abstracts
abstracts
UN CONOSCERE CONDIVISO Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme 25-27 ottobre 2012
Nemo solus satis sapit (Plauto, Miles gloriosus, 885)
Nei precedenti convegni, dedicati a “La Speranza e la Cura”, Abano Terme 2008, e “Il Fattore Umano”, Peschiera del Garda 2010, abbiamo posto l’attenzione su alcuni temi, normalmente poco frequentati nelle occasioni di incontro, ma fondamentali, perché aiutano a riflettere sulle modalità di conoscenza e di azione nell’ambito delle professioni sanitarie, con particolare riguardo a quelle psico‐sociali.
Siamo oggi ancor più persuasi che l’avere focalizzato gli aspetti umanistici della clinica, così rilevanti nell’agire quotidiano, possa portare ad una rivalutazione e risignificazione del lavoro clinico e della relazione di cura, con le loro motivazioni e soprattutto con i diversi fattori che li caratterizzano e che sono essenziali per ogni operatore, tanto più se appartenente ad un insieme, a un contesto organizzato di rapporti interumani.
Questo convegno intende quindi sviluppare la traiettoria dei precedenti incontri, coinvolgendo e abbracciando trasversalmente l’interesse convergente degli operatori della sanità, non solo del campo psico‐sociale, come già si è verificato nella sessione dedicata al “Lavorare in èquipe” del Congresso Nazionale dell’Associazione Medicina e Persona “Quel minuto in più”, Milano 2011, che ha visto presenti sia medici e infermieri delle diverse aree medico‐chirurgiche specialistiche e di base, che terapisti o educatori.
L’obiettivo é di specificare, declinare ulteriormente e tentare di strumentare tutta la gamma dei fattori umani che si giocano nell’ambito della clinica, entrando in particolare nella questione della condivisione della conoscenza e dell’operatività che si realizza nei gruppi di lavoro sanitari e nel rapporto con pazienti e familiari.
Desideriamo confrontarci anzitutto con essenziali riferimenti teorici, portati da autorevoli studiosi di neuroscienze, di linguistica e di filosofia, e parimenti con l’esperienza emblematica di terapeuti e psicoanalisti di adulti, bambini e famiglie, nonché con modelli di integrazione delle diverse funzioni (medico‐farmacologiche, assistenziali, psicoterapiche, riabilitative, sociali) per gli operatori di un’équipe o di un ambito organizzativo allargato.
L’intenzione è di approfondire la grande tematica del lavorare insieme, dell’équipe ‐ quindi della persona dentro una relazionalità, un gruppo nel suo interagire con gli utenti ‐ come fonte di conoscenza, comunicazione e pratica, nella difficile transizione attuale che fatica a trovare modalità sensate e proponibili di passaggio tra la dimensione dell’individuo e quella della comunità e che, dall’altra parte, è alla continua ricerca di modalità realmente integrate e condivise di concepire l’aiuto e la cura.
Giorgio Cerati
Un conoscere condiviso
Grand Hotel Astro, Tabiano Terme (PR), 25 – 27 ottobre 2012
Giovedi 25 ottobre 1° sessione - Moderatori: Giorgio Cerati, Mario Binasco CONOSCENZA E CONDIVISIONE 17:15 La conoscenza condivisa e il conoscere pratico (Francesco Botturi) 18.00 Il “fattore umano” dall’équipe all’organizzazione (Paolo Rotondi) Discussant: Luigi Ferrannini Venerdi 26 ottobre 2° sessione - Moderatori: Gerardo Bertolazzi, Maria Mara Monetti I NEURONI, NOI E GLI ALTRI 09.15 Abbiamo bisogno degli altri per esprimere noi stessi? Cosa ci insegnano i neuroni specchio?
(Giacomo Rizzolatti) 10:00 L'infinito presente: la sorprendente unicità del linguaggio umano (Andrea Moro) 3° sessione - Moderatori: Fabrizia Alliora, Maria Pia Caretto FAMIGLIA E CONOSCENZA CONDIVISA 11:30 Psicoanalisi con genitori e bambini: la Consultazione Partecipata (Dina Vallino) 12.15 La condivisione della conoscenza nel rapporto tra sistema curante e sistema curato: applicazioni
cliniche (Dante Ghezzi) Sessioni parallele LAVORARE INSIEME CON UN PROGETTO • Le opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno
Moderatori: Angelo Mainini, Sergio Zini Comunicazioni libere: Marco Sala, Pietro Cavalleri, Antonello Bolis, Yuri E. Gaspar
• Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può
Moderatori: Emiliano Monzani, Marina Negri Comunicazioni libere: Felice Achilli, Fernanda. Bastiani, Daniela Linciano, Donatella Sperone, Anna Maria Nicolini
• Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa
Moderatori: T. De Grada, M. Bertoli Comunicazioni libere: Giuseppe Tibaldi, Marco Goglio, Paolo Vanzini
• Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Moderatori: Anna Anzani, Daniele Pellegatta Comunicazioni libere: Michele Bertoni, Daniela D’Onofrio, Marina Mandile / S. Rossi
• Operatori psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e di condivisione di un progetto Moderatori: Daniela Fumagalli, Daniela Piscitelli Comunicazioni libere: Lia Sanicola, Anna Maria Campiotti Marazza, Cesare Moro
• Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti
Moderatori: Michela Marzorati, Elena Mauri Comunicazioni libere: Luisa Bassani, Franca Miola, Paola Stimamiglio
4° sessione - Moderatori: Emiliano Monzani, Maurizio Nicolosi “TRASUMANAR E ORGANIZZAR” 17.00 Sintesi del lavoro dei gruppi “Lavorare insieme con un progetto” 17.30 Lettura magistrale: L’équipe come fonte di conoscenza e di comunicazione (Luigi Boccanegra) Sabato 27 ottobre 5° sessione - Moderatori: Mario Ballantini, Marcello Santi CONDIVIDERE È CURARE? 09.15 L’équipe, il case manager e il modello dell’integrazione funzionale nei disturbi gravi: il lascito di
C.G. Zapparoli (Barbara Pinciara) 09.45 Responsabilità dell’operatore e cura della persona: trattamenti integrati farmacologici,
psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Interventi di Claudio Maffini, Fabio Monguzzi, Mauro Percudani 10.45 Discussione assembleare condotta da Ambrogio Bertoglio 12.00 Conclusioni (Giorgio Cerati)
Responsabile Scientifico: Dott. Giorgio Cerati
Direttore DSM Azienda Ospedaliera Legnano
ABSTRACTS
[ 1 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Conoscenza e condivisione
La conoscenza condivisa e il conoscere pratico Francesco Botturi (Docente di Lettere e Filosofia, Università Cattolica, Milano) La relazione riguarda il fenomeno della condivisione di sapere nell’ambito pratico; cioè nell’ambito in cui le conoscenze sono cercate e organizzate in funzione dell’agire.
Il primo fondamentale rilievo è che in ogni caso, benché in diversa misura, la conoscenza è condivisa. Su ciò la filosofia contemporanea dà attestazioni importanti:
• la verità scientifica è garantita dalla “comunità scientifica” (Popper ed epistemologia contemporanea)
• un linguaggio puramente privato non esiste (Wittgenstein)
• ogni comprensione avviene alla luce di un ideale di “intesa” (Gadamer e l’ermeneutica)
• la conoscenza e la sua verità chiedono “consenso” (Apel, Habermas)
• ogni realtà comunitaria si regge su strutture condivise: pratiche, virtù, narrazione, tradizione (MacIntyre)
Caratteri della conoscenza pratica:
• sapere per operare
• la verità pratica è universale ma in forma “tipologica”
• caratteri dell’argomentazione pratica
• ragion pratica e moralità Condivisione pratica:
• il sapere pratico è trasversalmente sempre condiviso
• la condivisione pratica non è puramente conoscitiva, ma è anche condivisione di motivazioni (assiologia) e di azione (pragmatica): non conosciamo solo la stessa cosa da fare, e la facciamo insieme per gli stessi motivi di valore.
• condivisione e libertà soggettiva
[ 3 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Conoscenza e condivisione
Il “Fattore umano” dall’équipe all’organizzazione Paolo Rotondi (Docente SDA Bocconi, Milano) La relazione riguarda la questione della persona nelle diverse forme dell’ agire collettivo, con lo scopo di individuare le coordinate più importanti del tema per costruire attorno ad esso un conoscere condivisibile(poi si spera condiviso)
Un possibile punto di partenza, che va esaminato seriamente, è la difficoltà a vedere che in fondo équipe(o piccolo gruppo) ed organizzazione sono varianti di uno stesso fenomeno:perché invece è relativamente facile vedere il fattore umano nel primo e non nel secondo?
Ciò che è in gioco è l’ idea del legame sociale, della sua costruzione e delle condizioni per la sua tenuta
Su ciò la riflessione sulle organizzazioni suggerisce alcuni spunti:
il riconoscimento delle organizzazioni come “masse artificiali”(Freud), e le conseguenti riflessioni sulla natura dell’ artificio sono tuttora contrastate da una visione “naturalistica”
questa visione, particolarmente forte nei fondatori delle teorie “scientifiche”sull’organizzazione (Taylor‐Fayol) affida ad un meccanismo impersonale il determinarsi della vita organizzativa
il fattore umano diviene perciò al massimo un accessorio, quando non un ostacolo al funzionamento delle organizzazioni
occorre allora anzitutto liberarsi di questa idea e accedere ad un pensiero organizzativo che veda il fattore umano come fondativo
Se si pensa all’ organizzazione anzitutto come sistema di legami fra persone,si può facilmente recuperare la continuità con l’ èquipe, e riflettere sulle condizioni per un corretto agire nelle due situazioni
Su che cosa fondiamo il nostro agire nelle diverse situazioni di lavoro comune?
Proprio l’ esperienza della vita organizzativa fa emergere la tentazione di affidarsi ad un meccanismo/dispositivo che va avanti da sé,indipendente da responsabilità e investimento personali nel fare accadere le cose.
Invece solo le scelte che ciascuno fa,la disponibilità personale ad investire fanno la qualità della vita organizzativa:
• fiducia • rapporto • soddisfazione • collaborazione
sono le parole chiave per costruire la realtà organizzativa partendo dall’ evidenza che si tratta di una realtà propriamente umana, e che fa perfino sorridere l’ idea che andrebbe chissà come aggiunto ad essa un qualche “fattore umano”
[ 5 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
I neuroni, noi e gli altri
Abbiamo bisogno degli altri per esprimere noi stessi? Cosa ci insegnano i neuroni specchio? Giacomo Rizzolatti (Direttore Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma) Fondamentale per sopravvivere è capire le azioni, le intenzioni e le emozioni degli altri. Nella mia conferenza presenterò una serie di dati che indicano che il nostro cervello possiede un meccanismo specifico –il meccanismo “mirror” o meccanismo specchio‐ che permette di comprendere questi aspetti del comportamento umano. Il meccanismo è il seguente. Il comportamento degli altri (azioni o comportamenti emotivi), dopo essere stato registrato nel sistema visivo, attiva le rappresentazioni motorie dell’osservatore che corrispondono ai comportamenti osservati. Il significato delle azioni e delle emozioni degli altri è capito perché suscita nell’osservatore una esperienza motoria che egli già conosce. Una mediazione cognitiva non è indispensabile. Presenterò, quindi, dei dati che mostrano che l’attività del circuito “mirror” parieto‐frontale ci permette non solo di capire cosa una persona sta facendo, ma di capire anche quali sono le sue intenzioni sottostanti l’azione osservata. Mostrerò infine che il meccanismo mirror esiste per le emozioni. In questo caso il meccanismo “mirror” è localizzato in un circuito che include l’insula. Concluderò discutendo alcune implicazioni sociali di questi dati.
[ 7 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
I neuroni, noi e gli altri
L’infinito presente: la sorprendente unicità del linguaggio umano Andrea Moro (Professore di Linguistica Generale, Scuola Superiore Università IUSS, Pavia ) Dalla seconda metà del XIX secolo, due discipline distinte, cioè neuropsicologia e linguistica teorica, hanno portato a scoperte diverse per quanto riguarda il linguaggio umano: neuropsicologia sulla base di elementi clinici e neuro anatomici ha dimostrato il ruolo selettivo dell’emisfero sinistro del cervello umano nell’elaborazione del linguaggio; dall’altra parte, la linguistica teoretica ha mostrato che una frase grammaticale è il risultato della sinergia di moduli separati, includendo almeno semantica lessicale, (morfo) sintassi e fonologia.
In questa relazione, desidero dimostrare che queste scoperte indipendenti convergono in un modo non banale. Questo viene fatto utilizzando tecniche di neuroimaging (in particolare Positron Emission Tomography, cioè PET e fMRI) che per la prima volta permettono di vedere l'attivazione della corteccia cerebrale umana in vivo. I risultati, basati su una metodologia originale che coinvolge un linguaggio inventato e l'individuazione di errori, quali ad esempio errori selettivi cioè fonologici, sintattici e morfosintattici, prova che le tre componenti attivano separati reti neurali. Inoltre, utilizzando tecniche di neuroimaging si può studiare l'acquisizione del linguaggio a favore dell'ipotesi generativa che la classe dei linguaggi umani possibili è limitata dalla architettura funzionale del cervello e corrisponde approssimativamente ad un sottogruppo specifico di linguaggi ricorsivi, cioè quelle lingue "che fanno un uso infinito di mezzi finiti", per usare l'intuizione di von Humboldt. Questo sarà possibile utilizzando un altro tipo di linguaggio inventato che include tra le regole quelle che non soddisfano i requisiti attribuiti alla grammatica universale, cioè alle regole non‐ricorsive
[ 9 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Famiglia e conoscenza condivisa
Psicoanalisi con genitori e bambini: la consultazione partecipata Dina Vallino (Psicoterapeuta, Membro Ordinario con funzioni di training della SPI e dell’IPA) Nel corso degli ultimi dieci anni ho individuato alcune categorie di bambini che possono usufruire significativamente della Consultazione clinica Partecipata ai genitori. Molti terapeuti dell'infanzia stanno lavorando nei servizi, negli ambulatori e negli studi privati con questo modello di consulenza ai genitori e al bambino. Ciò che accomuna ogni Consultazione Partecipata, indipendentemente dal terapeuta che la conduce, è il sostenere i genitori nel vedere il bambino, come persona, oltre e nonostante la sua patologia. Perciò durante la Consultazione Partecipata è fondamentale l’ attenzione allo sviluppo globale del bambino con un confronto continuo con i genitori per ricostruire la sua biografia, il suo stile di gioco, la sua conversazione ma intercettare anche il suo silenzio e il suo sguardo, spesso i soli indizi di un’intenzionalità segreta.
Quando la condizione iniziale dei genitori è di impazienza per i sintomi del figlio e per il proprio fallimento educativo, da parte del terapeuta è indispensabile aiutarli a stabilire col bambino una relazione affettiva rinnovata che permetta al bambino di sentirsi visto, considerato e amato.
Bisogna interessarsi al "sentimento di esistere” per l'altro di ogni bambino, indipendentemente dai sintomi che presenta o dal suo essere affetto da una malattia grave o da un grave trauma.
Nella riabilitazione con bambini gravi ci si interroga, con proposte alla madre e al padre, come accedere al sé del bambino, al suo mondo di emozioni e pensieri quando la sua percezione somato‐psichica, il sé corporeo, è alterato. Infatti anche l'utilizzo del gioco come strumento specialistico di cura deve essere inventato ex‐novo, perché la maggioranza dei bambini gravemente malati o disabili non sa giocare. E invece bisogna fare emergere il sé del bambino e sostenerlo nel divenire protagonista nel comunicare intenzioni, desideri, emozioni, fantasie.
Nelle separazioni conflittuali e nella crisi della famiglia l'utilizzo del gioco narrativo nella consultazione partecipata può permettere ai genitori di comprendere l’angoscia del loro figlio e al bambino di sentirsi ascoltato e compreso nonostante le difficoltà del momento.
Nelle consultazioni con famiglie di altre culture, l'osservazione attenta e rispettosa della comunicazione nel gioco spontaneo ci permette di avvicinarci alle difficoltà e alla comprensione dei sintomi anche di quei contesti socioculturali più lontani dai nostri.
[ 11 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Famiglia e conoscenza condivisa
La condivisione della conoscenza nel rapporto tra sistema curante e sistema curato: applicazioni cliniche Dante Ghezzi (Psicoterapeuta, “Scuola Maria Selvini Palazzoli”, Milano) "La relazione verterà sul passaggio di informazioni tra genitori e figli durante una seduta familiare, collocabile o nel contesto di una terapia di coppia, in una singola seduta allargata ai figli sia per poterne osservare direttamente il comportamento, sia per rassicurarli riguardo al fatto che i genitori ricevono aiuto; oppure nel contesto di situazioni di difficoltà educative dove occorre cogliere le ragioni dell'inefficacia educativa genitoriale per inaugurare un ciclo più positivo e virtuoso.
