Justine Blanckaert Prospettive Post-coloniali nel cinema / Subaltern Studies 05.12.2014 1 ** Si ricorda che ogni traduzione è un processo interpretativo. Invito a segnalarmi refusi e suggerimenti di formulazioni. Subaltern Studies INTRODUZIONE A vent’anni scelsi di svolgere il terzo anno di triennale in India. Il sistema universitario indiano segue il sistema britannico; arrivata all’Università di Pune, in Maharashtra, mi sono trovata direttamente nel primo anno di Master. Eravamo una cinquantina di studenti in classe; a parte me, gli altri provenivano da tutta l’India. I dialetti e le storie si mescolavano. Anche tra loro, erano sorpresi di essere tutte e tutti indiani, a causa della varietà di popoli e culture presenti nel paese. La persona che ci univa tutte e tutti era Sharmila Rege, docente di sociologia, di Women Studies e di Dalit 1 Studies. Femminista e militante anti-caste molto impegnata, ci univa grazie alla sua passione per l’insegnamento e la trasmissione delle conoscenze. Il suo motto proveniva da Ambedkar, uomo politico indiano, redattore della costituzione e leader del movimento politico Dalit in India: «My last word of advice for you is: educate, agitate and organise, have faith in yourself. With justice on our side, I do not know how we can loose our battle» (Il mio ultimo consiglio per te è il seguente: educa, mobilita e organizza, abbi fede in te stesso. Con la giustizia dalla nostra parte, non possiamo perdere la nostra lotta.) Educare, mobilitare e organizzare, Sharmila Rege aveva fatto sue queste parole. Ed è in questo contesto scientifico, politico e militante, che sono stata iniziata ai Subaltern Studies. Iniziazione meticolosa ed esigente: dovevamo leggere autori quali Lukas, Arendt, Marx, Weber, Foucault, ecc. (direttamente, non attraverso la mediazione di altri testi). I Subaltern Studies ci sono stati dunque introdotti prima attraverso le figure tutelari per passare poi agli autori di riferimento: Ranajit Guha, Partha Chatterjee, Srinivas, Gayatri Chakravorty Spivak, ecc. E soprattutto, per noi tutte e tutti, attraverso Sharmila Rege. A questi si aggiungevano inoltre anche altri autori della stessa epoca, come Benedict Anderson e Stuart Hall, tra gli altri. Questa breve introduzione personale risponde anche a esigenze metodologiche poiché permette a voi di collocarmi e di interpretare quanto vi dirò anche in relazione al mio posizionamento personale rispetto ai Subaltern Studies. 1 “Dalit” è il nome ufficiale e rispettoso per parlare degli intoccabili, termine discriminante utilizzato in Occidente. Si veda oltre nel testo.
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Subaltern Studies, presentazione per il corso di Prospettive post-coloniali nel cinema
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Justine Blanckaert Prospettive Post-coloniali nel cinema / Subaltern Studies 05.12.2014
1
** Si ricorda che ogni traduzione è un processo interpretativo. Invito a segnalarmi refusi e suggerimenti di formulazioni.
Subaltern Studies
INTRODUZIONE
A vent’anni scelsi di svolgere il terzo anno di triennale in India. Il sistema universitario indiano
segue il sistema britannico; arrivata all’Università di Pune, in Maharashtra, mi sono trovata
direttamente nel primo anno di Master. Eravamo una cinquantina di studenti in classe; a parte me, gli
altri provenivano da tutta l’India. I dialetti e le storie si mescolavano. Anche tra loro, erano sorpresi di
essere tutte e tutti indiani, a causa della varietà di popoli e culture presenti nel paese.
La persona che ci univa tutte e tutti era Sharmila Rege, docente di sociologia, di Women Studies e di
Dalit1 Studies. Femminista e militante anti-caste molto impegnata, ci univa grazie alla sua passione per
l’insegnamento e la trasmissione delle conoscenze. Il suo motto proveniva da Ambedkar, uomo politico
indiano, redattore della costituzione e leader del movimento politico Dalit in India: «My last word of
advice for you is: educate, agitate and organise, have faith in yourself. With justice on our side, I do not
know how we can loose our battle» (Il mio ultimo consiglio per te è il seguente: educa, mobilita e
organizza, abbi fede in te stesso. Con la giustizia dalla nostra parte, non possiamo perdere la nostra
lotta.)
Educare, mobilitare e organizzare, Sharmila Rege aveva fatto sue queste parole. Ed è in questo contesto
scientifico, politico e militante, che sono stata iniziata ai Subaltern Studies. Iniziazione meticolosa ed
esigente: dovevamo leggere autori quali Lukas, Arendt, Marx, Weber, Foucault, ecc. (direttamente, non
attraverso la mediazione di altri testi).
I Subaltern Studies ci sono stati dunque introdotti prima attraverso le figure tutelari per passare poi
agli autori di riferimento: Ranajit Guha, Partha Chatterjee, Srinivas, Gayatri Chakravorty Spivak, ecc. E
soprattutto, per noi tutte e tutti, attraverso Sharmila Rege. A questi si aggiungevano inoltre anche altri
autori della stessa epoca, come Benedict Anderson e Stuart Hall, tra gli altri.
Questa breve introduzione personale risponde anche a esigenze metodologiche poiché permette a voi
di collocarmi e di interpretare quanto vi dirò anche in relazione al mio posizionamento personale
rispetto ai Subaltern Studies.
1 “Dalit” è il nome ufficiale e rispettoso per parlare degli intoccabili, termine discriminante utilizzato in Occidente. Si veda oltre nel testo.
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Altro punto importante, prima di entrare nel vivo della presentazione, è definire come e perché uso il
concetto di “razza”. Non aderisco alla teoria essenzialista del razzismo. Infatti, come sociologa, poiché è
cosi che mi definirei oggi per questa presentazione, devo mettere in conto ed usare il termine “razza”
come fatto sociale, storicamente costruito, ovvero come parte integrante della struttura sociale e
morale dei discorsi della nostra epoca, al fine di poterlo analizzare.
