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Storie di Kampuchea

Feb 15, 2017

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Storie di Kampuchea

Ambra Enrico

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Tutti i diritti riservati La riproduzione parziale o totale del presente libro è soggetta all’autorizzazione scritta da parte dell’editore. La presente pubblicazione contiene le opinioni dell’autore e ha lo scopo di fornire informazioni che, benché curate con scrupolosa attenzione, non possono comportare specifiche responsabilità in capo all’autore e all’editore per eventuali inesattezze. GiveMeAChance s.r.l. – Editoria Online Viale Regina Margherita, 41 – Milano 1° edizione Gennaio 2015

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A mio figlio

Con lui è nata la mia nuova vita

Alla Cambogia

Che mi ha insegnato

Che cosa vuol dire donare con il cuore

………………………….

Date ben poco quando date delle vostre ricchezze.

E’ quando date voi stessi che date veramente.

……………………………..

Vi sono quelli che danno con pena e stento,

e quella pena è il loro battesimo.

Vi sono quelli che danno senza pena nel donare,

né cercano gioia, né danno preoccupandosi della virtù.

Kahlil Gibran “Il Profeta”

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Ringraziamenti Sono tanti coloro a cui devo dir grazie per questo libro e

sono certa che ognuno di loro in cuor suo lo sa, senza bi-

sogno di nomi ed “epitaffi”. A loro la mia più grande rico-

noscenza.

E grazie a tutti coloro che avranno voglia di leggere ed ar-

rivare alla fine di questo libro. Spero di non avere annoiato

troppo ma, soprattutto, spero di aver dato la voglia di visi-

tare la Cambogia.

Un ringraziamento particolare ad Alessandro Fanucchi per

la fotografia della copertina.

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Prefazione Non ho mai pensato di scrivere nulla di sensazionale, là

dove c’è la quotidianità, infatti, c’è la normalità ma spesso

questa normalità è diversa da ciò che noi siamo abituati

ad immaginare, diversa da quella che viviamo ogni giorno

e questo perché lontano da qui la storia ha avuto un corso

diverso, terribile.

Io ho conosciuto un uomo; il modo in cui quell’uomo era

passato attraverso mezzo secolo di storia drammatica del

suo paese conservando il mesto sorriso sul volto e al tem-

po stesso la voglia di fare ogni giorno qualcosa per quanti

erano nati nel momento sbagliato o nel posto sbagliato

aveva per me qualcosa di straordinario. Tutto in lui mi è

sembrato, da subito, semplice ed eccezionale e poiché ho

avuto il privilegio di incontrarlo ho pensato di condividere

con altri questa occasione di conoscenza.

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Storie di Kampuchea Durante la mia adolescenza le pagine dei giornali ne han-

no parlato per anni, sino alla nausea: parlo della guerra in

Vietnam. Una grande potenza come gli Stati Uniti tenuta in

scacco da un pugno di uomini scalzi, a volte male armati,

affamati ma sempre spinti da un odio profondo verso gli

invasori e da una voglia di indipendenza che alla fine li ha

resi vincenti.

Dopo vent’anni nessun vinto e tutti vincitori o solo, forse, il

popolo vietnamita che con orgoglio e fatica ha rimesso in-

sieme i cocci del proprio paese per andare avanti.

Finita la guerra i giornali pian piano si dimenticano del

Vietnam, ma vengono immediatamente sostituiti

dall’industria Hollywoodiana. “Berretti verdi”, “Platoon”,

“Good morning Vietnam”, “Dalla terra al cielo”, “Il Caccia-

tore” sono solo alcuni dei titoli, i più famosi, che ci riporta-

no dentro quella storia.

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La donna china fra il riso e il cappello a cono, l’immagine

della parte buona da salvare e liberare; il capo scoperto,

una smorfia tra crudeltà e sogghigno, alla Bruce Lee, il

Vietcong cattivo, comunista, da combattere, sconfiggere e

uccidere.

Oggi quella guerra è parte del secolo scorso, decine di al-

tre purtroppo sono seguite, ma di quella di cui voglio parla-

re, anche questa del ventesimo secolo, si è parlato sem-

pre pochissimo, sempre velocemente e forse anche in

modo menzognero o superficiale.

Ignorare e dimenticare è stato il modo più semplice.per

nascondere la vergogna che credo i più provino.

I cosiddetti democratici avevano già dovuto chinare il capo

e accettare che le truppe di Hanoi, del Nord Vietnam, i

comunisti, dopo Da Nang arrivassero ad occupare Saigon.

Il comunismo aveva vinto. In Indocina, quindi, l’ago della

bilancia pendeva ormai inesorabilmente a sinistra. Un altro

paese in mano ai comunisti non faceva più tanta differen-

za, ancora meno se non era considerato di importanza

strategica. Per i comunisti, invece, ignorare cosa avveniva

in Cambogia era fondamentale per non dover prendere at-

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to delle atrocità perpetrate in nome di una nuova società in

cui tutti dovrebbero essere uguali.

