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Storia delle religioni (Italian Edition) · Il metodo storico-comparativo, che le è proprio, configura la Storia delle religioni come diversa dalla storia di una specifica tradizione

Jun 17, 2020

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Premessa

Da più parti si è parlato, per il nostro tempo spesso denominato post-moderno, di un ‘risveglio’ del fatto religioso.

Nel mondo occidentale post-moderno – si è segnalato da più di unosservatore del mondo delle religioni – si assiste, infatti, al ritorno sulla scenapubblica del fatto religioso in dimensioni ignote anche solo alcuni decenni orsono. I fenomeni di secolarizzazione, le teorie sulla ‘morte di Dio’, un diffusoagnosticismo, più che un vero e proprio ateismo, potevano far pensare ataluni che il fatto religioso potesse essere sempre più relegato nella sferadell’individualità e potesse rivestire una sempre minor rilevanza sociale. Duefenomeni vistosi – ma non gli unici – che hanno dominato la scena mondiale,ovvero, da un lato, la pervasività di alcune forme dell’Islam e, dall’altro, ladiffusione, particolarmente negli Stati Uniti, nell’America meridionale e poiin Europa, dei cosiddetti ‘nuovi movimenti religiosi’, hanno minato quelleconvinzioni.

La Storia delle religioni – nel senso che tale denominazione è venutaassumendo con gli studi di Raffaele Pettazzoni e della sua scuola – può porsicon le modalità che le sono proprie di fronte a tali fenomeni e offrire ilproprio contributo ad una miglior comprensione di essi e, più in generale,della facies religiosa della contemporaneità.

Alla delineazione delle caratteristiche fondamentali della Storia dellereligioni come disciplina scientifica, e nello specifico del suo oggetto e delsuo metodo, nonché dei principali temi di cui essa si è occupata nel corsodella propria storia e dei problemi cui ha dato o ha ritenuto di poter dare unarisposta, le presenti pagine sono dedicate.

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PARTE PRIMA

LO STATUTO EPISTEMOLOGICO DELLA STORIA DELLE RELIGIONI.

OGGETTO E METODO

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CAPITOLO PRIMO Introduzione alla disciplina ‘Storia delle religioni’

A introduzione della fisionomia della disciplina scientifica che prende ilnome di ‘Storia delle religioni’, ci sia consentito un riferimento letterario. Ilpoeta E. Montale, a una generazione priva di certezze, nel periodo tra le dueguerre, si rivolgeva nel 1923 con la lirica ‘Non chiederci la parola’ (da Ossi diseppia) i cui due ultimi versi recitano: ‘Codesto solo oggi possiamo dirti, ciòche non siamo, ciò che non vogliamo’.

Infatti, riteniamo opportuno principiare la nostra trattazione illustrando ciòche la Storia delle religioni, in quanto disciplina scientifica, non è, per poi –diversamente dalla lirica sopra evocata – dire che cosa essa è.

La Storia delle religioni non è una disciplina idiografica, ovvero unadisciplina che studi, sulla base del metodo storico, un singolo ambito storico eculturale nei suoi diversi aspetti e nella sua storia (come, ad esempio, la storiagreca o la storia romana) o una singola religione, come – sempre per citare unsolo esempio – la storia del cristianesimo. Essa non si occupa di una religionema si occupa delle religioni, come appare evidente dalla denominazione stessadella disciplina.

Il metodo storico-comparativo, che le è proprio, configura la Storia dellereligioni come diversa dalla storia di una specifica tradizione religiosa. Difatto, la disciplina che qui illustriamo non va confusa con una storiografiareligiosa che si limiti intenzionalmente a una religione o a aspetti di questa,ignorandone la posizione di fronte a una problematica storica e tipologica piùvasta e tendenzialmente universale.

Non limitata a priori da barriere geografiche o temporali, ma aperta allostudio dell’universalità dei fatti religiosi manifestatisi nella storia, essa sioccupa della pluralità delle religioni e lo fa sulla base del metodo che le èproprio, il metodo storico-comparativo.

Tale metodo configura la Storia delle religioni come un qualcosa di molto

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diverso da un raggruppamento materiale di storie religiose particolari. Se laStoria delle religioni non è – come sopra precisato – la storia religiosa di unaspecifica tradizione, essa non è neppure costituita dalla somma di storiereligiose diverse, ovvero la storia del cristianesimo più la storia dell’islamismoe così via. Non è un’addizione o un raggruppamento di storiografie religioseparticolari, da affidarsi ciascuna agli studiosi competenti delle rispettiveculture e lingue, secondo un’impostazione propria dei diffusi manuali cheoffrono, giustapposte le une alle altre, le descrizioni delle diverse religioni, daquelle del mondo antico fino alle religioni di formazione più recente e allecosiddette ‘nuove religioni’.[1]

Né le diverse storiografie religiose particolari rendono superflua la Storiadelle religioni in quanto tale, la quale si occupa, sulla base del metodo che le èproprio, di fenomeni e problemi di portata universale.

Al riguardo, vale la pena già qui accennare a una delle obiezioni che sonostate mosse alla Storia delle religioni. Si tratta di quella che segnala comenessuno studioso possa possedere le competenze filologiche relative a tutti gliambiti religiosi a cui può estendersi la comparazione in sede di Storia dellereligioni. A tale obiezione si è risposto[2] osservando come lo storico dellereligioni possa trovarsi a percepire, all’interno di documenti studiati dai cultoridi discipline idiografiche e dagli esperti nelle rispettive aree filologiche – comeassiriologi, egittologi, indianisti, e così via –, problemi da quelli non intravistio rapporti, prima non considerati, tra realtà e fenomeni diversi. A tali scopertelo storico delle religioni può addivenire in grazia di una sua particolaresensibilità storico-comparativa che gli deriva dalla sua familiarità conproblematiche di estensione più vasta di quelle proprie delle disciplineidiografiche.

La Storia delle religioni non è neppure una disciplina soltanto ‘euristica’ emeramente descrittiva. Infatti, essa non si limita a ricercare, trovare eraccogliere (in questo senso ‘euristica’) e poi descrivere i dati da ‘offrire inpasto’ alle altre discipline che si occupano della (o anche della) religione sullabase dei propri rispettivi metodi d’indagine. I dati acquisiti dalla ricercastorico-religiosa non sono una sorta di materiale bruto in attesad’interpretazione da parte di altre discipline, quali – in particolare – la filosofia

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o la teologia. Ciò non toglie che il filosofo o il teologo possano intervenire eutilizzare i dati raccolti e interpretati dalla Storia delle religioni in funzionedelle proprie problematiche e per i propri scopi.

Tocchiamo qui un’altra critica che viene spesso mossa alla Storia dellereligioni, ovvero quella di limitarsi alla raccolta, descrizione e catalogazionedei dati. In realtà, la Storia delle religioni è una disciplina interpretativa, chepuò e deve, dopo le fasi necessarie del reperimento, della raccolta, delladescrizione e della catalogazione dei dati, addivenire ad un’interpretazione deidati stessi, un’interpretazione, beninteso, di tipo storico.

Quando, infatti, la ricerca venga esercitata secondo il metodo storico-comparativo proprio della disciplina, che avremo modo di illustrare, ovveroquando il ‘dato’ a cui essa si applica “è posto fondatamente in un ‘contesto’ ein un ‘processo’, ciò è presupposto e mezzo per l’identificazione del ‘senso’,una identificazione con prospettive ben più reali di quelle di una riflessionegeneralizzante e nello stesso tempo mutila di chi invece non sia entrato in quelprocedimento storico-comparativo e, prima, idiografico (...)”.[3] Si tratta, insostanza, di sottolineare come alla Storia delle religioni non debba essereriservato solo il compito dell’accertamento del ‘dato’, attribuendo, invece, adaltre discipline, normative e teoretiche, il compito della ricerca del ‘senso’ deldato stesso; “e ciò tanto più se il ‘senso’ da studiare è anzitutto quello che iportatori dei ‘dati’ in questione attribuivano al loro pensare e al loro agire:senso, questo, che è per eccellenza compito della scienza storica indagare”.[4]

La Storia delle religioni, inoltre, non è una disciplina che, per così dire,insegua la cronaca. Essa, infatti, mira a comprendere, e dunque – come detto –non meramente a descrivere, i fenomeni religiosi non fermandosi all’attualità,agli esiti ultimi degli stessi, ma piuttosto, in quanto disciplina storica, andando– per quanto possibile – alle origini e ai primi o comunque ai successivisviluppi dei fenomeni religiosi considerati.

È stato detto, infatti,[5] che il fare storia non è un rimestare cose lontane escomparse, ma è fare opera di immediato interesse per la comprensione delmondo di oggi, il quale, spesso, si intende meglio conoscendo l’origine dialcune sue strutture portanti, che non fermandosi agli ultimi sviluppi di unasituazione già impostata. È piuttosto di una certa fenomenologia o di talune

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impostazioni psicologiche e sociologiche vedere le religioni quasi pietrificatein forme e classificazioni fuori della storia. A poco gioverebbe un’analisisociologica o psicologica delle forme – ad esempio – del buddhismo di oggi,se si ignorasse o si trascurasse ciò che esso è stato nella storia, ciò che hasegnato i suoi cominciamenti, le domande a cui esso – in un preciso momentostorico – ha voluto dare una risposta o ha ritenuto di poter dare una risposta. Èoramai chiaro come una migliore conoscenza dello ‘ieri’ sia importante peruna miglior comprensione dell’‘oggi’ e dello ‘ieri’ più prossimo, e non perchénulla di veramente nuovo avvenga nella storia, la quale è intessuta dicontinuità e di novità anche radicali, ma perché anche le novità radicali, ove sidiano, meglio si comprendono in rapporto a ciò che le ha precedute ed ha loroofferto la cornice e lo scenario ove esprimersi.

Infine, la Storia delle religioni non è chiamata a formulare giudizi di veritàsulle religioni, giudizi invece legittimi in altre sedi, quali la teologia dellereligioni o la filosofia della religione o delle religioni. Essa non formuleràgiudizi di verità, ma – casomai – come vedremo, giudizi di valore.

Dopo avere accennato a che cosa la Storia delle religioni non è,illustreremo che cosa essa è, ovvero quale sia il suo oggetto e quale il suometodo.

Ogni disciplina scientifica, di fatto, si caratterizza per un oggetto (‘che cosa’studiare) e per un metodo (‘come’ studiare quell’oggetto) e, anzi, forse, più perquesto che per quello, dandosi la possibilità di una trattazione a-scientifica di unoggetto, ma non di una trattazione scientifica del medesimo oggetto senza unpiù o meno cosciente metodo (ove per metodo si intendono i mezzi della ricercae gli scopi della stessa). E dandosi anche la possibilità di trattazioni scientifichedello stesso oggetto sulla base di metodi diversi.

È il caso del nostro oggetto, le religioni, accostate da diverse disciplinesulla base dei loro rispettivi metodi. Si imporrà pertanto una distinzione delmetodo proprio della Storia delle religioni rispetto al metodo proprio di altrediscipline che pure hanno come oggetto privilegiato la religione e le religioni,quali la filosofia della religione o la teologia delle religioni, nonché, inparticolare – ma in una posizione diversa, come diremo –, la psicologiareligiosa, l’antropologia religiosa, la sociologia religiosa. Discipline di più o

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meno lunga tradizione, alle quali, in tempi recenti, si aggiungono nuoviapprocci metodologici allo studio delle religioni, come – in particolare –l’etologia religiosa, gli studi post-coloniali, i gender studies (studi di genere),gli approcci cognitivi.[6]

La pluralità e varietà delle scienze che studiano la religione trova la suaragione nella complessità della religione stessa, fenomeno visuto dall’uomoche vi è coinvolto con tutte le sue componenti, dimensioni e istanze. Inoltre,come avremo modo di verificare nello specifico trattando della Storia dellereligioni, in una disciplina scientifica, oggetto e metodo sono strettamenteconnessi e si implicano a vicenda.

Torniamo alla Storia delle religioni.Essa ha quale oggetto le ‘religioni’ come fatti storici e quale metodo quello

storico e più precisamente, come detto, storico-comparativo.La ricerca storico-religiosa, che non è una ricerca idiografica, e neppure si

riduce a una raccolta e a una catalogazione di singoli elementi religiosi osingole tradizioni religiose, comporta, infatti, una ricerca storico-comparativache muovendo da un concreto contesto culturale e religioso, o da un singolofenomeno al suo interno, gradualmente si allarga verso ambienti e fenomenicontigui e verso quelli più lontani, venendo così a percepire le affinità e ledifferenze tra i vari contesti e fenomeni studiati, i quali – contesti e fenomeni –in tal modo saranno collocati e studiati sullo sfondo e in relazione alla vasta ecomplessa trama della storia. Il tutto rimanendo nei limiti di una sana ricercastorica che non pretenda di formulare teorie interpretative troppo rigide eassolute, volte a ‘spiegare’, come invece la storia degli studi – che tra pocopercorreremo – ci mostrerà essere frequentemente accaduto, tutte le diversemanifestazioni religiose, di tutti i tempi e di tutte le culture.

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CAPITOLO SECONDO Cenni di storia degli studi

La Storia delle religioni è una scienza che ha una sua storia, che è nata incerte circostanze storiche e sulla base di certi fattori culturali; che haelaborato un proprio metodo e sulla base di quello ha affrontato determinatiproblemi; che si è posta certe domande e ha offerto soluzioni, alcune dellequali sono ancora valide, altre no. Per un’adeguata comprensione deimolteplici temi affrontati dalla disciplina e per la chiara percezione del suometodo, storico-comparativo, può dunque essere utile un pur rapidoriferimento alla storia della disciplina stessa, ai problemi affrontati e allemetodologie usate per risolverli. In particolare potrà risultare proficuoconfrontarsi con le diverse teorie interpretative del fatto religioso che,sebbene ormai per molti versi superate, risultano di non poco interesse nelloro volersi offrire come altrettanti tentativi di interpretazioni globali deifenomeni religiosi, anzi della stessa natura ed origine della religione. Propriola pretesa di dare delle spiegazioni omnicomprensive e totalizzanti del fattoreligioso ha limitato il valore di teorie che pur hanno apportato dei contributinotevoli alla ricerca, avendo messo in luce importanti aspetti, caratteristiche emodalità dei fenomeni religiosi.

Un approccio scientifico alle religioni nella loro pluralità e diversità,condotto sulla base di una cosciente metodologia di studio, è abbastanzarecente. Nasce, infatti, attorno alla metà del XIX secolo, anche se conosceantecedenti significativi già nel XVIII secolo. Naturalmente l’interesse per lereligioni sotto un profilo in senso lato ‘comparativo’ è molto antico. Alriguardo si citano solitamente gli interessi di un Erodoto (484-425 a.C.), nellesue Storie, o di un Plutarco (45-120 d.C.), in diverse sue opere e inparticolare nel trattato De Iside et Osiride, per una comparazione tra le formeculturali e religiose della grecità e quelle dei diversi popoli di cui tali autorivengono a riferire.

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Torniamo all’età moderna.Fondamentale per la nascita di un interesse scientifico, in senso

comparativo, per le diverse tradizioni religiose dell’umanità allora note fu,come detto, attorno alla metà del XIX secolo e con antecedenti significativigià nel XVIII secolo, lo stimolo costituito dalla sempre maggior conoscenzain Occidente delle espressioni religiose dei popoli illetterati e delle tradizionireligiose orientali, documentate – queste ultime – da testi che venivano viavia decifrati o tradotti.[7]

In primo luogo, dunque, si vennero sempre più a conoscere i gruppiumani cosiddetti ‘primitivi’ attraverso relazioni di antropologi, viaggiatori,missionari e autorità coloniali entrati in contatto con quelli.

In secondo luogo, si ebbe la conoscenza più approfondita delle tradizionireligiose orientali a seguito della scoperta dei testi religiosi dell’India (inparticolare i Veda), dell’Iran (l’Avesta, che fu conosciuta dalla culturaeuropea nella seconda metà del XVIII secolo grazie ad A.H. AnquetilDuperron che la scoprì presso i Parsi – gli eredi dell’antica tradizionezoroastriana – dell’India) e di testi mesopotamici ed egizi.

In terzo luogo, ci fu nell’ambito degli studi linguistici l’individuazionedella famiglia linguistica indoeuropea, sulla base dello studio comparato deilinguaggi e nello specifico delle affinità linguistiche offerte da sanscrito,greco, latino, lingue iraniche, germaniche, slave.

Fu comunque in Olanda – sulla base della particolare situazione storica eculturale del paese – che l’insegnamento accademico delle religioni,sganciato da presupposti teologici, si affermò, nel 1877 a Leiden, conCornelius Tiele (1830-1902), pastore della Chiesa riformata olandese e autoredi quello che può essere considerato come il primo manuale di storia dellereligioni, Geschiedenis van den godsdienst (Amsterdam 1876), oltre che aUtrecht, a Groningen, e ad Amsterdam, ove insegna Pierre Daniel Chantepiede la Saussaye (1848-1920), il cui Lehrbuch der Religionsgeschichte, o‘Manuale di storia della religione’ (1887-1889), introduce negli studil’espressione ‘fenomenologia della religione’ (cfr. infra). Altre cattedre sonoistituite in Svizzera e poi in Francia, ove nel 1880 viene istituita una cattedradi Storia delle religioni al Collège de France e nel 1886 viene fondata la V

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sezione dell’École Pratique des Hautes Études (EPHE) dedicata alle Scienzereligiose. Successivamente, insegnamenti ufficiali di Storia delle religionivengono attivati in Belgio mentre per la Gran Bretagna va menzionato comefondativo della storia delle religioni il ciclo di lezioni tenuto nel 1870 aOxford da F. Max Müller (cfr. infra). Dal 1891 anche università americanevedono attivare insegnamenti di Storia delle religioni.

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1. F. Max Müller e la Scuola della ‘Mitologia della natura’

Veniamo ai principali indirizzi metodologici che segnarono l’interessesientifico per le religioni nel secolo XIX. Lo studio filologico comparatodelle lingue indoeuropee fu il presupposto della mitologia comparata comepraticata da F. Max Müller (1823-1900), glottologo e studioso dei Veda(Essay on Comparative Mythology, London 1856).

La sua teoria, come pure quelle coeve ma diversamente orientate,elaborate in sede antropologica – una antropologia ispirata ai placiti delpositivismo evoluzionistico – alle quali faremo più avanti riferimento, sono,in grazia della dimensione comparativa che in esse si offre come esplicito esistematico metodo di analisi dei fatti culturali e nello specifico religiosi,ritenute alle origini della disciplina storico-religiosa. Tuttavia, la ricercacomparata condotta da Max Müller, a differenza di quelle condotte dallescuole evoluzionistiche cui faremo più avanti riferimento, si basa sullacomparazione linguistica nell’ambito della famiglia linguistica indoeuropea.Tale indirizzo riteneva comparabile solo ciò che fosse linguisticamentecomparabile (ad es. la figura di Zeus con quelle di Iuppiter e di Dyauspita).

Indicativa è l’apostrofe rivolta da Max Müller agli antropologi del suotempo: “Voi cercate l’origine della religione indagando tra uomini del XIXsecolo, noi in testi del XIX secolo a.C.”.

Di fatto, tale indirizzo di studi condivideva con quello antropologico, cuiverremo tra poco, l’interesse per il problema della natura e delle origini dellareligione e il tentativo di formulare delle ipotesi globali e totalizzanti qualisoluzione a tali problemi, con scarsa o nessuna attenzione alla diversità deicontesti storico-culturali. Lo studio comparato dei fatti religiosi, in queste sueprime espressioni in età moderna, si proponeva come scopo, in sostanza,quello di ricercare l’origine della religione e di ricostruire la storia religiosadell’umanità.

Così, la scuola della Mitologia della natura riteneva che l’origine delledivinità proprie delle varie tradizioni religiose politeistiche fosse daindividuarsi in quella che veniva identificata come una sorta di ‘malattia del

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linguaggio’ per la quale i nomi di entità ed eventi della natura col trascorreredel tempo avrebbero finito con il designare figure sovrumane (dai ‘nomi’ deifenomeni della natura ai ‘numi’, dal nomen al numen): nomina sunt numina.A questa prima forma di religione naturale sarebbe seguita, quale gradinoulteriore in una scala evolutiva che avrebbe interessato l’intera umanità, lafase delle religioni cosiddette rivelate. In sostanza, le figure sovrumane altronon sarebbero che personificazioni degli oggetti e dei fenomeni della natura,alle quali si sarebbe addivenuti una volta persa – a seguito di quella malattiadel linguaggio sopra evocata – quella coscienza simbolica originaria per laquale la realtà o il fenomeno naturale era un simbolo della entità sovrumanastessa. Ad esempio, il nome di una delle principali divinità dell’anticopantheon vedico, ovvero Agni, all’origine avrebbe indicato soltanto il fattonaturale del fuoco (cfr. il latino ignis). Gli stessi miti diverrebberocomprensibili soltanto attraverso la filologia e l’etimologia delle parole. Unesempio al riguardo: una narrazione mitica greca narra dell’amore nutrito daApollo per Dafne la quale, fuggita da lui, fu trasformata in un albero dialloro. La narrazione diverrebbe intelligibile ove si ponga mente da un latoalla connnesione di Apollo con il sole e dall’altro al fatto che il nome diDafne designava oltre alla pianta d’alloro anche l’aurora. Alla luce di ciòemergerebbe il significato del mito che si riferisce al ritirarsi, al ‘fuggire’,dell’aurora (Dafne) di fronte al sorgere del sole (Apollo). Non si rinunciapertanto, anche all’interno di tale prospettiva, che, diversamente da quellaevoluzionistica degli etnologi del tempo, ritiene comparabile solo ciò che èlinguisticamente comparabile, ad un’impostazione sistematica di tipolatamente evoluzionistico della storia religiosa dell’umanità. E comunque lateoria non rende ragione di quelle figure divine i cui nomi non hanno uncorrispondente con realtà naturali. Successivamente, in sede di studilinguistici, si sarebbe addivenuti talora ad un rovesciamento delle tesisostenute da Max Müller e si sarebbe parlato di un processo di ‘laicizzazione’di concetti originariamente religiosi, per il quale termini originariamenteesprimenti una potenza divina sarebbero passati a designare realtà e fenomeniprivi di contenuto sacrale.

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2. Evoluzionismo e teorie interpretative della religione

A partire dalla metà del secolo XIX, furono elaborate alcune teorieinterpretative della religione che, pur diverse, tutte risentivano deipresupposti filosofico-scientifici dell’epoca, dominata dal positivismofilosofico e dall’evoluzionismo.

“È noto come in questo periodo sia stata formulata la teoria darwinianadell’evoluzione delle specie in campo biologico, sulla base del principio dellaselezione naturale, e sia stata scoperta l’evoluzione delle tecniche manualiche è stata a fondamento della formazione delle civiltà umane. È il periodo incui si stabilì scientificamente una cronologia nella storia dello sviluppodell’umanità sotto il profilo antropologico-fisico e tecnologico, conl’individuazione delle varie tecniche preistoriche di lavorazione della pietra equindi dei metalli. In pari tempo si determinarono certi aspetti dello sviluppoculturale dell’umanità in relazione alle attività economiche, a partire da unasituazione di semplice sfruttamento delle risorse naturali, attraverso la cacciadegli animali, la pesca e la raccolta di frutti, bulbi e tuberi. Soltanto più tardialcuni gruppi umani cominciarono ad addomesticare gli animali, a praticarel’allevamento e quindi lo sfruttamento della terra mediante l’agricoltura, nellesue varie forme (dalla zappa all’aratro). Se indubbiamente si tratta diimportanti acquisizioni ai fini della conoscenza dello sviluppo evolutivo delletecniche materiali e delle attività economiche, oltre che delle organizzazionisociali, delle varie culture umane, da parte di antropologi e di storici dellereligioni si commise l’errore di applicare le medesime categorie evolutive dalsemplice al complesso, dal rudimentale al perfezionato etc., anche allosviluppo di fatti religiosi. Si ammise pertanto un inizio delle credenzereligiose comune per tutti i popoli e per tutte le culture, inizio di cuisarebbero testimoni contemporanei i popoli cosiddetti primitivi, ossia quellepopolazioni di cultura più o meno arcaica che le scoperte geografiche esoprattutto l’opera di colonizzazione metteva a contatto diretto con la societàeuropea. Quest’ultima – soprattutto nell’Inghilterra elisabettiana – poneva ilproprio modello culturale al vertice delle acquisizioni della civiltà umana

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valutando in rapporto ad esso tutte le altre forme culturali documentate, nelpassato e nel presente.

Fondamentale per la comprensione delle varie teorie evoluzionisticherisulta di fatto la circostanza che lo stesso secolo XIX fu il secolo delcolonialismo, l’epoca in cui, dopo le grandi scoperte geografiche dei secoliprecedenti, attraverso forme stabili di dominio politico da parte delle potenzeoccidentali, si instaurò una rete di contatti più diretti e continui tra lepopolazioni europee e quelle dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe,dell’Australia, che si trovavano a un livello di sviluppo economico-culturalemolto diverso da quello delle società occidentali. Nelle relazioni con questeciviltà così lontane dal modello europeo si sottolineò subito la disparità,intesa nel senso dell’inferiorità più o meno radicale, ed esse furono definiteprimitive; addirittura si parlò con terminologia tedesca di Naturvölker, cioè di‘popoli di natura’, ritenendo che questi popoli fossero rimasti in uno stato‘naturale’, quasi semi-ferino, e quindi fossero da considerare relitti diun’umanità originaria, priva o scarsamente dotata di elaborazioni culturali.

Questa circostanza condizionò notevolmente gli studi storico-religiosi cheerano allora ai loro inizi, perché fu grande l’interesse per le credenze religiosee le pratiche cultuali di questi popoli, credenze e pratiche che risultavanomolto lontane dalle esperienze dei colonizzatori, dei missionari e degli stessistudiosi che ebbero modo di venire a contatto con essi. La diversità fuimmediatamente percepita dalla maggior parte degli occidentali, soprattuttodai funzionari coloniali ma anche dai missionari e dagli antropologi, comesegno di estrema rozzezza, di statuto primitivo e rudimentale, per cui siaffermò la tendenza a ritenere il complesso di concezioni di cui questi popolierano portatori come quello che meglio poteva riflettere i primi inizi inassoluto delle credenze religiose dell’umanità. Si cercò allora di circoscrivereproprio quelle credenze e pratiche che apparivano a prima vista più strane elontane dall’esperienza delle civiltà occidentali, per porle all’origine di unprocesso evolutivo in cui sarebbe stata interessata l’intera storia umana, findai suoi primordi, e di cui si constatavano varie forme di ‘sopravvivenza’nelle attuali (all’epoca) popolazioni primitive. Si cercò dunque l’inizio dellastoria religiosa in ciò che appariva più rudimentale e ‘semplice’ per procedere

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quindi ad una graduale sistematizzazione di fenomeni sempre più complessilungo una scala evolutiva conclusa dalle acquisizioni della culturacontemporanea”.[8]

Prima di addivenire alla illustrazione della prima di tali teorieinterpretative della religione, ispirate all’evoluzionismo, ovvero quelladell’animismo formulata da Edward Burnett Tylor, occorre ricordare come,già nel XVIII secolo, si ebbero studi, quali quelli del missionario gesuitaJoseph-François Lafitau (Moeurs des sauvages amériquains comparées auxmoeurs des premiers temps, Paris 1724) e del magistrato Charles de Brosses(Du culte des dieux fétiches ou parallèle de l’ancienne religion de l’Egypteavec la religion actuelle de la Nigritie, Paris 1760), che si offrirono comealtrettanti tentativi di comparazione tra popoli etnologici contemporanei agliautori e popoli dell’antichità, dando inizio a una tradizione scientificacaratterizzata dall’accostamento tra etnografia e studi classicisti, alla qualefanno riferimento, tra gli altri, i nomi di J.J. Bachofen, E. Rohde, M.P.Nilsson, K. Kerényi, K. Meuli.

Lafitau e de Brosses, tramite la comparazione tra i primitivi attuali(all’epoca) e i popoli dell’antichità, intendevano mostrare come i secondi‘spieghino’ i primi e viceversa, quanto a specifici elementi di credenza e diculto. Un passo successivo compiutosi con gli studi ispirati al metodoevoluzionistico sarebbe stato, come sopra detto, quello di ‘spiegare’ i‘primitivi’ preistorici con i ‘primitivi’ contemporanei (all’epoca).

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2.1 L’animismo di E.B. Tylor

Sulla base di presupposti teorici precostituiti rispetto alla ricerca positiva,e tali da risentire, come visto, della temperie positivistica ed evoluzionisticadell’epoca, furono in tal modo formulate diverse teorie interpretative dellareligione, tutte orientate a ricercare nelle religioni quel comune denominatoreminimale, che fosse insieme nux comune e originaria, a partire dalla quale sisarebbe verificato un processo di evoluzione, comune a tutta l’umanità,attraverso fasi successive e diversamente identificate dalle diverse teorieinterpretative allora formulate. Tali teorie intendevano mostrare come tuttal’umanità avesse sperimentato nel tempo (o – nel caso delle popolazioniilletterate che ancora si trovavano in uno stadio culturale arcaico – avrebbedovuto sperimentare) uno sviluppo unico e lineare nel senso evolutivo, dalbasso verso l’alto, dal rozzo e barbaro al raffinato e ‘culto’, dal semplice alcomplesso. Lo stesso Auguste Comte (1798-1857), iniziatore del positivismo,sviluppa la teoria degli stadi successivi che caratterizzerebbero lo sviluppodelle umane conoscenze e che nell’ambito dei fatti religiosi lo porta adammettere quali tre stadi dell’evoluzione religiosa dell’umanità il feticismo, ilpoliteismo e il monoteismo.

Sulla base dei postulati di cui sopra, fu elaborata, da partedell’antropologo inglese Edward Burnett Tylor (1832-1917), la teoriadell’animismo, come primordiale credenza religiosa dell’umanità. Lostudioso, dopo aver raccolto sulle popolazioni primitive una grande massa dinuove informazioni fornite da missionari ed esploratori, constatò la grandediffusione di un tipo di credenza che egli definì ‘animismo’ e che pose allabase dello sviluppo religioso dell’umanità. Tale teoria interpretativa dei fattireligiosi e culturali dell’intera storia umana (da lui proposta nell’operaPrimitive Culture. Researches into the Development of Mythology,Philosophy, Religion, Language, Art, and Custom, London 1871) ha avutouna grande fortuna non solo nel campo degli studi specialistici di antropologie storici delle religioni, che l’hanno adottata come spiegazione dell’originedella religione, ma anche in un più ampio ambito culturale che ha utilizzato lacategoria di ‘animismo’ per definire un tipo di credenza religiosa, fuori dallo

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schema evoluzionistico tyloriano. Di fatto, anche oggi, si parla spesso dipopoli ‘animisti’.

Il Tylor utilizzò – in base a un procedimento analogico – il termineproprio della cultura occidentale di ‘anima’ per indicare un elemento –designato nelle lingue indigene in modi diversi – invisibile e intangibile mapure ritenuto dall’uomo primitivo presente negli individui, negli animali enelle cose. Non si trattava dell’anima considerata come principio vitale ma diun’anima-immagine, ovvero di una sorta di ‘doppio’, di un alter egoinvisibile e intangibile, posseduto da persone, animali e oggetti inanimati (unalbero, un fiume, una pietra). Tylor, pertanto, opportunamente individua ecircoscrive presso numerose popolazioni cosiddette primitive la credenzasecondo cui tutti gli esseri animati e gli oggetti inanimati hanno un loro‘doppio’, una sorta di loro rappresentazione formalmente identica maimpalpabile e separabile, tale da poter agire in maniera indipendente dal suo‘proprietario’ e da allontanarsi da questo. Questa anima-‘doppio’, oanima–‘immagine’, in quanto riproduce le fattezze dell’individuo,dell’animale e della cosa cui attiene, sarebbe percepita dall’uomo primitivosoprattutto nelle esperienze del sogno o dell’estasi, in cui si vedono presenti eattivi animali e persone anche lontani e l’individuo a sua volta si muove inluoghi diversi da quelli reali. Talora, le anime ‘separabili’ tendono anche adassumere una più accentuata ‘personalità’, a concentrarsi in determinatiluoghi come nella boscaglia o nel deserto o comunque in luoghi non abitati, ea influire sulla vita del gruppo e dell’individuo. Tuttavia, Tylor non si limita aindividuare tale credenza ma ritiene che essa potesse essere a fondamento ditutto lo sviluppo religioso dell’umanità, ovvero patrimonio comune di tutte leculture in una fase originaria della loro storia, anche se poi sarebbe statasuperata da altre concezioni. Lo studioso commise in primo luogo l’errore diestendere a tutti i popoli – senza adeguato riscontro documentario – unacredenza presente solo presso alcuni di essi. In secondo luogo, si trascurò ilfatto – che in seguito sarebbe divenuto evidente – che una tale credenza sisitua sempre in un contesto più ampio. Non si dà storicamente, infatti,nessuna cultura che si possa definire esclusivamente ‘animistica’, nel sensoche abbia soltanto credenze ‘animistiche’ del tipo illustrato da Tylor.

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Infatti, queste credenze convivono e si integrano con altre, più o menocomplesse, quali, ad esempio, quella che fu definita la credenza nelcosiddetto ‘Essere Supremo’. L’approfondimento degli studi sullepopolazioni etnologiche individuò come peculiare di molte culture arcaiche lacredenza in un personaggio che non è riconducibile al livello delle anime-doppio ma integra una diversa tipologia, in quanto ha una personalitàdecisamente più marcata, è considerato tale da aver posto in essere loscenario naturale in cui il gruppo umano vive, da aver fondato la vita di talegruppo e avergli procurato i mezzi di sussistenza, e inoltre assume anche unaparticolare rilevanza etica in quanto è considerato come colui che ha dato algruppo umano le norme di vita.

Se più avanti verremo a parlare dell’individuazione, da parte di A. Lang eW. Schmidt, nelle credenze proprie di numerose popolazioni primitive dellafigura dell’Essere Supremo, e del conseguente superamento delle teorieevoluzionistiche del tipo elaborato dal Tylor, qui, raccogliendo le fila diquanto sopra espresso, ricordiamo come il Tylor e gli altri studiosi di analogaimpostazione metodologica, una volta individuate credenze particolarmentediffuse tra popolazioni di cultura arcaica (come, nel caso di Taylor, lacredenza cui egli diede il nome di animismo), e trascurate altre componentidell’orizzonte religioso in cui esse si collocano e che esse non vengonopertanto ad esaurire, vengono ad intenderle come una sorta di minimocomune denominatore di tutte le religioni, ovvero comuni a tutta l’umanità, eprimordiali gradini di una scala evolutiva dei concetti religiosi, gradiniperaltro ancora attestati presso i primitivi attuali (all’epoca degli studiosi inquestione).