La parola sarà data, col permesso dei genitori, in primo luogo ai figli. Si ipotizza sia una situazione con figli piccoli di età prescolare e fino ai 12 anni, sia una situazione con figli più grandi con problemi adolescenziali. Nel caso dei figli più piccoli gli stessi saranno intervistati prima sui comportamenti graditi di ciascun genitore, poi su una situazione in cui papà o mamma sono stati un po' fastidiosi o antipatici. Solitamente i bambini, rassicurati dai genitori che si fidano del terapeuta, portano interessanti contributi informativi che possono incuriosire o stupire i genitori. Successivamente i bambini vengono chiamati a dire come si comporterebbero, in una certa circostanza, se fossero il papà o la mamma; anche in questo caso la maggioranza dei bambini porta contributi interessanti che denotano una attenta osservazione delle relazioni tra i grandi e stupisce i genitori per la puntualità dei contributi. Spesso, nel caso di problemi educativi, si propone a tutti i membri del nucleo, di contribuire con un proprio cambiamento di comportamento anche modesto al miglioramento del benessere familiare; anche in questo caso i bambini, prima ancora dei genitori, appaiono creativi e sensati. La conclusione della seduta, anche attraverso il commento dei genitori alle parole dei figli, permette di sottolineare la ricchezza dei contributi emersi e il ruolo di osservatore/attore non marginale dei figli. In analogia a quanto espresso per i figli più piccoli, nelle sedute con figli adolescenti e genitori, in una situazione più complessa e non di rado conflittuale, si stimolano alcune dinamiche comunicative meno immediate ma non meno interessanti, sempre allo scopo di fare fluire informazioni solitamente non fruite.
Si ritiene che la facilitazione comunicativa tra figli e genitori abbia un effetto mobilizzante nel nucleo e possa favorire un incremento di reciproca comprensione e quindi conclusivamente di benessere.
La relazione presenterà vignette di casi.
[ 13 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Le opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno
La conoscenza condivisa: la sfida della corresponsabilità Marco Sala (Direttore Generale Associazione La Nostra Famiglia – IRCCS Eugenio Medea, Pontelambro ‐ Co)
Nascita di un soggetto L’Associazione La Nostra Famiglia è nata nel 1937 dal desiderio di un gruppo di giovani donne di vivere intensamente una responsabilità verso coloro che incontravano e che avevano una domanda di salute e di educazione. Una responsabilità e una passione che era stata suscitata dall’incontro con un sacerdote cattolico don Luigi Monza. Conoscere la natura dell’origine di tale opera aiuta a comprendere la sua irriducibilità rispetto al condizionamento delle circostanze (conflitti, crisi economiche, cambiamenti culturali e politici).
Incontro con un bisogno e il contraccolpo organizzativo L’Associazione non ha avuto uno sviluppo organizzativo e gestionale pianificato a priori, ha, viceversa, dovuto subire l’iniziativa degli incontri che, nel tempo ha fatto. Ha incontrato il bisogno di accoglienza, di educazione, di salute e di conoscenza. All’origine del metodo di lavoro dell’Associazione stanno alcune grandi e semplici domande suscitate dai genitori di bambini affetti da patologie disabilitanti:
1. Cosa è successo a nostro figlio? Il problema della conoscenza dei fenomeni eziopatogenetici delle patologie disabilitanti sta all’origine dell’attività diagnostica e, successivamente, delle attività di ricerca
2. Cosa si può fare per lui? Lo studio e la formulazione di protocolli terapeutici riabilitativi ha sempre occupato un grande spazio nell’attività di LNF
3. Chi può aiutarci? Lo sviluppo di una rete di centri territoriali è stata la grande intuizione dei promotori dell’Associazione. Centri che sorgevano a seguito di una domanda espressa direttamente. La stessa domanda ha, da subito, suscitato anche una preoccupazione formativa
Riconosciuta dal sistema pubblico L’Associazione che ha iniziato l’attività sanitaria di riabilitazione nel 1946 ma solo nel 1954 ha ottenuto un pieno riconoscimento pubblico si è sviluppata in tutto il territorio nazionale attraverso un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS distribuito in 4 poli regionali); 25 Centri di riabilitazione a differente complessità; 2 Residenze sanitarie per disabili adulti; 2 Case famiglia per minori o giovani adulti; 1 Centro accoglienza per bambini con sindrome da maltrattamento; 3 Centri di formazione professionale; Centri di formazione guidata al lavoro; 5 Corsi di Laurea delle professioni sanitarie; 5 Sedi estere gestite da società affiliate.
[ 14 ]
Peculiarità irrinunciabili L’origine dell’opera ha, da subito, maturato alcune peculiarità che sono rimaste irrinunciabili anche durante significativi cambiamenti dovuti ad una espansione frenetica, specialmente negli anni 90. Queste sono:
• Lettura globale del bisogno del bambino
• Presa in carico adeguata e costituzione del punto di riferimento per tutte le dimensioni sociali della famiglia
• Continuità dei processi di assistenza sanitaria, riabilitativa e sociale
• Processi di cura e riabilitazione sostenuti dalla ricerca e dal principio di efficacia
• Confronto continuo con il sistema di programmazione suggerito dalle autorità pubbliche competenti
• Libertà di rispondere alle esigenze religiose, culturali e personali di coloro che si rivolgono ai nostri servizi
Tutto questo ha fatto maturare nel tempo una autorevolezza nella gestione dei servizi di neurologia, riabilitazione e psicopatologia dello sviluppo che, ha di fatto, concorso se non anticipato i contenuti e l’organizzazione della risposta del sistema pubblico sia nei servizi teritoriali che nell’attività ospedaliera
Tentativo di integrazione con il sistema pubblico: l’accreditamento Cosciente di dover partecipare alla costruzione di un sistema socio sanitario pubblico l’Associazione ha aderito ai processi di accreditamento regionale ovunque questi si siano stabiliti. Questo ha comportato anche una mutazione identitaria rispetto al sistema dei covenzionamenti classici relegando il rapporto con l’utente ad un ruolo di semplice erogatore di servizi Il processo di accreditamento, di fatto, ha separato la lettura del bisogno e la conseguente capacità di organizzare una risposta adeguata dall’erogazione di servizi standard decisi dall’ente accreditante. Tutta la sofferenza che il nostro ente sta vivendo in questo momento di crisi è determinato da questa separazione che colpisce un aspetto fondamentale della nostra storia e delle ragioni per cui l’opera è nata e ha resistito nel tempo
L’origine della corresponsabilità è una affezione In questo momento di crisi in altri ambiti lavorativi sarei tentato di dire che il fattore economico è quello decisivo. Nell’Associazione La Nostra Famiglia è utile tenere conto invece della originale posizione di chi ha iniziato quest’opera: questa non era basata innanzitutto sullo scandalo delle debolezze umane, ma sulla coscienza di un gruppo di giovani cristiane che affermavano: “noi assistiamo, lavoriamo, tentiamo di dare risposte ai nostri interlocutori, solo in virtù del fatto che siamo stati amati per prime…”. La memoria di questo debito affettivo ha reso lieto e produttivo incontrare il bisogno e tentarne una risposta umana. Tutta l’opera è cresciuta attorno a questo fatto.
La sfida della corresponsabilità Quello che mi ha sempre colpito di quello che sta nel codice genetico de La Nostra Famiglia, è la pretesa che questa ritenga irrinunciabile la propria diversità. Infatti al suo interno l’assunzione di una qualsiasi forma di corresponsabilità non è un opzione che l’operatore può, a sua discrezione decidere di cogliere. Vi è come una vertiginosa pretesa che l’immagine dell’opera, la sua particolare modalità di funzionamento, le sue dinamiche interne, siano caricate sulle spalle di tutti coloro che accettano di condividerne l’avventura.
[ 15 ]
E’ possibile sostenere questa sfida E’ possibile sostenere questa diversità solo se la si riconosce come un bene per sé e questa riconoscimento è confortato da una amicizia operativa tra coloro che direttamente o indirettamente si sentono responsabili, in prima persona, della vita e della durata dell’opera.
Altre volte ho sottolineato che la portata della sfida che questa opera pretende verso chi vuole essere corresponsabile della sua storia (e della sua diversità senza la quale non sarebbe un bene per tutti), esige la presenza di uomini veri. Presenti con la propria intelligenza il proprio cuore e la propria dedizione. In una parola l’opera deve essere guidata da un gruppo che “tiene” su questa tensione positiva innanzitutto come bene per sé.
L’oggetto ultimo dell’opera Il dato misteriosamente più delicato della vicenda è quello relativo all’oggetto ultimo della diversità che sta al centro dell’originalità dell’opera. Questo oggetto chiede (direi pretende) un affezione che nessun rapporto di lavoro può esaurire completamente. Un affezione che, come tale, non richiede una contropartita valoriale efficace. Un affezione che chiede solo una merce preziosa che, senza l’intervento del divino, cioè di un esperienza amorevole vissuta, non sarebbe possibile: la gratuità.
Certo la gratuità è possibile solo se si è ricevuto un bene incommensurabile e questo è un dato con il quale ognuno di noi deve fare il suo personale riscontro.
[ 17 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Le Opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno
Pietro R. Cavalleri (Direttore Clinico, Fondazione AS.FRA Onlus, Vedano al Lambro, Monza e Brianza)
1. Premessa: che cosa è un’opera? La prima questione che si pone in relazione al tema dato, è una domanda sulle realtà che sono poste a soggetto del tema stesso, vale a dire le “opere”. Che cosa è una “opera”?
La domanda costringe a cercare una definizione comprensibile, svincolata dalla necessità di introdurre preventivamente dei requisiti che ne possano condizionare l’ambito di validità, ad esempio: “Un’opera è qualsiasi iniziativa o impresa con finalità sociali‐caritative‐culturali, che nasce per iniziativa di aderenti alla compagnia delle opere”. Che cosa occorre affinché una impresa abbia il carattere dell’opera? Un’opera è una iniziativa che ha impatto sociale ed economico, in cui si pone particolare attenzione affinché chi ne è coinvolto abbia occasione di sperimentare continuamente il nesso tra il prodotto del lavoro e il suo senso. Le riflessioni che seguono vorrebbero chiarire il senso di questa affermazione. 2. Possiamo considerare AS.FRA. un’opera? Sue peculiarità. AS.FRA. è una realtà che preesisteva e che abbiamo incontrato, esattamente come si incontra qualsiasi altra circostanza o opportunità. Quando l’abbiamo incontrata si presentavano 2 condizioni: dal punto di vista della sua storia, era trascorso un tempo sufficiente a rendere evidente una scollatura tra la motivazione originaria e l’attualità. Inoltre, si presentava una esigenza‐urgenza di riorganizzazione dell’opera affinché potesse permanere all’interno del SSR, operazione che comportava un profondo cambiamento gestionale, logistico, funzionale. La preoccupazione che ci ha mosso non era, in prima istanza, riconnettersi all’ispirazione originaria, ma connettersi a un fattore che – nell’attualità – desse senso e consistenza al lavoro in atto, da parte dei tanti che vi erano coinvolti. Come individuare questo fattore? In una istituzione sanitaria l’individuazione di questo fattore è assolutamente semplice, perché tutto ciò che si fa riguarda direttamente la persona. La persona è il punto di applicazione dell’atto sanitario, così che diviene immediatamente percepibile che un atto sanitario, qualunque sia il suo scopo immediato all’interno della strumentazione tecnica utilizzata deve – per essere benefico – accogliere, salvaguardare e proteggere il nucleo positivo che ogni persona contiene. Questa verità è ancora più evidente per l’atto terapeutico che si confronta con il disagio psichico: per curare qualcuno occorre riuscire a individuare dentro quel qualcuno, qualcosa che possa essere stimato (c’è chi ha chiamato questo qualcosa “domanda”). Il rapporto terapeutico è un formidabile attivatore della domanda: messi a confronto con la domanda di senso del paziente, i nostri neuroni specchio (in realtà un circuito molto più complesso del neurone specchio) portano al ribaltamento di questa domanda su di noi stessi, e sulle risposte che ci siamo date, e le rimettono in questione. Ecco perché le istituzioni a carattere sanitario (o assistenziale) rappresentano un contesto assolutamente privilegiato per chi vi lavora: perché occupandosi del bisogno dell’altro, ciascuno è costantemente rinviato al proprio bisogno e al bisogno di chi lavora al proprio fianco.
[ 18 ]
Ma dobbiamo raccogliere anche un’altra osservazione, perché se ci fermassimo a questa, commetteremmo l’errore – intriso di ingenuità e di moralismo – di tante istituzioni sanitarie che conosciamo, che non sanno riconoscere nella condizione di privilegio sopra descritta (ossia nella continua esposizione alla luce abbacinante della domanda di senso e della domanda di senso per sé) anche un fattore usurante, che può portare alla presa di distanza cinica e al nichilismo. NB. Quando ci dicono che il burn out rappresenta il rischio che corrono gli operatori sanitari, ci dicono una sciocchezza e una falsità, perché è l’arroccamento nel nichilismo ad essere il vero rischio connesso con le professioni sanitarie. Il burn out, come tutti i momenti di crisi, può avere un effetto fecondo, di ripresa della domanda e di maturazione. 3. In che modo il lavoro quotidiano può essere/diventare ”opera”? Se una realtà di lavoro diviene “opera” avviene una cosa un po’ paradossale, che riguarda – per così dire – il rimescolamento dei requisiti che fanno distinguere soggetto e oggetto. Infatti, se siamo alle prese con un’opera, ci rendiamo conto che soggetti dell’opera non sono soltanto coloro che la fanno, ma anche coloro che se ne servono; reciprocamente: oggetto dell’opera non è solo il prodotto dell’opera o colui che ne fruisce, ma anche tutti coloro che concorrono a farla, ossia: anche coloro che vi operano se ne possono avvantaggiare. Mettere a fuoco e tenere presente il 2° aspetto, ossia che un’organizzazione diventa opera se assume nel proprio orizzonte di impresa quanto detto inizialmente, cioè chi ne è coinvolto abbia occasione di sperimentare il nesso tra il prodotto del lavoro e il suo senso, è il compito più critico e delicato, perché significa tener fede al pensiero che attraverso la partecipazione all’opera, chiunque delle persone che vi lavorano trovano un’occasione vantaggiosa per la loro vita: possibilità di sentirsi utili, di trovare un senso alla fatica, sostegno, rispetto, solidarietà, apprezzamento ecc., a prescindere dal fatto che essi stessi posseggano una chiave di interpretazione di ciò che stanno vivendo e soprattutto dal fatto che condividano o “sappiano” già ciò che deve accadere o che si possono aspettare. Detto in altri termini: i soggetti che fanno l’opera non sono solo coloro ai quali noi riconosciamo la competenza riguardo allo scopo, ma sono tutti coloro che sono coinvolti nell’opera, con la consapevolezza che ne hanno, con i dubbi. Ci sono molti soggetti agnostici riguardo allo scopo dell’opera, ciò nonostante sono attori a pieno titolo di quest’opera, per il semplice fatto che chi incontra l’opera l’incontra tramite loro. Allora si tratta di rispettare e stimare la consapevolezza che ciascuno ha del lavoro che fa e di valorizzare il bene che è contenuto ed espresso da ciascuno. Nota bene sull’organizzazione In un’impresa che voglia essere “opera” non solo i rapporti personali risultano caratterizzati da una particolare impronta, ma anche l’organizzazione del lavoro deve modificarsi, allo scopo di essere sintonizzata con quanto detto sopra. Per questo, nell’organizzazione del lavoro di una impresa che sia opera, a ciascuna persona che vi lavori devono essere chiari tre aspetti:
a) quali sono le responsabilità connesse al proprio ruolo, funzione o mansione; b) quali funzioni aziendali (e persone) assumono le responsabilità che oltrepassano quelle specifiche
della propria funzione (ossia le persone il cui lavoro consiste nell’aiutare le altre a svolgere il loro compito).
c) Insieme a queste, è necessario che il lavoratore sappia che l’organizzazione considera che le idee che a lui possono venire riguardo al lavoro e alla sua organizzazione sono benvenute, e che vi sia uno spazio all’interno del quale possano essere espresse e discusse.
