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tekne

Mar 22, 2016

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Matteo Serra

tekne, percorsi di arte urbana
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La presente pubblicazione, a cura di Fondazione Rico Semeraro, è cofinanziata dal Fondo Sociale Europeo (FSE),dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dalla Regione Puglia. I lettori che desiderano informarsi sulle pubblicazionie sulle attività di Fondazione Rico Semeraro possono consultare il sito internet: www.fondazionericosemeraro.it

Pubblicazione non destinata alla vendita, copyright © 2008 casa editrice “I Liberrimi”. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’autore.

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indice

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RICERCHE// FONDAZIONE RICO SEMERARO

Arte pubblica e politiche culturali in Provincia di Lecce

RICERCHE// FONDAZIONE FITZCARRALDO

Arte pubblica e politiche culturali in Provincia di Lecce. Un’analisi di contesto

I N T R O D U Z I O N E

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RICERCHE// ANDREA MANTOVANO

La riqualificazione dello spazio urbano dal Cinquecento al Novecento

RICERCHE// NICOLANGELO BARLETTI

Trasformazione urbana e contestualizzazione degli interventi

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introduzione

Che senso ha oggi per una comunità locale interrogarsi sul ruolo sociale dell’arte contemporanea, sulla sua praticabilità e diffusione in luoghi e contesti pubblici?TeKnè, percorsi di formazione in contestualizzazione e fruizione dell’arte urba-na, è un primo tentativo di rispondere a questa domanda. E’ un programma for-mativo e di ricerca, rivolto a dirigenti pubblici e privati nel settore dei beni e delle attività culturali, finanziato nell’ambito del POR Puglia 2000/2006.Dell’arte pubblica ci interessano soprattutto tre implicazioni, tutte e tre legate alla sua capacità di incidere nei processi sociali attraverso le dinamiche della creatività e della partecipazione.La sua attitudine relazionale, ossia la capacità di istituire nessi e legami tra la città ed i suoi abitanti, tra questi e gli artisti, tra gli artisti e i territori. Il suo farsi racconto, di luoghi, comunità, paesaggi.Ed infine il suo potere di scompaginare i meccanismi di accesso alla cultura.La prima implicazione presuppone un investimento culturale e sociale di lun-go periodo, che dia alle comunità il tempo di comprendere l’intervento artistico, elaborarlo ed accettarlo nel proprio vissuto, in un ricongiungimento tra spazio e valori sociali, che nelle moderne città è andato progressivamente dissolvendosi. I sottoscrittori di questo patto ideale sono molti: artisti, urbanisti, pubbliche am-ministrazioni, società civile. I primi sono chiamati a confrontarsi con lo spazio urbano ed ambientale, ad assumersi, cioè, la responsabilità della propria opera in uno specifico contesto territoriale, ripensando il loro ruolo in funzione ad esso. Le seconde, quali committenti delle opere, a costituirsi come tramite tra gli ar-tisti e le istanze delle popolazioni. Alla società civile, qui intesa come l’insieme delle persone che quotidianamente vivono le città, si può chiedere disponibilità all’ascolto, all’incontro e alla condivisione dei propri ambienti di vita. La seconda implicazione riguarda la città, le sue trasformazioni, le sue mappe interne, le sue mutevoli geografie, i suoi orizzonti. Negli ultimi decenni del seco-lo scorso, molti artisti hanno concentrato la loro ricerca sulla definizione delle

conseguenze pubbliche della loro opera. Si sono così inaugurate nuove poetiche di ascolto e di osservazione, che consentono uno sguardo più attento alle domande che le città pongono, più disponibile a considerarle pagine di un progetto comune. La terza muove da una provocazione: basta collocare un’opera d’arte in un ambi-to pubblico per farla diventare un’opera d’arte pubblica?Ovviamente no, occorre mobilitare quel circolo virtuoso tra committenti, media-tori, artisti, cittadinanza, che innesca la complessa trasformazione delle cose e delle persone. Ma il fatto è che solo nell’arte pubblica la committenza viene dal basso e questo genera effetti dirompenti: si rovesciano i rapporti di potere, si determinano inattesi cortocircuiti nel sistema della produzione culturale, si ri-mescolano i piani sociali, proprio perché la libertà degli spazi urbani consente modalità di fruizione non immaginabili altrove. Incrociando tali premesse con i risultati di Culture e territori. I consumi culturali in provincia di Lecce, che abbiamo pubblicato nel 2007, ci siamo chiesti, in ultimo, se sia possibile definire il profilo del fruitore-consumatore culturale in provincia di Lecce, sul presupposto, da sottoporre a verifica, che tale consumatore sia un potenziale fruitore di arte pubblica. Culture e territori indaga i consumi extra-moenia dei residenti in provincia, ossia quei consumi che portano gli individui a relazionarsi con gli spazi fisici e i luoghi dell’anima, condivisi con la collettività. Per comodità di analisi, tali spazi vengono circoscritti in categorie: teatro; cinema; musei e mostre; concerti di musica clas-sica e opera; altri concerti di musica; monumenti e siti archeologici. La ricerca pone più di un motivo di riflessione. A cominciare da una larga fascia di inappetenza culturale, cioè di cittadini che nel corso del 2006 (periodo al quale si riferisce l’indagine) non hanno effettuato alcun tipo di consumo.Ma preoccupano soprattutto la diseguale distribuzione dei consumi sul territorio e la disattenta conoscenza di esso da parte dei residenti . Il capoluogo domanda più cultura rispetto alla provincia. E’ un dato che segnala l’urgenza di strategie

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PERCORSI DI ARTE URBANAIN PROVINCIA DI LECCE

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inclusive delle periferie, pena lo sfaldamento di quei legami di identità ed appar-tenenza senza i quali è vano costruire qualsiasi misura di policy. Se volessimo invece capovolgere il ragionamento, per tentare una lettura in po-sitivo dei dati, potremmo affermare che esiste una robusta domanda potenziale di cultura, specialmente in provincia, che potrebbe essere stimolata attraverso azioni specifiche sulle barriere al consumo (carenza di tempo libero e di offerta in grado di destare interesse) o sui possibili incentivi (sconti, agevolazioni, del tipo card provinciale di tipo intersettoriale, maggiori informazioni).In conclusione, abbiamo cercato di raccogliere, con il progetto TeKnè, un primo quaderno di appunti in tema di arte pubblica e politiche culturali connesse. Che, naturalmente, doveva servire a seminare, più che certezze, dubbi, curiosità, sti-moli e suggestioni. Licenziando la ricerca ed il corso, ci chiediamo se non si possa pensare di utiliz-zare questa strada per esperimenti di progettazione condivisa, con le ammini-strazioni pubbliche eventualmente interessate. Sul genere di Nuovi Committenti, programma di Fondation de France poi adottato in Italia da Fondazione Olivetti, che facilita l’incontro tra artisti e società civile, promuove la concreta realizza-zione di opere d’arte pubblica e si fa carico di garantirne la fruibilità nel tempo. Al suo interno, per esempio, Immaginare Corviale nasce da un’esigenza avvertita tra gli abitanti di quel complesso popolare alla periferia di Roma, di modificare l’immagine stereotipata dell’edificio, puntando sul loro coinvolgimento nell’in-venzione di un nuovo volto del quartiere. Immaginare Corviale è un esperimen-to di produzione culturale che coniuga pratiche di progettazione partecipata, di community art, di creazione artistica e multimediale in comunità marginalizzate. Nuovi Committenti, attraverso tali concrete attività di maieutica dei bisogni cul-turali in seno alla collettività, rappresenta un caso emblematico di democratiz-zazione reale della cultura. In questo campo c’è una grande sfida da raccogliere, si chiama partecipazio-

ne. E c’è bisogno che qualcuno abbia voglia di raccoglierla e cominci a farlo. Ciascuno nel suo.Continuiamo a ritenere, infatti, che accrescere opportunità e strumenti di co-noscenza sia uno dei compiti principali del terzo settore, nel riconoscimento del ruolo autonomo e sussidiario – non supplente delle istituzioni – che la Costituzione gli assegna. Questa pubblicazione nasce per restituire in parte la profondità di analisi e di lavoro progettuale, oltre che la fitta trama di relazioni umane e professionali, che ha alimentato TeKnè, percorsi di formazione in contestualizzazione e fru-izione dell’arte urbana.Riordinando le carte per prepararla, mi accorgo che sono moltissime le persone da ringraziare, segno anche questo, evidentemente, di partecipazione.I ricercatori: Michelangelo Barletti, Andrea Mantovano, per Fondazione Fitzcar-raldo Luca Dal Pozzolo e Alessandro Bollo, Lisa Parola per a.titolo, Daniela Po-tente per Fondazione Semeraro, Vincenzo Corona, che ha curato il coordinamen-to della ricerca, con tutto il suo gruppo dello studio associato Korema, il tutor d’aula, Alina Spirito, ed il tutor di ricerca Fabio Fabrizio.I partner del progetto: l’Università del Salento, dipartimento di scienze sociali, l’Osservatorio urbanistico TeKnè, l’Istituto di culture mediterranee della provin-cia di Lecce, l’Unione dei comuni della Grecia salentina, il Comune di Calimera.I docenti, che non è possibile nominare tutti, e i corsisti, ognuno dei quali è stato per noi un incontro prezioso, che speriamo non si chiuda qui.Ed infine, come sempre, i miei compagni di strada, senza i quali TeKnè e ogni altra cosa non sarebbe così come è: Riccardo Rucco, Valeria Vicanolo, Dino Anto-nopoulos, Maria Grazia Pezzuto, Laura De Donno.

Roberto Caracutadirettore Fondazione Rico Semeraro

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La riqualificazione dello spazio urbano

dal Cinquecento al Novecento

Andrea Mantovano

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Obiettivo del Progetto Teknè è la formazione di una “coscienza estetica” indirizzata alla contestualizzazione delle opere pubbli-che, attenta in modo particolare ad integrare e ricercare i corretti rapporti per l’inserimento di nuovi interventi in un contesto urbano consolidato per storia e stratificazioni.

In tale ottica, il presente contributo cerca di individuare alcune linee-guida nella futura azione progettuale, attraverso un’analisi dell’esistente in ambito locale: in particolare, all’interno dell’ambito urbano sono stati scelti alcuni casi di interventi artistici e monumentali eseguiti in passato, scelti a campio-ne per tipologia ed epoca, e valutati soprattutto nel rapporto con il contesto, e con le culture dei materiali e della tradizione.Elementi utili potranno quindi derivare da un’analisi dell’evoluzione di tali spazi, di ognuno dei quali si valuterà l’inserimento anche in base ai rapporti visivi e dimensionali.Analisi e confronto quindi come strumenti per determinare i parametri per l’integrazione di un intervento non dissonante nel contesto: elementi utili che possono scaturire dall’esame relazionale dei vari interventi eseguiti in passa-to, con modalità che potremmo definire “armoniose”, confrontati con alcuni contemporanei esempi di interventi dai differenti risultati.

Tra Settecento e Novecento, i principali spazi urbani della maggior parte dei centri distribuiti nel territorio pugliese, e principalmente in Terra d’Otranto, sono oggetto di radicali trasformazioni urbanistiche e di una specifica riqua-

lificazione, attuata attraverso una precisa progettazione dello spazio urbano, culminante spesso con l’erezione di monumenti e statue di varia natura.A partire dalla seconda metà del Seicento e per tutto il Settecento molte piaz-ze si arricchiscono di obelischi, guglie, colonne, monumenti, statue, edicole e dipinti eretti e dedicati in segno di devozione e ringraziamento al Santo pro-tettore ed alla Vergine Immacolata e, più raramente, a figure di regnanti.Nelle città di Terra d’Otranto in segno di devozione al patrono S. Oronzo è dedicata la seicentesca colonna in piazza dei mercadanti a Lecce (quindi ri-nominata); il culto dell’Immacolata è legato prevalentemente agli episodi di terremoto che nel Settecento colpiscono le città pugliesi, come testimonia la guglia della Vergine in piazza Salandra a Nardò; alla medesima tipologia fanno inoltre riferimento la guglia di S. Vito a Lequile e la guglia di S. Anna in piazza Vittorio Emanuele II a Vernole.Questa tradizione di monumentalità regligiosa prosegue per tutta la prima metà dell’Ottocento, con l’obelisco di S. Giovanni Elemosiniere in piazza Diaz a Casarano, la guglia S. Rocco a Lizzanello e altri esempi.Dopo l’Unità d’Italia la classe dirigente sostituisce a questa tradizione religio-sa una propria campagna laica di valorizzazione di personaggi della cultura e politica locale e nazionale, attraverso l’erezione di monumenti, busti, lapidi etc, culminanti nella prima metà del Novecento con i monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale, seguiti dai monumenti dedicati a personaggi locali e, in ultimo, da una produzione di fontane inaugurate durante gli anni Trenta in occasione dell’arrivo dell’Acquedotto Pugliese nelle città.

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A. Mantovano LA RIQUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

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PERCORSI DI ARTE URBANAIN PROVINCIA DI LECCE

8PIAZZA DEL POPOLO

MURO LECCESE

LA PIAZZA COME SCENOGRAFIA URBANA

“Entrai a Muro (...) di primo acchitto mi si presentò la piazza del mercato (...) È qui il teatro degli spettacoli civili e religiosi: rappresentazioni teatrali gli uni e gli altri!”.

Cosimo De Giorgi, 1882

ASSE PROGETTUALE

ASSE PROGETTUALE

ASSE PROGETTUALE

PUNTI DI VISTA

PALAZZO PROTONOBILISSIMO (EX CASTELLO)

CHIESA PARROCCHIALE (XV-XVIII sec.)

CHIESA MADONNA IMMACOLATA (XVIII sec.)

COLONNA VOTIVA PROTONOBILISSIMO (1607)

ARCHI LATERALI (1820)

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5SCHEMA PROGETTUALE

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9PIAZZA DEL POPOLOMURO LECCESE

Il disegno della piazza richiama un triangolo in cui la base ed il vertice sono caratterizzati da due chiese che si fronteggiano, rispettivamente la Parrocchiale e la Madonna Immacolata. La concentrazione di interven-ti edilizi di rilievo cinque-seicenteschi conferisce alla

parte orientale il ruolo di spazio principale nella vasta area pubblica: da identificare come primo e più importante nucleo della piazza, tale area originariamente si configura come un quadrato con lato uguale al fronte del palazzo feudale dei principi Protonobilissimo. Su di esso prospettano l’ex castello (alle cui spalle si estende la “Terra”) ristrutturato ed ampliato intorno alla metà del ‘500, e la Parrocchiale, più volte ricostruita a partire dal 1481. Su lati opposti dello stesso slargo quadrato confluiscono inoltre le due princi-pali arterie viarie della Muro preottocentesca: a sud la via Salentina ed a nord la via per Cursi e Lecce, assi stradali di rilevante peso nella crescita urbana.

In piazza, la presenza della famiglia dei feudatari viene ri-badita dall’imponente prospetto del palazzo principesco, nuovamente ristrutturato tra Sei e Settecento, e dalla co-lonna votiva innalzata nel 1607 come fulcro dello spazio: si

trova in asse con via Salentina ed al centro dell’originario slargo quadrato delimitato dal palazzo feudale e dalla Par-rocchiale, mentre i prolungamenti delle diagonali che si ir-radiano dal basamento (ruotato di 45° rispetto alla direttrice est-ovest) individuano angoli chiave delle vicine emergenze monumentali.

Dal 1680 al 1693 viene riedificata nell’attuale forma la Par-rocchiale, la cui facciata è ultimata nel 1715; nel corso dello stesso secolo la piazza si amplia lungo la direttrice est-ovest con la costruzione della chiesa dedicata alla Madonna Imma-colata (1735), ampliata e ristrutturata nell’attuale forma dal 1774 al 1785. L’intervento settecentesco stravolge l’assetto “a pianta centrale” della piazza, a favore di una dilatazio-ne dello spazio in direzione della vicina Maglie, divenuta nel frattempo il principale abitato del Salento centromeridiona-le. Tuttavia la nuova chiesa si lega al preesistente comples-so monumentale (costituito da Parrocchiale, colonna votiva e palazzo feudale), grazie ad equilibrati e precisi rapporti metrici ed ottici, in parte alterati tra Otto e Novecento da sostituzioni edilizie e nuove costruzioni, quali l’ex mercato coperto, che occupano aree precedentemente libere.

A. Mantovano LA RIQUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

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10PIAZZA DEL POPOLO

MURO LECCESE

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11PIAZZA DEL POPOLOMURO LECCESE

I rigidi allineamenti dei fronti delle civili abitazioni sor-te sui lati settentrionale e meridionale della piazza inquadrano come un fondale il prospetto dell’Im-macolata, che chiude il lato occidentale dello spazio pubblico; la scenografica prospettiva viene esaltata

nel 1820 da due grandi archi uguali, uno per lato, “baroc-camente aggiunti (...) a mo’ di contrafforti”. Gli archi costi-tuiscono inizialmente porte d’ingresso all’abitato di Muro, preceduto dall’allungata piazza che offre il benvenuto a chi vi giunge da Maglie. Nei secoli lo spazio pubblico non cessa di essere il luogo

deputato alla socialità ed allo svolgimento di fiere e mer-cati (quello settimanale viene confermato da Ferdinando IV nel 1796); come tale viene ricordato nelle ottocentesche descrizioni di Luigi Maggiulli (nella piazza si svolgono “tut-te le riunioni popolari in occasione di pubbliche festività sia civili che religiose, ed è bello ed imponente spettacolo ve-derla in simili circostanze illuminata con il popolo festante in mezzo”) e Cosimo De Giorgi: “Entrai a Muro (...) Di pri-mo acchito mi si presentò la piazza del mercato (...) È qui il teatro degli spettacoli civili e religiosi: rappresentazioni teatrali gli uni e gli altri!”.

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12PIAZZA SANT’ORONZO

LECCE

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13PIAZZA SANT’ORONZOLECCE

Un ruolo decisivo nell’origine della conformazio-ne di piazza S. Oronzo, ab antiquo centro civico e commerciale della città, è svolto dall’anfiteatro romano: a partire dalla rinascita economica ed edilizia di Lecce in età normanna, le strutture

dell’anfiteatro sono sfruttate come fondamenta per i nuovi edifici che contornano lo spazio pubblico, il cui lato meridio-nale si dispone secondo la caratteristica forma ellittica che avvolge con andamento radiocentrico l’ovale corrisponden-te all’arena.

Tra Cinque e Seicento la piazza sembra composta da due diverse figure: oltre quest’area ellittica e lungo la direttrice dell’asse minore dell’anfiteatro si apre un altro largo irre-golarmente trapezoidale, delimitato da edifici fortemente connotati da una nutrita e potente colonia di mercanti vene-ziani (cappella di S. Marco, Sedile e isolato porticato detto “dei veneziani”). Il lato sud-occidentale della piazza è invece occupato dall’ “isola del Governatore”, un eterogeneo com-plesso di edifici destinati a uffici.

A partire dal Seicento la piazza è arricchita da diversi ele-menti di arredo, tra i quali spicca la colonna dedicata a S. Oronzo. Poiché la provincia salentina non viene colpita dall’epidemia di peste che sconvolse il Regno di Napoli nel 1656, in segno di ringraziamento l’Università di Lecce deci-de di erigere un monumento a S. Oronzo, a partire dal 1657 designato santo protettore del capoluogo assieme ai santi Giusto e Fortunato. Il sindaco di Brindisi offre come base per la statua una delle due colonne terminali della via Appia, crollata in seguito al terremoto del 1528.

Nel 1684 sono ultimati i lavori per l’erezione della colonna, su disegno e direzione di Giuseppe Zimbalo. Confrontando i dati dimensionali della prima statua di S. Oronzo (bruciata nel 1737) con quelli degli altri elementi che originariamente componevano l’intero monumento, ri-sulta che l’altezza del santo (16 palmi) era il doppio dell’al-tezza dello zoccolo e delle quattro statue che ne ornavano gli angoli, ben proporzionata all’intero fusto della colonna (80 palmi).

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14PIAZZA SANT’ORONZO

LECCE

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15PIAZZA SANT’ORONZOLECCE

È interessante notare come nel contratto stipulato tra Zimbalo e l’Università di Lecce si precisi che la colonna debba esser collocata “in mezzo la piaz-za”: tale volontà di centralità sembra riguardare però la sola area trapezoidale settentrionale, al

centro della quale è innalzata la colonna. In realtà l’esclusione dell’area ellittica dall’idea di “piazza” è solo apparente: la statua volge le spalle all’”isola dei Ve-neziani” e al lato settentrionale dello spazio pubblico, ma il santo impartisce la benedizione rivolto a sud, dove sono posizionati nel corso del tempo i vari elementi di arredo ur-bano (fontana, statua di Carlo V, basamento per statua di

Ferdinando IV etc.). Calvesi e Manieri Elia sottolineano l’ori-ginaria posizione eccentrica della colonna rispetto all’ellis-se dell’anfiteatro, generatrice dell’andamento degli isolati che prospettano sulla piazza: la posizione del santo non è al centro dell’ellisse e nemmeno sul perimetro, e ciò è inter-pretato come segno “di una composizione urbanistica, volta alla ricerca di un equilibrio dinamico e restia ad ogni assia-lità. Essa dimostra (...) la coscienza dell’unità spaziale tra la piazza tradizionale e quella ellittica che (...) si integrano in uno spazio continuo”, tardivamente raccordato dal recinto rettangolare allineato lungo l’asse nord-sud, lungo ed entro il quale sono posti i monumenti della piazza

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16PIAZZA SANT’ORONZO

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17PIAZZA SANT’ORONZOLECCE

Il XVIII secolo sancisce il progressivo declino dell’influen-za economica e del prestigio sociale della comunità ve-neta. Nel 1797 la visita a Lecce di Ferdinando IV è il pre-testo per l’avvio di un processo di ridisegno dello spazio pubblico, nel tentativo di conferirle un assetto “nuovo e

decoroso”: tra demolizioni e allineamenti di facciate viene rea-lizzato il piazzale rettangolare, prima figura regolare inscritta all’interno della piazza ed elemento di raccordo tra le due aree dello spazio pubblico.Il piazzale è al contempo luogo di “raccolta” di monumenti e sito nel quale si concentrano e dispongono le strutture neces-sarie all’espletamento di molte attività cittadine, dalle banca-relle per il mercato bisettimanale agli apparati effimeri alle-stiti durante le feste religiose e civiche.Nel corso dell’Ottocento i ritrovamenti sporadici e fortuiti di strutture del sepolto anfiteatro si alternano a parziali demo-lizioni di edifici in nome di un’imperante volontà regolarizza-trice di spazi e facciate, con una particolare attenzione rivolta alla zona a più diretto contatto con la nuova espansione ex-traurbana sul lato sud-orientale, in prossimità di piazza delle Erbe. Si compie quindi in un secolo il processo di ridisegno della piazza attraverso demolizioni parziali, tagli di sporgenze e mascherature dei residui delle antiche case con nuove fac-ciate omogenee, operazioni culminanti a fine secolo con l’ab-battimento dell’ “isola del Governatore”. Sulle aree risultanti sono erette la sede leccese della Banca d’Italia e palazzi priva-ti, conseguendo un duplice vantaggio: la demolizione risponde pienamente ai decantati ideali di “pubblica igiene” e di “decoro urbano”, e si amplia con forma “euritmica” e “veramente este-tica” il retrostante slargo antistante la chiesa di S. Chiara.Durante i lavori affiorano dal terreno ruderi appartenti a un edificio romano, identificato successivamente come anfitea-

tro; il settore riportato alla luce è limitato a una porzione del portico esterno racchiusa in un recinto a “L”. La parte meridio-nale dello spazio pubblico presenta un volto nuovo, derivante sia dall’allineamento dei fabbricati lungo lo stesso fronte, sia dal rifacimento dei prospetti dei blocchi che hanno subìto il taglio delle parti sporgenti: un fronte edilizio elegante e unita-rio, nobilitato dalle “antichità romane” chiuse nell’antistante recinto.Completato il processo di regolarizzazione planimetrica dell’invaso, la volontà di rendere omogenei i fronti di differenti architetture coinvolge anche facciate di edifici in precedenza non interessati da tagli urbanistici. Il prospetto dell’”isola dei veneziani” è oggetto di lavori tendenti a cancellare i segni più tangibili della presenza mercantile veneta e degli antichi appa-rati decorativi di facciata, rimossi a favore di prospetti anonimi e privi di rilevanti connotazioni, simili ai nuovi prospetti sul lato opposto della piazza. A partire dalla seconda metà dell’Otto-cento il fronte dell’isolato viene privato di colonne angolari, paraste e stemmi araldici; le arcate del portico sono ribassate per uniformità, i caratteristici finestroni a sesto acuto del pri-mo piano sono ridotti uno dopo l’altro ad aperture rettangolari e infine l’edificio è frammentato con sopraelevazioni che rom-pono l’unitarietà formale degli antichi prospetti. Tra il 1935 ed il 1937 due regi decreti approvano i piani esecutivi per consen-tire un maggiore scoprimento dell’anfiteatro e la conseguente formazione di una nuova piazza a nord della precedente, de-molendo alcune tra le più significative testimonianze storiche. Sul lato occidentale è edificato il palazzo dell’Istituto Naziona-le delle Assicurazioni, dotato al piano terreno di una galleria porticata. Anche i nuovi edifici, progettati come sedi di banche e uffici, presentano portici rivolti verso la piazza in omaggio al “secolare carattere mercantile dello spazio cittadino”.

A. Mantovano LA RIQUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

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18PIAZZA SALANDRA

NARDÒ

“Nel fine di questa strada si trova la piazza che è veramente magnifica anzi che no.Di poco falla, ch’ella non sia triangolare equilatera(...) e in tutti gli angoli vi sono tre strade principali(...) la strada, ch’è nell’angolo(...) è da tutti,e due i suoi lati piena di botteghe di varie arti, e nel fin di questa, la quale è diritta,(...) sta posta la Chiesa Cattedrale”.

G.B. Tafuri, 1848

ASSE PROGETTUALE

ASSE PROGETTUALE

ASSE PROGETTUALE

PUNTI DI VISTA

GUGLIA (1769)

SEDILE (XVI sec.)

PALAZZO PRETURA (XVIII sec.)

CHIESA S.DOMENICO (XVI-XVIII sec.)

CHIESA S.TRIFONE (XVIII sec.)

TORRE CIVICA DELL’OROLOGIO (XVIII sec.)

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19PIAZZA SALANDRANARDÒ

Il 20 febbraio 1743 un forte terremoto sconvolge Nardò: molti edifici privati e pubblici sono gravemente danneg-giati, ed in ricordo di tale avvenimento e come ringra-ziamento per lo scampato pericolo, al centro di piazza delle Legne o di S. Eligio (in seguito piazza Salandra)

i neretini innalzarono dal 1765 al 1769 una guglia dedicata all’Immacolata Concezione, realizzata a base ottagonale in

blocchi di carparo su cinque ordini rastremati.La guglia è classificabile nel gruppo delle strutture votive erette nel Salento dalla metà del XVII secolo: si colloca quin-di nella tradizione delle colonne innalzate da Giuseppe Zim-balo a Lecce per S. Oronzo ed a Presicce per Sant’Andrea, per quanto formalmente deriva direttamente dai modelli napoletani di matrice o gusto fanzaghiano.

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20PIAZZA SALANDRA

NARDÒ

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21PIAZZA SALANDRANARDÒ

Posta al centro della piazza principale, area de-rivante dalla confluenza dei tre assi maggiori della viabilità urbana, la guglia dell’Immacola-ta crea un nuovo assetto scenico della piazza, sulla quale prospettano i quattro edifici piu’ im-

portanti: il Sedile, il Municipio, la chiesa di San Trifone e la facciata laterale della chiesa di San Domenico. L’altezza del monumento tende a diminuire, con la propria verticali-tà, la disarmonia dimensionale esistente tra il palazzo del Municipio e la facciata del Sedile, stabilendo così un equi-librio architettonico dell’insieme; quindi l’erezione della guglia svolge anche una precisa funzione di riqualificazio-ne del tessuto urbano, con interventi urbanistici attuati in questo periodo in molti centri di Terra d’Otranto, tendenti ad una riqualificazione architettonica e monumentale dei maggiori centri.

Non casuale risulta infine posizione della statua della Ver-gine, che guarda verso via Vittorio Emanuele, asse che col-legava fino alla fine del secolo scorso la piazza con la porta San Paolo.I principali punti di osservazione della guglia si colloca-no presso i tre accessi in piazza e ciò è confermato anche dall’iconografia storica, che privilegia come punto di vista la via Vittorio Emanuele, verso cui è rivolto lo sguardo della Madonna. Una descrizione ottocentesca testimonia la cen-tralità anche simbolica della guglia nella piazza triangola-re: “(…) L’altra strada (corso Vittorio Emanuele) del sud-detto atrio della porta (porta S.Paolo) sta quasi dirimpetto alla medesima a man destra, è larga e lunga (…) Nel fine di questa strada si trova la piazza, ch’è veramente magnifica anzi che no. Di poco falla, ch’ella non sia triangolare equila-tera…e in tutti e tre gli angoli vi sono tre strade principali”.

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22GUGLIA VOTIVA

LEQUILE

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23GUGLIA VOTIVALEQUILE

Lequile, piccolo centro alle porte di Lecce, può es-sere assunto a modello di un abitato che conosce un forte incremento demografico ed edilizio fra XVI e XVIII secolo, sviluppando un centro stori-co di estremo interesse per le testimonianze di

emergenze architettoniche come per la conservazione di un tessuto minuto che oggi viene chiamato “barocco minore”, composto da case a corte, palazzi gentilizi, edifici di culto e cappelle, guglie e colonne votive.

Oronzo Rossi, scultore e sindaco di Lequile alla fine del Sei-cento, nel 1694 scolpisce la guglia a sezione triangolare sor-

montata sulla sommità dalla statua di S. Vito, patrono del luogo ai cui piedi è riprodotto un simbolico modello di Le-quile: anche qui la derivazione stilistica della guglia è dagli esempi napoletani.

L’apparato ornamentale anticipa in questo caso stilemi e soluzioni proprie del successivo tardobarocco, ma la fun-zione dell’elemento verticale è di ordinare lo spazio urbano, mediare le altezze dei vari edifici che prospettano in piazza e costituire nel contempo una cerniera con la futura espan-sione dell’abitato.

A. Mantovano LA RIQUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

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24GUGLIA VOTIVA

VERNOLE

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25GUGLIA VOTIVALEQUILE

La nuova piazza triangolare si qualifica come fulcro dell’espansione a nord dell’abitato: si tratta in realtà della regolarizzazione dell’antico slargo antistante il castello. Tutta l’area nel XVIII secolo viene interes-sata da un totale ridisegno, nei prospetti degli edifici

come nell’introduzione di nuovi elementi architettonici, fra i quali la guglia di S. Anna.

Il lato principale della piazza è occupato dal Palazzo Baro-nale, eretto come struttura difensiva ai margini dell’abitato

e trasformato in residenza feudale nel XVIII secolo, in adia-cenza ad un altro imponente palazzo nobiliare, ridisegnato anch’esso nel Settecento.

La guglia, ad ordini sovrapposti su base ottagonale, viene innal-zata nel 1781 al centro della piazza su modello delle guglie ba-rocche napoletane, quasi a voler sottolineare la nuova direttrice di espansione dell’abitato presenta la statua sulla sommità ri-volta non verso l’abitato, bensì in direzione dell’antistante chie-sa extramoenia di S. Anna.

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26COLONNE ANGOLARI

LECCE

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27COLONNE ANGOLARILECCE

Tra Sei e Settecento numerose colonne punteg-giano gli angoli di edifici innalzati precedente-mente, ed anche quando l’erezione è coeva alla costruzione di un palazzo, l’elemento angolare sembra mantenere un’indipendenza dimensio-

nale, formale e linguistica, tendente alla ricerca di un rap-porto con la strada e con le visuali, più che con il palazzo di cui è parte.

La colonna angolare barocca si sviluppa e si qualifica quin-di come elemento architettonico in grado di espletare fun-zioni di volta in volta emblematiche, onorarie o di arredo urbano, evidenziando particolari punti di un asse viario o sottolineando le tappe salienti di un percorso cittadino.Più difficile appare la lettura della dislocazione dei nume-rosi elementi angolari presenti a Lecce con varie forme

e soluzioni, ed una chiave di interpretazione potrebbe forse derivare dalla correlazione con alcuni percorsi urba-ni privilegiati o particolarmente importanti, processionali e civili.È evidente infatti una concentrazione negli isolati ad est di piazza Duomo e nelle aree a ridosso dell’asse di via Prato, collegamento diretto tra porta Napoli e piazza S. Oronzo nella città preottocentesca: entrambi assi consolidati di percorsi processionali.

Il “sistema” di soluzioni angolari trova un’altra appli-cazione nello slargo retrostante l’esterno del transetto del Duomo di Lecce dove tre diverse colonne in angolo, ognuna sormontata da uno stemma araldico, sottolineano punti chiave dello spazio stradale.

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28COLONNE ANGOLARI

LECCE

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29COLONNE ANGOLARILECCE

In alcuni slarghi delle strade, più che nelle piazze, l’addensamento di elementi angolari che si fron-teggiano è tale da creare dei “sistemi” di soluzioni angolari che dialogano con lo spazio urbano, anche ridotto, sul quale prospettano: come nella definizio-

ne dello spazio su cui affaccia la facciata principale di S. Croce ed all’esterno dell’abside del Duomo a Lecce.

Nei centri salentini gli elementi angolari, meno numerosi di quelli presenti nel capoluogo, non sottolineano le emer-genze architettoniche, ma sono dislocati in punti chiave del tessuto urbano: di volta in volta, la definizione dell’an-golo urbano assume le forme di una parasta sormontata dall’arme nobiliare, di una colonna votiva o semplicemente di una nicchia che contiene una statua sacra.

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30PIAZZA D’ITALIA

LECCE

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31PIAZZA D’ITALIALECCE

Negli anni immediatamente successivi l’Unità d’Italia l’area all’esterno di Porta S. Biagio a Lecce assume una particolare rilevanza per il ruolo di cerniera tra la città murata e la prima espansione extramoenia, attuata con il gruppo

di isolati che prende il nome di “borgo Lupiae”.

Si tratta di un’area che già in passato aveva espresso un’alta valenza, in quanto inizio del viale “attrezzato” che conduce-va alla quattrocentesca Torre del Parco ed ai suoi giardini; a fine Ottocento la zona prenderà il nome di “piazzza Liber-tini” e sarà caratterizzata da un impianto urbanistico basato

su un tridente viario i cui assi conducevano alla Torre, al paese di Lizzanello (poi al nuovo ospedale), a Maglie e S. Maria di Leuca.

Le medesime aree saranno le prime ad essere lottizzate a privati, con l’erezione di eleganti ville sul tracciato delle mura in via di demolizione: una delle prime è la villa del Se-natore Tommaso Martini, in stile neomoresco (1887), eretta nella zona più bella e salubre della città, frequentata nelle passeggiate e ricca di rigogliosi giardini (il viale antistante porta S. Biagio recava il nome di “viale degli Orti”).

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32PIAZZA D’ITALIA

LECCE

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33PIAZZA D’ITALIALECCE

Un momento importante per il nuovo assetto degli spazi verdi nella zona del Parco sarà alla fine del secolo la progettazione di piazza Libertini. L’erezione nel 1892 della statua al patriota sa-lentino Giuseppe Libertini è seguita dalla siste-

mazione a giardinetto pubblico dell’area circostante, posta in continuità visiva con il verde di proprietà privata delle zone contigue. La statua dedicata all’eroe locale, simbolo

di patrie virtù esemplari per le nuove generazioni, fa parte integrante del più generale programma tardottocentesco di diffusione capillare di aiuole e piccoli giardini attorno agli erigendi monumenti dedicati a personaggi di politica e sto-ria per lo più locale, da indicare ad esempio di virtù morale e civile: un aspetto significativo del “progetto” di decoro ur-bano dell’Italia post-unitaria.

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34PIAZZA D’ITALIA

LECCE

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35PIAZZA D’ITALIALECCE

Il monumento ai Caduti è posto in asse con la Casa del Mutilato, che chiude prospetticamente la piazza e fun-ge da fondale scenico a chi esce dalla città da Porta S. Biagio o ne percorre i viali, seguendo la passeggiata su viale degli Orti.

Eretta nel 1928, la Casa si struttura su un impianto “avvol-gente” ad esedra nella parte centrale (intesa come la parte

più rappresentativa dell’edificio), che ne connota il prospet-to principale aperto a fronte della porta urbica; il progetto architettonico appare impostato a criteri tardottocenteschi, in parte debitori a certa architettura viennese dei decenni precedenti, all’epoca ancora visti come gli unici in grado di tradurre ideali di simbolicità e monumentalità.

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36PIAZZA D’ITALIA

LECCE

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37PIAZZA D’ITALIALECCE

Intorno alla metà degli anni Venti del Novecento, il monumento a Giuseppe Libertini viene trasferito in piazza delle Poste; al suo posto il 28 ottobre del 1928, sesto anniversaio della Marcia su Roma, è inaugurato il monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale

e della guerra libica, opera di Eugenio Maccagnani.Strutturato come un blocco troncopiramidale fiancheggia-to alla base da ali con le lapidi contenenti i nomi dei Caduti,

il Monumento richiama nell’insieme una grande ara votiva a scala urbana; al centro della composizione ed alla base dell’obelisco, la parte scultorea è un’allegoria in bronzo della patria che depone rami di quercia e di alloro sulla base dell’obelisco, sormontata da una sfera in vetro rosso al cui interno arde simbolicamente la fiamma eterna, ren-dendo un eterno e silenzioso omaggio ai retrostanti nomi dei militi.

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38PIAZZA D’ITALIA

LECCE

Il monumento al patriotaGiuseppe Libertini è posto nel punto d’intersezione delprolungamento di via Cavourcon l’asse di porta San Biagioin una posizione non centralerispetto al perimetro del giardino. L’innalzamento di quest’opera conferisce allo slargo fuori porta la prima connotazione di luogo pubblico.

MONUMENTO A G. LIBERTINI (1892)

ASSI PROGETTUALI

PORTA SAN BIAGIO

MONUMENTO AI CADUTI

CASA DEL MUTILATO

BORGO LUPIAE (1880)

1

2

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SCHEMA PROGETTUALE0 5 10 15 20 25

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39PIAZZA D’ITALIALECCE

Tra il 1892 e il 1893 il comune di Lecce risistema il “piazzale” antistante porta San Biagio innalzan-do il monumento al patriota liberale Giuseppe Libertini, opera di Eugenio Maccagnani.Tale monumento è posto nel punto di intersezio-

ne del prolungamento di via Cavour con l’asse di porta san Biagio: la posizione non è centrale rispetto al perimetro del giardino, ma è in asse con la nuova struttura del vicino

mercato coperto, realizzato dopo pochi anni. L’innalzamento di quest’opera conferisce allo slargo fuori porta la prima connotazione di luogo pubblico attrezzato a verde, che si apre percorrendo una delle più belle passeg-giate lungo i viali extramoenia, e l’intervento si qualifica nel complesso come una riuscita “cerniera” urbanistica tra la città vecchia e la nuova espansione.

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40PIAZZA D’ITALIA

LECCE

Il modulo di base che determina la progettazione della piazzacorrisponde allo sviluppo frontale di porta San Biagio.Questo modulo (50 palmi)regolarizza i rapporti tra le emergenze edilizie della piazza.

CIRCONFERENZA

ASSE PROGETTUALE

PORTA SAN BIAGIO

MONUMENTO AI CADUTI

CASA DEL MUTILATO

BARICENTRO DELLA PIAZZA

1

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3

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SCHEMA PROGETTUALE0 5 10 15 20 25

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41PIAZZA D’ITALIALECCE

Il complesso Casa - Monumento viene concepito secon-do un progetto unitario che tiene in dovuto conto sia la più importante emergenza architettonica preesistente, ovvero Porta S. Biagio, sia la nuova situazione urba-nistica creatasi a seguito dell’intersezione fra il Viale

degli Orti ed il tridente viario.