Di fatto, sempre da parte del Tylor, si ritenne che dall’animismo sisarebbe sviluppato il politeismo, in quanto alcune anime avrebbero assuntouna maggiore rilevanza, acquistando caratteri personalistici, svolgendodeterminate funzioni e godendo di specifici attributi. I politeismi espressidelle alte culture del mondo antico sarebbero il frutto dell’evoluzione apartire da un antico animismo; il monoteismo, dal canto suo, sarebbe la tappaultima di un siffatto sviluppo evolutivo delle concezioni religiose, e nellospecifico si sarebbe formato a partire dal politeismo, a seguito di una sorta di

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‘concentrazione’ in un unico personaggio divino di prerogative e funzioniproprie dei varii dèi degli ambiti politeistici. Si venne così a costruire unoschema ben preciso, contemplante successivi e definiti gradi di sviluppo chesarebbero stati attraversati dalle diverse culture in differenti momenti storici.Tuttavia tale schema non corrisponde alla realtà dei fatti documentati, che èmolto più complessa e varia di quanto emerge da una prospettiva del tipodescritto. “Notiamo infine che il Tylor attribuisce un valore pressochéesclusivo all’elemento razionale nell’elaborazione dei fatti religiosi. Lostudioso, infatti, parla dell’uomo primitivo come una sorta di ‘filosofoselvaggio’ che medita sulla propria esistenza, che cerca le ragioni deifenomeni che lo circondano, e propone delle soluzioni di vario tipo perspiegarne le origini e il funzionamento. Aggiungeremo che in questaprospettiva si accentua il carattere individualistico delle esperienze religiosesenza adeguata considerazione del contesto sociale e comunitario in cui essesi collocano e si tramandano”.[9]

È all’interno di una teoria evolutiva di questo tipo che trova posto lanozione, ampiamente presente in studi di una passata stagione ma non ancoracompletamente spentasi, delle ‘sopravvivenze’ (survivals). Si tratta dell’ideaper la quale, una volta riscontrate presso alte culture del mondo antico maanche presso gli evoluti contesti culturali del mondo contemporaneo (peresempio, nelle tradizioni popolari moderne e contemporanee), concezioni epratiche che sembrano incongruenti con l’alto livello di sviluppo culturale deicontesti che le ospitano, queste siano da identificarsi e da spiegarsi come,appunto, ‘sopravvivenze’ o relitti di più antichi stadi di una linea evolutivache risalga fino alle origini della esperienza religiosa umana. In tal senso siparla, allora, di sopravvivenze totemiche, o animistiche, o magiche pressoculture superiori. E si dimentica il fatto che, quand’anche ci si trovi di frontea ‘sopravvivenze’, nulla sopravvive che non trovi una funzione nuova nelnuovo contesto che accoglie quell’elemento ‘sopravvissuto’, sia esso dicredenza, di culto o più genericamente culturale.

Riassumendo. La prospettiva evoluzionistica fu applicata non solo inambito naturalistico e fisico ma anche alle culture nel loro insieme e a lorospecifici aspetti come quello religioso. Si pensò, così, che tutta l’umanità

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avesse attraversato i medesimi stadi di un’evoluzione lineare dal rudimentale(non solo nell’ambito della cultura materiale – ad esempio con i manufattilitici – ma anche in quello della cultura spirituale e della organizzazionesociale) al complesso. Le diversità riscontrate tra le culture erano percepitecome dovute alla diversa posizione di quelle sui gradini di una medesimascala evolutiva che aveva al suo vertice la cultura positivistica propria dellasocietà inglese del tempo. Ove venivano riscontrate istituzioni che parevanoestranee al gradino di evoluzione raggiunto da una cultura, le si spiegavacome sopravvivenze (o survivals) di istituzioni proprie di culture situate su ungradino precedente (come nel caso del cosiddetto matriarcato a cui faremo trapoco riferimento). Dove un gradino non era attestato esso veniva comunqueipotizzato.

Il metodo positivistico – evoluzionistico contrasta con il metodo positivoo storico, chiamato a ricostruire le culture e i loro elementi sulla base di datipositivamente attestati e non richiesti da uno schema predeterminato.

Si è menzionata ora la nozione di ‘matriarcato’ che merita almeno uncenno esplicativo.

Essa traduce l’espressione Das Mutterrecht (lett. ‘diritto materno’) checostituisce il titolo della famosa opera (ed. or. 1861) di Johann JakobBachofen (1815-1887), studioso di diritto e classicista svizzero. Questicompara dati etnografici e di filologia classica al fine di studiare la storia e lapreistoria del mondo antico. Nello specifico, ritiene di poter individuare unaciviltà matriarcale nelle culture del bacino del Mediterraneo in età pre-classica, appoggiandosi – in particolare – su notizie fornite da antichi autorisui Licii, secondo le quali i figli derivavano il proprio nome dalla madre, illoro status veniva determinato in base a quello della madre e l’eredità passavadi madre in figlia. Per Bachofen tali consuetudini non rappresenterebberodeviazioni da usi ellenici ma forme di sopravvivenza di una istituzione, ilmatriarcato, che avrebbe preceduto il patriarcato proprio del mondo classico.Di fatto, nella teoria dello studioso, il matriarcato, inserito in uno schematipicamente evoluzionistico, verrebbe a costituire un gradino di una suppostascala evolutiva che interesserebbe tutte le civiltà e che conoscerebbe comefase iniziale l’agamia o assenza di istituzioni matrimoniali e familiari (fase

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peraltro non attestata dalla ricerca positiva), seguita dal matriarcato, chevedrebbe le donne ‘inventare’ le tecniche agricole e detenere il potere politicoe civile (ginecocrazia), ed infine dal patriarcato, che caratterizzerebbe leculture greca e romana d’età classica.

La teoria, se soffre il limite di supporre che la fase matriarcale possaessere stata una fase universale, ha avuto il merito di contribuire a mettere inluce sia in popoli etnologici sia presso i popoli antichi usi matrilineari, ossiacomportanti una trasmissione per via materna di diritti, beni e appartenenze,come proprietà, nome o gruppo sociale; come pure – in particolare nel mondomediterraneo orientale – culture a tipo femminile, ossia tali da conoscere unaparticolare valorizzazione dell’elemento femminile nei riti e nelle credenze,relative – queste ultime – a figure sovrumane femminili a tipo ctonio oterrestre.

Inoltre, a tale teoria è stato riconosciuto il merito di aver identificato(diversamente da quanto poteva avvenire in ambito positivistico) nel fattoreligioso un fatto generatore di civiltà o di determinati tipi di civiltà.

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2.2 J.G. Frazer e la magia

Un secondo efficace esempio di teoria interpretativa della religioneispirata ai presupposti dell’evoluzionismo positivistico, è costituito dallaposizione di J.G. Frazer sulla magia. Essa interviene in concomitanza conaltre posizioni tendenti non solo, come quella del Tylor, a ricercare una faseprimordiale delle concezioni religiose dell’umanità, ma addirittura,radicalizzando la ricerca del cominciamento assoluto della storia religiosaumana, a individuare delle fasi a-religiose o non–religiose come ancor piùantiche delle prime e più semplici manifestazioni religiose.

Esempio di tale ricerca di una fase a-religiosa dell’umanità è costituitodalla teoria elaborata dal discepolo e successore del Tylor, l’antropologoRobert R. Marett (1866-1943). A lui si deve la teoria del ‘preanimismo’ o‘animatismo’ che suppone quale cominciamento assoluto della evoluzione inmateria di credenze e pratiche religiose dell’umanità la credenza in forzeimpersonali ritenute presenti ed attive nella natura, una sorta di potenzaimpersonale per identificare la quale lo studioso utilizzò il terminemelanesiano di mana, che ancor oggi gode di ampia fortuna in studispecialistici e divulgativi.

Egli non pone all’origine della religione la nozione di ‘anima’ e neppureprocessi logici (quali ad esempio quelli che interverranno nella teoria delFrazer), ma una componente affettiva ed emozionale, nello specifico unsentimento o uno stato emozionale di ‘timore’ (awe) e di ‘ammirazione’(wonder), che l’uomo sperimenterebbe quando si trovi di fronte a realtà cheegli percepise come cariche di ‘potenza’. Tale potenza impersonale emisteriosa solo successivamente darebbe origine a potenze personali ovveroalle divinità dei pantheon politeistici. La tesi preanimistica circa la maggioreantichità di credenze in forze impersonali rispetto a credenze in potenzepersonali non ha mai trovato conferma nella ricerca antropologica edetnologica, la quale del resto non ha mai rinvenuto popoli che fossero privi dicredenze in esseri extraumani o sovraumani con caratteri personali.

Di fatto, le teorie come quella di John A. Lubbock (1834-1913), cheammettevano una fase iniziale della umanità caratterizzata dall’ateismo, da

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intendersi non come negazione ma come mancanza di concetti ‘religiosi’,erano in parte il portato di un equivoco metodologico per il quale, partendoda un concetto ‘elevato’ di religione, o di contenuto filosofico o costruito sumondi religiosi quali quelli politeistici o monoteistici, non venivanoriscontrate presso le culture etnologiche indagate credenze e pratiche cultualiche esprimessero quel concetto; in parte, poi, erano frutto di un’insufficienteconoscenza di credenze, quali – per esempio – quelle di cui erano aconoscenza, all’interno del gruppo umano studiato, solo gli iniziati e che perlungo periodo rimasero ignote agli indagatori esterni.

E veniamo a James George Frazer (1854-1941), autore di grandeimportanza nell’ambito della scuola antropologica inglese, il quale venne adistinguere nettamente il fenomeno della religione da quello della magia e adaffermare che nella storia dell’umanità la religione sarebbe posteriore allamagia (Il ramo d’oro, tr. it., Torino 1973; ed. or., The Golden Bough. A Studyin Magic and Religion, voll.12, London 1911).

Di fatto, la teoria frazeriana offre una chiara esemplificazione deipresupposti metodologici dell’evoluzionismo positivistico: guardando ai fattiempirici, si constata come nell’ambito delle varie culture, e in particolarenelle culture primitive, oggetto di indagine degli antropologi del tempo,sussistano dei fenomeni definibili rispettivamente di tipo magico e di tiporeligioso, e, avendo constatato o, meglio, avendo ritenuto di poter constatarela maggior semplicità dei primi rispetto ai secondi, si conclude sulla pretesaanteriorità della magia rispetto alla religione.

La distinzione tra magia e religione, nella prospettiva frazeriana, è utile eopportuna. Di fatto, si viene a constatare come tra questi due fenomenisussistano delle differenze: la pratica magica presuppone da parte dell’uomoun atteggiamento di autonomia, in quanto egli ritiene che, mettendo in operacerte tecniche, possa raggiungere gli effetti voluti, indipendentemente dallavolontà di singole personalità sovrumane, o dal loro intervento, o comunqueutilizzando in maniera autonoma un ‘potere’ che pure spesso è ritenutoprovenire dal livello sovrumano. In sostanza, al centro dell’orizzonte magicoè la convinzione della capacità da parte di chi, il mago, possegga determinateconoscenze e tecniche, di modificare la realtà e di raggiungere gli scopi

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desiderati con una serie di comportamenti che producono i proprio effettiautonomamente, senza intervento di esseri sovrumani, e addirittura, talora, laconvinzione della possibilità di costringere questi ultimi ad agire inconformità del volere del mago. Nell’atteggiamento religioso, invece, simanifesta piuttosto la sottomissione dell’uomo a uno o più esseri ritenutipotenti ed efficaci, dei quali egli cerca di propiziarsi il favore ma sempreritenendosi sottoposto alla loro volontà e da essi dipendente.

Non è tuttavia corretta, nella prospettiva frazeriana, una distinzione cosìradicale come quella proposta dallo studioso, né tantomeno la tesi dellapriorità dei fenomeni magici rispetto a quelli religiosi. L’indagineantropologica e storica mostra la possibilità che essi siano entrambi presentiin diverse culture, sia di tipo primitivo sia di tipo superiore, con diversi gradidi incidenza in esse e in diversa misura interferenti tra di loro o comunquemai nettamente separati. Nello specifico, in relazione ai contesti culturaliallora fatti oggetto di studio, non si danno pratiche magiche del tutto avulseda un quadro religioso. Esse presuppongono tale quadro e si collocano al suointerno, nel senso che spesso l’azione del mago intende porsi sotto ilpatrocinio dell’uno o dell’altro essere sovrumano, che fonda i suoi poteri e negarantisce l’efficacia. Così accade, ad esempio, nella cultura babilonese, il cuiquadro politeistico conosce al suo interno il grande dio Ea, detentore dellasapienza e dei poteri magici e loro dispensatore. Altro caso emblematico èquello dell’antico Egitto, il cui pantheon conosce grandi divinità, come il diosolare Ra e la dea Iside, alle quali inerisce una forza potente e misteriosa,denominata heka, termine che si suole tradurre con ‘magia’, al pari di unadistinta persona divina, Heka appunto. Tecniche complesse per attrarre econtrollare questa forza sono conosciute e messe in opera da specialistiqualificati che fanno parte del sistema sacerdotale egiziano e che esplicano laloro attività in maniera ufficiale all’interno dei grandi santuari.

Mette conto tuttavia soffermarsi ulteriormente sulla teoria frazeriana e inparticolare sulla nozione di magia in essa presente. Frazer, infatti, individuaalla base del comportamento magico il principio simpatetico, secondo il qualesi ritiene che tra realtà diverse sussistano dei rapporti per cui, agendosull’una, si ottiene l’effetto voluto sull’altra. Tale principio si esprime

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secondo due modalità, rispettivamente definite magia di contagio e magiaimitativa.

La magia di contagio si fonda sulla nozione che la parte equivale al tuttosicché agendo su una parte della persona o dell’animale si agisce sullapersona o sull’animale medesimi. La magia imitativa, invece, si fonda sullanozione che l’operatore magico, imitando con particolari atteggiamenti ilcomportamento di un animale o di una persona oppure evocandoli conrappresentazioni figurate, formule o tecniche varie, possa agire su di essi aipropri fini. È il caso, ad esempio, delle raffigurazioni di animali da parte delcacciatore arcaico o delle danze e movimenti vari da questo messi in atto etali da imitare il comportamento degli animali che dovranno essere la suapreda.

Il Frazer definì la magia una falsa scienza, in quanto il principio‘simpatetico’ su cui si fonderebbe la magia di contagio e quella imitativa – aparere del Frazer – comporterebbe un procedimento logico parzialmenteaffine a quello dello scienziato che, muovendo dal principio di causalità edall’osservazione dei fenomeni naturali, individua le leggi che regolano losvolgimento di tali fenomeni. Così l’umanità nel suo stadio iniziale – sempresecondo la teoria frazeriana – avrebbe ritenuto falsamente che tra cose,persone e animali sussistessero dei rapporti tali che, una volta individuati emessi in opera gli adeguati meccanismi di controllo, fosse possibile utilizzarliper giungere ai risultati voluti.

A tali supposizioni soggiace un presupposto condiviso da diversi studiosidi impostazione evoluzionistica: quello di una sostanziale identità a livello dimentalità tra l’uomo moderno, civilizzato e l’uomo primitivo: entrambiapplicherebbero alla conoscenza e al dominio della reltà categorie logichesostanzialmnte analoghe, con la differenza che il primitivo (e l’uomoignorante di ogni tempo e luogo) basa i suoi ragionamenti su false premesse,mentre l’uomo civilizzato, e in particolare lo scienziato, conosce le corretteleggi naturali. Il primitivo sarebbe, in sostanza, un uomo che si inganna sulleleggi che regolano i fenomeni della natura e quindi ricorre a soluzioni di tipomagico. Il processo evolutivo avrebbe portato l’umanità ad un superamentodella magia, falsa scienza, da parte della vera e propria scienza, passando per

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lo stadio intermedio della religione.Alla teoria frazeriana si può obiettare l’impostazione eccessivamente

razionalistica: nella magia, infatti, non interviene soltanto l’attività razionale,seppure fondata su premesse errate e tale pertanto da pervenire a risultatierrati – come riteneva Frazer allorché interpretò la magia come una ‘falsascienza’. Intervengono anche motivazioni di ordine emozionale, sentimentale,fantastico e – come sopra detto – religioso. Tale eccessivo razionalismointeressa anche l’interpretazione frazeriana della religione. Questa, infatti, èidentificata come quella fase, successiva alla magia, all’interno di unprocesso evolutivo percorso dall’umanità primitiva, fase cui l’uomo sarebbeapprodato, allorché, accortosi di non riuscire ad ottenere con i mezzi magicigli effetti voluti, avrebbe presupposto l’esistenza di esseri sovrumanipersonali, garanti di quelle leggi che regolavano la vita del cosmo e chel’uomo ‘magico’ aveva ritenuto di poter giungere a conoscere e a controllare.Tuttavia, anche la fase religiosa è interpretata come tale da vedere ilpredominio della razionalità, rispondendo – nella teoria frazeriana – albisogno dell’uomo di spiegare la realtà in cui vive.

Delle ricerche del Frazer va tuttavia apprezzato il tentativo di addivenire auna caratterizzazione dei tratti distintivi dei fenomeni magici rispetto aifenomeni religiosi. Va altresì apprezzata l’ampiezza e la vastità degli interessie dei campi di indagine dello studioso, quali emergono dalla monumentaleopera costituita dai dodici volumi de Il ramo d’oro, sopra citato, che spazianodalle culture etnologiche alle civiltà del mondo antico, vicino-orientale egreco-romano, nonché alle tradizioni popolari dell’Europa del secolo XIX.

L’interesse nutrito da Frazer per la magia simpatetica, nella duplice forma– come visto – di magia di contagio e di imitazione, lo porta a indagare illegame simpatetico tra eventi naturali ed entità sovrumane ‘naturistiche’, alcentro – come Attis, o Adonis, o Osiris – di miti che le vedono morte omorenti (Dying Gods), e al centro di riti che le vedono annualmente ritornantiper le esigenze e le finalità dei riti stessi. Le loro vicende (oggi si parla diqueste figure come di ‘dei in vicenda’, come vedremo più avanti) narrate nelmito e riattualizzate nel rito le collegano in modo vario alle vicende dellavegetazione, al punto che si parlava di queste figure sovrumane, e in taluni

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casi specificamente divine, come di ‘personificazioni’ di eventi dellavegetazione e in particolare del ciclo agrario (mentre la scuola della‘mitologia della natura’, come si ricorderà, vedeva nelle divinità dei mitiantichi personificazioni di realtà e fenomeni naturali, come astri, eventiatmosferici, e così via). Tuttavia, certi personaggi divini che hanno unriferimento al ciclo agrario – quale, ad esempio, Persephone che, secondo lanarrazione mitica offerta dall’Inno ‘omerico’ a Demeter (che avremo modopiù avanti di accostare),‘soggiorna’ un terzo dell’anno in un luogoinframondano, come il grano che per un periodo dell’anno ‘vive’ sotto laterra – hanno anche connessioni con la sfera umana, e non solo con quellaagraria, come mostrano le prospettive intramondane ed oltremondane offerteagli iniziati ai misteri eleusini, centrati – appunto – sulle figure divine diPersephone e della madre Demeter. Anche ad essi faremo più avantiriferimento.

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3. Per un superamento delle teorie evoluzionistiche

Abbiamo visto come nella stagione degli studi ispirati al positivismoevoluzionistico l’indagatore dei fenomeni religiosi fosse attento soprattutto aidati offerti dai cosiddetti primitivi, dai quali egli riteneva di poter trarreindicazioni su quello che dovette essere l’inizio della religione, ovvero lareligione per così dire ‘in erba’. In tal modo venivano sostanzialmentetrascurate o non adeguatamente considerate le grandi religioni storiche.

Inoltre, a fondamento della comparazione come praticata in tali studistava l’idea dell’unità della natura umana e dell’identità dei suoi processipsicologici. L’una e l’altra erano addotte a spiegare le somiglianze trafenomeni religiosi presenti anche in popoli che mai avevano avuto contatti.

Alla fine del XIX secolo comincia ad essere percepita l’arbitrarietà dellefasi generali di evoluzione come ricostruite dagli studiosi che partecipavanodella temperie culturale sopra descritta, e con essa la necessità, abbandonatischematismi e comparazioni arbitrarie, di identificare, prima di addivenirealla comparazione, processi storici seguiti dalle singole civiltà. Si smise dicontrapporre popoli illetterati e ritenuti ‘senza storia’ a popoli aventi unastoria perché dotati di una tradizione scritta, e si scoprì che quell’umanitàilletterata apparentemente indifferenziata conosceva in realtà diversi livelliculturali. Da qui l’interesse di ricostruire le varie storie anche delle civiltàilletterate sulla base delle ricerche sul campo. Nasce così – di contro allaetnologia evoluzionista – l’etnologia storica che individua diversi gradi disviluppo delle culture etnologiche, ovvero quello – il più arcaico –caratterizzato dalla caccia e dalla raccolta e quello caratterizzato dallacoltivazione dei campi (comprendente la piantagione e poi l’agricoltura) edall’allevamento, come stadi a loro volta da distinguere rispetto allo stadiodelle cosiddette culture superiori o alte culture del mondo antico, delle qualiverremo a parlare in quanto portatrici di specifiche visuali religiose, quellepoliteistiche. Stadi diversi risultavano caratterizzati da credenze religiosediverse, come mostrava, ad esempio, il ricorrere presso le culture deipiantatori di una particolare visione religiosa centrata sulla figura del dema –

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a cui torneremo –, studiata da A.E. Jensen in relazione a una popolazione dicoltivatori di tuberi della Nuova Guinea. Tuttavia, i parallelismi riscontrabilitra le modalità di sostentamento di un gruppo – in questo caso la coltivazionedei tuberi – e le figure sovrumane o extraumane al centro delle sue credenzereligiose – in questo caso la figura del dema –, vanno studiati caso per caso,come pure i condizionamenti eventualmente esercitatisi da parte delle diversee particolari situazioni economiche sulle credenze e le strutture religiose, enon possono diventare chiave ermeneutica generale, capace di spiegare ilsorgere e il perdurare della religione a partire da specifiche formeeconomiche.

In sostanza, l’etnologia storica venne a mostrare non i tanti e succedentisistadi di un’unica cultura umana, ma tante singole culture, da identificarsiciascuna nella sua genesi, nel suo svolgimento e nei suoi rappprti con le altreculture; ad affermare, cioè, come i gruppi umani abbiano avuto storie diversee non una identica storia e abbiano conosciuto non una evoluzione unica elineare, ma tante diverse evoluzioni ed anche eventualmente involuzioni.

Inoltre, l’etnologia storica mostra come a una relativa semplicità epovertà degli elementi di cultura materiale nelle civiltà più arcaiche possacorrispondere una complessità e ricchezza del patrimonio culturale e nellospecifico religioso. Al punto che W. Schmidt, cui torneremo, avrebbeaffermato che tanto più l’umanità guadagna tecnologicamente, tanto piùperde religiosamente.

Nei confronti dell’etnologia evoluzionista avrebbe reagito anche – con B.Malinowski (1884-1942) – l’etnologia funzionale, che si propose di studiaregli elementi materiali e ‘spirituali’ di una cultura inserendoli nel complessodella stessa cultura – concepita come un organismo vivente, un tutto organicoove, si potrebbe dire, tout se tient – al fine di illustrare la funzione che in essaquelli assolvono.

Una prima crisi della tendenza interpretativa ispirata ai postulatidell’evoluzionismo positivista si ebbe, dunque, con gli studi, cui faremo trapoco ampio riferimento, di A. Lang e successivamente con quelli della scuolastorico-culturale, e in particolare di W. Schmidt, i quali mostrarono comefosse errato identificare le credenze dei primitivi come contenuti semplici,

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rudimentali e tra di loro sostanzialmente omogenei. Si venne cosìabbandonare la teoria che vedeva nel cosiddetto ‘animismo’ la forma inizialee universale di religione, ovvero la religione nella sua manifestazione piùantica. Infatti, le culture primitive vennero a offrire all’indagatore datiulteriori, tra i quali in particolare la figura dell’‘Essere supremo’ nonriducibile alle pallide larve dell’animismo.

Inoltre, in reazione all’approccio evoluzionistico e invertendo – per cosìdire – l’immagine della religione ‘in erba’, alcuni studiosi di fenomenologiadella religione – cui pure verremo – affermarono che la religione, come unapianta, è più visibile e analizzabile al livello del tronco e della chioma,ovvero, come osservava F. Heiler, è nella pianta completamente sviluppatache meglio se ne vede la natura, senza indulgere a considerare il seme da cuila pianta ha potuto prodursi.

Oggi si evita quella sorta di appiattimento, tra le culture primitive (attualio meglio coeve agli antropologi che le indagarono secondo i presuppostisopra illustrati) e le culture della preistoria, che aveva caratterizzato gliapprocci evoluzionistici allo studio dei fatti religiosi. Si è infatti portati ariconoscere come anche dietro alle culture primitive attuali vi sia una ‘storia’,pure se qualitativamente diversa da quella ‘occidentale’. In sostanza,all’epoca del Tylor, si veniva identificando in maniera generica esemplicistica la civiltà primitiva con quella preistorica, mentre successivistudi hanno individuato e distinto ‘differenti’ civiltà primitive e ‘differenti’civiltà preistoriche.

Il che non impedisce di riconoscere dei fili che sembrano legare cultureprimitive, culture preistoriche e ambiti del folklore moderno econtemporaneo. Al riguardo vengono solitamente citati quegli studi chesegnalano, per quanto concerne l’uso di uno strumento particolare, il rombo,una somiglianza tra usi rituali attestati sia dalla paletnologia o dallapaleoantropologia o comunque da scienze che si occupano della preistoria,sia nell’ambito delle iniziazioni tribali attuali[10] e sia, infine, nell’ambito delfolklore (in questo specifico caso, del folklore siciliano).

La documentazione in possesso degli antropologi e degli storici dellereligioni, ovvero i risultati conseguiti sulla base di ricerche positivo-induttive

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nei rispettivi campi di indagine, non consentono di ricostruire un unicoprocesso evolutivo che prenda le mosse da una situazione originaria identica,quale quella ammessa dagli studi di orientamento evoluzionistico sopraillustrati. Ma consentono di ricostruire sviluppi, meglio che evoluzioni,diversi a partire da basi diverse, a seconda dei diversi contesti culturaliconsiderati. Gli studi storico-religiosi attuali – ché di questi ci occupiamo –non sono più tesi alla ricerca di una origine della religione, come lo erano glistudi che risentivano di una impostazione positivistica ed evoluzionistica, ma– casomai – di origini delle diverse tradizioni religiose e dei diversi fenomenireligiosi nonché delle rispettive culture, nella misura in cui la ricerca positiva(non positivistica) e comparativa, propria della disciplina, riesce araggiungere tali origini.

Contestualmente, abbandonata una troppo immediata proiezione sullapreistoria delle forme religiose riscontrate presso le popolazioni attuali alivello più arcaico, si tende da parte dello storico delle religioni a osservareuna particolare cautela nella considerazione e nell’interpretazione dei datiofferti dalle scienze che si occupano specificatamente della preistoria.Queste, di fatto, consentono di rilevare come le pratiche funerarie, da un lato,con i relativi e particolari trattamenti delle ossa, con i corredi e le modalità disepoltura, e, dall’altro lato, le rappresentazioni artistiche, siano espressioni diun pensiero astratto che si manifesta per via simbolica, ovvero di un pensieroche va al di là della pura funzionalità e del puro rispondere, da parte dioggetti usati e di attività espletate, a necessità immediate. Nello specifico, perquel che qui ci concerne, sembra attestata – in momenti peraltro diversamenteidentificati dello sviluppo della preistoria – una sorta di pensiero ‘religioso’che si esprimerebbe nel riconoscimento di forze altre e superiori rispettoall’umano, capaci di condizionare o di risultare efficaci in relazioneall’umano. Solo in questo senso si può parlare di attestazioni di tipo religioso.Il parlare di homo religiosus, in relazione all’ambito della preistoria, senzaadeguate cautele metodologiche risulta arbitrario. Ossia, risulta arbitraria unatroppo immediata proiezione sulle diverse fasi della preistoria ed anche suquelle più prossime alla storia, di quel complesso di elementi, tra lorointegrati, che la nozione moderna di ‘religione’, frutto di un lungo cammino

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storico – come vedremo –, veicola.

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3.1 A. Lang e W. Schmidt

Accenneremo ora a posizioni interpretative del fatto religioso e dei fattireligiosi le quali, pur ponendosi sulla linea interpretativa tyloriana efrazeriana per il loro appellare in maniera pressoché esclusiva (e dunque ascapito di altri elementi, come quello emozionale e partecipativo)all’elemento della razionalità, ovvero ai procedimenti del pensiero logico epiù specificamente alla applicazione dei principi di causalità come fattori talida spiegare il sorgere e lo svilupparsi dei fatti religiosi stessi,[11] giungono acontraddire i principi del positivismo evoluzionistico e a capovolgere quellascala evolutiva dei concetti religiosi che gli studiosi debitori di unaimpostazione evoluzionistica ritenevano di poter ricostruire. Si tratta delleposizioni di A. Lang e di W. Schmidt (1868-1954).

“Andrew Lang (1844-1912), il quale fu letterato brillante prima cheetnologo, si interessò allo studio dei fenomeni religiosi delle popolazioniprimitive secondo i principi dell’evoluzionismo positivistico. Tuttavia, alcontatto con la letteratura etnografica che, alla fine dell’Ottocento, allargònotevolmente il suo orizzonte nel moltiplicarsi delle relazioni di missionari,di esploratori, di governatori coloniali, di antropologi etc., ebbe modo diindividuare presso molte popolazioni primitive la presenza di una concezionereligiosa che lo indusse a ribaltare lo schema evolutivo di tipo tyloriano. Difatto, presso molte popolazioni etnologiche, spesso presso le più arcaichesotto il profilo culturale, ossia quelle che ancora praticavano la caccia e laraccolta come uniche attività economiche, il Lang pose in luce la diffusacredenza in quella figura sovrumana che fu chiamata ‘Essere supremo’. Nederivava una smentita della teoria di tipo tyloriano dell’evoluzione di tuttal’umanità lungo una linea di sviluppo unica e unilaterale per cui tutti i popolisarebbero passati o passerebbero dall’animismo al politeismo e poi almonoteismo. Nell’opera dal titolo Le origini della religione [The Making ofReligion] pubblicata nel 1898, il Lang raccolse molto materiale etnologico, dacui risultava appunto la presenza presso le popolazioni primitive, anzi conmaggiore evidenza presso quelle di tipo più arcaico, della nozione di unEssere supremo, cioè di un personaggio considerato come personale, quindi

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non assimilabile alla categoria delle anime, di cui si sottolineava proprio laconcretezza, quasi la fisicità, essendo rappresentato come una sorta di grandeuomo con caratteristiche particolari. Ad esso, presso numerose popolazioni,dall’Australia all’Africa e alle Americhe, si attribuivano caratteri eprerogative assolutamente singolari se rapportati alla tipologia delle animedella teoria tyloriana. Innanzitutto si riconosceva la sua facoltà demiurgica, dicreatore, senza naturalmente chiamare in causa speculazioni elaborate nétanto meno la nozione di una creatio ex nihilo. La facoltà creatricedell’Essere supremo è rappresentata in forma mitica, cioè attraverso raccontidai quali si evince con quali modalità e in quali tempi questo personaggio haagito per porre in essere la realtà attuale. Talora si parla dell’origine deglielementi cosmici in genere (la terra, il cielo, gli astri), talaltra ci si limita aparlare dell’ambiente specifico in cui vive il gruppo umano in questione.Spesso questo personaggio oltre che creatore è concepito anche come coluiche ha stabilito per l’uomo le regole di vita, ha dato quelle che possiamochiamare in senso lato le regole di comportamento a cui egli deve adeguarsiper non incorrere in una sanzione, cioè essere punito per la trasgressione diesse. All’Essere supremo o ad un suo rappresentante si attribuisceonol’invenzione e la trasmissione all’umanità delle principali istituzioni culturali:il matrimonio, l’organizzazione sociale, le stesse tecniche della caccia, dellaraccolta etc., e gli strumenti relativi, l’arco e la freccia, il bastone da scavo eogni altra risorsa necessaria alla vita. L’individuazione di questi caratteripeculiari delle varie figure sovrumane che egli definì ‘Esseri supremi’ portò ilLang a contraddire e a confutare la tesi tyloriana. La concezione di unpersonaggio con caratteri di elevatezza anche etica, in quanto garante dellenorme morali, presente presso numerose popolazioni di cultura molto arcaica,smentiva infatti l’impostazione evoluzionistica secondo la quale la nozione diun essere creatore e connesso con l’eticità sarebbe un prodotto estremamentetardo nello sviluppo religioso dell’umanità. Risultava in pari tempo smentitoun altro presupposto molto specifico della teoria tyloriana ma più in generaledelle posizioni evoluzionistiche, ossia quello dell’originaria separazione tranozioni religiose e nozioni etiche. Il concetto di una legge morale variamentedeterminata secondo i casi, cui l’uomo deve adeguarsi e che appare

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sanzionata religiosamente, per gli evoluzionisti sarebbe un fatto piuttostotardo, mentre l’uomo primitivo non avrebbe connesso la sfera religiosa, adesempio la nozione degli spiriti, ai principi di ordine etico. La tesi del Langpertanto rivoluzionava tutto il quadro ideologico dell’evoluzionismo perchésottolineava l’impossibilità che la nozione dell’Essere supremo, così comeveniva in luce attraverso numerose relazioni di etnologi e missionari, potesseessere scaturita dalla supposta nozione originaria di anima. (...) Le reazionialla teoria del Lang furono varie, e in primo momento essa fu addiritturaquasi misconosciuta nel generale prevalere dell’animismo tyloriano e di altreanaloghe impostazioni. Tuttavia, per l’intervento deciso sul tema dellostudioso austriaco Wilhelm Schmidt, questa teoria finì per imporsiall’attenzione del mondo scientifico, ricevendo ulteriori conferme eun’amplissima base documentaria dalle successive indagini dello stessoSchmidt e di altri studiosi della scuola storico-culturale. Tale scuola, diinteresse prevalentemente etnologico, era in pari tempo fortemente interessataai problemi religiosi; nelle sue indagini rivolte alle diverse culture elaborò gliopportuni strumenti metodologici di indagine storica e raccolse, attraverso lostudio diretto dei popoli primitivi, una notevole documentazione atta acontraddire le teorie dello sviluppo unilaterale e generale della cultura ingenere e della religione in particolare, quali erano state affermate nell’ambitoevoluzionistico. Lo Schmidt fu uno dei fondatori della rivista ‘Anthropos’,che nacque proprio per soddisfare l’esigenza di mettere a disposizione diun’ampia cerchia di studiosi tutto il patrimonio di conoscenze che si andavaaccumulando sulle popolazioni primitive, permettendo così il dibattito e ilconfronto delle idee. A partire dal 1908 lo Schmidt pubblicò su ‘Anthropos’(1908-1909) una serie di articoli che recano il titolo di quella che sarà la suaopera monumentale, al cui primo volume, pubblicato nel 1912, seguirannoaltri undici fino al 1955, costituendo una raccolta enorme di materiale persostanziare e fondare, attraverso la comparazione storica, la primaformulazione della teoria, su L’origine dell’idea di Dio (Der Ursprung derGottesidee, 12 voll., Münster 1912-1955). (...)

