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Sui motivi afferenti le analisi genetico-forensi . La Corte espone le motivazioni concernenti le risultanze genetico-forensi, in diversi capi della sentenza che qui devono intendersi integralmente riportati ed impugnati in ogni loro parte. Esaurite le necessarie premesse introduttive e metodologiche relative al presente atto di appello, questa difesa, nell'affrontare la complessa tematica del DNA, vuole, sin da subito, evidenziare con massima forza il macroscopico e travolgente errore cui è incorsa la Corte d'Assise di Bergamo, nella sentenza qui impugnata, sul punto nodale dell'intera vicenda. Come noto, sin dalla fase cautelare, all'esito di una consulenza di genetisti (dott. Carlo Previderè, dott.ssa Pierangela Grignani) incaricati dal Pubblico Ministero, questa difesa ha evidenziato l'inspiegabile situazione che possiamo sinteticamente definire di assenza del DNA mitocondriale dell'imputato nelle tracce allo stesso attribuite sotto il profilo nucleare ed individuate su slip e leggins indossati dalla vittima. Tale “aporia” (così l'ha definita il Tribunale del Riesame di Brescia) non ha trovato soluzione in dibattimento, né la sentenza si fa carico di offrire una spiegazione in grado di superare il ragionevole dubbio che si sia – nella migliore delle ipotesi – di fronte ad un clamoroso errore. Questo è, come evidente, il tema di maggiore delicatezza da affrontare e risolvere al fine di una corretta attribuibilità della traccia stessa. Posto che, ad una attribuzione probabilistica (per quanto elevata, si badi bene in termini statistici e non biologici ) dal punto di vista nucleare, corrisponde una esclusione (questa sì certa in termini biologici, cioè reali) dal punto di vista mitocondriale. La Difesa ha sempre sostenuto che l'assenza della componente mitocondriale del DNA dell'imputato in tracce a lui ricondotte fosse indicativa di qualcosa di innaturale, soprattutto in considerazione che una tale situazione non si è mai osservata in natura e relativamente alla quale non si è trovata una spiegazione scientifica. La tesi continuamente ribadita, invece, dalla Pubblica Accusa, recepita tout court dalla Corte in assenza di perizia, è che solo il DNA nucleare ha capacità identificative, cosa che non può dirsi per il mitocondriale, la cui 52
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Sui motivi afferenti le analisi genetico-forensi · macroscopico e travolgente errore cui è incorsa la Corte d'Assise di Bergamo, nella sentenza qui impugnata, sul punto nodale dell'intera

Feb 18, 2019

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Sui motivi afferenti le analisi genetico-forensi.

La Corte espone le motivazioni concernenti le risultanze genetico-forensi,

in diversi capi della sentenza che qui devono intendersi integralmente

riportati ed impugnati in ogni loro parte.

Esaurite le necessarie premesse introduttive e metodologiche relative al

presente atto di appello, questa difesa, nell'affrontare la complessa tematica

del DNA, vuole, sin da subito, evidenziare con massima forza il

macroscopico e travolgente errore cui è incorsa la Corte d'Assise di

Bergamo, nella sentenza qui impugnata, sul punto nodale dell'intera vicenda.

Come noto, sin dalla fase cautelare, all'esito di una consulenza di genetisti

(dott. Carlo Previderè, dott.ssa Pierangela Grignani) incaricati dal Pubblico

Ministero, questa difesa ha evidenziato l'inspiegabile situazione che

possiamo sinteticamente definire di assenza del DNA mitocondriale

dell'imputato nelle tracce allo stesso attribuite sotto il profilo nucleare ed

individuate su slip e leggins indossati dalla vittima.

Tale “aporia” (così l'ha definita il Tribunale del Riesame di Brescia) non ha

trovato soluzione in dibattimento, né la sentenza si fa carico di offrire una

spiegazione in grado di superare il ragionevole dubbio che si sia – nella

migliore delle ipotesi – di fronte ad un clamoroso errore.

Questo è, come evidente, il tema di maggiore delicatezza da affrontare e

risolvere al fine di una corretta attribuibilità della traccia stessa.

Posto che, ad una attribuzione probabilistica (per quanto elevata, si badi

bene in termini statistici e non biologici) dal punto di vista nucleare,

corrisponde una esclusione (questa sì certa in termini biologici, cioè reali)

dal punto di vista mitocondriale.

La Difesa ha sempre sostenuto che l'assenza della componente

mitocondriale del DNA dell'imputato in tracce a lui ricondotte fosse

indicativa di qualcosa di innaturale, soprattutto in considerazione che una

tale situazione non si è mai osservata in natura e relativamente alla quale

non si è trovata una spiegazione scientifica.

La tesi continuamente ribadita, invece, dalla Pubblica Accusa, recepita tout

court dalla Corte in assenza di perizia, è che solo il DNA nucleare ha

capacità identificative, cosa che non può dirsi per il mitocondriale, la cui

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assenza, inoltre, potrebbe essere giustificata da svariate ragioni però mai

esplicitate con riferimento al caso specifico.

Ora, affermare, come si sostiene a pag. 86) della sentenza, che il DNA

mitocondriale sia privo di capacità identificative “anche a fini di mera

esclusione” è un gravissimo errore che dimostra come la Corte non abbia

sicuramente compreso la portata di tale dato scientifico.

Peraltro, l'enunciato è palesemente in contrasto logico con quanto affermato

dalla Corte stessa poche pagine dopo. A pag. 95) della sentenza leggiamo

che: “la ricerca del DNA mitocondriale su prelievi provenienti da tracce

miste (ossia con più contributori) sia sconsigliabile, potendo portare a false

esclusioni”.

Quindi, il mitocondriale se non ha capacità di esclusione non può portare a

false esclusioni.

Qualora tale fondamentale elemento non fosse stato ben compreso dalla

Corte in quanto “sfuggito” nella mole di dati da esaminare potrebbe essere

comprensibile, ma andrebbe, senza dubbio, rettificato da codesta Corte, con

gli esiti che si vedranno.

Qualora, invece, il Giudice, abbia voluto, quale perito peritorum,

contraddire le convergenti risultanze istruttorie sul punto, avrebbe dovuto

necessariamente offrire esaustiva argomentazione scientifica che, invece,

manca del tutto.

Quindi, che cosa ci ha detto l'istruttoria dibattimentale in tema di DNA

mitocondriale?

Il comandante del RIS – Col. Lago - interrogato dal Pubblico Ministero.

Pubblico Ministero: “Invece il DNA mitocondriale è altrettanto

idoneo a scriminare, ad individuare una persona rispetto ad un'altra?

Consulente Lago: “il DNA mitocondriale di una mamma passerà

uguale a se stesso, identico a se stesso, ai figli maschi e alle figlie

femmine, e sarà a sua volta uguale ai propri fratelli, alla propria

mamma, alla propria nonna e via dicendo...trovare DNA

mitocondriale in una traccia significa trovare non il DNA di quella

persona, ma il DNA di quella famiglia, di quella linea materna.

Quindi il DNA mitocondriale non è identificativo di un singolo

individuo”.

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Non è identificativo, quindi, di un singolo individuo ma della intera linea

materna.

Medesima e sostanziale risposta è stata fornita, sul punto, anche dal dott.

Giardina, altro consulente del PM il quale, interrogato dalla Difesa (pag. 90

del verbale di udienza redatto in forma stenotipica del 18.11.2015):

Avv. Camporini: “Dal punto di vista, invece, dell'esclusione di una

persona, il DNA mitocondriale è un accertamento importante?

Consulente Giardina: “Certamente nel momento in cui noi ci troviamo

in presenza di profili di DNA come detto singoli, l'analisi del DNA

mitocondriale è un'analisi che viene utilizzata anche per escludere,

certo”.

Il consulente, quindi, ritiene l'analisi del mitocondriale utile anche per

escludere nei profili “singoli”.

Ma, relativamente alla possibilità di ottenere i medesimi risultati anche su

traccia mista valgano le considerazioni espresse dal dott. Casari, altro

consulente del P.M., quando (pag. 115 del verbale di udienza redatto in

forma stenotipica del 20.11.2015), interrogato sul punto dalla difesa:

Avv. Camporini: “Comunque sulla traccia mista il risultato esce?”

Consulente Casari: “ Sì”.

Avv. Camporini: “Ed esce affidabile?”

Consulente Casari: “Affidabilissimo, e il numero di sequenze è

proporzionale al contributo del genoma mitocondriale iniziale”.

Quindi, sia che si tratti di traccia mista, sia che si tratti di traccia ad unico

contributore, l'indagine sul DNA mitocondriale restituisce un risultato

affidabilissimo secondo gli stessi consulenti dell'Accusa.

Le affermazioni testé riportate sono in netto ed evidente contrasto con

quanto affermato dalla Corte, che ritiene il DNA mitocondriale non utile

anche ai fini della mera esclusione, soprattutto, con riferimento alle indagini

su tracce miste e degradate ritenute, peraltro, sconsigliabili.

Sconsigliabili non significa che queste non si possano fare e che soprattutto

che non portino a risultati chiari ed interpretabili!

Nel caso specifico, lo studio del DNA mitocondriale è stato affidato

all’Università di Firenze – Dipartimento di Antropologia molecolare –

specializzato proprio nella tipizzazione del mtDNA da traccia complessa

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(degradazione e mistura).

Occorre evidenziare come detto studio sul DNA mitocondriale abbia

comportato l'utilizzo “nella loro interezza” dei campioni relative alle tracce

migliori per qualità e quantità attribuite ad Ignoto 1. Si veda il sotto

riportato stralcio dalla relazione Lago (pag. 5)

Ora, pensare di sminuire la portata di tale costosa indagine scientifica a meri

fini euristici e “consumare” interamente per tali scopi le uniche tracce da cui

era stato ricavato un profilo nucleare interpretabile, lascia veramente stupiti.

Secondo la comunità scientifica e secondo gli stessi consulenti del P.M.,

come visto, non trovare il DNA mitocondriale corrispondente al DNA

nucleare estratto da una medesima traccia di una persona, porta ad

ESCLUDERE il singolo e tutta la sua linea materna; ma ciò non vale

per la Corte.

Il perché resta, però, privo di motivazione.

Come si possa affermare che il DNA mitocondriale non rilevi neppure ai fini

di esclusione (pag. 86 della sentenza) rimane un mistero, oltre che una

affermazione apodittica, priva di riscontro scientifico, elemento fortemente

fuorviante dell'intero percorso logico e giuridico della sentenza

appellata.

Sulla capacità “identificativa” del DNA mitocondriale (identificativa non

del singolo individuo ma dell'intera linea materna), si richiamano

ulteriormente le parole del dott. Lago così come enunciate nel proprio

elaborato di consulenza fornita al P.M. nell'ambito del presente

procedimento, ove si legge, a pag. 28:

“In ambito genetico identificativo, partendo da un campione

biologico, oltre allo studio dei polimorfismi di lunghezza del DNA

nucleare, la biologia molecolare mette a disposizione la possibilità di

indagare anche i polimorfismi di sequenza del DNA mitocondriale

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(mtDNA)”.

Continuando nella lettura della relazione Lago, a pag. 30, si legge:

“Riassumendo brevemente, la molecola del mtDNA riveste un

interesse forense in quanto:

• si trasmette esclusivamente per via materna;

• presenta una variabilità nucleotidica, soprattutto nella regione non

codificante del D-loop sufficientemente elevata da consentire una

discriminazione tra individui non imparentati;

• presenta un al to grado di conservazione anche in tessuti sottoposti a

stress chimico-fisico biologici notevoli;

• compare anche in derivati cellulari in cui non si riscontra DNA nucleare

(per esempio lo stelo di un capello);

• la circolarità e, quindi, la strutturazione in molecole priva di estremità

libere tutela a priori dagli effetti autolitici di una categoria di enzimi

degradativi (esonucleasi)”.

Quanto testé riportato (relazione depositata il 28.02.2013) non trova, però,

piena conferma con quanto esposto dal medesimo consulente in

dibattimento (udienza 23.10.2015) ove, a pagg. 17/18 del verbale, si legge:

“… la procedura stessa dello studio del DNA mitocondriale mantiene

un carattere molto più sperimentale in generale... il DNA

mitocondriale non rientra nelle procedure validate per gli utilizzi

forensi”.

Ma come, non abbiamo appena letto che il DNA mitocondriale, proprio

per le sue caratteristiche, “riveste un interesse forense” e che in ambito

genetico identificativo consente una “discriminazione tra individui non

imparentati”?

Perché il colonnello Lago, in udienza, si esprima in aperto contrasto con

quanto dallo stesso riportato e sottoscritto in precedenti consulenze ha solo

una risposta: assecondare le tesi dell'Accusa.

Si ritiene, quindi, che per una corretta valutazione della attendibilità del

consulente Lago, non si possa prescindere da una presa di coscienza di

quanto avvenuto nell’udienza del 30.10.2015 che resterà, nella storia

processuale italiana, una testimonianza quanto meno inquietante.

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Questa difesa auspica che quanto ingenuamente e candidamente ammesso in

aula dall'ufficiale non venga troppo facilmente dimenticato ma analizzato e

compreso in tutta la sua gravità, attribuendo a detta condotta il peso che

merita.

Durante il contro esame del Col. Lago, Comandante del Reparto di

Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri di Parma, in tema di automezzi

(da una prima impostazione della Procura, l'autocarro ripreso da alcune

telecamere limitrofe la palestra luogo in cui Yara è stata vista per l’ultima

volta in vita sarebbe proprio quello dell’imputato. Tale tema è stato però

totalmente sminuito: - pag. 97 sentenza: “La Corte non ritiene di poter trarre

elementi dalle consulenze in materia videofotografica…”) in risposta alle

domande della Difesa relative al video trasmesso infinite volte su ogni

emettente televisiva, così esordiva:

“Questo video, come ho detto in premessa, è un video che,

concordemente con la Procura, quindi non è stata un’iniziativa certo,

a fronte delle pressanti, numerose e insistenti richieste di chiarimenti

su questa emergenza, su questa evidenza che era emersa in un

secondo tempo, si è tentato, dal punto di vista della comunicazione, di

montare un video che documentasse una parte. Ma, attenzione, le

nostre analisi ovviamente non si basano su questo video. Questo è un

video, un oggetto che è stato dato alla stampa, ai media, e i media ne

hanno fatto…” (pag. 141 verbale udienza).

Un video creato, in accordo con la Procura, per esigenze di comunicazione!

Questa Difesa ha, sin dalla fase delle indagini preliminari, stigmatizzato

l'incredibile situazione che importanti atti istruttori di cui non disponeva

erano costantemente resi pubblici, nonché trasmessi con martellante

assiduità, in ogni trasmissione televisiva dai contenuti più vari.

Quindi non solo con finalità informative di cronaca.

Si è voluto creare il mostro, ingenerando nell'opinione pubblica la

convinzione che “l'assassino di Yara” (così si era espresso incautamente

anche il Ministro Alfano all'atto dell'arresto dell'odierno imputato) fosse

proprio il Sig. Massimo Giuseppe Bossetti.

La condanna, prima ancora di essere pronunciata da una corte di giustizia, è

stata emessa dai media che hanno letteralmente “bombardato” a tappeto la

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mente degli ascoltatori/lettori con informazioni, il più delle volte distorte,

sicuramente enfatizzate, verso un'unica direzione, la colpevolezza.

Ogni notizia, anche la più intima, sulla vita e sulla famiglia dell'imputato è

stata resa pubblica, anche se di nessun rilievo processuale e, quindi, di

informazione.

Come detto, questo era indispensabile per colmare un innegabile vuoto

investigativo con pure e semplici suggestioni.

Quindi, Bossetti era il “famelico predatore sessuale” che girando intorno la

palestra con il suo furgone attendeva la propria vittima.

Ecco le “esigenze di comunicazione” che hanno fatto e fanno ancora oggi

indignare questa Difesa e che dovrebbero far sdegnare chiunque voglia

giungere ad una verità processuale scevra da suggestioni e condizionamenti.

Tornando in tema di DNA, quanto originariamente riportato dal consulente

Lago in epoca non sospetta, peraltro scientificamente corretto e confermato

dalla convergente opinione dell’intera comunità scientifica, risulta in

contraddizione con il pensiero della Corte, la quale non tiene conto delle

originarie posizioni del consulente e, con laconiche affermazioni prive di

argomentazioni, tenta di declassificare la valenza scientifica del DNA

mitocondriale.

Solo attraverso tale immotivata “declassificazione” è stato possibile per la

Corte valorizzare il dato fornito dal DNA nucleare e considerare lo stesso

quale unico dato utile all'identificazione di un individuo pur in presenza di

un dato mitocondriale inconciliabile.

Ridurne lo studio ad una finalità “meramente investigativa” (pag. 81

sentenza) – e qui sta la “declassificazione” - ovvero a finalità di

“individuare anche tramite tecniche sperimentali marcatori diversi da

quelli identificativi in grado di fornire informazioni ulteriori su

caratteristiche fisiche e/o provenienza geografica del soggetto” appare in

aperto e insanabile contrasto con la logica scientifica sottesa agli stessi

affidamenti di incarichi conferiti sul tema DNA mitocondriale dalla Procura.

Tecniche sperimentali?

Informazioni su caratteristiche fisiche e/o di provenienza geografica del

soggetto?

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Indubbiamente, una parte dell'indagine sul DNA mitocondriale condotta dal

dott. Lago aveva, in effetti, tale finalità, ossia “lo studio di alcuni marcatori

genetici del DNA di recentissima scoperta in grado di fornire informazioni

di tipo somatico”. Per tale attività, questa sì sperimentale, il dott. Lago si è

avvalso della The George Washington University Departement of Forensic

Sciences – U.S.A.

Altra parte del lavoro è stata, invece, dedicata allo “studio dei marcatori

genetici del DNA mitocondriale in grado di ottenere informazioni di

dettaglio in via diretta su Ignoto1” (pag. 3 della relazione Lago) ma anche

per identificarne la madre: quindi nulla di sperimentale, ma di

identificativo!

Proprio in tale ottica la relazione Lago si compone di due distinte e separate

sezioni.

Si veda, a tal proposito, quanto affermato dal dott. Lago nella sua stessa

relazione (pag. 3).

Divisione netta del documento che ricalca una altrettanto separazione netta

delle attività tecniche, proprio a voler separare ciò che è sperimentale da ciò

che è attività espletata a fini identificativi.

In ottica quindi, identificativa, il dott. Giardina doveva, attraverso il

raffronto del DNA mitocondriale contenuto nelle tracce individuate dal RIS

con quello di 532 soggetti tra cui si pensava esserci la madre di Ignoto 1,

individuare la donna che condivideva con Ignoto 1 lo stesso patrimonio

genetico e, quindi, ne fosse la madre.

Pertanto, non finalità investigativo-sperimentali, come ipotizzato dalla Corte

ma ben altre finalità identificative, appunto, sia dirette nei confronti di

Ignoto1 che della linea materna!

La consulenza Giardina si è rivelata, poi, tanto costosa quanto fallimentare,

ma solo per il come si è proceduto nella pratica e non per una errata

impostazione scientifica.

Si cercava la mamma di Ignoto 1 - giustamente - attraverso il raffronto delle

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componenti mitocondriali del DNA acquisito dalle donne oggetto di

indagine e quanto rinvenuto nelle tracce sugli indumenti della vittima.

Diversamente, il dott. Giardina “stava confrontando i profili mitocondriali

delle potenziali amanti di Giuseppe Benedetto Guerinoni con quello di

Yara”.

Secondo la Corte, “resta un mistero” (pag. 60 sentenza) come il consulente

possa essere incorso nel macroscopico errore!

Ma, l’errore è stato oggettivamente commesso a riprova, se ve ne fosse

bisogno, che l’agire umano non è certo infallibile.

Come prospettato da questa difesa, più volte, anche, da ultimo, in sede di

discussione, la discrepanza di risultato tra il DNA nucleare e il DNA

mitocondriale potrebbe trovare spiegazione in imperdonabili errori occorsi

nelle indagini tecniche (cui non si è mai potuto partecipare) qualora si

volesse dare credito alla tesi, non dimostrata scientificamente, che si sia in

presenza di un DNA effettivamente deposto a seguito di contatto diretto

tra la vittima e l'imputato contestualmente all'aggressione.

Qualsiasi deposizione di materiale biologico di qualsivoglia origine non

può, infatti, prescindere dall'inevitabile trasferimento del contributo

genetico sia nucleare che mitocondriale nella propria interezza.

