Sui motivi afferenti le analisi genetico-forensi . La Corte espone le motivazioni concernenti le risultanze genetico-forensi, in diversi capi della sentenza che qui devono intendersi integralmente riportati ed impugnati in ogni loro parte. Esaurite le necessarie premesse introduttive e metodologiche relative al presente atto di appello, questa difesa, nell'affrontare la complessa tematica del DNA, vuole, sin da subito, evidenziare con massima forza il macroscopico e travolgente errore cui è incorsa la Corte d'Assise di Bergamo, nella sentenza qui impugnata, sul punto nodale dell'intera vicenda. Come noto, sin dalla fase cautelare, all'esito di una consulenza di genetisti (dott. Carlo Previderè, dott.ssa Pierangela Grignani) incaricati dal Pubblico Ministero, questa difesa ha evidenziato l'inspiegabile situazione che possiamo sinteticamente definire di assenza del DNA mitocondriale dell'imputato nelle tracce allo stesso attribuite sotto il profilo nucleare ed individuate su slip e leggins indossati dalla vittima. Tale “aporia” (così l'ha definita il Tribunale del Riesame di Brescia) non ha trovato soluzione in dibattimento, né la sentenza si fa carico di offrire una spiegazione in grado di superare il ragionevole dubbio che si sia – nella migliore delle ipotesi – di fronte ad un clamoroso errore. Questo è, come evidente, il tema di maggiore delicatezza da affrontare e risolvere al fine di una corretta attribuibilità della traccia stessa. Posto che, ad una attribuzione probabilistica (per quanto elevata, si badi bene in termini statistici e non biologici ) dal punto di vista nucleare, corrisponde una esclusione (questa sì certa in termini biologici, cioè reali) dal punto di vista mitocondriale. La Difesa ha sempre sostenuto che l'assenza della componente mitocondriale del DNA dell'imputato in tracce a lui ricondotte fosse indicativa di qualcosa di innaturale, soprattutto in considerazione che una tale situazione non si è mai osservata in natura e relativamente alla quale non si è trovata una spiegazione scientifica. La tesi continuamente ribadita, invece, dalla Pubblica Accusa, recepita tout court dalla Corte in assenza di perizia, è che solo il DNA nucleare ha capacità identificative, cosa che non può dirsi per il mitocondriale, la cui 52
79
Embed
Sui motivi afferenti le analisi genetico-forensi · macroscopico e travolgente errore cui è incorsa la Corte d'Assise di Bergamo, nella sentenza qui impugnata, sul punto nodale dell'intera
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
Sui motivi afferenti le analisi genetico-forensi.
La Corte espone le motivazioni concernenti le risultanze genetico-forensi,
in diversi capi della sentenza che qui devono intendersi integralmente
riportati ed impugnati in ogni loro parte.
Esaurite le necessarie premesse introduttive e metodologiche relative al
presente atto di appello, questa difesa, nell'affrontare la complessa tematica
del DNA, vuole, sin da subito, evidenziare con massima forza il
macroscopico e travolgente errore cui è incorsa la Corte d'Assise di
Bergamo, nella sentenza qui impugnata, sul punto nodale dell'intera vicenda.
Come noto, sin dalla fase cautelare, all'esito di una consulenza di genetisti
(dott. Carlo Previderè, dott.ssa Pierangela Grignani) incaricati dal Pubblico
Ministero, questa difesa ha evidenziato l'inspiegabile situazione che
possiamo sinteticamente definire di assenza del DNA mitocondriale
dell'imputato nelle tracce allo stesso attribuite sotto il profilo nucleare ed
individuate su slip e leggins indossati dalla vittima.
Tale “aporia” (così l'ha definita il Tribunale del Riesame di Brescia) non ha
trovato soluzione in dibattimento, né la sentenza si fa carico di offrire una
spiegazione in grado di superare il ragionevole dubbio che si sia – nella
migliore delle ipotesi – di fronte ad un clamoroso errore.
Questo è, come evidente, il tema di maggiore delicatezza da affrontare e
risolvere al fine di una corretta attribuibilità della traccia stessa.
Posto che, ad una attribuzione probabilistica (per quanto elevata, si badi
bene in termini statistici e non biologici) dal punto di vista nucleare,
corrisponde una esclusione (questa sì certa in termini biologici, cioè reali)
dal punto di vista mitocondriale.
La Difesa ha sempre sostenuto che l'assenza della componente
mitocondriale del DNA dell'imputato in tracce a lui ricondotte fosse
indicativa di qualcosa di innaturale, soprattutto in considerazione che una
tale situazione non si è mai osservata in natura e relativamente alla quale
non si è trovata una spiegazione scientifica.
La tesi continuamente ribadita, invece, dalla Pubblica Accusa, recepita tout
court dalla Corte in assenza di perizia, è che solo il DNA nucleare ha
capacità identificative, cosa che non può dirsi per il mitocondriale, la cui
52
assenza, inoltre, potrebbe essere giustificata da svariate ragioni però mai
esplicitate con riferimento al caso specifico.
Ora, affermare, come si sostiene a pag. 86) della sentenza, che il DNA
mitocondriale sia privo di capacità identificative “anche a fini di mera
esclusione” è un gravissimo errore che dimostra come la Corte non abbia
sicuramente compreso la portata di tale dato scientifico.
Peraltro, l'enunciato è palesemente in contrasto logico con quanto affermato
dalla Corte stessa poche pagine dopo. A pag. 95) della sentenza leggiamo
che: “la ricerca del DNA mitocondriale su prelievi provenienti da tracce
miste (ossia con più contributori) sia sconsigliabile, potendo portare a false
esclusioni”.
Quindi, il mitocondriale se non ha capacità di esclusione non può portare a
false esclusioni.
Qualora tale fondamentale elemento non fosse stato ben compreso dalla
Corte in quanto “sfuggito” nella mole di dati da esaminare potrebbe essere
comprensibile, ma andrebbe, senza dubbio, rettificato da codesta Corte, con
gli esiti che si vedranno.
Qualora, invece, il Giudice, abbia voluto, quale perito peritorum,
contraddire le convergenti risultanze istruttorie sul punto, avrebbe dovuto
necessariamente offrire esaustiva argomentazione scientifica che, invece,
manca del tutto.
Quindi, che cosa ci ha detto l'istruttoria dibattimentale in tema di DNA
mitocondriale?
Il comandante del RIS – Col. Lago - interrogato dal Pubblico Ministero.
Pubblico Ministero: “Invece il DNA mitocondriale è altrettanto
idoneo a scriminare, ad individuare una persona rispetto ad un'altra?
Consulente Lago: “il DNA mitocondriale di una mamma passerà
uguale a se stesso, identico a se stesso, ai figli maschi e alle figlie
femmine, e sarà a sua volta uguale ai propri fratelli, alla propria
mamma, alla propria nonna e via dicendo...trovare DNA
mitocondriale in una traccia significa trovare non il DNA di quella
persona, ma il DNA di quella famiglia, di quella linea materna.
Quindi il DNA mitocondriale non è identificativo di un singolo
individuo”.
53
Non è identificativo, quindi, di un singolo individuo ma della intera linea
materna.
Medesima e sostanziale risposta è stata fornita, sul punto, anche dal dott.
Giardina, altro consulente del PM il quale, interrogato dalla Difesa (pag. 90
del verbale di udienza redatto in forma stenotipica del 18.11.2015):
Avv. Camporini: “Dal punto di vista, invece, dell'esclusione di una
persona, il DNA mitocondriale è un accertamento importante?
Consulente Giardina: “Certamente nel momento in cui noi ci troviamo
in presenza di profili di DNA come detto singoli, l'analisi del DNA
mitocondriale è un'analisi che viene utilizzata anche per escludere,
certo”.
Il consulente, quindi, ritiene l'analisi del mitocondriale utile anche per
escludere nei profili “singoli”.
Ma, relativamente alla possibilità di ottenere i medesimi risultati anche su
traccia mista valgano le considerazioni espresse dal dott. Casari, altro
consulente del P.M., quando (pag. 115 del verbale di udienza redatto in
forma stenotipica del 20.11.2015), interrogato sul punto dalla difesa:
Avv. Camporini: “Comunque sulla traccia mista il risultato esce?”
Consulente Casari: “ Sì”.
Avv. Camporini: “Ed esce affidabile?”
Consulente Casari: “Affidabilissimo, e il numero di sequenze è
proporzionale al contributo del genoma mitocondriale iniziale”.
Quindi, sia che si tratti di traccia mista, sia che si tratti di traccia ad unico
contributore, l'indagine sul DNA mitocondriale restituisce un risultato
affidabilissimo secondo gli stessi consulenti dell'Accusa.
Le affermazioni testé riportate sono in netto ed evidente contrasto con
quanto affermato dalla Corte, che ritiene il DNA mitocondriale non utile
anche ai fini della mera esclusione, soprattutto, con riferimento alle indagini
su tracce miste e degradate ritenute, peraltro, sconsigliabili.
Sconsigliabili non significa che queste non si possano fare e che soprattutto
che non portino a risultati chiari ed interpretabili!
Nel caso specifico, lo studio del DNA mitocondriale è stato affidato
all’Università di Firenze – Dipartimento di Antropologia molecolare –
specializzato proprio nella tipizzazione del mtDNA da traccia complessa
54
(degradazione e mistura).
Occorre evidenziare come detto studio sul DNA mitocondriale abbia
comportato l'utilizzo “nella loro interezza” dei campioni relative alle tracce
migliori per qualità e quantità attribuite ad Ignoto 1. Si veda il sotto
riportato stralcio dalla relazione Lago (pag. 5)
Ora, pensare di sminuire la portata di tale costosa indagine scientifica a meri
fini euristici e “consumare” interamente per tali scopi le uniche tracce da cui
era stato ricavato un profilo nucleare interpretabile, lascia veramente stupiti.
Secondo la comunità scientifica e secondo gli stessi consulenti del P.M.,
come visto, non trovare il DNA mitocondriale corrispondente al DNA
nucleare estratto da una medesima traccia di una persona, porta ad
ESCLUDERE il singolo e tutta la sua linea materna; ma ciò non vale
per la Corte.
Il perché resta, però, privo di motivazione.
Come si possa affermare che il DNA mitocondriale non rilevi neppure ai fini
di esclusione (pag. 86 della sentenza) rimane un mistero, oltre che una
affermazione apodittica, priva di riscontro scientifico, elemento fortemente
fuorviante dell'intero percorso logico e giuridico della sentenza
appellata.
Sulla capacità “identificativa” del DNA mitocondriale (identificativa non
del singolo individuo ma dell'intera linea materna), si richiamano
ulteriormente le parole del dott. Lago così come enunciate nel proprio
elaborato di consulenza fornita al P.M. nell'ambito del presente
procedimento, ove si legge, a pag. 28:
“In ambito genetico identificativo, partendo da un campione
biologico, oltre allo studio dei polimorfismi di lunghezza del DNA
nucleare, la biologia molecolare mette a disposizione la possibilità di
indagare anche i polimorfismi di sequenza del DNA mitocondriale
55
(mtDNA)”.
Continuando nella lettura della relazione Lago, a pag. 30, si legge:
“Riassumendo brevemente, la molecola del mtDNA riveste un
interesse forense in quanto:
• si trasmette esclusivamente per via materna;
• presenta una variabilità nucleotidica, soprattutto nella regione non
codificante del D-loop sufficientemente elevata da consentire una
discriminazione tra individui non imparentati;
• presenta un al to grado di conservazione anche in tessuti sottoposti a
stress chimico-fisico biologici notevoli;
• compare anche in derivati cellulari in cui non si riscontra DNA nucleare
(per esempio lo stelo di un capello);
• la circolarità e, quindi, la strutturazione in molecole priva di estremità
libere tutela a priori dagli effetti autolitici di una categoria di enzimi
degradativi (esonucleasi)”.
Quanto testé riportato (relazione depositata il 28.02.2013) non trova, però,
piena conferma con quanto esposto dal medesimo consulente in
dibattimento (udienza 23.10.2015) ove, a pagg. 17/18 del verbale, si legge:
“… la procedura stessa dello studio del DNA mitocondriale mantiene
un carattere molto più sperimentale in generale... il DNA
mitocondriale non rientra nelle procedure validate per gli utilizzi
forensi”.
Ma come, non abbiamo appena letto che il DNA mitocondriale, proprio
per le sue caratteristiche, “riveste un interesse forense” e che in ambito
genetico identificativo consente una “discriminazione tra individui non
imparentati”?
Perché il colonnello Lago, in udienza, si esprima in aperto contrasto con
quanto dallo stesso riportato e sottoscritto in precedenti consulenze ha solo
una risposta: assecondare le tesi dell'Accusa.
Si ritiene, quindi, che per una corretta valutazione della attendibilità del
consulente Lago, non si possa prescindere da una presa di coscienza di
quanto avvenuto nell’udienza del 30.10.2015 che resterà, nella storia
processuale italiana, una testimonianza quanto meno inquietante.
56
Questa difesa auspica che quanto ingenuamente e candidamente ammesso in
aula dall'ufficiale non venga troppo facilmente dimenticato ma analizzato e
compreso in tutta la sua gravità, attribuendo a detta condotta il peso che
merita.
Durante il contro esame del Col. Lago, Comandante del Reparto di
Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri di Parma, in tema di automezzi
(da una prima impostazione della Procura, l'autocarro ripreso da alcune
telecamere limitrofe la palestra luogo in cui Yara è stata vista per l’ultima
volta in vita sarebbe proprio quello dell’imputato. Tale tema è stato però
totalmente sminuito: - pag. 97 sentenza: “La Corte non ritiene di poter trarre
elementi dalle consulenze in materia videofotografica…”) in risposta alle
domande della Difesa relative al video trasmesso infinite volte su ogni
emettente televisiva, così esordiva:
“Questo video, come ho detto in premessa, è un video che,
concordemente con la Procura, quindi non è stata un’iniziativa certo,
a fronte delle pressanti, numerose e insistenti richieste di chiarimenti
su questa emergenza, su questa evidenza che era emersa in un
secondo tempo, si è tentato, dal punto di vista della comunicazione, di
montare un video che documentasse una parte. Ma, attenzione, le
nostre analisi ovviamente non si basano su questo video. Questo è un
video, un oggetto che è stato dato alla stampa, ai media, e i media ne
hanno fatto…” (pag. 141 verbale udienza).
Un video creato, in accordo con la Procura, per esigenze di comunicazione!
Questa Difesa ha, sin dalla fase delle indagini preliminari, stigmatizzato
l'incredibile situazione che importanti atti istruttori di cui non disponeva
erano costantemente resi pubblici, nonché trasmessi con martellante
assiduità, in ogni trasmissione televisiva dai contenuti più vari.
Quindi non solo con finalità informative di cronaca.