Con l’apparizione del volume del Lang lo Schmidt aveva percepito subitol’importanza del materiale raccolto dallo studioso inglese e si preoccupò di

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aprire su di esso un dibattito dinanzi ad un mondo scientifico che – come si èdetto – era dominato dalle teorie tyloriane. (...) Oltre all’indifferenza quasigenerale e alle poche e superficiali critiche mosse al volume di Lang, comeSchmidt fece notare, sono significativi gli atteggiamenti assunti dai duemaggiori rappresentanti della scuola evoluzionistica, il Frazer e lo stessoTylor, i quali erano direttamente chiamati in causa dalla nuova tesi. Il primostudioso quasi non rispose alle critiche, mentre il secondo oppose ad esse unabreve pubblicazione in cui si limitava a ribadire le proprie posizioni e asollevare l’obiezione che la nozione dell’Essere supremo, quale il Langl’aveva messa in luce, era dovuta all’influsso delle alte culture, in particolareall’opera dei missionari, e quindi frutto dell’impatto della credenza cristianasulle popolazioni primitive. Contro questa obiezione, peraltro, lo stesso Langavanzò un argomento irrefutabile, facendo notare che le nozioni relativeall’Essere supremo di solito, e soprattutto presso le popolazioni più arcaichedi cacciatori e raccoglitori dell’Australia sud-orientale, risultavano essereesclusivo patrimonio degli uomini, essendo precluse alle donne e ai bambini.Esse facevano parte di un patrimonio di conoscenze di cui venivano messi aparte soltanto i giovani maschi nel momento della iniziazione, ossia di quellecerimonie segrete che sanzionavano il loro accesso alla società degli adulti(...). Si sottolineò pertanto come la nozione dell’Essere supremo fossespecificamente legata ad una prassi rituale, quella dell’iniziazione puberale,che è essenziale nell’intero quadro culturale, e non solo religioso, dellepopolazioni più arcaiche e in genere presente presso molte popolazioniprimitive. Si tratta del rituale a carattere esoterico, ossia segreto nei confrontidelle donne e dei bambini, che sanziona il passaggio dei giovani maschi dallacondizioni di fanciulli a quella di adulti; in tale occasione i giovani sonomessi a parte di tutto il complesso delle conoscenze che riguardano la vitaculturale del gruppo al quale appartengono. (...) Si constata che proprionell’ambito dell’esperienza iniziatica avviene solitamente la comunicazioneai giovani dell’esistenza stessa e delle prerogative dell’Essere supremo, oltreche delle modalità dei suoi rapporti con il gruppo umano in questione. Difatto, in certo senso, l’esistenza dell’Essere supremo è già nota anche alledonne e ai fanciulli, ai quali però si mostra soltanto un aspetto molto vago e

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spesso terrificante di esso, configurandolo come un personaggio pericoloso,che sottopone i giovani a prove rischiose, spesso fino alla morte. Questasituazione, che risultava chiaramente soprattutto dalle notizie relative aipopoli australiani, fu posta in evidenza da Lang e da Schmidt come unasmentita della pretesa influenza missionaria sull’origine delle concezionirelative dall’Essere supremo. In questo caso, si obiettava infatti, anche ledonne e i fanciulli avrebbero dovuto essere partecipi delle nozioni che loriguardano. A ciò si aggiunga la reticenza da parte degli uomini nel riferire adosservatori estranei i miti e le credenze relativi all’Essere supremo. Propriotale reticenza era stata una delle ragioni per le quali, prima che si stabilisserocontatti più diretti e costanti con le popolazioni in questione, questaconcezione era stata pressoché ignorata nel mondo scientifico. Si era parlatoaddirittura, da parte di alcuni esploratori e missionari, di un preteso ateismodi alcune popolazioni, proprio fra le più arcaiche, quali ad esempio gliabitanti della Terra del Fuoco, o anche degli stessi australiani. Solo unamaggiore conoscenza della mentalità dei popoli primitivi e quindi un piùcontinuo e familiare rapporto con essi permise agli etnologi e ai missionariuna graduale conoscenza del loro orizzonte religioso. Si può ricordare inproposito il caso di uno studioso inglese, Alfred W. Howitt, il quale riuscìnon solo ad apprendere la lingua di molte tribù dell’Australia del Sud-Est, maanche ad acquisire tale familiarità con esse da ottenere egli stesso dipartecipare ai riti iniziatici. Si possiede pertanto un’ampia ed interessantedocumentazione fornita dallo Howitt sui riti di iniziazione, ai quali era statoammesso, avendo avuto modo di constatare come, nell’ambito di questastruttura rituale, fosse fondamentale la figura dell’Essere supremo.

Non è possibile seguire nei dettagli tutta l’ampia argomentazione delloSchmidt, volta a dimostrare il carattere autoctono e arcaico delle credenzerelative all’Essere supremo presso le varie popolazioni primitive. Diciamosoltanto che egli discute e confuta l’interpretazione dello stesso Howitt,secondo il quale tale nozione sarebbe sorta da quella relativa al capo-tribùdefunto ed eroizzato. Contro tale interpretazione, che si muoveva nel solcodell’animismo tyloriano, lo Schmidt fece notare come presso le più arcaichepopolazioni australiane la figura del capo-tribù avesse scarso peso e

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soprattutto che essa non era oggetto di culto dopo la morte, là dove l’Esseresupremo è caratterizzato dalla immortalità ed eternità, essendo queste nozioninon espresse certo in forma teorico-speculativa ma attraverso affermazioniche presentano il personaggio come esistente fin dai primordi, noncompromesso in vicende di nascita o di morte e, anche se solitamente ritenutoormai residente lontano dagli uomini, più o meno efficace nell’attualità,soprattutto attraverso suoi rappresentanti o intermediari.

In conclusione, sulla base delle sue amplissime e approfondite ricerche,confluite nell’opera monumentale dal titolo L’origine dell’idea di Dio, loSchmidt ribaltò la teoria evoluzionistica e oppose alla nozione di unosviluppo graduale delle concezioni religiose, che si sarebbero svolte daelementi rozzi ed embrionali fino al monoteismo delle religioni storiche, lateoria secondo cui le più antiche credenze dell’umanità sarebbero state di tipomonoteistico. Lo studioso, infatti, riconosciuta l’estrema arcaicità delcomplesso religioso gravitante attorno alla figura dell’Essere supremo,ritenne di poterlo definire come ‘monoteismo’ ed individuò in esso la formaprimordiale di concezione religiosa assai diffusa se non comune a tutti ipopoli. In tal modo venne a delinearsi una prospettiva che possiamo definiredevolutiva, ammettendosi che, mentre alcune popolazioni di cui si constatavaancora l’esistenza al tempo dello studioso avrebbero mantenuto le originarieconcezioni monoteistiche, altre le avrebbero elaborate ulteriormente percostituire i grandi monoteismi storici: zoroastriano, ebraico, islamico eovviamente cristiano strettamente legato a quello ebraico. Gli altri popoli, chepresentavano credenze animistiche, politeistiche o di altro tipo, sarebberodecaduti dalla originaria forma religiosa, ritenuta più perfetta, proprio per lasua affinità con i grandi monoteismi storici.

Anche questa teoria, pur essendo ispirata dai criteri storici dell’indaginedifferenziata di popoli e culture, per il suo carattere sistematico si presta allemedesime critiche cui offriva fondamento il metodo evoluzionistico, sia pureper opposte ragioni. In particolare, Pettazzoni (...) obiettò alla teoria delloSchmidt innanzitutto l’impossibilità di assimilare la figura dell’Esseresupremo, quale si riscontra presso molte popolazioni primitive, al Dio sommodei monoteismi storici, per una serie di ragioni. In primo luogo si nota che

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l’Essere supremo non esclude accanto a sé, anche se talora in posizionesubordinata, la presenza di altri esseri sovrumani che agiscono in accordo o incontrasto con lui ma che comunque hanno notevole importanza per ilcontesto religioso in questione. Inoltre il Pettazzoni notò che l’Esseresupremo di alcune culture primitive spesso viene rappresentato come“ozioso” nell’attualità, ossia come personaggio attivo alle origini, che, dopoaver fondato l’esistenza attuale, ponendo in essere gli elementi fondamentalidella realtà e fornendo agli uomini, ovvero allo specifico gruppo umano dicui si tratta, i mezzi di sussistenza e alcune regole di comportamento socialeed etico, si è allontanato dalla terra né più interviene nelle vicende umane.Molti miti, infatti, parlano di un originario rapporto, anzi addirittura diun’originaria comunanza di vita, tra gli uomini e l’Essere supremo,accompagnato da una sua famiglia. Questa circostanza conferma che si trattadi un personaggio inserito in un contesto mitico, il quale è rappresentato incerte situazioni più o meno complesse, anche di conflitto con altri personaggi,come ad esempio il cosiddetto ‘demiurgo-trikster (imbroglione)’, spessorappresentato in figura animale (il Coyote di ambiente nord-americano, ilcorvo dei miti paleo-siberiani), che collabora con il Creatore nell’attivitàdemiurgica ovvero modifica o guasta l’opera di quello, aprendosi degliscenari di tipo dualistico, analizzati con pertinenza da Bianchi (1958).L’Essere supremo talora ha moglie e figli; di lui si racconta appunto che alleorigini abitava con gli uomini e poi, in conseguenza di certi eventi ovvero peruna colpa commessa da un personaggio umano o sovrumano, o per unincidente, si allontana, recandosi in quello che di solito è la sua sede, il cielo,e di là non agisce più efficacemente su questo mondo e sulla vita umana madelega a questo scopo suoi rappresentanti.

Questa situazione, tipica di alcuni Esseri supremi delle culture primitive,è molto diversa da quella del dio unico dei grandi monoteismi storici, la cuipresenza è perennemente attiva nella storia umana e cosmica. Basti pensareallo Yahwh della tradizione giudaica, un dio che si mostra continuamentepresente ed efficace nella vicenda umana, che dirige secondo la propriapotenza e volontà. (...) Inoltre, a definitiva smentita della tesi dello Schmidt,lo studioso italiano formula la teoria del carattere rivoluzionario dei

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monoteismi storici, i quali dunque implicherebbero una situazione precedentecaratterizzata in senso politeistico, rispetto alla quale il fondatore-profetaopporrebbe il proprio messaggio sull’esistenza di un dio unico”.[12]

Avremo modo più avanti di mostrare come anche la tesi di Pettazzonicirca la nascita del monoteismo a seguito di un’opera di rivoluzione da partedi un fondatore-profeta soffra di eccessiva rigidità e come la figura del diounico dei monoteismi storici, non solo sia tipologicamente diversa dallafigura dell’Essere supremo, ma anche, in sé, offra connotazioni diverse aseconda dei diversi contesti storici e culturali che la hanno come propria.

Quanto alla tesi dello Schmidt sopra illustrata, circa quello che eglidefinisce Urmonotheismus, espressione diversamente tradotta in italiano,come ‘monoteismo originario’ o ‘monoteismo primitivo’, rimangono quialcune considerazioni da sviluppare: “Non è (...) accettabile l’interpretazionedi Schimdt, il quale, avendo posto alle origini dello sviluppo religiosodell’umanità quella che egli definisce una credenza di tipo monoteistico,ossia la ‘nozione pura’ di un Essere supremo creatore e garante delle normemorali, afferma che l’apparizione del dato mitologico sarebbe un elementoposteriore, aggregatosi al complesso religioso in questione con l’elaborazionedi concezioni di riferimento astrale e con elementi solari, lunari etc. Con ilmanifestarsi di tale quadro mitologico variamente complesso, nella storiareligiosa dell’umanità si sarebbe passati dall’originaria forma di monoteismoad altre forme religiose quali l’animismo, il feticismo etc. fino a giungere alleformulazioni politeistiche. Il politeismo, secondo Schimdt, sarebbe dunqueuno sviluppo ulteriore verificatosi tuttavia soltanto in alcuni contesti culturalie non in altri (il che differenzia questa impostazione rispetto a uno schemaevoluzionistico che affermava il carattere universale di tutte le fasi religiosedell’umanità), in conseguenza del fenomeno della mitizzazione e dellapersonificazione di alcuni attributi dell’Essere Supremo. Lo studioso faintervenire in questo processo di trasformazione un fenomeno che si riscontracome abbastanza tipico di molti Esseri supremi, cioè la loro attuale oziosità.Infatti, il personaggio che alle origini ha creato il mondo o piùfrequentemente ha stabilito le attuali condizioni di esistenza per undeterminato gruppo umano, a causa di eventi di vario tipo, si è allontanato

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dalla terra. Egli risiede ormai in un luogo lontano, solitamente il cielo, e daqui non esercita un diretto controllo sulla vita umana, avendo affidato taleincarico ad altri personaggi, più o meno attivi a vario titolo nell’attualità. LoSchimdt ritenne che il politeismo sarebbe nato in conseguenza del fenomenodell’oziosità dell’Essere supremo, e del connesso emergere di personaggi cheassumono alcune delle sue capacità e facoltà, quali ad esempio quella disorvegliare le azioni umane, di intervenire nella vita attuale in manierabenefica o con opportune sanzioni.

Senza insistere sulle legittime critiche cui si presta la teoria delloSchmidt, nella sua definizione di monoteismo per caratterizzare il quadroreligioso relativo all’Essere Supremo, basti ancora ribadire come anchepresso le più arcaiche culture di cacciatori e raccoglitori la componentemitica è contestuale alla rappresentazione di una figura connotabile comeEssere supremo, la quale appare protagonista di racconti vari, relativi alla suaattività nel tempo delle origini. Né è possibile distinguere un suppostomomento originario, che allora dovremo immaginare quasi teologico-speculativo, da un successivo momento mitologico, di racconti più o menoricchi di episodi e popolati da vari personaggi che accompagnano questafigura e contribuiscono a definirne l’identità storico-religiosa”.[13]

La teoria dello Schmidt, in sostanza, mentre condivide con le posizionievoluzioniste l’attenzione per una ricerca dell’origine della religione, sicolloca agli antipodi di quelle per il suo delineare la storia religiosadell’umanità nei termini non di un’evoluzione ma di una – per larga parte –devoluzione.

Infine, la teoria dello Schmidt, operando un salto metodologico rispettoalle esigenze e ai limiti del metodo storico, utilizzava un postulato teologico,ovvero riconnetteva la credenza dallo studioso definita come ‘monoteismoprimordiale’ a una rivelazione originaria.

Si osservi come in tale teoria interpretativa le origini della religione sianopensate in una modalità del tutto diversa rispetto a quella con cui lepensavano gli evoluzionisti. Infatti, per questi le origini della religione sonoin un processo mentale e, nello specifico, se vogliamo rifarci all’animismodel Tylor, in un processo mentale che porta, appunto, a supporre l’esistenza

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di ‘anime’ separabili o ‘doppi’. In sostanza, la religione nasce da inizisemplici, miseri, e le analogie riscontrabili tra religioni si spiegherebberosulla base di questo supposto minimo comune denominatore originario e sullabase della idea, cara agli evoluzionisti, di una unilineare evoluzione comune atutto il genere umano. Invece, la teoria interpretativa proposta dallo Schmidtpone agli inizi una rivelazione soprannaturale primordiale e fa di Dio, se cosìpossiamo esprimerci, il creatore della religione, la quale avrebbe visto – inquella linea devolutiva additata dallo studioso – man mano perdersi lapurezza iniziale dovuta a questo sigillo primordiale. Le analogie riscontrabiliattualmente tra le religioni sono da spiegarsi sulla base di questa rivelazioneprimordiale.

Torniamo allo Schmidt. Le sue ricerche, come già prima quelle del Lang,dettero il segnale definitivo del tramonto delle teorie evoluzionistiche inmateria di religione. Queste, peraltro, hanno costituito altrettanti esempi di untipo di comparazione che, affiancandosi a quella ‘filologica’ sopra illustrataed espressa dalla cosiddetta Scuola di mitologia della natura, ampiamentecaratterizzò le fasi iniziali della storia degli studi scientifici di impiantocomparativo sulle religioni. Si tratta di una delle tre (oltre a quella filologica)principali modalità di intendere la comparazione in sede di storia dellereligioni: la comparazione propria delle scuole evoluzionistiche, lacomparazione fenomenologica e quella più propriamente storica.

Sulla prima, la comparazione come praticata dalle scuoleevoluzionistiche, si può così concludere: essa era soprattutto di tiponaturalistico, consistendo nella applicazione allo studio dei popoli a livelloetnologico – presso i quali si riteneva di poter individuare le forme piùantiche ed embrionali di religione – di leggi desunte dalle scienze naturali. Ilche portava ad accomunare i cosiddetti ‘primitivi’ – che indagini successiveavrebbero mostrato come distinti e diversificati quanto a sviluppo dellerispettive culture – all’interno del primo gradino di una supposta scalaevolutiva che l’umanità sempre e dovunque avrebbe percorso. In sostanza,“credenze e usi religiosi venivano comparati e sistemati in una linea unica epredeterminata di evoluzione sulla base di un generico e storicamente nonqualificato passaggio dal più semplice ed embrionale, inteso anche come il

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più antico, fino al più complesso, appunto, ‘evoluto’ e moderno, ma senzaalcun tentativo di identificare processi storici reali sulla base di unadocumentazione coerente, e senza alcuna reale ambientazione storico-culturale dei fatti presi in considerazione”.[14]

L’ipoteca evoluzionistica e scientista che gravava sullo studio comparatodei fatti religiosi nel periodo dominato dal positivismo, conduceva, da unlato, ad una ricerca – ispirata ai presupposti dell’evoluzionismo – di quelleforme elementari e di quei principi germinali, che si riteneva potessero essereofferti dalle tradizioni dei popoli illetterati del tempo, e che si pensavaavessero potuto costituire l’inizio (da un punto di vista cronologico, logico eassiologico) dello sviluppo religioso dell’umanità. Inoltre veniva a costruiremodelli religiosi astratti (del tipo ‘feticismo’ o ‘animismo’) e li ordinavaall’interno di un’altrettanto astratta scala religiosa universale. Dall’altro lato,conduceva a ritenere, in una prospettiva appunto tipicamente scientista, cheuno studio comparato siffatto potesse contribuire al processo, ritenutocomunque inarrestabile, di scomparsa della religione stessa.

Se la religione s’origina da una ‘malattia’ (si pensi alla ‘malattia dellinguaggio’ di Max Müller, che qui evochiamo pur se appartenente, comevisto, ad altra impostazione metodologica), se si origina – come per Frazer –da una ‘falsa scienza’ossia da una errata conoscenza delle leggi naturali, ilprogresso della scienza – tale era la convinzione di una lunga stagione distudi – non potrà che renderla superflua, inutile.

Infine, la comparazione come praticata in sede di approcci evoluzionisticiai fatti religiosi, tutta attenta com’era, all’origine della religione e allesopravvivenze o survivals di credenze e pratiche ‘primitive’ in culturesuperiori e nelle loro religioni, misconosceva e mortificava la ricchezza e lacomplessità di queste.

In seguito alla crisi del positivismo, nuovi paradigmi interpretativi sisostituirono a quelli che si ispiravano, per lo studio dei fenomeni culturali, equindi delle religioni, alle scienze naturali e si venne a sovrapporre almodello della spiegazione (Erklären), proprio di quelli, il modello dellacomprensione (Verstehen), ritenuta come sola capace di cogliere l’essenza delfatto religioso, modello cui fa riferimento la fenomenologia religiosa, a cui

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verremo dopo aver illustrato la posizione di colui che a buona ragione puòessere considerato come un padre della fenomenologia religiosa stessa, vale adire Rudolph Otto.

Ma prima un accenno, almeno, agli indirizzi antropologici.

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4. Gli indirizzi antropologici

Degli studi antropologici, che si occupano dei comportamenti dell’uomocome membro di una società e produttore di cultura (venendo così a definirsiuna antropologia sociale e una antropologia culturale), merita qui un cenno,quale erede dell’impostazione evoluzionistico-positivistica dominante ilsecolo XIX, la scuola sociologica francese che faceva capo a EmileDurkheim (1858-1917).

E. Durkheim, interessato allo studio non solo delle popolazionietnologiche ma anche di quelle di alta cultura, vede all’origine dei fatticulturali e, nello specifico, religiosi, non l’individuo ma la società.L’individuo esiste culturalmente in quanto membro di un gruppo sociale epartecipe di quelle ‘rappresentazioni mentali collettive’, ovvero di quellaparticolare maniera di pensare e di quei particolari criteri di giudizio e dicomportamento, che sono elaborate dalla società. In tal modo, per Durkheim,la religione viene a essere l’ipostatizzazione del senso di sacralità, di maestà,di potenza che emana dal gruppo sociale. Di fatto, in occasione delle grandicerimonie collettive espletate da una comunità, si sprigionerebbe dal grupposociale un senso di potenza e di maestà che sarebbe percepito dall’individuocome, appunto, ‘religioso’. Non solo si dà intimo legame tra religioso esociale, in tale teoria, ma il religioso viene sostanzialmente ridotto al socialecome sua origine e fondamento. Sorgente della religione è la società,creatrice e promotrice di valori. Allo studioso va ascritta la definizione dellareligione come “l’espressione del potere esercitato dalla società”. Essa è un“sistema solidale di credenze e di pratiche, relative a cose sacre, cioè separatee interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata chiesa,tutti quelli che vi aderiscono”.[15]

Se tale teoria ha il merito di valorizzare l’aspetto collettivo, sociale etradizionale del fatto religioso (laddove le impostazioni evoluzionistichesopra esposte spesso privilegiavano il momento individuale), viene tuttavia atrascurare il peso costituito a vario titolo all’interno di un quadro religiosodall’iniziativa dell’individuo, in particolare quando essa si esprime come

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‘nuova creazione’ o ‘fondazione’. La vita dell’individuo in sé, in taleprospettiva, è il regno del profano e dell’insignificante. Di fatto, tuttavia, inogni quadro religioso, i due elementi costituiti dall’individuale e dal socialeconvergono sia pure in diverse proporzioni e con diverse modalità a secondadei casi. Così se, ad esempio, nelle culture primitive il gruppo e le suetradizioni religiose risultano preminenti rispetto alla iniziativa individuale,questa non è assente ed anzi può intervenire a modificare credenze e usirituali traditi, come si constata, in maniera esemplare, nel caso delle ‘varianti’dei miti, ossia dei racconti tradizionali che, a vario titolo, esprimonol’orizzonte religioso della comunità, le quali vengono dunque ad attestarecome anche all’interno delle società arcaiche si dia una dialettica traconservazione e innovazione. E per converso, allorché si consideri il casodelle grandi personalità religiose, si constata come esse, pur venendo atrasformare – o a rigettare talora – una tradizione, agiscono pur sempreall’interno di una tradizione e in relazione ad essa, non solo quandointervengono a modificarla o a innovarla ma anche quando intendonocontraddirla o abolirla e devono in ogni caso tenerne conto.

In sostanza, l’interpretazione sociologica, sopra addotta, della religioneriduce sistematicamente il religioso al sociale. Si tratta di un riduzionismosociologico, quello di Durkheim e di suoi seguaci, da Marcel Mauss a RogerCaillois, per i quali – come si esprime J. Ries – “è la società che risveglianell’uomo la sensazione del divino. La società è per i suoi membri quello cheè un dio per i suoi fedeli. L’azione collettiva del clan spiega la creazione delculto, dei riti, delle pratiche, cioè del sacro nel comportamento dell’uomo”.[16] Ma affermare questo non vuol dire negare che la religione sia anche unfatto sociale e che possa contribuire a dare coesione e solidità alla vita dellasocietà. Si obbietta che essa si riduca sempre e comunque (ovvero:programmaticamente) a questa sua funzione e che da questa ne sia comunquee sempre originata.

Un cenno poi all’antropologia nella sua declinazione funzionalista.In questa, l’antropologia è portata a considerare le religioni ‘in funzione

di’, ovvero significative ai fini della sopravvivenza delle società, come pureai fini dell’adattamento dell’uomo alla contingenza e all’impotenza di fronte

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a determinate situazioni, nonché ai fini del superamento di stati difrustrazione personali e sociali. La ‘verità’ di una religione, in taleprospettiva, si esprimerebbe nella sua utilità. In sostanza, un approcciofunzionalista intende studiare le componenti attuali di una cultura (e tra essepertanto anche la componente religiosa) e le loro interconnessioni, ritenendoche ogni manifestazione di una singola cultura sia comprensibile solo nei suoirapporti di interdipendenza con le altre manifestazioni di quella medesimacultura. Solo l’analisi dettagliata di tutte queste manifestazioni rivelerebbe laconnessione funzionale di un elemento culturale con tutti gli altri.L’approccio funzionalista, inoltre, generalmente rifiuta la comparazione,affermando che fenomeni all’apparenza simili possano rivestire significatodiverso nelle diverse culture.

Soprattutto in passato (ad esempio con studiosi come A.R. RadcliffeBrown) e come reazione alle impostazioni pseudo-storiche deglievoluzionisti, nelle sue forme più rigide l’antropologia affermaval’irrilevanza della storia, ovvero intendeva programmaticamente prescinderedalla ricerca storica intorno alla genesi e agli sviluppi di una cultura primitiva– che di fatto non risultano documentati sulla base di una documentazionescritta. In una fase ulteriore, antropologi quali, ad es., E. Evans Pritchard,1902-1973 (Theories of Primitive Religion, Oxford 1965), sono stati piùaperti alla ricerca storica. Di questo esponente della Social Anthropology,merita qui ricordare come egli ritenesse che la religione vada studiata comeaspetto della cultura e in relazione con gli altri aspetti di quella stessa cultura.Egli, tuttavia, rifiuta la categoria di ‘funzione’ per sostituirvi quella di‘relazione’, che ritiene meglio della prima poter salvaguardare la autonomiadella sfera religiosa. Afferma inoltre che solo colui che crede in Dio (theist) èin grado di apprezzare i valori religiosi in sé, laddove l’ateo o il non credenterisolverebbe ineluttabilmente la religione in termini biologici, o sociologici, opsicologici.[17]

Va poi ricordata la branca strutturale dell’antropologia che fa riferimentoin particolare a C.Lévi-Strauss, e che ha fatto proprie le teorie strutturaliste.

Di fatto, lo strutturalismo, ovvero lo studio che riguarda l’uomo nelle suestrutture profonde e fondamentali, ha accostato indirettamente anche motivi e

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temi religiosi. Una posizione strutturalistica è portata ad ammettere che dietrol’infinita varietà delle culture vi sia una trama strutturale unica, dal momentoche le varie culture – secondo questa prospettiva – altro non sono checombinazioni diverse degli stessi elementi base (di numero finito). La storiadetermina come si aggreghino tali elementi.

L’analisi del linguaggio umano porterebbe all’identificazione di struttureoppositive fondamentali, quali alto/basso, freddo/ caldo, crudo/cotto etc.L’antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009) ha applicato tale metodo distudio ai miti, soprattutto quelli amerindi. Qui si può solo osservare come lostrutturalismo, che nasce come studio di un campo delimitato relativoall’umano, come il fenomeno del linguaggio, giunga facilmente a dareun’interpretazione globale dell’uomo e di tutte le sue attività ed espressioni,quali – nel nostro caso – quella religiosa.

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5. R. Otto e il ‘sacro’

L’approccio fenomenologico ha subito ampiamente, come sopraaccennato, l’influsso del pensiero dello studioso tedesco Rudolph Otto(1869-1937) e della sua opera fondamentale Das Heilige. Über dasIrrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen(Beck, München 1917, 1936²).[18] Teologo e pastore luterano, professoreall’Università di Marburgo, Otto si oppone a ogni impostazioneevoluzionistica nello studio della religione, convinto che “le esplorazionisulle scaturigini storiche e sui collegamenti evolutivi non conferiscono nullaalla conoscenza dell’essenza e del valore di una realtà”.[19] Egli elaborò unateoria interpretativa sulla natura e l’origine della religione che ha avuto largainfluenza negli studi fino ai nostri giorni. Per lui l’essenza del fenomenoreligioso, quell’essenza che gli evoluzionisti identificavano con le originidello stesso, viene a coincidere con una realtà dotata di una sua ontologicaconsistenza, appunto il sacro.

Il sottotitolo dell’opera (L’irrazionale nell’idea del divino e la suarelazione al razionale) rivela la tendenza sostanzialmente irrazionalistica checaratterizza la posizione dello studioso.

Secondo Otto, “le diverse religioni sarebbero tutte da ricondurre a quellache egli chiama l’esperienza del sacro. Questo termine non va inteso – comeprecisa subito l’Autore nell’accezione comune di ‘santo’ (una volta che ‘dasHeilige’ in tedesco significa oltre che sacro anche santo) nel senso carico divalenze etiche, peculiare della cultura occidentale cristiana. ‘Sacro’ e ‘santo’sono invece da intendere nel loro significato originario, rapportati ai terminilatini da cui derivano e anche a certe esperienze religiose come quellasemitica, ebraicain particolare, in cui ai termini latini sacer e sanctuscorrispondono hiq’dish (santo), qadosh (sacro) (cfr. anche hagios, greco). Neitermini latini originariamente prevaleva il senso di ‘separato’: sacer e sanctusé tutto ciò che deve essere tenuto separato dall’esperienza profana perché hain sé aspetti fortemente pericolosi; è qualcosa che si riferisce all’esperienzadel sovrumano e come tale è degno del massimo rispetto, quindi deve essere

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mantenuto intatto e intangibile. Nello stesso tempo, poiché ogni indebitocontatto con esso è pericoloso, deve rimanere circoscritto nella sua sfera.

Movendo da questa nozione, l’Otto procede a chiarire la sua concezionedel sacro, che da una parte definisce come ‘numinoso’, dal termine latinonumen, che esprime il senso di una presenza sovrumana talora difficile daindividuare nella sua specifica personalità ma percepita come potente, caricadi forza misteriosa. Secondo Otto, dunque, il sacro può essere definito anchecome numinoso e si caratterizza come qualcosa di ‘completamente altro’(ganz anderes) rispetto all’esperienza comune dell’uomo. Il sacro sarebbeallora una realtà numinosa, potente, che si rivela all’uomo e viene da luipercepita come totalmente ’altra’, radicalmente diversa rispetto alladimensione comune, tangibile e sensibile in cui egli si muovequotidianamente. Questo sacro, numinoso e completamente altro, ha duefacce complementari, anche se in un certo senso contraddittorie. Nellanozione del sacro si realizza di fatto una coincidentia oppositorum: esso è inpari tempo fascinans e tremendum, ossia è qualcosa che attrae (fascinans nelsenso etimologico del termine, che attrae e affascina, quasi ipnotizza) econtestualmente incute timore, un timore – sottolinea Otto – che va distintodalla paura pura e semplice, ossia da quel sentimento comune di sgomentoche coglie l’uomo in situazioni di crisi, di pericolo.

Lo studioso sottolinea che tutti i termini con i quali egli cerca di definirela nozione del sacro, proprio perché si tratta di una realtà completamentediversa rispetto all’esperienza comune, sono sempre approssimativi, quindianalogici. Tale realtà viene percepita dall’uomo mediante una facoltàanch’essa particolare e specifica, una facoltà religiosa che gli permette dipercepire la realtà del sacro, quale si manifesta sia a livello personale, di‘rivelazine interiore’, sia a livello oggettivo, storico. Di fatto, a parere dellostudioso, vi sarebbe una continua manifestazione nella storia umana di‘segni’ del sacro, il cui linguaggio simbolico e il significato devono essereadeguatamente percepiti. Tale lettura è intesa come una sorta di‘divinazione’, affidata in particolare alle grandi figure carismatiche chestanno all’origine delle fondazioni religiose”.[20]

Opportunamente la Sfameni Gasparro, illustrando i postulati della teoria

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ottiana, delinea le riserve che lo storico delle religioni, sulla base del metodostorico-comparativo cui obbedisce la propria ricerca, esprime nei confrontidella teoria stessa e dei suoi postulati. “Il primo postulato è quellodell’oggettività, ossia della realtà oggettiva del sacro; lo studioso opera più dafilosofo e teologo che non da storico delle religioni perché muove da unaprecisa asserzione, da cui dipende tutto il ragionamento successivo, ovverol’esistenza reale del sacro, modulato secondo le categorie del fascinans e deltremendum, in rapporto alla quale l’uomo si pone, percependola con quellainnata facoltà religiosa di cui sarebbe dotato. Otto opera legittimamente dalpunto di vista del teologo e del filosofo nell’ammettere l’esistenza di unarealtà trascendente definita dalla categoria del sacro. Lo storico invece nonpuò spingersi fino a questo punto per affermare né per negare tale realtà. Eglipiuttosto constata come, nei diversi contesti storici a lui noti, da partedell’uomo e del gruppo cui appartiene si ammette l’esistenza di un livello‘altro’, rispetto al piano dell’esperienza sensibile, definibile in senso latoquello del sovrumano, variamente popolato di figure e personaggi con i qualisi stabiliscono dei rapporti a livello rituale e intorno ai quali si formula, informe mitiche o sistematico-speculative, un corpus più o meno articolato diconcezioni ritenute veritiere. Tuttavia, lo storico non si pronunzia nésull’esistenza obiettiva né sulla non esistenza di tale livello perché sianell’uno che nell’altro caso egli formulerebbe un giudizio di valore, acarattere filosofico o teologico. Ciò non implica che lo storico debba essereagnostico o riduzionista; al contrario, nella sua specifica qualità scientifica,deve indagare le diverse modalità del sacro (se si vuol usare, senza specifichevalenze ottiane, questo termine), ossia esaminare come nei vari contestiraggiungibili con i mezzi dell’indagine storica, dalle culture arcaiche, dalleforme religiose dei primitivi fino alle più complesse esperienze religiose dellealte culture, si configuri l’esistenza di un livello ‘altro’ rispetto alla realtàvisibile e sperimentabile con gli strumenti sensibili e si definiscano lepresenze che lo popolano e i mezzi con cui l’uomo si pone in contatto conesse, senza emettere giudizi di verità sull’uno o sull’altro dei fenomeni inesame ovvero sulla questione generale dell’esistenza o meno di un livellotrascendente la realtà empirica. Tali giudizi spettano piuttosto al filosofo e al

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teologo che, ciascuno nel proprio campo e con le proprie metodologie,propone soluzioni in un senso o nell’altro. In sede di indagine storica non sipuò invece accettare né il postulato dell’esistenza a priori del sacro, sia essointeso nel senso di Otto o di qualsiasi altra posizione filosofica o teologica, néla sua negazione.

Naturalmente non ne deriva che lo studioso non debba avere le proprieconvinzioni sull’esistenza o meno di dio, del divino o di qualsiasi altra realtàmetafisica; ma, in quanto storico, deve condurre la sua ricerca senza daregiudizi di valore sui fenomeni che esamina, senza dichiarare che unaconcezione o un intero quadro religioso siano veri o falsi, perché farebbe ciòin base ai propri postulati ideologici, ispirato da una personale opzionereligiosa ovvero dalla mancanza di credenze religiose. Se come uomo eglilegittimamente potrà essere credente o meno, appartenere all’una o all’altratradizione religiosa, in quanto storico non è autorizzato ad emettere ungiudizio di valore sui fenomeni storici analizzati, giudizio che non siaanch’esso di carattere storico, ossia tale da riconoscere che alcune tradizionireligiose presentano caratteri più complessi, più articolati rispetto ad altre,secondo una scala di valori storici non filosofici o teologici. Soprattutto, lostorico si riserva il diritto-dovere di interpretare i fenomeni studiati nelle loroorigini, formazione, sviluppo e trasformazione, e quindi di valutarne ilsignificato e la funzione nei rispettivi contesti culturali.