Senza, peraltro, dimenticare come l'analisi genetica, ed il rilievo del DNA in

particolare, non sia comunque in grado di determinare l'epoca e le modalità

di deposizione delle singole tracce, a maggior ragione ove non si disponga

di dati certi quanto alla natura della traccia stessa (epiteliale, spermatica,

salivare, ematica etc.).

E non si obietti che le condizioni di degradazioni delle tracce, che nel caso

di specie sono conformi agli standard di casi similari, abbiano potuto

generare una situazione mai vista:

• le componenti nucleari del donatore della traccia permangono mentre

svaniscono, migrando chi sa dove, le componenti mitocondriali;

• contemporaneamente accade esattamente l'opposto ove per il contributo

della vittima, la componente mitocondriale, non si sa come e perchè, rimane

nella traccia, mentre quella nucleare scompare.

Al termine di queste prime osservazioni è possibile senza dubbio affermare

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come, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte, il DNA mitocondriale

non è stato utilizzato per acquisire informazioni su caratteristiche fisiche e/o

di provenienza geografica di un soggetto, ma per individuarne la linea di

provenienza materna oltre che per ricavare “informazioni di dettaglio in

via diretta su Ignoto1” e, quindi, con finalità identificative.

Questo è il vulnus dell'intera sentenza che dimostra come la scienza sia stata

strumentalizzata per ritenere validi solo i risultati che ci piacciono mentre,

quelli non compatibili con l'assunto che si vorrebbe dimostrare, vengono

disattesi, ovvero, sminuiti della loro rilevanza scientifica.

Tale approccio, in un processo fondato sostanzialmente sulla prova

scientifica del DNA, è inammissibile.

Sul tema della asserita “scarsa pregnanza investigativa” del DNA

mitocondriale sostenuta dalla Corte, si ritiene interessante sottoporre

all'attenzione di codesta Corte quanto affermato dal Dott. Giardina

(consulente del PM) nel sito web dell'Università Tor Vergata, alla pagina del

master di genetica forense, presente all'indirizzo:

http://www.mastergeneticaforense.it/cms/approfondimento/6/

“ L'analisi del DNA mitocondriale in ambito forenseBiologi Italiani aprile 2012Emiliano [email protected] cellula eucariotica il DNA nucleare non è la fonte esclusiva di materiale genetico. I mitocondri sono minuti organelli citoplasmatici a doppia membrana il cui numero è valutabile in diverse centinaia di copie per cellula. Svolgono la funzione di produrre energia tramite la fosforilazione ossidativa, una reazione in cui l’ossidazione di sostanze nutritive organiche operata da molecole di ossigeno determina la liberazione di energia chimica utilizzata per fabbricare ATP. Questi organelli posseggono un loro DNA valutabile, nell’insieme, in una percentuale pari a circa lo 0,5% rispetto al DNA nucleare (sebbene di minori dimensioni, il genoma mitocondriale è presente in 1000-10.000 copie per cellula, rispetto alle due copie del genoma nucleare). In Tabella 1 sono riassunte le principali differenze tra DNA nucleare e mitocondriale....omissis...

UTILIZZO DEL DNA MITOCONDRIALE IN CAMPO FORENSEPer le sue proprietà biologiche il DNA mitocondriale rappresenta uno strumento importante per le applicazioni forensi. Consideriamo innanzitutto le caratteristiche morfologico-strutturali. In particolare, la doppia membrana del mitocondrio protegge efficacemente il DNA da rotture e danni indotti dagli stress ambientali. In aggiunta, la natura circolare del DNA garantisce una minore suscettibilità alle esonucleasi

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(enzimi che tagliano il DNA), permettendo alla molecola di DNA mitocondriale di conservarsi meglio nel corso del tempo. A tutto ciò si aggiunga il notevole vantaggio di poter disporre di un numero di genomi mitocondriali per cellula enormemente maggiore rispetto al DNA nucleare, aumentando le possibilità di successo della tipizzazione. Il mtDNA è spesso usato nei casi in cui il materiale biologico è degradato o disponibile in limitata quantità. E’ il caso di capelli senza radice, delle ossa, dei denti o nei casi in cui i campioni disponibili sono stati esposti a situazioni limite che hanno distrutto la maggior parte delle cellule e quindi eliminato quasi totalmente la possibilità di estrarre ed amplificare il DNA nucleare. Al riguardo, non infrequenti sono i casi di corpi o resti in stato di gravissima carbonizzazione o esitati da eventi particolarmente violenti quale ad esempio il disastro delle Twin Towers. Anche i casi di persone scomparse possono beneficiare dell’analisi del mtDNA, in special modo quando vengono rinvenuti resti scheletrici che devono essere comparati con campioni provenienti da parenti in linea materna o con materiale biologico proveniente dagli effetti personali della persona scomparsa. Tuttavia, l’applicazione del mtDNA non è limitata esclusivamente ai casi di reperti in cattive condizioni di conservazione. Infatti, alcuni reperti, per quanto ben conservati, sono tipicamente poveri di DNA nucleare, ci riferiamo ad esempio ai capelli il cui bulbo sia particolarmente rovinato. Il contenuto di DNA nucleare di capelli è generalmente basso se comparato a quello di altri tessuti, poiché le cellule del capello, durante il fisiologico processo di cheratinizzazione, vanno incontro a disidratazione e degradazione degli acidi nucleici e degli organelli cellulari. I capelli sono essenzialmente delle proiezioni di entità cellulari (follicoli) composti da: cheratina (proteina), tracce di metalli ed altri metaboliti, sacche d’aria e granuli di pigmento (eumelanina, feumelanina). Queste componenti, unitamente all’eventuale presenza di trattamenti cosmetici, inibiscono drammaticamente la reazione di amplificazione del DNA. Il numero elevato di mitocondri presenti nel fusto pilifero rende invece possibile la tipizzazione del DNA mitocondriale. La modalità di trasmissione matrilineare, inoltre, rende il DNA mitocondriale particolarmente utile, ad integrazione dei classici marcatori STRs, nei casi di accertamenti di parentela deficitari, nei quali non sia possibile effettuare una comparazione diretta tra i soggetti”.

In estrema sintesi, per il dott. Giardina:

• il DNA mitocondriale rappresenta uno strumento importante per le

applicazioni forensi;

• le caratteristiche di detta componente della cellula la rendono

particolarmente resistente a danni indotti dagli stress ambientali;

• la natura circolare permette alla molecola di DNA di conservarsi meglio

nel tempo;

• il poter disporre di un numero di genomi mitocondriali per cellula

enormemente maggiori rispetto al DNA nucleare, aumenta le possibilità di

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successo della tipizzazione;

• il DNA mitocondriale è spesso usato nei casi in cui il materiale biologico

è degradato.

Inutile sottolineare come i principi scientifici esposti siano perfettamente

rispondenti alle esigenze di studio del caso in esame, ove si è in presenza sì

di una traccia degradata, ma con un DNA di sorprendente qualità e

quantità.

Ulteriore cartina tornasole dell'onestà intellettuale di chi predica in un modo

e poi agisce in un altro è, da una parte quanto riportato in udienza

(23.10.2015, pag. 17-18 del verbale redatto in forma stenotipica) dal Col.

Lago, Comandante RIS Parma:

“Il DNA mitocondriale non rientra tra le procedure validate per gli

utilizzi forensi...quindi il DNA mitocondriale mantiene un carattere

sostanzialmente sperimentale”.

Dall'altra, il sito Carabinieri.it – Arma a cui appartiene il Comandante Lago,

ancora oggi, reca con riferimento alla sezione della genetica:

“La sezione, inoltre, dispone di un laboratorio di microscopia ottica e

spettro-micoscopia ed effettua il sequenziamento del DNA utilizzando

la tecnologia basata su tecniche fluorescenti. Tale supporto tecnico

consente di procedere in quello che attualmente rappresenta il

settore più moderno ed interessante della biologia molecolare

forense: il DNA mitocondriale”.

Il macroscopico contrasto è del tutto evidente.

Da una parte, si tenta di sminuire la portata scientifica del DNA

mitocondriale pur avendo accettato la consulenza privata (non rientra tra le

procedure validate a livello forense e ha natura sperimentale) dall'altra è il

settore più moderno ed interessante della biologia molecolare forense.

E la sezione genetica dei Carabinieri fa indagini non ricerca scientifica!

Questa difesa ha sempre sostenuto che l'indagine sul DNA mitocondriale

non rientrasse in quelle che sono state definite metodiche sperimentali e

anche la Corte sembrava essere allineata al pensiero della difesa sul punto.

Si veda al proposito il verbale di udienza del 03.02.16, pag. 161 che qui si

riporta nella parte ritenuta di interesse:

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“CONSULENTE CAPRA – Io quello che volevo che fosse chiaro è

che non si tratta di metodiche sperimentali.

PRESIDENTE - No, no, certo”.

Nell'ambito del presente procedimento la prova scientifica e segnatamente

quella relativa al DNA ha senza dubbio massimo rilievo.

Il Pubblico Ministero ha, infatti, fruito della consulenza di svariati

specialisti del settore che hanno studiato, in tempi diversi, ogni aspetto del

DNA e, soprattutto, come è evidente dagli affidamenti di incarico, il DNA

mitocondriale.

Parimenti, la stragrande maggioranza dell'istruttoria dibattimentale ha

trovato nella prova scientifica sul DNA l'aspetto di più significativo rilievo.

Il RIS di Parma si è occupato dell'indagine scientifica relativa al DNA

nucleare; il dott. Lago, in proprio, in collaborazione con l'Università di

Firenze e in collaborazione con The George Washington University –

Departement of Forensics Science - USA, si è occupato dello studio del

DNA mitocondriale, i dott.ri Cattaneo e Piccinini hanno approfondito la

tematica della paternità del Sig. Giuseppe Guerinoni, con particolare

riferimento alla studio di nuove regioni sempre relative al DNA nucleare, i

dott.ri Previderè e Grignani, dovendo analizzare le formazioni pilifere, si

sono concentrati sullo studio del DNA mitocondriale e il dott. Casari ha

anch'egli studiato il DNA mitocondriale.

La problematica relativa al DNA mitocondriale riferibile ad Ignoto 1 è

emersa, come già detto, nelle relazioni a firma dei consulenti dott.ri

Previderè e Grignani, i quali, nell'analizzare le formazioni pilifere rinvenute,

da una parte sull'autocarro in uso a Bossetti e, dall'altra, sul corpo della

vittima, al fine di rispondere al quesito formulato dal P.M., hanno scelto di

utilizzare lo studio della componente mitocondriale riferibile alla vittima e

all'odierno imputato, pur in presenza di reperti piliferi che, in maggioranza,

avevano il bulbo (come noto, nei reperti piliferi, in assenza di bulbo, è

analizzabile unicamente la componente mitocondriale).

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L'esito di questo esame ha evidenziato come, sorprendentemente, in

nessuna traccia, isolata ed analizzata prima dal RIS e poi da Lago, fosse

presente la componente mitocondriale riferibile al Bossetti ed anzi, ve

ne fosse presente una minoritaria certamente di altro soggetto, diverso

dalla vittima e dal Bossetti.

I dati da prendere in considerazione sono due. La mancanza del DNA

mitocondriale dell'imputato e la contemporanea presenza di un altro DNA

mitocondriale di persona rimasta ignota.

Come si evince dalla tabella della relazione Lago, pag. 36):

Ma anche dalla relazione del Prof. Casari, pag. 8):

Ed, infine, come certificato dai dott.ri Previderè e Grignani in merito alla

non compatibilità del DNA mitocondriale del Bossetti con quello rilevato

dalle tracce di Ignoto 1.

Vedasi, in proposito, la sotto riportata tabella tratta dalla pag. 110) della

relazione Previderè Grignani.

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In sintesi, quattro diversi consulenti dell'Accusa in tre relazioni, in

tempi diversi, con strumentazioni diverse e con obiettivi diversi, hanno

raggiunto il medesimo ed incontrovertibile risultato totalmente

incompatibile con l'attribuzione delle medesime tracce alla persona di

Massimo Giuseppe Bossetti, risultato che oggi si vorrebbe sminuire

all'unico scopo di salvare l'esito di una indagine scientifica che, a questo

punto, qualora fosse ritenuta comunque probante, offrirebbe una risposta a-

scientifica, anzi contra natura.

Perché a-scientifica? Perché contro natura?

Perché la scienza, così come rappresentata dai tutti i consulenti di parte

sentiti in dibattimento, non ha saputo fornire spiegazioni in concreto,

formulando, invece, delle mere ipotesi astratte, ipotesi peraltro di alcuna

pregnanza in quanto scartate di applicazione al caso sub judice.

Ciò, a parere di questa Difesa, rende il dato processuale assolutamente

inattendibile, trattandosi, così come descritta dal dott. Capra in udienza, di

una traccia non def inibile forense perché priva del requisito

fondamentale della precisione e della completezza.

È evidente, quindi, come il corretto approccio scientifico sia il discrimen

onde pervenire ad un risultato che, in aderenza alle leggi scientifiche, possa

definirsi coerente con il restante quadro probatorio ed identificativo del fatto

ignoto che vuole provare.

Solo un DNA completo delle due inscindibili (in natura) componenti

nucleare e mitocondriale, esente da anomalie, imprecisioni, correttamente

interpretato secondo canoni scientifici verificati e ripetuto secondo i crismi

dettati dalla Suprema Corte, può essere idoneo ad identificare il proprietario

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della traccia che contiene quel DNA.

La domanda che l’interprete si deve porre è: Ignoto 1 avrebbe potuto

trasferire la sola componente nucleare del proprio DNA?

È giustificabile in natura un DNA privo della necessaria componente

mitocondriale?

Esiste in natura la possibilità che questo si verifichi?

La risposta ai quesiti posti, vertendo in tema di questioni scientifiche, può

essere fornita unicamente solo attraverso il corretto utilizzo di un metodo

scientifico.

La problematica della prova scientifica risulta essere intrinsecamente

connessa al principio del “ragionevole dubbio” proprio perché nessuna

legge universale è mai certa giacché, per quante conferme essa abbia

ottenuto, i casi non ancora osservati sono infiniti e, in qualunque momento,

può accadere che venga in osservazione un caso che smentisca la più

venerabile delle teorie.

“La prova scientifica non può ambire ad un credito incondizionato di

autoreferenziale affidabilità in sede processuale, per il fatto stesso che il

processo penale ripudia ogni idea di prova legale” (Cass. V - n.

36080/15)

Come già detto sopra, la prova scientifica - così come ogni altro percorso

razionale a carattere indiziario – deve comunque essere verificata

attraverso un procedimento logico “abduttivo”: constatato un effetto ed

attribuitolo in via d’ipotesi ad una determinata causa, della stessa ipotesi

occorrerà cercare e trovare conferma accertando se, del medesimo fattore, si

siano o no verificati anche tutti gli altri inevitabili effetti.

La validità di ogni legge scientifica va quindi misurata non già nei

termini della sua verificabilità, bensì in quelli della sua falsificabilità ,

cosicché parametro della sua validità ne sia la permanente resistenza ai

tentativi di falsificazione.

Infatti, se non è possibile sperimentare l’esistenza d’una relazione tra fatti

per un numero infinito di volte, basta la riuscita d’una sola operazione

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diretta a falsificarla per confutarne l’esistenza (in proposito, è fatto notorio

come, in concreto, il dato genetico si possa costruire artificialmente è

notevole la letteratura sul punto. Questa difesa ha, altresì, evidenziato anche

i rap porti “discutibili” tra alcuni inquirenti e società che hanno

commercializzato software da intrusione anche con i c.d. Stati canaglia).

Miliardi e miliardi di conferme non rendono certa una teoria mentre un

solo fatto negativo, dal punto di vista logico, la falsifica.

La mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità

scientifica della validazione di un’ipotesi significa infatti incertezza

scientifica.

Possiamo tranquillamente affermare che la comunità scientifica approvi

l'identificazione di una persona possa avvenire attraverso il DNA nucleare

pur in presenza di una ingiustificata assenza del corrispondente

mitocondriale?

A tale domanda, ad oggi, nel presente processo, non vi è risposta non

essendo stata disposta alcuna perizia in tal senso, conseguentemente la Corte

va contro il principio fondamentale espresso dalla Suprema Corte del

requisito del consenso della comunità scientifica.

Tale requisito è stato sottolineato dalla Corte di Cassazione in una sentenza

(relativa alla nota problematica del Petrolchimico di Porto Marghera), con la

quale è stata ritenuta corretta la motivazione della sentenza di merito che

aveva escluso la possibilità di affermare il nesso di causalità generale tra

l’esposizione a cloruro di vinile e talune malattie, sottolineando la

contraddittorietà dei dati e l’inesistenza di un riconoscimento condiviso, se

non generalizzato, della comunità scientifica sull’argomento.

(Cass. Sez. 4, Sent. n. 4675 del 17/05/2006, Rv. 235658)

Una importante elaborazione giurisprudenziale della tematica inerente

l’individuazione dei criteri sulla base dei quali valutare l’affidabilità del

sapere scientifico è contenuta nella nota sentenza “Cozzini” (Cass. Penale,

Sez. IV, 13 dicembre 2010, n. 43786 - Pres. Marzano) ove vengono recepiti

criteri enunciati nella sentenza Daubert, pronunciata dalla Suprema Corte

degli USA del 1993 che ha precisato gli indici in base ai quali si deve

stabilire se un determinato metodo costituisce o meno una conoscenza

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“scientifica”.

“Per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la

sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L’ampiezza, la

rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti

accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato

l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in

discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della

discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione

teorica … rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità

scientifica. Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze

e delle competenze per esperire un’indagine siffatta: le informazioni di cui

si parla relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero,

dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti. Costoro, per le ragioni

che si sono ormai ripetutamente dette, non dovranno essere chiamati ad

esprimere (solo) il loro personale seppur qualificato giudizio, quanto

piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di

giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse

rappresentazioni scientifiche del problema, possa pervenirsi ad una

“metateoria” in grado di guidare affidabilmente l’indagine. Di tale

complessa indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in

motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e

fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti,

dell’apprezzamento compiuto. La Corte ha la consapevolezza di indicare al

giudice di merito un compito assai impegnativo. D’altra parte, le difficoltà

non possono essere nascoste ma vanno poste in luce e, se possibile, vanno

risolte”.

Ora, niente di tutto questo è presente nella sentenza della Corte d'Assise di

Bergamo che non si preoccupa affatto di verificare la bontà delle premesse

poste a base del proprio ragionamento, soprattutto in tema di DNA

mitocondriale.

Il supino ed acritico recepimento delle tesi esposte dai consulenti dell'accusa

porta con se inevitabilmente, oltre al vizio motivazionale più volte

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denunciato, la fallacia delle conclusioni cui perviene.

Nessuno sforzo di giungere a delle soluzioni ponderate quale approdo di un

complesso e laborioso percorso di valutazione critica delle varie opinioni

espresse dai consulenti di tutte le parti.

Conseguentemente, se le premesse sono errate sarà errato anche il

ragionamento inferenziale che conduce alle conclusioni.

Che il metodo scientifico sia stato grandemente sminuito nel presente

procedimento pur essendone l'architrave di ogni ragionamento, lo

dimostrano prima le parole del consulente Lago in dibattimento, poi lo

stesso Pubblico Ministero, e, quindi, la Corte che si è completamente

astenuta dall'argomentare in punto di DNA mitocondriale appiattendosi, in

maniera acritica ed apodittica sulle ipotesi, lo si ripete astratte, formulate dai

consulenti del Pubblico Ministero, sostituendosi al collegio peritale che

avrebbe dovuto offrire le valutazioni tecniche.

Come detto, illuminanti le parole del dott. Lago ove alla domanda del P.M.

(p. 22 del verbale di udienza redatto in forma stenotipica del 23.10.2015)

sulle (non) risposte scientifiche che ci si sarebbe attesi:

“Si può dire che sia innaturale, contro natura – aggettivi di questo

tipo per descrivere la situazione – che l'analisi di un reperto, forense

sempre, evidenzi solo il DNA nucleare o solo il DNA mitocondriale?

Consulente Lago: Diciamo che prima che una risposta scientifica

questo aggettivo merita una risposta, come dire, filosofica. Vado su

Marte, trovo dei sassi a forma di piramide, non me li aspettavo e

dico: è una cosa che non è possibile. Semplicemente perché la mia

esperienza su questo pianeta è che i sassi siano tendenzialmente

rotondi. In realtà potrebbe anche essere che sono stato

particolarmente sfortunato, sono atterrato in un punto in cui solo in

quel punto ci sono i sassi di quella forma; oppure posso fare uno

studio su tutto quel pianeta e i sassi li sono quasi tutti in quel modo.