Piano della presentazione
1) Breve introduzione sull’India
2) Presentazione del contesto politico e sociale indiano in riferimento all’emersione dei Subaltern
Studies
3) Contesto universitario e scientifico in riferimento all’emersione dei Subaltern Studies
4) Origine dei Subaltern Studies: finalità e tratti caratterizzanti
a. Rimettere in questione il paradigma dell’élite nazionalista indiana attraverso la
subalternizzazione,
b. Metodo storiografico messo a punto dal collettivo dei Subaltern Studies (“subalternisti”)
c. Personaggi e teorie tutelari del movimento
d. Orientamenti politici e teorici:
i. il concetto di “subalterno”
ii. la critica alla metanarrazione illuminista
iii. Conclusione
5) I 10 volumi
6) Limiti, fraintendimenti e critiche
a. Interpretazioni erronee delle teorie di Antonio Gramsci
b. Il soggetto autonomo come strategia politica: l’ essenzializzazione
c. Populismo e dottrina sociale?
d. Critiche marxiste
6) Conclusioni in progress
Questa presentazione non pretende di essere esaustiva ma quanto più dettagliata e fedele possibile ai
movimenti dinamici che animano i Subaltern Studies dalla loro creazione. I Subaltern Studies sono una
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corrente storiografica e più in generale, scientifica, in cui l’impegno politico e l’attivismo sono molto
importanti. Impegno politico ed attivismo sono dunque elemento di riferimento indispensabili alla
comprensione del movimento.
Procedo alla contestualizzazione preliminare, necessaria per l’approccio a qualsiasi teoria scientifica.
BREVE INTRODUZIONE SULL’INDIA
L’India: lungo discorso mi direte, allora vado giusto a richiamare alcuni dati che spero vi
permetteranno poi di contestualizzare il mio discorso e la nascita dei Subaltern Studies :
L’India è conosciuta per essere la culla dell’umanità, infatti, ritroviamo tracce umane che risalgono al
5000 avanti Cristo. Durante l’Antichità l’India era già una grande via di commercio. L’India ha
conosciuto numerosi imperi, numerose colonizzazioni, l’ultima delle quali, tristamente famosa, la
colonizzazione inglese.
La colonizzazione inglese è cominciata all’inizio del ‘700 con il comparire progressivo di filiali della
Compagnia Inglese delle Indie Orientali. All’inizio dell’‘800, questa compagnia controllava quasi tutto il
territorio indiano ed aveva assoggettato le compagnie indiane in modo tale che la produzione non
fosse più destinata all’esportazione in generale ma ad esclusivo indirizzo dell’Impero britannico.
Le rivolte ed i movimenti di contestazione sono sempre esistiti nell’India coloniale, ma per molto
tempo sono stati contenuti e soffocati sia dalle autorità coloniali che dall’élite indiana, costituita da una
piccola minoranza di indiani delle caste superiori del nord del paese; fino al movimento di
Indipendenza che conosciamo, guidato da Nehru e Gandhi, membri del partito del Congresso.
Il Congresso è un partito politico indiano fondato nel 1885 e che è associato al movimento di lotta per
l’Indipendenza. Il partito è stato al potere dall’Indipendenza, nel 1947, fino al 1970, e poi di nuovo dal
2004 al 2014. I membri dirigenti del partito da allora sono sempre stati della famiglia Nehru-Gandhi.
L’Indipendenza è stata acquista nel 1947, mentre lo stato e la sua costituzione risalgono al 1950. Capo
del governo (in carica fino al 1964, anno della sua morte) è Jawaharla Nehru, il leader della riforma
intellettuale e nazionalista dell’India Stato-nazione indipendente.
Non si deve dimenticare che il 1947 è anche l’anno della Partizione indiana che darà luogo alla
creazione di tre stati distinti: il Pakistan, il Bangladesh e l’India. Di violenza inaudita e di tremendo
impatto per le popolazioni oltrefrontiera, è ancora poco documentata e relativamente tabù in India e a
tutt’oggi fonte di scontri tra la comunità hindu, musulmana e sikh.
In questo contesto, lo Stato-nazione indiano, nato nel 1950, è costruito in opposizione ai due stati vicini
“nemici”. Attraverso la costituzione, lo Stato-nazione abolisce le caste e riconosce tutte le religioni
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praticate sul suo territorio. In particolare vengono presi in considerazione tutti dettami religiosi per
quanto riguarda gli ambiti del diritto privato della famiglia e del matrimonio. In questo modo, lo Stato-
nazione prova a definirsi come secolare e laico. Nella sua ideologia, tuttavia, si presenta come hindu,
modellato dal mito originario dell’Hindustan. Lo stesso mito è anche promosso dall’estrema destra
hindu che ha nuovamente rafforzato il suo potere con la vittoria alle ultime elezioni del 2014.
Il mito dell’Hindustan e l’estrema destra hindu sono sostenuti, anche finanziariamente, dagli Indiani
Non-Residenti (NRI). Questo investimento ideologico passa anche per il finanziamento del cinema
Bollywood, fucina di sviluppo dell’immaginario hindu e conservatore.
Però l’India è anche:
- Una repubblica parlamentare federale composta da ventinove stati,
- Un paese che conta oggi più di un miliardo d’abitanti,
- Uno Stato che ha come lingue officiale l’hindi e l’inglese, e ventuno altre lingue regionali
riconosciute ufficialmente all’interno della regione stessa. Ma questo non rende conto delle
centinaia di dialetti regionali interni ad ogni regione, che vengono quotidianamente letti, scritti
e principalmente parlati da milioni di persone,
- Una repubblica che si definisce laica e nella quale coabitano l’induismo per l’80% della
popolazione, l’islam 13%, il cristianismo 2,4%, il sikhismo 2%, il buddhismo 0,6%, il jainismo
0,4%, il giudaismo e il zoroastrismo (i parsi) con 0,009% ed altre numerose religioni dette
animiste praticate da una buona parte delle popolazioni tribali.
- Infine, l’India è una nazione postcoloniale con tutto quello che ne consegue: cultura, scambi,
sofferenze, storie e Storia.
La cultura o, meglio, le culture indiane sono il riflesso di questa grande diversità che forma quello che
chiamiamo anche sub-continente indiano.
Alcune annotazioni rilevanti:
- l’inglese è considerato oggi come lingua “neutrale” in opposizione all’hindi. L’hindi è stato
presentato come lingua nazionale e lingua dell’Indipendenza, ma, come avrete capito, non è
diffuso su tutto il territorio ed è considerato dalla maggior parte della popolazione indiana
come lingua dell’élite politica proveniente dalle regioni del nord del paese. L’hindi è dunque
percepito come imposto al resto del paese. L’inglese è da allora – ironia- ritenuto lingua
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neutrale! Considerato che l’accesso all’apprendimento dell’inglese è vincolato dal livello
economico e sociale, la reale percentuale della popolazione che parla inglese è relativamente
bassa: tra 1 e 5%.