Un altro aspetto criticabile, in parte conseguente rispetto al primo, è ilcarattere molto generico per un verso ma per l’altro culturalmentedeterminato della nozione del sacro definita da Otto. Essa infatti non risultaapplicabile a tutti i contesti storici, essendo chiaramente collegabile ad alcunetradizioni religiose. In particolare, essa è il prodotto della tradizione cristianadi tipo protestante al cui interno l’Otto e di alcune tradizioni filosofiche dacui dipende, quali il neokantismo contemporaneo, e in pari tempo appareispirata da esperienze mistiche e concezioni indiane con le quali lo studiosoebbe contatti e dalle quali fu fortemente influenzato. In altri termini, ladefinizione del ‘sacro’ proposta da Otto è per un verso molto generica eampia, incapace di cogliere la specificità dei singoli contesti religiosi, e perl’altro, nonostante tutto, condizionata da esperienze filosofiche e religiose

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storicamente situabili in determinati contesti culturali e come tale inadeguatanei confronti di esperienze pertinenti ad ambienti diversi. Ad esempio, ladefinizione ottiana del sacro mal si conviene alle concezioni di tipoanimistico che pure troviamo ampiamente diffuse presso molte popolazioniprimitive, venendo meno alla funzione di formula interpretativa generale eonnicomprensiva. Ogni esperienza religiosa, e quindi, se si usa laterminologia ottiana, l’esperienza del ‘sacro’, è sempre condizionata daicontesti storici rispettivi, dalla concreta e storicamente definita maniera diconcepire questo ‘sacro’, che dunque non è valutabile in senso astratto, quasisia un dato autonomo e sussistente di per sé, il quale si manifesta in epifaniedivine diverse nei vari contesti storici. Lo storico, al contrario, indaga questivari contesti nelle rispettive modalità di accedere a quel livello ‘altro’ in cuipossiamo identificare il locus del fatto religioso e nelle diverse forme dirappresentazione di esso. La definizione proposta da Otto pecca dunque perun verso di genericità e non risulta applicabile a tutti i contesti religiosi, e perl’altro si rivela condizionata da certe esperienze religiose nelle quali il livellodel sovrumano si caratterizza con i caratteri di un ganz anderes, diun’estrema alterità che insieme affascina e incute timore. (...) Un altroelemento contestabile della teoria ottiana è il riferimento preminente se nonesclusivo alle facoltà irrazionali per la spiegazione dell’atteggiamentoreligioso, ossia di quella che lo studioso tedesco definisce appuntol’‘esperienza del sacro’. Egli infatti dichiara in maniera netta che in questaesperienza non intervengono le capacità razionali dell’uomo ma piuttostoquella innata facoltà specifica di percezione del sacro, la quale è del tuttoeterogenea rispetto alla sfera razionale. Tale conclusione minimizza oaddirittura esclude quanto di interessi e di esigenze di tipo logico-razionaleinterviene anche nel fenomeno religioso, in misura naturalmente diversa neivari contesti”.[21]

Pur senza negare ogni valore alla teoria di Otto, nell’ambito degli studistorico-religiosi si è osservato come posizioni quali, appunto, quella ottianaattuino anche esse un procedimento riduzionistico. Infatti, essa vede nelsentimento del sacro il comune denominatore delle religioni, riproponendocosì un aspetto della vana ricerca di Tylor, e di altri, di un comune

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denominatore di tutte le religioni, una sorta di passe partout minimo edelementare, da cui – nell’impostazione evoluzionistica, ma non in quellaottiana – tutto il resto si sarebbe evoluto. In sostanza sembra che lafenomenologia della religione possa essa stessa risultare riduttiva, quando sirifaccia a teorizzazioni generalizzanti quali, ad esempio, quella ottiana del‘sacro’. Un sacro che, osserva lo storico delle religioni, in nessuna parte delmondo delle religioni appare allo stato puro, non accompagnato dadeterminazioni concettuali specifiche.

Inoltre, mentre le posizioni evoluzionistiche sull’origine e la natura deifatti religiosi, quali quella di Tylor e di Frazer sopra ricordate, attribuivanouna funzione prevalente se non esclusiva agli atteggiamenti razionalistici, lainterpretazione ottiana, di contro, privilegia ed anzi assolutizza quelliirrazionali e sentimentali. “Le due formule interpretative sono entrambecontestabili poiché nel fatto religioso convergono in misura diversa secondo icasi esigenze di tipo logico-razionale ed esigenze di tipo psicologico,sentimentale o anche irrazionale. Tali elementi sono tutti presenti in variamisura nel fenomeno religioso, il quale peraltro deve essere sempreconsiderato nella sua concreta dimensione storica, estremamente varia ediversificata. La formulazione di teorie interpretative è utile per conferireall’indagine storica un carattere più organico e omogeneo e aprire delle pistedi ricerca che possono rivelarsi utili all’analisi e alla comprensione dei singolicontesti, ma l’esigenza interpretativa in senso sistematico può risultarefuorviante se tali teorie pretendono di imporsi sui fatti con categorie tropporigide e assolute, nelle quali essi rientrano soltanto per una parte ovvero percerti aspetti”.[22]

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6. La fenomenologia religiosa

La comparazione storica, come intesa dalla Storia delle religioni,nell’ambito dell’indirizzo metodologico che – pur con significative varianti alsuo interno – fa capo alla figura di R. Pettazzoni e al quale più avantiverremo, si distingue, come sopra accennato, non solo dalla comparazione ditipo evoluzionistico, ma anche dalla comparazione di tipo fenomenologico.Quest’ultima, nelle sue diverse espressioni, come vedremo, intende pervenireall’identificazione di costanti e di tipi ricorrenti, o strutture, che siriproporrebbero identiche a se stesse nel cangiare delle religioni, e, per iltramite di questa identificazione, alla definizione dell’‘essenza’ dellareligione.

Come semplice scienza empirica classificatoria del materiale religioso, lafenomenologia religiosa o fenomenologia della religione è presente già nelXIX secolo con i grandi tentativi di classificazione dei fenomeni religiosi,quali quello elaborato nel suo Lehrbuch der Religionsgeschichte, o ‘Manualedi Storia della religione’ (1877) dall’olandese P.D. Chantepie de la Saussaye(1848-1920), che non intende introdurre un nuovo metodo ma soltantoaffermare l’esigenza – accanto allo studio storico dei fatti religiosi – di unatrattazione di natura sistematica degli stessi e, pertanto, la necessità diindividuare e descrivere categorie religiose (quali culto, idolatria, magia,divinazione, sacrificio, etc.).

In senso più stretto, metodologicamente e filosoficamente impegnato, lafenomenologia della religione è una corrente di studi che ha le sue radicidottrinali nella svolta antipositivistica attuatasi con la filosofia di EdmundHusserl (1859-1938), il quale si è prefisso di ‘andare alle cose’ ovvero diinziare da ciò che la coscienza intuisce immediatamente, e di partire dunquedal fenomeno e non da principi astratti universali. Si tratta di partiredall’esperienza intuitiva come modalità di primaria rilevanza in ambitognoseologico e con essa di andare ai fenomeni ovvero a ciò che ci si mostraal fine di coglierne l’essenza.

Tuttavia, un antecedente – sotto alcuni aspetti – del metodo

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fenomenologico è da taluni visto già in F. Schleiermacher, che si oppone alleforme di riduzione dell’esperienza religiosa sia di carattere razionalistico(per la quale l’esperienza religiosa viene considerata come una formasuperiore di conoscenza o gnosi), sia di carattere moralistico (per la quale –per esempio in E. Kant – la religione è considerata come una formaimperfetta di attività morale). Di contro a siffatte tendenze riduzionistiche,Schleiermacher afferma che la religione non è una conoscenza razionale ouna moralità, ma è “sentimento e gusto dell’infinito” ovvero sentimentodell’infinita dipendenza dell’uomo rispetto a un Qualcosa che infinitamentelo trascende.

Tale posizione – a sua volta criticabile in quanto anch’essa a suo modoriduttiva – inaugura una linea interpretativa che è portata a valorizzare ilnucleo emozionale dell’esperienza religiosa; essa apre la strada, appunto,all’approccio fenomenologico, teso al recupero della religione in una sferaautonoma che non fosse quella del conoscere (riduzione razionalistica) oquella del fare (riduzione moralistica). La fenomenonologia, nell’ambitodello studio dei fenomeni religiosi, si proponeva di combattere ogniatteggiamento riduzionistico, che pretendesse di scoprire l’origine dellareligione riconducendola – e con ciò riducendola – a ciò che religione nonera.

Si intensificarono così le indagini di studiosi che non consentivano coninterpretazioni della religione che presupponessero l’eliminazione dellastessa. Illuminante al riguardo è – per esempio – l’affermazione di Gerardusvan der Leeuw, al quale faremo più avanti riferimento, nella sua operaFenomenologia della religione: “Il senso religioso di una cosa è quello cuinon può succedere nessun altro senso più ampio e profondo. È il senso deltutto, è l’ultima parola”. E così, il nuovo paradigma ermeneutico dellareligione vuole affermare l’autonomia della religione, che ‘comincia con sestessa’ (R. Otto), ovvero la sua specificità e non riducibilità a ciò che non èreligioso.

In particolare essa combatte il paradigma evoluzionistico. Se glievoluzionisti – come pure, con modalità diverse, le scuole storico-culturali –erano tesi a cogliere il momento e il modo del sorgere delle manifestazioni

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religiose, e privilegiavano le culture etnologiche nella convinzione che i‘selvaggi’ fossero i rappresentanti attuali di un’epoca primordiale, ovverorappresentassero l’infanzia dell’umanità, in tale loro tensione a identificare ilseme o inizio della religione, mortificavano la ricchezza del religioso sia nellestesse società arcaiche, sia nelle grandi religioni storiche, ridotte a luoghi disopravvivenze di più arcaiche formazioni religiose. Non nelle culturesuperiori ma nelle culture etnologiche essi cercavano i materiali perdimostrare la validità delle proprie teorie.

I fenomenologi, invece, tentano di identificare l’essenza della religione enon la sua origine, le strutture e non gli stadi della stessa. L’essenza dellareligione che i fenomenologi ritengono di poter identificare si troverebbe giànella sua pienezza ovunque si ha una religione. Non vi è un processodall’embrionale e inferiore al complesso e superiore, in materia di religione.

La fenomenologia religiosa appare tesa a individuare e a valorizzare lapeculiarità del fatto religioso identificando strutture ritenute centralidell’esperienza religiosa. Essa si prefigge dunque di cogliere nella diversitàdei fenomeni religiosi il fenomeno religioso in quanto tale, ovvero di scoprirel’essenza della religione, ciò che permane e si ripropone al di sotto o al di làdelle differenze. Suo scopo è individuare le costanti soggiacenti alle diversità,ovvero le strutture permanenti. E costante fondamentale per la fenomenologiaè già la ‘religione’ intesa come dimensione permanente dell’animo umano laquale consente di parlare dell’uomo come homo religiosus.

Essa è dunque scienza che intende studiare in maniera sistematica ifenomeni religiosi disseminati nel tempo e nello spazio, ordinandoli secondotipi, forme, strutture. Gli studiosi che affrontano le religioni e la religione sudi un piano fenomenologico per il tramite della comparazione vengono aelaborare tipologie di singoli fatti ed elementi religiosi (ad es. il sacrificio, lapreghiera, il mediatore religioso, etc.), e, nell’interpretazione di queste, purtenendo conto dei risultati dell’indagine storica, nello stesso tempo cercano ditrascenderli in una visione atemporale che faccia loro attingere l’essenza deifatti in oggetto, prescindendo dalle diverse specificazioni storiche.

La fenomenologia religiosa intende porsi non soltanto come scienzaautonoma nell’ambito delle scienze che si occupano dei fatti religiosi, ma

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anche come scienza tale da offrire il metodo per eccellenza per comprenderela religione e la vita religiosa.

Se ‘fenomenologia’ è ‘discorso intorno a ciò che appare’, suo oggetto è ilfenomeno ovvero ciò che appare a qualcuno che lo descrive e che per farlodeve immedesimarsi in esso, cioè avere capacità di immedesimazione(Einfühlung), e in qualche modo averne un’esperienza vissuta (Erlebnis).

Essa si accosta pertanto al mondo delle religioni con unaprecomprensione per la quale soltanto chi è religioso può veramentecomprendere il mondo delle religioni, pur con un’oscillazione tra coloro cheritengono che l’avere una certa predisposizione religiosa sia sufficiente acomprendere la religione e coloro che invece ritengono necessarioriconoscere tout court la verità di una esperienza religiosa. Si ricorderà, perinciso, come all’opposto della posizione di chi – come J. Wach o R. Otto –afferma come condizione necessaria da parte dello studioso la condivisione diuna esperienza religiosa, stia la posizione di chi ritiene tale condivisione nonsoltanto non necessaria o ininfluente ma addirittura dannosa, nellaconvinzione che soltanto il non credente possa avere il distacco necessarioper studiare scientificamente la religione. Senza contare che si sono dateposizioni ulteriormente diversificate, quali quelle di chi ha affermato che soloil credente di una religione può adeguatamente parlare della propria e che, nelcaso del non credente, le sue affermazioni devono essere sottoposte al vagliodi credenti di quella religione della quale egli viene a dibattere.

Tornando alla fenomenologia religiosa, in generale si ammette chel’essenza del fatto religioso possa essere colta tramite la capacità intuitiva el’esperienza religiosa del fenomenologo stesso. La fenomenologia è chiamatanon più a quell’erklären, ovvero a quello ‘spiegare’, di stampo positivistico,per il quale la religione era un semplice oggetto di studio, ma è chiamata averstehen, ovvero a ‘comprendere’, i fatti religiosi e a ciò può perveniresolamente mediante una immedesimazione (Einfühlung) da parte dellostudioso nei fatti religiosi stessi, ovvero una sorta di empatia o diimmedesimazione simpatetica del soggetto nei confronti dell’oggetto. Sipreferisce, pertanto, non parlare di ‘definizione’ di religione, come se lareligione fosse un oggetto tra oggetti, ma di ‘comprensione’, ‘intuizione’,

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‘partecipazione’ al mondo religioso. Si tratta, per il soggetto, di coglierel’essenza dell’oggetto in virtù di una sua propria capacità intuitiva. R. Ottopoté affermare che soltanto chi ha la facoltà di percepire il sacro – facoltà inqualche modo simile alla sensibilità artistica – può studiare e capire i fattireligiosi.

Veniamo ora a una presentazione, necessariamente sommaria e selettiva,di figure di primo piano nell’ambito della fenomenologia religiosa.Innanzitutto, possiamo qui soltanto fare i nomi di figure pur rilevanti per lanascita e il primo sviluppo di tale indirizzo metodologico, quali quelle dellosvedese Nathan Söderblom (1866-1931), del norvegese William BredeKristensen (1867-1953) – maestro di G. van der Leeuw, al quale faremo trapoco riferimento –, dell’olandese Claas Jouco Bleeker (1898-1983), deitedeschi Friedrich Heiler (1892-1967), Joachim Wach (1898-1955), GustavMensching (1901-1978).

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6.1 G. van der Leeuw

In quanto ‘metodo del comprendere’, primo grande rappresentante dellafenomenologia della religione può essere considerato Gerardus van derLeeuw (1890-1950), pastore della Chiesa riformata olandese e docente aGroninga. In parte subendo l’influsso di R. Otto, egli afferma che alla basedell’esperienza religiosa sta il sentimento di ‘distanza’ e che l’esperienza delsacro è esperienza di una potenza distante ovvero non accessibile all’uomo,straordinaria ed eccezionale. La sua analisi dei fatti religiosi mira a unatipologia degli stessi che li classifichi per oggetto, per soggetto e per modalitàdi relazione tra l’oggetto e il soggetto.

Riguardo all’oggetto della fenomenologia religiosa, G. van der Leeuwafferma che esso è il fenomeno, ovvero ciò che si mostra (da phainomai, ‘mimostro’, ‘appaio’) e ciò che mostra (phaino, ‘mostro’) il sacro. Dunque, nonè né semplicemente un oggetto, né qualcosa di puramente soggettivo, ma è ilprodotto dell’incontro tra soggetto e oggetto. “Tutta la sua essenza (scil. delfenomeno) consiste nel mostrarsi, nel mostrarsi a qualcuno. Appena ilqualcuno comincia a parlare di ciò che si mostra vi è fenomenologia”. Lafenomenologia è dunque discussione sistematica di ciò che appare.L’indifferenza di tale impostazione a ogni problematica storica appareevidente da affermazioni dello stesso van der Leeuw, quali: “l’ordine disuccessione storica non determina la struttura”, o ancora: “la fenomenologianon sa niente di uno sviluppo storico della religione, a fortiori niente di unaorigine della religione”. Una posizione, questa, che gli sarebbe statarimproverata da parte di R. Pettazzoni, come rileviamo in altro luogo.

Un accenno all’articolazione dell’opera Fenomenologia della religione(Torino 1975,1992; ed. or. Phaenomenologie der Religion, Tübingen 1933)di van der Leeuw può risultare utile per la comprensione del suo metodotipicamente fenomenologico di approccio al fatto religioso.

L’opera si divide in cinque parti.Una prima è dedicata all’esame dell’oggetto della religione, secondo una

scala di valore che risente di un’impostazione latamente evoluzionistica e cheva dalla potenza nella sua (supposta) forma più primitiva, attraverso una serie

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di sviluppi, fino alle idee religiose di ‘padre’ e di ‘assolutamente potente’.Una seconda parte è dedicata al soggetto della religione e vi si esaminano itipi de ‘l’uomo sacro’ (il morto, il re, lo stregone, il santo, etc.), ‘la comunitàsacra’, le concezioni sul sacro nell’uomo (l’anima, etc.). Una terza partestudia i rapporti tra soggetto e oggetto della religione, cioè l’azione esterna(rito, culto, sacrificio) e l’azione interna (mistica, fede, adorazione). Unaquarta parte è dedicata al mondo, ovvero alla cosmologia o origine del mondoe alla escatologia o fine del mondo.

Infine, l’opera tratta delle ‘forme’ (Gestalten) cioè degli atteggiamentigenerali e delle tendenze delle varie religioni, venendo così a proporre unaclassificazione di tipi di religioni che tende a identificarle a secondadell’aspetto o elemento visto in esse come predominante. Di fatto, in sede distudi, è stato segnalato come van der Leeuw sia debitore di alcune concezioniproprie della Gestaltpsychologie o ‘psicologia della forma’, correntepsicologica sviluppatasi nella Germania tra le due Guerre, la quale attribuiscevalore all’elemento psicologico solo nella misura in cui esso si presenta comeun insieme, un tutto dotato di una forma che, sola, dà significato alle parti.Tale teoria starebbe alla base del suo tentativo di classificare le varie religioniin base a ‘figure d’insieme’ secondo le quali esse si presenterebbero nellastoria. Non dunque le diverse forme religiose (animismo, politeismo, etc.)come stadi successivi all’interno di una supposta evoluzione unilinearedell’umanità, ma le religioni ‘storiche’ come strutture indipendenti dal tempo.Così appunto, nell’ultima parte dell’opera, van der Leeuw tratta delle ‘figure’ovvero delle tendenze espresse dalle varie religioni che egli interviene aclassificare a seconda dell’atteggiamento fondamentale nei confronti della‘potenza’ che esse avrebbero assunto e predicato. In tal modo, e volendotrattare soltanto delle religioni storiche e non di quelle dei popoli primitivi(distanziandosi, così, anche in tal modo dalle posizioni degli evoluzionisti)egli identifica le religioni dell’allontanamento e della fuga (come in Cina ilconfucianesimo, nel senso che gli dei sono allontanati il più possibile dallevicende umane; oppure, allorché gli dei sono sfuggiti o negati), delcombattimento (zoroastrismo e manicheismo, con le rispettive nozioni dellalotta tra le forze e il principio del bene con le forze e il principio del male),

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della quiete (che non ha una sua forma storica ma si trova come elementopresente in diverse religioni e specificamente all’interno della ‘mistica’ cheinterviene a caratterizzarle) e dell’inquietudine (come condizione diversa siadalla lotta come dalla pace e che apparirebbe nel teismo come offertodall’ebraismo, dal cristianesimo, dall’islamismo), dello slancio e della forma(la religione greca interpretata alla maniera di Nietzsche come effetto di unadialettica tra ‘dionisiaco’ e ‘apollineo’), dell’infinità e dell’ascesi (induismo),del nulla e della pietà (buddhismo), della volontà e dell’ubbidienza (lareligione di Israele, da intendersi come affermazione di Dio incontrapposizione alla negazione del divino e come ubbidienza nei suoiconfronti), della maestà e dell’umiltà (islamismo), dell’amore(cristianesimo).

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6.2 M. Eliade

Altro – e nella nostra trattazione ultimo – nome particolarmente rilevanteinseribile all’interno della corrente fenomenologica è quello di Mircea Eliade(1907-1986).[23] Va tuttavia segnalato che Eliade preferisce definire ilproprio medoto non ricorrendo al termine di ‘fenomenologia’ ma piuttosto aquelli di ‘morfologia’ e di ‘ermeneutica’.

Di origine rumena, dopo periodi di soggiorno e studio in Francia e inIndia, ottenne la cattedra di Storia delle religioni presso l’Università diChicago. Sua opera particolarmente significativa è il Trattato di Storia dellereligioni (ed. or. Paris 1948, tr. it., Bollati-Boringhieri, Torino 1957, esuccessive riedizioni), che di storico ha soltanto il titolo ma non il metodo, inquanto si tratta, come indica il sottotitolo, di una ‘morfologia del sacro’ovvero di una descrizione di quelle che allo studioso appaiono lefondamentali ierofanie, o ‘manifestazioni del sacro’, forme (morphai)attraverso le quali il sacro si manifesta, ovvero ierofanie celesti (come cielo,sole, luna), terrestri (come acqua, pietre, vegetazione, terra), umano-biologiche (come sessualità e procreazione). Tutti elementi questi che,appartenendo al profano-cosmico, diventano tuttavia ‘simboli’ sacri ovverosegni tangibili di una realtà trascendente che si manifesta in essi e che,facendo ciò, li sacralizza. Appare già come, in tale prospettiva, Eliade siallinei alla considerazione già ottiana del sacro come realtà sussistente.

Una delle sue ultime opere, tuttavia, ossia Storia delle idee e dellecredenze religiose (I-III, tr. it., Sansoni, Firenze 1996; ed. or. Paris 1976-1983), abbandona lo schema tipico delle opere di fenomenologia e dellostesso Trattato eliadiano succitato per abbracciare una impostazione piùstorica e dedicarsi alla analisi di singoli mondi religiosi e dei loro processistorici.

M. Eliade prende decisamente posizione contro ogni genere diriduzionismo e afferma programmaticamente che “un fenomeno religioso nonsi rivelerà come tale che a condizione di essere appreso nella sua propriamodalità, cioè di essere studiato su scala religiosa. Voler filtrare questofenomeno attraverso la fisiologia, la psicologia, la sociologia, l’economia, la

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linguistica, l’arte, etc., significa tradirlo, significa lasciare sfuggire appuntociò che v’è di unico e di irriducibile in esso, cioè il suo carattere sacro” (Ilsacro e il profano, tr. it. Torino 1975, 11; ed. or. 1965). Tutti i fenomenireligiosi, per Eliade, anche i più apparentemente grossolani, vanno presi ‘sulserio’, e anche le ierofanie più primitive, in quanto anch’esse manifestano ilsacro.

Dunque, oltre all’opposizione pregiudiziale tra sacro e profano, a cuiverremo tra poco, tipica di Eliade è la nozione di ‘ierofania’ (da hieron, cosasacra, e phaino, mostro), ove il termine designa – come detto – unamanifestazione del sacro, ovvero un qualche cosa che manifesta il sacro.

Infatti, per Eliade, l’uomo giunge a prendere coscienza del sacro perchéesso si manifesta, cioè si mostra come qualche cosa di altro e di diverso daciò che noi chiamiamo profano (da pro, dinnanzi, e fanum, santuario; da quil’aggettivo latino profanus che indica chi o ciò che rimane davanti alsantuario e dunque fuori da esso, fuori dal luogo ove si celebra un ritoreligioso).

Per Eliade la storia delle religioni, dalle primitive alle più elaborate, ècostituita dall’accumularsi di ierofanie ovvero di manifestazioni del sacro. Ilsacro può apparire in una pietra, in una pianta, in un astro, ma si tratteràsempre della manifestazione di un qualche cosa che è fuori dell’ordinario.Tale cosa, animale, pianta o altro, diventa ganz anderes, ovvero ‘tutt’altro’,rispetto agli altri elementi della stessa specie, pur restando se stesso: cioè simanifesta pieno di un qualche cosa d’altro, di una potenza, agli occhi dicoloro che lo percepiscono come sacro. Dalla ierofania più elementare, peresempio la manifestazione del sacro in un oggetto come una pietra o in unalbero, fino alla ierofania suprema che per un cristiano è l’incarnazione diDio in Gesù Cristo. In tale prospettiva eliadiana la differenza tra le variereligioni cade sull’oggetto, o, più in generale, sulla realtà in cui il sacro simanifesta, non su ciò che si manifesta, il ‘tutt’altro’.

Nel suo Trattato di storia delle religioni (titolo che, nella traduzioneinglese dell’opera, significativamente suona Patterns in ComparativeReligion), egli cataloga le differenti modalità (patterns, appunto) dimanifestazione del sacro, stabilite sulla base di tratti comuni costituenti una

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modalità unitaria, ma presenti in religioni distanti nel tempo e nello spazio. Siha così più che una storia delle religioni, una morfologia del sacro, ovverouna descrizione delle forme (morphai) di manifestazione del sacro. L’unità diierofanie appartenenti a religioni differenti e distanti spazio-temporalmente èspiegata dall’archetipo, essendo gli archetipi – nella riflessione eliadiana –‘modelli esemplari’, paradigmi, quali sono i grandi temi mitici, i personaggi ele immagini delle origini, laddove per Carl Gustav Jung (1875-1961) gliarchetipi sono piuttosto strutture dell’inconscio collettivo che riemergono intempi e luoghi diversi.

In sostanza, per Eliade, le ierofanie presentano – accanto a unadimensione storica – una struttura astorica, nella misura in cui incarnanoarchetipi o ‘modelli esemplari’. In altre parole, la molteplicità delle ierofanieche sono sempre storiche in quanto si producono sempre in determinatesituazioni, si compone con la unicità, universalità e astoricità dell’archetipo omodello esemplare a cui esse rimandano.[24]

In tale prospettiva eliadiana, la comparazione è orientata a rilevare lemanifestazioni nella storia di archetipi metastorici. Delle ierofanie, si pensi adesempio a quella dell’‘albero cosmico’, l’axis mundi, le diverse varianti chesi possono riscontrare in diverse parti del mondo e in culture diverse, tutte siriferirebbero a un metastorico archetipo dal quale si differenzierebbero solosecondo una maggiore o minore prossimità ad esso. Invece, la ricerca storicae più specificamente storico-comparativa appare interessata, in relazione adette varianti, a porre problemi di genesi, di sviluppo, di diffusione, diinflussi reciproci esercitati e subiti.

Alla ierofania si collega il simbolo, il quale, peraltro, si distingue da essanel senso che la prolunga e la sostituisce ove essa manchi. Il simbolo rivela(ovvero fa conoscere qualcosa non conoscibile per altre vie) una realtà sacrache nessun’altra manifestazione è in grado di rivelare e realizza la solidarietàpermanente con la sacralità, ovvero connette nel presente l’uomo al sacro.Archetipi, ierofanie e simboli, tutti segni che rivelano il sacro, si manifestanonella storia ma al contempo la trascendono, come il sacro che essi esprimonotrascende la storia, anche dal punto di vista temporale, nel senso che laprecede e la fonda, come rivelerebbero i miti, che sono narrazioni di eventi

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fondanti espressisi alle origini, e come attesterebbero i riti, che sonoriattualizzazioni, nel tempo, della pienezza e sacralità delle origini.

Ci troviamo così di fronte alla nozione eliadiana dell’eterno ritorno,secondo la quale il sacro trascende la storia nel senso che il sacro la risolve ela annulla in sé facendola ritornare al momento in cui la crezione emerse dalcaos.[25] Di fatto, con la nozione dell’‘eterno ritorno’, si designa quellaparticolare interpretazione che Eliade offre dei miti e dei riti in quanto mezzi– il compimento di riti, come, in particolare, quelli di capodanno, e larecitazione di miti – per restaurare l’integrità delle origini attraverso unciclico ritorno del cosmo a quelle condizioni iniziali da cui il cosmo sarebbeemerso nella sua ordinata perfezione, e un altrettanto ciclico volgersi deltempo che periodicamente rigenera se stesso.

Veniamo così a illuminare la nozione eliadiana di ‘religione’.Per Mircea Eliade la religione è esperienza del sacro, e l’homo religiosus

è colui che sperimenta il sacro attraverso le irofanie e attraverso lacomprensione del significato dei simboli che lo rendono presente nel mondo.

Tuttavia la nozione eliadiana di sacro deve essere approfondita. Caratteredistintivo del sacro è costituito dal suo opporsi al profano, trattandosi di unarealtà, il sacro, che è un qualcosa di completamente diverso, un ‘tutt’altro’ inquanto non appartiene al nostro mondo e agli oggetti che fanno parteintegrante del nostro mondo.[26]

Il sacro è, dunque, nell’interpretazione eliadiana, ciò che si oppone alprofano, e l’opposizione tra sacro e profano appare a Eliade la chiave perintendere la religione. Tale opposizione viene da Eliade, per così dire,fondamentalmente ‘diacronizzata’ ovvero collocata sull’asse del ‘prima’ e del‘dopo’.

In lui, il sacro coincide con il primordiale, integro e perfetto, luogo diverità e di significato. Il profano coincide con lo storico, il fluire incessante ecaotico degli eventi, decaduto e imperfetto rispetto al primordiale. Lareligione viene così a essere interpretata da Eliade in relazione allacontrapposizione tra l’idea della perfezione delle origini e quella della miseriadella storia. Religione è evasione dalla storia, è reintegrazione della pienezzaoriginaria, del tempo delle origini contrapposto al tempo della storia.

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Se l’uomo primitivo – afferma Eliade – vive immerso nel tempooriginario e tutti i suoi atti significativi sono religiosi – ponendosi dunquecome l’homo religiosus perfetto, ben lontano dalla immagine che ne aveval’evoluzionismo ottocentesco – l’uomo moderno, immerso nel profano,entusiasta ed ebbro della storia, sente la nostalgia del sacro, che è – per Eliade– un elemento nella struttura della coscienza e non uno stadio nella storiadella coscienza. Infatti, per Eliade, la tensione dell’uomo verso iltrascendente è intimamente legata alla sua finitezza e l’uomo – pertanto –viene ad essere considerato come fondamentalmente religioso.

Le ierofanie, dunque, e più in generale gli archetipi, cacciati – nellamodernità – dalla porta, rientrano dalla finestra. Al giudeo-cristianesimoEliade attribuisce la responsabilità fondamentale in ordine al processo didemitizzazione in quanto esso avrebbe affermato la profanità delle cosemondane per riconoscere la sacralità solo a Dio. E, contemporaneamente, lostudioso suggerisce come tante espressioni contemporanee attestino unrecupero del sacro, ossia la restaurazione di un tipo di religione astorica,cosmica, spazzata via dal cristianesimo, una religione storica, che – secondoil paradigma ermeneutico eliadiano – risulterebbe un assurdo, poiché per luila storia coincide fondamentalmente con il non religioso. E così un Dioincarnato nella storia, quale il Dio dei cristiani, è un Dio annientato dallastoria.

In tale direzione si pone anche l’interpretazione eliadiana del mito, cheper Eliade è ‘parola sacra’.[27] L’analisi eliadiana del mito si inserisceall’interno della sua concezione circa una opposizione tra tempo degli inizi etempo della storia, ovvero – il che è lo stesso – tra sacro e profano. Il mitoannuncia ciò che è avvenuto in illo tempore e funzione del mito è fissare imodelli esemplari dei riti e di tutte le azioni umane significative. Lanarrazione delle gesta del tempo mitico lo riattualizza e abolisce il tempoprofano, la storia, introducendo l’uomo in una storia sacra, in un temporeligioso, nel tempo ‘eternamente presente’ del mito. Degradazioni del mitosarebbero – ad esempio – le leggende epiche, i romanzi, le ballate, i quali –come il loro ‘progenitore’, il mito – esprimerebbero seppur in formadegradata la perenne nostalgia dell’uomo per la condizione iniziale’

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paradisiaca’, spesso percepita come analoga al tempo e alla condizione finali.Per l’uomo moderno – afferma Eliade – la perdita dei miti autentici della

religione non si traduce nel trionfo della razionalità, manell’industrializzazione consumistica di miti inautentici. L’uomo modernoconserverebbe residui di un comportamento mitico che si rivelerebbero, peresempio, nel desiderio di ritrovare l’intensità con cui si è vissuto o si èconosciuto un qualcosa per la prima volta, o nel desiderio del ‘paradisoperduto’. La fuga di massa verso paradisi turistici si inserirebbe in taleprospettiva.

Giustamente, va però osservato, Eliade riconosce che il tempo nellaconcezione ebraica e cristiana è lineare e irreversibile e che l’atto religiso nonè teso a riattualizzare la cosmogonia ma piuttosto gli interventi divini nellastoria. Il cristiano che partecipa al tempo liturgico riattualizza l’illud tempus,il tempo di Cristo, di Pilato, di Caifa e così via. In questa prospettiva il tempodi Cristo è ‘primordiale’ ma in un senso particolare, ovvero, non è più iltempo prima del quale non vi era il tempo, ma è il tempo di un evento che sisitua all’interno del tempo profano e che a sua volta è primo e fondanterispetto a un nuovo tempo della storia umana.

Un’ultima precisazione in merito alla nozione di homo religiosus,centrale nel pensiero fenomenologico, e nello specifico in quello di MirceaEliade, e assunta in parte della produzione scientifica di Julien Ries, al qualeverremo più avanti. In Eliade, l’espressione homo religiosus coprefondamentalmente tre significati: in primo luogo, essa indica l’umanità neisuoi aspetti religiosi; in secondo luogo, l’uomo inserito nelle societàtradizionali arcaiche o ‘primitive’; in terzo luogo, l’essere l’uomostrutturalmente tendente al trascendente e al superamento della precarietà efinitezza della propria condizione.

Pertanto, la nozione di homo religiosus, che viene a indicare – in questosuo ultimo senso che è il più importante all’interno della metodologiaeliadiana – come l’umanità risulti essere naturaliter religiosa, può essereassunta come la base di una ‘antropologia religiosa’, quale espressa econdotta da studiosi come J. Ries.

Avremo più avanti modo di esporre le critiche che esponenti di un

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approccio storico alle religioni muovono all’ermeneutica eliadiana e, più ingenerale, a interpretazioni fenomenologiche dei fatti religiosi. Infatti, storicidelle religioni come Bianchi, se riconoscono alla morfologia eliadiana diessere più attenta ai contesti storico-culturali di quanto non lo siano lafenomenologia di R. Otto e quella di G. Van der Leeuw, purtuttaviasottolineano i problemi che solleva alla luce dell’indagine storica la teoriaeliadiana degli archetipi: questi, se per Eliade hanno una vita in sé, unacompletezza di significato che attraversa la storia, anche al di là dellacoscienza che ne hanno i rispettivi portatori, e dunque in qualche modo sonocome plananti sulla storia, per Pettazzoni sono storicamente condizionati, nelsenso che è possibile storicizzare la nascita di queste idee madri, quali adesempio il mito dell’‘eterno ritorno’ che avrebbe connessioni con una civiltàagricola che conosce i ritmi della vita e della morte dei vegetali.

All’approccio storico fa particolare problema anche la concezioneeliadiana per la quale la religione non è mai allo stato puro ma appare semprecondizionata dalla storia. Di fatto, lo storico delle religioni osserva che lastoria non è qualcosa che si aggiunga alla religione rendendola meno pura,perché le religioni sono fatti storici. I mezzi della ricerca storica e storico-comparativa non colgono un ‘sacro’ allo stato puro, un sacro astorico, ma loincontrano nelle culture. La riflessione di Eliade come già quella di Ottopossono essere utilizzate in sede filosofica ma non in sede storica.

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7. R. Pettazzoni e la nascita in Italia della Storia delle religioni

In una feconda dialettica sia con le posizioni antievoluzionistiche di W.Schmidt, sia con la fenomenologia religiosa, in Italia R. Pettazzoni (1883-1959), primo titolare della cattedra di Storia delle religioni istituita nel 1923all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, e fondatore nel 1925 della rivistascientifica Studi e Materiali di Storia delle Religioni, elabora la sua propostametodologica, che ammette la Storia delle religioni (o, come lui preferiscechiamare la nuova disciplina, la Scienza delle religioni), come disciplinaautonoma fondata sul metodo storico-comparativo e avente come oggetto lareligione e, meglio, le religioni.