Non lo so”.

Ora, pur nella evidenza di come il consulente del P.M. si stia letteralmente

“arrampicando sugli specchi”, si certifica che, sulla base degli attuali studi

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(...posso fare uno studio su tutto quel pianeta...), che saranno, come tutti gli

studi scientifici, oggetto di evoluzione, non è possibile giustificare

l'anomala situazione riscontrata (“Non lo so”).

Anche il Pubblico Ministero ritiene che la scienza nelle aule di Tribunale

debba fare un passo indietro (p. 184 del verbale di udienza redatto in forma

stenotipica del 13.05.2016):

“Non è questo il luogo deputato a dare spiegazioni di natura

scientifica”.

A fronte di tale mancanza di spiegazioni scientifiche, non corrisponde,

però, un dato in analisi complesso.

Che in una cellula, composta chiaramente da un nucleo e dai mitocondri, tali

due elementi siano inscindibili è, non solo fatto notorio ma, altresì, di

elementare conoscenza.

L'apparente situazione riscontrata (possibile perdita del DNA mitocondriale)

non è stata mai rilevata in letteratura, se in un unico studio a carattere

sperimentale - quindi teorico e non pratico - ben conosciuto dal dott. Lago

tanto da essere citato ma non da essere tenuto di rilievo a confutazione

della attendibilità dei risultati ottenuti.

Peraltro, il citato studio di Montesino attiene a particolari situazioni e a

procedure tecniche di laboratorio sicuramente non applicabili nel caso di

specie.

Infatti, nella relazione a firma Lago, si legge:

“Le sequenze (ndr. Sequenze di DNA mitocondriale) ottenute,

valutate secondo le linee guida della comunità scientifica

internazionale forense, soddisfano parametri qualitativi e

quantitativi, tali da risultare pertanto utili ai fini identificativi”, si

veda pag. 37 della Consulenza dott. Lago sul DNA mitocondriale.

Tale consulenza, lo si ricorda, ha condotto al risultato di individuare nella

traccia migliore in studio, la 31G20, oltre al DNA mitocondriale della

vittima, sempre presente, un DNA mitocondriale di persona rimasta ignota e

MAI quello dell'odi erno imputato .

Anche il Prof. Casari, proprio con riferimento alla mancanza del DNA

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mitocondriale del Bossetti, conferma che si sarebbe atteso un risultato

diverso a fronte di una consistente presenza di DNA nucleare, infatti (p. 138

del verbale di udienza 20.11.2015), così riferisce alla Corte:

“Va altresì detto - forse io non l’ho sottolineato abbastanza nella

relazione - che su questi campioni la quantità di DNA di Ignoto 1,

rispetto al DNA sempre ovviamente nucleare di Yara, è dal 40 al 50%.

Mi dovrei aspettare un 40 o 50% di sequenza CRS, se questa fosse

una sequenza minoritaria che proviene da Ignoto 1. Mentre...(ndr non

ho trovato nulla) Non so se mi sono spiegato abbastanza”.

Sull'esistenza di una componente minoritaria diversa da quella del

Bossetti e da quella maggioritaria di Yara, anche in questo caso, vi è la

convergenza di opinione di tutti i consulenti, salvo per alcuni,

evidentemente nel tentativo di sminuirla, considerarla come componente

non interpretabile senza fornire però alcuna giustificazione scientifica.

Resta il fatto che nessuno dei consulenti ha ritenuto che il dato in

questione fosse errato.

In conclusione, si richiamano le parole del P.M. pronunciate durante la

propria requisitoria che ha sostanzialmente sintetizzato il pensiero dei propri

consulenti ed ha affermato:

“Il DNA mitocondriale dell'imputato è certamente diverso dal

mitocondriale delle tracce che erano state a suo tempo osservate, di

cui ho parlato prima, ivi compresa la componente minoritaria. È

certamente un DNA mitocondriale diverso”.

Tale affermazione evidenzia come, anche la Pubblica Accusa sia

consapevole dell'esistenza di una componente minoritaria, sempre con

riferimento alla parte mitocondriale della cellula, che questa potesse essere

interpretabile tanto da essere raffrontata e che il raffronto ha restituito un

esito di assoluta non compatibilità con la componente mitocondriale del

DNA dell'imputato.

Questo è, in sintesi, il nodo processuale che deve essere risolto, proprio

perché scientificamente una persona non può trasferire il proprio DNA

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se non nella sua completezza (nucleare e mitocondriale).

La mancanza di una parte essenziale della struttura cellulare deve far

riflettere e, per certi aspetti, financo allarmare.

Diversamente, una spiegazione scientifica relativa al caso concreto

lascerebbe tutti più sereni, sgombrando il campo da quei dubbi che tutt'ora

esistono, essendo le ipotesi formulate, onde giustificare tale assenza, tutte

naufragate all'esito di una verifica fattuale.

D'altro canto, se trovare delle risposte è attività inutile, perché ci si è

affannati a cercarle da parte dei consulenti della Procura?

Questa Difesa ha reiteratamente chiesto una perizia super partes, affidando

la soluzione del rebus a esperti non di parte e, pertanto, maggiormente

“credibili”.

L’assenza di validi motivi per negare la perizia si è tradotta in un’evidente

lacuna nel corpo della motivazione della sentenza.

Le indimostrate e atecniche conclusioni cui giunge la Corte in tema di DNA

mitocondriale possono essere sintetizzate come segue:

• il DNA mitocondriale è stato utilizzato con una finalità meramente

investigativa, ossia quella di individuare anche tramite tecniche sperimentali,

marcatori diversi da quelli identificativi, in grado di fornire informazioni

ulteriori su caratteristiche fisiche e/o provenienza geografica del soggetto;

• gli studi scientifici internazionali sull'analisi del DNA mitocondriale

su tracce miste sono pochissimi e in tutti si conclude nel senso che le variabili

che possono incidere sono talmente elevate da sconsigliarne l'analisi a fini

forensi;

• il DNA mitocondriale non ha capacità identificativa anche ai fini di

mera esclusione.

Quelli elencati sono i punti estrapolati dalla sentenza che si ritengono essere

a base del ragionamento che porta la Corte a privare di rilevanza l'indagine

sul DNA mitocondriale e gli indiscutibili risultati cui la stessa è pervenuta.

Secondo la Corte, quindi, il DNA mitocondriale non avrebbe la pregnanza di

risultato che la Difesa intende allo stesso attribuire, sostanzialmente perché

l'indagine sul mitocondriale è una indagine complessa, è sconsigliata nelle

tracce miste e non è utile, a fini identificativi, neppure per la mera

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esclusione.

Il presente assunto è, però, ampiamente smentito, da una parte da alcune

semplici considerazioni logiche e, dall'altra, dalle evidenze scientifiche

fornite dagli stessi consulenti dell'accusa, oltre che da quelli della difesa.

Una attività sconsigliata, per l'essere la stessa estremamente “ambiziosa”,

non esclude che possa portare comunque ad un risultato. Diversamente tutti

i vari campi della scienza e del conoscere, più in generale, non avrebbero

visto il progredire dell'uomo.

Come esemplificato dalla Difesa, con un paragone che si ritiene renda bene

l'idea, raggiungere la cima dell'Everest non è certo operazione per tutti, ma

molti lo hanno fatto.

Potrà essere sconsigliato ad un neofita non certo a chi lo fa tutti i giorni e di

professione.

La scrivente Difesa osserva, infatti, come lo studio del mitocondriale è stato

affidato ad un laboratorio di assoluta eccellenza, che si occupa

esclusivamente di DNA mitocondriale in tracce miste e degradate

(Università di Firenze – dott.ssa Pilli) come evidenziato nell'incipit della

relazione ed ha portato ad un risultato certo, mai smentito da altri

consulenti ed anzi confermato dalle risultanze di altri professionisti

operanti in altrettante eccellenze italiane, il dott. Carlo Previderè

dell'Università di Pavia e il dott. Giorgio Casari del San Raffaele di Milano.

Ci si domanda, a questo punto, che senso avrebbe avuto affidare tali

consulenze, peraltro di notevole costo gravante sui contribuenti, se le stesse

non avessero avuto uno scopo di identificazione ma solo quello di “capire”,

non si sa bene ancora cosa.

Un eventuale risultato convergente e coerente con quanto desunto dal DNA

nucleare (unica attività affidata a organismi istituzionali, quindi senza costi

aggiuntivi per la collettività e, peraltro, attraverso mera delega di indagini)

non sarebbe stato forse utilizzato?

Si ritiene avrebbe chiuso definitivamente il cerchio, sgombrando il campo

da qualsivoglia dubbio di attribuzione.

Diversamente, il risultato incongruo, proprio perché tale, viene ritenuto

ininfluente. E ciò è totalmente inaccettabile.

La scrivente difesa, già in fase cautelare, in tema di DNA, aveva

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rappresentato come la Relazione di Consulenza Tecnica genetico-forense a

firma dei consulenti dott.ri Carlo Previderè e Pierangela Grignani pervenisse

a soluzioni difformi ed incompatibili con quanto enunciato nella

consulenza in tema di DNA redatta dal RIS di Parma.

La relazione dei consulenti Previderè – Grignani aveva quale oggetto la

comparazione delle formazioni pilifere rinvenute sul corpo della vittima con

il profilo genetico dell'odierno imputato.

Nessuna delle sette formazioni pilifere non attribuibili alla vittima ha

evidenziato un aplotipo mitocondriale compatibile con quello

dell'imputato.

Nella citata consulenza, al punto 4.4, analisi dei polimorfismi del DNA

mitocondriale, ecco l'elemento ritenuto da questa difesa di fondamentale

importanza e di travolgente portata.

“L’analisi del DNA mitocondriale estratto dalle tracce 31G19 e

31G20 palesava una situazione insolita, a parere degli scriventi. A

fronte di quantità significativamente elevate di DNA maschile in tali

campioni (circa il 50% nel campione 31G19 e circa il 70% nel

campione 31G20), come attestato dall’analisi in RT-PCR presente

nella relazione dei RIS, quantità tali da produrre profili autosomici

con una chiara componente attribuibile ad un soggetto di sesso

maschile (“Ignoto 1”), l’analisi del DNA mitocondriale evidenziava

un aplotipo misto con una componente maggioritaria riconducibile

alla vittima e una componente minoritaria di difficile interpretazione

(vedi elettroferogrammi allegati alla relazione Lago). Il campione

31G19 produceva addirittura esclusivamente un aplotipo

riconducibile alla vittima. Tale situazione era apparentemente in

contraddizione rispetto a quanto atteso dalle analisi genetiche su

campioni biologici commisti. Infatti, in generale, il profilo genetico di

una traccia mista riflette la proporzione delle diverse frazioni

cellulari, queste ultime originate da quantità diverse (maggiori,

minori o paragonabili) di materiale biologico dei vari soggetti

contributori. Può, quindi, essere che, in una traccia mista, un

soggetto abbia contribuito con un numero di cellule maggiori rispetto

ad un altro. Tale condizione verrà rappresentata anche nel relativo

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profilo genetico ove si evidenzieranno proporzionalmente i vari

contributi come alleli della componente maggioritaria e alleli di

quella minoritaria”.

Ecco la prima “situazione insolita”, “apparentemente in contraddizione” che

MAI, però, ha trovato, né durante il dibattimento né in sentenza, alcuna

condivisa risposta: l'inversione delle componenti biologiche ascrivibili alla

vittima e a Ignoto 1 tra DNA nucleare e DNA mitocondriale.

La contraddizione definita dai consulenti del P.M. Definita “apparente” non

è stata spiegata. Parimenti, la sentenza sul punto è del tutto carente non

offrendo al lettore alcun ragionamento logico-giuridico a giustificazione.

Ma vi è anche la seconda e ben più importante situazione rimasta priva di

qualsiasi giustificazione: la non compatibilità, anzi addirittura l'assenza, del

DNA mitocondriale del Bossetti in una traccia allo stesso attribuita in luogo

contemporanea presenza di un profilo genetico di soggetto rimasto ancora

ignoto.

Lo studio del DNA nucleare sui campioni sopra menzionati riconduce ad un

soggetto di sesso maschile Ignoto 1, poi associato a Bossetti, e alla vittima,

se non solo a Ignoto 1, mentre per il DNA mitocondriale è stato possibile

tipizzare la componente della vittima, oltre una minoritaria non

riconducibile né alla vittima né a Bossetti.

Una delle ipotesi proposte dai consulenti è che la vittima e il soggetto di

sesso maschile potessero essere imparentati per via materna e, dunque,

condividere lo stesso DNA mitocondriale.

Gli stessi consulenti della Procura, però, hanno escluso tale ipotesi

indagando sulla linea materna di Yara Gambirasio.

Sulla base della letteratura scientifica in materia, il dott. Previderè e la

dott.ssa Grignani ipotizzano, poi, che i due soggetti contributori della traccia

mista abbiano apportato una differente quantità mitocondriale.

Secondo le osservazioni della dott.ssa Sarah Gino, consulente della difesa,

“diventa, però, qui difficile dare poi spiegazione del fatto che almeno nel

campione 31G20 non ci sia traccia del DNA nucleare della vittima”.

Per meglio comprendere la portata di tale affermazione si deve considerare

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che la tesi accusatoria prevede la deposizione contestuale di due fluidi

biologici (della vittima e dell'assassino) che risulteranno poi esposti alle

medesime condizioni ambientali. Risulta singolare, e in tal senso va letta

l'affermazione della Prof. Gino, che uno dei duo fluidi biologici abbia

“perso” il DNA nucleare mentre l'altro risulti di straordinaria qualità.

Tale assunto è stato ribadito in sede dibattimentale, in assenza di

contestazioni dei consulenti della Procura per cui, anche tale seconda ipotesi

può ritenersi esclusa.

L'ultima ipotesi scientifica proposta dai consulenti della Procura è la

commistione di materiale biologico proveniente da due specifici fluidi

biologici, in particolare sangue e sperma.

Anche in questo caso, l'ipotesi avanzata non pare possa essere calata alla

fattispecie in esame, infatti, lo stesso consulente Lago afferma:

“in base alle analisi di laboratorio effettuate dal RIS di Parma volte a

determinare la natura delle tracce presenti sugli slip, i test hanno

fornito in generale ed in particolare per la traccia 31G20 esito

negativo per la presenza di saliva e di sperma ed esito positivo

unicamente per il sangue umano”.

Il consulente del PM conferma ulteriormente che non trattasi di contributo

spermatico in quanto:

“È stato inoltre sottolineato dallo stesso RIS che data la bontà della

traccia in termini di quantificazione di DNA e di risultato

dell’elettroferogramma, si potesse considerare attendibile il risultato

dei test di natura predittivi dal momento che ad una degradazione

proteica tale da fornire un falso negativo per saliva o liquido

seminale non potrebbe verosimilmente corrispondere una

conservazione così buona del materiale genetico”.

Si ricorda, peraltro, che per escludere la natura spermatica delle trace in

questione il RIS, caso unico, ha effettuato il test con ben tre kit diversi

validati per uso forense ed in grado di rilevare la presenza di costituenti del

liquido seminale umano, anche degradato, in quantitativi infinitesimali.

In sintesi, ed in sostanza, questa Difesa ritiene che l'identificazione di un

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soggetto avviene, come pacifico, attraverso l'analisi dei marcatori

autosomici del DNA nucleare se e solo se il DNA mitocondriale è presente

ed è corrispondente con quello nucleare, posto che la mancanza della

componente mitocondriale della cellula non troverebbe in alcun modo

spiegazione scientifica e renderebbe quanto osservato qualcosa di alieno,

un artefatto o il prodotto di un errore.

La tesi della scrivente difesa secondo cui si possa essere in presenza

unicamente di una delle tre ipotesi menzionate si è man mano rafforzata

soprattutto all'esito di un dibattimento che nulla ha aggiunto rispetto alla

fase pre-dibattimentale e di una sentenza che non ha fornito risposte, anche

ove si consideri che la necessità di risposte è stata sollecitata anche in

sede di Riesame, dal Tribunale di Brescia.

Si richiama, qui, quanto il Tribunale di Brescia, in funzione di Giudice del

Riesame, con propria ordinanza del 10.03.2015, depositata in cancelleria in

data 13.03.2015, sul punto così statuisce:

“L'anomalia denunciata dalla difesa concernente gli esiti delle

indagini sul DNA mitocondriale non trova quindi una soluzione

netta, di talché le aporie potranno trovare composizione solo se

saranno espletate analisi aggiuntive, in sede di perizia, in

dibattimento o nel corso di incidente probatorio”.

Per la particolarità della sede cautelare in cui stava formulando il proprio

pronunciamento, il Tribunale ha ritenuto, comunque, sufficiente il dato

indiziario, pur in presenza della denunciata “contraddizione”.

Avverso il provvedimento di Riesame, la scrivente Difesa proponeva

Ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte dava atto di come l'organo del Riesame si fosse fatto

“onestamente carico dell'incongruenza riscontrata nelle analisi del DNA

mitocondriale sulle tracce 31G19 – 31G20, in cui non era evidenziabile il

DNA mitocondriale del Bossetti” pur ritenendo la pronuncia impugnata

corretta, in quanto non viziata da evidenti errori nell'applicazione delle

regole della logica.

La questione, quindi, come evidente, è rimasta aperta, non ricevendo alcun

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sindacato da parte del Supremo Collegio.

Il giudicato cautelare formatosi, pertanto, sul punto è che, SOLO

attraverso ANALISI AGGIUNTIVE in sede di PERIZIA in dibattimento o

nel corso di incidente probatorio, potranno trovare composizione le aporie

denunciate.

Come e perché tale “suggerimento” sia stato sempre e comunque inascoltato

è senza dubbio il punto più debole di un processo che da accusatorio è

diventato inquisitorio.

Questa difesa unitamente ai propri consulenti non ha MAI potuto

partecipare ad alcuna indagine scientifica in tema di DNA.

L'ingiustificato ed ingiustificabile preconcetto diniego della Corte di

concedere qualsivoglia perizia chiesta dalla difesa crea un'evidente lacuna

nel corpo motivazionale della sentenza, mancando nella stessa del tutto ogni

spiegazione del perché si siano preferite le conclusioni dei consulenti

dell'accusa piuttosto che quelle della difesa.

L’autorevolezza dei consulenti della difesa avrebbe dovuto, per lo meno, far

sorgere il dubbio sulla validità delle tesi accusatorie e, quindi,

ragionevolmente consigliare al Giudice la soluzione più semplice e corretta:

nominare un perito che, in quanto terzo e tecnicamente qualificato, avrebbe

potuto rilevare i vizi presenti in una delle due tesi.

La delicatezza dei temi tecnici affrontati - da cui si è fatto - in via esclusiva -

dipendere l’accertamento di fatti così gravi, per giunta in assenza di prove –

avrebbe dovuto imporre ancor più scrupolo e prudenza nel trarre

determinate conclusioni.

Davvero non si comprende cosa possa aver condotto la Corte alla scelta di

non affidarsi ad un esperto super partes, che avrebbe garantito un giudizio

obiettivo e, quindi, dirimente, pur in presenza di una precisa ordinanza di un

Tribunale e di un macroscopico contrasto di consulenze, se non un fideistico

ossequio di stampo inquisitorio verso una parte processuale, l'Accusa.

Il lungo e articolato dibattimento non ha fatto altro che lasciare aperto il

problema nei confronti del quale il Tribunale del Riesame aveva indicato un

preciso percorso per giungere alla soluzione dello stesso.

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La sentenza, come detto, ha solo marginalmente affrontato la fondamentale

questione scientifica (assenza del DNA mitocondriale dell'imputato)

preferendo sminuirne la portata per giungere, così, a conclusioni

inaccettabili sia sotto il profilo della logica giuridica, che di quella

prettamente scientifica.

In un processo DNA-centrico, come emerge dalla sentenza, il DNA nucleare

e solo quello è e resta praticamente l'unico elemento a favore della

declaratoria di colpevolezza, ci si sarebbe attesi la rigorosa applicazione di

un metodo scientifico ed un robusto impianto motivazionale.

E' notorio come, infatti, affermato più volte dalla Corte di legittimità, come

“la prova scientifica non possa ambire ad un credito incondizionato di

autoreferenziale affidabilità in sede processuale, per il fatto stesso che il

processo penale ripudia ogni idea di prova legale”.

