REV.20.01.2010 Via della Maglianella, 65/T – 00166 Roma www.delfia.it [email protected]tel. 06/669911 fax: 06/66991330 STUDIO DI FATTIBILITA’ PER L’INTRODUZIONE DI UN LOGO NAZIONALE DA UTILIZZARE NELL’ETICHETTATURA, PRESENTAZIONE E PUBBLICITA’ DI PRODOTTI BIOLOGICI
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REV.20.01.2010
Via della Maglianella, 65/T – 00166 Roma www.delfia.it [email protected] tel. 06/669911 fax: 06/66991330
STUDIO DI FATTIBILITA’ PER L’INTRODUZIONE DI UN LOGO NAZIONALE DA UTILIZZARE
NELL’ETICHETTATURA, PRESENTAZIONE E PUBBLICITA’ DI PRODOTTI BIOLOGICI
SOMMARIO 1 Finalità ed articolazione dello studio...................................................................................5
2 Stato del mercato del settore biologico...............................................................................7
2.1 La normativa comunitaria e la sua evoluzione................................................................................. 7
2.2 Il logo biologico della Comunità Europea ...................................................................................... 22
2.3 L'import-export di prodotti biologici in Italia................................................................................. 24
2.4 Le “Biomense”................................................................................................................................ 26
2.5 Il Programma di azione nazionale per l’agricoltura e i prodotti biologici ...................................... 28
3 Analisi critica delle politiche di valorizzazione e differenziazione dei prodotti biologici in
alcuni Paesi dell’Unione Europea..............................................................................................30
3.1 Breve panoramica dei marchi europei........................................................................................... 30
3.2 I “marchi biologici nazionali” esteri ............................................................................................... 32
3.2.1 IL BIO SIEGEL TEDESCO.............................................................................................................................. 32
3.2.2 IL MARCHIO AB FRANCESE........................................................................................................................ 38
3.4.4 Altri marchi ............................................................................................................................................... 58
3.4.5 Analisi di comparazione ............................................................................................................................ 59
4 Analisi del quadro normativo del logo/marchio collettivo nazionale..................................62
4.1 I marchi, funzioni e generalità........................................................................................................ 62
4.2 La registrazione di un marchio collettivo....................................................................................... 68
4.3 L’ispettorato centrale per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari .......................... 69
4.4 Il marchio collettivo e le legislazioni estere ................................................................................... 70
L’agricoltura biologica nel mondo............................................................................................................. 123
L’agricoltura biologica in Europa............................................................................................................... 132
L’agricoltura biologica in Italia .................................................................................................................. 136
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1 Finalità ed articolazione dello studio
Negli ultimi anni si registrano in ambito europeo diverse esperienze di valorizzazione delle
produzioni biologiche, esperienze volte a garantire la qualità delle produzioni attraverso l’impiego
di marchi nazionali. L’apertura al marchio nazionale potrebbe rappresentare una nuova frontiera
nell’evoluzione della concorrenza delle produzioni biologiche: la gestione di un tale strumento
fornirebbe una “nuova identità” al prodotto, garantirebbe un adeguato livello qualitativo e
offrirebbe nuove opportunità di comunicazione con il consumatore ma anche con gli operatori
commerciali lungo la filiera di produzione.
Il presente studio ha l’obiettivo di fornire un valido strumento conoscitivo ed esplorativo che
evidenzi chiaramente le difficoltà, le potenzialità, i vantaggi e gli svantaggi che possono derivare
dalla costituzione di un marchio biologico nazionale. L’analisi è volta, quindi, a valutare la reale
fattibilità per l’introduzione di un marchio biologico italiano, in considerazione di diversi fattori e
variabili di seguito meglio specificate.
Le finalità intrinseche dello studio sono orientate ad analizzare:
- I marchi già realizzati in diversi Paesi dell’Unione Europea, effettuandone una rilettura
che ne evidenzi similitudini e specificità al fine di ricostruire le motivazioni che hanno
portato a tali scelte;
- Le fasi procedurali che occorrerebbe seguire nel caso si volesse intraprendere anche in
Italia un percorso che porti all’adozione di un logo biologico nazionale;
- Gli eventuali vantaggi e svantaggi che potrebbero derivare dall’impiego e dalla gestione
di tale strumento di valorizzazione.
- Conoscere l’orientamento riguardo al marchio biologico nazionale dei consumatori e
degli operatori di settore.
Per perseguire gli obiettivi della ricerca lo studio è stato articolato in diversi step e strutturato
come segue: viene dapprima esposto un quadro conoscitivo che consente di analizzare
sinteticamente la normativa di settore (comunitaria e nazionale) e di ricostruire la situazione del
mercato del settore biologico nazionale al fine di delineare il contesto dello studio.
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All’analisi conoscitiva segue un’analisi critica dei marchi biologici nazionali adottati in alcuni Paesi
UE. In questa sezione dello studio sono stati comparati i diversi marchi biologici nazionali adottati
da alcuni Paesi europei (Francia, Germania, Austria, Danimarca e Spagna), analizzando per
ciascuno di essi i vantaggi e/o svantaggi derivanti dall’adozione. Tale analisi conoscitiva e
comparativa ha permesso di trarre suggerimenti per l’attuazione di uno strumento di
valorizzazione da utilizzare anche in Italia.
Segue l’inquadramento normativo l’inquadramento normativo del marchio collettivo, in questa
sezione sono stati presi in esame i rilevanti strumenti normativi e regolamentari (Trattato,
Regolamenti, Pareri circostanziati), giurisprudenziali e dottrinali a livello comunitario e nazionale.
L’inquadramento normativo ha permesso di valutare la fattibilità “normativa” per l’introduzione
del marchio nazionale.
La ricerca non si è limitata ad uno studio propriamente “normativo” e “comparativo”, una parte
significativa del lavoro è stata rivolta alla realizzazione di un’indagine conoscitiva, la quale,
mediante la somministrazione di questionari, ha permesso di conoscere il prezioso punto di vista
dei consumatori e degli operatori di settore che rappresentano i principali destinatari del
potenziale marchio biologico nazionale.
Chiude il rapporto un’analisi SWOT nella quale confluiscono i risultati dello studio. L’analisi dei
punti di forza, debolezza, opportunità e minacce valuta la reale fattibilità per la costituzione di un
marchio biologico nazionale e conduce alle Conclusioni dello studio.
Per maggiore completezza della trattazione si riporta, in Appendice, lo stato dell’arte del settore
biologico, attraverso cui è possibile verificare l’evoluzione, tutt’ora in atto, relativa alle superfici e
alle colture a livello globale, europeo e nazionale.
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2 Stato del mercato del settore biologico
2.1 La normativa comunitaria e la sua evoluzione
Nel 1991 il Consiglio Europeo dei ministri dell’agricoltura ha adottato il Regolamento (CEE) n.
2092/91 sull’agricoltura biologica e sulla relativa etichettatura dei prodotti agricoli ed alimentari.
L'introduzione di questo Regolamento faceva parte della riforma della Politica Agricola
Comunitaria ed ha rappresentato la conclusione di un processo attraverso il quale l'agricoltura
biologica ha ricevuto il riconoscimento ufficiale dei 15 stati che erano membri dell'UE in quel
momento. All’inizio il regolamento sul settore biologico regolamentava solo i prodotti vegetali.
Ulteriori disposizioni per la produzione di prodotti di origine animale sono state introdotte
successivamente. Tali norme includevano l'alimentazione degli animali, la prevenzione delle
malattie, le cure veterinarie, la protezione degli animali, l'allevamento del bestiame in generale e
l'uso di deiezioni animali. L'uso di organismi geneticamente modificati e di prodotti da essi
derivanti era stato espressamente escluso dalla produzione biologica. Allo stesso tempo è stata
approvata l'importazione di prodotti biologici provenienti da paesi terzi i cui criteri di produzione e
sistemi di controllo sono stati riconosciuti come equivalenti a quelli dell'Unione Europea. Come
risultato di questo processo in corso di integrazione e modifica, le disposizioni contenute nel
Regolamento (CEE) n. 2092/91 sono diventate molto complesse e vaste. L’enorme importanza del
Regolamento biologico UE originario è dovuta al fatto che esso ha creato standard minimi comuni
per l'intera UE. In questo processo è aumentata la fiducia dei consumatori che hanno potuto
acquistare prodotti biologici provenienti da altri Stati Membri con la certezza che questi prodotti
soddisfacessero gli stessi requisiti minimi. E’ stata data facoltà agli Stati Membri e alle
organizzazioni private di adottare ulteriori norme più severe.
Dal 1 gennaio 2009 sono entrate in vigore le nuove direttive UE relative alla produzione, al
controllo e all’etichettatura dei prodotti biologici. Tuttavia, alcune delle nuove disposizioni
riguardanti l’etichettatura entreranno in vigore a decorrere dal 1 luglio 2010. Nel mese di giugno
2007 il Consiglio europeo dei ministri dell’agricoltura ha approvato un nuovo Regolamento del
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Consiglio (n. 834/2007) inteso a disciplinare le questioni relative all’agricoltura biologica e
all’etichettatura dei prodotti biologici. Questo nuovo regolamento del Consiglio include gli
obiettivi chiaramente definiti, i principi di base e le norme generali per la produzione biologica ed
abroga il Regolamento (CEE) 2092/91. Il nuovo quadro normativo si prefigge di avviare un nuovo
piano di orientamento per lo sviluppo continuo dell’agricoltura biologica al fine di ottenere sistemi
colturali sostenibili ed un’ampia varietà di prodotti di alta qualità. Nell’ambito di questo processo,
in futuro sarà data sempre più importanza alla protezione dell’ambiente, alla biodiversità e a
standard elevati in materia di protezione degli animali. La produzione biologica deve rispettare i
sistemi e i cicli naturali. E’ necessario mirare ad ottenere una produzione sostenibile, per quanto
possibile, utilizzando processi produttivi biologici e meccanici, attraverso una produzione legata
alla terra ed evitando l’impiego di organismi geneticamente modificati (OGM). Nell’ambito
dell’agricoltura biologica i cicli chiusi che si basano su un ricircolo delle risorse interne sono da
preferirsi ai cicli aperti che utilizzano input esterni. E’ auspicabile che l’uso delle risorse biologiche
esterne si limiti all’uso di risorse biologiche provenienti da altre aziende agricole, di materiali
naturali o ottenuti con metodi naturali e di fertilizzanti minerali a scarsa solubilità. Solo in
circostanze eccezionali e in mancanza di alternative valide è consentito l’uso di risorse ottenute
per sintesi chimica. Queste sostanze vengono autorizzate ed inserite nelle liste positive
dell’Allegato al Regolamento della Commissione solo dopo un’indagine approfondita da parte
della Commissione e degli Stati Membri. Dal momento che l’Unione Europea si estende
dall’estremo nord all’Europa meridionale ed orientale, le differenze climatiche locali, culturali o
strutturali si potranno compensare con le norme di flessibilità previste. Può essere utilizzata la
dicitura “biologico” per gli alimenti solo se almeno il 95% degli ingredienti agricoli proviene da
produzione biologica. Gli ingredienti biologici presenti nei prodotti alimentari non biologici
possono essere riportati come biologici nell’elenco degli ingredienti, purché tali alimenti siano
stati prodotti in conformità alla normativa relativa alla produzione biologica. Sarà inoltre
obbligatorio indicare il numero di codice dell’Organismo di Controllo al fine di garantire una
maggiore trasparenza. Nell’ambito della produzione biologica è ancora vietato l’uso di organismi
geneticamente modificati (OGM) e di prodotti ottenuti con OGM. I prodotti che contengono OGM
possono essere etichettati come biologici solo se gli ingredienti contenenti OGM sono stati inclusi
nei prodotti involontariamente e se la percentuale di OGM negli ingredienti è inferiore allo 0,9%.
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Secondo la nuova normativa, i produttori di alimenti biologici confezionati devono utilizzare il logo
biologico UE a decorrere dal 1° luglio 2010. L’utilizzo del logo su eventuali alimenti provenienti da
paesi terzi è, tuttavia, facoltativo. A partire dal 1° luglio 2010, qualora si utilizzi il logo biologico UE,
sarà obbligatorio indicare il luogo di produzione degli ingredienti agricoli. La distribuzione di
prodotti biologici provenienti da paesi terzi è consentita nel mercato comune solo se sono prodotti
e controllati nelle stesse condizioni o in condizioni equivalenti. Il regime di importazione è stato
ampliato con la nuova legislazione. In precedenza potevano essere importati solo prodotti
biologici provenienti da paesi terzi riconosciuti dall’UE o merci la cui produzione era controllata
dagli Stati Membri e che avevano ricevuto una licenza d’importazione. La procedura per le licenze
d’importazione sarà in futuro sostituita da un nuovo regime d’importazione. Gli organismi di
controllo che operano in paesi terzi saranno quindi direttamente autorizzati e monitorati dalla
Commissione Europea e dagli Stati Membri. Questa nuova procedura consente alla Commissione
europea di controllare e monitorare meglio l'importazione di prodotti biologici e di garantire
l’integrità del biologico. Inoltre, nella nuova legislazione sono state poste le basi per l’accettazione
delle norme comunitarie in materia di acquacoltura ed alghe biologiche.
Regolamento del Consiglio (CE) n. 834/2007 del 28 giugno 2007 relativo alla produzione biologica
e alle modalità di etichettatura dei prodotti biologici e che abroga il Regolamento (CEE) n.
2092/91. Questo regolamento costituisce il quadro giuridico di riferimento per tutti i livelli di
produzione, distribuzione, controllo ed etichettatura dei prodotti biologici che possono essere
offerti e commercializzati nell'UE. Esso determina il continuo sviluppo della produzione biologica
fornendo obiettivi e principi chiaramente definiti. Le linee guida generali in materia di produzione,
controllo ed etichettatura sono state stabilite dal Regolamento del Consiglio e pertanto possono
essere modificate soltanto dal Consiglio Europeo dei ministri dell’agricoltura. Il precedente
Regolamento (CEE) n. 2092/91 è contemporaneamente abrogato. L’applicazione della nuova
normativa in materia di etichettatura e l’uso obbligatorio del logo biologico UE sono stati rinviati al
1° luglio 2010 secondo un emendamento al Regolamento del Consiglio.
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Nel 2008 sono stati adottati due nuovi regolamenti della Commissione che disciplinano la
produzione biologica, l’importazione e la distribuzione di prodotti biologici, nonché la loro
etichettatura.
Regolamento della Commissione (CE) n. 889/2008 del 5 settembre 2008 che riporta le norme
dettagliate di produzione, etichettatura e controllo incluso il suo primo emendamento alle norme
di produzione per il lievito biologico.
Il Reg. CE 889/2008 però non si applica ai seguenti prodotti:
a) prodotti dell'acquacoltura;
b) alghe marine;
c) animali di allevamento di specie diverse da bovini, bufalini, ovini, caprini, suini e avicoli;
d) lieviti utilizzati come alimenti o come mangimi.
Per questi prodotti occorrerà quindi attendere specifiche norme attuative che sono in corso di
preparazione da parte della commissione europea. Tuttavia sempre per questi prodotti , il titolo II,
il titolo III e il titolo IV del Reg. CE 889/2008 si applicano mutatis mutandis fino a quando per tali
prodotti non vengano adottate norme di produzione specifiche ai sensi del regolamento (CE) n.
834/2007. Questo è coerente con l’articolo 42 del Reg. CE 834/2007 stesso che prevede che
qualora non siano fissate le norme dettagliate di produzione per talune specie animali, piante
acquatiche e microalghe, si applicano le norme in materia di etichettatura e di controllo previste,
rispettivamente, all’articolo 23 Reg. CE 834/2007 e al titolo V Reg. CE 834/2007. In attesa
dell’inserimento di norme dettagliate di produzione si applicano norme nazionali o, in mancanza di
queste, norme private, accettate o riconosciute dagli Stati membri.
Regolamento della Commissione (CE) n. 1235/2008 dell’8 dicembre 2008 che riporta norme
dettagliate in materia di importazione di prodotti biologici provenienti da paesi terzi.
Nel Regolamento della Commissione (CE) n. 889/2008 sono regolamentati tutti i livelli di
produzione vegetale ed animale, dalla coltivazione del terreno e dall’allevamento di animali alla
trasformazione, alla distribuzione e al controllo degli alimenti biologici. Tale Regolamento riporta
numerosi dettagli tecnici e rappresenta, per la maggior parte, un ampliamento del Regolamento
originale sul settore biologico, tranne che nelle parti in cui questo è stato regolamentato in
maniera differente nel Regolamento del Consiglio.