- Gandhi è considerato, soprattutto nell’Occidente, come il leader del movimento
dell’Indipendenza, conosciuto per le forme pacifiche di rivendicazione. Numerosi “subalternisti”
e parte consistente della popolazione indiana denunciano il movimento gandhiano come un
movimento elitario e conservatore. Gandhi infatti non ha mai messo in questione l’esistenza o la
pertinenza del sistema delle caste o della posizione delle donne nella società tradizionale.
- il sistema d’organizzazione sociale della popolazione in caste è ancora predominante e violento.
Per esempio, sebbene le caste siano state abolite dalla costituzione indiana nel 1950, al giorno
d’oggi il 99% dei matrimoni è combinato al fine di perpetuare l’endogamia di caste. Un altro
esempio è la permanenza dell’intoccabilità in maniera brutale. Per approfondire il soggetto
delle caste, vi consiglio: Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni di Louis
Dumont, 1966, Adelphi.
Per finire questa breve presentazione dell’India, vorrei introdurvi al concetto di “Dalit”. “Dalit” è il
nome ufficiale e rispettoso per parlare degli intoccabili – termine discriminante utilizzato in Occidente
-. “Dalit” significa “oppressi”, altri nomi - come quello di “harijan”, ovvero “quelli che sono nati da dio”,
supportato da Gandhi – non tengono in considerazione la situazione sociale di questa parte della
popolazione vista come fuori-casta, marginalizzata ed oppressa fisicamente, socialmente e
moralmente.
2. Contesto politico e sociale indiano dell’emergere dei Subaltern Studies
Dall’Indipendenza, la vita politica e statale indiana è stata dominata dal partito del Congresso, le cui
componenti direttive erano formate principalmente da hindu del nord del paese. A struttura capillare,
pervasiva in tutti gli aspetti della vita politica, sociale e culturale, questa organizzazione era composta
in larga parte dall’insieme delle classi medie urbane e da contadini agiati, vale a dire le caste superiori.
A valenza egemonica, appoggiandosi a una retorica di ispirazione socialista, ha tentato di dissimulare e
contenere tutte le spinte centrifughe o di contestazione popolare. In particolare, ogni volontà di
riforma sociale radicale è stata violentemente repressa.
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Nell’articolo Les Sulbatern Studies ou la critique postcoloniale de la modernité, pubblicato nel 2000,
Jacques Pourchepadass descrive con precisione le dinamiche e le relative implicazioni di questo
periodo. Al riguardo, di particolare rilevanza è il passaggio seguente in cui cita Partha Chatterjee,
membro fondatore della corrente dei Subaltern Studies:
Il tema [del potere egemonico dispiegato dal Partito del Congresso] era presente già nel libro di Partha
Chatterjee uscito nel 1986, Nationalist Thought and the Colonial World. Questo saggio mostrava che il discorso
nazionalista dell’élite indiana, certamente opposto al discorso coloniale ma radicato nello stesso sfondo
ideologico della modernità borghese, conteneva una contradizione fondamentale: se voleva affrontare il potere
coloniale con una possibilità di successo l’élite doveva parlare a nome delle masse, ma al tempo stesso temeva e
conteneva con difficoltà l’irrefrenabile autonomia del loro modo di contestazione. (Pourchepadass, 2000: 174)
L’élite politica nazionale del Congresso ha dunque provato attraverso tutti gli strumenti dell’egemonia
– educazione, cultura, associazione, ecc. – a creare una cultura indiana compatta e omogenea scaturita
da un passato lineare. Di qui, il forte rifiuto, addirittura negazione, dell’idea di pluralità indiana, poiché
quest’ultima metteva in questione la proposta nazionalista di un passato storico peculiare.
Tra l’altro l’élite si arrogava il privilegio di rappresentare i movimenti popolari d’indipendenza,
sottraendo loro il riconoscimento ufficiale alla partecipazione all’Indipendenza e disconoscendo forme
proprie e originali di lotta. Il popolo, privato quindi della propria partecipazione ai movimenti gloriosi
dell’Indipendenza, ha visto nascere nel suo seno l’essenza storica delle sue frustrazioni.
Al riguardo, è utile rinviare all’articolo critico e retrospettivo sui Subaltern Studies, tradotto e
pubblicato in Francia nel 2000 con il titolo Sortir du ghetto les histoires non occidentales (Far emergere
dal ghetto le storie non occidentali) in cui Amin Shahid, tra i membri fondatori del movimento, mette in
luce le faglie della versione ufficiale in merito al presunto slancio popolare nazionale, sollevando
alcune questioni che ben si prestano a introdurre il lavoro dei Subaltern Studies:
Nuotare contro corrente permette allo storico di fare una domanda importante, relativa al nostro passato,
che noi, come nazione, dobbiamo affrontare: c’è qualcosa che caratterizza l’agire degli Stati-nazione e che rende
difficile ai cittadini il comprendere la storia al di fuori della versione dominante ufficiale del passato – il passato
nazionale? Si può rammentare senza commemorare, ricordare senza vendicarsi? (Shahid, 2000: 62-63)
La supposta univocità dello slancio nazionalista, sostenuto dal Partito del Congresso, viene forgiato
nelle università indiane, il cui funzionamento e le cui prassi discorsive sono state istituite durante
l’epoca coloniale, come rilevato dalla seguente citazione di Jacques Pourchepadass :
Il fatto che un tal progetto si sia radicato nel tessuto indiano non è senza dubbio casuale. L’India è
certamente la regione del mondo colonizzato dove l’insegnamento superiore direzionato dal centro
metropolitano ha funzionato in maniera precoce e su larga scala, dove il discorso storico della modernità, del
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capitalismo e della democrazia ha attecchito vigorosamente sviluppando connessioni strette con gli ambienti
universitari occidentali (Pourchepadass, 2000: 173-174)
Quanto sin qui delineato fornisce alcuni degli elementi che producono nella società civile indiana un terreno
favorevole alla costruzione ed allo sviluppo dei Subaltern Studies.
3. Contesto universitario e scientifico
Negli anni 1960-70, la contestazione universitaria aumentava. Il sogno nazionalista congressista e gandhiano
non funzionava più. Le masse non si riconoscevano più nel desiderio di una storia millenaria modellata sul mito
dell’origine e nell’illusione di una società egualitaria, tanto ampio risultava il divario con “la concezione e le
norme cristalline della democrazia rappresentativa borghese.” (Pourchepadass, 2000: 164)
Un movimento di contestazione universitaria e popolare si sviluppava nella pubblicistica di ricerca e
prendeva le distanze dalle convenzioni narrative del “nazionalismo” borghese, dando vita a discorsi radicali
che ne mettevano in discussione l’egemonia.
Le prime correnti di pensiero radicale furono marxiste e maoiste.