È evidente che, di fronte alle reiterate richieste della Difesa, di incidente

probatorio prima e perizia poi, stante il continuo diniego di qualsivoglia

approfondimento della tematica inerente la mancanza del DNA

mitocondriale, sarà assolutamente indispensabile, in questo nuovo grado di

giudizio, affrontare e risolvere quella che per il Tribunale di Brescia, come

già detto, è una aporia della prova scientifica, una contraddizione da

discutere.

L'eventuale mancanza di risposte che possano confermare il dato indiziario

del DNA nucleare, non potrà che far prendere coscienza a tutti della

incertezza del risultato stesso ovvero del ragionevole dubbio che possa

essersi in presenza di errori ovvero manomissioni sull'esame delle tracce

in questione, con la conseguente inutilizzabilità ai fini accusatori.

LE RICHIESTE DI INCIDENTE PROBATORIO/PERIZIA

La Difesa sulla scorta della menzionata ordinanza del Tribunale del Riesame

di Brescia, al fine di trovare soluzione alle anomalie e alle incongruenze in

tema di DNA già allora evidenti, avanzava, in sede di udienza preliminare,

richiesta di incidente probatorio finalizzato all'effettuazione di una perizia

sul punto controverso.

L'articolata richiesta di perizia in tema genetico-forense veniva rigettata in

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quanto:

“Con la stessa si tende o a riprodurre l'analisi di materiale biologico

che è stato già oggetto di esame, le cui modalità esecutive non sono in

discussione..., peraltro richiamando in causa il DNA mitocondriale,

che è noto non svolge funzione di individuazione del soggetto che

abbia lasciato la traccia biologica...”

La perizia, quindi, non veniva concessa sostanzialmente perché il DNA

mitocondriale non ha capacità identificative (addirittura, per il Giudice, fatto

notorio erga omnes), sorvolando in toto su tutte le anomalie evidenziate ed

in contrasto con le cosiddette “capacità identificative” di cui ci parlano gli

stessi consulenti del P.M..

Disarmante, poi, la laconicità della motivazione della Corte sul diniego di

perizia avanzata dalla difesa all'esito dell'esame e contro esame di tutti i

consulenti in materia genetica:

“L'approfondimento dell'istruttoria sul punto palesa come non

decisivo ogni ulteriore accertamento”.

L’ordinanza 22.04.16 deve intendersi qui impugnata in quanto

palesemente illegittima ai sensi del combinato disposto degli artt. 125,

3° co. e 507 c.p.p., a causa dell’evidente incompletezza ed illogicità della

motivazione. Tale vizio ha inficiato la sentenza di primo grado della

medesima patologia, invalidandola ai sensi del combinato disposto degli

artt. 604, comma 5 e 185 c.p.p.

Simile conclusione trova conferma nella più recente giurisprudenza,

secondo cui “il potere-dovere del giudice di integrazione probatoria a

norma dell‟art. 507 c.p.p., pur configurandosi come discrezionale, richiede

un‟espressa motivazione in ordine al mancato esercizio dello stesso in

relazione al requisito della assoluta necessità ai fini del decidere , essendo

estranea a tale parametro ogni valutazione in ordine all‟interesse delle

parti all‟assunzione del mezzo” (Cass., Sez. III, 25 ottobre 2007, n. 44955,

Seclì, Rv. 238273).

Ed ancora: “in tema di istruzione dibattimentale, il giudice ha l'obbligo, a

pena di nullità della sentenza, di acquisire anche d'ufficio, in virtù dei

poteri conferitigli, ex art. 507 c.p.p., i mezzi di prova indispensabili per la 81

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decisione, non essendo rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra

disporre i necessari accertamenti ed il proscioglimento dell'imputato;

pertanto, il giudice ha l'obbligo di motivare specificamente in ordine al

mancato esercizio dei poteri di integrazione probatoria, di cui all'art. 507

succitato, e l'assenza di una adeguata motivazione, censurabile in sede di

legittimità, determina una violazione di legge dalla quale deriva la nullità

della sentenza” (Cass., Sez. V, 11 ottobre 2005, n. 38674, P.G. in proc.

Tiranti, Rv. 232554, in Dir. pen. proc. 2006, n. 8, p. 1007).

Rispetto all'ordinanza impugnata l'onere di motivazione, così come espresso

dalle sentenze citate, risulta totalmente disatteso, avendo la Corte omesso di

motivare in ordine alla non assoluta necessità di disporre una nuova perizia

collegiale sui temi indicati dalla difesa e laconicamente statuito che

“l'approfondimento dell'istruttoria sul punto (approfondimenti di carattere

scientifico) palesa come non decisivo ogni ulteriore accertamento”.

SI CHIEDE, PERTANTO, CHE CODESTA CORTE D’ASSISE

D’APPELLO NEL PRENDERE ATTO DI QUANTO ORA ESPOSTO

VOGLIA DICHIARARE LA NULLITA DELL’IMPUGNATA

ORDINANZA AI SENSI DEGLI ARTT. 125, 3° CO., 507 E 586 C.P.P.,

ASSUMENDO LE CONSEGUENTI DETERMINAZIONI.

Ogni istanza difensiva volta a far sì che fosse trovata soluzione alla palese

incongruenza è SEMPRE stata frustrata con palese violazione del diritto di

difesa.

Infatti, la Corte, in radice ed immotivatamente, non ha accettato fosse

espletato alcun approfondimento, ritenendolo non decisivo (!), recependo

come vero, in puro stile inquisitorio, quanto portato dai consulenti

dell'Accusa.

La sentenza, a pag. 86, però, non parla più di non decisività sul punto, ma

ritiene:

“infondata la richiesta di perizia avanzata dalla Difesa e volta a

verificare se sui vari reperti fossero rinvenibili tracce biologiche

attribuibili a Massimo Giuseppe Bossetti relativamente ai profili

genetici nucleare e mitocondriale e a stabilire la natura della traccia

e se negli estratti di DNA in cui è ravvisato il profilo genetico di 82

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Ignoto 1 i genomi di Yara Gambirasio e dell'imputato fossero presenti

nella loro interezza (profilo nucleare e mitocondriale) e, in caso

negativo, offrire una spiegazione scientifica dell'incompletezza dei

profili)

il tutto “in considerazione della mancanza di capacità identificativa anche

ai fini di mera esclusione del DNA mitocondriale”.

Ora, lo si ripete perché pare assurda tale motivazione, è proprio la

mancanza di capacità identificativa anche ai fini di mera esclusione del

DNA mitocondriale che ha indotto la Corte a non concedere la perizia.

Quindi, capire attraverso periti super partes quanto dalla difesa sollecitato,

una vera “aporia” per il Tribunale di Brescia, non è stato considerato

decisivo.

Come abbiamo visto, però, l'assunto di partenza da cui muove il

ragionamento della Corte è palesemente errato (sulla capacità identificativa,

anche ai fini di mera esclusione, si rimanda a quanto più sopra espresso).

Ora, la laconica affermazione della Corte contenuta nell'ordinanza di rigetto

non trova spiegazione neppure nella sentenza che, come visto, erra

clamorosamente su un presupposto fondamentale, anzi sul presupposto

fondamentale.

Nè si vuole pensare che il mero dato quantitativo, relativamente agli

accertamenti già svolti, possa essere il discrimine attraverso cui scegliere se

una determinata indagine sia dirimente oppure no.

A fronte di uniche analisi espletate sul DNA nucleare dal RIS vi sono,

invece, convergenti e plurime risposte sul DNA mitocondriale fornite da

diversi scienziati.

Possiamo preferire le prime solo in quanto provenienti da apparato dello

Stato?

Può essere scientificamente accettato l'utilizzo del solo DNA nucleare per

identificare ove si sia in presenza, come nel caso di specie, di un DNA

mitocondriale totalmente in contrasto?

Una eventuale risposta positiva – come positiva è la risposta fornita dalla

Corte – è conseguenza di un ragionamento gravemente viziato.

Non tiene conto che in natura il dato scientifico, più volte richiamato, non

trova giustificazione.

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Un dato con valenza identificativa ottenuto con tecniche di base può

totalmente far disattendere un risultato di segno uguale e contrario

(identificazione tramite esclusione) ottenuto con tecniche di eccellenza?

Si aggiunga, poi, un'altra considerazione.

Come si legge a pag. 65 della sentenza, la Corte ha ritenuto “ultronea la

richiesta della difesa dell'imputato di conferire un apposito incarico

peritale volto ad ispezionare nuovamente gli indumenti della vittima, onde

verificare se sugli stessi fosse possibile, oltretutto a distanza oltre di cinque

anni dalla repertazione, rinvenire ulteriori tracce biologiche attribuibili

all'imputato o ad altri eventuali contributori”.

Ancora una volta, quale motivo del diniego, viene preso in considerazione

un dato, il dato temporale (cinque anni dalla repertazione), con motivazioni

che paiono essere francamente in completa contraddizione non solo con le

attuali conoscenze scientifiche ma anche con la pratica giudiziaria che tutti

conosciamo.

Sono noti i casi di indagine condotti attraverso lo studio del DNA a distanza

di molti anni dai fatti. Se ne citano solo i più noti: Alberica Filo della Torre,

Elisa Claps, Simonetta Cesaroni e, da ultimo, anche il caso di Lidia Macchi

deceduta trent'anni fa (per quest'ultimo caso, consulenti per lo studio del

mitocondriale ancora una vola il dott. Lago e la dott.ssa Pilli della

Università di Firenze).

Anche il consulente di parte civile, dott. Portera, ci dice (pag. 38 ud.

03.02.2016) come :

“Il nucleare dopo qualche decina di anni si perde e permane il

mitocondriale”.

Qualche decina di anni!

Su un punto TUTTI i consulenti delle varie parti processuali convergono: la

mancanza del DNA mitocondriale dell'imputato nelle tracce rinvenute sui

reperti ed attribuite all'imputato stesso.

Altro punto su cui tutti i consulenti convergono è la mancanza di

spiegazione a tale situazione, difficilissima da rendere in astratto (un solo

studio sperimentale al riguardo e non attinente al caso di specie quanto alle

tecniche impiegate), parimenti nel caso concreto.

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Altra fondamentale convergenza è sulla capacità identificativa (della linea

materna) del DNA mitocondriale, con ovvia capacità di esclusione (però la

Corte, sul punto, inspiegabilmente la pensa diversamente).

Su cosa vi è divergenza di vedute?

Il primo elemento su cui si dissente apertamente è sulla utilizzabilità di un

dato scientificamente acquisito ove questo non sia coerente con altri dati

parimenti scientificamente acquisiti.

Per la Difesa, il dato del DNA mitocondriale (mai contestato né tacciato di

errore da alcun consulente) incoerente con il dato del DNA nucleare,

rende quest'ultimo inutilizzabile proprio perché scientificamente impossibile

tale divergenza.

Per l'Accusa e la Corte, l'incoerenza di risultati non rileva in quanto il dato

ottenuto sul mitocondriale, sebbene corretto, sarebbe l'esito di una mera

attività di indagine svolta solo a fini scientifici (per capire!) e non per

identificare.

Quindi, seguendo questa logica, il perché si fa una certa cosa, cambia il

valore del risultato eventualmente acquisito. Va da sé, invece, che il risultato

oggettivo resta in tutta la sua portata e non si può far finta di non vederlo

solo perché non è rispondente a quanto desiderato prospettando che è frutto

di una indagine avente finalità di mera conoscenza.

Altro elemento su cui vi è profondo disaccordo, la rilevanza del metodo

scientifico in ambito processuale.

Secondo l'Accusa, l'incongruenza non merita spiegazione:

“non è questo il luogo per dare risposte di natura scientifica”.

Per la Corte, non è decisivo! Ma è l'unica che ha l'obbligo di motivare.

Per la Difesa, invece, una risposta è imprescindibile nella logica

complessiva dell'odierno processo accusatorio dove l'onere della prova

incombe a chi accusa, chiamata anche a dare contezza della bontà scientifica

delle proprie asserzioni.

Gli esiti inaspettati sul DNA mitocondriale hanno innegabilmente

sparigliato le carte dell'Accusa pubblica e privata.

Lo strenuo tentativo di trovare giustificazione all'anomala situazione, anche

adducendo impercorribili logiche, dimostra lo “stato confusionale” dei

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consulenti che, non potendo in udienza rinnegare in toto il loro precedente

operato, hanno tentato di sminuirlo e ridimensionarlo.

Si prenda, ad esempio, quanto affermato dal dott. Portera consulente della

famiglia Gambirasio (p. 35 del verbale redatto in forma stenotipica del

03.02.2016):

“Il DNA nucleare di Ignoto 1 è stato analizzato dal RIS di Parma e lo

provano i dati grezzi nell'aprile 2011, come corsa elettroforetica, cioè

come analisi finale. L'analisi del DNA mitocondriale, invece, è stata

eseguita tra il mese di novembre e il mese di dicembre 2011...è

possibile quindi è anche probabile che i mesi intercorsi dalla

commissione del reato, quindi dal novembre 2010, quando è stata

appunto uccisa Yara, e il sequenziamento delle regioni mitocondriale,

novembre 2011, quindi un anno, è possibile che all'interno di quel

mitocondriale sia avvenuta qualsiasi cosa. Magari se avessimo fatto

l'analisi del mitocondriale nel novembre del 2010, anzi probabilmente

– posso aggiungere – avremmo avuto un esito diverso rispetto a

quello che è stato, invece, prodotto nel novembre 2011. Per cui

l'analisi del mitocondriale ha generato un dato francamente pieno di

dubbi interpretativi”.

L'affermazione riportata è inesorabilmente contraddetta dalle produzioni

documentali provenienti dalla Parte Civile, la quale ha prodotto, viste le

eccezioni di questa Difesa sulla regolarità delle ripetizioni relativamente alle

tracce più significative 31G19 e 31G20, gli elettroferogrammi relativi a tre

ripetizioni effettuate su dette tracce ove, sempre a dire della Parte Civile

erano stati rispettati tutti i crismi previsti dalle best practices in materia

(l'utilizzo di Kit in corso di validità, controllo positivo, controllo negativo).

Orbene, dette ripetizioni sono state eseguite il 25 ottobre 2011, come

evidente un solo mese prima rispetto all'effettuazione dell'esame sul DNA

mitocondriale, novembre 2011.

Sempre il dott. Portera, nel tentativo di giustificare comunque l'assenza del

mitocondriale, si spinge ad affermare come non sia possibile escludere in

maniera totale la presenza di una natura spermatica all'interno della traccia

di Ignoto 1.

Ciò, verosimilmente, in considerazione del fatto che, come sopra visto,

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questa è una delle ipotesi in cui il DNA mitocondriale, in particolari

condizioni, può andare perso.

Anche tale affermazione, però, è stata smentita dalle risultanze della

relazione del RIS.

Il dott. Lago, in udienza, coerentemente con il reparto da lui diretto, (pag.

177 verbale di udienza redatto in forma stenotipica del 21.10.2015) afferma:

“Non ci dimentichiamo di tutta quella mole numerosissima di dati, di

diversi kit, che, in maniera del tutto univoca, e senza incertezze,

esclude sostanzialmente questa ipotesi” e poi ancora “sul piano

proprio della verosimiglianza del tutto improbabile che un numero

così grande di test così diversi, su punti così variabili, abbia

contemporaneamente fallito”.

A quali test si riferisce il dott. Lago? Ai test per individuare l'eventuale

natura spermatica della traccia, citandone poi uno in particolare, lo sperm-hy

Liter.

Tale test, come dice il RIS:

“E' stato creato per la ricerca ed individuazione di spermatozoi umani

in tracce repertate in occasione di violenze sessuali, il test è in grado

di individuare un singolo spermatozoo presente in una miscela di

fluidi vaginali o epiteliali. È assolutamente specifico per spermatozoi

umani e pertanto non fornisce alcuna positività con altri fluidi

corporei o spermatozoi di altre specie animali”.

Sulla natura delle tracce e, quindi, sulla possibilità che si stia parlando di

sperma, le parole del RIS sembrano non lasciare spazio ad alcuna possibilità

(ragionevole) che quanto da loro analizzato, con specifico riferimento alla

componente maschile, possa derivare da sperma umano.

Leggiamo, infatti: “appare irragionevole pensare di associare ad un

eventuale falso negativo (ndr sperma) su un test diagnostico un profilo

genotipico straordinariamente di ottima qualità come è quello, ad esempio,

relativo al campione suddetto”.

È, quindi, lo stesso RIS ad affermare, in epoca non sospetta, che sarebbe

“irragionevole” pensare la traccia in esame fosse riconducibile a sperma.

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Al dott. Portera, però, poco importa di apparire irragionevole nel riproporre

una possibilità, già scientificamente scartata, senza peraltro motivare la

propria visionaria concezione della biologia.

La Corte, nell'argomentare sulla natura della traccia, “non essendovi

elementi di certezza in merito alla natura dei contributi biologici che hanno

originato la traccia (semplicemente positiva all'emoglobina)”, ritiene che

nessuna spiegazione possa essere privilegiata lasciando così aperta la

possibilità che si possa trattare anche di contributo spermatico.

Anche qui la Corte perviene ad una conclusione in aperto contrasto con le

risultanze dibattimentali, senza, peraltro, fornire adeguata motivazione sul

punto.

Se è pur vero che la natura della traccia non è stata accertata con certezza è

altrettanto vero che sappiamo con altrettanta certezza cosa non è.

Sicuramente non è sperma.

Quindi, per concludere il discorso aperto con la disamina sulla natura della

traccia, possiamo affermare che l'ipotesi della perdita del mitocondriale in

quanto trattasi di sperma è del tutto destituita di ogni fondamento

semplicemente perché sarebbe “irragionevole” nonché priva di materialità

analitica.

Altro tema su cui si è ampiamente dibattuto è la classificazione delle tracce

come miste o a singolo contributore.

Tale dato appare essere di rilevante importanza anche alla luce delle

determinazioni della Corte che ha bollato le indagini sul mitocondriale a

traccia mista estremamente difficoltose e sconsigliabili, motivo ulteriore per

cui non è stato concesso alcun approfondimento peritale sui quesiti posti

dalla Difesa.

Il semplice dato della quantificazione di DNA presente in una traccia pare

non essere sufficiente per definire come mista (uomo/donna) la traccia

stessa.

L'assunto testé esposto trova conferma dal semplice raffronto di due tabelle.

Da una parte esaminiamo la tabella di cui alla pagina 212 della relazione

RIS “Accertamenti tecnici biologici del procedimento penale 10915/2010

R.G.N.R. Mod. 44” dove con riferimento alla traccia 31G20 notiamo che a

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fronte di un DNA totale di 2000 pg/ml corrisponde un DNA maschile pari a

1400 pg/ml da cui la Corte vorrebbe quindi desumere 1400 pg di maschio e

600 pg di donna per un totale di 2000 pg.

Analizzando, invece, la tabella di cui alla pagina 2) dell'elaborato peritale a

firma dei dott.ri Piccinini e Cattaneo, nel quale viene presa in esame una

diafisi femorale del defunto Giuseppe Guerinoni, tabella che riporta i dati di

quantificazione del DNA estratto da detta porzione di osso, nelle ultime

quattro righe osserviamo come a fronte di un DNA complessivo ve ne sia

solo una parte, circa 1/5, maschile.

Facendo nostro il ragionamento della Corte, dovremmo affermare che nelle

ossa del Guerinoni essendoci – nel campione di osso 17/13/3 – 22 pg di

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maschio in 121 pg totali, ne abbiamo ben 99 pg di donna. In un femore di un

uomo !

È pacifico che nell'osso in questione (osso del Guerinoni) non possa che

essere presente esclusivamente la sua componente di DNA, ovviamente

maschile.

Pertanto, il mero dato di quantificazione non è sufficiente a definire se una

traccia possa dirsi mista o meno.

Sempre sulla traccia mista, si prendano in considerazione le dichiarazioni

del già citato dott. Giardina, consulente del P.M. (pag. 102 del verbale di

udienza redatto in forma stenotipica del 18.11.2015) dove alla domanda

della Difesa:

“Avv. Camporini: - Ma Lei per quanto riguarda il DNA nucleare,

sapeva che il 31.G19 era una traccia mista?

Consulente Giardina: - Io avevo visto, ho visto i profili 31.G19 e

31.G20 nucleari, e non era... ”.

Sempre sul tema della traccia mista interviene anche il Consulente Lago il

quale (pag. 182 del verbale d'udienza redatto in forma stenotipica del

30.10.2015) a domanda della Difesa:

“La famosa traccia 31G20 è una traccia mista o è una traccia che ha

un solo contributore?

