45.900.000 lire (pari a 23.705
euro), mentre la 1.9 JTD da 105 CV arrivò nelle concessionarie solo nel gennaio 1998 al
prezzo, sempre chiavi in mano, di 38.800.000 lire (pari a 20.039 euro)26. Dall’ottobre
1997 al maggio 1999, in soli 15 mesi, Fiat Auto produsse 190.000 motori Common Rail
JTD il cui impiego, dopo il debutto sull’Alfa “156”, fu progressivamente esteso ai
modelli esistenti: dall’Alfa “145”-“146” alla Fiat “Bravo/a”, dalla Fiat “Marea” alla
Lancia “K”. Con le unità JTD debuttarono i nuovi modelli lanciati sul mercato tra il
1998 e il 1999, come l’Alfa “166”, la Fiat “Multipla”, la Lancia “Lybra” e la nuova Fiat
“Punto”. Per la fine del 1999 gli unici modelli di Fiat Auto senza un motore JTD erano
quelli che non prevedevano la motorizzazione a gasolio nella propria gamma: Fiat
“Seicento”, “Panda”, “Barchetta” e “Coupè”; Alfa “Spider” e “GTV Coupè”. Le uniche
23 Ferruccio TONELLO, e-mail ricevuta, 3 febbraio 2006. 24 Marco TONETTI, Evoluzione del sistema di iniezione diesel Common Rail, in «Innovazione Competitività» n. 14, Torino, Centro Ricerche Fiat, 10 dicembre 2001, p. 1. 25 Ferruccio TONELLO, e-mail ricevuta, 3 febbraio 2006. 26 Corrado CANALI, In campo l’Alfa del 2000, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 1997.
Fig. 4.1 Alfa Romeo “156” JTD, prima auto al mondo equipaggiata con motore Diesel Common Rail (ottobre 1997). Fonte: <http://www.fiatautopress.com/download/SYSTEM_GALLERY_STORICHE/3-1-543.jpg>, (03.2006).
CAPITOLO 4
152
eccezioni erano rappresentate dalle monovolume Fiat “Ulysse” e “Lancia “Z” costruite
sotto responsabilità del gruppo PSA (Peugeot-Citroën)27.
“Presentata anch’essa al Salone
di Francoforte nel settembre 1997”28,
subito dopo l’Alfa “156” la Mercedes-
Benz lanciò la sua “classe C” 220 CDI
(figura 4.2)29. Questa era equipaggiata
con un motore Diesel da 2.2 litri e 125
CV dotato di sistema Common Rail
Bosch30. La Mercedes-Benz, arrivata
seconda nella introduzione della
tecnologia Common Rail, fu comunque
la prima a offrirla abbinata a un
propulsore a quattro valvole per cilindro. Il JTD Fiat Auto, infatti, era soltanto un due
valvole per cilindro31. La “classe C” 220 CDI fu commercializzata a partire dal
dicembre 1997 con prezzi compresi, a seconda dell’allestimento e del tipo di
carrozzeria, fra i 55.797.647 milioni di lire (pari a 28.817 euro) e i 64.066.555 milioni di
lire (pari a 33.088 euro)32. Nel settembre 1998 Mercedes-Benz introdusse poi sul
mercato la sua seconda vettura ad alimentazione Diesel Common Rail, la “classe A”
170 CDI33.
4.2 IL BOOM DEL DIESEL NEL SEGNO DEL COMMON RAIL
Nel 1998 Fiat Auto e Mercedes-Benz, le uniche due Case che allora usassero il
Common Rail, faticarono a soddisfare la domanda di modelli turbodiesel da parte dei
loro clienti, perchè i sistemi di alimentazione arrivavano col contagocce da Bosch34. Il
27 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 28 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 29 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 30 Corrado CANALI, Mercedes rilancia il Diesel, cit. 31 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 32 Corrado CANALI, Mercedes rilancia il Diesel, cit. 33 GUIDA all’acquisto. Chi entra nel listino, in «Quattroruote», n. 515, Milano, EditorialeDomus, settembre 1998, p. 236. 34 Roberto LO VECCHIO, Italia tecnologia, cit., p. 170.
Fig. 4.2 Mercedes-Benz “classe C” 220 CDI, seconda auto al mondo equipaggiata con motore Diesel Common Rail (dicembre 1997). Fonte: <http://www.theautochannel.com/media/photos/mercedes/1998/98_mercedes_c_class.jpg>, (03.2006).
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
153
“binario comune” divenne l’autentico protagonista della rivoluzione del Diesel, al punto
da dividere praticamente in due il mondo dell’auto: chi aveva già il Common Rail e chi
lo voleva adottare. Inserendosi in una lista d’attesa scandita dai tempi necessari alla
Bosch (allora e per qualche anno unico fornitore del sistema) per adeguare la capacità
produttiva alla crescita esponenziale della domanda35. In cima a questa lista c’era
evidentemente la Casa francese PSA (Pugeot-Citroën) che, terza dopo Fiat e Mercedes,
nell’ottobre 1998 lanciò sul mercato il suo primo propulsore Common Rail (“sviluppato
in collaborazione con Bosch”36), il 2.0 HDI37. Quest’ultimo equipaggiò inizialmente due
modelli del gruppo PSA, la Peugeot 406 e la Citroën Xantia38.
Da allora in poi, grazie all’adeguamento della capacità produttiva da parte di
Bosch e al successivo arrivo di fornitori di componentistica che affiancarono l’azienda
tedesca realizzando sistemi analoghi, il Common Rail fu adottato da un numero
crescente di costruttori, ad oggi più di quindici39. Fra questi si ricordano i principali,
come: “BMW, Renault, Hyundai”40, “Ford”41, “Toyota”42, “General Motors”43, oltre
ovviamente a Fiat Auto, DaimlerChrysler (“cui appartiene il marchio Mercedes-
Benz”44) e PSA. Da questa lista manca il gruppo tedesco Volkswagen che, col chiaro
intento di dribblare la “dipendenza” dall’allora unico fornitore di Common Rail, la
Bosch, sempre più in affanno nel soddisfare una domanda in fortissima crescita, scelse
di puntare su un sistema d’iniezione diretta Diesel alternativo45. Tale sistema, noto in
italiano come iniettore-pompa (“in tedesco: Pumpe Düse Einheit, PDE”46; “in inglese:
35 Giampiero BOTTINO, Common rail, l’escalation continua, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 4 luglio 1999. 36 Barbara PEZZOTTI, Tagliare i consumi, obiettivo per benzina e diesel, in «Il Sole 24 Ore – Rapporti Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 24 aprile 1998. 37 Emilio BRAMBILLA, I nuovi Diesel entrano in orbita, in «Quattroruote», n. 509, Milano, EditorialeDomus, marzo 1998, p. 117. 38 Barbara PEZZOTTI, Tagliare i consumi, obiettivo per benzina e diesel, cit. 39 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 188. 40 Roberto LO VECCHIO, Italia tecnologia, cit., p. 170. 41 Giampiero BOTTINO, Per la Focus si apre l’era del diesel common rail, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2001. 42 Giampiero BOTTINO, Yaris Toyota accelera con il piccolo diesel, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2001. 43 Emilio BRAMBILLA, Roberto LO VECCHIO e Emanuele SANFRONT, Fiat-GM un anno dopo. A «Quattroruote» parlano i protagonisti, in «Quattroruote», n. 546, Milano, EditorialeDomus, aprile 2001, p. 73. 44 DATAMONITOR, DaimlerChrysler AG, cit., p. 5. 45 Corrado CANALI, Volkswagen guarda oltre il <common rail>, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 18 luglio 1998. 46 Emilio BRAMBILLA, Da 3 a 10 cilindri. Alta pressione sul diesel, in «Quattroruote», n. 515, Milano, EditorialeDomus, settembre 1998, p. 97.
CAPITOLO 4
154
Unit Injector System, UIS”47), fu inizialmente sviluppato dalla britannica Lucas che già
lo produceva in serie per veicoli industriali48. Nel 1998 fu però la Bosch a presentare al
pubblico il sistema iniettore-pompa che venne inizialmente commercializzato, a partire
dall’inizio del 1999, sulla Volkswagen Passat 1.9 TDI da 115 CV49.
Il momento d’oro del Diesel, iniziato in Europa all’incirca dieci anni fa, è stato il
frutto soprattutto dei più avanzati sistemi di iniezione diretta che hanno portato i motori
a gasolio a raggiungere e talvolta a superare le equivalenti unità a benzina nei parametri
principali50. Grazie al miglioramento delle prestazioni accompagnato dai bassi consumi
e all’assenza di rumore e fumosità, i motori a gasolio hanno guadagnato anche sul piano
dell’immagine una dignità fino a pochi anni fa impensabile. Le Case hanno fatto a gara
per arricchire le proprie famiglie di prodotto con almeno un turbodiesel a iniezione
diretta ad alta pressione. Poco importa se la tecnologia sia stata l’iniettore-pompa, scelto
sostanzialmente dal gruppo Volkswagen per alcuni dei suoi motori o il Common Rail la
cui diffusione è ormai praticamente plebiscitaria51. La rivincita è stata totale e
clamorosa per i motori a gasolio, i quali hanno raccolto il consenso degli automobilisti
europei oltre ogni più rosea aspettativa.
47 <http://www.boschautoparts.co.uk/pcDies10.asp?c=2&d=1>, (03.2006). 48 MOTORI a gasolio. Un futuro per due sistemi, in «Quattroruote. Flotte aziendali» allegato a «Quattroruote», n. 530, Milano, EditorialeDomus, dicembre 1999, p. 14. Nel sistema iniettore-pompa c’è un albero a camme, comandato direttamente dal motore, che tramite bilanciere aziona il meccanismo pompante direttamente sopra l’iniettore e un controllo elettronico-elettrico per la portata, dotato di valvola elettromagnetica per la giusta dosatura e per l’esatto istante di iniezione. Il sistema è un po’ ingombrante e funziona così: il gasolio arriva in prossimità dell’iniettore spinto da una pompa “normale”. Qui un’ulteriore pompa a stantuffo, azionata da albero a camme, lo fa passare attraverso una valvola a comando elettromagnetico in quantità maggiore o minore a seconda di quando e quanto questa si apre. Il resto della pompata (a valvola chiusa) spinge lo spillo e fluisce ad altissima pressione nella camera di compressione. Questo sistema, dove aumento di pressione ed iniezione sono svolte dallo stesso elemento, a confronto con il Common Rail e con la pompa radiale ad alta pressione, permette pressioni più alte (fino a 2.050 bar contro 1.500 circa) e tempi ridottissimi di iniezione (circa 1,5 millisecondi) con tutti i vantaggi conseguenti in termini di aumenti di coppia e riduzione di emissioni e rumore, ma necessita della riprogettazione della testa e quindi non è immediatamente applicabile ai motori esistenti e non è indipendente dalla rotazione del motore per via dell’azionamento ad albero a camme degli iniettori. C’è anche qui una preiniezione da 1 a 2 millimetri cubi di gasolio. L’elevata pressione di iniezione produce altissima polverizzazione del combustibile che quindi brucia meglio e completamente e va assistita da un controllo elettronico con operazioni di preiniezione (iniezione pilota). La centralina presiede all’iniezione determinando, con la valvola elettromagnetica, la quantità di gasolio per ogni pompata; <http://www.quattroruote.it/auto/mondoauto/tecnica/Spiegazione.cfm?Codice=462>, (03.2006). 49 Emilio BRAMBILLA, Da 3 a 10 cilindri, cit., pp. 96-100. 50 Giampiero BOTTINO, Molto richiesti i piccoli diesel – Si scatena la sfida delle offerte, in «Il Sole 24 Ore – Economia Italiana», Milano, Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2003. 51 Giampiero BOTTINO, Iniezione diretta, scelta ecologica, in «Il Sole 24 Ore – Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2002.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
155
Nel 1998 le stime degli analisti lasciavano intendere che nel 2005 i propulsori
Diesel avrebbero raggiunto in Europa la quota del 35 per cento delle vendite
complessive e le case europee prevedevano di passare dai circa 2,8 milioni di auto
prodotte nel 1996 ai 4,3 milioni del 200452. La realtà ha superato di gran lunga le
previsioni degli esperti e ciò appare evidente analizzando l’andamento del mercato del
Diesel nell’ultimo decennio.
Tab. 4.1 Quote di mercato in Europa di autovetture Diesel per Paesi dal 1995 al 2005
Fonti: Propria elaborazione da <http://www.unrae.it/press/sintesi%202004/file%20html/pag073,1.htm>, (03.2006) e <http://www.unrae.it/press/sintesi%202004/file%20html/pag073,2.htm>, (03.2006); per i dati 2005 <http://www.acea.be/ASB20/axidownloads20s.nsf/LookupFilesForLatestUpdates/D3D0E3E056E803B2C125702F004A7D11/$File/DIESEL-PC-90-05.pdf>, (03.2006); per il dato 2005 dell’Italia <http://www.unraeservizi.com:5090/dati/bk_o/file_pdf_unrae/UnraePocket2005.pdf>, (03.2006).
Osservando al tabella 4.1 si può chiaramente notare come negli anni 1995-1997 la
quota di mercato di autovetture Diesel in Europa Occidentale è rimasta pressoché stabile
intorno a poco più del 22 per cento. Il peso percentuale sale al 24,6 nel 1998, primo
anno completo di commercializzazione del Common Rail, e al 28,4 nel 1999, segnato
dall’arrivo nelle concessionarie delle vetture con sistema iniettore-pompa. Il 35 per
cento di auto a gasolio sul totale dell’immatricolato europeo, che gli analisti
52 Claudio D’AMICO, Motori, il futuro è l’iniezione diretta, in «Il Sole 24 Ore – Rapporti Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 1998.
CAPITOLO 4
156
prevedevano di toccare nel 2005, è stato invece raggiunto e superato già nel 2001 (35,9
per cento), mentre l’anno scorso il Diesel (49,3 per cento) ha sfiorato il sorpasso sul
benzina.
Tab. 4.2 Immatricolazioni in Europa di autovetture Diesel per Paesi dal 1995 al 2004
Fig. 4.3 Quote di mercato in Europa Occ. e in Italia di autovetture Diesel dal 1995 al 2005. Fonte: Propria elaborazione da dati tabella 4.1.
Passando ad analizzare gli anni 1998 e 1999 si può notare un importante
incremento della quota Diesel in tutta Europa, questa volta principalmente attribuibile
proprio all’introduzione sul mercato delle vetture dotate dei nuovi sistemi d’iniezione
diretta (Common Rail e iniettore-pompa). Come si può ben vedere osservando la tabella
4.3, in questi anni di fine millennio la quota Diesel in Italia aumenta circa del doppio
rispetto alla media europea, probabilmente perchè “alla spinta proveniente dalle
53 Luca CAPOMACCHIA, Diesel: una strada non sempre in salita, <http://www.rivistamotor.com/diesel/diesel1.htm>, (03.2006). 54 <http://www.vegaeditrice.it/asa_press/story/autorama/story_autorama.html>, (03.2006).
CAPITOLO 4
158
innovazioni tecnologiche si sommò nel nostro paese l’effetto prolungato dell’abolizione
del superbollo”55.
Tab. 4.3 Variazioni annue delle quote di mercato di autovetture Diesel in Italia e in Europa dal 1995/96 al 2004/05 1995/96 1996/97 1997/98 1998/99 1999/00 2000/01 2001/02 2002/03 2003/04 2004/05 Totale Europa Occ. -0,3 -0,1 2,4 3,8 4,1 3,4 4,4 3,3 4,6 1,1 Italia 6,1 1,0 5,0 6,7 4,1 2,6 6,5 5,7 9,7 0,5
Fonte: Propria elaborazione da dati tabella 4.1.
L’escalation del Diesel in Italia fece sì che nel 1999 la quota di vetture a gasolio
immatricolate nella penisola (29,4 per cento) raggiungesse e anzi superasse, seppur di
poco, la media europea (28,4 per cento). Come si può apprezzare chiaramente dal
grafico in figura 4.3, da allora le quote Diesel europea e italiana proseguirono pressoché
appaiate nella loro crescita fino al 2001, anno in cui si assestarono entrambe intorno al
36 per cento del mercato. Una cosa è però evidente osservando di nuovo la tabella 4.3,
l’incremento della quota Diesel italiana nel 2000 si allinea a quello europeo (4,1) e nel
2001 è addirittura inferiore (2,6 contro 3,4) a quest’ultimo comunque in calo rispetto
all’anno precedente. Sia chiaro che sempre di incrementi si tratta, però nel 2000 e nel
2001, soprattutto in Italia, il Diesel rallenta leggermente la sua impetuosa corsa.
I perchè di questo rallentamento sono sicuramente più d’uno, ma si ritiene di poter
citare fra le cause principali il fatto che fino al 2001 (si veda la tabella 4.4) sono stati i
segmenti medio-alti del mercato automobilistico a vedere la maggior presenza di
versioni a gasolio56, mentre nei segmenti più piccoli (A e B) il Diesel era ancora un
perfetto sconosciuto57. Se si considera che nel 2001 fra le piccole di maggior successo,
modelli quali Toyota “Yaris” e Lancia “Y” non disponevano che del benzina, si può ben
intuire quale immenso bacino di riserva avesse ancora il Diesel58. Arrivare
all’applicazione della nuova tecnologia anche per le vetture dei segmenti più bassi era
l’obiettivo dei costruttori, ma i costi dei sistemi d’iniezione non lo permisero, almeno
fino al 200159.
55 Giampiero BOTTINO, Common Rail, l’escalation continua, cit. 56 Paolo MALAGODI, È senza freni l’escalation dei motori diesel, in «Il Sole 24 Ore – Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2002. 57 Marina TERPOLILLI, Modelli elettrici frenati dai costi mentre il Gpl vola nell’after-market, in «Il Sole 24 Ore – Rapporti Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2002. 58 Paolo MALAGODI, Piccoli diesel crescono e anche le city car corteggiano il gasolio, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 1° luglio 2001. 59 Claudio D’AMICO, Motori, il futuro è l’iniezione diretta, cit.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
159
Tab. 4.4 Peso percentuale delle vetture Diesel nei vari segmenti di mercato in Italia dal 1999 al 2004 1999 2000 2001 2002 2003 2004* A - Piccole - 1,3 3,8 4,1 3,6 9,5 B - Utilitarie 12,4 15,5 15,6 21,6 31,9 46,6 C - Medie 42,2 51,3 55,9 65,3 73,8 78,9 D - Medie superiori 57,9 68,1 74,3 80,6 88,5 89,8 E - Superiori 55,7 61,5 72,9 81,1 83,9 86,8
Fonti: per gli anni 1999 e 2000 Paolo MALAGODI, Piccoli diesel crescono e anche le city car corteggiano il gasolio, cit.; per gli anni 2001 e 2002 Marina TERPOLILLI, Il diesel sorpassa e continua la corsa, in «Il Sole 24 Ore – Dossier Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2003; per gli anni 2003 e 2004 (gennaio-settembre) Corrado CANALI, La marcia trionfale del gasolio, in «Il Sole 24 Ore – Economia Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2004.
Il 2001 fu segnato dall’arrivo dei primi piccoli Diesel Common Rail:
- l’1.5 dCi di Renault con sistema Common Rail (“iniezione a 1.350 bar e
accumulatore di pressione sferico”60) dell’americana Delphi61,
commercializzato inizialmente sul modello “Clio” a partire da luglio62;
- l’1.4 HDi/TDCi di PSA/Ford con sistema Common Rail (iniezione a 1.500
bar e iniettori ad azionamento piezoelettrico) della tedesca Siemens63,
commercializzato in principio sulla Peugeot “307” a partire da settembre64;
Le new entry non si limitarono a spalancare al Diesel le porte della vasta area
delle utilitarie e a scandire nuovi livelli di prestazioni, ma segnarono anche “la fine del
monopolio Bosch nei sistemi di alimentazione Common Rail”65. Formalmente però il
monopolio Bosch si era concluso già nel 1999, quando il sistema Common Rail della
giapponese Denso fece il suo debutto nel mercato europeo su vetture Toyota66. Tuttavia
la Denso, affiliata proprio di Toyota67, ha sempre avuto una forte dipendenza da
quest’ultima68 e il suo sistema Common Rail non ha mai avuto una grossa diffusione se
60 Emilio BRAMBILLA, Al volante. Ford «Focus 1.8 TDCi», in «Quattroruote», n. 546, Milano, EditorialeDomus, aprile 2001, pp. 182, 183. 61 PROVE su strada. Renault Clio 1.2 16V Privilège e 1.5 dCi Expression, in «Quattroruote», n. 549, Milano, EditorialeDomus, luglio 2001, pp. 86, 87. 62 GUIDA all’acquisto. I prezzi delle auto nuove, in «Quattroruote», n. 549, Milano, EditorialeDomus, luglio 2001, p. 338. 63 Roberto BONI, Autonotizie. L’utilitaria Ford: adesso è una gran «Fiesta», in «Quattroruote», n. 554, Milano, EditorialeDomus, dicembre 2001, pp. 180, 181. 64 GUIDA all’acquisto. I prezzi delle auto nuove, in «Quattroruote», n. 551, Milano, EditorialeDomus, settembre 2001, p. 312. 65 Valerio MONACO, Per il diesel una crescita senza freni, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2001. 66 Doug PATTON, Denso’s Current- and Next-Generation Diesel Common Rail Technology, Denso News Conference Remarks, 2003 SAE World Congress, 4 marzo 2003, p. 3. 67 Emilio BRAMBILLA, Tecnica. Diesel e «benzina» a iniezione diretta, in «Quattroruote», n. 505, Milano, EditorialeDomus, novembre 1997, p. 160. 68 DATAMONITOR, Denso Corporation. Company Profile, luglio 2005, p. 19.
CAPITOLO 4
160
si pensa che ancora nel 2004 il componentista del Sol levante deteneva solamente l’1
per cento del mercato europeo dei sistemi d’iniezione Diesel69. Si può pertanto
affermare che il monopolio Bosch nel Common Rail fu sostanzialmente infranto solo
nel 2001 dall’arrivo dei sistemi concorrenti proposti da “Delphi”70 e Siemens.
La replica di Bosch alla sfida lanciata da queste ultime non si fece attendere e
sempre nel 2001 l’azienda di Stoccarda lanciò sul mercato la seconda generazione del
proprio sistema Common Rail, con pressione di iniezione pari a 1.600 bar (si ricorda
che il Common Rail di prima generazione raggiungeva pressioni “solamente” di 1.350
bar). BMW sulla “320d” e Volvo sulla “S80” e sulla “S60”, furono le prime case
automobilistiche ad utilizzare questa tecnologia71.