Se il panorama degli studi storico-religiosi in Italia conobbe prima di luialtri importanti nomi, come Baldassarre Labanca (1829-1913), primo titolareall’Università di Roma di un insegnamento di Storia delle religioni (benpresto trasformatosi in Storia del cristanesimo), o Uberto Pestalozza (1872-1966), primo libero docente della materia dal 1911 e titolare dal 1939 dellacattedra di Storia delle religioni all’Università di Milano, fu con Pettazzoniche si affermò quella metodologia comparativistica che avrebbe caratterizzatogli studi sviluppatisi in Italia sulle orme del suo insegnamento.

Se il metodo storico-comparativo applicato allo studio dei fatti religiosiera praticato in diversi paesi del mondo, fu in Italia con Raffaele Pettazzoniche esso ricevette la sua più articolata giustificazione teorica. E ciò proprio inun momento storico e in un contesto culturale segnato dalla posizionefilosofica e storiografica crociana, la quale, da un lato, non riconoscendoun’autonomia categoriale al momento religioso (ovvero affermando che lareligione non è una categoria autonoma, come lo sono l’estetica, la logica,l’economia e l’etica, ma è un sottoprodotto delle categorie della logica edell’etica), non ammetteva la religione come sfera d’indagine autonoma;dall’altro lato, non ammetteva neppure il comparativismo quale strumentoutile alla ricerca storica, considerando il metodo comparativo ‘contraddizioneassoluta della storia’. Di fatto, combatteva una comparazione che, per lo piùancorata a una mentalità di tipo evoluzionistico, tendeva – come visto – a far

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risalire le diverse forme religiose alla loro presunta origine primitiva, noncurando il momento creativo della storia cui esse dovevano la loro precisaindividualità.

Comunque, laddove con B. Croce si veniva alla negazione assolutadell’autonomia della religione, e, per contro, con la fenomenologia religiosasi veniva ad affermare l’assoluta autonomia della religione, con Pettazzoni siviene ad affermare l’autonomi ‘relativa’ della religione, nel senso che lareligione appare irriducibile alle altre espressioni della cultura, ma non scioltada esse, appunto absoluta, bensì intimamente legata ad esse, nel momento incui essa si manifesta nella storia.

R. Pettazzoni – che intrattenne con M. Eliade un lungo e scientificamenteimportante colloquio epistolare pubblicato in anni recenti –[28] riconosce aEliade un merito fondamentale, quello di avere salvaguardato il valorespecifico della religione nella vita dello spirito, di contro alla posizione tipicadello storicismo assoluto crociano tendente a risolvere la religionenell’esperienza etica. Ciò che invece, per Pettazzoni, manca, non solo aEliade ma più in generale alla fenomenologia, è l’idea di svolgimento, che,per contro, è al centro del pensiero storicistico, laddove allo storicismo risulta– invece – estranea quella istanza che per la fenomenologia è fondamentale,ovvero il riconoscimento della religione come valore autonomo.

In sostanza, per Pettazzoni la Storia delle religioni (o, come preferiscechiamarla, la Scienza delle religioni) deve venire ad operare una integrazionetra istanze dello storicismo e istanze della fenomenologia. “L’idea disvolgimento è (...) al centro del pensiero storicistico, mentre allo storicismo èestranea quella istanza che per la fenomenologia è fondamentale, cioè ilriconoscimento della religione come valore autonomo”. Allora “si tratta –afferma Pettazzoni – di superare le posizioni unilaterali della fenomenologiae dello storicismo integrandole reciprocamente, e cioè potenziando lafenomenologia religiosa col concetto storicistico di svolgimento e lastoriografia storicistica con l’istanza fenomenologica del valore autonomodella religione, restando con ciò risolta la fenomenologia nella storia, einsieme riconosciuto alla storia religiosa il carattere di scienza storicaqualificata”.[29]

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Di contro alle posizioni programmatiche – sopra evocate – dellafenomenologia religiosa, e segnatamente a quelle di G. van der Leeuw,Pettazzoni afferma: “intendendo il fenomeno religioso come ‘apparizione’ o‘rivelazione’ del sacro, e come esperienza del sacro, la fenomenologia dellareligione deliberatamente ignora quell’altro modo di pensare e di intenderepel quale ogni phainomenon è un genomenon, ogni apparizione presupponeuna formazione e ogni evento ha dietro di sé un processo di sviluppo”.[30]

Infatti, se ogni phainomenon è un genomenon, e dunque per comprendereun qualsiasi fatto culturale e pertanto anche i fatti religiosi occorrericostruirne – per quanto possibile – la genesi e seguirne gli sviluppi, lacomparazione non deve essere tra phainomena ma tra genomena.

Del resto, per quanto riguarda il rapporto tra struttura fenomenologica esvolgimento storico Pettazzoni riteneva che la fenomenologia e la storia,intese come metodi di ricerca, si completassero a vicenda, nel senso che lafenomenologia “non può fare a meno di filologia, etnologia e altre disciplinestoriche. La fenomenologia d’altra parte dà alle scienze storiche quel sensodel religioso che esse non possono affermare. Così concepita lafenomenologia religiosa è la comprensione (Verständnis) religiosa dellastoria; è la storia nella sua dimensione religiosa”. E ancora: “Lafenomenologia religiosa e la storia non sono due scienze, ma due aspetticomplementari della scienza delle religioni integrale”.[31]

Una posizione, questa di Pettazzoni, diversa certamente da quella diEliade, per il quale lo studio storico dei fatti religiosi si riduce a fornire imateriali per l’edificazione di una morfologia sistematica, nella quale laparola ultima è demandata alla ermeneutica che sola può comprendere einterpretare i fatti religiosi.

E una posizione, sempre quella di Pettazzoni in merito al rapporto traindagine storica e indagine fenomenologica, ovvero circa la opportunità diintegrare la Storia delle religioni con la Fenomenologia religiosa, che a suavolta è stata criticata dal suo allievo U. Bianchi.[32] Questi obbietta aPettazzoni che non si vede perché lo storico, così come percepisce ilmomento economico, artistico, etico, quello del pensiero speculativo, nondebba poi essere in grado di percepire il momento del religioso, e abbia

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invece bisogno di una speciale sensibilità, quella del fenomenologo, percoglierlo. Per Bianchi, infatti, lo storico, in quanto tale e cioè da storico, puòpercepire il momento del religioso, nel contesto della ricerca storico-comparativa applicata al religioso.

A differenza di Pettazzoni, Bianchi rivendica alla disciplina ‘storia dellereligioni’[33] (che Pettazzoni – come abbiamo visto – voleva solo come uncapitolo, accanto a quello costituito dalla fenomenologia, di una più vasta ecomprensiva ‘scienza delle religioni’) la capacità di cogliere la dimensionereligiosa dei fatti, ovvero una particolare sensibilità a percepirli e distinguerliin tale dimensione – e dunque, senza bisogno dei puntelli teorici offerti dallafenomenologia – quando si avvicini ad essi in maniera non unilaterale, liberanello stesso tempo da concetti elaborati a priori e da propensionipregiudizialmente riduzionistiche.[34] Afferma così – U. Bianchi – le ragionidi “una ricerca storica che, esaminando il suo oggetto sotto tutti i profili,riesce nel fatto a coglierne le caratteristiche irriducibili e quindi l’autonomia,senza presupposti ‘fenomenologici’”.[35]

Tocchiamo qui un punto nevralgico nei dibattiti trascorsi e in quellicontemporanei tra le discipline che si occupano di fatti religiosi, vuoiidiograficamente vuoi comparativamente, vale a dire l’autonomia delreligioso e dunque la sua irriducibilità a ciò che non è religioso. Un tema,questo, sul quale avremo modo di ritornare.

Anche per quanto concerne le modalità e gli scopi della ‘comparazione’nell’ambito della ricerca storica, Pettazzoni viene a intendere lacomparazione in maniera diversa sia dalla comparazione evoluzionistica(anche se risentono di un’impostazione latamente evoluzionistica suoi primistudi, come quello dedicato alla confessione dei peccati, nel quale laconfessione avrebbe delle radici magiche) sia dalla comparazionefenomenologica. Si tratta per lui, infatti, di una comparazione storica, la qualenon è una comparazione ‘orizzontale’ di fenomeni, ma è comparazione diprocessi storici, non di tratti statici ma di processi dinamici. Esemplare di taleimpostazione risulta, ad esempio, la sua opera dedicata alla religione dellaGrecia antica,[36] che egli ritiene spiegabile solo se inserita nella globalitàdella civiltà greca, che è una realtà storica da spiegare nella sua formazione e

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nel suo sviluppo, i quali – formazione e sviluppo – possono essere intesi nellaloro specificità solo se comparati con processi analoghi – non identici – diformazione e di sviluppo di altre civiltà del mondo antico.

Quanto specificamente agli scopi, Pettazzoni ritiene che unacomparazione meramente descrittiva e classificatoria non porti a nulla. “Insede metodologica si tratta di vedere se la comparazione non possa esserealtro che una meccanica registrazione di somiglianze e differenze, o se non sidia – invece – una comparazione che, superando il momento descrittivo eclassificatorio, valga a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti eall’approfondimento della coscienza storica”.[37]

Si tratta inoltre, nella sua idea, di una comparazione differenziante, tesanon a livellare e a ridurre le differenze ma a differenziare e a cogliere, oltrealle trame fondamentali comuni, anche le irripetibili soluzioni creativeconcrete, ovvero la unicità e irripetibilità delle singole formazioni storiche.

Un approccio comparativo di tal genere interviene a caratterizzare, purnelle diversità di campi di indagine e di altri importanti aspetti di metodo, gliindirizzi metodologici dei tre studiosi che risultarono vincitori – nell’ordineindicato – nel 1958 al concorso a cattedra per la successione a Pettazzoniall’Università di Roma. Ovvero: Angelo Brelich (1914-1977), non allievodiretto di Pettazzoni, ma cooptato nella sua scuola dopo essere giunto in Italiadall’Ungheria ove aveva studiato con K. Kerényi; Ernesto De Martino (1908-1965), allievo di A. Omodeo a Napoli; Ugo Bianchi (1922-1995), allievo diPettazzoni. Dell’indirizzo metodologico pettazzoniano risentono anche glistudi di altri suoi allievi come Vittorio Lanternari (1918-2010) e DarioSabbatucci (1923-2002).[38]

Nel prosieguo della nostra trattazione emergeranno ampi aspetti delfecondo dibattito metodologico principiato in quella stagione di studi, etutt’ora in corso, in merito all’oggetto e al metodo della Storia delle religionicome disciplina storico-comparativa, nonché ai principali temi e problemidella disciplina.

Del dibattito, nello specifico, che venne a opporre Pettazzoni e suoiallievi alle posizioni fenomenologiche e in particolare a quelle di Eliade,meritano qui almeno un cenno le riserve suscitate, presso Pettazzoni e la sua

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scuola, dal concetto eliadiano di religione come reintegrazione della pienezzaoriginaria e restaurazione del tempo mitico contrapposto al tempo dellastoria, ovvero l’idea eliadiana che la religione mostri l’“incoercibile desiderioumano di trascendere il tempo e la storia”. Un’ermeneutica, quella eliadiana,che del resto comanda anche specifici temi religiosi, quali quello dellaconfessione dei peccati, che fu peraltro un tema centrale negli studipettazzoniani.[39] Eliade, coerentemente con i principi della propriaermeneutica, interpreta la prassi confessionale come mezzo rituale perliberarsi dalla memoria di azioni, i ‘peccati’, non conformi ai modelliarchetipici e di conseguenza come mezzo, ancora una volta, per liberarsi dalpeso della storia.

R. Pettazzoni, dunque, osserva che l’idea per la quale l’esecuzione di unrito trasferisca ipso facto fuori dal mondo profano in quel mondo del tempomitico che è il solo reale e significativo per l’uomo religioso, è effettivamentepresente nel ritualismo indiano ma non è corretto generalizzarla. Piuttosto, larievocazione rituale degli eventi mitici (ad esempio la recitazione del mitodella creazione, l’Enuma Elish, in occasione del Capodanno babilonese)serve a fondare la realtà e il tempo profano, a garantirli e non ad abolirli,mediante la ripetizione dell’evento mitico fondante in illo tempore la realtàattuale. Pettazzoni stesso parla di una ‘verità del mito’, come avremo modopiù avanti di considerare, nel senso che il mito fonda la realtà attuale edanche, procedendo da un pensiero logico, risponde al bisogno umano dicomprendere il perché di eventi umani, come ad esempio la morte, ovveroassolve ad una funzione intellettuale.

Anche a U. Bianchi la nozione eliadiana di religione è parsa implicareuna forzatura.[40] Non si vede perché – osserva Bianchi – la religione quatalis debba essere in antipatia così assoluta verso la storia, dal momento chesi può constatare come, in particolare nelle grandi religioni di ascendenzabiblica, oltre che nello zoroastrismo, la religione sia orientata positivamenteverso la storia. Si ricorderà come Eliade, del resto, assoggetti anche ilcristianesimo (del quale pure mette in luce la concezione lineare del tempo dicontro a tematiche dell’eterno ritorno) al proprio consueto modulointerpretativo della storia come caduta, non tenendo adeguatamente conto in

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tal modo né dell’evento centrale dell’ambito cristiano che è l’Incarnazione nédi altre nozioni come quella della felix culpa, e nemmeno di temi già giudaicicome quello del ‘crescete e moltiplicatevi’.

Inoltre, Bianchi contesta la descrizione del sacro come offerta da Eliadein quanto gli pare avere un carattere postulatorio. Innanzitutto, per Bianchi,essa non tiene conto delle risultanze dello studio delle varie religioni chemostrano come il primordiale, nel quale Eliade identifica l’intatta sacralitàperdutasi nel fluire della storia, nelle concezioni religiose abbia almeno dueaspetti, diversi se non opposti, uno per il quale il primordiale si presentacome caotico e informe e uno per il quale esso si offre, invece, come pienezzaoriginaria, intatta e perfetta. Il concetto del sacro eliadiano sarebbecondizionato da una particolare visione del sacro, quella tipica dellatradizione upanishadica e vedantica.

In sostanza, quella di Eliade – per Bianchi – sarebbe una concezioneunivoca della religione e una concezione univoca del sacro (come già quelladi R. Otto), a causa della idea sopra descritta della sacralità di quelle origini(illud tempus) che sole danno senso all’esistenza, tant’è che anche la societàdesacralizzata di oggi – affermava Eliade – sente purtuttavia una profondanostalgia del sacro, di quel sacro che si manifesta nella storia, ma variamentecondizionato dalla storia stessa.

Bianchi invece, come vedremo più diffusamente, ritiene la nozione direligione una nozione non univoca ma analogica, ove l’analogia, comepreciseremo in altro luogo, si riferisce alla presenza di elementi di difformitàinsieme ad elementi di somiglianza che, non sempre gli stessi, legano tuttiquei fatti che – in grazia di tale analogia – chiamiamo religiosi. In sede diricerca positiva, infatti, la presenza di dissomiglianze non meno profondedelle somiglianze riguarda già – secondo l’impostazione metodologica diBianchi – la religione in quanto tale o, meglio, le religioni in quanto tali, enon solo – come riteneva Eliade – i diversi condizionamenti (storici,economici, sociali, e così via) della religione e del sacro.

Depurata dalle sue caratteristiche postulatorie, la posizione di Eliadetuttavia – ritiene Bianchi – va apprezzata in quanto contraria a ogniriduzionismo a priori dei dati religiosi e attenta a indagare pensiero e prassi

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religiosi in tutte le loro pieghe scientificamente indagabili.

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8. Indirizzi di studio recenti

Se la contrapposizione tra i due metodi, espressi rispettivamente dallo‘spiegare’ (proprio dell’approccio evoluzionistico) e dal ‘comprendere’(proprio dell’approccio fenomenologico), aveva segnato un lungo tratto dellastoria della disciplina storico-religiosa, essa è stata successivamenteridimensionata, e, come visto, in una feconda dialettica con entrambi ha presocorpo la proposta metodologica propria della scuola italiana di Storia dellereligioni facente capo agli studi di R. Pettazzoni. Nel frattempo e in anniancor più recenti, nello studio della religione e delle religioni, metodi nuovi sisono affacciati sulla scena e metodi antichi sono stati rivisitati.[41]

Tali metodi sono oggi volentieri accomunati sotto l’etichetta comprensivadi ‘Scienze (o Scienza) delle religioni (o della religione)’, che viene acomprendere – a pari titolo della Storia delle religioni – diverse discipline chesi occupano di religione (o anche di religione) sulla base di approccimetodologici diversi.

Nel contesto culturale germanico, una titolazione comeReligionswissenschaft (Scienza della/e religione/i) viene ad essere unadenominazione alternativa della disciplina ‘Storia delle religioni’ (History ofReligions, Histoire des religions), come altre denominazioni alternative sono,in ambiente anglosassone, Comparative Religion (Religione comparata) eReligious Studies (Studi religiosi). Quando ci si chieda se si tratti didenominazioni sostanzialmente equivalenti, o se, al contrario, esse esprimanomodi diversi di intendere lo statuto della disciplina che intendono indicare,del suo metodo e del suo oggetto, qui si potrà solo osservare chedenominazioni come Comparative Religion e Religious Studies, masoprattutto Religionswissenschaft, vengono oggi a intendere un’ampiadisciplina sistematica in cui il momento euristico, identificato con la ricercastorica, sarebbe soltanto un primo e preliminare gradino rispetto allasuccessiva, indispensabile interpretazione dei fenomeni religiosi affidata adaltre discipline. All’interno di tali ‘contenitori’, la ricerca storica especificamente storico-comparativa, e con essa la disciplina tradizionalmente

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denominata ‘Storia delle religioni’, viene identificata con la semplice ricercaidiografica e descrittiva, in una posizione subordinata rispetto ad approccialtri e diversi, di tipo interpretativo-‘comprensivo’, quali, in particolare,quello della filosofia. In sostanza, dietro la denominazioneReligionswissenschaft (Scienza della/e religione/i) – denominazione che pertaluni oggi si offre come preferibile a quella di Storia delle religioni – sta laconvinzione che le religioni vadano studiate con l’apporto di diversediscipline e che l’apporto dello storico delle religioni sia soltanto quello dioffrire i dati.[42] Il ruolo della Storia delle religioni risulta in tal caso moltosacrificato e comunque subordinato a quello di altre discipline che invece siassumerebbero un compito di maggior impegno. Non è questa la prospettivanella quale – come volevamo far emergere già dalle pagine iniziali delpresente lavoro – intendiamo collocarci.

Con ciò, non si vuol negare che sia auspicabile la collaborazione di piùdiscipline che con metodi diversi studino l’oggetto religioso. Si vuol negareche possa esistere una gerarchia di discipline della quale non è neppure benchiaro quale disciplina costituisca il coronamento. E si vuol negare cheoccorra attendere che altre discipline apportino quell’interpretazione del fattoreligioso e dei fatti religiosi che già la storia delle religioni – entro i limitidella propria metodologia – può offrire. In altre parole, si vuol negare che lostorico delle religioni debba limitarsi a offrire la materia bruta su cui sieserciti l’ermeneutica da parte di altri approcci metodologici.

Detto questo, veniamo ora a offrire un cenno su altre discipline che hannovisto in tempi recenti definirsi il proprio statuto epistemologico e che, sullabase di metodi di studio diversi da quello storico-comparativo proprio dellaStoria delle religioni, pure accostano la religione e le religioni (o talora‘anche’ la religione e le religioni).[43] Tali discipline hanno conosciuto oconoscono fortune diverse e un diverso impatto nella cultura contemporanea.Se di alcune faremo solo rapida menzione, ad altre dedicheremo più ampiatrattazione.

L’antropologia religiosa (in un’accezione diversa da quella propria dellaantropologia sociale durkheimiana di cui sopra) fa riferimento in particolarealla figura e agli studi del belga Julien Ries (1920-2013).[44] Già titolare

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della cattedra di Storia delle religioni a Louvain-la Neuve e cultore inparticolare dello gnosticismo e del manicheismo, creato cardinale nel 2012, lostudioso è venuto progressivamente elaborando una visione che, ispirandosiin particolare a presupposti ottiani ed eliadiani, pone al proprio centro lanozione di homo religiosus, ossia dell’uomo come naturaliter religiosus. Lesue ricerche, che lo vedono anche promotore di grandi opere collettive checoinvolgono specialisti dei diversi ambiti religiosi, intendono illuminare letracce dell’homo religiosus nelle diverse culture a principiare da quelle dellapreistoria.[45]

La categoria di homo religiosus, sulla quale si fonda nella prospettiva diJ. Ries l’antropologia religiosa, non solo si pone come una dimensionedell’‘uomo totale’ accanto alle altre (culturale, sociale, biologica, economica,e così via), ma viene ad esserne la cifra qualificante e la loro sorgente, dalmomento che l’emergere biologico e storico dell’uomo implica la formazionedell’homo religiosus in quanto tale, il quale – in grazia di questa suacostitutiva caratteristica – appare, secondo la prospettiva antropologica inquestione, il produttore di quei ‘complessi simbolici’ che sono le diversetradizioni religiose, costituitesi in tempi, luoghi e situazioni culturali diversi.

Solo un cenno alla psicologia e alla sociologia religiose. La psicologiadella religione è una disciplina psicologica che studia quei comportamenti equegli atteggiamenti che, a livello dell’individuo come a quello di undeterminato gruppo sociale, sono qualificati come religiosi, e cerca dicomprenderne i fattori motivazionali. Pertanto la psicologia religiosa ha,propriamente, quale oggetto non la religione ma la psiche, sia pure nelle suemanifestazioni religiose. Analogamente, la sociologia religiosa ha comeoggetto propriamente non la religione ma la società, sia pure sotto il profilodelle sue dimensioni e manifestazioni religiose. Diversamente, la storia dellereligioni ha per oggetto le religioni. Bianchi[46] ha osservato come, in graziadi ciò, le prime due non possano entrare a pari titolo con la storia dellereligioni nella cosiddetta ‘scienza delle religioni’ né sostituirsi alla ricercastorico-religiosa nello studio dei fatti religiosi, o fare a meno dei dati e deiproblemi posti dalla ricerca storico-religiosa, la quale, sulla base del metodoche la caratterizza, tende ad una presa in considerazione globale e completa

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di tutti gli aspetti, contenuti e circostanze dei fatti religiosi.Ciò non vuol dire negare la legittimità della psicologia della religione e

della sociologia della religione, dei cui apporti – al contrario – l’indaginestorica dei fatti religiosi può avvalersi con profitto, ma soltanto, appunto,tener presente che, essendo oggetto specifico delle due suddette disciplinerispettivamente la psiche e la società, esse risultano inadatte a cogliere lospecifico del fatto religioso che non è riducibile né allo psichico né al sociale(il che non vuol dire – come preciasiamo in altro luogo – ammettere ilreligioso come forma a priori dello spirito, che non spetta alla storiografiapostulare).

Scienze che, invece, e diversamente dalla sociologia e dalla psicologiareligiose, si occupano più espressamente della religione e delle religioni, oltrealla storia delle religioni e alla fenomenologia religiosa, sono principalmentela filosofia della religione (o, secondo altra dizione, delle religioni) e lateologia delle religioni.

Scopo della filosofia della religione è chiarire la portata filosofica deiproblemi e dei concetti religiosi. Tale disciplina si interroga – a partire da unsistema speculativo dato – sul senso e sul significato della religione. Essa sioccupa della pensabilità del fatto religioso e della sua veritatività. Puòlegittimamente emettere, sui fatti religiosi, giudizi di valore e giudizi di veritàentro i limiti della ragione, ovvero alla luce di un sistema filosofico compiuto.E se non può prescindere dai dati obiettivi forniti a lei dallo studio positivodei fatti religiosi, potrà invece, su questa base, procedere autonomamente ingrazia del metodo che le è proprio.[47]

E veniamo alla teologia delle religioni.L’espressione ‘teologia delle religioni’, nella sua più diffusa accezione,

quella del genitivo oggettivo, designa quella parte della teologia cristiana cheha come oggetto e campo di riflessione le religioni non cristiane. In questaaccezione qui – di essa – discutiamo. Ma l’espressione ‘teologia dellereligioni’ può intendersi anche nel senso di un genitivo soggettivo, ovverocome teologia elaborata dall’una o dall’altra delle varie religioni storiche. Difatto, le grandi religioni offrono ciascuna una riflessione ‘teologica’ in meritoalle altre religioni. Anche grandi tradizioni religiose non cristiane, quali ad

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esempio l’induismo, hanno potuto formulare una propria ‘teologia dellereligioni’ coerente con i propri presupposti dottrinari e sulla base della qualeesse intervengono a valutare se stesse in rapporto alle altre religioni e le altrereligioni o loro elementi costitutivi. E pertanto si può parlare di una teologiadelle religioni in ambito induista, in ambito buddhista e così via. Ma quiparleremo della teologia delle religioni come elaborata in ambito cristiano epiù specificamente in ambito cattolico.

La teologia delle religioni (non cristiane) è dunque la valutazione, allaluce della rivelazione biblica e della tradizione della Chiesa, delle religioni edi singoli loro aspetti, ed insieme del fatto stesso della pluralità dellereligioni. Suo compito è offrire i fondamenti teologici che permettono dipensare le religioni nella storia della salvezza.

La teologia delle religioni è chiamata a formulare giudizi di valore e diverità sulle religioni e su loro pratiche e dottrine, e a interrogarsi sulsignificato della pluralità delle religioni in quanto tale, in rapporto allacoscienza di unicità, verità e assolutezza espressa dal cristianesimo. Hapertanto un carattere normativo e assiologico, in quanto è chiamata a valutarele altre religioni a partire da un quadro di riferimento avente – nel suoorizzonte – valore assoluto. All’interno dell’orizzonte normativo in base alquale il teologo delle religioni si accosta legittimamente alle religioni, sicolloca anche la questione della definizione di ‘religione’, questione che lateologia delle religioni – diversamente dalla Storia delle religioni – puòaffrontare e risolvere partendo da una definizione ottimale di ‘religione’, equestione che comunque risulta orientata all’altra, primaria, che è costituitadalla definizione della vera religione.

Storicamente,[48] la teologia delle religioni non cristiane si è sviluppatain rapporto agli studi comparatisti dell’’800 che hanno portato a una migliorconoscenza delle diverse tradizioni religiose nei loro aspetti di continuità e didiscontinuità tra di loro e in rapporto al cristianesimo. La ‘teologia dellereligioni’ è una disciplina abbastanza giovane, e in particolare lo ènell’ambito della teologia cattolica, ma la riflessione a partire dall’orizzontedei testi biblici, vetero e neotestamentari, sul valore e sul significato dellereligioni, è antica quanto i primi testi dei Padri Apostolici, e comunque si

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trova in nuce già negli stessi testi biblici.La questione del rapporto tra religione cristiana e altre religioni si è posta

alle chiese protestanti prima che altrove ed in maniera particolarmenteproblematica, condizionata, del resto, dalle posizioni teologiche intrinseche alprotestantesimo stesso e nello specifico, da un lato, dall’idea dellacontrapposizione assoluta tra mondo della fede e mondo non cristiano, e,dall’altro lato, da tendenze di segno opposto, di tipo relativistico.

Si sono delineate così, nella prima metà del XX secolo, due tendenzeopposte per quanto riguarda la teologia protestante delle religioni. Una primatendenza, che fa fondamentalmente riferimento a Hendrik Kraemer (1888-1965), afferma una irriducibile discontinuità tra il messaggio cristiano equello delle altre religioni. Una seconda tendenza (espressasi ad es. inWilliam Ernest Hocking, 1873-1966) vede invece una profonda continuitànel seno delle esperienze religiose dell’umanità.

La teologia cattolica, esplicitando posizioni tradizionali già offerte dascrittori ecclesiastici e Padri della Chiesa, è venuta a formalizzare l’idea dellapresenza di valori religiosi perenni che, pur variamente commisti a posizioniinconciliabili con la fede e l’etica biblica e cristiana, attraversano fin daiprimissimi tempi la storia religiosa dell’umanità. Ma è soprattutto con ilConcilio Vaticano II che viene formalizzato nell’ambito della teologiacattolica il paradigma di una ‘teologia delle religioni’ non cristiane. Lefondamenta di questo paradigma si trovano nella ‘Dichiarazione sullerelazioni della Chiesa con le religioni non cristiane’, definita – dalle sueparole iniziali – Nostra Aetate, promulgata nell’ottobre del 1965. Taledocumento si pone di fronte alle religioni non cristiane in una maniera – inparte – nuova in rapporto ad altri documenti ecclesiastici. La novità risultagià dal fatto di avere considerato non più le religioni non cristiane come unasorta di realtà unitaria, ma di avere affrontato le principali religioni noncristiane singolarmente, nelle loro specifiche e differenziate caratteristiche.Infatti, il documento conciliare Nostra Aetate, pur nella brevità del testo, faattento riferimento alle peculiarità di ognuna delle religioni prese inconsiderazione, le grandi religioni viventi, senza indulgere ad unaconsiderazione ‘riduttiva’ delle religioni non cristiane, ovvero ad una

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considerazione che, concentrandosi su aspetti di quelle stesse religioni che aprima vista potrebbero apparire più comprensibili o più vicini ad aspetti delcristianesimo, mettesse in disparte altri aspetti pure essenziali. “Ognireligione chiede di essere conosciuta, capita nella sua integralità, nei suoipensieri dominanti, nelle sue radici spirituali. Ogni religione ha il diritto diessere indagata per quello che essa volle o vuole dire, e non soltanto per ciòche in essa a noi può a primo approccio interessare o appellare. In questo stapure la felice coincidenza dell’esigenza scientifica dello storico delle religionie dell’esigenza pure scientifica del teologo”.[49]

Torniamo alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate. Programmaoriginario del Concilio Vaticano II (1962-1965), per quanto concerne laquestione del rapporto tra il cristianesimo e le religioni non cristiane, eravarare solamente una dichiarazione sul rapporto tra cristianesimo edebraismo. Tuttavia, anche in grazia dello stimolo costituito dalla riflessioneche negli anni ’50 e ’60 andava svolgendo Joseph Ratzinger sul rapporto trala fede cristiana e le altre religioni, nella sua qualità di docente di teologiafondamentale in alcune università tedesche, le consultazioni dei padriconciliari andarono oltre il tema originario dell’ebraismo e portarono allapromulgazione del documento Nostra Aetate, riferito, appunto, anche allealtre grandi religioni non cristiane.

La menzione di tale documento ci porta qui a una precisazione.Dobbiamo ribadire, infatti, che la riflessione sul valore veritativo e sul valoresalvifico delle religioni non pertiene alla Storia delle religioni ma allateologia, sia fondamentale sia applicata, come la teologia delle religioni,appunto, che è una riflessione teologica sulle religioni. Tuttavia, allepropblematiche proprie della teologia delle religioni la Storia delle religionipuò giovare con i propri dati e già con i problemi che essa pone e suscita.Come si può constatare qualora si consideri la visione non ‘omogeneizzante’ma differenziata delle religioni espressa dal documento conciliare NostraAetate. Il documento, dopo aver descritto la domanda religiosa come unacomponente essenziale della natura umana, aver sottolineato il caratterecomunitario della religione a partire dalla stessa natura sociale dell’uomo, eaver additato le religioni come sistemi socioculturali che si offrono quali

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tentativi di dare ‘risposta ai misteriosi enigmi che turbano profondamente ilcuore dell’uomo’, ma che non possono tuttavia comunicare da sé la salvezza,viene a differenziare le diverse religioni sulla base del loro diverso rapportocon Cristo, venendo a trattare in maniera particolare delle religioni legate alprogresso della cultura, citando l’induismo e il buddismo, e più diffusamentela religione musulmana e la religione ebraica. Nella prospettiva dellamissione della Chiesa come ‘sacramento universale di salvezza’ in GesùCristo, i cistiani sono invitati a un atteggiamento di testimonianza, diannuncio e insieme di dialogo, cioè di conoscenza, ascolto e collaborazioneverso i seguaci delle altre religioni. A queste la Chiesa cattolica guarda conun atteggiamento che il documento stesso definisce di ‘sincero rispetto’ verso‘quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunquein molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia nonraramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini’(NA 2).

I documenti magisteriali, come, appunto, la Nostra Aetate, e già studi chein qualche misura ne preparano le linee fondamentali, quali – tra gli altri –quelli di Jean Daniélou (1905-1974), mostrano come una riflessione teologicasul valore veritativo e salvifico delle religioni non cristiane debba partire dapresupposti teologici fondamentali quali la volontà salvifica universale daparte dell’unico Dio (una universalità del disegno di salvezza palese nelNuovo Testamento,[50] e già espressa da diversi luoghi dell’AnticoTestamento) e la sua iniziativa, in ordine alla salvezza di tutti gli uomini, chesi manifesta con l’invio del Figlio come unico salvatore del mondo, unicomediatore tra Dio e gli uomini.

Non è possibile ripercorrere qui il cammino della teologia delle religioninon cristiane per quanto concerne, appunto, il problema della salvezza extraecclesiam, secondo la formulazione che risale a Origene e S. Cipriano,appunto extra Ecclesiam nulla salus, ovvero “al di fuori della Chiesa non c’e’salvezza”. Tale formulazione, interpretata in specifici contesti e momentistorici in senso esclusivo, ovvero – alla lettera – nel senso che al di fuori dellaChiesa non c’è salvezza, ha ricevuto da tempo e riceve oggi unainterpretazione tesa a valorizzarne il senso di ‘salvezza attraverso la Chiesa’

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se non propriamente ‘nella Chiesa’.[51] Questione teologica particolarmentedibattuta, nell’ambito della teologia delle religioni, è non tanto se gli uominipossano raggiungere la salvezza anche se non appartengono ‘visibilmente’alla Chiesa cattolica,[52] ma se si possa ancora parlare della necessità dellaChiesa per la salvezza, e se questo principio sia compatibile con la volontàsalvifica universale di Dio. A questa questione rispondono diversi documentimagisteriali, nei quali, ribadita la necessità della Chiesa per la salvezza (e ilvalore, ove sia però correttamente interpretata, della già ricordata formulaextra Ecclesiam nulla salus) si ammette un’azione, attraverso vie solo a Dionote, dello Spirito che guida la Chiesa anche presso gli uomini appartenentiad altre religioni, che non siano venuti in contatto con la Chiesa.[53] LaDichiarazione Dominus Iesus. Circa l’unicità e l’universalità salvifica diGesù Cristo e della Chiesa, del 2000, ribadisce, su questa linea, l’universalitàdell’azione salvifica di Cristo la quale, mediante lo Spirito, si estende oltre iconfini visibili della Chiesa a tutta l’umanità, e insieme l’unicità, definitivitàe assolutezza della rivelazione in Cristo.