[ 19 ]
4. Conclusioni Non so quanti (operatori, familiari, colleghi dei Servizi) direbbero: “Ma è evidente che AS.FRA. è un’opera”, ma non è questo che interessa, perché non è questo il punto. Il punto non è l’etichetta. La preoccupazione di dichiarare il senso del lavoro e dell’opera, non può diventare un peso supplementare a quello del lavoro stesso. È esattamente il contrario: la consapevolezza del senso del lavoro, semmai, ne allevia il peso e dà continuamente l’energia per riprendere. Il punto è che in chiunque resta coinvolto dall’opera (stabilmente o occasionalmente) si produca un’esperienza, per la quale si senta accolto, stimato, valorizzato e possa accostarsi a una speranza. Si tratterà poi di un lavoro suo, quello attraverso il quale giunga a chiedersene il perché. Il nostro compito è mettere in moto questa domanda, non anticipare la risposta. Anzi: guardarci bene dal farlo (non si tratta di affermare un principio di autorità, ma confidare nella libertà). Dobbiamo credere nella libertà: il senso del proprio lavoro, ciascuno deve poterlo stabilire da sé, anche se trova un senso differente da quello che rende per me sensato lavorare. Inviterò costui a tenere sempre presente il suo senso e ad andarvi a fondo, per attingere la sua energia e rinnovare la sua motivazione all’impegno. Solo in questo modo potrà passarla liberamente a un vaglio critico, approfondirla, maturarla, riformularla, correggerla o cambiarla.
[ 21 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Le Opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno
Introduzione del Lavoro sulla esperienza elementare nella Facoltà di Psicologia della Università Statale in Brasile come lavoro di équipe Miguel Mahfoud, Roberta Vasconcelos Leite, Yuri Elias Gaspar, Licia Caetano Maia
Dipartimento di Psicologia, Faculdade de Filosofia e Ciências Humanas, Universidade Federal de Minas Gerais, Belo Horizonte, Minas Gerais, Brasile
Il concetto di “esperienza elementare” e di Antropologia Filosofica sviluppata da Luigi Giussani sono stati presi come fonte di elaborazioni teorico‐metodologiche in diversi campi del sapere in tutto mondo. Il Grupo Experiência Elementar em Psicologia: estudo, pesquisa e intervenção è nato come continuità del lavoro del Prof. Dr. Miguel Mahfoud, della Università Federale di Minas Gerais – UFMG (Brasile), che si è dedicato a sviluppare il concetto di esperienza elementare in psicologia e scienze humane. Lo studio delle Discipline sull’esperienza elementare nella UFMG è iniziato nel 2005, basandosi sul libro Il senso religioso, di Giussani. Aluni formati in queste discipline hanno iniziato delle ricerche sul tema, orientati dal Prof. Mahfoud, presentandole in eventi e pubblicazioni scientifiche. Dopo la realizzazione del Simpósio Internacional e Interdisciplina sobre Experiência Elementar (2009), per rispondere al bisogno di formazione in psicologia dei fondamenti della esperienza elementare, il prof. Mahfoud ha constituito il Grupo Experiência Elementar em Psicologia. Attualmente la formazione offerta dal Gruppo è iniziata con due vie: le discipline Experienza Elementare I e II, offerte ai laureandi in psicologia nella UFMG; o il corso Introduzione alla Experienza Elementare, offerto sia nella UFMG, sia in università statale di altre regioni brasiliane: USP e Unifesp. Fino a agosto del 2012, circa di 450 persone hanno ricevuto questa formazione iniziale. Nel 2010 è iniziato un corso di doppio laurea nella UFMG: il I Corso di Perfezionamento in Experienza Elementare in Psicologia, composto da 4 moduli semestrali, che approfondiscono il pensiero di Giussani, la sua originalità e le implicazione per la psicologia, studiando anche alcune di suoi autori di riferimento (Blondel, Von Baltashar, Guardini, Woytila, Agostinho, Tomás de Aquino) , ricercatori che sviluppano i suoi contributi (Bernareggi, Bersanelli, Borghesi, Esposito). In ogni modulo, una delle lezioni è svolta da Pierluigi Bernareggi. Nel luglio 2012, finito il primo ciclo di questa formazione, 49 persone hanno partecipato ad uno o più moduli. Gli incontri bimensili Experiência Elementar em Psicologia: desafios da atuação profissional danno continuità a queste percorso: persone che già hanno concluso i moduli sistemano le loro esperienze applicando l’esperienza elementare nei diversi campi di attuazione della psicologia. Il Gruppo realizza inoltre , come attività di intervento:
- il Programma di Orientamento Vocazionale DECISÃO;
- la supervisione di alcuni psicologi che basano loro pratica nella experienza elementare;
- la supervisione alla equipe del Nucleo de Appoggio a Vittime di Crimini Violenti di Belo Horizonte.
Preparandosi alle attività che saranno sviluppate, all’ inizio di ogni semestre il Gruppo realizza un “ritiro di studio” per approfondire temi delli corsi, così come sistematizzare il materiale prodotto durante le lezione, che sono sempre registrate in audio, trascritte e riviste con lo scopo di pubblicazione. Ogni membro del
[ 22 ]
Gruppo prepara 3 o 4 lezioni per semestre che sono discusse in equipe, alla presenza di tutti e valutate collettivamente. Tali momenti di preparazioni e valutazioni delle lezione seguono gli incontri settimanali del Gruppo, occasione in cui si dibattono temi che richiedono approfondimento,cercando di rimanere attenti ai rapporti nella équipe, con alunni e clienti,.Come prossimo passo, si sta organizzando il proseguimento della doppia‐laurea con il II Curso de Aperfeiçoamento em Experiência Elementar em Psicologia. Infatti nell’agosto di quest’ anno, è stato pubblicato il libro Experiência Elementar em Psicologia: aprendendo a reconhecer del prof. Miguel Mahfoud.
In sintesi potremmo dire che il lavoro del Gruppo cerca di costruire un nuovo riferimento nel nostro contesto culturale e scientifico, affrontando questione forti come “relativismo ed idealismo”, “storicismo ed struttura umana”, utilizzando anche il riferimenti e le esperienze nate nel contesto religioso della nostra storia e che diventano proposte valide per ogni condizione umana.
[ 23 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può
In equipe si può Fernanda Bastiani (Medico di Medicina Generale, Parma)
La collaborazione fra Medicina Generale e Psichiatria , due discipline con molti livelli di affinità e molti pazienti in carico comune , nasce in Emilia Romagna alcuni anni fa e ripercorre, attraverso un progetto condiviso da entrambe le parti, esperienze spontanee di aggregazione fra Medici di Medicina Generale e psichiatri, sorte in regione un po’ ovunque .
Il programma Leggieri, così chiamato dal nome del Medico di Medicina Generale che lo ha ideato, è stato adottato dalla regione fra i percorsi di salute che ha definito come prioritari.
Esso ha formalizzato una collaborazione che in alcune provincie era già fattiva, attraverso un modello a gradini di intensità di interazione progressivi (modello stepped care) .
In un contesto in cui è favorita la collaborazione e l’integrazione fra professionisti il programma Leggieri ha fornito nuove occasioni e spunti di incontro, rendendo stabili i legami , non solo professionali ma umani, e migliorando anche in modo sensibile la qualità delle cure prestate.
Il nuovo assetto organizzativo territoriale , Le Case della Salute, ha realizzato infine strutture in cui convivono ambulatori di MMG, psichiatri di riferimento, servizi sociali etc. facilitando la presa in carico in équipe.
[ 25 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può
Il conoscere condiviso fondante l’équipe: l’approccio speciale Daniela Linciano ((Dipartimento Salute Mentale, Garbagnate M.se) Vorrei riflettere su quali siano i fattori fondanti di una équipe, partendo dal presupposto che essa non sia un semplice “aggregato di persone” che si trovino, per circostanza fisica o di obiettivi comuni, a lavorare insieme, ma un gruppo di colleghi che condividono profondamente il modo di guardare alla realtà che si pone innanzi, sia che si tratti di una persona, cioè di un paziente, ma anche quando ci si trovi a dover affrontare una situazione problematica tecnica e/o organizzativa da risolvere.
A mio avviso ciò che fonda il lavoro di équipe è il tipo di sguardo che venga posto dinnanzi alla realtà emergente, uno sguardo che parta da una condivisione profonda sul senso della provocazione che il reale pone di volta in volta nelle differenti circostanze della vita.
Tale condivisione non si fonda sulla comunanza di formazione e neppure su quella di ideali, che pure sono fattori che se condivisi aiutano!
Penso invece che ciò che ponga delle straordinarie basi per una reale condivisione, anche all’interno di un’équipe professionale, siano elementi peculiari quali: il desiderio di lasciarsi provocare in profondità da tutti i fattori implicati nella circostanza che si ha davanti e la disponibilità a mettersi in gioco personalmente.
Questi di fatto generano quello sguardo comune, identificativo di una vera équipe. Sguardo che ben lungi dall’essere omologato, cosa che potrebbe al massimo scaturire dalla sola comunanza di formazione o di ideali, si contraddistingue per il suo essere sempre personalissimo, perché posto da ciascuno davanti alla circostanza secondo la propria sensibilità individuale.
Dunque l’espressione della propria individualità e sensibilità personale non si contrappone all’appartenenza ad una équipe, ma ne caratterizza la vitalità e la forza.
Del resto sempre la realtà implica la relazione con “un altro da noi” e ci chiede di rispondere in prima persona assumendoci la responsabilità della cura sia della malattia, che della relazione.
Esprimiamo nella nostra professione una pienezza di responsabilità nel rapporto con l’altro, che si rivolge a noi, per l’incombenza di un bisogno, a volte anche articolato e complesso, ma che quasi mai si limita ad essere quello espresso con l’insieme della sintomatologia manifesta.
Spesso emergono plurimi aspetti sindromici, che necessitano di una valutazione ed eventualmente di una terapia integrata, che potrebbero avvalersi del coinvolgimento di colleghi. Ecco allora che, sia che lavoriamo in un contesto gruppale (ospedale, poliambulatorio, ecc.), sia che lavoriamo da soli in studio, riusciremo a sostenere con una risposta integrata il bisogno completo che il paziente esprime, laddove sarà costituita quella trama di condivisione data da uno sguardo comune al reale. Laddove questa manca lavoreremo come delle monadi solitarie nei nostri studi individuali, o al massimo invieremo il paziente alle
[ 26 ]
altre monadi isolate che costituiscono un aggregato di professionalità, che lavorano fisicamente nello stesso luogo.
Dunque è sempre possibile ed aperto un lavoro di équipe anche quando si lavora da soli. Intendo dire che, se per esempio io come psicoanalista vedo un paziente, rispetto al quale sento utile l’intervento di altre figure professionali di supporto a lui od anche ai suoi familiari, mi sarà tanto più facile prendere il telefono e sentire un collega cui affidare quell’integrazione che mi sembra necessaria, nella misura in cui conosco dei colleghi il cui sguardo alla realtà sia, non soltanto affine alla mia sensibilità, cosa che se c’è è utile, ma non indispensabile, ma che soprattutto condivida con me una modalità di approccio al reale secondo tutti i suoi fattori, come fin qui descritto.
Condividere questo sapere è base del lavoro insieme, e rende possibili esistenze di équipe solo in apparenza virtuali, ma nella sostanza concrete e reali, anche dove lavorare insieme non è fisicamente dato, come accade a me quando lavoro come psicoanalista nel mio studio privato, nonché a molti di voi che sono medici di medicina generale, nella quotidianità del lavoro di ambulatorio.
Come medici ed operatori sanitari nessuno di noi può sostenere che il bisogno vero che ci viene portato sia circoscritto ad un sintomo o ad una malattia.
Abbiamo a che fare con delle persone il cui bisogno è sempre quello di una relazione completa: di un approccio speciale.
[ 27 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può
Donatella Sperone (Medico di Medicina Generale, ASL 2 Torino) Sono un Medico di Famiglia convenzionato con l’ASL 2 di Torino ( ho circa 1000 assistiti in carico); parte della mia esperienza lavorativa si svolge in condivisione con altri operatori attraverso due modalità : una “istituzionale” in quanto faccio parte di un gruppo di Medicina in Rete, l’altra è la mia collaborazione con l’Associazione di Volontariato “Il Cammino”.
Per quanto riguarda la prima esperienza nel gruppo di medicina in rete siamo 5 medici di famiglia che lavorano in 2 sedi differenti nello stesso quartiere e condividiamo tramite un server le cartelle cliniche informatizzate dei nostri pazienti, garantendo un orario complessivo di apertura degli studi di circa sette ore giornaliere fino alle 19 dal lunedì al venerdì con la reperibilità del sabato mattina per le visite domiciliari urgenti. Questo tipo di collaborazione è soltanto funzionale ad un coordinamento negli orari di apertura studio e non comporta una reale condivisione di obiettivi e metodi di lavoro, se non con la collega che si trova nel mio stesso studio, la dott. Monica Vianelli, con cui c’è una collaudata esperienza di collaborazione: entrambe abbiamo reciproca conoscenza dei pazienti per cui siamo in grado di affrontare le urgenze ed inoltre ci confrontiamo molto sulla modalità di gestione dei casi clinci o dei vari problemi burocratico‐normativi così frequenti nel nostro lavoro.
Per quanto affermato prima io e la dott. Vianelli non abbiamo accettato per ora di formare una medicina di gruppo con gli altri colleghi, anche sconfortate da altre esperienze di studi nella nostra asl dove i medici litigano fra di loro, condividono lo studio ma ciascuno si porta dietro la sua segretaria personale oppure sciolgono dopo breve tempo il gruppo stesso.
Diversa è invece la collaborazione che ho in atto da anni con l’Associazione di volontariato il Cammino, che ha realizzato nel quartiere diverse opere di sostegno alle famiglie e di educazione dei giovani. Quest’associazione è animata dalle Suore di carità dell’Assunzione, che sono da molti anni una vivace presenza cristiana nel quartiere : al suo interno lavorano alcune infermiere professionali e altri volontari che gestiscono un ambulatorio sanitario. L’ambulatorio offre quotidianamente e gratuitamente prestazioni infermieristiche ( iniezioni, medicazioni, rilevamenti pressione, misurazione glicemia e INR) e si avvale della collaborazione di un’ equipe di medici specialisti ( chirurghi generali, chirurghi vascolari, ortopedici, diabetologi). Questi operatori offrono anche numerosi interventi domiciliari rivolti a minori, anziani, malati terminali, portatori di handicap.
Insieme alle infermiere e ai volontari del Cammino posso seguire pazienti fragili e/o con malattie croniche ( dal 2005 al 2010 ne abbiamo seguiti in tutto 41 ), sia al loro domicilio che con interventi effettuati nel mio studio medico e nell’ambulatorio dell’associazione per le prestazioni infermieristiche.
Il metodo da noi seguito si può sintetizzare in due aspetti:
• Identificare il bisogno reale e globale (medico, infermieristico, assistenziale, umano) di cura del singolo paziente e della sua famiglia o del care‐giver
[ 28 ]
• Valorizzare ogni risorsa del paziente e dei suoi care‐givers attraverso un opera di educazione alla salute
Ne deriva una tipologia di intervento flessibile e personalizzata sia nella modalità che nell’intensità e durata degli interventi.
Seguiamo infatti tipologie di pazienti molto diverse : pazienti con gravi ulcere diabetiche o vascolari, pazienti terminali, pazienti anziani soli con pluripatologie croniche ( diabetici, cardiopatici, broncopneumopatici), pazienti con problemi di salute complicati dalla presenza di patologie psichiatriche o situazioni sociali drammatiche, pazienti anziani non deambulanti che effettuano terapia anticoagulante con coumadin.
Per queste tipologie di pazienti l’asl prevede dei servizi domiciliari, oltre alla cura del Medico di famiglia, ma questi spesso non sono sufficienti o adeguati perché pongono dei prerequisiti alla loro attivazione legati a scelte organizzative o a limitatezza delle risorse. Soprattutto è sempre richiesta la presenza di un valido care‐giver che molti non possono avere; spesso uno sguardo più attento può individuare un care‐giver che però necessita di supporto o meglio conforto ed educazione ( pensiamo alle coppie di anziani che si aiutano a vicenda ma per cui è difficilissimo districarsi nella burocrazia sanitaria per fornitura di ausili, invalidità prenotazioni esami o capire il funzionamento di apparecchi sanitari tipo glucometri o misuratori di pressione). Inoltre ci sono casi di patologie che necessitano di medicazioni infermieristiche quotidiane e attente mentre l’asl può dare solo passaggi settimanali, oppure c’è bisogno di interventi estemporanei (pedicure per la prevenzione del piede diabetico o toeletta intestinale per prevenire le sub occlusioni negli anziani).
Ma soprattutto mi sembra che il lavoro con Il Cammino sia un vero lavoro in equipe. Innanzitutto abbiamo un chiaro obiettivo in comune: uno sguardo al malato come persona con il mio stesso bisogno di salute e il desiderio di accompagnarlo in un percorso di cura e di educazione alla salute, senza la pretesa di risolvere tutti i suoi problemi, ma utilizzando intelligentemente tutte le risorse disponibili.