Si è voluto creare il mostro, ingenerando nell'opinione pubblica la
convinzione che “l'assassino di Yara” (così si era espresso incautamente
anche il Ministro Alfano all'atto dell'arresto dell'odierno imputato) fosse
proprio il Sig. Massimo Giuseppe Bossetti.
La condanna, prima ancora di essere pronunciata da una corte di giustizia, è
stata emessa dai media che hanno letteralmente “bombardato” a tappeto la
57
mente degli ascoltatori/lettori con informazioni, il più delle volte distorte,
sicuramente enfatizzate, verso un'unica direzione, la colpevolezza.
Ogni notizia, anche la più intima, sulla vita e sulla famiglia dell'imputato è
stata resa pubblica, anche se di nessun rilievo processuale e, quindi, di
informazione.
Come detto, questo era indispensabile per colmare un innegabile vuoto
investigativo con pure e semplici suggestioni.
Quindi, Bossetti era il “famelico predatore sessuale” che girando intorno la
palestra con il suo furgone attendeva la propria vittima.
Ecco le “esigenze di comunicazione” che hanno fatto e fanno ancora oggi
indignare questa Difesa e che dovrebbero far sdegnare chiunque voglia
giungere ad una verità processuale scevra da suggestioni e condizionamenti.
Tornando in tema di DNA, quanto originariamente riportato dal consulente
Lago in epoca non sospetta, peraltro scientificamente corretto e confermato
dalla convergente opinione dell’intera comunità scientifica, risulta in
contraddizione con il pensiero della Corte, la quale non tiene conto delle
originarie posizioni del consulente e, con laconiche affermazioni prive di
argomentazioni, tenta di declassificare la valenza scientifica del DNA
mitocondriale.
Solo attraverso tale immotivata “declassificazione” è stato possibile per la
Corte valorizzare il dato fornito dal DNA nucleare e considerare lo stesso
quale unico dato utile all'identificazione di un individuo pur in presenza di
un dato mitocondriale inconciliabile.
Ridurne lo studio ad una finalità “meramente investigativa” (pag. 81
sentenza) – e qui sta la “declassificazione” - ovvero a finalità di
“individuare anche tramite tecniche sperimentali marcatori diversi da
quelli identificativi in grado di fornire informazioni ulteriori su
caratteristiche fisiche e/o provenienza geografica del soggetto” appare in
aperto e insanabile contrasto con la logica scientifica sottesa agli stessi
affidamenti di incarichi conferiti sul tema DNA mitocondriale dalla Procura.
Tecniche sperimentali?
Informazioni su caratteristiche fisiche e/o di provenienza geografica del
soggetto?
58
Indubbiamente, una parte dell'indagine sul DNA mitocondriale condotta dal
dott. Lago aveva, in effetti, tale finalità, ossia “lo studio di alcuni marcatori
genetici del DNA di recentissima scoperta in grado di fornire informazioni
di tipo somatico”. Per tale attività, questa sì sperimentale, il dott. Lago si è
avvalso della The George Washington University Departement of Forensic
Sciences – U.S.A.
Altra parte del lavoro è stata, invece, dedicata allo “studio dei marcatori
genetici del DNA mitocondriale in grado di ottenere informazioni di
dettaglio in via diretta su Ignoto1” (pag. 3 della relazione Lago) ma anche
per identificarne la madre: quindi nulla di sperimentale, ma di
identificativo!
Proprio in tale ottica la relazione Lago si compone di due distinte e separate
sezioni.
Si veda, a tal proposito, quanto affermato dal dott. Lago nella sua stessa
relazione (pag. 3).
Divisione netta del documento che ricalca una altrettanto separazione netta
delle attività tecniche, proprio a voler separare ciò che è sperimentale da ciò
che è attività espletata a fini identificativi.
In ottica quindi, identificativa, il dott. Giardina doveva, attraverso il
raffronto del DNA mitocondriale contenuto nelle tracce individuate dal RIS
con quello di 532 soggetti tra cui si pensava esserci la madre di Ignoto 1,
individuare la donna che condivideva con Ignoto 1 lo stesso patrimonio
genetico e, quindi, ne fosse la madre.
Pertanto, non finalità investigativo-sperimentali, come ipotizzato dalla Corte
ma ben altre finalità identificative, appunto, sia dirette nei confronti di
Ignoto1 che della linea materna!
La consulenza Giardina si è rivelata, poi, tanto costosa quanto fallimentare,
ma solo per il come si è proceduto nella pratica e non per una errata
impostazione scientifica.
Si cercava la mamma di Ignoto 1 - giustamente - attraverso il raffronto delle
59
componenti mitocondriali del DNA acquisito dalle donne oggetto di
indagine e quanto rinvenuto nelle tracce sugli indumenti della vittima.
Diversamente, il dott. Giardina “stava confrontando i profili mitocondriali
delle potenziali amanti di Giuseppe Benedetto Guerinoni con quello di
Yara”.
Secondo la Corte, “resta un mistero” (pag. 60 sentenza) come il consulente
possa essere incorso nel macroscopico errore!
Ma, l’errore è stato oggettivamente commesso a riprova, se ve ne fosse
bisogno, che l’agire umano non è certo infallibile.
Come prospettato da questa difesa, più volte, anche, da ultimo, in sede di
discussione, la discrepanza di risultato tra il DNA nucleare e il DNA
mitocondriale potrebbe trovare spiegazione in imperdonabili errori occorsi
nelle indagini tecniche (cui non si è mai potuto partecipare) qualora si
volesse dare credito alla tesi, non dimostrata scientificamente, che si sia in
presenza di un DNA effettivamente deposto a seguito di contatto diretto
tra la vittima e l'imputato contestualmente all'aggressione.
Qualsiasi deposizione di materiale biologico di qualsivoglia origine non
può, infatti, prescindere dall'inevitabile trasferimento del contributo
genetico sia nucleare che mitocondriale nella propria interezza.
Senza, peraltro, dimenticare come l'analisi genetica, ed il rilievo del DNA in
particolare, non sia comunque in grado di determinare l'epoca e le modalità
di deposizione delle singole tracce, a maggior ragione ove non si disponga
di dati certi quanto alla natura della traccia stessa (epiteliale, spermatica,
salivare, ematica etc.).
E non si obietti che le condizioni di degradazioni delle tracce, che nel caso
di specie sono conformi agli standard di casi similari, abbiano potuto
generare una situazione mai vista:
• le componenti nucleari del donatore della traccia permangono mentre
svaniscono, migrando chi sa dove, le componenti mitocondriali;
• contemporaneamente accade esattamente l'opposto ove per il contributo
della vittima, la componente mitocondriale, non si sa come e perchè, rimane
nella traccia, mentre quella nucleare scompare.
Al termine di queste prime osservazioni è possibile senza dubbio affermare
60
come, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte, il DNA mitocondriale
non è stato utilizzato per acquisire informazioni su caratteristiche fisiche e/o
di provenienza geografica di un soggetto, ma per individuarne la linea di
provenienza materna oltre che per ricavare “informazioni di dettaglio in
via diretta su Ignoto1” e, quindi, con finalità identificative.
Questo è il vulnus dell'intera sentenza che dimostra come la scienza sia stata
strumentalizzata per ritenere validi solo i risultati che ci piacciono mentre,
quelli non compatibili con l'assunto che si vorrebbe dimostrare, vengono
disattesi, ovvero, sminuiti della loro rilevanza scientifica.
Tale approccio, in un processo fondato sostanzialmente sulla prova
scientifica del DNA, è inammissibile.
Sul tema della asserita “scarsa pregnanza investigativa” del DNA
mitocondriale sostenuta dalla Corte, si ritiene interessante sottoporre
all'attenzione di codesta Corte quanto affermato dal Dott. Giardina
(consulente del PM) nel sito web dell'Università Tor Vergata, alla pagina del
master di genetica forense, presente all'indirizzo:
“ L'analisi del DNA mitocondriale in ambito forenseBiologi Italiani aprile 2012Emiliano [email protected] cellula eucariotica il DNA nucleare non è la fonte esclusiva di materiale genetico. I mitocondri sono minuti organelli citoplasmatici a doppia membrana il cui numero è valutabile in diverse centinaia di copie per cellula. Svolgono la funzione di produrre energia tramite la fosforilazione ossidativa, una reazione in cui l’ossidazione di sostanze nutritive organiche operata da molecole di ossigeno determina la liberazione di energia chimica utilizzata per fabbricare ATP. Questi organelli posseggono un loro DNA valutabile, nell’insieme, in una percentuale pari a circa lo 0,5% rispetto al DNA nucleare (sebbene di minori dimensioni, il genoma mitocondriale è presente in 1000-10.000 copie per cellula, rispetto alle due copie del genoma nucleare). In Tabella 1 sono riassunte le principali differenze tra DNA nucleare e mitocondriale....omissis...
UTILIZZO DEL DNA MITOCONDRIALE IN CAMPO FORENSEPer le sue proprietà biologiche il DNA mitocondriale rappresenta uno strumento importante per le applicazioni forensi. Consideriamo innanzitutto le caratteristiche morfologico-strutturali. In particolare, la doppia membrana del mitocondrio protegge efficacemente il DNA da rotture e danni indotti dagli stress ambientali. In aggiunta, la natura circolare del DNA garantisce una minore suscettibilità alle esonucleasi
(enzimi che tagliano il DNA), permettendo alla molecola di DNA mitocondriale di conservarsi meglio nel corso del tempo. A tutto ciò si aggiunga il notevole vantaggio di poter disporre di un numero di genomi mitocondriali per cellula enormemente maggiore rispetto al DNA nucleare, aumentando le possibilità di successo della tipizzazione. Il mtDNA è spesso usato nei casi in cui il materiale biologico è degradato o disponibile in limitata quantità. E’ il caso di capelli senza radice, delle ossa, dei denti o nei casi in cui i campioni disponibili sono stati esposti a situazioni limite che hanno distrutto la maggior parte delle cellule e quindi eliminato quasi totalmente la possibilità di estrarre ed amplificare il DNA nucleare. Al riguardo, non infrequenti sono i casi di corpi o resti in stato di gravissima carbonizzazione o esitati da eventi particolarmente violenti quale ad esempio il disastro delle Twin Towers. Anche i casi di persone scomparse possono beneficiare dell’analisi del mtDNA, in special modo quando vengono rinvenuti resti scheletrici che devono essere comparati con campioni provenienti da parenti in linea materna o con materiale biologico proveniente dagli effetti personali della persona scomparsa. Tuttavia, l’applicazione del mtDNA non è limitata esclusivamente ai casi di reperti in cattive condizioni di conservazione. Infatti, alcuni reperti, per quanto ben conservati, sono tipicamente poveri di DNA nucleare, ci riferiamo ad esempio ai capelli il cui bulbo sia particolarmente rovinato. Il contenuto di DNA nucleare di capelli è generalmente basso se comparato a quello di altri tessuti, poiché le cellule del capello, durante il fisiologico processo di cheratinizzazione, vanno incontro a disidratazione e degradazione degli acidi nucleici e degli organelli cellulari. I capelli sono essenzialmente delle proiezioni di entità cellulari (follicoli) composti da: cheratina (proteina), tracce di metalli ed altri metaboliti, sacche d’aria e granuli di pigmento (eumelanina, feumelanina). Queste componenti, unitamente all’eventuale presenza di trattamenti cosmetici, inibiscono drammaticamente la reazione di amplificazione del DNA. Il numero elevato di mitocondri presenti nel fusto pilifero rende invece possibile la tipizzazione del DNA mitocondriale. La modalità di trasmissione matrilineare, inoltre, rende il DNA mitocondriale particolarmente utile, ad integrazione dei classici marcatori STRs, nei casi di accertamenti di parentela deficitari, nei quali non sia possibile effettuare una comparazione diretta tra i soggetti”.
In estrema sintesi, per il dott. Giardina:
• il DNA mitocondriale rappresenta uno strumento importante per le
applicazioni forensi;
• le caratteristiche di detta componente della cellula la rendono
particolarmente resistente a danni indotti dagli stress ambientali;
• la natura circolare permette alla molecola di DNA di conservarsi meglio
nel tempo;
• il poter disporre di un numero di genomi mitocondriali per cellula
enormemente maggiori rispetto al DNA nucleare, aumenta le possibilità di
62
successo della tipizzazione;
• il DNA mitocondriale è spesso usato nei casi in cui il materiale biologico
è degradato.
Inutile sottolineare come i principi scientifici esposti siano perfettamente
rispondenti alle esigenze di studio del caso in esame, ove si è in presenza sì
di una traccia degradata, ma con un DNA di sorprendente qualità e
quantità.
Ulteriore cartina tornasole dell'onestà intellettuale di chi predica in un modo
e poi agisce in un altro è, da una parte quanto riportato in udienza
(23.10.2015, pag. 17-18 del verbale redatto in forma stenotipica) dal Col.
Lago, Comandante RIS Parma:
“Il DNA mitocondriale non rientra tra le procedure validate per gli
utilizzi forensi...quindi il DNA mitocondriale mantiene un carattere
sostanzialmente sperimentale”.
Dall'altra, il sito Carabinieri.it – Arma a cui appartiene il Comandante Lago,
ancora oggi, reca con riferimento alla sezione della genetica:
“La sezione, inoltre, dispone di un laboratorio di microscopia ottica e
spettro-micoscopia ed effettua il sequenziamento del DNA utilizzando
la tecnologia basata su tecniche fluorescenti. Tale supporto tecnico
consente di procedere in quello che attualmente rappresenta il
settore più moderno ed interessante della biologia molecolare
forense: il DNA mitocondriale”.
Il macroscopico contrasto è del tutto evidente.
Da una parte, si tenta di sminuire la portata scientifica del DNA
mitocondriale pur avendo accettato la consulenza privata (non rientra tra le
procedure validate a livello forense e ha natura sperimentale) dall'altra è il
settore più moderno ed interessante della biologia molecolare forense.
E la sezione genetica dei Carabinieri fa indagini non ricerca scientifica!
Questa difesa ha sempre sostenuto che l'indagine sul DNA mitocondriale
non rientrasse in quelle che sono state definite metodiche sperimentali e
anche la Corte sembrava essere allineata al pensiero della difesa sul punto.
Si veda al proposito il verbale di udienza del 03.02.16, pag. 161 che qui si
riporta nella parte ritenuta di interesse:
63
“CONSULENTE CAPRA – Io quello che volevo che fosse chiaro è
che non si tratta di metodiche sperimentali.
PRESIDENTE - No, no, certo”.
Nell'ambito del presente procedimento la prova scientifica e segnatamente
quella relativa al DNA ha senza dubbio massimo rilievo.
Il Pubblico Ministero ha, infatti, fruito della consulenza di svariati
specialisti del settore che hanno studiato, in tempi diversi, ogni aspetto del
DNA e, soprattutto, come è evidente dagli affidamenti di incarico, il DNA
mitocondriale.
Parimenti, la stragrande maggioranza dell'istruttoria dibattimentale ha
trovato nella prova scientifica sul DNA l'aspetto di più significativo rilievo.