Consulente Lago: qui mi richiamo al concetto di prima, quello che

noi vediamo nell'esito di questa traccia che è l'elettroferogramma che

adesso è proiettato nel monitor è una traccia che non mostra

contributi diversi da Ignoto 1. Quindi la lettura di questa traccia

non è una mistura. Il che non significa che la traccia non sia una

mistura ”.

Quindi, sembrerebbe vero tutto e il contrario di tutto!

Il dott. Portera, consulente della famiglia Gambirasio, all'udienza del

03.02.2016, rispondendo alle domande del difensore di Parte Civile sulle

tracce 31G20 e 31G16 afferma:

“Ci siamo concentrati su due campioni (31G20 e 31G16) per quale

motivo? Vorrei specificarlo. Perchè queste sono le due tracce che

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erano presenti all'interno della relazione del RIS di Parma, che

avevano dato gli esiti più probanti. Ovvero il 31G20 aveva dato le

specifiche di un soggetto unico, identificato come Ignoto 1 e il 31G17

aveva dato delle specifiche di DNA di una traccia mista, all'interno

del quale era possibile individuare la componente della vittima e la

componente di Ignoto 1”.

Sempre sul medesimo punto, a pagina 49 del verbale del 03.02.206, il dott.

Portera ribadisce che:

“Il 31G20 come applicazione NGM, è una traccia singola”.

Utilizzando un altro kit - Identifiler - alcune amplificazioni

evidenzierebbero un mistura nel marcatore D21, ma “le altre

amplificazioni che io ho studiato, e che ritengo prioritarie, non

evidenziano una mistura dall'amplificazione e dallo studio degli

elettroferogrammi”.

Se vale il principio in claris non fit interpretatio, la traccia 31G20 specifica

un soggetto unico, la 31G16 palesa un doppio contributore.

Le convergenti dichiarazioni di due diversi consulenti, della Procura e della

Parte Civile, lascia ben pochi dubbi in proposito.

Conseguentemente, ogni speculazione sull'estrema difficoltà (impossibilità)

di indagare il DNA mitocondriale in tracce miste e degradate quantomeno

non vale per la 31G20 che, lo si ricorda, è quella più significativa per

purezza e quantità, oltre ovviamente ad essere ad unico contributore.

Sul punto la Corte, quindi, erra clamorosamente, senza peraltro dare

contezza del ragionamento che la conduce ad affermare come vero un dato

palesemente incongruo, tanto più che a pag. 56 della sentenza:

“...dal campione 31G20 che dal punto di vista dell'esame del DNA

nucleare presentava l'unico profilo di Ignoto1, (ndr dal punto di vista

mitocondriale) emergevano due sequenze, una maggioritaria,

corrispondente a quella del campione di confronto di Yara, e una

minoritaria, differente da quella della vittima”.

La Corte che, come detto, riconosce come assolutamente normale e

spiegabile la “presenza” della componente mitocondriale della vittima in

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ogni traccia essendo, come logico, ogni indumento indossato dalla vittima

“intriso dei liquidi di putrefazione del cadavere”, incorre in una palese

contraddizione ove, da una parte, afferma come la perizia sul DNA non

venga concessa anche in considerazione della complessità di analisi su

tracce miste e degradate e, dall'altra, riconosce che la traccia migliore per

quantità e qualità sia, sotto il profilo nucleare, ad unico contributore.

A parere della Corte, come più volte detto, ogni ragionamento sul DNA

mitocondriale risulta essere “non decisivo” quindi, inutile, a fronte dei

risultati ottenuti sulla componente nucleare del DNA che portano

all'attribuzione dello stesso con una ricorrenza statistica talmente alta da

essere considerata equivalente alla certezza.

Tale certezza è figlia di una indagine condotta nel rispetto delle best

practices internazionali in materia?

Come dimostrato dalla Difesa in dibattimento e, qui, ribadito non vi è alcun

accertamento (con riferimento al DNA nucleare), che sia rispondente ai

requisiti di forma previsti dalla comunità scientifica, dalle nuove linee

guida, peraltro anch'esse prodotte in dibattimento, che, in sintesi, vogliono

che un risultato affinché possa definirsi affidabile sia ripetuto e che ciò

avvenga nelle medesime condizioni ed in presenza di tre requisiti

imprescindibili:

• i kit utilizzati in ciascuna fase dello studio della traccia devono essere

in corso di validità;

• il c.d. “controllo negativo”, anch'esso da effettuarsi con riferimento a

ciascuna corsa elettroforetica, deve dare un esito, appunto, negativo;

• il c.d. “controllo positivo” deve, parimenti, restituire il DNA del

campione analizzato.

In modo da escludere qualsiasi rischio di contaminazione esogena.

Ora, queste caratteristiche non sono congiuntamente presenti in nessuna

analisi e, quindi, ripetizione.

Dall'esame dei dati grezzi questa Difesa ha potuto appurare, come la

convergente presenza dei tre requisiti, poco sopra enunciati, non sia

riscontrabile in nessuna corsa elettroforetica.

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Né l'Accusa ha fornito evidenza che gli accertamenti sul DNA siano stati

effettivamente svolti secondo i crismi delle linee guida internazionali ed i

relativi risultati siano stati oggetto di ripetizione in presenza di pari

condizioni.

La sentenza, poi, si limita genericamente ad affermare la bontà di risultati

astenendosi dall'indicare ove tutti i crismi previsti per la validazione forense

degli stessi siano presenti.

Tale assenza riveste grave vizio motivazionale sul punto.

Si veda, a titolo esemplificativo, la tabella riferibile alla traccia principe

31G20.

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Purtroppo, quanto enunciato negli elaborati di consulenza, si veda pag. 4

consulenza RIS “Tutti i materiali utilizzati (reagenti, soluzioni, test per le

diagnosi di genere, kits per quantificazione, amplificazione e tipizzazione

del DNA) sono altamente controllati e selezionati per la fedeltà e

riproducibilità dei risultati, nonché rigorosamente conservati ed impiegati

in ossequio alle più moderne procedure internazionali”, non corrisponde

però, a quanto avvenuto nella realtà.

Sempre dalla relazione RIS leggiamo:

“Per buona prassi di laboratorio, così come richiesto dai prefati standard,

l'intero processo di caratterizzazione genetica, dall'estrazione alla

tipizzazione è stato monitorato attraverso controllo negativo e controllo

positivo”.

Per comprendere di cosa si stia parlando, riportiamo ancora le parole del

RIS: “Il controllo negativo (una mix di reazione priva di DNA), denominato

anche “bianco di reazione”, garantisce che durante tutte le operazioni di

laboratorio non si è patita alcuna contaminazione da DNA esogeno di

primati (operatore, apparecchiature, etc.), mentre il controllo positivo (mix

contenente DNA di ottima qualità e a sequenza nota) assicura il corretto

andamento delle reazioni in condizioni standard”.

Quanto rappresentato dovrebbe essere lo standard di riferimento di ogni

indagine scientifica in tema di DNA.

Inutile sottolineare come tale livello di attenzione massimo sia proprio

richiesto in considerazione dell'elevata “posta in gioco”. Gli esiti di una

indagine così condotta sono spesso a base di sentenze (normalmente

accompagnati, però, da altri elementi provanti) ove si commina un “fine

pena mai”.

Il mancato rispetto delle stringenti procedure enunciate, che solo

apparentemente potrebbero sembrare “richieste di lana caprina”, si

riverberano inevitabilmente sulla bontà del dato acquisito, risultato che la

comunità scientifica – forense, non può validare.

La Suprema Corte, seppur in ambito civile, in una vertenza sul

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riconoscimento di paternità ove il DNA come intuibile ha avuto un ruolo

centrale, si è espressa sul tema del mancato rispetto delle linee guida

internazionali in merito alle analisi del DNA e segnatamente l'utilizzo di kit

scaduti.

L'ordinanza in esame riconosce come fondamentale “il rispetto delle c.d.

linee guida di esecuzione delle indagini genetiche, così come dettate dalle

principali associazioni internazionali di esperti ed operatori della genetica

forense, sebbene non abbiano forza cogente, perchè non sono tradotte in

protocolli imposti dalla normativa di legge o di regolamento, costituiscono

regole comportamentali autoimposte da una gran parte di operatori e

studiosi della materia in ragione del progresso scientifico e della

delicatezza delle implicazioni che ne derivano” (Cass. Civ., Sez. VI -1,

03.08.2015, n. 16296).

Le irregolarità prospettate dalla Difesa, come vedremo non solo con

riferimento ai kit scaduti, ma anche alla mancanza di controlli positivi e

negativi per ciascuna indagine, invece ritenuta valida, appaiono

sostanzialmente ammesse anche nel caso de quo dalla Corte stessa che,

però, con un grave vizio motivazionale le ritiene ininfluenti, avendo

comunque consentito all'operatore di pervenire ad un risultato sempre

ripetuto nel tempo.

Circa l'utilizzo di polimeri scaduti, diversamente da come ritenuto dalla

Corte, lo stesso non può essere semplicemente tacciato quale mero “rilievo

di metodo” (questione di lana caprina, appunto) in quanto “la scadenza del

polimero viene fissata dalle case produttrici anche a fini commerciali

(tanto è vero che esiste un sistema di rivalidazione dei polimeri volto a

prolungarne il periodo di utilizzabilità), e che lo spirare del termine di

consumo non compromette l'analisi e, soprattutto, che l'eventuale cattivo

stato di conservazione del polimero non impedisce la reazione e da luogo

ad un profilo non leggibile, non a un profilo diverso da quello reale” (pag.

79 della sentenza).

Come detto, su tale punto, la sentenza è assolutamente carente in quanto dà

per avvenuta una procedura di validazione di cui non vi è prova in atti;

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dà, poi, per acquisito che l'apposizione di una data di scadenza sul polimero

sia dovuta a fini commerciali e dà, infine, per acquisito quale valido un

risultato che non sappiamo quale sarebbe potuto essere qualora fossero stati

utilizzati polimeri in corso di validità.

Comunque, la Corte con l'utilizzo della congiunzione “anche” (“anche a fini

commerciali”) presuppone che l'apposizione di una scadenza non abbia solo

fini commerciali. Ma, evidentemente, per la Corte questi sono preminenti

posto che nessun rilevo viene dato al dato.

Conseguenza che la scadenza ha anche meri fini commerciali è per la Corte

l'irrilevanza della stessa.

Nessun ragionamento a riprova di quanto affermato è stato offerto dalla

Corte con conseguente ulteriore vizio motivazionale sul punto.

Si ribadisce che la delicatezza dell'accertamento scientifico di che trattasi e

le implicazioni che da questo discendono hanno indotto la comunità

scientifica a redigere linee guida assai stringenti che, nel caso di specie,

benché la Corte ne affermi il rispetto, non sono state seguite.

Anche il gruppo dei genetisti forensi italiani ha recentemente approvato, in

data 9 giugno 2016, nel corso del convegno “Il DNA: la prova regina.

Qualità nell'analisi forense” indetto dal Ge.Fi. (genetisti forensi italiani) le

linee guida in tema di identificazione personale.

Quanto espresso poco sopra da questa difesa è assolutamente rispondente

alle prescrizioni citate.

La Difesa ha ottemperato al proprio onere di sollevare avanti la Corte gli

errori di chi ha effettuato l'indagine evidenziando, altresì, il mancato rispetto

di quelle che sono rimaste mere affermazioni di principio.

Anche lo stesso consulente di Parte Civile evidenzia come (pag. 60 verbale

udienza del 03.02.2016):

“Anche un kit scaduto – mi scusi Presidente – da qualche giorno, può

essere comunque utilizzato in laboratorio; o da qualche settimana,

può essere comunque utilizzato in laboratorio, sempre nel momento in

cui l'operatore in laboratorio verifichi la buona funzionalità del kit.”,

sempre sulla scadenza: “è una cosa da anche verificare”!

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Nel caso specifico, la scadenza dei kit utilizzati risaliva ad alcuni mesi e

relativamente ad alcune ripetizioni oltre l'anno.

Tale dato è riscontrabile dai cd. dati grezzi.

E nessuna verifica è stata fatta dall'operatore!

La non conformità dei controlli negativi delle amplificazioni del 25.10.2011

sulla traccia 31G20 (unica ripetizione apparentemente perfetta anche sotto il

profilo del rispetto delle linee guida) denunciata dalla difesa e “lungamente

dibattuta dalle parti in sede di discussione” per la presenza nel controllo

negativo di un picco che evidenzia una possibile contaminazione, è stata

dalla Corte giustificata in quanto “il consulente di Parte Civile dott. Portera

ha spiegato che la presenza in uno dei controlli negativi sul marcatore FGA

di un picco di altezza 88 rfu non inficia il risultato delle corse

elettroforetiche chiaramente interpretabili” (pag. 94 della sentenza).

A fronte dell'opinione di un consulente di parte, per quanto autorevole, ma

avente pari dignità dei consulenti di questa Difesa, ci si domanda come la

Corte abbia potuto, senza motivazione alcuna, preferire una opinione

piuttosto che l'altra dando comunque atto della presenza del picco

denunciato che, secondo le nuove linee guida della Ge.Fi. sopra la soglia di

30 rfu deve intendersi contaminazione.

Motivare una così grave anomalia (si rammenta che il picco in questione

presente nel controllo negativo che, diversamente e correttamente non

dovrebbe presentare alcun allele, è una caratteristica presente nel DNA

nucleare dell'imputato) sulla base delle parole di un consulente di parte

che reputa le corse elettroforetiche comunque chiaramente interpretabili,

lascia decisamente stupiti.

E' noto, infatti, come la singola variazione di una sola componente allelica

identifichi soggetti diversi!

In estrema sintesi, e per maggior chiarezza, un controllo negativo che 97

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dovrebbe, per definizione, restituire un elettroferogramma “piatto”, quindi

non contaminato, presenta, invece, un picco. E non un picco qualunque,

bensì un picco presente nel DNA dell'imputato!!! E si rammenti che tale

anomalia si riscontra proprio nella traccia ritenuta di maggior interesse

investigativo per la quantità e la purezza di DNA nella stesso rintracciato:

31G20!

Ma i problemi sul DNA nucleare non sono solo quelli attinenti per così dire

alla “forma” con cui si è ottenuto il risultato attribuito ad Ignoto 1.

Un'altra importante anomalia è stata stigmatizzata dalla Difesa all'esito della

consulenza fornita dai dottori Cattaneo e Piccinini che sono stati incaricati

dal P.M. di estrapolare il profilo genetico dalla salma del fu Giuseppe

Benedetto Guerinoni, onde stabilire una relazione di parentela, in particolare

di paternità, con Ignoto 1.

La paternità di Giuseppe Benedetto Guerinoni nei confronti del soggetto

definito come Ignoto 1, doveva ritenersi praticamente provata, ma non senza

difficoltà.

Infatti, nello studio di alcune particolari regioni relative al DNA nucleare, i

consulenti decidevano di aumentare il numero di marcatori in esame.

L'esito di detto studio restituiva, però, una ennesima anomalia, ossia la

presenza di un “picco inatteso” con riferimento al marcatore FES/ FPS del

cromosoma 15.

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La presenza dell'allele in questione negli esami condotti dai citati consulenti

si è verificato più volte ripetendosi nel suo apparire.

Come percepibile ictu oculi dagli elettroferogrammi allegati alla relazione

dei consulenti tecnici del P.M. e qui sopra riportati ed evidenziati, tale

presenza è inequivocabile ed è sicuramente riduttivo considerarlo un

semplice artefatto di reazione peraltro senza alcuna valida dimostrazione

scientifica.

Inspiegabilmente, la sentenza parla di “una incostanza di risultato che

faceva optare per un artefatto di reazione”.

Infatti, il dott. Piccinini, in dibattimento, così specificava:

“dicendo che c'è un picco inatteso, significa che in questa zona, che si

vede in tre diverse ripetizioni, è presente un allele nello spazio

bianco, compreso tra gli alleli attesi” (pag. 22 verbale udienza redatto

in forma stenotipica del 18.11.2016).

Il dott. Piccinini attribuisce la presenza del c.d. “picco spurio” ad un difetto

del kit (esplicitamente si ammette che un kit, peraltro in corso di validità, in

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sé può presentare dei “difetti” e, quindi, fornire risultati falsati dalla

presenza di artefatti. Figuriamoci cosa può accadere con kit scaduti!).

Come detto più volte questo è il processo delle anomalie che, però, a

seconda della necessità sono semplici artefatti oppure situazioni non visibili

unicamente, per citare ancora le parole del dott. Lago, perché “non usiamo

gli occhiali giusti”

Secondo l'Accusa e la sentenza, nel caso dell'allele sovrannumerario si

vede qualcosa che in realtà non c'è (altrimenti inficerebbe il risultato

del DNA nucleare), nel caso del DNA mitocondriale, non si vede

qualcosa che in realtà c'è (altrimenti inficerebbe il risultato del DNA

nucleare).

Quale logica possa consentire tale incostanza di ragionamento risulta del

tutto sconosciuta, se non quella di utilizzare unicamente ciò che conferma

l'assunto da dimostrare e svalutare o non considerare totalmente ciò che

contraddice l'assunto stesso.

Resta l'insormontabile problema che l'eventuale artefatto in questione,

secondo il “manuale d'uso” del kit utilizzato doveva posizionarsi tra N-12 ed

N-13 mentre, in realtà, si trova in posizione positiva.

Il contro esame del dott. Piccinini consentiva, poi, di confermare che

l'anomalia in questione era collocata in posizione positiva e non negativa,

inoltre in contrasto con quanto riportato dal manuale d'uso si

posizionava anziché tra gli alleli 12 e 13 tra il 13 e il 14.

Quindi in una regione diversa e nella quale non era assolutamente attesa la

possibilità di incorrere in un artefatto.

La conclusione che proprio di artefatto trattasi è, ancora una volta,

totalmente indimostrata nonché recepita de plano dalla Corte, nuovamente

in assenza di esaustiva motivazione.

In conclusione, sul punto, questa Difesa ritiene importante richiamare le

parole del dott. Piccinini rese in udienza, al fine di valutare l'attendibilità

dello stesso, atteso che, l'opinione del dott. Piccinini è stata recepita dalla

Corte.

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Ancora una volta, si preferisce il consulente di una Parte processuale senza

alcuna motivazione.

A pag. 38 del verbale di udienza del 18.11.2015 si legge:

“Quindi i picchi di bassa altezza, possono essere visti per i marcatori

LPL e Penta C in posizione N meno 1 e N meno 9 e N più 1 per F13B,

e N12, N meno 12 e N meno 13 al FES/FPS...”.

Alla successiva domanda della Difesa, in cui si evidenzia come l'artefatto di

cui si parli sia nella posizione positiva, quindi + numero, il consulente

Piccinini rispondeva:

“No, questo meno potrebbe anche essere semplicemente un trattino di

giunzione. Quindi non è necessariamente un meno. Mentre lo è N

meno1 ed N più1, questo N12 e N13 non è ...”.

Incredibile come il Consulente, nel giro di qualche minuto, possa aver

cambiato opinione solo per continuare a sostenere la bontà della tesi

dell'artefatto e ciò solo dopo essersi accorto dell'incongruenza sottolineata

dalla difesa.

L'incongruenza è di tutta evidenza e gli estratti del verbale di udienza

proposti dimostrano quanto l'assunto.

Valga, inoltre, una ultima considerazione considerando, quale logica

premessa, che ogni conoscenza umana è, per sua natura, incompleta e

soggetta a continui aggiornamenti.

Fino a pochi anni fa l'attribuzione di una traccia di DNA poteva avvenire

con un numero minore e limitato di marcatori.

Le cronache giudiziarie hanno, poi, ha dimostrato che seguendo tale

impostazione scientifica si poteva incorrere in false attribuzioni, quindi, via

via, si è incrementato il numero di marcatori necessari per consentire

l'individuazione di una persona.

Ora, anche nel caso di specie, si è andati a studiare delle ulteriori regioni

rispetto a quelle già esaminate, come se vi fosse bisogno per l'attribuzione

della traccia di una certezza ancora più certa, salvo, poi, però, disattendere il

risultato ottenuto perché anziché avvalorare l'ipotesi di partenza, ne

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stravolgeva gli esiti, tacciandolo come artefatto.

Ma questo, come abbiamo visto, è il leitmotiv dell'inchiesta e di tutto il

processo: quando il risultato non torna comodo, si fa finta di non

vederlo oppure lo si considera come una anomalia.

Tale atteggiamento non può certo essere accettato neppure da chi

rappresenta l'Accusa, benché parte.