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Molteplici Allegati sono acclusi al Regolamento della Commissione. Tra questi si possono trovare:
• Prodotti consentiti in agricoltura biologica, come fertilizzanti, ammendanti del suolo e
pesticidi
• Requisiti minimi delle dimensioni degli alloggi e degli spazi, compresi i pascoli per gli
allevamenti biologici, a seconda delle specie animali e delle fasi di sviluppo.
• Alimenti per animali non-biologici, additivi per mangimi e coadiuvanti tecnologici per la
produzione di mangimi composti e premiscele consentiti in agricoltura biologica.
• Ingredienti non biologici, additivi e coadiuvanti tecnologici consentiti nella produzione di
alimenti biologici (compresa la produzione di lievito).
• Requisiti per il logo comunitario.
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Campo di applicazione del regolamento
Il Regolamento del Consiglio si applica ai seguenti prodotti agricoli, compresa l'acquacoltura e il
lievito:
• Prodotti vivi o non trasformati
• Alimenti trasformati
• Alimenti per animali
• Sementi e materiali di moltiplicazione vegetativa
Nel campo di applicazione del presente Regolamento è inclusa anche la raccolta di piante
selvatiche e di alghe marine
Non sono inclusi nel campo di applicazione:
• Prodotti provenienti dalla caccia e dalla pesca di animali selvatici.
Tra i “considerando” del Reg. 834/07 è evidenziata, inoltre, la necessità di stabilire un quadro
normativo anche per il vino che, fino ad oggi, è stato penalizzato da un’importante carenza
normativa. In assenza di requisiti specifici per la trasformazione, finora si è potuto riportare in
etichetta esclusivamente la dicitura “vino ottenuto con uve da agricoltura biologica”; con la nuova
normativa, invece, una volta che la Commissione avrà definito i requisiti per il processo di
vinificazione, si potrà indicare la dicitura “vino biologico”. Dal campo di applicazione continua ad
essere esclusa la ristorazione collettiva, ma è prevista la possibilità per gli Stati membri di adottare
norme nazionali specifiche o, in mancanza di queste, norme private, in tema di etichettatura e
controlli in materia.
La normativa per le produzioni vegetali
Rispetto a quanto stabilito dal Reg. CEE 2092/91, applicato fino al 01/01/09, il Reg. CE 834/2007
ed il successivo Reg. CE 889/2008, in materia di produzioni vegetali, non hanno apportato radicali
modifiche.
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I principi fondamentali dell’agricoltura biologica, in materia di produzioni vegetali, erano e restano
quelli già enunciati nel Reg. CEE 2092/91.
L’aggiornamento della legislazione in materia di agricoltura biologica, resosi necessario per le
trasformazioni subite nel tempo dal vecchio quadro normativo e per le evoluzioni del mercato e
dalla sensibilità dei consumatori, avvenute dal 1991 ad oggi, non comporta certamente, lo
sconvolgimento dei criteri di base, sui quali si fonda la produzione vegetale biologica.
I concetti di base dell’agronomia, la rotazione delle colture, la scelta di specie e varietà adattate e
resistenti alle malattie ed ai parassiti, l’impiego di sostanza organica di origine aziendale, le
operazioni colturali effettuate con tecniche rispettose della struttura del suolo a difesa della
fertilità e salvaguardando il terreno dall’erosione, l’impiego di mezzi tecnici limitato a quelli
consentiti dalla normativa stessa, erano alla base del vecchio Reg. CEE 2092/91 e restano come
tali, alla base dei nuovi Reg. CE 834/2007 e 889/2008.
Le principali differenze che emergono , infatti, dalla lettura dei regolamenti citati, in materia di
produzione vegetale, sono riferite ad aspetti di tipo organizzativo e procedurale, introdotte per
garantire una maggiore trasparenza fra le operazioni attuate in fase produttiva, le operazioni di
controllo e la garanzia verso il consumatore.
Di seguito si analizzeranno brevemente gli scostamenti che emergono, in materia di produzione
vegetale, fra il “vecchio” Reg. CEE 2092/91 ed i “nuovi” Reg. CE 834/2007 e 889/2008.
Il primo, e ad una prima lettura, più importante cambiamento apportato dal Reg. CE 834/2007, è
citato all’articolo 11, dove il primo comma recita “L’intera azienda agricola è gestita in conformità
dei requisiti applicabili alla produzione biologica”. Proseguendo però nelle lettura dell’articolo,
emerge immediatamente che, con modalità che richiamano quanto già enunciato dal Reg. CEE
2092/91, si introducono i criteri secondo i quali un’azienda può condurre anche siti di produzione
convenzionale.
Un’importante novità è invece introdotta con il Reg. CE 889/2008 all’articolo 45 dove viene
concessa la possibilità di utilizzare sementi provenienti da terreni in conversione all’agricoltura
biologica.
Relativamente poi agli aspetti legati alle procedure previste dai regolamenti per permettere agli
operatori di ottenere, a fronte di adeguate prove documentali, l’abbreviazione del periodo di
conversione, il Reg. CE 889/2008 prevede all’articolo 36, che sia esclusivamente l’autorità
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competente a rilasciare questa possibilità, così come il piano di conversione nel caso delle
produzioni parallele, citate all’articolo 40 del Reg. CE 889/2008, deve essere approvato anch’esso
dall’autorità competente.
È stata rivista la parte che prevedeva che l’organismo di controllo, in molti casi, dovesse
riconoscere la necessità dell’impiego dei prodotti per la difesa delle piante e la concimazione del
terreno, sostituendola con l’obbligo da parte dell’operatore di produrre e conservare la
documentazione comprovante la reale necessità d’impiego.
La normativa per le produzioni zootecniche
Con l’entrata in vigore dei Reg. CE 834/2007 e 889/2008, le produzioni zootecniche possono,
infatti continuare il loro percorso verso la ricerca di una maggiore conquista del mercato, senza
subire stravolgimenti e ostacoli portati dalle nuove prescrizioni comunitarie.
Questi regolamenti, pur nel loro articolato intreccio normativo, aggiungono chiarezza a molti
aspetti di dubbia interpretazione che caratterizzavano invece il vecchio regolamento 1804/99 che
inserì le produzioni zootecniche in biologico a partire dall’anno 2000.
Si tratta di regole più definite e più chiare, frutto dell’esperienza nell’applicazione di un rigido
sistema biologico europeo in una varietà di mondi produttivi così diversa per specie, razza,
indirizzo produttivo, tecniche di allevamento, regioni climatiche di tutta Europa. Un vero
caleidoscopio zootecnico difficilmente governabile con un regolamento omnicomprensivo.
Si è quindi rivisto un sistema che per le sue finalità ha confermato di espletare la duplice funzione
sociale di rispondere alle crescenti esigenze di sanità alimentare del consumatore e di tutela
dell’ambiente nel progresso rurale; sono stati gettati i presupposti affinché i singoli governi
possano legiferare e dare sviluppo alla proprie produzioni zootecniche.
Da un lato il concetto di flessibilità consente l’applicazione di metodiche produttive più consone
alle tradizioni ed alle realtà climatiche territoriali che caratterizzano ogni singolo Paese, dall’altro il
criterio di omogeneità commerciale del mercato europeo, pone le basi per normative nazionali
che tendono a favorire la libera circolazione dei prodotti biologici all’interno del mercato comune.
Sono questi gli elementi di novità su cui ogni singolo Stato può conferire maggiore pregio e
visibilità alle proprie produzioni.
Le regole base di tali regolamenti toccano i seguenti ambiti.
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Origine degli animali
Sono da preferire le razze rustiche, autoctoni, caratterizzate da adattabilità ambientale, resistenza
alle malattie, longevità e produttività; gli animali devono provenire da allevamenti che operino in
conformità alle disposizioni in materia di zootecnia biologica, oppure se già presenti in azienda
possono essere convertiti. In casi particolari, come la costituzione o il rinnovo del parco animali, in
cui non è possibile recuperare un numero sufficiente di capi ottenuti con metodi biologici è
possibile utilizzare quelli ottenuti da metodi non biologici previa autorizzazione dell’organizzazione
di controllo. Nell’azienda zootecnica biologica tutti gli animali appartenenti alla stessa specie
devono essere allevati secondo il metodo biologico, mentre animali di specie diversa possono
essere allevati secondo il metodo convenzionale purché ciò avvenga in un’unità nettamente
distinta da quella adibita al biologico.
Metodi di gestione zootecnica
Riproduzione: la riproduzione di animali allevati biologicamente deve basarsi su metodi naturali, è
ammessa l’inseminazione artificiale ma sono vietate altre forme di riproduzione artificiale o
assistita e che prevedono tecniche di ingegneria genetica.
Interventi sull’anatomia e fisiologia animale: è vietata la pratica sistematica di operazioni
mutilanti o costrittive che non abbiano fini terapeutici, solo in alcuni casi l’organismo di controllo
può autorizzare queste pratiche allo scopo di migliorare la salute o il benessere animale.
E’consentita la castrazione praticata prima del raggiungimento della maturità sessuale, è vietato,
invece, mettere gli occhiali al pollame.
Stabulazioni e pascoli: è vietata la stabulazione fissa, ma sono comunque previste deroghe in casi
particolari descritti nel regolamento; le condizioni di stabulazione e densità degli animali devono
rispondere alle loro esigenze biologiche ed etologiche.
Trasporto: il trasporto non deve costituire motivo di eccessivo stress per gli animali; è vietato l’uso
di calmanti allopatici prima o nel corso di questa fase, le operazioni di carico e scarico devono
essere fatte con cautela senza l’utilizzo di pungoli elettrici. L’identificazione degli animali deve
essere garantita per tutto il ciclo di produzione, preparazione, trasporto e commercializzazione.
Alimentazione
L’alimentazione è finalizzata ad una produzione di qualità nel rispetto delle
esigenze nutritive degli animali nei vari stadi fisiologici. E’ vietata
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l’alimentazione forzata. Gli animali devono essere nutriti con alimenti biologici, preferibilmente
prodotti nell’unità produttiva o in altre unità aderenti alle disposizioni in materia di produzioni
biologiche. Nella razione possono essere incorporati alimenti in fase di conversione fino ad un
limite massimo del 60% se provenienti dalla propria azienda e del 30% se provenienti da altre
unità. Nel caso in cui si debba utilizzare alimento non biologico si dovranno produrre all’organismo
di controllo le garanzie in merito all’assenza di organismi geneticamente modificati. E’ proibito
l’uso di antibiotici, coccidiostatici, medicinali, stimolanti della crescita o altre sostanze atte a
stimolare la crescita o la produzione.
Profilassi e cure veterinarie
La profilassi si basa soprattutto su misure preventive, nel caso in cui si presentino problemi di
salute l’animale o gli animali colpiti devono essere curati utilizzando i seguenti gruppi di
medicinali:
• prodotti fitoterapici: (estratti vegetali, esclusi gli antibiotici,
• essenze….);
• prodotti omeopatici: (sostanze vegetali, animali, o minerali) o di altro genere purché
riconducibili all’ambito della medicina dolce;
• oligoelementi riportati nel regolamento.
Se questi dovessero risultare insufficienti è possibile ricorrere ai medicinali allopatici previa
comunicazione all’organismo di controllo. Possono essere effettuati fino a due trattamenti
antiparassitari nell’arco dell’anno.
Deiezioni zootecniche
Il limite massimo è di 170 Kg di azoto per ettaro all’anno. Lo spandimento delle deiezioni dovrà
avvenire preferibilmente su terreni della medesima azienda, ma può essere praticato anche presso
altre aziende che applicano il metodo biologico. Lo stoccaggio deve essere effettuato in impianti di
capacità tale da garantire la corretta gestione della fertilizzazione e impedire l’inquinamento delle
acque per scarico diretto, ruscellamento o infiltrazione.
Nessuno stravolgimento, quindi, per gli operatori che già applicano il metodo di produzione
zootecnico in conformità al Reg. CE 2092/91, ma rimane l’auspicio di un cambiamento che
consenta maggiore snellezza produttiva e trasparenza delle qualità intrinseche dei prodotti
dell’allevamento, nel rispetto dei principi che regolano il settore del biologico.
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La normativa per la produzione per animali d’acquacoltura
Sono trascorsi 10 anni dalla promulgazione del regolamento CEE 1804/99 con il quale per la prima
volta si citava la possibilità di ottenere prodotti dell'acquacoltura biologici. In effetti venivano citati
e si dava ad ogni singolo Stato membro la facoltà di approvare specifici disciplinari nazionali e sulla
base di questi certificarne le produzioni conformemente al superato regolamento CEE 2092/91.
Questo perché la Comunità Europea aveva previsto la possibilità di estenderne il campo
d'applicazione ai prodotti dell'acquacoltura ed incoraggiava gli Stati membri a sperimentare le
modalità di allevamento e di ottenimento di tali prodotti.
Oggi, con il regolamento CE n.710 del 5 agosto 2009 parte ufficialmente il settore
dell'acquacoltura biologica. Sarà possibile allevare con tecniche biologiche e certificare
l'allevamento di pesci d'acqua dolce, di pesci d'acqua salata, gamberi e altri molluschi, cozze,
ostriche e anche alghe. Un settore destinato a crescere: i consumi di pesce aumentano mentre la
pesca diminuisce a causa dello sfruttamento non controllato che ha impoverito le risorse naturali
dei mari.
Il regolamento 710 modifica il regolamento (CE) n. 889/2008 che contiene il quadro di
applicazione generale del regolamento sull'agricoltura biologica, il n.834/2007 che ha sostituito il
vecchio regolamento n.2092/91. Il regolamento 710 è composto di due articoli e di un allegato,
che a sua volta modifica ed integra alcuni allegati del regolamento n.889/2008. Il regolamento 710
sarà applicato a partire dal 1 luglio 2010.
L'impatto della nuova normativa per l'acquacoltura biologica sul piano produttivo e commerciale,
anche se difficile da stimare, sarà sicuramente rilevante, sopratutto nel giro di qualche anno.
L'Unione Europea punta decisamente su un'acquacoltura il più possibile sostenibile per rispondere
alle esigenze contrastanti della domanda crescente di prodotti ittici da parte dei consumatori e
della diminuzione delle risorse naturali della pesca, impoverite da decenni di sfruttamento fuori
controllo. Per l'Italia, quindi, quello dell'acquacoltura biologica sarà un settore da sostenere e
valorizzare, anche per creare nuove imprese e dare nuove fonti di reddito ad allevamenti già
esistenti, che potrebbero vedere valorizzata la propria produzione proprio grazie alla certificazione
biologica.
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Il regolamento n.710/2009 affronta tutti gli aspetti dell'allevamento degli animali d'acquacoltura:
dall'origine degli animali alle norme di allevamento, dalla riproduzione all'alimentazione, dalle
norme specifiche per alcun animali, come i molluschi, agli aspetti della profilassi e dei trattamenti
veterinari, un aspetto particolarmente delicato in acquacoltura.
L'elenco delle specie che possono essere allevate secondo le regole dell'acquacoltura biologica si
trova nel nuovo allegato XIII bis, in cui sono specificati anche i diversi sistemi di produzione ed il
coefficiente di densità massimo per ogni tipo di allevamento biologico (espresso in kg/m3). Il
coefficiente è ovviamente diverso per le diverse forme di allevamento e per le diverse specie: si va
così da 4 kg/m3 per spigole e orate nelle lagune (sezione 4, vedi avanti) ai 25 kg/m3 per la
salmotrota e la trota iridea in acque dolci (sezione 1). In altri casi, come per la piscicoltura
biologica in acque interne (sezione 6), è indicata la resa di produzione massima, espressa in kg per
1Il logo danese e spagnolo indicano che l’ultima preparazione di un prodotto biologico è stata effettuata da un’azienda
rispettivamente danese o spagnola sotto il controllo della autorità pubblica locale. Il logo, quindi può essere utilizzato sia su prodotti di origine nazionale sia su prodotti di origine estera (comunitaria ed extra-comunitaria) che siano trasformati o semplicemente confezionati ed etichettati nel Paese.
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Paese Francia Danimarca Spagna Austria Germania
Logo Marque AB Stats kontrolleret Økologisk
Loghi regionali
Bio-Zeichen Bio-siegel
di Paesi terzi?
Disponibile per materia prima di altri Paesi UE?
Sì Sì Sì Sì Sì
Disponibile per materia prima di Paesi terzi?