Questo obiettivo comune genera un metodo di lavoro per cui ciascuno può imparare dall’altro: tante volte mi accorgo che infermieri e volontari vedono meglio di me i concreti bisogni che il malato ha in un determinato momento e dare credito a loro non sminuisce ma anzi arricchisce la mia professionalità di medico. Inoltre cerchiamo di superare il concetto di occuparci soltanto di ciò che è di nostra stretta competenza: c’è infatti una competenza del medico di famiglia, una dell’infermiere, una dell’OSS, una dell’assistente sociale, una del care‐giver, ma il paziente di fronte a me è uno e il suo bisogno fondamentale è che ci si prenda cura di lui, ciascuno con la sua competenza ma con un’attenzione che può talvolta
travalicare i rigidi schemi in cui sono suddivise le figure sanitarie nel nostro SSN.
[ 29 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa
Teresa De Grada (Presidente Associazione DiversaMente, MIlano)
L’ASSOCIAZIONE DIVERSAMENTE a sostegno di familiari di persone con disagio psichico pone l’ascolto dell’altro come base dell’accoglienza. L’attività prevede l’informazione data nei colloqui , quella in gruppo data sulle problematiche del disagio e malattia psichica; infine la formazione in gruppo per promuovere le capacità relazionali basate sull’ascolto e la comunicazione in situazioni difficili e complesse . In questo modo, attraverso un percorso alla pari favorito dalla presenza ai gruppi di facilitatori , il familiare ripensa anche se stesso e attiva capacità di recupero personale e di aiuto relazionale al familiare malato. Diventa quindi “soggetto” dentro il percorso di cura partecipando dell’”alleanza “ con valore terapeutico. Entra in campo infatti un sapere esperienziale che informa sulla quotidianità . Questa circolazione di conoscenze e prassi attivate trova nella “negoziazione” così come indicata da Jan Falloon un punto di intervento molto utile per la recovery. Questo a livello di equipe non formalizzata tra pubblico (i professionisti del C.P.S.) e privato (la famiglia, la rete naturale e gli operatori privati o dell’Associazione che integrano il lavoro istituzionale).
Il punto di forza : sul modello della comunità riabilitativa ci sono operatori con tempo e formazione adeguata (l’educatore formato dallo psichiatra e lo psicologo o psicoterapeuta che lavora in accordo con lo psichiatra ) – Il lavoro e fino in fondo personalizzato sul bisogno dell’utente e non dall’offerta che la struttura può fare.
La debolezza L’accettazione del lavoro così integrato da parte di strutture non disponibili a confrontarsi se non gerarchicamente ‐ la garanzia della continuità del micro‐progetto.
Norme NICE 4.11.1 Gli operatori sanitari devono lavorare in collaborazione con gli utenti dei servizi ed i carer offrendo aiuto, trattamento e assistenza in un clima di speranza e ottimismo (GPP).
Gli operatori sanitari coinvolti nel trattamento e nella gestione di routine della schizofrenia dovrebbero garantire il tempo necessario a costruire una relazione empatica e supportiva con gli utenti dei servizi e i carer. Ciò deve essere considerato come un elemento essenziale dell’assistenza normalmente offerta.
Da dove prende le mosse l’agire psichiatrico , psicologico, riabilitativo ? Dalla persona sia con il suo malessere , disagio , sofferenza , che interrogarsi , sperare , desiderare , agire .
Quindi l’ascolto dell’altro pur nella sua psicosi è alla base di ogni relazione che si voglia dire terapeutica . L’equipe che sa ascoltarsi è anche in grado di ascoltare al meglio traendone tutte le indicazioni utili per il percorso di cura ed il lavoro integrato. Sapere ascoltarsi vuol dire anche accettare metodi di pensiero e modelli interpretativi diversi , rispettati innanzitutto perché li porta un collega che è persona anch’esso , poi valutati non solo in base alla storia da cui provengono ma soprattutto sulla base del portato esperienziale e di efficacia comprovata. Questo vuol dire anche saper lavorare con i modelli aperti (cfr. Antonio Lora in Lombardia).
[ 30 ]
Questione aperta : la motivazione di ogni partecipante al lavoro d’equipe che è il benessere del paziente può essere sempre rispettata ? Non pone problemi per es. la gerarchia dentro l’equipe ? O se uno partecipa per organigramma ma senza la dovuta motivazione non è di freno al lavoro ?
La soddisfazione dell’utente quanto può essere criterio di verifica delle buone prassi ?
Familiari ed utenti hanno posto il tema del peer to peer che non è un valore di per sè ma a volte è la chiave per ripensare e sbloccare percorsi oramai cronicizzati . Occorre comunque la valorizzazione di ogni componente dell’equipe .
[ 31 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa
I percorsi con aspettative favorevoli: mettere sempre al centro la “parte sana” Giuseppe Tibaldi (DSM ASL2, Torino) con il contributo di Lia Govers
L’esperienza psicotica rappresenta una catastrofe, che sovverte le aspettative personali e familiari e fa emergere una dimensione latente (la prospettiva psicotica) che modifica in profondità la lettura esperienziale delle relazioni e degli avvenimenti. La fase in cui questa dimensione emerge è spesso dominata dalla diffidenza, dall’ostilità verso le proposte di aiuto, dalla difesa ad oltranza della lettura distorta della realtà e delle relazioni, da comportamenti incompatibili con le abituali regole della comunicazione interpersonale.
La catastrofe produce effetti irreversibili, sul piano dell’immagine di sé, ma rappresenta anche un’occasione irripetibile per approdare ad una migliore conoscenza della propria storia personale e all’attribuzione di nuovi significati ad esperienze fino a quel momento incomprensibili o sepolte nel passato (in particolare quelle traumatiche).
Perché questa occasione venga sfruttata sono necessarie alcune condizioni:
- dare piena dignità alla dimensione psicotica, attraverso uno sforzo – iniziale ‐ di contenerne gli effetti più angoscianti (ad es. con i farmaci) ed attraverso un impegno successivo per dare significato alla sua ascesa al potere, nel mondo interno della persona (ad es. dando dignità di esistenza alle voci e dialogando con esse, anziché negarle o subirle passivamente);
- lavorare all’attribuzione di significato dei contenuti psicotici, anziché ad una loro soppressione farmacologica (suddividendo le responsabilità mediche da quelle psicoterapiche;
- schierarsi in modo esplicito con la “parte non psicotica”, che è l’insieme delle forze interiori che resistono alla “dittatura” della dimensione psicotica;
- le aspettative favorevoli che accompagnano questo percorso sono necessarie, purché non siano vincolanti sul piano degli obiettivi concreti, né sul piano dei tempi necessari. Stare “senza memoria e senza desiderio” (Bion) non esclude la possibilità di mantenere aspettative favorevoli a lungo termine
Le aspettative favorevoli sono uno dei più importanti fattori prognostici (Ciompi) rispetto ai percorsi di superamento della dittatura psicotica (guarigione/recovery) e sono anche una parola‐chiave di un possibile vocabolario comune (utenti/familiari/operatori).
Il vocabolario della “riforma psichiatrica” è obsoleto ed usato in forme sempre più retoriche: un nuovo vocabolario è necessario e comprende parole antiche e parole nuove (comprensibilità, transitorietà, speranza, decisioni condivise, sostegno alla parte sana, seconde occasioni, . . . ). Le testimonianze di chi è vissuto sotto la dittatura psicotica ed è riuscito a liberarsene sono la base migliore per la definizione di questo nuovo vocabolario.
[ 33 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa
Marco Goglio (Direttore UOP Saronno)
Da anni le Unità Operativa di Psichiatria di molti Dipartimenti Salute Mentale lombardi hanno intrapreso percorsi di confronto con le realtà cittadine, con le Associazioni di Familiari e di Volontari, con le Associazioni di utenti. E’ un percorso che rinforza l’ottica della recovery e sicuramente rappresenta un continuo stimolo a migliorare la qualità del servizio offerto (funzione critica di utenti, familiari e volontari). In questo laborioso lavoro di “rete sociale” si incontrano fatiche e risorse degli attori in gioco:
1) quali margini di consapevolezza e quindi di quali risorse è portatore l’utente? 2) quale possibile confronto, sostegno e coinvolgimento del familiare nella cura? 3) ma anche, quale aiuto può ricevere l’operatore spesso alle prese con le carenze di risorse e col
proprio born out? Queste prassi che potremmo anche chiamare di umanizzazione del rapporto medico‐paziente vengono da alcuni chiamate gruppi del “Fareassieme”, dove operatori, utenti, familiari e volontari promuovono iniziative, sensibilizzazioni al territorio (prevenzione primaria), condivisione di percorsi di cura all’interno e all’esterno del DSM. Il Fareassieme diventa promotore anche di percorsi di empowerment e di recovery.
Esempi pratici:
1) AsVAP4 (Associazione di familiari e volontari) propone a. “Uno spazio per …”: corso di formazione rivolto ad Associazioni territoriali (tempo libero,
sport, cultura) per migliorare l’aggregazione del cittadino‐utente b. “Il triangolo solidale: il contatto come cura alla solitudine”: corso promosso assieme
all’EMPA e rivolto ad utenti interessati agli animali domestici (cani, gatti) che si occuperanno in un secondo tempo di aiutare anziani che posseggono animali domestici
2) La Cooperativa “Sun chi” (Saronno) promuove interventi, pagati, di utenti Facilitatori Sociali (e gratuiti di familiari) con funzioni di assistenza, auto mutuo aiuto, accompagnamento. Un testo scritto dai Facilitatori è pubblicato e scaricabile gratuitamente su www.ericksonlive.it .
3) Il Clan/Destino (Associazione utenti) promuove momenti di partecipazione libera e di intrattenimento esterni al Servizio.
Riflessioni e possibili limiti..
Tutto questo corrisponde ad una reale crescita del Servizio? Quanto diviene una effettiva pratica che spinge al rispetto dell’empowerment e promuove un Servizio sui principi della recovery? Quanto gli operatori condividono questi percorsi di autonomia?
[ 35 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Metodologia di lavoro e organizzazione presso il centro di riabilitazione dell’UONPIA dell'Ospedale di Circolo “Fondazione Macchi” di Varese Anna Anzani (UONPIA Ospedale di Circolo “Fondazione Macchi”, Varese)
Questo intervento tenta di mettere in correlazione alcuni assunti teorici e la pratica quotidiana nella presa in carico del bambino con disturbo di sviluppo neuropsicomotorio e della sua famiglia presso l’UONPIA di Velate Ospedale di Circolo Fondazione Macchi di Varese il cui responsabile è il neuropsichiatra Dott.. Fabio Zambonin. Si riflette sull’esperienza iniziata nel 1995 e le ragioni di condivisione in equipe multidisciplinare del progetto abilitativo‐riabilitativo. L’organizzazione del servizio di riabilitazione come gruppo di lavoro è al centro del modello di accoglimento e presa in carico delle complesse problematiche “di quel bambino e della sua famiglia”. Si descrive l’esemplificazione di tale modello nella descrizione del processo riabilitativo condiviso in equipe di un caso clinico con Amiotrofia Spinale tipo I, preso incarico presso la nostra UONPIA fin dalla nascita.
Al fine di realizzare un “unico atto riabilitativo sul bambino” secondo il “ Pensiero Sistemico” (Systemics) (Giordano 2005) è fondamentale l’integrazione a tre livelli: 1) tra le diverse e nuove conoscenze 2) tra gli operatori dello stesso centro 3) e tra gli operatori del centro e altri Enti (scuola, servizi sociali, educative etc.) perché la riabilitazione deve trovare continuità nella vita quotidiana del bambino.
Questo approccio è frutto quindi di un percorso formativo condiviso oltre che di un rigore organizzativo e metodologico del gruppo di lavoro.
E’ risultato fondamentale inoltre programmare alcuni momenti di valutazione durante l'anno in presenza del bambino con la terapista, dei genitori e del NPI, a cui può se necessario partecipare anche il Fisiatra e il tecnico ortopedico al fine di osservare con i genitori quali sono oltre ai limiti e le potenzialità funzionali, gli stati d'animo, i bisogni o i desideri del bambino.
In realtà non è sempre lineare e privo di complicazioni riuscire a “utilizzare” quanto arriva da operatori di ospedali ed Enti esterni per il benessere del bambino e della sua famiglia, anche e sopratutto dove i punti di vista non sono del tutto condivisi. Significa perciò impegno di tempo ed energie emotive per confrontarsi e per poter condividere un progetto riabilitativo integrato al cui centro si trova il benessere e la qualità della vita della persona paziente con la sua famiglia. Nel rapporto personale quindi interviene qualcosa che nemmeno la biologia può spiegare cioè la libertà di ciascuno in questo movimento continuo di tensione tra competenza “tecnico scientifica” e rapporto umano. E’ proprio questo stesso modo di conoscere e agire “in equipe” che promuove tra operatori e famiglia la fiducia reciproca quindi la Compliance: cioè il “Contratto Terapeutico” con la famiglia e il paziente.
[ 37 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Michele Bertoni (Responsabile Riabilitazione Specialistica, Ospedale di Circolo “Fondazione Macchi”, Varese) La definizione di “TEAM RIABILITATIVO” viene puntualmente utilizzata ogni qualvolta si parla di riabilitazione.
Già la norma che definisce i requisiti minimi di accreditamento organizzativi e strutturali richiede “una rendicontazione” di un’attività di team.
E’ inoltre chiaramente definito chi debbano essere i componenti del team, sia riferito agli operatori strettamente annessi al fare riabilitativo ( fisiatra, fisioterapista, logopedista, terapista occupazionale), che a quelli che operano sul paziente in riabilitazione (infermiere professionale, oss, dietiste, psicologo, specialisti medici consulenti).
Definito il “CHI”, quando si passa ad affrontare il “ QUANDO”, la norma diviene più generica, parlando di “ periodiche riunioni di team”, lasciando quindi alla “ sensibilità” dell’operatore sull’argomento, la definizione delle condizioni e scadenze, che porterà a convocare il team.
Ancora più disarmante è la sostanziale assenza di chiara normativa, quando si valuta il “COME ” deve essere fatto il “team”.
Nella nostra esperienza, che si fa carico di bambini afferenti al nostro Servizio di Neuropsichiatria Infantile, abbiamo definito il come grazie a positive sinergie tra i componenti del team stesso. Nel nostro gruppo si riconosce un “Team leader Procedurale” ( Neuropsichiatra) che definisce chi, quando e quanto valutare il paziente, che si affianca al “Team leader di comparto” ( fisiatra, coordinatore fisioterapisti, coordinatore logopedista) che definisce sempre il chi, quando e quanto, inerente al suo comparto, per poi arrivare al “ Team leader di trattamento” ( fisioterapisti, logopedisti, etc.etc). definisce sempre il chi, quando e quanto, inerente al suo specifico trattamento
Utile sarà quindi il confronto su questo modello operativo quotidiano e confrontarlo nel corso della tavola rotonda con altri modelli/esperienze, al fine di migliorare e crescere nel nostro operare quotidiano.
[ 39 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Comunicare: condividere e accogliere un bisogno Daniela D’Onofrio, C. Puntieri, E. Ricotta (DSM, SSNPIA, Azienda Ospedaliera Legnano)
Sono una logopedista e da più di venti anni lavoro nell’ambito infantile , prima presso una sede territoriale USSL e dal 1995 presso un polo territoriale della neuropsichiatria dell’ospedale civile di Legnano. Attualmente presto servizio presso il polo territoriale di Legnano Comunicare e’ un bisogno trasversale a tutte le patologie trattate c/o nostra sede ,pertanto posso affermare che la mia formazione e’ avvenuta in modo preponderante sul campo, lavorando con i pazienti e lasciando che, sia i bambini che i loro genitori mi interrogassero sulla mia professionalità e umanità e più la mia umanità si lasciava interrogare da loro e più mi mettevo alla ricerca di risposte tecnico‐scentifiche sempre più precise per rispondere ai loro bisogni. Pertanto la mia relazione vuole essere schematica e semplice Perciò per essere il giù concreta possibile mi pongo 3 domande a cui dare risposta:
• Cosa vuol dire comunicare?Che valore ha assunto negli anni la parola comunicare?
• Cosa e’ il linguaggio?
• Cosa desidero per un bambino che accede ai nostri servizi che si presenta con un linguaggio incomprensibile?