Il RIS di Parma si è occupato dell'indagine scientifica relativa al DNA
nucleare; il dott. Lago, in proprio, in collaborazione con l'Università di
Firenze e in collaborazione con The George Washington University –
Departement of Forensics Science - USA, si è occupato dello studio del
DNA mitocondriale, i dott.ri Cattaneo e Piccinini hanno approfondito la
tematica della paternità del Sig. Giuseppe Guerinoni, con particolare
riferimento alla studio di nuove regioni sempre relative al DNA nucleare, i
dott.ri Previderè e Grignani, dovendo analizzare le formazioni pilifere, si
sono concentrati sullo studio del DNA mitocondriale e il dott. Casari ha
anch'egli studiato il DNA mitocondriale.
La problematica relativa al DNA mitocondriale riferibile ad Ignoto 1 è
emersa, come già detto, nelle relazioni a firma dei consulenti dott.ri
Previderè e Grignani, i quali, nell'analizzare le formazioni pilifere rinvenute,
da una parte sull'autocarro in uso a Bossetti e, dall'altra, sul corpo della
vittima, al fine di rispondere al quesito formulato dal P.M., hanno scelto di
utilizzare lo studio della componente mitocondriale riferibile alla vittima e
all'odierno imputato, pur in presenza di reperti piliferi che, in maggioranza,
avevano il bulbo (come noto, nei reperti piliferi, in assenza di bulbo, è
analizzabile unicamente la componente mitocondriale).
64
L'esito di questo esame ha evidenziato come, sorprendentemente, in
nessuna traccia, isolata ed analizzata prima dal RIS e poi da Lago, fosse
presente la componente mitocondriale riferibile al Bossetti ed anzi, ve
ne fosse presente una minoritaria certamente di altro soggetto, diverso
dalla vittima e dal Bossetti.
I dati da prendere in considerazione sono due. La mancanza del DNA
mitocondriale dell'imputato e la contemporanea presenza di un altro DNA
mitocondriale di persona rimasta ignota.
Come si evince dalla tabella della relazione Lago, pag. 36):
Ma anche dalla relazione del Prof. Casari, pag. 8):
Ed, infine, come certificato dai dott.ri Previderè e Grignani in merito alla
non compatibilità del DNA mitocondriale del Bossetti con quello rilevato
dalle tracce di Ignoto 1.
Vedasi, in proposito, la sotto riportata tabella tratta dalla pag. 110) della
relazione Previderè Grignani.
65
In sintesi, quattro diversi consulenti dell'Accusa in tre relazioni, in
tempi diversi, con strumentazioni diverse e con obiettivi diversi, hanno
raggiunto il medesimo ed incontrovertibile risultato totalmente
incompatibile con l'attribuzione delle medesime tracce alla persona di
Massimo Giuseppe Bossetti, risultato che oggi si vorrebbe sminuire
all'unico scopo di salvare l'esito di una indagine scientifica che, a questo
punto, qualora fosse ritenuta comunque probante, offrirebbe una risposta a-
scientifica, anzi contra natura.
Perché a-scientifica? Perché contro natura?
Perché la scienza, così come rappresentata dai tutti i consulenti di parte
sentiti in dibattimento, non ha saputo fornire spiegazioni in concreto,
formulando, invece, delle mere ipotesi astratte, ipotesi peraltro di alcuna
pregnanza in quanto scartate di applicazione al caso sub judice.
Ciò, a parere di questa Difesa, rende il dato processuale assolutamente
inattendibile, trattandosi, così come descritta dal dott. Capra in udienza, di
una traccia non def inibile forense perché priva del requisito
fondamentale della precisione e della completezza.
È evidente, quindi, come il corretto approccio scientifico sia il discrimen
onde pervenire ad un risultato che, in aderenza alle leggi scientifiche, possa
definirsi coerente con il restante quadro probatorio ed identificativo del fatto
ignoto che vuole provare.
Solo un DNA completo delle due inscindibili (in natura) componenti
nucleare e mitocondriale, esente da anomalie, imprecisioni, correttamente
interpretato secondo canoni scientifici verificati e ripetuto secondo i crismi
dettati dalla Suprema Corte, può essere idoneo ad identificare il proprietario
66
della traccia che contiene quel DNA.
La domanda che l’interprete si deve porre è: Ignoto 1 avrebbe potuto
trasferire la sola componente nucleare del proprio DNA?
È giustificabile in natura un DNA privo della necessaria componente
mitocondriale?
Esiste in natura la possibilità che questo si verifichi?
La risposta ai quesiti posti, vertendo in tema di questioni scientifiche, può
essere fornita unicamente solo attraverso il corretto utilizzo di un metodo
scientifico.
La problematica della prova scientifica risulta essere intrinsecamente
connessa al principio del “ragionevole dubbio” proprio perché nessuna
legge universale è mai certa giacché, per quante conferme essa abbia
ottenuto, i casi non ancora osservati sono infiniti e, in qualunque momento,
può accadere che venga in osservazione un caso che smentisca la più
venerabile delle teorie.
“La prova scientifica non può ambire ad un credito incondizionato di
autoreferenziale affidabilità in sede processuale, per il fatto stesso che il
processo penale ripudia ogni idea di prova legale” (Cass. V - n.
36080/15)
Come già detto sopra, la prova scientifica - così come ogni altro percorso
razionale a carattere indiziario – deve comunque essere verificata
attraverso un procedimento logico “abduttivo”: constatato un effetto ed
attribuitolo in via d’ipotesi ad una determinata causa, della stessa ipotesi
occorrerà cercare e trovare conferma accertando se, del medesimo fattore, si
siano o no verificati anche tutti gli altri inevitabili effetti.
La validità di ogni legge scientifica va quindi misurata non già nei
termini della sua verificabilità, bensì in quelli della sua falsificabilità ,
cosicché parametro della sua validità ne sia la permanente resistenza ai
tentativi di falsificazione.
Infatti, se non è possibile sperimentare l’esistenza d’una relazione tra fatti
per un numero infinito di volte, basta la riuscita d’una sola operazione
67
diretta a falsificarla per confutarne l’esistenza (in proposito, è fatto notorio
come, in concreto, il dato genetico si possa costruire artificialmente è
notevole la letteratura sul punto. Questa difesa ha, altresì, evidenziato anche
i rap porti “discutibili” tra alcuni inquirenti e società che hanno
commercializzato software da intrusione anche con i c.d. Stati canaglia).
Miliardi e miliardi di conferme non rendono certa una teoria mentre un
solo fatto negativo, dal punto di vista logico, la falsifica.
La mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità
scientifica della validazione di un’ipotesi significa infatti incertezza
scientifica.
Possiamo tranquillamente affermare che la comunità scientifica approvi
l'identificazione di una persona possa avvenire attraverso il DNA nucleare
pur in presenza di una ingiustificata assenza del corrispondente
mitocondriale?
A tale domanda, ad oggi, nel presente processo, non vi è risposta non
essendo stata disposta alcuna perizia in tal senso, conseguentemente la Corte
va contro il principio fondamentale espresso dalla Suprema Corte del
requisito del consenso della comunità scientifica.
Tale requisito è stato sottolineato dalla Corte di Cassazione in una sentenza
(relativa alla nota problematica del Petrolchimico di Porto Marghera), con la
quale è stata ritenuta corretta la motivazione della sentenza di merito che
aveva escluso la possibilità di affermare il nesso di causalità generale tra
l’esposizione a cloruro di vinile e talune malattie, sottolineando la
contraddittorietà dei dati e l’inesistenza di un riconoscimento condiviso, se
non generalizzato, della comunità scientifica sull’argomento.
(Cass. Sez. 4, Sent. n. 4675 del 17/05/2006, Rv. 235658)
Una importante elaborazione giurisprudenziale della tematica inerente
l’individuazione dei criteri sulla base dei quali valutare l’affidabilità del
sapere scientifico è contenuta nella nota sentenza “Cozzini” (Cass. Penale,
Sez. IV, 13 dicembre 2010, n. 43786 - Pres. Marzano) ove vengono recepiti
criteri enunciati nella sentenza Daubert, pronunciata dalla Suprema Corte
degli USA del 1993 che ha precisato gli indici in base ai quali si deve
stabilire se un determinato metodo costituisce o meno una conoscenza
68
“scientifica”.
“Per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la
sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L’ampiezza, la
rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti
accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato
l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in
discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della
discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione
teorica … rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità
scientifica. Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze
e delle competenze per esperire un’indagine siffatta: le informazioni di cui
si parla relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero,
dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti. Costoro, per le ragioni
che si sono ormai ripetutamente dette, non dovranno essere chiamati ad
esprimere (solo) il loro personale seppur qualificato giudizio, quanto
piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di
giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse
rappresentazioni scientifiche del problema, possa pervenirsi ad una
“metateoria” in grado di guidare affidabilmente l’indagine. Di tale
complessa indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in
motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e
fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti,
dell’apprezzamento compiuto. La Corte ha la consapevolezza di indicare al
giudice di merito un compito assai impegnativo. D’altra parte, le difficoltà
non possono essere nascoste ma vanno poste in luce e, se possibile, vanno
risolte”.
Ora, niente di tutto questo è presente nella sentenza della Corte d'Assise di
Bergamo che non si preoccupa affatto di verificare la bontà delle premesse
poste a base del proprio ragionamento, soprattutto in tema di DNA
mitocondriale.
Il supino ed acritico recepimento delle tesi esposte dai consulenti dell'accusa
porta con se inevitabilmente, oltre al vizio motivazionale più volte
69
denunciato, la fallacia delle conclusioni cui perviene.
Nessuno sforzo di giungere a delle soluzioni ponderate quale approdo di un
complesso e laborioso percorso di valutazione critica delle varie opinioni
espresse dai consulenti di tutte le parti.
Conseguentemente, se le premesse sono errate sarà errato anche il
ragionamento inferenziale che conduce alle conclusioni.
Che il metodo scientifico sia stato grandemente sminuito nel presente
procedimento pur essendone l'architrave di ogni ragionamento, lo
dimostrano prima le parole del consulente Lago in dibattimento, poi lo
stesso Pubblico Ministero, e, quindi, la Corte che si è completamente
astenuta dall'argomentare in punto di DNA mitocondriale appiattendosi, in
maniera acritica ed apodittica sulle ipotesi, lo si ripete astratte, formulate dai
consulenti del Pubblico Ministero, sostituendosi al collegio peritale che
avrebbe dovuto offrire le valutazioni tecniche.
Come detto, illuminanti le parole del dott. Lago ove alla domanda del P.M.
(p. 22 del verbale di udienza redatto in forma stenotipica del 23.10.2015)
sulle (non) risposte scientifiche che ci si sarebbe attesi:
“Si può dire che sia innaturale, contro natura – aggettivi di questo
tipo per descrivere la situazione – che l'analisi di un reperto, forense
sempre, evidenzi solo il DNA nucleare o solo il DNA mitocondriale?
Consulente Lago: Diciamo che prima che una risposta scientifica
questo aggettivo merita una risposta, come dire, filosofica. Vado su
Marte, trovo dei sassi a forma di piramide, non me li aspettavo e
dico: è una cosa che non è possibile. Semplicemente perché la mia
esperienza su questo pianeta è che i sassi siano tendenzialmente
rotondi. In realtà potrebbe anche essere che sono stato
particolarmente sfortunato, sono atterrato in un punto in cui solo in
quel punto ci sono i sassi di quella forma; oppure posso fare uno
studio su tutto quel pianeta e i sassi li sono quasi tutti in quel modo.
Non lo so”.
Ora, pur nella evidenza di come il consulente del P.M. si stia letteralmente
“arrampicando sugli specchi”, si certifica che, sulla base degli attuali studi
70
(...posso fare uno studio su tutto quel pianeta...), che saranno, come tutti gli
studi scientifici, oggetto di evoluzione, non è possibile giustificare
l'anomala situazione riscontrata (“Non lo so”).
Anche il Pubblico Ministero ritiene che la scienza nelle aule di Tribunale
debba fare un passo indietro (p. 184 del verbale di udienza redatto in forma
stenotipica del 13.05.2016):
“Non è questo il luogo deputato a dare spiegazioni di natura
scientifica”.
A fronte di tale mancanza di spiegazioni scientifiche, non corrisponde,
però, un dato in analisi complesso.
Che in una cellula, composta chiaramente da un nucleo e dai mitocondri, tali
due elementi siano inscindibili è, non solo fatto notorio ma, altresì, di
elementare conoscenza.
L'apparente situazione riscontrata (possibile perdita del DNA mitocondriale)
non è stata mai rilevata in letteratura, se in un unico studio a carattere
sperimentale - quindi teorico e non pratico - ben conosciuto dal dott. Lago
tanto da essere citato ma non da essere tenuto di rilievo a confutazione
della attendibilità dei risultati ottenuti.
Peraltro, il citato studio di Montesino attiene a particolari situazioni e a
procedure tecniche di laboratorio sicuramente non applicabili nel caso di
specie.
Infatti, nella relazione a firma Lago, si legge:
“Le sequenze (ndr. Sequenze di DNA mitocondriale) ottenute,
valutate secondo le linee guida della comunità scientifica
internazionale forense, soddisfano parametri qualitativi e
quantitativi, tali da risultare pertanto utili ai fini identificativi”, si
veda pag. 37 della Consulenza dott. Lago sul DNA mitocondriale.
Tale consulenza, lo si ricorda, ha condotto al risultato di individuare nella
traccia migliore in studio, la 31G20, oltre al DNA mitocondriale della
vittima, sempre presente, un DNA mitocondriale di persona rimasta ignota e
MAI quello dell'odi erno imputato .
Anche il Prof. Casari, proprio con riferimento alla mancanza del DNA
71
mitocondriale del Bossetti, conferma che si sarebbe atteso un risultato
diverso a fronte di una consistente presenza di DNA nucleare, infatti (p. 138
del verbale di udienza 20.11.2015), così riferisce alla Corte:
“Va altresì detto - forse io non l’ho sottolineato abbastanza nella
relazione - che su questi campioni la quantità di DNA di Ignoto 1,
rispetto al DNA sempre ovviamente nucleare di Yara, è dal 40 al 50%.
Mi dovrei aspettare un 40 o 50% di sequenza CRS, se questa fosse
una sequenza minoritaria che proviene da Ignoto 1. Mentre...(ndr non
ho trovato nulla) Non so se mi sono spiegato abbastanza”.
Sull'esistenza di una componente minoritaria diversa da quella del
Bossetti e da quella maggioritaria di Yara, anche in questo caso, vi è la
convergenza di opinione di tutti i consulenti, salvo per alcuni,
evidentemente nel tentativo di sminuirla, considerarla come componente
non interpretabile senza fornire però alcuna giustificazione scientifica.
Resta il fatto che nessuno dei consulenti ha ritenuto che il dato in
questione fosse errato.