Anche il 2002 si segnala per importanti debutti di nuove motorizzazioni Diesel:
- il piccolo 1.4 D-4D di Toyota con Common Rail Bosch (di seconda
generazione), commercializzato in principio sul modello “Yaris” a partire da
febbraio72;
- l’1.9 JTD 16V di Fiat Auto con Common Rail Bosch (iniezione a 1.400 bar e
tecnologia “Multijet”73 Fiat)74, commercializzato inizialmente sulle Alfa
Romeo “147” e “156” a partire da novembre75.
69 Luca CIFERRI, Magneti Marelli, Siemens VDO join forces in diesel injection, in «Automotive News Europe», Munich, Crain Communications, novembre 2004. 70 Si precisa che il debuttante sistema Common Rail Delphi equipaggiò per prima la Ford “Focus” 1.8 TDCi a partire dal giugno 2001. Emilio BRAMBILLA, Al volante. Ford «Focus 1.8 TDCi», cit., p. 182. 71 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, 100 milioni di iniettori Common Rail Bosch, Milano, 20 dicembre 2005. 72 Giampiero BOTTINO, Yaris Toyota accelera con il piccolo diesel, cit. 73 Il motore Multijet è un particolare propulsore Diesel turbocompresso ad iniezione diretta di carburante Common Rail prodotto dalla Fiat. La particolarità che ha distinto questo propulsore dai precedenti Diesel Common Rail è la combustione, più lenta e graduale a parità di gasolio bruciato all'interno del cilindro, ottenuta aumentando il numero delle iniezioni (da tre a cinque) per ogni singola combustione; rispetto ai precedenti sistemi di iniezione Common Rail, il Multijet prevede appunto l'introduzione di altri due tipi di iniezione (la Pilot e la Post), che permettono rispettivamente il controllo del motore a freddo e la rigenerazione del filtro anti-particolato. Questa evoluzione dell'iniezione diretta fa ottenere al motore un miglioramento delle prestazioni, in particolare ai bassi regimi e contemporaneamente ha permesso una diminuzione delle emissioni acustiche e inquinanti. Il tempo intercorrente tra due iniezioni successive è stato ridotto a 150 microsecondi, mentre la quantità minima di gasolio iniettato è passata da due millimetri cubi a meno di un millimetro cubo. Le iniezioni vengono gestite da una sofisticata e "intelligente" centralina in grado di cambiare continuamente la logica di iniezione sulla base di tre parametri: il numero dei giri del motore; la coppia richiesta in quel momento; la temperatura del liquido di raffreddamento. <http://it.wikipedia.org/wiki/Motore_Multijet>, (03.2006). 74 PROVE su strada. Alfa Romeo «156 1.9 JTD 16V Sportwagon», Audi «A4 1.9 TDI/130 CV Avant» e BMW «320d Touring Eletta», in «Quattroruote», n. 567, Milano, EditorialeDomus, gennaio 2003, pp. 122, 123. 75 FIAT AUTO S.p.A. – Ufficio Stampa, Protagonisti del "Porte Aperte" di novembre: Alfa 147 GTA e il 1.9 JTD 16v Multijet, Torino, 21 novembre 2002.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
161
Il 2003 vide invece il lancio al pubblico del piccolo e rivoluzionario:
- 1.3 16V Multijet (primo propulsore Diesel in regola con le normative Euro 4,
in vigore dal 2006, senza bisogno della cosiddetta “trappola per particolato”)
di Fiat-Gm76, che equipaggiò per prima la Fiat “Punto” a partire da giugno e
successivamente tutte le compatte Fiat, Lancia e Opel (quest’ultima
dell’alleata Gm)77.
Il Multijet 1.3, frutto di un’intuizione italiana maturata e messa a punto dal CRF e
dalla Magneti Marelli come evoluzione del precedente Unijet, è stato il primo vero
sviluppo comune nell’ambito di Fiat-Gm Powertrain78. Per l’1.3 Multijet, Fiat ha
rimesso in gioco Magneti Marelli. Quest’ultima è, infatti, responsabile dell’intero
sistema Common Rail che equipaggia il piccolo Diesel, fornendo direttamente la
centralina di controllo e acquistando pompa ad alta pressione e iniettori da Bosch79.
Il triennio 2001-2003 si caratterizzò dunque per il debutto di:
- nuovi propulsori a gasolio di raffinata tecnologia (Common Rail di seconda
generazione);
- seri concorrenti di Bosch nell’offerta di sistemi d’iniezione Diesel (Delphi e
Siemens su tutti);
- piccoli ed efficienti motori a gasolio (dal 1.5 dCi Renault al 1.3 Multijet Fiat-
Gm).
Tutto questo diede nuovo slancio alle immatricolazioni di vetture a gasolio in
Europa e a conferma di ciò basta guardare i dati della tabella 4.3 che evidenziano come
nel 2002 la quota Diesel sia aumentata di 4,4 punti rispetto all’anno precedente. Il dato
2003 segna poi un incremento di 3,3 punti e il 2004 addirittura di 4,6 (il massimo
aumento registrato in Europa dal 1996 al 2005). In sostanza la quota di mercato del
76 Giampiero BOTTINO, Torino scommette 400 milioni sul nuovo diesel, in «Il Sole 24 Ore - Finanza & Mercati», Milano, Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2003. 77 Giampiero BOTTINO, Parte dalla Punto la riscossa Fiat, in «Il Sole 24 Ore – Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2003. 78 Giampiero BOTTINO, Torino scommette 400 milioni sul nuovo diesel, cit. Fiat-Gm Powertrain era la joint-venture paritetica, per la produzione di motori e cambi, prevista nell’ambito dell’alleanza siglata nel marzo 2000 tra Fiat e Gm; Lorenzo PULITO, L’alleanza Fiat-Gm e la fusione Daimler-Chrysler nella prospettiva della globalizzazione dei mercati e il ruolo dell’informazione, Roma, Luiss Guido Carli, novembre 2002, pp. 2, 3. Nel febbraio 2005, sciolta consensualmente l’alleanza fra la casa italiana e quella americana, terminò anche la joint-venture per motori e cambi; Alessandro LAGO, 14 febbraio 2005, Fiat-Gm: divorzio consensuale, <http://www.omniauto.it/a830.html>, (03.2006). 79 Luca CIFERRI, In 2003, Fiat Auto will launch a revolutionary common rail 1.3-liter Multijet engine, cit.
CAPITOLO 4
162
Diesel in Europa passò dal 35,9 per cento del 2001 al 48,2 per cento del 2004 (si veda a
tal proposito la tabella 4.1).
In Italia, nel medesimo periodo, l’escalation dei motori a gasolio fu addirittura
superiore e realmente esponenziale. Infatti, il peso del Diesel nella Penisola, dopo essere
aumentato in linea con la media europea dal 1999 al 2001, nel 2002 iniziò a crescere a
un tasso nettamente superiore e di questo si può avere un’evidenza grafica osservando la
figura 4.3. Osservando i dati in tabella 4.3 si può constatare come nel 2002 la quota
Diesel in Italia sia aumentata di 6,5 punti rispetto all’anno precedente. Il dato 2003
segna poi un incremento di 5,7 punti e il 2004 addirittura di 9,7 (il massimo aumento
registrato in Italia dal 1996 al 2005). Nei fatti la quota di mercato del Diesel in Italia
passò dal 36,1 per cento del 2001 al 58 per cento del 2004 (si veda a tal proposito la
tabella 4.1).
Ci si può domandare a questo punto il perchè di una crescita così sostenuta delle
immatricolazioni di vetture Diesel in Italia rispetto alla pur elevata media europea. La
risposta è da individuare nell’ondata di piccoli e validissimi motori Diesel che ha
consentito al gasolio di far breccia nei segmenti inferiori, così importanti nel mercato
italiano e fino al 2001 abbastanza impenetrabili, proprio per mancanza di
motorizzazioni allettanti, al carburante del momento80. La “dieselizzazione” che negli
ultimi anni ha caratterizzato i segmenti inferiori del mercato automobilistico italiano è
evidente osservando, in tabella 4.4, come il peso percentuale delle vetture a gasolio nel
segmento delle Piccole (A) sia passato dal 3,8 per cento del 2001 al 9,5 per cento del
2004 (gennaio-settembre), mentre nel segmento delle Utilitarie (B) sia passato, nel
medesimo periodo, dal 15,6 al 46,6 per cento.
Proprio dai segmenti di mercato più piccoli (A e B), che oggi rappresentano
insieme il 55 per cento delle vendite in Italia, sono arrivati i numeri per il gran sorpasso
del Diesel sul benzina81, avvenuto su base mensile nel luglio 2003, col 50,4 per cento di
immatricolazioni di vetture a gasolio82, e su base annua, come visto, nel 2004 con una
quota di mercato del 58 per cento.
80 Giampiero BOTTINO, Un anno all’insegna dei sorpassi, in «Il Sole 24 Ore – Dossier Motori», Milano, Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2003. 81 Marina TERPOLILLI, In Italia piccole cilindrate protagoniste del sorpasso, in «Il Sole 24 Ore – Dossier Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2004. 82 Marina TERPOLILLI, Il diesel sorpassa e continua la corsa, cit.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
163
In pochi anni l’ex carburante dei tassisti e dei rappresentanti di commercio è
diventato un must trasversale, che ha coinvolto la piccola utilitaria come la super
ammiraglia, con digressioni anche nel campo delle vetture sportive. Una passione
perfino irrazionale: il sottile brivido del pieno “leggero” (per il portafogli) ha iniziato a
prevalere spesso sull’effettiva convenienza di un’auto che costa (la tecnologia ha il suo
prezzo) mediamente 2.000 euro in più della versione a benzina di caratteristiche
paragonabili83. In sostanza il vecchio, fumoso e rumoroso Diesel ha ceduto il posto a
motori scattanti, prestazionali, puliti, talmente chic da essere scelti anche da chi, pur di
seguire la moda, non si perde in noiosi calcoli di convenienza sulla base dei chilometri
effettivamente percorsi84. Le moderne vetture Diesel a iniezione diretta possono, infatti,
contrapporre ad un maggior costo d’acquisto un “consumo inferiore di circa il 30 per
cento rispetto alle versioni a benzina”85 e l’impiego di un carburante come il gasolio
meno costoso, almeno fino a poco tempo fa, della “super”.
Esaminando i prezzi dei carburanti dal 2002 a oggi si può constatare come questi
hanno sostanzialmente seguito la dinamica del prezzo del petrolio, ma non in maniera
uguale per tutti. Si è osservata un’impennata del prezzo del gasolio che, nonostante i
ribassi del prezzo del petrolio all’inizio del 2005, ha continuato a salire, rispetto a quello
della benzina86. Quattro i motivi che, secondo i petrolieri terrebbero alti i prezzi del
gasolio. Prima di tutto, la quotazione internazionale del prodotto finito, ancora in
tensione. In secondo luogo, l’introduzione di carburante a basso contenuto di zolfo a
partire dal 1° gennaio 2005, più pulito ma più caro, dicono i petrolieri, di 2-2,5
centesimi di euro il litro. In terzo luogo, la stagionalità dei consumi (la domanda è più
alta in inverno a causa della forte richiesta di prodotto da riscaldamento). Infine, il
crescente spostamento dei consumi dalla benzina al gasolio, una tendenza che, tra
l’altro, dovrebbe ulteriormente rafforzarsi nel futuro per effetto del drastico spostamento
della domanda verso vetture Diesel. Secondo alcuni, per giunta, la speculazione
83 Giampiero BOTTINO, Iniezione diretta, scelta ecologica, cit. 84 Giampiero BOTTINO, Auto e motori, il bello della “diretta”, in «Il Sole 24 Ore – Tecnologia & Scienze», Milano, Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2003. 85 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, 100 milioni di iniettori Common Rail Bosch, cit. 86 Claudio GALLO, 28 febbraio 2005, Quotazione del petrolio e prezzo dei carburanti: sono davvero così correlati? Parte II, <http://www.finanzacomportamentale.it/articoliclaudiogallo0002.html>, (03.2006).
CAPITOLO 4
164
finanziaria internazionale ci avrebbe messo del suo facendo lievitare i prezzi del petrolio
di un’altro 5-10 per cento87.
Questa dinamica del prezzo del gasolio rispetto alla benzina è comune a tutti i
paesi europei, anche se risulta abbastanza evidente la differenza del prezzo industriale
fra i vari paesi e la percentuale di tassazione88. In particolare, in Italia il gasolio costa
più che nel resto d’Europa (anche per la benzina il nostro Paese è ai primi posti della
classifica del caro-carburante)89. Concentrando l’attenzione sull’andamento del prezzo
dei combustibili in Italia si deve
constatare proprio il vertiginoso aumento
del prezzo del gasolio, cresciuto dal
gennaio 2004 al settembre 2005 del 35
per cento90. Il Diesel non è mai stato così
caro e così vicino al prezzo della benzina
come adesso. La differenza tra i due
carburanti si è assottigliata a circa 10
centesimi. Si tratta del valore più basso in
assoluto, attualizzando i prezzi dei due
carburanti, dal 1975 ad oggi (si veda il
grafico in figura 4.4)91. E la rincorsa alla
“super” sembra ancora ben lontana dalla
conclusione92.
Se il 2004 è stato l’anno della definitiva consacrazione del Diesel sul mercato
italiano (il peso percentuale delle vetture a gasolio sull’immatricolato totale ha
raggiunto il 58 per cento, contro il 48,3 per cento dell’anno precedente), il 2005 è stato
un anno di assestamento nella Penisola93 (la quota di mercato del Diesel è salita di solo
87 Marco DI PIETRO e Mario ROSSI, Attualità. Aumenti/1 – Carburanti. Tre domande sul gasolio, in «Quattroruote», n. 592, febbraio 2005, p. 51. 88 Claudio GALLO, Quotazione del petrolio e prezzo dei carburanti: sono davvero così correlati? Parte II, cit. 89 <http://www.altroconsumo.it/map/show/31701/src/78461.htm>, (03.2006). 90 Massimo DONADDIO, Rallentano le diesel dopo il caro gasolio, in «Il Sole 24 Ore – Economia e Lavoro», Milano, Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2005. 91 Giampiero BOTTINO, Diesel mai così caro ma resta il preferito, cit. 92 Giampiero BOTTINO, Gasolio al top, immatricolazioni in frenata, in «Il Sole 24 Ore – Affari privati, consumi e servizi», Milano, Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2005. 93 Marco DI PIETRO e Mario ROSSI, Attualità. Aumenti/1 – Carburanti. Tre domande sul gasolio, cit., p. 52.
Fig. 4.4 Prezzi in euro al litro (rivalutati) di gasolio e benzina dal 1975 al 2005*, in relazione alla quota di mercato delle auto Diesel in Italia. Fonte: Giampiero BOTTINO, Diesel mai così caro ma resta il preferito, in «Il Sole 24 Ore – Prima pagina», Milano, Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2005.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
165
mezzo punto, passando al 58,5 per cento), ma anche in Europa ( le vendite di vetture a
gasolio hanno rappresentato il 49,3 per cento del totale, 1,1 punti in più del 2004).
Gli automobilisti, italiani e non solo, si sono abituati a fare meglio i conti e a non
seguire più l’”effetto moda” del Diesel. Il prezzo del gasolio alla pompa è cresciuto nel
2004 di due volte e mezzo l’incremento fatto registrare dalla benzina. Mettendo a
confronto i costi d’esercizio dei modelli Diesel con gli omologhi a benzina, risulta che
la forbice della convenienza a favore dell’alimentazione a gasolio si è assottigliata. A
essere penalizzate nelle versioni Diesel sono le vetture più piccole, proprio quelle che
nel corso del 2004 hanno fatto segnare gli incrementi più significativi nelle vendite.
Rimarranno invece di tradizionale appannaggio delle Diesel segmenti più alti del
mercato, quelli delle monovolume e delle fuoristrada94.
Al termine di questa breve disamina del mercato del Diesel europeo e italiano
nell’ultimo decennio il dato lampante resta in ogni caso il boom senza precedenti delle
immatricolazioni di vetture a gasolio. Le quote di mercato del 49,3 per cento in Europa
e del 58,5 per cento in Italia, registrate nel 2005, in confronto rispettivamente al 22,2
per cento e al 17,7 per cento del 1997 sono dati incontrovertibili del successo riscontrato
dalle motorizzazioni Diesel a iniezione diretta.
Protagonista principale di questo successo è stata la
tedesca Bosch che, dopo aver goduto fino al 2001 di una
posizione di sostanziale monopolio, ancora “nel 2004
deteneva da sola quasi i due terzi del mercato europeo
dei sistemi d’iniezione Diesel, seguita staccatissima al
secondo posto da Siemens VDO e al terzo da Delphi,
quote abbastanza marginali infine per Magneti Marelli e
Denso (si veda a tal proposito la tabella 4.5)”95.
Nell’ultimo decennio i motori Diesel con sistema d’iniezione diretta sono stati i
protagonisti del mercato automobilistico continentale. Resta solamente da vedere chi ha
vinto la sfida tecnologica, profilatasi nella seconda metà degli anni ’90, tra Common
Rail e iniettore-pompa. I due sistemi partirono con le stesse possibilità di vittoria e,
come visto, arrivarono sul mercato a breve distanza l’uno dall’altro.
94 Marco DI PIETRO e Mario ROSSI, Attualità. Aumenti/1 – Carburanti. Tre domande sul gasolio, cit., pp. 52, 53. 95 Luca CIFERRI, Magneti Marelli, Siemens VDO join forces in diesel injection, cit.
Tab. 4.5 Quote detenute dai diversi fornitori nel mercato europeo dei sistemi d’iniezione
La supremazia è stata decretata dagli automobilisti e, col senno della storia, si può
dire che il Common Rail, la cui diffusione è ormai praticamente plebiscitaria, ha vinto e
l’iniettore-pompa, scelto sostanzialmente dal gruppo Volkswagen per alcuni dei suoi
motori, ha perso96. Si è già visto come il business del Common Rail sia attualmente
cavalcato da più aziende, allo stesso modo il sistema iniettore-pompa è prodotto non
solo dalla Bosch, ma anche da altri componentisti come la “Delphi”97 e la “Siemens
VDO”98. Nonostante ciò,
si ritiene che i dati di
vendita di Bosch, proprio
per la sua indubbia
leadership nel mercato dei
sistemi d’iniezione Diesel,
siano altamente attendibili
e rappresentativi del
rapporto di forza tra
Common Rail e iniettore-
pompa. In particolare dal
grafico in figura 4.5, si può apprezzare l’indiscusso e crescente predominio del sistema
Common Rail sull’iniettore-pompa (Unit Injector).
Se questo non bastasse, nel 2005 il gruppo Volkswagen ha annunciato che dal
2007 lo sviluppo dei propri motori Diesel verrà concentrato esclusivamente sul
Common Rail. Finirà quindi gradualmente la produzione del sistema iniettore-pompa99.
Volkswagen ha, infatti, valutato che sarebbe troppo difficile adattarlo a lavorare coi
nuovi filtri antiparticolato necessari per soddisfare le più severe norme sulle emissioni
inquinanti pianificate dall’Unione Europea100. Fino a qualche tempo fa l’Unit Injector
aveva dei vantaggi in termini di minori emissioni101, ma ora ha perso il suo margine
tecnologico nei confronti del sistema Common Rail. Le ultime versioni di quest’ultimo
96 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 190. 97 <http://delphi.com/manufacturers/auto/powertrain/diesel/inject/>, (03.2006). 98 <http://www.siemensvdo.com/products_solutions/powertrain/diesel-systems/unit-injector/unit-injector.htm>, (03.2006). 99 <http://www.autoblog.it/post/1782/volkswagen-passera-al-common-rail-entro-il-2007>, (03.2006). 100 Jens MEINERS, Volkswagen switching to common-rail diesel technology for new generation engines, in «Automotive News Europe», Munich, Crain Communications, novembre 2005. 101 <http://www.autoblog.it/post/1782/volkswagen-passera-al-common-rail-entro-il-2007>, (03.2006).
Fig. 4.5 Sistemi Common Rail e iniettore-pompa (Unit Injector) Bosch per autovetture. Fonte: <http://www.bosch.it/stampa/immagini.asp?imageToFind=common+rail&imageRecords=10>, (03.2006).
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
167
sono, infatti, più economiche da realizzare dell’iniettore-pompa. Inoltre, funzionano in
modo più silenzioso e possono gestire il ciclo d’iniezione richiesto dai filtri
antiparticolato molto meglio dei sistemi Unit Injector102. A tutto ciò si aggiunge il fatto
che i costi di sviluppo della tecnologia iniettore-pompa sono diventati insostenibili per
Volkswagen che è l’unica casa al mondo a usarla103.
Sullo sfondo dell’avventura di ricerca che ha portato al Common Rail e
all’iniettore-pompa c’è stata la corsa di due grandi gruppi europei, rispettivamente Fiat e
Volkswagen, al sistema che avrebbe rivoluzionato il Diesel. Come detto, il Common
Rail voluto da Fiat ha vinto e l’iniettore-pompa voluto da Volkswagen ha perso. È
paradossale che il contendente vittorioso si sia trovato ad attraversare la peggiore crisi
della sua storia dalla quale solo ora sta uscendo a fatica. Certo, nemmeno la Fiat è stata
capace di appendere il trofeo di caccia nel salotto di casa sua104.
4.3 UNA GRANDE OCCASIONE PERDUTA DALLA FIAT?
La cessione del Common Rail alla Bosch? Una grande occasione perduta dalla
Fiat. È questa l’opinione di fondo che traspare dalle parole dei giornalisti
dell’automobile, come Giampiero Bottino dell’autorevole quotidiano economico Il Sole
24 Ore:
“[...] il Common Rail [...] una rivoluzione il cui merito [...] viene universalmente
attribuito alla Bosch, alla quale sono stati ceduti i diritti di industrializzazione. Un
errore, anche d’immagine, che Fiat non intende ripetere [...]”105,
oppure Emilio Brambilla e Roberto Lo Vecchio della nota rivista automobilistica
Quattroruote: 102 Jens MEINERS, Volkswagen switching to common-rail diesel technology for new generation engines, cit. Sempre nell’articolo di Meiners si legge che l’iniettore-pompa non funzionerà con gli avanzati filtri antiparticolato che saranno necessari per soddisfare le più restrittive regole sulle emissioni inquinanti. I filtri antiparticolato in questione necessitano di iniezioni multifase di gasolio (pre e post-iniezioni) che l’Unit Injector non è in grado di eseguire. I sistemi Common Rail, che operano a pressione costante, sono invece più flessibili e le iniezioni possono essere compiute in qualunque momento. 103 <http://www.autoblog.it/post/1782/volkswagen-passera-al-common-rail-entro-il-2007>, (03.2006). 104 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., pp. 188, 190. 105 Giampiero BOTTINO, Torino scommette 400 milioni sul nuovo diesel, cit.