Sì Sì Sì Sì Sì
Come si evince dal quadro sinottico, per non penalizzare economicamente le imprese licenzatarie,
nessun logo nazionale prevede standard più restrittivi di quelli stabiliti nei vigenti regolamenti
europei né (per evitare la contestazione di aiuti di stato) alcun legame con l’origine territoriale
della materia prima: il logo assume un ruolo esclusivo di attestazione di conformità del prodotto
alla normativa europea, senza badare all’origine del prodotto né alla provenienza delle materie
prime che ne costituiscono gli ingredienti.
In considerazione di tale ruolo, a esclusione di Spagna e Danimarca, il logo è disponibile anche per
le aziende estere ed extra-comunitarie che ne facciano semplice richiesta.
Tale conformità è ritenuta provata in ambito UE e nei Paesi terzi in regime di equivalenza con la
certificazione di un qualsiasi organismo nazionale di controllo autorizzato; nel caso di prodotti
provenienti da Paesi terzi non in regime di equivalenza è ritenuta provata dalla certificazione
rilasciata da un organismo o un’autorità di controllo riconosciuti ai sensi dell’art.32 del Reg. CE
n.834/2007.
Neppure nel caso di Spagna e Danimarca, tuttavia, il logo identifica un prodotto di origine
nazionale (al contrario: come si evince anche dalle etichette sopra riprodotte, esso è concesso
anche a prodotti la cui fase produttiva si è interamente svolta all’estero): attesta, piuttosto, che
l’impresa che ha realizzato l’ultima operazione (anche solo il semplice confezionamento ed
etichettatura) è sottoposta ai controlli, rispettivamente, dei Consejos Reguladores de la
Agricultura Ecológica e del Plantedirektoratet.
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Non procedendo tali autorità pubbliche a operazioni di controllo all’esterno dei confini nazionali,
ne consegue che il loro logo è concesso in via esclusiva a prodotti confezionati da imprese
nazionali, pur se con materia prima conforme di qualsiasi origine. Si tratta, peraltro, di un effetto
derivato: quello primario è di attestare il controllo diretto da parte dell’autorità pubblica che,
almeno per la luterana Danimarca, ha un rilievo significativo.
Tomas Fibiger Norfelt, del Landscentret del Dansk Landbrugsrådgivning (il Servizio pubblico di
assistenza tecnica in agricoltura), infatti, nel suo “Organic Farming in Denmark 2003” reperibile sul
sito www.organic-europe.net scrive “In generale i danesi, al contrario degli abitanti dei Paesi
limitrofi, hanno una grande fiducia nello Stato come organismo di controllo serio e neutrale”.
Pur consapevole di questo apprezzamento, nella pubblicazione presentata a Biofach 2009
(manifestazione in cui la Danimarca è stata “nazione dell’anno”), il ministero danese ha scritto con
chiarezza: “È una speranza fondata che la fiducia dei consumatori nel sistema di controllo pubblico
danese possa trasferirsi senza alcun problema sul comune logo europeo”.
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3.4 Breve analisi di marchi privati italiani
In Italia una quota leggermente inferiore all’1% delle aziende biologiche applica un disciplinare
privato (naturalmente nel pieno rispetto dei requisiti base della normativa comunitaria) che
meglio precisa alcuni aspetti dei regolamenti vigenti o stabilisce limitati vincoli aggiuntivi.
Salvo sospensioni temporali, per la concessione della licenza d’uso dei marchi utilizzati è previsto a
carico del concessionario l’obbligo di corrispondere una royalty calcolata sul fatturato derivante
dalla commercializzazione dei prodotti e dei servizi contrassegnati con il marchio, aggiuntiva
all’equo compenso corrisposto all’organismo di controllo.
3.4.1 Demeter
Il primo di tali marchi per numero di aziende utilizzatrici (circa 300) è
il marchio Demeter.
L’organizzazione preposta a tutelare in Italia il marchio (apposto su
prodotti agricoli freschi e trasformati provenienti da aziende che
applicano il metodo biodinamico) è Demeter Associazione Italia, con sede a Parma.
Il marchio DEMETER è registrato dal 27.10.1961 presso I’Organisation Mondiale de la Proprièté
Intelectuelle di Ginevra al n. 248829 e in 53 Paesi; in Italia presso il Ministero dell’industria al n.
00674016 (marchio parola Demeter) e al n. 00674017 (marchio” fiore con dicitura racchiusa in
cornice rettangolare”).
Il marchio viene concesso dalla Demeter Associazione Italia alle imprese (aziende agricole, ditte di
trasformazione e commercializzazione) conformi ai disposti contenuti nelle “Linee Guida
internazionali per la produzione e la trasformazione Demeter”.
L’impresa deve aver preso parte ad almeno un corso base completo e riconosciuto
dall'Associazione per l’agricoltura biodinamica e, a giudizio di questa, deve aver raggiunto una
routine completa e stabile della pratica secondo la tradizione biodinamica.
L’edizione italiana delle “Norme direttive (standard) per il conseguimento dell’autorizzazione
all’uso del marchio Demeter” precisa che:
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“A base della qualità dei prodotti Demeter sta la scienza dello spirito di Rudolf Steiner (1861-
1925)” e che
”Le norme direttive Demeter non dovrebbero soltanto limitare o vietare. Esse dovrebbero cercare
coscienziosamente di garantire il modo di lavorare secondo qualità durante i processi di
trasformazione. Alla fine è importante che ciascun trasformatore sia in grado di lavorare in modo
responsabile sulla base delle direttive seguenti. Ogni individuo deve una parte della sua esistenza e
del proprio successo al più ampio Movimento Biodinamico, ed ogni azione a livello locale, anche se
svolta all’insaputa, contribuisce alla più ampia comunità. Perciò tutti dovrebbero cercare di agire
sempre in modo che la fiducia dei consumatori nei riguardi del metodo Biodinamico e dei prodotti a
marchio Demeter sia confermata e giustificata. Alla lunga la miglior pubblicità recepita dal
consumatore è la certezza dell’ottima qualità dei prodotti Demeter”
Il disciplinare per la trasformazione riduce (limitatamente) i coadiuvanti tecnologici e gli ausiliari di
fabbricazione di cui all’allegato VIII del reg. CE n. 889/2008, e detta indicazioni anche per i
materiali d’imballaggio (non sono permessi, salvo esenzioni temporanee, il polivinilcloruro né altri
clorurati di sintesi, bidoni e lattine in alluminio, carte stagnole e fogli laminati in alluminio; le
scatolette possono anche essere del tipo da saldare, ma non si possono usare leghe).
Non è neppure permesso aggiustare il gusto con l’aggiunta di aromi (mentre si possono usare gli
estratti puri, le erbe aromatiche e le spezie).
Per quanto riguarda la materia prima, essa deve provenire da aziende agricole biodinamiche che
abbiano stipulato un contratto con l’ organizzazione Demeter nel loro Paese; nel caso in cui un
ingrediente non sia reperibile in qualità Demeter, è ammesso l’utilizzo di prodotti biologici
certificati da un organismo di controllo autorizzato, così come quello dei prodotti non biologici
elencati nell’allegato IX del reg. CE n.889/2008 (Ingredienti non biologici di origine agricola di cui
all'articolo 28).
Oltre alla parte generale, il disciplinare prende in esame capitoli specifici per
• prodotti orto-frutticoli (comprese le patate) Demeter (mon è ammessa la produzione di succhi
vegetali mediante la redidratazione di succhi concentrati)
• prodotti dell’alveare Demeter
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• mandorlati prodotti da noci e semi Demeter (escluse creme da spalmare)
• pane e prodotti da forno a marchio Demeter (privilegiando la pasta madre acida prodotta
presso il panificio con l’obiettivo di sviluppare un processo a più fasi senza ricorrere ai lieviti. L’
alcool è proibito in ogni sua forma).
• cereali, sfarinati e paste alimentari Demeter
• erbe e spezie Demeter
• carni e insaccati Demeter
• latte e prodotti lattiero – caseari Demeter
• olii e grassi alimentari Demeter
• dolcificanti Demeter
• cosmetici Demeter (Gli ingredienti che danno il nome sono di qualità Demeter e almeno il 50%;
almeno il 90% degli ingredienti totali sono certificati biologici).
• vino Demeter (ammettendo il 50% dell’anidride solforosa ammessa nei prodotti
convenzionali).
Non esiste alcun vincolo sull’origine territoriale della materia prima né sulla territorialità
dell’azienda: il marchio è internazionale ed è concesso ad aziende con sede in qualsIasi Paese su
prodotti di qualsiasi origine geografica: l’aspetto su cui si concentra il disciplinare è la conformità
tecnica.
3.4.2 Aiab
Il secondo disciplinare privato per numero di aderenti (65 aziende) è quello
emanato da Aiab, con sede a Bologna.
Le aziende conformi all’apposito disciplinare che ne facciano richiesta,
possono utilizzare il marchio collettivo “garanziaAiab”.
Nel caso di tale disciplinare, l’origine territoriale della materia prima dev’essere prevalentemente
nazionale (minimo 65%) e sono previste limitate differenze dal quadro normativo europeo, che
riguardano:
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• l’azienda garanziaAIAB deve essere interamente condotta con metodo biologico (non è
ammessa l’azienda mista)
• l’azienda garanziaAIAB deve aver terminato il periodo di conversione
• l’azienda zootecnica garanziaAIAB deve alimentare il bestiame solo con alimenti biologici (non
sono ammesse le deroghe del Reg. (CE) 834/07)
• l’azienda garanziaAIAB deve lavorare solo materie prime ottenute in Italia (salvo quelle non
producibili in Italia)
Gli ingredienti di origine estera sono ammessi in percentuale massima del 35% sul totale degli
ingredienti di origine agricola e devono necessariamente provenire da commercio equo e solidale
certificato.
AIiab si riserva la possibilità di attivare deroghe al disciplinare.
3.4.3 Amab
Il disciplinare di produzione “Garanzia Biologico Amab” di proprietà di Aiab
Marche, con sede in Senigallia (domanda di brevetto depositata all’Ufficio
Italiano Brevetti e Marchi di Roma-Uff. Prov. di Ancona in data 08.10.1997
con il n° AN97C000184, inerente la produzione ed il commercio dei prodotti
di natura biologica indicati nelle classi 5-22-23-24-25-29-30-31- 32-33,
nonché i servizi della classe 41), è entrato in vigore il 1 febbraio 2004 ed è
accreditato da IOAS (International Organic Accreditation Service) Ifoam in data 05.09.2003.
L’Amab ha demandato la concessione in uso del marchio collettivo all’Istituto Mediterraneo di
Certificazione srl - IMC, demandando anche le attività di controllo e certificazione relative all’uso.
Sulla base di tale disciplinare, è vietato passare dal metodo biologico a quello convenzionale e di
nuovo a quello biologico; è vietato coltivare la stessa varietà colturale o la stessa specie animale
simultaneamente con metodo biologico e convenzionale nella stessa azienda, anche se ciò si
verifica in distinte unità produttive aziendali.
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Il 100% degli ingredienti contenuti nel prodotto trasformato dovrebbe essere ottenuta in accordo
alle norme del Disciplinare. Qualora ciò non fosse possibile, almeno due terzi degli ingredienti
devono provenire da colture o allevamenti ottenuti in aziende che applicano il Disciplinare AMAB;
il restante terzo deve derivare da colture o allevamenti ottenuti in aziende che applicano gli
Standards IFOAM o equivalenti.
Nel caso che uno o più ingredienti non possa essere certificato come conforme agli Standard
IFOAM, l’Organismo di controllo verifica la loro equivalenza con i suddetti Standards e, se
possibile, autorizza l’uso dell’ingrediente (o degli ingredienti).
Quando importati da Paesi extra-comunitari, possono utilizzare il Marchio “Garanzia Biologico
Amab” soltanto quei prodotti che osservano il Disciplinare. Il rispetto di questo deve essere
controllato dall’Istituto Mediterraneo di Certificazione in maniera diretta, oppure da organismi di
controllo convenzionati con lo stesso.
Nei casi in cui la produzione è basata sulla violazione dei diritti umani di base e su un’evidente
ingiustizia sociale, il prodotto non può essere certificato.
Prodotti che contengono ingredienti provenienti da agricoltura biologica in conversione, per oltre
il 5% del totale non possono utilizzare il marchio, così come non possono utilizzarlo i prodotti che
contengono meno del 95% in ingredienti di origine biologica.
3.4.4 Altri marchi
Un altro marchio trasversale è “Qualità Lavoro”, che si basa su un disciplinare elaborato
congiuntamente da Aiab e Uila.
Detto marchio, che è concesso solo ad imprese già licenzatarie del marchio GaranziaAiab, palesa
peraltro alcuni aspetti di ridondanza, in quanto impegna le aziende al rispetto di norme comunque
cogenti e inderogabili (pieno rispetto dei vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro e dei relativi
contratti provinciali per gli operai agricoli e florovivaisti, gli impiegati e i quadri agricoli, rispetto
delle norme sulla sicurezza sul lavoro, possesso del documento unico di regolarità contributiva).
Se ne dà menzione solo per completezza d’informazione, segnalando comunque l’irrilevanza del
numero di licenzatari (attualmente sei aziende in tutta Italia, di cui due in Lazio, due in Basilicata,
una ciascuna in Umbria e Sicilia).
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Esistono poi marchi che fanno riferimento a servizi e produzioni specifiche (anche non alimentari),
in particolare sulla cosmesi e i prodotti di detergenza, sul tessile e sull’agriturismo, che tuttavia
esulano dalla materia della presente analisi e non vengono presi in considerazione.
3.4.5 Analisi di comparazione
Marchio Demeter Garanzia Aiab Garanzia biologico
Amab
Quadro tecnico di
riferimento
Disciplinare Demeter Reg. CE n.834/2007 Discipilnare Amab
Vincolo territoriale
sulla materia prima
no sì per la produzione
agricola.
Per la trasformazione,
almeno il 65% degli
ingredienti di origine
agricola dev’essere di
produzione nazionale;
il 35% residuo
dev’essere compreso in
una lista positiva
no
Conformità della
materia prima
A standard Demeter
(in caso di
indisponibilità,
conformità al quadro
normativo europeo)
A norma europea;
materie prime
agricole di
produzione italiana
Al disciplinare o agli
standard Ifaom
Conformità della
eventuale materia
prima estera
A standard Demeter
(se indisponibile,
conformità al quadro
normativo europeo)
A normativa europea.
Certificazione equa
solidale
Al disciplinare o agli
standard Ifaom.
Equo (non
formalizzato)
Vincolo territoriale No Sì, nel caso di No
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sulla sede dell’azienda produzione agricola.
No nel caso di
trasformazione: è
sufficiente che sia di
origine italiana il 65%
della materia prima,
non sono previsti
vincoli sulla
localizzazione
dell’impresa
(attualmente usano il
marchio solo imprese
italiane)
Conversione No No No (max 5% degli
ingredienti)
Vincoli tecnici Sì Sì (più limitati) Sì (più limitati)
Il vincolo dell’origine nazionale della materia prima sussiste solo per il marchio GaranziaAiab, che
per la norma tecnica fa riferimento al quadro comunitario; per i marchi Demeter e Garanzia
biologico Amab si privilegia, al contrario, il contenuto della conformità ai rispettivi standard tecnici
e non l’origine.
L’eventuale materia prima di origine estera, quantitativamente vincolata solo per GaranziaAiab,
dev’essere semplicemente conforme agli standard tecnici per gli altri marchi.
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Per nessuno dei marchi presi in esame sussistono vincoli territoriali alla sede dell’azienda di
trasformazione; per quanto riguarda l’azienda di produzione agricola il vincolo della sede sul
territorio nazionale sussiste solo per GaranziaAiab.
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4 Analisi del quadro normativo del logo/marchio collettivo nazionale Obiettivo di questa sezione è analizzare la normativa vigente per l’utilizzo di marchi collettivi e la
loro armonizzazione con la normativa comunitaria in materia di produzione biologica.
4.1 I marchi, funzioni e generalità
La funzione essenziale dei marchi è il miglioramento della circolazione dell’informazione in mercati
caratterizzati da informazione insufficiente e distribuita asimmetricamente (Carbone, 1997).
Questa condizione è propria anche dei mercati dei beni alimentari: al momento dell’acquisto
alcuni attributi qualitativi rilevanti dei beni sono sconosciuti al consumatore, che solo
successivamente, attraverso il consumo, sarà in grado di valutarli (Kinsey e Houck, 1990, Sheldon e
von Witzke, 1990).
Ai marchi registrati il nostro ordinamento accorda una protezione molto ampia in campo civile
(decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 Codice della Proprietà Industriale, artt. 2598, 2599 e
2600 c.c.) e penale (artt. 473, 474 e 517 c.p.).