Parlerò in seguito di un modello operativo circa un progetto per i dsl come risposta ai bisogni del paziente e del servizio. Durante la sua creazione si e’ visto che dal condividere il sapere e la conoscenza con più figure professionali e’ stato possibile delineare un progetto operativo che supera le singole competenze. COSA SIGNIFICA COMUNICARE Capacità/Possibilità di esprimere i propri pensieri e desideri, in un contesto di reciprocità. COSA SIGNIFICA LINGUAGGIO Linguaggio: comunicazione verbale Il linguaggio e’ ciò che ci differenzia dagli altri animali perché ci permette di entrare in relazione con la realtà e ci permette di descriverla e/o di raccontarla . Mi ha da sempre affascinato la nascita il linguaggio , le sue correlazioni con lo sviluppo psicomotorio e la crescita dell’io perché il bambino e’ una munita e la prima domanda che mi pongo e’ la domanda di bene e di felicita per quel bambino e non per la patologia che quel bambino ha.,ma so che la risposta, oltre che da un punto di vista olistico , sta’ anche nel dargli gli strumenti adeguati(scienza e tecnica) Per rispondere al meglio alla domanda di bene per quel bambino, confrontandomi sia con il responsabile del servizio dott. Ricotta che con le mie colleghe logopediste, abbiamo cercato all’interno del nostro servizio di dare una risposta piccola ma intelligente, grazie al contributo di ogni figura professionale La costituzione di dei gruppi di Dsl e’ stata pensata per rispondere a due obiettivi: 1. dare una risposta qualitativamente qualificata (aspetto qualitativo) 2. dare una risposta nel rispetto dei tempi di attesa del servizio (aspetto quantitativo)
[ 40 ]
Obiettivi Gli obiettivi del progetto sono: sviluppare le abilità prassiche, fonetico‐fonologiche e meta‐fonologiche, prevenire dove e’ possibile l’insorgenza di un DSA oppure ridurne la gravità, ridurre le liste di attesa logopediche del servizio di neuropsichiatria infantile. Criteri di inclusione
- Frequenza ultimo anno scuola materna(istruzione)
- QI nella norma(npi‐psicologo)
- Linguaggio ricettivo nella norma(logopedista‐foniatra)
- Capacità uditive nella norma o con lieve deficit trasmissivo(richiesta visita orl)
- A volte sono evidenti problemi ortodontici di malocclusione dentali ,classi dentali alterate,ipotonia organi fono‐articolatori (visita foniatrica o ortodontica)
Azioni previste dal progetto Il lavoro viene così articolato: 1. Valutazione iniziale (follow‐up iniziale) 2. Terapia di gruppo ( 3 mesi bi‐sett) 3. Controllo intermedio(follow‐up intermedio) 4. Sospensione (3 mesi) 5. Controllo finale (Follow up finale) Le differenti evoluzioni in alcuni bambini hanno condotto una riflessione sull’importanza delle componenti socio‐culturali e ambientali, spesso sottovalutati in fase diagnostica. A tale proposito sarebbe auspicabile poter usufruire maggiormente della figura dello psicologo offrendo un lavoro di gruppo di mutuo‐aiuto per i genitori in coincidenza con la terapia dei bambini (10 sedute di counseling familiare di gruppo )ove i genitori possano esprimere i propri vissuti ansiogeni rispetto al linguaggio non corretto dei propri figli e alle aspettative scolastiche. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di tutti e si e’ reso evidente come condividere un sapere crea un prodotto diverso ma di gran lunga migliore rispetto al lavoro del singolo.
[ 41 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Il lavoro di equipe nel paziente con grave polihandicap Mandile Marina ((Fisioterapista, Fondazione Istituto Sacra Famiglia, Filiale di Cocquio Trevisago)
Lo scopo della relazione è descrivere il lavoro d’equipe multidisciplinare nell’ambiente della riabilitazione del paziente affetto da grave polihandicap e importante insufficienza mentale. Vista la complessità del quadro clinico del paziente l’intervento riabilitativo necessita di un progetto integrato che prevede la costruzione di un piano di lavoro dove le tecniche riabilitative classiche , educative , fisioterapiche , occupazionali ecc. procedono per obiettivi che interagiscono con l’aspetto assistenziale.
Le figure professionali coinvolte nell’equipe sono: medico internista, psichiatra, neuropsichiatra , fisiatra, fisioterapista, psicomotricista, infermiere, educatore, ASA e OS.
Il fine del progetto integrato è quello di raggiungere il massimo benessere della persona che abbiamo in cura, tenendo conto delle sue potenzialità relazionali, affettive, sensoriali e motorie.
Lo strumento principale del mio lavoro di fisioterapista è stato in questi anni l’osservazione trattamentale:
lavorando pazientemente, a volte anche per, anni con lo stesso ospite, si scoprono risorse e potenzialità o difficoltà che chiedono a me terapeuta di essere sempre disponibile nel modificare la proposta tratta mentale e l’obiettivo da raggiungere.
Gli strumenti prodotti dall’equipe sono: il P.R.I e il P.E.I.
In questi vent’anni di esperienza lavorativa la mia professionalità ed umanità sono state certamente arricchite dal confronto con tutti gli operatori dell’istituto e dal rapporto umano con i pazienti e le loro famiglie. Lavorando in un ambulatorio convenzionato dell’A.S.L per adulti e bambini ho acquisito e maturato conoscenze e manualità utili nel lavoro con paziente grave e viceversa.
[ 43 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Chiara Zuccarini (Medico Pediatra ed internista, Fondazione Istituto Sacra Famiglia Cesano Boscone)
Scopo della comunicazione è illustrare il lavoro di equipe multidisciplinare a favore di pazienti disabili affetti da polipatologie che devono essere affrontate e gestite in sinergia, al fine di garantire un corretto percorso riabilitativo e di qualità di vita.
Si illustra l’attività presso l’UO di Riabilitazione dell’Età Evolutiva presso la sede di Cesano Boscone e dell’UO Residenziale della Filiale di Coquio con particolare attenzione all’aspetto fisioterapico con l’integrazione del lavoro dei terapisti della riabilitazione nell’intero progetto riabilitativo.vengono illustrati i progetti individualizzati riabilitativi.
La comunicazione è condotta inizialmente dalla Drssa Zuccarini, pediatra dell’UO Riabilitazione dell’Età Evolutiva e seguita dalla Fisioterapista della Filiale di Coquio sig. Mandile.
[ 45 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe
Comunicare: condividere e accogliere un bisogno Daniela D’Onofrio, C. Puntieri, E. Ricotta (DSM, SSNPIA, Azienda Ospedaliera Legnano)
Sono una logopedista e da più di venti anni lavoro nell’ambito infantile , prima presso una sede territoriale USSL e dal 1995 presso un polo territoriale della neuropsichiatria dell’ospedale civile di Legnano. Attualmente presto servizio presso il polo territoriale di Legnano Comunicare e’ un bisogno trasversale a tutte le patologie trattate c/o nostra sede ,pertanto posso affermare che la mia formazione e’ avvenuta in modo preponderante sul campo, lavorando con i pazienti e lasciando che, sia i bambini che i loro genitori mi interrogassero sulla mia professionalità e umanità e più la mia umanità si lasciava interrogare da loro e più mi mettevo alla ricerca di risposte tecnico‐scentifiche sempre più precise per rispondere ai loro bisogni. Pertanto la mia relazione vuole essere schematica e semplice Perciò per essere il giù concreta possibile mi pongo 3 domande a cui dare risposta:
• Cosa vuol dire comunicare?Che valore ha assunto negli anni la parola comunicare?
• Cosa e’ il linguaggio?
• Cosa desidero per un bambino che accede ai nostri servizi che si presenta con un linguaggio incomprensibile?
Parlerò in seguito di un modello operativo circa un progetto per i dsl come risposta ai bisogni del paziente e del servizio. Durante la sua creazione si e’ visto che dal condividere il sapere e la conoscenza con più figure professionali e’ stato possibile delineare un progetto operativo che supera le singole competenze. COSA SIGNIFICA COMUNICARE Capacità/Possibilità di esprimere i propri pensieri e desideri, in un contesto di reciprocità. COSA SIGNIFICA LINGUAGGIO Linguaggio: comunicazione verbale Il linguaggio e’ ciò che ci differenzia dagli altri animali perché ci permette di entrare in relazione con la realtà e ci permette di descriverla e/o di raccontarla . Mi ha da sempre affascinato la nascita il linguaggio , le sue correlazioni con lo sviluppo psicomotorio e la crescita dell’io perché il bambino e’ una munita e la prima domanda che mi pongo e’ la domanda di bene e di felicita per quel bambino e non per la patologia che quel bambino ha.,ma so che la risposta, oltre che da un punto di vista olistico , sta’ anche nel dargli gli strumenti adeguati(scienza e tecnica) Per rispondere al meglio alla domanda di bene per quel bambino, confrontandomi sia con il responsabile del servizio dott. Ricotta che con le mie colleghe logopediste, abbiamo cercato all’interno del nostro servizio di dare una risposta piccola ma intelligente, grazie al contributo di ogni figura professionale La costituzione di dei gruppi di Dsl e’ stata pensata per rispondere a due obiettivi: 3. dare una risposta qualitativamente qualificata (aspetto qualitativo) 4. dare una risposta nel rispetto dei tempi di attesa del servizio (aspetto quantitativo)
[ 46 ]
Obiettivi Gli obiettivi del progetto sono: sviluppare le abilità prassiche, fonetico‐fonologiche e meta‐fonologiche, prevenire dove e’ possibile l’insorgenza di un DSA oppure ridurne la gravità, ridurre le liste di attesa logopediche del servizio di neuropsichiatria infantile. Criteri di inclusione
- Frequenza ultimo anno scuola materna(istruzione)
- QI nella norma(npi‐psicologo)
- Linguaggio ricettivo nella norma(logopedista‐foniatra)
- Capacità uditive nella norma o con lieve deficit trasmissivo(richiesta visita orl)
- A volte sono evidenti problemi ortodontici di malocclusione dentali ,classi dentali alterate,ipotonia organi fono‐articolatori (visita foniatrica o ortodontica)
Azioni previste dal progetto Il lavoro viene così articolato: 6. Valutazione iniziale (follow‐up iniziale) 7. Terapia di gruppo ( 3 mesi bi‐sett) 8. Controllo intermedio(follow‐up intermedio) 9. Sospensione (3 mesi) 10. Controllo finale (Follow up finale) Le differenti evoluzioni in alcuni bambini hanno condotto una riflessione sull’importanza delle componenti socio‐culturali e ambientali, spesso sottovalutati in fase diagnostica. A tale proposito sarebbe auspicabile poter usufruire maggiormente della figura dello psicologo offrendo un lavoro di gruppo di mutuo‐aiuto per i genitori in coincidenza con la terapia dei bambini (10 sedute di counseling familiare di gruppo )ove i genitori possano esprimere i propri vissuti ansiogeni rispetto al linguaggio non corretto dei propri figli e alle aspettative scolastiche. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di tutti e si e’ reso evidente come condividere un sapere crea un prodotto diverso ma di gran lunga migliore rispetto al lavoro del singolo.
[ 47 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e di condivisione di un progetto
La formazione congiunta. Un’esperienza di conoscenza condivisa Lia Sanicola(Docente di “Famiglie e Welfare Comunitario”, Università di Parma
La “formazione congiunta” è una buona pratica di formazione, che coinvolge operatori e famiglie accoglienti, nello stesso setting, nello stesso tempo, nello stesso luogo e con il medesimo conduttore. Si tratta di una pratica innovativa, che ha avuto già tre opportunità di sperimentazione proprio nel campo dell’affidamento familiare (ASL di Rimini, Comune di Cinisello Balsamo, Comune di Magenta). Si pone come obiettivo la costruzione di un percorso di conoscenza condivisa rispetto ad alcuni temi salienti dell’affido familiare, finalizzato a realizzare modalità di azione a loro volta congiunte o, almeno supportate da un paragone e da un giudizio messo in comune. Questa esperienza è nata dalla constatazione di una distanza, se non di contrapposizione, tra operatori e famiglie affidatarie, dovuto al percorso di conoscenza di ciascuno di questi soggetti, i quali agiscono in un contesto diverso (il servizio/la dimora) e all’intero di un assetto che per gli operatori è quello tecnico‐scientifico e per le famiglie è quello esistenziale legato alla vita quotidiana. Si tratta percorsi portatori di qualità differenti che costituiscono una grande ricchezza. La formazione congiunta ha avuto lo scopo di favorire la condivisione della ricchezza di entrambi, mettendo in comune contenuti ed attivando uno scambio di conoscenze e di ipotesi operative in un paragone libero e rispettoso del ruolo e delle responsabilità di ciascuno, la cui premessa era costituita dalla disponibilità dei partecipanti ad apprendere l’uno dall’esperienza dell’altro. La formazione, promossa dall’Associazione Famiglie per l’Accoglienza grazie ad un progetto finanziato per il primo anno, dalla Regione Liguria. E’ stato realizzata per 3 anni consecutivi nel territorio del Tigullio ed ha coinvolto circa 40 operatori e 6 famiglie per ciascuna annualità di 3‐4 incontri ciascuna. I dati della frequenza sono stati altissimi ed il gruppo è cresciuto nel tempo. Per quanto concerne il metodo di lavoro, ciascuna unità di 4 ore ha messo a tema uno dei soggetti dell’affido familiare: la famiglia di origine, il bambino, la famiglia affidataria, gli operatori del servizio rispetto ai quali si connettono aspetti specifici della tematica, quali ad esempio, i rientri del bambino e gli incontri protetti, il valore della relazione con la famiglia di origine, l’accompagnamento delle famiglie affidatarie, i rapporti con l’autorità giudiziaria, ecc Il conduttore1, esperto in formazione e supervisione, introduce il tema inquadrandolo a grandi linee in 10 minuti, dà la parola all’operatore e alla famiglia, che hanno il compito di esporre una situazione problematica, ne motivano la scelta esplicitando la loro richiesta al gruppo; favorisce lo scambio ed il confronto tra i partecipanti, si adopera perché non avvengano fenomeni di fusione e confusione, tira le conclusioni. In questo compito è stato coadiuvato dal responsabile dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza della Liguria2, che è il referente delle famiglie e ne sostiene il compito. I risultati di questa esperienza sono stati molto significativi. Anzitutto è emerso che questo lavoro ha prodotto una conoscenza “altra” che non è appena la somma dei singoli percorsi conoscitivi, ma una
1 Le prime due annualità sono state condotte da Lia Sanicola, l’ultima nel 2012 è stata guidata dalla psicologa dell’Associazione, dr.ssa Piu 2 Dr.ssa Rosanna Serio, medico e Vice Presidente nazionale dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza
[ 48 ]
“conoscenza terza” che incrementa il patrimonio del sapere culturale e tecnico scientifico dei soggetti implicati. Rispetto al contenuto si è realizzato: una complementarietà delle conoscenze, un re‐orientamento dello sguardo ed un allineamento delle “vision”, una condivisone di molti giudizi/valutazioni sulle situazioni problematiche presentate, uno sviluppo di ipotesi operative condivise, un primo abbozzo di strategia territoriale per l’affidamento familiare. Rispetto alla dimensione relazionale si è verificato un maggior rispetto dei ruoli ed una riduzione della distanza, una maggiore comprensione delle responsabilità di ciascuno, una libertà nell’espressione delle proprie difficoltà dovuta allo sciogliersi delle relazioni in un clima caratterizzato dal desiderio crescente di apprendere dall’esperienza dell’altro; un incremento dell’orientamento positivo nei confronti dell’intervento di affidamento familiare. In sede di valutazione del percorso un operatore ha messo in evidenza come le famiglie avessero una unità di sguardo, nel processo di conoscenza, che proveniva dall’avere la stessa appartenenza e la stessa cultura, unità di sguardo che tra gli operatori mancava poiché neanche l’appartenenza alla stessa comunità tecnico‐scientifica e alla stessa rete curante produceva. Tuttavia è stato rilevato che l’esperienza formativo, proprio perché ha attivato un processo di conoscenza condivisa, ha messo in moto proprio questa unità di sguardo tra operatori e famiglie.