L’asse mediano della composizione Monumento - Casa del Mutilato è direttamente collegato con la Porta; lungo di esso è rintracciabile il centro geometrico per la progettazione ed il dimensionamento dell’edificio e della sua parte più rap-presentativa, individuata nell’esedra colonnata, e per il po-sizionamento del complesso, centrato rispetto agli isolati di nuova costruzione che affacciano sulla piazza.

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42PIAZZA D’ITALIA

LECCE

Il modulo di base che determina la progettazione della piazzacorrisponde allo sviluppo frontale di porta San Biagio.Questo modulo (50 palmi)regolarizza i rapporti tra le emergenze edilizie della piazza.

MODULO PROGETTUALE

ASSE PROGETTUALE

PORTA SAN BIAGIO

MONUMENTO AI CADUTI

CASA DEL MUTILATO

BARICENTRO DELLA PIAZZA

1

2

3

4

SCHEMA PROGETTUALE0 5 10 15 20 25

1

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43PIAZZA D’ITALIALECCE

L’asse mediano della progettazione del complesso Monumento - Casa del Mutilato appare struttu-rato sulla ripetizione di un modulo dimensionale, che corrisponde in realtà allo sviluppo frontale del prospetto di Porta S. Biagio (50 palmi): un modulo

in grado di scandire le tappe salienti della composizione, di segnare l’ingombro della massa del Monumento, ed infine di determinare la conclusione della composizione sul retro-stante Viale Otranto.

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44EDICOLE SACRE

SALENTO

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45EDICOLE SACRESALENTO

Si confrontino a solo titolo esemplificativo alcune espressioni della devozione popolare e della reli-giosità vissuta dai cittadini, ieri e oggi: in passato erano l’estrema varietà formale, dimensionale e cromatica delle edicole sacre sparse nei centri

storici e delle statue poste sulle colonne angolari (che as-sumono valenza anche di elementi di arredo urbano), oggi domina la proliferazione di statue identiche, realizzate in materiali più economici.

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46EDICOLE SACRE

SALENTO

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47EDICOLE SACRESALENTO

La serialità si riflette anche nella produzione e nei materiali della devozione religiosa, anch’essa di tipo globalizzata ed indifferente al contesto. Al contrario, in passato i materiali e le tradizioni fi-gurative, decorative e costruttive costituivano un

imprimatur unico e ben riconoscibile a seconda delle varie aree geografiche, all’interno dell’obbedienza e della neces-saria rispondenza a precisi canoni imposti dall’iconografia cattolica, comunque fedele a modelli consolidati e ripetuta-mente pubblicati.

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48STATUE SACRE

LECCE, COPERTINO,GALLIPOLI

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49STATUE SACRELECCE, COPERTINO,GALLIPOLI

Senza timore di incorrere in accuse di un anticle-ricalismo iconoclasta, si rende necessaria una maggiore attenzione al contesto in cui si vuo-le collocare una statua o un altare. In ultimo si tratta di riscoprire il concetto di genius loci: il

luogo non è un contenitore anonimo in cui collocare indif-ferentemente il simulacro scelto dalla devozione religiosa, ma deve suggerire vere e proprie considerazioni di carat-tere anche progettuale. E ciò a partire dall’ubicazione, per arrivare a determina-

re materiali, forme, rapporti tra i vari elementi (la statua, l’altare, i vasi per fiori, le sedute, la pavimentazione, gli elementi di bordura e recinzione, etc.) che contribuiscono nell’insieme a disegnare uno spazio che sarà anche punto di aggregazione sociale. Questo non vuol dire contrastare iniziative di espressione devozionale, bensì rivalutarle e affrancarle da una banale omogeneità di forme e materiali, che finisce per svilire i contenuti e la forza espressiva che questi messaggi sem-pre contengono.

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50PIAZZALE SANTUARIO

SANTA MARIA DI LEUCA

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51PIAZZALE SANTUARIOSANTA MARIA DI LEUCA

L’applicazione delle norme basilari di euritmia e di buona architettura può evitare, tra l’altro, la fre-quente grottesca sproporzione tra statue odierne e preesistenti contesti o, più semplicemente, ri-spetto ai basamenti dei nuovi simulacri religiosi:

si veda ad esempio la piccola statua della Vergine (metà sec. XX) collocata sulla seicentesca colonna del piazzale del Santuario S. Maria de Finibus Terrae a Leuca.

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52RUOTA DELLA PACE

LECCE

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53RUOTA DELLA PACELECCE

L’opera scultorea nota con il nome di “Ruota della Pace” è stata collocata in un piazzale lungo viale De Pietro a Lecce, dopo un dibattito nato attorno alla migliore ubicazione per la grande scultura. In realtà la scelta del sito appare più improntata

sull’immediata disponibilità di un’area libera, scarsamente frequentata e contornata da anonimi e grigi edifici moderni per il terziario; una zona posta a ridosso di un’arteria stra-dale ad alto scorrimento veicolare, al cui interno la Ruota si pone in modo assolutamente casuale.Le conseguenze più visibili di tale scelta sono in primo luo-go l’illeggibilità della trama, che si svolge all’interno della

circonferenza, recante i dieci comandamenti: lo sfondo del retrostante prospetto dell’edificio vanifica ogni sforzo di chiara percezione, che sarebbe stata invece sublimata - ad esempio - da uno sfondo a cielo aperto. In secondo luogo, è del tutto incomprensibile la lettura di elementi dall’alto significato simbolico come la centra-le porta, metaforico momento di passaggio da una real-tà terrena ad una più spirituale: nell’attuale collocazione, l’occhio che traguarda verso la piccola porta - che sembra invitare all’attraversamento - riesce ad inquadrare solo al-cuni esercizi commerciali dell’anonimo prospetto del già citato retrostante palazzo.

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54PIAZZETTA S.

CASTROMEDIANO LECCE

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55PIAZZETTA S.CASTROMEDIANO LECCE

Il caso di piazzetta Castromediano a Lecce può esse-re assunto a simbolo del difficile e spesso irrisolto problema che nasce nel momento in cui testimo-nianze archeologiche, spesso sepolte al di sotto di poche decine di centimetri, vengono alla luce nel

corso di interventi di ripavimentazione urbana, di creazio-ne di sottoservizi o altro.La questione pone diversi interrogativi, e la frequenza di tali rinvenimenti (ovvia se si considera la storia e lo svilup-po della città di Lecce) porta sempre più spesso a chiedersi quale peso debbano avere le preesistenze archeologiche nel quadro di un centro storico strutturato e stratificato nelle proprie fasi evolutive e sostitutive. Ovvero se è giusto che determinate porzioni della città storica, espressione di pre-cisi momenti della propria crescita, debbano essere sacri-ficate per lasciare fisicamente il posto a brandelli di ruderi, testimonianze spesso illeggibili e non contestualizzate di una Lupiae sepolta da secoli.

È il caso di piazzetta Castromediano, ma il problema si pone nuovamente in questi ultimi mesi con i rinvenimenti in piazzetta Vittorio Emanuele II: in entrambi i casi, siamo in presenza di due piccole piazze nel centro storico, create in forma regolare nella seconda metà dell’Ottocento con la demolizione di preesistenti edifici. All’epoca venivano de-finite “squares”: tali spazi pubblici prevedevano al centro l’erezione di un monumento scultoreo dedicato ad un pa-triota locale o al monarca regnante, circondato da aiuole e piccoli giardini con sedute, e sono espressioni di una cul-tura urbanistica postunitaria che ha tracciato il volto e la prima espansione delle nostre città. Perché allora cancellare irrimediabilmente questi mo-menti della città in nome di frammenti archeologici da la-sciare in superficie, con interventi non previsti dai vigenti strumenti urbanistici e soprattutto nella totale assenza di un dibattito che coinvolga amministratori, tecnici, studiosi, ordini professionali, archeologi e cittadini?

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56PIAZZETTA S.

CASTROMEDIANO LECCE

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57PIAZZETTA S.CASTROMEDIANO LECCE

I lavori eseguiti a piazzetta Castromediano sollevano al-tri legittimi interrogativi, e tutto ciò senza entrare nel merito delle scelte formali adottate per i lucernari che si affacciano su un sottosuolo con ampie stratificazioni che comprendono tutta la storia della città.

Il primo quesito potrebbe riguardare la scelta di ciò che si vuole lasciare visibile: ma nel caso in oggetto si intravedono solo alcuni vani, del tutto insignificanti per un osservatore non archeologo dal momento che si vedono parti di un bat-tuto pavimentale, o un muro in conci, o una scaletta inta-gliata nel banco roccioso. Curiosamente, proprio l’area cor-rispondente ad una parte più facilmente comprensibile ad un occhio profano, ovvero una porzione di un frantoio con le vasche lapidee, è coperta da un vetro con strisce sabbiate che - umidità di condensa a parte - ne impedisce comunque

la visione.Il secondo interrogativo riguarda la tecnologia utilizzata: sin dall’inizio l’intervento (come d’altra parte era facilmente pre-vedibile in base a semplici considerazioni pratiche) ha dimo-strato i suoi irrisolvibili limiti, soprattutto per quanto riguarda la continua ed inarrestabile formazione di umidità da conden-sa sui lati interni dei cristalli dei lucernari, che impedisce con un velo di umidità pressoché costante la visibilità di quel poco che l’osservatore dovrebbe “scoprire”.L’ultimo quesito si ricollega all’interrogativo principale: tut-to ciò è necessario, considerato che si opera in un contesto urbano storicizzato e ben definito, che dovrebbe conoscere sforzi conservativi, e non demolitori? Ed è infine questo l’uni-co approccio possibile al rinvenimento “casuale” di tracce del passato della città?

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58PIAZZA

CAPRARICA

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59PIAZZACAPRARICA

Il progetto Il progetto di ripavimentazione di Piazza Vittoria a Caprarica di Lecce (2003) può offrire alcuni spunti di riflessione per un approccio metodologico progettuale ed operativo che, diversamente da quan-to continua ad avvenire sino ad oggi, tenga in preven-

tivo conto le preesistenze archeologiche, esistenti nei cen-tri storici salentini spesso a poche decine di centimetri al di sotto della pavimentazione stradale.Sino alla metà del Novecento, Piazza Vittoria si configu-ra come il tipico spazio urbano, simbolo del cuore di un piccolo centro abitato, nei pressi del quale si raccolgono contestualmente l’edilizia minuta del tessuto abitativo, e le principali “emergenze architettoniche” che hanno ca-ratterizzato la storia e l’immagine dei nostri centri abitati: la Chiesa Matrice ed il Palazzo Baronale, solitamente ex castello trasformato in residenza feudale.

Nel caso in oggetto la piazza si apriva alla confluenza del-le vie di attraversamento dell’abitato ed in posizione ba-ricentrica rispetto alla struttura urbana: un’area piccola per un modesto centro agricolo, corrispondente al sagrato antistante l’antica Parrocchiale, e quindi carica di valenze simboliche e religiose. Un’area piccola ma da sempre, e continua ad esserlo tuttora, luogo di raccolta dei cittadini di Caprarica nei diversI momenti della giornata; e parti-colarmente significativa, a tale proposito, è l’antica targa in ceramica che ne indica la denominazione, e che recita semplicemente “PIAZZA”.Un’area in cui sino al 1958 si innalzava la Chiesa Matrice dedicata a San Nicola; e la presenza della Chiesa, sebbene interamente demolita, al di sotto del piazzale era ancora viva nella memoria storica degli abitanti.

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60PIAZZA

CAPRARICA

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61PIAZZACAPRARICA

Nel 2001 il Comune di Caprarica di Lecce conferiva ai progettisti arch. Andrea Mantovano ed ing. Panta-leo Piccinno l’incarico di procedere alla redazione della progettazione definitiva ed esecutiva dei lavori di “ripavimentazione ed arredo di Piazza Vittoria”.

A seguito di saggi conoscitivi - preliminarmente svolti onde confermare l’esistenza di preesistenze al di sotto del piano pavimentale dell’attuale piazza - venivano alla luce sia alcune strutture di fondazione dell’antica Chiesa Parrocchiale di San Nicola, sia un concio lapideo recante su un lato una porzione di affresco raffigurante il volto di un Santo, datato da esperti al XII secolo d.C. e giudicato di pregevole fattura artistica. In seguito, su indicazione dei progettisti l’Amministrazione Co-munale affidava al prof. Francesco D’Andria la direzione scien-tifica per i lavori di indagine archeologica, da eseguire nell’area della scomparsa chiesa, eseguiti nel corso dell’anno 2002; tali lavori portavano alla luce l’intera area della chiesa ed una ne-cropoli di epoca medievale, oltre ad una quantità di reperti, cor-redi funerari e frammenti di affreschi di varia grandezza, facenti parte dell’originario corredo pittorico della chiesa (sec. XII-XIII). Il materiale estratto è stato quindi studiato dall’Università degli Studi del Salento, e nel 2003 è stato oggetto di una giornata di studi a Caprarica con l’esposizione dei risultati dello scavo, e la presentazione del progetto di ripavimentazione.Avendo in tal modo esaurito la fase conoscitiva e di inda-gine relativa alle preesistenze, in comune accordo con i progettisti l’Amministrazione Comunale decideva di rico-prire lo scavo, data la non opportunità di lasciare lo stesso a cielo aperto, in considerazione soprattutto dell’estensio-

ne dell’antica chiesa, che di fatto occupava la quasi totalità dell’area dell’attuale piazza: l’area veniva quindi interamen-te rivestita di “tessuto non tessuto”, interrata a mano con inerti rimovibili e quindi provvisoriamente coperta con un massetto cementizio magro e non armato.I recenti scavi hanno permesso di retrodatare al XII secolo la fondazione della primitiva chiesa di Caprarica, di dimensioni sensibilmente minori rispetto a quella demolita nel 1958: si trattava infatti di un edificio a navata unica, dedicato a San Nicola (protettore del paese) e preceduto nell’antistante piazzale da una vasta necropoli di epoca medievale scavata nel banco roccioso, le cui tombe più antiche sono orientate lungo l’asse est-ovest.L’interno della chiesa, chiusa posteriormente da una picco-la abside semicircolare di cui si è rinvenuta una traccia nel banco roccioso, era decorato da affreschi di stile ed epoca bizantina, e di ottima fattura pittorica ed artistica: i recen-ti lavori di scavo hanno permesso di recuperare numerosi frammenti di varie dimensioni recanti figure di santi, decori geometrici e floreali, scritte in alfabeto greco e motivi di va-rio genere (fasce, cornici, etc.). Fra il Cinquecento ed il Seicento la chiesa viene ricostruita e in-grandita, utilizzando in parte i materiali lapidei rinvenienti dalla precedente struttura: l’edificio si amplia secondo la figura del-la croce latina ed ingloba una parte della necropoli medievale precedentemente esterna all’ingresso. Si continuano a tumu-lare i defunti in tombe all’interno della chiesa, e nel Settecento sono scavati al centro dell’edificio quattro vani con volta a botte, destinati ad ossari.

A. Mantovano LA RIQUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

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62PIAZZA

CAPRARICA

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63PIAZZACAPRARICA

Il progetto della nuova piazza Vittoria è stato strutturato sulle risultanze dell’indagine archeologica: all’interno del piano pavimentale in basoli di pietra di Apricena è ri-creato il perimetro della scomparsa chiesa, messo in ri-salto con un diverso tipo di pavimentazione in cocciope-

sto, così come sono evidenziate - mediante l’uso di differenti materiali - alcune delle tombe facenti parte della necropoli. Il piano pavimentale della piazza si presenta così come un continuum, privo di scavi a cielo aperto, permettendo nel con-tempo la libera fruizione, esclusivamente pedonale, dell’inte-ro spazio e la facile lettura planimetrica dell’ingombro della chiesa scomparsa.Un’ulteriore differenza fra l’area della chiesa, chiusa da una sagoma evidenziata da materiali e colori diversi, e la restan-te parte della piazza è posta in risalto dai differenti formati e schemi di pavimentazione della pietra di Apricena: l’interno del perimetro dello scomparso edificio è pavimentato con lastre quadrate e regolari, del formato di cm. 40 x 40, come a simbo-leggiare il pavimento interno di un edificio, mentre l’area della piazza è ricoperta da basoli di formato diverso, posati in opera secondo un differente orientamento. Basoli disposti “a spina di pesce” segnano infine le due strade carrabili.Per facilitare la lettura della planimetria della chiesa, si è deciso di semplificare la sagoma di quest’ultima, eliminan-do i corpi accessori aggiunti in un secondo momento quali la sagrestia, la torre campanaria, etc.; lo stesso dicasi per le tombe, evidenziate sull’intero disegno pavimentale.Gli arredi previsti erano limitati ad elementi funzionali come

sedute lapidee dal disegno semplice basato su linee curve per raccordare anche fisicamente gli angoli della nuova piazza, un tabellone didattico con note storico-artistiche sulla chie-sa, rastrelliere per biciclette e fioriere; una piccola e nuova colonna votiva in pietra leccese, ubicata dove era l’antico sa-grato della Parrocchiale, avrebbe dovuto segnare la rinnovata consacrazione dello spazio urbano originariamente dedicato al patrono San Nicola.L’illuminazione doveva essere modulata su tre diversi livel-li: illuminazione su palo per garantire il giusto grado di lu-minosità alla piazza; proiettori con un’ottica a fascio di luce concentrato, per porre in risalto particolari architettonici de-gli edifici che prospettano in piazza; faretti incassati a quota strada lungo il prospetto del palazzo baronale, per evidenzia-re il fronte dell’ex castello, naturale e splendida quinta ar-chitettonica che chiude scenograficamente e valorizza il lato orientale della piazza. Il progetto esecutivo prevedeva queste ed altre soluzioni che sono state solo in parte raccolte dalla Direzione Lavori svol-ta nel 2003-04 dall’Ufficio Tecnico Comunale, con una netta separazione di ruoli tra progetto e realizzazione, peraltro già prevista nell’originaria Delibera di incarico professionale. Mo-tivazioni di ordine economico hanno invece determinato una completa difformità nelle soluzioni formali degli elementi di arredo e di verde, nell’uso dei materiali previsti in progetto e nella scelta dei corpi illuminanti, con un risultato che in defi-nitiva non è di immediata e comprensibile lettura, ed ha poco in comune con il progetto originario.

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64MUSEO DIFFUSO

CAVALLINO

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65MUSEO DIFFUSOCAVALLINO

In tempi recenti è possibile notare riusciti interventi di tipo “artistico” in ambiti urbani con finalità che sono nel contempo didattiche e di segnalazione, come nel caso delle “sentinelle” e di altri interventi attuati intorno al Museo diffuso di Cavallino.

Il Museo diffuso si estende ai margini dell’abitato di Caval-lino, a pochi chilometri da Lecce, e comprende un’area ar-cheologica estesa circa dieci ettari - corrispondente a parte dell’antico insediamento - inserita all’interno di quella che è stata definita “un’area di riserva paesaggistica”.

Una silhouette che traduce in efficaci forme contemporanee la classicità di un guerriero dell’antichità è posto lungo la principale strada di accesso al paese, ed indica con la dire-zione dello sguardo l’ingresso al parco archeologico.

Altre opere artistiche in metallo segnano un’altra importan-te tappa del percorso urbano di Cavallino: dopo il guerriero all’altezza dell’ingresso, altre sculture di gusto più astratto sono ubicate sul piazzale antistante l’ex Convento dei Do-menicani, oggi sede dell’ISUFI.

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66MUSEO DIFFUSO

CAVALLINO

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67MUSEO DIFFUSOCAVALLINO

Lo scultore Ferruccio Zilli, autore anche delle ope-re precedenti, realizza a grandezza naturale le sagome metalliche dei guerrieri messapi poste per alcuni mesi del 2007 nella piazza principale di Cavallino: un moderno e fumettistico (ma non per

questo meno efficace) modo per portare in piazza alcune icone della storia passata dell’abitato, installazioni tempo-

ranee che rimandano direttamente alla visita al vicino parco archeologico.Rocordiamo che lo stesso Zilli è autore delle sagome di guerrieri messapici realizzati in ferro, su modello di figu-re rappresentate su vasi di età ellenistica, che si affacciano dalla cinta muraria di un altro parco archeologico, quello di Vaste presso Poggiardo.

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68MUSEO-PARCO

DELLA PIETRA LECCESEMARTANO

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69MUSEO-PARCODELLA PIETRA LECCESEMARTANO

Il Museo-parco della Pietra Leccese nasce nel 1992 a Martano con lo scopo di promuovere e valorizzare la cultura della Pietra Leccese, attraverso un itinerario fra opere commissionate a sei noti artisti nazionali ed internazionali; il percorso si snoda fra strade e piaz-

ze del centro storico, attuando quindi un vero intervento di “arredo artistico” a scala urbana, realizzato con materiali locali e secondo le tradizionali tecniche di lavorazione.

Gli artisti invitati (tra i quali Fernando De Filippi, Ercole Pi-gnatelli, Enrico Scippa) elaborarono le proprie creazioni in pietra leccese; il materiale lapideo fu scelto in quanto rap-presentativo di una caratteristica peculiare del luogo, e le opere furono realizzate da giovani artigiani locali, sotto la direzione degli artisti.

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70MUSEO-PARCO

DELLA PIETRA LECCESEMARTANO

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71MUSEO-PARCODELLA PIETRA LECCESEMARTANO

In alcune delle opere presenti a Martano appare più leggibile il dialogo fra la materia lapidea e la natu-ra, fra la realtà e la sua rappresentazione: è il caso dell’intervento di Armando Marrocco, autore di un doppio pannello lapideo che contiene al proprio inter-

no un alto ficus. Le opere di Marrocco, De Filippi e Scippa sono collocate all’interno dei giardini comunali di Marta-no, ed emerge con evidenza anche la contestualizzazione dell’opera d’arte nel verde: soprattutto nelle opere di De Filippi e Marrocco, ognuna delle quali racchiude al proprio interno un esemplare arboreo.

Il “sandwich” lapideo di Marrocco presenta una duplice fac-cia: da un lato una coppia di tracce scavate come un nega-tivo, due vuoti i cui steli rimandano ad immagini di vegetali fossili, talvolta presenti all’interno di blocchi in pietra lecce-se. Dal lato opposto, un’estesa trama di tralci vegetali in lie-ve rilievo rispetto alla superficie lapidea, una sorta di edera tappezzante da cui emergono solo alcune foglie tinteggiate in vari toni di verde; oltre il bordo del pannello, emerge la chioma del ficus in un serrato confronto fra realtà naturale ed artificio umano.

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72MUSEO-PARCO

DELLA PIETRA LECCESEMARTANO

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73MUSEO-PARCODELLA PIETRA LECCESEMARTANO

Una piccola scenografia urbana è il muro creato da Enrico Scippa, simbolo di un limite da abbat-tere e di un confine da scavalcare, definizione dell’intervento sullo sfondo dei giardini pubbli-ci; superficie ideale per i “writers”, da quest’ul-

timi è stata in realtà sfruttata solo in parte.

Gli interventi risultano strettamente connessi al sito urba-no in cui sono collocati: si veda ad esempio la centralità del piccolo tempio di De Filippi o la creazione di Pignatelli, con un vuoto centrale che permette di leggere l’assialità con la strada retrostante.

A distanza di 16 anni, il successo dell’iniziativa presso la cittadinanza appare testimoniato da diversi fattori: acca-de ad esempio che alcune famiglie che abitano nei pressi delle opere si prendono spontaneamente e gratuitamente cura della loro manutenzione ordinaria, mentre il vanda-lismo giovanile rispetta le opere recenti, per concentrarsi invece su altri simulacri della statuaria civica, quali il bu-sto dell’incolpevole ministro Grassi, oggetto di un’attività continua che potremmo definire con l’appellativo di “van-dalismo selettivo”.

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74PIAZZA PALAZZO DUCALE

SAN CESARIO

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75PIAZZA PALAZZO DUCALESAN CESARIO

Un recente intervento riesce a collocare felice-mente un’opera d’arte contemporanea in un con-testo storicizzato, nell’ambito di un progetto di ri-pavimentazione di un antico spazio: si tratta della nuova piazza che fronteggia il Palazzo Ducale a S.

Cesario di Lecce.

Il progetto punta sulla piena visibilità del prospetto del mo-numentale edificio, segnato da una composizione architetto-nica regolare e simmetrica nelle sue parti costitutive: quindi il piazzale antistante non prevede alcun ostacolo visivo alla

piena lettura del prospetto, ma sembra condurre lo sguardo dell’osservatore sul portale d’ingresso e sulla iperdecorata porzione centrale della facciata.

La separazione con la laterale strada carrabile deve essere quindi individuata da un segno forte, ma al tempo stesso di-screto e non invasivo dello spazio: è la funzione svolta dalla lineare seduta lapidea che corre sul fianco del piazzale, bor-data da aiuole (unica nota di colore) ed interrotta dall’inseri-mento - altrettanto discreto - della scultura di Aldo Calò.

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76ITALGEST

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77ITALGEST

Un sensibile ed innovativo sforzo nella direzione di introdurre l’arte anche in quei contesti che so-litamente ne sono privi, è stato attuati in tempi recenti dal gruppo Italgest Immobiliare spa, con sede in Casarano.

In tal senso è leggibile l’introduzione dell’elemento artistico in un tabellone altrimenti scarno e piatto: ovvero il cartello di cantiere che, in base alla normativa vigente, illustra i dati tec-nici relativi ad allestimento ed esecuzione di un cantiere edile.Si tratta, a ben vedere, di una struttura dalle grandi ed ine-spresse potenzialità comunicative: accompagna la vita del

cantiere per tutta la sua durata (di rado inferiore a 12 mesi, anzi spesso superiore) e, soprattutto, si tratta di un cartellone di notevole superficie, per una migliore leggibilità ed evidenza rivolto verso lo spazio pubblico.Ovvero parliamo di un supporto ideale per l’introduzione di nuovi elementi che siano diversi dal nudo elenco dei dati tec-nici del cantiere: grande superficie, piena visibilità, esposi-zione ottimale verso la strada o la piazza. L’idea del gruppo Italgest associa ad un cartello di cantiere un’idea visiva svi-luppata da un artista, spesso locale o che comunque elabora temi attinenti alla storia e cultura locali.

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79ITALGEST

Citiamo integralmente il comunicato stampa relativo al “cantiere visivo”, felicemente individuato come strumento utile “per la riqualificazione del cantiere edile come supporto di comunicazione e cultura”:

“Si inaugura a Casarano il secondo intervento locale de “CANTIERI VISIVI”. Un progetto a supporto dell’arte ideato da Italgest che ha stretto una partnership con un team di artisti e strateghi dei Media tutti di rigida provenienza pugliese. Il progetto intende riqualificare l’immagine esterna dei Can-tieri Edili trasformando i Cartelloni Anagrafici, appesi alle im-palcature, in Spazio per le Arti Visive. Le prime installazioni sono state curate da Andrea Morgante e Xlavio (Fernando Schiavano) che consistono in una foto che raf-figura un opera/video dell’artista americano Bill Viola “scatta-ta” a Parigi , un opera raffigurante una elaborazione del “cielo stellato” mosaico paleocristiano del tempietto di Santa Maria Della Croce a Casarano, quest’ultima in collaborazione con l’arch. Filippo Capa di Bari, un fotogramma di un film (under-ground per il divieto della più forte dittatura del mondo) degli inizi anni ‘50 albanese, una serie di cartine mute, ecc…Fino ad oggi i cosiddetti “ tabelloni” non hanno mai avuto alcuna pretesa estetica e riportano l’essenziale: Ditta, Diret-tore dei lavori, tecnico, Data ecc. Oggi grazie a questa inizia-tiva essi vengono trasformati in “strumento” a supporto degli artisti per la divulgazione delle arti visive.

“Cantieri visivi” mette in relazione visivamente gli utenti della Polis con quella che è l’intercapedine Temporale che inter-viene sulla Città mettendo in attesa il destino dei suoi volumi: “IL CANTIERE”.I cartelloni e gli spazi esterni saranno i primi passi di un piano progressivo che punta a creare un nuovo modo di con-cepire la Casa e il suo rapporto con le immagini, i media e le arti Visive.La nuova consapevolezza “Locale” del valore “Città-Archit-tettura-Territorio” può allargare le chance di reddito per le nuove generazioni. Negli ultimi anni grazie anche a manife-stazione come “Crocevia, Ntartei Festival, Transiti” è nato un vero e proprio Movimento che, grazie all’azione espositiva di Arti Figurative e i “Nuovi Media”, scopre, fa emergere e pone all’attenzione del pubblico ex Dimore ed ex Opifici Rurali.“CANTIERI VISIVI” intende intervenire cronologicamente su TRE spazi-momenti della vita del processo di restituzione e/o collocazione nel territorio del manufatto urbano:1° La preproduzione ed il preannuncio del “Cantiere” che ha come spazio di comunicazione esterna il Cartellone Anagrafico.2° La produzione del Cantiere che prevede oltre al Cartello la ricopertura dell’impalcatura con i tradizionali teli.3° I giorni che intercorrono tra il completamento del Cantiere e la consegna del manufatto agli utilizzatori definitivi valorizzan-do gli ambienti interni nudi come provvisori spazi Galleria”.

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GALLIPOLI

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81LUNGOMAREGALLIPOLI

Il progetto del nuovo lungomare attrezzato di Gallipoli ha previsto la realizzazione di un lungo percorso pe-donale panoramico che, senza soluzione di continui-tà, fiancheggia la costa a sud della città vecchia, cor-rispondente all’espansione urbana del Novecento.

Al di là della consueta “passeggiata attrezzata” consistente perlopiù in una nuova pavimentazione corredata da sedute, cestini per rifiuti ed illuminazione, l’intervento sembra vo-ler introdurre diverse idee formali che si legano alla storia ed alla tradizione marinara del luogo. Ma nel contempo, i materiali e le moderne e semplici linee che caratterizza-no la realizzazione sembrano richiamare il miglior “mo-numentalismo astratto” che ha spesso accompagnato in Italia, almeno dagli anni Trenta ai Sessanta del Novecento,

l’allestimento in luoghi pubblici di strutture attrezzate per il pubblico: si pensi alla contestualizzazione di forme arti-stiche “moderne” operata tra le due guerre da artisti come Fausto Melotti, solo per fare un esempio…Alcuni anni dopo il completamento dell’intervento, si notano però alcuni limiti derivanti da diverse problematiche; come se nel progetto non siano stati considerati alcuni aspetti comunque rilevanti, quali la consueta fruizione dell’area, le abitudini di chi vi passeggia, le necessarie opere di sicu-rezza che devono accompagnare la frequentazione di tali strutture pubbliche.

Quasi un un bel disegno, formalmente ineccepibile ed ac-curato, appesantito e - in parte - snaturato in corso d’opera da varianti impreviste, ma non imprevedibili.

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82LUNGOMARE

GALLIPOLI

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83LUNGOMAREGALLIPOLI

In primo luogo, parliamo di abitudini ed attitudini dei fre-quentatori. Ormai da anni, la maggior parte dei luoghi pubblici all’aperto - in modo particolare i lungomare, e non solo in estate - sono punteggiati per diversi mesi all’anno da strutture semoventi attrezzate per la distri-

buzione di bevande, panini, crepes etc.; la presenza di tali strutture si moltiplica in relazione alla domanda dell’utenza, ed il lungomare sud di Gallipoli (anche in passato frequentato come passeggiata) di conseguenza era corredato dalla pre-senza di furgoni vari e “paninerie” mobili.

In questo senso, il progetto del nuovo lungomare sembra non aver recepito abitudini e frequentazioni; le strutture realizzate non contemplano alcuna ospitalità per tale genere di funzio-ni, e la conseguenza è stata che, in breve tempo, furgoni e ca-

mioncini si sono felicemente e giustamente riappropriati degli spazi sui quali prima sostavano, inserendosi dove possibile.Ovviamente, la moltitudine di mezzi su ruote di dimensioni variabili, presto seguite da chioschi, piccole aree gioco per bambini, reti e recinti per maximaterassi sui quali saltare, minigiostre di ogni tipo etc., non può che presentarsi come una moltitudine di corpi estranei, incastrati alla meglio fra le pure linee di un bel disegno.

Come pure il necessario inserimento postumo di misure di sicurezza contro la caduta, quali una modesta ringhierina in tubolare laccato bianco, non può che cozzare con la purezza formale di un elemento che richiama la sezione trasversale di una nave, e che - originariamente priva di barriere o dissua-sori - si sporge pericolosamente sul mare.

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GALLIPOLI

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85LUNGOMAREGALLIPOLI

Il medesimo progetto del lungomare di Gallipoli ha previsto anche la ristrutturazione del mercato ittico prospiciente il porto, con risultati più contestualizza-ti: le fatiscenti strutture preesistenti per la vendita al dettaglio sono state sotituite ed inglobate in un di-

namico fabbricato che sembra collegarsi maggiormente al

genius loci in chiave contemporanea, sia per l’uso di mate-riali quali la pietra leccese a faccia vista per il rivestimen-to dei prospetti, sia per il ricorso a temi che richiamano il circostante ambiente marinaro, come l’uso di assi in legno sull’estradosso di copertura di una struttura che, nell’im-pianto generale, richiama l’idea di un natante.

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86LUNGOMARE

GALLIPOLI

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87LUNGOMAREGALLIPOLI

La questione relativa al miglior sito ove colloca-re a Gallipoli il “Monumento al riccio”, opera dell’artista Enrico Muscetra, ha rappresentato in modo chiaro alcune delle più frequenti proble-matiche relative ai siti che accolgono interventi

più o meno monumentali, con le conseguenti e consuete polemiche in caso di contestualizzazioni poco idonee.

In un primo momento, il Monumento era stato collocato su un basamento nel piccolo slargo antistante il Teatro “Teatro Schipa”, provocando in ambito locale un’ampia

serie di discussioni, che vertevano dall’ “aspetto estetico” della scultura al sito scelto.

Dopo alcuni mesi, l’Osservatorio Teknè è stato invitato ad esprimersi sull’argomento, e la soluzione individuata ap-pare probabilmente come la più idonea e felice: rimosso da corso Roma e spogliato del basamento, il Riccio metallico si è abbarbicato - come d’altra parte è sua natura - su un piccolo scoglio affiorante nel braccio di mare compreso fra il Castello ed il ponte per la città vecchia, a poche decine di metri dal precedente sito.

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88LUNGOMARE

GALLIPOLI

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89LUNGOMAREGALLIPOLI

Negli ultimi anni, il Comune di Porto Cesareo ha realizzato diversi interventi “attrezzati” su trat-ti di lungomare dell’abitato: in particolare, due opere innalzate nei pressi della cinquecentesca e centrale Torre di avvistamento fanno evidente

riferimento a due differenti modalità di intendere la conte-stualizzazione dell’arte. Premesso che non siamo comun-que in presenza di un intervento unitario come nel caso del lungomare di Gallipoli, nel primo esempio si tratta della sta-tua dedicata all’attrice Manuela Arcuri, scelta dagli opera-tori turistici locali quale “simbolo di bellezza e prosperità”, come recita l’epigrafe sul basamento.

Fatte salve le ragioni di promozione turistica della località balneare e non volendo entrare in merito a note di carattere puramente estetico, l’intervento si pone in modo tutto som-mato anonimo rispetto al contesto ambientale: una statua in pietra leccese rivolta all’osservatore e posta su un basa-mento, circondata da quattro dissuasori in cemento per evi-tare danneggiamenti da urto di automobile, dal momento che

l’area antistante viene abitualmente usata come parcheggio.

Più complesso nelle funzioni e più impegnativo nella spesa, il secondo caso si distingue per una progettazione accurata e per un attento inserimento nel contesto, di cui si valutano correttamente potenzialità, vedute e punti di sosta. L’inter-vento coniuga la funzione decorativa di una statua bronzea con sottostante fontana, e la necessità di qualificare un’area centrale e pedonale del lungomare con la realizzazione di semplici sedute che costituiscono il basamento dell’ope-ra: soddisfatti quindi i requisiti di “decoro” e funzionalità, il contesto si arricchisce in modo discreto di un manufatto che invita all’aggregazione o alla semplice meditazione in-dividuale, privilegiando i momenti per la sosta e la seduta; la statua volge la schiena all’abitato ed al flusso veicolare della strada che costeggia l’area, e sensualmente rivolta al vicino mare sembra invitare lo sguardo dell’osservatore a perdersi nella battistiana “acqua azzurra, acqua chiara” di Porto Cesareo.

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90GALLERIA MAZZINI

LECCE

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91GALLERIA MAZZINILECCE

Il progetto realizzato per attrezzare al pubblico la Gal-leria di piazza Mazzini a Lecce ha presentato, nei pochi anni di vita, una serie di problemi legati alla fruizio-ne, tanto da indurre recentemente l’Amministrazione Comunale a rimuovere le strutture più ingombranti

ed inutili, a partire dal portico rialzato.Anche in questo caso, la cattiva fruizione da parte soprat-tutto dei giovani ha portato nel tempo ad una costante

attività di vandalismo nei confronti delle strutture più ag-gressibili; ma l’assenza di rispetto verso il manufatto ha probabilmente origine nella presenza stessa del manufat-to, che in realtà non si integra né con il contesto di esercizi commerciali della Galleria - intesa anche come luogo di attraversamento pedonale - né tantomeno con emergenze urbanistiche site nelle immediate vicinanze, come piazza Mazzini.

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92GALLERIA MAZZINI

LECCE

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93GALLERIA MAZZINILECCE

Diversi sono gli elementi che rendono il luogo ostile al visitatore, e si possono raggruppare in tre momenti principali: la struttura porticata ri-alzata, la “piramide rovesciata” ed il telaio me-tallico absidato, incompleto dei pannelli vetrati

che avrebbe dovuto ospitare.

In particolare, i primi due sembrano voler raggiungere obiettivi opposti al raggiungimento di un senso di benessere derivante da un luogo ospitale: il porticato centrale è chiuso da un’inspiegabile e massiccia cortina muraria (superficie ideale per le consuete scritte vandaliche) che chiude ogni possibilità di ampliare la visuale sulla piazza e sulla fontana posta in asse con la Galleria. In tal modo lo spazio della Gal-leria è di fatto privato di una luminosa prospettiva centrale

e di un arioso sbocco su un luogo aperto, pedonale ed albe-rato, e la visuale sulla piazza è limitata a due brevi scorci laterali, sacrificati dall’imponenza dell’inutile e massiccio basamento con muro.

Altrettanto inspiegabile è la “piramide rovesciata” compo-sta da pannelli vetrati su telai metallici: ubicata all’incrocio dei due bracci ortogonale della Galleria e quindi nel pun-to cruciale ed obbligato nei percorsi pedonali di attraver-samento, questa struttura appuntita è rivolta con il vertice verso il basso e con il suo eccessivo pronunciamento in tale direzione sembra incombere minacciosamente sul visita-tore, istintivamente spinto ad allontanarsi velocemente dal centro della Galleria, ed a fuggire da un luogo ostile ed ino-spitale.