Oltre al marchio d’impresa (tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in
particolare le parole, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione,
le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché atti a distinguere i prodotti o i servizi di
un'impresa da quelli di altre, con l’esclusione i segni costituiti da denominazioni generiche di
prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che vi si riferiscono, tra i quali la provenienza
geografica), l’ordinamento prevede il marchio collettivo (art. 11 del Decreto legislativo 10 febbraio
2005, n. 30 recante Codice della proprietà industriale, a norma dell' articolo 15 della legge 12
dicembre 2002, n. 273), per il quale è prevista la deroga dal divieto di far riferimento alla
provenienza geografica dei prodotti o servizi (art.11 D. Lgs n.30/2008, comma 4) generalmente
previsto dallo stesso Codice.
La facoltà di derogare al divieto di marchi collettivi che servano a designare la provenienza
geografica dei prodotti o dei servizi è concessa dalla direttiva 89/104/CEE del Consiglio del 21
dicembre 1988 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di marchi
d'impresa e, relativamente ai marchi collettivi comunitari, dal Regolamento (CE) n. 40/94 del
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Consiglio, del 20 dicembre 1993 sul marchio comunitario; la registrazione di un marchio collettivo,
tuttavia, non autorizza il titolare a opporre il marchio a un terzo abilitato a utilizzare una
denominazione geografica.
Di per sé, un marchio collettivo che garantisca l’origine geografica di un prodotto, se privo di
disciplinari altrimenti caratterizzati si limita – appunto – a garantire l’origine geografica, nulla
potendo garantire sulla qualità organolettica né sulle altre performance attese dal consumatore.
In altre parole, il prodotto marchiato proverrà sicuramente da un’azienda operante nel territorio
identificato dai regolamenti, ma questa potrebbe essere l’unica sua caratteristica significativa, con
potenziali riverberi negativi sull’intera produzione a marchio.
Il consumatore si attende, infatti, caratteristiche omogenee dei prodotti contrassegnati dal
medesimo marchio, tra i quali si genera un forte legame sinergico di reputazione; se arriva sul
mercato un prodotto insoddisfacente, tutti quelli con lo stesso marchio ne trarranno un danno
d’immagine, così come, simmetricamente, la buona fama di un prodotto si trasmette anche ai
meno meritevoli (Dini et al, 1990).
Il marchio collettivo rappresenta una forma di tutela a carattere privatistico della denominazione
di prodotti, svolgendo essenzialmente una funzione di garanzia che il prodotto o il servizio
contrassegnato possiede determinate caratteristiche in relazione all’origine (quando sia rilevante
per la qualità del prodotto o servizio) e/o alla qualità (come espressa nel regolamento e nei
disciplinari).
Se i prodotti portanti lo stesso marchio risultano significativamente differenziati, i consumatori
ricevono informazioni contraddittorie (unico marchio, ma qualità variabile o non costante) e la
funzione di informazione e garanzia del marchio viene meno; il consumatore può essere indotto
ad allontanarsi da un marchio che si palesa scarsamente affidabile, o a ridurre la sua willingness to
pay in seguito a esperienze di livello qualitativo percepito come di scarsa soddisfazione.
La percezione di omogeneità dei prodotti quindi è condizione necessaria a un efficace
funzionamento di un marchio (Carbone, 1997); di conseguenza appare di fondamentale
importanza l’adozione di strumenti regolamentari e tecnici in grado di assicurarla.
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Il già citato Codice della proprietà industriale prevede che alla domanda di registrazione all'Ufficio
italiano brevetti e marchi debbano essere allegati il segno grafico distintivo ideato, i disciplinari
tecnici concernenti l'uso dei marchi collettivi, il regolamento d’uso concernente i controlli e le
relative sanzioni; allo stesso Ufficio italiano brevetti e marchi andrà notificata ogni modificazione
regolamentare.
L’applicazione (e il relativo controllo) di un marchio collettivo deve quindi fornire garanzie simili a
quelle di un sistema di certificazione (standardizzazione, garanzia, controllo sistematico, ecc.).
Appare tuttavia chiaro che solo la verifica della conformità a standard e disciplinari di processo e/o
di prodotto tramite un processo di controllo e certificazione operato da soggetti terzi e
indipendenti che operino in conformità alla norma internazionale ISO 65/UNI EN 45011 ("Requisiti
generali relativi agli organismi che gestiscono sistemi di certificazione di prodotti") è in grado di
esplicitare l’effettiva tutela dei consumatori, dell'ente titolare del marchio e degli stessi produttori
licenzatari, non potendosi ritenere sufficiente a garantire idoneamente l’integrità del sistema
quella che di fatto, altrimenti, costituirebbe l’autocertificazione dell’impresa interessata all’utilizzo
del marchio.
“Il marchio collettivo si differenzia dal marchio d’impresa in quanto non svolge funzione distintiva
dell’origine del prodotto da una determinata impresa, ma funzione di garanzia delle caratteristiche
e qualità del prodotto; inoltre il titolare del marchio collettivo abitualmente non lo usa, ma si
obbliga a verificare con appositi controlli le merci dei produttori e commercianti ai quali è stato
concesso l’uso del marchio stesso” (Trib. Roma 21.3.1994 in Giur. dir. ind., 1994, 699).
La registrazione di marchi collettivi (e la facoltà di concederne l'uso a produttori o commercianti)
prescinde dalla qualifica di imprenditore: possono ottenerla i soggetti che svolgono la funzione di
garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi (art.11 D. Lgs n.30/2008,
comma 1); anche l’art. 2570 c.c. prevede espressamente che “soggetti che svolgono la funzione di
garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi possono ottenere la
registrazione di marchi collettivi per concederne l'uso, secondo le norme dei rispettivi regolamenti,
a produttori o commercianti” (nel testo precedente alla novella del 1992 limitava tale facoltà a
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“enti e associazioni legalmente riconosciuti” che potevano ottenere la registrazione di marchi
collettivi per concederne l'uso a imprese dipendenti o associate).
Il marchio collettivo può essere quindi promosso da consorzi o associazioni fra imprese che si
impegnano all’osservanza di determinati standard di qualità e ai relativi controlli stabiliti da un
disciplinare che contraddistingue una gamma di prodotti o servizi con in comune uno o più
elementi distintivi (come, per esempio la metodica di produzione o la provenienza), ma possono
ottenere registrazioni di marchio anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle
province e dei comuni, le Camere di commercio ecc.
In considerazione della genericità dell’indicazione della provenienza geografica che fosse prevista
nel marchio collettivo e del fatto che l’attribuzione della sua gestione in via esclusiva al titolare del
marchio collettivo può distorcere la concorrenza, la deroga al divieto di marchi collettivi che
servano a designare la provenienza geografica dei prodotti o dei servizi non è assoluta: l’Ufficio
Brevetti e Marchi è infatti legittimato a negare la registrazione del marchio collettivo, quando esso
possa creare situazioni di ingiustificato privilegio, o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di
altre analoghe iniziative.
Tra le “situazioni di ingiustificato privilegio” e il “pregiudizio” che possono comportare il diniego
alla registrazione di un marchio collettivo possono senz’altro annoverarsi l’insufficiente garanzia di
accesso al marchio a condizioni paritetiche da parte di tutti gli imprenditori insediati nella zona
geografica di riferimento, il cui prodotto – se escluso dall’uso del marchio - non solo non sarebbe
riconoscibile sul mercato come di provenienza determinata, ma, laddove si attribuisca al marchio
una funzione di certificazione di qualità, potrebbe ingiustamente apparire di standard qualitativo
inferiore al prodotto che del marchio si fregia (Albisinni, Carretta, 2003).
La cautela del legislatore è ribadita dalla limitazione del diritto di esclusiva: il titolare di un marchio
collettivo geografico non è autorizzato a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso,
purché quest'uso sia conforme ai principi della correttezza professionale e quindi limitato alla
funzione di indicazione di provenienza (art.11 D. Lgs n.30/2008, comma 1): a tutti gli imprenditori,
ancorché non licenziatari del marchio collettivo, è riconosciuto il diritto di usare nella propria
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attività economica indicazioni relative alla provenienza geografica del prodotto o servizio. Se tale
indicazione, oltre che veritiera, è meramente descrittiva e non distintiva del prodotto, devono
ritenersi esclusi intenti insidiosi e confusori, e quindi la conseguente configurazione di concorrenza
sleale ai danni dei licenzatari del marchio collettivo.
La giurisprudenza assume che tale diritto spetti non solo nel caso dei marchi collettivi, ma anche in
quello delle produzioni a denominazione protetta..
Il Tribunale di Saluzzo (ord. 5 gennaio 2001 in Giur. it., I, 2001, 318) in merito alla fattispecie in cui
un Consorzio di tutela di una Dop assumeva di essere titolare di un diritto di privativa sulla Dop, ha
ritenuto:
“…il Dop ha una funzione diversa (pubblicistica) rispetto ai marchi collettivi in quanto mira a
valorizzare prodotti agricoli ed alimentari con caratteristiche particolari legate alla zona per
l’influsso di fattori ambientali naturali e/o socio economici; mira a garantire il consumatore circa
l’origine e qualità del prodotto acquistato e a garantire condizioni di concorrenza uguali tra i
produttori dei prodotti che beneficiano di siffatte denominazioni. Appare pertanto corretto
affermare che il riconoscimento della tutela comunitaria alla Dop si ricollega al rispetto, da parte
dei produttori che vogliono avvalersi della stessa, di regole oggettive, pubbliche e omogenee (il
disciplinare allegato alla domanda di registrazione); risulta, invece e quindi, arduo sostenere –
come deve fare il Consorzio – che l’associazione che procede alla registrazione della Dop sia
“titolare” del diritto di privativa, potendo quindi concedere o negare a proprio piacimento l’uso del
marchio Dop a produttori che rispettino il disciplinare comunitario depositato, solo perché gli stessi
non sono consorziati oppure non rispettano il regolamento consortile dettato a complemento del
disciplinare stesso”.
Dop e Igp sono segni distintivi concessi dagli uffici dell’Unione europea, e costituiscono un
patrimonio collettivo indisponibile: il loro uso è autorizzato dalla Pubblica amministrazione e
riservato solo a coloro che rientrano nella zona d'origine o di provenienza e operano in conformità
ai disciplinari vigenti (ancorché non aderenti al Consorzio di tutela).
Analogamente, per il marchio collettivo privatistico, la cui funzione è quella di garantire talune
caratteristiche del prodotto o del servizio (tra cui, se del caso, la provenienza), l'uso del
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riferimento geografico non può essere riservato, essendo consentito a terzi di farvi riferimento
(chiaramente non utilizzando senza licenza il segno distintivo).
Per evitare interferenze tra le denominazioni protette a livello comunitario (Dop o Igp) e marchi
collettivi di provenienza geografica, l’ufficio Brevetti e marchi è tenuto a rigettare le istanze di
registrazione di questi ultimi qualora riguardino prodotti per i quali sia già stata presentata
domanda di registrazione di Dop o Igp presso la Commissione, così come è tenuto ad annullare la
registrazione di marchi in violazione.
Ne consegue che un marchio collettivo di provenienza di futura registrazione non può
contrassegnare prodotti per i quali sia già riconosciuta (o in corso di riconoscimento) la tutela
comunitaria.
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4.2 La registrazione di un marchio collettivo
Il Codice della proprietà industriale (decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30) prevede che alla
domanda di registrazione all'Ufficio italiano brevetti e marchi debbano essere allegati il segno
grafico distintivo ideato, i disciplinari e tecnici concernenti l'uso dei marchi collettivi, il
regolamento d’uso concernente i controlli, le relative sanzioni; allo stesso Ufficio italiano brevetti e
marchi andrà notificata ogni modificazione regolamentare.
L’applicazione (e il relativo controllo) di un marchio collettivo fornisce quindi garanzie analoghe a
quelle di un sistema di certificazione (standardizzazione, garanzia ed affidabilità, controllo
sistematico, ecc.).
Per la registrazione presso l'Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale di Ginevra
(OMPI), valgono le disposizioni vigenti ai sensi delle convenzioni internazionali.
Lo stesso Codice della proprietà industriale, all’articolo 13 (Capacità distintiva) prevede, però, che
non possono costituire oggetto di registrazione segni privi di carattere distintivo e in particolare
quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni
descrittive che a essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la
specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica (fatta salva la
deroga per i marchi collettivi) ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del
servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio.
69 di 142
4.3 L’ispettorato centrale per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari
Numerosi pronunciamenti dell’Ispettorato escludono la conformità alla normativa europea di
marchi d’origine che non facciano esclusivo riferimento alla disciplina di Dop e Igp.
Tra questi:
“L'apposizione del logo "Riserva Naturale Orientata - Vallone Piano della Corte" sull'olio extra
vergine di oliva e, più in generale, sui prodotti agroalimentari si ritiene incompatibile con l'attuale
normativa, in quanto potrebbe rappresentare un marchio di "qualità" legato ad un particolare
territorio che si pone al di fuori del quadro previsto dal Regolamento (CE) n. 510/06 in materia di
Dop e Igp”. (ICRF- Uff. II/T, 26 ottobre 2006); 1
“Il marchio 'Le valli di Sicilia” nonché la relativa raffigurazione della Sicilia, utilizzati per
l'etichettatura dell'olio extravergine di oliva, sembrano collidere con la normativa attuale. Infatti,
la designazione dell'origine dell'olio extravergine di oliva, intesa come l'indicazione di un nome
geografico sull'imballaggio o sull'etichetta , è possibile solo se questa rispetta quanto riportato
dall'articolo 4 del Regolamento Ce 1019/2002 relativo alle norme di commercializzazione dell'olio
Secondo giurisprudenza costante, la condizione relativa all'effetto sugli scambi ricorre quando
l'impresa beneficiaria svolge un'attività economica oggetto di scambi tra Stati membri. Il semplice
fatto che l'aiuto rafforzi la posizione di questa impresa nei confronti di altre imprese concorrenti
nell'ambito degli scambi intracomunitari consente di ritenere che l'aiuto abbia inciso sugli scambi.
Per quanto riguarda gli aiuti di Stato nel settore agricolo, secondo giurisprudenza consolidata,
l'entità relativamente esigua dell'importo complessivo degli aiuti e la ripartizione degli stessi tra
numerosi agricoltori non escludono a priori l'eventualità che vengano influenzati gli scambi tra
Stati membri.
Per “aiuto di stato” la giurisprudenza della Corte di Giustizia adotta una nozione estensiva
ricomprendendovi ogni vantaggio economicamente apprezzabile attribuito a una o più imprese
tramite un intervento pubblico, vantaggio che altrimenti non si sarebbe realizzato.
Vedasi le sentenze sul caso Banco Exterior de Espana Causa C-387/92 del 15 marzo 1994, caso
Italia e SIM 2 Multimedia Causa C-328/99 dell’8 maggio 2003, caso Spagna c. Commissione Causa
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C-276/02 del 14 settembre 2004, caso Gezamenlijke Steenkolenmijnen in Limburg/Alta Autorità
della CECA Causa 30/59 del 23 febbraio 1961: “L’art. 87, n. 1, CE definisce gli aiuti di Stato
disciplinati dal Trattato quali aiuti concessi dagli Stati ovvero mediante risorse statali, sotto
qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare
la concorrenza, nella misura in cui incidano sugli scambi tra gli Stati membri. La nozione di aiuto di
Stato ai sensi di tale disposizione è più ampia di quella di sovvenzione, dato che essa vale a
designare non soltanto prestazioni positive del genere delle sovvenzioni stesse, ma anche
interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di
un’impresa.”
Vi è sempre la presunzione che l’aiuto produca effetti distorsivi della concorrenza, ed è sufficiente
che si configuri un pregiudizio potenziale (non è necessario che l’incidenza dell’aiuto sugli scambi
intracomunitari sia effettiva, è sufficiente che sia semplicemente potenziale, vedasi caso Belgio c.
Commissione causa -142/87 del 21 marzo 1990, caso AITEC c. Commisione cause T-447/-449/93
del 6 luglio 1995, caso Spagna c. Commissione causa C-114/00 del 19 settembre 2002).