[ 49 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e di condivisione di un progetto
L’esperienza di Gedeone Anna Maria Campiotti Marazza (Studio di Psicologia Gedeone, Milano)
L'esperienza di Gedeone nasce nel 2010 dalla sollecitazione di persone che, guardandoci lavorare, hanno riconosciuto, e quindi ci hanno evidenziato quanto fosse importante il valore di un giudizio condiviso tra professionisti, insieme al tentativo di rischiare la propria professionalità confrontandola con tutto ciò che si incontra. Nasce da un desiderio di compagnia nella professione. Innanzitutto attraverso un confronto interno, ovvero tra psicologi con formazioni differenti ma con lo stesso desiderio di uscire dal ruolo e di guardare alla persona per tutto quello che è. In seguito in un confronto con altre professionalità (medici, insegnanti, operatori sociali e sanitari). E ancora, in un prezioso confronto pieno di ascolto e di stima, con tutte le altre persone competenze, anche quelle non etichettate professionalmente: la competenza delle famiglie, la competenza degli adolescenti, la competenza dei bambini figli di separati o adottati, e altro. L'ascolto e la valorizzazione sono punto centrale di lavoro. Convinti che la psicologia non sia la risposta a tutti i disagi e bisogni dell'uomo ma solo uno strumento di conoscenza che, tra gli altri e al servizio degli altri, può aiutare lo sguardo sull'umano. Proprio come la figura biblica di Gedeone (Libro dei Giudici) che mette il proprio lavoro al servizio del popolo di Dio. A partire da queste premesse, abbiamo progettato un percorso per gli adolescenti ‐ denominato “Happy Hours in Gedeone”‐ partendo dai ragazzi che abbiamo incontrato, dai loro bisogni e dalle loro risorse, muovendoci noi verso di loro e non, come abbiamo spesso fatto, chiedendo loro di venire da noi. Abbiamo tirato fuori gli psicologi dai loro studi e li abbiamo fatti lavorare attorno a una birra, coinvolti in una breakdance o in barca a vela. Allo stesso modo abbiamo progettato, insieme alle famiglie, un “Laboratorio per genitori di adolescenti”, un percorso che fosse un luogo e un tempo per "lavorare" e guardare insieme i figli adolescenti: alla ricerca di uno sguardo ampio che tenga conto di tanti apporti ma che aumenti il desiderio di coinvolgersi come genitori e non sostituisca o squalifichi la competenza genitoriale. Massima valorizzazione al lavoro coniugale e alla capacità di confronto e messa in gioco di sé. Anche all’interno di questa esperienza il ruolo dello psicologo cambia, non esperto super partes ma uno tra gli altri che offre la sua conoscenza confrontandola con quella dei genitori, degli insegnanti o di altre figure educative con le quali le famiglie hanno a che fare. Costante il tentativo di proporre un lavoro congiunto con insegnanti, medici, educatori nelle scuole o nelle realtà parrocchiali su temi come le dipendenze, l'affettività e la sessualità, l'orientamento scolastico, la prevenzione del disagio, la famiglia e l'educazione. A fianco a questo “Gedeone. Studio di Psicologia” offre consulenza e psicoterapia alla persona.
[ 51 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Operatori Psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e condivisione di un progetto
Cesare Moro (A.F.D. Area Salute Mentale, A.O. Treviglio, Bergamo)
Lo spostamento del luogo di cura dall’ospedale psichiatrico all’ambiente di vita del paziente ha accentuato l’esigenza di sostenere i bisogni della famiglia riconoscendo:
- la necessità che ognuno dei suoi membri possieda un proprio spazio psichico personale. - I significati relazionali e simbolici dei sintomi psicologici.
Da qui nasce l’dea di formare dei gruppi di sostegno per famigliari di pazienti psichiatrici. Il rapporto tra i servizi psichiatrici e la famiglia del paziente è dunque un tema fondamentale in ambito psichiatrico. Il contesto familiare, essendo il più importante ambito di socializzazione degli individui, è risultato essere una determinante di rilievo dell’esito a medio e lungo termine dei disturbi mentali. Verso la fine degli anni Settanta, cominciarono a comparire molte pubblicazioni che riportavano le crescenti lamentele dei familiari dei malati gravi per l’eccessivo carico materiale e psicologico che erano costretti a sopportare. E’ da questi malumori che scaturirà negli anni Ottanta il fenomeno dell’associazionismo dei parenti, il cui obiettivo è dare alle famiglie maggiore voce in capitolo nelle scelte di politica sanitaria in tema di psichiatria. Nello stesso tempo, però, raccogliendo lamentele, da parte dei servizi si comincia a dare maggior valore al parametro della soddisfazione dei familiari come una delle variabili da tenere presente nella valutazione dell’andamento di un trattamento. Da una parte i familiari non chiedono più solo custodia o assistenza, ma anche cura e riabilitazione; dall’altra c’è la crescente consapevolezza del fatto che l’ambiente familiare risulta essere una variabile fondamentale dell’esito. La struttura della famiglia e le sue dinamiche interne vengono prese in considerazione come elementi per costruire realtà narrative, che abbiano la forza di spostare gli equilibri e indurre i cambiamenti, in questo senso il lavoro terapeutico è con la famiglia e non sulla famiglia. Valutare il nucleo familiare e le dinamiche al suo interno è molto importante sin dai primi contatti che si vengono a stabilire con il servizio. Il modello di Case Management comunitario adottato dalla Regione Lombardia va nella direzione di permettere da subito la lettura dei bisogni dell’utente e della sua rete primaria facilitando la definizione di un Piano di Trattamento Individuale (PTI) che deve essere condiviso, oltre che con l’utente anche con la famiglia. L’analisi del bisogno in un’ottica integrata come proposto dal prof Zapparoli nel suo “modello dell’integrazione funzionale”, permette per esempio di cogliere il bisogni di dipendenza/ emancipazione che il paziente ha. Infatti il più delle volte non cogliendo tale bisogno gli operatori intervengono per esempio per “rompere” il legame simbiotico madre figlio non pensando invece a come passare da modelli di allentamento della simbiosi fusionale a modelli di simbiosi focale. L’adozione quindi un modello integrato della lettura dei bisogni unito ad un modello di attuazione dell’assistenza calata nella comunità del paziente al quale viene assegnato un referente del percorso di cura (CaseManager), porta ad una qualità di vita più soddisfacente sia per il paziente e per le famiglie. Da qui nasce sempre più la necessità di sinergie tra servizi e famiglie
[ 53 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti
Luisa Bassani
Parto da una domanda che mi si è aperta a fronte del titolo di questo convegno, che mi ha portato a ripensare al lavoro di questo ultimo anno: perché in alcune situazioni ho proposto che tutti i membri di una famiglia venissero insieme per affrontare il problema che i genitori mi avevano presentato circa uno dei loro figli?
E’ una novità perché, in linea di massima, non lo avevo mai fatto; pensavo che il mio nucleo di interesse fosse il bambino; la sua famiglia, soggetto “mandante” e unico avente diritto a portare e quindi a ricevere la restituzione dello specialista, era certamente elemento fondamentale nello sviluppo del bambino e quindi componente imprescindibile per l’intervento del tecnico, ma in fondo solo come strumento per una adeguata conoscenza di lui.
Attraverso la riflessione richiesta dal convegno del 2010 però mi sono resa conto che questo pensiero non era sufficiente a descrivere l’importanza che nella realtà del mio operare ritrovavo nella famiglia del soggetto presentato come sofferente su cui ipoteticamente indagare ed intervenire Già al convegno avevo detto che la persona che il bambino è, è intrecciata inevitabilmente con coloro che costituiscono il suo alveo esistenziale.”
Non esplicitavo allora tutte le implicazioni di questa osservazione; il suo significato era ancora implicito e nell’operare quotidiano emergeva più pienamente che nella consapevolezza teorica.
Mi sono resa conto riflettendo sullo svolgersi del mio lavoro, che la famiglia risultava centrale anche nell’orientamento dell’ intervento, che solo apparentemente si focalizzava sul bambino ma in realtà partiva da e agiva sull’insieme bambino‐ genitori‐ fratelli compresi i nonni quando inclusi.
La visione che i genitori portavano del loro bambino era il primo termine di paragone al primo incontro con il bimbo e spesso la restituzione, dopo le sedute diagnostiche, era, punto su punto, un confronto tra quello che era stato riferito dai genitori e le osservazioni che nascevano dall’interazione diretta col bambino stesso; anche la scelta di cosa proporre come primo approccio, (un test, un disegno un gioco), era certamente frutto dell’esperienza e/o dell’ispirazione del momento, ma il binario di quanto recepito nel primo colloquio con i genitori rimaneva centrale. Concretamente mi sono accorta che se incontravo il bambino senza rileggere quanto mi ero scritta di quel 1° colloquio con i genitori rischiavo di essere generica e ripetitiva nella proposta al bambino, come se esistesse una scaletta fissa a cui rifarsi quando non c’è un lume; invece conoscere la domanda posta dal genitore e inserirla nel quadro , anche se appena abbozzato, della costellazione in cui lui vive, consente un approccio più mirato e alla fine più efficace.
Mi pare interessante riferire di alcune situazioni in cui appunto ho deciso di invitare al secondo colloquio tutta la famiglia.
[ 54 ]
Sono situazioni diverse:
1) un bimbo di 9 anni con un fratello più piccolo già in terapia presso una collega; i bimbi avevano perduto la mamma, deceduta da un paio d’anni prima; la richiesta di aiuto per entrambi partiva da uno zio materno sposato con figli; a implicarlo era stata la nonna materna dei bimbi per un contenzioso tra lei e la zia paterna, coniugata con un figlio adulto e residente nel medesimo edificio in cui risiedevano i nonni materni. Lo zio chiedeva una valutazione sul nipote ritenuto in grave difficoltà per il suo comportamento ostile verso tutti i parenti e in particolare verso la zia paterna; lo zio desiderava che si riducessero le tensioni in famiglia e riteneva che il nipote fosse fortemente conteso tra le due famiglie di origine dei genitori, mentre il loro papà si trovava in grave difficoltà nella gestione della nuova situazione ( anche il padre risultava in cura da uno psicologo dopo la morte della moglie ).
2) una coppia di genitori con tre figli di 11‐12‐13 anni , tutti e tre frequentanti la stessa scuola secondaria di primo grado privata. Era la madre a chiedere che venisse visitato il figlio più piccolo, già diagnosticato come dislessico , perché con i suoi comportamenti agressivo‐distruttivi rendeva invivibile il clima in famiglia, determinando anche il rifiuto del fratello da parte degli altri due e generando liti e tensioni anche fra i genitori.
3) una famiglia composta dai genitori e due figlie, una di 15 anni e una di 10 anni, entrambe educate, brave a scuola e adeguate nei comportamenti sociali; a portare il problema era la mamma che riferiva di un rifiuto nei suoi confronti da parte della figlia più piccola, che non le obbediva, la trattava con sufficienza e a volte a male parole, rifiutando di mangiare a tavola con il resto della famiglia perché le dava fastidio sentire il rumore che la madre faceva mangiando; la ragazzina pretendeva e otteneva di dormire nel lettone allontanando a turno uno dei genitori, preferibilmente la madre. Il padre poco presente per impegni di lavoro non condivideva la preoccupazione della moglie.
Altri tre casi riguardano adolescenti: una famiglia con una unica figlia di 17 anni ; entrambi i genitori chiedono di essere aiutati a capire cosa è successo alla ragazza che “ha cambiato carattere”; non rispetta i genitori, non studia, si isola con la musica o con il telefono per parlare con il suo boy friend o su facebook; litiga pesantemente con la madre arrivando ad alzare le mani mentre al padre non concede alcuna possibilità di dialogo perché rifiuta categoricamente anche di rivolgergli la parola . Una seconda famiglia sempre con una sola figlia di 14 anni, ragazza modello, tutta casa, oratorio e volontariato che chatta con un coetaneo e gli consegna delle foto intime scattate appositamente su richiesta di quest’ultimo, che ha visto materialmente una sola volta; dopo un banale litigio con il ragazzino lei ritrova le suddette foto distribuite ad amici e conoscenti su face book. I genitori vorrebbero capire come mai è potuto succedere tutto questo perché la ragazza non è in grado di spiegarlo.
Terza situazione una famiglia con un unico figlio maschio di 14 anni che , secondo i genitori, non è in grado di decidere quale scuola superiore scegliere anche se la scelta è già stata fatta insieme da genitori e figlio ; soprattutto la mamma dubita che la scelta del ragazzo sia realmente libera e teme che il figlio sia succube del contesto familiare e sociale; ai genitori il ragazzo pare confuso, inerte, passivo con poca personalità, inadeguati strumenti cognitivi e immaturo, per questo poco motivato a scuola e nelle amicizie molto chiuso e chiedono che sia aiutato a crescere attraverso una psicoterapia
Già ero solita con i preadolescenti e gli adolescenti a decidere l’approccio in base a quanto mi veniva raccontato dal genitore che chiedeva l’appuntamento, cioè in base al tipo di problema che mi veniva rappresentato. Chiedo sempre se il ragazzino sa della richiesta di un appuntamento per lui e se desidera o no venire. Spesso ricevo figlio e genitori insieme per una prima esposizione del problema e in seguito
[ 55 ]
chiedo al ragazzino se preferisce parlare con me da solo e per i più grandi, ragazzi di oltre 16 anni, spesso chiedo che il ragazzo stesso confermi al cellulare l’appuntamento; sono tentativi per consentirgli di mettere in azione la propria libertà” da subito .
La decisione di coinvolgere tutta la famiglia nel lavoro e non solo per un primo colloquio è scattata di fronte alla percezione che in tutti i casi citati ci fosse una costruzione mentale, un immaginario di famiglia schematico e poco capace di cogliere quanto avveniva in realtà dentro la famiglia stessa e nei singoli membri; per conservare questo immaginario si focalizzava lo sguardo sui comportamenti disturbanti e si cercava qualcuno capace di “aggiustare” il fattore disfunzionante per mantenere/riportare il nucleo su un binario tollerabile . Non si riusciva a stare davanti al cambiamento e/o sofferenza di uno dei membri, che obbligava a ridisegnare le dinamiche di tutti e risultava più semplice incasellare come sintomo il comportamento disturbante. Percepivo in tutti questi casi una seria difficoltà in tutti i componenti del nucleo a reperire altri immaginari di famiglia e in particolare del rapporto tra un padre e una madre con i figli sia individualmente che come coppia e di un figlio/a con la propria madre , padre e sorella/fratello.
Emergeva una grande povertà educativa e una concezione dell’azione educativa come una costruzione di regole, soprattutto con gli adolescenti ma anche nel caso dei due bimbi in età scolare; i genitori erano in teoria disponibili a mediare sulle regole ma pretendevano poi che il ragazzo/a le facesse proprie fino a condividerle e vi si attenesse avendone capite le motivazioni; ogni caduta, la mancanza di autocontrollo o il desiderio di liberarsi di qualunque regola per scoprire una propria esperienza viva venivano interpretate come un rifiuto della paternità/maternità, una offesa alla propria autorevolezza e un segno di mancanza di riconoscenza ed affetto; a specchio il figlio si sentiva non capito, rifiutato e abbandonato; il ragazzo si viveva come un soggetto sbagliato , che funzionava male nei rapporti affettivi e pericoloso per l’integrità della famiglia.
La scelta di lavorare con tutto il nucleo nasceva però anche dal riscontro nei genitori e nei figli di una esplicita volontà di ritrovare un equilibrio migliore e una attesa positiva , una apertura alla possibilità di essere aiutati nella direzione del “bene”, sia il bene del figlio per i genitori sia il bene proprio e della famiglia da parte del figlio.
Solo nel primo caso che ho tratteggiato il lavoro insieme non era di fatto possibile perché la condizione del bambino non lo consentiva. Non è stato possibile però neanche far incontrare insieme tutti gli adulti sebbene fosse la richiesta di partenza; anche se apparentemente tutti desideravano che si mediasse il conflitto per il bene del nipote mancava in realtà la fiducia che un cambiamento potesse portare giovamento a ciascuno dei membri; ognuno temeva di essere l’unico che invece di guadagnarci ci avrebbe rimesso e si nascondeva dietro una astratta difesa del bene del bambino, che , appunto per il suo bene , era l’unico che doveva cambiare.
Negli altri casi il lavoro è continuato attraverso incontri con tutti i membri della famiglia . Nei colloqui ciascuno aveva spazio per esprimere il proprio desiderio e poteva scoprire quello dell’altro rispetto alla convivenza o alle diverse situazioni più o meno conflittuali; era possibile intervenire e modificare o correggere gli errori di interpretazione delle proprie intenzioni e insieme riconoscere come certi comportamenti inducevano ad una lettura errata delle intenzioni stesse. E’ stato dato spazio alla espressione del dolore di ciascuno e anche alla comunicazione della propria speranza nel confronto del nucleo familiare. Mi ha colpito il fatto che i ragazzini più piccoli (10 e 11 anni) sono stati i più veloci a cogliere l’opportunità ed utilizzarla in senso positivo verso un cambiamento. Il maggior bisogno della presenza dei genitori e una maggiore apertura di cuore verso il positivo li ha resi umanamente più intelligenti e meno rigidi nelle difese.
[ 56 ]
In particolare è emerso che i figli, anche gli adolescenti, non si scandalizzano degli errori dei loro genitori, sicuramente lo fanno molto di più gli adulti nei loro confronti; anche gli adolescenti hanno un forte bisogno di famiglia, non come luogo di protezione, rifugio o, per un’ ultima forma di difesa da errori, fatiche e sofferenze, come luogo di controllo dei loro desideri e delle loro azioni da parte degli adulti; i ragazzi desiderano un luogo di rapporti vivo e caldo con adulti che si rispettano, che si guardano con positività e si aprono alla vita con speranza per se stessi e per loro.
La famiglia è un elemento vivo e dinamico nella sua fisiologia; il bambino/adolescente è un elemento di una costellazione che esiste attraverso le forze che legano i singoli elementi, che si influenzano reciprocamente e che si modificano; il cambiamento di ognuno modifica le forze che legano o allontanano ciascuna parte e insieme il modificarsi dei legami influenza il cambiamento di ciascun membro, ovviamente non sempre e mai nello stesso modo per tutti.