CAPITOLO 4
168
“[...] il Common Rail [...] Per l’industria italiana, però, è stata un’occasione di
vantaggio competitivo un po’ sprecata”106.
Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano le riflessioni di stimati professori come
Carlo Mario Guerci, ordinario di Economia all’Università Statale di Milano:
“Proprio Fiat [...] ha alcune tecnologie che [...] possono molto contribuire a un
nuovo vantaggio competitivo. Ovviamente non dovrà più accadere ciò che si è
verificato in passato col Common Rail, inventato a Torino e poi regalato a Bosch”107.
Dopo ricerche e studi approfonditi sull’argomento si è giunti alla personalissima
conclusione che alla base delle affermazioni di cui sopra vi possa essere una sorta di
visione “mistica” del prodotto Common Rail. Non si vuole con ciò assolutamente
negare la portata rivoluzionaria che il Common Rail ha avuto nel settore
automobilistico, ma solo affermare che esso non può essere visto come la panacea che
avrebbe potuto guarire tutti i mali della Fiat. È opinione abbastanza diffusa che chi ha
trattato la cessione del progetto Common Rail alla Bosch abbia fatto un regalo
incomprensibile. Ebbene, anziché avere il preconcetto che si sia trattata di un’ingenuità,
nell’ultima parte di questo lavoro, si cercherà di capire:
- i diversi contesti storico-aziendali nei quali, rispettivamente, presero l’avvio
gli studi finalizzati di Fiat e fu presa la decisione ultima di cedere il progetto;
- le motivazioni, più o meno ufficiali, della cessione;
- i plus e i minus derivanti alla Fiat dalla cessione;
- se e come la Fiat avrebbe potuto concludere meglio l’affare Common Rail.
4.3.1 I contesti storico-aziendali delle decisioni fondamentali
All’inizio degli anni ’80, sotto la regia di Romiti nella holding Fiat e di Ghidella
nella Fiat Auto, la priorità assoluta fu il risanamento del gruppo, uscito malconcio dal 106 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 107 Carlo M. GUERCI, Le cinque sfide per l’automobile “made in Italy”, in «Il Sole 24 Ore – In Primo Piano», Milano, Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2003.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
169
precedente decennio. Si intervenne naturalmente anche sul processo e sul prodotto.
Emblematicamente si possono ricordare il motore “Fire”, da una parte, e la “Uno”,
dall’altra, simboli del nuovo modo di produrre, altamente automatizzato e della nuova
concezione e qualità del prodotto, con elevati contenuti di tecnologia e di valore per il
cliente108. Il successo anche finanziario di Fiat culminò con la riduzione dei debiti e con
un utile consolidato di 1.682 miliardi di lire (pari a circa 869 milioni di euro) nel 1985.
Due anni dopo la quota di Fiat Auto in Europa aveva raggiunto e superato il 16 per
cento, distaccando di due punti la Volkswagen109 e nel 1989 l’utile consolidato
raggiunse il valore record di 3.658 miliardi di lire (pari a circa 1.889 milioni di euro).
Alla luce di tutto ciò si può affermare che la seconda metà degli anni ’80 rappresentò
probabilmente il miglior periodo per la Fiat di tutta la sua storia110.
Fu proprio in questo periodo che Ghidella, a capo del settore auto che aveva
assicurato rilevanti profitti al bilancio della holding, avrebbe voluto che si creasse una
sorta di Fiat Due111. Ciò che Ghidella chiedeva era una concentrazione del controllo di
tutta l’area automotive (Iveco esclusa), e in particolare delle attività della
componentistica, sotto Fiat Auto, come premio dei suoi successi e soprattutto come
strumento di integrazione dell’area automotive e ulteriore autonomia nel suo programma
di una Fiat capace di misurarsi con i grandi marchi automobilistici tedeschi112. A tal
proposito ricorda l’ingegner Iacoponi:
“Semplicemente Ghidella sapeva che per restare leader nell’industria
automobilistica occorrono grandi investimenti in ricerca e non voleva sprecare
l’occasione del grande successo che stava raccogliendo Fiat Auto investendo in attività
non Core. Magneti Marelli era Core”113.
108 Giuseppe VOLPATO, La Fiat di Gianni Agnelli: grandezza e fragilità di un grande gruppo industriale, in Fondazione ASSI (a cura di), Annali di storia dell’impresa, n. 14, Venezia, Marsilio Editori, 2003, pp. 441, 442. 109 Carlo M. GUERCI, L’auto, un mercato da riconquistare, in «Il Sole 24 Ore – In Primo Piano», Milano, Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2003. 110 Giuseppe VOLPATO, La Fiat di Gianni Agnelli: grandezza e fragilità di un grande gruppo industriale, cit., pp. 443, 445. 111 Valerio CASTRONOVO, Le ragioni di Ghidella, cit. 112 Giuseppe VOLPATO, La Fiat di Gianni Agnelli: grandezza e fragilità di un grande gruppo industriale, cit., p. 421. 113 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B.
CAPITOLO 4
170
Fu in un tal contesto, tra il 1984 e il 1985, che Ghidella, convinto del futuro
sviluppo delle motorizzazioni Diesel a iniezione diretta, autorizzò e sollecitò il progetto
Common Rail, divenendone addirittura lo “sponsor”. L’Ingegnere aveva, infatti,
intravisto non solo la possibilità di affrancarsi da Bosch (“trovando una soluzione
alternativa alla produzione, su licenza del fornitore tedesco, delle pompe per sistemi
Diesel”114), ma anche l’opportunità di un nuovo business per il gruppo Fiat e in
particolare proprio per Magneti Marelli115.
Proprio per i suoi propositi, era fatale che Ghidella entrasse in rotta di collisione
con Romiti. Giacché quest’ultimo intendeva mettere a frutto parte degli utili della
produzione automobilistica per fare della Fiat una grande conglomerata giocando su più
tavoli, ampliando la sfera delle attività e delle partecipazioni. Sta di fatto che aveva
finito per avere la meglio la concezione “gruppo-centrica” di Romiti rispetto a quella
“auto-centrica” del suo antagonista e ciò sulla base di un calcolo volto ad accrescere le
posizioni di forza e l’ascendente della Fiat sul sistema industriale italiano. È vero che,
due anni dopo l’uscita di scena di Ghidella, fu la crisi abbattutasi nel 1990 sull’industria
automobilistica di mezzo mondo a scompaginare i disegni espansionistici concepiti
dalla holding Fiat non senza l’avallo di una tesi come quella della diversificazione,
allora condivisa e giustificata da quanti, a destra e a manca, ritenevano eccessiva la
specializzazione mono-culturale della Fiat. Va detto che le imprese costruttrici europee,
avendo continuato a concentrarsi sul core business, erano riuscite a reggere meglio
l’impatto della crisi116.
Se i primi anni ’90 furono quelli della massima diversificazione di portafoglio
(rientrata in realtà prestissimo con la nomina dell’ingegner Giorgio Garuzzo a direttore
generale del gruppo con l’incarico di sovrintendere al coordinamento strategico di tutto
il settore automotive), furono anche quelli de “la festa è finita”, come disse l’Avvocato
con una frase diventata celebre. Era finita la festa della Fiat Auto, in primo luogo, ma
non soltanto117. Alcuni dati, più di tante parole, possono dare una misura della grave
crisi attraversata dalla Fiat all’inizio degli anni ’90:
114 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 115 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 116 Valerio CASTRONOVO, Le ragioni di Ghidella, cit. 117 Giuseppe VOLPATO, La Fiat di Gianni Agnelli: grandezza e fragilità di un grande gruppo industriale, cit., pp. 422, 446, 447.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
171
- il Risultato netto del Gruppo era passato da un utile di 3.658 miliardi di lire
(pari a 1.889 milioni di euro) del 1989 a una perdita di 1.726 miliardi di lire
(pari a 891 milioni di euro) del 1993. Si sottolinea che il 1993 fu il primo
anno, da quando Fiat iniziò a pubblicare il bilancio consolidato e quindi dal
1981, a segnare un risultato netto di gruppo negativo118;
- il Gruppo passò dai 2.120 miliardi di lire (pari a 1.095 milioni di euro) di
crediti netti del 1989 a un indebitamento netto di 5.247 miliardi di lire (pari a
2.710 milioni di euro) del 1993119;
- il 1993 segnò una perdita operativa dell’Auto di 1.661 miliardi di lire (pari a
858 milioni di euro), dopo i 544 miliardi di lire (pari a 281 milioni di euro)
persi l’anno prima120;
- dall’oltre 16 per cento del 1987 “la quota del mercato europeo detenuta da Fiat
Auto era scesa al 10,4 per cento del 1993”121.
Alla fine, nel corso del 1993, si era dovuti ricorrere a Mediobanca per un’ingente
ricapitalizzazione (“4.285 miliardi di lire, pari a 2.213 milioni di euro, ovvero il più
ingente aumento di capitale mai realizzato a Piazza Affari”122) e Cuccia aveva imposto,
in cambio del suo intervento risolutivo, la rinuncia di Umberto Agnelli alla successione
del fratello e una ridefinizione dell’assetto azionario attraverso un patto di sindacato
vincolante per la famiglia. Quel che avvenne sotto la regia di Mediobanca fu il
rafforzamento delle prerogative del top management. Proprio l’alta dirigenza della
capogruppo Fiat puntava soprattutto sulle innovazioni di processo e in tal modo
confidava di ridurre i costi di produzione123.
I limitati risultati reddituali di Fiat Auto si sono poi riflessi su due voci di spesa
che hanno carattere pluriennale e che come tali indicano la volontà dell’impresa di
investire nel lungo periodo. Dopo aver raggiunto il livello massimo nel 1992-93, gli
investimenti diminuirono costantemente. Questa strategia fu però condizionata anche da
scelte effettuate a livello di gruppo, in base alle quali furono destinate risorse per
obiettivi alternativi all’auto: in effetti, se nel 1993 gli investimenti di Fiat Auto
118 Ibidem, pp. 440, 445, 446. 119 Ibidem, p. 446. 120 Ibidem, p. 449. 121 Ibidem, p. 449. 122 Ibidem, p. 428. 123 Valerio CASTRONOVO, Le ragioni di Ghidella, cit.
CAPITOLO 4
172
rappresentavano il 76 per cento del totale del gruppo Fiat, nel 2001 la quota era scesa a
poco meno del 38 per cento. Andamento analogo presentò la quota degli investimenti in
R&S sul fatturato che toccò il massimo nel 1991, con quasi il 5 per cento, per poi
scendere fino ad appena il 2 per cento nel 1997 e risalire negli ultimi anni124.
A tutto ciò si aggiunse il fatto che all’inizio degli anni ’90 alla Fiat stava
prendendo piede la politica di acquistare la maggior parte non solo dei componenti, ma
anche dei sistemi integrati da fornitori terzi (logica buy) piuttosto che realizzarli
internamente (logica make)125. Va detto che questa è stata una tendenza generalizzata e
diffusa anche tra le altre grandi case automobilistiche, tanto è vero che negli ultimi anni
la percentuale di componenti realizzati per auto dal fornitore ha superato in media il 40
per cento126.
In sostanza la situazione nella quale, nel 1993, fu presa la decisione definitiva di
cedere il Common Rail era la seguente:
- Ghidella, il fautore del progetto iniezione diretta Diesel, aveva da tempo
abbandonato la Fiat. La concezione “auto-centrica” dell’Ingegnere era uscita
sconfitta dallo scontro con quella “gruppo-centrica” di Romiti;
- all’inizio degli anni ’90 si era abbattuta una grave crisi sull’industria
automobilistica di mezzo mondo che la Fiat accusò in modo particolare in
quanto, a differenza delle principali imprese costruttrici europee, non si era
concentrata sul proprio core business, ma aveva dato avvio, in ossequio alla
concezione “gruppo-centrica” romitiana, a una politica di diversificazione
delle attività;
- “la festa è finita”; dopo i meravigliosi anni ’80, per il gruppo Fiat e per l’Auto
in particolare ricominciarono anni difficilissimi e il 1993 segnò per entrambi
una perdita netta che si avvicinò pericolosamente ai 2.000 miliardi di lire. La
quota del mercato europeo detenuta da Fiat Auto si era ridotta dal 16 per cento
del 1987 al 10 per cento del 1993;
- nel settembre 1993, sotto la regia di Mediobanca, fu varata una maxi-
ricapitalizzazione da quasi 4.500 miliardi di lire, in seguito alla quale il potere
124 Aldo ENRIETTI e Renato LANZETTI, Fiat Auto: le ragioni della crisi e gli effetti a livello locale, Università di Torino, dicembre 2002, p. 4. 125 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 126 Cristiano INVERNI, Le alleanze rafforzano i giganti, in «Il Sole 24 Ore – Rapporti Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2000.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
173
della famiglia Agnelli sulla società venne significativamente ridotto in favore
delle prerogative del top management;
- dopo aver raggiunto il livello massimo nel 1992-93, gli investimenti nell’Auto
diminuirono costantemente, evidenziando così la mancanza di volontà
dell’impresa di investire nel lungo periodo;
- stava prendendo piede, non solo alla Fiat, la politica di acquistare la maggior
parte dei componenti e dei sistemi integrati da fornitori terzi (logica buy).
4.3.2 Le motivazioni della cessione
Dopo il sintetico quadro delle situazioni, davvero agli antipodi, in cui furono prese
le decisioni fondamentali sul Common Rail, si passa ora a considerare le motivazioni
concrete della cessione. Come scritto in una precedente parte di questo lavoro, nel 1993
alla Fiat fu disposto uno studio di fattibilità industriale sul progetto Common Rail che
parlava di un investimento iniziale di circa 150 miliardi di lire (pari a 77,5 milioni di
euro) per partire con le prime linee di produzione. A questo punto, ricorda il dottor
Rinolfi:
“Sul tavolo ci furono tre diverse opzioni, anzi, di fatto due, poiché la terza, che io
sostenevo, non fu presa in considerazione. La prima idea era di fare tutto in casa:
ambiziosa, ma forse anche un po’ velleitaria. L’altra, che fu vincente, era di cedere
tutto a chi avesse più esperienza in quel settore. Io sostenevo una via intermedia:
facciamo un accordo con un grosso componentista per la parte idraulica, gli iniettori, e
teniamoci l’elettronica. Così difendiamo la tecnologia dai concorrenti, almeno per
qualche anno”127.
L’opzione di industrializzare il Common Rail all’interno del Gruppo, affidando il
compito alla Magneti Marelli fu scartata per vari motivi. Innanzitutto i vertici societari
valutarono che un investimento da 150 miliardi per industrializzare il sistema non
sarebbe stato recuperato che a lungo termine128. Iniziava a diffondersi alla Fiat
127 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 128 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C.
CAPITOLO 4
174
l’ossessione di ridurre il capitale investito, per ottenere un buon ROI (“redditività del
capitale investito, dato dal rapporto tra reddito operativo e totale degli impieghi”129),
nonostante un ROS (“redditività delle vendite, dato dal rapporto tra reddito operativo e
ricavi di vendita”130) debole. Infatti, una strategia di aumento dell’outsourcing permette
di ridurre investimenti diretti e costi fissi, mentre innovazione interna significa più alti
investimenti e più alti costi fissi131.
A questo si aggiunge il fatto che all’inizio degli anni ’90 la stessa Magneti Marelli
incominciò a dubitare della propria capacità di gestire il nuovo business (per l’elevata
criticità tecnologica della realizzazione degli iniettori), ma anche della redditività dello
stesso132. Per quanto riguarda il primo “dubbio” di Magneti Marelli, si chiarisce qui che
lo sviluppo del Common Rail vide coinvolte, in ordine di importanza, quattro diverse
professionalità: motoristi, sviluppo dell’iniettore, elettronici e per ultima produzione
dell’iniettore. L’ordine di importanza per la capacità di passare dai prototipi alla
produzione sarebbe invece stato: produzione dell’iniettore, sviluppo dell’iniettore,
motoristi ed elettronici133.
Il fatto lampante è che alla Fiat fu sottovalutata l’attività finalizzata alla
produzione dell’iniettore e ciò è confermato dal fatto che “al momento della cessione
del progetto alla Bosch, nel 1994, soprattutto l’iniettore non era assolutamente pronto
alla produzione”134. Gli scarti di produzione sarebbero stati elevatissimi, nell’ordine
dell’80 per cento135. Alla luce di ciò si giudicò che Magneti Marelli non avesse le
competenze adatte per avere successo in una tecnologia di questo genere e si valutò che
il rischio tecnico-economico fosse troppo elevato136. In effetti, Magneti Marelli non
sarebbe stata probabilmente capace di industrializzare nel breve periodo un prodotto
nuovo e altamente sofisticato come il nuovo iniettore137.
Si passa così secondo “dubbio” di Magneti Marelli, ossia la redditività del
business del Common Rail. All’interno del gruppo Fiat non c’era una specifica
129 <http://www.tecnicocavour-vc.it/RAVA_an-b_INDICI.htm>, (03.2006). 130 Ibidem. 131 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 132 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 133 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 7 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 134 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 135 Fonte riservata 1. 136 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 137 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
175
competenza nell’industrializzazione di sistemi d’iniezione Diesel138 (“la produzione
all’Altecna di Bari avveniva su licenza proprio di Bosch”139). A questo si aggiunge il
fatto che Magneti Marelli avrebbe dovuto andare a combattere un gigante della
componentistica come Bosch proprio nel suo settore d’elezione140. Per dare un’idea dei
rapporti di forze in campo basti sapere che “nel 1993 Magneti Marelli dichiarò un
fatturato di 5.162 miliardi di lire (pari a 2.666 milioni di euro)”141, contro i “32.469
milioni di marchi tedeschi (pari a 16.601 milioni di euro) dichiarati dalla Bosch”142.
In sostanza i manager della Magneti Marelli ritennero che il business della
produzione del Common Rail fosse meno conveniente di un complesso di alte soluzioni
(delle quali il Common Rail era solo una parte e “a titolo di curiosità si ricorda che solo
qualche anno dopo Magneti Marelli avrebbe acquistato la divisione illuminazione della
Bosch”143) ritenute globalmente più vantaggiose. Fu una scelta industriale144.
Nonostante ciò Fiat Auto rimaneva molto interessata a produrre vetture con
Common Rail della migliore qualità possibile e a costi competitivi, indipendentemente
da chi fosse stato il fornitore del sistema d’iniezione stesso145. Al contrario di quanto si
apprende da più fonti e cioè che la Casa torinese non credette subito nel Common Rail,
“tutti alla Fiat erano certi della validità del sistema”146. Più realisticamente erano tutti i
tecnici ad essere sicuri delle potenzialità del Common Rail, come traspare dalle parole
dello stesso ingegner Iacoponi:
“Per quanto in quel periodo io fossi all’Alfa Romeo, ricordo bene con quanta
attenzione i motoristi Fiat e Alfa seguivano gli sviluppi [del Common Rail]”147.
È opinione personale che anche il progetto Common Rail risentì dello “stile
autocratico e autoreferenziale che caratterizzò la gestione dell’allora amministratore
138 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 28 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 139 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 140 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 141 FIAT S.p.A., Bilancio consolidato 1994, Torino, giugno 1995, p. 35. 142 ROBERT BOSCH GmbH, Annual Report 1994, Stuttgart, 1995, p. 2. 143 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 28 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 144 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 145 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 146 Ibidem. Si veda Appendice B. 147 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B.
CAPITOLO 4
176
delegato di Fiat Auto, Paolo Cantarella”148. L’effetto più destabilizzante della totale
assenza di una sana dialettica manageriale, basata su un gioco incrociato di interazioni
di tipo top-down e bottom-up, era rappresentato dalla situazione di totale insicurezza
sulle linee da seguire nello sviluppo prodotto in quanto tutto, e in ogni momento, poteva
essere rimesso in discussione dal top management149. Si ritiene in sostanza che alla
piena convinzione nel progetto Common Rail da parte dei tecnici Fiat non corrispose
quella del top management che anzi ne sottovalutò probabilmente la portata
rivoluzionaria. “Non vorrete mica dire che siamo stati più bravi dei tedeschi” si sentì
dire il team di Rinolfi150.
Fu così che, data la scelta di Magneti Marelli di non impegnarsi nella
industrializzazione del sistema e la concomitante volontà di Fiat Auto di utilizzarlo
comunque sulle proprie vetture, fu assunta la decisione di cedere a Bosch l’intero
progetto Common Rail per l’industrializzazione. “Questa decisione, come d’altronde
tutte le scelte strategiche, fu presa centralmente a Torino”151 e verosimilmente, proprio a
causa della difficoltà che in azienda si sviluppasse una corretta dialettica di idee tra
canale top-down e bottom-up, senza prendere nemmeno in considerazione le opinioni di
tecnici come Rinolfi, le quali, col senno della storia, non si sono rivelate così
insignificanti.
Nonostante la grande riservatezza che vige a Torino sull’argomento, si ha buona
ragione di credere, come già scritto, che per parte di Fiat le firme sul contratto di
cessione siano state poste dall’allora direttore generale e “numero tre” del Gruppo,
ingegner Garuzzo e dall’amministratore delegato e direttore generale del CRF, ingegner
Michellone. Questo per quanto riguarda le firme sul contratto, ma chi prese la decisione
ultima sulla cessione del progetto Common Rail? Anche qui la riservatezza in Fiat la fa
da padrona, ma, dopo aver svolto approfondite ricerche e incrociato varie fonti, si ritiene
che con ogni probabilità la scelta finale sia stata presa congiuntamente “da colui che
148 Giuseppe VOLPATO, La Fiat di Gianni Agnelli: grandezza e fragilità di un grande gruppo industriale, cit., p. 430. 149 Ibidem, p. 431. 150 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 151 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
177
sovrintendeva all’intero settore autoveicolistico Fiat e cioè Garuzzo”152 e
“dall’amministratore delegato di Fiat Auto, Cantarella”153.
4.3.3 I plus e i minus della cessione
Nell’aprile 1994 fu firmata la cessione del progetto Common Rail alla Bosch, dai
più considerato un errore gravissimo commesso da Fiat. Questa posizione può essere
più o meno condivisibile, ma, prima di lanciarsi in facili giudizi, si ritiene corretto
considerare sia i plus che i minus derivanti alla Fiat dalla cessione. Ovviamente non si
pretende qui di fornire un elenco esaustivo di tutti gli aspetti positivi e negativi connessi
all’operazione, ma si cercherà comunque di dare un quadro il più possibile completo.