In conclusione, si richiamano le parole del P.M. pronunciate durante la
propria requisitoria che ha sostanzialmente sintetizzato il pensiero dei propri
consulenti ed ha affermato:
“Il DNA mitocondriale dell'imputato è certamente diverso dal
mitocondriale delle tracce che erano state a suo tempo osservate, di
cui ho parlato prima, ivi compresa la componente minoritaria. È
certamente un DNA mitocondriale diverso”.
Tale affermazione evidenzia come, anche la Pubblica Accusa sia
consapevole dell'esistenza di una componente minoritaria, sempre con
riferimento alla parte mitocondriale della cellula, che questa potesse essere
interpretabile tanto da essere raffrontata e che il raffronto ha restituito un
esito di assoluta non compatibilità con la componente mitocondriale del
DNA dell'imputato.
Questo è, in sintesi, il nodo processuale che deve essere risolto, proprio
perché scientificamente una persona non può trasferire il proprio DNA
72
se non nella sua completezza (nucleare e mitocondriale).
La mancanza di una parte essenziale della struttura cellulare deve far
riflettere e, per certi aspetti, financo allarmare.
Diversamente, una spiegazione scientifica relativa al caso concreto
lascerebbe tutti più sereni, sgombrando il campo da quei dubbi che tutt'ora
esistono, essendo le ipotesi formulate, onde giustificare tale assenza, tutte
naufragate all'esito di una verifica fattuale.
D'altro canto, se trovare delle risposte è attività inutile, perché ci si è
affannati a cercarle da parte dei consulenti della Procura?
Questa Difesa ha reiteratamente chiesto una perizia super partes, affidando
la soluzione del rebus a esperti non di parte e, pertanto, maggiormente
“credibili”.
L’assenza di validi motivi per negare la perizia si è tradotta in un’evidente
lacuna nel corpo della motivazione della sentenza.
Le indimostrate e atecniche conclusioni cui giunge la Corte in tema di DNA
mitocondriale possono essere sintetizzate come segue:
• il DNA mitocondriale è stato utilizzato con una finalità meramente
investigativa, ossia quella di individuare anche tramite tecniche sperimentali,
marcatori diversi da quelli identificativi, in grado di fornire informazioni
ulteriori su caratteristiche fisiche e/o provenienza geografica del soggetto;
• gli studi scientifici internazionali sull'analisi del DNA mitocondriale
su tracce miste sono pochissimi e in tutti si conclude nel senso che le variabili
che possono incidere sono talmente elevate da sconsigliarne l'analisi a fini
forensi;
• il DNA mitocondriale non ha capacità identificativa anche ai fini di
mera esclusione.
Quelli elencati sono i punti estrapolati dalla sentenza che si ritengono essere
a base del ragionamento che porta la Corte a privare di rilevanza l'indagine
sul DNA mitocondriale e gli indiscutibili risultati cui la stessa è pervenuta.
Secondo la Corte, quindi, il DNA mitocondriale non avrebbe la pregnanza di
risultato che la Difesa intende allo stesso attribuire, sostanzialmente perché
l'indagine sul mitocondriale è una indagine complessa, è sconsigliata nelle
tracce miste e non è utile, a fini identificativi, neppure per la mera
73
esclusione.
Il presente assunto è, però, ampiamente smentito, da una parte da alcune
semplici considerazioni logiche e, dall'altra, dalle evidenze scientifiche
fornite dagli stessi consulenti dell'accusa, oltre che da quelli della difesa.
Una attività sconsigliata, per l'essere la stessa estremamente “ambiziosa”,
non esclude che possa portare comunque ad un risultato. Diversamente tutti
i vari campi della scienza e del conoscere, più in generale, non avrebbero
visto il progredire dell'uomo.
Come esemplificato dalla Difesa, con un paragone che si ritiene renda bene
l'idea, raggiungere la cima dell'Everest non è certo operazione per tutti, ma
molti lo hanno fatto.
Potrà essere sconsigliato ad un neofita non certo a chi lo fa tutti i giorni e di
professione.
La scrivente Difesa osserva, infatti, come lo studio del mitocondriale è stato
affidato ad un laboratorio di assoluta eccellenza, che si occupa
esclusivamente di DNA mitocondriale in tracce miste e degradate
(Università di Firenze – dott.ssa Pilli) come evidenziato nell'incipit della
relazione ed ha portato ad un risultato certo, mai smentito da altri
consulenti ed anzi confermato dalle risultanze di altri professionisti
operanti in altrettante eccellenze italiane, il dott. Carlo Previderè
dell'Università di Pavia e il dott. Giorgio Casari del San Raffaele di Milano.
Ci si domanda, a questo punto, che senso avrebbe avuto affidare tali
consulenze, peraltro di notevole costo gravante sui contribuenti, se le stesse
non avessero avuto uno scopo di identificazione ma solo quello di “capire”,
non si sa bene ancora cosa.
Un eventuale risultato convergente e coerente con quanto desunto dal DNA
nucleare (unica attività affidata a organismi istituzionali, quindi senza costi
aggiuntivi per la collettività e, peraltro, attraverso mera delega di indagini)
non sarebbe stato forse utilizzato?
Si ritiene avrebbe chiuso definitivamente il cerchio, sgombrando il campo
da qualsivoglia dubbio di attribuzione.
Diversamente, il risultato incongruo, proprio perché tale, viene ritenuto
ininfluente. E ciò è totalmente inaccettabile.
La scrivente difesa, già in fase cautelare, in tema di DNA, aveva
74
rappresentato come la Relazione di Consulenza Tecnica genetico-forense a
firma dei consulenti dott.ri Carlo Previderè e Pierangela Grignani pervenisse
a soluzioni difformi ed incompatibili con quanto enunciato nella
consulenza in tema di DNA redatta dal RIS di Parma.
La relazione dei consulenti Previderè – Grignani aveva quale oggetto la
comparazione delle formazioni pilifere rinvenute sul corpo della vittima con
il profilo genetico dell'odierno imputato.
Nessuna delle sette formazioni pilifere non attribuibili alla vittima ha
evidenziato un aplotipo mitocondriale compatibile con quello
dell'imputato.
Nella citata consulenza, al punto 4.4, analisi dei polimorfismi del DNA
mitocondriale, ecco l'elemento ritenuto da questa difesa di fondamentale
importanza e di travolgente portata.
“L’analisi del DNA mitocondriale estratto dalle tracce 31G19 e
31G20 palesava una situazione insolita, a parere degli scriventi. A
fronte di quantità significativamente elevate di DNA maschile in tali
campioni (circa il 50% nel campione 31G19 e circa il 70% nel
campione 31G20), come attestato dall’analisi in RT-PCR presente
nella relazione dei RIS, quantità tali da produrre profili autosomici
con una chiara componente attribuibile ad un soggetto di sesso
maschile (“Ignoto 1”), l’analisi del DNA mitocondriale evidenziava
un aplotipo misto con una componente maggioritaria riconducibile
alla vittima e una componente minoritaria di difficile interpretazione
(vedi elettroferogrammi allegati alla relazione Lago). Il campione
31G19 produceva addirittura esclusivamente un aplotipo
riconducibile alla vittima. Tale situazione era apparentemente in
contraddizione rispetto a quanto atteso dalle analisi genetiche su
campioni biologici commisti. Infatti, in generale, il profilo genetico di
una traccia mista riflette la proporzione delle diverse frazioni
cellulari, queste ultime originate da quantità diverse (maggiori,
minori o paragonabili) di materiale biologico dei vari soggetti
contributori. Può, quindi, essere che, in una traccia mista, un
soggetto abbia contribuito con un numero di cellule maggiori rispetto
ad un altro. Tale condizione verrà rappresentata anche nel relativo
75
profilo genetico ove si evidenzieranno proporzionalmente i vari
contributi come alleli della componente maggioritaria e alleli di
quella minoritaria”.
Ecco la prima “situazione insolita”, “apparentemente in contraddizione” che
MAI, però, ha trovato, né durante il dibattimento né in sentenza, alcuna
condivisa risposta: l'inversione delle componenti biologiche ascrivibili alla
vittima e a Ignoto 1 tra DNA nucleare e DNA mitocondriale.
La contraddizione definita dai consulenti del P.M. Definita “apparente” non
è stata spiegata. Parimenti, la sentenza sul punto è del tutto carente non
offrendo al lettore alcun ragionamento logico-giuridico a giustificazione.
Ma vi è anche la seconda e ben più importante situazione rimasta priva di
qualsiasi giustificazione: la non compatibilità, anzi addirittura l'assenza, del
DNA mitocondriale del Bossetti in una traccia allo stesso attribuita in luogo
contemporanea presenza di un profilo genetico di soggetto rimasto ancora
ignoto.
Lo studio del DNA nucleare sui campioni sopra menzionati riconduce ad un
soggetto di sesso maschile Ignoto 1, poi associato a Bossetti, e alla vittima,
se non solo a Ignoto 1, mentre per il DNA mitocondriale è stato possibile
tipizzare la componente della vittima, oltre una minoritaria non
riconducibile né alla vittima né a Bossetti.
Una delle ipotesi proposte dai consulenti è che la vittima e il soggetto di
sesso maschile potessero essere imparentati per via materna e, dunque,
condividere lo stesso DNA mitocondriale.
Gli stessi consulenti della Procura, però, hanno escluso tale ipotesi
indagando sulla linea materna di Yara Gambirasio.
Sulla base della letteratura scientifica in materia, il dott. Previderè e la
dott.ssa Grignani ipotizzano, poi, che i due soggetti contributori della traccia
mista abbiano apportato una differente quantità mitocondriale.
Secondo le osservazioni della dott.ssa Sarah Gino, consulente della difesa,
“diventa, però, qui difficile dare poi spiegazione del fatto che almeno nel
campione 31G20 non ci sia traccia del DNA nucleare della vittima”.
Per meglio comprendere la portata di tale affermazione si deve considerare
76
che la tesi accusatoria prevede la deposizione contestuale di due fluidi
biologici (della vittima e dell'assassino) che risulteranno poi esposti alle
medesime condizioni ambientali. Risulta singolare, e in tal senso va letta
l'affermazione della Prof. Gino, che uno dei duo fluidi biologici abbia
“perso” il DNA nucleare mentre l'altro risulti di straordinaria qualità.
Tale assunto è stato ribadito in sede dibattimentale, in assenza di
contestazioni dei consulenti della Procura per cui, anche tale seconda ipotesi
può ritenersi esclusa.
L'ultima ipotesi scientifica proposta dai consulenti della Procura è la
commistione di materiale biologico proveniente da due specifici fluidi
biologici, in particolare sangue e sperma.
Anche in questo caso, l'ipotesi avanzata non pare possa essere calata alla
fattispecie in esame, infatti, lo stesso consulente Lago afferma:
“in base alle analisi di laboratorio effettuate dal RIS di Parma volte a
determinare la natura delle tracce presenti sugli slip, i test hanno
fornito in generale ed in particolare per la traccia 31G20 esito
negativo per la presenza di saliva e di sperma ed esito positivo
unicamente per il sangue umano”.
Il consulente del PM conferma ulteriormente che non trattasi di contributo
spermatico in quanto:
“È stato inoltre sottolineato dallo stesso RIS che data la bontà della
traccia in termini di quantificazione di DNA e di risultato
dell’elettroferogramma, si potesse considerare attendibile il risultato
dei test di natura predittivi dal momento che ad una degradazione
proteica tale da fornire un falso negativo per saliva o liquido
seminale non potrebbe verosimilmente corrispondere una
conservazione così buona del materiale genetico”.
Si ricorda, peraltro, che per escludere la natura spermatica delle trace in
questione il RIS, caso unico, ha effettuato il test con ben tre kit diversi
validati per uso forense ed in grado di rilevare la presenza di costituenti del
liquido seminale umano, anche degradato, in quantitativi infinitesimali.
In sintesi, ed in sostanza, questa Difesa ritiene che l'identificazione di un
77
soggetto avviene, come pacifico, attraverso l'analisi dei marcatori
autosomici del DNA nucleare se e solo se il DNA mitocondriale è presente
ed è corrispondente con quello nucleare, posto che la mancanza della
componente mitocondriale della cellula non troverebbe in alcun modo
spiegazione scientifica e renderebbe quanto osservato qualcosa di alieno,
un artefatto o il prodotto di un errore.
La tesi della scrivente difesa secondo cui si possa essere in presenza
unicamente di una delle tre ipotesi menzionate si è man mano rafforzata
soprattutto all'esito di un dibattimento che nulla ha aggiunto rispetto alla
fase pre-dibattimentale e di una sentenza che non ha fornito risposte, anche
ove si consideri che la necessità di risposte è stata sollecitata anche in
sede di Riesame, dal Tribunale di Brescia.
Si richiama, qui, quanto il Tribunale di Brescia, in funzione di Giudice del
Riesame, con propria ordinanza del 10.03.2015, depositata in cancelleria in
data 13.03.2015, sul punto così statuisce:
“L'anomalia denunciata dalla difesa concernente gli esiti delle
indagini sul DNA mitocondriale non trova quindi una soluzione
netta, di talché le aporie potranno trovare composizione solo se
saranno espletate analisi aggiuntive, in sede di perizia, in
dibattimento o nel corso di incidente probatorio”.
Per la particolarità della sede cautelare in cui stava formulando il proprio
pronunciamento, il Tribunale ha ritenuto, comunque, sufficiente il dato
indiziario, pur in presenza della denunciata “contraddizione”.
Avverso il provvedimento di Riesame, la scrivente Difesa proponeva
Ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte dava atto di come l'organo del Riesame si fosse fatto
“onestamente carico dell'incongruenza riscontrata nelle analisi del DNA
mitocondriale sulle tracce 31G19 – 31G20, in cui non era evidenziabile il
DNA mitocondriale del Bossetti” pur ritenendo la pronuncia impugnata
corretta, in quanto non viziata da evidenti errori nell'applicazione delle
regole della logica.
La questione, quindi, come evidente, è rimasta aperta, non ricevendo alcun
78
sindacato da parte del Supremo Collegio.
Il giudicato cautelare formatosi, pertanto, sul punto è che, SOLO
attraverso ANALISI AGGIUNTIVE in sede di PERIZIA in dibattimento o
nel corso di incidente probatorio, potranno trovare composizione le aporie
denunciate.
Come e perché tale “suggerimento” sia stato sempre e comunque inascoltato
è senza dubbio il punto più debole di un processo che da accusatorio è
diventato inquisitorio.
Questa difesa unitamente ai propri consulenti non ha MAI potuto
partecipare ad alcuna indagine scientifica in tema di DNA.
L'ingiustificato ed ingiustificabile preconcetto diniego della Corte di
concedere qualsivoglia perizia chiesta dalla difesa crea un'evidente lacuna
nel corpo motivazionale della sentenza, mancando nella stessa del tutto ogni
spiegazione del perché si siano preferite le conclusioni dei consulenti
dell'accusa piuttosto che quelle della difesa.