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94STANZE DELLA MEMORIA

GRECÍA SALENTINA

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95STANZE DELLA MEMORIAGRECÍA SALENTINA

Gli esempi che seguono possono offrire stimolanti spunti per considerazioni ampliate al tema del-la “contestualizzazione dell’architettura” (intesa come manufatto artistico) in ambiti paesaggistici e storici, sfruttando le medesime modalità di ri-

flessione sinora adottate. In tempi recenti, il progetto della “Stanza della memoria” ha riguardato diversi comuni della Grecía salentina: se alcune Amministrazioni comunali hanno preferito riservare a tale funzione vani di esistenti immobili di proprietà pubblica, altri Comuni hanno realizzato un imponente manufatto con strut-tura in cemento a faccia vista. Dimensionalmente e formalmente uguale nei vari casi, l’ope-ra - come da bando - è stata eretta in più copie identiche, indipendentemente dal luogo e dal contesto: ingombran-te davanti ad un elegante tardottocentesco palazzo isolato come a Martano, quasi protetta dall’edificio sede del Comune

ai margini del centro storico come a Castrignano dei Greci, o casualmente posata sul retro dello scenografico complesso degli ex Agostiniani come a Melpignano.In questa sede non interessa esprimere soggettive valuta-zioni in merito a valutazioni estetiche del manufatto, quanto riflettere sull’errore originario di voler realizzare un conte-nitore uguale in ogni contesto, indifferente al luogo ed alla sua storia, insensibile al genius loci: in definitiva estraneo proprio a quella funzione che doveva rappresentare, una “stanza della memoria” locale e delle sue tradizioni, invece di un elemento alieno.Ancora più triste è vedere alcune di queste strutture vuote e chiuse, quasi a sancire la fine (ma il manufatto per ora rimane) di ciò che si dovrebbe riconoscere un errore, per intenti e progettualità.

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96STANZE DELLA MEMORIA

GRECÍA SALENTINA

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97STANZE DELLA MEMORIAGRECÍA SALENTINA

Un esempio di riappropriazione di un oggetto alie-no atterrato in paese, da parte di chi vi lavora e rivolto al fruitore: è quanto sembra suggerire la “Stanza della memoria” di Melpignano. Sulle pareti esterne gli operatori hanno tra-

scritto detti popolari e nenie nel dialetto locale tra cui un “Canto d’amore” tenero e malizioso, recitato sui muri per essere raccolto da chi non si spaventa davanti all’impatto con una struttura così lontana da quell’idea di genius loci, così cara a Christian Norberg-Schulz.

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99CIMITEROPARABITA

Ancora sul tema della“contestualizzazione dell’ar-chitettura”, il nuovo Cimitero di Parabita è stato completato nei primi anni Ottanta sulla base di un progetto redatto dagli architetti Alessandro An-selmi e Paola Chiatante (Studio G.R.A.U. - Roma).

Un’opera di grandi dimensioni in cui si può riconoscere un’ispirazione poetica ed artistica che ha guidato la pro-gettazione ed il disegno complessivo; caratterizzata inoltre da un attento inserimento nel contesto ambientale segnato

da un declivio che guarda a sud-ovest, verso la campagna ed il mare distante solo pochi chilometri.

Il complesso si inserisce sulla pendenza del terreno, anzi la sfrutta al meglio per strutturarsi in una dinami-ca successione di piani sfalsati e di terrazzamenti, che permettono una più razionale organizzazione dello spazio e l’apertura di vedute e scorci prospettici sul territorio, individuando veri e propri “cannocchiali ottici” su porzioni dell’intorno.

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101CIMITEROPARABITA

Attraverso il ricorso ad archetipi come la linea cur-va, la spirale ed un capitello jonico dalle volute avvolgenti, il disegno generale di progetto recu-pera forme simboliche che rimandano al concetto di eternità, proprio del luogo.

In questo caso l’ispirazione poetica dell’idea di base ha pro-dotto un esempio di nuova “casa per l’eternità”, che si dif-ferenzia totalmente dalla tipologia cimiteriale ampiamente adottata nel Novecento e consistente nella riproposizione

di un tessuto urbano anche per la “città dei morti”, divisa in isolati da strade ortogonali. Il Cimitero di Parabita in questo senso rappresenta una svolta nella progettazione di luoghi cimiteriali, ed un episodio espressivo anche del carattere di “avanguardia” di una certa cultura architettonica attiva in Ita-lia fra gli anni Sessanta e Settanta: inoltre è stato oggetto di numerose pubblicazioni in ambito internazionale, citato dalla critica internazionale come uno dei casi più significativi ed in-teressanti della progettazione architettonica del Novecento.

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103CIMITEROPARABITA

Il suggestivo disegno di insieme proposto da elaborati progettuali come la planimetria generale ed una veduta assonometrica, dal quale emerge con chiarezza la sago-ma stilizzata di un capitello jonico, non è però percepibile in loco dall’osservatore, in quanto privo di adeguati punti

di vista, che ne possano permettere la lettura da una certa altezza al fine di comprenderne lo schema complessivo.

Quindi un suggestivo disegno ben leggibile sulla carta, ma non percepibile dal visitatore che ne percorre gli spazi: in questo caso, sarebbe possibile introdurre il discorso su architettura e urbanistica in grado di produrre oggetti d’arte eccessiva-mente astratti, pur nella ricerca e nel dialogo con l’intorno.Se a Parabita sono stati comunque raggiunti elevati livelli di “contestualizzazione” artistica dell’opera, non possiamo d’al-

tra parte non notare i pericoli di un intellettualismo che, pur attento al contesto ed ai materiali della tradizione locale (am-pio il ricorso alle murature in càrparo della zona, trattate “a faccia vista”), perde di vista il motivo per cui nasce un’opera e si involve nel disegno fine a se’ stesso, di fatto non compren-sibile al visitatore nella sua unitarietà.

Le fotografie qui riprodotte, risalenti al 1984, testimoniano una fase di avvio funzionale del nuovo cimitero in cui è ancora ben leggibile il disegno puro ed incontaminato che accompa-gna - ad esempio - le pareti con i loculi ancora vuoti: un rigore geometrico e formale che mal si accompagna alla necessaria “vita” del manufatto, dal momento che il repertorio di lapidi, fiori, corone e lumini sembra compromettere e contaminare la purezza del disegno di progetto.

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Trasformazione urbana

e contestualizzazione degli interventi

Note su temi e metodi di progetto

e valutazione nei centri del Salento

di Nicolangelo Barletti

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1. PREMESSA

La Relazione preliminare del Progetto TeKnè - Percorsi di formazione in contestualizzazione e fruizione dell’arte urbana- della Fondazione Rico Semeraro, fissa alcuni obiettivi e concetti da tenere presente nel seguente contributo:

“L’intervento formativo del progetto è rivolto alla formazione di funzionari e dirigenti delle amministrazioni locali e quelle periferiche dello Stato, con particolare riferimento alle amministrazioni comunali, ed è finalizzato alla creazione di una “coscienza estetica” indirizzata nella direzione della conte-stualizzazione delle opere pubbliche.“………………“Il fine dell’azione progettuale è quello di armonizzare architettonicamente i contesti territoriali, città e campagna, nei quali si svolge la quotidiana esi-stenza, per renderli prodotto turisticamente fruibile, prevenendo così gli ob-brobri estetici che da un lato deturpano il patrimonio storico-artistico eredi-tato e dall’altro danneggiano le azioni di marketing territoriale che gli organi a ciò deputati svolgono, le quali rischiano di essere vanificate da una diffusa cifra di insensibilità al bello.”………………………Fino a qualche tempo fa le uniche preoccupazioni degli amministratori erano quelle relative alla spicciola amministrazione indirizzata alla realizzazione di strade, giardini, mercati, fognature e impianti di illuminazione. Nell’esperienza comune l’estetica degli arredi urbani è un beneficio artificioso di cui si può fare a meno. Poco importava il valore estetico o artistico delle opere realizzate. Così nell’Urbe contemporanea convivono diversi generi architettonici, spesso incapaci di temperare al meglio i diversi sentimenti e talvolta inadatti ad una lineare contestualizzazione di armonia e forma. ……………….Un caso emblematico è stato quello della contestualizzazione dell’opera del Riccio di Mare del maestro Enrico Muscetra nel Comune di Gallipoli. Tale opera d’arte infatti, collocata su un supporto inidoneo, a mo’ di sparti-

traffico sul corso principale della cittadina jonica, su richiesta dell’Ammini-strazione comunale e dello stesso autore vede investito l’Osservatorio Ur-banistico TEKNÈ al fine dell’individuazione di un nuovo sito più idoneo alla contestualizzazione del monumento. Dopo una serie di sopralluoghi del comi-tato tecnico-scientifico si è individuato nel porto del Canneto di Gallipoli, nei pressi del ponte seicentesco, il sito più adeguato per la collocazione dell’ope-ra che, con un’adeguata opera di illuminazione, risulta essere una grande attrazione per i turisti e per i residenti.……………………….

2. RIFLESSIONI DI NATURA DISCIPLINARE.

2.1 - PROGETTARE NELL’ESISTENTE

Diana Agrest scrive che “la città è l’inconscio dell’architettura”: definizione che è l’invito ad accantonare le eterne discussioni sull’indifferenza che, spesso, gli architetti hanno rispetto al contesto, quando progettano un nuovo edificio.L’inconscio si rivela attraverso i lapsus significanti che in città ci portano con-tinuamente ad inciampare in uno spazio incompiuto, o in una sublime combi-nazione di epoche ed espressioni diverse.Soltanto se si saprà porre rimedio alla miopia, rinunciando alle consolidate abitudini ed agli usurati stereotipi, si potrà pensare, forse sognare, comunque godere della città plurale, contraddittoria e sedimentaria, e sarà possibile ag-giungere e non sottrarre ricchezze alle città.Si dovrà analizzare, leggere e riconoscere il costruito come un palinsesto stratificato, come un documento storico d’eccezione, di grande duttilità e complessità, ma anche come opera inevitabilmente sempre aperta ad ulte-riori apporti. Questo atteggiamento deve spingere al rispetto dell’ambiente urbano, ma anche a trovare i gradi idonei di scrittura tra le righe ( e non sopra le righe ), che risultino compatibili con il testo già scritto, con la città e le sue regole.Ed è appunto in questa impegnativa, ma molto stimolante, equazione tra con-servazione ed innovazione, che si compie per mano di chi amministra e di chi

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progetta, il destino dell’architettura come pubblica risorsa.Nell’epoca delle nuove tecnologie, che tendono a ridurre il contatto fisico, la percezione tattile, visiva, sensoriale, il senso del luogo, del contesto, le specificità, le culture materiali, sono forse l’unico modo di consentire all’architettura di essere non solo Storia, ma di raccontare storie, pezzi di vita associata.È così che gli interventi , le opere d’architettura diventano ulteriori pagine del testo già scritto, contenente la Storia e le storie della nostra città.E se, paradossalmente, il massimo della comunicazione coincide oggi con i “ non luoghi “ e con il minimo dell’informazione come ragionamento, pensiero, riflessione, credo che al villaggio globale si debba rispondere con il rianno-darsi della memoria, con l’attenzione al contesto, con il senso dei luoghi, vivi-ficando ed innovando i linguaggi, le funzioni, contaminando stili e materiali.Riteniamo che la contrapposizione tra presente e passato debba essere esor-cizzata, accogliendo e comprendendo a fondo il contesto e le ragioni della sua crisi, in maniera da creare, forse ambigue, ma affascinanti e complesse, ope-razioni di architettura che si collocano nella Storia e nel contesto in maniera da rivelare, attraverso il nuovo, i significati della città.

2.2 - RIQUALIFICAZIONE DELLE CITTÀ STORICHE:LINEE DI PRINCIPIO

Per conoscere e controllare una realtà occorre anzitutto immergersi in essa; vivere le multiformi esperienze di tendenze evolutive in atto; cogliere le esi-genze di flessibilità ed adattamento a condizioni diverse, mutevoli nel tempo e nello spazio; esaltare in maniera equilibrata l’integrazione della elaborazione culturale e dell’attività di ricerca con le realtà locali legate ad una tradizione ed a una storia.Il rispetto di queste linee di principio rappresenta un modo corretto, a nostro avviso, per passare dal momento, anche se utile, dalle enunciazioni generiche, necessariamente viziate da semplificazione ed astrazioni, a indicazioni proget-tuali subordinate alla verifica su un contesto reale, particolare e irripetibile.Un nuovo insediamento che nasce nella città, da questa trae il fondamento della

sua cultura.Se la città, ed il centro storico in particolare, rappresenta l’area di maggior con-densazione dei documenti e dei monumenti della Storia, la cultura architettoni-ca contemporanea per svilupparsi ha bisogno di fare della città il contesto più idoneo per l’elaborazione e la trasmissione dei propri Saperi.La caratteristica principale che rende i progetti innovativi, è la capacità di pre-figurare approcci complessi, capaci di agire su una pluralità di componenti di quegli insiemi che sono le nostre città, il cui grado di multiformità cresce in funzione dello spessore della loro Storia. Il nostro lavoro deve essere, perciò, in grado di mirare alla concezione e mes-sa a punto di sistemi integrati di azioni coordinate, capaci di risolvere i proble-mi strutturali della città, senza rinunciare alla presunzione, forse eccessiva, di disegnarne il futuro, fondandolo sulla sua Storia, sulle sue vocazioni, sulle qualità invece che sulle quantità, sulla capacità di rafforzare nei cittadini l’or-goglio di appartenere ad una comunità ed a un territorio di sommo valore e dai caratteri peculiari, non sempre percepibili, talvolta occultati e violati. Si tratta di rintracciare e restituire ,comprensibile per tutti, quel fil rouge, pa-trimonio della struttura urbana e della sua storia densa e stratificata, che le stratificazioni e le trasformazioni hanno in parte occultato e condotto all’oblìo e che il palinsesto della città e del territorio consente di rintracciare e di resti-tuire alla lettura degli appartenenti alla comunità cittadina ed ai loro ospiti. In alcuni momenti, è necessario credere di essere veramente in grado di sogna-re e di far sognare. I progetti più esaltanti sono, infatti, quelli che conducono alla consapevolezza delle vicende storiche della comunità di cui si è parte, alla loro trasmissibilità, alla integrazione di queste testimonianze nella prassi della vita quotidiana.

2.3 - RIQUALIFICAZIONE DELLE CITTÀ STORICHE:AMBIENTE URBANO E NUOVE FUNZIONI

Le trasformazioni urbanistiche, edilizie e d’uso devono proporsi l’obiettivo primario della riabilitazione urbanistica, ambientale e morfologica del patri-monio edilizio e fondiario secondo una criterio di integrazione della originaria

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natura degli insediamenti, favorendo l’inserimento polifunzionale di attività di supporto e di servizio .Devono proporsi inoltre il ripristino della qualità dell’immagine dell’ambiente urbano, venuta meno a seguito del decadimento fisico e funzionale, o la sua creazione nelle situazioni locali carenti all’origine per questo aspetto.Le aree urbane soggette a politiche di riequilibrio e qualificazione compren-dono prevalentemente insediamenti edificati in assenza di una efficace e con-facente strumentazione urbanistica.La qualificazione e l’ordinamento dell’ambiente urbano sono da perseguirsi principalmente attraverso la implementazione delle funzioni presenti, il mi-gliore utilizzo degli spazi interni e di pertinenza degli edifici pubblici e l’appro-priata sistemazione degli spazi pubblici.La ricomposizione ed organizzazione degli spazi di pertinenza degli edifici sto-rici, per un loro più razionale utilizzo, deve tendere, anche attraverso iniziative esemplari, ad accrescere ed adeguare le dotazioni urbane, controllandone la qualità complessiva attraverso l’inserimento di componenti congrue, capaci di agevolare la comprensione dell’immagine urbana ed avvicinare i fruitori, senza distoglierli con forme, materiali e tipologie di non appropriato design.Nell’ambito degli insediamenti di formazione storica, tali interventi devono informarsi ad un criterio di conservazione e ricomposizione degli elementi caratterizzanti il paesaggio urbano, con particolare riferimento alle cortine murarie degli edifici , ai volumi tecnici particolarmente riconoscibili o signi-ficativi, all’ampio assortimento di tipi edilizi polifunzionali, alla sistemazione degli spazi pubblici. L’inserimento o la sostituzione di elementi in edifici esi-stenti, anche in assenza di specifiche prescrizioni o vincoli conservativi, deve di conseguenza ricercare l’armonia, non la mimesis, con gli elementi morfo-logici, tipologici e costruttivi caratterizzanti l’edificio originario, integrandoli nel nuovo assetto compositivo.A tale fine le nuove funzioni, i materiali, gli oggetti da collocare, devono essere ricercate fra quelle più confacenti alle caratteristiche dimensionali e tipolo-giche degli edifici da riconvertire, rifiutando facili operazioni di imitazione e di camuffamento formale, operazione scorretta dal punto di vista del restauro, in quanto anti-storica..

Sempre nell’ambito degli insediamenti storici, gli interventi di adeguamento e rifacimento delle opere di urbanizzazione primaria devono, con analogo cri-terio, tendere al ripristino dell’assetto originario, al suo miglioramento fun-zionale ed architettonico, mediante l’inserimento di componenti controllabili e codificate. Questa necessità potrebbe portare ad individuare un “Abaco- Catalogo “delle componenti da impiegare nelle operazioni di riqualificazione urbana. L’assestarsi della crescita demografica, insieme alle mutate condizioni eco-nomiche e di mercato, così come le modificazioni strutturali che si sono ve-rificate nel mondo del lavoro, hanno definitivamente sancito il tramonto di una visione della città come organismo in progressiva espansione, e hanno simultaneamente posto lo sguardo sui modi in cui la città cresce su se stes-sa, spostando quindi l’attenzione sui necessari processi di riqualificazione e ricucitura dei tessuti consolidati.Le città pongono oggi, infatti, innanzitutto un problema di cura, di manuten-zione e di intervento su brani e parti di territorio carenti di definizione urba-nistica attuativa. In particolare in quegli ambiti centrali dove l’abbandono ha determinato in maniera più marcata i fenomeni di degrado edilizio e della qualità urbana. In quegli ambiti si è assistito ad una manutenzione urbana realizzata con l’impiego indiscriminato di tecnologie e materiali incongrui, offerti a costi competitivi dalla piccola imprenditoria, nata come indotto del boom edilizio degli anni ’60. Questi materiali, introdotti spesso senza ricor-rere alla manodopera tradizionale, ma utilizzando il più economico ricorso all’auto-costruzione, hanno portato spesso all’oblio delle culture materiali storiche, con le quali per secoli si era costruita e conservata la città storica. Questo fenomeno di degrado morfologico diffuso è spesso stato agevolato dai ritardi, dalla rigidità e dall’inadeguatezza con cui i processi di pianificazione hanno accompagnato la domanda di trasformazione del territorio .Queste ed altre riflessioni richiederebbero una serie di ricerche volte a in-dividuare efficaci meccanismi di intervento che consentano agli strumenti urbanistici - generali ed attuativi - di potere in concreto configurarsi come strumenti in grado di prevedere ed accompagnare, assieme ad integrati stru-menti di programmazione, i processi di trasformazione urbana.

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2.4 - I PROGETTI DI TRASFORMAZIONE:REQUISITI PRELIMINARI

I progetti di trasformazione debbono possedere alcuni necessari pre-requisiti:• Capacità di leggere e di interpretare l’esistente nei suoi molteplici aspetti fisico-ambientale, storico, urbanistico-architettonico, socio-economico, etc..• Capacità di predisporre obiettivi in grado di raggiungere mete di sviluppo credibili.• Capacità di costruire “un senso di appartenenza allargato” nei confronti del programma, i cui progetti possano anche costituire e consolidare l’identità socia-le e locale (“Costruzione sociale del Programma”).• Capacità di garantire l’innovazione dentro pratiche amministrative consolidate.• Capacità di interpretare, conciliandoli, sia i “nuovi bisogni” che la tradizione.• Capacità di tradurre gli immaginari collettivi in luoghi simbolici degli spazi ur-bani e degli ambiti paesistico-territoriali.• Capacità di trasformare la “costruzione partecipata” del programma, la con-certazione, in iniziativa economica in grado di contribuire alla realizzazione ed al successo del Programma. Si dovrà, perciò, passare dalla separazione - pro-grammatoria ed economica - degli interventi pubblici e privati, al “ project finan-cing ” (finanza di progetto) ed, ancora, alla finanza di programma, introducendo e sviluppando modelli innovativi.• Capacità di collocare il programma all’interno di una complessa rete di oppor-tunità di finanziamento pubbliche e private

Debbono, inoltre riuscire a:• Garantire la conservazione delle identità della Storia dei luoghi, delle tradi-zioni, delle culture materiali e quindi della “memoria” delle comunità, come fattori cardine del recupero ed indispensabili “mediatori” tra tutela ed inno-vazione.• Identificare i modelli di “Sviluppo Sostenibile” delle città, in relazione alle specifiche vocazioni territoriali.Incentivare l’azione coordinata di tutti gli operatori coinvolti in un eventuale processo di trasformazione, siano essi pubblici o privati (attraverso forme di partenariato e concertazione socio-economica ed interistituzionale).

• Essere pensati in maniera “integrata” e “complessa”, sia per consentire la messa in relazione dei problemi attinenti lo sviluppo armonico dei diversi settori delle attività umane, sia per raccordare tale sviluppo con gli ambi-ti operativi dell’azione amministrativa (politiche infrastrutturali e dei servizi, sociali, economiche, etc.).

La complessità deve anche essere fisica, estesa cioè ai diversi ambiti spaziali, urbanistici e funzionali delle città e del territorio (le strade, le case, i servizi, i luoghi del lavoro e del consumo, gli ambiti naturali, l’ambiente rurale etc.). Complessi dovranno quindi essere sia gli strumenti di approccio e di progetto che quelli di analisi e di intervento. Si deve, anzitutto, superare la prassi con-solidata della distinzione tra Piani, Programmi e Progetti.Affinché il Progetto possa adempiere efficacemente alla propria funzione esso deve tradursi in uno scenario di semplice comprensione che, non solo consenta alle Amministrazioni comunali di dirimere le questioni aperte e di valutare la praticabilità delle scelte proposte, ma restituisca anche ai cittadini e a chi, a titolo diverso, interviene sul territorio, l’immagine di territorio che esso prefigura.Il Progetto rappresenta, infatti, uno strumento conoscitivo e interpretativo che deve necessariamente porsi come frutto di un sapere condiviso e come patrimonio comune facilmente accessibile, anche al fine di prefigurare tra-sformazioni effettivamente attuabili. Il percorso conoscitivo e interpretativo si costruisce a partire dalle condizioni e dai valori che in questo luogo vengono contestualmente messi in gioco dai diversi attori coinvolti.Tutto il Progetto è espressione esplicita dell’attuale condizione, ed è a partire da essa che se ne definiscono i diversi elementi: testi, ipertesti, iconografie, rimandi, che si traducono negli elementi che lo costruiscono. L’ambito di in-tervento, gli obiettivi, i motori della trasformazione, il progetto, le relazioni e le immagini contenute restituiscono così la cornice interpretativa e il caratte-re dello specifico momento di elaborazione.

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2.5 - VERSO UNA NUOVA CULTURA DELL’AMBIENTE E DEL COSTRUIRE

Lo sviluppo economico, pur nelle sue contraddizioni, ha profondamente mu-tato i parametri soggettivi, con cui misurare il grado di tollerabilità sociale delle condizioni ambientali e migliorare la qualità della vita.Se si vuole superare il rapporto di pura contraddizione tra sviluppo e con-servazione, occorre definire l’ambiente non più come immutabile, bensì come il risultato di successivi interventi sulla natura, che l’uomo ha operato nel tempo.Nuovi valori sono emersi: un più armonico rapporto con l’ecosistema, un mo-dello di sviluppo ed una tecnologia più rispettosa dell’ambiente, la difesa as-soluta dell’integrità della salute umana.Le mutazioni spesso traumatiche del paesaggio umano, impongono di passa-re dagli anni della «quantità», che hanno cementificato indiscriminatamente il nostro territorio, agli anni della «qualità» ove è auspicabile un governo della città, una prassi degli insediamenti, più attenta ai processi di riqualificazione, che vada oltre i meccanismi dello «zoning» e dei parametri, verso sensibili rapporti dialettici con le «culture materiali», con la specificità: l’approccio di tipo «qualitativo» all’uso del territorio dovrà trovare proprio nella Storia, nella sua complessità, nelle sue miracolose e delicate coerenze e trame, le coordinate fondamentali di riferimento e di verifica.

2.6 - L’AMBIENTE, LA STORIA ED IL PROGETTO:PREMESSE METODOLOGICHE

La scuola parigina delle «Annales» ha abituato la cultura contemporanea a considerare la complessità di ogni processo storico, a non trascurare -anzi, talvolta, a privilegiare- valori in passato ritenuti marginali. Si tratta di consi-derare il campo «geografico» d’indagine di un sito come un «insieme com-plesso», in cui alcuna componente può venire a priori considerata quale non necessaria al processo di lettura.La geografia del territorio (antropica ed urbana, soprattutto) crediamo che debba considerare un simile angolo di osservazione. Da questa considera-

zione ne discende che le coordinate di riferimento di un progetto dovrebbero essere orientate in direzione di un atteggiamento «consapevole» verso l’am-biente e verso la Storia.Non può non farsi, quindi, riferimento alla valutazione delle peculiarità del sito ed ai rapporti emergenti della Storia, tra tipologie edilizie e struttura ur-bana, tra forme e «Culture materiali».Se poi una nuova struttura va a collocarsi nel tessuto urbano, a stretto contat-to con la città antica, ulteriori problemi devono essere considerati, in quanto il nuovo insediamento si inserisce nel processo diacronico di modificazione dell’organismo urbano e dei suoi assetti configurativi.In questi casi, a nostro avviso, si deve tentare di costruire delle progettazioni che cerchino di definire con chiarezza la propria identità culturale, il proprio ancorarsi nella Storia urbana.Preliminare al progetto, perciò, deve essere la lettura dei processi storici di formazione e modificazione degli spazi e delle qualità architettoniche della città, senza però tralasciare di dar conto dei dati fisici, cioè dei dati sulle cul-ture materiali di un territorio.Si devono perciò ricercare all’interno del sistema e delle forme urbane, arche-tipi, tipologie, tracce di sapienza costruttiva, che costituiscono un insieme di intelligenti, miracolose coerenze collettivamente significative e permanenti. La lettura della città storica offre infatti un «racconto» murario in cui artificio e natura, geometria e organicità, dialogano con varietà di configurazioni spa-ziali, plastiche, cromatiche e chiaroscurali.

Nel 1924 Le Corbusier, uno dei grandi dell’architettura del ‘900, scriveva nel suo “Urbanisme”: “Un’architettura bene inserita nel contesto fa suonare allegramente l’armo-nia e tocca profondamente”. E scriveva ancora: “La città, attraverso i nostri occhi, dispensa gioia o disperazione,…disgusto, indifferenza, benessere o stanchezza. È una questione di scelta di forme, …..Le scelte da fare sono tra il rifiuto delle forme nefaste e la ricerca di quelle che danno buoni risultati.”Costruire nelle città storiche: una sfida non facile per progettisti ed am-ministratori. Al di là del valore intrinseco di un edificio, la sua “bellezza”

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dipende anzitutto dalla sua capacità di inserirsi nella città e nella sua storia. Un nuovo insediamento che nasce nella città, da questa trae il fondamento della sua cultura.Un architetto e maestro contemporaneo, L. Quaroni, scriveva che “il progetto si dovrà misurare, cioè fare i conti, con l’ambiente urbano nel quale va collo-cato un edificio, e dovrà reagire per assonanza o per contrasto, ma contrasto controllato..”. In sostanza, i requisiti di un progetto nella città storica possono sintetizzarsi così: può essere in assonanza, ma non in mimesis; oppure si può optare anche per un’architettura in contrasto con le forme storiche, purchè con queste sia in armonico e dosato contrappunto. Progettare nella città sto-rica, per Le Corbusier, “È una questione di scelta di forme, ma non si tratta di forme da copiare, di stile barocco o gotico, da scegliere tra le frattaglie di venerabili cadaveri…”.

Il mondo formale della città classica, era basato sulla cultura materiale della pietra che comprendeva in consonanza quelle del legno, del ferro, di tutte quelle lavorazioni basate sul lavoro manuale dell’artigiano. Un’età fondata su “mate-riali espressivi consentanei”, per dirla con lo storico dell’arte Andrea Emiliani, “di quelli cioè che passano attraverso il filtro del lavoro manuale e ne ereditano l’insopprimibile connotato dell’unicità…..Un mondo così costruito e lentamen-te sedimentato è ovviamente destinato ad incrinarsi di fronte all’apparizione e all’uso di nuovi materiali poiché questi ultimi a loro volta… sollecitano una loro vocazione formale.……L’incontro infatti tra forme invocate e forme procurate non è più completo, sensibile e coincidente come per il passato“.Persino le nuove murature, basate su tecniche meccaniche ed industriali di taglio della pietra e di impasti della malta e di composizione delle coloriture degli scialbi, producono spesso valori di superficie e colore diversi dalla do-minante produzione del contesto storico. Ancora di più si altererà il rapporto formale con l’impiego dei nuovi materiali, che “non hanno ancora prodotto un mondo formalmente omogeneo, forse proprio in forza del loro accentuato grado di polimorfismo”. Non si tratta quindi, negli interventi in contesti stori-ci, solo di creare episodi di qualità, bensì di capire che l’irruzione prepotente dei nuovi materiali all’interno della città della pietra, ha cancellato la memo-

ria storica, i repertori formali e la prassi di una consolidata cultura materiale, senza sostituirla con peculiari culture formali e del lavoro. Rinunciarvi, allora? No, certo. Ma ci vuole misura e capacità. Il risultato, inve-ce, è che spesso, in mancanza di un rigore espressivo -proprio degli interventi più attenti- che metta in luce i processi meccanici e di montaggio dei nuovi materiali, si producono risultati disarmonici. O peggio, per paura di sbagliare, si ricorre alla “mimesis”, cioè alla replica nostalgica e consumistica delle forme classiche, come in quelle suppellettili da mercatino popolare, in resina o plastica, che riproducono “in stile” e a stampo le modanature e le volute tra-dizionali del legno e del ferro, copiandone servilmente le forme, per conferire “nobiltà” storica a buon mercato.Lo scomparso Bruno Zevi, ha fondato la sua vita di grande storico, docente e critico dell’architettura, sulla convinzione che la sensibilità contemporanea debba investire non solo le nuove architetture, ma anche il modo di “legge-re” ed interpretare quelle del passato. Scriveva che “la vitalità del linguaggio architettonico moderno fonde con l’impegno di forgiare una visione moderna, futuribile e comunque incentivatrice, delle fasi storiche che ci precedono. Di fronte ad esse risultano assurde sia la passività imitatrice dei revivals che l’indifferenza rinunciataria di alcune avanguardie.” Un invito a fare architettura contemporanea, insomma, su solide basi stori-che, senza imitazioni o rinunce.Quale bilancio può trarsi per il Salento?Viene da chiedersi quante tra le realizzazioni degli ultimi decenni siano mo-dernamente “vitali” e fondate storicamente. Si ha l’impressione che il lungo silenzio sull’architettura che ha caratterizzato il clima culturale salentino degli ultimi anni, abbia prodotto come una sorta di estraneità critica e pro-gettuale di parte dei nostri architetti -non solo giovani- rispetto ai temi del rapporto con il contesto e con la Storia, con la specifica identità del luogo-Salento. Accanto a questa disattenzione, la divulgazione acritica del mito del successo globalizzato dei grandi architetti internazionali -le cosiddette “archi-star”- ha prodotto (ovunque e da noi) una sorta di manierismo moda-iolo o, peggio, un estetismo pseudo-storicista. La crisi attuale non dipende come in altri momenti dalla mancanza di idee,

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al contrario -per dirla con Quaroni- discende “dalla difficoltà, e non solo in architettura, di risolvere in poche idee forti le molte, moltissime, troppe idee deboli che circolano….” In questa fase critica della cultura, passata troppo repentinamente dalle di-mensioni locali a quelle globali, si presta troppa attenzione alle mode e poca alle culture ed alla Storia del territorio.

2.7 - LA CITTÀ COME PROGETTO COMUNE

Crediamo che, per una città, il requisito principale sia quello della chiarezza, della facilità con cui risponde ai bisogni dei cittadini, e della forza del legame che con gli stessi ( e tra gli stessi ) istituisce.Città oggi vuol dire città funzionale, che vuol essere città dei cittadini, che vuol diventare città organizzata per farli vivere meglio, per agevolare le loro attività, il lavoro, il benessere, la convivenza civile: questi sono i caratteri di una città bella.Gli strumenti di governo del territorio (Piani, Programmi, Progetti) devono aprirsi ed integrarsi e non definirsi autonomamente, devono strutturarsi in un progetto di città, capace di riannodare i legami interrotti non solo tra le porzioni dell’organismo urbano, ma anche tra i diversi pezzi della comuni-tà, oggi forse indifferenti alla costruzione di un possibile progetto comune. Solo attraverso un progetto condiviso di città, capace di organizzare i tre mo-menti, altrimenti scissi, della pianificazione, della programmazione e della progettazione, sarà possibile mettere a punto nuovi e più adeguati strumenti di governo del territorio. Questi strumenti dovranno, infatti, adattarsi ad una società in rapido cambiamento: dovranno essere i sensori delle istanze dei cittadini, dovranno servire ad organizzare la comunità, a fornirle gli strumenti per vivere e progredire, dovranno rappresentarne le aspirazioni, tradurne ed ispirarne i sogni.La città si organizza, si sviluppa e si definisce mediante la progettazione degli spazi pubblici; soprattutto in una città mediterranea, in cui le strade e le piazze sono il cuore della vita della comunità. Se si lavora su alcuni punti sensibili del-la città, se ne può determinare, correggere, rinsaldare la struttura, in pratica eliminarne gli squilibri, renderla più funzionale, più utile ai bisogni, più bella.

Oltre che capire dove intervenire, bisogna capire qual è l’obiettivo, il modello, il progetto di città che le analisi su di essa ed i bisogni dei cittadini hanno rive-lato. Per far ciò sono necessarie le seguenti riflessioni:Anzitutto, il progetto di città deve prevedere una serie di interventi coordinati, capaci di incidere nel tempo sulla struttura, sulle funzioni e sul tessuto urba-nistico, al fine di:• Migliorare la qualità della vita• Favorire le relazioni sociali• Aiutare i più deboli e recuperare le emarginazioni• Creare pari opportunità• Incentivare lo sviluppo economico

In sostanza, una rete di interventi coordinati, quali catalizzatori del processo di miglioramento della qualità urbana.Città ed ambiente incidono fortemente sulle attività umane e sulla vita as-sociata, ma ne sono anche il prodotto. Vita sociale e città sono legate reci-procamente da un legame di causa-effetto. Le straordinarie qualità delle nostre città devono essere ricondotte sempre di più ad un uso completo, consapevole da parte dei cittadini, che devono riappropriarsi sempre di più dell’orgoglio di appartenenza alla loro città ed alla loro comunità. Questo perché i benefici siano sempre maggiori e sempre maggiore sia la consape-volezza che è indispensabile il contributo di ogni cittadino per migliorare la città e per conservarla per la Storia e per la Cultura universale.Conservazione e sviluppo della qualità urbana sono il momento necessario per trasmettere questa ricchezza non solo ai cittadini, ma anche agli ospiti: in questo modo mettendo in circolo nuove risorse, economiche e culturali.

2.8 - GLI SPAZI PUBBLICI TRA PIANOE “URBANIZZAZIONE DEBOLE”

Gli spazi pubblici, in gran parte delle nostre città, non sono gestiti proget-tualmente in alcun modo, a partire spesso già dalle previsioni dei Piani Re-golatori. La loro creazione, sistemazione e manutenzione, spesso casuali,

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sono il risultato non dell’arte urbana e dei suoi princìpi di utilità, comodità e bellezza, ma sono unicamente dettate da norme e regolamenti, se non da regole di rendimento: sono cioè, spesso, “scarti di produzione“ dell’indu-stria edilizia e della rendita fondiaria.Altro fattore che allontana la qualità dalle nostre città, è il permanere dell’assenza di una cultura del progetto ai diversi livelli. Regioni ed Enti locali hanno spesso come preoccupazione principale quella di spendere: e quanto più riescono a farlo in tempi brevi, tanto più governano e raccolgono consensi. Se poi questo avviene con procedure e strumenti straordinari, e sotto la minaccia della perdita dei finanziamenti, si finisce con il coprire con la quantità l’assenza della qualità, al di fuori di un complessivo ed armonico progetto di città. Un progetto integrato consente di disporre di controllabili possibilità di assemblaggio dei singoli moduli d’intervento, in funzione delle possibilità di cofinanziamento pubblico-private. Un progetto integrato con-sente di scaricare i costi di interventi ad alta utilità sociale ( od utili per la realizzazione di una città “ bella “ ), ma di basso rendimento economico, su altri più appetibili da parte dell’investimento privato.Il governo della nostra società attraverso un modello fondato prevalentemen-te sull’economia, ha prodotto sinora una democrazia incompiuta ed incerta, aperta a tutte le forme di liberismo e di abuso, che ci consegna un mondo costituito da micro-sistemi diffusi, dall’interazione incontrollabile di masse di operatori, in conflitto caotico nelle nostre città, che tendono a divenire sem-pre di più dei “non luoghi” in turbolenta omologazione alle città virtuali, ma-nipolabili dai flussi di Internet, dove tutto è possibile e niente è reale, secondo le regole della Grande Rete e del Mercato Globale.

Appare chiaro che questa “democrazia”, apparentemente diffusa e certamente fragile, senza più “demos” e anche senza “kratòs”, è il perfetto (e più “como-do”) sistema di non-governo per quest’epoca in veloce trasformazione, in cui l’incertezza ed il lassismo si pongono come caratteri distintivi di molte ammini-strazioni locali, perché disponibili ad adattarsi ed accettare equilibri provvisori, pur di evitare soluzioni “definitive”, che -in quanto tali- hanno il rischio di scon-tentare qualcuno che “conta”.

La città oggi è sottoposta ad una profonda e strisciante mutazione, a partire dal suo stesso concetto di spazio organizzato ed efficiente, cioè programmabile e progettabile. La più devastante contraddizione è oggi quella delle “città d’arte” e, per estensione, dei centri storici minori. Per i quali sarebbe d’obbligo il massimo esercizio di atten-zione e tutela, ma che sono sottoposti a pressioni, talvolta intollerabili, da parte di masse sempre crescenti di turisti, educati costantemente e da tempo all’arte come oggetto di consumo, spesso pubblicizzata e resa evento, al pari dei concerti pop, imposta come imprescindibile accessorio della classica vacanza sole-mare.Ed eccole lì, le comitive dei tour organizzati, quasi obbligate a sciamare per nego-zietti e trattorie, con brevi tappe da dividere tra un duomo ed un castello…Ecco che così le regole del mercato hanno sconfitto le logiche rigide della città pia-nificata e programmata, e stanno divorando lentamente la forma della città storica, proprio quella forma e quella identità che nel corso della Storia hanno prodotto quei gioielli che oggi le moderne “invasioni barbariche” corrono a visitare. Ecco così che, quando si cede il campo o non si è capaci di una programmazione complessiva ma flessibile, episodi magari vistosi come i gazebo, ma burocratica-mente classificabili come “minori” o “temporanei”, possano cambiare in profondità la forma e l’ambiente urbano, proprio perché intervengono sugli aspetti visivi, sui colori, sui materiali o, addirittura e quasi sempre, sugli spazi. Sembra la cosa più facile, che mette le coscienze a posto: giustificare le incompatibilità (perché di que-sto si tratta: si occupano spazi pubblici che, oltre che garantire il funzionale transito dei mezzi, debbono consentire quello dei pedoni…sono loro-turisti e non- e non le auto, i naturali padroni delle città storiche!), con la scusa della temporaneità. Pro-vate a rammentarvi, nelle vostre città, qualche chiosco o simile che, da provvisorio, non sia divenuto…provvisoriamente definitivo!Attenzione, però.Crediamo che vi sia un unico modo di controllare quello che, altrimenti, po-trebbe degenerare in caos e produrre la perdita di qualità ed identità dei luo-ghi: i fenomeni di urbanizzazione debole, per dirla con Andrea Branzi, forse ineluttabili, legati in qualche modo alla complessità e flessibilità del mondo contemporaneo, si debbono governare, proprio perché minori e per questo insidiosamente pervasivi.Governare: si fa presto a dirlo, ma come?