I marxisti peccavano di elitarismo. Pretendevano che l’Indipendenza acquisita e la rivoluzione a venire
non potessero che essere processi di mobilizzazione dall’alto e, pertanto, che il marxismo parlasse a
nome delle popolazioni oppresse. Al riguardo, asserivano che
la sua [del popolo] cultura è quella della resistenza quale disposizione pre-politica, cioè come fase primitiva
dello sviluppo della coscienza rivoluzionaria. [L’ideologia marxista] metteva in dubbio la capacità di lotta della
massa di contadini, considerando le rivolte unicamente come manifestazioni di rabbia collettiva spontanea e
senza futuro; necessariamente privi d’organizzazione, di programma e di efficienza dal momento che da lungo
tempo [i contadini] non erano stati mobilizzati ed inquadrati da un’avanguardia ben formata e politicamente
avanzata. Infine, [l’ideologia marxista] cadeva in un determinismo economicista attribuendo un ruolo di primo
piano decisivo alle contraddizioni e alle congiunture della crisi economica. (Pourchepadass, 2000: 164-165)
Questa posizione contrastava il discorso nazionalista, ma rimaneva chiusa nell’elitarismo intellettuale
che non lasciava ai movimenti popolari spazio per esprimersi e alimentava il mito della mobilizzazione
dall’alto.
I secondi, i maoisti, peccavano invece, come rileva puntualmente Amin Shahid, di eccesso ideologico, se
così si può dire. Infatti, avevano letto il Rapporto d'inchiesta sul movimento contadino nello Hunan, di
Mao, sull’analisi della classe rurale in Cina, e lo applicavano alla classe rurale indiana senza
intermediazioni.
Questi due movimenti se mettevano per la prima volta in discussione il concetto di “coloniale-nazionale”,
peccavano in eccesso d’ideologia, mancanza di lungimiranza o semplicemente di elitarismo intellettuale.
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Tali analisi critiche conducono verso la fine degli anni ‘70 un piccolo gruppo d’intellettuali radicali a
interessarsi più specificatamente ai contadini indiani e ad applicare il concetto di “subalterno” preso a prestito
da Antonio Gramsci. Attraverso questo filtro concettuale si sono interessati ai contadini indiani sotto il punto
di vista culturale, politico, sociale e religioso mettendo direttamente in discussione le rivendicazioni nazionali
ed intellettuali dell’élite che parlava a nome dei contadini e delle classi popolari in genere.
Come afferma Jacques Pourchepadass:
Lo sforzo iniziale di Guha mirava alla rottura con l’elitarismo della storiografica coloniale, nazionalista e
marxista che prospettava la resistenza popolare alla colonizzazione e l’epopea del movimento d’Indipendenza
come il risultato di un processo di mobilizzazione dall’alto. (…) [e] a smascherare il nazionalismo organizzato in
India come strategia di promozione sociale modellata dall’élite indigena istruita al fine di strappare al potere
coloniale posti di responsabilità, garanti di onori e di profitti. (Pourchepadass, 2000: 162)
Ranajit Guha è la mente e il fondatore del movimento chiamato Subaltern Studies ed è attraverso il suo
pensiero che di seguito accostiamo le idee e i concetti operativi nei Subaltern Studies.
4. Origine dei Subaltern Studies: finalità e tratti caratterizzanti
I Subaltern Studies hanno diverse figure tutelari e raccolgono differenti correnti di pensiero. Sono un
prodotto della storia coloniale e della loro epoca. Complessi e estremamente articolati, presentano un
impegno teorico e politico molto forte che ha dimostrato e dimostra ancora oggi una specifica pertinenza
politica, sociale e scientifica, ma anche dei limiti. I Subaltern Studies hanno quindi, come sì può immaginare,
suscitato molte critiche.
Il gruppo originale, all’inizio degli anni ‘80, era composto dagli storici Ranajit Guha, Shahid Amin, David
Arnold, Gautam Bhadra, Dipesh Chakrabarty, David Hardiman, Gyanendra Pandey e Sumit Sarkar, e del
politologo Partha Chatterjee; tutti specialisti dell’India moderna che lavoravano tra India, Gran Bretagna e
Australia.
Il popolo, secondo il manifesto programmatico pubblicato da Ranajit Guha all’inizio del primo volume dei
Subaltern Studies, è composto dalle “classi e dai gruppi subalterni che costituiscono la masse della popolazione
lavoratrice e gli strati intermedi delle città e delle campagne”, cioè “la differenza demografica tra la popolazione
totale dell’India e tutti quelli che ne costituiscono l’élite”. Ciò che individua i subalterni (nozione presa in
prestito dal Gramsci dei Quaderni del carcere) è la relazione di subordinazione nella quale le élite li tengono,
relazione che si declina in termine di classe, di caste, di sesso, di razza, di lingua e di cultura. (Pourchepadass,
2000: 165)
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È dunque seguendo questi termini programmatici forti che proverò a presentarvi il percorso critico dei
Subaltern Studies: le idee e le teorie che li costituiscono, i limiti e le faglie della loro proposta, ed infine
ciò che li rende ancora oggi incredibilmente attuali e sovversivi.
a. Rimettere in questione il paradigma dell’élite nazionalista indiana attraverso la
subalternizzazione
Come rilevato giustamente da Jacques Pourchepadass e secondo la formulazione programmatica di
Ranajit Guha, il fine era di “ristabilire il popolo come soggetto della propria storia” (Pourchepadass,
2000: 165). Scegliendo di fare riferimento alle teorie di Antonio Gramsci e di mettere al centro delle loro
riflessioni il concetto di “subalterno”, il collettivo si impegnava contro rappresentazione del popolo
manipolata dall’élite.
Jacques Pourchepadass afferma: “Era necessario riconoscere l’importanza storica reale alla capacità
d’iniziativa (agency) libera e sovrana del popolo, riscoprire la sua cultura specifica, interessarsi infine
seriamente al suo universo di pensiero e di esperienza (e non solo alle mere condizioni materiali di
esistenza).” (Pourchepadass, 2000: 165). L’idea era quindi quella di riconoscere e di restituire al popolo un
ambito politico autonomo che non fosse assimilabile od assimilato a quello del discorso nazionalista o
marxista.
L’ambito autonomo del popolo doveva essere definito dalla sua esperienza storica e lavorativa, nonché dai
suoi riferimenti culturali, religiosi e politici.
Questa visione promossa da Ranajit Guha e dal collettivo dei Subaltern Studies mette al centro della
prospettiva storica la dicotomia tra dominati e dominanti. Si trattava di una sfida lanciata contro la storia
dominante, predisposta e sostenuta dalle élite dal momento che questa prospettiva teorica riconosceva una
situazione di “subalternizzazione” del popolo da parte delle élite attraverso la loro dominazione materiale e
politica.