L’autorevolezza dei consulenti della difesa avrebbe dovuto, per lo meno, far
sorgere il dubbio sulla validità delle tesi accusatorie e, quindi,
ragionevolmente consigliare al Giudice la soluzione più semplice e corretta:
nominare un perito che, in quanto terzo e tecnicamente qualificato, avrebbe
potuto rilevare i vizi presenti in una delle due tesi.
La delicatezza dei temi tecnici affrontati - da cui si è fatto - in via esclusiva -
dipendere l’accertamento di fatti così gravi, per giunta in assenza di prove –
avrebbe dovuto imporre ancor più scrupolo e prudenza nel trarre
determinate conclusioni.
Davvero non si comprende cosa possa aver condotto la Corte alla scelta di
non affidarsi ad un esperto super partes, che avrebbe garantito un giudizio
obiettivo e, quindi, dirimente, pur in presenza di una precisa ordinanza di un
Tribunale e di un macroscopico contrasto di consulenze, se non un fideistico
ossequio di stampo inquisitorio verso una parte processuale, l'Accusa.
Il lungo e articolato dibattimento non ha fatto altro che lasciare aperto il
problema nei confronti del quale il Tribunale del Riesame aveva indicato un
preciso percorso per giungere alla soluzione dello stesso.
79
La sentenza, come detto, ha solo marginalmente affrontato la fondamentale
questione scientifica (assenza del DNA mitocondriale dell'imputato)
preferendo sminuirne la portata per giungere, così, a conclusioni
inaccettabili sia sotto il profilo della logica giuridica, che di quella
prettamente scientifica.
In un processo DNA-centrico, come emerge dalla sentenza, il DNA nucleare
e solo quello è e resta praticamente l'unico elemento a favore della
declaratoria di colpevolezza, ci si sarebbe attesi la rigorosa applicazione di
un metodo scientifico ed un robusto impianto motivazionale.
E' notorio come, infatti, affermato più volte dalla Corte di legittimità, come
“la prova scientifica non possa ambire ad un credito incondizionato di
autoreferenziale affidabilità in sede processuale, per il fatto stesso che il
processo penale ripudia ogni idea di prova legale”.
È evidente che, di fronte alle reiterate richieste della Difesa, di incidente
probatorio prima e perizia poi, stante il continuo diniego di qualsivoglia
approfondimento della tematica inerente la mancanza del DNA
mitocondriale, sarà assolutamente indispensabile, in questo nuovo grado di
giudizio, affrontare e risolvere quella che per il Tribunale di Brescia, come
già detto, è una aporia della prova scientifica, una contraddizione da
discutere.
L'eventuale mancanza di risposte che possano confermare il dato indiziario
del DNA nucleare, non potrà che far prendere coscienza a tutti della
incertezza del risultato stesso ovvero del ragionevole dubbio che possa
essersi in presenza di errori ovvero manomissioni sull'esame delle tracce
in questione, con la conseguente inutilizzabilità ai fini accusatori.
LE RICHIESTE DI INCIDENTE PROBATORIO/PERIZIA
La Difesa sulla scorta della menzionata ordinanza del Tribunale del Riesame
di Brescia, al fine di trovare soluzione alle anomalie e alle incongruenze in
tema di DNA già allora evidenti, avanzava, in sede di udienza preliminare,
richiesta di incidente probatorio finalizzato all'effettuazione di una perizia
sul punto controverso.
L'articolata richiesta di perizia in tema genetico-forense veniva rigettata in
80
quanto:
“Con la stessa si tende o a riprodurre l'analisi di materiale biologico
che è stato già oggetto di esame, le cui modalità esecutive non sono in
discussione..., peraltro richiamando in causa il DNA mitocondriale,
che è noto non svolge funzione di individuazione del soggetto che
abbia lasciato la traccia biologica...”
La perizia, quindi, non veniva concessa sostanzialmente perché il DNA
mitocondriale non ha capacità identificative (addirittura, per il Giudice, fatto
notorio erga omnes), sorvolando in toto su tutte le anomalie evidenziate ed
in contrasto con le cosiddette “capacità identificative” di cui ci parlano gli
stessi consulenti del P.M..
Disarmante, poi, la laconicità della motivazione della Corte sul diniego di
perizia avanzata dalla difesa all'esito dell'esame e contro esame di tutti i
consulenti in materia genetica:
“L'approfondimento dell'istruttoria sul punto palesa come non
decisivo ogni ulteriore accertamento”.
L’ordinanza 22.04.16 deve intendersi qui impugnata in quanto
palesemente illegittima ai sensi del combinato disposto degli artt. 125,
3° co. e 507 c.p.p., a causa dell’evidente incompletezza ed illogicità della
motivazione. Tale vizio ha inficiato la sentenza di primo grado della
medesima patologia, invalidandola ai sensi del combinato disposto degli
artt. 604, comma 5 e 185 c.p.p.
Simile conclusione trova conferma nella più recente giurisprudenza,
secondo cui “il potere-dovere del giudice di integrazione probatoria a
norma dell‟art. 507 c.p.p., pur configurandosi come discrezionale, richiede
un‟espressa motivazione in ordine al mancato esercizio dello stesso in
relazione al requisito della assoluta necessità ai fini del decidere , essendo
estranea a tale parametro ogni valutazione in ordine all‟interesse delle
parti all‟assunzione del mezzo” (Cass., Sez. III, 25 ottobre 2007, n. 44955,
Seclì, Rv. 238273).
Ed ancora: “in tema di istruzione dibattimentale, il giudice ha l'obbligo, a
pena di nullità della sentenza, di acquisire anche d'ufficio, in virtù dei
poteri conferitigli, ex art. 507 c.p.p., i mezzi di prova indispensabili per la 81
decisione, non essendo rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra
disporre i necessari accertamenti ed il proscioglimento dell'imputato;
pertanto, il giudice ha l'obbligo di motivare specificamente in ordine al
mancato esercizio dei poteri di integrazione probatoria, di cui all'art. 507
succitato, e l'assenza di una adeguata motivazione, censurabile in sede di
legittimità, determina una violazione di legge dalla quale deriva la nullità
della sentenza” (Cass., Sez. V, 11 ottobre 2005, n. 38674, P.G. in proc.
Tiranti, Rv. 232554, in Dir. pen. proc. 2006, n. 8, p. 1007).
Rispetto all'ordinanza impugnata l'onere di motivazione, così come espresso
dalle sentenze citate, risulta totalmente disatteso, avendo la Corte omesso di
motivare in ordine alla non assoluta necessità di disporre una nuova perizia
collegiale sui temi indicati dalla difesa e laconicamente statuito che
“l'approfondimento dell'istruttoria sul punto (approfondimenti di carattere
scientifico) palesa come non decisivo ogni ulteriore accertamento”.
SI CHIEDE, PERTANTO, CHE CODESTA CORTE D’ASSISE
D’APPELLO NEL PRENDERE ATTO DI QUANTO ORA ESPOSTO
VOGLIA DICHIARARE LA NULLITA DELL’IMPUGNATA
ORDINANZA AI SENSI DEGLI ARTT. 125, 3° CO., 507 E 586 C.P.P.,
ASSUMENDO LE CONSEGUENTI DETERMINAZIONI.
Ogni istanza difensiva volta a far sì che fosse trovata soluzione alla palese
incongruenza è SEMPRE stata frustrata con palese violazione del diritto di
difesa.
Infatti, la Corte, in radice ed immotivatamente, non ha accettato fosse
espletato alcun approfondimento, ritenendolo non decisivo (!), recependo
come vero, in puro stile inquisitorio, quanto portato dai consulenti
dell'Accusa.
La sentenza, a pag. 86, però, non parla più di non decisività sul punto, ma
ritiene:
“infondata la richiesta di perizia avanzata dalla Difesa e volta a
verificare se sui vari reperti fossero rinvenibili tracce biologiche
attribuibili a Massimo Giuseppe Bossetti relativamente ai profili
genetici nucleare e mitocondriale e a stabilire la natura della traccia
e se negli estratti di DNA in cui è ravvisato il profilo genetico di 82
Ignoto 1 i genomi di Yara Gambirasio e dell'imputato fossero presenti
nella loro interezza (profilo nucleare e mitocondriale) e, in caso
negativo, offrire una spiegazione scientifica dell'incompletezza dei
profili)
il tutto “in considerazione della mancanza di capacità identificativa anche
ai fini di mera esclusione del DNA mitocondriale”.
Ora, lo si ripete perché pare assurda tale motivazione, è proprio la
mancanza di capacità identificativa anche ai fini di mera esclusione del
DNA mitocondriale che ha indotto la Corte a non concedere la perizia.
Quindi, capire attraverso periti super partes quanto dalla difesa sollecitato,
una vera “aporia” per il Tribunale di Brescia, non è stato considerato
decisivo.
Come abbiamo visto, però, l'assunto di partenza da cui muove il
ragionamento della Corte è palesemente errato (sulla capacità identificativa,
anche ai fini di mera esclusione, si rimanda a quanto più sopra espresso).
Ora, la laconica affermazione della Corte contenuta nell'ordinanza di rigetto
non trova spiegazione neppure nella sentenza che, come visto, erra
clamorosamente su un presupposto fondamentale, anzi sul presupposto
fondamentale.
Nè si vuole pensare che il mero dato quantitativo, relativamente agli
accertamenti già svolti, possa essere il discrimine attraverso cui scegliere se
una determinata indagine sia dirimente oppure no.
A fronte di uniche analisi espletate sul DNA nucleare dal RIS vi sono,
invece, convergenti e plurime risposte sul DNA mitocondriale fornite da
diversi scienziati.
Possiamo preferire le prime solo in quanto provenienti da apparato dello
Stato?
Può essere scientificamente accettato l'utilizzo del solo DNA nucleare per
identificare ove si sia in presenza, come nel caso di specie, di un DNA
mitocondriale totalmente in contrasto?
Una eventuale risposta positiva – come positiva è la risposta fornita dalla
Corte – è conseguenza di un ragionamento gravemente viziato.
Non tiene conto che in natura il dato scientifico, più volte richiamato, non
trova giustificazione.
83
Un dato con valenza identificativa ottenuto con tecniche di base può
totalmente far disattendere un risultato di segno uguale e contrario
(identificazione tramite esclusione) ottenuto con tecniche di eccellenza?
Si aggiunga, poi, un'altra considerazione.
Come si legge a pag. 65 della sentenza, la Corte ha ritenuto “ultronea la
richiesta della difesa dell'imputato di conferire un apposito incarico
peritale volto ad ispezionare nuovamente gli indumenti della vittima, onde
verificare se sugli stessi fosse possibile, oltretutto a distanza oltre di cinque
anni dalla repertazione, rinvenire ulteriori tracce biologiche attribuibili
all'imputato o ad altri eventuali contributori”.
Ancora una volta, quale motivo del diniego, viene preso in considerazione
un dato, il dato temporale (cinque anni dalla repertazione), con motivazioni
che paiono essere francamente in completa contraddizione non solo con le
attuali conoscenze scientifiche ma anche con la pratica giudiziaria che tutti
conosciamo.
Sono noti i casi di indagine condotti attraverso lo studio del DNA a distanza
di molti anni dai fatti. Se ne citano solo i più noti: Alberica Filo della Torre,
Elisa Claps, Simonetta Cesaroni e, da ultimo, anche il caso di Lidia Macchi
deceduta trent'anni fa (per quest'ultimo caso, consulenti per lo studio del
mitocondriale ancora una vola il dott. Lago e la dott.ssa Pilli della
Università di Firenze).
Anche il consulente di parte civile, dott. Portera, ci dice (pag. 38 ud.
03.02.2016) come :
“Il nucleare dopo qualche decina di anni si perde e permane il
mitocondriale”.
Qualche decina di anni!
Su un punto TUTTI i consulenti delle varie parti processuali convergono: la
mancanza del DNA mitocondriale dell'imputato nelle tracce rinvenute sui
reperti ed attribuite all'imputato stesso.
Altro punto su cui tutti i consulenti convergono è la mancanza di
spiegazione a tale situazione, difficilissima da rendere in astratto (un solo
studio sperimentale al riguardo e non attinente al caso di specie quanto alle
tecniche impiegate), parimenti nel caso concreto.
84
Altra fondamentale convergenza è sulla capacità identificativa (della linea
materna) del DNA mitocondriale, con ovvia capacità di esclusione (però la
Corte, sul punto, inspiegabilmente la pensa diversamente).
Su cosa vi è divergenza di vedute?
Il primo elemento su cui si dissente apertamente è sulla utilizzabilità di un
dato scientificamente acquisito ove questo non sia coerente con altri dati
parimenti scientificamente acquisiti.
Per la Difesa, il dato del DNA mitocondriale (mai contestato né tacciato di
errore da alcun consulente) incoerente con il dato del DNA nucleare,
rende quest'ultimo inutilizzabile proprio perché scientificamente impossibile
tale divergenza.
Per l'Accusa e la Corte, l'incoerenza di risultati non rileva in quanto il dato
ottenuto sul mitocondriale, sebbene corretto, sarebbe l'esito di una mera
attività di indagine svolta solo a fini scientifici (per capire!) e non per
identificare.
Quindi, seguendo questa logica, il perché si fa una certa cosa, cambia il
valore del risultato eventualmente acquisito. Va da sé, invece, che il risultato
oggettivo resta in tutta la sua portata e non si può far finta di non vederlo
solo perché non è rispondente a quanto desiderato prospettando che è frutto
di una indagine avente finalità di mera conoscenza.
Altro elemento su cui vi è profondo disaccordo, la rilevanza del metodo
scientifico in ambito processuale.
Secondo l'Accusa, l'incongruenza non merita spiegazione:
“non è questo il luogo per dare risposte di natura scientifica”.
Per la Corte, non è decisivo! Ma è l'unica che ha l'obbligo di motivare.
Per la Difesa, invece, una risposta è imprescindibile nella logica
complessiva dell'odierno processo accusatorio dove l'onere della prova
incombe a chi accusa, chiamata anche a dare contezza della bontà scientifica
delle proprie asserzioni.
Gli esiti inaspettati sul DNA mitocondriale hanno innegabilmente
sparigliato le carte dell'Accusa pubblica e privata.
Lo strenuo tentativo di trovare giustificazione all'anomala situazione, anche
adducendo impercorribili logiche, dimostra lo “stato confusionale” dei
85
consulenti che, non potendo in udienza rinnegare in toto il loro precedente
operato, hanno tentato di sminuirlo e ridimensionarlo.