I libri di storia hanno dedicato e dedicano interi capitoli

all’Olocausto; Pol Pot, che in quattro anni ha sterminato

circa 2 milioni di Cambogiani, è sempre liquidato in poche

righe.

Nel 1975 la popolazione cambogiana era di circa 7 milioni

di abitanti, ciò vuol dire che lui e i suoi seguaci ne hanno

ucciso circa il 25%. Un pò troppi per essere descritti velo-

cemente in poche righe.

A nessuno giovava parlare di tutto questo, solo accenni

per dovere di cronaca, ma nessuna partecipazione per un

popolo che soffriva e moriva in silenzio. Il paese, dal 1830

protettorato francese, era povero e arretrato, quindi politi-

camente meno importante. Il sovrano Sianouk, per anni,

aveva fatto l’acrobata politico con francesi, tailandesi,

vietnamiti e, infine, si era rivolto ai cinesi senza che la sua

figura assumesse mai un ruolo preciso a capo di un go-

verno forte a cui il popolo potesse rivolgersi e appellarsi

per denunciare ciò che stava accadendo.

Anche per me, come per la maggior parte degli occidenta-

li, l’Indocina era una penisola lontana, chiamata così non

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so per quale motivo, in ogni modo non mi è mai interessa-

to saperlo. Il Vietnam era il paese dove John Wayne e De

Niro facevano gli eroi, ma la Cambogia, quella era solo e

sempre un piccolo puntino sul mappamondo.

Niente, quindi, mi induceva a pensare, e nemmeno ad

immaginare, che quel paese mi sarebbe entrato nel cuore

e che un sorriso mesto su un volto marrone mi avrebbe

colpito al punto da voler approfondire e conoscere vera-

mente quell’uomo, il paese e la sua storia.

Chivv Ngauv, un concentrato di dignità e coraggio, è pas-

sato attraverso momenti terribili, ma nonostante questo

non prova odio, anzi, con amore e dedizione è riuscito a

fare molto per coloro che maggiormente hanno sofferto e

soffrono le conseguenze di questo Olocausto: i bambini.

Quando a Natale del 1979 le truppe vietnamite iniziano

l’invasione e la Kampuchea Democratica in due settimane

finisce, Pol Pot si dà alla macchia nella Cambogia occi-

dentale e i suoi uomini si ritirano nella foresta, verso il con-

fine tailandese. Ma non si danno per vinti e per anni conti-

nuano la loro guerriglia contro il governo della Repubblica

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Popolare e contro i vietnamiti. Le loro incursioni nei villaggi

portano sempre e solo distruzione e morte. I Governi occi-

dentali, che non hanno mai preso posizione prima, alla fi-

ne accettano anche i Khmer Rossi al tavolo delle trattati-

ve; non è Pol Pot, ma Ieng Sary che siede al tavolo per

trattare un nuovo assetto politico e la pace per lo stesso

paese, nel quale, per quattro anni, aveva torturato e mas-

sacrato migliaia di innocenti in nome della democrazia so-

ciale.

La Cambogia di oggi sta ancora pagando le conseguenze

di quegli anni.

Il periodo dei khmer rossi è finito, ma loro non sono spariti

completamente.

Nel 2011 è stato istituito il Tribunale speciale per i Khmer

Rossi che era un tribunale misto, istituito a seguito di un

accordo tra il Regno di Cambogia e le Nazioni Unite per

processare i responsabili del genocidio perpetrato in terri-

torio cambogiano durante il regime di Pol Pot e dei Khmer

Rossi. Da allora al 7 agosto 2014, data della sentenza, dei

quattro imputati ne erano rimasti solo due: Khieu Sam-

phan, 83 anni e capo di stato di quel regime, e Nuon

Chea, 88 anni e allora capo ideologo del partito, che de-

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vono ancora affrontare un altro processo per genocidio. Il

ministro degli Esteri del regime dei Khmer Rossi, Ieng Sa-

ry, infatti è morto nel luglio 2013, mentre sua moglie Ieng

Thirith, al tempo ministro degli Affari Sociali, è stata ritenu-

ta incapace di sostenere un processo nel 2012, quando le

è stata diagnosticata la demenza.

E’ stato indubbiamente un processo voluto più dalla co-

munità internazionale che dai cambogiani.

La vita nel paese è migliorata, ma la povertà è sempre a

livelli altissimi, si muore ancora di fame e andare a scuola

non è ancora un diritto di tutti.