La cessione del progetto Common Rail è stata un’operazione opportuna perchè:
- Magneti Marelli non era probabilmente capace di realizzare nel breve periodo
l’industrializzazione del nuovo e sofisticatissimo iniettore154. Se anche vi fosse
riuscita e pur “offrendo a tutti i car maker il suo sistema”155, quest’ultimo
avrebbe avuto un più alto prezzo unitario (anche per Fiat Auto) a causa delle
minori economie di scala realizzabili dalla Magneti Marelli rispetto a colossi
della componentistica come Bosch, Delphi e Siemens156. Inoltre Magneti
Marelli, producendo gli iniettori Common Rail (gli altri componenti non sono
strategici), sarebbe entrata in business molto competitivo e rischioso in quanto
molti stavano lavorando sulla iniezione Diesel ad alta pressione (per esempio
Volkswagen-Bosch con l’iniettore-pompa), i brevetti erano stati pubblicati e i
competitor potevano iniziare ad aggirarli e inoltre, subito dopo l’uscita sul
mercato di un sistema Common Rail Fiat, il know-how poteva essere
conosciuto da tutti. Bisogna poi considerare quanto tempo Magneti Marelli
sarebbe rimasta sola sul mercato prima di entrare in competizione coi giganti
del business Diesel. Forse abbastanza per consolidarsi e sopravvivere o forse
no157;
152 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 153 Emilio BRAMBILLA e Roberto LO VECCHIO, Common Rail – Una storia italiana, cit., p. 191. 154 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 155 Ibidem. Si veda Appendice B. 156 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 157 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 28 febbraio 2006. Si veda Appendice B.
CAPITOLO 4
178
- realisticamente Fiat concluse l’accordo con prezzi definiti da una posizione di
forza nei confronti di un fornitore leader di sistemi d’iniezione, affidabile e
competente come Bosch158. Quest’ultima, inoltre, non avrebbe mai compiuto il
passo verso il Common Rail senza l’esplicita richiesta di Mercedes-Benz159.
Nel valutare l’impatto commerciale del Common Rail si dovrebbe anche
considerare quanto questo business sia stato aggiuntivo e quanto sostitutivo di
altri prodotti. Bosch vende un numero impressionante di impianti Common
Rail, ma quanti impianti d’iniezione a benzina vende in meno perchè sostituiti
dal nuovo sistema (a titolo indicativo si fa presente che “in Europa nel 2004,
rispetto al 1997, sono state vendute circa 4 milioni di vetture Diesel in più, ma
2,9 milioni di auto a benzina in meno”160)? Quante pompe rotative Diesel
vende in meno perchè sostituite sempre dal Common Rail? Quanto è divenuto
più rischioso il mercato dei sistemi d’iniezione Diesel, dal momento che su di
una nuova tecnologia molti concorrenti possono apportare innovazioni?
Quanto Bosch ha aperto ad altri fornitori un business (centraline elettroniche,
pompe ecc.) che prima era integralmente suo? In quest’ottica, l’acquisizione
del Common Rail potrebbe addirittura configurarsi come una mossa difensiva
attuata dalla stessa Bosch, quasi di malavoglia161;
- il fatto che il sistema Common Rail sia stato prodotto da Bosch ha
rappresentato per Fiat Auto un vantaggio in termini di affidabilità dei tempi di
produzione e di iniziale qualità del prodotto, data l’inesperienza di Magneti
Marelli nell’industrializzazione di sistemi d’iniezione Diesel162.
- Bosch, come tutti gli altri componentisti, fornisce il sistema d’iniezione e
un’assistenza all’applicazione, ma il vero lavoro di realizzazione del motore
viene svolto dalle diverse case automobilistiche. Nonostante la cessione del
progetto, Fiat Auto ha mantenuto una maggiore competenza rispetto ai
concorrenti nell’applicazione del Common Rail ai propri motori163. Ne sono
prova i propulsori 1.9 Multijet, che nel 2004 ha raggiunto il benchmark di 158 Ibidem. Si veda Appendice B. 159 Francesco Paolo AUSIELLO, intervista. Si veda Appendice A. 160 Propria elaborazione da <http://www.unrae.it/press/sintesi%202004/file%20html/pag073,1.htm>, (03.2006) e da <http://www.unrae.it/press/sintesi%202004/file%20html/pag073,2.htm>, (03.2006). 161 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 28 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 162 Ibidem. Si veda Appendice B. 163 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
179
riferimento europeo sui propulsori a gasolio di cubatura inferiore ai due litri164,
e 1.3 Multijet che nel 2005 ha vinto il premio “International Engine of the
Year” nella categoria da 1 a 1,4 litri165.
- quando Bosch comperò il sistema, questo non era assolutamente pronto alla
produzione. Gli scarti di produzione, come già ricordato, sarebbero stati molto
alti. L’azienda tedesca svolse un intensissimo lavoro sulle linee di produzione
finalizzato a mettere a punto il sistema in maniera che potesse essere prodotto
senza grossi scarti166. Nonostante ciò lo scarto di prima produzione (FTQ) fu
nell’ordine del 30 per cento167. Per dare un’idea dell’imponente sforzo profuso
da Bosch, si ricorda nuovamente che negli stabilimenti di Bamberg, dove
avviene la produzione di iniettori Common Rail, i piani di investimento per la
ricerca ammontarono a 107 milioni di euro nel 1998, 123 milioni nel 1999 e
77 milioni nel 2000168.
- Fiat incassò da Bosch circa 100 miliardi di lire (circa 50 milioni di euro)169,
chiese e ottenne di essere la prima a offrire il nuovo sistema d’iniezione su
vettura (Alfa Romeo 156 JTD, 1997)170 e soprattutto si assicurò uno sconto
importante sui componenti Common Rail fino al 2002. Per rendersi conto
dell’entità di questo sconto si sappia che nel 1999 Bosch vendeva a Fiat un
iniettore Common Rail al prezzo di circa 140 marchi tedeschi (72 euro),
mentre per tutti gli altri car maker il prezzo si aggirava sui 210 marchi (107
euro)171. Basta un rapido calcolo per capire che si trattava di uno sconto del 33
per cento circa.
La cessione del Common Rail è invece stata per Fiat un’operazione sconveniente
perchè:
164 Mario CIANFLONE, Fiat-Gm, una partita tra put e diesel, in «Il Sole 24 Ore – Auto», Milano, Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2004. 165 <http://www.ukintpress.com/engineoftheyear/winners/1_14.html>, (03.2006). 166 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 167 <http://www.genco.org/>, (03.2006). 168 Valerio MONACO, Common rail sempre più di qualità, cit. 169 Ferruccio TONELLO, dirigente Fiat Powertrain Technologies, intervista realizzata personalmente, Torino, 17 novembre 2005. Si veda Appendice D. 170 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 171 Fonte riservata 1.
CAPITOLO 4
180
- la casa automobilistica torinese ha sprecato una buona occasione di
comunicazione delle sue capacità tecniche172, non ottimizzando i benefici
d’immagine e di mercato173 di un prodotto rivoluzionario, il cui merito,
fors’anche per un eccesso di pudore molto piemontese, viene universalmente
attribuito alla Bosch174;
- Fiat Auto ha subito il chiaro svantaggio di avere concorrenti che hanno offerto
il sistema Common Rail sulle proprie vetture molto prima (effettivamente
Mercedes-Benz è arrivata quasi contemporaneamente)175. A tal proposito
bisogna però chiarire che i fornitori di componentistica, e Magneti Marelli fra
questi, vogliono e devono vendere i loro prodotti al maggior numero di
clienti176. Se il Common Rail fosse stato prodotto da Magneti Marelli, sarebbe
stato offerto da subito (o quasi) non solo a Fiat Auto, ma anche agli altri car
maker e a livello di gruppo sarebbe forse stato un business aggiuntivo177.
Affermare allora che Fiat Auto abbia perso l’opportunità di essere l’unico
produttore di vetture Common Rail è davvero ingenuo. Se Magneti Marelli
avesse deciso di investire centinaia di miliardi di lire nell’industrializzazione
del Common Rail, non avrebbe potuto sicuramente permettersi di limitare
l’offerta alla sola Fiat Auto, ma avrebbe dovuto cercare di massimizzare il suo
investimento proponendo il sistema a tutti i car maker;
- Bosch ha fatto del Common Rail non solo uno dei suoi fiori all’occhiello, uno
dei pilastri su cui basare la propria premiership in molti comparti della
tecnologia automotive, ma anche una smisurata fonte di reddito178. Bosch è
oggi, con i suoi sistemi Common Rail, fornitore di sistemi d’iniezione Diesel
di tutte le Case automobilistiche ed è di gran lunga il maggior produttore al
mondo e leader per quanto riguarda la tecnologia179, avendo tra l’altro protetto
tutti i componenti dell’originale progetto Fiat con una serie molto completa di
172 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 173 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 174 Giampiero BOTTINO, Torino scommette 400 milioni sul nuovo diesel, cit. 175 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit. 176 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 14 dicembre 2005. Si veda Appendice B. 177 Stefano IACOPONI, e-mail ricevuta, 23 febbraio 2006. Si veda Appendice B. 178 Giampiero BOTTINO, Auto e motori, il bello della “diretta”, cit. 179 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, Più rapido, più piccolo, getto più polverizzato: Common Rail della 3.a generazione di Bosch, Milano, 14 novembre 2003.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
181
brevetti ombrello difficilmente aggirabile da parte dei concorrenti180. Da fonte
non ufficiale si è appreso che attualmente il 30 per cento circa del fatturato
della Bosch (“42 miliardi di euro nel 2005”181) proverrebbe dalla vendita di
sistemi Common Rail182. Se nel 1998 i sistemi d’iniezione forniti da Bosch
erano a quota 200.000, nel 1999 la produzione annuale superò già la soglia del
primo milione di pezzi e nel 2000 raggiunse i due milioni di unità. Nel 2001, i
sistemi Common Rail prodotti da Bosch arrivarono alla rispettabile cifra di
oltre tre milioni183. Nel 2002 Bosch fornì in tutto il mondo circa 9,5 milioni di
sistemi di iniezione Diesel. L’iniezione ad accumulo Common Rail vi
partecipò con oltre 4 milioni di pezzi, quindi, con una quota di circa il 42 per
cento, le pompe d’iniezione immerse (iniettore-pompa UIS e sistema iniettore-
tubazione-pompa UPS) con il 15 per cento, mentre pompe in linea e di
distribuzione raggiunsero il 43 per cento delle forniture. Entro il 2006 si
prevede che la quota di queste ultime si ridurrà al 19 per cento, mentre la
quota del Common Rail raggiungerà il 65 per cento e quella dell’UIS/UPS
arriverà al 16 per cento184. Nel 2005 è stata raggiunta quota 100 milioni di
iniettori Common Rail prodotti da Bosch nel mondo, a conferma del successo
della multinazionale tedesca nel campo della tecnologia Diesel. Introdotto per
la prima volta nel 1997, il sistema Common Rail è stato montato sui motori a
gasolio di 23 milioni di autoveicoli. Solo nel 2005 sono stati prodotti circa 26
milioni di iniettori nei sette stabilimenti Bosch dislocati in tutto il mondo185.
Ovviamente anche allo stabilimento Tecnologie Diesel Italia di Bari-Modugno
la produzione del Common Rail ha registrato risultati da record186. Questi sono
stati possibili grazie agli ingenti investimenti realizzati a Bari dalla Bosch, che
ha fatto ampiamente ricorso agli incentivi della legge n. 488 del 1992187. Nel
180 <http://www.genco.org/>, (03.2006). 181 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, Dati preliminari 2005: Bosch incrementa fatturato e utili, Milano, 10 febbraio 2006. 182 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C. 183 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, Common Rail Bosch a quota 10 milioni di pezzi, Milano, 14 novembre 2002. 184 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, Il diesel “ sfonda “ in Italia, Milano, 26 novembre 2003. 185 ROBERT BOSCH S.p.A. – Ufficio Stampa, 100 milioni di iniettori Common Rail Bosch, cit. 186 Vincenzo RUTIGLIANO, Bari, al lavoro ma solo nei weekend, in «Il Sole 24 Ore – Lavoro & Carriere», Milano, Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2001. 187 Barbara FIAMMERI, Patti, investimenti per mille miliardi, in «Il Sole 24 Ore – Rapporti Puglia», Milano, Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2000.
CAPITOLO 4
182
2001 le pompe prodotte, e destinate alle più grosse case automobilistiche
europee e non raggiunsero quota 1.680.000 (8.000 al giorno rispetto alle 500
del 1998) con un fatturato interno (tutta la produzione è ceduta alla casa
madre) di 275 milioni di euro rispetto ai 170 milioni di euro dell’anno
precedente188.
4.3.4 Si poteva far meglio?
Un insieme di plus e di minus è derivato alla Fiat dalla cessione del progetto
Common Rail. Un insieme complessivamente positivo o negativo? I più, come visto,
sono convinti dell’estrema negatività, per l’industria automobilistica italiana, della
cessione del Common Rail. Si ribadisce qui la personalissima opinione che molti anche
stimati giornalisti ed esperti del settore siano pervenuti a pesanti verdetti sull’operato
del management Fiat, senza possedere i necessari elementi di giudizio. Elementi di
giudizio che forse nessuno avrà mai e tanto meno un semplice studente universitario
come chi scrive.
Ritenendo quindi di non possedere la totalità degli elementi informativi né la
necessaria esperienza per avventurarsi in giudizi sulla complessiva positività o
negatività per Fiat dell’affare Common Rail, si crede comunque di poter affermare che
quest’ultimo avrebbe potuto essere portato a termine da Torino in modo migliore.
Con la consapevolezza che la storia non si fa coi “se”, che i contratti non si
stipulano da soli e soprattutto degli inevitabili limiti di chi scrive, si ipotizzeranno qui
tre diverse modalità con le quali l’affare Common Rail avrebbe potuto essere gestito in
maniera più conveniente da Fiat. Si tratta di tre modalità molto differenti l’una dall’altra
che avrebbero implicato un crescente grado di partecipazione del gruppo Fiat al
business del Common Rail.
Modalità 1 – Concedere in licenza i brevetti Common Rail. Come ormai più che
noto, nell’aprile 1994 fu firmata la cessione dei brevetti Common Rail alla Bosch. Non
ci si sente di condannare quest’operazione, se incastonata nel momento in cui fu
conclusa, ma col senno della storia non si può ignorare una certa “miopia strategica
188 Vincenzo RUTIGLIANO, Bari, al lavoro ma solo nei weekend, cit.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
183
della Fiat”189. Probabilmente il top management di Torino sottovalutò la portata
rivoluzionaria che il Common Rail avrebbe avuto negli anni successivi, preferendo non
entrare nel relativo business. Questa decisione di non impegnarsi nel gioco della
concorrenza, se da un lato ha permesso a Fiat di scansare i rischi che caratterizzano
quest’ultima per definizione, dall’altro le ha precluso la possibilità di partecipare al
successo commerciale del Common Rail Bosch. È vero che Fiat Auto godette fino al
2002 di un rilevante sconto, applicatole dalla Bosch, sui componenti del sistema
Common Rail, ma è altrettanto vero che concedendo i relativi brevetti in licenza, anche
esclusiva, anziché cedendoli, la casa torinese avrebbe potuto contare su royalties da
calcolarsi sugli stratosferici dati di vendita dell’apparato prodotto e commercializzato
dal fornitore tedesco. A tal riguardo afferma l’ingegner Tonello di Fiat Powertrain
Technologies:
“Non fu messa in atto nessuna royalties per vendita ad altri costruttori e questo
sicuramente poteva essere un miglioramento del contratto stipulato con chi comprò il
sistema”190.
Modalità 2 – “Teniamoci l’elettronica”. Come ampiamente appurato, il vero
elemento critico e al contempo strategico dell’intero sistema Common Rail era ed è
l’iniettore. Era proprio l’industrializzazione di questo componente che Magneti Marelli
non sarebbe probabilmente stata in grado di realizzare, data la sua limitata esperienza
nel campo dei sistemi d’iniezione Diesel. Per quanto riguarda la centralina elettronica le
problematiche tecniche erano minori e verosimilmente la sua industrializzazione poteva
essere portata a termine con successo dalla Magneti Marelli. Questa convinzione è
supportata dal fatto che, come già ricordato, al momento di decidere cosa fare del
Common Rail, il dottor Rinolfi propose di stringere un accordo con un grosso
componentista per la parte idraulica, gli iniettori, e di tenersi l’elettronica. Così si
sarebbe difesa la tecnologia dai concorrenti, almeno per qualche anno. L’opzione
strategica di Rinolfi non fu nemmeno presa in considerazione dai vertici aziendali.
A conferma però della grande validità dell’inascoltata proposta di Rinolfi è giunta,
dopo circa dieci anni, la commercializzazione del sistema Multijet. “Quest’ultimo è 189 Mario CIANFLONE, Fiat-Gm, una partita tra put e diesel, cit. 190 Ferruccio TONELLO, intervista. Si veda Appendice D.
CAPITOLO 4
184
stato sviluppato al CRF a partire dalla seconda metà del 1997”191 e commercializzato,
come noto, nel 2002 sul motore 1.9 (e successivamente 2.4) e nel 2003 sul piccolo
Diesel 1.3.
Il Multijet, evoluzione del precedente Unijet, si basa su un’innovativa logica di
funzionamento che ha richiesto una centralina più veloce e la modifica dell’iniettore,
per renderlo ancora più rapido192. Tutti i relativi brevetti sono stati tenuti per sé da Fiat,
la quale per il Multijet ha cambiato il suo approccio coi fornitori di sistemi Common
Rail. Per i motori 1.9 e 2.4 Multijet, Fiat ha scelto ancora Bosch come fornitore
dell’intero sistema Common Rail. Per l’1.3 Multijet, la centralina elettronica di
controllo motore è invece fornita dalla Magneti Marelli. La Magneti Marelli compra da
Bosch la pompa ad alta pressione e gli iniettori, fornendo poi il sistema completo193. Il
fatto che Magneti Marelli sia responsabile dell’intero sistema d’iniezione del piccolo 1.3
Multijet, producendo direttamente la centralina e acquistando i componenti idraulici
dalla Bosch, non sembra altro che la tardiva realizzazione dell’opzione strategica
proposta da Rinolfi già per la prima generazione del Common Rail.
Proprio l’1.3 Multijet e con esso la possibilità di entrare nel mercato dei piccoli
Diesel con qualcosa che nessun altro all'epoca aveva, fu “galeotto” nell’alleanza tra Fiat
e General Motors: da una parte i rappresentanti del colosso americano, alle prese con la
necessità di seguire la crescita del Diesel nel settore delle piccole vetture e con in mano
un 1.7 acquistato da un'azienda esterna (la giapponese Isuzu), dall'altra i tecnici di
Torino con in mano un'idea vincente, ma senza i soldi per portarla avanti per conto loro.
La vita del 1.3 Multijet è cominciata così, con un matrimonio di interesse, ma la sua
storia ha preso le mosse molto tempo prima. Si può immaginare che per i motoristi Fiat
la progettazione di questo "motorino" Diesel tutto nuovo sia stata vissuta anche come
una piccola rivalsa, o comunque un'opportunità di recuperare quella leadership nei
sistemi di alimentazione che era nata con il sistema Unijet e poi affidata ad altri. Infatti,
nel frattempo, i padri dell'Unijet erano arrivati ad un ulteriore sviluppo del brevetto194.
191 Ibidem. Si veda Appendice D. 192 PROVE su strada. Alfa Romeo «156 1.9 JTD 16V Sportwagon», Audi «A4 1.9 TDI/130 CV Avant» e BMW «320d Touring Eletta», cit, p. 123. 193 CIFERRI Luca, In 2003, Fiat Auto will launch a revolutionary common rail 1.3-liter Multijet engine, cit. 194 Daniele P.M. PELLEGRINI, FiatGM: che colpo quel Multijet, in «La Repubblica – Supplemento Auto», Roma, Gruppo Editoriale L'Espresso, 17 marzo 2004, p. 9.
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
185
Nel corso dei colloqui prima e delle trattative poi fra Fiat e Gm, il motore 1.3
Multijet divenne subito un elemento particolarmente interessante, perché il gruppo
americano non aveva a disposizione una risposta adeguata alla prevista esplosione della
motorizzazione a gasolio anche fra le utilitarie. In pratica un "dieselino" faceva comodo
a tutti, tanto da diventare uno degli elementi forti della volontà di Gm di stipulare
un'alleanza. Infatti, il suo conferimento nella società comune Fiat-Gm Powertrain è stato
valutato economicamente molto bene, a vantaggio della Fiat. Un ottimo affare quindi?
Come è ovvio ci sono opinioni diverse: c'è chi ringrazia, perché proprio la creazione di
Powertrain ha permesso di completare lo sviluppo e l'industrializzazione del Multijet nel
migliore dei modi, ma c'è anche chi obietta che, facendosi tutto in casa, la Fiat avrebbe
potuto godere completamente di questo vantaggio e diventare in proprio un fornitore di
motori, come altri stanno facendo con successo195. Si ritiene che la seconda delle due
opinioni sopra riportate sia parimenti ingenua a quella di chi ha sostenuto che Fiat Auto
avrebbe potuto essere l’unico costruttore di vetture Common Rail.
Chi ha compiuto l’affermazione in questione forse non sa (o ha fatto finta di non
sapere) che, anche se nel 1999 già giravano su strada parecchie Fiat “Punto”
equipaggiate coi prototipi del piccolo Multijet, Fiat non avrebbe mai potuto produrre da
sola questo motore. Anzi, prima dell’alleanza con Gm, la casa torinese stava
concretamente valutando l’ipotesi di non investire per produrre l’1.3 Multijet e di
acquistare invece un piccolo motore Diesel da un costruttore terzo196.
Modalità 3 – Una “vera” joint-venture Magneti Marelli-Bosch. Nel maggio 1994,
come in precedenza scritto, Magneti Marelli e Bosch costituirono in joint-venture la
società Tecnologie Diesel Italia, per l’industrializzazione di componenti per il sistema
Common Rail. La partecipazione di Magneti Marelli, si sa, aveva uno scopo
essenzialmente legale per non infrangere dei vincoli governativi sui contributi erogati
all’Elasis.