Non può e non deve fondare una sentenza di condanna in assenza di risposte

esaustive sotto il profilo scientifico, accompagnate da un completo

ragionamento logico-giuridico.

Nel caso in esame, infatti, manca del tutto un valido supporto scientifico al

ragionare della Corte, così estrinsecandosi in tutta la sua evidenza il difetto

motivazionale della sentenza.

Catena di custodia e “lievitazione” delle provette.

L'ultimo argomento in tema di DNA, ma non per questo meno importate,

attiene a quella che questa Difesa ritiene essere la “prova provata” di una

catena di custodia dei reperti “gestita allegramente”.

In sede di discussione, infatti, la difesa sottolineava nuovamente quanto il

proprio consulente di parte, dott. Capra, aveva già esposto in sede di propria

audizione.

Nessuna domanda, in fase di contro esame, su tale specifico punto, era stata

proposta allo stesso né dal P.M., né dalle parti civili.

Quindi, l'argomento trattato in sede di arringa non era certo un argomento

nuovo.

Semplicemente, stante l'estrema difficoltà (rectius, impossibilità) di

screditare l'assunto difensivo, Pubblico Ministero e Parti Civili avevano

preferito non contro esaminare il consulente della difesa che evidenziava

quanto qui di seguito riportato la massima intelleggibilità (verbale udienza

del 3.2.2016, da pag. 163):

“CONSULENTE CAPRA – Come ultima parte, prima di fare le

conclusioni, rilevo quelle che sono alcune incongruenze che ho

potuto notare dalle consulenze tecniche svolte dal colonnello Lago e

dal RIS.

“Elenco dei reperti acquisiti dal RIS da Parma. Sono di seguito

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indicati i campioni a disposizione, i volumi e le concentrazioni degli

stessi. Le quantificazioni sono state prodotto utilizzando il kit Plexor,

commercializzato dalla Promega. Si osserva che i prelievi 31G1

esterno" campione fondamentale "31G1 interno e 31.18 sono stati

utilizzati per lo studio genetico dei tratti somatici. Mentre i prelievi

31G19 e 31G20 sono stati utilizzati per la tipizzazione del DNA

mitocondriale". Andiamo a vedere la tabella. Mi dà 31G1 esterno

12.700 picogrammi, 4.880 picogrammi maschile. 31G1 Interno 19 e

20, 18, 236, 136, 301, 179. 31G20, 2.530, 1.680. E poi c’è il

campione del reggiseno utilizzato come campione di riferimento. Il

problema è che queste concentrazioni di DNA, che sono fondamentali

per l’esecuzione di tutti i successivi accertamenti, che sono dei dati

che abbiamo visto che taluni hanno cercato di utilizzare, a mio avviso

non in maniera giusta, per stabilire se un campione era misto o non

era misto eccetera.

Sono completamente diversi da quelli che abbiamo trovato nella

tabella dei RIS. Si tratta della stessa provetta, dello stesso campione,

analizzato sempre dai RIS, e qui abbiamo 12.700, e originariamente –

che viene riportato più volte - avevamo 2500. Cioè questa provetta

qui improvvisamente ha avuto una concentrazione cinque volte

superiore rispetto a quella che c’era prima. Il DNA è lievitato, da uno

è diventato cinque. 2.500 e 1.000 di DNA maschile, diventa 12.700 e

4.880. E parimenti ci sono delle differenze, meno significative, non

certamente nell’ordine di cinque volte, come è avvenuto in questo

caso, anche per tutti gli altri campioni.

Ci possono sulle delle spiegazioni, perché a tutto ci può essere una

spiegazione. Il problema è che di queste spiegazioni non ho trovato

traccia in tutte le varie relazioni, o una giustificazione che potesse, in

qualche maniera, spiegare questa, che è una ulteriore anomalia molto

pesante. Ripeto, una stessa provetta, che ha una buona

concentrazione di DNA, non necessita di ulteriori problemi, che

improvvisamente dà un valore di uno, ho un chilo di DNA, la rimisuro

e ottengo cinque chili di DNA. È un qualche coso che,

oggettivamente, mi fascia assai perplesso.

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Quanto sostenuto dalla difesa e dal suo consulente è percepibile in tutta la

sua portata dal semplice raffronto delle due tabelle, che qui di seguito per

comodità si riportano, la prima redatta dal RIS, la seconda dal dott. Lago,

sul medesimo argomento – concentrazione del DNA – e, soprattutto, sulle

medesime provette.

La significativa variazione di concentrazione – vera è propria lievitazione –

appare evidente.

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Tale dato sbalorditivo è giustificabile se non con una violazione della

catena di custodia intesa, quale vera e propria manomissione oppure

esemplificativa di un grave errore.

Analizzando i risultati di quantificazione relativi alla traccia G1EXT e alla

traccia G20, ossia le tracce maggiormente rappresentative della presenza di

Ignoto 1, si vede come, relativamente alla prima, corrisponde inizialmente

una concentrazione di DNA totale pari a 2500 pg/ml e DNA, maschile pari

a 1000 pg/ml, lievitate successivamente a ben 12.700 pg/ml di DNA totale e

4.880 pg/ml di DNA maschile, ossia oltre cinque volte tanto.

Analogamente, tale lievitazione coinvolgeva anche la traccia G20.

La domanda posta da questa difesa a cui nessun consulente ha dato

risposta, benché fossero state sollecitate spiegazioni finalmente di natura

scientifica e non filosofica, è rimasta inevasa anche da parte della sentenza

che liquida l'assunto semplicemente come “privo di costrutto” (si veda

pag. 87 della sentenza) limitandosi ad evidenziare semplicemente come la

difesa non avesse posto domande in tal senso agli ufficiali del RIS.

Si sono volute riportare per intero le parole del dott. Capra in quanto veri

macigni sull'intera istruttoria dibattimentale liquidate con un

incommentabile: “privo di costrutto”!

Codesta Corte d'Appello dovrà porre rimedio a tale incredibile mancanza di

motivazione.

Dato l'insuperabile dilemma su come si sia potuto assistere ad una vera e

propria lievitazione della concentrazione in provetta del DNA, peraltro

come detto riferito alle tracce migliori, la Corte non poteva che proporre una

soluzione che partisse però da una premessa diversa e totalmente errata,

confondendo la concentrazione con la quantità.

Riportando qui di seguito l'esempio fatto in udienza, dalle tabelle sopra

riportate si evincerebbe “quanto è salato il brodo” non già di “quanto ve ne

sia nella pentola”.

Come è evidente, concentrazione e quantità sono due concetti

completamente differenti.

Continuando nell'esempio, estraendo un mestolo di quel brodo, diminuirà la

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sua quantità iniziale, ma la concentrazione dovrà restare sempre e comunque

la medesima.

Medesima con riferimento al brodo rimasto nella pentola, così come

medesima dovrà essere quella del mestolo estratto.

Fuor di metafora, qualora al dott. Lago fossero state consegnate unicamente

delle aliquote, come “suggerito” dalla sentenza, le stesse avrebbero

COMUNQUE dovuto avere la medesima concentrazione delle provette di

origine in possesso al RIS. Cosa che non è.

Evidente, quindi, come l'eccezione formulata dalla Difesa sia, ancora una

volta, rimasta senza risposta da parte della Corte.

Risibile, quanto, invece, addotto a motivazione sulla diversa concentrazione

dal Pubblico Ministero in sede di repliche, fortunatamente non recepito in

sentenza.

Dopo sette giorni (il tempo trascorso tra arringa e repliche del P.M.) di

quello che si immagina essere stato un frenetico confronto con i propri

consulenti, il P.M. in udienza ha solo potuto sostenere:

“E' normale, non è che le quantità sono lievitate, è stata rifatta la

quantificazione perché a distanza di mesi i volumi variano. Evapora

la parte acquosa ogni volta che si prendono le provette e si aprono,

l'acqua evapora, ne evapora una parte”.

Anche il Pubblico Ministero confonde, però, quantità con concentrazione,

parla, infatti, di volumi.

Questa difesa si domanda, poi, come possa anche semplicemente paventarsi

l'ipotesi di una evaporazione della componente acquifera della provetta,

posto che normalmente vengono conservate a temperature prossime a – 20°.

Qualora la possibilità di evaporazione fosse comunque ritenuta accettabile,

si ritiene di comune percezione come, in termini percentuali, l'eventuale

discostamento percentuale delle concentrazioni dovrebbe essere o irrilevante

o di poca significatività rispetto allo strabiliante dato che, invece, viene

rappresentato dalla tabella (500%).

Quindi, ed in conclusione, le osservazioni della Difesa portano unicamente a

tre possibili spiegazioni circa l'evidenza denunciata, entrambe tutte

sconvolgenti:

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• o si è aggiunto del materiale, così variando il dato di concentrazione e

quantitativo;

• o si è in presenza di una sostituzione di provette;

• oppure si è di fronte ad un ennesimo errore degli inquirenti, rilevato

da questa difesa, ma non riconosciuto né dalla Accusa né in sentenza.

La motivazione di tale ennesima anomalia resta – ad oggi - un mistero.

Ancora una volta, l'ipotesi più semplice, l'essere in presenza di un clamoroso

errore, non viene, senza motivazione, neppure presa in considerazione dalla

Corte.

Diversamente, ammettere l'errore, ingenererebbe il ragionevole dubbio sulla

bontà dei risultati conseguiti dal RIS, con la logica necessità di rifare

completamente l'indagine genetica, oltre ad ammettere la fallibilità di

consulenti che si è voluto, invece, far apparire infallibili.

La Difesa invoca, ancora una volta, risposte che spera possano arrivare

finalmente attraverso la concessione di una perizia super partes su ogni

aspetto del DNA che, come visto, lascia tutt'altro che sereni circa la

coerenza di risultati.

Che la catena di custodia sia stata violata lo dimostra, altresì, quanto già in

atti e parimenti stigmatizzato da questa difesa in sede di discussione finale.

L'elencazione delle seguenti date rilevabili dagli atti ufficiali della indagine

confermano con palmare evidenza l'assunto.

In data 22.09.2011, il dott. Lago veniva nominato consulente tecnico dalla

Procura di Bergamo.

In data 26.09.2011, al dott. Lago veniva conferito l'incarico consulenziale.

In data 28.09.2011, con il ritiro dei reperti, il dott. Lago iniziava le

operazioni peritali sugli estratti di DNA, quindi, proprio in questa data,

effettuava la prima e necessaria indagine sulle provette che gli vengono

consegnate, ossia la verifica dei volumi e delle concentrazioni.

Il 25.10.2011 il RIS effettuava le tre analisi sulla traccia 31G20, i cui

elettroferogrammi sono stati peraltro oggetto di produzione documentale

della Parte Civile.

Nella data indicata, però, le provette della traccia migliore e delle altre

affidate al dott. Lago, dovevano essere in possesso del consulente della

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Procura e non dei RIS.

La domanda che questa difesa si pone, ed ha posto anche in sede di arringa,

è come sia stato possibile per il RIS effettuare dette analisi quando la

provetta di fatto non era più nelle loro disponibilità essendo stata, appunto,

già consegnata al dott. Lago.

Quanto asserito da questa difesa trova conferma nella relazione di

consulenza tecnica del dott. Lago (pag. 4), in cui si legge:

e poi ancora (pag.5):

Dagli stralci riportati è inequivocabile come, parlando di “estratti di DNA” e

“prelievi 31-G1EXT … 31-G20”, non ci si possa che riferire alla loro

interezza, in assenza di qualunque indicazione contraria (sarebbe devastante

e sbalorditivo, in termini di valore della prova, anche il solo pensare che ci

siano quattro campioni G20!).

Sostenere che al dott. Lago sia stata consegnata solo una aliquota dei reperti

in questione, in assenza di documentazione alcuna che lo attesti ed in

presenza delle dichiarazioni di segno contrario riportate, appare

affermazione priva di riscontro nonché contraddittoria con le risultanze

processuali.

Qualora ciò fosse, comunque, avvenuto, verrebbe certificato dalla sentenza

un fatto ritenuto assolutamente normale, invece gravissimo e tale da

travolgere senza ombra di dubbio la bontà della prova.

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Non vi sarebbe, infatti, alcuna certezza circa la catena di custodia dei reperti

mancando la stessa degli indispensabili crismi della affidabilità e della

verificabilità.

Ogni passaggio di provette deve essere accertabile e certificato pena la non

utilizzabilità delle indagini effettuate per assoluta incertezza su chi ha che

cosa ed in quale momento. Tanto più in un caso come questo già di per sé

ricco di anomalie.

Nel nostro ordinamento è vigente dal 14.7.2009 la legge n. 85/2009 (di cui

si parlerà anche in seguito) che all'art. 12, comma 3, (“Deve essere, altresì,

assicurata la registrazione di ogni attività concernente i campioni”) prescrive

modalità tali da assicurare l'identificazione e la registrazione di ogni

operazione inerente il trattamento del DNA (Si veda anche P. Tonini,

Manuale di procedura penale).

In tema di prelievi di “campioni” lo stesso A. Piccinini – che nell'ambito del

presente procedimento è un consulente del PM. - in una sua pubblicazione

“Accertamenti genetico-forensi: raccolta dei campioni, analisi di

laboratorio, interpretazione dei risultati” ribadisce come anche la procedura

seguente al prelievo deve essere improntata a garantire la catena di custodia.

La continuità e la sua integrità deve essere verificabile in qualunque

momento.

Questa, peraltro, è la regola in tutto il mondo civile in tema di prova

scientifica.

Pertanto, la sentenza erra, ancora una volta, ove considera come premessa

indispensabile, ma non dimostrata, la consegna al consulente di una

semplice aliquota non dell'intera provetta, anche in considerazione che

mentre il RIS riferiva di indagare su quella provetta a Parma, il dott. Lago

analizzava la stessa a Firenze.

Dopo la lievitazione del DNA in provetta, abbiamo ora anche una

moltiplicazione delle provette!

In conclusione.

La sentenza, allo scopo di valorizzare il dato tecnico emerso dalle indagini

sul DNA nucleare eseguite su delega dai RIS (e, bene inteso solo quelle,

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sottolineando infatti in più punti nel contempo lo scarso valore degli

analoghi accertamenti sul DNA mitocondriale eseguiti in corso di

Consulenze Tecniche affidate dal Pubblico Ministero ad altri Esperti),

riferisce apoditticamente come le stesse analisi siano state eseguite nel

rispetto dei parametri elaborati dalla Comunità Scientifica Internazionale.

Ove non bastasse, quanto invece evidenziato nel dibattimento almeno circa

l’utilizzo di reagenti scaduti e la non osservanza in merito alla mancata

conformità dei, peraltro pochi (nonostante necessitasse la presenza di tanti

controlli quante siano le corse), controlli positivi e negativi eseguiti a

garanzia dei diversi passaggi analitici di laboratorio espletati.

Questa affermazione, è inaccettabile in quanto apodittica ossia priva di

qualunque validazione esterna e di alcun riscontro oggettivo, tanto più ove

si osservi come nel caso di specie si tratti di indagini di parte svolte senza la

garanzia di alcun contraddittorio.

Ma vi è di più.

Vi è l’evidenza infatti che tali indagini non solo non si possa sostenere

essere state effettuate nel rispetto dei parametri elaborati dalla Comunità

Scientifica Internazionale ma che bensì siano state eseguite in carenza di

standard di qualità in Italia legislativamente previsti e fissati in tema di

analisi e profili del DNA.

Tale aspetto non esaurisce la propria importanza sul piano tecnico ma

produce inevitabilmente effetti anche sul piano giuridico. Si rilevi infatti

quanto normato dalla Legge 30 giugno 2009, n. 85 pubblicata sulla G.U. n.

160 del 13/7/2009 – Suppl. Ordinario n. 108, entrata in vigore il 14 luglio

2009 (ossia, anni prima del possibile inizio di qualunque attività tecnica

inerente l’indagine di specie).

Tale Legge dello Stato Italiano, all’Art. 6 definisce in maniera non equivoca

cosa si debba intendere nel presente atto per “DNA”, “profilo del DNA”,

“campione biologico”, “reperto biologico”, “trattamento”, “accesso”, “dati

identificativi” e infine “tipizzazione”.

Ciò premesso, all’art. 11 vengono fissati ed indicati sia i parametri

riconosciuti a livello internazionale per assicurare l’uniformità dei dati

relativi ai profili del DNA (per favorire l’interscambio delle informazioni è

ovviamente necessario parlare la stessa lingua ossia considerare i medesimi

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elementi identificativi onde evitare di trovarsi nella condizione di dover

confrontare pere con mele), ma soprattutto lo standard di qualità richiesto ai

laboratori che intendono operare in tale campo, ossia la certificazione a

norma ISO/IEC (ciò in quanto gli standard ISO offrono garanzie

universalmente accettate ed in particolare lo standard ISO/IEC 17025:2005

costituisce evidenza che il laboratorio sia in grado di fornire prove o tarature

accurate e affidabili, contemplando requisiti più specifici per la competenza

tecnica e l’imparzialità in uno con i requisiti per la gestione del sistema della

qualità atti a garantirne l’affidabilità dei servizi).

Si noti quindi come all’Art.16 il legislatore abbia previsto e delimitato

l’oggetto di successivi provvedimenti attuativi, da redarre in base ai principi

e ai criteri direttivi della presente Legge, in riferimento a profili relativi atti

a disciplinare aspetti sostanziali in materia di tecniche e modalità di analisi

con esclusivo richiamo ai soli campioni biologici ritenendo implicitamente

già precisato quanto relativo invece circa gli indispensabili standard di

qualità per i reperti biologici (“…solo se tipizzati in laboratori certificati a

norma ISO/IEC.” Art. 11).

Ed infatti all’Art. 17 contempla al comma 1: “I profili del DNA ricavati da

reperti acquisiti nel corso di procedimenti penali anteriormente alla data di

entrata in vigore della presente Legge, previo nulla-osta dell’Autorità

Giudiziaria, sono trasferiti dalle Forze di Polizia alla Banca Dati Nazionale

entro un anno dalla sua entrata in funzione.” .

Il tenore non equivoco dell’espressione “acquisiti nel corso di procedimenti

penali anteriormente alla data di entrata in vigore della presente Legge”

considerato che la Legge in argomento è entrata in vigore il 14 luglio 2009 e

visto il Certificato prodotto nell’Udienza del 30/10/2015 circa

l’accreditamento del laboratorio del RIS di Parma avvenuto solo a partire

dal 16/4/2014 dimostra inequivocabilmente come per la Legge italiana tale

profilo di DNA non possa essere considerato valido strumento di indagine

nemmeno per la ricerca in Banca Dati stante la carenza dei necessari

requisiti di affidabilità e qualità. E ora si vorrebbe addirittura considerare

all’interno di questo Procedimento come principale se non unica fonte di

prova in termini di attribuzione personale e responsabilità penale, questo

profilo del DNA acquisito peraltro si ribadisce ancora una volta senza alcun

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contraddittorio.

La sentenza impugnata pretende poi di far dire alla Scienza cose che la

stessa è impossibilitata a sostenere.

Pretende di considerare scientificamente acclarato che la presenza del DNA

di un soggetto su di un reperto sia prova di un avvenuto contatto diretto,

ignorando totalmente il tema della facile trasferibilità, anche secondaria e

terziaria, del materiale genetico.

Pretende addirittura che la presenza del DNA di un soggetto su di un reperto

permetta di collocare quel soggetto sul luogo e al momento della

commistione di un crimine, ignorando totalmente la non databilità e

modalità di deposizione di qualunque evidenza genetica. In qualunque

ricostruzione di un fatto criminale bisogna tenere ben presenti i limiti

dell’analisi del DNA ossia principalmente la non possibilità di stabilire

l’epoca e la modalità di deposizione di una evidenza biologica soprattutto

quando non sia nota la natura della stessa (Ematica ? Spermatica ?

Salivare ? Epiteliale ?).

E’ necessario quindi considerare anche le caratteristiche intrinseche di tale

molecola biologica, ossia la sua estremamente facile trasferibilità, anche

mediata (trasferimento secondario e terziario), sia a livello di substrato

biologico “completo” (cioè come naturale fluido/materiale organico) che

come semplice elemento genetico (nuda catena di DNA, il cosiddetto “DNA

libero”, di provenienza naturale e quindi completo oppure da

contaminazione di laboratorio, il cosiddetto “DNA artificiale” e quindi

incompleto).

Nel caso di specie ci troviamo di fronte come più volte ribadito dalla

Pubblica Accusa, ad una traccia abbondante e non degradata.

Tale traccia abbondante e non degradata tuttavia non era assolutamente

visibile, neppure alle più sofisticate luci forensi utilizzate invano dai RIS.