Oggi il paese ha ancora una percentuale molto elevata di

morti per aids e gli orfani, a causa di questa piaga, sono

sempre numerosi. Gli aiuti della comunità internazionale e

delle Organizzazioni Non Governative sono molti, anche

troppi se si considerano le modalità in cui vengono propo-

sti. Innumerevoli ONG sono, infatti, di casa a Phnom

Penh; i cooperanti che le rappresentano vivono lì stabil-

mente; i progetti portati avanti sono tanti ed operativi in

ogni settore, ma, come spesso accade in questi casi,

l’obiettivo sembra essere più quello di garantire un lavoro

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per i numerosi espatriati, che un aiuto costruttivo e duratu-

ro per il paese.

I canali, attraverso cui arriva il denaro, sono continuamen-

te alimentati, ma in pochi casi le ONG locali sono la con-

troparte coinvolta e operativa; è molto più frequente che

alla fine del progetto l’ONG straniera si ritiri e pian piano il

lavoro fino ad allora svolto prosegua male o, addirittura, in

un periodo medio-breve si sgretoli e venga dimenticato. In

questo modo la problematica non risolta potrà diventare

oggetto di un nuovo progetto, di nuovi finanziamenti e di

nuovo lavoro per gli espatriati cooperanti da sistemare.

Purtroppo, questo continua ad essere un problema comu-

ne a tutte le realtà dei paesi poveri dove l’aiuto economico

internazionale è consistente, ma genera meccanismi legati

a grandi interessi e speculazioni: lo si percepisce imme-

diatamente, e io stessa arrivata per la prima volta in Cam-

bogia, nonostante la poca esperienza di allora, me ne ac-

corsi subito.

Il rapporto tra la popolazione vietnamita e quella cambo-

giana è stato sempre difficile. I primi, infatti, hanno sempre

ritenuto i “cugini” cambogiani stupidi.

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Questi ultimi, per quattro anni, hanno subito ogni sorta di

sopruso, tortura, violenza ed angheria, non da parte di un

nemico esterno, bensì da loro giovani fratelli indottrinati

che, con volto inespressivo, ma cordiale, sono entrati in

Phnom Penh il 17 aprile 1975 per dare inizio, formalmen-

te, ad un periodo di transizione verso la democrazia. In un

solo giorno tutto ciò si è trasformato in una evacuazione

forzata della città al solo scopo di arrivare all’eliminazione

di una intera classe sociale il cui annientamento doveva

portare, all’inizio di una nuova era.

Erano, dunque queste le poche cose che sapevo sulla

Cambogia, prima di metterci piede per la prima volta. Ave-

vo letto libri che parlavano di Pol Pot, libri che raccontava-

no cose orribili, la ripetizione dell’Olocausto trenta anni

dopo, ma in un’altra latitudine dove la foresta e le risaie

avevano sostituito i lager nazisti. Ma, erano pur sempre

solo libri.

Anche della diversità fra cambogiani e vietnamiti avevo

appreso nozioni solo attraverso le letture. La diversità tra

questi due popoli deriva da molto lontano: i vietnamiti

hanno raccolto e assimilato le infiltrazioni cinesi, mentre la

Cambogia ha vissuto il periodo della “Indianizzazione” du-

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rante la quale elementi della cultura indiana furono assor-

biti o scelti in un processo che è durato un migliaio di anni.

Nessuno sa con precisione quando sia iniziato o come sia

avvennuto nei diversi periodi, tuttavia questo graduale

passaggio ha fatto della Cambogia un paese più simile,

per cultura e tradizioni, all’India che non alla vicina Cina.

Nel diciannovesimo secolo molti contadini cambogiani ve-

stivano ancora abiti riconducibili ai costumi indiani e si

comportavano più come indiani, che non come vietnamiti

o cinesi. Ancora oggi, ad esempio, i cambogiani mangiano

con il cucchiaio e con le dita, non con i bastoncini, e por-

tano i pesi sul capo, non con i bilancieri, tipico invece delle

donne vietnamite; indossano turbanti piuttosto che cappelli

di paglia e le donne preferiscono le gonne ai pantaloni.

Anche i loro strumenti musicali ed i gioielli sono in stile in-

diano.

La loro storia li ha portati ad essere molto pazienti e a sa-

per attendere, a memoria di un tempo in cui non era pos-

sibile fare previsioni future sulla possibilità di uscita

dall’inferno in cui erano piombati.

Quando ho conosciuto Chhiv tutto questo mondo è diven-

tato più facile da comprendere. Ho cominciato a guardare

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quell’uomo e a chiedermi “chissà come ha fatto”, abbas-

savo gli occhi per paura che la mia domanda fosse stam-

pata sul mio viso, li rialzavo e ancora mi chiedevo “chissà

cosa pensava in quei giorni…” e poi ancora “si sarà mai

chiesto perché? Come ha fatto a venirne fuori?”

Poi un giorno Chhiv mi portò a visitare il “Centro di Tortu-

ra” Tuol Sleng a Phnom Penh. Lì circa 16.000 fra uomini,

donne e bambini furono torturati e uccisi. Tutti nemici di

Angkar.