La realizzazione di una “vera” joint-venture Magneti Marelli-Bosch, con finalità
strategica di sviluppo e produzione congiunti del sistema Common Rail, avrebbe
implicato per il gruppo Fiat la prospettiva di un business aggiuntivo, ma anche quella
dell’imprescindibile rischio imprenditoriale. A sostegno di quest’opzione ci sarebbe
però stato il non irrilevante fatto che i rischi, così come il business ovviamente, 195 Ibidem, p. 9. 196 Luca CIFERRI, Fiat Auto and Common Rail Diesel Technology, cit.
CAPITOLO 4
186
sarebbero stai condivisi con niente meno che il fornitore leader mondiale di sistemi
d’iniezione, la Bosch appunto.
A modesto parere di chi scrive, se Fiat nel 1994 perse un’occasione, questa non fu
quella di essere l’unico costruttore di vetture Common Rail (ipotesi ingenua e
velleitaria), ma quella di intraprendere con la Magneti Marelli e assieme a un partner
solido e competente come Bosch un’attività che, se ai tempi si presentava promettente e
niente più, col senno della storia si è rivelata il più grande business in campo
automobilistico degli ultimi dieci anni.
La Fiat non ebbe il coraggio, la voglia, il denaro, le competenze, o una
combinazione di questi fattori e decise di disimpegnarsi dalla concorrenza, lasciando ad
altri (Bosch) opportunità e rischi connessi all’industrializzazione del Common Rail. Con
questo, si badi, non si vuole assolutamente asserire che il bilancio della cessione del
progetto Common Rail, nel modo in cui fu portata a termine, sia nel suo complesso
negativo (si ripete che non si possiedono né le conoscenze né le competenze necessarie
per avventurarsi in un simile giudizio). Si vuole solo sostenere la personalissima
opinione che l’ipotesi di una “vera” joint-venture Magneti Marelli-Bosch sarebbe
probabilmente stata la più interessante, permettendo alla Fiat di entrare con un prodotto
innovativo in un business competitivo e rischioso, ma al contempo sorretta in questa sua
“impresa” dal colosso tedesco della componentistica. Purtroppo però, la storia non si fa
coi “se” e i contratti non si stipulano da soli, lo si è già detto. Guardando al presente e al
futuro si deve segnalare che, anche se in ritardo, l’ipotesi di una joint-venture tra
Magneti Marelli un grande fornitore automotive per entrare nel business del Common
Rail è diventata realtà.
Il 26 ottobre 2004 Magneti Marelli e la tedesca Siemens VDO hanno firmato un
accordo di cooperazione per lo sviluppo e l'introduzione sul mercato di un nuovo
sistema d’iniezione Diesel. Questo sistema, basato sugli iniettori solenoide, è progettato
per automobili Diesel di classe media. L’inizio della produzione è previsto per il 2007.
In base all'accordo i soci stanno sviluppando una nuova generazione di iniettori Diesel
Multijet e pompe ad alta pressione. I nuovi iniettori progettati uniranno l’affermata
tecnologia dell’iniettore Diesel Siemens VDO con un avanzato concetto di attuazione
del solenoide sviluppato da Magneti Marelli e CRF. Le pompe sono progettate
DOPO LA CESSIONE DEL COMMON RAIL ALLA BOSCH
187
congiuntamente da Siemens VDO e Magneti Marelli, mentre l'unità di controllo
elettronico del sistema è sviluppata separatamente da quest’ultima197.
Siemens VDO continua a produrre i suoi sistemi Common Rail. Magneti Marelli
seguita ad acquistare da Bosch gli iniettori solenoide e la pompa ad alta pressione per il
sistema Common Rail che fornisce a Fiat e a General Motors. È però evidente come
Magneti Marelli e Siemens VDO abbiano unito le forze per lanciare la sfida al dominio
di Bosch nella fornitura di sistemi d’iniezione Diesel. Magneti Marelli spera che il patto
di cooperazione incrementi la sua quota di mercato europeo al 2,7 per cento nel 2007 e
al 7 per cento nel 2009, ha detto Francesco Paolo Ausiello, direttore della divisione
R&S Diesel della società italiana. Nel lungo termine, Magneti Marelli mira a
raggiungere la stessa quota del 15 per cento che già detiene per i sistemi d’iniezione
diretta di benzina198. A proposito della collaborazione Magneti Marelli-Siemens VDO
afferma l’ingegner Genco:
“È una cosa molto strategica. È intelligentissimo quello che ha fatto Marelli,
perchè ritorna sul mercato del Common Rail in ritardo, però con moltissime
competenze. Quindi, parte di quello che adesso Fiat compra da Bosch, comincerà a
comprarlo internamente dalla collaborazione Marelli-Siemens”199.
Può apparire paradossale, ma il nuovo Multijet sviluppato e prodotto da Magneti
Marelli-Siemens VDO si troverà a competere col best-seller del mercato dei sistemi
d’iniezione Diesel, il Common Rail Bosch, diretta e naturale evoluzione di quell’Unijet
da cui nell’aprile 1994 Fiat, più o meno opportunamente, scelse di “separarsi”. In
sostanza il gruppo torinese sembra essere tornato sui suoi passi e aver deciso di sfruttare
appieno, attraverso la collaborazione Magneti Marelli-Siemens VDO, il grande know-
how tecnologico che solo chi ha passato anni a studiare il Common Rail può possedere.
197 SIEMENS VDO – Ufficio Stampa, Magneti Marelli and Siemens VDO to cooperate on developing injection systems for diesel engines, Regensburg, 26 ottobre 2004. 198 Luca CIFERRI, Magneti Marelli, Siemens VDO join forces in diesel injection, cit. 199 Callisto GENCO, intervista. Si veda Appendice C.
CONCLUSIONI
Il sistema Common Rail: la maggiore innovazione tecnologica della fine del XX
secolo in campo automobilistico; un’idea alla quale ingegneri e dottori di tutto il mondo
hanno lavorato a partire già dai primi decenni dello scorso secolo; un’invenzione
finalizzata in Italia tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento. Si trova in queste righe la
ragion d’essere della prima parte della mia tesi. Ho, infatti, ritenuto fondamentale e,
anzi, necessario, prima di addentrarmi nelle vicende del Common Rail, chiarire il
concetto di innovazione, anche e soprattutto nel suo rapporto con lo sviluppo macro e
microeconomico, evidenziare il carattere cumulativo di molti processi che hanno portato
a importanti invenzioni e fornire infine un quadro dell’attività innovativa in Italia.
Al concetto di innovazione si è soliti associare i concetti di idea e invenzione. Per
idea si intende una trovata o una nuova rappresentazione mentale. Per invenzione si
intende invece la soluzione di un problema tecnico da cui segue la realizzazione di
qualcosa che prima non esisteva. Si può parlare di innovazione, quando l’impresa
introduce sul mercato una nuova conoscenza o una nuova modalità di utilizzo di
competenze esistenti allo scopo di sfruttarle economicamente. Il processo di invenzione
è dunque legato al campo delle attività tecnico-scientifiche, mentre l’innovazione si lega
alla tecnologia e alle capacità imprenditoriali. L’innovazione è strettamente correlata
allo sviluppo economico e al benessere sociale ed è essenziale non solo a livello di
sistema-paese, ma anche a livello microeconomico per le singole imprese che vogliono
mantenere la propria competitività ed espandersi. Nel sistema economico moderno, le
spese per acquisire nuovo sapere sono sostenute nella R&S, mentre l’innovazione
rappresenta l’introduzione sul mercato dei risultati di quest’ultima al fine di trasformarli
in denaro. Per l’impresa non è importante solo essere la prima a realizzare
un’innovazione, è altrettanto importante essere l’unica. È dunque fondamentale, per
l’impresa, cercare di conservare l’esclusiva sulla propria innovazione. I brevetti sono
dunque basilari per proteggere i diritti dell’inventore e dei finanziatori delle sue
ricerche, per incoraggiare la formalizzazione della conoscenza raggiunta dagli inventori
e quindi per permettere la sua classificazione e fruizione: si forniscono in tal modo i
presupposti per un efficace processo di innovazione.
CONCLUSIONI
190
È indubbia l’accelerazione dei progressi della scienza e della tecnologia avvenuta
negli ultimi trecento anni circa. Una cosa è però innegabile: i grandi sviluppi tecnologici
e scientifici, compresi quelli della Rivoluzione industriale, non furono realizzati di
punto in bianco. Sono ben poche le invenzioni che nascono già mature. Al contrario,
serve un gran numero di piccoli e grandi miglioramenti per trasformare un’idea in una
tecnica. L’innovazione, infatti, difficilmente esce dalla testa di “zeus”, ma è in genere il
frutto di anni di lenta accumulazione delle conoscenze. L’invenzione, la scoperta e la
successiva innovazione sono il risultato di un flusso continuo di miglioramenti che
permettono di risolvere i problemi. Decenni di sperimentazione precedono una data
innovazione e a essa fanno seguito un lungo susseguirsi di miglioramenti resi possibili
dall’avanzata della scienza e della tecnologia. Per quanto possa essere breve il tempo
che porta ad una nuova invenzione o scoperta, l’intervallo temporale necessario affinché
una nuova tecnologia raggiunga un’adeguata maturità non è mai breve e, a seconda dei
casi, varia dai decenni ai secoli. Ho pensato che alcuni esempi potessero meglio chiarire
questi concetti e ho quindi dato spazio alle storie di alcune celebri invenzioni e scoperte
come: la macchina a vapore, l’elettricità, l’aeroplano e l’occhiale.
Passando ad analizzare il sistema di innovazione italiano, ho appurato che questo
si caratterizza, nel lungo periodo, per la scarsa attenzione verso la ricerca scientifica e
tecnologica. L’anomalia del caso italiano risiede nella carenza di imprese private che
investano in R&S. L’attuale situazione della R&S italiana si può così sintetizzare:
scarsa disposizione alla ricerca cooperativa; bassa quota percentuale di imprese piccole
e medie che svolgono ricerca sistematica; bassa quota di ricerca svolta da imprese high
tech; estremamente bassa la quota di ricerca svolta dalle università per conto delle
imprese; mediocre finanziamento pubblico della ricerca delle imprese. Un altro aspetto
negativo è l’ammontare alquanto limitato di investimenti in R&S svolto dalle maggiori
imprese italiane. Un manipolo di cinque imprese sviluppa il 40 per cento (la sola Fiat il
27 per cento) dell’intera spesa per R&S nazionale. Per quanto riguarda la prestazione
innovativa italiana, si può affermare che il nostro paese ha consolidato la sua posizione
nei settori maturi (come l’abbigliamento, le calzature, i mobili ecc.), cioè in quelle classi
la cui quota sul totale dei brevetti si riduce a livello mondiale; mentre evidenzia
considerevoli svantaggi relativi in quasi tutte le classi che presentano un elevato
dinamismo (come il nucleare, i computer, l’elettronica ecc.).
CONCLUSIONI
191
Una volta compiuta la necessaria premessa sull’innovazione, ho ritenuto
opportuno ripercorrere brevemente la storia dell’evoluzione del motore Diesel e del suo
elemento critico, il sistema d’iniezione, con particolare attenzione al Common Rail.
Il brevetto del motore a gasolio (o ad accensione per compressione) fu depositato
dall’ingegnere tedesco Rudolf Diesel il 28 febbraio 1892. Il propulsore di Diesel si
diffuse sui motori marini già all’inizio del secolo scorso, su camion e autobus a partire
dagli anni ‘20, su trattori e treni dagli anni ’30 e ’40 e, negli stessi anni, su tutte le
macchine destinate ai lavori pesanti. Con le automobili però, il lavoro di conquista si è
rivelato molto più laborioso e lento. Fu soltanto grazie alla pompa d’iniezione lanciata
sul mercato nel 1927 dall’industriale tedesco Robert Bosch e alla precamera ideata negli
anni ’30 dall’ingegnere inglese Harry Ricardo che il motore Diesel poté “accomodarsi
in auto”. La precamera di Ricardo però, a fronte della riduzione delle vibrazioni e della
rumorosità presenti nei motori ad iniezione diretta, comportava una perdita in
rendimento e dunque un aumento dei consumi. La prima vettura Diesel destinata alla
produzione di serie fu, nel 1936, la Mercedes-Benz 260D. Nel dopoguerra ancora per
qualche anno, ben poche marche europee vollero cimentarsi nel difficile settore
dell’auto a gasolio. L’accoglienza riservata dagli automobilisti europei ai primi modelli
Diesel fu appena tiepida. Non solo la silenziosità faceva difetto a quei vecchi motori:
l’assenza di prestazioni decenti rappresentava un handicap altrettanto insormontabile. È
quindi logico che la stragrande maggioranza dei più importanti costruttori
automobilistici abbia trascurato il Diesel finché questo, grazie ai progressi della
tecnologia, non avesse offerto prestazioni e silenziosità adeguate, riducendo i suoi già
bassi consumi e migliorando la tradizionale robustezza e affidabilità. Per raggiungere
questi obiettivi il Diesel automobilistico dovette ritornare, dopo una sessantina d’anni
dagli esperimenti di Ricardo, all’iniezione diretta.
Il vero salto tecnologico dei motori Diesel automobilistici si è avuto, negli anni
’90, con l’uso del sistema d’iniezione diretta Common Rail. Il principio di
funzionamento di quest’ultimo era però noto, almeno sulla carta, da molti anni. Non
mancano inoltre, già a partire dai primi decenni del Novecento, esempi di primitivi
sistemi Common Rail che hanno trovato applicazioni nei settori navale e ferroviario.
Tra il 1929 e il 1959 studi su un rudimentale sistema Common Rail furono realizzati al
Politecnico di Zurigo (ETH) dall’ingegnere tedesco Gustav Eichelberg. Il successore di
CONCLUSIONI
192
Eichelberg all’ETH fra il 1959 e il 1983, il professor Max Berchtold, instaurò una
collaborazione con lo svizzero Robert Huber che, negli anni ‘60, ottenne dei brevetti
riguardanti sistemi ad accumulo molto simili agli attuali Common Rail. Huber e
Berchtold ebbero anche dei contatti con la società francese Sopromi che assieme alla
Sofredi, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, depositò dei brevetti
sull’iniettore elettromagnetico. Questi brevetti furono comunque abbandonati nel 1987 e
il concetto dell’iniettore in questione, alla base di tutti i moderni sistemi Common Rail,
divenne libero sul mercato. Negli anni ’70 la società svizzera Saurer assunse interesse
per i sistemi ad accumulo dell’ETH e progettò dei componenti per gli iniettori sviluppati
al Politecnico. Nel 1982, la Saurer e l’italiana Iveco (gruppo Fiat) fondarono una nuova
società, la Dereco, che nello stesso anno comprò dall’ETH un sistema d’iniezione
completo e iniziò sistematici test sul motore Diesel, coinvolgendo nel progetto di ricerca
la Magneti Marelli (anch’essa gruppo Fiat). Nel 1985 la Fiat, sulla base dell’attività
della Dereco, diede il via al suo progetto Common Rail, il quale fu ceduto nove anni più
tardi al fornitore di componenti automotive Bosch. Nel 1997 la Fiat commercializzò la
prima vettura Common Rail e il sistema d’iniezione fu firmato proprio dalla Bosch.
Una volta tracciata l’evoluzione storica del motore Diesel e in particolare del
sistema Common Rail, ho ritenuto di fornire una breve spiegazione sulle più generali
caratteristiche tecniche di quest’ultimo. Il Common Rail (binario comune) è un sistema
che si compone di più organi: pompa ad alta pressione, serbatoio accumulatore (rail) e
condotti d’alta pressione, iniettori, centralina elettronica, sensori e valvole di
regolazione. Il sistema si avvale della pompa ad alta pressione (oltre 1.000 bar) e
dell’unico condotto (rail per regolarizzare la pressione) per collegare la pompa stessa a
tutti i singoli iniettori comandati elettronicamente dalla centralina per l’instante di inizio
e la durata dell’iniezione e con ugelli piccolissimi. Rispetto ai dispositivi di iniezione
tradizionali, il sistema Common Rail ha assicurato un importante miglioramento
complessivo delle prestazioni, una maggiore silenziosità di funzionamento e una
riduzione dei consumi e delle emissioni inquinanti. Altro importante vantaggio offerto
dal sistema Common Rail è stata la sua adattabilità a motori già progettati,
semplicemente apportando delle piccole modifiche. È stata questa, con ogni probabilità,
la motivazione principale dell’iniziale successo del Common Rail che, al contrario di
altri sistemi concorrenti, non richiedeva la progettazione ex-novo del motore.
CONCLUSIONI
193
Riassunti i passi storici nell’evoluzione del cosiddetto “binario comune” e
spiegato brevemente come funziona un moderno sistema Common Rail, ho focalizzato
la mia attenzione sull’attività di R&S svolta negli anni ’80 e ’90 alla Fiat, inserendola
nel più vasto contesto delle dinamiche economico-societarie del gruppo torinese.
Nel 1976, in seguito alla crisi petrolifera, la Fiat decise di affidare al Centro
Ricerche Fiat (CRF) lo studio sul possibile impiego dell’iniezione diretta Diesel sulle
auto. Verso la fine degli anni ’70 il CRF presentò, come risultato finale delle ricerche
svolte nell’ambito del Progetto Finalizzato Energetica 1, varato nel 1977 dal Consiglio
Nazionale delle Ricerche (CNR), un prototipo di motore Diesel a iniezione diretta per il
quale non seguì la successiva fase di ingegnerizzazione.
Dopo la crisi degli anni ’70, il periodo che va dal 1981 al 1985 fu, per la Fiat,
quello della ristrutturazione. Alla Fiat Auto, soprattutto per volontà del suo
amministratore delegato Vittorio Ghidella, si avviarono innovazioni di processo
(fabbrica ad alta automazione) e di prodotto (motore “Fire” e Fiat “Uno”) che
propiziarono la ripresa dell’intero gruppo torinese. Nel 1985, con una quota di mercato
del 12,6 per cento, Fiat Auto raggiunse il primo posto nella graduatoria su scala europea
e il Gruppo dichiarò un utile consolidato di 1.682 miliardi di lire (869 milioni di euro).
Considerando i rilevanti profitti assicurati dall’Auto al bilancio della holding, Ghidella
avrebbe voluto creare, sotto la sua direzione, una sorta di Fiat Due che aggregasse tutte
le attività automotive del gruppo. Era fatale che la visione auto-centrica di Ghidella
entrasse in rotta di collisione con quella gruppo-centrica dell’amministratore delegato
Fiat, Cesare Romiti. Alla fine del 1988 Ghidella, artefice principale del rilancio e dei
successi della Fiat negli anni ’80, rassegnò le dimissioni e uscì per sempre di scena. A
metà degli anni ’80 fu dunque in un contesto sicuramente positivo per la Fiat che
Ghidella, convinto del futuro sviluppo delle motorizzazioni Diesel a iniezione diretta,
autorizzò e sollecitò il progetto Common Rail (Unijet), divenendone lo “sponsor”. Il
primo risultato concreto degli studi Fiat fu la “Croma” 1.9 TD i.d. che, presentata nel
1986, fu la prima vettura al mondo ad iniezione diretta di gasolio. Deciso di puntare sul
Common Rail si costituì un comitato interaziendale e si assegnò il compito di sviluppare
i componenti del sistema alla Magneti Marelli. Quest’ultima affidò la direzione del
progetto all’ingegner Francesco Paolo Ausiello e fondò, nel 1987, un gruppo dedicato
presso il proprio stabilimento Altecna di Bari. La responsabilità del progetto non era
CONCLUSIONI
194
però solo della Magneti Marelli, ma era condivisa col CRF, leader dello sviluppo del
sistema completo. Sul finire del 1988, poco prima dell’addio di Ghidella, fu fondata
Elasis (Società consortile del gruppo Fiat). Nel 1989 Elasis costituì a Bari il Centro
Ricerche Alimentazione Motori. È proprio sulle vicende di questo centro che ho
concentrato la mia attenzione, perchè è qui che dal 1990 si accentrò l’attività di ricerca e
sviluppo del sistema Common Rail.
A questo punto, prima di addentrarmi nella fase finale della vicenda Common
Rail Fiat, ho creduto utile fornire un sintetico quadro della non “rosea” situazione che si
trovò ad attraversare il Gruppo nei primi anni ’90. Dopo i “ruggenti” anni ’80 fu la crisi
abbattutasi nel 1990 sull’industria automobilistica mondiale a scompaginare i disegni
espansionistici, basati sulla diversificazione, concepiti dalla Fiat. I primi anni ’90 furono
quelli de “la festa è finita”, come disse l’Avvocato, con vistosissime perdite di quote di
mercato da parte di Fiat Auto. Il 1993 segnò una perdita operativa dell’Auto di 1.661
miliardi di lire (858 milioni di euro), praticamente analoga alla perdita netta del Gruppo.
Umberto Agnelli avrebbe voluto porre mano al risanamento della Fiat per le linee
interne, vendendo tutto ciò che non aveva a che fare con il settore automobilistico per
far cassa. Una forte ricapitalizzazione era però divenuta inevitabile e fu così che nel
settembre 1993, sotto la regia di Mediobanca, il Consiglio di amministrazione della Fiat
rinnovò il mandato di Agnelli e di Romiti per tre anni e varò un aumento di capitale da
4.285 miliardi di lire (2.213 milioni di euro). La famiglia Agnelli non sarebbe stata più
l’unica a dettar legge alla Fiat, ma intanto quest’ultima si era portata fuori dal gorgo che
nel 1993 minacciava di affondarla. Nei primi anni ’90 dunque, gli studi sul Common
Rail proseguivano in un contesto aziendale “deteriorato”. Nel 1990 il “cuore” del
progetto Common Rail Fiat divenne il Centro Elasis di Bari e ciò anche al fine di
usufruire dei finanziamenti statali previsti dalla legge n. 64 del 1986. Quasi
contemporaneamente Magneti Marelli valutò troppo prematuro l’investimento nel
Common Rail e delegò la maggior parte delle proprie attività proprio all’Elasis
supportata dal CRF che, nella persona del dottor Rinaldo Rinolfi, manteneva la
leadership del progetto. Nel 1993 fu disponibile la versione preindustrializzata
dell’Unijet, ma in mancanza del suo fautore, l’ingegner Ghidella, il top management di
Torino decise di cedere l’intero progetto alla Bosch. Far luce sulle intricate vicende
della cessione del Common Rail non è stato facile, ma credo di aver ottenuto
CONCLUSIONI
195
interessanti risultati: come la Fiat arrivò alla decisione di cedere il progetto, in che modo
fu condotta la cessione e chi a Torino ebbe l’ultima parola sulla stessa, ma soprattutto
quali furono i termini dell’accordo tra il gruppo italiano e la Bosch.