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È necessario un governo della città capace di direzione progettuale, in grado di cogliere, assieme alla città consolidata, anche la città meno visibile, fluida, costruita come un insieme di relazioni e di servizi, di interventi -pubblici, ma quasi sempre privati- diffusi, molti dei quali anche minimi. Un governo capace di contemperare la libera iniziativa imprenditoriale con le regole della tutela, capace di sviluppare, al suo interno, ma di diffondere an-che tra i cittadini, la cultura; oltre che il diritto al bello, anche l’abitudine allo stesso ed alla qualità della vita.Occorre ribellarsi al possibile predominio della città generica, prodotta dalla somma di episodi minimi, ma diffusi, sciatti se non offensivi, prodotta da sti-li di governo improntati al disincanto ed all’indifferenza. Occorre rifiutare la perdita della città bella, oggi sempre più necessaria per vincere le sfide della concorrenza sul mercato di un turismo di qualità, in quanto tale capace di coniugare le esigenze dello sviluppo, con una sempre più pressante domanda di identità urbana.Oggi, di fronte ai risultati di sviluppo del turismo, seguito alle azioni di marketing urbano e territoriale messe in campo da amministrazioni ade-guate, bisogna andare oltre. Non solo oltre l’immobilismo e l’assenza di governo e di controllo, ma anche oltre i programmi coordinati ed i sistemi integrati (che alcuni di noi - professionisti, amministratori, ricercatori- hanno portato avanti).Non sono più sufficienti, non riescono a governare gli esiti delle nuove funzio-ni urbane che quegli stessi programmi e progetti hanno innescato.

3. APPUNTI PER UNA CULTURA DEL BELLONELLE TRASFORMAZIONI URBANE

3.1 - PREMESSA

Pensiamo che la cultura del bello sia il risultato di una consuetudine paziente ad esercizi di valutazione estetica, che solo se praticata con continuità, può fondarsi in maniera non velleitaria.Come nel caso dell’orecchio musicale, necessario per valutare una buona mu-

sica, “il saper vedere” un’architettura e coglierne i valori o le incongruità, si ac-quisisce con la pratica. Certo, alcuni principi di carattere generale vanno forniti a chi si accosta a tale difficile esercizio. L’introduzione a tali capacità critiche non può, infatti, prescindere da alcuni presupposti di cultura generale e specifica. A tal fine si suggerisce in appendice un’essenziale bibliografia per chi si ac-costa per la prima volta al problema o vuole approfondire. Qui di seguito, per comodità, si enumera una silloge di alcuni concetti di base, con il rimando a detta nota bibliografica.Peraltro, non si ritiene che questa sia la sede adatta per studi teorici e/o di carattere generale sull’estetica e neppure sull’architettura e l’urbanistica come arti urbane e territoriali.Crediamo, invece, che l’introduzione ad un esercizio critico, attraverso il com-mento su alcuni esempi di contestualizzazione di episodi architettonici in siti della città storica e/o consolidata, oppure in contesti rurali o ambientali di valore paesistico, possa fornire alcuni parametri di valutazione per chi opera sul territorio o decide in merito alle modalità delle sue trasformazioni.Naturalmente, i giudizi che si esprimono in tale materia hanno sempre il ca-rattere della soggettività, per cui cercheremo di fondarli su criteri desumibili ad esempio da orientamenti consolidati dalle recenti evoluzioni delle culture specifiche. Oppure da orientamenti giuridici, dettami normativi o ancora da princìpi dettati da organismi e/o commissioni in merito a questioni attinenti il restauro, l’urbanistica, le attività edilizie, la difesa dell’ambiente e la sua sostenibilità, la tutela del paesaggio. Comunque, anche orientamenti, detta-mi, principi e norme sono oggetto di interpretazioni e sintesi soggettive, ma il rischio è in parte temperato dall’esperienza di chi si assume la responsabilità di emettere un giudizio critico.

3.2 - LE AREE URBANE:EVOLUZIONE DEI QUADRI INTERPRETATIVI

Per una corretta valutazione degli interventi, forti o “deboli”, di trasforma-zione urbana e dei connessi problemi di contestualizzazione, è necessario abbandonare -perché inadeguato- il modello interpretativo ed operativo deri-

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vato dall’urbanistica funzionalista, che ha improntato la prassi dei Piani e dei progetti urbani a partire dagli anni ‘60 ed ancora largamente in uso da parte di progettisti, uffici pubblici e commissioni edilizie. L’uso esclusivo di tale mo-dello è peraltro ancora incoraggiato dal fatto che è vigente appena da pochi mesi la profonda revisione introdotta dalla nuova gestione urbanistica della Regione Puglia, attraverso gli “indirizzi” contenuti nel Documento regionale di assetto generale (DRAG) del 2007. Nella gran parte dei Comuni pugliesi, ancora dotati di strumenti urbanisti-ci di vecchia generazione, il quadro normativo di riferimento di progettisti e valutatori (uffici tecnici e commissioni edilizie) degli interventi di trasforma-zione urbana, si basa sull’interpretazione della struttura urbana per “zone omogenee”, monofunzionali, ciascuna delle quali soggetta a norme, indici e parametri edilizi di tipo meramente quantitativo. I regolamenti edilizi sono in genere carenti di indicazioni in merito alla qualità, alla “bellezza” degli inter-venti, al loro rapporto morfologico, architettonico, alla congruità dei materiali con il contesto.Una concezione statica, funzionalistica e deterministica, coerente con le tra-dizionali antinomie (città-campagna, centro urbano-periferia, città storica-espansione), su cui è ancora basata -se non la teoria- senza dubbio la cor-rente prassi urbanistico- architettonica delle trasformazioni del territorio. Questa concezione, funzionalistica, nella fase della grande crescita insedia-tiva del secondo dopoguerra, ha portato comunque a ritenere sufficiente il controllo della trasformazione urbanistica mediante indici e parametri mera-mente quantitativi. Un apparato normativo comunque inadeguato al control-lo dell’architettura cosiddetta spontanea e- in particolare- al governo delle alterazioni “minime” dei materiali, delle finiture, delle coloriture tradizionali proprie della consolidate culture materiali delle città storiche. Una conce-zione trasformatasi in consolidata “cultura”, che ha portato a valutare come accessori e trascurabili i processi legati alla forma ed all’immagine urbana, e l’architettura come un futile accessorio, una disciplina ritenuta sovrastrut-turale rispetto all’economia dei processi edilizi ed alle urgenze fondamentali dell’emergenza abitativa. Oggi a tale modello statico deve sostituirsi un processo dinamico, capace di

inquadrare correttamente le esigenze di trasformazione, confrontandola con la necessità di conservazione e trasmissione dei valori.Oggi la cultura urbanistica, anche nella nostra Regione, è caratterizzata da una diffusa coscienza ambientale, da una nuova consapevolezza sulla neces-sità della tutela del patrimonio storico-culturale anche in quanto risorsa, dal-la ricerca della sostenibilità nello sviluppo. In tal modo la frattura avvenuta nel processo di storicizzazione delle dinami-che urbane può saldarsi, ridando dignità alle periferie, all’architettura con-temporanea, salvaguardando al contempo le aree storiche da trasformazioni improprie per forme, materiali e spazialità. In tale direzione si deve pervenire ad un’idea di integrazione relazionale tra gli elementi del sito, in cui l’am-biente, gli edifici, i manufatti e gli spazi collettivi, assieme a quelli privati, assumono un rapporto indissolubile che costituisce l’ambito unitario della trasformazione.Gli operatori -progettisti ed addetti degli uffici tecnici- dovranno essere in grado di progettare o valutare ogni intervento, ancorché minimo, in maniera integrata con i caratteri, i nodi problematici e gli assetti del contesto.

3.3 - RIVALORIZZAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

Per la rivalorizzazione della città consolidata è necessaria una chiara e com-pleta definizione metodologica delle azioni di progettazione/valutazione. L’obiettivo sarà quello di un corretto processo di conoscenza-valutazione-indirizzo da porre alla base delle operazioni di riqualificazione.Tale processo deve relazionarsi con i momenti della pianificazione e della programmazione e gestione urbana. Il primo momento è quello conosciti-vo, di analisi diacronica delle vicende di trasformazione del sito oggetto d’in-tervento e di rilevazione sincronica dei suoi caratteri strutturali, in modo da ricavarne tracce, indicazioni e metterne a fuoco vincoli e condizionamenti. Alla fine di tale percorso si saranno esplorati i processi di trasformazione del luogo e dei suoi parametri fisico-spaziale, funzionale e simbolico.Gli operatori tecnici dovranno essere preparati ad integrare gli strumenti ca-nonici della progettazione tecnica (strumenti urbanistici, regolamenti edilizi

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e normative tecniche, rilievi, cartografie) con un insieme di analisi conoscitive (sistema delle conoscenze) e di quadri interpretativi delle stesse. Ad esempio, dovranno abituarsi a considerare:Il progetto di trasformazione urbana come integrazione tra piano urbanistico, programma e progetto architettonico;Le analisi fisico-geometriche e tipologiche dello spazio urbano come in-dissolubilmente legate ai significati, alle funzioni ed ai suoi usi come luogo collettivo; I flussi dei percorsi di fruizione e le rispettive sedi;I sistemi ambientali, i valori storico-culturali, le componenti paesistiche.Da questi dati conoscitivi e dalla loro analisi critica, sarà possibile ricavare alcune indicazioni metodologiche di valutazione dei progetti e dell’idoneità della loro contestualizzazione nel corpo urbano.Il tema centrale è la rivalorizzazione dello spazio urbano e la riorganizzazione dei sistemi delle centralità e delle percorrenze.Queste note si propongono anche di fornire alcune riflessioni per un approccio di valutazione/indirizzo delle operazioni progettuali dello spazio urbano, rela-zionate con gli strumenti della pianificazione e i processi gestionali che si misu-rino, in modo prioritario, con la morfologia urbana e i comportamenti sociali: è infatti attraverso la relazione tra questi elementi che si può pervenire alla pro-gettazione di un sistema di valori per la città in grado di riqualificare il degrado che ha caratterizzato gran parte dell’urbanizzazione del secondo dopoguerra.L’attenzione del progetto è perciò concentrata sulla progettazione dei pro-cessi di trasformazione della città costruita, sia attraverso sostituzioni o nuo-ve realizzazioni, sia attraverso l’immissione di nuovi usi e nuovi significati agli spazi già esistenti.

3.4 - L’ARTE NEGLI SPAZI PUBBLICI (PUBLIC ART)

Un discorso a parte attiene all’arte negli spazi pubblici. La public art è una pratica dell’arte contemporanea che interpreta la città; si esprime con i suoi linguaggi all’interno dei processi di trasformazione; ne inter-preta -talvolta criticamente- le logiche, le premesse culturali, le politiche; inter-

viene sulla struttura degli spazi urbani e sull’ambiente; innesca processi di par-tecipazione e comunicazione; promuove gli spazi urbani come luoghi d’incontro. La diffusione contemporanea della public art trova oggi sempre maggiori soste-nitori ed operatori in Europa e negli Stati Uniti. Di meno in Italia, pochissimo nel Salento, tranne qualche eccezione, non sempre lodevole. Analizzeremo qualche esempio di recente realizzazione.Non sarebbe di secondaria utilità fornire materiali conoscitivi sullo “stato dell’ar-te” della public art nel mondo, sugli interventi, le esperienze ed i problemi con-nessi. Un tema interessante riguarda la public art in rapporto ai luoghi di esposi-zione ed ai tipi di pubblico.Altri temi attengono: alla forma di public art (dalla scultura, all’installazione, alla performance, etc.); al suo ruolo nelle trasformazioni urbane; alle nuove forme di spazio pubblico nelle pratiche artistiche. Di particolare interesse, infine, è la capacità dell’arte di creare particolari ambiti di spazio pubblico dotati di “effetto città”, densi cioè di qualità formale, di signi-ficati e di identità; inoltre capaci di indurre flussi di utenza e articolazione delle attività, mediante la contaminazione tra la pratica interdisciplinare tra le arti e i comportamenti dei cittadini. Esempi di questa felice interazione sono alcuni centri d’arte quali il Palais de Tok-yo a Parigi e -da poco a Lecce- le Manifatture Knos, di cui parleremo in seguito.

3.5 - L’ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO

Un altro tema di grande interesse nella valutazione delle trasformazioni è quello dell’architettura del paesaggio. Una pratica rivolta alla progettazione delle aree non edificate intese come un connettivo eco-sostenibile del sistema costruito.Un idoneo esercizio dell’architettura del paesaggio, si fonda sulle diversità ambientali, storiche, culturali, ecologiche e naturali. Le componenti di questa pratica disciplinare sono: il suolo, l’acqua, la vegetazione, concorrenti alla formazione del paesaggio assieme all’azione dell’uomo. Un campo di attività di nostro interesse è la progettazione dei sistemi di verde urbano per la ri-qualificazione ed il recupero delle aree degradate e di quelle residuali dopo i processi di trasformazione insediativa e di infrastrutturazione.

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3.6 - LA FORMA DEGLI SPAZI PUBBLICI NELLA CITTÀ CONTEMPORANEA

Possiamo ipotizzare che la crisi dello spazio pubblico sia come la visibile ma-nifestazione del declino della vita urbana. Tuttavia, nella città contemporanea, sopravvivono spazi pubblici vitali, assieme a quei nuovi spazi oggi classificati come “non luoghi”, concentrazioni recenti di energia urbana, con modalità non consolidate, spesso temporanee, effimere. In altre parole, in particolare con riferimento alla città consolidata, oggetto di trasformazioni contemporanee, non tutti gli spazi pubblici costruiti e mo-dificati per assolvere a funzioni collettive, si dimostrano -nel tempo e con l’uso- spazi vitali. Come è verificabile che, talvolta, quelli che definiamo “non luoghi”, in realtà si rivelano in grado di fungere da notevoli accumulatori di presenze. Anche se, spesso, incapaci di costruire e mantenere nel tempo re-lazioni tra individui e/o gruppi. Sarebbe utile perciò prendere in esame alcuni spazi pubblici salentini e analiz-zarne la capacità o meno di istituire relazioni urbane, cioè legami apprezzabili e durevoli tra quegli spazi e le persone. Spazi cioè vissuti dai singoli o dai grup-pi, progettati o formatisi nel tempo spontaneamente, in cui si sia consolidata (o sia fallita) una fruibilità più o meno aperta e vivace. Di questi luoghi sarebbe interessante conoscere i fattori denotanti lo star bene, il gradimento pubblico (feel-good factors) o -al contrario- la loro parziale o totale carenza.Si tratta di una ricerca complessa ma di indubbia utilità, sulla quale impe-gnare adeguati tempi e risorse. Una ricerca volta, preliminarmente, a testare strumenti e metodi di analisi e valutazione in grado di comprendere l’ambi-guità e complessità di quegli spazi e le ragioni del loro “successo”. Schematizzando, la ricerca potrebbe approfondire i seguenti argomenti: • crisi dello spazio pubblico nella città contemporanea;• mercificazione e allontanamento dal “centro urbano”;• permanenza del “mito” della piazza (o della strada) antica come “marcia-piede animato” (J. Jacobs).Un altro aspetto della ricerca dovrebbe prendere in esame l’assunzione di di-verse forme dello spazio, spesso ibridate tra loro, attraverso la modifica e la contaminazione di luoghi, funzioni e comportamenti. Queste forme possono

così essere definite: • spazio fisico, in cui si svolge l’incontro delle persone;• spazio immateriale, costituito dalle immagini che si sovrappongono allo spazio fisico;• spazio-tempo, che interviene in maniera episodica sullo spazio fisico, trasfor-mandone gli usi correnti.Queste tre forme interagenti di spazio costituiscono -integrandosi con diverse modalità- lo spazio pubblico.L’indagine può includere lo studio degli elementi immateriali (delle immagini in particolare) sugli spazi ed i loro effetti sulla mobilità del fruitore. Ad esempio, è noto che -oltre al percorso fisico- il consumatore compie nello shopping mall una sorta di viaggio immobile, dove i messaggi visivi e virtuali ampliano la realtà ed i suoi parametri spazio-temporali. Si potrebbe, inoltre, indagare sul ruolo del tempo che, mediante l’introduzione di discontinuità nel quotidiano, produce nuovi significati per lo spazio urbano. Gli eventi sono parte integrante dell’immagine di una città e allo stesso tempo sono veicoli di produzione e trasmissione dell’immaginario urbano. Sarebbe inoltre interessante effettuare un’analisi critico-teorica su alcuni esempi relativi alle tre forme di spazio di cui abbiamo detto, per cercare di comprendere:- il ruolo dei progetti e le variabili introdotte dal caso e dall’uso;- l’influenza delle immagini sui luoghi;- il ruolo del tempo; - il ruolo tra libertà e controllo degli spazi.Definire qual è il carattere dello spazio pubblico dipende spesso dalle pratiche che vi si svolgono, dalla loro cifra creativa e dalla loro capacità di coinvolgimen-to, e dalla capacità di scoprirlo, decodificando tracce e significati.Il riconoscimento rende possibile mantenere ciò che di “luogo”, di specifico, di identitario, c’è in uno spazio, in un contesto. Consente di esaltarne le potenzia-lità nascoste, tentando così pratiche di correzione di fattori di disturbo, propri di una contestualizzazione mal riuscita.Centrale risulta essere il rapporto tra caso e progetto nel successo degli spazi pub-blici urbani e riuscire a capire le regole di tale interazione può incidere sulla possi-bilità di correggere -se non prevedere- gli esiti negativi di un’operazione di trasfor-

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mazione urbana, con particolare riguardo ai problemi di armonia con il contesto.Anche se crediamo che sia utile limitare il rischio di eccessivo determinismo progettuale: “un’opera aperta” se ha in sé un sufficiente grado di chiarezza, può agevolare -o conservare- la vivacità di un luogo. Insomma, ogni intervento di trasformazione consapevole dei luoghi urbani, non può prescindere dalla ricerca, dal riconoscimento e dall’ascolto del contesto, della scoperta del suo carattere identitario, se vuole impedirne la perdita del senso, della memoria, della capacità di essere uno spazio pubblico capace di indurre relazioni e benessere nella comunità dei fruitori.

4. L’ARTE E LA CITTÀ

4.1 - LE PERIFERIE

Le periferie delle città presentano caratteri e problematiche simili: la com-posizione multietnica, i luoghi residuali, la frammentazione o la mancanza di una memoria collettiva, l’immaginario, la trasformazione sociale e visiva, la bassa qualità urbana, la distruzione del senso dello spazio pubblico come abbandono o appropriazione collettiva, il ruolo delle istituzioni. L’arte serve ad esprimere il comune interesse all’aggregazione, all’interazione sociale ed alla condivisione. L’arte deve relazionarsi con il contesto ma anche con i fruitori, con gli abitanti: questo processo di relazione è lo strumento median-te il quale si costruisce un’opera condivisa dalla comunità, che diviene icona della coabitazione e dell’integrazione. Dobbiamo indurre diversi modi di uso e lettura dei contesti degradati in cui viviamo, abituarci ad andare oltre le con-suetudini, prepararci ad assumere visioni differenti e inusuali.

4.2 - MEMORIA E IDENTITÀ NELLE TRASFORMAZIONI URBANE

Memoria e identità sono in una fase di criticità quando il riferimento identita-rio nella forma urbana non è stabile, o meglio cambia con una velocità e con una casuale arbitrarietà, al di fuori da processi di elaborazione di sensibilità collettive, mostrando la fragilità della struttura urbana.

La realtà in continua mutazione richiede una presa di coscienza per riconfi-gurare la propria memoria storica. La pratica artistica dovrebbe cercare di rintracciare la Storia, l’identità. Le trasformazioni spaziali e visive, continue e prive di legami con il patrimonio delle comunità, portano ad uno spaesamen-to. L’arte deve provare a ridurre la distanza tra le densità di significato delle città storiche e gli assetti fluidi, privi di forme e contenuti sociali delle peri-ferie. Deve aiutare forme di riflessione sulle modificazioni sociali e percetti-ve delle città. Gli artisti servono a “costruire un piano comune sul quale far confluire l’esperienza intima con quella collettiva, la responsabilità personale con quella civile” (“Skart”: gruppo di artisti di Belgrado).

Quando i territori ed i loro tessuti urbanistici, sociali ed economici sono in ra-pida trasformazione per effetto della globalizzazione, bisogna mantenere un legame con le tradizioni e le culture dei luoghi. I contesti devono essere i me-dia per l’integrazione tra arte e corpi sociali. Devono attivarsi laboratori urba-ni multiculturali e poliartistici, attraverso i quali artisti e utenti si mescolano, e mescolano -restituendone coscienza- memorie collettive, spazi urbani, per una formazione di nuove forme di comunità più dinamiche, ma anche più in-tegrate. Favorendo flussi di intescambio tra micro-gruppi, famiglie, soggetti, verso una “intimità pubblica”, attraverso la quale i soggetti si rappresenta-no (come nella pratica artistica del “Campement Urbain”, collettivo francese fondato nel 1999 a Parigi da Alain Caillet).

4.3 - I LABORATORI URBANI POLIARTISTICI

Forte è il bisogno dei cittadini di socializzare e discutere, tanta la voglia ine-spressa di relazionarsi, di frequentare, tanta la potenzialità di fare e di fruire di forme d’arte e cultura vicine alla vita, disponibili. Nel maggio 2005, a Milano nello Stadio San Siro, persone di ogni età hanno assistito (in 35.000!), non alla partita o ad un concerto, ma alla proiezione di vi-deo, film, alla discussione di critici d’arte, alla presentazione di libri, all’esecu-zione di brani musicali. Lo stadio si è trasformato in spazio di incontro, scambio, conoscenza, in luogo di discorsi e non solo di urla; per una notte almeno.

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Diversi episodi analoghi, comuni a realtà diverse, fanno riflettere sugli stru-menti (ma non solo: anche sulle azioni) per il governo del territorio in grado di cogliere, intercettare e soddisfare questa domanda diffusa. Crediamo che questi strumenti debbano strutturarsi in un progetto condiviso di città, capace di riannodare i legami interrotti, non solo tra le porzioni dell’organismo urba-no, ma anche tra i diversi pezzi della comunità, oggi spesso costretti all’indif-ferenza verso la costruzione di un possibile progetto comune.Le istituzioni, dovrebbero progettare (assieme tra di loro ed in maniera aperta alle associazioni, gruppi e movimenti) in maniera da produrre e promuovere non solo eventi, ma avviare e consolidare processi, capaci di prolungare l’azio-ne della cultura nella vita e nei comportamenti quotidiani dei gruppi sociali e dei cittadini. Le città oggi richiedono alle istituzioni un’interscambio sensibile per poter crescere e trasformarsi, per assistere, rappresentare, accogliere.Pensiamo che sia necessario predisporre degli attrattori d’interesse (qualcu-no li chiama meeting points) capaci di fare interagire i diversi gruppi socio-culturali. Assieme alle serate “istituzionali”, più o meno figlie della cultura nazional-popolare, le istituzioni del Salento hanno spesso difficoltà ad indivi-duare azioni capaci di intercettare in maniera stabile e non effimera la diffusa domanda di “altra” cultura, più vicina, più domestica, più vera. Di certo perché spesso impegnate in un’estenuante gara a produrre la stagione più prestigio-sa, l’evento più eclatante. Riteniamo che questo atteggiamento abbia dato in passato i suoi frutti, abbia contribuito in qualche modo a fini di marketing turistico. Ma adesso non basta più, come non basta più produrre eventi anche di alto livello, se questi riman-gono al di fuori di un contesto progettuale organico, capace anche di valoriz-zare le energie inespresse, che pure alte istituzioni formative contribuiscono a produrre. Ma che la insufficiente sinergia con le altre istituzioni e, forse, una avvertibile distanza dalla vita della città, porta a far sì che, esaurito il proprio percorso formativo, gli operatori culturali prodotti in buon numero, trovino grandi difficoltà a canalizzare le proprie capacità all’interno dei processi pro-duttivi di un territorio che -per buona parte e con qualche eccezione- non è preparato ad accoglierle e valorizzarle. Joseph Beuys sosteneva che gli artisti, i creatori, sono la “croce rossa”, il soc-

corso per noi cittadini: devono aiutarci a vivere come parte attiva del processo di creazione di una comunità, come soggetti pensanti e non solo come attori del consumo, tenuti in uno stato permanente di torpore e amnesia.Abbiamo bisogno dell’arte e degli artisti, del loro aiuto per curare la nostra vita di tutti i giorni per guarirla dalle mutazioni e deformazioni indotte dal consumismo globalizzato.La disaggregazione degli spazi e degli eventi porta spesso alla loro “sommi-nistrazione” come prodotti di consumo, impedendo agli utenti di capirne il senso, il perché sono stati creati, appiattendo il confronto e la critica, impove-rendo creatività e partecipazione. Bisogna riprendere a porsi domande, e non solo -come animali da laboratorio- continuare a produrre le attese reazioni, le risposte da altri programmate. In altre parole è necessario che l’arte, la produzione culturale, la creatività vengano riconsegnate alla vita, strappan-dole dal ghetto in cui il consumismo e l’assuefazione le hanno rinchiuse.Vanno incentivate e diffuse quelle forme culturali più sensibili alle trasforma-zioni, vanno sostenuti quei progetti di lavoro (e di vita) di tanti nostri operatori di tutte le generazioni. Vanno aiutati a gestire gli spazi per produrre, per in-contrarsi tra di loro e con chi -come loro- ha un grande ed inespresso bisogno di parlare, discutere, esprimersi. Anna Detheridge, teorica delle arti visive alla Bocconi, paventa che la “…seg-mentazione degli spazi pubblici non arrivi a restringere le possibilità d’incon-tro. L’attuale tendenza a pilotare ingenti flussi di individui (come negli shop-ping center)…non può che impoverire drammaticamente la vita di relazione e di scambio tra le persone ed il loro habitat.” Si può immaginare la città come un grande atèlier all’aperto, come un immen-so palcoscenico mobile, sequenza di sorprese, di scoperte, di incontri. Un sus-seguirsi di momenti di interesse e di incontro, al coperto ed all’aperto, da rea-lizzare con il concorso degli operatori pubblici e privati, culturali ed economici, degli investitori e degli sponsor. Ma anche questo non basta: il territorio ha necessità di spazi per favorire questi bisogni di integrazione tra vita e cultura.Un possibile modello è il Palais de Tokyo a Parigi, “site de création contem-poraine”: un luogo d’incontro in continuo mutamento, dove tutti possono pro-porre e produrre spettacoli, manifestazioni d’arte, performances ed incontri,

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usufruire degli atèliers e dei laboratori messi a loro disposizione. Dove tutto questo coesiste con mostre permanenti, mostre -mercato, concerti, forum, etc., caffè, posti di ristoro e di svago, aperti al pubblico giorno e notte, per iscrivere l’arte e la cultura nella vita quotidiana. Un altro esempio è il Walker Art Center a Minneapolis, su progetto architet-tonico di Herzog e De Meuron. Un luogo che è un museo, un teatro, un audi-torium e anche molto altro.“Un luogo pubblico particolare, in cui generazioni e discipline differenti si potessero incontrare… È essenziale che i visitatori possano entrare in questo spazio…anche se non si sta svolgendo alcuna rap-presentazione, così che le aree delle balconate, possano essere adoperate di giorno come gallerie per video o gallerie multimediali”.Altre esperienze europee di centri d’arte intesi come luoghi d’incontro in continuo mutamento, dove tutti possono proporre e produrre spettacoli, ma-nifestazioni d’arte, performances ed incontri, usufruire degli atèliers e dei laboratori messi a loro disposizione, sono quella di Karlsruhe (con il “ZKM”, centro per arti e media, in una vecchia fabbrica d’armi), e quella di Saint-Nazare, città francese di 67.000 abitanti (con l’”Alvèole 14”, spazi per l’arte e la musica contemporanea in una porzione di un’ex base per sottomarini).Tutte esperienze dove si è preferito un restauro “povero” ed essenziale ma -proprio per questo- disponibile e capace di sottolineare i contenuti, gli in-contri, il lavoro.Il Salento (e Lecce), in quanto a innovazione culturale, è sempre più il “Paese dei Barocchi” e sempre meno una comunità capace di unire memoria del passato e fantasia del futuro. È uno splendido luogo, dove qualche decennio fa si dava distratto ascolto alle voci dissonanti dei Pagano, dei Bodini e dei Verri. Oggi è un Salento dove, accanto al turismo culturale, cresce a dismisura il turismo selvaggio del “mordi-e-fuggi”, che cattura molte delle risorse destinate alla promozione turistico-culturale: spese per rassegne, festival, premi o spetta-coli effimeri, che nulla lasciano dopo il loro svolgimento, né in termini di nuove professionalità, né alcuna traccia nei percorsi della cultura, tanto sono evane-scenti, persino come intrattenimenti. Spesso “somministrati” come prodotti di consumo, impedendo agli utenti di capirne il senso, il perché sono stati creati, appiattendo il confronto e la critica, impoverendo creatività e partecipazione.

Accade così che, alle voci ignorate dei poeti del passato, si sono aggiunte -or-mai da tempo- quelle spesso inascoltate perchè scomode (tra tutte: Koreja, Fondo Verri, Astragali), di chi cerca di non “dimettersi dal Sud” e porta avanti il proprio lavoro sul territorio, spesso ai margini o al di fuori delle program-mazioni “istituzionali” sbilanciate inesorabilmente a favore dei soliti “grandi” eventi, pochissimi davvero utili al territorio. A queste voci, si aggiungono oggi a Lecce le “Manifatture KNOS”: un centro multiculturale nel capannone dismesso dell’ex scuola professionale per me-talmeccanici, recuperato da un gruppo di artisti ed operatori culturali come “luogo di incontro tra professionalità ed esperienze diverse per la ricerca, la formazione e la produzione nei vari ambiti culturali ed artistici”, aperto alla città anche al di fuori degli “eventi”. Le “Manifatture KNOS” sono un vibrante filo rosso che lega assieme vecchie e nuove “macchine”: in una grande “opera d’arte” collettiva da abitare ed usare, non solo da esporre, potente icona di “una nuova idea di lavoro che sappia integrare le diverse forme del sapere contemporaneo”. Un organismo ricco di qualità, di episodi autonomamente configurati eppur armonicamente fusi assieme, in continuo modificati dal la-voro degli artisti e dai comportamenti della gente, interessati ad interagire con gli stimoli forti che spazio, memoria, comportamenti, creatività, lavoro, tutti assieme offrono.

5. LECCE E IL SALENTO:TRASFORMAZIONI URBANE TRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE 5.1 - LE CITTÀ ED I PAESAGGI DI PIETRA Le innovazioni costruttive, in casi e in luoghi ove la pregnanza della Storia non è valore assoluto, hanno legittimamente coniugato nuovi sistemi strutturali ad un uso della pietra come materiale di base legato anche ad una scala di effetti cromatici che si pone entro una gamma solare.Le regole dominanti della geometria, della morfologia urbana e di complesse strutture murarie, sviluppano blocchi compatti le cui facce sono riassunte entro piani la cui ‘finitezza’ come tali non è compromessa da aperture e sporti

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di decorazioni. Piani che si liberano talora dal vincolo di ripetuti parallelismi, per coppia di lati, solo al livello del disegno nel cielo. Il blocco, allora, frantu-ma le sue coperture in fughe di terrazze o cambia forma secondo leggi di co-struzione di grandi volte e cupole sovrastanti grandi vuoti interni. Altra volta nel blocco si ricostituisce e si ripropone il paradigma dello spazio urbano: è il caso, ad esempio, di Piazza del Duomo a Lecce.Questi materiali della Storia e questi modelli, possono essere elaborati per ge-nerare un complesso che sia funzionalmente unico, a livello territoriale e, nel contempo leggibile come struttura articolata, alla stessa maniera in cui l’unità di una strada si spezza in linee che fanno leggere, al di là della continuità di un fronte non interrotto, pluralità di segni e di accenti, diversità di funzioni.È un modello al quale affidare l’impegno di tenere unito il nuovo e l’antico.Nel caso di Lecce, il giacimento culturale si presta ad estrarre risorse parti-colarmente ricche. Nel suo territorio lungo i millenni varie culture (messa-pica, greca, latina, spagnola) hanno lasciato numerose tracce di sintesi e di sedimentazione, anche per la presenza in loco di materiali lapidei particolar-mente docili all’inventiva degli artigiani e per la particolare posizione geogra-fica del Salento, che ne fa un avamposto della cultura occidentale, ma anche la porta d’Oriente.Porsi oggi il problema di progettare le trasformazioni per la città, vuol dire assumersi il compito di rispondere a quesiti-problemi che esprimono «biso-gni antichi» e «voglia di innovazione».Si tratta, in ultima analisi, di porsi di fronte a delle domande che atteggiamen-ti culturali, qualità di conoscenza, sperimentazione di nuove tecniche possono tentare di porre in modo adeguato.Ci pare perciò stimolante, oltre che necessario, che un progetto di trasforma-zione sia concepito in rapporto dialettico, sottile e complesso, tra disegno di nuove forme e tipologie architettoniche e forme e tipologie della città antica. Tutto ciò può contribuire ad attenuare l’impatto visivo del nuovo intervento, che si offrirà all’osservatore in maniera mutevole, ma legata all’ambiente della città antica attraverso particolari soluzioni tipologiche, morfologiche delle facciate, dei coronamenti, delle coperture, ecc., qualità che, crediamo, consente un più facile inserimento degli edifici, anche dal punto di vista delle

caratteristiche percettive, nelle forme e negli spazi dell’ambiente in cui si è pensato di inserirli.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il rapporto con la Storia e con la storia degli insediamenti, appare come un parametro necessario dell’opera-zione progettuale in un contesto urbano storico.È irrinunciabile riappropriarsi, nel costruire «ambienti», e non solo metri quadrati, delle identità talora perdute, delle specificità delle culture materia-li, dei «luoghi» deputati nella città a trasmettere i connotati di una cultura, i momenti della Storia.Il compito di costruzione di identità di un intervento di trasformazione urbana, a qualsiasi scala, deve trascendere la prevalente prospettiva tecnico-economica del profitto e dello standard.Costruire tale identità è evidentemente compito più agevole, anche se discipli-narmente rigoroso, in quegli ambiti territoriali dove la Storia ha costituito segni chiari e lungamente persistenti.Si devono ricercare all’interno del sistema e delle forme urbane, archetipi, tipo-logie, tracce di sapienza costruttiva, che costituiscono un insieme di intelligenti, miracolose coerenze collettivamente significative e permanenti. Vanno imma-ginati, recuperandoli dalla «memoria urbana», luoghi deputati per attività di particolare interesse per la comunità, cui ricondurre l’immaginario collettivo.

5.2 - PROGETTARE NELLE CITTÀ STORICHE:IL CASO DI LECCE

Le trasformazioni urbane hanno per teatro un’area critica in cui il ‘nuovo’ si affianca all’antico. E ciò, anche se in termini settoriali gli accenti sono su aspetti che vanno dai servizi al turismo, alla conservazione e fruizione del grande patrimonio storico e ambientale, anche se una buona pianificazione esige “master plan” distinti, la sostanza del lavoro di trasformazione è la re-alizzazione di una rete che correlazioni ed equilibri, una complessa struttura di interventi da gestire con strumentazioni diverse, una “rete” che faccia capo alla riconoscibilità del territorio come grande opera collettiva, divisa tra una

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ripetizione, nel tempo, di morfologie storiche in cui lotto e costruito hanno il medesimo perimetro, mentre i linguaggi formali traggono forza -nel nostro Salento- da pietre dorate, talora riccamente intagliate, talora vive del taglio manuale o meccanico che dà forme di solidi geometrici elementari.

L’unicità di Lecce sta nella familiarità delle sue testimonianze barocche con la vita di tutti i giorni: la iterazione dei suoi monumenti, il suo essere “Città-Chiesa“, il suo barocco domestico (sin dai suoi episodi più sontuosi, ma terreni e carnali, sino alle sue manifestazioni più umili), partecipa del DNA dei suoi abitanti. Un codice estetico, diviene cultura materiale e, quindi, carattere di una città e dei suoi abitan-ti. Questa leccesità, fatta di barocco, è la qualità (ma anche il limite): quasi un peso irrinunciabile, che rischia di legittimare l’indifferenza nei confronti delle altre di-mensioni storiche di cui la città è ricca, come se le formae urbis diverse da quella dominante, dovessero naturalmente e necessariamente rimanere nascoste.Rapporto con la Storia secondo noi significa ricerca di strutture e tipologie spa-ziali patrimonio della città, in particolare a Lecce, dove il tessuto urbano si di-spiega attraverso molteplici spazi a diversa scala dall’esterno all’interno; dove la strada non è mai uguale nelle sue dimensioni, dove il rapporto tra edificio e spazio esterno è sempre complesso, mediato da ambiti interni-esterni attraverso un racconto di corti, androni, giardini, porticati, chiostri, logge.Dove il Barocco è descrizione, scena, ma è soprattutto sequenza sorprendente di spazialità inattese.Si può parlare del Barocco leccese come fenomeno esteso sul territorio secondo una logica policentrica (M. Fagiolo - M. Manieri Elia), come dimostra la geografia dei suoi edifici; si può parlare forse di uno specifico «paesaggio umano» continua-mente variabile, attorno a caratteri omogenei, come scena mutevole della Storia.

Tanto premesso, non ci pare possibile considerare il sito come indifferente con-tenitore di quantità di costruito estraneo a quelle «coerenze» collettivamente si-gnificative che hanno costituito per secoli la cultura insediativa di un territorio.Ecco l’altra «traccia» metodologica che ci suggerisce, oltre ai motivi già citati, di recuperare l’uso della pietra «a vista»: non solo quindi per coerenza con il sito, o come recupero di una «cultura materiale», ma per riannodare un filo rosso spez-

zato dall’International Style, dall’abbandono della pietra come materiale, anche di tamponamento, in favore degli intonaci e dei pannelli cementizi o similari.Usare la pietra «a vista» per noi vuol dire comporre partiture murarie, rapporti tra pieni e vuoti, membrature che colloquiano con altri materiali, (col cemento ed il ferro ad es.) restituendo alla nostra memoria, pur se con forme moderne, co-struzioni solide, ma rese leggere dalla lavorazione dei particolari, superfici con-tinue e riposanti ma segnate dai sottili giunti dei conci, misurate dal modulo del «doppio palmo» dell’elemento lapideo che ancora oggi così viene denominato.La pietra a vista vuol dire ricerca di raccordi, di elementi morfologici allusivi in colloquio con la Storia. La pietra vuol dire «memoria» del colore bianco-avorio che s’accende d’oro rosato sotto il sole, vuol dire grana superficiale sempre di-versa, mutevole da concio a concio, con il variare dell’incidenza della luce.Non ci pare assolutamente legittimo trascurare questi caratteri distintivi del-la forma della Città, i quali possono costituire «materiali» per la progettazione, connotandola con sue forme e caratteri, istituendo un dialogo tra la pietra delle architetture di progetto e la pietra dell’ambiente.Questo dialogo è sotteso dalla filigrana della Storia, quando suggerisce che le nuove tecnologie, rappresentate dai nuovi materiali (acciaio, vetro, cemento), si compongano sulla spartito unificante della pietra leccese a vista, la quale fornisce «spessore», non solo materiale ma plastico degli edifici e ciò vuol dire non solo continuità, dialogo con la storia della città dell’uomo, con la forma di Lecce e di suoi manufatti in pietra, ma accordanza di toni, di colori, di grana, di «textures».Il compito è dei più ardui, ma anche dei più stimolanti. Un progetto di un inter-vento in un contesto della città storica, può ottenere un efficace rapporto con la storia della città di Lecce, non con tentativi di “mimesis” stilistica con le forme barocche, bensì ricercando con il barocco accordi in tema di spazialità, di inter-pretazione contemporanea delle regole compositive, di contrappunto dialettico -ma armonico- delle soluzioni architettoniche.Ad esempio, il progetto può privilegiare:- i percorsi come «sequenze» di scene urbane e di spazi, esterni, interni-esterni, interni;- l’uso articolato di luoghi di mediazione tra gli oggetti architettonici: le «piazze»,

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le «corti»;- il gioco delle luci e delle ombre lungo i porticati, gli aggetti, le gallerie; - la variazione delle scale di lettura: l’attenzione alla composizione urbana ed al dettaglio, alla «modanatura», alla ringhiera, ai coronamenti, ai tagli nelle mura-ture di pietra;- l’articolazione di forme ed episodi architettonici diversi, quale recupero della «autonomia» delle parti, della «sorpresa», della scoperta, lungo differenti se-quenze di percorso, di scenari differenziati, legati però da coerenze linguistiche, cromatiche e di materia;

APPENDICI

APPENDICE A

Note critiche su temi e contesti di trasformazione urbana e territoriale nel Salento

In appendice vengono fornite alcune brevi note critiche su alcuni esempi di interventi contemporanei di trasformazione - in diversi contesti paesistici ed urbani- del territorio salentino.Attraverso queste analisi sintetiche di progetti e realizzazioni alle diverse scale, si affronteranno i temi più generali della progettazione quali: il rappor-to con la storia, con il luogo, con l’ambiente ed il paesaggio, con le arti, con le materie che costruiscono il progetto, con la concertazione e la partecipazio-ne, con la sua utilità per i cittadini.