Al contempo, questa prospettiva teorica incentrata sulla “subalternizzazione” del popolo permetteva al
collettivo di riconoscere al popolo la sua cultura e quindi, un ambito autonomo di pensiero e di iniziativa, in
particolare politica. La proposta così formulata metteva in causa la cosiddetta egemonia delle élite, cioè la
loro supremazia culturale e politica.
Per citare Jacques Pourchepadass, in linea con Ranajit Guha:
Era questo ambito autonomo di pensiero e d’iniziativa dei subalterni, sistematicamente occultato dalla
storiografia delle élite, che bisognava risuscitare, e non solo per riparare l’ingiustizia inferta e restituire nuova
dignità, ma per fare piena luce sul rapporto di forze interne al movimento di Indipendenza del quale solo le élite
avevano raccolto i frutti, e per mettere in chiaro, in prospettiva di future azioni, le ragioni profonde di questo
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fallimento storico della nazione nel suo costituirsi (“this historic failure of the nation to come into its own”),
nodo che costituisce il problema centrale della storiografia dell’India coloniale. (Guha 1982: 7; Pourchepadass,
2000: 165-166)
Ranajit Guha non si limita a questo. In primo luogo intendeva mostrare attraverso la storiografia così
concepita come le élite nella lotta anticoloniale abbiano strumentalizzato il popolo a proprio vantaggio e
abbiano poi esercitato il potere senza condividerlo. In secondo luogo, intendeva riparare alle ingiustizie
sociali e morali inflitte al popolo dandogli così visibilità e strumenti che potessero sostenere rivendicazioni
future.
Infatti, secondo l’analisi di Ranajit Guha, nonostante la dominazione della borghesia moderna indiana, il
popolo si mostrava refrattario a subirla; era dunque fondamentale valorizzare l’ambito sia questa autonoma
consapevolezza, ma anche le iniziative politiche e sociali di opposizione messe in essere.
Per riassumere, l’obiettivo del collettivo dei Subaltern Studies, nella sua iniziale formulazione, era di ricusare
la storiografia elitarista mettendo in luce gli aspetti strutturali della storia dei subalterni - classe, età, sesso,
razza, ecc. – e restituendo ai subalterni una storiografia propria che rivendichi il ripristino di un’esistenza
sociale, culturale e politica autonoma.
b. Metodo storiografico messo a punto dal collettivo dei Subaltern Studies Il metodo storiografico predisposto dal collettivo si articola principalmente in 3 punti :
In primo luogo, fare storia dal basso, «history from below», secondo i principi dell’omonimo movimento
storiografico britannico di poco precedente i Subaltern Studies, sostenuto principalmente dallo storico
militante Edward Palmer Thompson. L’idea assunta in India, come in altri paesi ex-colonizzati è che la
storia dal basso permetteva di smagliare il “paradigma nazionalista” della storiografia dominante portando in
primo piano gli antagonismi di classe.
Infatti, il “paradigma nazionalista” era diventato nei discorsi politici ufficiali un prolungamento delle lotte
d’Indipendenza a giustificare la dominazione delle élite. Così, il progetto dei Subaltern Studies diviene
l’“espressione intellettuale di una concezione esigente della democrazia” (Pourchepadass, 2000: 163)
criticando il marxismo ortodosso e la retorica socialisteggiante dello Stato indiano.
In secondo luogo, il metodo storiografico istituito dal progetto dei Subaltern Studies mette a punto un
interventismo linguistico consistente, tra l’altro, nella riappropriazione della lingua da parte dei colonizzati. Il
metodo raccomanda gli studi delle letterature e dei discorsi nella lingua vernacolare ed il loro utilizzo come
fonte a pari merito delle fonti degli archivi nazionali e coloniali. (Moati e Smouts, 2012: 436-437).
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Con il moltiplicarsi di storiografie da parte dei Subaltern Studies si è sviluppato un lessico proprio, in cui ci
si riappropria del vocabolario storiografico coloniale contestualmente alla creazione di nuovi termini e
concetti, all’utilizzo di termini e concetti vernacolari e/o subalterni come nozioni scientifiche.
In terzo ed ultimo luogo, Ranajit Guha all’inizio del progetto insiste sull’auspicio che i Subaltern Studies, al
fine di raggiungere l’obiettivo di decostruzione della storiografia dell’élite, facciano proprio il cosiddetto
“progetto in sei punti” esposto da Antonio Gramsci nelle sue Note sulla storia italiana (Green, 2002 :16).
Le sei fasi rappresentano l’approccio metodologico del “subalterno” o dello storico integrale, come spiegato
ed esposto da Marcus E. Green nell’articolo Gramsci Cannot Speak: Presentations and Interpretations of
Gramsci’s Concept of the Subaltern pubblicato nel 2002. Queste fasi rappresentano, secondo Marcus E.
Green, le tappe attraverso cui i gruppi subalterni passano dalla loro posizione iniziale di subordinazione ad
una fase di autonomia.
Le fasi simboleggiano dunque il processo sequenziale nel quale un gruppo subalterno diventa via via più
influente fino a divenire un gruppo sociale dominante o, in altre circostanze, è fermato nella sua ascesa al potere
da un altro gruppo sociale o da forze politiche (Green, 2002: 10).
Per illustrare questo punto, Marcus E. Green parafrasa ogni tappa come fossero gradi di sviluppo:
First, there is a change in the economic sphere, such as a change in property relations, which alters the
organization of society, relegating a social group to a subordinate social position. Second, the subaltern group
either adheres (passively or actively) to the new dominant political formations or the group attempts to influence
the new formations with its own demands. Third, the dominant social group creates new parties or government
programs to maintain control of the subaltern groups. Fourth, the subaltern group realizes that the new social
formations, parties, and institutions do not account for its needs so it forms its own organizations, such as trade
unions. Fifth, the subaltern group organizes a political formation that represents its concerns, expresses its
autonomy and its will to participate in the established political framework. An example in this instance would be
a political party working within the established political framework. Sixth, the subaltern group realizes its
interests will not be met within the current socio-political system so it organizes its own social and political
formation that will eventually replace the existing one. An example in this instance would be a revolutionary
party that attempts to transform the state and its correlating social relations.” (Green, 2002 : 10)
Conclusione:
Questi tre punti metodologici mobilitati nella prima fase dal gruppo dei Subaltern Studies mettono in
evidenza un approccio autonomo e alternativo, ispirato da altre correnti scientifiche e politiche, ma rivisitato
in maniera critica e contestuale allo scopo di mettere a punto una storiografia quanto più esaustiva e “giusta”
possibile dei subalterni. In altri termini, si tratta di rispondere agli obiettivi esposti nella parte precedente,
primo fra tutti, quello di ricusare il paradigma storiografico nazionalista istituito e violentemente protetto
dalle élite indigene indiane dell’Indipendenza.