Si prenda, ad esempio, quanto affermato dal dott. Portera consulente della
famiglia Gambirasio (p. 35 del verbale redatto in forma stenotipica del
03.02.2016):
“Il DNA nucleare di Ignoto 1 è stato analizzato dal RIS di Parma e lo
provano i dati grezzi nell'aprile 2011, come corsa elettroforetica, cioè
come analisi finale. L'analisi del DNA mitocondriale, invece, è stata
eseguita tra il mese di novembre e il mese di dicembre 2011...è
possibile quindi è anche probabile che i mesi intercorsi dalla
commissione del reato, quindi dal novembre 2010, quando è stata
appunto uccisa Yara, e il sequenziamento delle regioni mitocondriale,
novembre 2011, quindi un anno, è possibile che all'interno di quel
mitocondriale sia avvenuta qualsiasi cosa. Magari se avessimo fatto
l'analisi del mitocondriale nel novembre del 2010, anzi probabilmente
– posso aggiungere – avremmo avuto un esito diverso rispetto a
quello che è stato, invece, prodotto nel novembre 2011. Per cui
l'analisi del mitocondriale ha generato un dato francamente pieno di
dubbi interpretativi”.
L'affermazione riportata è inesorabilmente contraddetta dalle produzioni
documentali provenienti dalla Parte Civile, la quale ha prodotto, viste le
eccezioni di questa Difesa sulla regolarità delle ripetizioni relativamente alle
tracce più significative 31G19 e 31G20, gli elettroferogrammi relativi a tre
ripetizioni effettuate su dette tracce ove, sempre a dire della Parte Civile
erano stati rispettati tutti i crismi previsti dalle best practices in materia
(l'utilizzo di Kit in corso di validità, controllo positivo, controllo negativo).
Orbene, dette ripetizioni sono state eseguite il 25 ottobre 2011, come
evidente un solo mese prima rispetto all'effettuazione dell'esame sul DNA
mitocondriale, novembre 2011.
Sempre il dott. Portera, nel tentativo di giustificare comunque l'assenza del
mitocondriale, si spinge ad affermare come non sia possibile escludere in
maniera totale la presenza di una natura spermatica all'interno della traccia
di Ignoto 1.
Ciò, verosimilmente, in considerazione del fatto che, come sopra visto,
86
questa è una delle ipotesi in cui il DNA mitocondriale, in particolari
condizioni, può andare perso.
Anche tale affermazione, però, è stata smentita dalle risultanze della
relazione del RIS.
Il dott. Lago, in udienza, coerentemente con il reparto da lui diretto, (pag.
177 verbale di udienza redatto in forma stenotipica del 21.10.2015) afferma:
“Non ci dimentichiamo di tutta quella mole numerosissima di dati, di
diversi kit, che, in maniera del tutto univoca, e senza incertezze,
esclude sostanzialmente questa ipotesi” e poi ancora “sul piano
proprio della verosimiglianza del tutto improbabile che un numero
così grande di test così diversi, su punti così variabili, abbia
contemporaneamente fallito”.
A quali test si riferisce il dott. Lago? Ai test per individuare l'eventuale
natura spermatica della traccia, citandone poi uno in particolare, lo sperm-hy
Liter.
Tale test, come dice il RIS:
“E' stato creato per la ricerca ed individuazione di spermatozoi umani
in tracce repertate in occasione di violenze sessuali, il test è in grado
di individuare un singolo spermatozoo presente in una miscela di
fluidi vaginali o epiteliali. È assolutamente specifico per spermatozoi
umani e pertanto non fornisce alcuna positività con altri fluidi
corporei o spermatozoi di altre specie animali”.
Sulla natura delle tracce e, quindi, sulla possibilità che si stia parlando di
sperma, le parole del RIS sembrano non lasciare spazio ad alcuna possibilità
(ragionevole) che quanto da loro analizzato, con specifico riferimento alla
componente maschile, possa derivare da sperma umano.
Leggiamo, infatti: “appare irragionevole pensare di associare ad un
eventuale falso negativo (ndr sperma) su un test diagnostico un profilo
genotipico straordinariamente di ottima qualità come è quello, ad esempio,
relativo al campione suddetto”.
È, quindi, lo stesso RIS ad affermare, in epoca non sospetta, che sarebbe
“irragionevole” pensare la traccia in esame fosse riconducibile a sperma.
87
Al dott. Portera, però, poco importa di apparire irragionevole nel riproporre
una possibilità, già scientificamente scartata, senza peraltro motivare la
propria visionaria concezione della biologia.
La Corte, nell'argomentare sulla natura della traccia, “non essendovi
elementi di certezza in merito alla natura dei contributi biologici che hanno
originato la traccia (semplicemente positiva all'emoglobina)”, ritiene che
nessuna spiegazione possa essere privilegiata lasciando così aperta la
possibilità che si possa trattare anche di contributo spermatico.
Anche qui la Corte perviene ad una conclusione in aperto contrasto con le
risultanze dibattimentali, senza, peraltro, fornire adeguata motivazione sul
punto.
Se è pur vero che la natura della traccia non è stata accertata con certezza è
altrettanto vero che sappiamo con altrettanta certezza cosa non è.
Sicuramente non è sperma.
Quindi, per concludere il discorso aperto con la disamina sulla natura della
traccia, possiamo affermare che l'ipotesi della perdita del mitocondriale in
quanto trattasi di sperma è del tutto destituita di ogni fondamento
semplicemente perché sarebbe “irragionevole” nonché priva di materialità
analitica.
Altro tema su cui si è ampiamente dibattuto è la classificazione delle tracce
come miste o a singolo contributore.
Tale dato appare essere di rilevante importanza anche alla luce delle
determinazioni della Corte che ha bollato le indagini sul mitocondriale a
traccia mista estremamente difficoltose e sconsigliabili, motivo ulteriore per
cui non è stato concesso alcun approfondimento peritale sui quesiti posti
dalla Difesa.
Il semplice dato della quantificazione di DNA presente in una traccia pare
non essere sufficiente per definire come mista (uomo/donna) la traccia
stessa.
L'assunto testé esposto trova conferma dal semplice raffronto di due tabelle.
Da una parte esaminiamo la tabella di cui alla pagina 212 della relazione
RIS “Accertamenti tecnici biologici del procedimento penale 10915/2010
R.G.N.R. Mod. 44” dove con riferimento alla traccia 31G20 notiamo che a
88
fronte di un DNA totale di 2000 pg/ml corrisponde un DNA maschile pari a
1400 pg/ml da cui la Corte vorrebbe quindi desumere 1400 pg di maschio e
600 pg di donna per un totale di 2000 pg.
Analizzando, invece, la tabella di cui alla pagina 2) dell'elaborato peritale a
firma dei dott.ri Piccinini e Cattaneo, nel quale viene presa in esame una
diafisi femorale del defunto Giuseppe Guerinoni, tabella che riporta i dati di
quantificazione del DNA estratto da detta porzione di osso, nelle ultime
quattro righe osserviamo come a fronte di un DNA complessivo ve ne sia
solo una parte, circa 1/5, maschile.
Facendo nostro il ragionamento della Corte, dovremmo affermare che nelle
ossa del Guerinoni essendoci – nel campione di osso 17/13/3 – 22 pg di
89
maschio in 121 pg totali, ne abbiamo ben 99 pg di donna. In un femore di un
uomo !
È pacifico che nell'osso in questione (osso del Guerinoni) non possa che
essere presente esclusivamente la sua componente di DNA, ovviamente
maschile.
Pertanto, il mero dato di quantificazione non è sufficiente a definire se una
traccia possa dirsi mista o meno.
Sempre sulla traccia mista, si prendano in considerazione le dichiarazioni
del già citato dott. Giardina, consulente del P.M. (pag. 102 del verbale di
udienza redatto in forma stenotipica del 18.11.2015) dove alla domanda
della Difesa:
“Avv. Camporini: - Ma Lei per quanto riguarda il DNA nucleare,
sapeva che il 31.G19 era una traccia mista?
Consulente Giardina: - Io avevo visto, ho visto i profili 31.G19 e
31.G20 nucleari, e non era... ”.
Sempre sul tema della traccia mista interviene anche il Consulente Lago il
quale (pag. 182 del verbale d'udienza redatto in forma stenotipica del
30.10.2015) a domanda della Difesa:
“La famosa traccia 31G20 è una traccia mista o è una traccia che ha
un solo contributore?
Consulente Lago: qui mi richiamo al concetto di prima, quello che
noi vediamo nell'esito di questa traccia che è l'elettroferogramma che
adesso è proiettato nel monitor è una traccia che non mostra
contributi diversi da Ignoto 1. Quindi la lettura di questa traccia
non è una mistura. Il che non significa che la traccia non sia una
mistura ”.
Quindi, sembrerebbe vero tutto e il contrario di tutto!
Il dott. Portera, consulente della famiglia Gambirasio, all'udienza del
03.02.2016, rispondendo alle domande del difensore di Parte Civile sulle
tracce 31G20 e 31G16 afferma:
“Ci siamo concentrati su due campioni (31G20 e 31G16) per quale
motivo? Vorrei specificarlo. Perchè queste sono le due tracce che
90
erano presenti all'interno della relazione del RIS di Parma, che
avevano dato gli esiti più probanti. Ovvero il 31G20 aveva dato le
specifiche di un soggetto unico, identificato come Ignoto 1 e il 31G17
aveva dato delle specifiche di DNA di una traccia mista, all'interno
del quale era possibile individuare la componente della vittima e la
componente di Ignoto 1”.
Sempre sul medesimo punto, a pagina 49 del verbale del 03.02.206, il dott.
Portera ribadisce che:
“Il 31G20 come applicazione NGM, è una traccia singola”.
Utilizzando un altro kit - Identifiler - alcune amplificazioni
evidenzierebbero un mistura nel marcatore D21, ma “le altre
amplificazioni che io ho studiato, e che ritengo prioritarie, non
evidenziano una mistura dall'amplificazione e dallo studio degli
elettroferogrammi”.
Se vale il principio in claris non fit interpretatio, la traccia 31G20 specifica
un soggetto unico, la 31G16 palesa un doppio contributore.
Le convergenti dichiarazioni di due diversi consulenti, della Procura e della
Parte Civile, lascia ben pochi dubbi in proposito.
Conseguentemente, ogni speculazione sull'estrema difficoltà (impossibilità)
di indagare il DNA mitocondriale in tracce miste e degradate quantomeno
non vale per la 31G20 che, lo si ricorda, è quella più significativa per
purezza e quantità, oltre ovviamente ad essere ad unico contributore.
Sul punto la Corte, quindi, erra clamorosamente, senza peraltro dare
contezza del ragionamento che la conduce ad affermare come vero un dato
palesemente incongruo, tanto più che a pag. 56 della sentenza:
“...dal campione 31G20 che dal punto di vista dell'esame del DNA
nucleare presentava l'unico profilo di Ignoto1, (ndr dal punto di vista
mitocondriale) emergevano due sequenze, una maggioritaria,
corrispondente a quella del campione di confronto di Yara, e una
minoritaria, differente da quella della vittima”.
La Corte che, come detto, riconosce come assolutamente normale e
spiegabile la “presenza” della componente mitocondriale della vittima in
91
ogni traccia essendo, come logico, ogni indumento indossato dalla vittima
“intriso dei liquidi di putrefazione del cadavere”, incorre in una palese
contraddizione ove, da una parte, afferma come la perizia sul DNA non
venga concessa anche in considerazione della complessità di analisi su
tracce miste e degradate e, dall'altra, riconosce che la traccia migliore per
quantità e qualità sia, sotto il profilo nucleare, ad unico contributore.
A parere della Corte, come più volte detto, ogni ragionamento sul DNA
mitocondriale risulta essere “non decisivo” quindi, inutile, a fronte dei
risultati ottenuti sulla componente nucleare del DNA che portano
all'attribuzione dello stesso con una ricorrenza statistica talmente alta da
essere considerata equivalente alla certezza.
Tale certezza è figlia di una indagine condotta nel rispetto delle best
practices internazionali in materia?
Come dimostrato dalla Difesa in dibattimento e, qui, ribadito non vi è alcun
accertamento (con riferimento al DNA nucleare), che sia rispondente ai
requisiti di forma previsti dalla comunità scientifica, dalle nuove linee
guida, peraltro anch'esse prodotte in dibattimento, che, in sintesi, vogliono
che un risultato affinché possa definirsi affidabile sia ripetuto e che ciò
avvenga nelle medesime condizioni ed in presenza di tre requisiti
imprescindibili:
• i kit utilizzati in ciascuna fase dello studio della traccia devono essere
in corso di validità;
• il c.d. “controllo negativo”, anch'esso da effettuarsi con riferimento a
ciascuna corsa elettroforetica, deve dare un esito, appunto, negativo;
• il c.d. “controllo positivo” deve, parimenti, restituire il DNA del
campione analizzato.
In modo da escludere qualsiasi rischio di contaminazione esogena.
Ora, queste caratteristiche non sono congiuntamente presenti in nessuna
analisi e, quindi, ripetizione.
Dall'esame dei dati grezzi questa Difesa ha potuto appurare, come la
convergente presenza dei tre requisiti, poco sopra enunciati, non sia
riscontrabile in nessuna corsa elettroforetica.
92
Né l'Accusa ha fornito evidenza che gli accertamenti sul DNA siano stati
effettivamente svolti secondo i crismi delle linee guida internazionali ed i
relativi risultati siano stati oggetto di ripetizione in presenza di pari
condizioni.
La sentenza, poi, si limita genericamente ad affermare la bontà di risultati
astenendosi dall'indicare ove tutti i crismi previsti per la validazione forense
degli stessi siano presenti.
Tale assenza riveste grave vizio motivazionale sul punto.
Si veda, a titolo esemplificativo, la tabella riferibile alla traccia principe
31G20.
93
Purtroppo, quanto enunciato negli elaborati di consulenza, si veda pag. 4
consulenza RIS “Tutti i materiali utilizzati (reagenti, soluzioni, test per le
diagnosi di genere, kits per quantificazione, amplificazione e tipizzazione
del DNA) sono altamente controllati e selezionati per la fedeltà e
riproducibilità dei risultati, nonché rigorosamente conservati ed impiegati
in ossequio alle più moderne procedure internazionali”, non corrisponde
però, a quanto avvenuto nella realtà.
Sempre dalla relazione RIS leggiamo:
“Per buona prassi di laboratorio, così come richiesto dai prefati standard,
l'intero processo di caratterizzazione genetica, dall'estrazione alla
tipizzazione è stato monitorato attraverso controllo negativo e controllo
positivo”.
Per comprendere di cosa si stia parlando, riportiamo ancora le parole del
RIS: “Il controllo negativo (una mix di reazione priva di DNA), denominato
anche “bianco di reazione”, garantisce che durante tutte le operazioni di
laboratorio non si è patita alcuna contaminazione da DNA esogeno di
primati (operatore, apparecchiature, etc.), mentre il controllo positivo (mix
contenente DNA di ottima qualità e a sequenza nota) assicura il corretto
andamento delle reazioni in condizioni standard”.
Quanto rappresentato dovrebbe essere lo standard di riferimento di ogni
indagine scientifica in tema di DNA.