A.1 - LECCE: LE MURA ANTICHE ALL’INGRESSO NORD

All’ingresso nord di Lecce, i bastioni delle antiche mura sono il primo e più ampio monumento che si offre alla vista del visitatore. Incorniciano maestose il centro antico e i suoi campanili: uno splendido biglietto da visita della città. C’è un però: le mura sono circondate da un grande piazzale ricavato dalla demolizione del vecchio campo sportivo Carlo Pranzo, sotto al quale correva

l’originario fossato. Sarebbe bello anche così, se fosse vuoto. Lo spazio ospita però un grande parcheggio con la sua variopinta distesa di lamiere, che poco si concilia con il possibile ruolo di landmark, di marchio pubblicitario della Lecce Porta d’Europa, che i bastioni meriterebbero, accanto ad altri monu-menti di pari valore. Ma non basta: a guardare meglio, le mura sono in totale abbandono. Forte-mente erose, sono il regno incontrastato di folti cespugli di capperi e fichi selvatici.Legambiente in una sua denuncia dello scorso luglio, domanda: che fine ha fatto il progetto del “Parco del Bastioni, delle Bombarde, delle Mura”? Il par-cheggio sotto le mura non era previsto nel Piano generale del traffico urbano (c.d. Piano Goggi) attualmente vigente. Perdipiù, secondo lo studio del Piano particolareggiato di recupero del Centro storico, l’area dell’ex Pranzo e del Circolo Tennis era oggetto di un progetto di riqualificazione. Quel progetto si basava su un’idea: pensare a percorsi spaziali, ma anche culturali, ricchi di funzioni diversificate, tesi ad attraversare il cuore della città, a partire dai “punti di transizione” tra centro antico e nuove espansioni. Il primo di questi “punti” è stato attuato con il recupero delle vicine ex offi-cine Cantelmo. In gradevole e levigata dissonanza, l’edificio si affaccia su di uno spazio pedonale -di un biancore eccessivo- da cui spuntano geometriche panchine in candida pietra. È una costruzione high-tech in vetro e legno, at-trezzata di tutto punto con raffinati arredi e suppellettili. Ha l’aspetto di una elegante sede di rappresentanza, piuttosto in contrasto con l’enigmatico ap-pellativo di “Student Center”, che dovrebbe chiarire la categoria degli utenti ma non chi lo gestirà, né per farci cosa.Lo studio di Piano particolareggiato prevedeva un altro di questi punti di scam-bio lungo le mura su viale Calasso: dalla quota dell’antico fossato -rimesso in luce secondo il progetto tra giardini e teatri all’aperto- mediante sistemi ele-vatori dissimulati all’interno dei bastioni, si sale sino ai giardini pensili sopra le mura e poi ci si immerge nel dedalo delle viuzze e corti della Lecce antica. Un’altra pagina del libro dei sogni dei leccesi. La realtà odierna, invece, è un’altra: il degrado è davvero preoccupante e ri-schia di investire anche la stabilità del paramento murario. Le condizioni di

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abbandono delle Mura, tutelate per legge ma non nei fatti, hanno suscitato diverse prese di posizione e mozioni consiliari. Anche la Giunta nel gennaio 2005 ne ha previsto il recupero con i fondi CIPE per le aree sottoutilizzate. Ancora però, dopo tanti anni, degrado, vegetazione spontanea ed auto sono ben visibili e si danno da fare con il loro costante “lavoro” a danno di uno dei più importanti monumenti cittadini. Piani, programmi e progetti a Lecce spesso sembrano non andare d’ac-cordo: in particolare quando trattano di traffico, urbanistica ed importanti opere pubbliche.

A.2 - LECCE: LA TRASFORMAZIONE DEL COSTA-BATTISTI

Si discute da tempo della possibile trasformazione dell’edificio del 1896 che, nel cuore di Lecce, oggi ospita la scuola elementare C. Battisti assieme all’Istituto tecnico commerciale O. G. Costa. Se ne parlò nel 1989, per merito della Provin-cia che bandì (prassi tuttora poco in auge) un concorso d’idee per la ridefinizione funzionale e formale di tutta l’area attorno a Palazzo dei Celestini. La sensibilità culturale del bando di gara - che estendeva l’oggetto dello studio ad una vasta porzione del centro storico - , permise ad una decina di gruppi di progettisti di immaginare soluzioni (alcune piuttosto interessanti) di riassetto integrato per piazza S. Oronzo, la Villa Comunale, il Castello, l’area dell’ex Massa, le Mura, l’area ex Enel, oltrechè naturalmente per il Palazzo dei Celestini, il Calasso e il Costa-Battisti. Alcune delle proposte erano fondate su di un accurato lavoro di analisi sulla struttura della città, indispensabile quando si interviene con nuove rilevanti funzioni urbane. Naturalmente, come avviene spesso nel nostro “Pae-se dei barocchi”, tutto rimase confinato nel recinto delle idee e delle discussioni tra addetti ai lavori.Adesso, i nostri amministratori comunali hanno meritoriamente partecipato al MAPIC, la fiera internazionale dello sviluppo commerciale e urbano dei territori che si è svolta in Francia a Cannes, con alcuni “progetti di trasformazione e valorizzazione urbana”, in corso ed in fase di realizzazione. Senza alcun dubbio, un’occasione ghiotta di “marketing territoriale”, un’opportunità d’investimen-to per investitori e operatori immobiliari, commerciali e turistici sulle migliori

proposte progettuali avanzate dalle città italiane. Tra i progetti presentati, vi è un progetto, redatto dal Consorzio Benitalia (in liquidazione), “di ristrutturazione e trasformazione in centro direzionale e com-merciale del Costa-Battisti”, che torna quindi a far parlare di sè. Purtroppo, il progetto presentato al MAPIC - a giudicare dai pochi elaborati consultabili- è poco convincente. Per la debolezza e genericità della soluzione architettonica (poco attenta in rapporto ai caratteri storici ed architettonici dell’edificio) e per l’assenza di un chiaro rapporto con il contesto urbano, cruciale per la struttu-ra della città. Non si ha notizia sull’esistenza o meno delle necessarie analisi archeologiche, storiche e urbanistiche su cui le scelte di progetto dovrebbero fondarsi. Non si conosce neppure se sia stato redatto uno studio degli impatti sull’ambiente e sulla mobilità, generati dalle nuove attrezzature commerciali, previste in un’area fin troppo densa di tali funzioni. Ciò non toglie che l’edificio e l’ambito urbano non possano essere, come si dice, “valorizzati” e trasformati, per accogliere funzioni propulsive di nuovi usi e per il miglioramento della qualità urbana. Operazioni sempre possibili, a patto però che le nuove funzioni e le modalità delle trasformazioni proposte, siano compatibili con il carattere dell’edificio storico e con l’identità del sito ed i suoi delicati equilibri. Le operazioni di recupero -alcune in corso, altre possibili- del Teatro Apollo, del Costa-Battisti, del Castello, dell’Ex Massa, provocheranno rilevanti tra-sformazioni: in quanto alle forme di uso, alla forma, alla qualità della vita del-la città. Cambieranno gli spazi, la mobilità, l’economia urbana: sarà necessa-rio studiare i modi di questi cambiamenti, studiarli globalmente per valutarne gli effetti complessivi sulla città e sul suo funzionamento ed orientarli verso il suo miglioramento.Le leggi recenti si sono evolute a favore di queste operazioni, appunto, di “valo-rizzazione” degli immobili di valore storico-architettonico delle città, anche con l’introduzione di nuove attività economiche o di servizio per i cittadini. Nel pro-getto del Costa-Battisti, oltre al destino delle scuole che oggi vi sono ospitate, vanno risolti però con chiarezza i problemi giuridici e procedurali sulla catego-ria del bene pubblico in rapporto alle funzioni e servizi pubblici cui è destinato attualmente (scuola) e dopo la sua trasformazione prevista dal progetto (pre-

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valentemente a centro direzionale e commerciale ed in parte a servizi pubblici di carattere culturale). Insomma, un’idea tutta da verificare e maturare, in aperto confronto con la città.

A.3 - LECCE: IL QUARTIERE S. ROSA

Il Salento esibisce con giusto orgoglio ai visitatori le sue qualità, le sue gran-dezze, i suoi centri urbani a misura d’uomo, le sue bellezze da dèpliants turi-stici. Ma, accanto a queste meraviglie, spesso sottoposte a gravi minacce, il Salento, anche all’occhio meno smaliziato, rivela “quantità” inguardabili, mi-serie architettoniche, strade oppresse dal traffico alienante, brutture a cui noi salentini abbiamo fatto l’abitudine. E mostra anche -a guardare con più atten-zione- devastazioni e scempi di cui persino noi ignoriamo l’esistenza, oppu-re semplici abitudini d’uso distorto del territorio a cui, magari per pigrizia, ci siamo rassegnati. Ma accanto a queste cose “da nascondere”, o a quelle opere di trasformazione contemporanea delle nostre città che restano incompiute, come abortite, per fortuna vi sono opere contemporanee di valore, testimonian-ze della nostra migliore cultura architettonica, note solo agli “addetti ai lavori” e spesso e a torto trascurate e maltrattate. Una di queste è, certamente, il nucleo originario del Quartiere S.Rosa a Lecce, una sorta di piccola città nella città, destinata ad edilizia residenziale pubblica a beneficio dei meno abbienti e realizzata nell’ambito del Piano Ina-Casa. Questo piano su scala nazionale nacque, in piena depressione post-bellica, a per far fronte ad una carenza di alloggi economici aggravata dalla corsa alle città e dalle distruzioni della guerra. Si articolò in due settenni, dal 1949 al 1963 e cer-tamente contribuì alla rinascita di un’economia stremata: il grosso intervento dello Stato (oltre 350.000 alloggi per due milioni di vani ed una spesa di mille miliardi delle lire d’allora!) in un settore nevralgico come quello delle costru-zioni, ridusse la disoccupazione, formò una folta e qualificata schiera di opera-tori dell’edilizia, a cominciare dai progettisti, tutti selezionati con concorso. Come furono concepiti quei nuovi quartieri? Il clima della cultura urbanistica d’allora era fortemente influenzato dagli studi sociologici, ripresi dopo la pa-rentesi crociana, in particolare per merito di Adriano Olivetti. Vi attinse, assie-

me agli studi di L. Mumford sulle città giardino inglesi, il meglio della giovane cultura architettonica e urbanistica del tempo: i Piccinato, i Quaroni, gli Zevi e il gruppo dell’APAO (Associazione per l’Architettura Organica) gravitante attorno neonata rivista “Metron” (1945). Nacquero così i quartieri modello in cui si cercò di concepire la casa non più come singola unità familiare, ma come parte di un più complesso rapporto urbanistico e sociale. Si tentò cioè di costruire lo spazio esterno come luogo di rapporti collettivi, di azione comunitaria a partire dalle “unità di vicinato” e dai cortili, sino ai giardini ed alle piazze. Furono istituiti appositi Servizi sociali per “favorire vincoli di comunanza e solidarietà…in una comunità organica” (come recitava la presentazione dell’iniziativa).Santa Rosa fu uno di quei quartieri modello, per un investimento di 5 miliardi e mezzo d’allora. Sorse, su di un’area di 15 ettari per un complesso di 1.150 alloggi e 5.750 vani, lungo un’ariosa passeggiata porticata e attorno a piazze e unità di vicinato. Alterna edifici abitativi alti con case unifamiliari, serviti dal centro sociale, dalla chiesa, dai negozi, dal mercato, dalle scuole e da giardini pubblici e privati. Alla sua esecuzione lavorarono sedici progettisti: attorno ad architetti formatisi alla scuola romana, come Rossi-De Paoli, i fratelli A. e L. Mainardi e il nostro B. Barletti (tra i fondatori dell’APAO) che coordinarono il gruppo, troviamo tra gli altri i salentini M. Fabbri, O. Antonaci, A. Tempesta. Quel pezzo di Lecce, nato su di un piano urbanistico concepito come integrazione di spazi e funzioni e comprendente esempi architettonici di qualità, meriterebbe oggi maggiore cura ed attenzione per la sua salvaguardia storica, ambientale e cul-turale. Ma su come applicare il Codice “Urbani” per la salvaguardia del patri-monio dell’architettura contemporanea, è un altro discorso.

A.4 - LECCE: RESTAURI

Importanti monumenti delle nostre città sono stati -e purtroppo sono- ogget-to di restauri talvolta sbagliati nel metodo. In nome di una antistorica “con-tinuità stilistica”, che mira a isolare l’opera originaria dalle sue aggiunte o trasformazioni successive anche se di pregio, dopo le loro demolizioni si sono ricostruite più o meno fantasiosamente le parti mancanti, spesso inventando “in stile” intere parti mai esistite. Dal XIX secolo in poi, questa tendenza ha

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avuto illustri sostenitori: tra tutti l’architetto francese Viollet Le Duc e Camillo Boito, per il quale l’uomo contemporaneo ha il diritto-dovere di correggere la Storia. I loro emuli hanno continuato e spesso continuano, anche in Puglia, a produrre danni e falsi storici. In prima linea contro questa disastrosa prassi, così scriveva nel 1992 France-sco La Regina, uno dei migliori teorici del restauro. “L’idea che l’attività del restauro sia in grado di rivelare lo strato primo e vero di questa o di quell’ope-ra, è il prodotto di una cultura sostanzialmente antistorica….Il permanere di questa impostazione “premoderna” ha qualcosa di paradossale, non facil-mente spiegabile con gli strumenti dell’analisi critica”.Nel 1991 il Comitato di Settore per i Beni Architettonici ed Ambientali, richiaman-do espressamente i dettati delle Carte internazionali del restauro ed in parti-colare della Carta del 1987, condanna senza appello questa dannosa tendenza: “La conservazione ed il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte, che la testimonianza di storia”. In particolare, fissa il principio che “rimozioni, demolizioni o modifiche di parti esistenti sono da considerarsi eccezionali e, comunque, da valutare attentamente caso per caso. Sono, infatti, da rispettare tutte le fasi storiche di un monumento, a qualunque epoca appar-tengano, in quanto l’unità stilistica non è lo scopo del restauro”.In barba a questi principi, ecco la soluzione che, ormai, può definirsi canonica di gran parte dei cantieri di restauro degli anni settanta: i monumenti, vengo-no ridotti a romantici spazi dalle superfici nude e scabre, spesso suggestivi e alquanto cupi nuovi “ruderi”, in cui il fascino della pietra a vista è stato ottenu-to a discapito delle colorate superfici decorate dei secoli successivi, rimosse assieme agli strati di intonaco che li ricoprivano, sacrificate in nome di una antistorica “liberazione dalle aggiunte”, spesso elementi di grande valore ar-tistico e comunque preziose testimonianze storiche. Il recente restauro del Monastero degli Olivetani a Lecce ha messo in luce e conservato l’unica piccolissima traccia superstite di affresco nel chiostro maggiore totalmente spogliato, forse durante i pesanti restauri del 1972, delle decorazioni pittoriche che, presumibilmente, ne rivestivano in parte le pareti. Analoga sorte hanno subito gli affreschi secenteschi dell’ex convento di S. Maria del Carmine (oggi sede del Rettorato dell’Università): il recente restau-

ro ha riportato alla luce alcune deliziose lunette del chiostro e la “grottesca” di una volta, scampate per fortuna alla furia devastatrice degli sciagurati “re-stauri” ottocenteschi.In nome di questa distorta prassi -che ignora il valore dei monumenti e delle città come “testi” in cui viene custodita la Storia delle civiltà e delle culture- fu demolita nel 1982 a Lecce (con il consenso della Soprintendenza) la tettoia li-berty, addossata al Castello di Carlo V e che ospitava il mercato cittadino, “de-portato” in periferia. Compromettendo quell’unicum attorno al quale, in delica-to equilibrio, si era formata e modificata nel tempo la memoria collettiva. Abbiamo accennato alle disavventure dell’ex Tettoia, realizzata nel 1898 a ridosso delle mura del Castello e demolita nel 1982. Elegante struttura metallica, testi-monianza della tecnologia di un’epoca (colonne di ghisa ripetenti stilemi classici di ornato), ospitava la “chiazza cuperta”, storico mercato cittadino di Lecce. Nel tempo, lo spazio sotto la Tettoia, buio per la pesante copertura in tegole marsigliesi, si andò via via affollando di superfetazioni a protezione dei vari banchi di vendita. Per risolvere una situazione divenuta sempre più caotica e precaria, si scelse la strada più semplice e drastica: la completa demolizione del mercato. La bella Tettoia, una volta rimossa, fu dichiarata monumento e i suoi pezzi furono trasferiti a Vicenza per il restauro, che costò 350 milioni di lire, mentre i commercianti furono spostati, dapprima in Piazza Libertini e quindi nell’attuale sede di Settelacquare. Dopo venticinque anni, lo spazio che ospitava la Tettoia mostra ancora i segni della demolizione (le mensole in pietra di sostegno della tettoia sono lì, tristi simulacri). La “liberazione” delle mura fu un gravissimo errore, commesso in contraddizione con i moderni principi del restauro scientifico, tesi alla salva-guardia della storicità dell’ambiente. L’antica “chiazza cuperta” era soprattutto un luogo insopprimibile di aggre-gazione e d’incontro, come tutti i mercati storici delle città, dalla Vuccirìa a Palermo, alla Boquerìa a Barcellona, tanto per citarne due esempi famosi. La tettoia andrebbe ricollocata dov’era: infatti, anche il suo semplice sposta-mento altrove, seppur nella vicina piazza T. Schipa, produrrebbe la perdita della sua memoria storica e di quella del luogo originario, con grave altera-zione dei suoi significati e di quelli dell’intera struttura urbana, frutto di deli-

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cati equilibri consolidatisi nel corso dei secoli.Oggi si tratta di ridare senso e memoria ad un contesto urbano anonimo e vuoto di contenuti, privato dell’originaria idea sociale e formale, ridotto ad una sorta di “non-luogo” pubblico, rappresentativo di uno dei più eclatanti e mortificanti errori urbanistici della storia di Lecce.Attraverso la ricollocazione della tettoia dov’era, (magari sostituendo la di-strutta copertura in tegole con lastre di cristallo che permettano la visione della quinta muraria del Castello) si restituirebbe a quel luogo, oggi privo di qualsiasi definizione spaziale, una forma e una funzione urbana in grado di favorire momenti di aggregazione sociale. È auspicabile una soluzione architettonica per un’intelligente e sensibile con-taminazione tra usi e materiali, originari e nuovi. Così la tettoia, testimonianza della prima architettura in ghisa, oggi ridotta a scarto urbano e ad ingom-brante “rifiuto speciale”, rimessa al posto per il quale era stata concepita, potrà ospitare un nuovo luogo poetico della città. Si sarà operato in tal modo per la chiusura di una storica ferita, ancor oggi aperta.

A.5 - LECCE: LA “RUOTA” DELLA PACE

Vittorio Bodini nel suo “Barocco del Sud” scriveva: “Lecce non ha conosciu-to che un grande amore, la cui memoria è così gelosamente esclusiva da farla sembrare ancora oggi una città del Seicento. Non ci riferiamo soltanto all’architettura delle sue innumerevoli chiese e palazzi, a quella capricciosa eleganza che sorpassa ogni volta il più folle arbitrio, ma persino all’anima dei suoi abitanti: ai loro astuti ideali e gesticolamenti.” Lo stesso Bodini, in merito ai leccesi -cittadini del “paese dei barocchi”- era ar-rivato ad una conclusione: “Ed è inutile domandare ad un leccese seduto al caffè cosa intendano rappresentare i segni di cui va riempiendo la superficie d’un fo-glio capitatogli sottomano. Son dei ghirigori insensati dietro i quali l’occhio s’ac-contenta di svagarsi, rallegrandosi che il bianco venga integralmente abolito”.Questa convinzione “letteraria” di Bodini, condivisa da altri, ha legittimato quello che ormai è un luogo comune: i leccesi nella sensibilità, persino nei comportamenti, sono profondamente “barocchi”. Poi a torto si applica questo

assioma anche ai gusti estetici, pensando che i nuovi interventi (edifici, arredi urbani, monumenti), per piacere ai leccesi, debbano rinunciare ad esprimersi con le forme della modernità ed “inserirsi nell’ambiente” barocco della città, replicandone -magari in maniera più o meno epidermica e maldestra- stili e forme. Una mimetizzazione, spesso mal riuscita, sempre comunque falsa, come lo è un mobile “in stile” messo accanto ad un autentico pezzo d’epoca. Questo ragionamento potrebbe avere indotto in errore chi consentì l’instal-lazione -a Lecce lungo viale De Pietro- di una scultura in metallo a forma di gigantesca ruota, alta circa otto metri, dedicata alla pace con la rappresenta-zione dei dieci comandamenti. “Un premio dedicato al Papa”, secondo i Lyons di Taranto che poi, assieme all’autore Cosimo Chiffi, industriale metallurgico, l’hanno donata nel 2005 alla città di Lecce.Senza entrare in merito all’opportunità “ideologica” dell’operazione ed ai contenuti più o meno simbolici che quel monumento cerca di rappresentare, penso che l’opera sia debole dal punto di vista artistico. L’universalità del messaggio di pace e la rappresentazione dei valori della cristianità, da soli non bastano ad assicurare la riuscita di un’opera d’arte. In questo caso quei messaggi, seppur alti, sono esibiti in maniera retorica e senza la necessa-ria trasfigurazione artistico-simbolica, assumono un carattere meramente didascalico. La composizione è di un’ingenuità disarmante e il linguaggio espressivo piuttosto elementare: un cerchio di acciaio -che, eseguito al trafo-ro, sembra una figurina di cartone- racchiude altri cerchi più piccoli con i co-mandamenti e la parola “pace” in varie lingue. Alla sua base si apre una porta che, secondo l’autore, “simboleggia l’accesso alla pace e al dialogo”. Un’ope-razione mimetica discutibile (ispirata forse ai rosoni barocchi delle nostre chiese?), ridotta ad un’ingombrante “ghirigoro” artisticamente “insensato”, per dirla con Bodini. Insomma, un tentativo mal riuscito di “inserimento” nel contesto (come altri di cui parleremo), privo di valore estetico e della capacità di interpretare la Storia con i caratteri della contemporaneità.Secondo una legge mai applicata, una parte dei soldi per le opere pubbliche dovrebbe servire per le opere d’arte. Così oggi molte nostre piazze (come in pochi casi è avvenuto) ospiterebbero -ad esempio- le sculture di Aldo Calò, di Nino Rollo o Luigi Lezzi, grandi artisti salentini scomparsi. Magari in fu-

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turo ammireremo quelle di Salvatore Spedicato o Armando Marrocco, la cui bravura metterà al riparo chi le avrà scelte dall’accusa di provincialismo, per avere preferito i migliori artisti di casa nostra. Per oggi dobbiamo accontentarci della ruota della pace di Chiffi, arti-sta dilettante.

A.6 - GALLIPOLI: IL NUOVO LUNGOMARE

Nella seconda metà degli anni ’90 il nome di Gallipoli ebbe una fortunata eco al di fuori dei ristretti confini del Salento. Anzitutto grazie alla sua natura e storia, il cui valore sopravvisse intatto agli anni del boom edilizio, alle tante palazzine a ridosso del mare, all’abusivismo e persino al “grattacielo” (di cer-to ingentilito dal restyling di qualche anno fa). A quel successo contribuirono anche le vicende di un illustre leader politico e la politica urbana del suo gio-vane sindaco di allora, Flavio Fasano che, con metodi innovativi, promosse l’ambizioso programma “Gallipoli Mediterranea”.Per attuarlo, si costituì un “laboratorio” comunale, con una decina di neo-laureati in architettura e beni culturali guidati da A. Quistelli (allora rettore dell’ateneo di Reggio Calabria) e R. Gigli (docente alla Sapienza di Roma). In quella sede si avviò un lavoro di ricerca sulla città e sull’ambiente attraverso di-scussioni, rilievi, modelli, plastici. Vi trovarono in modo inedito sintesi e verifica i programmi degli amministratori e le idee dei ricercatori e dei progettisti.Il progetto del lungomare dello stesso Rosario Gigli., realizzato in parte, è forse l’icona di quella visione di città: legata alle tradizioni, alla storia, ed ai caratteri straordinari del luogo, ma aperta ai linguaggi espressivi della con-temporaneità ed alle nuove tecnologie.Il lungomare si sviluppa con una passeggiata di 850 metri, lungo cui si sno-da la sequenza degli ambiti di sosta: la Piazza del Mare e la Piazza Rosa dei Venti. La prima piazza, il cui orizzonte viene inquadrato dal telaio in pietra, si prolunga con un belvedere sul mare, a forma di barca.Un’architettura indifferente alle “mode”, che mira a valorizzare un luogo, senza snaturarne il carattere. In cui gli “elementi plastici, essenziali e rare-fatti, interloquiscono con piglio dialettico con il contesto naturale. Proponen-

dosi, attraverso i simbolismi che evocano, come contro canto della caotica e sconfinata distesa marina” (C. De Sessa).

A.7 - BRINDISI: LA CENTRALE DI CERANO

Sin dal 1939, la legge 1497 tutelava il paesaggio con l’obiettivo di non “distrug-gerlo ed introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio a quel suo esteriore aspetto”. Oggi il paesaggio, tutelato dal Codice Urbani del 2004 appena rifor-mato, è inteso come un sistema integrato di valori storici, naturali, culturali, ambientali, identitari, sociali ed economici, e risorsa per lo sviluppo sostenibile. Secondo la Convenzione Europea di Firenze del 2000, la sua tutela è un diritto per ogni individuo e nello stesso tempo rappresenta un dovere per le pubbliche Amministrazioni, responsabili “delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita”.Non sempre le leggi hanno impedito le devastazioni, prodotte con l’alibi di un malinteso concetto di sviluppo, di cui la centrale a carbone di Cerano di 2560 MW -la più grande d’Italia- è l’icona più drammatica. Nonostante la stre-nua opposizione della popolazione, l’Enel la realizzò nel 1991, distruggendo un paesaggio costiero e un ambiente d’eccellenza (il Bosco di Cerano, sito SIC di interesse comunitario, dal 2002 è diventato -troppo tardi- area protetta regionale). Le trattative tra Regione ed Enel per la riduzione delle emissioni prodotte dalla megacentrale, non bastano oggi a tranquillizzare le popolazio-ni salentine, allarmate dall’incremento dei casi di tumore. Paesaggio e ambiente: sono due componenti inscindibili del territorio, spesso considerate a torto separatamente. Invece, il paesaggio è funzione delle con-dizioni ambientali (della terra, dell’acqua, della vegetazione) e la sostenibilità ambientale è in rapporto alle modificazioni indotte dall’uomo sul proprio am-biente (il cosiddetto “paesaggio antropico”). La Regione, con il Piano energe-tico ambientale del 2007, affronta il tema della sostenibilità privilegiando le fonti rinnovabili. Resta il problema della conservazione dei valori paesistici, allo studio del Piano Paesistico Territoriale, avviato nel 2007 con l’intesa Sta-to-Regione. Basteranno questi piani ad evitare ulteriori scempi ambientali e paesistici del nostro territorio?

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A.8 - I PARCHI EOLICI

Paesaggio, ambiente e sviluppo sono legati in modo inscindibile: il paesaggio è funzione delle condizioni ambientali ed alla sostenibilità ambientale con-corre il paesaggio, inteso come prodotto delle azioni dell’uomo. Nel 1987 il rapporto Brundtland della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo, definì lo sviluppo sostenibile, ovvero “lo sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. La Convenzione Europea del 2000 sancì che la tutela del paesaggio -come insieme di valori storici, naturali, culturali, ambientali, identitari, sociali ed economici- è un diritto per ogni individuo. È necessaria perciò una sintesi tra sviluppo sostenibile, tu-tela dell’ambiente e conservazione, valorizzazione e riqualificazione del pa-esaggio. La Regione ci sta provando: con il Piano Energetico Regionale, ha orientato lo sviluppo sostenibile verso le fonti rinnovabili ed ha indirizzato il Piano Paesistico Territoriale, perchè il paesaggio divenga sistema condiviso e integrato di valori, “patrimonio sociale”.Gli impianti eolici producono energia “pulita”, ma il loro sviluppo “selvaggio” (già installati per 400 MW e, per oltre 2500 MW, già autorizzati), senza un piano coordinato a scala di area vasta, rischia di produrre una caotica alterazione delle qualità del paesaggio. Ogni Comune, infatti, può realizzare il proprio parco eolico: siamo certi che questo non avverrà a prescindere dal valore del paesag-gio e dalla vocazione turistica? Il che pone dei dubbi: sino a che punto l’utile può prescindere dal bello? Sono due fattori contrapposti, oppure il buon senso e la condivisione possono creare la sintesi necessaria? Bello e utile coincidono, se sono frutto di equilibrio, di misura negli interventi, di rispetto dei luoghi e di ca-pacità di ascolto critico delle popolazioni, titolari del diritto alla difesa dell’iden-tità del proprio territorio ed alla sua “utile” bellezza. Che dire della proposta di centrale eolica con una lunga fila di cinquanta torri alte 120 metri, nel mare a tre chilometri dalla costa, da Cerano sino a Torre Rinalda?

A.9 - LECCE: PIAZZA TITO SCHIPA

Piazza T. Schipa si trova nel cuore di Lecce, all’incrocio tra viale Otranto e le vie Cavallotti e Marconi. Ma non è una piazza. È lo spazio di risulta dalla demolizione nel 1971 dell’ex convento di S.Maria del Tempio, fondato nel 1432, ricostruito nel 1508, ampliato nel 1591, trasformato in caserma nel 1905, infine demolito nel 1971, commettendo uno sfregio al tessuto urbanistico ed alla sua memoria storica.Oggi, sullo sfondo di muri eterogenei, come superstiti dalle macerie di una guerra immaginaria, lo spazio indifferenziato e squallido di piazza Schipa è il caotico dominio di luna park di borgata, di furgoni per il fast-food, di ambulanti vari e parcheggiatori abusivi. Nei prossimi giorni ospiterà la discutibile kermes-se della Fiera di Natale. I destini dell’ex Massa s’incrociano con quelli dell’ex Tettoia liberty, l’adiacente e sparita “chiazza cuperta”, mercato storico dei leccesi ma anche loro punto d’incontro, cuore pulsante della città assieme alla vicina piazza S. Oronzo. Il Comune ha deciso, infatti, di ricollocare in Piazza T. Schipa la Tettoia, addos-sandola ad uno dei nuovi edifici che lì dovrebbero sorgere. Su come riempire lo spazio dell’ex Massa, con o senza tettoia liberty, da mezzo secolo le amministrazioni cittadine, i proprietari privati e pubblici e gli impren-ditori, man mano interessati all’operazione, hanno commissionato studi, che hanno prodotto proposte più o meno simili, più o meno valide. Molto danaro, anche pubblico, speso in sondaggi, indagini, progetti.Una competizione sinora inutile, tra delibere contrastanti, trattative più o meno sommerse, cambi di rotta improvvisi, in cui chi arriva per ultimo ricomincia tut-to daccapo, come se la sua soluzione del problema fosse quella salvifica e defi-nitiva. Intanto, cittadini e commercianti aspettano invano da un bel po’ di tempo che uno squarcio indecoroso nel corpo della città storica venga rimarginato.

A.10 - QUALITÀ E ARCHITETTURA NEL SALENTO

L’assenza -nella disattenzione della comunità e della committenza- di una pubblicistica e di un dibattito sull’architettura del nostro territorio, hanno pro-dotto in molta prassi professionale corrente un vuoto di ricerca e di cultura del

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progetto, ormai praticate solo nelle università e dalle “archistar”. La micidiale miscela costituita dalla perdita del rapporto tra luogo cultura e Storia, dalla carenza di responsabilità e di senso del bene comune, dalla frequente assenza di ricerca del bello e, in alcuni casi, persino dalla mancanza di efficienza, ha prodotto spesso una cultura della città vuota, senza riferimenti. Alla ricerca di “novità” alla “moda”, con risultati spesso grondanti pacchianeria, pessimo gusto e superficiale citazionismo. Gli “effetti speciali” hanno sostituito il rigore, la quantità ha spesso fatto a meno della qualità.Non è solo la città pubblica, quella degli edifici e spazi pubblici, a registrare il crollo dell’attenzione alla bellezza, alla “venustas” che -da Vitruvio in poi- per secoli aveva accompagnato scelte e progetti dei governanti e degli architetti. Progetti fondati, allora, sui saperi tecnici delle culture materiali, sul rispetto del contesto e su una composizione architettonica espressa attraverso una creatività responsabile, capace di “comporre” -appunto- il proprio intervento all’interno della costruzione collettiva di una città armoniosa e funzionale, in-somma, di una città “bella”. Oggi è sopratutto la città “privata”, quella delle case, delle “palazzine” per abitazioni negozi ed uffici, a presentare una diffusa carenza di qualità, di indifferenza al contesto, di sterile manierismo modaiolo. I pochi casi di committenza illuminata, serviti da un’architettura di buon livel-lo, mettono in drammatico risalto la condizione più frequente, accomunata dal gusto per l’effetto epidermico, fatto di brutte copie degli originali prodotte dalle “star” dell’architettura, di casa oggi persino sui rotocalchi popolari e nei va-rietà televisivi. Secondo Alberto Ferlenga, architetto e studioso, il risultato -da noi come altrove- di questa mancanza di approfondimento critico e di dibattito sulla cultura del progetto, è “uno sterminato catalogo di copiature, strafalcioni, caricature,…o nella migliore delle ipotesi, un manierismo eclettico senza infa-mia e senza lode che produce ambienti identici in ogni regione del Paese”.

APPENDICE BRapporto tra analisi e progetto: linee metodologiche

B.1 - PREMESSA.

Ogni progetto mostra in filigrana la trama del percorso metodologico che lo ha generato. Se dovessimo fare la storia delle ricerche che compiono su loro stesse le discipline che si oc-cupano del progetto (come l’architettura e l’ur-banistica) per analizzare i processi elaborati (per ordinarli in termini di massima efficienza) e, parallelamente, esaminare i comportamenti della ‘committenza’, troveremmo che progetti-sti e committenti hanno il medesimo problema: rendere chiaro il percorso dell’organizzazione delle relazioni tra loro. Il nodo di tale relazio-ni sta nel tenere costantemente partecipe la committenza dei processi di decisioni che un progetto implica (a garanzia soprattutto che quanto si farà corrisponda al meglio ai suoi bisogni). Ed è per questo che, in partenza, la ‘committenza’ deve aver chiara idea del mec-canismo guida delle decisioni - in altri termini, della ‘metodologia’ del pro-getto - ed è quindi al progettista che tocca esporne le linee. Esiste, oggi, la possibilità piena di proporre una metodologia affidabile? Vi sono piani (quel-li che si pongono sotto il controllo di modelli matematici) ai quali si possono adattare processi di ottimizzazione. Tutto ciò che riguarda il controllo delle quantità in gioco, soprattutto e, in generale, tutto quello che sappiamo sul problema del ‘decision making’, oggi, illumina molti dei nodi della progettazione. Ma occorre ricordare che il più famoso, forse, dei Trattatisti (il vecchio Vitruvio) ha riconosciuto, nel proget-to, una componente che non è possibile trattare con modelli matematici: la ‘venustas’. Di fatto la proposizione del Movimento Moderno in architettura, dei primi decenni del secolo, che proponeva di assegnare al binomio ‘modo

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costruttivo-tipologia’, tenuto chiaramente leggibile, nelle evidenze delle sue determinazioni assunte, valori estetici che proponessero una sorta di ‘venu-stas’ razionale, non ha superato, con un aggiramento (o una negazione) il di-lemma posto dalla triade vitruviana (utilitas, firmitas, venustas), laddove essa avverte che una procedura di analisi che istruisca il progetto non ne esaurisce la struttura metodologica, ciò nella misura in cui compaiono numerosi pas-saggi decisivi che potremmo definire di sintesi, ma sulla cui natura meglio fa-remmo a dire che sono caratterizzati da assunzioni di un valore tale, per una data variabile, da non corrispondere tanto ad un ruolo meramente funzionale quanto alla costruzione dell’ordine che associa il progetto ad una data percet-tibilità: chi fruisce un oggetto di architettura e più ancora chi vive in un dato territorio, non lo usa solo, ma lo memorizza, lo riconosce, lo percepisce come comunicazione, deve essere guidato verso un modo di decodificazione della complessità e di capirne il significato. Si tratta allora non solo di controllare quantità, ma anche di costruire un codice. È importante tutto questo?Si può intanto fare un esempio; tra la semplice costruzione di frasi in buona grammatica e un “discorso” articolato corre la differenza che è posta da ciò che ha ricevuto senso dalla “retorica” : grazie ad essa frasi, periodi, strutture del discorso si seguono con un ordine (e un rilievo assegnato) che aggiunge alla chiarezza grammaticale la forza di immagini associate nel modo che più conferisce suggestività.Questi processi, dunque, in cui si compiono scelte di valore che permettono di organizzare le parti entro registri funzionali associati ad idee di forza e di suggestività, sono propri del fare architettura e del governo del territorio e non sono né ignorabili né escludibili.È importante oggi la “venustas”? Chi può negare una sua centralità in un mon-do come quello contemporaneo che la consuma largamente attraverso un vero culto dell’immagine? Nel delineare il modo col quale si intende affronta-re il progetto nella sua interezza e nelle sue parti, pare opportuno identificare sia passi che è agevolmente consentito di fare con buoni strumenti analitici, sia i passaggi che introducono logiche di progetto e di decisione la cui chiave deve necessariamente essere semantica.Schematicamente, si può affermare che vi è una fase istruttoria che ha come

obiettivo le linee dell’opera di progettazione e che, essenzialmente, è una fase di analisi ; il cui esito finale deve essere quello di stendere il “programma” del progetto, che è l’insieme delle regole, dei controlli, delle tipologie di ogni natura che meglio si adattano alla natura dell’oggetto da configurare (tipo-logie distributive, tipologie strutturali, ordine generale delle morfologie che struttureranno l’opera).È una fase nella quale occorre che progettisti e committente procedano insie-me. È per questa fase che ha senso parlare di metodologia, se essa è il profilo dei meccanismi delle decisioni da prendere: di là da essa vi è la “redazione” del progetto come momento di gestione tecnica di una elaborazione che deve aprire la strada all’esecuzione.