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c. Figure e teorie tutelari del movimento:
Come avrete potuto rendervi conto, le figure e le teorie tutelari dei Subaltern Studies sono numerose. Il
collettivo dei Subaltern Studies è infatti, come esposto nella parte introduttiva, il prodotto della propria
epoca. Con questo intendo che l’elaborazione della teoria dei Subaltern Studies è frutto di un percorso
intellettuale, politico e scientifico che riflette il panorama coevo.
Per quanto riguarda le figure politiche, avrete senz’altro riconosciuto Marx, Mao e Gramsci.
Antonio Gramsci è per il collettivo –ve ne sarete resi conto – oltre che una figura politica, soprattutto uno
storico esigente e un teorico autorevole. All’epoca, solo una parte degli scritti d’Antonio Gramsci erano
disponibili, in una selezione tradotta e commentata in inglese. La traduzione integrale in lingua inglese è
uscita ben più tardi.
Quella che è conosciuta come French Theory, composta da Michel Foucault, Jacques Derrida, Roland
Barthes, Gille Deleuze, Louis Althusser, Claude Lévi-Strauss e altri, ha avuto una grande influenza sui
Subaltern Studies, e in particolare il decostruttivismo, l’analisi delle relazioni di potere e i primi abbozzi della
nozione di rappresentazione.
Ancora, il concetto di «potere» posto al centro da Michel Foucault in Surveiller et Punir (Sorvegliare e
punire) e di sue altre opere. In effetti, la grande questione foucaultiana del sistema «potere-sapere» si è
dimostrata estremamente pertinente ne contesto dei Subaltern Studies.
D’altro canto, il collettivo ha anche fortemente criticato questi stessi autori della French Theory e ne hanno
messo in questione o sottoposto a vaglio i concetti e la loro prospettiva occidentale.
Edward Saïd può a propria volta essere considerato come una delle figure tutelari dei Subaltern Studies, per
le ragioni che abbiamo potuto vedere insieme attraverso lo studio degli Studi Postcoloniali. Essendo tuttavia
loro contemporaneo, ha influenzato maggiormente la seconda generazione dei Subaltern Studies.
d. Orientamenti politici e teorici:
In questa parte, evitando ridondanze, vorrei sottolineare due aspetti importanti e nevralgici dell’orientamento
politico e teorico del collettivo: la definizione della nozione di «subalterno», nel loro utilizzo, e
l’opposizione fondamentale alla metanarrazione (métarécit) dell’Illuminismo e, per estensione, al
razionalismo occidentale.
Per precisare l’impegno politico e teorico dei Subaltern Studies, è opportuno precisare che “L’orientamento
intellettuale iniziale, tanto politico che propriamente teorico, consisteva in un marxismo critico, incline verso
Gramsci e gli storici radicali britannici quali Edward P. Thompson.” (Pourchepadass, 2000: 161)
In effetti il collettivo rigetta il marxismo ortodosso ma considera imprescindibili i valori del rifiuto del
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totalitarismo e della critica sociale radicale
i. Il concetto di «subalterno»:
Per introdurre la nozione di «subalterno» nella declinazione del collettivo, mi rifaccio a Christine Vyal-
Kaiser, la cui semplice definizione riprende la maggior parte delle componenti strutturali di un concetto
dinamico:
La teoria subalterna afferma il potere delle comunità di contadini di riformarsi, trasformarsi senza attendere
l’effetto, supposto “civilizzatore”, dello sviluppo economico industriale. Rifiuta di considerare la religione come
alienazione e riqualifica le rivolte condotte in nome di un dio indigeno in autentici movimenti di liberazione
(Vyal-Kaiser, 2013: 34-35)
Uno dei soggetti principali delle prime storiografie dei Subaltern Studies sono state le popolazioni rurali dal
momento che incarnavano esemplarmente l’oppressione, l’ostracismo et la dominazione esercitati dalle élite
a prevalenza urbana. D’altro canto non si sono mai limitati a questa parte della popolazione dal momento che
la loro definizione di «subalterno» è relazionale e non economica o di classe.
In effetti, Guha in un primo tempo definisce il «subalterno» come «il popolo» oppure il «non élite».
Ripartisce invece l’élite in tre categorie ideali: il gruppo straniero dominante, il gruppo indigeno dominante e
i gruppi locali o regionali che agiscono per conto dei primi due
Ranajit Guha individua nella ricerca il compito di investigare, identificare e misurare la natura specifica e il
grado di devianza di questi elementi che sono i gruppi dominati e dominanti in rapporto alla loro definizione
ideale delineata teoricamente e di collocarli quindi storicamente (Green, 2002 :16).
È dunque una relazione e, più precisamente un effetto di situazione a qualificare secondo Ranajit Guha il
concetto di «subalterno». Al fine di circoscrivere esattamente tale concetto e di evitare ogni rischio di
essenzialismo, Guha precisa che la parola «subalterno» nella definizione di «Subaltern Studies» riflette la
definizione data dal Concise Oxford Dictionary, vale a dire, «di rango inferiore».
Continua affermando che il termine è utilizzato “come nome per l’attribuzione generale di uno statuto di
subordinazione nella società sud asiatica sia in termini di classe, di casta, di età, di genere e di funzione o per
qualsiasi altro criterio” (Green, 2011: 387).
Così, il progetto è chiaro: non si tratta di proporre un nuovo modello di stratificazione sociale ma di porre
come centrale la nozione di potere in seno a quell’organizzazione sociale che è la società indiana e dunque di
stabilire che la visione liberale borghese dello Stato-nazione come consenso è fondamentalmente falsa
(Pourchepadass, 2000: 175).