Questa traccia abbondante e non degradata non è stata tuttavia caratterizzata

quanto alla sua riconducibilità ad uno specifico fluido o materiale biologico.

Per la prima volta dall’avvento nelle Aule di Giustizia della Prova Genetica

ci troviamo di fronte ad una evidenza abbondante e non degradata ma di cui

si sconosce l’origine.

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E’ una traccia abbondante e non degradata ma ciò nonostante viene

consumata interamente per l’espletamento di indagini delegate e senza

contraddittorio alcuno.

E’ abbondante e non degradata ma mostra fin da subito evidenti anomalie

inspiegate (allele sovra-numerario o artefatto al marcatore FES/FPS,

incostanza negli esiti di tipizzazione, variazioni nella concentrazione del

DNA all’interno di medesime provette, natura ora mista ora a singolo

contribuente per una stessa campionatura e così via).

E’ abbondante e non degradata e viene attribuita ad un determinato

Soggetto, l’odierno Imputato, ma sorpresa, ennesima aporia, si scopre che in

tale traccia a Lui asseritamente ricondotta non è presente il suo DNA

mitocondriale e c’è invece quello di un altro soggetto sconosciuto.

E’ un fatto mai accaduto scientificamente.

Ne chiediamo ragione.

Ci viene data una risposta filosofica.

Ci viene infatti detto che è come andare su Marte, che forse siamo stati

sfortunati, che vediamo la realtà attraverso le lenti di occhiali e magari

cambiando gli stessi….

Chiediamo ancora una volta, per trovare una qualche spiegazione razionale,

che ci vengano messi a disposizione i dati grezzi relativi alle analisi del

DNA eseguite.

Gli stessi ci vengono forniti, dopo lunga attesa, largamente incompleti e solo

a rate.

Chiediamo allora ripetutamente che ci venga data la possibilità di visionare i

reperti e ci viene negata.

Chiediamo quindi ripetutamente che ci venga data la possibilità di studiare i

fogli di lavoro relativi alle indagini sul DNA espletate e ci viene respinta.

Formuliamo infine richiesta di Perizia, certi che indagini nel contraddittorio

ci avrebbero restituito esiti condivisi come già accaduto relativamente alle

analisi biologiche sul furgone e su altri beni sequestrati all’Imputato e alla

sua famiglia ma anche questa ultima richiesta ci viene rigettata.

In conclusione, la scrivente difesa, richiamando la specifica impugnazione

dell'ordinanza che l'ha ingiustamente respinta, rinnova, chiedendo la

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rinnovazione del dibattimento sul punto, la sotto riportata

RICHIESTA di PERIZIA

in tema genetico-forense

volta a risolvere le seguenti questioni che, né il dibattimento né la sentenza,

ad oggi, hanno saputo definitivamente chiarire, indispensabili ai fini della

decisione, ed effettuare le seguenti attività:

• ispezionati gli indumenti in reperto ed i campioni biologici (tamponi

cutanei, margini ungueali, etc.) prelevati in corso di autopsia, che a questa

difesa ad oggi nonostante ripetute richieste è stato impedito di fare, dica il perito

se sugli stessi sia possibile rinvenire tracce biologiche attribuibili a Massimo

Giuseppe Bossetti relativamente ai profili genetici nucleare e mitocondriale e ne

specifichi altresì la natura (ematica, spermatica, salivare o tricologica);

• esaminati i campioni biologici di riferimento prelevati da diversi

tessuti del cadavere di Yara Gambirasio determini il perito dagli stessi il profilo

genetico nucleare e mitocondriale e dica in particolare se in quest’ultimo sia

ravvisabile eteroplasmia, indicandone eventualmente il grado e le rispettive

caratteristiche;

• esaminati campioni biologici di riferimento prelevati da diversi tessuti

dell’imputato Massimo Giuseppe Bossetti determini il perito dagli stessi il

profilo genetico nucleare e mitocondriale e dica in particolare se in quest’ultimo

sia ravvisabile eteroplasmia, indicandone eventualmente il grado e le rispettive

caratteristiche;

• analizzati tutti gli estratti di DNA in cui è stato ravvisato il profilo

genetico di Ignoto1, dica il perito quanti profili genetici di soggetti diversi sia

possibile identificare e in particolare se i genomi di Yara Gambirasio e

dell’imputato siano presenti nella loro interezza (profilo nucleare e

mitocondriale) e se i contributi biologici di ulteriori soggetti siano rinvenibili;

• all’esito dei risultati ottenuti accerti il perito se sulle tracce analizzate

siano rinvenibili il DNA nucleare e mitocondriale di tutti i contributori presenti

e, in caso negativo, fornisca spiegazione scientifica di quanto rilevato;

• effettui il perito l'analisi del DNA mitocondriale dagli estratti di DNA

ottenuti dai guanti della vittima, che hanno dato origine ad un profilo maschile

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(campione 52439-02-005 Pollice D - anche definito Reperto 5 tr 5D Uomo#1

relazione Polizia Scientifica) e femminile (campione 52439-02-005Medio F -

anche definito Reperto 5 tr 5F Donna#1relazione di cui sopra) e confronti i

mitotipi con quelli ottenuti dal dott. Previderè e dalla dott.sa Grignani nella loro

relazione datata 5 gennaio 2015 relativa alle formazioni pilifere rinvenute sul

cadavere di Yara Gambirasio ed in prossimità dello stesso, nonché con quello

rinvenuto nella traccia 31G20;

• effettui il perito l'analisi del DNA mitocondriale del reperto 6 tr 6A-

6C Uomo#2 (salviettina rinvenuta nel corso del sopralluogo) e confronti i

mitotipi con quelli ottenuti dal dott. Previderè e dalla dott.sa Grignani nella loro

relazione datata 5 gennaio 2015 relativa alle formazioni pilifere rinvenute sul

cadavere di Yara Gambirasio ed in prossimità dello stesso, nonché con quello

rinvenuto nella traccia 31G20.

Si chiede che le analisi di cui sopra vengano effettuate con le metodiche più

avanzate oggi disponibili tra quelle riconosciute dalla comunità scientifica

(a titolo esemplificativo, la tecnologia NGS citata dal dott. Casari) e da

laboratori in possesso dei requisiti di accreditamento richiesti dalla

normativa sia nazionale che internazionale per la validazione e gli scambi

dei dati genetici.

Non vi era e non vi è ragione per non ammettere una perizia, dirimente in

ordine alle anomalie evidenziate, rimaste senza risposta, come già

denunciato dal Tribunale del Riesame di Brescia.

La Corte ha dimostrato di non essere dotata degli strumenti processuali

necessari per l'apprezzamento del problema nella sua interezza, così

pervenendo a valutazioni lontane dagli stringenti criteri di razionalità e

verificabilità che il processo richiede.

L’utilizzo di leggi scientifiche per ricostruire i fatti da cui dipende la

decisione sulla res iudicanda non trova nel diritto processuale una sua

specifica regolamentazione, ma - com’è noto - il codice di rito penale

prevede un apposito mezzo di prova - la perizia - destinato ad “essere

ammesso” «quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni

che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche»

(art. 220, comma 2).

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La formula verbale «è ammessa» impone subito un primo rilievo: essa

denota che, laddove debbano entrare in gioco «competenze» del suddetto

genere - e ricorrano, oltre che le generali condizioni per l’ammissibilità

d’ogni mezzo istruttorio (non illegittimità, non manifesta superfluità, non

manifesta irrilevanza), certamente sussistenti nel caso in esame, quella,

peculiare, integrata dalla occorrenza dell’intervento da parte del ”testimone

esperto” - il disporre la perizia - se del caso, anche d’ufficio (v. artt. 224,

comma 1, e 508, comma 1, c.p.p.) - costituisce per il Giudice un vero e

proprio obbligo: in simile fattispecie, non gli è consentito ricorrere ad una

sua propria “scienza privata”, soprattutto a fronte di anomalie tanto evidenti

quanto complesse e discusse, tanto da non aver avuto risposte esaustive e

convergenti da parte dei numerosi luminari in materia che sono stati sin qui

esaminati in dibattimento.

Diversamente, verrebbe a mancare il metodo dialettico nell’istruzione

penale, che costituisce il principale e costituzionalmente garantito strumento

a disposizione dei soggetti processuali per potere sindacare le modalità

d’utilizzo della prova scientifica e valutarne i risultati.

Infatti, a tale scopo, viene prescritto al Giudice di formulare i quesiti «sentiti

il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti»

(art. 226, comma 2, c.p.p.); ed ai consulenti tecnici vengono conferiti i diritti

di «partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche

indagini e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve».

Inoltre il contraddittorio ha modo d’esplicarsi, nella sua piena valenza di

strumento per controllare la prova scientifica, nel contesto del procedimento

probatorio deputato a far raccogliere le conclusioni peritali: nel

dibattimento, “l’ausiliare esperto”, citato a comparivi d’ufficio o su richiesta

di parte (v. artt. 468, comma 1 e 5,c.p.p.) per «esporre il suo parere» (art.

508, comma 1, c.p.p.), è escusso osservando «le disposizioni sull’esame dei

testimoni, in quanto applicabili»; cosicché - ove ciò avvenga - quella

particolare forma del metodo dialettico che è la cross-examination costituirà

il miglior modo per saggiare nella fattispecie la competenza del perito e la

validità delle sue deduzioni.

Nel presente dibattimento sono stati sentiti numerosi consulenti, acquisiti i

rispettivi elaborati, spesso in contraddizione fra loro (anche e soprattutto tra

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i consulenti introdotti dall'accusa pubblica e privata) e persino con le proprie

relazioni, senza tuttavia giungere, come già detto, a conclusioni univoche,

lasciando inalterati dubbi ed anomalie, peraltro già evidenti ed evidenziati,

anche dall’A,G., nella fase cautelare e delle indagini preliminari.

Dall'esame degli atti processuali risultano evidenti numerose anomalie e

contraddittorie posizioni dei vari consulenti, sia relative agli accertamenti

che ai conseguenti risultati diretti ad individuare i contributori delle tracce

genetiche quali quelle individuate su slip e leggins della vittima, nella loro

interezza biologica.

Nello specifico, la caratterizzazione genetica di Ignoto1 derivante dalla più

volte richiamata traccia 31G20 risulta effettuata tramite estrazione di fluido

biologico dal reperto denominato 31 (slip).

La presenza del detto fluido biologico è stata accertata solo grazie ad una

analisi a campione del tessuto dell'abbigliamento intimo in quanto le

precedenti ispezioni visive, con e senza ausili strumentali, non avevano

consentito alcuna evidenza, il che appare quantomeno singolare se soltanto

si pensa alla materialità del fatto, ossia alla possibilità, alquanto

improbabile, che il rilascio di materiale biologico attribuibile ad Ignoto 1

possa essere avvenuto in maniera così impercettibile ed in un solo punto

determinato, senza interessare alcuna zona circostante o comunque altre

parti degli indumenti e del corpo della vittima, specie se si considera che il

taglio degli slip e la relativa ferita che si sarebbe procurato il responsabile

non possono che essere avvenute prima almeno delle lesioni al collo ed ai

polsi, logicamente da ritenersi quelle conclusive.

Proprio le modalità di prelievo a campione non consentono di escludere che

sul reperto siano presenti ulteriori tracce biologiche meritevoli di analisi

(analisi potenzialmente in grado di risolvere le aporie oggi in essere).

Le tracce esaminate (31G20 in primis), nonostante le metodiche utilizzate

nel periodo di analisi fossero le migliori e le più innovative (si veda

relazione RIS pag. 8 – Sperm hy liter plus, kit in grado di individuare un

singolo spermatozoo) non hanno neppure permesso di determinare il fluido

biologico da cui si è tratta la caratterizzazione di Ignoto1 escludendo in via

di pratica certezza (3 differenti test) la presenza di liquido seminale (cfr.

deposizioni CT Lago, Staiti e Gentile sul punto).

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La sentenza qui impugnata merita totale censura laddove definisce incerto

tale risultato, che invece offre l’unica certezza processuale non in

contestazione, nemmeno fra consulenti: la traccia rinvenuta non ha natura

spermatica!

Nel corso del dibattimento, con l'acquisizione (peraltro incomprensibilmente

ed inammissibilmente in modo disordinato e rateale, dopo aver assicurato a

verbale che la prima produzione fosse completa) dei cosiddetti raw data, è

stato acclarato che la tipizzazione del profilo genotipico di Ignoto1 è

avvenuta con un percorso caratterizzato da difficoltà e tale da porre seri

dubbi circa l’univoco risultato scientifico che una simile analisi

forzatamente necessita tra cui, in primis, problemi di interpretazione

(elettroferogrammi privi di risultato o con risultati non utilizzabili) e di

metodologia (utilizzo di kit scaduti da svariati mesi mai convalidati controlli

positivi e negativi evidenzianti contaminazioni ed inquinamento delle

tracce), nonché gravi carenze di attendibilità, a causa della mancanza in

concreto di valide ripetizioni, da intendersi alle medesime condizioni,

dovendosi, al contrario, non ritenerle tali (è noto come il metodo scientifico,

per essere validato, esiga che l'esperimento sia ripetuto alle stesse condizioni

e comunque sempre ripetibile).

I problemi di interpretazione citati sono stati evidenziati non solo dai

genetisti consulenti della difesa ma, significativamente, anche dal genetista

consulente della parte civile, che ha definito alcuni esami come “non

promossi”, con riferimento a tracce ritenute di assoluta importanza

nell’ipotesi accusatoria, che pertanto non possono essere ritenute probanti.

Particolare rilievo, come evidenziato dal consulente dott. Capra (già vice-

comandante RIS…) nel corso del suo esame, per la gravità della stessa,

assume la difformità dei quantitativi di estratto presenti nelle provette

correlate alla traccia certamente più importante, la cui unica razionale

spiegazione può essere indicata nella confusione/sostituzione delle stesse

(con le evidenti immaginabili conseguenze sulle risultanze delle analisi),

come risulta dalla comparazione dei dati, palesemente difformi, contenuti

da una parte nella CT RIS (pag.212) e, dall'altra, nella CT Lago (pag.5).

Inoltre, in nessuno dei campioni analizzati e geneticamente attribuiti ad

Ignoto1 è mai stata osservata la presenza di una componente fondamentale

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del corredo genetico di ciascun individuo, ossia il DNA mitocondriale

dell'odierno imputato.

Sia nelle consulenze presentate dall'accusa che nel corso del dibattimento

sono state ipotizzate giustificazioni teoriche tese a spiegare, in maniera

comunque generica e non ancorata alle risultanze del caso concreto, detta

assenza, ma in nessuna consulenza ed in nessuna della audizioni dei periti è

mai stata considerata applicabile al caso concreto oggi in esame una sola di

dette motivazioni teoriche.

Sperimentalmente, esclusa l'identità mitocondriale di vittima ed imputato, il

tentativo di ipotizzare a giustificazione della anomalia riscontrata la

presenza di liquido spermatico, viene a scontrarsi con le conclusioni della

perizia del Ris che, sul punto, risulta di evidente determinazione “appare

irragionevole pensare di associare ad un eventuale “falso negativo” su un

test diagnostico un profilo genotipico straordinariamente di “ottima qualità”

come è quello, ad esempio, relativo al campione suddetto”.

In altri termini, se vogliamo considerare valido il risultato genetico,

dobbiamo considerare valido l'esito negativo allo sperma.

Differente valutazione sarebbe scientificamente irragionevole.

La Corte di Cassazione, pronunciandosi in sede cautelare, lungi dal

censurare la presenza delle numerose anomalie riscontrate e denunciate, che

invece ha espressamente confermato esistere riconoscendo al Tribunale del

Riesame di “essersi fatto onestamente carico dell’incongruenza riscontrata”,

si è limitata ad eccepire l’impossibilità di intervenire nel merito per le

preclusioni che attengono la fase di legittimità, senza pertanto pronunciarsi

né in un senso né nell’altro, fermo restando il minor rigore probatorio della

fase cautelare.

Quanto alla clamorosa anomalia relativa al MtDNA, se, come appreso, il

DNA nucleare consente l’identificazione del contributore è altrettanto vero

che DNA mitocondriale consente, a dispetto di quanto esposto in sentenza,

di escludere non soltanto il singolo contributore ma l’intera linea materna

che condivide la medesima sequenza, con la conseguenza che l’assenza in

una traccia del DNA mitocondriale di una persona esclude non soltanto

questa ma anche tutti coloro che con la stessa persona condividono la linea

materna.

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Non può che richiedere pertanto spiegazione scientifica il fatto che la stessa

cellula fornisca dati in palese contraddizione tra di loro in punto di

inclusione da un lato ed esclusione dall’altro.

Tale gravissima anomalia merita risposta scientifica, in mancanza della

quale l’intero accertamento non può avere alcun valore individualizzante.

Non può essere opposta la difficoltà di accertamento del DNA mitocondriale

su traccia mista, per il semplice fatto che le tracce di maggiore interesse

(31G19 e 31G20) sono state inequivocabilmente definite a contribuzione

singola sia nella consulenza tecnica RIS (pag. 214) sia dal CT dott. Portera

più volte nel corso dell’esame dibattimentale (pag. 24, pag. 49 verbale

udienza del 3.2.2016) e dai consulenti Staiti e Gentile (pag.144 verbale

udienza del 6.11.2015) e dal dott. Capra (pag. 181 verbale udienza del

3.2.2016), senza possibilità di accettare che retromarce di comodo (dott.

Capra escluso) possano trovare spazio diverso dalla totale perdita di

credibilità generale.

L’evoluzione della scienza consente oggi di disporre di strumenti di analisi

più affidabili ed in grado di dare le risposte scientifiche che si chiedono.

Inoltre, l’accertato utilizzo di kit scaduti (come rilevabile dai dati forniti dal

RIS in corso di dibattimento alla voce “polymer expiration date”) da diversi

mesi (in alcuni casi anche oltre l’anno), in assenza di procedure di

validazione da parte della casa produttrice, pone ulteriori dubbi circa

l’affidabilità delle analisi compiute, che soltanto per questo motivo meritano

di essere ripetute con strumenti perfettamente funzionanti, all'avanguardia e

rispondenti alle normative in materia (UNI CEI EN ISO/IEC 17025 -

Requisiti generali per la competenza dei laboratori di prova e di taratura).

Vista la più volte ripetuta straordinaria quantità di DNA rinvenuto sugli

indumenti (peraltro in traccia invisibile...), appare logico credere e ritenere

che, soprattutto per il fatto che si procedeva contro ignoti, siano stati

conservati adeguatamente i campioni ed i relativi estratti, al fine di

consentire successive ripetizioni in contraddittorio (cfr. sentenza C. Cass. II

n. 2476/14 sulla necessità della corretta conservazione dei supporti recanti le

impronte genetiche, ai fini della ripetibilità degli accertamenti tecnici capaci

di estrapolare il profilo genetico), anche per le necessarie verifiche in

giudizio, in quanto un risultato di prova scientifica può essere ritenuto

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attendibile solo se controllato dal Giudice.

La Suprema Corte (cfr. sentenza C. Cass. V - n. 36080/15) ha

categoricamente ammonito del fatto che “al fine di fugare ogni possibile

equivoco, varrà poi considerare che all'impossibilità di attribuire

apprezzabile rilievo dimostrativo, in chiave processuale, ad esiti di indagini

genetiche non ripetute e divenute insuscettibili di ripetizione, per esiguità o

complessità del campione, non è dato ovviare mediante il richiamo

all'efficacia ed utilizzabilità degli accertamenti tecnici "irripetibili", ove,

come nel caso di specie, siano state osservate le garanzie difensive di cui

all'art. 360 cpp (nel caso che ci occupa NON sono state neppure rispettate,

riocorrendo alla delega di indagine....!). Ed infatti, le indagini tecniche cui si

riferisce la menzionata norma processuale sono quelle che - per perspicua

formulazione positiva - riguardano "persone, cose o luoghi il cui stato è

soggetto a modificazione", insomma situazioni di qualsiasi tipo o genere

che, per loro natura, sono mutevoli, sicché si rende necessario cristallizzarne

senza indugio lo stato già nella fase delle indagini preliminari, per tema di

irriducibili modificazioni, con esito che, nel rispetto delle forme di rito, è

destinato ad essere utilizzato anche in sede dibattimentale.