B.2 - METODI E CONTENUTI DELLE ANALISI CONOSCITIVE

Generalmente il committente è in grado di dare forma alla sua domanda. Sempre in generale, tale forma è quella di una descrizione dei suoi bisogni per “verba”, accompagnata, se necessario, da elenchi strutturati in modo da chia-rire sia le necessità da soddisfare in rapporto ai processi di sviluppo voluti sia, talora, da valutazione delle superfici (o aree) che intende siano da associare all’elenco. Si può rendere piu’ completa ogni prescrizione con disposizioni e raccomandazioni particolari. Un dato essenziale è sempre l’importo delle disponibilità assegnate alla realizzazione del programma. Approcci elaborati fin dagli anni ’70 per affinare le istruttorie preliminari al progetto hanno indivi-duato in forme di indagini dirette, tra gli utenti di una determinata struttura, la via per l’accertamento dei requisiti sui quali centrare la progettazione. È evi-dente che ogni operazione di destrutturazione, che scompone la complessità in una serie di termini elementari, tende a moltiplicarli, e la tendenza , cosi’, è compilare lunghe liste di quelli che sono chiamati “ requisiti esigenziali” . La moltiplicazione di tali termini, rischia di rendere il problema indeterminato; se le “liste” possono essere trattate in termini matematici o equivalenti, esse divengono strumenti per procedere in maniera più agevole.

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B.3 - L’ORGANIZZAZIONE DELLE ANALISI E DEI REQUISITI ESIGENZIALI

Schematicamente, per renderne chiaro il meccanismo, si possono descrivere le operazioni necessarie e i passaggi secondo cui esse si seguono, per quanto ri-guarda la fase delle “analisi”:A. Il gruppo di lavoro, in formulazioni semplici, appresta una lista completa delle prestazioni (requisiti) che devono essere fornite; B. Raccolta di dati con indagine diretta per conoscere e confrontare definiti grup-pi di esigenze con la realtà su cui si deve operare;C. I dati raccolti con indagine diretta, e i dati raccolti per via indiretta esaminando contesti simili a quelli su si deve operare (attribuendo loro non valore assoluto, ma considerandoli semplici indicatori di tendenza), vengono selezionati distin-guendo quelli ‘qualitativi’ da quelli che, con riferimento a dati quantitativi, vanno assunti come parametri di progetto e di controllo.La lista predisposta in A) è analizzata secondo un modello logico considerato affi-dabile, per stabilire quale effetto ciascun termine induca (verificate le ammissibi-lità consentite da condizioni al contorno) sulle possibili risposte progettuali.L’esigenza che impone correntemente “Valutazioni di Impatto Ambientale” ha condotto allo sviluppo di una modellistica particolare fondata sull’uso di ma-trici poliassiali e su codificazioni di valori riportati ad intervalli che non quan-tificano effetti, ma ne leggono solo il segno positivo o negativo, sufficiente ai fini valutativi. Sono procedure giudicate affidabili e i modelli disponibili sono assumibili come appropriati laddove occorra trattare termini eterogenei. È sulla scorta di quanto è dato dedurre da tale sistemica che si può procedere all’elaborazione di un D. Modello di controllo, Matrice di Classificazione e di Organizzazione dei Requisiti.La descrizione sintetica che precede mostra come gli strumenti selettivi ado-perati nella sequenza esaminata sono principalmente di ordine logico fidando sui risultati di esami “in contraddittorio” tra esperti con competenze ed ec-cellenze diverse. Le sole differenze ordinabili sono tra ‘quantità’ e ‘qualità’ e il risultato del processo analitico-logico è più ricco nella misura in cui i ‘requi-siti’ sono vagliati in rapporto a fattori di contesto, determinando a quali condi-zioni ammettono di essere assunti, quali comportamenti progettuali essi, nel

particolare, delineino. Occorre trovare l’ordine che relaziona la pluralità dei ‘requisiti prestazionali’ e ciò, in definitiva, significa dare priorità e gerarchia alle decisioni necessarie. Il “Modello di Controllo” funge da ‘Matrice di Classificazione e di Organizzazio-ne dei Requisiti’. L’elenco dei requisiti, individuato sulla base dell’informazione diretta ed indiretta secondo i criteri esposti, configura un insieme di prestazio-ni che devono essere garantite per realizzare la congruenza forma-contesto. L’elevato numero di variabili (requisiti) in gioco e la conseguente molteplicità delle loro interconnessioni, comportano una notevole difficoltà nel dominare il campo progettuale da esse determinato in maniera empirico-intuitiva.Si rende necessario ricorrere all’adozione di un sistema logico di riferimento esplicabile in fasi distinte, tramite il quale, mentre si individua la struttura lo-gica di organizzazione dell’insieme dei requisiti, si definiscono i sottosistemi significativi dei requisiti stessi, cioè quei sottosistemi che presentano un grado di interconnessione tale da conferire loro un’individualità e conseguente rela-tiva autonomia all’interno del più generale sistema di organizzazione dell’in-sieme dei requisiti. Tali sottosistemi possono essere affrontati singolarmente dal punto di vista progettuale salvo recuperare in un secondo tempo, e cioè al momento della ricomposizione delle soluzioni progettuali parziali nella sinte-si complessiva del progetto, le valenze (interconnessioni) che legano tra loro i sottosistemi. Si ritiene allora utile adottare uno strumento (matrice di clas-sificazione) caratterizzato su base sistematica dalla possibilità di promuovere e esplicitare l’operazione progettuale secondo fasi distinte e comunicabili. Una “Matrice di classificazione dei requisiti” può avere forma di colonne che ordinano un sistema di attività assunte come possibile articolazione organiz-zativa della struttura su cui si opera e di righe che riguardano le componenti sistemiche del processo progettuale (componenti dello spazio fisico in senso stretto, sistemi di relazioni ritenuti significanti, sistemi di tipo tecnologico e realizzativo, forme di scambio entro lo spazio fisico e implicazioni di carattere psicologico percettivo). La matrice, nella sua organizzazione, come appro-priato modello, dà un primo risultato capace di orientare la progettazione. La matrice rende evidente il sistema di relazioni in cui si collocano i requisiti, raggruppati convenientemente secondo dipendenze l’uno all’altro, ordinati

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per livelli; si delineano anche i termini di autonomia relativa utilizzabili per una strategia di progetto. È solo con l’introduzione di tipologie e principi di struttura che si opera il passaggio definitivo a quel modello-programma che è stato chiamato ‘Metaprogetto’, una forma di elaborato progettuale che già può costituirsi come ‘Progetto Preliminarè. In definitiva, tutta la serie dei pas-saggi che Progettisti e Committenti compiono ha, decisamente, come fine, la determinazione delE. Metaprogetto: Proposta delle configurazioni tipologiche e strutturali ve-rificanti il sistema dei requisiti, espone l’ordine dello sviluppo del progetto anche in rapporto a più ambiti distinguibili come parti e in ragione del grado della loro autonoma solvibilità, può formulare il sistema delle condizioni che assicurano successo alla realizzazione di insieme.

B.4 - L’ESPERIENZA DI PROGETTI SIMILARI: LO “STATO DELL’ARTE”.

Principi di tipologia e principi di strutture non derivano tutti dalla istruttoria dettagliatamente descritta: ciò che li introduce in modo ben definito (se voglia-mo necessariamente trovare la ‘ratio’ della loro origine) è, talora, (e meglio sa-rebbe che ciò fosse una costante sistematica) quella indagine (v. C) su approcci significativi che può porsi sotto il titolo di ‘Valutazione dello stato dell’arte”. Per esaurire il discorso iniziato e considerare limiti e affidabilità relative dei pro-cessi esaminati, va detto che le procedure analitiche -pur quando non determi-nano univocamente assetti tipologici e strutturali- trovano ugualmente valore determinante nella misura in cui, da un lato espellono ipotesi di configurazioni non compatibili e dall’altro sono in grado di convalidarne altre o, infine, di pro-porre adattamenti e modifiche che migliorino i risultati cui si può pervenire una volta che siano ipotizzate date configurazioni globali.Restando nei termini di un discorso sul progettare e tenendo un tono di ana-lisi generale di natura metodologica, può essere il caso di avanzare alcune riflessioni che illuminano meglio l’intero processo:* può avere valore di principio l’enunciato che un dato sistema di requisiti esigenziali non ha una solvibilità univoca;* può avere valore di principio l’enunciato che la capacità di limitazione delle

scelte possibili, come connotato di requisiti esigenziali, trovi il suo massimo in ambiti di alta specificità tecnica.Una considerazione finale può essere fatta mutuando da altre linee di ricerca pensieri su argomenti che, peraltro, hanno alta affinità con ciò di cui ci occu-piamo (o che, comunque, risultano avere una specifica contiguità).La ricerca sulla ‘Organizzazione scientifica del lavoro’ è, di fatto, in continuo aggiornamento. Sembra adattarsi al nostro problema una tesi di Herbert A. Simon (premio Nobel per l’economia nel 1978), nella quale sviluppa la sua teoria della ‘Razionalità limitata’ contrapposta ad una linea classica che, per contro, si considera della ‘Razionalità illimitata’, della quale esamina le de-bolezze per avanzare la sua tesi. Scrive Simon: “In mancanza di prove che i concetti classici descrivano effettivamente il processo decisionale, pare ra-gionevole esaminare la possibilità che il processo reale sia abbastanza diver-so da quello descritto dalle regole” Secondo Simon, il modello di razionalità limitata aderisce meglio a situazioni che non si prestano ad essere definite entro contorni perfetti: “ Se esaminiamo situazioni che comportano incer-tezza abbiamo validi motivi per sostituire alla teoria classica un modello di razionalità limitata...”. Il primo elemento in cui il modello di razionalità limi-tata si distacca dalla teoria classica è l’analisi rivolta a soluzioni soddisfacenti anzichè ottimali: “ ... Sono state scoperte diverse procedure di applicabilità piuttosto generale e di vasta utilizzazione che rendono trattabili problemi de-cisionali che non lo sono ... vanno sotto il nome generale di “bounded rationa-lity” (razionalità limitata)...”. Le procedure in cui si articola il modello di razionalità limitata non escludono i metodi classici (ad esempio le tecniche di programmazione lineare), ma l’im-piego di tali metodi è accessorio, sono strumenti adeguati solo quando il pro-blema è già stato impostato (scomponendolo, eventualmente) trovando centra-lità cui ridurre la portata del problema: “ ... Un sistema utilizzabile è quello di sostituire allo spazio effettivo delle possibilità uno spazio ben più ristretto che approssimi quello reale in qualche modo appropriato, e quindi applicare a que-sto la teoria classica; è di solito meglio generare solo alcune mosse dell’intero insieme delle mosse possibili, valutando queste approfonditamente, piuttosto che generarle tutte, valutandole superficialmente. Nella progettazione di og-

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getti complessi il processo ha una struttura di ricerca complicata.Qui gli stadi iniziali della ricerca (non possono svolgersi che) in spazi altamente semplificati che astraggono dalla maggior parte del dettaglio del problema del mondo reale, lasciando solo gli elementi più importanti in forma compendiata. Quando un piano, un progetto schematizzato e aggregato, è stato elaborato nel-lo spazio [proprio alla semplificazione necessaria], dettagli del problema pos-sono venir reintrodotti, e il piano [quale è al suo inizio] usato come guida nella ricerca di un progetto completo. Naturalmente ci può essere una intera gerar-chia di ‘spazi di piano’, che portano da un progetto altamente astratto e globale a specificazioni di dettaglio successive. Ad ognuno di questi livelli di astrazione anche il processo di progettazione può essere strutturato diversamente. Dato che gli spazi più astratti tendono ad essere “più lisci”, è spesso possibile usare modelli di ottimizzazione ritornando [poi] a modelli di ricerca soddisfacente per completare i dettagli del progetto”. Ma, avverte Simon, le procedure di ricerca soddisfacente e le tecniche di ottimizzazione possono anche combinarsi diver-samente usando le prime in fase di progettazione generale e le seconde per fissare parametri che controllino i dettagli.Come viene rilevato, la portata della teoria della razionalità limitata è misura-ta dall’introduzione di una definizione del processo decisionale che ammette l’assunzione di obiettivi “may” a fianco degli obiettivi “must”: “... Il processo con cui viene scelta, tra tutte le sequenze di alternative, quella che consegue pienamente gli obiettivi “must” e meglio soddisfa quelli “may” è .... il proces-so decisionale....”. È quello, quindi, che configura la decisione.I ragionamenti di Simon non partono da problemi quali quelli che occorre trat-tare nel caso di studio; tuttavia, proprio perchè il loro oggetto è la sequenza che va da un problema complesso alla sua soluzione attraverso un insieme di de-cisioni coerenti e concatenate, contengono il caso del quale ci si occupa che ha per intero il profilo dei problemi di cui si occupa la ricerca operativa: Simon non esclude, nei suoi ragionamenti, alla fine, nemmeno elementi di empiria, al con-trario li rileggittima, di fatto. È un approccio che chiarisce come gli architetti e gli urbanisti trovano le strade, storicamente, per muoversi, verso la soluzione, tra la definibilità ‘esatta’, con gli strumenti disponibili di tempo in tempo, della ‘utilitas’ e della ‘firmitas’ e la definibilità culturale-intuitiva della ‘venustas’.

Fin qui ciò che è stato descritto è l’insieme delle procedure che si riconosce debbano essere seguite in un iter progettuale corretto: una ricognizione che individua passaggi ordinati a valore generale e nella quale si è richiamata l’essenzialità di una sua messa a confronto con ciò che è stato detto “stato dell’arte” ovvero con la conoscenza aggiornata dei progetti prodotti in altri contesti culturali. Essa gioca, come si è detto, un ruolo essenziale al fine di costruire modelli possibili da calare nel progetto, eventualmente assumendo materiali signifi-cativi, con procedure di astrazione, al fine di darsi riferimenti di linee di ten-denza o, con processi di destrutturazione, per includere nelle liste prestazio-nali, che il gruppo di lavoro disporrà, nuovi termini con lineamenti innovativi.La visibilità data ad ogni aspetto del contesto (anche scomponendolo in te-matismi convenzionali) è il dato fondante del passaggio da “Conoscenza” a “Progetto” e l’idea-guida è quella di identificare tutte le modificazioni più ef-ficienti in direzione di uno sviluppo complessivo e promozione di un’azione valorizzatrice dell’esistente e di creazione di nuovi valori.

L’azione progettuale preliminare può assumere così due forme:a) Metaprogetto, articolato in:Analisi dei caratteri strutturali del contesto;Analisi delle relazioni tra gli elementi strutturali;L’individuazione degli ambiti d’intervento, con l’esemplificazione di una plau-sibile casistica tipologica.b) Concept Progettuale, contenente la definizione di massima dei principali interventi, spinta, in alcuni casi, oltre i puri dati planovolumetrici e quantitati-vi, propri del livello di progettazione preliminare, fino a definizioni e visualiz-zazioni dei caratteri architettonico-morfologici, per consentire anche valuta-zioni degli effetti in ambito paesistico-percettivo, ai fini del perseguimento del primario obiettivo della sostenibilità ambientale.Il progetto sarà composto in maniera soddisfacente:se sarà in grado di scomporre e contenere il problema;se le procedure di indagine diretta rivolte ad accertare nel dettaglio le esi-genze fondamentali dell’utente e gli affinamenti metodologici, hanno accom-

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pagnato gli ‘steps’ della elaborazione del progetto, ponendo, con un processo di “feed back”, le soluzioni sotto il controllo dei contenuti metodologici e dei requisiti prestazionali predeterminati dal Metaprogetto.

B.5 - GLI APPROFONDIMENTI CONOSCITIVI: PROCEDURE DI INDAGINE DI-RETTA E REQUISITI PRESTAZIONALI.

In ogni progetto di trasformazione le cartografie disponibili, pur le più aggior-nate, sono destinate ad una genericità di impiego che assegna loro il valore di “prima informazione” che può non contenere tutti i dati necessari. L’ac-quisizione di questi ultimi avverrà mediante una campagna di “rilevamento sul campo”, svolta tramite uno stretto rapporto con tutti i soggetti capaci di fornire dati, non escludendo l’ausilio di schede di inchiesta. Ciò significa anche la possibilità di compiere, nella fase di Concept Progettuale, un processo critico nei confronti della realtà attuale, o dei programmi degli enti locali, configurando talvolta termini alternativi. In base alla letteratura, in base alle normative di vario livello e in base alla esperienza posseduta, si deve confi-gurare lo spazio entro cui devono trovar posto sia i “Requisiti Prestazionali” sia gli “effetti indesiderati”. Compito dei progettisti, procedendo nella loro opera, è quello di giungere ad una organica lista che troverà la sua completezza nelle successive fasi della progettazione.In sintesi, i primi termini da esaminare possono essere raggruppati come segue:• Area del progetto; • Componenti ambientali soggette ad impatto:• Fattori e condizioni d’inefficienza, disturbo e rischio connessi allo stato di fatto:

≥ Disturbi di aspetti ambientali visibili;≥ Inadeguato rispetto degli aspetti ambientali naturali storici, urbanistici, architettonici;≥ Scadimento del decoro degli aspetti ambientali visibili di insediamenti dell’area;

• Azioni rimediative necessarie;• Strutture ed attività umane influenzate:

≥ Variazioni del livello sonoro;

≥ Variazione della qualità della vita;≥ Variazione dei valori immobiliari;≥ Variazione del sistema culturale;≥ Variazione delle modalità d’uso;≥ Variazioni del sistema della mobilità.

Devono essere considerate, inoltre, alcune liste di requisiti prestazionali di valore generale, che riguardano termini essenziali nei quali solitamente viene destruttu-rato un progetto:• OrganizzazioneQuesta sezione è, chiaramente, quella che controlla la formulazione delle scelte tipologiche; l’ordine in cui gli elementi sono posti è, solitamente, quella di una successione che va dal generale al particolare.Si devono considerare con attenzione le implicazioni legate a categorie importan-ti di progetto quali: Trasformabilità e Rotazione di Attività; Aggregabilità; Poliva-lenza funzionale; Flessibilità; Capacità di consentire addizioni ad unità esistenti; Sostenibilità dello Sviluppo.• Accessibilità

≥ Necessità di rete di circolazione pedonale percorribile anche dai portatori di ‘handicap’;≥ Percorsi pedonali sicuri e gradevoli;≥ Necessità di rete di circolazione veicolare per utenti e per trasporto di ser- vizio;≥ Facilità di manovra per i mezzi nelle operazioni di carico e scarico;≥ Necessità di parcheggi differenziati per le varie categorie di utenza e per categorie di servizi.

• Innovazione≥ Collegamenti per lo scambio automatizzato dell’informazione;≥ Postazioni multimediali;≥ Spazi ed attrezzature per video-installazioni e performances multimediali.

• Ambiti di percettibilità e visibilità≥ Comunicazione visiva a distanza ;≥ Punti di visuale caratterizzati;≥ Ordine cromatico soddisfacente;

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Questa lista -del tutto esemplificativa- dovrà essere integrata, in sede di pro-gettazione, in dipendenza delle emergenze derivate dall’indagine diretta e dalle successive interviste con le categorie e gli utenti.

B.6 - LE ANALISI, I PROGETTI, LA “RETE” DELLE CORRELAZIONI

Il momento analitico, volto a costruire il quadro delle conoscenze, non è solo un elaborato autonomo, ma anche il percorso iniziale di ricerca delle scelte di trasformazione e quindi, per intero, si integra -con il suo valore di guida- alle successive elaborazioni progettuali.In pratica, si può adottare uno strumento metaprogettuale come punto d’arri-vo (per partire, poi, per una nuova fase) di un processo sostanzialmente ana-litico (o quanto meno di un processo che verifica, con momenti e termini di analisi, anche modelli in debito verso determinazioni empirico-intuitive). Data la complessità delle informazioni raccolte ed operata una loro lettura attra-verso la formulazione di quadri interpretativi, questi possono venire legati ad opzioni d’intervento mediante matrici, rendendo visibili i possibili collega-menti tra i dati analitici, la loro interpretazione critica e le scelte progettuali di trasformazione.Costruire un corredo di visualizzazioni esemplificative delle relazioni tra le componenti progettuali esaminate può imporre l’abbandono di strutture rap-presentative di rito. Questo allorchè si vogliano connettere tra loro più campi, determinati nel loro numero dalla considerazione di opportunità di correlare il complesso (riletto in quelle componenti che - ognuna per sè - sono gene-rate da una specificità di attività e da ordini dimensionali e di organicità che fondano compiutezze organizzative definite). Nelle matrici metaprogettuali possono convergere anche i dati desunti dalle fasi di concertazione interisti-tuzionale e di ascolto e partecipazione degli utenti e dei cittadini.Questo procedimento, può portare a costruire i progetti di trasformazione su Metaprogetti definiti incrociando le diverse griglie conoscitive con i quadri in-terpretativi, le istanze tratte dalle fasi di ascolto e concertazione con le defi-nizioni concettuali e disciplinari.

APPENDICE CBIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

C.1 - URBANISTICA E CITTÀ

Testi di riferimento consigliati- L. Benevolo. Storia della città - 4. La città contemporanea. Laterza, 1993- L. Benevolo. Le origini dell’urbanistica moderna. Laterza, 2005- L. Benevolo. L’architettura nell’Italia contemporanea. Laterza, 2006- D. Calabi. Storia dell’urbanistica europea. Mondatori, 2004- K. Lynch. Progettare la città. La qualità della forma urbana. Etas Libri, 1990- P. Ingallina. Il Progetto urbano. Franco Angeli, 2004- M. Marcelloni (a cura di). Questioni della città contemporanea. Franco Angeli, 2005- M. Tafuri, F. Dal Co. Architettura Contemporanea. Electa, 1976.- L. Benevolo. L’architettura nel nuovo millennio. Laterza, 2006.

C.2 - GESTIONE URBANA

- P. Donadieu. Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città. Donzelli, 2006- V. Gregotti. Il territorio dell’architettura. Feltrinelli, 1966- A. Isola [a cura di]. Infra - forme insediative e infrastrutture, Manuale. Marsilio, 2002- I.L McHarg. Progettare con la natura, Franco Muzzio Editore, 1989- G. Giammarco, A. Isola. Disegnare le periferie. La nuova Italia scientifica, 1993

C.3 - PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA

- F. Purini. Comporre l’architettura. Laterza, 2000- L. Quaroni. Progettare un edificio; otto lezioni di architettura, Mazzotta, 1977

(Giugno 2008)

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Arte pubblica e politiche culturali

in Provincia di Lecce

di Fondazione Rico Semeraro

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PREMESSA

Questa ricerca nasce nell’ambito del progetto “TeKnè - percorsi di formazio-ne in contestualizzazione e fruizione dell’arte urbana”, finanziato dalla Regione Puglia nell’ambito del POR Puglia 2000-2006 - Misura 6.4 “Risorse umane e società dell’informazione”, Azione b) “Attuazione del piano regionale della so-cietà dell’informazione”.Si tratta di un percorso formativo e di ricerca, rivolto a funzionari e dirigenti di enti pubblici deputati alla governance nel settore dei beni e delle attività cultu-rali, con particolare riferimento alle amministrazioni comunali della provincia di Lecce, e a dipendenti di imprese ed organizzazioni culturali.Fondazione Rico Semeraro ha progettato e realizzato TeKnè per costruire un’occasione di riflessione il più possibile partecipata in materia di contestua-lizzazione e fruizione dell’arte urbana, e contribuire alla promozione ed alla diffusione di una coscienza estetica condivisa. Il territorio costituisce, infatti, lo spazio fisico - e pubblico - in cui le istituzioni di governo e la società civile si incontrano e si confrontano. Riteniamo che accrescere opportunità e strumenti di conoscenza a beneficio della collettività sia uno dei compiti principali del terzo settore, nel riconosci-mento del ruolo autonomo e sussidiario - non supplente delle istituzioni - che la Costituzione gli assegna. Da questo punto di vista, occorre predisporre sempre più luoghi di progettazione partecipata, di scambio di esperienze e buone prati-che, di pensiero critico, in cui decisori, programmatori e fruitori siano chiamati ad esprimere la propria posizione. Per tutte queste ragioni, la ricerca che segue intende fornire uno spunto per futuri ragionamenti comuni per quanti, amministratori pubblici, imprenditori culturali, programmatori e operatori, ricercatori, studiosi e cittadini si trovino nella condizione di poter incidere sulle politiche cultuali del proprio territorio.

ARTE PUBBLICA E CONTESTO URBANO

Che senso ha oggi per una comunità locale interrogarsi sul ruolo sociale dell’arte contemporanea, sulla sua praticabilità e diffusione in luoghi e con-

testi pubblici? Può questo discorso essere affrontato anche dal punto di vista della domanda di cultura che quella comunità esprime?

Quando si parla di fruizione culturale ed accesso alla cultura, si è soliti pensa-re a canonici canali di accesso ai beni - per lo più ereditati dal passato - e alle attività culturali e, quindi, musei, gallerie, cinema, teatri. Tuttavia, l’evoluzio-ne delle espressioni artistiche nell’ultimo secolo ha radicalmente modificato le modalità di diffusione e di fruizione della cultura. L’arte, da sempre vis-suta dal pubblico come “interna”, fisicamente, a particolari edifici, piuttosto che, concettualmente, ad élite di esperti, è diventata “esterna”, pubblica. Gli economisti sono soliti definire come “pubblici” quei beni che possiedono la particolare caratteristica d’essere al tempo stesso non rivali e non escludibili. Tutti possono accedervi, indistintamente, e la fruizione-consumo da parte di un individuo non preclude quello di un altro. Lo spazio pubblico per eccellenza è la città. Quindi, il contesto urbano diventa il mezzo attraverso il quale la fruizione culturale diventa diffusa e condivisa e, allo stesso tempo, rappresenta il principale luogo di intervento da parte degli artisti. L’espressione della propria identità personale e collettiva all’interno di uno spazio fisico e temporale urbano attraverso forme artistiche contem-poranee si sostanzia in arte pubblica.L’arte pubblica permette di instaurare più canali di comunicazione: tra gli ar-tisti e la comunità, chiamata ad accogliere le loro creazioni; all’interno della comunità stessa, che attraverso l’arte viene stimolata ad una riflessione su se stessa e ad un confronto con la realtà che la circonda. In passato gli interventi artistici nelle città erano rappresentati prevalentemen-te, da monumenti e decorazioni, che spesso si inserivano e tutt’ora sono collo-cate all’interno del tessuto cittadino come un corpo alieno, se non mal tollerato, ospitato e per lo più ignorato. Paradossalmente, in Italia è la dittatura fascista la prima a comprendere la valenza comunicativa e la strategicità politico-sociale di interventi che vanno a modificare e caratterizzare lo spazio urbano. Un primo esempio di sperimentazioni artistiche, che trasformano lo spazio da elemento destinato ad accogliere l’opera in elemento funzionale alla stessa, si ritrova nei “musei all’aperto”. In questi casi, lo spazio viene concepito sotto

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diversi aspetti, come elemento di attrazione turistica, o come un’occasione per la riqualificazione di un contesto urbano degradato, o di valorizzazione di un una realtà pre-esistente, o semplicemente come luogo di intrattenimen-to. In ogni caso, l’intervento di un artista pone la neces-sità di sperimentare sempre nuove forme di dialogo tra differenti discipline, quali possono essere l’arte, l’archi-tettura, il paesaggio*1. Ad ogni modo, il denominatore co-mune di ogni tentativo di modificare il rapporto tra l’ope-ra d’arte e lo spazio che la ospita è la necessità, sempre più pressante, di portare l’arte all’esterno, nel contesto urbano, di uscire dall’isolamento fisico e concettuale, a cui già abbiamo accennato, in un rapporto biunivoco e che si sostiene reciprocamente tra artisti e comunità. Senza banalizzare, in tal modo le espressioni artistiche contem-poranee, l’arte diviene sempre più elemento relazionale e fondamento della creazione o della presa di coscienza dell’identità di una comunità, complessa e variegata nelle sue evoluzioni contemporanee. L’opera d’arte, nella sua elaborazione da parte dell’artista, attinge all’identità di un luogo, e nel prendere una forma pubblica restituisce una nuova identità, consapevole e leggibile, al luogo in cui si colloca e alla comunità, con cui si pone in un rapporto di dialogo e di confronto.Questi tentativi di comunicazione artistica rendono, tut-tavia, necessaria una breve riflessione sulla reale capa-cità di una comunità di dialogare con il mondo dell’arte contemporanea, e degli artisti di saperne ascoltare e comprendere i bisogni, per poi esprimere dei valori che possano essere accolti ed assorbiti in una prospettiva di crescita sociale e culturale della comunità stessa.Tale forma di creazione artistica, difatti, presuppone un’attività progettuale che sappia guardare oltre il singolo

intervento, e che preveda un investimento culturale e so-ciale di lungo termine sul territorio coinvolto, che dia alla comunità il tempo di comprendere, accettare ed elabora-re l’intervento artistico, sentendolo parte integrante del proprio tessuto cittadino. Al di là di una mera espressione estetica, l’arte deve divenire parte integrante del vissuto pubblico, in un ricongiungimento tra spazio e valori so-ciali, che nelle moderne città è andato progressivamente dissolvendosi.

Per questo, i soggetti chiamati a dare il proprio contri-buto possono essere molteplici e ciascuno con un ruolo condiviso. Artisti, architetti e urbanisti, pubbliche ammi-nistrazioni, imprese, società civile. Gli artisti, «attraverso la pratica quotidiana del confronto e della multidiscipli-narietà, propongono un’analisi e una lettura di uno spazio sfumato e complesso che non è descrivibile attraverso mappe e disegni, ma è lo spazio carico di valori e di as-sociazioni costruite giorno per giorno dai suoi abitanti»*2. Infatti, non avrebbe alcun senso una mera invasione aset-tica ed estetizzante degli spazi urbani. È necessario che gli artisti si confrontino con lo spazio fisico e sociale, te-nendo ben a mente che il proprio intervento può e deve incidere sulla comunità locale a livello sociale e culturale. Gli artisti sono chiamati ad assumersi la responsabilità del proprio intervento d’arte pubblica in uno specifico contesto territoriale, in una comunità. Architetti ed ur-banisti sono chiamati ad un ripensamento del loro ruolo quale progettisti dello spazio urbano ed ambientale, man-tenendo uno sguardo critico sulle esigenze e le potenzia-lità culturali e sociali che quello spazio può esprimere. Le amministrazioni pubbliche, dal canto loro, sono chiamate ad intervenire quali committenti delle opere, costituen-

* 1Si veda De Luca M., Gennari Santori F., Pietro-marchi B., Trimarchi M. (a cura di), Creazione Contemporanea. Arte, società e territorio tra pubblico e privato, Luca Sossella Editore, Roma, 2004.

* 2De Luca M., Gennari Santori F., Pietromar-chi B., Trimarchi M. (a cura di), Creazione Contemporanea. Arte, società e territorio tra pubblico e privato, Luca Sossella Editore, Roma, 2004, p. 101.

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dosi come tramite tra gli artisti e le istanze del territo-rio. Così come è diventato sempre più partecipato il ruolo che si richiede abbiano le imprese nella cultura, non solo con attività di sponsorizzazione, ma anche con pratiche e modelli di intervento più moderni e più rispondenti alle mutate esigenze di artisti ed operatori culturali: partner-ship, corporate membership, fondazioni comunitarie, di impresa, fondazioni di partecipazione. Quanto alla società civile, intesa come l’insieme delle persone che quotidia-namente vivono gli spazi urbani, ad essa si può chiedere disponibilità all’ascolto, all’incontro e alla condivisione del proprio spazio urbano con quanti si confrontano con l’arte pubblica. Infatti, l’artista che vuole comunicare con un territorio deve spogliarsi di ogni forma di intento didat-tico, educativo o formativo, per agire sul piano del dialogo e della condivisione. Un esempio felice, in cui tutti questi soggetti hanno sapu-to incontrarsi e dialogare per dar vita ad interventi d’ar-te pubblica, è rappresentato da “Nuovi Committenti”, un programma nato in Francia su iniziativa della Fondation de France nel 1991 con il nome di Nouveaux Commanditai-res, successivamente adottato in Italia dalla Fondazione Adriano Olivetti, nel 2001. Nuovi Committenti si propone non solo di facilitare l’incontro tra gli artisti e la società civile, ma anche di incentivare un’attività di maieutica dei bisogni culturali in seno alla collettività, rendendo pos-sibile la concreta realizzazione di opere d’arte pubbli-ca e garantendone la fruibilità nel tempo. Un intervento esemplificativo di tale modalità di creazione e diffusione culturale è dato da “Immaginare Corviale”. Il progetto nasce da un’esigenza diffusa tra gli abitanti di Corviale, un complesso edilizio popolare alla periferia di Roma, di modificare l’immagine stereotipata dell’edificio, puntan-

do sul loro coinvolgimento nell’invenzione di una nuova immagine del quartiere. Immaginare Corviale è un espe-rimento di produzione culturale che coniuga pratiche di progettazione partecipata, di community art, di produ-zione artistica e multimediale, che offre un punto di vista innovativo sui contesti sociali e le possibilità di interven-to in quei contesti urbani e comunità lasciate, a volte, al margine della vita culturale cittadina. L’intervento è stato realizzato attraverso la mediazione di Fondazione Adriano Olivetti, la quale ha fatto sì che le esigenze manifestate dagli abitanti di Corviale potessero incontrare gli artisti in grado di rispondere a un loro specifico bisogno culturale. Tra questi Stalker/Osservatorio Nomade, che oltre alla realizzazione, ne ha coordinato l’esecuzione.*3

Nuovi Committenti rappresenta, senza dubbio, un esem-pio virtuoso di democratizzazione reale della cultura. Un caso in cui la cultura, e gli artisti, scendono dal piedistallo per confrontarsi con una comunità, non solo attingendo ispirazione da essa, ma anche restituendole un ambien-te culturalmente e socialmente dignitoso. Quindi, quan-do ci si interroga su quale sia il grado di alfabetizzazione delle società contemporanee nei confronti dell’arte e, in particolar modo, dell’arte contemporanea, ed il loro gra-do di ricettività nei confronti di iniziative di arte pubblica, bisogna tenere a mente che il rapporto tra artisti e com-mittenza è biunivoco e, oggigiorno, sempre più allargato all’intera collettività - come ci dimostra Nuovi Commit-tenti. Ciò nonostante, a nostro avviso, interrogativi qua-li: può l’arte parlare veramente alla gente, alle comunità locali? è possibile una diffusione popolare degli strumenti interpretativi necessari per godere a pieno dell’arte con-temporanea? restano tutt’ora aperti.

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* 3Si veda: http://www.provincia.torino.it/cultu-ramateriale/en/ecolap/press/dwd/Immagina-re_Corviale.pdf

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Non è certamente questa la sede per rispondere a tali in-terrogativi. Si può, tuttavia, tentare una approssimazione al tema, che tenga conto, da un lato, della natura eminen-temente pratica di questo contributo di ricerca e, dall’al-tro, della utilità di un percorso di indagine di tipo empirico. Ci si può, cioè, domandare, in prima istanza, se sia possi-bile definire o cercare di definire, nel contesto territoriale che ci interessa, il profilo del fruitore-consumatore cultu-rale. Sul presupposto, anch’esso da sottoporre a verifica, che tale consumatore sia un potenziale fruitore di arte pubblica. E quindi: chi sono i fruitori dell’arte pubblica? quali sono i loro bisogni culturali, più o meno manifesti? Date queste premesse, l’analisi successiva tenterà di ri-spondere a questi quesiti con particolare riferimento alle comunità di Lecce e provincia. Uno strumento utile, a tal fine, è dato dalla ricerca Culture e territori, I consumi cul-turali in provincia di Lecce, che raccoglie le informazioni sui consumi e, quindi, i bisogni culturali manifestati dalla popolazione in provincia di Lecce, necessari per una cor-retta definizione di quella comunità che dovrà accogliere eventuali interventi di arte pubblica.

ARTE PUBBLICA ED ECONOMIA DELLA CULTURA

Quando si parla di arte contemporanea e, nella particolare declinazione fin qui considerata, di arte pubblica, si è soli-ti pensare ad un settore per pochi appassionati ed esperti, in grado di decifrare un linguaggio spesso complesso e di non immediata lettura. In realtà, l’arte contemporanea è diventata sempre più un vettore di attrazione di cospicue risorse economiche e di attrazione turistica. Difatti, l’arte contemporanea è uno strumento che permette di entrare nei circuiti mediatici internazionali*4 e di creare dinami-

che positive per lo sviluppo di un territorio.L’arte pubblica, quindi, rappresenta un veicolo di sviluppo culturale, economico e sociale. In particolare, quando ci si accinge a discutere di “economia e cultura”, si pone, sempre più, l’accento sul ruolo strategico svolto dalla cultura nelle moderne economie, quale leva dello svilup-po economico sostenibile di un territorio e, in particolare, dei contesti urbani. Difatti, «ripensare in termini culturali ed ambientali il disegno della città», secondo l’economi-sta David Throsby, può portare ad almeno quattro sce-nari possibili. Innanzitutto, la creazione di «un simbolo o un’attrazione culturale» che possano innescare mecca-nismi positivi di crescita economica. Secondo, la nascita di un vero e proprio distretto culturale, con tutto ciò che esso comporta in termini di crescita economica e sociale di un territorio. Terzo, la nascita di un milieu culturale, che potrebbe alimentare industrie culturali, quali quelle dello spettacolo, inserendosi ed alimentando l’economia del di-stretto culturale. Un esempio locale può essere la nascita della Apulia Film Commission.*5 Infine, la creazione di un ambiente urbano creativo, coeso e vitale, fortemente ra-dicato su principi di identità comunitaria e condivisa, che sappia riconoscere e far proprie le culture dei propri cit-tadini, quali valori di crescita sociale e culturale*6.Date queste premesse, appare evidente come ogni inter-vento da parte di operatori pubblici e privati, che vada ad incidere sulla struttura e sulle dinamiche culturali di una comunità, diventa un’occasione preziosa per innescare dei meccanismi virtuosi di crescita non solo culturale, ma anche sociale ed economica. In particolare, quando si guarda al ruolo della cultura in un contesto urbano, ci si deve interrogare su quale sia oggi il modo in cui gli indivi-dui, i cittadini riescono ad interagire e rapportarsi con la

* 4Si veda Sacco, P. L., Arte pubblica e sviluppo locale: utopia o realtà possibile?, in Economia della Cultura, Il Mulino, Bologna, 2006, n. 3.

* 5Prevista nella forma giuridica di Fondazione di partecipazione all’art. 7 della L.R. n. 6/2004, la Apulia Film Commission ha atteso tre anni per vedere la luce. Essa ha tra le sue finalità la promozione e la diffusione di produzioni cine-matografiche, televisive e audiovisive pugliesi o che mirano a valorizzare la cultura ed il ter-ritorio pugliese. La Apulia Film Commission, si configura dunque non solo come strumento di sostegno alla produzione, ma si propone anche di attivare flussi turistico-culturali legati al cosiddetto cineturismo.

* 6Throsby D., 2001, Economia e cultura, Il Muli-no, Bologna, pp. 177 e ss.

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cultura attraverso il filtro del tessuto urbano. La cultura diventa un luogo ideale di incontro, di dialogo, di crescita e scambio tra gli individui. Mentre, il contenitore materiale di queste attività è costituito dagli spazi pubblici e privati che compongono i centri urbani. Ed allora, compito di chi opera in ambito urbanistico è far si che tali spazi siano, quanto più possibile, armonici con le esigenze di vita cul-turale degli individui, e che siano essi stessi, al contempo, una parte viva della cultura di un luogo.