Jacques Pourchepadass aggiunge che da ciò deriva lo slittamento di molti “subalternisti” dall’opposizione
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binaria élite/subalterni all’opposizione storica e politica modernità occidentale/cultura indigena. Così il pre-
coloniale diventa un elemento per la critica del coloniale e, per quanto riguarda il presente, ciò che è
minoritario e marginale è considerato come “critica dello Stato-nazione nato dalla lotta per l’indipendenza,
incarnazione in India d’una modernità politica oppressiva che risale all’ideologia dell’Illuminismo”
(Pourchepadass, 2000: 175)
Tale riflessione ci conduce al secondo aspetto importante e fondamentale per l’approccio teorico del
collettivo dei Subaltern Studies:
ii. La critica della metanarrazione (métarécit) illuminista:
La critica della metanarrazione (métarécit) dell’Illuminismo era già parte integrante del discorso
anticoloniale di emancipazione indiana fatto proprio dai nazionalisti come dai marxisti. È dunque ripreso dal
collettivo che evidenzia come la metanarrazione dell’Illuminismo è incarnata dalla cultura borghese. Inoltre,
ha raggiunto il suo limite storico in quanto terreno di sviluppo e di giustificazione del colonialismo.
Tutti gli aspetti considerati nobili della metanarrazione dell’Illuminismo – il Liberalismo, la Democrazia, la
Libertà, il Regno della Legge e tutto il resto non sono sopravvissuti all’espansione e riproduzione del capitale dal
momento che sono state rese possibili grazie a una politica di dominazione coloniale (Pourchepadass, 2000:
173)
La critica della metanarrazione dell’Illuminismo è dunque uno degli aspetti più importanti dello
sviluppo dei Subaltern Studies dal momento che incarna la critica dell’apparto di dominio e di
giustificazione coloniale, borghese e delle élite.
La cruciale presa di posizione dei Subaltern Studies in relazione alla metanarrazione dell’Illuminismo è
perfettamente incarnata dalla spiegazione datane da Pourchepadass che si rifà a Dipesh Chakrabarty:
In contrapposizione all’egemonia della modernità e del progresso, a questa “propaganda della ragione”, a
questa “monomania dell’immaginazione all’opera nel soggetto-savant, giudice e maestro, che sa sempre cosa è
bene per ciascuno ancor prima di averlo verificato”, bisogna- scrive Chakrabarty – “andare verso il subalterno
[…] mettere in discussione le nostre nozioni di universale”, lasciar spazio alla dimensione affettiva, religiosa,
“tutto ciò che, nel diventare moderni, abbiamo finito per vedere come irrazionale”
Il punto di vista e l’interpretazione pratica fatta da Dipesh Chakrabarty del posizionamento dei Subaltern
Studies della metanarrazione dell’Illuminismo, ci permette di comprendere questa opposizione morale e
teorica non come chiusura ma come apertura a nuovi spazi di comprensione del tessuto sociale e, soprattutto,
dei subalterni. In effetti, questa opposizione teorica pone i presupposti per concepire il «subalterno» come
una persona dotata di una autonoma coscienza, margini di manovra culturale e politica, in altri termini,
capace di una propria agency.
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iii. Conclusione:
Questa presentazione, che ho voluto articolata e dettagliata, del pensiero e della teoria a fondamento della
nascita dei Subaltern Studies, ha l’obiettivo di mettere in evidenza diversi aspetti che possano, per
concludere, dare accesso sia alla portata dei Sulbaltern Studies per se stessi, sia all’influenza da questi
esercitata su altre correnti di pensiero e di ricerca, infine auspica di essere di stimolo anche per le vostre
ricerche.
La ricchezza, l’originalità e la solidità scientifica che ha nutrito i Subaltern Studies nelle loro prime opere
sono altrettanto incontestabili che la coerenza di questo lavoro che rappresenta anche le interrogazioni
politiche degli intellettuali indiani radicali a partire dagli anni Sessanta (Pourchepadass, 2000: 171).
In effetti, i Subaltern Studies sono il risultato di uno “sforzo militante di far rinascere dalle proprie ceneri la
cultura e l’esperienza del popolo (Pourchepadass, 2000: 171)”. Come abbiamo potuto appurare, l’impegno
politico e militante dei “subalternisti” è indiscutibile ed è questa componente che ha fatto l’originalità e la
pertinenza di questo movimento per l’India, i paesi un tempo colonizzati e all’interno del più ampio
movimento degli Studi postcoloniali. La medesima componente è al contempo all’origine delle critiche più
veementi
Personalmente ritengo tuttavia che l’effetto principale sia stato quello di dirottare la critica coloniale del
colonialismo, principalmente orientata al versante economico e politico, verso l’ambito culturale.
Spostamento che ha in seguito permesso lo sviluppo, tra gli altri, dei Cultural Studies e dei Gender Studies.
Ha anche permesso di contribuire alla constatazione dello scacco della modernità attraverso la “verità”
della nazione in quanto narrazione, elaborata anche, in contemporanea, da Benedict Anderson, nell’opera
pubblicata nel 1983 Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism (Comunità
immaginarie), la cui lettura consiglio vivamente.
In quest’opera Benedict Anderson mostra come, grazie alla diffusione della stampa, si possa fare un’analisi
accurata dell’immaginario dei movimenti nazionali. Attraverso questa analisi, si giunge alle medesime
conclusioni dei Subaltern Studies: lo scacco della modernità in quanto ideologia unificatrice e consensuale in
seno alla nazione.
Infine, per ritornare sul metodo che garantisce la solidità della teoria: “il compito degli storici ‘subalternisti’
era in primo luogo la decostruzione del discorso dominante e normalizzatore dei testi coloniali e nazionalisti
per far emergere il rimosso, vale a dire la cultura, l’esperienza, la memoria oscurate del popolo”
(Pourchepadass, 2000: 174-175). L’approccio storiografico di matrice gramsciana è, come abbiamo visto,
il riferimento di base per i Subaltern Studies.
Questo approccio mette in rilievo le poche tracce storiografiche prodotte dai subalterni. Facendo ciò mette in
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evidenza il fatto storico della loro oppressione e la negazione stessa della loro esistenza in quanto portatori di
iniziativa. Ed è in conseguenza a ciò che noi sappiamo che i subalterni parlano, agiscono, scrivono.
La constatazione fatta dai “subalternisti” della tacitazione dei subalterni o della rimozione del loro discorso
aprirà la strada a Gayatri Chakravarty Spivak, altra figura imprescindibile, assimilata al collettivo dei
Subaltern Studies, per il suo saggio Can the Subaltern Speak.
Questo intervento, pubblicato inizialmente con un altro titolo nel 1983, poi ancora nel 1988, ha avuto un
effetto deflagrante nella sfera della ricerca, trasversalmente alle discipline e parimenti nella sfera politica.
Numerosi movimenti civili l’hanno fatto proprio. Malgrado sia uno scritto decisamente ostico per la sua
complessità, il suo effetto sulla società postcoloniale in generale è innegabile.