Inutile sottolineare come tale livello di attenzione massimo sia proprio
richiesto in considerazione dell'elevata “posta in gioco”. Gli esiti di una
indagine così condotta sono spesso a base di sentenze (normalmente
accompagnati, però, da altri elementi provanti) ove si commina un “fine
pena mai”.
Il mancato rispetto delle stringenti procedure enunciate, che solo
apparentemente potrebbero sembrare “richieste di lana caprina”, si
riverberano inevitabilmente sulla bontà del dato acquisito, risultato che la
comunità scientifica – forense, non può validare.
La Suprema Corte, seppur in ambito civile, in una vertenza sul
94
riconoscimento di paternità ove il DNA come intuibile ha avuto un ruolo
centrale, si è espressa sul tema del mancato rispetto delle linee guida
internazionali in merito alle analisi del DNA e segnatamente l'utilizzo di kit
scaduti.
L'ordinanza in esame riconosce come fondamentale “il rispetto delle c.d.
linee guida di esecuzione delle indagini genetiche, così come dettate dalle
principali associazioni internazionali di esperti ed operatori della genetica
forense, sebbene non abbiano forza cogente, perchè non sono tradotte in
protocolli imposti dalla normativa di legge o di regolamento, costituiscono
regole comportamentali autoimposte da una gran parte di operatori e
studiosi della materia in ragione del progresso scientifico e della
delicatezza delle implicazioni che ne derivano” (Cass. Civ., Sez. VI -1,
03.08.2015, n. 16296).
Le irregolarità prospettate dalla Difesa, come vedremo non solo con
riferimento ai kit scaduti, ma anche alla mancanza di controlli positivi e
negativi per ciascuna indagine, invece ritenuta valida, appaiono
sostanzialmente ammesse anche nel caso de quo dalla Corte stessa che,
però, con un grave vizio motivazionale le ritiene ininfluenti, avendo
comunque consentito all'operatore di pervenire ad un risultato sempre
ripetuto nel tempo.
Circa l'utilizzo di polimeri scaduti, diversamente da come ritenuto dalla
Corte, lo stesso non può essere semplicemente tacciato quale mero “rilievo
di metodo” (questione di lana caprina, appunto) in quanto “la scadenza del
polimero viene fissata dalle case produttrici anche a fini commerciali
(tanto è vero che esiste un sistema di rivalidazione dei polimeri volto a
prolungarne il periodo di utilizzabilità), e che lo spirare del termine di
consumo non compromette l'analisi e, soprattutto, che l'eventuale cattivo
stato di conservazione del polimero non impedisce la reazione e da luogo
ad un profilo non leggibile, non a un profilo diverso da quello reale” (pag.
79 della sentenza).
Come detto, su tale punto, la sentenza è assolutamente carente in quanto dà
per avvenuta una procedura di validazione di cui non vi è prova in atti;
95
dà, poi, per acquisito che l'apposizione di una data di scadenza sul polimero
sia dovuta a fini commerciali e dà, infine, per acquisito quale valido un
risultato che non sappiamo quale sarebbe potuto essere qualora fossero stati
utilizzati polimeri in corso di validità.
Comunque, la Corte con l'utilizzo della congiunzione “anche” (“anche a fini
commerciali”) presuppone che l'apposizione di una scadenza non abbia solo
fini commerciali. Ma, evidentemente, per la Corte questi sono preminenti
posto che nessun rilevo viene dato al dato.
Conseguenza che la scadenza ha anche meri fini commerciali è per la Corte
l'irrilevanza della stessa.
Nessun ragionamento a riprova di quanto affermato è stato offerto dalla
Corte con conseguente ulteriore vizio motivazionale sul punto.
Si ribadisce che la delicatezza dell'accertamento scientifico di che trattasi e
le implicazioni che da questo discendono hanno indotto la comunità
scientifica a redigere linee guida assai stringenti che, nel caso di specie,
benché la Corte ne affermi il rispetto, non sono state seguite.
Anche il gruppo dei genetisti forensi italiani ha recentemente approvato, in
data 9 giugno 2016, nel corso del convegno “Il DNA: la prova regina.
Qualità nell'analisi forense” indetto dal Ge.Fi. (genetisti forensi italiani) le
linee guida in tema di identificazione personale.
Quanto espresso poco sopra da questa difesa è assolutamente rispondente
alle prescrizioni citate.
La Difesa ha ottemperato al proprio onere di sollevare avanti la Corte gli
errori di chi ha effettuato l'indagine evidenziando, altresì, il mancato rispetto
di quelle che sono rimaste mere affermazioni di principio.
Anche lo stesso consulente di Parte Civile evidenzia come (pag. 60 verbale
udienza del 03.02.2016):
“Anche un kit scaduto – mi scusi Presidente – da qualche giorno, può
essere comunque utilizzato in laboratorio; o da qualche settimana,
può essere comunque utilizzato in laboratorio, sempre nel momento in
cui l'operatore in laboratorio verifichi la buona funzionalità del kit.”,
sempre sulla scadenza: “è una cosa da anche verificare”!
96
Nel caso specifico, la scadenza dei kit utilizzati risaliva ad alcuni mesi e
relativamente ad alcune ripetizioni oltre l'anno.
Tale dato è riscontrabile dai cd. dati grezzi.
E nessuna verifica è stata fatta dall'operatore!
La non conformità dei controlli negativi delle amplificazioni del 25.10.2011
sulla traccia 31G20 (unica ripetizione apparentemente perfetta anche sotto il
profilo del rispetto delle linee guida) denunciata dalla difesa e “lungamente
dibattuta dalle parti in sede di discussione” per la presenza nel controllo
negativo di un picco che evidenzia una possibile contaminazione, è stata
dalla Corte giustificata in quanto “il consulente di Parte Civile dott. Portera
ha spiegato che la presenza in uno dei controlli negativi sul marcatore FGA
di un picco di altezza 88 rfu non inficia il risultato delle corse
elettroforetiche chiaramente interpretabili” (pag. 94 della sentenza).
A fronte dell'opinione di un consulente di parte, per quanto autorevole, ma
avente pari dignità dei consulenti di questa Difesa, ci si domanda come la
Corte abbia potuto, senza motivazione alcuna, preferire una opinione
piuttosto che l'altra dando comunque atto della presenza del picco
denunciato che, secondo le nuove linee guida della Ge.Fi. sopra la soglia di
30 rfu deve intendersi contaminazione.
Motivare una così grave anomalia (si rammenta che il picco in questione
presente nel controllo negativo che, diversamente e correttamente non
dovrebbe presentare alcun allele, è una caratteristica presente nel DNA
nucleare dell'imputato) sulla base delle parole di un consulente di parte
che reputa le corse elettroforetiche comunque chiaramente interpretabili,
lascia decisamente stupiti.
E' noto, infatti, come la singola variazione di una sola componente allelica
identifichi soggetti diversi!
In estrema sintesi, e per maggior chiarezza, un controllo negativo che 97
dovrebbe, per definizione, restituire un elettroferogramma “piatto”, quindi
non contaminato, presenta, invece, un picco. E non un picco qualunque,
bensì un picco presente nel DNA dell'imputato!!! E si rammenti che tale
anomalia si riscontra proprio nella traccia ritenuta di maggior interesse
investigativo per la quantità e la purezza di DNA nella stesso rintracciato:
31G20!
Ma i problemi sul DNA nucleare non sono solo quelli attinenti per così dire
alla “forma” con cui si è ottenuto il risultato attribuito ad Ignoto 1.
Un'altra importante anomalia è stata stigmatizzata dalla Difesa all'esito della
consulenza fornita dai dottori Cattaneo e Piccinini che sono stati incaricati
dal P.M. di estrapolare il profilo genetico dalla salma del fu Giuseppe
Benedetto Guerinoni, onde stabilire una relazione di parentela, in particolare
di paternità, con Ignoto 1.
La paternità di Giuseppe Benedetto Guerinoni nei confronti del soggetto
definito come Ignoto 1, doveva ritenersi praticamente provata, ma non senza
difficoltà.
Infatti, nello studio di alcune particolari regioni relative al DNA nucleare, i
consulenti decidevano di aumentare il numero di marcatori in esame.
L'esito di detto studio restituiva, però, una ennesima anomalia, ossia la
presenza di un “picco inatteso” con riferimento al marcatore FES/ FPS del
cromosoma 15.
98
La presenza dell'allele in questione negli esami condotti dai citati consulenti
si è verificato più volte ripetendosi nel suo apparire.
Come percepibile ictu oculi dagli elettroferogrammi allegati alla relazione
dei consulenti tecnici del P.M. e qui sopra riportati ed evidenziati, tale
presenza è inequivocabile ed è sicuramente riduttivo considerarlo un
semplice artefatto di reazione peraltro senza alcuna valida dimostrazione
scientifica.
Inspiegabilmente, la sentenza parla di “una incostanza di risultato che
faceva optare per un artefatto di reazione”.
Infatti, il dott. Piccinini, in dibattimento, così specificava:
“dicendo che c'è un picco inatteso, significa che in questa zona, che si
vede in tre diverse ripetizioni, è presente un allele nello spazio
bianco, compreso tra gli alleli attesi” (pag. 22 verbale udienza redatto
in forma stenotipica del 18.11.2016).
Il dott. Piccinini attribuisce la presenza del c.d. “picco spurio” ad un difetto
del kit (esplicitamente si ammette che un kit, peraltro in corso di validità, in
99
sé può presentare dei “difetti” e, quindi, fornire risultati falsati dalla
presenza di artefatti. Figuriamoci cosa può accadere con kit scaduti!).
Come detto più volte questo è il processo delle anomalie che, però, a
seconda della necessità sono semplici artefatti oppure situazioni non visibili
unicamente, per citare ancora le parole del dott. Lago, perché “non usiamo
gli occhiali giusti”
Secondo l'Accusa e la sentenza, nel caso dell'allele sovrannumerario si
vede qualcosa che in realtà non c'è (altrimenti inficerebbe il risultato
del DNA nucleare), nel caso del DNA mitocondriale, non si vede
qualcosa che in realtà c'è (altrimenti inficerebbe il risultato del DNA
nucleare).
Quale logica possa consentire tale incostanza di ragionamento risulta del
tutto sconosciuta, se non quella di utilizzare unicamente ciò che conferma
l'assunto da dimostrare e svalutare o non considerare totalmente ciò che
contraddice l'assunto stesso.
Resta l'insormontabile problema che l'eventuale artefatto in questione,
secondo il “manuale d'uso” del kit utilizzato doveva posizionarsi tra N-12 ed
N-13 mentre, in realtà, si trova in posizione positiva.
Il contro esame del dott. Piccinini consentiva, poi, di confermare che
l'anomalia in questione era collocata in posizione positiva e non negativa,
inoltre in contrasto con quanto riportato dal manuale d'uso si
posizionava anziché tra gli alleli 12 e 13 tra il 13 e il 14.
Quindi in una regione diversa e nella quale non era assolutamente attesa la
possibilità di incorrere in un artefatto.
La conclusione che proprio di artefatto trattasi è, ancora una volta,
totalmente indimostrata nonché recepita de plano dalla Corte, nuovamente
in assenza di esaustiva motivazione.
In conclusione, sul punto, questa Difesa ritiene importante richiamare le
parole del dott. Piccinini rese in udienza, al fine di valutare l'attendibilità
dello stesso, atteso che, l'opinione del dott. Piccinini è stata recepita dalla
Corte.
100
Ancora una volta, si preferisce il consulente di una Parte processuale senza
alcuna motivazione.
A pag. 38 del verbale di udienza del 18.11.2015 si legge:
“Quindi i picchi di bassa altezza, possono essere visti per i marcatori
LPL e Penta C in posizione N meno 1 e N meno 9 e N più 1 per F13B,
e N12, N meno 12 e N meno 13 al FES/FPS...”.
Alla successiva domanda della Difesa, in cui si evidenzia come l'artefatto di
cui si parli sia nella posizione positiva, quindi + numero, il consulente
Piccinini rispondeva:
“No, questo meno potrebbe anche essere semplicemente un trattino di
giunzione. Quindi non è necessariamente un meno. Mentre lo è N
meno1 ed N più1, questo N12 e N13 non è ...”.
Incredibile come il Consulente, nel giro di qualche minuto, possa aver
cambiato opinione solo per continuare a sostenere la bontà della tesi
dell'artefatto e ciò solo dopo essersi accorto dell'incongruenza sottolineata
dalla difesa.
L'incongruenza è di tutta evidenza e gli estratti del verbale di udienza
proposti dimostrano quanto l'assunto.
Valga, inoltre, una ultima considerazione considerando, quale logica
premessa, che ogni conoscenza umana è, per sua natura, incompleta e
soggetta a continui aggiornamenti.
Fino a pochi anni fa l'attribuzione di una traccia di DNA poteva avvenire
con un numero minore e limitato di marcatori.
Le cronache giudiziarie hanno, poi, ha dimostrato che seguendo tale
impostazione scientifica si poteva incorrere in false attribuzioni, quindi, via
via, si è incrementato il numero di marcatori necessari per consentire
l'individuazione di una persona.
Ora, anche nel caso di specie, si è andati a studiare delle ulteriori regioni
rispetto a quelle già esaminate, come se vi fosse bisogno per l'attribuzione
della traccia di una certezza ancora più certa, salvo, poi, però, disattendere il
risultato ottenuto perché anziché avvalorare l'ipotesi di partenza, ne
101
stravolgeva gli esiti, tacciandolo come artefatto.
Ma questo, come abbiamo visto, è il leitmotiv dell'inchiesta e di tutto il
processo: quando il risultato non torna comodo, si fa finta di non
vederlo oppure lo si considera come una anomalia.
Tale atteggiamento non può certo essere accettato neppure da chi
rappresenta l'Accusa, benché parte.
Non può e non deve fondare una sentenza di condanna in assenza di risposte
esaustive sotto il profilo scientifico, accompagnate da un completo
ragionamento logico-giuridico.
Nel caso in esame, infatti, manca del tutto un valido supporto scientifico al
ragionare della Corte, così estrinsecandosi in tutta la sua evidenza il difetto
motivazionale della sentenza.
Catena di custodia e “lievitazione” delle provette.
L'ultimo argomento in tema di DNA, ma non per questo meno importate,
attiene a quella che questa Difesa ritiene essere la “prova provata” di una
catena di custodia dei reperti “gestita allegramente”.
In sede di discussione, infatti, la difesa sottolineava nuovamente quanto il
proprio consulente di parte, dott. Capra, aveva già esposto in sede di propria
audizione.
Nessuna domanda, in fase di contro esame, su tale specifico punto, era stata
proposta allo stesso né dal P.M., né dalle parti civili.
Quindi, l'argomento trattato in sede di arringa non era certo un argomento
nuovo.