Ciò è consentito in quanto l'accertamento da compiere, pure in caso di

impossibilità di ripetizione per modifica della cosa da periziare, è capace di

evidenziare realtà "compiute" od entità dotate di valenza dimostrativa. Nel

caso di specie, nonostante l'osservanza delle forme di cui all'art. 360 codice

di rito, (si ripete, nel caso che ci occupa NON sono state neppure osservate!)

il dato acquisito - non ripetuto o non suscettibile di ripetizione per una

qualsiasi ragione - non può assumere rilievo nè probatorio nè indiziario,

proprio perché, secondo le menzionate leggi della scienza, necessitava di

validazione o falsificazione.

Insomma, nell'un caso il dato empirico, tempestivamente "fotografato",

assume significatività dimostrativa; mentre nell'altro è privo di siffatta

capacità, proprio perché la sua valenza indicativa è indissolubilmente legata

alla sua ripetizione o ripetibilità”.

Detto principio, se applicato al caso in esame, lascia pochi dubbi circa il

fatto che, in mancanza di verifica in contraddittorio, nessun valore può darsi

al dato scientifico offerto dall’Accusa, unilateralmente ricavato e reso, che

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bisognerebbe acquisire con atto di fede incondizionato, che gli inquirenti,

esperti e non, hanno dimostrato di non meritare.

Il valore del risultato genetico nel processo.

Un'indagine genetica che giunge a risultati discutibili e contraddittori, non è

perfetta ed incontestabile, sicché non costituisce prova e neppure indizio, ma

solo elemento "suscettivo di valutazione" nel processo.

Il principio della necessaria correttezza metodologica nelle fasi di raccolta,

conservazione ed analisi dei dati biologici, tali da preservarne integrità e

genuinità, come necessario presupposto della successiva valenza

processuale dei relativi esiti - sia che ad essi si assegni portata probatoria (in

termini di certezza dell’identificazione della persona), sia che si conferisca

loro portata indiziaria (in termini di compatibilità) trova giustificazione nella

stessa nozione di indizio offerta dall’art. 192 comma 2, c.p.p. .

In effetti, i connotati della gravità, precisione e concordanza, richiesti al fine

di far assurgere un elemento processuale alla dignità di indizio, si

compendiano nella c.d. "certezza" dell'indizio, quale garanzia che la

procedura con la quale si perviene alla dimostrazione del tema di prova -

fatto ignoto - partendo da un fatto noto e, dunque, accertato come vero, non

sia viziata in nuce da fallacia ed inaffidabilità metodologica avendo preso le

mosse da premesse fattuali non precise e gravi e dunque certe.

Pertanto, il dato di analisi genetica, se incerto e contraddittorio, come nel

caso in specie, non può dirsi dotato dei caratteri della gravità e della

precisione, sia in ipotesi di identità, che di mera compatibilità con un

determinato profilo genetico, a tale dato non potendosi riconnettere

rilevanza alcuna, neppure di mero indizio.

Esso può costituire un dato processuale, che, ancorché privo di autonoma

valenza dimostrativa, è comunque suscettivo di apprezzamento, quanto

meno in chiave di mera conferma, in seno ad un insieme di elementi già

dotati di soverchiante portata sintomatica, mentre nel caso in esame giacce

nel deserto probatorio/indiziario più assoluto.

Di certo l’indizio incerto non può trasformarsi in prova certa per via della

sua posizione, come affermato (sino alla nausea…) dalla sentenza qui

impugnata.

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Una prova genetica contraddittoria, addirittura introvabile in natura, perde

magicamente ogni anomalia solo per il fatto che si trova sugli slip e non

altrove… niente di più illogico ed insostenibile!

In breve, la Corte ritiene che debba intendersi provato il coinvolgimento

dell’imputato nell’azione omicidiaria, assumendo come premesse non solo

l’esito delle indagini genetiche ma anche e soprattutto il tipo degli

indumenti e la posizione della traccia. La collocazione, in particolare, viene

qui a costituire non solo termine di comparazione per “annichilire” le piste

alternative ma anche per giustificare l’inconsistenza delle spiegazioni

alternative di quel rinvenimento.

In tal senso, il Giudice ci dice che la collocazione dei profili genetici

rinvenuti sui reperti (riferiti a Silvia Brena, Uomo 1, Uomo 2 e Donna) li

rende incomparabili con quello dell’imputato, rinvenuto in luogo ben più

significativo ed indicativo non già di contatto o di una contaminazione

casuale ma del suo coinvolgimento nell’omicidio.

Comune a tutto l’impianto argomentativo è la conclusione cui perviene la

Corte secondo cui “vista la collocazione, il DNA ha nel caso specifico

valore di prova e non di semplice indizio”, conclusione che logicamente ci

fa comprendere come, una collocazione diversa, avrebbe degradato a

semplice indizio quella che oggi ci viene spacciata per prova!

La collocazione finisce così per costituire il tramite per compiere l’ultimo

salto logico per affermare la colpevolezza dell’imputato: si passa dal

rinvenimento della traccia all’attribuzione della stessa (passaggio, peraltro,

senza alcuna legittima prova), per poi spingersi, per il tramite della

collocazione, dall’attribuzione al contatto e approdare, infine, alla prova del

coinvolgimento nell’omicidio.

Non c’è bisogno di scomodare la logica per rilevare, in questo rocambolesco

percorso a salti, un’argomentazione fallace con la quale l’accusa pretende di

passare dalla prova della traccia alla prova della colpevolezza, con buona

del ragionevole dubbio!

Come dire che è sufficiente un elemento con caratterizzazione statica, come

la collocazione/posizione della traccia, per giustificare l’assenza della

minima motivazione della Corte in relazione alle ipotesi alternative e

pervenire ad inferire (da quell’elemento statico) il coinvolgimento

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nell’azione omicidiaria e quindi un elemento fondante il reato, la condotta,

di per sé fisiologicamente dinamico. Ora, non si vede come si possa inferire

da elementi statici l’evidenza di elementi dinamici senza l’adeguato

supporto di ulteriori elementi dinamici che giustifichino siffatta operazione

logica.

Limitarsi poi ad affermare che nessuna spiegazione, se non quella del suo

coinvolgimento nell’omicidio, è in grado di giustificare la presenza del Dna

di Bossetti, costituisce una petitio principii perché assume come dimostrato

(che non ci siano altre giustificazioni) ciò che dev’essere provato, ovverosia

l’inconsistenza di queste ipotesi alternative.

Ma non solo: in quel “nessuna spiegazione” si rinviene la cifra

dell’argomentazione motivazionale della Corte che, nel suo procedere

selettivo, rimuove dal proprio percorso argomentativo tutto ciò che

evidentemente potrebbe attenuare la propria ipotesi di “colpevolezza a

priori”: insomma, Massimo Giuseppe Bossetti è colpevole a priori ed è

quindi inutile spendere la benché minima motivazione sulle possibili ipotesi

alternative come quelle di un “semplice contatto” o “contaminazione

casuale”.

Queste ipotesi non sono degne di alcuna spiegazione, non sono degne di

alcuna giustificazione, non appartengono al tema decisionale, non sono

degne di alcuna motivazione. Non si può dire quindi che nessuna

spiegazione sia in grado di giustificare la presenza del DNA di Bossetti

(espressione che quantomeno rimanderebbe all’esame, risultato ad esito

negativo, su alcune ipotesi alternative) ma, semmai, che non è neppure il

caso di esaminare e motivare.

Né si può ritenere come motivazione l’enunciato con il quale la Corte

afferma che il cadavere è stato rinvenuto all’interno di un campo, in cui per

tre mesi i) nessuno, compreso l’imputato si è mai addentrato, ii) il profilo

genetico di Bossetti non era mai stato estrapolato in nessun laboratorio e

dunque non è dato comprendere come possa essersi depositato sugli slip

della vittima se non al momento dell’omicidio.

Anche questa argomentazione non contiene alcuna seria espressione

motivazionale non essendo in alcun modo provata nessuna delle circostanze

in essa espresse, non essendoci peraltro riscontri oggettivi che possano

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escludere la prima o includere la seconda.

Per altro verso questa difesa non può esimersi dal rilevare che, eventuali

ipotesi alternative, non debbano avere la medesima valenza dell’ipotesi

proposta dall’accusa e che, in conseguenza, la collocazione di alcuni profili

genetici in luoghi meno significativi non può certo autorizzare la Corte a

mancare di dare adeguata motivazione che giustifichi l’inconsistenza di

siffatte ipotesi.

Anche sotto questo riguardo la decisione dell’assise dev’essere radicalmente

censurata per omessa motivazione in relazione alle spiegate ipotesi

alternative; del resto, non può certo ritenersi rispettosa dei canoni

motivazionali imposti dalla normativa processuale, l’essersi limitata a

rilevare che tutti questi ulteriori profili sono tuttora ignoti, eccetto quello

estrapolato dalla manica del giubbotto della Brena.

La sentenza qui impugnata incorre in grave vizio di motivazione, nel

momento in cui si limita, senza assumere un giudizio proprio, ad elencare le

risultanze dibattimentali, esponendo i pareri dei CT esaminati, ma senza

dare ragione del proprio convincimento nell’accogliere l’una piuttosto che

l’altra tesi.

Le anomalie evidenziate dalla difesa, pacificamente riconosciute da tutti i

CT esaminati, i quali, infatti, hanno cercato (inutilmente) di darvi risposta,

non hanno trovato in sentenza una motivazione adeguata che le abbia

sconfessate ed abbia fornito spiegazione al fatto di ignorarle totalmente,

pervenendo all’affermazione di aver rilevato un dato certo ed incontestabile.

Se il risultato genetico ha manifestato contraddizioni, artefatti, anomalie,

pacificamente riconosciute, doveva spiegarsi perché le stesse non sono state

prese in considerazione nella valutazione globale dell’accertamento, anche

con riferimento alle metodiche adottate, in spregio ai canoni imposti dalla

comunità scientifica internazionale, trasfusi in leggi e regolamenti

certamente non eludibili senza conseguenze di totale inaffidabilità.

Il dato genetico di una traccia, che nel nostro caso contiene più anomalie che

marcatori (!), senza una risposta scientifica e convincente, che, come

riconosciuto anche dall’Accusa in requisitoria, ha lasciato un interrogativo

irrisolto, non può, allo stato, costituire neppure indizio.

L’indizio, pertanto, può assumere valore soltanto se viene data risposta ai

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dubbi che reca, non certo, in mancanza, dal luogo di ritrovamento, in merito

al quale potrà essere fatta valutazione successiva, peraltro sempre con

riferimento ad un contatto, piuttosto che ad un’azione, che deve essere

provata in altro modo (rapporti agente/vittima, movente, dinamica, pluralità

di tracce, riscontri su persone e mezzi, riscontri da altre fonti indiziarie, ecc.

ecc.).

Discorso a parte vale la pena dedicare all'inquadramento degli elementi

costituti dalla calce, dalle fibre e dalle sferette come elementi di indiretto

conforto e poi elementi di natura indiziaria.

A tal proposito l’Assise partendo dalla premessa che l’indizio è per sua

natura ambiguo, ossia suscettibile di una pluralità di spiegazioni

alternative, altrimenti sarebbe una prova; per tali ragioni non può essere

considerato isolatamente, con pretesa di specifica autosufficienza ed

esaustività probatoria, ma deve essere valutato unitamente ad altri

elementi, in ragione della loro possibile confluenza, giunge alla conclusione

che (la calce, le fibre, le sferette siano) elementi privi di capacità

individualizzante ma convergono in un identica direzione e corroborano il

dato probatorio del DNA, dotato da solo di idoneità identificativa

dell’autore dell’omicidio.

Ora, appare di tutta evidenza come la Corte smarrisca che gli indizi devono

corrispondere a dati di fatto certi - e, pertanto, non consistenti in mere

ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza - e devono, ex art. 192

c.p.p., comma 2, essere gravi - cioè in grado di esprimere elevata

probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto - precisi - cioè non

equivoci - e concordanti, cioè convergenti verso l'identico risultato. Questi

requisiti, contrariamente a quanto argomentato dalla Corte (e si legge nel

passaggio motivazionale che precede), devono rivestire ciascun indizio,

inteso separatamente nella propria individualità e tu tti devono avere il

carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno solo di

essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la

responsabilità penale. (Cass. pen. Sez. V, 24-04-2015, n. 17344).

Inoltre, la Corte dimentica che il procedimento della valutazione indiziaria

si articola in due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il maggiore

o minore livello di gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente

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considerato, il secondo costituito dall'esame globale e unitario tendente a

dissolverne la relativa ambiguità. Il giudice di legittimità deve verificare

l'esatta applicazione dei criteri legali dettati dall'art. 192 c.p.p., comma 2 e la

corretta applicazione delle regole della logica nell'interpretazione dei

risultati probatori (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5^, 10.12.2013, N. 4663, rv.

258721).

Non è stato effettuato un giudizio di valenza autonoma del singolo indizio

valorizzato (fibre, sfere, calcio, ricerche su pc), andando a cercarne la

portata soltanto nel fatto che avrebbe potuto appartenere in astratto a colui

che ha lasciato la traccia, escludendo ogni alternativa, proprio perché non

collimante con il DNA.

Come ricorda Cass. pen. Sez. V, 24-04-2015, n. 17344 e Cass., sez. 6, 19.9.

2013, n. 42482, rv. 256967, in tema di valutazione della prova indiziaria,

dunque, il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio

probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non

può perciò prescindere dalla operazione p ropedeutica che consiste nel

valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria

valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla,

ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria,

tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo

contesto dimostrativo (cfr. Cass., sez. 6^, 19.9. 2013, n. 42482, rv. 256967).

Pare evidente che l’Assise, in totale spregio dei principi affermati dalla

Corte di Legittimità, abbia inusitatamente affermato come elementi

indiziari, elementi di cui sconosce palesemente la dignità individuale di

indizi, riconducibili verosimilmente alla categoria delle mere ed

inconferenti congetture. Ne deriva che l’evidenziato profilo di illogicità e di

contraddittorietà, rende ulteriormente lacunosa la motivazione della

sentenza impugnata, non consentendo di affermare che la corte abbia

ricostruito con il necessario rigore la valenza qualitativa, in termini di

gravità e di precisione dei singoli indizi esaminati.

Insomma, un circolo vizioso, che perde ogni senso, nel momento in cui non

si riconosce sia l’incertezza evidente del dato genetico, sia l’impossibile

sillogismo presenza DNA = omicida.

Ritorniamo sul punto relativo alla valutazione della prova scientifica: se il

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giudice non ha le conoscenze necessarie per la valutazione di fatti per i quali

è necessario possedere cognizioni tecnico scientifiche, spesso di elevata

specializzazione, come gli sarà possibile valutare i risultati della prova

scientifica ? Tanto più nei casi nei quali la ricerca scientifica perviene a

soluzioni contraddittorie come avvenuto nel caso in esame?

Questo è il punto « critico» del processo che stiamo affrontando perché non

è possibile trovare una risposta appagante ed esente da obiezioni.

La normativa vigente ha valorizzato il metodo critico e quello dialettico

sulle modalità di ammissione, assunzione e valutazione della prova

scientifica.

Questo metodo costituisce espressione di una concezione « forte» del

contraddittorio, quale quella introdotta dal nuovo codice di rito e

successivamente inserita nella Costituzione, che non risponde soltanto ad

esigenze di garantire la parità delle parti ma costituisce proprio il miglior

metodo epistemologico per la ricerca della « verità » processuale, tanto più

quando vengano utilizzati nel processo strumenti probatori « controversi ».

Lasciando perdere l’illusione del giudice « peritus peritorum », preferiamo

pensare ad un giudice informato sui presupposti di validità del metodo o

prova scientifici utilizzati nel processo, di un giudice pronto a esaminare

contrapposte visioni scientifiche – senza appiattirsi su quella dell’esperto

introdotto dall’accusa – e a scegliere quella più convincente non in base ad

una opzione pregiudiziale e immotivata ma, dopo aver dato il più ampio

spazio al contraddittorio, quella fondata su una dimostrata competenza

scientifica e su argomentazioni che non abbiano trovato obiezioni

insuperabili tenendo anche conto, e non marginalmente, delle eventuali

evidenze probatorie atte a confermare o smentire il giudizio dell’esperto.

Perché, al fine, è questo che si richiede al giudice: che dia coerentemente e

logicamente conto della scelta operata senza appiattirsi sulle conclusioni

dell’esperto quasi si trattasse di una prova legale.

Compito che, nei casi in cui interferiscano sulla soluzione problemi di

natura scientifica, assume caratteristiche di particolare difficoltà ma è

tuttavia ineludibile quando si abbia a che fare con la vita, la libertà e i beni

delle persone.

Nel caso in esame soltanto una perizia in contraddittorio, invocata in

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dibattimento ed anche in udienza preliminare come incidente probatorio,

avrebbe potuto dirimere ogni dubbio.

La problematica dell’ingresso della prova scientifica attraverso la perizia nel

processo penale è intrinsecamente connessa al “principio del ragionevole

dubbio ”di cui al 1co. dell’art 533 c.p.p.

Il giudice deve ritenere intervenuto l’accertamento di responsabilità

dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” quando “il dato

probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur

astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma

la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del

benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori

dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.

In tal contesto s’inserisce la questione della prova scientifica nel processo

penale, in cui la stessa rappresenta, come nel caso in esame, l’unico

elemento sul quale si fonda l’impalcatura accusatoria.

Nel caso in esame le ipotesi alternative sono innumerevoli, prima fra le

quali la possibilità di un errore, in quanto altrimenti non si spiegherebbe

l’insormontabile anomalia di una cellula priva di MtDNA o, in altra parte di

traccia limitrofa, con MtDNA diverso dal nucleare, inesistente in natura!

La Suprema Corte, laddove ha conferito alla prova genetica valore di prova

(occorre leggere le sentenze, non solo le massime…), come richiamato a

pag. 130 della sentenza qui impugnata, ha effettuato un giudizio unitario del

quadro indiziario, grave e convergente, non limitandosi soltanto alla prova

genetica, peraltro in quel caso esente da contestazioni.

Nel caso in esame invece, epurato il processo dalla prova genetica (incerta),

nulla rimarrebbe, come peraltro riconosciuto dalla stessa sentenza qui

impugnata.

La sola presenza di un DNA su una scena del crimine o su un reperto, non

può da sola considerarsi come “prova regina”, in quanto, questa stessa prova

dovrà esser concorde con quanto risulta da altri esami performati dalle

diverse figure di professionisti che operano nel settore forense.

Viceversa, se si ha un dato DNA, la cui deposizione (per quantità e

posizione) non è compatibile con le modalità con le quali si ritiene che il

delitto sia stato perpetrato, questo non potrà mai divenire prova contro

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l’imputato (o soggetto che ivi ha deposto quel DNA), bensì si limiterà ad

esser un mero indizio in danno di quel soggetto, che deve necessariamente

trovare altrove il suo supporto probatorio.

Del resto la prova del DNA, con l’intervento dell’uomo, il quale la

raccoglie, la conserva e la elabora, può perdere di rispetto e autorevolezza:

basta un piccolo errore, una svista, un’insufficiente competenza per

stravolgere l’apporto che essa può fornire al processo.

Nel caso che ci occupa, abbiamo già evidenziato quante e quali anomalie

sono emerse nelle analisi effettuate, anche sotto il profilo del metodo, della

possibile contaminazione e della facilità di trasferimento.

Altrettanto evidente è stata la mancanza di una risposta alle anomalie

evidenziate.

Gli esperti del PM che sono stati ascoltati sono per definizione “di parte”:

nessuno si aspettava che essi fornissero conoscenze, opinioni od

informazioni neutrali, imparziali, dotate di un fondamento oggettivo e

quindi di una vera e propria validità scientifica, ma neppure la rinnegazione

di sé, delle proprie affermazioni, delle proprie relazioni!

Piuttosto che accettare il contraddittorio, si è preferito lasciare il dubbio, nel

timore che neppure una perizia avrebbe potuto dare una risposta a ciò che

non esiste in natura, perché frutto di un errore o di un artifizio, posto in

essere dal vero responsabile, comunque non scartabile a priori.

Senza una verifica, specie in un caso in cui all’imputato è stato impedito

(prima perché ignoto, poi perché diffidente…) non solo di far analizzare in

sua presenza quanto repertato, ma neppure di poterlo vedere…, la prova

genetica non può assumere neppure valore di mero indizio, giammai può

diventare prova.

Il dato acquisito, non ripetuto in contraddittorio o non suscettibile di

ripetizione per una qualsiasi ragione, non può assumere rilievo nè probatorio

nè indiziario, proprio perché, secondo le menzionate leggi della scienza,

necessita di validazione o falsificazione.

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