Il processo non è meccanico secondo un semplicistico fenomeno di causa –effetto; la famiglia è veramente il terreno che nutre la radice e insieme orienta il tronco e a volte consente, a volte impedisce e sempre interferisce con lo sviluppo dei rami della pianta assolutamente originale che ognuno è; originale, cioè secondo l’origine, che i genitori per primi accolgono alla nascita in quanto non la possono precostituire secondo un progetto, perchè all’inizio c’è uno già fatto che tu scopri e con il quale dialoghi.
Deve crescere la consapevolezza nel nostro lavoro che quando si prende in carico un elemento si entra in questa costellazione e si lavora questo terreno; ignorarlo rischia di portarci fuori strada rispetto alla possibilità stessa di cura, soprattutto quando si lavora sulla singola persona e quando l’alleanza con il paziente deve prevalere rispetto alla tutela del contesto per consentirgli un sano distacco da costellazioni troppo invischianti e patogene.
[ 57 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti
Franca Miola (UOC Psicologia Clinica) L' Unità Operativa Complessa di Psicologia dell' A.O. San Carlo Borromeo di Milano, a partire dalla fine degli anni novanta, ha adottato via via un'ottica sempre più dimensionale, piuttosto che categoriale per il trattamento dei disturbi psicologici dell'intero ciclo di vita. In particolare la fascia d'età dai 13 ai 25 anni rappresenta da sempre una sorta di “terra di nessuno” : questi utenti sono troppo grandi per una presa in carico nei servizi per l'infanzia e troppo piccoli per un accesso, a carattere anche stigmatizzante, presso strutture psichiatriche.
Di converso sono proprio loro che attraversano una fase della vita caratterizzato da elevata vulnerabilità psicologica, a fronte del grande impegno che comporta il diventare adulti.
Al tempo gli operatori sanitari dell'Azienda Ospedaliera San Carlo Borromeo riscontravano un significativo continuo aumento, soprattutto alla fine dell'anno scolastico, degli accessi in Pronto Soccorso di ragazzi e ragazze che si erano fatti male nei modi più disparati con: autolesioni, tagli, ferite, infezioni legate a pratiche insicure di tatuaggi e piercing, abuso di alcol e sostanze, lesioni a seguito di risse e crisi pantoclastiche, svenimenti legati a gravi restrizioni o eccessi alimentari, incidenti stradali strani e veri e propri Tentati Suicidi (vignette cliniche: Valeria 14 anni, Giuseppe 16 anni, Susy 12 anni e mezzo, Vincenzo 17 anni).
L'intervento sanitario spesso si limitava alla esclusiva prestazione medica di pronto soccorso, per una specifica volontà dei ragazzi, ma soprattutto dei genitori, che tendevano a liquidare l'evento traumatico, occorso al proprio figlio, come una bravata, un episodio occasionale da dimenticare etc. Si veniva a perdere così una grande occasione, e a volte l'unica, di cogliere e farsi carico di una richiesta di aiuto mascherata che il ragazzo aveva agito, utilizzando come mezzo il proprio corpo, un corpo peraltro in una fase di grande cambiamento.
A fronte di ciò si è iniziato a costruire un pensiero condiviso tra tutti gli operatori sanitari, compresi i medici di medicina di base, gli infermieri di Pronto Soccorso e anche gli operatori di associazioni del privato sociale, per affrontare in modo efficace la problematica degli adolescenti che attaccano il sé corporeo.
Si è potuto realizzare nel triennio 2003‐2005 un progetto finanziato dalla Fondazione Cariplo, di intervento integrato per la cura dei ragazzi che mettono in atto atti autolesivi e suicidari, che ha visto come partners l'Associazione Area G e L'Amico Charlie del Minotauro di Milano.
Tale progetto ha permesso di consolidare la prassi di una presa in carico precoce (già durante l'accesso in PS) e intergrato, medico, infermieristico, psicologico e psichiatrico per l'adolescente e la sua famiglia.
La presa in carico si declinava via via a seconda della specificità di ogni singolo caso e ha previsto un breve ricovero di osservazione presso il reparto di Pediatria e successivamente in altri reparti dell'ospedale, se necessario,e sempre contemporaneamente, colloqui psicologici con il ragazzo e i genitori, sia con formato individuale e familiare, presso l'UOC di Psicologia o presso le associazioni succitate.
[ 58 ]
I risultati raggiunti hanno permesso di evidenziare l'efficacia di un intervento integrato e precoce, che partendo dalla cura del corpo (presente) attraverso l'elaborazione dei significati personali e relazionali dei sintomi (passato) esitava nella ripresa per l'adolescente, della capacità di pensare e progettare (futuro).
Negli periodo 2009‐2011 questa prassi è stata ulteriormente implementata, grazie anche alla realizzazione di due Programmi Innovativi Regionali : Trattamento degli esordi dei Disturbi della Personalità (TR43) e il Trattamento Integrato dei Disturbi del Comportamento Alimentare.
Attualmente è in atto un Progetto Innovativo: “Riconoscimento e Trattamento dei Disturbi Psicologici in Adolescenza”, finanziato dall'ASL città di Milano e ASL della Provincia Milano 1 per la fascia di età dai 14 ai 24 anni che prevede la reperibilità di uno psicologo dell' U.O. C. in fasce orarie determinate in Pronto Soccorso e piani di trattamento articolati in connessione con gli ambulatori dell'attività ordinaria dell'U.O.C. Di Psicologia ( D.C.A., Ansia, Depressione, Neuropsicologia, Patologie Medico Chirurgiche ed Età Evolutiva e Spazio Giovani) e i reparti ospedalieri (Dietologia, Pediatria, Medicina, Ortopedia, Psichiatria, Etc.).
[ 59 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Lavorare insieme per un progetto Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti
IDENTITA’ DI GENERE: una questione di attualità crescente per pediatri e psicoterapeuti dell’età evolutiva Paola Stimamiglio (UOS Psicologa Clinica)
Vorrei premettere che non sono un esperta del problema, ma sono stata indotta ad occuparmene da una serie di circostanze quasi fortuite, tra cui un corso promosso sull’argomento dall’Ordine dei Medici della mia città; inoltre è evidente che è di estrema attualità sia a livello culturale generale, come dimostrato dallo spazio che i media riservano ad esso, sia a livello clinico. Ripensando poi alla mi personale esperienza con i pazienti,mi sono accorta che il riscontro di problemi di identità sessuale è spesso presente nel contesto dei più svariati disturbi, a varie età, come cercherò di documentare brevemente in conclusione con alcuni accenni a tre casi clinici.
La questione dell’identità di genere e dei disturbi ad essa correlati sta attirando una crescente attenzione nel mondo medico, in particolare in quello pediatrico e, di conseguenza, è destinata a coinvolgere in modo più pressante gli psicoterapeuti dell’età evolutiva,oltre che altre figure professionali ( educatori, assistenti sociali, insegnanti) e potrebbe pertanto costituire un possibile esempio di “ lavoro in equipe”, che è il tema di questo Convegno.
L’autorevole rivista dell’Accademia Americana di Pediatria, “Pediatrics”, dedica all’argomento, nel numero di marzo 2012, due articoli clinici ed un articolo di commento, definendolo “un problema emergente per i pediatri”.
Ai pediatri spetterebbe la valutazione e la discussione con i genitori dei comportamenti di genere “varianti” dei loro giovani pazienti( nei maschi:preferenza per l’ abbigliamento femminile,compreso quello intimo, scelta costante della posizione seduta per urinare, gioco elettivo con giocattoli femminili,desiderio di avere i capelli lunghi; nelle femmine preferenza per l’abbigliamento maschile, fasciatura del seno,rifiuto di indossare costumi da bagno femminili, scompenso psichiatrico alla comparsa delle mestruazioni).
In uno degli articoli ( autore Norman P. Spack et al.), è descritta l’esperienza di un centro pediatrico ospedaliero di Boston in cui, sulla falsariga di una esperienza olandese, viene effettuata la soppressione ormonale dello sviluppo puberale con analoghi del Gonadotropin Realising Hormone (Fattore di rilascio delle Gonadotropine) in ragazzi con disturbo dell’identità di genere (GID), in vista di un eventuale intervento di cambiamento di sesso; il range di età dei pazienti è compreso tra i 6 e i 20 anni. E’ da notare che per definizione il GID esclude la presenza di anomalie genetiche, anatomiche o ormonali e si riferisce pertanto alla percezione soggettiva della discordanza tra propria identità sessuale ed il sesso biologico.
La motivazione clinica per l’ inibizione della pubertà è costituita dalla mancata reversibilità dei caratteri sessuali secondari oltre un certo stadio di essa e dal conseguente disagio psicologico degli individui che optano in seguito per il cambiamento di sesso ; inoltre gli autori ritengono che l’inibizione dello sviluppo puberale migliori il funzionamento psicologico dei pazienti con disforia di genere e consenta loro di decidere, con i medici e le loro famiglie,se iniziare il trattamento ormonale con l’ormone del sesso opposto.
[ 60 ]
Appare a questo proposito sconcertante che venga considerato irrilevante ai fini dello sviluppo anche psicologico il ruolo fisiologico degli ormoni sessuali.
Peraltro è a mio parere rilevante che nella casistica il 44% dei pazienti presentino una pregressa storia di diagnosi psichiatrica, che secondo gli Autori “ostacola” la diagnosi di disforia di genere, mentre c’è da domandarsi se il significato di tale comorbilità non sia ben diverso, è cioè se il disturbo non sia da inquadrare, e pertanto da trattare, nel più vasto contesto del disturbo principale. Notevole è anche il dato relativo alla percentuale di pazienti che provengono da famiglie con genitori separati o divorziati ( 47%), che solleva il problema del complesso ruolo delle identificazioni con le figure parentali nella formazione dell’identità sessuale.
Le obiezioni che sorgono riguardo a questa esperienza clinica non finirebbero qui, ma vorrei ora anche solo per pochi attimi allargare lo sguardo oltre il caso particolare del trans‐sessualismo, che ho descritto per primo perché mi è parso emblematico.
Appare infatti evidente come i cambiamenti sociali e culturali abbiano messo in discussione la tradizionale distinzione di ruolo tra i sessi ( madri lavoratrici, padri casalinghi) e la tradizionale struttura familiare ( pensiamo alle famiglie di separati o divorziati, ai genitori single, alle coppie omosessuali che rivendicano il diritto all’adozione o alla fecondazione artificiale eterologa,con la conseguente proposta di sostituire i termini “padre” e “madre” con quelli “genitore1” e “genitore2” ); inoltre, come da più parti evidenziato con allarme, i media, ed in particolare Internet, propongono in modo ossessivo immagini esplicite e modelli comportamentali in cui “le barriere che marcano le differenze sessuali e generazionali sono fragili e sfumate” (C.Freddi in “Il corpo come se.Il corpo come sé” a cura di D.Albero, C.Freddi,E.Pelanda, ed. Franco Angeli ). Tutti questi fenomeni stanno rendendo sempre più problematica e potenzialmente confusa la formazione dell’identità sessuale, sia nell’età infantile sia in quella adolescenziale.
Venendo a mancare il senso del corpo sessuato come “dato”, anche tutto il ricchissimo significato relazionale ad esso collegato è messo in discussione,dando origine a una inedita patologia del corpo ( self‐cutting,mania del tatuaggio, disturbi alimentari, dismorfofobie con richiesta immotivata di interventi di chirurgia estetica) ed a comportamenti individuali e di gruppo inediti, almeno quanto a diffusione (promiscuità sessuale, amico‐partner sessuale, voyerismo)talmente frequenti da rendere ormai difficile il discrimine diagnostico con situazioni patologiche ( vedi comunicazione delle dott.sse A.Nicolò e Irene Ruggiero alla giornata della SPI sull’adolescenza, Genova 9/6/12).
Come anticipato all’inizio,farò ora un accenno alla mia esperienza clinica, per tentare di esemplificare come un problema di identità sessuale possa costituire un aspetto importante all’interno di un quadro psicopatologico più complesso e come possa venire, almeno apparentemente, sottovalutato dai genitori, che probabilmente sono tanto allarmati da negarlo.
[ I casi clinici sono omessi per ragioni di riservatezza]
[ 61 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
“Transumanar e organizzar”
L’équipe come fonte di conoscenza e di comunicazione Luigi Boccanegra (Neuropsichiatra, Psicoanalista SPI, Venezia) "Fragilità mentale e radici della convivenza"
L' Autore intende soffermarsi in modo particolare sul lavoro di "ricostruzione del caso clinico in gruppo", così come viene realizzato nelle Istituzioni di Cura, quando lo psicoanalista viene invitato, come Consulente, a raccogliere i frammenti relativi alla storia di un paziente ricoverato, nel tentativo di dare una certa coerenza al materiale raccolto dagli operatori, partendo ogni volta dal linguaggio ordinario degli stessi (L.Wittgenstein, A. G. Gargani). Il contatto con il linguaggio ordinario degli operatori permette infatti di individuare la funzione di "porta‐impronta" dell'operatore, cioè quelle tracce dell'identità del paziente che l'operatore porta impresse su di sè, data la vicinanza che è riuscito a raggiungere nei suoi confronti. A quel punto anche dire che l'infermiere riferisce un ennesimo dettaglio significativo, è troppo poco. Non è un'idea più di un'altra che conta, un significato, un concetto, è una "luogo‐tenenza" vera e propria (P. Ricoeur), per cui l'operatore personifica l'impronta che il paziente ha lasciato su di lui.
Mentre ascolta il racconto dei frammenti clinici, il Consulente si lascia andare "in caduta libera" dentro di sè, rinuncia ad ogni forma di aggrappamento e si espone alla transitorietà creaturale per stabilire delle connessioni nuove in base a quanto si riesce a cogliere attraverso l'operatore più coinvolto come "testimone dell' assoluto" (J. Nabert). E il vero testimone è più spesso quello involontario, quello che porta il frammento senza sapere veramente che cosa vuol dire (S.Cavell), ma avendo, alla luce della sua esperienza, il presentimento che possa essere importante riferirlo in quel momento. E' questa la situazione per la quale il testimone trasmette con autenticità l'esperienza vissuta nell'incontro con il paziente senza essere consapevole di trovarsi nell'ambito della "charitas". A quel punto anche la fisionomia del paziente ritrova la propria inconfondibilità vivente (S.Resnik), rispetto alle etichette psicopatologiche di partenza.
Quella inconfondibilità che permette alla fine di una "ricostruzione clinica riuscita" di sorridere insieme ripensando al percorso che si è compiuto: per cui ricordando gli enunciati iniziali (le ipotesi definitorie, direbbe W. Bion), da cui si era partiti, si riesce a sorridere appunto del sè gruppale iniziale: "Ma come potevamo all'inizio parlare così superficialmente di questa persona, rispetto a come la vediamo ora?'".
[ 63 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Condividere è curare?
L’équipe, il case manager e il modello dell’integrazione funzionale nei disturbi gravi: il lascito di C.G. Zapparoli Barbara Pinciara (Psichiatra, Docente Iserdip, Milano) Nell’intervento vengono affrontati i temi dell’integrazione nel lavoro di équipe nel trattamento dei pazienti gravi all’interno dell’istituzione, la pari dignità delle funzioni e la condivisione nella gestione dello psicotico, che non è più riduttivamente il “ mio paziente”, ma il paziente dell’équipe.
Il Case Managment in Psichiatria comporta che un operatore si assuma la funzione organizzativa di custode del processo di cura, per cui nella spesso farraginosa operatività del Centro Psico Sociale, oberati dalla quantità dei pazienti in carico, non si perdano obbiettivi e strategie per raggiungerli, venendo meno alla continuità terapeutica, importantissimo aspetto della cura.
Il Modello dell’Integrazione Funzionale, ideato e proposto da Gian Carlo Zapparoli prevede che l’organizzazione si declini a partire dalla clinica, dal rilevamento dei bisogni specifici della condizione di malattia e dei deficit nella relazione, onde per cui si arrivi alla diagnosi di funzionalità, che con la definizione degli elementi della simbiosi, ci fornisca un quadro esaustivo della condizione psicopatologica dello schizofrenico. Non possiamo più accontentarci della definizione nosografica della malattia, ma dobbiamo approfondire molto di più la nostra conoscenza del paziente, della famiglia, della rete sociale. Tutto ciò è già molto importante per l’impostazione del trattamento per arrivare alla focalizzazione della simbiosi, alla guarigione sociale con miglioramento della qualità della vita ed ampliamento degli spazi vitali. In questo modo lo psicotico, meno solo e meno impaurito, potrà sperimentare una relazione emotiva correttiva e nel rispetto e nella reciprocità entrare nella dimensione dello scambio e del dono.