Non è applicabile il Regolamento CE n. 1860/2004 che considera gli aiuti de minimis non
corrispondenti a tutti i criteri dell’articolo 87 del trattato e pertanto non soggetti all'obbligo di
notifica, in quanto lo stesso regolamento esclude espressamente gli aiuti connessi all'impiego
preferenziale di prodotti interni rispetto ai prodotti d'importazione e sin dai considerata ricorda
che “Alla luce dell'accordo dell'Organizzazione mondiale del
commercio (OMC) sull’agricoltura (GU L 336 del 23.12.1994,), il presente regolamento non deve
esentare gli aiuti (…) che favoriscono la produzione interna rispetto ai prodotti importati. Gli Stati
membri hanno l’obbligo di astenersi dall’erogare qualsiasi aiuto che sia contrario agli impegni
sanciti da tale accordo”.
87 di 142
4.11 Conseguenze pratiche dell’incompatibilità col trattato
In caso di incompatibilità col Trattato, la Corte di Giustizia europea con propria sentenza ordina
allo Stato membro il recupero degli aiuti di Stato illegittimi e incompatibili, disponendo che .lo
Stato membro notifichi alla Commissione il completamento del processo di recupero. Qualora ciò
non avvenga e non ravvisi segnali di miglioramento, la Commissione presenta la richiesta formale
di esecuzione della sentenza sotto forma di parere motivato (la seconda fase della procedura di
infrazione, articolo 228 del trattato CE); se lo Stato membro continua a non conformarsi alle
decisioni della Corte di Giustizia europea, la Commissione può nuovamente adire la Corte
chiedendo l'imposizione di ammende fino al completo recupero degli aiuti, sotto forma di
penalità di mora, somme forfettarie o entrambe.
Il recupero degli aiuti illegittimi e incompatibili mira a ripristinare eque condizioni di concorrenza
nel mercato unico e «La Commissione adotterà tutte le misure necessarie per garantire che gli
Stati membri adempiano ai loro obblighi di recupero e i tribunali nazionali hanno il dovere di non
ostacolare tale processo».(Commissario alla Concorrenza Neelie Kroes).
Ogni risorsa pubblica investita nella promozione di un marchio incompatibile con il Trattato
dovrebbe pertanto essere recuperata presso i beneficiari dell’investimento inammissibile.
88 di 142
4.12 Il logo biologico europeo
Il segno distintivo dei prodotti biologici di fonte europea di cui all’articolo 25, paragrafo 1 del
regolamento CE n.834/2007 non costituisce un marchio (non a caso mai con questo termine vi si fa
riferimento nella normativa, che utilizza il termine “logo”, ancorché in sostituzione del più
appropriato “logotipo”: in sostanza un simbolo grafico), ma la semplice attestazione della
conformità del prodotto alle disposizioni vigenti in materia di produzione biologica.
A tale segno distintivo, nell’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti che soddisfano i
requisiti del regolamento, possono affiancarsi logotipi nazionali e privati
Dal 1 luglio 2010 (termine prorogato dal regolamento CE n.967/2008), il logo comunitario potrà
essere utilizzato nei prodotti sfusi o preincartati di produzione comunitaria e nei prodotti
comunque importati da Paesi terzi, mentre dovrà esserlo per i prodotti di produzione comunitaria
preconfezionati all’origine.
Tali prodotti, prevalentemente di produzione artigianale o industriale, costituiscono chiaramente
di gran lunga la maggior parte dell’assortimento biologico sia nei punti vendita specializzati che
nella grande distribuzione.
In caso di utilizzo, il logo dovrà essere accompagnato da un’indicazione del luogo in cui sono state
coltivate le materie prime agricole di cui il prodotto è composto, da esprimere con le diciture
«Agricoltura UE» (quando la materia prima agricola è stata coltivata nell’UE), «Agricoltura non UE»
(quando la materia prima agricola è stata coltivata in paesi terzi), «Agricoltura UE/non UE» quando
parte della materia prima agricola è stata coltivata nella Comunità e una parte di essa è stata
coltivata in un paese terzo).
L’indicazione «UE» o «non UE» potrà essere sostituita o integrata dall’indicazione di un Paese nel
caso in cui almeno il 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto siano state
coltivate in quel Paese (Regolamento Ce n.834/2007, art. 24).
Tale percentuale obbligherà automaticamente a etichettare come «Agricoltura UE/non UE» parte
rilevante della produzione nazionale. Contengono ingredienti extracomunitari in misura superiore
89 di 142
al 2%, infatti: biscotti, pasticceria artigianale e industriale (per la presenza di zucchero e/o malto
e/o grassi vegetali, ecc.), confetture e confetture extra, marmellate e marmellate extra, gelatine e
gelatine extra (per la presenza di zucchero o altri dolcificanti), succhi e nettari di frutta (per la
presenza di zucchero o altri dolcificanti), yogurt ai gusti (per la presenza di zucchero o altri
dolcificanti), caramelle e pastigliaggi (per la presenza di zucchero e/o malto e/o sciroppo di
glucosio o altri dolcificanti), tutti i prodotti a base di cacao, tutte le paste alimentari fresche o
secche e i prodotti da forno a base di kamut®, grano saraceno, segale, amaranto e quinoa, tutti i
gelati (per la presenza di zucchero o altri dolcificanti)… L’elenco è parziale e assolutamente non
esaustivo.
Per talune produzioni, l’obbligo dell’indicazione dell’origine «non UE» degli ingredienti viene
addirittura a insinuare elementi d’ingannevolezza per l’acquirente, che peraltro la normativa
europea è tesa generalmente a scongiurare (vedasi il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109,
novellato dal decreto Legislativo n. 181 del 23 giugno 2003).
Tali norme, infatti, precisano che l’etichettatura non deve indurre in errore per quanto riguarda le
caratteristiche del prodotto alimentare e in particolare la natura, l’identità, le qualità, la
composizione, la quantità, la conservazione, l’origine o la provenienza, il modo di fabbricazione o
di ottenimento.
In forza del regolamento CE n.834/2007, una confezione di pasta biologica al kamut® (materia
prima non disponibile di produzione né nazionale né comunitaria) realizzata in Italia dovrà essere
etichettata come «non UE», mentre una confezione di pasta convenzionale (non tenuta a
dettagliare l’origine della materia prima) realizzata con grano duro d’origine australiana sarà
percepita come “prodotto al 100% italiano”, con palesi induzione in errore del consumatore e
introduzione di squilibrio commerciale.
Analoga percezione distorta il consumatore avrà per parte rilevante dei prodotti a Indicazione
geografica protetta: una Bresaola della Valtellina IGP convenzionale, notoriamente realizzata con
carne di zebù brasiliano, è tenuta alla sola esposizione del logo europeo IGP, venendo
erroneamente percepita come prodotto della tradizione alimentare italiana, mentre una Bresaola
della Valtellina Igp biologica che fosse realizzata con carni della stessa origine, a causa
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dell’indicazione obbligatoria «non UE» verrebbe percepita come frutto del mercato globale, con
indebita penalizzazione a vantaggio della produzione convenzionale che pur presenta ingredienti
d’origine extra-comunitaria.
Discriminazione ingiustificata subirebbero anche le versioni biologiche di Speck dell’Alto Adige Igp,
Prosciutto di Norcia Igp, Cotechino di Modena Igp, Zampone Modena Igp, Salame Sant’Angelo Igp,
ecc. i cui disciplinari non pongono vincoli di sorta sull’origine della materia prima: il mercato verrà
distorto dall’obbligo di indicarne l’origine esclusivamente a carico delle imprese di trasformazione
biologica, mentre le imprese convenzionali potranno continuare a trarre giovamento dall’allure di
prodotto tradizionale italiano tacendo l’origine comunitaria o extra-comunitaria della materia
prima utilizzata.
In assenza di obblighi comuni all’intero comparto alimentare in materia d’indicazione dell’origine
della materia prima, l’immagine del prodotto biologico verrà ingiustificatamente depressa agli
occhi del consumatore a favore di produzioni convenzionali (analogamente realizzate con
ingredienti non nazionali, ma esentate dall’obbligo di indicarlo in etichetta).
Si tratta di problematiche sensibilmente avvertite dal comparto biologico, la cui soluzione avrebbe
impatto più positivo sul sistema di altre estemporanee iniziative.
Non si tratta degli unici punti critici del regolamento CE n. 834/2007: nei fatti, esso pone una seria
ipoteca su un eventuale marchio collettivo inteso a garantire l’origine nazionale.
Il regolamento CE n.834/2007 consente già l’indicazione (integrativa o sostitutiva) del nome del
Paese in cui sia stato ottenuto almeno il 98% degli ingredienti di origine agricola del prodotto; in
siffatta eventualità, un eventuale marchio collettivo (necessariamente facoltativo) costituirebbe
una ridondanza, il Paese d’origine potendo già essere in via facoltativa espresso in etichetta.
Una fattispecie diversa, come potrebbe essere la previsione di concedere il marchio anche a
prodotti la cui percentuale di ingredienti agricoli di origine nazionale fosse inferiore al 98%,
sembra in collisione con lo stesso regolamento CE n.834/2007, che riserva la facoltà di
91 di 142
sottolineare con un’espressa dicitura un’origine geografica ai soli prodotti in cui almeno il 98%
degli ingredienti vi sia stato effettivamente coltivato o allevato.
Un prodotto costituito dal 97% di ingredienti di origine agricola nazionale e dal 3% di ingredienti di
origine agricola extracomunitaria, infatti, in forza della normativa europea obbligatoria e
inderogabile dovrà esibire il claim «Agricoltura UE/non UE», senza far altri riferimenti geografici
testuali.
Secondariamente, la compresenza di un’attestazione (obbligatoria) di un origine degli ingredienti
da «Agricoltura UE/non UE» e di un marchio che, al contrario, ne attesti l’origine nazionale, appare
concettualmente inconciliabile: in mercati caratterizzati da informazione insufficiente, la
presenza sulla medesima confezione di marchi contraddittori costituisce un ulteriore motivo di
disorientamento e confusione, che è invece espresso ruolo dei marchi ridurre o evitare.
4.13 Indicazioni obbligatorie dell’origine
In base alla normativa vigente, al dettaglio dell’origine sono già tenute le imprese che producono o
commercializzano una serie di prodotti, quali:
a) olio vergine d’oliva (regolamento CE n.182 del 6 marzo 2009)
b) ortofrutticoli freschi (Decr. MiPAAF 1/8/2005)
c) latte fresco (Decr. Mi.A.P. 27/5/2004)
d) uova fresche (Decr. MiPAAF) 4/3/2005)
e) carni bovine (Regolamento 1760/2000/CE)
f) carni avicole (Circ. Min. Salute 26/8/2005 e Circ. Min. Salute 10/10/2005 e successive
modifiche)
g) miele (Direttiva 2001/110/CE del 20 dicembre 2001, D.Lgs. n. 179 del 21/5/2004,
modificato dalla legge n. 81 dell'11/3/2006 art. 2/bis)
h) passata di pomodoro (Decreto interministeriale del 17 febbraio 2006)
sia di origine biologica che non biologica.
Il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali ha notificato nel settembre scorso
all’Unione europea uno schema di decreto ministeriale che prevede l’obbligo di indicare in
etichetta l’origine per latte sterilizzato a lunga conservazione, latte Uht, latte pastorizzato
microfiltrato e pastorizzato a elevata temperatura e per tutti gli altri prodotti lattiero-caseari
92 di 142
Come già rilevato, dal 1 luglio 2010 l’obbligo (limitatamente alla produzione biologica) si estenderà
a tutte le produzioni di alimentari preconfezionate.
Sembra quindi arduo sostenere come motivazione di un marchio collettivo nazionale
l’assicurazione di un elevato livello di protezione e informazione al cittadino consumatore ai sensi
dell’articolo 153 del Trattato istitutivo della Comunità europea, dato che in relazione all’origine
degli ingredienti al consumatore biologico è già fornita un’informazione trasparente per tutti i
prodotti elencati da a) ad h) e, dal 1 luglio 2010 lo sarà necessariamente per tutti gli altri prodotti
preconfezionati, con un livello d’informazione quindi di gran lunga superiore a quella offerta dalla
generalità dei prodotti alimentari: manifestamente, le motivazioni di un eventuale marchio
ricadono piuttosto nell’ambito di valorizzazione e promozione, a scapito delle aziende non
marchiate, e quindi sembrano in collisione con il Trattato.
93 di 142
4.14 Altri strumenti di tutela e valorizzazione
Come già rilevato, allo scopo di proteggere la tipicità di alcuni prodotti alimentari caratterizzati da
grandi qualità e tradizioni, l'Unione Europea ha varato una precisa normativa, stabilendo il
riconoscimento e la protezione secondo opportune procedure delle denominazioni Dop e Igp.
Limitatamente all’Italia, esiste l’ulteriore qualifica di Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) (che
pure incontra resistenze a livello comunitario, al punto che il Ministero delle politiche agricole,
alimentari e forestali ha preferito assumere sull’argomento un profilo particolarmente basso,
senza alcun intervento di promozione che non sia la pubblicazione periodica dell’Elenco nazionale
dei prodotti agroalimentari tradizionali che somma gli elenchi istituiti e mantenuti dalle regioni e
dalle province autonome), “ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura
consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per
un periodo non inferiore ai venticinque anni” (art. 8 del decreto legislativo n. 173 del 30 aprile
1998 e al successivo decreto n. 350 dell’8 settembre 1999).
Se manca qualcosa, quindi, non sono certamente gli strumenti per valorizzare l’origine territoriale
di prodotti per i quali si ritenga che il terroir influenzi particolarmente la qualità.
94 di 142
5 Indagine conoscitiva
5.1 Obiettivi e metodologia
La presente attività, promossa dall’INEA e realizzata nei mesi di ottobre e novembre dell’anno
2009, ha l’obiettivo di acquisire informazioni, suggerimenti e opinioni dei diversi Stakeholders
(consumatori, operatori, esperti di settore) per studiare quelle variabili ritenute capaci di favorire,
ovvero ostacolare o ritardare, la creazione di un marchio nell’ambito del biologico nazionale e a
definire i possibili scenari di valorizzazione auspicabili nel contesto territoriale italiano.
L’indagine è stata basata su due fonti di dati:
• un questionario a risposta multipla rivolto ad un panel significativo di consumatori (circa
60.000 clienti), quali principali destinatari del logo biologico nazionale. Tale attività è stata
svolta in collaborazione con Naturasì, importante catena di supermercati biologici italiani;
• un questionario a risposta multipla rivolto agli operatori dei gruppi tematici nati
nell’ambito degli stati generali del biologico. L’indirizzario completo è stato messo a
disposizione da INEA.
95 di 142
5.2 Il questionario rivolto ai consumatori: analisi delle risposte
Il numero complessivo dei questionari elaborati, rivolti ai consumatori, è pari a 317. Di seguito si
analizzeranno brevemente i risultati delle sette domande in si articola ciascun questionario.
Dal grafico che segue si evince che più della metà dei consumatori intervistati acquista
regolarmente prodotti biologici (80%) e basse percentuali, rispettivamente del 17% e del 3%,
dimostrano che i consumatori acquistano qualche volta e raramente prodotti biologici.
Lei o la sua famiglia acquista prodotti biologici?
80%
17%3%
Sempre Qualche volta Raramente
Alla seconda domanda, il 32% dei consumatori ha affermato di riconoscere un prodotto biologico
proprio dalla dicitura “prodotto biologico”, il 27% lo riconosce dal fatto che acquista direttamente
in un negozio specializzato nella vendita di alimenti biologici, il 24% lo identifica dall’etichetta; il
15% dal marchio del produttore.
96 di 142
Quando acquista un prodotto biologico da cosa lo riconosce?
24%15%
27%
32%
2%
Dall'etichetta Dal marchio del produttoreDal negozio specializzato Dalla dicitura prodotto biologico Altro
Il grafico sotto riportato mostra che l’84% dei consumatori intervistati legge sempre l’etichetta del
prodotto che intende acquistare. Questo dimostra da parte del consumatore una particolare
attenzione per ciò che porta a tavola. Il 13% legge l’etichetta soltanto qualche volta. Il 3% degli
intervistati dichiara di non leggere mai l’etichetta del prodotto che acquista.
Legge l'etichetta del prodotto che acquista?
84%
13% 3%
Sempre Qualche volta Mai
Nel grafico che segue si riportano i risultati della quarta domanda, secondo i quali, i consumatori,
tra tutti gli elementi presenti sull’etichetta di un prodotto biologico, danno maggiore importanza
97 di 142
all’elenco degli ingredienti (31%), all’indicazione sulla provenienza (27%), alla presenza del
marchio biologico europeo (24%), al nome dell’organismo di controllo (14%). Considerano poco
rilevante la presenza sull’etichetta della tabella nutrizionale (3%).
Quali elementi riportati sull'etichetta di un prodotto
biologico ritiene più importante?