Il dato di fatto è però che nella primavera del 1994 il progetto Unijet Fiat cambiò
padrone, diventando Common Rail Bosch. Immediatamente iniziò il trasferimento di
tutto il know-how sul progetto da Bari a Stoccarda, dall’Elasis alla Bosch. Con l’arrivo
di quest’ultima e, con essa, di tutte le sue competenze tecniche e risorse economiche, è
indubitabile che il progetto subì una notevole accelerazione. Nel 1997, a 105 anni
dall’invenzione di Rudolf Diesel, il motore a gasolio con sistema Common Rail, era
pronto ad “accomodarsi” sulle automobili e la prima, come da accordo, fu una vettura
Fiat Auto: l’Alfa Romeo “156” 2.4 JTD, commercializzata in ottobre e seguita, a
distanza di pochi mesi, dalla Mercedes-Benz “classe C” 220 CDI.
Nel 1998 Fiat Auto e Mercedes-Benz, le uniche due Case che allora usassero il
Common Rail, faticarono a soddisfare la domanda di modelli turbodiesel da parte dei
loro clienti. Da allora in poi, grazie all’adeguamento della capacità produttiva da parte
di Bosch e al successivo arrivo di concorrenti che affiancarono l’azienda tedesca
realizzando sistemi analoghi (Siemens, Delphi e Denso), il Common Rail fu adottato da
un numero crescente di costruttori, ad oggi più di quindici. Solo il gruppo tedesco
Volkswagen scelse di puntare su un sistema alternativo: l’iniettore-pompa. Il momento
d’oro del Diesel è stato soprattutto il frutto di questi più avanzati sistemi di iniezione
diretta. La quota di mercato di autovetture Diesel in Europa è passata dal 22,2 per cento
del 1997 al 49,3 per cento del 2005 e in Italia, nel medesimo periodo, dal 17,7 per cento
al 58,5 per cento. Il triennio 2001-2003 si caratterizzò per il debutto di: nuovi propulsori
a gasolio di raffinata tecnologia (Common Rail di seconda generazione), seri
concorrenti di Bosch nell’offerta di sistemi d’iniezione Diesel (Delphi e Siemens su
tutti), piccoli ed efficienti motori a gasolio (dal 1.5 dCi Renault al 1.3 Multijet Fiat-
Gm). Tutto questo diede nuovo slancio alle immatricolazioni di vetture a gasolio in
Europa e soprattutto in Italia. Negli ultimi due anni si deve però segnalare l’impennata
del prezzo del gasolio che ha un po’ raffreddato la “febbre” da Diesel. In ogni caso,
protagonista principale del boom del Diesel è stata la tedesca Bosch che, dopo aver
goduto fino al 2001 di una posizione di sostanziale monopolio, ancora nel 2004
deteneva da sola quasi i due terzi del mercato europeo dei sistemi d’iniezione Diesel.
CONCLUSIONI
196
Col senno della storia, si può infine dire che il Common Rail, la cui diffusione è ormai
praticamente plebiscitaria, ha vinto e l’iniettore-pompa, scelto sostanzialmente dal
gruppo Volkswagen per alcuni dei suoi motori, ha perso.
Alla luce delle informazioni faticosamente raccolte ho voluto concludere questa
tesi con una sintesi relativa a: i diversi contesti storico-aziendali nei quali, alla Fiat,
furono prese le decisioni fondamentali sul progetto Common Rail; le motivazioni, più o
meno ufficiali, della cessione del progetto; i plus e i minus derivanti alla Fiat dalla
stessa cessione. Le situazioni nelle quali, rispettivamente, presero l’avvio gli studi
finalizzati di Fiat sul progetto Common Rail e fu presa la decisione ultima di cederlo,
appaiono agli antipodi. Gli studi furono avviati nel bel mezzo dei “ruggenti” anni ’80 di
Fiat, quando alla direzione dell’Auto c’era l’ingegner Ghidella, il quale sapeva che per
restare leader nell’industria automobilistica occorrono grandi investimenti in ricerca
core. La decisione di cedere il progetto fu invece presa alla Fiat in un periodo di grave
crisi, nel quale, dopo l’addio di Ghidella, era dominante la concezione gruppo-centrica
di Romiti. L’industrializzazione del Common Rail all’interno del Gruppo fu scartata
perchè alla Fiat, dove iniziava a diffondersi l’ossessione di ridurre il capitale investito,
si ritenne che l’investimento necessario non sarebbe stato recuperato che a lungo
termine. A questo si aggiunsero i dubbi della Magneti Marelli sulla propria capacità di
gestire il nuovo business e sulla redditività dello stesso. Data la scelta di Magneti
Marelli di non impegnarsi nella industrializzazione del sistema e la concomitante
volontà di Fiat Auto di utilizzarlo comunque sulle proprie vetture, fu assunta la
decisione di cedere a Bosch l’intero progetto Common Rail. Per quanto riguarda i plus e
i minus derivanti alla Fiat dalla cessione, non pretendendo di fornire un elenco
esaustivo, ho comunque cercato di dare un quadro il più possibile completo. Fra i plus
ho annoverato il fatto che quando Bosch comperò il sistema, questo non era
assolutamente pronto (lo scarto di prima produzione fu molto alto) e che Fiat si assicurò
un rilevante sconto sui componenti Common Rail fino al 2002. Fra i minus ho compreso
il fatto che Fiat ha sprecato una buona occasione di comunicare le sue capacità tecniche
e soprattutto che Bosch ha fatto del Common Rail un pilastro su cui basare la propria
premiership in molti comparti della tecnologia automotive, ma anche una smisurata
fonte di reddito. Infine, consapevole che la storia non si fa coi “se”, che i contratti non si
stipulano da soli e soprattutto dei miei limiti, ho ipotizzato tre diverse modalità con le
CONCLUSIONI
197
quali l’affare Common Rail avrebbe potuto essere “meglio” gestito da Fiat. La prima
modalità è la concessione in licenza (al posto della cessione a titolo definitivo) dei
brevetti Common Rail, soluzione che avrebbe potuto permettere alla Fiat di contare su
royalties da calcolarsi sugli stratosferici dati di vendita del sistema Bosch. La seconda
modalità riprende l’inascoltata opzione sostenuta ai tempi da Rinolfi e cioè stringere un
accordo con un grande componentista per la parte idraulica, l’iniettore (elemento critico
dell’intero sistema), e tenersi l’elettronica. Così si sarebbe difesa la tecnologia dai
concorrenti, almeno per qualche anno. Tale opzione ha trovato tardiva realizzazione nel
2003 col noto 1.3 Multijet Fiat-Gm. La terza modalità è la costituzione di una “vera”
joint-venture Magneti Marelli-Bosch, in alternativa a quella con scopo essenzialmente
legale che diede vita alla Tecnologie Diesel Italia di Bari. Una “vera” joint-venture
avrebbe permesso alla Fiat di entrare con un prodotto innovativo in un business
competitivo e rischioso, ma sorretta in questa “impresa” dal fornitore leader mondiale di
sistemi d’iniezione, la Bosch appunto. Questa ipotesi sta trovando realizzazione adesso
con un diverso partner, Siemens VDO. Paradossalmente, dal 2007 il nuovo Common
Rail Magneti Marelli-Siemens VDO competerà col sistema Bosch, diretta evoluzione
dell’Unijet ceduto dalla Fiat nel 1994.
I più sono convinti dell’estrema negatività, per la Fiat, della cessione del Common
Rail. La mia personalissima opinione è che molti anche stimati esperti del settore
abbiano emesso pesanti verdetti sull’operato Fiat, senza i necessari elementi di giudizio.
Elementi di giudizio che forse nessuno avrà mai e tanto meno io che sono un semplice
studente. Al termine del mio lavoro di laurea non posso però esimermi dal fornire una
mia opinione sulla questione: Fiat-Common Rail, una grande occasione perduta? Se
incastonata nel momento in cui fu portata a termine, personalmente non mi sento di
condannare l’operazione condotta da Fiat, perchè questa ebbe un compiuto senso
economico. Consentì, infatti, alla casa torinese di: disporre, in tempi più rapidi, di un
sistema con una migliore qualità iniziale; essere la prima a commercializzare una
vettura Common Rail; spuntare un rilevante sconto sulla fornitura Bosch fino al 2002.
Ovviamente, col senno della storia, non si può negare una certa “miopia” strategica del
top management di Torino. Quest’ultimo sottovalutò, probabilmente, la portata
rivoluzionaria che il Common Rail avrebbe avuto negli anni successivi, preferendo non
entrare nel relativo business. Bisogna però dire che la stessa Bosch non credeva
CONCLUSIONI
198
assolutamente nel Common Rail o almeno aveva compiuto altre scelte che avrebbe
dovuto rinnegare. Infatti, Bosch compì il passo sul Common Rail solo dopo esplicita
richiesta, per non dire forzatura, di Mercedes-Benz e probabilmente come mossa
difensiva (il Common Rail cannibalizzò in seguito il suo nuovo sistema d’iniezione).
Paradossalmente può essere stata proprio l’eccessiva “fortuna” incontrata dal Common
Rail la vera “sfortuna” di Fiat. Mi spiego meglio. A mio modesto parere è stato proprio
lo straordinario e imprevedibile (per tutti) successo del Common Rail a spostare gli
equilibri nel bilancio fra plus e minus derivanti alla Fiat dalla cessione stessa.
Quest’ultima è stata condotta in base a precisi calcoli di convenienza
economico/industriale e non per fare un ingenuo “regalo” alla Bosch. Nel 1994 la
cessione del Common Rail non è stata un’occasione perduta da Fiat, a causa
dell’imprevedibile divenire della storia è possibile che lo sia diventata. In ultima istanza,
ritengo che, se Fiat nel 1994 perse un’occasione, questa non fu quella di essere l’unico
costruttore di vetture Common Rail (ipotesi ingenua e velleitaria), ma quella di
intraprendere con la Magneti Marelli e assieme a un partner solido e competente come
Bosch un’attività che, se ai tempi si presentava promettente e niente più, col senno della
storia si è rivelata il più grande business in campo automobilistico degli ultimi dieci
anni. Purtroppo però, la storia non si fa coi “se” e i contratti non si stipulano da soli, lo
si è già detto. Guardando al presente e al futuro si deve segnalare che la Fiat sembra
essere tornata sui suoi passi e aver deciso di sfruttare appieno, attraverso la
collaborazione Magneti Marelli-Siemens VDO, il grande know-how tecnologico che
solo chi, come il dottor Rinolfi e l’ingegner Ausiello, ha passato anni a studiare il
Common Rail può possedere. Proprio con una frase dell’ingegner Ausiello mi piace
concludere:
“[...] l’avventura del Common Rail non è affatto finita, siamo all’inizio. In realtà
il Common Rail non è certamente arrivato alla fine e ci sarà sicuramente una grossa
attività ancora da svolgere [...]”.
BIBLIOGRAFIA
BELLUCCI Alberto, 15 luglio 2003, Diesel una storia infinita prima puntata, tratto da
progettazione); New Holland (macchine agricole, trattori); Pegaso (camion); Nycoa
(polimeri); Toro (assicurazioni); Rinascente (commercio); INI (Spagna); CEAC
(batterie, Francia); Finmor (immobiliare); Lyonnaise des eaux; Chimica del Friuli;
SAFO (batterie); Dipartimento Cardiovascolare Pfizer; Marval (Francia, componenti
APPENDICE B
260
iniezione benzina); Omasa (attrezzature ospedaliere); controllo Fiat Hitachi; controllo
ABC autronica (Brasile); controllo Meridien (magnesio). Dall’87 al ‘90 Fiat Auto ha
dichiarato utili da 1.000 a 2.000 miliardi all’anno; ‘91 e ‘92 sono stati circa in pareggio;
‘93 in perdita (ma con 5.000 miliardi di investimenti), però ’94 in piccolo utile e 3.000
miliardi di investimenti. Sembrerebbe quindi che il Gruppo acquisisca dagli elicotteri
alle assicurazioni, dalle acque minerali al magnesio, paghi i debiti (quota libica), che
Fiat Auto investa 13.000 miliardi in quattro anni. Se crisi c’era non lo aveva visto
neanche Agnelli che nel ’92 o ‘93 disse la famosa frase: “la festa è finita!”. Significava
che fino ad allora c’era stata abbondanza e che prevedeva un futuro più duro come, in
effetti, è avvenuto dopo 4-5 anni, ma se lei la pensa diversamente potrebbe trovare altri
elementi o modi di interpretarli.
Tornando al Common Rail, ha analizzato l’andamento nel tempo del business
automotive della Magneti Marelli? Che documentazione può trovare e che deduzioni
può trarre dal fatto che nel ‘91 il gruppo Fiat abbia deciso di cedere l’attività di
produzione e vendita degli iniettori Diesel dello stabilimento di Bari alla Stanadyne,
mentre sul versante produzione di componenti per l’iniezione benzina procede facendo
accordi con Walbro (USA) e acquisendo il controllo di Marval (Francia)? Lei potrebbe
interpretare questi dati (non si fidi della mia memoria, si accerti) come poca fiducia
nello sviluppo del Diesel oppure come poca fiducia nelle capacità tecniche (in fondo ha
forse trovato qualcuno nel Gruppo che avesse esperienza e competenza sull’argomento?
A Bari la produzione era su licenza) o nelle capacità commerciali di fare business con
iniettori Diesel oppure, vista la frenesia di acquisizioni ed accordi, come azioni in
previsione di qualche joint-venture o accordo commerciale.
Lei vuole sapere la mia opinione personale su come l’operazione è stata attuata e
non posso tirarmi indietro; ne approfitterò per indicarle argomenti nei quali scavare per
trovare dati e non preconcetti. Le ho già detto che non conosco i dettagli dell’operazione
e quindi non posso giudicare la bontà dell’operazione nel suo complesso, ma sono
convinto che, per Fiat Auto, il fatto che il sistema Common Rail sia stato prodotto da
Bosch anziché da Magneti Marelli, abbia rappresentato un indubbio vantaggio in
termini di affidabilità dei tempi di produzione e di iniziale qualità del prodotto data
l’inesistente esperienza di Magneti Marelli. Quest’ultima ha scelto di non intraprendere
APPENDICE B
261
questo business che, contrariamente a quanto crede lei, è un business competitivo e
rischioso come tutti gli altri e non una miniera d’oro a cielo aperto.
Lei ha una visione mistica del “prodotto Common Rail”. Nel valutare l’impatto
commerciale del Common Rail le consiglio di analizzare i dati per valutare quanto
questo business sia aggiuntivo e quanto sia sostitutivo di altri prodotti. Bosch vende
impianti Common Rail, ma quanti impianti iniezione benzina vende in meno perché
sostituiti proprio dal Common Rail? Quante pompe rotative Diesel vende in meno
perché sostitute dal Common Rail? Quanto è divenuto più rischioso questo mercato
rispetto alle pompe Diesel rotative o in linea dal momento che su di una nuova
tecnologia molti concorrenti possono portare innovazioni (si veda gli iniettori
piezoelettrici)? Quanto ha aperto ad altri produttori (centraline, pompe, regolatori) un
business che prima era integralmente suo? Ha provato ad interpretare l’acquisizione del
Common Rail come una mossa difensiva fatta di malavoglia?
Forse Magneti Marelli ha sbagliato a non entrare nel business degli iniettori
Common Rail (gli altri componenti non sono strategici), ma quella di non entrare in un
mercato dominato da alcuni produttori di grandi dimensioni e senza avere una
competenza specifica, a mio avviso, è una normale scelta industriale, non una guerra
perduta. Inoltre, lei dovrebbe provare a conoscere e valutare (senza chiederlo a me) cosa
ha fatto parte degli accordi con Bosch oltre al Common Rail e relativi pagamenti. Non
so cosa possa significare, ma a titolo di esempio le ricordo che qualche anno dopo
Magneti Marelli ha acquistato la divisione illuminazione della Bosch. Tutti elementi che
opportunamente documentati e interpretati nel contesto storico in cui sono avvenuti
possono consentirle una valutazione, qualunque essa sia, e non solo un’opinione.
Potrebbe anche fare un’analisi del rischio che correva Magneti Marelli dando un
peso a diversi fattori come, ad esempio, questi che le propongo. A) Molti stavano
lavorando sulla iniezione Diesel ad alta pressione. Bosch e Volkswagen stavano
lavorando sullo stesso argomento utilizzando il sistema iniettore-pompa e quindi si
stavano costruendo (o avevano già) un know-how simile. Vantaggio competitivo
limitato o nullo. B) I brevetti (quali, quanti?) erano stati pubblicati e quindi si poteva
incominciare ad aggirarli. Abbiamo verificato che ci sono stati rapidamente altri
costruttori di iniettori Common Rail. Quindi vantaggio competitivo limitato. C) Subito
dopo l’uscita sul mercato di un sistema Common Rail Fiat, con un minimo di analisi, il
APPENDICE B
262
know-how sarebbe stato conosciuto da tutti, quindi vantaggio competitivo limitato. D)
Fiat non aveva una specifica competenza nella industrializzazione di questi prodotti. Lo
stabilimento di Bari produceva su licenza. Enorme criticità.
Ne potrebbe quindi trarre un’indicazione di quanto tempo Magneti Marelli
sarebbe rimasta sola sul mercato prima di entrare in competizione con i giganti del
business Diesel. Forse abbastanza per consolidarsi e sopravvivere e forse no. Ecco un
altro buon argomento di analisi economica valutando gli investimenti industriali, i
sovraccosti di start-up, i costi di commercializzazione e garanzia, i potenziali clienti
immediati e futuri, la concorrenza presente (iniettore-pompa) e potenziale, il periodo di
monopolio ecc. Non crede che, al contrario, Bosch rappresentasse per Fiat un fornitore
leader di sistemi di iniezione, affidabile e competente, con prezzi definiti in un accordo
fatto da una posizione di forza?
Infine, nel definire il ruolo di Elasis dovrebbe tenere conto che, sia pure strutturata
come azienda indipendente, lavorava su indicazione dei partecipanti al consorzio, quindi
agli ordini di Magneti Marelli, Fiat Auto e altri. Provi a valutare il comportamento di
Magneti Marelli non come abbandono, ma semplicemente come aver dato a Elasis
l’incarico di svolgere attività nelle quali aveva competenza; così come il ruolo di leader
tecnico è sempre stato nelle mani di CRF, perché ne aveva la competenza e ne aveva
avuto l’incarico. Dire che Magneti Marelli ha abbandonato il progetto perché le attività
sull’idraulica erano svolte da Elasis è come dire che Fiat Auto ha abbandonato il
progetto perché le attività sulla combustione erano svolte dal CRF. Magneti Marelli,
Fiat Auto, Iveco, CRF, Elasis erano tutti componenti di un unico Gruppo, il gruppo Fiat,
e le attività erano svolte da chi, nel Gruppo, aveva la competenza per farlo. Mi spiace
insistere, ma a mio avviso la storia del Common Rail, per la Fiat, è la storia di un
prodotto di successo!
Cordiali saluti e buon lavoro.
Stefano Iacoponi
APPENDICE C
CALLISTO GENCO
EXHAUST SYSTEM PROJECT ENGINEER IN UN’AZIENDA DI SISTEMISTICA
VEICOLI DEL LUSSEMBURGO
RICERCATORE AL CENTRO ELASIS DI BARI DAL 1991 AL 1996
INTERVISTA REALIZZATA TELEFONICAMENTE
13 DICEMBRE 2005
“Callisto Genco”
Carlo De Pellegrin
Quando ha iniziato a lavorare al Centro ricerche Elasis di Bari?
“Io sono entrato in Elasis il 1° aprile 1991”.
Cos’era o cos’è, visto che esiste tutt'oggi, Elasis?
“Elaborazione Sistemi. Elasis veniva intesa come elaborazione sistemi, anche se
c’era chi diceva che veniva dal greco “ελασις” che significa condurre. Società consortile
comunque, dentro c’erano tutte le aziende base di Fiat più un po’ di contributi dalla
Cassa del mezzogiorno per finanziare centri di ricerca nel mezzogiorno”.
Tutte le società di base Fiat. Intende quindi: la Magneti Marelli, il Centro
Ricerche Fiat (CRF), la stessa Fiat Auto?
“Si, Fiat Auto, poi c’era, credo, anche la Fiat Carrelli”.
Elasis è stata costituita in forma di Società consortile anche per usufruire dei
finanziamenti statali?
“Ovviamente, era un motivo serio quello di usufruire dei finanziamenti statali”.
L’ufficio stampa Fiat mi ha comunicato che Elasis è stata fondata il 13
ottobre 1988.
“Non so le date precisamente, però ricordo che a Bari avevano cominciato una
campagna di selezione del personale (tecnici e ingegneri) nel febbraio-marzo del 1989 e
quindi a novembre del 1989 avevano fatto la seconda campagna di assunzioni”.
Io so che già prima di Elasis a Bari c’era un centro ricerca Marelli.
APPENDICE C
264
“A Bari c’era un centro avanzato di sviluppo della Marelli. Lo stabilimento di
Bari della Marelli negli anni ’80 aveva la produzione delle pompe in linea Bosch e le
produceva su licenza Bosch. Prima facevano le pompe, poi affiancarono la produzione
degli elettroiniettori fatti sempre su licenza della Bosch per i motori a benzina, quando
comunque l’iniettore a benzina cominciava a diffondersi. Avevano circa 3.000
dipendenti”.
A Bari?
“Si, a Bari. Dopo di questo realizzarono un centro di sviluppo avanzato che era
l’Altecna. Questa era la parte di ricerca avanzata della Marelli”.
Prima della Elasis c’era l’Altecna?
“C’era l’Altecna e poi è stata fondata l’Elasis. Persone che erano abbastanza di
rilievo che si sono trasferite dall’Altecna all’Elasis erano: il dottor Mario Ricco,
l’ingegner Sisto De Matthaeis, l’ingegner Damiani, l’ingegner Di Gioia, l’ingegner
Bruni ecc.”.
Quando nel 1989 è stato costituito il Centro Elasis a Bari, l’Altecna ha cessato
di esistere o ha continuato a lavorare?
“Quello che mi hanno sempre detto è che il personale che era ritenuto più
avanzato e più capace di continuare lo sviluppo prodotto era stato trasferito in Elasis.
Infatti, mi raccontava l’ingegner Damiani che avevano firmato le dimissioni
dall’Altecna e poi, il giorno dopo, firmarono l’assunzione in Elasis. Infatti, alcuni di
loro non hanno dormito bene, avendo dormito una notte da disoccupati”.
Io ho sempre pensato che Altecna si fosse trasformata in Elasis?