[ 65 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Condividere è curare?
Responsabilità dell’operatore e cura della persona: trattamenti integrati farmacologici, psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Claudio Maffini (Psichiatra, Direttore DSM A.O. Crema) “Un cuore intelligente”
Un cuore intelligente è l’integrazione. Ragione più affettività (ovvero la ragione vera e propria) all’opera nel leggere dentro la realtà. Il significato come traccia di una presenza che la abita. Il senso come destino. L’avvenimento che riempie di sé il tempo. L’incontro che risponde alla domanda dell’esistenza, genera una compagnia, regala la possibilità di riconoscersi in una comunità di origine e di destino.
Kronos è il tempo cronologico e cronometrico, ma il tempo che conta per davvero non è anzitutto questo. Il tempo dell’integrazione è “kairòs” il tempo propizio, il momento buono. Va d’accordo con l’attesa e con l’azione tempestiva ed appropriata, richiede d’essere riconosciuto e scelto mentre ti sceglie e ti detta le mosse e suggerisce quant’è “giusto” facendo balenare il punto di mira in un accadimento. È questo il tempo dell’incontro e dell’avvenimento.
L’integrazione richiede di inchinarsi al kairòs come criterio di organizzazione ed allora anche quanto viene solitamente inteso con la parola organizzazione viene riscattato dalla riduttiva banalità e dalla piatta ripetitività del mettere in ordine. In sostanza, organizzare non è ordinare, è molto di più. E ordinare sta a kronos come organizzare sta a kairòs.
Il lamento più frequente ed ubiquitario generato dalla constatazione di fatto dell’inesauribilità del bisogno con cui ci misuriamo si esprime con: non c’è tempo, non ho tempo. E chi avrà mai il tempo di vuotare il mare? Ce la pigliamo con le circostanze, come se queste avessero davvero a rappresentare un impedimento, piuttosto che la forma concreta che viene a definire il compito.
È necessario, per non perdere tempo, che non ci si lasci ingannare dai modelli di presa in carico. Quando somigliano troppo ad un’azione eroica e muscolare, che il curante realizza portando sulle spalle e per mano tutto quanto, dal paziente ai suoi famigliari all’equipe finiranno inevitabilmente per generare complicazioni ed abbandoni, trapassando dalla figura di Enea a quella di Ercole che chiude i conti con proprio “paziente” Caco, prendendolo saldamente in carico e stritolandolo, grazie all’accorgimento di tenergli i piedi ben staccati da terra, perché non passi in lui la forza che il “territorio” potrebbe trasmettergli. Meglio il Buon Samaritano, che saggiamente carica su un somarello il suo malcapitato e malconcio “prossimo” incrociato per via e lo lascia poi all’albergatore. La rete non è principalmente un modo per risparmiare le risorse e la sussidiarietà, se correttamente intesa, è il principio imprescindibile che può salvaguardare da inaccettabili distorsioni qualsiasi contesto di cura, da quello duale alla più articolata delle prese in carico. Corregge ed indirizza virtuosamente organizzazione, terapia, riabilitazione ed assistenza.
Il metodo non può contraddire l’oggetto. Così, tanto quanto l’apprendimento, la formazione continua alla cura, anche la cura stessa e la riabilitazione non possono essere frutto dello “sgocciolamento di sussidi” e neppure di un addestramento.
[ 66 ]
Argomenta Peguy, «nel commercio fra uomo e legno, fra uomo e pietra, un’ingiuria non si dimentica più, nulla si cancella, (…) tutto è irreversibile, dunque tutto è eterno». Poi arriva il ferro, questa materia “prostituzionale” e tutto cambia. Come commenta Finkielkraut nell’esporre il suo pensiero «Silenziosa e sottomessa, assoggettabile e manipolabile, domestica e disponibile, inerte e offerta, la materia moderna è una materia che la vera vita ha abbandonato. Il ferro, ovvero il trionfo della volontà: laddove l’uomo componeva, ora dispone e impone; dove rispondeva, ordina; dove socializzava, fa soliloqui; dove recepiva, concepisce, calcola, pianifica e programma; dove dipendeva, regna. Il corrispettivo della sua attività non è più la natura, o la realtà così come si concede, ma l’operabilità e la plasticità senza limiti di una materia senza dignità; non è più l’essere in quanto altro, ma l’essere come prolungamento dell’uomo, l’essere come servizio, l’essere liberato da ogni trascendenza e da ogni esteriorità. Quando il dono cede il posto alla dominazione, quando la tecnica non ha più qualcuno con cui parlare sulla terra, allora l’uomo cambia mondo o, più precisamente, il mondo cambia umanità.»
Per questo, se c’è qualche pezzo di umanità che resiste a questa infernale colata, per costoro curare è condividere ed in questo si gioca, fino in fondo la loro responsabilità.
[ 67 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Condividere è curare?
Responsabilità dell’operatore e cura della persona: trattamenti integrati farmacologici, psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Fabio Monguzzi (Psicoterapeuta, Docente EIST, Milano) L’intervento verterà sul tema dell’etica e della responsabilità della cura nell’ambito nei trattamenti psicoterapeutici. Verrà messo in evidenza come il processo terapeutico sia parte di un più ampio processo collettivo per cui appare importante che il terapeuta si collochi all’interno del contesto socio‐culturale nel quale opera, interrogandosi in merito al suo sistema di valori e di principi etici. Ciò al fine di non disimpegnarsi, in un malinteso senso di neutralità, in merito a questioni che sono implicitamente presenti nella relazione terapeutica. Dopo una breve analisi delle trasformazioni dell’epoca attuale definita post‐moderna, verranno evidenziate le ricadute sul lavoro psicoterapeutico, in particolare per ciò che riguarda il funzionamento psichico dell’individuo e il senso di responsabilità relazionale.
[ 69 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
Condividere è curare?
Responsabilità dell’operatore e cura della persona: trattamenti integrati farmacologici, psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Mauro Percudani (Psichiatra, Direttore DSM Azienda Ospedaliera Salvini, Garbagnate Milanese)
In Italia, i servizi psichiatrici rappresentano un’importante realtà del territorio. La qualità dell’assistenza non è tuttavia costituita solo dalla dimensione strutturale, al contrario richiede progetti di intervento che abbiano una chiara direzione e un senso condiviso dagli operatori e dagli utenti stessi. Particolarmente nell’assistenza ai casi più gravi e problematici, è necessario evitare frammentazione e discontinuità. Ciò è vero sia dal punto di vista istituzionale (coinvolgimento dei diversi attori con compiti di tutela della salute mentale), sia in ambito clinico‐operativo.
Nella “presa in carico” dei soggetti con disturbi psichici gravi, il tema dell’integrazione diviene fondamentale proprio dal punto di vista clinico. E’ in questo ambito che l’attuazione del principio di continuità terapeutica e la necessità di integrazione sociosanitaria sono indispensabili per la cura. Dal punto di vista operativo, un percorso di presa in carico si fonda necessariamente sull’integrazione di attività specifiche. Innanzi tutto l’attività clinica, quali l’attività psichiatrica e psicologica, e l’attività riabilitativa, intesa come attività di riabilitazione, risocializzazione, reinserimento nel contesto sociale che favorisca un ancoraggio forte al progetto di cura attraverso il legame fondamentale con la rete territoriale primaria (naturale) e secondaria (servizi). Vi è poi da considerare che in molti casi, soprattutto i più gravi, un percorso di presa in carico necessita di attività di assistenza, ovvero di attività di sostegno al paziente nei suoi aspetti deficitari e una attività di intermediazione per contrastare gli effetti di deriva sociale connessi con la patologia e con lo stigma e l’utilizzo di opportunità fornite dalle agenzie territoriali (servizi sociali, realtà cooperativistiche e di lavoro protetto, gruppi di volontariato), Infine, l’attività di coordinamento deve essere intesa come attività sul singolo caso che garantisca integrazione delle diverse aree di attività, dei diversi erogatori che partecipano al progetto di cura, e garantisca continuità al piano di trattamento individuale. In questa prospettiva è di particolare importanza il lavoro di equipe e l’identificazione di una micro‐equipe che lavora sul caso e di un operatore che svolga la funzione di case‐manager.
L’operatività interna ai servizi psichiatrici non esaurisce comunque il bisogno di integrazione degli interventi e della possibilità di accesso alle risorse del territorio. Per questo obiettivo, diventa necessario considerare l’apporto di altri soggetti sviluppando il ruolo dei diversi attori sociali e porre dentro il sistema attuale la funzione innovativa del privato sociale, utilizzandone le potenzialità nel creare “imprese sociali” oppure valorizzandone la vocazione specifica a rispondere a bisogni sociali quali l’abitare, il tempo libero, il lavoro. Su alcune di queste tematiche (inserimento lavorativo, nuove forme di residenzialità, progetti di intervento precoce, progetti per l’intervento nei disturbi psichici in età giovanile) è necessario consolidare e stabilizzare gli investimenti già avviati nell’ambito di diversi sistemi regionali.
[ 71 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
SESSIONE POSTER
Il trattamento precoce dei disturbi psichici gravi nei giovani Progetto Innovativo TR43
Dott. ssa F. Rosatti, Dott.ssa S. Comerio, Dott.ssa P. Scovazzi, Dr .A. Basilisca Ed. p. M. Zara, Dr. G. Belloni, Dr. L. Micheletti, Dr. G.Cerati, Dr. P. Castiglioni U.O. di PSICHIATRIA di Legnano e di Magenta del DSM di Legnano, A.O. Ospeale Civile di Legnano (MI) INTRODUZIONE La ricerca scientifica negli ultimi anni sottolinea la necessità di anticipare il più possibile i tempi del riconoscimento e dell’intervento per i disturbi mentali. Uno dei parametri che predice l’evoluzione e la cura delle psicosi è proprio la durata che intercorre tra l’esordio e l’inizio del suo trattamento. Esiste un tempo critico entro il quale è auspicabile l’intervento, superato il quale le possibilità di cura diminuiscono in modo sostanziale. Se si interviene tempestivamente si riduce la sintomatologia e si migliora il funzionamento psicosociale.
PRESENTAZIONE ESPERIENZA Obiettivo del programma innovativo TR43 è la prevenzione, l’individuazione ed il trattamento precoce dei disturbi psichici gravi nella fascia di età 16‐30 ed ha preso avvio nel settembre 2009 presso il DSM dell’A.O. di Legnano come continuazione di una precedente esperienza (triennio 2005‐2008). Le aree fondamentali d’intervento riguardano (1) la precoce individuazione dei soggetti a rischio di sviluppare disturbi psichiatrici gravi e degli stati mentali “a rischio”; (2) il tempestivo trattamento degli esordi e del primo episodio in modo da ridurre la durata di malattia non trattata associato alla facilitazione dell’accesso ai trattamenti; (3) lo sviluppo e ottimizzazione di trattamenti specifici per la fase di malattia mirati alla prevenzione della disabilità, al mantenimento del ruolo sociale della persona, al sostegno del contesto relazionale familiare e sociale ed alla prevenzione delle ricadute. I criteri di accesso utilizzati differiscono per i pazienti con disturbo psicotico al primo contatto con il servizio e per i pazienti con fattori di rischio per sviluppo di disturbo psichico in entrambi i casi è previsto un assessment strutturato.
DISCUSSIONE Lo scopo del presente lavoro è di illustrare il modello operativo adottato, ed in particolar modo il lavoro clinico con i suoi aspetti organizzativi, il lavoro terapeutico con le sue criticità ed il lavoro educativo con le difficoltà rilevate. Inoltre l’intento è quello di focalizzare l’attenzione sul lavoro di rete con le azioni volte all’individuazione precoce delle situazioni a rischio, alla riduzione dello stigma e alla facilitazione all’accesso ai trattamenti e sottolineare lo sforzo di integrazione con altri servizi: il lavoro con i consultori, le scuole, il volontariato e le associazioni. Peculiare è la collaborazione con il servizio di Neuropsichiatria Infantile tramite equipe funzionali integrate TR43‐APA (Acuzie Psichiatriche in Adolescenza), orientate alla presa in carico congiunta di adolescenti che presentano stati mentali a grave rischio a partire dai 14 anni d’età. Scopo principale della discussione è sottolineare l’ assoluta necessità e funzionalità di un lavoro d’equipe e di rete, lavoro in cui ogni operatore è pienamente coinvolto e co‐protagonista insieme ai colleghi e al paziente del progetto di cura.
[ 73 ]
Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe
Tabiano Terme, 25 – 27 ottobre 2012
SESSIONE POSTER
Programma innovativo territoriale sull’individuazione e trattamento della depressione in gravidanza e nel post-partum Finanziato dalla Regione lombardia
Dott. ssa Lorena Vergani, Dott. ssa Allegra Fisogni, Dott. ssa Raffaella Massagrandi, Dr. Pierluigi Castiglioni, Dr. Giorgio Cerati A.O. Ospedale Civile di Legnano (MI) DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE ‐ Direttore Dr. Giorgio Cerati SERVIZIO DI PSICOLOGIA CLINICA – Responsabile Dott.ssa Lorena Vergani
Conoscere per condividere per il nostro Progetto ha significato prima di tutto informare gli operatori sanitari e sociali presenti nel contesto ospedaliero e sul territorio. Abbiamo condiviso gli obiettivi del Progetto attraverso riunioni, incontri e giornate di formazione. Grazie al passaggio di informazioni rispetto alla Depressione Post Partum abbiamo creato una nuova modalità di vicinanza alla maternità, alle sue luci e ombre, sollecitando gli operatori ad accostarsi alle future mamme e neomamme con uno sguardo attento, capace di cogliere il disagio, spesso dissimulato e negato, riconoscerlo e accettarlo come un momento evolutivo della vita, normalizzando senza disconoscere la sofferenza. Un programma di interventi volti a poter prendersi cura del disagio con la speranza di affrontare e superare le difficoltà avvalendosi delle proprie risorse e di quelle, a volte silenti, che la comunità famigliare, sociale e sanitaria può offrire. Il Progetto ha previsto la costituzione di un’equipe multidisciplinare composta da operatori socio‐sanitari del Dipartimento di Salute Mentale (psicologi, psichiatri, infermieri) e operatori del Dipartimento Materno Infantile (ginecologi, ostetriche, pediatri, infermieri). Punto nodale è stata la costruzione di una rete sul territorio attraverso la collaborazione con gli operatori dei servizi dell’ASL Provincia Milano 1 (Consultori, Medici di Medicina Generale, Pediatri di Famiglia e Punti Vaccinali) e il coinvolgimento delle Associazioni di volontariato. La creazione e l’attivazione della rete dei servizi territoriali e ospedalieri ha permesso di articolare interventi di prevenzione: presenza ai corsi di preparazione al parto, attività di screening rivolta alle neo mamme a partire dall’ottava settimana di vita del bambino presso i Poli Vaccinali. Gli interventi proposti dopo la fase valutativa di screening sono stati: consulenza psicologica (individuale o di coppia), interventi psico‐educativi, psicoterapia individuale e consulenza e psichiatrica. Sono stati realizzati:
• Incontri di informazione e prevenzione per la donna e la futura coppia attraverso i corsi di preparazione al parto;
• Screening nei Poli Vaccinali dei distretti di nostra competenza, che ha coinvolto più di 500 donne
• Attivazione di spazi di ascolto rivolti alle mamme che hanno registrato un’affluenza di quasi 200 utenti;
• Le psicoterapie individuali e i colloqui di sostegno avviati sono stati circa un centinaio;
• Attività di formazione rivolte agli operatori ospedalieri;
• Incontri di aggiornamento con gli operatori e i servizi extraospedalieri coinvolti nel Progetto.
[ 74 ]
Il lavoro di condivisione delle conoscenze e di creazione di contatti a più livelli ha consentito alle mamme, che esprimono una difficoltà nel gestire il cambiamento di ruolo nel delicato passaggio del diventare genitori, di chiedere aiuto sottolineando quanto è importante mettersi in relazione e uscire dall’isolamento della propria sofferenza, un conoscere per condividere gioie, disagi, speranze e nuovi progetti per il futuro. Il costante lavorare insieme della nostra equipe multidisciplinare ha favorito un prendersi cura attento ai diversi bisogni delle mamme e ha facilitato gli operatori nell’affrontare situazioni complesse anche dal punto di vista sociale proponendo percorsi di trattamento adeguati.
Segreteria scientifica: ASSOCIAZIONE MEDICINA E PERSONA - Via Melchiorre Gioia 171 – 20125 Milano Tel.: 0267382754 - Fax: 0267100597 – [email protected] – www.medicinaepersona.org
Segreteria organizzativa: LIMES Srl - Via Melchiorre Gioia 171 – 20125 Milano Tel.: 026697911 - Fax: 0267100597 - [email protected] – www.limesmed.com