24%
14%
27%
3%
31%1%
Marchio biologico europeo Nome dell'organismo di controlloIndicazioni sulla provenienza Tabella nutrizionaleElenco degli ingredienti Altro
98 di 142
Alla quinta domanda, che chiedeva al consumatore cosa lo farebbe sentire più tranquillo
nell’acquisto e nel consumo di un prodotto biologico, il 40% ha risposto che avrebbe maggiori
sicurezze da un aumento dei controlli volti alla propria tutela. Il 15% si sentirebbe più sicuro ad
acquistare prodotti biologici se ci fosse maggiore informazione/educazione a riguardo. Il 13%
avrebbe maggiore fiducia dal marchio di garanzia dell’organismo di controllo. L’11%, sarebbe
rassicurato dalla presenza del marchio europeo ed un altro 11% dall’adozione di un marchio
biologico nazionale. Le risposte della restante parte dei consumatori risultano suddivide in piccole
percentuali, come si nota dal grafico sottostante. Soltanto il 5% e il 3% farebbero affidamento
rispettivamente alla dicitura – Garantito dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e
forestali – e ad un marchio regionale.
Cosa la farebbe sentire ancora più sicuro nell'acquisto/consumo dei prodotti biologici?
15%
40%
11%
5%11% 3%
13%
2%
Più informazione/educazione Più controlli per garantire il consumatoreAdozione di un marchio biologico nazionale Dicitura -Garantito dal MIPAAF-Marchio europeo Marchio regionaleMarchio organismo di controllo Altro
Il grafico che segue è di facile interpretazione e dimostra chiaramente che ben l’88% dei
consumatori ai quali è stato sottoposto il questionario sarebbe favorevole all’introduzione e quindi
all’utilizzo in etichetta di un eventuale marchio biologico nazionale. Solo il 12% ha espresso un
parere negativo.
99 di 142
Sarebbe favorevole all'inserimento in etichetta di un eventuale
marchio biologico?
88%
12%
Si No
Inoltre tutti coloro che hanno risposto positivamente alla precedente domanda, hanno anche
manifestato gli aspetti che preferirebbero fossero garantiti proprio dall’introduzione di un
eventuale marchio. Gli aspetti più rilevanti sono i seguenti:
- standard produttivi più rigorosi di quelli previsti dal regolamento europeo, (esempio:
limitazioni o divieto dell’uso di additivi, coadiuvanti, ingredienti non biologici, adozione
dei principi dell’agroecologia, ulteriori specifiche relative al benessere animale);
- maggiori controlli sul prodotto;
- azienda produttrice con sede in Italia;
- maggiore frequenza di visite ispettive;
- utilizzo esclusivo di materia prima italiana;
- bassa impronta ecologica dell’intero ciclo di vita del prodotto (utilizzo energie rinnovabili,
logistica e confezionamento a basso impatto ambientale, riduzione dei percorsi
trasporto/Km 0, vuoti a rendere);
- assenza di imballaggi non biodegradabili;
- Riduzione dei tempi di raccolta, distribuzione, vendita del prodotto (es. prodotto
stagionale, indicazione della data di raccolta del prodotto);
- Uso di materia prima derivante solo da varietà vegetali e razze animali italiane e/o non
italiane, ma introdotte da almeno mezzo secolo e ormai integrate tradizionalmente
nell’agricoltura e nell’allevamento del territorio;
100 di 142
- Prodotto che sia anche DOP, IGP, STG (sistemi di qualità specifici dell’Unione Europea che
consentono ai consumatori di identificare i prodotti caratterizzati da particolari qualità
legate all’origine e/o al metodo di produzione);
- Azienda distributrice con sede in Italia.
Gli aspetti, ai quali i consumatori darebbero minore importanza, sono i seguenti:
• certificazione etica SA 8000 (Social Account) attestante il comportamento
socialmente responsabile dell’azienda (integrazione su base volontaria dei problemi
sociali e ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro
relazioni con le altre parti) e/o adozione di strumenti di Responsabilità sociale
(Codice etico, Bilancio di sostenibilità, Bilancio sociale, Carta dei valori);
• certificazione del sistema di gestione ambientale ISO:14001 e/o EMAS dell’azienda;
• almeno il 75%di ingredienti italiani;
• certificazione del sistema per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro (OHSAS
18001);
• metodi di produzione e/o trasformazione associati in modo costante o periodico ad
attività culturali e/o didattiche e/o sociali (es. fattorie didattiche e/o
sensibilizzazione delle comunità locali; inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati
quali persone con disagi psicologici, ex tossicodipendenti, ex detenuti, disoccupati
di lungo periodo; integrazione di lavoratori immigrati, erogazione di sevizi
terapeutici per portatori di handicap e anziani, ec…).
101 di 142
0
50
100
150
200
Se si, quali aspetti vorrebbe fossero garantiti dal marchio
biologico nazionale?
Azienda produttrice con sede in ItaliaAzienda distributrice con sede in ItaliaSolo materia prima italianaAlmeno 75% di ingredienti italianiStandard produttivi più rigorosiMateria prima derivante da varietà autoctoneProdotto che sia anche DOP, IGP, STGBassa impronta ecologica del ciclo di vita del prodottoRiduzione dei tempi di raccolta, distribuzione e vendita prodottoProduzione e trasformazione associate ad attività culturali e didatticheMaggiore frequenza di visite ispettiveMaggiori controlli sul prodottoCertif icazioni ISO:14001, EMASCertif icazione OHSAS 18001Certif icazione etica SA 8000Imballaggi biodegradabiliAltro
102 di 142
5.3 Il questionario rivolto agli operatori:analisi delle risposte
Il numero complessivo dei questionari elaborati, rivolti agli operatori, è pari a 28. In questa sezione
si analizzeranno brevemente i risultati elaborati delle otto domande in cui si articola ciascun
questionario.
Nella prima domanda, agli operatori, viene chiesto se considerano utile l’adozione di un marchio
nazionale da apporre sui prodotti biologici. Solo il 29% degli operatori intervistati risulta
favorevole, il 71% si manifesta, invece, contrario, come mostra chiaramente il grafico che segue.
Considera utile l'adozione di un marchio biologico
nazionale?
29%
71%
si no
Le motivazioni alla risposta di cui sopra sono di seguito esposte.
Coloro che hanno risposto positivamente alla precedente domanda credono che l’adozione di un
eventuale marchio biologico possa identificare più facilmente il prodotto nazionale, migliorare la
valorizzazione dei prodotti italiani, essere utile per creare campagne istituzionali che promuovano
il consumo e dare maggiore sicurezza al consumatore; come risulta dal grafico qui sotto esposto.
103 di 142
0
2
4
6
Considera utile l'adozione di un marchio biologico
nazionale? SI
Facile identificazione del prodotto nazionaleMaggiore sicurezza per il consumatoreDiversificazione della produzioneMigliore valorizzazione dei prodotti italianiCreazione di campagne istituzionali per promuovere il consumoVantaggio competitivoAltro
Tra coloro che, invece, si sono mostrati contrari all’introduzione di un probabile marchio biologico
nazionale, alcuni lo ritengono superfluo perché a breve entrerà in vigore obbligatoriamente il logo
europeo, altri ritengono che il nuovo marchio si andrebbe ad aggiungere ad un’etichetta già ricca
di contrassegni ed aumenterebbe gli aggravi economici ed amministrativi. Altri ancora vorrebbero
che gli investimenti nella comunicazione riguardassero tutto il settore e non solo una parte di
esso; ed infine secondo altri il mercato del biologico ha dimensioni così limitate da non trarre
giovamento da un’ulteriore segmentazione; inoltre un eventuale marchio biologico nazionale
potrebbe creare una turbativa del mercato, convincendo i consumatori che la qualità dei prodotti
esteri sia inferiore a quella dei prodotti italiani. I risultati appena esposti sono visibili nel grafico
sotto riportato.
104 di 142
Considera utile l'adozione di un marchio biologico
nazionale? NO
25%
18%
11%11%
14%
18%3%
Logo europeo sarà obbligatorio Troppi marchi in etichettaTroppa segmentazione Prodotti esteri inferiori ai naz.Investire in tutto il settore Aggravi economici e organizzativiAltri motivi
Nella seconda domanda a risposta multipla, gli operatori hanno indicato quali dovrebbero essere i
criteri distintivi del proprio disciplinare. Primo fra tutti, l’utilizzo esclusivo di materia prima italiana.
A seguire, tra i più rilevanti: l’adozione di standard produttivi più rigorosi di quelli previsti dal
regolamento europeo, una bassa impronta ecologica dell’intero ciclo di vita del prodotto (logistica
a basso impatto, vuoti a rendere, ecc…), l’azienda produttrice con sede in Italia, la materia prima
deve provenire da varietà autoctone, una maggiore frequenza di visite ispettive, l’utilizzo di
processi di trasformazioni artigianali e di imballaggi biodegradabili. La figura che segue mostra
anche quei criteri distintivi del disciplinare che per gli operatori risulterebbero meno significanti:
l’azienda distributrice con sede in Italia, l’utilizzo esclusivo di ricette tradizionali, una percentuale
minima (50%) di ingredienti italiani, un prodotto biologico che sia anche a marchio D.O.P., D.O.C,
I.G.P., ecc, la presenza di certificazioni ISO:9000, ISO:14001; EMAS dell’azienda ed infine un’analisi
sensoriale ed un panel di degustatori addestrati.
105 di 142
0
2
4
6
8
10
12
14
16
Nel caso dell'adozione di un marchio nazionale per i
prodotti biologici, quali dovrebbero essere i criteri
distintivi del suo disciplinare?
Azienda produttrice in ItaliaAzienda distributrice in ItaliaSolo materia prima italianaAlmeno il 50% di ingredienti italianiStandard produttivi più rigorosiMateria prime derivante da varietà autoctoneProcessi di trasformazione artigianaliRicette tradizionaliProdotto che sia anche DOP, IGP, DOCG, DOC, IGT, PATImballaggi biodegradabiliBassa impronta del ciclo di vita del prodottoAnalisi sensoriale, panel di degustatori addestratiMaggiore frequenza di visite ispettiveCertif icazioni ISO:9000, ISO:14001, EMASAltro
La terza domanda è rivolta solo a coloro che operano sul mercato del biologico in qualità di
distributore all’ingrosso o al dettaglio. Come si evince dal grafico seguente, il 31% degli intervistati
è sicuro che tra i prodotti da inserire nella propria gamma non darebbe la preferenza a quelli
forniti del probabile marchio nazionale. Il 61% è incerto ed così suddiviso: il 46% è probabile che
non preferisca i prodotti con il marchio nazionale ed il 15% è invece probabile che inserisca tali
prodotti all’interno del proprio assortimento.
Solo una piccola percentuale (8%) certamente prediligerebbe tali prodotti
106 di 142
-Per i distributori- Ritiene che privileggerebbe prodotti
corredati dall'eventuale marchio biologico nazionale per
l'inserimento nel Suo assortimento?
8%15%
46%
31%
Certamente si Probabilmente siProbabilmente no Certamente no
Analizzando i risultati della quarta domanda, esposti nel grafico sottostante, si deduce che
secondo gli operatori intervistati, l’attività di controllo di un possibile marchio biologico nazionale
dovrebbe essere commissionata principalmente agli attuali organismi di controllo ed alle strutture
del Ministero. Secondo piccole percentuali le Regioni e le aziende (attraverso l’autocertificazione)
dovrebbero svolgere tale attività di controllo.
A chi dovrebbe essere affidata l'attività di controllo
dell'eventuale marchio nazionale per i prodotti biologici?
02468
1012
Aut
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ecc.
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Ad
altr
i
In base all’elaborazione delle risposte fornite alla quinta domanda, secondo la maggior parte degli
operatori, gli oneri riguardanti gli accertamenti del sistema di controllo, conseguenti alla possibile
107 di 142
adozione di un marchio biologico dovrebbero essere sostenuti dalle Regioni e/o dal Ministero,
mentre per la restante parte degli operatori tali responsabilità dovrebbero essere sostenute dalle
aziende in base alla percentuale sul fatturato del marchio.
0
5
10
15
20
Dell'azienda inquota f issa
Delle aziendein % sul
fatturato amarchio
Dei prodottisenza marchio
Delle Regionie/o del
Ministero
Gli oneri relativi alle verifiche dello specifico sistema di
controllo dell'eventuale marchio biologico dovrebbero essere a
carico:
È stato inoltre chiesto agli operatori di indicare, orientativamente, quale quota dei prodotti
attualmente commercializzati contiene ingredienti di produzione nazionale. Dal grafico che segue
è evidente che la maggior parte degli operatori commercializza prodotti con il 100% di ingredienti
italiani
Percentuale di prodotti commercializzati con il 100%
di ingredienti italiani
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Inferiore al 50% Dal 50% al 95% 100%
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Gli operatori , che commercializzano prodotti contenenti ingredienti italiani in percentuali
comprese tra il 50% e il 100%, sono pari alla metà degli intervistati, come si nota dal grafico
seguente.
0
0,5
1
1,5
2
Inferiore al 50% Dal 50% al 95% 100%
Percentuale di prodotti commercializzati con ingredienti
italiani dal 50% al 100%
L’elaborazione delle risposte della penultima domanda ha permesso di capire quale posizione della
filiera occupano gli operatori cui è stato sottoposto il questionario.
I risultati ben visibili dal grafico sotto riportato, sono i seguenti: il 34% è produttore agricolo e/o
raccoglitore, il 27% è preparatore e/o trasformatore, il 20% è distributore all’ingrosso; il 14% è
dettagliante ed infine il 5% è importatore.
Posizione nella filiera. L'azienda svolge le attività di:
L’ultimo grafico è di facile interpretazione. È stato chiesto agli operatori di indicare la fascia di
fatturato annuo derivante da prodotti biologici. I risultati più significativi sono i seguenti: il17% ha
un fatturato annuo superiore a 20 milioni di euro, il 21% ha un fatturato annuo compreso tra 10 e
20 milioni di euro e il 29% fattura tra i 100.000 ed i 500.000 euro.
Dimensioni dell'azienda. Fascia di fatturato annuo
derivante da prodotti biologici4% 4%
29%
4%4%13%4%
21%
17%
Meno di 50.000 euro Da 50.000 a 100.000 Da 100.000 a 500.000Da 500.000 a 1 milione Da 1 milione a 3 milioni Da 3 milioni a 5 milioniDa 5 milioni a 10 milioni Da 10 milioni a 20 milioni Oltre 20 milioni
5.4 Riflessioni conclusive
Al termine dell’indagine condotta su un campione di consumatori di prodotti biologici ed un
campione di operatori del settore biologico, risulta ben definita, ed anche contrapposta, la
posizione di entrambe le categorie relativamente all’introduzione di un eventuale marchio
biologico nazionale. Mentre i consumatori sarebbero ben favorevoli alla diffusione di un eventuale
marchio da ritrovare sulle confezioni dei prodotti che acquistano, (è probabile che il nuovo
marchio dia loro un’ulteriore garanzia riguardo alla qualità del prodotto stesso), di contro, con
forza corale, gli operatori del settore hanno manifestato seri dubbi e perplessità per il possibile
inserimento, sul mercato, di prodotti biologici con il marchio nazionale, mostrandosi, in definitiva,
contrari e consapevoli che il sovrapporsi di marchi diversi (in una medesima confezione si
possono trovare quello del produttore, quello dell'impresa di commercializzazione, quello
dell'organismo di coordinamento regionale, quello dell'organismo di coordinamento nazionale e
quello dell'organismo di coordinamento internazionale), nonché la presenza di marchi specifici
per le coltivazioni in conversione (periodo che deve intercorrere durante il passaggio
110 di 142
dall'agricoltura convenzionale a quella biologica), non fanno altro che creare confusione nel
consumatore, il quale può essere spinto ad evitare di acquistare quel prodotto che non gli
fornisce reali garanzie di qualità (asimmetria informativa).
111 di 142
6 Scenari per la costituzione di un marchio biologico nazionale
6.1 Problematiche di mercato
Se il criterio della concessione del marchio fosse l’incompatibile origine nazionale di ciascun
ingrediente di un prodotto preconfezionato, gli organismi nazionali di controllo dovrebbero
accertarla in sede d’ispezione, con aggravi di tempo e di costo (non sembra infatti opportuno che
un marchio di proprietà pubblica sia concesso dietro la semplice autocertificazione del richiedente,
soprattutto quando s’intenda sostenere che il marchio è istituito per assicurare un elevato livello
di protezione e trasparenza d’informazione).