In questo specifico senso, la visione teologica delle religioni espressa daqueste posizioni non è esclusivista (sostenendo, una posizione ‘esclusivista’,quale ad esempio quella propria di K. Barth – al quale si deve la distinzionetra ‘religione’, che parte dall’uomo, e ‘rivelazione’ che parte da Dio e checostituisce in quanto tale il superamento della religione –, che la salvezza èsolo nel cristianesimo, ovvero solo nella Chiesa), ma è piuttosto ‘inclusivista’(affermando, la tendenza inclusivista in ambito teologico, che la salvezza èpossibile anche agli uomini che sono inseriti in altre religioni, ai quali puògiungere per vie a Dio solo note la efficacia salvifica della redenzione operatada Cristo, e che pertanto anche gli appartenenti ad altre religioni, ai quali nonsia giunto il messaggio cristiano, sono inclusi in qualche modo nell’unicopiano di salvezza che ha come centro Gesù Cristo, unico salvatore).[54]Entrambe le tendenze (la esclusiva e la inclusiva) si differenziano da unaterza, la tendenza ‘pluralista’, la quale, invece, colloca il cristianesimo sulpiano delle altre religioni, non solo nella loro portata veritativa, ma anche perquanto concerne il loro valore salvifico, e riconoscendo una pluralitàd’itinerari salvifici ugualmente validi, perde il dato della assolutezza del

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cristianesimo come pure quello della unicità e universalità della mediazionesalvifica di Cristo.

Al di fuori dei documenti del Magistero, la teologia delle religioni inambito cattolico non ha formulato posizioni univoche. Se il più delle volte,infatti, fa riferimento alla Nostra Aetate esplicitandone e articolandoneulteriormente i contenuti e la prospettiva, altre volte addiviene per vieteoretiche diverse ad approdi notevolmente discordanti tra di loro. Ossia, daun lato, a posizioni esclusiviste e, dall’altro lato, a posizioni pluraliste. Unaparola su queste ultime.

Negli ultimi decenni, sulla scorta di fenomeni socio-culturali diversi,quali la globalizzazione, si sono venute a delineare all’interno della teologiacristiana delle religioni, e anche di quella specificamente cattolica, delle presedi posizione orientate in senso pluralistico, le quali, pur diversificate,[55]vengono, tuttavia, tutte a relativizzare il cristianesimo e le altre tradizionireligiose, asserendo che nessuna religione può ritenersi vera a fronte dellealtre che sarebbero false, e che solo questa posizione renderebbe possibile ildialogo; infatti, come denuncia G. Canobbio, “solo questo permetterebbe dirispettare gli aderenti delle altre fedi e di apprendere da ognuna di questequalcosa di più rispetto a quanto si è già ricevuto. La verità ultima sta‘davanti’ e potrà essere raggiunta attraverso il reciproco ascolto”.[56] Taliposizioni pluraliste negano vi sia verità (definitiva) nella storia, ovveronegano la assolutezza e definitività della rivelazione come riconosciuta dallaTradizione della Chiesa. Sebbene non sia questo il luogo per una disaminadelle tesi pluralistiche e delle critiche levatesi nei confronti di queste da partedi teologi di altro orientamento come pure da parte di documenti magisteriali,si può solo ricordare come tali obiezioni alle tesi pluralistiche abbiano, inparticolare, ribadito la specificità della nozione di ‘rivelazione’ in ambitocristiano: quivi, la rivelazione non coincide con una qualche manifestazionedi Dio e tanto meno con una comunicazione di asserti sulla religione o su Diostesso, bensì con una persona, Gesù di Nazaret. Questo è il senso dellanozione di ‘rivelazione’ nel cristianesimo in rapporto alla nozione dirivelazione pur presente in altre tradizioni religiose. “Nel cristianesimo siassume un concetto di rivelazione che appare problematico alle altre

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tradizioni religiose appunto perché qui si confessa una identificazione di Diocon una storia umana (...). Se re-velatio si dà, questa è nel senso che ilmistero, svelandosi, si fa più fitto, in quanto appare in tutta la sua eccedenza(...). Il cristianesimo non può rinunciare a questa convinzione, pena il perderese stesso. Qualora vi rinunciasse, non potrebbe neppure dialogare con le altretradizioni religiose per il fatto che non avrebbe nulla di originale da portare albanchetto del dialogo”.[57]

Tra i rappresentanti della cosiddetta ‘teologia pluralista delle religioni’,qui basti ricordare, in primo luogo, il teologo presbiteriano americano JohnHick, il quale esprime una posizione teologica orientata a ricercare un’unitàall’interno delle religioni, allorché l’autore si richiama a una ‘verità ultima etrascendente’ che si rispecchierebbe nelle grandi guide spiritualidell’umanità, tra le quali troverebbe posto anche la figura di Gesù Cristo. Insostanza, prendendo le mosse dalla distinzione kantiana tra noumeno efenomeno, ossia tra la cosa in sé e la sua manifestazione, egli afferma chel’uomo non è in grado di raggiungere la Realtà ultima (o ‘il Reale’) in sestessa, ma solamente come essa viene sperimentata e pensata dalle diversecomunità umane. Inoltre, ogni religione, per Hick, va sottoposta aun’interpretazione che distingua tra la ‘esperienza religiosa’ e la sua‘elaborazione concettuale’, secondaria, questa, rispetto a quella, costituendo,la nozione di ‘esperienza’ la categoria epistemologica fondamentale del suopensiero. Tutte le religioni vanno comprese come espressioni dell’esperienzaumana di una Realtà trascendente e ultima (‘the Real’, ‘il Reale’), identico intutte le esperienze religiose e in se stesso inconoscibile. Il cristianesimo è unodegli innumerevoli mondi di fede che girano intorno a tale Realtà e che lariflettono.

Un soggiorno in India fa maturare in lui quella che lui stesso definiscecome una ‘rivoluzione copernicana’ del suo pensiero. Questo viene acaratterizzarsi come ‘teocentrico’, ma in un senso specifico, ossia centrato –come visto – sulla ‘Realtà ultima’ e tale da rinunciare ad esserecristocentrico. Ovvero: viene rifiutata l’identificazione di una singola figurastorica, Gesù di Nazaret, con il Dio vivente, e Cristo viene relativizzato comeuna delle tante figure ideali che nella storia rinviano al ‘totalmente altro’,

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ovvero a Colui che, in quanto assoluto, non può darsi nella storia. La nozionedi Incarnazione deve intendersi – in questa prospettiva – come un’immaginemitica atraverso la quale si viene ad esprimere non un fatto ma unaconvinzione di fede e un atteggiamento verso il Cristo. Secondo J. Hick, lafilosofia postmetafisica occidentale con il suo relativismo si collegaopportunamente con la teologia negativa dell’Asia secondo la quale il divinonon può mai entrare nel mondo delle apparenze e nella sua trascendenzaassoluta rimane al di là di ogni possibilità umana di pensarlo e di parlarne.Avremo modo di ritornare sulla tipica teologia delle religioni di tipo asiatico.In tale prospettiva pluralista, le diverse religioni sono altrettante vie disalvezza.

Altri autori rappresentanti della teologia pluralista delle religioni sono P.Knitter[58] e J. Dupuis. Alle tesi di quest’ultimo, e nello specifico a una suaopera,[59] fa un riferimento critico la nota emessa nel 2001 dallaCongregazione per la dottrina della fede, ove si afferma: “È legittimosostenere che lo Spirito Santo opera la salvezza nei non cristiani anchemediante quegli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni; manon ha alcun fondamento nella teologia cattolica ritenere queste religioni,considerate come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presentilacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio,l’uomo e il mondo. Inoltre, il fatto che gli elementi di verità e di bontàpresenti nelle varie religioni possano preparare i popoli e le culture adaccogliere l’evento salvifico di Gesù Cristo, non comporta che i testi sacridelle altre religioni possano considerarsi complementari all’AnticoTestamento, che è la preparazione immediata allo stesso evento di Cristo”.

Torniamo, ora, alla menzione di altre discipline che, svilupptesi in tempipiuttosto recenti, accostano (anche) il fatto religioso e i fatti religiosi sullabase dei loro specifici metodi di studio, diversi da quello storico-comparativoproprio della Storia delle religioni.[60]

L’ecologia della religione, che si sviluppa a partire dagli anni ’60, vedel’applicazione del concetto di ecologia (intesa come studio biologicodell’interdipendenza tra organismo e ambiente naturale) applicato allo studiodella religione. “L’ecologia della religione è l’esame del rapporto che

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intercorre tra religione e natura, condotto attraverso le discipline degli studireligiosi, della storia delle religioni e dell’antropologia della religione. (...)Dal punto di vista formale ogni religione fa parte della cultura alla qualeappartiene e perciò è soggetta agli approcci metodologici che caratterizzanoin generale la ricerca culturale, tra cui l’approccio ecologico. I vantaggipotranno essere una più profonda comprensione del processo attraverso ilquale si sono formate le religioni e una conoscenza generale della sequenza ditipi di religione classificabili su base ecologica. Ma ci sono due importantilimitazioni per gli studi ecologico-religiosi. In primo luogo essi sonoapplicabili soltanto alle cosiddette culture primitive, o alle culturecaratterizzate da bassa capacità tecnologica, in cui l’impatto dell’ambientesulla cultura ha un peso maggiore di quello della tecnologia (...). In secondoluogo, l’ecologia della religione non può sostituire la storia delle religioni neldiscernere il contenuto religioso, la formazione delle credenze religiose, losviluppo dei miti e dei riti individuali. Soltanto l’organizzazione deglielementi religiosi e la struttura della religione e dei suoi contenuti sonosuscettibili di una trattazione ecologica, ed è in questi campi che l’ecologiadella religione può raggiungere i migliori risultati. (...) Essa pone in evidenziail ruolo creativo dell’adattamento ambientale, per lungo tempo trascuratonegli studi religiosi, ed allo stesso tempo essa completa ma non sostituisce lostudio storico e quello fenomenologico della religione. In particolare essaaiuta a comprendere alcune delle forme fondamentali di religione che sipossono incontrare nelle culture primitive o primarie”.[61]

L’etologia, o studio del comportamento degli animali in rapporto a quelloumano, ove sia applicata allo studio della religione, intende chiarire aspettirituali del comportamento religioso umano in rapporto alla ritualità esplicatadagli animali.

Gli studi ispirati a tale indirizzo metodologico si sono posti di fronte acategorie classificatorie ormai tradizionali nell’ambito degli studi religiosi,quali quelle di mito, rito, sacrificio. Tali categorie, al pari di altre e dellastessa categoria di religione, sono state negli studi degli ultimi decenni spessocontestate se non francamente rifiutate come adeguati strumenti di indagine, aragione della loro origine culturalmente condizionata, di matrice occidentale,

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ovvero giudaico-cristiana e greco-romana. Occorre qui ribadire che “proprioquesto condizionamento culturale, se chiaramente definito e preso in caricodallo studioso, gli permette di muovere da un terreno solido in cui questecategorie si sono formate, assumendo certe connotazioni e accezioni disignificato in relazione a precisi fenomeni storici. Sulla base dellacomparazione, egli potrà quindi allargare la loro applicazione a contestistorico-culturali diversi, a ragione delle analogie e differenze riscontrabili trai fatti riconducibili ad esse con maggiore o minore approssimazione”.[62]

Tornando alle categorie sopra evocate, di mito, di rito e sacrificio, essesono state oggetto in tempi recenti di una teoria interpretativa formulata daWalter Burkert (1931), studioso della Grecia e del Vicino Oriente antichi.Burkert, partendo dall’analisi filologica e documentaria di miti e riti, inparticolare sacrificali, greci e vicino-orientali, perviene a una ipotesiinterpretativa applicabile, nelle intenzioni dello studioso, non solo ai singolicontesti studiati ma anche più in generale ai più diversi contesti storici eculturali. Solo un cenno possiamo qui dedicare alla proposta epistemologicadi Burkert, per gli aspetti che la inseriscono nell’indirizzo metodologico quiillustrato. Nella sua indagine dei miti, ovvero di quei ‘racconti tradizionali’,nel senso di narrazioni significanti per il gruppo umano che, sia presso leculture arcaiche come presso quelle superiori, li ha come propri e li ritienedegni di essere tramandati, lo studioso applica alcuni postulati derivati dalleindagini di Vladimir J. Propp circa le fiabe, inserendoli in un nuovo quadrointerpretativo ispirato alla etologia biologica di Julian Huxley e di KonradLorenz.

Di fatto, egli intende mostrare come i miti esprimano delle sequenzebasate su un complesso programma di azioni; se Propp aveva parlato di‘funzioni’ e ne aveva individuate trentuno nelle fiabe, Burkert ritene diindividuare nei miti le azioni corrispondenti a talune funzioni (nellospecifico, 8-31) dello schema proppiano, e di poter affermare che taleprogramma di azioni sia desunto dalla biologia. Come un topo per laconquista del cibo deve attraversare tutta la serie delle funzioni di ricercaproppiane, così la struttura peculiare del mito in quanto tale, e non solo dispecifici miti appartenenti a specifiche aree cultuali, sarebbe espressa da una

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serie di imperativi: “get, ossia esci, chiedi, trova, combatti per quello che haitrovato, prendi, fuggi”.[63] A una siffatta struttura di base si aggregherebberovarie strutture sovrapposte che esprimerebbero aspetti importanti della vitadella collettività che ha come propri tali miti. Diversamente, poi, dallostrutturalismo che nelle sue indagini sui miti privilegiava l’approcciosincronico perdendo di vista la ineliminabile dimensione storica nella qualel’uomo e le sue espressioni culturali sono sempre inseriti, Burkert riconoscel’importanza di quella dimensione storica che inerisce la trasmissione deiracconti tradizionali comportando mutamenti e adattamenti degli stessi alleparticolari circostanze storiche.

Categorie mutuate dall’etologia biologica intervengono presso Burkertanche a fornire gli strumenti interpretativi della categoria di ‘rito’, che egliconsidera primaria rispetto a quella di mito e fondante quest’ultima. Infatti, lostudioso ritiene di poter affermare come i rituali religiosi si basino su unasequenza di comportamenti che appaiono radicati in un terreno che è insiemequello dell’etologia biologica e delle primordiali esperienze dell’uomocacciatore del Paleolitico. Inoltre, nella propria interpretazione del ‘rito’, lostudioso fa largo spazio al sentimento della paura, che il rito susciterebbe everrebbe a trasferire dalla realtà ad una sfera simbolica, appunto quellarituale, per poter così padroneggiare, in qualche misura, la paura stessa. Insostanza, nel rituale religioso si esprimerebbe il bisogno di rappresentaresentimenti di ansia e di paura per poterli controllare e dirigere verso unasoluzione positiva. Tuttavia, ancora una volta, il simbolismo espresso dairituali religiosi conoscerebbe un’omologia – fatto salvo l’elementotipicamente umano del linguaggio – con l’etologia animale che pureconoscerebbe nei rituali espletati dagli animali degli elementi definibili comesimbolici: al riguardo lo studioso riferisce il caso – studiato dall’etologoLorenz – delle oche selvatiche che, assumendo determinati atteggiamenticome a respingere inesistenti avversari, emettono suoni ‘come se’ li avesserovinti.

Quanto poi a quello specifico atto rituale che è il sacrificio cruento,tradizionale oggetto di studio da parte delle discipline che da prospettivemetodologiche diverse l’hanno accostato, ampia eco ha suscitato la proposta

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interpretativa di Burkert sulle origini e la natura dello stesso. Essa, formulataa partire dalla indagine di materiale documentario greco, vuole porsi comevalida per il fenomeno del sacrificio cruento in quanto tale e dunque vuoleoffrirsi come chiave ermeneutica universale. Partendo ancora una volta dalleacquisizioni dell’etologia in merito all’aggressività intraspecifica comefondamento dei comportamenti animali, Burkert viene a identificare nellaaggressività, ovvero nella violenza dell’uomo sull’uomo, l’atteggiamentoprimario e costitutivo dell’uomo, ed insieme l’origine dell’atteggiamentoreligioso.

Il sacrificio cruento, in tale orizzonte interpretativo, è l’atto religioso chemanifesta e sancisce l’aggressività e l’esperienza fondamentale del sacro èl’uccisione delle vittime: “l’homo religiosus agisce e diventa conscio di sé inquanto homo necans”.[64]

Tali proposte interpretative suscitano serie riserve da parte dello storicodelle religioni, il quale “è indotto dalla metodologia e dagli obiettivi del suolavoro a contestare un uso così massiccio di argomentazioni di tipo biologicoe insieme psicologico nell’analisi e interpretazione dei fatti culturali ereligiosi”.[65] Innanzitutto, per quanto concerne nello specifico la categoriadi ‘mito’, la formula interpretativa di Burkert non si limita a specifici miti mavuole proporsi come valida per tutti i miti e dunque onnicomprensiva,esaustiva e totalizzante, a danno del riconoscimento della irriducibilespecificità dei contesti storici e delle dinamiche storiche. Alla formulainterpretativa di Burkert, di fatto, non riescono ad essere ricondotte alcunecategorie di miti, come i miti delle origini, sia allorché essi si offrono comemiti di creazione, nei quali un personaggio divino o sovrumano interviene aporre i fondamenti della realtà attuale, sia allorché si presentino come mititeogonici e cosmogonici, a partire da entità primordiali ‘abissali’ fino alleattuali divinità che presiedono alla realtà come dispiegatasi a partire da quellestesse entità. Si tratta di narrazioni mitiche che, in ogni caso, non appaionoriconducibili alla sequenza di ‘programmi di azione’ additati dallo studiosocome tali da mostrare la origine bio-etologica dei miti stessi. Per quantoconcerne, poi, l’interpretazione della categoria di rito e nello specifico di ritosacrificale, anche taluni riti noti all’antropologo e allo storico delle religioni

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non contemplano aggressione o spargimento di sangue né si lascianoingabbiare nella teoria del legame fondante tra sentimento della paura e ritoreligioso, un’interpretazione “intrisa di uno psicologismo soggettivista cherischia di sovrapporre ai fenomeni da analizzare l’a priori indimostrato dellateoria personale dello studioso”.[66]

Rimane da ricordare come, sempre nella prospettiva interpretativa sopraevocata, ‘creazione del sacro’, per Burkert, equivalga a ‘creazione di senso’.“La religione offre soluzioni a svariate situazioni critiche ricorrenti nella vitaindividuale. (...) Questo è ciò che l’individuo cerca accettando l’esistenza dientità o anche princìpi non evidenti. Dettagli sconcertanti dell’esperienzatrovano in tal modo il loro posto, e la realtà stessa può ‘avere parola’, lόgonéchein, come direbbero i greci. Questa è la creazione del senso”.[67]

Sulla linea, in cui si colloca anche Burkert, e che oggi è ampiamentepercorsa, tesa a defnire che cosa sia religione per il tramite dell’indagine dicome e perché essa nasca e permanga, si pongono anche le ricerche che leneuroscienze dedicano al fenomeno religioso.

Vanno qui, infatti, segnalati gli studi che applicano alla religione metodi eacquisizioni delle scienze cognitive. Si tratta di un nuovo approcciometodologico diffusosi a partire dagli anni ’90, che prende il nome di Scienzacognitiva della religione (Cognitive Science of Religion).[68]

Essa vede ai suoi inzi in particolare gli studi di Pascal Boyer,[69] di E.Thomas Lawson e di Robert N. McCauley.[70] L’approccio cognitivo aifenomeni religiosi ritiene di poter pervenire a una ‘nuova’ spiegazione deglistessi e della ‘religione’ in quanto tale. La Scienza cognitiva della religione,che è venuta assumendo diverse declinazioni nei suoi diversi esponenti,intende individuare i meccanismi cognitivi che starebbero alla base dellaelaborazione, della trasmissione e dell’accoglimento delle idee religiose.

Nello specifico, tale approccio intende rispondere al perché ricorranocaratteristiche comuni nelle religioni e che cosa renda le idee religiose cosìattrattive per le menti umane. Senza poter entrare qui nel merito delle diverseformulazioni che si ispirano a questo indirizzo metodologico, basterà quiosservare come esse, riservando attenzione pressoché esclusiva al datorazionale del fatto religioso, e trascurandone altre componenti come le

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emozionali, le sentimentali e le affettive, ne offrono una rappresentazionemeramente intellettualistica, e dunque riduttiva, non lontana da forme diriduzionismo razionalistico di tipo kantiano. Esse, inoltre, vengono atrascurare pressoché completamente il significato e il ruolo di quellecomponenti cultuali e rituali che nella quasi generalità dei casi sonocontemplate negli orizzonti religiosi e vi svolgono un ruolo fondamentale.

In sostanza, come osserva la Sfameni Gasparro,[71] la teoria cognitivadella religione, per i limiti qui additati, “pur nella sua conclamata e per alcuniversi reale novità, non manca di ricalcare sentieri antichi e riproporresoluzioni già contestate”.

Gli studi di genere (Gender Studies), poi, applicati ai fenomeni religiosi,declinano secondo le proprie peculiari prospettive la dialetticapotere/religione che offrirebbe la chiave d’interpretazione dei fatti religiosicome fatti in cui risulterebbero predominanti e determinanti le dinamiche dipotere. Nello specifico, tali studi tendono a mostrare come le realtà culturali especificatamente, nel nostro caso, religiose, siano frutto del potere gestito dauomini al pari dell’interpretazione di quelle stesse realtà. Tali studi tendonoaltresì a promuovere la donna come soggetto degli studi stessi e oggetto deimedesimi. In tal senso essi vengono a definirsi anche come ‘studifemministi’.

Un altro ambito d’indagine nel quale ha trovato applicazione la dialetticapotere/religione è quello dei cosiddetti studi post-coloniali, che applicano taledialettica nel rapporto tra l’Occidente e le culture ‘altre’. Si segnalano, alriguardo, gli interventi di Bruce Lincoln (1948) sulla funzione politica delmito (Theorizing Myth. Narrative, Ideology, and Scholarschip, University ofChicago Press, Chicago-London 1999) o dello studioso arabo Talal Asad(1933), per il quale ogni definizione, e nello specifico quella di religione,sarebbe il prodotto di forze di potere, quali quelle del colonizzatore sulcolonizzato, sia questo espresso delle grandi civiltà asiatiche come dalle tribùprimitive. In particolare, tali studi affermano la necessità di dare più spazioalla voce dei ‘locali’ come contraltare a quella degli occidentali. E nellericerche privilegiano i fenomeni (come, ad esempio, i sincretismi africani)nati a seguito dell’impatto dell’Occidente con i mondi ‘altri’.

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In conclusione. Si tratta di approcci metodologici, quelli etologici e quellicognitivi, gli studi di genere e gli studi post-coloniali, che, se fornisconostrumenti utili per comprendere aspetti, contenuti e modalità dei fatti religiosiin relazione a determinate motivazioni e circostanze e a determinati momentistorici, risultano fuorvianti e tali da offrire nuovi esempi di riduzionismiquando pretendano di offrire una chiave interpretativa del fenomeno religiosoin quanto tale.

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CAPITOLO TERZO L’oggetto della Storia delle religioni

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1. La questione della definizione di ‘religione’

L’oggetto della Storia delle religioni è costituito da quei fatti, contesti eprocessi storici, che con termine problematico, e comunque tale da richiedereun adeguato approfondimento in sede scientifica, sono tradizionalmentedefiniti ‘religiosi’: dalle religioni morte (ma nessuna religione ‘morta’ lo èmai totalmente, quasi non fosse mai esistita, dal momento che lascia traccenel modo di sentire e in quello di praticare, anche quando suscita reazioni cheportano al suo superamento) a quelle viventi, da quelle documentate da fontiscritte a quelle documentate solo da fonti orali, dalle grandi religioni storichealle forme ‘religiose’ proprie delle culture ‘tradizionali’, ovvero dei popolisenza scrittura definiti anche con termine improprio ‘primitivi’.

Quanto al suo oggetto, le ‘religioni’, la disciplina si interrogheràprimariamente – dunque – sul temine ‘religione’ stesso.[72] Ovvero, sichiederà che cos’è la ‘religione’[73] e se sia possibile, e come, definire la‘religione’, in sede storico-comparativa. Un problema teorico, certamente,quello della definizione dell’oggetto, e necessario preludio a ogni indaginescientifica, ma anche, nel nostro caso, un problema pratico. Un esempio.Negli Stati Uniti, dapprima, e in Europa, successivamente, a fronte deldilagare di movimenti ‘nuovi’ che si autodefinivano ‘religiosi’, le autorità sitrovarono di fronte al problema di definire in sede legislativa che cosaintendere per ‘religione’ e sulla base di questa identificazione intervenire omeno con sovvenzioni, autorizzazioni e altro. Senza contare come, tra glistessi movimenti, mentre taluni aspiravano o aspirano ad un riconoscimentocome movimenti ‘religiosi’, altri – o gli stessi in momenti diversi dellapropria storia – rinunciavano o rinunciano alla qualifica ‘religiosa’ perpolemica nei confronti di quei contenuti e di quelle istituzioni che il termine‘religione’ veicola e identifica nel loro ambiente d’origine e di primadiffusione.

Connesse con la questione della definizione di religione sono anchequestioni classiche ben note agli studi storico-religiosi: il buddismo è un fattoreligioso oppure è una visione del mondo e dell’uomo non specificamentereligiosa? Si deve intendere come fatto religioso ciò che noi oggi definiamo

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‘magia’ oppure questa è da distinguere sempre e comunque dalla religione?Si dettero o si danno popolazioni prive di religione?

Se previa a ogni studio scientifico è una riflessione critica sui termini chedesignano gli oggetti di studio – poiché occorre in sede scientifica evitare unuso acritico e non avvertito dei termini propri del linguaggio di ognidisciplina – la difficoltà a definire preliminarmente l’oggetto della Storiadelle religioni scaturisce dalla natura stessa del metodo della disciplina inquestione, metodo storico (e, come vedremo, più specificamente storico-comparativo) e dunque basato su una ricerca positivo-induttiva. Il checonferma quella stretta relazione tra oggetto e metodo di una disciplinascientifica, al quale già sopra accennavamo e che appare come una delleprincipali acquisizioni della coscienza epistemologica attuale.

Infatti, una ricerca positivo-induttiva non può presupporre categorie, checostituiranno invece un punto di arrivo della ricerca stessa. Essa parte dai datie arriva a categorizzazioni e definizioni, e non viceversa. D’altra parte ènecessario avere, fin dall’inizio della ricerca, una qualche idea di quali siano idati da prendere in considerazione e quali invece rimangano al di fuoridell’ambito d’indagine. “Definire la religione è compito tanto ineludibilequanto improbo. È infatti evidente che, se una definizione non può prendereil posto di una indagine, quest’ultima non può avere luogo in assenza di unadefinizione”.[74]

Se lo storico delle religioni per delimitare il proprio campo d’indagine edecidere quali fenomeni analizzare e quali, invece, escludere, deve fareesplicito o implicito riferimento a una ‘definizione’ di religione, tuttavia nonpuò appellarsi a definizioni sistematiche, rigide e precostituite, a differenzadel filosofo e del teologo. Costoro, muovendo da una definizione previaritenuta ottimale – sotto il profilo rispettivamente filosofico[75] e teologico –di ciò che in base ai propri presupposti teorici integra la nozione di religione,procedono con un metodo deduttivo, verificando nei fatti storici taledefinizione, vale a dire, venendo a stabilire ciò che ‘deve essere’ la religionee quali fra i fatti storici si conformano più o meno perfettamente a talenozione, ovvero quali religioni storiche si avvicinano di più alla nozioneritenuta corretta e normativa.

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Lo storico si basa non su un metodo deduttivo bensì su un metodopositivo-induttivo: egli muove, infatti, dall’esame dei concreti fatti storici, iquali gli si offrono in tutta la loro molteplicità e diversità. Basti pensare alladiversità tra, ad esempio, un contesto come quello cristiano – definitotradizionalmente come monoteistico, ossia fondato sulla nozionedell’esistenza di un Dio unico, creatore di tutta la realtà, sia visibile siainvisibile, e trascendente rispetto ad essa, signore della storia e garante deivalori etici che regolano la vita umana, oltre che oggetto di un cultoistituzionalizzato – e un contesto quale quello proprio di molte popolazioniilletterate caratterizzate dalla credenza in una molteplicità di entitàsovrumane, non assimilabili agli ‘dèi’ dei contesti politeistici, maidentificabili piuttosto come ‘spiriti’, entità evanescenti quanto a identitàpersonale, legate a luoghi marginali, entità imprevedibili e tali da procurareall’uomo danni e, ove adeguatamente propiziate, benefici. Eppure, anchequest’orizzonte, pur così diverso dai contesti monoteistici, offre elementi edaspetti analoghi ai fenomeni che nella tradizione culturale di origineoccidentale, in cui si è formata la nozione stessa di ‘religione’, sonocomunemente intesi come religiosi e così definiti.

Di fatto, in entrambi i casi “emerge comunque uno degli aspetti tipici delfatto religioso, ossia l’idea che l’uomo possa instaurare dei rapporti,variamente qualificati caso per caso, con entità potenti, diverse da sé, nonvisibili né tangibili ma pure presenti nella realtà che lo circonda e capaci diintervenire nella sua esistenza. La personalità di tali potenze può esserenettamente definita, come nel caso di un dio di tipo monoteistico (sia Yahwehnel giudaismo, il Dio Padre nel cristianesimo, Allah nell’islamismo), ovveroassai sfuggente, come è quella degli ‘spiriti’ (...)”.[76]. Con tali ‘potenze’, perquanto così diverse sotto il profilo della rispettiva fisionomia, l’uomo ritienedi poter instaurare “un rapporto che si concretizza in una serie dicomportamenti e di atti, diversi da quelli che attengono alla vita quotidiana econ finalità distinte da quelle perseguite con le normali attività pratiche. Sitratta appunto di azioni rivolte ad entità pertinenti ad un livello diversodall’umano, e pure ritenuto capace di influire più o meno radicalmente sullavita dell’uomo e sullo scenario cosmico in cui egli si muove”.[77] In

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sostanza, la constatazione di un aspetto qualificante ed analogo, sotto ilprofilo considerato, non certo di un dato dato comune, quasi un comunedenominatore, ovvero la constatazione della presenza di credenze ecomportamenti atti a mettere in rapporto, nell’attualità, l’individuo e ilgruppo cui esso appartiene con potenze pertinenti ad un livello altro da quelloumano, ritenute esistenti e capaci di operare efficacemente nella vita cosmicae umana, consentirà allo studioso di collocare entrambi i fenomeni nellacategoria dei fatti tradizionalmente definiti ‘religiosi’, anche se, sotto ilprofilo dei contenuti, tali fenomeni appaiono così diversi tra di loro.

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1.1 ‘Religione’: rottura di livello

Un primo aspetto che è apparso identificare la qualitas peculiare di queifenomeni che, pur pertinenti ad ambiti culturali assai diversi, sonocomunemente definiti ‘religiosi’, è stato dentificato, in taluni studi storico-religiosi, nei termini di una ‘rottura di livello’.

Questa espressione è stata proposta da Mircea Eliade[78] all’interno dellapropria prospettiva ermeneutica di tipo fenomenologico, alla quale abbiamosopra fatto riferimento, ed è stata utilizzata, con maggiore attenzione allaspecificità dei diversi contesti storici, e all’interno di una prospettivasquisitamente storica aliena dai presupposti di tipo essenzialistico-ontologicoche caratterizzano l’impostazione eliadiana, dallo storico delle religioni U.Bianchi. Con questa espressione “si intende circoscrivere la consistenzapeculiare del fenomeno religioso nel suo rimandare ad un piano della realtàdiverso da quello empiricamente esperibile dall’uomo e in pari tempo nelpostulare la possibilità di instaurare rapporti con un ‘al di là’, un ‘altro’ e un‘altrove’ variamente qualificati. In una prospettiva religiosa, di fatto, siammette l’esistenza di un ‘al di là’ che è insieme un supra, ossia una realtàche sovrasta per potenza l’uomo e lo condiziona in vario modo, e un prius,ossia una realtà che precede l’uomo stesso e la realtà fenomenica in cui egli simuove. In altri termini, si tratta del livello occupato da (...) ‘potenze’, nonumane, sovrumane o extraumane, a vario titolo personali, ossia dotate di unapropria individualità e capaci di agire autonomamente, sia pure a titolo assaidiverso”.[79]

Diversa è, ad esempio, la capacità di azione di un dio monoteistico, unicoautore e sovrano della realtà, rispetto a quella di una divinità di tipopoliteistico, inserita in un pantheon popolato da numerose altre figureanaloghe e dotate di analoghi poteri in relazione alle diverse sfere dicompetenza cui ciascuna divinità è preposta, e comunque tutte cooperanti alfunzionamento ordinato della vita del mondo e dell’uomo; ma diversa ancherispetto a quella di uno ‘spirito’ o di un’‘anima’ separabile (secondo unaprospettiva animistica) dall’individuo cui attiene, o di altre entità non umanecontemplate dai diversi contesti religiosi.

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Tale capacità di intervenire efficacemente sull’uomo, come individuo ecome membro di una comunità, può esplicarsi nell’attualità ma anche aiprimordi, nel prius, allorché furono posti i fondamenti della vita attuale. E nelprius tale efficacia può esprimersi in maniera diversa a seconda dei diversicontesti storici: talora essa può integrare – così nei contesti monoteistici – lanozione di ‘creazione’, per la quale l’unico Dio, oltre ad essere ritenuto unapresenza attiva e sovrana nell’attualità, signore della storia, è ritenuto ancheautore di tutta la realtà in cui l’umanità si muove e dell’uomo stesso. In altriambiti, invece, non si ha l’idea di creazione ma piuttosto l’idea dellaprogressiva nascita, a partire da princìpi primordiali di carattere semi-personale, degli elementi cosmici (cosmogonie) e della contestuale nascitadegli dèi, che vengono all’esistenza mediante successive generazioni(teogonie).

Si constata, al riguardo della possibilità di identificare il quid qualificantei fatti religiosi nella ‘rottura di livello’ e nella conseguente instaurazione dirapporti con un livello ‘altro’, che è il livello del supra e del prius, unaimportante distinzione.

Infatti, si possono distinguere i contesti religiosi nei quali il supra, e piùspecificamente il supra attuale, si identifica con il prius, dai contesti nei qualiil supra (attuale) non si identifica con il prius e, viceversa, il prius non siidentifica con il supra (attuale). Buon esempio dei primi è costituito daicontesti religiosi monoteistici, caratterizzati dalla nozione di ‘creazione’,mentre un esempio dei secondi è dato dai contesti di tipo teo-cosmogonico.

Infatti, nei primi, la medesima ‘potenza’, ossia il Dio creatore e signoredella storia, è ritenuto attivo non solo nell’attualità ma anche agli inizi dellavicenda cosmica e umana, che dal creatore dipende non solo per quantoconcerne il suo ‘attuale’ funzionamento’, ma anche per quanto concerne lapropria fondazione originaria.

Invece, nei secondi, altre sono le potenze presenti sulla scena agli inizi,altre quelle che presiedono all’attualità. Si pensi alla prospettiva teogonicagreca, come formalizzata in particolare nella Teogonia esiodea, alla qualeavremo modo più avanti di fare riferimento, e secondo la quale altre sono leentità iniziali, principi o archai semipersonali dalle quali traggono origine le

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entità cosmiche e gli stessi dei, altre – ovvero Zeus e i suoi collaterali – sonole entità divine che presiedono all’attualità.

Buon esempio delle credenze religiose che contemplano una nonsovrapponibilità tra il supra (attuale) e il prius è costituito anche dallenarrazioni mitiche (alle quali sopra abbiamo fatto riferimento) proprie dipopoli tradizionali, le quali narrano di entità sovrumane che, dopo aver datovita alla realtà attuale e all’attuale scenario cosmico e umano, si allontananoin regioni lontane e in una condizione di ‘oziosità’, affidando ad altre figuresovrumane il compito di presiedere alla attualità, figure – queste ultime – che,dunque, integrano il supra attuale e che, non a caso, sono oggetto di cultonella attualità, mentre non lo sono quelle potenze che ora risultano ‘oziose’dopo essere state – come detto – attive ed efficaci alle origini, nel prius.