LA DOMANDA DI CULTURA IN PROVINCIA DI LECCE Nel momento in cui gli operatori culturali, pubblici o pri-vati, siano essi pubbliche amministrazioni o artisti, si in-terrogano su che tipo di interventi culturali adottare in un territorio, preliminare a qualsiasi azione risulta una rifles-sione sulla domanda di cultura che tale territorio espri-me. L’analisi della domanda di cultura, tramite un’analisi di dettaglio dei consumi culturali a Lecce e provincia, ci aiuta a comprendere quali sono i bisogni culturali, più o meno manifesti, della popolazione, il suo rapporto con la cultura, in senso più generale, e quale sarà la possibile percezione di interventi volti a creare un ambiente citta-dino che sappia esprimere la propria identità. Il quesito fondamentale da porsi è: c’è bisogno di più cultura nel-la vita delle nostre comunità? Nei nostri centri urbani? E laddove tale bisogno sia inespresso, come può intervenire il decisore pubblico affinché tale bisogno emerga? A tale scopo, un supporto all’attività di operatori pubblici e privati è senz’altro dato dagli Osservatori culturali, istituti preposti alla raccolta e all’analisi di informazioni relati-ve alla domanda e all’offerta culturali nei territori di loro

pertinenza. «Gli Osservatori servono non solo a condivi-dere e coordinare le conoscenze, confrontare i dati, inda-gare dimensioni e caratteristiche dei fenomeni, verificare costi ed eventuali ritorni. Servono altresì al dialogo: tra i vari livelli di governo, ma anche tra questi e gli opera-tori, le imprese, le organizzazioni. Tra l’Italia e l’Europa. Chiunque si occupi di pianificazione, programmazione e progettazione culturale sui territori si accorge che la at-tuale dinamica delle relazioni tra pubblico e privato, an-cora vincolata da reciproche diffidenze, non è più in grado di decifrare la complessità delle richieste che muovono “dal basso”, dal mondo delle creatività, dei talenti. Questo mondo produce generi e linguaggi nuovi, nuove necessi-tà, nuove domande, per le quali è necessario dotarsi di nuovi codici di lettura. Eppure l’Italia non riesce ad ab-bandonare le ultime posizioni nelle graduatorie europee della spesa in ricerca. Investire in ricerca non significa solo grandi sforzi economici per faraonici progetti, spesso calati dall’alto, senza una reale investigazione dei biso-gni delle comunità. Significa anche favorire l’innovazione nelle pratiche quotidiane.»*7 Non è questa la sede per ap-profondire il retroterra teorico che il tema degli osserva-tori culturali sottende. «È tuttavia evidente che adeguati dispositivi di misurazione quantitativa e qualitativa per-mettono di verificare l’efficacia. L’efficienza, la traspa-renza delle strategie e delle singole misure di policy, la sostenibilità dei progetti, la qualità degli interventi, il rag-giungimento dei risultati attesi, i tempi. Le responsabilità dei decisori e quelle degli attuatori. Tutte questioni niente affatto secondarie, come si vede. Che riguardano l’uso dei beni comuni e la rendicontazione di tale uso e dalle quali derivano molte conseguenze anche in termini di coesione sociale, di benessere dei cittadini, di qualità della vita. Di

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* 7Introduzione di Roberto Caracuta, direttore Fondazione Rico Semeraro, in Fondazione Rico Semeraro, L. Solima, Culture e Territo-ri. I consumi culturali in provincia di Lecce, Gangemi, Roma, 2007, pp. 8 e 9.

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appartenenza e di identità. Inoltre, una piattaforma co-mune di informazioni è la condizione necessaria per af-frontare il nodo della non sempre agevole interlocuzione tra i vari livelli di governo chiamati a gestire le politiche culturali.»*8 Tuttavia, allo stato attuale, solo poche regio-ni si sono dotate di tale strumento, prevalentemente al centro-nord.*9 Per quanto riguarda la Puglia, tale com-pito è lasciato all’iniziativa di organismi in genere privati, che cercano di supplire in proprio con singole attività di ricerca, come quella su citata di Fondazione Rico Seme-raro, alla mancanza di un organismo che si faccia carico di svolgere tale attività in maniera organica e strutturata.

A livello nazionale, i dati di cui dispongono gli operatori locali sono quelli forniti ogni anno dall’ISTAT, e tali dati non sono dei più confortanti. Per quanto riguarda i con-sumi culturali di settori come cinema, teatro e concerti di musica, gli unici disponibili a livello locale, la provincia di Lecce e la Puglia si collocano fra le ultime regioni italiane, con indicatori inferiori a quelli medi nazionali. Sia il con-sumo che la spesa media per abitante per cinema, teatro e concerti di musica sono sempre considerevolmente in-feriori alla media nazionale.*10 Tuttavia, questo dato non può essere esaustivo di un settore così complesso ed ar-ticolato, bensì si rende necessaria una analisi di maggiore dettaglio, per comprendere appieno la reale consistenza e articolazione dei consumi di servizi culturali a Lecce e provincia, nonché la richiesta, più in generale, di cultura da parte della popolazione locale.

In particolare, in questo lavoro, si intende considerare i consumi culturali esterni all’ambiente domestico, ossia quei consumi che portano gli individui a relazionarsi con

gli spazi fisici e i luoghi dell’anima, condivisi con la col-lettività. Per comodità di analisi, tali spazi vengono cir-coscritti a sei categorie: teatro; cinema; musei e mostre; concerti di musica classica e opera; altri concerti di mu-sica; monumenti e siti archeologici.

Prima di procedere ad analizzare i singoli settori che com-pongono la domanda di cultura, pare opportuno aprire una breve parentesi su un aspetto che caratterizza la do-manda in generale. Difatti, un tipico elemento di analisi dei consumi è dato dal fattore tempo e dalla sua influenza sulle scelte di consumo. La teoria economica ha già am-piamente dimostrato come il tempo libero sia uno dei fat-tori determinanti nelle scelte di consumo. In particolare la scarsità di tempo libero è uno dei principali elementi di contrazione della domanda. Per quanto non sia possibile dilatare il tempo, o far sì che gli individui lavorino meno o abbiano più tempo a disposizione, in un territorio in cui l’offerta culturale appare a volte limitata, è necessario fa-cilitare il più possibile l’accesso alla cultura, in ogni sua forma e manifestazione. Diventa sempre più importante ripensare le politiche culturali in un senso più ampio e che coinvolga più aspetti della vita quotidiana dei cittadi-ni. Ad esempio, vivere in un contesto urbano accogliente, dal punto di vista sociale, ambientale, ma anche cultura-le, può essere un primo modo per creare una “abitudine” al bello e ad un’armonia culturale, come parte integrante della vita cittadina. In un contesto sociale di accelerazione delle attività quotidiane e lavorative dei singoli individui, gli spazi urbani che avvolgono, e per certi versi assorbo-no gli individui, debbono essere ripensati in un’ottica di conciliazione culturale. In questo modo, il problema della scarsità di tempo può essere, se non risolto, parzialmente

* 8Ibidem

* 9Le regioni che si sono dotate di un osservato-rio culturale sono il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, l’Emilia Romagna, le Marche e, in forma meno strutturata, il Lazio ed il Veneto. Il Sud ne è totalmente sprovvisto.

* 10“Più in particolare, per il cinema (anno 2005) risultano in provincia di Lecce 125mila biglietti venduti per 100mila abitanti, a fronte di un dato medio nazionale di 178mila; analogamente, per quanto riguarda la spesa media per abitante, quella in provincia di Lecce risulta pari 6,71 euro a fronte del dato nazionale pari a 10,23. Per il settore del teatro e dei concerti di musica (anno 2005) non sono disponibili dati a livello provinciale; quelli di dettaglio regionale registrano 23mila biglietti venduti ogni 100mila abitanti, a fronte di 52mila a livello nazionale, nonché una spesa media per abitante pari a 3,06 euro, a fronte di 8,83 euro per l’Italia. Ulteriori informazioni sui consumi culturali sono poi raccolte nell’ambito delle periodiche indagini multiscopo condotte dall’ISTAT su un campione della popolazione italiana, ma pre-sentano il limite di non disporre di un dettaglio a livello provinciale.”, si veda Fondazione Rico Semeraro, L. Solima, Culture e Territori. op. cit., p. 12.

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ridotto con una politica di accesso facilitato alla cultura. Essa non può essere rinchiusa in contenitori ad hoc, ma deve essere pervasiva di tutto il contesto urbano e sociale che circonda gli individui.

Ciò detto, osserviamo la richiesta culturale espressa, ad oggi, nel territorio leccese, poiché l’analisi della struttura della domanda è preliminare ad ogni ipostesi di policy, per qualsiasi settore. Quesiti quali: quanto si consuma? per-ché si consuma? Ma ancora più importante, quali siano le variabili determi-nanti della domanda - età, reddito, livello di istruzione, varietà dei consumi, luogo di residenza, conoscenza del territorio o motivazioni personali, diventa-no fondamentali per capire quale sarà la risposta da parte della popolazione locale, in termini di consumi, ad un’azione di politica culturale.

ALCUNI ELEMENTI DESCRITTIVI DELLA DOMANDA Un primo elemento da tenere in considerazione è rappresentato dal modo in cui la popolazione di Lecce e provincia spende il proprio tempo libero fuo-ri dalle mura domestiche. Infatti, dai dati a disposizione, risulta che quasi il 30% della popolazione non svolge nessuna attività, o dedica il proprio tem-po partecipando ad attività religiose, politiche e sociali (poco più del 20%), o in alternativa ad attività e spettacoli sportivi (23%). Mentre, solo il 13% circa della popolazione trascorre il proprio tempo libero a teatro, piuttosto che a cinema o assistendo a spettacoli dal vivo, ed un residuale 2% si dedica alle visite di musei, mostre o va a concerti. Inoltre, il fatto che le medie di consumo di servizi culturali superino le medie nazionali per quanto riguarda monu-menti e siti archeologici, musei e mostre, teatro, concerti di musica classica ed opera, è fortemente sintomatico di una domanda culturale estremamente vivace e partecipe. A ciò, bisogna aggiungere, ed evidenziare, che il consumo riguardante monumenti e siti archeologici è maggiore al di fuori dei confini provinciali. Ciò potrebbe suggerire alcune interessanti chiavi interpretative, ad esempio che vi è una domanda di cultura che, per questo settore, non tro-va risposta nel territorio, o più semplicemente che, data la particolarità del consumo in oggetto, strettamente legato alla tradizione e alla storia dei diffe-

renti territori, vi è una curiosità ed una disponibilità delle popolazioni locali a conoscere ed esplorare altre realtà, al di fuori del proprio territorio ed oltre il medesimo. Quest’elemento, se di per sé non è indicativo ai fini di uno svi-luppo locale, tuttavia dimostra una sensibilità e una propensione ai consumi culturali da parte degli abitanti della provincia leccese, che potrebbe trovare risposta anche nell’ambito dell’offerta locale.

Un altro elemento piuttosto significativo è, più in generale, un notevole grado di inappetenza culturale, ossia un basso livello di consumi culturali da parte della popolazione di Lecce e provincia. Nello specifico, sappiamo che nel cor-so del 2006 circa il 45% della popolazione leccese non ha effettuato alcun tipo di consumo culturale, all’interno dei sei settori indicati in precedenza. Il 35%, circa, dei consumatori ha frequentato da uno a tre settori culturali; infine, cir-ca il 20% ha frequentato da quattro a sei settori culturali. Mentre a livello na-zionale, sulla base dei dati ISTAT, risulta un’incidenza di non consumatori pari al 38,7%, di consumatori “selettivi” pari al 44,5% e di consumatori “onnivori” pari al 16,8%. Ciò ad indicare che le medie locali non si discostano in maniera particolarmente sensibile dalle medie nazionali. Più in generale, sempre con riferimento ai dati locali, circa il 30% della popolazione ha avuto una sola oc-casione di consumo al mese, circa il 15% da uno a due volte al mese, e solo il 10% supera due occasioni di consumo al mese.In quanto alla disponibilità a spendere in attività culturali, quasi due consu-matori su tre, dichiara di spendere meno di 25 euro al mese per le attività culturali considerate, quindi circa il costo di un caffè al giorno. Poco meno del 30% è disposto a spendere in cultura tra i 25 ed i 30 euro, mentre meno del 10% dichiara di spendere oltre 50 euro.

ANALISI DELLE VARIABILI CHE DETERMINANO IL CONSUMO

LA VARIABILE: ETÀ

Una prima variabile da considerare è data dall’età dei consumatori. Analiz-zando la propensione al consumo per fasce di età, si nota una correlazione

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costante e negativa tra consumo ed età, ovvero, all’au-mentare dell’età il tasso di consumo diminuisce. In parti-colare, per quanto riguarda la partecipazione agli spetta-coli teatrali, l’età rappresenta un fattore determinante, in quanto il consumo diminuisce notevolmente col crescere dell’età degli abitanti. Infatti, se si considerano coloro che si sono recati a teatro almeno una volta nel 2006, la per-centuale di consumo va dal 52% per i giovani, con un’età compresa tra i 15 e 24 anni, al 10% per gli anziani, con più di 65 anni. Passando per un 20% della popolazione tra i 25 e i 64 anni d’età. Inoltre, se la maggior parte della popola-zione si reca a teatro tra una e tre volte l’anno, sono sem-pre i giovani a manifestare maggiore interesse, recandosi a teatro da quattro a sei volte l’anno. Anche per il cinema, come per il teatro, “il consumo diminuisce all’aumentare dell’età: fra i giovani, più di nove su dieci hanno avuto al-meno un’occasione di consumo nel 2006, tale dato scende a sei individui su dieci nel caso degli adulti, a tre su dieci tra i maturi ed è inferiore a uno su dieci fra gli anziani.”* 11 Per le visite ai musei e alle mostre, l’età continua ad esse-re un fattore estremamente rilevante nella determinazio-ne dei consumi. Circa il 57% dei giovani ha visitato almeno una volta nel 2006 un museo o una mostra, il 33% degli adulti, il 27% dei maturi e il 13% degli anziani. Un aspetto interessante è che i giovani e gli adulti sono anche molto più propensi a visitare mostre e musei anche fuori dal ter-ritorio provinciale, rispetto a maturi ed anziani. Anche nel caso dei concerti di musica classica ed opera, il consumo tende a diminuire con l’aumentare dell’età, passando dal 23% dei giovani all’8% degli anziani. Per quanto riguarda concerti di altro genere, musica leggera, pop, rock, etc., se più del 50% dei giovani è andato ad almeno un concerto nel corso del 2006, questa percentuale scende drastica-

mente al 6% per gli anziani. Ed infine, sono sempre i gio-vani ad evidenziare un maggiore tasso di consumo anche per quanto riguarda monumenti e siti archeologici, nel 64% dei casi a fronte del 14,5% degli anziani.

LA VARIABILE: LUOGO DI RESIDENZA

Un elemento interessante, ai fini dell’adozione di mirate politiche culturali, in particolare di costruzione di un di-stretto culturale, è dato dalla differente distribuzione dei consumi sul territorio locale. Difatti, da un’analisi di detta-glio, risulta un maggiore dinamismo culturale da parte del capoluogo rispetto alla provincia. In particolare analizzando i singoli settori, si può vedere che: per quanto riguarda il teatro, vi è una profonda diffe-renza fra il capoluogo e la sua provincia, di fatti a fronte di un 41,3% dei leccesi che dichiara di essere andato a teatro almeno una volta, nel corso del 2006, si registra un 18,3% degli abitanti della provincia. Per il cinema, la differenza nella frequentazione tra capoluogo e provincia è meno ri-levante, sebbene sia sempre il capoluogo a manifestare un maggiore consumo. Anche con riferimento alle visite a musei e mostre, così come per i concerti di musica classica ed opera e per gli altri concerti (musica leggera, pop, rock, etc.) il capoluogo si dimostra più attivo della provincia. Ed infine, anche per monumenti e siti archeologici, circa il 50% dei residenti del capoluogo ha effettuato almeno una visita, a fronte del 30%, circa, degli abitanti della provincia. LA VARIABILE: VARIETÀ DEI CONSUMI

L’analisi della variabile “varietà dei consumi” ci riporta un dato perfettamente in linea con la letteratura economi-

* 11Fondazione Rico Semeraro, L. Solima, Culture e territori, op. cit., p. 29

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ca riguardante gli effetti positivi dell’accumulazione del capitale culturale sui consumi culturali. Difatti, per tutti i settori considerati, teatro, cinema, visite a musei e mo-stre, concerti di musica classica ed opera, altri concerti, visite a monumenti e siti archeologici, all’aumentare della varietà dei consumi, aumenta il tasso di consumo di cultu-ra. Ciò deriva dalla peculiarità dei beni presi in analisi. Se per gli altri beni economici vale il principio che un sem-pre maggiore consumo di tali beni da parte degli individui porta alla saturazione, nel caso dei beni culturali il fatto di consumare sempre più beni, anche di settori diversi, por-ta ad un sempre maggiore affinamento dei gusti e quindi ad una richiesta crescente di consumo culturale. Il gusto per i beni e i servizi artistici è cumulativo ed additivo. Il piacere che una persona prova per la musica, il teatro, l’architettura, le arti in generale, e la sua disponibilità ad impiegare tempo e denaro per consumare tali beni, sono fortemente legati «alla sua conoscenza e comprensione di queste forme artistiche.»* 12 Quindi maggiore sarà l’espe-rienza culturale di un individuo, ed il capitale culturale acquisito nel tempo, maggiore sarà la sua propensione al consumo culturale e, di conseguenza, la sua richiesta di avere accesso ad un’offerta culturale di maggiore quali-tà. Strettamente connesso e conseguente a questo prin-cipio, è l’effetto di cultural addiction* 13 che deriva dalla creazione e dal consolidamento di un capitale culturale di un individuo. Il consumo culturale crea assuefazione, una forma di «dipendenza razionale»* 14 . La teoria economi-ca ha dimostrato come per alcune tipologie di beni, che vanno dalle droghe alla musica rock, il consumo crea di-pendenza e, quindi, consumare beni culturali genera una richiesta sempre maggiore di altri beni culturali.

La variabile: conoscenza del territorioStrettamente correlata alla variabile appena considerata è la variabile “conoscenza del territorio”, in quanto per-mette di comprendere come il grado di conoscenza del proprio territorio da parte dei suoi abitanti, e quindi l’ac-cumulazione di capitale culturale, sia legato al tasso di consumo culturale e possa influenzarlo. Infatti, anche in questo caso la correlazione è positiva e, all’aumentare della conoscenza del territorio, aumentano i consumi nei settori considerati.

LA VARIABILE: MOTIVAZIONI PERSONALI

Quando si pensa al mondo della cultura e a coloro che ne fanno parte, si è soliti credere che sia una realtà compo-sta prevalentemente da studiosi ed appassionati, spesso eccentrici. Analizzando i dati relativi alle motivazioni che spingono gli abitanti di Lecce e provincia a partecipare ad attività culturali, si scopre che per circa la metà dei consu-matori leccesi la principale motivazione è di tipo edonisti-co, ossia la soddisfazione di un mero piacere ed interesse personale. Mentre per il 30% la principale motivazione al consumo è di tipo relazionale, cioè il desiderio di trascor-rere del tempo in compagnia di amici o parenti. Minore importanza assumono invece le motivazioni legate al più generale desiderio di ampliare le proprie conoscenze, cir-ca il 16%, ovvero al proprio studio o lavoro, circa il 7%.Tuttavia, è interessante analizzare il dato in maniera di-saggregata, per ogni settore culturale preso in esame. Per quanto riguarda le motivazioni personali per il con-sumo di teatro, gli studiosi manifestano un maggiore tasso di consumo. A seguire curiosi ed edonisti, ed infine consumatori relazionali. Per il cinema, invece, edonisti

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* 12D. Throsby, Economia e cultura, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 164.

* 13Su questo argomento si veda G. S. Becker, De Gustibus. Dal tabagismo al matrimonio: la spiegazione economica delle preferenze, EGEA, Milano, 2000.

* 14D. Throsby, Economia e cultura, op. cit., p. 165.

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e studiosi hanno maggiori tassi di consumo, rispetto a curio-si e relazionali. Nel caso di musei e mostre, gli studiosi sono i maggiori consumatori, seguono i curiosi, e da ultimo edonisti e relazionali. Per i concerti di musica classica ed opera, i mag-giori consumatori sono gli studiosi, seguono in ordine edonisti e curiosi, ed infine i relazionali. Anche nel caso di concerti di altro genere, musica leggera, rock, pop, etc., i maggiori consu-matori risultano essere gli studiosi, a seguire edonisti, curiosi e relazionali. Infine, per quanto riguarda le visite a monumenti e siti archeologici, i maggiori consumatori risultano essere gli studiosi, poi vengono curiosi, relazionali ed edonisti.

MOTIVAZIONI DI NON CONSUMO CULTURALE

Per quanto riguarda, invece, i fattori che costituiscono un osta-colo al consumo, al di là della già discussa mancanza di tem-po, il 25,6% della popolazione segnala la mancanza di interesse nei confronti dell’offerta culturale del territorio, circa il 10% la mancanza di informazioni sulle attività che vengono svolte, cir-ca il 9% il costo elevato ed infine circa il 7% le difficoltà di ac-cesso. In maniera residuale, vengono segnalate la mancanza di compagnia ed un’offerta scadente o insufficiente, che tuttavia assieme rappresentano il 6%. Appaiono interessanti, dal punto di vista delle strategie di inter-vento culturale, in quanto correlate, la mancanza di tempo e la difficoltà di accesso, che pongono un interrogativo comune su come ripensare l’offerta di cultura in un contesto sociale sem-pre più frenetico ed accelerato, in cui le istituzioni e gli spazi culturali siano sempre più a disposizione dei cittadini, fisica-mente e temporalmente. Inoltre, se è pur vero che circa il 28% della popolazione percepisce l’offerta culturale del territorio come poco interessante, nel complesso circa il 70% vorrebbe partecipare alla vita culturale del territorio, ma per le motiva-

zioni sopra elencate decide di non farlo.In contrapposizione, tra i principali stimoli che, secondo gli in-tervistati, risulterebbero in grado di indurre una più ampia fre-quentazione di attività ed eventi culturali nell’ambito del proprio territorio, vi sono, oltre ovviamente alla disponibilità di più tem-po libero, sconti e agevolazioni (18,9%) e maggiori informazioni (18,5%). Laddove, i canali privilegiati per essere informati sulle attività culturali che si svolgono sul territorio risultano essere la televisione e, a seguire, quotidiani e settimanali.

Grado di soddisfazione dell’offerta culturale nel territorioUn elemento di immediata lettura, per analizzare l’offerta cul-turale in relazione alla domanda culturale del territorio, è dato dal grado di soddisfazione manifestato dagli abitanti per le atti-vità praticate nel territorio leccese. A partire da questo dato si può stabilite se ed in che misura sono necessarie delle politiche di correzione dell’offerta, ovvero di potenziamento. I dati a di-sposizione evidenziano che:a. il cinema fa registrare un tasso di soddisfatti pari all’80% dei consumatori;b. i concerti di musica classica e l’opera risultano graditi dal 49,3%;c. gli altri concerti di musica risultano apprezzati dal 68,6%;d. i monumenti e i siti archeologici registrano il 64,8% di sod-disfatti;e. il teatro raccoglie il 62,3% di valutazioni positive;f. i musei e le mostre sono apprezzati dal 59,3%.«In una visione più generale, considerando le attività culturali nel loro insieme, il tasso di utenti soddisfatti è pari al 63,8% mentre quello degli insoddisfatti è pari esattamente ad un terzo dei consumatori.»* 15Analizziamo queste informazioni per i singoli settori. Per quan-to riguarda il teatro, circa il 60% della popolazione leccese si

* 15Fondazione Rico Semeraro, L. Solima, Culture e territori, op. cit., p. 24.

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dichiara soddisfatto per la qualità dell’offerta, mentre il restante 37% si di-chiara poco o per niente soddisfatto. Inoltre, i giudizi maggiormente negativi si registrano nel capoluogo, con un 10% degli abitanti che ha espresso un valutazione molto negativa a fronte di poco più del 2% tra i residenti in provin-cia. Un altro aspetto interessante è che se per i giovani il giudizio sull’offerta teatrale del territorio è ampiamente positivo, nel caso degli anziani si rileva un giudizio contrastante, con percentuali alte sia tra chi è molto soddisfatto, sia tra chi non lo è per nulla. Per quanto riguarda il cinema, quasi l’80% dei consumatori si dimostra soddisfatto dell’offerta cinematografica del territo-rio. Mentre, si registra un grado di insoddisfazione maggiore nel capoluogo rispetto alla provincia. Anche in questo caso, come per il teatro, gli indivi-dui più giovani, 85% tra giovani e adulti, si dimostrano molto più soddisfatti dell’offerta cinematografica del territorio, rispetto ad anziani e maturi, 60-70%. Per quel che riguarda le visite a musei e mostre, i giudizi positivi sono pari al 60%, mentre quelli negativi sono del 38%. In particolare, nel capo-luogo si registra maggiore insoddisfazione per l’offerta museale rispetto alla provincia. Inoltre, i giovani si dimostrano estremamente critici, con oltre il 50% di giudizi negativi, al contrario degli anziani che manifestano una valu-tazione positiva dell’offerta museale per oltre l’80% dei casi. Per l’offerta di concerti di musica classica ed opera nel territorio provinciale, si registrano valutazioni abbastanza negative, per circa il 50% della popolazione. In par-ticolare, risultano maggiormente negativi i giudizi dei residenti in provincia, circa il 44%, rispetto ai giudizi dei residenti del capoluogo, circa il 41%. Così come risultano maggiormente critici i giovani, con l’80% di giudizi negativi, a fronte di un 50% circa di giudizi positivi per le restanti categorie, adulti, ma-turi ed anziani. Nel caso dei concerti di diverso genere, musica leggera, pop, rock, etc., si riscontra, invece, un alto grado di soddisfazione, dal momento che circa il 68% della popolazione ha espresso valutazioni complessivamente positive. In particolare, maggiormente soddisfatti risultano gli abitanti della provincia, 70%, rispetto a quelli del capoluogo, 61%. Dato interessante è che gli anziani, che risultano essere coloro che consumano meno concerti, sono anche i più critici, con circa il 40% di giudizi negativi, a fronte del 43% degli adulti che si dichiarano ampiamente soddisfatti. Anche per i monumenti e i

siti archeologici, il grado di soddisfazione è alto, con circa il 65% di soddisfatti. Ed anche in questo caso, i residenti del capoluogo risultano più critici nei con-fronti dell’offerta del territorio, circa il 40% di valutazioni negative, rispetto ai residenti della provincia, circa il 30%. In particolare, sono i giovani a risultare particolarmente critici, con circa il 45% di giudizi negativi, rispetto a solo il 17% degli anziani.

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Arte pubblica e politiche culturali

in Provincia di Lecce.

Un’analisi di contesto

di Fondazione Fitzcarraldo

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1.PREMESSA

La Relazione introduttiva della Fondazione Rico Semeraro al Progetto TeKnè - Percorsi di formazione in contestualizzazione e fruizione dell’arte urbana - pone alcuni interrogativi assolutamente nevralgici nel mettere a fuoco il deli-cato rapporto tra arte pubblica e pubblico, ma che allo stato attuale non han-no avuto adeguata attenzione a livello nazionale nei dibattiti e nelle riflessioni degli addetti ai lavori: “Che senso ha oggi per una comunità locale interrogarsi sul ruolo sociale dell’arte contemporanea, sulla sua praticabilità e diffusione in luoghi e contesti pubblici?” e ancora “[…] può l’arte parlare veramente alla gente, alle comunità locali? è possibile una diffusione popolare degli stru-menti interpretativi necessari per godere a pieno dell’arte contemporanea?”, “Chi sono i fruitori dell’arte pubblica? quali sono i loro bisogni culturali, più o meno manifesti?”.Partendo da questi spunti, senza la pretesa di giungere a riflessioni esaustive e conclusive, si intendono sviluppare alcune riflessioni articolabili sotto una duplice prospettiva: • una lettura delle orditure possibili tra arte contemporanea, arte pubblica e pubblico che riprenda alcune acquisizioni teoriche inerenti la fruizione cul-turale e ne vagli la capacità interpretativa rispetto a contesti di significato specifici come quelli di “arte pubblica” e di “contemporaneità”;• una riflessione sul significato stesso di arte pubblica attraverso una panorami-ca di alcune significative esperienze nazionali e internazionali al fine di mettere in evidenza i nodi critici e le sfide che si impongono ai decisori politici e ai principali attori coinvolti.

2.ARTE CONTEMPORANEA, ARTE PUBBLICA E I CONTESTI URBANI: SGUARDI, FRUIZIONI E POLITICHE

Alessandro Bollo e Luca Dal Pozzolo*

“Ma quanto grande deve essere un ponteper permettere non solo gente di andare

al museo ma anche al museo di andare verso la città?”(Jochen Gerz)

Negli ultimi anni non si può non registrare un aumento esponenziale della popolarità e della diffusione dell’arte contemporanea nella società attuale. Molte città possono ormai vantare uno o più centri museali ad essa dedi-cati - generalmente etichettati da seducenti ed evocativi acronimi: MACRO, MAXXI, MIAO, MAMBO, MADRE; PAN, MAN, MART, solo per citarne alcuni -, quelle più fortunate e facoltose inoltre possono ricorrere a importanti e griffati interventi architettonici per edificare dal nulla o per intervenire sull’esistente (il progetto di Gery a Bilbao, da questo punto di vista, si può considerare come l’inizio di questa nuova e attuale tendenza). L’apertura di così tanti musei e spazi espositivi ha contribuito a generare nel sistema dei media, nelle agende della politica culturale e nel cosiddet-to “grande pubblico” un significativo incremento d’interesse nei confronti dell’arte d’oggi. Interesse e crescita di pubblico rafforzata anche dall’at-tività di fiere, mostre mercato, bi-tri-quadriennali disperse sul territorio, per non parlare della proliferazione delle mostre temporanee e dei “festival culturali” che direttamente o meno affrontano e propongono i temi e i lin-guaggi della contemporaneità. Più complessa e meno univoca appare invece la relazione tra musei, arte e pubblico. Se ragioniamo sui dati della partecipazione degli italiani a musei e mostre, marcata risulta la differenza tra nord (34%) e sud (18%) e tra gran-di (31,7%) e piccoli centri (25,4%)*1, a testimonianza di come una geogra-fia dell’offerta ancora comunque sperequata produca divari e ineguaglianze nelle effettive condizioni di accesso e di avvicinamento alle attività artistiche

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Fondazione Fitzcarraldo ARTE PUBBLICA E POLITICHE CULTURALIUN’ANALISI DI CONTESTO

e culturali. Una recente indagine condotta sull’arte con-temporanea e la percezione della popolazione italiana in-dicava che un italiano su tre si dichiara interessato all’ar-te e un italiano su cinque a quella contemporanea (circa 8,8 milioni di persone italiane maggiorenni)*2. Non meno facile definire chi siano i fruitori dell’arte in generale e di quella contemporanea nello specifico. Da un lato, come si diceva, viene enfatizzata a livello mediatico la capacità di arte e cultura di mobilitare masse di pubblici vecchi e nuovi, corroborata da statistiche e articoli sulla crescita del turismo culturale, su musei e monumenti presi d’as-salto nei weekend festivi, sul pubblico di giovani e adul-ti che frequenta le grandi e piccole mostre. Dall’altro si perde in sicurezza e assertività quando si tenta di passare dai numeri alle persone, dalla “fenomenologia della mas-sa” ai bisogni e ai fabbisogni espliciti e latenti dei territori e delle comunità. Dovendo abbozzare una prima definizio-ne, il pubblico attuale dell’arte contemporanea è costitu-ito da quelle persone interessate o interessabili all’arte che dispongono delle capacità e delle risorse per eludere o ridurre le principali barriere all’accesso che sono di na-tura fisica, economica e culturale. È forse scontato ricor-dare come nel caso dell’arte contemporanea la barriera di ordine culturale abbia un peso ancora più rilevante che in altri contesti. In termini socio-culturali potremmo dire che persiste tutt’oggi una stretta relazione tra livello di istruzione e propensione al consumo culturale (la mag-gior parte di quelli che fruiscono dell’arte contempora-nea hanno livelli di istruzione elevata, ma evidentemente non tutti quelli che hanno livelli di istruzione elevata sono interessati all’arte contemporanea). Recenti indagini condotte da Fondazione Fitzcarraldo e da altri centri di ricerca sul pubblico dell’arte contemporanea confermano

infatti che vi è una fortissima sovra-rappresentazione di visitatori in possesso del titolo di laurea o di titoli post-laurea (tra il 40% e il 50% in confronto con il 13% della popolazione nazionale) e, per converso, una marginale presenza di persone con titoli di istruzione bassi*3. L’ar-te contemporanea viene generalmente percepita come complessa, ostica da maneggiare e anche da concettua-lizzare (è un genere o è un periodo?)*4. Una interessan-te ricerca condotta nel 2005 dal Louvre in occasione del progetto “Contrepoint. L’art contemporain au Louvre”*5 metteva bene in luce come anche per un pubblico inte-ressato e amante dell’arte, quella contemporanea fosse spesso percepita come “difficile” e “inaccessibile” per-ché l’assenza apparente di codici comunicativi abituali e la trasgressione frequente delle forme e delle tecniche non consentivano ai visitatori di riportare le opere ad uni-versi conosciuti ed esplicitabili. L’assenza di riferimenti conosciuti e l’impossibilità di un confronto rassicurante produceva reazioni di sospetto (spesso con la messa in discussione della legittimità di alcune forme e di alcuni linguaggi) o di rigetto (rifiuto o disinteresse per il genere). Emergeva comunque nei visitatori una generale apertura al nuovo e al contemporaneo, ma a patto di essere “ac-compagnati” nel percorso di esplorazione e conoscenza. La ricerca concludeva affermando che «accompagnare il visitatore, fornire chiavi di lettura per accedere ad un genere per il quale non si dispone di adeguate risorse, né intellettuali, né estetiche, né percettive, consentirebbe di rendere leggibili le molteplici dimensioni interpretative che sottendono la creazione artistica di oggi»*6. Si tratta di una valutazione condivisibile e che per certi versi con-sente di rispondere al quesito introduttivo che interrogava sulla necessità e sulla possibilità di una diffusione popo-

* 1Fonte: Istat, Annuario Statistico Italiano; i dati si riferiscono al 2005. Da questo punto di vista la provincia di Lecce registra tassi di parte-cipazione sicuramente incoraggianti (29%) e molto superiori rispetto ad altri territori del mezzogiorno. Cfr. Fondazione Rico Semera-ro, L. Solima, Culture e Territori. I consumi culturali in provincia di Lecce, , Gangemi Editore, 2007

* 2Istituto sugli Studi per la Pubblica Opinione, L’arte Contemporanea: la percezione degli italiani, ISPO; Giugno 2008.

* 3Relazione tra livello di istruzione e consumi culturali che si ritrova anche nell’indagine sui consumi culturali in Provincia di Lecce quan-do si legge che tra i cosiddetti “inappetenti culturali” i laureati sono quasi inesistenti (1,3%), mentre l’incidenza dei laureati sale al 20,7% tra gli “onnivori”.

* 4Secondo la già citata ricerca ISPO, l’arte con-temporanea è percepita di difficile accesso e comprensione dal 44% della popolazione italiana, mentre una percentuale consistente, il 22% non si sa esprimere a riguardo.

* 5Contrepoint. L’art contemporaine au Louvre” è un progetto pluriennale di “incursioni” di artisti contemporanei nell’ambito delle collezioni storiche del museo. Si tratta di un esperimento molto interessante e coraggio-so perché gioca sull’effetto di contrappunto e di spiazzamento tra il linguaggio dell’arte

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lare degli strumenti interpretativi necessari per godere a pieno dell’arte contemporanea. Emerge dunque una situazione per certi versi contraddit-toria. Se, come afferma Guido Curto*7, il mondo dell’ar-te contemporanea è affetto spesso da un solipsismo che sfiora l’autismo con il risultato che per una grande par-te di pubblico i musei d’arte contemporanea rimangono oggetti misteriosi e autoreferenziali ad uso e consumo di una cerchia ristretta d’iniziati, non si può non rileva-re come alcune tra le azioni più interessanti di audien-ce development (soprattutto nei confronti delle categorie più svantaggiate o più distanti dai sistemi culturali) siano state condotte in Italia proprio da istituzioni che operano nei settori della contemporaneità e come l’arte pubblica rappresenti appunto un tentativo concreto per progettare opere d’arte concepite in funzione di una fruizione pubbli-ca e il più possibile allargata. La presentazione di alcune significative e paradigmatiche esperienze di arte pubblica verrà affrontato nel capitolo seguente; ci si limita qui a segnalare in ambito museale, a titolo di esempio, le at-tività educative extra moenia del Castello di Rivoli rivol-te ai giovanissimi e alle seconde generazioni di cittadini stranieri, le molteplici iniziative di coinvolgimento di nuovi pubblici della Gamec di Bergamo o del Mambo di Bologna, gli interventi con gli abitanti del quartiere del Museo Ma-dre di Napoli e il progetto “Salviamo la luna” del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (www.salviamolaluna.it) che ha coinvolto circa 3.000 abitanti, la maggior parte dei quali non frequentatori di musei e arte contemporanea. Le opere d’arte e i linguaggi della con-temporaneità diventano in questi casi materia per inda-gare i temi e le contraddizioni del presente, palestre per favorire l’ascolto, l’introspezione e per rafforzare un ca-

pitale creativo diffuso, “tecnologie” ad uso delle politiche di integrazione sociale.Si tratta di esperienze e sperimentazioni sicuramente meritorie, in grado di aprire prospettive interessanti per il futuro, ma che in definitiva non intaccano la percezio-ne che il pubblico dei musei di arte contemporanea sia ancora principalmente costituito da alcuni specifici target di utenza che di fatto rappresentano una fetta piuttosto ristretta e piuttosto “situata” dal punto di vista socio-culturale della cittadinanza. È stato usato volutamente il termine target per mettere in evidenza come anche i musei italiani (peraltro in ritardo e con maggiore inter-mittenza rispetto ad altri contesti europei e internaziona-li) stiano assumendo un approccio orientato al marketing e che quindi inizino a ragionare in termini di segmenta-zione e targeting. L’individuazione di target specifici - in un contesto di risorse scarse - produce indubbiamente una maggiore efficienza nella comunicazione (si riduce l’incidenza della dispersione dei messaggi pubblicitari, aumenta cioè la possibilità di “colpire” i reali destinatari della comunicazione anziché generici riceventi), contribu-isce a rinforzare i legami e il livello di coinvolgimento con un pubblico di “fedeli” e a migliorare complessivamente la loro soddisfazione. Siamo di fronte ad un nuovo para-digma produttivo e organizzativo indubbiamente efficace nell’ottimizzare i processi comunicativi e gli scambi va-loriali ed economici tra le istituzioni ed un pubblico se-lezionato, ma che richiede come contropartita (per poter operare a pieno regime) all’opera d’arte di trasmigrare in oggetto di consumo, presentato preferibilmente nella forma dell’“evento” e dell’“esperienza” per citare due tra i principali “mantra” della produzione culturale attuale. A lungo termine però politiche pervasive di targeting pos-

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antica e quella contemporanea rafforzato dal contesto e dal tipo di esperienza che si rivela spesso inattesa e dirompente. L’ultima esperienza di Contrepoint ha visto impegnato l’artista belga Jan Fabre che ha lavorato sulle collezioni fiamminghe del museo.

* 6Louvre, L’impensé de l’art contemporain: les visiteurs français du Louvre et leur rapport à l’art contemporain, Synthèses des resultats des enquétes qualitatives conduites auprès des visiteurs du Louvre, Luglio 2005.