Semplicemente, stante l'estrema difficoltà (rectius, impossibilità) di
screditare l'assunto difensivo, Pubblico Ministero e Parti Civili avevano
preferito non contro esaminare il consulente della difesa che evidenziava
quanto qui di seguito riportato la massima intelleggibilità (verbale udienza
del 3.2.2016, da pag. 163):
“CONSULENTE CAPRA – Come ultima parte, prima di fare le
conclusioni, rilevo quelle che sono alcune incongruenze che ho
potuto notare dalle consulenze tecniche svolte dal colonnello Lago e
dal RIS.
“Elenco dei reperti acquisiti dal RIS da Parma. Sono di seguito
102
indicati i campioni a disposizione, i volumi e le concentrazioni degli
stessi. Le quantificazioni sono state prodotto utilizzando il kit Plexor,
commercializzato dalla Promega. Si osserva che i prelievi 31G1
esterno" campione fondamentale "31G1 interno e 31.18 sono stati
utilizzati per lo studio genetico dei tratti somatici. Mentre i prelievi
31G19 e 31G20 sono stati utilizzati per la tipizzazione del DNA
mitocondriale". Andiamo a vedere la tabella. Mi dà 31G1 esterno
12.700 picogrammi, 4.880 picogrammi maschile. 31G1 Interno 19 e
20, 18, 236, 136, 301, 179. 31G20, 2.530, 1.680. E poi c’è il
campione del reggiseno utilizzato come campione di riferimento. Il
problema è che queste concentrazioni di DNA, che sono fondamentali
per l’esecuzione di tutti i successivi accertamenti, che sono dei dati
che abbiamo visto che taluni hanno cercato di utilizzare, a mio avviso
non in maniera giusta, per stabilire se un campione era misto o non
era misto eccetera.
Sono completamente diversi da quelli che abbiamo trovato nella
tabella dei RIS. Si tratta della stessa provetta, dello stesso campione,
analizzato sempre dai RIS, e qui abbiamo 12.700, e originariamente –
che viene riportato più volte - avevamo 2500. Cioè questa provetta
qui improvvisamente ha avuto una concentrazione cinque volte
superiore rispetto a quella che c’era prima. Il DNA è lievitato, da uno
è diventato cinque. 2.500 e 1.000 di DNA maschile, diventa 12.700 e
4.880. E parimenti ci sono delle differenze, meno significative, non
certamente nell’ordine di cinque volte, come è avvenuto in questo
caso, anche per tutti gli altri campioni.
Ci possono sulle delle spiegazioni, perché a tutto ci può essere una
spiegazione. Il problema è che di queste spiegazioni non ho trovato
traccia in tutte le varie relazioni, o una giustificazione che potesse, in
qualche maniera, spiegare questa, che è una ulteriore anomalia molto
pesante. Ripeto, una stessa provetta, che ha una buona
concentrazione di DNA, non necessita di ulteriori problemi, che
improvvisamente dà un valore di uno, ho un chilo di DNA, la rimisuro
e ottengo cinque chili di DNA. È un qualche coso che,
oggettivamente, mi fascia assai perplesso.
103
Quanto sostenuto dalla difesa e dal suo consulente è percepibile in tutta la
sua portata dal semplice raffronto delle due tabelle, che qui di seguito per
comodità si riportano, la prima redatta dal RIS, la seconda dal dott. Lago,
sul medesimo argomento – concentrazione del DNA – e, soprattutto, sulle
medesime provette.
La significativa variazione di concentrazione – vera è propria lievitazione –
appare evidente.
104
Tale dato sbalorditivo è giustificabile se non con una violazione della
catena di custodia intesa, quale vera e propria manomissione oppure
esemplificativa di un grave errore.
Analizzando i risultati di quantificazione relativi alla traccia G1EXT e alla
traccia G20, ossia le tracce maggiormente rappresentative della presenza di
Ignoto 1, si vede come, relativamente alla prima, corrisponde inizialmente
una concentrazione di DNA totale pari a 2500 pg/ml e DNA, maschile pari
a 1000 pg/ml, lievitate successivamente a ben 12.700 pg/ml di DNA totale e
4.880 pg/ml di DNA maschile, ossia oltre cinque volte tanto.
Analogamente, tale lievitazione coinvolgeva anche la traccia G20.
La domanda posta da questa difesa a cui nessun consulente ha dato
risposta, benché fossero state sollecitate spiegazioni finalmente di natura
scientifica e non filosofica, è rimasta inevasa anche da parte della sentenza
che liquida l'assunto semplicemente come “privo di costrutto” (si veda
pag. 87 della sentenza) limitandosi ad evidenziare semplicemente come la
difesa non avesse posto domande in tal senso agli ufficiali del RIS.
Si sono volute riportare per intero le parole del dott. Capra in quanto veri
macigni sull'intera istruttoria dibattimentale liquidate con un
incommentabile: “privo di costrutto”!
Codesta Corte d'Appello dovrà porre rimedio a tale incredibile mancanza di
motivazione.
Dato l'insuperabile dilemma su come si sia potuto assistere ad una vera e
propria lievitazione della concentrazione in provetta del DNA, peraltro
come detto riferito alle tracce migliori, la Corte non poteva che proporre una
soluzione che partisse però da una premessa diversa e totalmente errata,
confondendo la concentrazione con la quantità.
Riportando qui di seguito l'esempio fatto in udienza, dalle tabelle sopra
riportate si evincerebbe “quanto è salato il brodo” non già di “quanto ve ne
sia nella pentola”.
Come è evidente, concentrazione e quantità sono due concetti
completamente differenti.
Continuando nell'esempio, estraendo un mestolo di quel brodo, diminuirà la
105
sua quantità iniziale, ma la concentrazione dovrà restare sempre e comunque
la medesima.
Medesima con riferimento al brodo rimasto nella pentola, così come
medesima dovrà essere quella del mestolo estratto.
Fuor di metafora, qualora al dott. Lago fossero state consegnate unicamente
delle aliquote, come “suggerito” dalla sentenza, le stesse avrebbero
COMUNQUE dovuto avere la medesima concentrazione delle provette di
origine in possesso al RIS. Cosa che non è.
Evidente, quindi, come l'eccezione formulata dalla Difesa sia, ancora una
volta, rimasta senza risposta da parte della Corte.
Risibile, quanto, invece, addotto a motivazione sulla diversa concentrazione
dal Pubblico Ministero in sede di repliche, fortunatamente non recepito in
sentenza.
Dopo sette giorni (il tempo trascorso tra arringa e repliche del P.M.) di
quello che si immagina essere stato un frenetico confronto con i propri
consulenti, il P.M. in udienza ha solo potuto sostenere:
“E' normale, non è che le quantità sono lievitate, è stata rifatta la
quantificazione perché a distanza di mesi i volumi variano. Evapora
la parte acquosa ogni volta che si prendono le provette e si aprono,
l'acqua evapora, ne evapora una parte”.
Anche il Pubblico Ministero confonde, però, quantità con concentrazione,
parla, infatti, di volumi.
Questa difesa si domanda, poi, come possa anche semplicemente paventarsi
l'ipotesi di una evaporazione della componente acquifera della provetta,
posto che normalmente vengono conservate a temperature prossime a – 20°.
Qualora la possibilità di evaporazione fosse comunque ritenuta accettabile,
si ritiene di comune percezione come, in termini percentuali, l'eventuale
discostamento percentuale delle concentrazioni dovrebbe essere o irrilevante
o di poca significatività rispetto allo strabiliante dato che, invece, viene
rappresentato dalla tabella (500%).
Quindi, ed in conclusione, le osservazioni della Difesa portano unicamente a
tre possibili spiegazioni circa l'evidenza denunciata, entrambe tutte
sconvolgenti:
106
• o si è aggiunto del materiale, così variando il dato di concentrazione e
quantitativo;
• o si è in presenza di una sostituzione di provette;
• oppure si è di fronte ad un ennesimo errore degli inquirenti, rilevato
da questa difesa, ma non riconosciuto né dalla Accusa né in sentenza.
La motivazione di tale ennesima anomalia resta – ad oggi - un mistero.
Ancora una volta, l'ipotesi più semplice, l'essere in presenza di un clamoroso
errore, non viene, senza motivazione, neppure presa in considerazione dalla
Corte.
Diversamente, ammettere l'errore, ingenererebbe il ragionevole dubbio sulla
bontà dei risultati conseguiti dal RIS, con la logica necessità di rifare
completamente l'indagine genetica, oltre ad ammettere la fallibilità di
consulenti che si è voluto, invece, far apparire infallibili.
La Difesa invoca, ancora una volta, risposte che spera possano arrivare
finalmente attraverso la concessione di una perizia super partes su ogni
aspetto del DNA che, come visto, lascia tutt'altro che sereni circa la
coerenza di risultati.
Che la catena di custodia sia stata violata lo dimostra, altresì, quanto già in
atti e parimenti stigmatizzato da questa difesa in sede di discussione finale.
L'elencazione delle seguenti date rilevabili dagli atti ufficiali della indagine
confermano con palmare evidenza l'assunto.
In data 22.09.2011, il dott. Lago veniva nominato consulente tecnico dalla
Procura di Bergamo.
In data 26.09.2011, al dott. Lago veniva conferito l'incarico consulenziale.
In data 28.09.2011, con il ritiro dei reperti, il dott. Lago iniziava le
operazioni peritali sugli estratti di DNA, quindi, proprio in questa data,
effettuava la prima e necessaria indagine sulle provette che gli vengono
consegnate, ossia la verifica dei volumi e delle concentrazioni.
Il 25.10.2011 il RIS effettuava le tre analisi sulla traccia 31G20, i cui
elettroferogrammi sono stati peraltro oggetto di produzione documentale
della Parte Civile.
Nella data indicata, però, le provette della traccia migliore e delle altre
affidate al dott. Lago, dovevano essere in possesso del consulente della
107
Procura e non dei RIS.
La domanda che questa difesa si pone, ed ha posto anche in sede di arringa,
è come sia stato possibile per il RIS effettuare dette analisi quando la
provetta di fatto non era più nelle loro disponibilità essendo stata, appunto,
già consegnata al dott. Lago.
Quanto asserito da questa difesa trova conferma nella relazione di
consulenza tecnica del dott. Lago (pag. 4), in cui si legge:
e poi ancora (pag.5):
Dagli stralci riportati è inequivocabile come, parlando di “estratti di DNA” e
“prelievi 31-G1EXT … 31-G20”, non ci si possa che riferire alla loro
interezza, in assenza di qualunque indicazione contraria (sarebbe devastante
e sbalorditivo, in termini di valore della prova, anche il solo pensare che ci
siano quattro campioni G20!).
Sostenere che al dott. Lago sia stata consegnata solo una aliquota dei reperti
in questione, in assenza di documentazione alcuna che lo attesti ed in
presenza delle dichiarazioni di segno contrario riportate, appare
affermazione priva di riscontro nonché contraddittoria con le risultanze
processuali.
Qualora ciò fosse, comunque, avvenuto, verrebbe certificato dalla sentenza
un fatto ritenuto assolutamente normale, invece gravissimo e tale da
travolgere senza ombra di dubbio la bontà della prova.
108
Non vi sarebbe, infatti, alcuna certezza circa la catena di custodia dei reperti
mancando la stessa degli indispensabili crismi della affidabilità e della
verificabilità.
Ogni passaggio di provette deve essere accertabile e certificato pena la non
utilizzabilità delle indagini effettuate per assoluta incertezza su chi ha che
cosa ed in quale momento. Tanto più in un caso come questo già di per sé
ricco di anomalie.
Nel nostro ordinamento è vigente dal 14.7.2009 la legge n. 85/2009 (di cui
si parlerà anche in seguito) che all'art. 12, comma 3, (“Deve essere, altresì,
assicurata la registrazione di ogni attività concernente i campioni”) prescrive
modalità tali da assicurare l'identificazione e la registrazione di ogni
operazione inerente il trattamento del DNA (Si veda anche P. Tonini,
Manuale di procedura penale).
In tema di prelievi di “campioni” lo stesso A. Piccinini – che nell'ambito del
presente procedimento è un consulente del PM. - in una sua pubblicazione
“Accertamenti genetico-forensi: raccolta dei campioni, analisi di
laboratorio, interpretazione dei risultati” ribadisce come anche la procedura
seguente al prelievo deve essere improntata a garantire la catena di custodia.
La continuità e la sua integrità deve essere verificabile in qualunque
momento.
Questa, peraltro, è la regola in tutto il mondo civile in tema di prova
scientifica.
Pertanto, la sentenza erra, ancora una volta, ove considera come premessa
indispensabile, ma non dimostrata, la consegna al consulente di una
semplice aliquota non dell'intera provetta, anche in considerazione che
mentre il RIS riferiva di indagare su quella provetta a Parma, il dott. Lago
analizzava la stessa a Firenze.
Dopo la lievitazione del DNA in provetta, abbiamo ora anche una
moltiplicazione delle provette!
In conclusione.
La sentenza, allo scopo di valorizzare il dato tecnico emerso dalle indagini
sul DNA nucleare eseguite su delega dai RIS (e, bene inteso solo quelle,
109
sottolineando infatti in più punti nel contempo lo scarso valore degli
analoghi accertamenti sul DNA mitocondriale eseguiti in corso di
Consulenze Tecniche affidate dal Pubblico Ministero ad altri Esperti),
riferisce apoditticamente come le stesse analisi siano state eseguite nel
rispetto dei parametri elaborati dalla Comunità Scientifica Internazionale.
Ove non bastasse, quanto invece evidenziato nel dibattimento almeno circa
l’utilizzo di reagenti scaduti e la non osservanza in merito alla mancata
conformità dei, peraltro pochi (nonostante necessitasse la presenza di tanti
controlli quante siano le corse), controlli positivi e negativi eseguiti a
garanzia dei diversi passaggi analitici di laboratorio espletati.
Questa affermazione, è inaccettabile in quanto apodittica ossia priva di
qualunque validazione esterna e di alcun riscontro oggettivo, tanto più ove
si osservi come nel caso di specie si tratti di indagini di parte svolte senza la
garanzia di alcun contraddittorio.
Ma vi è di più.
Vi è l’evidenza infatti che tali indagini non solo non si possa sostenere
essere state effettuate nel rispetto dei parametri elaborati dalla Comunità
Scientifica Internazionale ma che bensì siano state eseguite in carenza di
standard di qualità in Italia legislativamente previsti e fissati in tema di
analisi e profili del DNA.
Tale aspetto non esaurisce la propria importanza sul piano tecnico ma
produce inevitabilmente effetti anche sul piano giuridico. Si rilevi infatti
quanto normato dalla Legge 30 giugno 2009, n. 85 pubblicata sulla G.U. n.
160 del 13/7/2009 – Suppl. Ordinario n. 108, entrata in vigore il 14 luglio
2009 (ossia, anni prima del possibile inizio di qualunque attività tecnica
inerente l’indagine di specie).
Tale Legge dello Stato Italiano, all’Art. 6 definisce in maniera non equivoca
cosa si debba intendere nel presente atto per “DNA”, “profilo del DNA”,