Non mi sento di affermare che abbia permesso alla società di prendere davvero in considerazione i
movimenti d’opposizione e di contestazione subalterni. Tuttavia, ha permesso di porre la questione di questa
prospettiva. E, soprattutto, ha indicato gli scenari potenziali dell’espressione culturale dei subalterni e sui
subalterni.
In questa direzione “la forza d’impatto di questo tipo di critica della modernità non deriva da quanto la fa
apparire come incompleta o inefficace ma da quanto la smaschera come intrinsecamente perversa”
(Pourchepadass, 2000: 176)
5. I 10 Volumi
Prima di passare alle interpretazioni e alle critiche sollevate dai Subaltern Studies, mi sembra importante
definire il contesto materiale di produzione e di diffusione delle opere.
LES SUBALTERN STUDIES è una serie di volumi collettivi pubblicati dalla Oxford University Press-Delhi
dal 1982; il progetto iniziale ne prevedeva tre, ad oggi si è arrivati a dieci. I volumi hanno come sottotitolo
Writings on South Asian History and Society » (Pourchepadass, 2000: 161)
I Subaltern Studies all’inizio si proponevano dunque come raccolta di studi storiografici strettamente
specialistici.
6. Limiti, fraintendimenti e critiche
Se si considera la componente politica e militante alla base delle proposte di teorizzazione
storiografica attorno alla nozione di «subalterno» intrapresa da Ranajit Guha e dal collettivo dei
Subaltern Studies, si possono facilmente prevedere le numerose critiche.
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L’insieme delle critiche che vi sottopongo è essenzialmente di ordine politico, oppure scaturite da
fraintendimenti e confusioni, tratti che non mettono in discussione queste critiche ma le collocano in
un contesto scientifico e geopolitico complesso.
a. Interpretazioni erronee delle teorie di Antonio Gramsci
Tanto Ranajit Guha e il collettivo quanto Gayatri Chakravorty Spivak sono stati fortemente criticati rispetto
alle interpretazione e all’utilizzo delle categorie teoriche derivate da Antonio Gramsci e in particolare per la
categoria dell’eufemismo.
In effetti Gayatri Chakravorty Spivak, argomenta da più di trent’anni che la nozione di «subalterno»
utilizzata da Gramsci nelle sue annotazioni redatte durante la prigionia è un eufemismo per sostituire il
termine «proletariato». A suo giudizio – e a giudizio di numerosi altri - Gramsci avendo scritto queste
annotazioni durante la sua carcerazione avvenuta sotto il regime fascista, avrebbe utilizzato la nozione di
«subalterno» al posto di «proletariato» per eludere la censura.
Si è però da tempo dimostrato che questa ipotesi è infondata: l’analisi di storici, in particolare Marcus E.
Green, effettuata sull’insieme dei Quaderni dal carcere evidenzia l’appropriazione e l’utilizzo volontario da
parte di Antonio Gramsci della nozione di «subalterno», come la persistenza di quella di «proletariato».
Antonio Gramsci sarebbe dunque il creatore della categoria di «subalterno» nella sua concezione sociale e
storica quale «gruppo sociale dominato». Gramsci definisce inoltre in dettaglio gli aspetti strutturali in gioco
nella nozione di «subalternità»: sesso, classe, genere.
Bisogna riconoscere che i primi “subalternisti”, come Guha et Spivak, non avevano accesso a una traduzione
integrale degli scritti d’Antonio Gramsci, e nello specifico dei Quadern dal carcere ma disponevano soltanto
di una selezione commentata…
b. Il soggetto autonomo come strategia politica: l’essenzializzazione
L’impegno politico assunto programmaticamente è per se stesso alla base di reazioni.
La prima contestazione è stata di riprendere a proprio vantaggio la nozione di autonomia del soggetto: la
riconferma del primato della coscienza, concetto che, emerso dal metanarrazione dell’Illuminismo era stato
contestato e rimosso da tempo.
La risposta dei “subalternisti” è stata che questo assunto privo di fondamento scientifico doveva essere
recepito come costruzione politica, in quanto l’interiorità propria del soggetto e la sua autonomia di pensiero
permetteva agli studiosi di opporsi a un’altra metanarrazione (métarécit): quello dell’unanimità sociale del
movimento nazionalista.
In effetti, il discorso del mito dell’origine dello Stato-nazione indipendente, liberale e borghese era basato
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sulla negazione del proprio “altro”, il popolo dei dominati. I “subalternisti” conferivano in questo modo agli
“altri” un’esistenza politica.
Il rischio derivante da questo assunto politico della coscienza subalterna era di essenzializzarla come una
natura definita indipendente dal contesto e caricata di tratti distintivi (Pourchepadass, 2000: 167).
Questo slittamento verso l’essenzialismo, accostabile a quello imputato al discorso marxista ortodosso che
essenzializza la classe, era dunque relativamente inevitabile. (Pourchepadass, 2000: 168) L’esercizio della
storiografia rigorosa, sostenuto da un impegno politico forte ma che rigettava ogni determinazione dei
subalterni in base al contesto socio-economico, rendeva la questione assai delicata.
Dipesh Chakrabarty descrisse questo fenomeno come una sorta di «naïveté teorica». Si trattava, secondo lui,
di dimostrare che la “Ragione” – in riferimento alla metanarrazione illuminista - è un modello culturale come
un altro. Ma soprattutto si trattava, a partire da questo, di sostenere e di promuovere la resistenza dei
subalterni e anche di «provincializzare» o di «tiermondiser» (manca equivalente: rif. terzomondo) l’Europa:
D. Chakrabarty (1991: 2163): bisogna ricostruire la differenza culturale nella sua dignità, finirla per esempio
con il terrorismo interpretativo che stigmatizza la solidarietà che non sia riconducibile alla coscienza di classe
come falsa coscienza, ristabilire i «tempi etnici non disciplinati dallo Stato e dalla scrittura», restituire le
rappresentazioni identitarie, le memorie, le voci popolari occultate o oppresse prima dalla dominazione
occidentale quindi dalla narrazione della storiografia dominante complice della modernità (Pourchepadass, 2000:
173)
Da questo assunto politico e militante è dunque nata una grande ambiguità tra il «subalterno» definito
come essenza e il «subalterno» definito come relazione.
Il «subalterno» in quanto categoria che ingloba di fatto le classi del popolo nel loro insieme è davvero
eccessivamente vasta per essere una categoria d’analisi pertinente nelle scienze sociali. Pertanto, ancora una
volta, la dicotomia semplicistica del sociale («subalterno» /«dominante») chiamata in causa da questa vasta
categoria del «subalterno», rinforza la prospettiva politica della proposta e in tale prospettiva va colta ed è