Andrebbero stabiliti piani-tipo d’ispezione, frequenza delle ispezioni, equo compenso (a meno di
non attribuire l’incarico agli Uffici periferici dell’ispettorato centrale per il controllo della qualità
dei prodotti agroalimentari o ad altri Uffici pubblici, così –però- gravati di altre incombenze non
istituzionali).
Va da sé che se i nuovi costi dovuti allo specifico sistema di verifica non fossero bilanciati da un
apprezzamento del mercato tale da compensarli, l’operazione non costituirebbe uno strumento
per la promozione del prodotto, ma per l’ingiustificato aggravio dei conti economici delle imprese.
Si tratta, tuttavia, di una pura esercitazione teorica, stante l’incompatibilità di marchi pubblici che
facciano riferimento all’origine nazionale degli ingredienti.
Tra le problematiche tecniche con cui le imprese (e ancor più quelle esportatrici) si devono
confrontare è non irrilevante la difficoltà di collocare in etichetta una pluralità di marchi.
Un’impresa che intendesse introdurre i propri prodotti su più mercati nazionali, infatti, oltre che
gestire rapporti con tutte le autorità e gli organismi titolari dei marchi, dovrebbe etichettare i
prodotti con il logo europeo (dal 1 luglio 2010), con il Bio-Siegel e con il Marque AB (fino alla loro
dismissione), per ciascuno dei cui pittogrammi le norme tecniche prevedono dimensioni minime
che rendono complessa la composizione delle confezioni.
Va inoltre ricordato che norme cogenti, obblighi tecnici e usi consolidati impongono l’inserimento
in etichetta, oltre di una serie di diciture testuali, di numerosi altri pittogrammi e simboli grafici.
112 di 142
Solo a titolo esemplificativo: il pittogramma ecologico che invita a non disperdere nell’ambiente, il
bollo sanitario, il pittogramma che assicura l’utilizzo di materiale per imballi idoneo all’uso
alimentare, l’esagono che dettaglia il materiale d’imballaggio, il codice a barre, il logo
dell’eventuale Denominazione di origine protetta o della Indicazione geografica protetta, il logo di
taluni Consorzi di tutela (Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma ecc.).
Appare evidente che se di qualcosa le etichette sono prive, non è di simboli grafici, che è
estremamente complesso armonizzare graficamente e collocare, e solo a scapito di spazio che
potrebbe proficuamente essere destinato a una migliore e più coerente informazione al
consumatore.
Al di là della considerazione sull’inesistente conoscenza del Bio-Siegel da parte del pubblico
italiano e francese o del Marque AB da parte di quello italiano e tedesco, appare evidente che una
pluralità di marchi con medesima funzione e contenuti costituisce una ridondanza di nessuna
utilità.
Se l’Italia scegliesse di introdurre un proprio marchio (che non potrà che essere di conformità, in
quanto ogni marchio connesso all’origine darebbe luogo a procedure d’infrazione) e lo
decidessero anche Austria, Belgio e Gran Bretagna, unico risultato sarebbe la necessità da parte
delle imprese di inserire la pluralità di marchi nazionali d’identico significato nelle etichette, nel
materiale di presentazione al pubblico e di pubblicità, oppure di gestire più linee distinte di
etichette e materiali commerciali, con chiaro aggravio di costi.
Un’etichetta che recasse il logo europeo e una mezza dozzina di marchi nazionali assolutamente
equivalenti, oltre a costituire un ingiustificato onere per le imprese e materiale per un caso di
studio di semplificazione negata, nulla aggiungerebbe in trasparenza e informazione al
consumatore; al contrario, potrebbe costituire un elemento di destabilizzante confusione o di
errore, inducendo taluno a ritenere che un prodotto che esponesse in etichetta più marchi fosse
in qualche misura “più biologico” di un altro della medesima qualità che si limitasse a esporre il
logo europeo (l’unico obbligatorio e l’unico per il quale vige uno specifico sistema di controllo).
Le difficoltà sopra descritte non riguarderebbero solo le imprese estere che commercializzano
prodotti tramite operatori italiani della distribuzione, ma chiaramente anche le imprese italiane,
tenute a rinnovare il parco etichette con oneri di estrema rilevanza; l’onere sarebbe distribuito sia
su quelle di maggiori dimensioni (per le quali sarebbe più rilevante in termini assoluti, stante la
113 di 142
maggior numerosità di referenze per le quali si renderebbe necessaria un rinnovo delle etichette,
con i relativi costi di grafici e di tipografia) che su quelle minori (per le quali sarebbe in termini
assoluti inferiore, ma proporzionalmente più sensibile, stante il maggior costo unitario delle
etichette dovuto alle minori tirature di stampa e alla frequente realizzazione di imballaggi con la
previsione di un lungo periodo di utilizzo).
Va infine segnalato che un marchio attribuito sulla base del criterio fondamentale dell’origine
geografica del prodotto pur se non attesta, neppure garantisce qualità organolettiche superiori né
chiaramente definite: in assenza di panel di degustazione (come nel caso degli oli extravergini o
dei vini a denominazione) un prodotto a marchio potrebbe anche non risultare soddisfacente al
consumatore, con effetti controproducenti sulle caratteristiche qualitative di altri prodotti
marchiati.
114 di 142
6.2 Disciplinari “più rigorosi”
L’articolo 34 (Libera circolazione dei prodotti biologici) del regolamento CE n. 834/2007 al comma
2 prevede che possano essere legittimamente istituiti disciplinari più rigorosi di quelli europei,
2. Gli Stati membri possono applicare nel loro territorio norme più rigorose alla produzione
biologica vegetale e a quella animale, purché tali norme siano applicabili anche alla produzione
non biologica, siano conformi alla normativa comunitaria e non vietino o limitino la
commercializzazione di prodotti biologici prodotti al di fuori del territorio dello Stato membro
interessato,
Di norma, “norme più rigorose” comportano maggiori costi (o quantomeno minori rese), con ciò
provocando uno svantaggio competitivo alle imprese che le adottano; perché un’impresa scelga
di sopportare tali maggiori costi (o minori ricavi) è necessario che il vantaggio competitivo portato
dall’adesione a dette norme sia almeno equivalente a tali costi.
L’uso nell’articolato del regolamento CE n.834/2007 dell’aggettivo “applicabili” sembrerebbe
consentire uno scenario in cui siano ammissibili norme più rigorose teoricamente anche solo
“applicabili” e non necessariamente “applicate” nella pratica alla produzione non biologica,
norme che potrebbero essere sostenute da un marchio.
Ma, oltre al fatto che, per superare la presunzione di incompatibilità col Trattato, tale marchio
dovrebbe essere concesso a qualsiasi impresa comunitaria o non comunitaria operasse in
conformità, il considerata 29 del regolamento CE n.834/2007 da cui discende il secondo comma
dell’articolo 34 chiarisce che non di “applicabile” si tratta, ma di “applicato”:
“A fini di coerenza con la normativa comunitaria vigente in altri settori, nel caso della
produzione animale e vegetale si dovrebbe consentire agli Stati membri di applicare, nei
rispettivi territori, norme di produzione nazionali più rigorose delle norme comunitarie relative
alla produzione biologica, purché le norme nazionali in questione si applichino anche alla
produzione non biologica e siano altrimenti conformi al diritto comunitario”.
115 di 142
Le uniche possibilità che si presentano per un marchio nazionale sembrano quindi:
- marchio di pura conformità tecnica (concesso a qualsiasi impresa comunitaria ex extra-
comunitaria che operi in conformità al Regolamento CE n.834/2007), nella sostanza
ridondante in quanto concettualmente identico al logo europeo
oppure
- istituzione di una norma tecnica più rigorosa, applicata anche all’agricoltura nazionale non
biologica, e relativo marchio (anch’esso concesso a qualsiasi impresa comunitaria ex extra-
comunitaria che operi in conformità al disciplinare del marchio), che comporta un elemento
distintivo rispetto al regolamento europeo, ma comporta ripercussioni tecniche sull’intera
agricoltura nazionale.
6.3 Altre considerazioni
Alle Camere sono depositati diversi progetti di legge in materia di origine dei prodotti alimentari in
genere e/o di loro marchi nazionali, come, a solo titolo esemplificativo:
- Istituzione delle denominazioni comunali di origine per la tutela e la valorizzazione delle attività
agro - alimentari tradizionali locali6
- Disciplina delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini7
- Disciplina della tutela e della valorizzazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni
geografiche dei vini8
- Istituzione delle denominazioni comunali di origine per la tutela e la valorizzazione delle attività
agro - alimentari tradizionali locali9
- Disposizioni per la tutela delle produzioni agroalimentari tipiche, biologiche e a denominazione
protetta10
- Disposizioni in materia di rintracciabilità dell'origine della materia prima agricola, dei prodotti
alimentari, dei mangimi e tutela della salute umana11
Il regolamento CE n.834/2007 prevede l’obbligo dello specifico logo europeo, integrato dalla
dicitura «Agricoltura UE» che può essere sostituita o integrata dall’indicazione del paese in cui sia
stato prodotto non meno del 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto; è
facile prevedere che le imprese conformi al requisito indicheranno «Agricoltura italiana»,
«Agricoltura UE - materia prima italiana» o altra dicitura analoga che rende del tutto ridondante
un’ulteriore specificazione sotto forma di marchio nazionale; la chiara informazione al
consumatore può ritenersi così più che garantita.
Dal breve esame qui riassunto si desume:
- l’incompatibilità comunitaria di qualsiasi misura che agevoli alcuni soggetti e ne escluda
altri senza che ciò sia giustificato dal perseguimento di obbiettivi di interesse comunitario
generale che non possano essere altrimenti soddisfatti;
- la complessità pratica (aggravio degli oneri per il controllo; difficoltà a inserire un ulteriore
marchio in etichetta);
- la relativa scarsità di prodotti marchiabili (stante la non disponibilità di numerosi
ingredienti da produzione nazionale e la conseguente obbligatorietà dell’indicazione
“agricoltura UE/non UE” per parte rilevantissima dei prodotti trasformati, che si palesa
incompatibile con un marchio che intendesse rivendicare, al contrario, l’origine nazionale
del prodotto finito)
Ne consegue che non appare praticabile la via di un intervento pubblico per un marchio nazionale
il cui scopo sia la promozione e l’attribuzione di un vantaggio competitivo alle imprese nazionali;
un marchio basato esclusivamente sull’origine nazionale delle imprese è ammissibile (e dopo
accurata calibrazione della sua regolamentazione) dalla normativa comunitaria esclusivamente se
alla sua gestione e promozione provvedono direttamente le imprese, con l’esclusione di ogni
contributo economico pubblico.
È invece ritenuto ammissibile un marchio di conformità, ancorché di proprietà pubblica, a
condizione che sia concesso a tutte le imprese comunitarie ed extra-comunitarie operanti in
conformità a norme tecniche di riferimento (vedansi i citati casi dei marchi collettivi comunitari
adottati dalle Regioni Toscana e Puglia).
118 di 142
Un marchio siffatto, tuttavia, si verrebbe integralmente a sovrapporre al logo europeo (a breve
obbligatorio); un marchio nazionale che avesse carattere di volontarietà, in quanto facoltativo
nulla innova nella prassi esistente, ma solo aggiunge un’ennesima prescrizione di legge e oneri per
le imprese.
Va segnalato anche che se la tutela comunitaria e multilaterale del sistema vigente di etichettatura
è universalmente riconosciuta nelle sedi arbitrali, l’ipotesi di un marchio nazionale rischia non
trovare la stessa tutela.
119 di 142
6.4 Vantaggi e svantaggi nella creazione di un marchio biologico nazionale
strenght weakness
- Rafforzare l’immagine del prodotto biologico made in Italy
- Fornire un valore aggiunto al prodotto biologico tramite l’adozione di disciplinari “più rigorosi”
- Immediata identificazione del prodotto biologico nazionale da parte del consumatore
- Garantire al consumatore che tutte le fasi del processo di produzione e trasformazione sono interamente realizzare sul territorio nazionale, nel rispetto delle norme comunitarie e nazionali
- Accrescere la percezione del valore e della qualità del prodotto biologico nazionale ne consumatore, in termini di sicurezza, garanzia e controlli
- Predisposizione di un panel significativo di consumatori verso il marchio biologico nazionale
- Parere negativo degli operatori e degli esperti del settore
- introduzione di un biologico di serie A e di serie B, a fronte di un segmento di dimensioni limitate
- rischio che le risorse pubbliche, anziché alla promozione del settore biologico, vadano alla promozione di una sua parte minoritaria, quindi a danno della maggioranza degli operatori, stante la ridotta applicabilità del marchio (per barriere tecniche oggettive) e la sua ridotta applicazione (per contrarietà delle aziende)
- coesistenza con il logo europeo e con l’indicazione concorrente “agricoltura italiana”
- coesistenza con il logo europeo e l’indicazione contrastante “agricoltura UE/non UE” per confetture, marmellate, nettari di frutta, caffè, cioccolato, prodotti da forno ecc. (in quanto contenenti ingredienti extra UE oltre il 2%).
- difficile compatibilità con la norma comunitaria generale
- elementi distintivi necessariamente poco significativi
- marchio che non richiede standard qualitativi ed organolettici uniformi, ma si concentra sostanzialmente sulla sola origine
- obbligo di concedere il marchio anche ad aziende estere conformi, annullando quindi il vantaggio competitivo
- presenza di altri strumenti per valorizzare l’origine territoriale e la qualità dei prodotti (Dop,Igp, prodotti agroalimentari tradizionali)
- Rapporto marchio/qualità non necessariamente connesso
- Difficoltà per le imprese di collocare in etichetta una pluralità di marchi
- Obbligo di adozione dei disciplinari “più rigorosi” anche per le aziende convenzionali
120 di 142
opportunities treats
- identificazione dell’italianità del prodotto con un simbolo grafico e non solo con l’indicazione testuale già obbligatoria
- identificare la produzione biologica puntando sulla garanzia istituzionale della qualità del prodotto (controlli, sicurezza)
- Valorizzare la provenienza (rintracciabilità ed elevati standard qualitativi)
- Fornire maggiore visibilità ai prodotti biologici - Migliorare la capacità di penetrazione del
mercato nazionale - Aumentare il peso del settore biologico sui
consumi domestici - Fornire una maggiore trasparenza informativa e
di mercato tramite l’intervento delle istituzioni pubbliche/Organismi in grado di comunicare/assicurare la qualità dei beni
- Tutelare i produttori che si avvalgono del marchio bio (uso non corretto del marchio, concorrenza leale tra i produttori bio)
- Contrastare l’uso ingannevole o scorretto dei marchi
- Possibilità di revisionare le procedure di controllo
- Possibilità di migliorare il coordinamento degli enti preposti ai controlli
- Possibilità di adottare nuove iniziative e campagne di comunicazione ed educazione
- Effetto trainante sull’intero settore bio
- ulteriore segmentazione del settore bio - maggiore confusione per il consumatore per
l’eccesso di marchi e diciture contraddittorie - appesantimento degli oneri burocratici a carico
delle imprese - complicazione del sistema di controllo - attività ulteriori richieste a ICQ, NAS, CPA ecc. - nuovi costi che graverebbero sulle aziende e
quindi sul prezzo al pubblico dei prodotti - svantaggio competitivo per le imprese dovuto
all’eventuale applicazione di norme più rigorose (più costi e meno resa)
- necessità per gli operatori di rinnovare le confezioni
- incompatibilità con la norma comunitaria generale
- obbligo di concedere il marchio anche ad aziende estere conformi, annullando quindi il vantaggio competitivo
- dispersione delle risorse pubbliche per barriere tecniche oggettive (procedeure e costi aggiuntivi) e soggettive (scarsa convinzione delle aziende) all’applicabilità del marchio
- obbligo dicitura “agricoltura UE/non UE” per prodotti contenenti ingredienti extra UE oltre il 2%, come confetture, marmellate, cioccolata, caffè, ecc
7 CONCLUSIONI: la fattibilità del Marchio biologico Nazionale
- Un marchio di proprietà pubblica non può trovare nell’origine nazionale del prodotto o dei
suoi ingredienti il suo elemento distintivo, né l’amministrazione pubblica può intervenire a
sostegno di tale marchio o di un marchio analogo di proprietà di terzi, in quanto ciò
configurerebbe aiuto di stato in grado di falsare la libera concorrenza su prodotti del tutto
equivalenti. Ogni intervento pubblico che faccia riferimento all’origine nazionale degli
ingredienti non potrà essere autorizzato dalla Commissione e ogni elaborazione a questo
riguardo si tradurrà in spreco di tempo.