“No, il personale dell’Altecna ritenuto più dotato è stato portato in Elasis,
compresi degli operai di lunga data che lavoravano sugli iniettori, che facevano i
flussaggi, quali Mangino, Spadavecchia, De Leonardis ecc. Perchè poi per un periodo
abbiamo prodotto anche degli iniettori Diesel classici”.
Quelli per il precamera?
“Si, per il precamera, la vecchia generazione dei Diesel. Però c’era una bella
esperienza da poter utilizzare per continuare lo sviluppo prodotto. Nei primissimi anni
’90 all’Elasis di Bari, che allora contava soltanto una quarantina di persone fra
impiegati, tecnici ed amministrativi, le cose erano abbastanza difficili. Si conosceva
poco del sistema, soprattutto non avevamo concorrenza dalla quale studiare. Sul
APPENDICE C
265
mercato non c’era nulla, non si poteva nemmeno copiare e diciamo che era una sfida.
Noi ci ponevamo degli obiettivi del tipo: come si definisce un buon iniettore? Le
competenze a quel tempo erano squisitamente divise: a Bari lo sviluppo dei componenti,
in Marelli, a Bologna, la parte elettronica e al CRF l’applicazione su motore. In Marelli
(Bologna) dovevano sviluppare la parte della centralina, ma lo sviluppo divenne così
dinamico che Elasis Bari aveva l’esigenza di ricalibrare le centraline sulle esigenze del
momento”.
Quindi, mentre lei nei primi anni ’90 lavorava all’Elasis di Bari sulla parte di
idraulica...
“Tutta quella che si definisce la parte bagnata e in più, ricordo che la Marelli nel
1992-93 non riusciva a reggere le dinamiche e le esigenze quotidiane di sviluppo,
ricordo le prime centraline Common Rail, ma erano dei prototipi, avevano dimensioni
di 30 cm x 30 cm che, certamente non adatte agli esigui ingombri del vano motore,
furono successivamente ridotte. Poi sono stati fatti dei brevetti intelligenti per quanto
riguarda la gestione energetica e, pian piano abbiamo fatto, ricordo, la scissione del
modulo di potenza dalla parte di controllo. Il primo microprocessore utilizzato era
simile a quello dell’Apple IIe degli anni ‘80. Ai tempi era un microprocessore efficiente
e veloce. Avevamo un ingegnere elettronico molto bravo, l’ingegner Nicola Pacucci,
che si occupava proprio di modificare il supporto centralina e di adattare il software alle
mutevoli esigenze di progetto. Il software però l’ingegner Pacucci lo scriveva in
Assembly, tutt’altro che facile”.
Ma a Bari?
“A Bari”.
Quindi, praticamente, facevate anche la centralina in casa perchè non c’era
nessun’altro che...
“Qui si entra nei ricordi. A un certo punto Marelli non ci ha fornito più le
centraline direttamente. Ricordo che ricevevamo aiuto dal CRF che credo facesse leva
sui fornitori locali di parti elettroniche. Torino era ed è tutt’ora un luogo di eccellenza
per lo sviluppo autoveicolo”.
L’ingegner Ausiello mi ha detto che nel 1990 Magneti Marelli venne via da
Bari, ridusse la sua attività operativa, però continuò a fornire solamente le
centraline fino al 1993.
APPENDICE C
266
“Si, loro fornivano le centraline, noi andavamo in laboratorio e modificavamo il
software a causa delle dinamiche di sviluppo”.
Quindi alla fine...
“Si, Marelli ha dato un buon contributo, ma noi che eravamo gli utenti finali
facevamo sempre ritocchi al software di gestione motore”.
Facevano il minimo indispensabile, insomma.
“Sicuramente facevano quello che era da contratto, ma non conosco i dettagli,
poiché le decisioni importanti erano presi ad alti livelli e io ero poco più che un neo
assunto. Praticamente la grossa rivoluzione è avvenuta intorno al 1993-94. Il 1993 è
l'anno in cui si sono avute delle buone idee per quanto riguarda gli iniettori. Lo stesso
avvenne due anni prima per lo sviluppo del regolatore di pressione. Gli montammo la
stessa valvola a sfera dell’iniettore. Posso vantare di essere stato il primo a montare il
primo prototipo del nuovo regolatore di pressione. Tutta la parte forte di questo
iniettore, sempre per quanto riguarda lo sviluppo, è basato su una valvola cono-sfera che
presenta pochissimi difetti dal punto di vista della gestione del flusso di gasolio.
Tecnicamente quindi, nel 1993, avevamo poi finalmente capito che avevamo gli
iniettori giusti, non pronti per la produzione, però erano gli iniettori giusti, finalmente il
concetto giusto”.
Se gli iniettori erano giusti, perchè non erano pronti per la produzione?
“È perchè c’era da fare tutto lo studio sulle tolleranze di prodotto e di processo”.
Non erano pronti per essere prodotti su grande scala?
“No, non erano ancora finali. Infatti, poi nel 1993-94, quando il sistema
cominciava ad essere pronto, alla Fiat fu disposto uno studio di fattibilità industriale sul
progetto Common Rail che parlava di un investimento iniziale di circa 150 miliardi di
lire per partire con le prime linee di produzione. Quello è il periodo in cui Fiat utilizzava
più il buy che il make. Infatti, nel 1993 cominciavano tutte le grandi politiche di buy, nel
1993-94 e poi più avanti, Fiat comprava non solo componenti ma sistemi integrati”.
Assemblati e sub-assemblati, cosa intende?
“Per i motori, per i componenti. Fiat voleva comperare i componenti piuttosto che
farseli in casa ed è stato il periodo in cui aveva praticamente venduto molte società,
come la Sepi che faceva sedili, la Marelli l’aveva distaccata. Quest’ultima era stata
spinta fuori del gruppo Fiat, con partecipazioni Fiat, però era stata spinta fuori perchè
APPENDICE C
267
doveva comunque fornire, essere indipendente e Fiat comperava come se Marelli fosse
un’azienda esterna. Credo che tutti questi discorsi avevano spinto alla considerazione
finale che un investimento da 150 miliardi non sarebbe stato recuperato che a lungo
termine”.
Che errore.
“Errore gravissimo, col senno di poi, perchè credo che il 30 per cento del fatturato
di Bosch venga dai sistemi Common Rail”.
Dopo quasi dieci anni di studi e ricerche, si giunge alla decisione di cedere
tutto. Devono essere cambiati completamente la strategia e gli obiettivi della casa?
“Ma quelle sono le decisioni aziendali che si prendono nel momento in cui
bisogna prenderle, con le politiche e le filosofie del momento. È stato deciso così.
Quindi, nel 1993 si comperò un Mercedes, la 250D se non ricordo male, che fu
attrezzata con quelli che noi tecnici chiamavamo i Four Diamonds, iniettori eccellenti
per caratteristiche e durata. Questi iniettori erano stati sigillati, chiusi, credo che fosse
stata richiesta anche una dichiarazione da parte di un notaio. Si diceva di un notaio che
autenticava l’origine degli iniettori. Il veicolo è stato portato dal CRF in Sud Africa, per
prove a caldo, e in Svezia, per prove a freddo. Questa Mercedes aveva percorso quasi
100.000 Km con gli iniettori Common Rail montati su. E si parlava ancora di prototipi”.
Erano ancora gli iniettori Common Rail completamente Fiat, non c’era
ancora la Bosch?
“Si, erano i nostri, erano quelli della Elasis”.
Perchè una Mercedes e non una Fiat?
“Era già stato fatto su Fiat. La prima auto fu, nel 1993, una Croma a iniezione
diretta [1.9 TD i.d.] che andava benissimo. L’auto aveva guadagnato circa il 10 per
cento di potenza in più con dei consumi che erano inferiori del 10 per cento”.
Col Common Rail?
“Si, rispetto all’impianto tradizionale. L’unica auto che poteva essere utilizzata
era la Fiat Croma iniezione diretta che, con il sistema tradizionale, la pompa rotativa,
faceva un bel rumore. Lo stesso motore con il sistema sembrava essere un altro motore.
Si capì subito che la camera di combustione doveva essere completamente rinnovata,
perchè l’iniettore del Common Rail aveva delle caratteristiche ben diverse dal classico
in termini di spray e velocità del getto. Nel 1993 dunque, era stata allestita questa
APPENDICE C
268
Croma al CRF e quest’auto ebbe un incidente a 25.000 Km. Erano state pianificate
moltissime sperimentazioni, poi la Croma si era distrutta, per fortuna il pilota non ebbe
problemi. C’era stato un incidente, il pilota aveva fatto un incidente in montagna con
l’auto, c’era del ghiaccio. Applicare il Common Rail su un’auto tradizionale era un
lavoro abbastanza lungo: togliere tutto il vecchio sistema, fare lo staffaggio, per poter
montare la pompa, il rail ecc. prendeva molto tempo. Quindi c’era una grossa
sperimentazione che doveva essere fatta sulla Croma e si era fermata intorno ai 25.000
Km”.
Quindi, non potendo più fare la sperimentazione sulla Croma, avete pensato
di usare una Mercedes?
“No, le strategie erano di proporre il sistema a Bosch. Quindi attrezzare la
Mercedes. Ricordo che all’inizio del 1994 fu organizzata una dimostrazione per
Mercedes a Stoccarda e fra gli invitati c’erano i top manager della Mercedes e della
Bosch. Sulla pista di Stoccarda è stata poi fatta la dimostrazione dell’auto, tanto che poi
Mercedes chiese a Bosch di interessarsi al sistema. Nel 1994, fu fatta la joint-venture e
Bosch cominciò a partecipare al progetto. Credo il valore di Elasis Bari 2 fu stimato per
140 miliardi e Bosch vi partecipò al 50 per cento. Non posso però essere certo, in alcun
modo di tali dati”.
Per le ricerche?
“Per compensare le ricerche e loro quindi poter condividere i brevetti e il futuro
dello sviluppo. Nel patteggiamento, siccome questo centro Elasis doveva essere un
centro di sviluppo per una ricaduta lavorativa nella zona di Bari, ci fu che all’inizio
Bosch avrebbe dovuto produrre sia gli iniettori che la pompa di alta pressione a Bari. In
effetti, non c’erano nemmeno tutti i locali e il progetto avrebbe subito dei grossissimi
ritardi e il tempo è denaro. La produzione degli iniettori fu trasferita altrove. La Bosch
sotto il nome di TDIT prese alcuni locali della Marelli e li fu fatta la produzione della
pompa.”.
Gli iniettori sono stati trasferiti a Bamberg, mi sembra.
“Gli iniettori sono stati prodotti a Bamberg dove Bosch ha un avanzatissimo
centro prototipi. Le lavorazioni da fare su questi iniettori sono con delle precisioni
elevatissime. Le tolleranze erano, sull’alberino per esempio, di cinque micron, una cosa
APPENDICE C
269
veramente piccola. Bosch riusciva però a fare di meglio e garantiva, sui pezzi, delle
linearità di 0,2 micron su 20 mm di lunghezza”.
Dalle parole dell’ingegner Iacoponi ho capito che nel 1993 era pronto
l’iniettore prototipo, ma non per la produzione industriale. Però la Mercedes,
attrezzata con gli iniettori Common Rail realizzati all’Elasis di Bari, aveva
percorso ben 100.000 Km?
“Erano degli iniettori che erano stati scelti accuratamente, cioè c’era stato tutto un
grandissimo lavoro di selezione intorno. I dimensionamenti di quegli iniettori specifici
erano stati fatti utilizzando un metodo avanzato per l’epoca, il Design Of Experiment,
DOE in gergo italiano. Si trattava di metodologie giapponesi per poter ottimizzare le
caratteristiche funzionali. Il DOE aveva confermato tutti i trend sperimentali. Ci
spingemmo oltre con un modello di simulazione e facemmo uno screening sulle diverse
possibilità dei parametri, cioè un foro più grande, un foro più piccolo, un diametro
dell’alberino diverso, per poter poi distinguere quali potevano essere gli iniettori che
rispondevano alle caratteristiche volute. Nel 1994, quando è arrivata Bosch, lo sviluppo
si è accelerato esponenzialmente. Alcuni di noi ebbero anche un periodo abbastanza
frenetico, poiché il trasferimento del know-how comportava frequenti trasferte a
Stoccarda, Bamberg ed Homburg”.
Perchè queste trasferte in Germania?
“Perchè l’Headquarter doveva essere in Germania e quindi noi vedevamo in
realtà questo know-how che stava migrando lentamente verso la Germania. Loro
avevano comperato, dovevano fare la produzione, quindi non bisognava pensare tanto;
avevano bisogno di gestire la situazione. Quindi nel 1994 hanno preso piede, hanno
subito mandato dei Resident Engineer che potessero cominciare a fare tutti i vari
rapporti di prestazioni, di utilizzo degli iniettori, delle metodologie che utilizzavamo, i
materiali, tutto. La prima cosa che è stata passata sono state le distinte base, come si
dice in gergo tecnico, cioè significa tutti i disegni e le specifiche dei disegni, perchè il
progetto doveva essere trasferito. Questo è stato un grosso lavoro di documentazione,
perchè Bosch approfittava del trasferimento per adeguare lo standard Elasis allo
standard della casa tedesca. Cioè loro avevano le Bosch Norm, per esempio, e bisognava
utilizzare le Bosch Norm. Quindi, se c’erano dei materiali che erano stati specificati con
le Fiat Norm, dovevamo riclassificarli. Questo è durato tutto il 1994-95”.
APPENDICE C
270
Nel 1994 viene costituita una società, la Tecnologie Diesel Italia.
“La joint-venture”.
Questa joint-venture si chiama subito Tecnologie Diesel Italia?
“Si, questo era il nome”.
Le strutture di Elasis si trasformano in Tecnologie Diesel Italia?
“No. Le strutture di Elasis rimangono strutture di Elasis, credo fino al 2000”.
Nel 1994 si costituisce Tecnologie Diesel Italia che non va a occupare
fisicamente gli stabilimenti Elasis?
“No. Quello che fa è di prendere un’altra parte degli stabilimenti che praticamente
erano rimasti in disuso e di attrezzarli direttamente con i macchinari, i macchinari per la
produzione della pompa di alta pressione”.
E alla Elasis cosa si fa?
“La TDIT aveva finalità produttive, non aveva finalità di sviluppo o altro. L’altra
società che entrata, credo nel 2000, era la CSIT che dovrebbe essere il Centro Studi
Componenti per Veicoli Italia”.
È entrata la CSIT per sostituire la Magneti Marelli, perchè ci fosse sempre
una componente italiana?
“Non lo so”.
Ma Ricco e De Matthaeis sono passati tutti e due alla Bosch?
“Non conosco bene le dinamiche riguardo al passaggio. Ricordo che si generarono
dei dipendenti TDIT e che si affiancarono a dei dipendenti Elasis. Una certa percentuale
di persone era rimasta in Elasis e un’altra percentuale era andata poi nel centro TDIT”.
Quindi dal 1994 al 1996 che situazione c’era?
“Molto ibrida, perchè c’erano gli uomini della Bosch che venivano giù da noi e
comunque riferivano a Stoccarda, c’era per giunta un co-direttore, dottor Banzaff (credo
si scriva così), che era venuto nel 1995 e affiancava il dottor Ricco nella gestione del
centro. Banzaff curava l’interesse produttivo e Ricco rimaneva sulla parte di sviluppo”.
Per chiarirmi le idee, fino al 1993 Elasis a Bari si occupava dell’idraulica,
mentre CRF e Magneti Marelli si occupavano dell’elettronica. Poi però, anche voi
a Bari dovevate lavorare sull’elettronica che vi inviavano, perchè non era
propriamente perfetta.
APPENDICE C
271
“Nel 1994 Bosch ha gestito il problema della centralina elettronica, perchè si sono
accorti che eravamo in ritardo. In più nel 1994 ci fu un’idea brillantissima che venne dal
nostro dottor Ricco e che era l’utilizzo degli iniettori per partecipare all’induttanza
totale della centralina”.
Nel 1994 cambia la paternità delle ricerche?
“No, era sempre Elasis. Dal punto di vista dei dipendenti che erano Elasis, loro
erano rimasti Elasis; le finalità di lavoro cominciavano a essere diverse, perchè la
produzione si avvicinava e quindi lo sviluppo doveva essere congelato allo stato in cui
si trovava”.
Nonostante ci sia stata questa vendita, nel 1994, lei ha continuato a lavorare
per Elasis?
“Io ho utilizzato per cinque anni la stessa scrivania e la mia busta paga è stata
Elasis fino al luglio 1996. Dopo ho dato le mie dimissioni per avere una diversa
esperienza professionale”.
Credevo che con la costituzione di Tecnologie Diesel Italia, Elasis cessasse di
esistere.
“No, Tecnologie Diesel Italia si è affiancata a Elasis”.
Il Centro Elasis esiste ancora oggi a Bari?
“No, c’è la Tecnologie Diesel Italia e c’è il CSIT, sicuramente nella zona
industriale a Modugno. Chi era Elasis, nel 2000, si è trasferito al CSIT”.
Quindi fino al 2000 Elasis non era di Bosch.
“Elasis è sempre stata Elasis, però Bosch aveva versato alcuni miliardi perchè
potesse acquisire i diritti sui brevetti di Elasis e perchè potesse compensare le spese di
sviluppo fatte fino a quel momento”.
È arrivata la Tecnologie Diesel Italia che era fisicamente vicina a Elasis?
“Per un periodo hanno convissuto, hanno distaccato un dipartimento e l’hanno
fatto diventare Tecnologie Diesel Italia; c’era una stanzetta e sopra vi hanno messo la
targhetta di Tecnologie Diesel Italia, ma il signore usciva dalla stanzetta e prendeva il
caffè con noi. Tecnologie Diesel Italia è nata lentamente. C’è poi da dire del lancio di
produzione. Nei patteggiamenti all’atto della joint-venture Fiat chiede di essere la prima
a lanciare in produzione un veicolo con motore Common Rail, prima di Mercedes e
prima di qualsiasi altro cliente. Ricordo che Fiat godesse anche di uno speciale sconto
APPENDICE C
272
sugli iniettori. In una pubblicazione tecnica del 2000 leggevo che Bosch scontava
l’iniettore per FIAT di circa 50 marchi rispetto alle altre case automobilistiche”.
Questo era quello che è stato chiesto nel contratto di cessione?
“Nella joint-venture. Ma chi consce tutti i dettagli di questa operazione?”.
Sa perchè è stata fatta una joint-venture, invece che cedere direttamente
tutto? So che c’è una presenza di Magneti Marelli.
“Credo che c’erano delle clausole governative sui contributi fatti per Elasis”.
Era questo il motivo?
“Si e noi all’Elasis facevamo le revisioni di progetto e i rapporti da mandare al
ministero del lavoro. E questo lavoro faceva parte del progetto di ricerca co-finanziato
dal governo”.
E se la proprietà fosse stata solo tedesca il finanziamento pubblico non
sarebbe più stato concesso?
“Certamente. La TDIT ha dovuto anche rispettare alcuni patteggiamenti fatti,
perchè altrimenti non avrebbero potuto comperare. Loro hanno rispettato quelli che
dovevano essere le ricadute di impiego sempre nel Sud e non avrebbero mai potuto
portare via tutto. Non generare delle ricadute occupazionali credo avrebbe provocato
delle penali”.
Sa chi ha posto le firme sul contratto di cessione da parte di Fiat?
“No, non ho idea di chi abbia firmato”.
C’è qualcuno che fosse convinto dell’utilità di questa cessione?
“Forse ai più alti livelli di Fiat”.
Nel 1994 si fa la joint-venture Bosch-Magneti Marelli, perchè mantenendosi
una parte di proprietà italiana si potevano sfruttare gli aiuti statali. Comunque
questa partecipazione di Magneti Marelli era quasi insignificante?
“Alla fine del progetto credo fosse solo legale. Ma io ero solo un ingegnere che
lavorava al progetto”.
La Tecnologie Diesel Italia nel 1996-97 era solo un centro produttivo, la
ricerca si faceva alla Elasis che era lì di fianco?
“Infatti, fino a quando non hanno cominciato a trasferire il know-how e anche lo
sviluppo in Bosch, a Stoccarda. Dal 1998 fino al 2000 circa, molti dei miei colleghi di
Elasis sono stati residenti a Stoccarda, dove hanno finito di fare il trasferimento di
APPENDICE C
273
know-how e poi sono rientrati con degli incarichi diversi, ma sicuramente lo sviluppo a
Bari si era molto ridotto”.
Si fa ancora ricerca giù a Bari, oggigiorno?
“No, non più. Praticamente è uno stabilimento a finalità produttive. C’è comunque
un po’ di testing, quello che viene fatto adesso su alcuni ritorni di pompe da cliente per
poter verificare se ci sono dei problemi di produzione, ma è un’attività legata alla
produzione, non c’è più nulla di sviluppo”.
Nel 2000 la joint-venture tra Bosch e Magneti Marelli è finita. Perchè era
finita la possibilità di sfruttare finanziamenti statali e non aveva più senso di
esistere?
“Perchè l’Elasis credo che avesse un periodo limitato forse 12 anni. Elasis Bari 2
era una società legata a dei progetti di ricerca. Dal 2000 in avanti è solo produzione e
diciamo che Elasis ha fatto il suo lavoro. Ha generato una ricaduta occupazionale. Poi
nel 2001-02 il dottor Ricco ha lasciato Elasis per andare in una società non molto
lontana di là che è la Tecnopolis-Novus Ortus. Questa è una Società consortile al cui
interno ci sono delle società che finanziano lo sviluppo di alcune branche di componenti
o fanno ricerche di sistema, ricerche di componenti, di mercato, finanziarie; è un novus
ortus, dove gli ingegneri dovrebbero stare per pensare a come cambiare il mondo e
generare occupazione. Ricco era stato, credo, assunto dal CRF per poter sviluppare, a
latere della Bosch, un nuovo sistema Common Rail, cosa che parzialmente è stata fatta.
Dapprima lui credo che abbia lavorato sull’ingegnerizzazione dei motori a gas e in più
sembra che l’ultimo lavoro che abbia fatto di recente sia stato l’ingegnerizzazione del
nuovo iniettore della Siemens, il piezo, per metterci un solenoide; fare l’iniettore a più
basso contenuto tecnologico, però altamente funzionale e, infatti, la collaborazione
Marelli-Siemens nasce dalle conoscenze di Marelli, perchè dentro adesso c’è Ricco e
poi c’era tutto il know-how che veniva dal CRF”.
Dov’è Ricco adesso?
“Ricco era al CRF, adesso dovrebbe essere un consulente sempre per il Centro
Ricerche”.