Di tutto questo abbiamo cominciato a parlare nel tempo,

ma sempre in generale, come se fosse accaduto ad altri e

in un altro luogo.

Stavo imparando anch’io a mettere in pratica la pazienza

orientale e per questo motivo non gli ho mai chiesto nulla,

fino a che non mi è sembrato il momento giusto per farlo,

dopo diversi anni in cui, periodicamente, ci siamo incontra-

ti, e abbiamo iniziato a lavorare insieme. Ma, soprattutto,

abbiamo imparato a stimarci e lui ha capito che la mia non

era curiosità morbosa, ma solo un modo per conoscere

meglio il suo paese, lui e tutti i cambogiani che, nel frat-

tempo, ho imparato ad apprezzare e ad amare.

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Ogni giorno lo accompagnavo nei suoi spostamenti. In

realtà lui accompagnava me, mi faceva conoscere il suo

paese, la sua miseria e la dignità di quel popolo. Alla fine

di ogni giornata si faceva il programma per il giorno suc-

cessivo ma, al mattino, subito dopo la partenza

dall’albergo, c’era una deviazione o una fermata non pre-

vista. La ragione era sempre e solo una: un bambino a ri-

schio abbandono, un orfano o prossimo tale che gli era

stato segnalato la sera prima, al suo rientro a casa, dopo

avermi lasciata in hotel.

E’ stato così che ho conosciuto Kien.

Aveva 9 anni e da tre mesi aveva perso il padre malato di

aids. La mamma era morta tre anni prima per lo stesso

male. Lui, in seguito, era vissuto con il padre e la sua nuo-

va compagna, che a sua volta aveva già altri 2 figli.

Alla morte del padre, la donna aveva continuato ad occu-

parsene fino al giorno in cui anche a lei venne diagnosti-

cata la stessa malattia ad uno stadio molto avanzato. Da-

vanti alla prospettiva di una morte vicina, la donna aveva

chiesto di venire immediatamente sollevata dalla respon-

sabilità di Kien per poter continuare ad occuparsi dei suoi

due figli fino alla fine.

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Kien era, quindi, rimasto solo: 9 anni, una vita segnata da

lutti importanti, miseria materiale e morale nel passato,

l’incognita più totale per il futuro.

Quella mattina, la deviazione era per lui.

“Dobbiamo andare a vedere un bambino…”

“Che bambino?”

“Uno che stanno per abbandonare, un orfano”

“Se è orfano chi lo sta per abbandonare? e se qualcuno lo

sta per abbandonare allora perché sarebbe orfano?” Mi

chiedevo tutte queste cose, ma non ero sicura fosse giu-

sto fare queste domande ad alta voce, non volevo sem-

brare troppo curiosa nelle mie richieste quindi continuavo.

“Chi è che lo abbandona e perché?”

“La convivente del padre. Lui è morto da pochi mesi, era

malato di aids, anche lei adesso è malata. Sta per morire.”

Questo è Chhiv, ogni cosa espressa con essenzialità di

parole, spesso difficili a capirsi per l’interlocutore, perché

lui segue sempre un suo pensiero che è già molto avanti,

oltre al presente. Lui va subito alla ricerca di una soluzione

per il futuro, alla ricerca di una soluzione, tra le varie pos-

sibilità, a cui può attingere. Lui risponde sempre alle do-

mande anche se sono ovvie, scontate. Scontate per lui,

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ma per te che sei lì per la prima volta o comunque nuova

per quella realtà, scontate non lo sono per nulla, anzi tu

hai l’impressione di dire con troppa naturalezza e ovvietà

cose di una gravità enorme.

Abbandonato. Una parola che racchiude un mondo, la

realtà quotidiana di un paese che fatica ad andare avanti,

a trovare la sua normalità. Tutte cose che ho imparato e

capito con il tempo, ma che allora non sapevo ancora.

Durante il percorso dall’hotel al villaggio di Russey Sanh,

dove viveva Kien, Chhiv, con la sua voce bassa e mono-

corde, mi racconta la storia di Kien e conclude “adesso

dobbiamo trovargli una sistemazione; per un pò la donna

potrà ancora badare ai suoi 2 figli, ma poi anche loro sa-

ranno soli…forse hanno una nonna…”.

Arriviamo a destinazione: un villaggio di baracche in legno

e stuoie, alcune costruite su palafitte altre no. Alcune sono

integre, altre sembrano essere state mitragliate tanti sono

i buchi. Qualche buco è ora uno squarcio attraverso cui si

può, tranquillamente, violare la privacy di quelle misere

cose: una stuoia, pochi stracci ammassati qua e là. Si trat-

ta di vestiti, coperte o altri piccoli oggetti.

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Storie di Kampuchea

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