* 7Cfr. Curto G., L’arte contemporanea e il pub-blico, in De Biase F. (a cura di), L’arte dello spettatore, Franco Angeli, Milano, 2008

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sono portare a situazioni di chiusura, di conferma dello status quo, di disincentivazione del rischio e di eccessiva compartimentazione del tessuto sociale. Si produce cioè un ampliamento della domanda che non porta ad una dif-fusione “democratica” della cultura, piuttosto ad un allar-gamento selettivo verso pubblici di prossimità culturale, sempre più soddisfatti quanto più rassicurati nel perce-pirsi complici e quanto più persuasi delle opinioni che già posseggono. Effetto perverso ben evidenziato da Remo Bassetti quando afferma che «il target […] si rivolge alle persone per rafforzarle nella loro convinzione di essere ciò che sentono, o per lo meno desiderano, di essere e apparire. Il bene non viene cioè più giudicato per la sua utilità, ma per la sua capacità di prestarsi al processo di riconferma del sé nell’ambito di un ben definito stile di vita. Il progetto di vita che il marketing propone è il più seduttivo e accattivante possibile: continuare a essere quello che si è. Ciò che è in gioco è la percezione che ha di sé il consumatore. È esattamente quest’ultima l’ogget-to merce, ed è questa la ragione per la quale l’identità personale è sempre più legata al consumo»*8. Conse-guenze che, se si vuole, sono ancora più amplificate nel caso dell’arte contemporanea in cui agisce il noto effetto dell’addiction culturale*9 - ovvero la tensione ad accre-scere continuamente lo stock di conoscenze, unitamente a quella di consolidare la capacità critica del fruitore -, che di per sé è un fattore positivo, ma che rafforza ancora maggiormente la logica (e i risultati) della fidelizzazione e dell’allargamento selettivo.Da questo punto di vista l’arte pubblica può giocare un ruolo importante nello scompaginare i meccanismi del-la fruizione e dell’accesso alla cultura. Può rivelarsi un antidoto possibile a questa tendenza che in ambito cul-

turale limita le possibilità di incontro, di scontro e di (ri)mescolamento socio-culturale, proprio perché nello spa-zio urbano si possono prefigurare forme di fruizione non proponibili all’interno delle strutture “dedicate”. Nell’ar-te pubblica gli artisti sono infatti impegnati a progettare opere d’arte concepite in funzione di un’utenza pubblica e i lavori site specific vengono realizzati (o dovrebbero essere realizzati) solo dopo aver dialogato con la gente che vive dove l’opera sarà collocata. Come afferma Guido Curto «Nell’arte pubblica la committenza viene dal basso, non più dall’alto, e si rovesciano i rapporti di potere»*10. L’arte pubblica meglio di altre, sotto questo punto di vista, si presta a detargettizzare il discorso intorno all’arte con-temporanea (perché potenzialmente aperta a tutti, tra-sversale e liquida) e a produrre cortocircuiti nel sistema della produzione e ricezione culturale. Riprendendo il di-scorso delle barriere all’accesso, l’arte pubblica proprio per il suo uscire dai recinti della cultura e tracimare nel vivo della città elimina formalmente il problema dell’ac-cesso fisico e di quello economico, pur rimanendo in so-speso e non risolto quello di natura culturale. Verrebbe quindi da domandarsi se un’opera d’arte collocata in uno spazio pubblico diventi automaticamente un’opera di arte pubblica? L’equazione può probabilmente reggere a pat-to che si mettano in gioco processi e accorgimenti che in misura diversa coinvolgono tutti gli attori in gioco (com-mittenti, mediatori, artisti, cittadinanza). Occorre eviden-temente che gli artisti sappiano ascoltare (e siano aiuta-ti e stimolati a farlo) i luoghi e le persone e riescano ad introiettare i momenti dell’ascolto e dell’interrogazione nella fase ideativa e progettuale, sappiano cioè mettere e mettersi in discussione nell’ambito di un contesto specifi-co per riflettere su di esso, intervengano per trasformare

* 8Cfr. Bassetti R., Contro il target, Bollati Borin-gheri, Torino, 2007

* 9Analizzando più dettagliatamente il fenome-no della dipendenza culturale (addiction), Tri-marchi (1993) evidenzia la duplice natura del fenomeno, in cui il valore dell’esperienza cul-turale aumenta da una parte per effetto della mera accumulazione orizzontale di consumi, come in una collezione in cui l’aggiunta di un pezzo conferisce maggior valore all’intera collezione - ma anche l’ampiezza della collezione influisce positivamente sul valore dell’ultimo pezzo aggiunto - e dall’altra per effetto della crescente capacità di formulare giudizi critici da parte del consumatore.

* 10 Cfr. Curto G., cit.

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gli spazi in luoghi, si adoperino, in ultima istanza, affinché “il represso sia riportato alla luce, l’invisibile reso visi-bile e il dimenticato ricordato”*11. Non si vuole in questo contributo entrare nello specifico del linguaggio e delle politiche dell’arte pubblica - temi trattati nel capitolo suc-cessivo - bensì segnalare alcuni aspetti in relazione agli spazi pubblici urbani, laboratori e palcoscenici dell’inter-vento artistico, e al loro rapporto con la popolazione che li attraversa e li abita. Ragionare sui modi di abitare e attraversare un luogo aiuta a prefigurare lo sfondo (fisico e concettuale) nel quale in-nestare i processi di arte pubblica e collocarne il portato. Pur non esistendo modalità aspecifiche e generalizzabili di descrivere le forme di utilizzo e di attribuzione di senso degli spazi e dei luoghi (le antropologie e le geografie del camminare, del leggere e del nominare il paesaggio pro-ducono racconti per definizione locali), si possono tentare alcune considerazioni più generali in merito ad alcuni fe-nomeni emergenti del vivere in un contesto urbano.

I luoghi pubblici fra criticità e nuove domande sociali.Se si concentra l’attenzione suoi luoghi pubblici urbani, emerge come essi siano oggi immersi in un campo di tensioni contraddittorie che, da una parte, ne erodono la qualità, l’uso ed il senso stesso di luogo, dall’altra ne sot-tolineano l’essenzialità e la capacità di svolgere ancora un ruolo fondamentale e cruciale per la società urbana. E possibile sintetizzare l’insieme delle tensioni/criticità/opportunità che attraversano i luoghi pubblici urbani in almeno quattro ordini di problematiche:1) l’incapacità storica di produrre luoghi da parte dell’ur-banistica e dell’architettura dal dopoguerra ad oggi; 2) l’erosione di funzioni e di senso del luogo pubblico;

3) il ruolo residuale dello spazio pubblico nella nuova città diffusa;4) il nuovo senso del pubblico e la riappropriazione dei luoghi pubblici da parte dei nuovi cittadini;

Vale la pena, di seguito, di ripercorrere questo elenco schematico per richiamare almeno alcuni riferimenti chiave per queste problematiche, con il loro portato di contraddizioni, ma anche di opportunità per un ripensa-mento dei luoghi urbani.1) l’incapacità storica di produrre luoghi pubblici da parte dell’urbanistica e dell’architettura dal dopoguerra ad oggi. Si tratta di un fenomeno ben conosciuto e sperimentato: l’urbanistica, nata per gestire l’espansione urbana oltre le mura della città storica, ha di fatto - in termini statistici - mancato il compito di costruire una nuova città, ripiegan-do sulla costruzione di periferie all’interno delle quali una delle misure di criticità è proprio la perdita di rilevanza del luogo pubblico, il suo abbandono a terra di nessuno, la sua difficoltà a divenire luogo vivo ed abitato.Le ragioni di questo processo sono molteplici ed una loro ar-ticolazione più complessa ed estesa è facilmente reperibile in altri testi*12; qui ci limiteremo a sottolineare come il pas-saggio ad una composizione urbana per blocchi indipendenti e autonomi che rompono con la tradizione storica dell’isola-to, porta a disgiungere la progettazione degli spazi vuoti dai “pieni” architettonici sui quali viene posto l’accento. Mentre nell’edilizia storica, fino a tutto l’Ottocento, il co-struire le cortine edilizie voleva dire contemporaneamen-te costruire le strade e le piazze che ne venivano delimita-te e racchiuse, a partire dal funzionalismo l’uso di blocchi indipendenti rende lo spazio vuoto uno spazio non margi-nato, indefinito, ciò che risulta una volta costruite le case. Mai come negli ultimi anni vi sono stati tanti concorsi d’ar-

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* 11Foster T., Harvey J. e Lingwood J., New Wor-ks for Different Places, Bristol , Television South West Arts, 1990, pp.8-9.

* 12Cfr. Vittorio Spigai, , l’architettura della non città, Città Stusi Edizioni, Torino, 1995 o anche Luca Dal Pozzolo (a cura di) Fuori città, senza campagna. Paesaggio eprogeto nella città diffusa, Franco Angeli, Milano 2002

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chitettura per piazze e luoghi pubblici a edificazione del contesto terminata, in alcuni casi da decenni. Ciò vuol dire ammettere che si è costruito un intero quartiere ma che lo spazio pubblico richiede ancora un intervento ulteriore, un’attenzione che non ha avuto al momento della costruzione degli edifici, con il rischio di adagiarsi in opere di imbellettamento e in uso estenuato di re-pertori di oggetti inutili: fontane improbabili, piccoli anfiteatri cementizi nella speranza di un’impossibile rappresentazione, manciate di panchine per una sosta dove nulla è piacevole e dove tutto sconsiglia il rimanere, tettoie, per-gole gazebi, monumenti improvvisati che sottolineano nella loro alienazione la difficoltà di una identità del luogo e la scarsa propensione dei residenti ad attribuirgli un qualche valore.

2) L’erosione di funzioni e di senso del luogo pubblico; Contemporaneamente alle criticità nella produzione di nuovi luoghi pubblici, a partire dagli anni ’60 in poi, si assiste ad una erosione del senso stesso e dell’uso degli spazi urbani più accentuato nelle giovani generazioni. L’aumento della mobilità, delle comunicazioni, la rivoluzione informatica, le nuove antro-pologie del divertimento, incidono fortemente sull’ uso dello spazio pubblico. In estrema sintesi, la città nata per favorire la comunicazione articolando e or-ganizzando gli spazi di prossimità ed i luoghi d’incontro pubblico, viene messa sempre più fuori gioco da una comunicazione che non passa più per la pros-simità spaziale, bensì per reti lunghe, quando non planetarie e immateriali. Non solo il cyberspazio, ma il nomadismo del sabato sera, la nuova centralità degli Outlet e degli Ipermercati, le stazioni di servizio dell’autostrada che si trasformano in centri commerciali per fornire luogo e contesto alle migrazioni del clubbing notturno. L’incontro non è più (né solo, né tanto) della piazza, ma piuttosto della rete, sia essa virtuale o fatta di relazioni vis à vis dislocate nello spazio, ma che trasformano le città in reticolo di corridoi, ponendo l’accento sui nodi degli spazi di attraversamento extraurbano, comprese le aree di servizio autostradali.3) Il ruolo residuale dello spazio pubblico nella nuova città diffusa;Se il luogo pubblico nella periferia si scarnifica, a tal punto, da perdere la sua struttura e la sua identità, l’attacco più forte viene dal proliferare della

città diffusa; una città più tollerata che voluta, a metà regolata, per metà, e forse più, fenomeno emergente, sede di distretti industriali e di villette neo rurali, con una densità visiva alta, ma, demograficamente parlando, limitata, con un consumo di suolo altissimo, così come altissimo è il tasso di appro-priazione dello spazio, con un ruolo totalmente marginale, ridotto al mero attraversamento dello spazio pubblico. La città diffusa con le sue ubique re-cinzioni che ne rappresentano uno dei segnali più forti, sfida il concetto stesso di luogo pubblico. Se la città è lo spazio che è al di fuori del costruito, se ciò che si abita sono i vuoti “tra” le architetture e se solo i vuoti più significativi e pregnanti riescono davvero ad essere luoghi pubblici, dotati di una forte funzione sociale, allora la città diffusa propone il rovesciamento di uno spazio tutto fatto di interni privati (siano essi aperti come i giardini o chiusi come le villette e i capannoni), tutto introflesso, che lascia al mondo solo il sedime strettamente necessario a permettere il collegamento tra un interno privato e un altro. Simmetricamente il luogo pubblico di riferimento è l’ipermercato, chiuso all’esterno in una scatola scarna, separato dal paesaggio da ettari di parcheggio, quasi fosse il terreno bruciato da un’astronave appena atterrata, ma che all’interno invece si apre ad un simulacro di città, mima il paesaggio, la complessità e l’articolazione del luogo pubblico “esterno”, pur non essen-do affatto pubblico negli usi e nei fatti e, tantomeno, esterno.4) il nuovo senso del luogo pubblico e la sua riappropriazione da parte dei nuovi cittadiniMa il luogo pubblico non è solo soggetto a tendenze erosive o a criticità che ne mettono in forse l’uso e l’attualità, ma è anche attraversato da tensioni relati-ve a nuove domande e ad una richiesta di centralità e di appropriazione dello spazio disattesa da molta città contemporanea. Dopo la grande espansione della città diffusa e dell’urbanizzazione di aree regionali, emerge una dinami-ca inversa, una richiesta di città compatta di qualità, di spazi significativi, di un vivere urbano colto che consegue anche al riconoscimento della superficialità di molte delle ideologie neo-rurali, salutiste ed ecologiste alla base della vil-letta peri-urbana, di fronte all’insostenibilità dei costi ambientali, energetici ed ecologici proposti da una crescita accelerata della città diffusa.Ma accanto ad un ritorno verso la “centralità” è potente la dinamica d’insediamento

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dei nuovi cittadini e dei migranti che tornano ad usare gli spazi urbani come luoghi di intensa comunicazione, proponendone un uso pubblico vitale e vivace, disegnando nuove apparte-nenze, nuovi confini nella città e generando, per converso, una nuova domanda anche da parte dei residenti autoctoni, a volte motivata da una paura di espropriazione, di marginalizzazione nel proprio quartiere.Nuovamente, quindi, e sempre più spesso, è proprio nello spazio pubblico che si misura la temperatura dei rapporti in-terculturali, la capacità di scambio e di convivenza tra gruppi sociali differenti, la qualità di una vita pubblica quotidiana.Nonostante i punti precedenti non siano che un elenco molto sintetico e alquanto incompleto di alcune tra le tensioni e le contraddizioni che emergono nell’uso e nella costruzione del luogo pubblico, appare chiaro come quest’ultimo rivesta oggi un grande interesse in funzione delle domande e delle sfide che pone.Tra queste non è eludibile la domanda che sollevano di-versi gruppi sociali, di riappropriazione dello spazio pub-blico, di aiuto perché possa essere nuovamente un luogo dotato di identità, al quale aggrappare un parte della pro-pria vita sociale ed individuale. Una domanda per trasfor-mare “spazi” pubblici in “luoghi” pubblici.È proprio in questo passaggio che si registrano le scon-fitte più cocenti dell’urbanistica e dell’architettura, ed è proprio qui che occorre ripartire da esperienze concrete, legate ad ogni singolo sito, per riannodare pazientemente i fili che legano i veri “luoghi” alle persone. Già si è detto in precedenza; uno spazio non è un luogo, e non è solo un problema di una fontana o di una panchina in più. Un luogo emerge dal contesto con una sua identità perché così e riconosciuto da chi vi abita, da chi vi tran-sita, e che a sua volta si confronta con una scena urbana

che sostiene i lati più desiderabili del proprio “stare” e sentirsi tra cielo e terra.Detto con le parole di Alain de Botton:

“La nostra sensibilità per l’ambiente circostante può essere ricondotta a un’inquietante caratteristica della psicologia umana, cioè al fatto che dentro di noi alber-gano diverse personalità e non con tutte ci sentiamo ugualmente a nostro agio, al punto che ci capita, in certi momenti, di lamentarci di esserci allontanati da quella che riteniamo la nostra vera personalità. (…)“Ci servono stanze nostre per trovare una versione de-siderabile di noi stessi e mantenere in vita i lati impor-tanti, ma evanescenti, della nostra personalità.” *13

Così un luogo è capace di “risuonare” con gli individui e i gruppi sociali che lo abitano, mettendosi in relazione con le domande profonde che singoli e gruppi esprimono. Ma nonostante l’immenso stock di luoghi pubblici e piazze e strade meravigliose e profondamente legate alla città dei cittadini, non è così diffusa la “ricetta” con cui se ne producano di nuove o, ancora, sia possibile trasformare spazi avviliti in luoghi vitali. Anzi, è chiaro che non esiste la ricetta, ed è evidente che architetti e urbanisti non ba-stino, così com’è evidente che si debba procedere ad una ricostruzione collettiva del senso. Per questi motivi, nella riappropriazione di meccanismi di attribuzione di senso diviene così importante il ruolo dell’arte come processo di elaborazione di costruzione dei significati, di risemantiz-zazione e di ricostruzione del ruolo - anche sacrale - dello spazio pubblico. Non si tratta - come più sopra accennato - di monumen-ti abbandonati frettolosamente per riempire un vuoto in una scena inesistente, ma di un processo di costruzione

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* 13Alain de Botton, The Architecture of hap-piness, trad. it. Architettura e felicità, Ugo Guanda Editore S.p.A., Parma, 2006, pp. 104-105

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che parta da un modo di guardare il luogo pubblico, che agisca contemporaneamente sullo spazio e sullo sguardo di coloro che questi spazi useranno e abiteranno, che co-struisca contemporaneamente Urbs - città di pietra - e Ci-vitas - città di individui - ri-intessendo e riscoprendo i rap-porti che i diversi pubblici intrattengono con i loro spazi. Sapendo che le domande faranno sempre più riferimento a culture, a mondi e a significati differenti. Di fronte a queste sfide, quale strumento è più interes-sante e potente del lavoro artistico per indagare questa complessità, per ri-alfabetizzarci e familiarizzarci con una produzione contemporanea di luoghi pubblici?

* Alessandro Bollo è coordinatore dell’Area Ricerca e Consulenza della Fondazione Fitzcarraldo, Luca Dal Poz-zolo è vicepresidente della Fondazione Fitzcarraldo. Inse-gnano entrambi al Politecnico di Torino, Corso di Laurea in Storia e Conservazione dei Beni Culturali.

3.PROSPETTIVE URBANELisa Parola/a.titolo*

In questi anni, studi disciplinari specifici come l’architet-tura, l’urbanistica e la sociologia e, non ultima, la cultura, hanno dedicato ampio spazio alla riflessione sui cambia-menti repentini del contesto urbano; ed è ormai un dato condiviso da molti che nel cambiamento di una città, nella sua fisionomia, la cultura occupa un posto non seconda-rio, quando non addirittura strategico*14.Nel cambiamento delle città contemporanee, nel pro-gress delle funzioni e delle forme - quelle fisiche come quelle sociali - l’arte ha spesso ideato pratiche di inter-vento orientate a cogliere nella definizione di “pubblico”

non solo un’indicazione di luogo ma anche una dimensio-ne più articolata che coinvolge la politica, la qualità della vita, il vivere collettivo diversificato e complesso.Storicamente le esperienze dell’arte nella città - le visioni e i progetti - sono quanto mai numerose, eppure è ancora difficile sentire raccontare l’evoluzione di un’area urba-na anche attraverso quel fare città*15 anche se, spesso e ciclicamente, ad ogni svolta corrisponde una produzione di immagini, scritti e riflessioni d’arte che si immergono nell’essere della città , nel cosa potrebbe essere.Agli occhi dei più, il fare città dell’arte è uno sguardo a-funzionale ma se analizzato in profondità, nella sua capa-cità prospettica può presentarsi anche come strumento, come atteggiamento ricettivo nei confronti di comporta-menti, contenuti e cornici relazionali.Tra gli anni Settanta e Novanta dello scorso secolo, molti artisti hanno abbandonato lo spazio chiuso del museo o della galleria e dedicato parte delle loro ricerche ad una ridefinizione di arte pubblica che coincidesse non solo con la definizione della funzione dell’opera d’arte in sé, ma anche della stessa nozione di cosa è da intendersi per “pubblico”*16.Per illustrare queste differenti modalità si sono scelti, a titolo esplicativo, due modelli che illustrano come, li-bero da protocolli disciplinari rigidi, il fare città dell’arte contemporanea si dimostri in molti casi uno strumento flessibile in grado di attivare una riflessione inedita su una forma (la città) e il suo contenuto (chi l’abita); due aspetti che si intrecciano di continuo, e di continuo fan-no scontrare-incontrare i diversi contorni della città con le identità plurali che oggi sempre più definiscono il suo corpo sociale.

* 14W. Santagata, La fabbrica della cultura - Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo del Paese, Bologna:Il Mulino, 2007 “Partendo da una solida e informata base documentaria, il volume mostra come risorse e attenzioni andrebbero dedicate alla catena di produzione del valore del bene d’arte. Riqualificando que-sto settore strategico attraverso la formazione e valorizzazione di artisti e mestieri creativi si alimenta il mercato del lavoro e lo sviluppo di tutto il sistema Italia. E accorte politiche culturali orientate in tal senso potranno contribuire a far raggiungere al nostro paese una posizione di spicco nella società globale della conoscenza, dell’innovazione e della creatività”. Su temi similari si veda anche: P.L. Sacco, W. Santagata e M. Trimarchi, L’arte contemporanea italiana nel mondo. Analisi e strumenti, Skira, Milano 2005

* 15Century City: Art and Culture in the Modern Metropolis, mostra del 2001 presso la Tate Modern di Londra, cat. Tate, London, 2001. Dalla Vienna di inizio secolo fino alla Bombay di oggi, attraverso nove città internazionali il passaggio tra il XX e il XXI secolo è stato riletto con esperienze d’arte e cultura: Bombay/Mumbai 1992-200, Lagos 1955-70, London 1990-2001, Moscow 1916-30, New York 1969-74, Paris 1905-15, Rio de Janeiro 1955-69, Tokyo 1969-73, Vienna 1908-18.

* 16Sulla definizione d’arte pubblica e sito specifi-co, e il loro attuale dibattito, si consiglia: Miwon Kwon, One place after another. Site specific art and location identity, Mit Press, Cambridge, 2002 e James Meyer, The functional Site, in “Platzwechsel”, Kunsthalle, Zurich, 1995; cata-logo della mostra. La traduzione in italiano

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LA CITTÀ COME VUOTO

Siamo a Parigi nel 1975 quando l’artista americano Gordon Matta - Clark*17 decide di intervenire su una casa antica nel cuore della capitale francese, nel centro del quartiere Marais. Siamo negli anni dell’ambiziosa politica culturale pubblica francese, due anni prima dell’inaugurazione del Beaubourg*18, lo storico progetto di Renzo Piano e Richard Rogers; un’architettura che allora molto fece discutere e creò non pochi conflitti tra i cittadini e l’amministrazione. Siamo in un tempo e dentro una porzione di città storica destinati a cambiare radicalmente l’idea di spazio pubbli-co e la frequentazione stessa del museo d’arte. Proprio in questa piega di tempo - a cantiere aperto ma non ancora finito - Matta - Clark, invitato alla Biennale di Parigi, deci-de di intervenire, con (Etant-d’art pour locataire), Conical Intersect ’75, in una porzione di città in cambiamento, in uno spazio di “mezzo”: rue Beaubourg tra il numero civico 27 e il 29, all’interno di due abitazioni d’origine seicente-sca destinate ad essere abbattute per lasciare spazio alla piazza d’ingresso della nuova costruzione.Qui, in questo spazio del togliere per aggiungere, l’artista americano realizza un antimonumento, un “nonument,” certo una delle sue opere più conosciute: un vuoto, un buco di quattro metri di diametro tra il secondo e il ter-zo piano, una forma circolare che si apre sull’ordinario passaggio della strada ma anche sul cantiere del futu-ro museo. Dall’interno il foro funziona come una sorta di cannocchiale, uno speciale dispositivo prospettico aperto sulla città. Un altro punto di vista.Molte delle cose che ho fatto e che hanno un’implicazio-ne architettonica sono in realtà sulla non-architettura, su qualcosa che è un’alternativa a quello che normalmente è

considerato architettura. Il lavoro di Matta - Clark può es-sere inteso come un tentativo di trasformazione dell’ar-chitettura in qualcos’altro, della città, di alcune porzioni di essa, in qualcos’altro; un fare che ha qualità e funzioni diverse da quelle che, per convenzione, sono normalmen-te attribuite all’architettura e al disegno della città.Una visione prospettica è quella che l’arte può offrire ai cambiamenti di una città.Quello che Matta - Clark affianca alle sue operazioni è uno sguardo critico sulle funzioni e forme della città, un proce-dere che ha a che fare anche con una particolare definizione di cura; laddove stare nello spazio, studiarne il progetto, ta-gliarne i muri, cambiare proporzioni e perimetri, creare cioè nuove possibilità di visione, significa conoscere i luoghi.Parlando del lavoro l’artista ha definito la sua ricerca un or-ganizzare - ri-organizzare - una situazione*19, una sorta di sguardo tra, in mezzo; un agire che al progetto preferisce l’a-naprogetto che alla funzione sostituisce l’occasione.Quello che emerge e che interessa di questo fare città con gli occhi dell’arte è proprio quel prendere avvio dal vuoto, dal residuo, dall’avanzo per far incontrare sguardi, andare nel profondo e intrecciare distanze, attivare una visione intorno a ciò che è apparentemente ordinario. Tagliare una parete non è da intendersi come azione distruttiva, al contrario è un tentativo di creare punti di fuga e aprire inedite prospettive.La situazione che Matta - Clark realizza in rue Beaubourg è un proporre nuove posizioni nella città, e farlo attraver-so un dispositivo, un set visivo, una postazione privilegiata che si affaccia sulla profondità del contesto ed è capace di sommare e tenere insieme, nell’adesso, differenti ele-menti: storici, fisici, politici, economici, sociali. Un modo per stare tra i luoghi: il luogo della storia, il luogo della demolizione e quello dell’edificio futuro, ma anche il luo-

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del primo volume citato è una parte della Tesi di Laurea di Simonetta Piu e Giorgio Nieddu, Arte, collettività, territorio, I Facoltà di Architet-tura, Politecnico di Torino, A:A: 2005 - 2006.

* 17Gordon Matta-Clark (1943 - 1978), fondato-re del newyorkese Anarchitecture Group, l’artista americano è famoso soprattutto per i architectural cuttings di case e strutture in-dustriali abbandonate. I suoi interventi si sono sempre mossi anche da convinzioni sociali e politiche. L’opera completa dell’artista è stata documentata da T. Crow e C. Diserens, Gordon Matta - Clark, Phaidon , London, 2003.

* 18Il Beaubourg. è nato dalla volontà del presi-dente Georges Pompidou (esponente del go-verno francese dal 1969 al 1974) di creare nel cuore di Parigi un’istituzione culturale intera-mente dedicata all’arte moderna e contempo-ranea a cui si affiancassero anche letteratura, design, musica, cinema. La vicenda del museo simbolo del XX secolo e dell’area pubblica circostante è molto complessa e ha coinvolto sia il piano politico che culturale. Gli architetti ideatori furono incaricati nel luglio del 1971 da una giuria internazionale presieduta da Jean Prouvé che scelse la proposta tra 681 progetti presentati.

* 19È difficile in questo contesto, tenendo comun-que conto delle distante di tempi e posizioni teoriche, non considerare la definizione data dall’Internazionale Situazionista in merito alla “situazione costruita”: momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti

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go dell’ora, ovvero il cantiere, la strada, ciò che sta acca-dendo. Stare tra lo sviluppo e i cambiamenti di un conte-sto urbano, stare tra l’architettura e l’arte, tra lo spazio pubblico e quello privato. Disegnare una prospettiva che guarda indietro ma anche avanti, più in là.Ma non è solo questa linearità tra passato e futuro che interessa, questa tipologia di azione sulla città è stata individuata come modello anche perché anticipa un pen-sare e un fare città valido ancora oggi, una pratica che necessita di strumenti raffinati e articolati per leggere la complessità e le contraddizioni che definiscono il conte-sto urbano attuale, quello nel quale siamo immersi ora, nel XXI secolo.Alla linearità nella quale Matta - Clark ci proietta, si in-trecciano di continuo anche altri elementi, spesso con-traddittori tra loro e ne emerge un gomitolo fitto, un luo-go nel quale le forme si mischiano a funzioni, memorie e visioni. Uno stare che è aperto ad accogliere conflitti, questioni e interrogativi.L’azione dell’arte nella città contemporanea si può allora definire come uno strumento necessario solo se è in gra-do di presentarsi come un procedere che si insinua tra le pieghe del tempo, di tutto il tempo, attraverso quel che c’era, quel che c’è, quel che ci sarà perché il fare arte nella città contemporanea, tra le sue forme, i suoi tempi e le sue funzioni è un prendere posizione in uno spazio senza più, o ancora, una funzione definita. Stare nel luogo del divenire scegliendo una pratica che si presenta non solo come progetto ma anche come esercizio di senso per leggere il sistema complesso che è la città contempora-nea, quella forma che unisce gli avanzi dell’architettura e le differenti funzioni degli spazi che si definiscono nel mezzo, nel tra.

Se Matta - Clark lavorava a metà degli anni settanta, nei primi anni novanta - quando la scena urbana e il conte-sto artistico sono nuovamente sottoposti alle radicali tra-sformazioni che un mondo che si sta aprendo alla realtà globale, impone- ancora una volta numerose ricerche di artisti abbandonano lo spazio “protetto” per muoversi non solo tra le forme della città ma ancor più attraverso il flusso indistinto di persone che abitano questa città.

LA CITTÀ COME DOMANDA

Siamo a Londra nel 1992 quando, con Signs That Say What You Want Them To Say And Not Signs That Say What Someone Else Wants You To Say*20, in un quartiere di Londra, Gillian Wearing, con la sua macchina fotogra-fica, ferma alcune persone e chiede loro di scrivere su di un foglio di carta una frase, qualsiasi cosa passi loro per la testa in quel preciso momento. Poi le ritrae in una fotografia nella quale la persona - uomo d’affari, giovane o donna anziana- tiene tra le mani quel breve pensie-ro. Il contrasto tra come la persona appare e quello che dichiara attraverso la scrittura è a volte sorprendente. Un businessman vestito in modo sobrio ha tra le mani la scritta I’m desperate, un bobby ha scritto sul foglio bianco una sola parola: help!.Quando le persone vengono fermate per strada si aspet-tano che gli venga chiesto qualcosa che riguarda il lavo-ro, i soldi, oppure di partecipare ad un test psicologico. Chiedendo invece di scrivere qualcosa, qualsiasi cosa ho voluto creare una differente situazione*21; editing life è la definizione che dà l’artista della sua ricerca.Utilizzando un fare che è distante da quello di Matta - Clark, il chiedere dell’artista inglese è però anch’esso un

in Internationale situationniste, n. 1, Parigi, giugno 1958; trad. it.: Internazionale situazioni-sta 1958-69, Nautilus, Torino 1994.

* 20Cartelli che dicono quello che tu vuoi che dicano e non cartelli che dicono quello qual-cun altro vuole che tu dica. La ricerca di G. Wearing (1963) Turner Prize nel 1997, si muove in campo antropologico, per mezzo di media quali video, fotografia e televisione attraverso cui smaschera gli stereotipi legati alla condi-zione umana, esplorandone la complessità, rivelandone i traumi e le emozioni e andando a toccare temi scottanti quali l’identità e l’auto-rappresentazione.

* 21Wearing, dichiarazione da un’intervista in www.tate.org.uk

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invito a cambiare posizione nella città; offrire alla realtà quotidiana, al consueto, un’altra voce.Immersa nello spazio del molteplice, il fare della Wearing è una pratica di ascolto, un altro esercizio di pensiero per muoversi nel mezzo, di nuovo nel tra, in una situazione nella quale convivono, non sempre pacificate, la dimen-sione pubblica e quella privata, calandosi in quello stato di prossimità che divide l’io dall’”altro”.Non è infatti casuale che l’artista scelga come location dei suoi scatti proprio una metropoli contemporanea, lo spazio nel quale si affiancano identità sociali, stereotipi, modelli imposti. E anche in questo caso, quello che l’ar-tista propone è una visione in profondità, una pratica del guardare che tenta di oltrepassare i confini di ciò che ap-pare e inoltrarsi invece tra lo spessore delle pieghe delle identità per ascoltare l’inaspettata voce di chi viene in-vestito da una domanda che, anche in questo caso, non ha un obiettivo, una funzione precisa e definita ma è co-munque in grado di aprire complesse questioni intorno a quel sottilissimo limite tra ascolto e silenzio, immobilità e azione, cura e oppressione, protezione e controllo.Anche quello di Gillian Wearing è allora un procedere nel sistema complesso che è oggi la città, infiltrarsi non più nei luoghi ma nei pensieri, nelle paure, nelle ossessio-ni, nei sogni e nei desideri dei tanti attori che abitano il contesto contraddittorio del contemporaneo. E anche in questo caso quella che appare è una visione che prova a guardare più in là, oltre.

Andare in profondità: la responsabilità del fare cittàLa città dell’arte, quella costruita come quella attraver-sata, è sempre qualcosa di simile alla costruzione di pae-saggio, di un orizzonte.

I lavori di Matta - Clark e Gillian Wearing sono esempi si-gnificativi per capire come gli artisti possono guardare e intervenire nella città facendo del vuoto, che è anche ano-nimato, il loro strumento d’orientamento. Un vuoto che l’artista americano riempie con una forma geometrica elementare che apre però, e indaga, diversi aspetti: il rap-porto tra la città storica, quella contemporanea e futura; ma anche le relazioni tra forma e contenuto, tra politiche e cittadini, tra usi e immaginari. Il vuoto di Gillian Wearing è invece il non essere delle metropoli che l’artista decide di invertire e riempire con frasi brevi, a volte solo singole parole, tracce e residui di senso.Da entrambi i progetti, e dal loro modo di guardare la cit-tà, emerge in modo evidente la complessità dei luoghi ur-bani contemporanei, luoghi nei quali è sempre più difficile orientarsi.Nei momenti di trasformazione e passaggio, come il pae-saggio, anche la città sembra non rispondere più alla re-gola della mappa. Nel cambiamento la città, con i suoi abi-tanti, si ritrova nel mezzo di un tempo di sfaldamento della stessa idea di sito e di storia. È questo lo stato nel quale ci troviamo oggi a vivere. È questo l’adesso urbano.Se attraverso la storia la mappa è stata utilizzata per im-padronirsi razionalmente del territorio; ora la somma indistinta di immagini, luoghi, e lingue del tempo globa-le che ci avvolge, pare creare un ribaltamento dell’espe-rienza di luogo presentandoci sempre un altrove, un altro tempo, sempre altri*22. La città è per eccellenza il luogo di questo altrove, una forma che accoglie e allontana, apre e chiude confini, cambia funzioni e del futuro ci permette solo di intravedere porzioni di spazi.La città è soprattutto una domanda sul dove siamo? Nell’andare della storia, il corpo urbano è sempre un gio-

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* 22La bibliografia in merito alla nuova idea di geografia e paesaggio contemporaneo è molto amplia. Per un orientamento generale: F. Farinelli Storia del concetto geografico di paesaggio, in AA.VV., Paesaggio. Immagine e realtà, Electa, Milano, 1981; G. Dematteis, Le metafore della terra. La geografia umana tra mito e scienza, Feltrinelli, Milano, 1995; ma anche F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica., Einaudi, Torino, 2006. Per una riflessione specifica sulla mappa: A. Spada, Cos’è una carta geografica, Carocci, 2007.

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co a sommare e a togliere: qualcosa si perde, qualcosa arriva, qualcosa si intravede ma soprattutto qualcosa si scontra, unisce, amalgama a qualcos’altro. La città, quel-la della storia ma ancor più quella contemporanea, è un orizzonte, un paesaggio in prospettiva che ingloba e se-para, un corpo schizofrenico che deve il suo futuro solo a questo continuo movimento; in entrata e in uscita, in al-tezza e in profondità.La struttura stessa della città è un intreccio fitto - e non sempre comprensibile- che unisce il territorio costruito e funzionale (il contenitore) alla fisionomia sociale, mobile e variabile (il contenuto). Una città è allora soprattutto una domanda e solo nel viverla, nell’attraversarla, nell’ascol-tarla possiamo poi trovare una risposta, comunque e sempre temporanea.Solo accettando questa precarietà, l’arte nella città può di-venire davvero un motore di senso, uno strumento d’ana-lisi, un attivatore di pensiero civico, un mezzo d’ascolto e lettura dei luoghi in trasformazione. Ma fin quando le città, i suoi luoghi e i suoi monumenti non sapranno raccontar-ci, fino a quel momento le città rimarranno immobili in un tempo che certo non è più il loro, ancor meno il nostro.Mai come in questi anni, in questo spazio del tra, è ur-gente e necessario creare strumenti diffusi in grado di ricollegare la storia dei luoghi alla nostra biografia, cre-are politiche capaci di attivare un processo, faticoso ma necessario, capace di rinominare e ricollocare la città in relazione ai suoi spazi e in relazione alla comunità che viene*23.Abbiamo già detto che nella città come nella geografia contemporanea, la mappa - fisica ed emotiva- non è più in grado di illustrare le profonde trasformazioni alle quali è sottoposto il territorio di questi anni. Consapevoli di que-

sto disorientamento, gli artisti hanno perciò deciso di in-dagare i territori in profondità, e lo hanno fatto, continua-no a farlo, utilizzando nuovi strumenti d’orientamento.L’aspetto centrale che emerge allora da molte delle esperienze d’arte nelle città di questi anni è un perdersi ed inoltrarsi nella continua metamorfosi della struttura urbana, come nella sua identità sociale. Un andare giù, utilizzando spesso un fare che è sospeso tra passato e presente, individuale e collettivo. Un qui e là. Un attraver-sare e contenere insieme tutti questi aspetti perché una città - viva e attiva- è il terreno della contraddizione, lo spazio del cambiamento. Ascoltare e osservare, attraver-so l’arte contemporanea, le dinamiche, le contraddizio-ni e i conflitti che si sviluppano negli spazi urbani del XXI secolo è un modo per guardare quei luoghi anche da un altro “punto di vista” partendo dal vuoto più che dal pieno, dall’immaginario più che dalla funzione.È solo dando spazio e fiducia a questo guardare dell’arte che può iniziare una particolare ecologia del fare città, un diverso atteggiamento e una maggiore responsabilità da parte degli artisti, degli amministratori, dei cittadini e de-gli operatori nell’affrontare il complesso intreccio di rap-porti che si articolano in questi nuovi luoghi e nell’andare di chi li attraversa.Nel passaggio tra XX e XXI secolo, la flessibilità, la mo-bilità, la leggerezza, la precarietà, la velocità, la rapidi-tà, la molteplicità*24 sono caratteristiche che identifica-no noi e gli spazi che viviamo ed è per questi aspetti che è necessario che le politiche della cultura diano fiducia a questo procedere, a questo modo di pensare e ideare progetti e metodi capaci di fare delle contraddizioni della città un’opportunità che unisce i tempi della Storia e alle narrazioni quotidiane.

* 23G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. “L’essere che viene: né individuale né universale, ma qualunque. Singolare, ma senza identità. Definito, ma solo nello spazio vuoto dell’esempio. E, tuttavia, non generico né indifferente”.

* 24In merito a queste definizioni e in particolare su concetti quali: leggerezza, rapidità e mol-teplicità, uno strumento importante d’orien-tamento per il passaggio tra XX e XXI secolo è la lettura di I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2000.

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Offrire un’altra opportunità alla città, significa provare ad immaginare e dise-gnare temporaneamente pezzetti di spazio, ideare un percorso frammentato e complesso che sia in grado di attivare processi di responsabilità e cura della città: del suo passato ma, non lo si dimentichi, anche del suo futuro.Muoversi in questo spazio prospettico implica timori ed errori ma è anche uno strumento possibile per raccontare la nostra storia, anche quando questa, come ora, è sospesa in un tempo che pare un vuoto.

* Lisa Parola è una delle fondatrici di a.titolo, gruppo di ricerca nato a Torino e attivo dal 1997 composto da critiche e storiche dell’arte contemporanea. Con lei, Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi e Luisa Perlo. Attraverso mostre, progetti all’interno e all’esterno di spazi espositivi, ricer-che storiche e programmi di formazione, a.titolo indaga il rapporto tra arte contemporanea, il territorio e la cittadinanza in stretto contatto con artisti, curatori, scrittori, architetti, designers, urbanisti e operatori sociali.

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