Ma torniamo alla nozione di ‘rottura di livello’.Innanzitutto per precisare quanto segue. L’aspetto che appare qualificante

un quadro definibile come religioso, ossia la sua peculiare qualità definibilecome ‘rottura di livello’, nel senso del suo riferirsi a un supra e a un prius dipresenze non umane, efficaci nel condizionare la vita umana, alle origini enella attualità, si esprime su due piani: il piano che si può definire della‘credenza’, ossia della formulazione, più o meno organica, di una serie dinozioni, vuoi espresse mediante enunciati sistematici vuoi espresse nelleforme di narrazioni tradizionali, comunemente definite ‘miti’, e il pianocostituito dalla pratica rituale, radicandosi peraltro, entrambi gli elementi,ossia quello della credenza e quello del culto, in un terreno comunitario,sociale. “Infatti, ciò che determina la specificità del fenomeno religioso e lodistingue da ogni formulazione di carattere filosofico o teologico (anche setali formulazioni spesso rientrano anch’esse in uno scenario religioso, ocomunque fanno riferimento ad esso) è la connessione dialettica fra uncomplesso di ‘credenze’ e la definizione di un insieme di comportamenti(omologabili nella categoria del ‘rito’ o del ‘culto’), atti a mettere in rapporto– nell’attualità – l’individuo e il gruppo sociale di cui fa parte con le potenzesovrumane ritenute esistenti ed operanti efficacemente nella vita cosmica eumana”.[80]

In secondo luogo, per ripercorrere le tappe fondamentali della storia

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dell’espressione ‘rottura di livello’, rivelatasi, come visto, particolarmenteefficace nell’ambito di studi storico-religiosi per identificare l’aspettofondamentale qualificante il ‘religioso’.

Il concetto di ‘rottura di livello’ o, altrove, ‘rottura del livello ontologico’,come prodotta dalla credenza e dalla prassi religiose, è usato da M. Eliade,per esprimere la propria idea di religione, nel suo intervento sulla nozione di‘volo magico’ in occasione dell’VIII Congresso Internazionale di Storia dellereligioni, tenutosi a Roma nel 1955.[81] Eliade lo trae da Paul Mus e conesso viene a indicare la religione come esperienza di una realtà che trascendeil mondo ordinario, pur senza venire a costituire, nell’economia dell’operaeliadiana, una categoria interpretativa fondamentale.[82]

L’espressione ‘rottura di livello’ viene utilizzata, come detto, da U.Bianchi, che peraltro, risemantizzandola, esplicitamente ne rifiuta ipresupposti teorici eliadiani, all’interno del suo tentativo, non di proporre unadefinizione – rigida e previa alla ricerca storica – di religione, quantopiuttosto di identificare alcuni aspetti di quel quid che all’osservazioneobiettiva e poi all’analisi scientifica permette di parlare di certi fatti come difatti ‘religiosi’.

Scrive, infatti, Bianchi:Ci sembra che un primo e più evidente aspetto di questo quid religioso possa riconoscersi negli

atteggiamenti interiori e nei comportamenti esteriori che sono orientati (per ricorrere aun’espressione già coniata, benché con altri riferimenti interpretativi, da M. Eliade) a una ‘rotturadi livello’. Ci sembra, in altri termini, che un primo aspetto del quid religioso possa riconoscersinell’instaurazione di un rapporto di natura non visibile, per quanto talora sperimentabile, con unsupra e con un prius concepiti come condizionanti l’esistenza medesima del mondo. Il supraconcerne l’essere o gli esseri che vengono concepiti come trascendenti, o comunque superioriall’uomo quanto a potenza e gerarchia; il prius concerne l’essere o gli esseri (onorati tuttora con ilculto o semplicemente rievocati) ritenuti protagonisti primordiali di quei fatti che hanno portatoall’instaurazione dell’ordine attuale del cosmo. Questi due gruppi di rapporti religiosi – con ilsupra e con il prius – non si escludono a vicenda, ma di solito si compongono, anzi coincidono, nelsenso che l’essere o gli esseri che agirono agli inizi del mondo hanno ancora autorità su esso, perquanto il grado del loro interessamento e della loro ‘presenza’, nonché l’intensità materiale epsicologica del culto ad essi rivolto, possa variare ampiamente.[83]

In tale descrizione intervengono poi delle opportune precisazioni cheoccorre qui registrare. Infatti, Bianchi afferma che “la ‘rottura di livello’, laseparazione dal profano, non realizza compartimenti stagni nell’uomo, mauna superiore unità: l’unione con il supra e con il prius, quell’unione e

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armonia, quella pax deorum, alla quale in vari modi aspira la contingenzaintrinseca alla ‘condizione umana’; alla quale aspira, se vogliamo usare untermine di sapore cristiano, la ‘condizione creaturale’ dell’uomo”.[84]

Dunque Bianchi si avvale dell’espressione eliadiana di ‘rottura di livello’,con le connesse tematiche del supra e del prius che in Eliade avevano unaimportanza fondamentale, inserendola in un quadro interpretativo diversorispetto a quello fenomenologico originario, nel quale essa era stata propostadallo studioso rumeno. Si può, infatti, osservare – ad esempio – come lastessa nozione di prius si offra diversamente nell’impostazione dello storicodelle religioni italiano e in quella dello studioso rumeno. Per Bianchi, il prius,cui l’esperienza religiosa rimanderebbe, definibile altrimenti come ilprimordiale o l’illud tempus, non è caratterizzato da quella omogeneità,integrità e perfezione che Eliade gli riconosce nel momento in cui lo vedecome espressione di compiutezza e intatta sacralità, perdutasi – nellainterpretazione eliadiana della ‘religione’ – con la ‘caduta’ nella storia; perBianchi, invece, il prius deve essere adeguatamente caratterizzato dal puntodi vista storico e tipologico a seconda delle diverse modalità con cui lediverse tradizioni religiose lo concepiscono.

La nozione di ‘rottura di livello’ ritorna in scritti successivi diBianchi[85] con declinazioni che meritano attenzione.

A base della religione – afferma Bianchi – si trova normalmente la credenza in una o piùpotenze, concepite come personali, superiori e più antiche rispetto alle forze umane e da questeindipendenti. Da parte dell’uomo e del gruppo un atteggiamento di dipendenza rispetto a questiesseri che si riflette anche sul comportamento (etico e rituale) e la persuasione della possibilità dirapporti con loro. Tuttavia anche ogni interpretazione della vita implicante il trascendimento delmondano ha una connessione essenziale con il pensiero religioso. In altre parole, la ‘religione’implica una rottura di livello (...) e un primo aspetto del quid religioso può riconoscersinell’instaurazione di un rapporto con un supra (cioè un sopraumano) inteso come condizionantel’esistenza medesima del mondo e nel mondo.[86]

Tale formulazione merita un’attenta considerazione in relazione ad alcunesue caratteristiche che risultano esemplari delle peculiarità dell’approcciostorico-comparativo ai fenomeni religiosi.

Innanzitutto – come Bianchi stesso avverte – non si tratta di una rigidadefinizione di un contenuto o di una serie di contenuti, ma di una‘descrizione’, ossia della delineazione di aspetti, più che contenuti, che

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appaiono, sulla base di una ricerca positivo-induttiva, qualificanti il mondodelle religioni. L’avverbio ‘normalmente’, poi, introdotto in taleformulazione, ne conferma il carattere non rigido e aprioristico o ‘normativo’,ma aperto alla possibilità che non tutte le posizioni che tradizionalmente sonodefinite ‘religiose’ rispondano a questa descrizione, come verificheremo trapoco.

Si osservi, poi, come, mentre vengono meno i presupposti ermeneuticieliadiani, acquista rilievo già in Bianchi e poi nella Sfameni Gasparro, nellerispettive formulazioni della nozione di ‘rottura di livello’, l’idea – che si puòassumere come ‘conseguenza’ della rottura di livello – di ‘relazione’, e nellospecifico di instaurazione di una relazione (Bianchi parla anche – come visto– di ‘unione’, ma il termine introduce valenze ulteriori rispetto a quellecomportate dalla nozione di relazione, e valenze che saranno comunqueoggetto di indagine in altra sede) con le potenze che ‘abitano’ i livelli delsupra e del prius, venendo così a esprimere il fatto religioso come fattorelazionale. L’elemento della ‘relazione’, nel senso qui esposto, sembraadditare la specificità del fatto religioso in quanto tale, in rapporto ad altrifatti, quali elaborazioni concettuali o speculazioni filosofiche in merito aquesto stesso livello ‘altro’, il livello del supra e del prius, di cui è qui parola.

Si osservi tuttavia come, nel momento in cui la formulazione bianchianavalorizza la nozione di ‘relazione’, conseguente a una ‘rottura di livello’, essasi sporga subito ad accennare, in maniera allusiva, ad ambiti, purcomunemente definiti religiosi, i quali non offrono la nozione di ‘relazione’con potenze variamente identificate e abitanti i livelli del supra e del prius.

Esiste, infatti, il problema – implicitamente presente nella formulazionebianchiana – di quanto il motivo della rottura di livello, e della conseguenteinstaurazione di un rapporto con un livello ‘altro’ e con le potenze che loabitano, sia presente nelle religioni asiatiche e in particolare nel buddhismo.Religione, questa, che, come avremo modo di verificare più avanti, ponequestioni specifiche per quanto concerne il livello ‘altro’, secondo ladefinizione sopra riportata, e tanto più ignora – in talune sue formulazioni –la nozione di potenze inerenti a tale livello.

Il riferimento all’idea di “trascendimento del mondano”, allora, contenuta

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nell’ultima formulazione bianchiana sopra riportata, sembra permettere direcuperare al mondo delle religioni ogni forma di buddhismo, anche quellooriginario che appare oltremodo refrattario, come avremo modo di dire piùdiffusamente, rispetto ad una collocazione all’interno del mondo dellereligioni. Il tema della ‘rottura di livello’, se espresso nella particolare formadel “trascendimento del mondano”, piuttosto che non nella forma dellainstaurazione di una relazione con un livello altro e con le potenze che loabitano, interverrebbe, dunque, anche in quelle forme religiose che, come ilbuddhismo originario, ignorano ogni riferimento a potenze sovrumane oextraumane, e pur comportano una critica radicale del mondano edell’attaccamento ad esso, come di ogni altra forma di desiderio, percepitaquale fonte di dolore.[87]

Ma, soprattutto, l’ultima formulazione sopra riportata mostra – sulla basedelle sottolineature evidenziate – la preoccupazione metodologica di Bianchidi evitare una definizione univoca di religione, e con essa una visioneunivoca del religioso, quale rischiava di essere quella offerta nella primaformulazione, pure riportata, della nozione di ‘rottura di livello’.[88] A talerischio Bianchi sfugge sia insistendo sul fatto che intende proporre unasemplice descrizione senza ambizioni definitorie sia mostrando, seppurallusivamente, l’impossibilità di afferrare un unico contenuto o una unicaforma, sempre identici a se stessi, alla base del mondo articolato e complessodelle religioni, e dunque l’impossibilità di una nozione univoca di religione,in favore piuttosto, come avrebbe teorizzato in altra sede e comediffusamente spiegheremo, di una nozione analogica della stessa.[89]

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1.2 ‘Religione’: una nozione storicamente condizionata

Si è accennato al problema posto dalla questione definitoria, nel nostrocaso la questione della definizione di ‘religione’, in sede di ricerca storica, enello specifico di quell’impasse che si presenta quando si consideri che inuna ricerca storica non è possibile partire da una definizione previa esistematica di ‘religione’, perché questo è contrario al procedimento positivo-induttivo della storia delle religioni; ma, d’altra parte, si deve pur avereun’idea, se non una definizione almeno un concetto iniziale di religione,un’idea di che cosa sia religione, se non altro per sapere a quali fenomeni laricerca debba estendersi e quali fenomeni invece rimangano ad essa estranei.Una impasse bene formulata da uno studioso (M.E. Spiro) allorchéaffermava: “It is obvious that while a definition cannot take the place ofinquiry, in the absence of definitions there can be no inquiry – for it is thedefinition, either ostensive or nominal, which designates the phenomenon tobe investigated”.[90] Se la grande varietà dei fenomeni comunementedesignati come ‘religiosi’ appare rendere difficoltosa la formulazione di unadefinizione di religione per via induttiva, ovvero a partire dalla molteplicità evarietà dei dati, così etergenei tra di loro, non appaiono percorribili né lastrada che parte da una definizione rigida e sistematica, nonché ottimale, che,eventualmente muovendo dalla nozione di religione propria dei grandimonoteismi storici – quale credenza in una somma divinità creatrice e garantedei fondamenti della vita umana –, possa andare bene per questi ma taglifuori dalla considerazione tante altre espressioni che pure sono comunementedefinite religiose; né la strada che parta da una definizione eccessivamenteampia, la quale, nella preoccupazione di comprendere il più possibile etendenzialmente tutto ciò che è percepito come religioso e così denominato,diventi generica e poco operativa (tali, ad esempio, definizioni che mettano incampo la nozione di ultimate concern, ‘impegno fondamentale, ultimo’, cuipiù avanti faremo riferimento).

Si pone in sostanza la questione del rapporto tra comprehensio edextensio di una definizione: tanto più ampia è la comprehensio, ossia ciò cheil termine “comprende”, l’insieme di caratteristiche racchiuse nel significato

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del concetto, tanto minore è la sua estensione, ossia il numero di soggetti deiquali esso è predicabile, e tanto meno è estensibile ai dati della storia; e perconverso, quanto meno la definizione comprende, tanto più essa rischia diconoscere una estensione eccessiva e incontrollata. Si tratta appuntodell’assioma formulato in ambito filosofico: “Quo major est extensio, eominor est comprehensio, et vicissim: Quo major est intensio, eo minor estextensio”.

A ben vedere, l’aporia sopra considerata – non posso partire da unadefinizione ma ho pur bisogno di un’idea di che cosa sia religione – “sarebbeveramente aporia solo di fronte ad una questione che riguardasse il concettounivoco di religione. Varrebbe quel celebre adagio: ‘quo maior extensio, eominor comprehensio’; per cui a forza di inglobare nel mondo delle religionimolte cose che, fino agli antipodi del nostro pianeta, appaiono sempre piùdiverse (...), il concetto di religione, se fosse univoco, si estenderebbetalmente che la sua ‘comprensione’ diverrebbe nulla, o quasi nulla oinsignificante”.[91]

Sulla via per la soluzione dell’impasse sopra formulata si pongono, da unlato, la presa di coscienza, fondamentale in sede di introduzione allo studiostorico-comparativo dei fatti comunemente definiti come ‘religiosi’, delcarattere storicamente condizionato della categoria ‘religione’, e, dall’altrolato, della portata analogica (e non univoca né equivoca) di quei fenomeniche solitamente sono fatti rientrare in tale categoria.

A una illustrazione di tali caratteristiche della categoria di ‘religione’,ovvero il suo essere condizionata storicamente e culturalmente e il suo essereanalogica, dedicheremo ora la nostra attenzione. A principiare dalla primacaratteristica.

Di fatto, il termine ‘religione’ (e termini corrispondenti, quali il francesereligion, l’inglese religion, il tedesco Religion), che viene comunementeutilizzato per designare fenomeni di tutte le epoche e le culture, appartiene, inrealtà, a un ambito culturale ben preciso. La categoria ‘religione’, comepercepita nella cultura occidentale moderna, quale insieme integrato di treaspetti (dottrinale, cultuale, etico) e radicato in un contesto comunitario, è ilprodotto della storia dell’Occidente cristiano. Tale categoria pertiene alla

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tradizione culturale occidentale di matrice cristiana, a sua volta radicatanell’’humus linguistica e culturale latina.[92] Nei confronti del contestostorico-culturale e religioso di lingua latina, a struttura politeistica, latradizione cristiana, mentre mutua il termine religio assumendone alcunivalori semantici e concettuali, ne offre – tuttavia – un capovolgimento divalori e di contenuti.

In ambito cristiano-occidentale comunemente si intende per ‘religione’ –come detto – un complesso organico, e radicato in un terreno comunitario, dicredenze, di pratiche rituali e di comportamenti etici, che riguardano ilrapporto dell’uomo con Dio, ovvero, in un’accezione più ampia e menoqualificata in senso cristiano, con il livello sovrumano, quel livello ‘altro’, illivello del supra e del prius, cui facevamo sopra riferimento.

In siffatta nozione di ‘religione’, dunque, l’elemento della ‘credenza’,ovvero della formulazione, più o meno organicamente articolata, di uncomplesso di nozioni, siano esse espresse mediante enunciati sistematicisiano piuttosto espresse nelle forme narrative di ‘racconti’ sacri,comunemente definiti ‘miti’, appare strettamente connesso con quello dellapratica rituale, ovvero dell’insieme di comportamenti specifici, identificatinelle categorie di ‘rito’ e di ‘culto’, più o meno nettamente istituzionalizzatiall’interno della comunità (offerte, preghiere, sacrifici, etc.), atti a mettere inrapporto nella attualità, a livello individuale come a livello comunitario,l’uomo e quelle potenze sovraumane che sono ritenute esistenti ed efficacinella vita umana e cosmica. Ed entrambi gli elementi, quello della credenza equello della pratica rituale, appaiono, solitamente, a loro volta connessi conuna serie di atteggiamenti e comportamenti che si possono definire ‘etici’. Laconnessione dialettica, in particolare, fra credenze e atti cultuali, come pure illoro radicamento in un contesto comunitario, ampio o ristretto (senzaescludere con ciò la rilevanza della esperienza religiosa del singolo membrodella comunità che in essa si collochi e agisca a vario titolo), viene adeterminare la specificità del fenomeno religioso e a distinguerlo da fenomeni‘altri’, per esempio da fenomeni di carattere filosofico, che pure sono spessotangenti, in maniera diversa, rispetto ai fatti religiosi.[93]

Un termine che copra un significato analogo a quello espresso nelle

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lingue occidentali moderne dal termine ‘religione’ non si trova presso lepopolazioni a livello etnologico, né lo si trova nelle grandi religioni orientali,come l’induismo (ove è piuttosto, come vedremo, il termine hindi dharma,‘legge’) e il buddhismo. Ovviamente, l’assenza nei mondi considerati ditermini corrispondenti al termine ‘religione’, come offerto dall’Occidentemoderno, non significa l’assenza in quei contesti dei fenomenitradizionalmente designati dall’osservatore occidentale con tale termine.

Un esatto corrispettivo del termine ‘religione’ non si trova neppure pressole civiltà antiche che pure espressero una ricca terminologia sacrale, comel’antico ebraismo, ove sono i termini torah e derek che significanorispettivamente ‘legge’ e ‘via’, o come le culture che espressero religionipoliteistiche. Il greco classico non aveva un termine che includesse isignificati che noi oggi attribuiamo al termine ‘religione’, ma offriva terminiche significano ‘regola della pratica religiosa’, come threskéia, oppureindicano la dovuta venerazione, come eusébeia, o una sorta di cautela erispetto verso il divino, come eulábeia, ma non un termine perfettamenteequivalente a ‘religione’ nel senso che noi oggi attribuiamo a questo termine.

Più vicini al termine ‘religione’ nel suo senso attuale sono, invece,termini come den (medio-persiano) o daena (avestico), propri dellozoroastrismo ancor oggi praticato dai Parsi, o termini dell’Islam, quale din, equesto è particolarmente comprensibile avendo l’Islam rapporti storici etipologici più stretti con l’ambito culturale occidentale e con le sue radicigiudaico-cristiane rispetto ai lontani mondi dell’India e dell’Estremo Oriente.

Orbene, il significato attuale in ambito occidentale del termine religione,quale complesso organico – come sopra si diceva – di credenze, praticherituali e comportamenti etici, che pertengono il rapporto tra l’uomo e il livellodel ‘divino’, è il frutto di un lungo processo storico,[94] del quale oraillustreremo soltanto alcuni dei momenti più significativi.

Non prima però di avere osservato come ogni tentativo di desumere daltermine latino religio un significato o una definizione del proprium dellacategoria ‘religione’ risulti insignificante. Infatti, come verificheremo, iltermine latino religio, nel mondo romano repubblicano, esprime solo unaspetto, vale a dire quello cultuale, e dunque ha un contenuto diverso e più

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ristretto rispetto ai contenuti che allo stesso termine conferiranno i cristianinei primi secoli, allorché la definizione di tali contenuti si preciserà inmaniera pressoché definitiva e verrà a proporsi fino ai nostri giorni neltermine ‘religione’ come espresso dalle lingue occidentali.

Sarà il confronto con le posizioni di un autore romano del I sec. a.C.,ovvero Cicerone, e di autori cristiani vissuti fra il II e l’inizio del V sec. d.C.,ovvero Tertulliano e Arnobio, ma soprattutto Lattanzio e Agostino, aconsentirci di constatare come la nozione di ‘religione’ sopra ricordata, qualecomplesso integrato di credenze, di pratiche rituali e di comportamenti eticiche pertengono al rapporto tra l’uomo e Dio, ovvero, in una accezione piùampia, al rapporto tra l’uomo e il livello del divino, sia il frutto di un lungoprocesso storico.

Gli autori che andremo citando, sia ‘pagani’ sia cristiani, pur nelladistanza che li separa dal punto di vista cronologico e ideologico, usano lostesso termine o lo stesso complesso di termini ma attribuiscono a questi deicontenuti diversi perché appellano a parametri di prassi e di credenzareligiosa diversi, ovvero politeistici vs monoteistici.

Infatti, ancora nel IV-V sec., i cristiani sono impegnati in una durapolemica con i politeismi propri delle tradizioni nazionali dei Greci, deiRomani e degli altri popoli del bacino mediterraneo, che i cristiani stessiomologheranno, a partire dal IV sec. d.C., nella definizione di ‘paganesimo’.E pertanto la definizione cristiana della nozione di ‘religione’, quale verràprogressivamente a determinarsi e ad imporsi a tutta la tradizione occidentale,nozione che pur attesta elementi di continuità sotto il profilo linguistico e –parzialmente – anche concettuale con la nozione di religio quale si eraespressa e andava esprimendosi nel contesto politeistico romano, si realizzaanche in polemica, consapevole e programmatica, con la nozione di religiopropria del contemporaneo ambiente di lingua latina, nozione che – peraltro –dai tempi di Cicerone era andata essa stessa parzialmente modificandosi.Un’operazione linguistica e culturale, quella propria degli autori cristianicitati, che non ignora importanti elementi di continuità con il lessico religioso‘pagano’. Si pensi all’uso del termine deus, sia pure nella forma singolare inopposizione alla pluralità divina della tradizione politeistica, per designare

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Colui cui si rivolge la pietas cristiana. Si ricorderà come il termine latinodeus indichi originariamente un essere ‘celeste’, come risulta dalla stessaradice del termine, di matrice indoeuropea, dyeuh, che indica la luce delgiorno o il cielo luminoso e che lo connette dunque con la luce del cielodiurno.

Comunque, tale uso da parte degli autori cristiani riflette laconsapevolezza di una non assoluta disparità di valori tra le figure sovrumanein questione. Inoltre, come secondo esempio di parziale continuità tra uso‘pagano’ e uso cristiano, andrà menzionato il fatto – come avremo modo diillustrare più avanti – che la nozione di religio enunciata da un autorecristiano come Lattanzio unisce all’aspetto cognitivo, dato dalriconoscimento del Dio ‘vero’, l’aspetto pratico-cultuale, prevalentenell’orizzonte politeistico, dei debita obsequia (Epit. 64, 5) dall’uomo resi alsuo creatore. Nel passaggio dall’orizzonte ‘pagano’ a quello cristiano, iltermine si arricchisce, in sostanza, di valenze ulteriori non contemplate dalsignificato originario del termine religio. Esso conosce un uso al singolare,venendo a designare col trascorrere dei secoli un complesso organico dicredenze, prassi cultuali e atteggiamenti etici che caratterizzano il rapportotra l’uomo e Dio, laddove l’uso prevalentemente al plurale nell’orizzontepoliteistico romano ne indicava primariamente la componente cultuale.[95]Al riguardo, particolarmente significativa appare la testimonianza diCicerone.

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1.2.1 Religio nell’antica Roma: il De natura deorum di CiceroneCicerone è un autore fortemente interessato a problemi di carattere

filosofico e religioso e nell’opera a cui faremo tra poco riferimento, Denatura deorum, viene a definire importanti aspetti della tradizione religiosa diRoma. Tradizione che, secondo le tipologie religiose che illustreremo, è ditipo etnico-nazionale e di contenuto politeistico. Il carattere nazionale dellatradizione religiosa di Roma antica appare evidente quando si consideri che lastessa identità politica di Roma si poneva come espressione di un’identitàreligiosa e viceversa. Gli dèi di Roma in tanto esistono in quanto sono fattioggetto di culto dai romani. A loro volta i romani, i cives romani, sidefiniscono tali in quanto titolari di uno specifico rapporto con quegli esserisovrumani che ne garantiscono l’esistenza, ovvero che risultano garanti delpotere politico, sociale, culturale di Roma. La vita della città si fonda sullapax deorum, da intendersi come un armonico ed equilibrato rapporto tra lacomunità umana e le entità divine che, ove siano fatte oggetto di culto nelleforme tradizionali, ne assicurano la vita e la prosperità.

Il carattere politeistico dell’orizzonte religioso di Roma è dato dal suocontemplare una pluralità di esseri sovrumani dotati ciascuno (o ciascunacategoria) di caratteri, attributi e funzioni distinti, ma convergenti nellafondazione e nel mantenimento dell’ordine cosmico e umano. Orbene, altempo di Cicerone (106-43 a.C.) la tradizione religiosa romana di tipo etnico-nazionale e di contenuto politeistico, che aveva già conosciuto l’influsso dialtre tradizioni religiose, in particolare quelle etrusca e greca, per quantoriguarda la fissazione dei ruoli delle personalità divine e soprattutto perl’aggregazione ad esse di quel bagaglio di narrazioni tradizionali sugli dei chesi solgono chiamare miti (infatti, l’originaria tradizione religiosa di Romarisulta, a differenza di quella greca, molto povera se non priva di miti), si apresempre di più ad esperienze religiose di origine orientale, provenienti inparticolare dall’Egitto, dalla Siria e da altre regioni dell’Oriente. Da questeterre erano giunti a Roma culti di divinità straniere, già a loro volta più omeno profondamente ellenizzate, e vi avevano trovato seguito. Tuttavia, lafisionomia religiosa di Roma, che già ha notevolmente esteso il suo potere, in

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Italia al di là dei confini del Lazio e in altre regioni dell’Occidente edell’Oriente, preparandosi a conquistare l’intero mondo mediterraneo,continua ad essere segnata da una profonda adesione al mos maiorum, leconsuetudini religiose dei padri, la non osservanza delle quali comporterebbelo sconvolgimento della vita stessa di Roma.

A Roma le religiones, ossia le pratiche religiose tradizionali, sono unaffare di stato. II culto, infatti, non è affare dei privati né espressione didevozione privata ma è obbligo dell’intera comunità ed è compiuto daimagistrati che svolgono anche funzioni sacerdotali e dalle classi sacerdotali,quali i pontefici e gli augures, che sono delle corporazioni costituite egarantite dallo stato. La corretta pratica del culto, venendo ad assicurare lasussistenza dello stato romano, deve essere sorvegliata e regolamentata daisuoi rappresentanti. L’individuo può aderire per devozione e per credenza aqueste pratiche, ma ciò non è essenziale in quanto il civis romanus è tenuto apartecipare ai riti pubblici (affidati alle magistrature cittadine e ai corpisacerdotali) e a praticare altri riti propri del culto domestico demandato alpater familias cioè al detentore dell’autorità all’interno di ogni singologruppo familiare). In quanto membro della comunità di cittadini, aprescindere dalle proprie personali convinzioni, il civis romanus è tenuto apartecipare alle cerimonie tradizionali, secondo il calendario dei culti e dellefeste che scandisce la vita di Roma.

Tale è l’orizzonte religioso che fa da sfondo al trattato De natura deorum,‘Sulla natura degli dèi’, composto nel 45 a.C.

In esso Cicerone affronta le questioni dell’esistenza e delle modalità diintervento degli dèi nella vita cosmica e umana, quali erano dibattute nellescuole filosofiche del tempo. L’opera, infatti, è detta da Cicerone esserefedele riproduzione della “discussione assai accurata e approfondita sugli dèiimmortali”, discussione cui egli stesso avrebbe assistito,[96] svoltasi,probabilmente nel 76 a.C., nella casa di Cotta, tra quest’ultimo, il senatoreCaio Velleio e Quinto Lucilio Balbo. I tre personaggi rappresentano leprincipali scuole filosofiche del tempo: Velleio è epicureo, Balbo è stoico eCotta è accademico ed anche pontefice, ossia membro di quel collegiosacerdotale che rappresenta al più alto grado la tradizione religiosa dello stato

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romano.La posizione epicurea non negava l’esistenza degli dèi, ma affermava che

nella loro felicità imperturbabile essi non si occupano delle faccende umane enon intervengono nella vita dell’uomo e del cosmo. Essa pertanto vanificavaquella dimensione cultuale che risultava fondamentale per il civis romanus emediante l’espletamento della quale egli riteneva di mettersi incomunicazione con gli dei e rendere loro omaggio, ottenendone in tal modo ibenefici.

La posizione stoica, invece, sosteneva l’esistenza di una provvidenzadivina universale, ovvero di un principio razionale e provvidente, il Logos,immanente al cosmo e tale da pervaderlo. Gli dèi delle varie tradizionireligiose politeistiche sono interpretati come espressioni di questa ratiouniversale e provvidente, e le narrazioni mitiche che li riguardano sonointerpretate in maniera allegorica, quali rappresentazioni dell’attività e dellanatura dei vari elementi cosmici, nelle loro attribuzioni e nel lorofunzionamento. In sostanza, lo stoicismo, sotto il profilo religioso, sicaratterizza per lo sforzo di recuperare il patrimonio tradizionale, soprattuttodi tipo mitico, greco e orientale, sottopondolo a un’esegesi di tipo naturistico,per la quale i personaggi divini e le loro vicende sono interpretati come‘figura’ di elementi ed eventi cosmici. Un’esegesi che avrà ampia fortuna nelmondo antico, riflettendosi anche in moderne interpretazioni dei fenomenireligiosi. Gli dei, dunque, e i culti di cui erano oggetto, se risultavano inqualche modo superati o subordinati alla prospettiva provvidenzialistica dellafilosofia stoica, nella vita pratica mantenevano un ruolo importante. Glistoici, di fatto, sostenevano l’opportunità del mantenimento delle pratichecultuali tradizionali. Nel contesto argomentativo del discorso dello stoicoBalbo, Cicerone viene a definire il concetto tradizionale romano di religio edi religiosus e lo fa additando la etimologia dei termini in questione, che eglifa derivare da relegere/religere.

A noi, qui, non interessa addentrarci nel dibattito di carattere filologico,ancora aperto, sull’origine dei termini in questione, che, di fatto, i filologimoderni, come già gli antichi, collegano o a relegere/ religere o a religare,essendo entrambe le derivazioni etimologiche linguisticamente possibili. Ci

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interessa verificare come, suggerendo un etimo piuttosto che un altro, gliautori antichi che considereremo – primo fra di essi Cicerone – vengano aesprimere efficacemente quale sia per loro e per l’ambiente culturale in cui sicollocano il cuore della nozione di religio e del corrispondente aggettivoreligiosus.

Orbene, sebbene nell’ambito della tradizione romana sia attestata laduplice connessione del termine, Cicerone, nel contesto che andiamoesaminando, per esigenze argomentative privilegia la connessione esplicita direligio o, meglio, di religiosus, con relegere, mentre la connessione di religiocon il verbo religare, pur presente in altri autori romani e nello stessoCicerone in altri contesti, sarà esplicitamente e programmaticamente assunta,come vedremo, da un autore cristiano, Lattanzio, che in polemica diretta conil contesto ciceroniano che verremo a discutere opporrà alla visioneciceroniana e più ampiamente romana di religio, visione veicolata dallaconnessione di religio e religiosus con relegere, la visione cristiana di religio,che l’autore cristiano pone, appunto, in rapporto con religare.

Nel passaggio in questione,[97] Cicerone intende definire il senso direligiosus, cioè dell’uomo che pratica la religio, e non quello di religio inquanto tale, sebbene quest’ultima nozione intervenga in tanti altri luoghidello stesso trattato, e connette esplicitamente religiosus con relegere,essendo interessato in questo contesto a definire l’atteggiamento dell’homoreligiosus in opposizione al ‘superstizioso’.

Tale definizione cade – come detto – all’interno dell’ampiaargomentazione dello stoico Balbo che, se illustra – quale concezione tipicadella corrente di pensiero cui appartiene – la nozione del cosmo come totalitàdell’essere, insieme razionale (“il principio guida che i Greci chiamanohegemonikón”[98]) e materiale, e della universale Provvidenza divina comeprincipio di preservazione dell’ordine cosmico, quell’ordine al cuiriconoscimento l’uomo può giungere attraverso la contemplazione dei moticelesti, giustifica, parimenti, anche le tradizioni religiose del proprio contestoculturale, ricorrendo a varie teorie interpretative delle stesse, come quelladella ‘divinizzazione’ degli elementi naturali in quanto apportatori dibenefici[99] e quella, risalente a Evemero di Messina, del III sec. a.C., della

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elevazione al rango divino di uomini particolarmente potenti e benefattoridell’umanità.[100] Si mostra, invece, critico nei confronti di una terza formadi ‘invenzione’, pure essa di carattere fisico, ovvero pertinente a fenomeninaturali, ma caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera dellefabulae dei poeti, che hanno creato dèi commentici e ficti, immaginari e falsi.“Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi;essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggendedei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione”.[101]

Interviene dunque, qui, la nozione di superstitio che si offre comeconseguenza di una errata concezione del divino e che si oppone nettamentealla nozione di religio.“Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hannodistinto la superstizione dalla religione (maiores nostri superstitionem areligione separaverunt). Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevanosacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamatisuperstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invececoloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciòche riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere (qui autemomnia quae ad cultum deorum pertinent diligenter retractarent et tamquamrelegerent sunt dicti religiosi ex relegendo), come elegante deriva da eligere(scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intelligere(comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è inreligiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo dibiasimo e di lode”.[102]

Il termine superstitiosus è, dunque, connesso etimologicamente consuperstes (plur. superstites) e designa coloro che non fanno altro cherivolgere preghiere e sacrifici agli dèi ut sibi sui liberi superstites essent,ossia per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. I superstiziosi sonomossi al compimento degli atti di culto dal timore di ricevere danni. Alcontrario, i religiosi – detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di‘riconsiderare’, ‘considerare attentamente’, ritornare con cura su quanto già siè osservato (legere) – sono coloro che praticano in maniera diligente eaccurata tutte le cose che attengono al culto degli dèi. Mentre i superstiziosi

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sono mossi da un eccesso di scrupolo timoroso che li porta a invocare gli dèie a sacrificare loro quotidianamente, i religiosi compiono gli atti di culto nona loro arbitrio e per scelta personale, ma secondo quel preciso ordinecalendariale che, stabilito e sorvegliato dallo Stato, regola sia il culto privatoe familiare sia quello pubblico.

Nelle questioni che si vanno dibattendo, e in particolare sul tema dellapossibilità di intervento degli dei nella vita cosmica e umana, possibilitànegata da parte epicurea, con Velleio, laddove da parte stoica, con Balbo,viene affermata la vigile presenza nella vita del cosmo della divinaProvvidenza, che determina infallibilmente il corso degli eventi e il destinoumano, viene chiamato da Lucio Balbo a prendere posizione Cotta, nella suaqualità di cittadino autorevole e pontefice (Teque et principem civem etpontificem esse cogites).[103]

La posizione di Cotta offre, per le nostre argomentazioni, non pochielementi di interesse. Cotta esprime – nello spirito dello scetticismo tipicodell’Accademia del tempo – un atteggiamento di epoché, ossia di‘sospensione del giudizio’, nella convinzione dell’impossibilità da partedell’uomo di decidere sull’esistenza o meno degli dèi e sul loro interventonelle faccende umane.