Dietro l’iniettore che sta sviluppando adesso la Magneti Marelli con la
Siemens?
“Dietro dovrebbe esserci Ricco”.
APPENDICE C
274
Mi ha detto l’ingegnere Ausiello che stanno sviluppando sia l’iniettore che la
pompa.
“È una cosa molto strategica. È intelligentissimo quello che ha fatto Marelli,
perchè ritorna sul mercato del Common Rail in ritardo, però con moltissime
competenze. Quindi, parte di quello che adesso Fiat compra da Bosch, comincerà a
comprarlo internamente dalla collaborazione Marelli-Siemens”.
Dopo che la Marelli, con la Siemens, avrà sviluppato iniettore e pompa ad
alta pressione, la centralina potrà svilupparla internamente la stessa Marelli;
mancherà solo il Rail (che non è un elemento critico del sistema)?
“No, un po’ di ferro; anche se le tubazioni del Rail sono di un materiale molto
speciale, studiato appositamente”.
Nel periodo 1994-1996 ci fu un travaso di know-how dalla Elasis verso la
Bosch?
“Si”.
Elasis trasportò verso Bosch quello che sapeva, ma non altrettanto può dirsi
per il CRF e la Magneti Marelli; da quanto sviluppato e fatto da queste due ultime
Bosch non attinse nulla?
“Bosch aveva bisogno dello specifico know-how di Bari. Il resto lo conosceva
già”.
Anche Siemens, Denso e Delphi commercializzano sistemi Common Rail.
Perchè, se la Fiat ha venduto il brevetto a Bosch, anche altri possono produrre e
vendere il Common Rail?
“Perchè hanno raggirato alcuni brevetti. L’ho fatto anch’io quando in Delphi ho
ricominciato a lavorare sull’iniettore Common Rail. Infatti, ho depositato due brevetti
sull’iniettore”.
Allora la Fiat cosa ha venduto, se tutti quanti possono fare il Common Rail?
Ha venduto dei brevetti specifici?
“Ben pochi possono utilizzare il brevetto con la sede conica; la sede conica è
caratteristica dell’iniettore della Bosch, perchè è una struttura molto robusta per poter
produrre un flussaggio e si fa erodere pochissimo dal fenomeno di cavitazione. La
cavitazione è il fenomeno legato ad un liquido che è compresso e a un certo punto si
espande rapidamente vaporizzando violentemente. Il cambio di volume provoca delle
APPENDICE C
275
accelerazioni nel fluido. Lo stesso in altre condizioni del condotto possono implodere
generando delle altissime pressioni se l’implosione avviene sulla parete del condotto.
Quindi, il vapore di gasolio ha un rapporto di densità fino a 1.000 volte più piccolo. Nel
momento in cui si ricondensa, lo fa con 1.000 volte in più di densità sulle pareti e brucia
le pareti, le erode, gli fa dei buchi. Il sistema con la pallina soffre pochissimo di queste
problematiche, poiché non genera dei bruschi cambiamenti di direzione. Infatti, ricordo
che nel 2000, in Delphi, avevamo messo a punto una teoria per legare i fluidi, la durezza
dei materiali e l’erosione”.
I brevetti sul Common Rail che sono stati ceduti da Fiat a Bosch quanti erano
all’incirca?
“Probabilmente una ventina di brevetti; perchè poi non conta solo il brevetto, ma è
come viene contornato. Quando si fa il deposito dei brevetti si decide il fenomeno
fisico. I fenomeni fisici non possono essere brevettati, però l’applicazione del fenomeno
fisico si, perchè è lì che c’è l’idea. Se viene brevettata l’applicazione può essere anche
brevettato tutto quello che è intorno, cioè delle varianti sull’applicazione e si chiamano
brevetti ombrello. Si può fare un solo brevetto, però ci si può coprire così bene dalla
pioggia che chi ci gira intorno, comunque non arriverà al centro, al cuore del nostro
brevetto”.
Mi ha detto l’ingegnere Ausiello che, dopo l’acquisto del Common Rail, la
Bosch ha brevettato parecchio.
“Dopo si, perchè noi avevamo fatto pochi brevetti”.
I brevetti che sono stati ceduti nel 1994 che anzianità avevano?
“Erano quasi tutti degli anni ’90. Poi ce ne sono stati tantissimi. Nel 1999 ricordo
che la lotta Common Rail fra Bosch e Delphi era molto centrata sui brevetti. C’erano dei
brevetti sul polverizzatore che venivano ritoccati e proposti alla EPO (European Patent
Office). Noi copiavamo loro e loro noi”.
In prossimità del lancio del 1997, Fiat, per accoppiare il sistema Common
Rail coi suoi motori, ebbe dei rapporti con Elasis e TDIT?
“No, poi il rapporto è diventato fra Bosch e Fiat. Elasis Bari e TDIT, erano delle
società al di fuori del gioco, perchè i motori venivano provati da Fiat e questa montava i
sistemi Common Rail di Bosch e faceva le prove sui veicoli”.
APPENDICE C
276
Ricorda altre società, oltre a quelle già citate, che si consorziarono
inizialmente in Elasis?
“Dovrebbe essere tutto negli annali di Elasis. Ogni centro Elasis aveva il suo
diretto sponsor, noi avevamo la Marelli”.
Perchè era quella che partecipava di più nella Società consortile?
“Si”.
Elasis andava ad occupare fisicamente il posto di Altecna a Bari oppure no?
“No, che io sappia no, perchè dove è stato fatto lo sviluppo c’erano soltanto degli
uffici, però c’erano anche già delle celle prova-motore. Comunque il centro lì era già un
centro testing, parte era dell’Altecna, parte no. L’Altecna non era solo nel nostro
edificio. Queste erano tutte strutture che erano utilizzate da Marelli per poter testare le
produzioni effettuate; cioè i banchi di prova venivano utilizzati con dei motori, ma il
fine non era in realtà testare il motore, il fine era testare le pompe che erano state
prodotte”.
Le risulta che per cedere i brevetti, la tecnologia, siano stati pagati all’incirca
26 miliardi di lire e per tutto quanto, comprendendo quindi il Centro Elasis di
Bari, sui 100 miliardi di lire?
“A me risulta che il versamento da parte di Bosch era stato di 70 miliardi. Ma non
posso esserne certo”.
Bosch paga 70 miliardi in cambio di cosa esattamente?
“70 miliardi e dopo Bosch, attraverso la TDIT, era entrata anche a far parte del
consorzio Elasis, non so in che forma legale, però faceva parte del consorzio”.
La TDIT era una joint-venture Bosch-Magneti Marelli che faceva parte del
consorzio Elasis?
“TDIT era nel consorzio Elasis”.
Nel 1994 Bosch ha comprato brevetti, linee di pre-produzione...Sa cosa sono
le linee di pre-produzione?
“Si, dove facevamo i nostri prototipi. Ma parliamo della pompa CP1”.
Dei laboratori quindi, non delle catene di montaggio?
“Non conosco esattamente i dettagli di questi accordi”.
Ho letto sui dei documenti che Bosch comprò anche il Centro Elasis di Bari?
È vero o falso?
APPENDICE C
277
“Elasis rimaneva Elasis. Loro non versarono, che io ricordi, la quantità integrale;
loro versarono il 50 per cento del valore commerciale del centro Elasis Bari – Centro
Ricerche Alimentazione Motore ed erano i 70 miliardi di cui le ho detto. Però, sempre le
cifre sono un valore di cui non sono certo”.
Su un mio documento si legge che nel 1994 Fiat cede a Bosch brevetti, linee di
pre-produzione e centro Elasis di Bari. I brevetti li cede?
“Si, sicuramente”.
Le linee di pre-produzione le cede?
“Si”.
A questo punto il dubbio è sul centro Elasis di Bari?
“In sostanza, lo cede perchè poi noi lavoravamo per Bosch-TDIT. Formalmente
però c’era Elasis dovunque, fino al 2000. Probabilmente nemmeno chi era al vertice in
quel periodo potrà ritrovare tutti i dettagli di cui c’è bisogno, perchè dentro Elasis
c’erano i contributi per la ricerca nel Mezzogiorno, legati alle ricadute occupazionali del
progetto”.
Ricadute occupazionali del progetto, intende la produzione delle pompe?
“Si, la produzione delle pompe, perchè faceva parte del patteggiamento. Elasis ha
continuato a vivere fino al 2000 e poi tutto è divenuto Bosch-TDIT (Tecnologie Diesel
Italia)”.
Bosch-TDIT si è fagocitata Elasis Bari?
“Si. Lo stabilimento di produzione è TDIT, ma il marchio è Bosch”.
Sulla rivista Quattroruote si dice che nel 1990 il progetto sul Common Rail
viene trasferito al CRF, a Orbassano, con tutto il personale di Bari, e rifinalizzato
all’iniezione diretta di benzina. Le risulta questo?
“No. C’era della collaborazione col CRF. Infatti, c’era questo ingegner Damiani
che si recava spesso a Torino per lavoro. Noi abbiamo sperimentato le pompe Rexroth
Diesel per verificarne la durata nel caso di alimentazione a benzina. Ovviamente
decadevano rapidamente in prestazioni dovendo rivedere i materiali utilizzati”.
Perchè testavate con la benzina?
“Perchè dovevamo verificare l’applicabilità sul benzina”.
Nel 1990 qualcuno ha deciso che il Common Rail doveva puntare al benzina?
APPENDICE C
278
“Non so da dove sono venute fuori queste cose del benzina, però i componenti e i
materiali del progetto erano dedicati ad applicazioni Diesel era quindi necessario
rivederli per il benzina”.
A Bologna chi c’era che lavorava sul Common Rail? La Marelli?
“La Marelli, i dettagli dovrebbe conoscerli tutti l’ingegner Ausiello”.
Prima della cessione del progetto a Bosch, i finanziamenti erogati da Fiat per
il progetto erano adeguati?
“I soldi che ci davano erano sufficienti per poter fare i nostri sviluppi, tranne il
1993 dove abbiamo avuto un periodo un po’ di ristrettezze, per il resto c’erano
finanziamenti a sufficienza e potevamo partecipare regolarmente a ottimi corsi di
aggiornamento professionale, soprattutto legati alle nuove tecniche di sviluppo prodotto,
poiché non avevamo concorrenti e bisognava essere tecnicamente critici”.
A Bari giungevano voci da Torino su cosa i grandi dirigenti pensassero del
progetto Common Rail portato avanti all’Elasis?
“Noi avevamo Rinolfi e Imarisio che venivano quasi ogni mese giù a Bari per fare
le riunioni di aggiornamento tecnico. Noi eravamo concentrati sul progetto”.
A parere suo personalissimo, Fiat poteva farcela ad arrivare a produrre
questo sistema?
“Si diceva che sarebbero bastati 150 miliardi di lire”.
E ci sarebbe riuscita nel 1997 o più tardi?
“Probabilmente più tardi”.
150 miliardi non mi sembra una cifra così spropositata, considerando le
dimensioni che ha Fiat.
“Si parlava di un investimento iniziale e produttivo di 150 miliardi per
cominciare. Non è una cifra così esigua. Le politiche erano comunque orientate al buy e
non al make”.
Perchè il sistema Common Rail è stato presentato proprio alla Mercedes?
“Perchè bisognava venderlo a Bosch e quindi Fiat l’ha presentato in questa
maniera”.
Perchè Mercedes aveva molto potere nei confronti di Bosch?
“Certo, sono tutte e due a Stoccarda. Se vai già una sola volta a Stoccarda puoi
ben vedere che sono praticamente uno affianco all’altro”.
APPENDICE C
279
Sono due società, diciamo, “amiche”?
“Si, certo”.
Nel 1994, al momento della cessione del Common Rail a Bosch, quale era la
situazione tecnica del sistema?
“Quando Bosch ha comperato, il sistema non era pronto alla produzione. I
prodotti erano buoni, funzionavano bene, ma gli scarti di produzione sarebbero stati alti.
Il grande lavoro sulle linee di produzione era finalizzato a mettere appunto il sistema in
maniera che potesse essere prodotto senza grossi scarti. Nei primi anni di produzione
Bosch ha accusato scarti molto alti. Gli standard di qualità sono 50-70 parti scartate per
milione e quando si va al di sopra di questo livello gli stabilimenti di produzione si
attivano. I margini di guadagno su un componente automobilistico sono così bassi e c’è
una concorrenza così agguerrita che, praticamente, sbagliare i calcoli dei costi o i calcoli
degli investimenti può portare il rendimento del prodotto a essere negativo per tutta la
vita di produzione; però a quel punto bisogna comunque produrre perchè l’accordo col
cliente è stato già fatto. Bosch nei primi anni ha veramente sofferto, poi sono riusciti a
mettere su la linea di produzione in maniera da avere un altissimo rendimento. La
pompa non è mai stato un componente veramente problematico. Bosch ha certamente
modificato la testa per minimizzare i costi. Ciò che aveva ancora bisogno di affinamento
era l’iniettore”.
L’elettronica, invece, era già più avanti rispetto all’iniettore?
“L’elettronica Bosch l’ha messa subito appunto. Con l’idea di utilizzare gli
iniettori come parte della induttanza totale della centralina, l’elettronica è andata subito
a nozze. Infatti, questo è un brevetto strategico che ha generato difficoltà nella
concorrenza”.
L’idea del brevetto dell’induttanza è di Ricco?
“Ricordo di si. Poi c’è un altro brevetto importante dell’iniettore e ricordo che
discutevamo del problema tecnico con un bicchiere di caffè vicino alla macchinetta
automatica Zanussi. L’iniettore soffriva di problemi di rimbalzo dell’ancoretta di
comando e quindi non era stabile, non era ripetitivo. L’ancoretta fu sdoppiata in due
parti per smorzare l’energia elastica nel fluido stesso, evitando il rimbalzo. Questo
sistema è stato molto studiato e ribrevettato poi in seguito in forma, diciamo, molto
protettiva da parte di Bosch. I brevetti successivamente modificati e ribrevettati
APPENDICE C
280
costituivano il pacchetto di brevetti ombrello. Bosch bloccherà molti concorrenti nel
tentativo di realizzare simili soluzioni tecniche”.
Adesso Fiat, attraverso l’accordo Magneti Marelli-Siemens, deve
praticamente rinnegare il suo Unijet, se vuole ritornare come produttore
indipendente?
“No, ci gireranno intorno. Chi ha fatto qualcosa sa quali sono i punti deboli”.
Fiat diventerà concorrente di un qualcosa che è nato come suo?
“Probabilmente si”.
In sintesi il “Common Rail” e stata una grande impresa tecnica portata avanti da un numero esiguo
di tecnici fino al momento in cui Bosch è entrata nel progetto. I semi di queste conoscenze si sono poi sparsi in molte altre aziende concorrenti di Bosch: Delphi, Siemens, Caterpillar, Denso. Il Common Rail è anche orgoglio del sud Italia e di una città, Bari, considerata la Milano del Sud e famosa sia per il tasso di disoccupazione e criminalità sia per la grande arte del commerciare. Esempio evidente che la genialità è nascosta in qualsiasi contesto etnico e culturale. Dedichiamo questo progetto a tutti coloro che hanno dovuto lasciare la loro terra emigrando nel nord Italia o all’estero per finalmente guadagnare a sufficienza per far vivere le loro famiglie.
Questa intervista è quanto posso ricordare dopo tanti anni. Probabilmente ci potranno essere delle imprecisioni rispetto alle sequenze temporali, ma la memoria non è sempre amica.
APPENDICE D
FERRUCCIO TONELLO
DIRIGENTE FIAT POWERTRAIN TECHNOLOGIES
INTERVISTA REALIZZATA PERSONALMENTE
TORINO – 17 NOVEMBRE 2005
“Ferruccio Tonello”
Carlo De Pellegrin
Che attività svolge Fiat Powertrain Technologies?
“La Mission di Fiat Powertrain è vendere motori e cambi ai clienti captive (Fiat,
Lancia e Alfa Romeo) e anche ai terzi (per esempio Suzuki, col motore 1.9 Multijet 120
CV). Fiat Powertrain è un’entità più virtuale che reale, nella quale confluiranno risorse,
dipendenti e attività della Powertrain di Fiat Auto, Iveco, CRF ed Elasis”.
Da dove ha origine l’idea del Common Rail?
“L’idea del Common Rail parte dal Politecnico di Zurigo. La Saurer (poi Dereco)
di Arbon fu il primo luogo in cui si sviluppò l’iniettore prototipale. Successivamente
Dereco e Magneti Marelli portarono avanti lo sviluppo dell’iniettore. All’Altecna di
Bari (anni ’80) si svilupparono le prime pompe e ancora gli iniettori. A quei tempi
all’Altecna lavorava già il dottor Mario Ricco”.
A quando risalgono le prime applicazioni su vettura del Common Rail?
“Già nel 1988 si iniziarono a testare sulla Fiat “Croma” TD i.d. i primi sistemi
Common Rail. La “Croma” TD i.d. era stata precedentemente sviluppata in Fiat ed in
particolare a Mirafiori”.
Cosa accadde nel 1990 al progetto Common Rail?
“Nel 1990 si credeva di poter vivere sugli allori, ma si poteva far meglio. Il CRF
si impegnò intensamente allo sviluppo del sistema Common Rail, in particolare per
quanto riguarda: software, controllo motore e centralina. Il dottor Ricco restò a Bari a
sviluppare l’elettroiniettore e ne realizzò uno quasi producibile che venne poi ceduto,
come brevetto e disegni, alla Bosch che dovette lavorare ancora molto per
APPENDICE D
282
industrializzare il Common Rail (c’erano delle tolleranze molto piccole applicabili sullo
stabilimento di produzione)”.
Quale fu l’incarico del dottor Imarisio?
“Il dottor Imarisio, presso il CRF, coordinò lo sviluppo del sistema di iniezione
Common Rail in tutte le sue parti”
Perchè il Common Rail è un sistema vincente?
“Perchè il Common Rail può essere usato su qualunque motore a iniezione diretta
e inoltre, potendo giocare sul numero e sulla pressione dell’iniezione di combustibile, è
meno rumoroso, meno inquinante e più potente. Il sistema concorrente, l’iniettore-
pompa utilizzato dal gruppo Volkswagen necessita invece di un motore specifico”.
Da dove deriva il motore 1.9 JTD lanciato sul mercato nel 1997?
“Il basamento motore è quello del 1.9 TD100 (a precamera) montato su Fiat
“Bravo” e “Brava”. La testata ovviamente è stata modificata, così come la forma della
camera di combustione che fu sviluppata dall’azienda austriaca AVL”.
La Fiat poteva produrre autonomamente il Common Rail?
“Per la Fiat era impossibile produrre da sola il Common Rail, non sarebbe stata in
grado di industrializzarlo”.
Come valuta il modo col quale fu ceduto il progetto Common Rail?
“A posteriori si può dire che sicuramente era perfezionabile”.
Come avrebbe dovuto essere l’accordo di cessione del Common Rail secondo
lei?
“Come è successo. Fiat è stata la stata la prima ad uscire in produzione con il
sistema Common Rail e la prima ad usufruire di ogni sviluppo Bosch sul sistema in
oggetto. Non fu messa in atto nessuna royalties per vendita ad altri costruttori e questo
sicuramente poteva essere un miglioramento del contratto stipulato con chi comprò il
sistema”.
Quanto fu pagato da Bosch per acquistare in toto il progetto Common Rail di
Fiat?
“Non lo so di preciso, in quegli anni si sentiva parlare di circa 100 miliardi di
lire”.
Chi firmò, per parte di Fiat, il contratto di cessione del Common Rail alla
Bosch?
APPENDICE D
283
Non conososco i dettagli.
A che livello erano i brevetti di Fiat sul Common Rail?
“Prima della cessione a Bosch Fiat aveva brevettato il sistema in ogni sua parte”
Quando iniziò lo sviluppo del Multijet e dove?
“Lo studio sul Multijet iniziò al CRF nella seconda metà del 1997”.
Fiat ha realizzato recentemente altre importanti innovazioni per quanto
riguarda i motori Diesel?
“Si, Powertrain ha brevettato il filtro antiparticolato (DPF) autorigenerante
semplicemente tramite iniezioni di combustibile. Il DPF è stato sviluppato al CRF dal
1997 al 2003, anno in cui andò in produzione per la prima volta sulla Opel “Vectra” 1.9
CDTI 120 e 150 CV”.
Oltre a Bosch, attualmente altri producono sistemi Common Rail?
“Si, per esempio Delphi, Siemens VDO e Denso. Delphi produce e vende sistemi
Common Rail a Ford e Renault, ma per poter fare ciò ha dovuto apportare modifiche
che non hanno reso. Siemens VDO sviluppa sistemi Common Rail e probabilmente ci
sarà un rapporto tra essa e Fiat Powertrain. Quest’ultima vuole, infatti, sviluppare
sistemi Common Rail con altri partner per affiancare la fornitura di Bosch”.
Secondo lei quale è stata la causa principale del boom delle vendite di auto a
gasolio in Europa negli ultimi dieci anni?
“Sono state le innovazioni nell’iniezione diretta ad alta pressione a spingere la
domanda verso le vetture Diesel, e il fun to drive dei motori Multijet”.
Questa è l’ultima pagina della mia tesi di laurea e la riservo a persone speciali.
Desidero esprimere un ringraziamento particolare al professor Sergio Noto per la
disponibilità dimostratami.
Sono riconoscente ai miei zii Letizia e Vittorio che hanno creduto in me,
sostenendomi in quest’avventura universitaria. Un sentito grazie va ovviamente alle mie
sorelle, Barbara ed Emanuela, a mia nonna Fulvia e a mia zia Luigina che non hanno
mai dubitato delle mie capacità. In un momento di grande felicità non posso poi
dimenticare quattro persone che ho conosciuto troppo poco o non ho conosciuto affatto,
il mio pensiero va quindi ai miei nonni Giuseppe e Carla, a mia zia Maria Grazia e a
mio zio Neri.
Un grazie all’amico di sempre Giacomo Bernardi, che nei momenti più difficili mi
ha aiutato a non perdermi d’animo. Faccio un grande “in bocca al lupo” a Giacomo per
la sua prossima e meritata laurea in Ingegneria Meccanica.
Come non menzionare poi gli amici che mi hanno accompagnato e sopportato in
questi anni universitari: Diego Dallatorre, Alessandro Negri, Riccardo Gardani e Andrea
Cavicchia. Grazie ragazzi per aver condiviso con me questo indimenticabile periodo
della vita.
Ricordo infine con affetto due nuove ma grandi amiche catalane: Andrea Palacio