121 di 142
- Un marchio nazionale può essere legittimamente istituito e promosso dall’amministrazione
pubblica qualora non falsi la concorrenza internazionale, e sia quindi accessibile alle stesse
condizioni a qualsiasi impresa comunitaria o extra-comunitaria in regime di equivalenza e
non; va da sé che un siffatto marchio costituirebbe l’esatta duplicazione del logo europeo
di imminente obbligatorietà, venendo quindi a mancare di una pur minima utilità e
costituendo, nei fatti, solo un nuovo gravame per le imprese del settore;
- Un marchio nazionale può essere legittimamente istituito e promosso dall’amministrazione
pubblica qualora si riferisca a un disciplinare con norme tecniche più rigorose (che
rafforzino il legame con il territorio, con le caratteristiche delle cultivar e delle razze animali
autoctone, con le pratiche agrarie ed elevati standard di qualità) di quelle previste
dall’Unione europea, che devono tuttavia valere per l’intera produzione nazionale anche
non biologica; come per gli altri casi, tale marchio non deve falsare la concorrenza
internazionale e deve essere quindi accessibile alle stesse condizioni a qualsiasi impresa
comunitaria o extra-comunitaria in regime di equivalenza e non; un siffatto marchio,
comportando nuovi obblighi tecnici per tutta l’agricoltura nazionale, si palesa
evidentemente come possibilità solo teorica e di scuola, priva di reali prospettive.
- Le dimensioni del settore, per quanto in crescita, sono tuttora limitate, con la massima
probabilità tali da non giustificare né sopportare un’ulteriore segmentazione.
- La dicitura obbligatoria «Agricoltura UE/non UE» o «Agricoltura italiana/non Ue» per tutti i
prodotti in cui sia di origine extra-comunitaria una percentuale uguale o superiore al 2%
(zucchero, grassi vegetali, cacao, ecc.) mal si coniuga con un marchio che intendesse
attestare l’origine “italiana” del prodotto, essendo questo dichiarato altrove nella stessa
etichetta come “blend” di ingredienti nazionali ed extra-comunitari.
- Stante la normativa vigente, al di là del fatto che ciò sia prevalentemente ritenuto a livello
comunitario come limitazione al libero scambio tra i paesi della Ue, al dettaglio dell’origine
122 di 142
sono già tenute le imprese che producono o commercializzano numerosi prodotti sia di
origine biologica che non biologica.
- Come già esposto, dal 1 luglio 2010 l’obbligo di indicare l’origine, limitatamente alla
produzione biologica (continuano, infatti, a essere esonerati da tale adempimento le
produzioni non biologiche, salvo che per i prodotti sopra richiamati), si estenderà a tutte le
produzioni di alimentari preconfezionate, informando il consumatore del luogo in cui sono
state coltivate le materie prime agricole di cui il prodotto è composto.
- L’inammissibilità comunitaria di marchi nazionali legati all’origine nazionale del prodotto
e/o dei suoi ingredienti limita l’intervento pubblico nel solo campo dei marchi nazionali, ma
non lo impedisce in tutti gli altri ambiti di estremo rilievo per il settore: promozione
generale del consumo di prodotti biologici e del marchio europeo (che sul mercato interno
è comprensibilmente presente in assoluta prevalenza su prodotti nazionali), green public
procurement, sostegno all’internazionalizzazione, sostegno all’interprofessione e agli
accordi di filiera, rapida emanazione delle norme di settore, ecc.
123 di 142
Appendice
L’agricoltura biologica nel mondo
Secondo l’ultimo sondaggio in materia di agricoltura biologica (pubblicato in The World of Organic
Agriculture) effettuato dall’istituto di ricerca di Agricoltura Biologica, FiBL e dall’IFOAM,
l’agricoltura biologica si sta sviluppando rapidamente e le informazioni statistiche sono adesso
disponibili in ben 141 Paesi nel mondo.
I principali risultati del più recente sondaggio a livello globale sulle produzioni biologiche mostrano
che 32,2 milioni di ettari di terreni agricoli sono gestiti in biologico da oltre 1,2 milioni di
produttori, inclusi i piccoli proprietari terrieri.
In aggiunta ai terreni agricoli, ci sono 0,4 milioni di ettari destinati all’acquacoltura biologica.
Figura 1
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
Distribuzione delle aree biologiche
Tra le macroaree con le più ampie superfici di terreni destinati al biologico si segnalano l’Oceania,
l’Europa e l’America Latina.
Dell’Europa e dell’America Latina si dirà in seguito.
124 di 142
Figura 2
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
L'Oceania, con circa 12 milioni di ettari, ha più di un terzo delle terre coltivate con metodi biologici,
la maggior parte delle quali è in Australia. Una gran parte di questi è dedicata ai pascoli e sostiene
significativamente la produzione di carni bovine in Australia e di prodotti lattiero-caseari, lana in
Nuova Zelanda.
Figura 3
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
125 di 142
“Quote” di terreno biologico Liechtenstein, Austria e Svizzera sono gli unici Paesi al mondo che hanno destinato più del 10%
della loro superficie all’agricoltura biologica. È un dato di eccezionale rilevanza se si pensa che il
68% dei Paesi esercita attività di agricoltura biologica su una superficie inferiore all’1%.
Figura 4
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
Figura 5
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
126 di 142
Paesi in via di sviluppo Circa un terzo di tutte le terre gestite in biologico nel mondo – quasi 11 milioni di ettari – è
localizzato nei paesi in via di sviluppo. Tra questi troviamo al primo posto l’America
Latina,(Argentina, Brasile e Uruguay) seguita dall’Asia (Cina e India) e dall’Africa al secondo e terzo
posto.
L'America Latina ha circa 6 milioni di ettari di terreno biologico, con l'Argentina, Brasile, Uruguay
come leader. La maggior parte di questi terreni sono utilizzati per la coltivazione di colture
destinate all'Unione Europea, agli Stati Uniti e al Giappone; almeno l' 85% di prodotti alimentari
biologici viene esportato in Messico. Due dei più importanti prodotti biologici della regione sono il
cacao e il caffè, che forniscono un importante fonte di reddito per i piccoli agricoltori.
L’Europa verrà trattata più in dettaglio successivamente.
In Asia, la Cina ha più della metà dei 2,8 milioni di ettari di terreni agricoli, gestiti biologicamente.
L'India segue a stretto contatto con più di 1 milione di ettari ma ha un numero maggiore di
produttori: quasi 200.000 in confronto con la Cina con 1600.
L'Africa ha più di 800 mila ettari di terreni agricoli gestiti biologicamente, con l'Uganda al primo
posto con quasi 300 mila ettari (2,33 per cento del totale delle superfici agricole). Anche se il
continente è la patria di quasi la metà dei terreni biologici di tutto il mondo, le aziende tendono ad
essere di numero molto inferiore a quello di altre regioni. I maggiori prodotti biologici raccolti in
Africa sono il caffè e le olive.
Uso del suolo Quasi i due terzi dei terreni mondiali gestiti in biologico sono destinati al pascolo (20 milioni di
ettari). La superficie coltivata (seminativi e colture permanenti) invece ricopre 7,8 milioni di ettari.
Rispetto alla precedente indagine condotta da FiBL &IFOAM, vi è una chiara tendenza ad
aumentare la superficie coltivata destinata al biologico. Per alcune colture già si sono registrati
degli aumenti; zone biologiche destinate alle coltivazioni del caffè e delle olive, ad esempio,
rappresentano più del 5% del totale delle superfici di raccolta. E in alcuni Paesi le percentuali sono
ancora più elevate: il 30% del caffè proveniente dal Messico è biologico.
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Figura 6
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
Figura 7
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
La crescita dei terreni biologici A livello mondiale, si è registrato un aumento delle superfici dei terreni biologici di quasi 1,5
milioni di ettari rispetto ai dati del 2006.
Figura 8
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Fonte: FiBL, IFOAM & SOEL 2000- 2009
Un aumento del 28% (o 1,4 milioni di ettari) dei terreni investiti a biologico è stato registrato in
America Latina (compresi 0,9 milioni di ettari in conversione in Brasile, per i quali fino ad ora non
erano disponibili dati).
Figura 9
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
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In Europa la superficie destinata al biologico è aumentata di 0,33 milioni di ettari e di 0,18 milioni
di ettari in Africa.
Dal 1999 la superficie destinata all’agricoltura biologica è quasi triplicata. Ma spesso i dati relativi
allo sviluppo del territorio relativamente alla gestione biologica sono in fase di costante revisione.
Produttori
Fino al 2007 sono stati registrati 1,2 milioni di produttori che operano nel campo del biologico.
Secondo i dati ottenuti, quasi la metà dei produttori è localizzata in ordine crescente nelle
seguenti aree geografiche: Africa, America Latina ed Europa.
Figura 10
Fonte: FiBL &IFOAM 2009
Il paese con il maggior numero di produttori è l’Uganda, seguito da India, Etiopia e Messico.
Trovare dati precisi sul numero di aziende agricole biologiche rimane difficile, in quanto alcuni
paesi riportano il numero dei piccoli produttori ed altri paesi riportano solo il numero di aziende o
di gruppi di agricoltori. Inoltre ci sono Paesi che forniscono il numero di produttori per singola
coltura; risulta chiaro che si possono verificare delle sovrapposizioni per quegli agricoltori la cui
attività è incentrata su più colture.
Figura 11
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Fonte: FiBL &IFOAM 2009
Il numero globale di produttori biologici, pari a 1,2 milioni, dovrebbe pertanto essere considerato
con cautela.
Mercato globale La domanda globale di prodotti biologici rimane robusta, con vendite in aumento di oltre 5 milioni
di dollari l’anno. È stato stimato che le vendite internazionali hanno raggiunto 46,1 miliardi di
dollari nel 2007.
Figura 12
Fonte: Organic Monitor 2009, Sahota 2009
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La domanda dei consumatori di prodotti biologici è concentrata in Nord America e in Europa;
queste macroaree costituiscono il 97% del fatturato globale. Asia America Latina e Oceania sono
importanti produttori ed esportatori di alimenti biologici. Gli elevati ritmi di crescita hanno
rafforzato quasi ogni settore dell’industria dei prodotti alimentari biologici: frutta, verdura,
bevande, cereali, semi, sementi, erbe e spezie.
In piena crisi finanziaria si prevedono tassi di crescita positivi del mercato, ma inferiori rispetto agli
anni precedenti.
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L’agricoltura biologica in Europa
L’Europa, con la sua costante crescita di terreni coltivati a biologico, detiene circa un quarto
dell’intera superficie mondiale. Alla fine del 2007, 7,8 milioni di ettari in Europa sono stati gestiti in
biologico da oltre 200.000 aziende. Nell’Unione Europea, invece, sono risultati 7,2 milioni gli ettari
condotti in biologico da più di 180.000 aziende biologiche.
Figura 13
Fonte: FiBL and ZMP
L’1,9% dell’agricoltura europea e il 4% dell’agricoltura dell’Unione Europea è biologica.
Il 24% della superficie biologica del mondo è localizzata in Europa.
I Paesi con la più vasta superficie dedicata al biologico sono: Italia (1'150'253 ettari), Spagna
(988'323 ettari) e Germania (865'336 ettari).
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Rispetto al 2007 la superficie europea coltivata a biologico è aumentata di 0,3 milioni di ettari
(+4,5%) con sostanziali incrementi in Paesi come la Spagna (+61.932 ettari), la Polonia (+57.869) e
la Gran Bretagna (+55.629).
Figura 14
Fonte: FiBL, Institute of Rural Sciences and ZMP
Figura 15
Fonte: FiBL, Institute of Rural Sciences and ZMP
Purtroppo dati ancor più recenti hanno confermato che la Spagna ha scavalcato l'Italia come
maggior produttore biologico europeo.
La Spagna è arrivata a un totale di 1,25 milioni di ettari, rispetto a 1,15 milioni dell'Italia.
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Il sorpasso spagnolo è avvenuto soprattutto grazie alla Andalusia che sta diventando uno dei centri
del biologico europeo. Con 784mila ettari coltivati e 8.125 operatori biologici, l'Andalusia è di gran
lunga la prima comunità regionale spagnola per il biologico.
I dati sono stati diffusi al BioFach 2009 da Francisco Casero, presidente del Ccae, Comité de
Agricultura Ecológica de Andalucía.
Il mercato europeo dei prodotti biologici
Le vendite dei prodotti biologici sono state circa di 16 miliardi di euro nel 2007. sempre nel 2007 il
più grande mercato dei prodotti biologici è stata la Germania con un fatturato di 5,3 miliardi di
euro (5,8 miliardi di euro nel 2008), seguita dal Regno Unito (2,6 miliardi di euro), Francia e Italia
(1,9 miliardi di euro entrambe).
Figura 16
Fonte: Institute of Rural Science of Aberystwyth University, FiBL, ZMP.
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Figura 17
Fonte: Institute of Rural Science of Aberystwyth University, FiBL, ZMP.
La più alta spesa pro capite per i prodotti biologici si registra nei seguenti paesi: Austria,
Danimarca e Svizzera.
Figura 18
Fonte: Institute of Rural Science of Aberystwyth University, FiBL, ZMP.
Al primo posto, tra i Paesi con la più elevata quota di prodotti biologici si colloca la Danimarca,
seguita dall’Austria, dalla Svizzera e dalla Svezia. L’Italia non è presente in questa classifica.
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Figura 19
Fonte: Institute of Rural Science of Aberystwyth University, FiBL, ZMP.
Le più alte vendite per I prodotti biologici si registrano nei seguenti Paesi : Germania, Regno Unito,
Francia e al quarto posto si colloca l’Italia.
L’agricoltura biologica in Italia
Dall’analisi completa dei dati forniti al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali dagli
Organismi di Controllo (OdC) operanti in Italia al 31 dicembre 2008, sulla base delle elaborazioni
del SINAB – Sistema d’Informazione Nazionale sull’Agricoltura Biologica, risulta che gli operatori
del settore sono 49.654 di cui: 42.037 produttori; 5.047 preparatori (comprese le aziende che
effettuano attività di vendita al dettaglio); 2.324 che effettuano sia attività di produzione che di
trasformazione; 51 importatori esclusivi; 195 importatori che effettuano anche attività di
produzione o trasformazione.
Tabella 3 - Numero operatori per tipologia e regione
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Fonte: Sinab
Rispetto ai dati riferiti al 2007 si rileva una riduzione complessiva del numero di operatori
dell’1,2%. La distribuzione degli operatori sul territorio nazionale vede, come per gli anni passati,
la Sicilia seguita dalla Calabria tra le regioni con maggiore presenza di aziende agricole biologiche.
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Figura 20 - Variazione percentuale del numero di operatori per regione: confronto 2007 - 2008
Fonte: Sinab
Figura 21 - Numero di PRODUTTORI per regione
Fonte: Sinab
Per il numero di aziende di trasformazione impegnate nel settore la leadership spetta all’Emilia
Romagna seguita dal Veneto, come dimostrano i due grafici che seguono. (figg. 22 e 23)
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Figura 22 - Numero di PREPARATORI per regione
Fonte: Sinab
Figura 23 - Numero degli IMPORTATORI per regione
Fonte: Sinab
La superficie interessata, in conversione o interamente convertita ad agricoltura biologica, risulta
pari a 1.002.414 ettari, con una riduzione rispetto all’anno precedente circa del 12,8%. Il principale
orientamento produttivo è rappresentato dai cereali che, insieme a foraggi, prati e pascoli,
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coprono più del 50% della superficie totale ad agricoltura biologica. Segue, in ordine di
importanza, la superficie investita ad olivicoltura e quella a viticoltura.
Tabella 4 - Superfici e colture in agricoltura biologica
Fonte: Sinab
Nei grafici successivi (figg. 24 e 25) si riportano rispettivamente le superfici e le colture in
agricoltura biologica e la distribuzione regionale della superficie
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Figura 24 - Superfici e colture in agricoltura biologica (in ettari)
Fonte: Sinab
Figura 25 – Distribuzione regionale della superficie (dati in corso di elaborazione)
Fonte: Sinab
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Per le produzioni animali, distinte sulla base delle principali specie allevate, i dati evidenziano un
incremento del numero di capi in particolare per quanto riguarda il pollame, le pecore ed i maiali.
Tabella 5 - ZOOTECNIA
Fonte: Sinab
L’attività esercitata dagli Organismi di controllo riconosciuti si è concretizzata in un totale di
63.060 visite ispettive, con prelievo ed analisi di 5.500 campioni.