Di fatto, la scuola platonica del tempo, il cosiddetto medio-platonismo,per distinguerlo dal platonismo originario, del fondatore e dei suoi primiseguaci, e da quello che sarà chiamato il neo-platonismo del III sec.,rappresentato da Plotino, Porfirio e da altri autori, si caratterizzava per unaposizione più o meno radicalmente scettica, intesa a mettere in discussionetutte le nozioni tradizionalmente accettate e a proclamare un atteggiamento,appunto, di ‘sospensione del giudizio’, nella convinzione della difficoltàestrema per l’uomo di raggiungere la verità sui principi primi dell’esistenza.

Tuttavia Cotta, in conformità con il proprio ruolo nell’ambito della vitareligiosa della città, così si pronuncia: “Sono non poco influenzato dalla tuaautorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava aricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devodifendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagliantenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (quod eo credo valebat ut

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opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus, sacracaerimonias religionesque defenderem)”.[104]

“Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole delloStato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenutomanifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenzetradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratichedivinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quantoesponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerentialla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizionenetta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribusaccepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto(sacra, caerimoniae, religiones).

Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente perindicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riticompiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano ilplurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno diuna molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, dicredenze e pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò checomunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana,ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di‘credenza’ e un elemento di ‘culto’, ovvero una dimensione pratico-operativa.Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e una osservanzareligiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religiosia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. de nat. deor. I,2, 3-4; I, 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dei, nonsi identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. Lacircostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorumsia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso moltostretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones,ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza inriferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sonoinglobate nella nozione di religio”.[105] Infatti, “religio ha una connessioneprimaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per

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i romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèiquale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era unaquestione di ‘fede’, non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di uncorpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anchediverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per esserehomo religiosus e civis romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti,quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisceil religiosus è la pratica di quanto attiene al culto dagli dèi: egli deveconsiderare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poipraticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano,dunque, non è colui che ‘crede’, ma colui che celebra, nelle forme dovute, iriti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con laposizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino”.[106]

Prosegue lo scettico e pontefice Cotta in merito alle religiones, le pratichereligiose tradizionali: “Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e ildiscorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenzesul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando sitratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, PublioScipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho GaioLelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religionenel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo.Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisain riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degliinterpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io nonho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose emi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione delrituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente nonavrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero statisommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice.Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere unagiustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostriantenati anche senza nessuna prova”.[107]

“Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la

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nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romanireligio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoliattraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono iriti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nelsacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestavala volontà degli dei affinché, correttamente interpretati da un collegiosacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Ciceronefece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livellosociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuonei confronti dei propri dèi.

L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si faportavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti delladivinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica equindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessitàdel corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretandocorrettamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificatirappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cuidipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti,non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza dellavolontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito,mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino dellacomunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vitacittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale emilitare se prima gli àuguri non avessero interpretato, attraverso i segnirelativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quellainiziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momentobisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli omeno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religioromana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.

Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti delladivinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo erenderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomomembro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve

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conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli chesi definisce pax deorum.

Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso moltoimportante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degliinterpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era lascienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai romani e i Libri sibillinierano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tarditrasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini chesolo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri),potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti allapratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisidella vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontàdegli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.

Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia unadimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizionidei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso,espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complessorituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I sec.a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certedomande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici diorigine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale,lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumentirazionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certaimmagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base aipostulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lostoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomocolto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma ilcivis romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopraenunciate”.[108]

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1.2.2 Dalle religiones alla religio veraUn elemento di particolare interesse offerto dai pronunciamenti di Cotta,

accademico e pontefice, nel de natura deorum ciceroniano sopra considerato,è costituito dal loro essere espressivi, in maniera particolarmente lucida edefficace, di un più generale atteggiamento diffuso nel mondo romano e,quantunque con espressioni diverse, non ignoto già alla grecità. Se sono lescuole filosofiche a interrogarsi in merito alla verità del divino o degli dei,ovvero in merito alla loro esistenza, alla loro natura e al rapporto tra la sferadivina e quella umana e cosmica, le religiones del mondo romano, nellaspecifica accezione sopra illustrata di usi rituali tradizionali, cui peraltro nonera estraneo un certo bagaglio di credenze, sono invece estranee allaquestione veritativa.

In Grecia e poi a Roma – infatti – la riflessione sulla dimensioneveritativa di una religione o, meglio, degli dei, pertiene alla sfera dellafilosofia e non della religione. Esemplare al riguardo è già un luogoplatonico, ovvero il II libro della Repubblica (379A ss.) ove il filosofoafferma la necessità di rappresentare il dio ‘come egli è veramente’: ovvero,sulla base dei due apriori concettuali che comandano i luoghi in questione,vale a dire la bontà del dio e la sua perfezione, il non essere toccato da alcunmutamento.

Il cristianesimo di lingua latina, che pure trarrà dal lessico ‘pagano’ lanozione di religio per applicarla – in una trama di aspetti di continuità easpetti di rottura – a sé, si proporrà, diversamente dalle tante religiones che sierano diffuse nell’impero, come religio vera.

Nel passaggio dall’orizzonte politeistico greco-romano a quellomonoteistico cristiano, e senza dimenticare come in seno all’ebraismo fossematurata una riflessione sulla ‘verità’ degli ‘dei delle nazioni’ dichiarati qualinon esistenti o, secondo diversa interpretazione, quali demoni, e come lanozione di verità in relazione al Dio di Israele fosse caratterizzata da specificiattributi (stabilità, affidabilità, fedeltà),[109] il termine religio si carica di unaineliminabile valenza veritativa.[110]

L’espressione vera religio, con cui il cristianesimo verrà ad autodefinirsi,

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in sostanza unisce i due aspetti che nell’ambito dei politeismi del mondocircummediterraneo antico erano distinti: da un lato, la ricerca della verità,ricerca che era appannaggio delle scuole filosofiche e, dall’altro, la praticadella religio, che era affare primariamente di culto, pur dandosi atteggiamentidi pietas, di devozione, di legame particolare tra un fedele e una divinità,come pure un minimo di credenze relative alle figure divine e alla loroefficacia (tutte valenze, queste, peraltro non inglobate in un concettoarticolato e unitario quale quello di ‘religione’ così come esso sarebbe venutoa configurarsi nella tradizione cristiana occidentale). In sostanza, lereligiones, i tanti e diversi complessi mitico-rituali propri degli orizzontipoliteistici del mondo circummediterraneo, non si offrivano con preteseveritative, ovvero non si ponevano espressamente come vere, nonrichiedevano e non esibivano patenti di verità. La ricerca e la dimostrazionedella verità intorno a quelle realtà divine o sovraumane che pure eranoaggetto di pratica cultuale, religio, riguardavano – come si è detto – ildibattito filosofico. Religione e verità abitavano su due monti distinti.Ovvero, il ‘paganesimo’ nelle sue diverse forme ‘surclassava il problemadella verità perché inessenziale al suo culto’.[111]

Lo stretto legame che si offre, invece, tra la religio cristiana e la questionedella sua verità, è attestato anche dall’uso che taluni autori cristiani fanno deltermine philosophia per designare la religione cristiana stessa (così, adesempio, il vescovo di Sardi, Melitone, nella sua Apologia). Tale uso, alcontempo, esprime una critica nei confronti delle religiones tradizionali nellaloro preminente se non esclusiva componente pratico-operativa, e lacoscienza che se la nuova religione può porsi nel solco di precedenti e coeveesperienze del mondo greco-romano, non sarà nel solco delle religiones chesi porrà, ma in quello delle scuole filosofiche, essendo la filosofia, nel mondoantico, non mero esercizio speculativo ma speculazione, ovvero indaginerazionale, legata a una specifica condotta di vita ispirata ai principi teoriciprofessati.[112]

L’espressione vera philosophia, ove applicata al cristianesimo, mettel’accento sull’incidenza dell’elemento della ricerca razionale nella nuovareligione e sulla distinzione tra una ricerca che approda alla verità – e che gli

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auctores cristiani che ne fanno uso identificano con la via cristiana – e quelleproprie delle tante scuole filosofiche pagane che in misura maggiore o minoresi avvicinavano alla verità senza mai raggiungerla pienamente e che dunquenon potevano fregiarsi dell’appellativo di vere. Non andrà tuttaviadimenticato che “presentando il cristianesimo come una filosofia, questatradizione è l’erede, certamente consapevole, di una corrente che esisteva giànella tradizione ebraica, in special modo in Filone di Alessandria.Quest’ultimo presenta l’ebraismo come una patrios philosophia, la filosofiatradizionale del popolo ebraico. Si ritrova lo stesso vocabolario in GiuseppeFlavio”.[113] Agli autori ecclesiastici e ai Padri della Chiesa si deve ilsorgere e lo svilupparsi di una filosofia cristiana, intesa come “filosoficità delcristianesimo, filosoficità in quanto intrinseca al fatto cristiano in quanto tale:il cristianesimo per i Padri, con la sua intrinseca razionalità, rappresenta larisposta alla ricerca filosofica di tanti secoli”.[114]

Inoltre, occorre ricordare che il significato del termine ‘filosofia’all’epoca dei Padri apostolici e della Apologetica era diverso dall’attuale, e lafilosofia era il termine che più poteva esprimere quella sintesi tra aspettidottrinari e condotta di vita, che è venuto ad esprimere il termine religione nelsuo percorso storico. Del resto, nel mondo greco-romano era all’interno dellafilosofia, e non nel mondo delle religiones, che si poteva trovare unatteggiamento analogo a quello che in ambito cristiano era la conversione, nelmomento in cui la filosofia richiedeva un cambiamento totale da uno stile divita considerato inferiore a un altro, superiore.[115] Oltre a richiedere unasorta di conversione, la filosofia aveva altri aspetti che la avvicinavano allanozione di religione, come si è venuta configurando nel suo cammino storico.Essa aveva, infatti, i suoi ‘uomini santi’, come Socrate o Pitagora o Platone o,ancora nel III secolo, quel Plotino a cui Porfirio attribuiva poteritaumaturgici.[116] In sostanza, si è potuto dire, in sede di studi, che per gliantichi la filosofia occupava un posto analogo a quello che nei secolisuccessivi avrebbe occupato la religione.[117]

Una fonte cristiana d’età imperiale, che offre espliciti echi del de naturadeorum ciceroniano e in esso, in particolare, della posizione di Cotta, risultaesemplare al riguardo del tema qui dibattuto, ovvero l’estraneità della

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nozione di religio – come presente nell’orizzonte ‘pagano’ coevo – rispettoad una riflessione speculativa sulla natura veritativa della stessa. Si trattadell’Octavius di Minucio Felice[118] e, in esso, in particolare della posizionedifesa dal pagano Cecilio.

L’opera è una delle prime del cristianesimo latino, scritta con buonaverisimiglianza nei primi decenni del III sec. d.C. e appartenente allatradizione letteraria fiorita nei primi secoli cristiani, in ambito greco e latino,che si suole denominare ‘apologetica’, in quanto volta, principalmente manon esclusivamente, alla difesa del cristianesimo. L’Octavius si presentacome un dialogo, fittizio, ambientato sul lido di Ostia, su argomenti religiositra tre amici: Minucio stesso, pagano convertito al cristianesimo; Cecilio,tuttora pagano, e Ottavio, cristiano. Mentre lo scrittore funge da arbitro, i dueesprimono le proprie visioni religiose. Si riconosce comunemente come, tragli apologisti, Minucio sia quello che espone più diffusamente su diversi temiil punto di vista pagano, che, nell’opera in questione, è espresso – appunto –da Cecilio, pagano a un tempo scettico e scrupoloso difensore della religionetradizionale. Una posizione, quella di Cecilio, che è comune ai rappresentantidello scetticismo antico, da Pirrone a Sesto Empirico, e che ha un precedenteletterario nel personaggio, appunto, di Cotta, pontefice e neoaccademicoscettico, nel de natura deorum ciceroniano, opera che trova dei precisi echistilistici e di contenuto nell’Octavius.

Dopo il prologo, dominato dal tema dell’amicitia, come valore condivisoda pagani e cristiani, il pagano Cecilio, indotto a difendere la propriaposizione di fronte al cristiano Ottavio in un amichevole dibattito, inizia coldifendere la tendenza scettica del pensiero antico e rifiuta le pretese di veritàavanzate dai cristiani, da lui definiti ironicamente ‘campioni di verità’,antistites veritatis.[119]

Cecilio, infatti, afferma che “non c’è alcuna difficoltà a dimostrare chenelle cose umane tutto è dubbioso, incerto, sospeso, e tutto è piuttostoverosimile che vero” (nullum negotium est patefacere, omnia in rebushumanis dubia, incerta, suspensa, magisque omnia verisimilia quam vera)”.[120] Pertanto, fa scandalo e rattrista il fatto che “certuni, e per di piùignoranti, privi di cultura, inetti anche alle arti più spregevoli, ardiscano di

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pronunciarsi con sicurezza intorno all’universo nella sua maestà, mentre datanti e tanti secoli proprio i filosofi d’innumerevoli scuole continuano adiscuterne (Itaque indignandum omnibus, indolescendum est auderequondam, et hoc studiorum rudes, litterarum profanos, expertes artium etiamsordidarum, certum aliquid de summa rerum ac maiestate decernere, de quatot omnibus saeculis sectarum plurimarum usque adhuc ipsa philosophiadeliberat)”.[121]

E qui Cecilio, andando al di là di una posizione scettica, suggerisce chetutto sia determinato dalla fortuna o caso: “Tant’è: o la verità che rimane pernoi incerta è occultata e soffocata, o, ciò che è piuttosto da credere, attraversoi casi vari e instabili, sciolta da ogni legge, la fortuna esercita il suo dominio(Adeo aut incerta nobis veritas occultatur et premitur, aut, quod magiscredendum est, variis et lubricis casibus soluta legibus fortuna dominatur)”.[122]

Particolarmente interessante è questo propendere da parte di Cecilio, intale passaggio, per una posizione che non è più propriamente scettica ma èpiuttosto ‘dogmatica’, nel momento in cui Cecilio afferma il dominio su tuttodel caso. Ma neppure questa sarà l’ultima parola di Cecilio perché, comevedremo tra poco, nel passaggio successivo Cecilio metterà in campoentrambe le ipotesi, senza più propendere per alcuna di esse, opponendolealla posizione cristiana. Merita tuttavia osservare come l’affermazione‘dogmatica’ di Cecilio, circa il dominio del caso, distingua nettamente laposizione di Cecilio da quella del suo modello letterario, vale a dire loscettico e pontefice Cotta nel ciceroniano de natura deorum. Al riguardo,allora, taluni critici ritengono che molto debba dipendere dal tipo diinterlocutore che Cecilio si trovava davanti, e che non interveniva nel dialogociceroniano. Colà – come sopra detto – gli interlocutori di Cotta erano unepicureo, Velleio, e uno stoico, Balbo. Alle loro diverse posizioni‘dogmatiche’ Cotta opponeva la sua posizione scettica. Ora, l’interlocutoredi Cecilio è un cristiano, Ottavio, e Cecilio si trova non solo nella necessità dicontrapporre a coloro, i cristiani, che parlavano di una religio vera e di unDio vero la impossibilità scettica di giungere al vero e dunque la necessitàdella sospensione del giudizio, ma anche nella necessità di contrapporre al

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Dio provvidente dei cristiani un principio dominante in maniera cieca earbitraria tutta la realtà e al quale ricondurre le cause degli avvenimenti. Sipotrebbe dire, per quanto riguarda l’oscillare di Cecilio tra due professioni ‘difede’, una scettica e una dogmatica, che, dato il contesto, l’occasione deldialogo e la natura degli interlocutori, non è primario per il pagano sostenereuna posizione teorica piuttosto che un’altra, e anche in questo si giocaun’importante differenza con il dialogo ciceroniano de natura deorum, ove itre interlocutori coincidevano, per così dire, con le loro rispettive e diverseopzioni filosofiche, la epicurea, la stoica e la accademica. Cecilio non è‘figura’ di una posizione filosofica ma è – primariamente – difensore dellareligio tradizionale e della sua legittimità, che è altra cosa dalla sua ‘verità’. Ea questa legittimazione della religio tradizionale risultano perfettamentefunzionali – tale è la sua convinzione – sia la affermazione scettica (quandoparla di incerta natura) sia la affermazione dogmatica (allorché parla di unafortuna certa).

Viene, infatti, ad affermare Cecilio, rivolgendosi al cristiano Ottavio:“Poiché dunque o la fortuna è un dato incontrovertibile o la natura non offrealcuna certezza (cum igitur aut fortuna certa aut incerta natura sit), quantosarebbe più rispettoso e opportuno per i campioni della verità (antistitesveritatis) accogliere l’insegnamento degli antenati, osservare le pratiche delculto tradizionale e adorare quegli dèi che dai tuoi genitori sei statoeducato a temere piuttosto che a voler conoscere troppo da vicino (timerequam nosse familiarius), né tranciare giudizi sulle potenze soprannaturali,ma aver fiducia negli avi che in un’epoca ancora incolta, agli inizi stessi delmondo, ebbero il privilegio di avere gli dèi come entità accessibili oaddirittura come re (prioribus credere qui adhuc rudi saeculo in ipsius mundinatalibus meruerunt deos vel faciles habere vel reges)!”.[123]

In questa posizione, difesa da Cecilio, si esprime la divaricazione traconoscenza e culto, che percorre larga parte del pensiero antico, e sembraaffacciarsi il tema della carica potenzialmente distruttiva riconosciuta, nellalogica difesa da Cecilio, alla conoscenza nei confronti della religione.

Come noto, una separazione tra conoscenza e culto aveva trovato formanella teologia tripartita (mitica, civile, fisica) di Marco Terenzio Varrone, con

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cui si sarebbe confrontato Agostino, al fine di spiegare come il cristianesimoconcepiva la propria pretesa di verità nel cosmo delle religioni. In quelcontesto, Agostino viene a collocare il cristianesimo nel campo della teologianon mitica, non civile, ma fisica, vale a dire in quello della razionalitàfilosofica, che si interroga intorno alla natura, physis, delle cose.[124] SempreAgostino è testimone di analoga tripartizione affermata dal pontefice MucioScevola e, in questa, della carica corrosiva nei confronti della religioriconosciuta alla conoscenza.[125]

In sostanza, nella fonte che abbiamo sopra ricordato, il discorso delpagano Cecilio nell’Octavius di Minucio Felice, lo scetticismo sullapossibilità per l’uomo di giungere al ‘vero’ muove alla accettazione dellareligione tradizionale di Roma e al riconoscimento della legittimità delleforme religiose professate dai tanti popoli. Poiché tutto è incerto, bisognarispettare le antiche tradizioni religiose, come fanno i diversi popoli con leloro e come fanno i Romani con la religio ereditata dai padri e con lereligiones straniere accolte. Dal quadro delineato emerge dunque, insieme alriconoscimento della religio tradizionale come valida in quanto antica e utile,con il conseguente obbligo per i cives romani dell’osservanza del culto nelleforme ancestrali, anche il riconoscimento, da parte di Roma, ai popoli deldiritto a venerare i propri dei, nonché la pratica tutta romana di accogliere, etalora sollecitare, l’ingresso di dèi stranieri nel proprio pantheon e del loroculto tra i culti praticati dal civis romanus. Un’accoglienza che - affermaCecilio - ha fatto grande Roma.[126] L’idea, qui espressa, che il culto deglidei sia il garante della prosperità dei popoli e che anche la grandezza di Romasia dovuta al culto degli dei, già attestata per la Roma repubblicana,[127] saràriaffermata con vigore, in età imperiale, dagli ‘ultimi pagani’, come Simmaconella sua terza Relatio.[128]

Torniamo al discorso di Cecilio nell’Octavius di Minucio Felice.Lo scetticismo, come visto, muove all’accettazione della religione

tradizionale di Roma e al riconoscimento della legittimità delle formereligiose professate dai tanti popoli. Poiché tutto è incerto, bisogna rispettarele antiche tradizioni religiose, come fanno i diversi popoli con le loro e comefanno i romani con la religio ereditata dai padri. Dalla loro, le diverse

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tradizioni religiose, compresa la romana, hanno l’antichità, quale criterio nondi verità, che è irraggiungibile, ma di validità. In più, il culto degli dei diRoma e di quelli degli altri popoli che via via lo stato romano ingloba, sirivela ‘utile’, poiché – argomenta Cecilio – operando così, Roma è arrivata adominare il mondo. “Se invano l’uomo pretende di conoscere il vero circa ladivinità, prudenza vuole che non si sovverta, in nome di una religione nuovaed esclusiva, quella religione che ci insegna non tanto a conoscere gli deiquanto a temerli: essa ci è stata tramandata dai maggiori e ha dalla parte sua,almeno, il pregio della antichità e il consenso universale dei popoli (c. 6); e ilsuo valore è confermato dalla storia romana, poiché dall’osservanza o dallatrasgressione dei precetti della religione tradizionale sono dipese le fortune ele sventure di Roma (c. 7)”.[129]

In sostanza, tutto il discorso del pagano Cecilio è, nell’essenza, un rifiutodelle ‘pretese’ di verità avanzate dai cristiani, ironicamente indicati nel testo,come visto, quali ‘maestri di verità’.[130] Perciò, la replica dell’interlocutorecristiano – che qui non esaminiamo – culmina nel rifiuto dello scetticismopagano: “noi (i cristiani) ci vantiamo di aver raggiunto ciò che loro (i pagani)hanno cercato con estrema fatica e che tuttavia non hanno potuto trovare”.[131]

Se la posizione scettica, che trova espressione nelle parole del paganoCecilio, si annunciava già nelle parole di Cotta, nel ciceroniano de naturadeorum, non devono sfuggire le differenze tra le due posizioni, quellaespressa da Cotta nel de natura deorum e quella espressa da Cecilionell’Octavius. Al riguardo qui ci basti segnalare quanto segue: in Cotta lepersonali convinzioni filosofiche, scettiche, sono giustapposte al suoradicamento nella tradizione religiosa romana e al suo ossequio verso lediverse componenti di questa, in particolare sacrifici e auspici, per il tramitedelle quali ottenere e mantenere il favore degli dei, garante della grandezza diRoma. In qualche modo si può dire che le convinzioni filosofiche lo portanoin una certa direzione, sospensione di giudizio, mentre la sua qualifica dipontefice lo spinge in un’altra, adesione scrupolosa al culto tradizionale.

Invece, in Cecilio, in un momento storico diverso nel quale sulla scena siè fatta pervasiva la nuova religione, il cristianesimo con le sue ‘pretese’

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veritative, la professione scettica costituisce il retroterra ideologico che portaall’accettazione della religio tradizionale, del mos maiorum. Non potendoconoscere il vero, ci si ferma al verosimile,[132] che è la religio anticarivelatasi, per di più, utile. C’è una forma di rassegnazione nelle parole diCecilio, che non è presente nelle parole di Cotta, pur nella affinità dei duecontesti, come ben vede C. Moreschini:“Vi è, comunque, qualcosa di diversonell’atteggiamento di Cecilio: il personaggio di Cicerone non vede (...)nessuna contraddizione tra lo scetticismo sul piano razionale e il ricorso allareligione dello stato; Cecilio, invece, colora il suo ragionamento con un tonodi rassegnazione: dal momento che non si può conoscere niente, l’unicasoluzione è quella di adattarsi alla religione tradizionale”.[133]

La fonte sopra evocata – il discorso del pagano Cecilio – appareesemplare – ma non certo unica – di una posizione qualificante l’orizzontereligioso greco-romano di fronte alla proposta cristiana: in quello, infatti,“verità e religione, conoscenza razionale e ordinamento cultuale sono situatisu due piani diversi. L’ordinamento cultuale, il mondo concreto dellareligione, non appartiene all’ordine della res, della realtà come tale, ma aquello dei mores, dei costumi. Non sono gli dei che hanno creato lo Stato, èlo Stato che ha istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale perl’ordinamento dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini”.[134]Ovvero: religio e conoscenza razionale del reale “si configurano come duesfere separate, l’una accanto all’altra. La religio non trae la suagiustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica”.[135]

Nell’orizzonte politeistico della Roma repubblicana e poi imperiale,criterio di validità di una religio è, come visto, insieme alla sua antichità, lasua efficacia nel tutelare la collettività e le sue istituzioni. Staccata dallaverità la religio è consuetudine, insieme di atti e regole consacrati da un usodi lunga data e ritenuti efficaci. Consuetudine che non deve essere scalzata,pena la stabilità delle istituzioni civili. A fronte di questa situazione,Tertulliano delinea la posizione cristiana con una frase oltremodo incisiva:“Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit”.[136] Ovvero: Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine. Lascelta, nel nuovo orizzonte religioso cristiano, è per la verità e non per la

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consuetudine. È stato osservato[137] come il termine consuetudo, impiegatoda Tertulliano in relazione alla religione tradizionale di Roma, potrebbeessere reso, se volessimo fare un riferimento alla attualità, con espressionicome ‘moda culturale’ o ‘moda del tempo’.

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1.2.3 La nozione di religio in autori cristiani di lingua latina dei primi secoli

Accenniamo ora all’uso del termine religio in alcuni autori cristiani dilingua latina – con particolare riferimento a due scrittori cristiani, Lattanzio eAgostino di Ippona, che, fra IV e V sec., prendono posizione, in esplicitadialettica con Cicerone, sul problema della derivazione del termine religio edel suo significato, al fine di mostrare quelle trasformazioni di significato checondurranno alla moderna accezione di ‘religione’, come complessoarticolato di credenze, pratiche rituali e comportamenti etici.

Innanzitutto Tertulliano: “Tertulliano (ca. 150/160-240 d.C.) è autore dinumerose opere di carattere dottrinale e polemico, dirette sia ai correligionaricristiani sia al contemporaneo ambiente pagano in cui il nuovo messaggioreligioso, con tutti i suoi risvolti sociali, suscitava tensioni, forme di reazioneintellettuale e di repressione anche violenta. Contro queste reazioni, a difesadel cristianesimo e nella volontà di scardinare dalle fondamenta l’impalcaturareligiosa politeistica, lo scrittore cartaginese compose, intorno al 197, dueopere polemiche, rispettivamente intitolate Ad Nationes, ovvero – secondol’uso linguistico tipico del giudaismo – Alle Genti, ossia alle popolazioni chepraticavano i culti politeisti, e Apologeticum, ossia una Apologia difesa dellanuova realtà religiosa cristiana. È dunque significativo constatare comeappunto questa realtà sia definita, già nella prima di queste opere, comereligio nostra (Ad Nat. I, 16, 20) con una espressione ‘totalizzante’ cheannunzia gli sviluppi ulteriori della nozione stessa, sebbene sia mantenuto ilcomune uso tradizionale con marcato significato cultuale. (...) Piùsignificativo comunque è l’uso dell’espressione religio nostra (Apol. 16, 14)a premessa di un’ampia illustrazione dei fondamenti dottrinali di coloro che,dichiara Tertulliano, adorano un Dio unico (17, 1-21, 30) sulla base delleSacre Scritture dei giudei, nei confronti dei quali, pur con alcune puntepolemiche per non avere essi riconosciuto la divinità di Cristo, si afferma unasostanziale continuità. Anche il complesso delle tradizioni giudaiche, nellaloro duplice componente dottrinale e rituale, è a più riprese definito comeIudaica religio (16, 1-3 e passim) mentre, in opposizione all’identità religiosa

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cristiana e giudaica, si parla della Romana religio alla quale si contrapponeveram religionem Dei veri (‘la vera religione del Dio vero’) ossia quellacristiana (24, 1-2). Senza poter ulteriormente analizzare il testo tertullianeo,basti notare come il polemista formuli chiaramente la nozione di tre distinticontesti storico-culturali caratterizzati ciascuno da una forma di religioegualmente distinta e specifica, definibile rispettivamente come Iudaica,Romana e, in riferimento ai cristiani, religio nostra (...)”.[138] Con il terminereligio, dunque, “sono circoscritte e definite tre diverse modalità di rapportouomo-divinità, nella loro duplice componente ideologica e cultuale, definibiliin base all’appartenenza «nazionale» nel caso di giudei e romani, laddovel’affermazione di un criterio di «verità» per la religio del nuovo popolocristiano propone una prospettiva universalistica ma non per questo menocaratterizzata sotto il profilo dell’identità. ‘Si diviene, non si nasce cristiani’afferma infatti Tertulliano nel medesimo discorso apologetico (18, 4) el’assunzione della nuova identità religiosa si propone come fondamento diuna nuova categoria definitoria, non più determinata dal referente nazionalema da quello esclusivamente religioso. Tale referente sarà appunto definito intermini di religio christiana in un altro scrittore africano, Arnobio di Sicca(m. nel 327 circa), che negli anni drammatici della persecuzione diDiocleziano compone un’altra opera polemica Adversus Nationes (302-303).In questo scritto, denunziando il carattere immorale delle credenze e pratichepoliteistiche, interpretate in base ai canoni dell’evemerismo come pertinentiad antichi uomini divinizzati, oppone ad esse la verità della christiana religio.Nel respingere l’accusa secondo la quale i cristiani sarebbero causa dellesventure dell’impero (Adv. nat. I,2,3), l’autore – nell’usare quell’espressionea definirne l’identità – mostra di attribuire ad essa un significato comprensivodella dimensione ideologica e pratico-etica che caratterizza la lorofisionomia”.[139]

E veniamo ai due scrittori cristiani che, come sopra detto, in opposizionealla connessione additata da Cicerone di religio con relegere, nel senso di‘considerare attentamente’ o ‘riconsiderare’, propongono derivazioni diverse,ad esprimere il nuovo significato che presso di loro – ma non senza continuitàcon l’uso romano ‘pagano’ del termine – offre la nozione di religio.

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Innanzitutto Lattanzio, che, come Tertulliano ed Arnobio, è un convertitodal paganesimo.

“Nel corso della persecuzione anti-cristiana proclamata da DioclezianoLattanzio redige le Divinae Institutiones (304-311), in cui intendecontrapporre ai trattati relativi alle leggi umane, alle institutiones umane,un’opera che abbia come oggetto le institutiones divine, cioè tutto ilcomplesso di insegnamenti e di precetti che definiscono quella che giàTertulliano e altri autori cristiani definivano la vera religio, l’osservanzareligiosa cristiana in opposizione alle religiones politeistiche. (...) Egliintende mostrare ai suoi interlocutori pagani che il nuovo messaggio è unasintesi organica di religio e di sapientia, di origine divina, superiore al cultusdeorum, ossia alle pratiche politeistiche frutto di inganno diabolico (cfr. IV,2, 6-3, 1; IV, 10, 4)”.[140] E dopo aver argomentato in merito allaconsonanza fra l’insegnamento cristiano e i più noti esponenti della sapienzapagana, come le Sibille ed Hermes Trismegistos (Ermete Trismegisto), figuranata dalla convergenza del dio egiziano Thot e del greco Hermes, alla qualeera attribuita una ricca letteratura di rivelazione, l’autore addita la via dellasalvezza nell’abbandono dell’errore e nella pratica della ‘vera religione’:“Infatti, se noi siamo generati, è a condizione di offrire i giusti e dovutiossequi al Dio che ci ha generati; questo solo noi abbiamo conosciuto, questosolo noi seguiamo. A questo Dio noi siamo connessi strettamente e legati daun vincolo di pietà, dal che la religio stessa prese questo nome, non come hainterpretato Cicerone da ‘riprendere’ (hac enim condicione gignimur, utgeneranti nos Deo iusta et debita obsequia praebeamus, hunc solumnoverimus, hunc sequamur. Hoc vinculo pietatis obstrincti Deo et religatisumus; unde ipsa religio nomen accepit, non ut Cicero interpretatus est ‘arelegendo’)”.[141]

L’autore poi cita il passo del de nat. deor. II, 28, a cui sopra abbiamofatto riferimento, contestando l’opposizione tra superstitio e religio, inquanto, per Lattanzio, entrambi atteggiamenti che comunque riguardano ilculto delle false divinità del politeismo. All’opposizione, non solociceroniana ma più ampiamente diffusa nella cultura romana, tra superstitio ereligio, egli sostituisce l’opposizione, che si imporrà nella successiva

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tradizione cristiana, fra religio come vero culto e superstitio come falso: “isuperstiziosi sono dunque quelli che onorano dèi numerosi e falsi, e siamonoi ad essere religiosi, noi che rivolgiamo le nostre preghiere al Dio unico evero (superstitiosi ergo qui multos et falsos deos colunt, nos autem religiosi,qui uni et vero Deo supplicamus)”.[142]

Secondo Lattanzio, dunque, religio deriva da religare, ‘legarestrettamente’: essa implica il riconoscimento che l’uomo è come legato ad unDio unico, che si contrappone alla pluralità di dii dell’orizzonte ciceroniano ein genere politeistico, a un Dio che – afferma Lattanzio – ci ha ‘generato’,ove il verbo gignere (generare) è qui da intendersi in senso lato, di portareall’esistenza, creare. Si delinea una prospettiva nella quale al primario dato‘teologico’, o dottrinale, consistente appunto nel riconoscimento di ordineintellettuale da parte dell’uomo della esistenza di un Dio unico e creatore, econseguentemente del derivare da Lui l’esistenza, si lega strettamente il datopratico-cultuale consistente nel rendere a Dio il debito ossequio (iusta etdebita obsequia) non solo interiormente ma anche nelle forme esterne delculto che rendano appunto visibile quel vincolo di pietà (vinculum pietatis)con il quale l’uomo sente di essere legato a Dio, suo creatore, dal quale eglideriva la sua esistenza. In tale prospettiva, religio pur non identificandosi inuna prassi cultuale, come accadeva per le religiones dell’orizzontepoliteistico romano, ingloba in sé anche questa prassi, intesa comeespressione ‘visibile’ di quell’atteggiamento interiore di pietà, di quelvinculum pietatis con cui l’uomo si sente legato – e religio per Lattanzio è,come visto, termine connesso con religare, ‘legare strettamente’ – al suo Dio,riconosciuto come unico, creatore e trascendente.

L’ultimo autore cristiano che occorre qui menzionare a testimonianzadell’evoluzione del significato di religio presso scrittori cristiani di lingualatina è Agostino di Ippona (354-430).

Anche per la ricostruzione del suo pensiero al riguardo del tema inquestione, come già per gli autori precedentemente nominati, può essere utileaffidarsi alla efficace sintesi offerta dalla Sfameni Gasparro.

Agostino è “l’autore a cui si deve una sistematizzazione ancora piùcompleta della nozione di religio vera, religio christiana, come quella che

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non soltanto abbraccia l’elemento intellettuale del riconoscimentodell’esistenza di Dio e l’aspetto della pietas, di un vincolo tra l’uomo e ladivinità, ma in maniera più precisa che non nel passo di Lattanzio giàesaminato, si definisce come complesso di credenze, cioè come organicopatrimonio di tipo dottrinale-teologico. Con Agostino, di fatto, si viene adeterminare in maniera più netta quella che sarà l’accezione del termine edella nozione di ‘religione’ quale, nel corso di un lungo processo storico econ varie elaborazioni da parte di altri autori, si imporrà nel mondooccidentale come complesso organico di credenze, di pratiche cultuali e diatteggiamenti etici. Naturalmente non è possibile in questa sede esaminarel’ampio raggio degli interventi agostiniani sul tema, elaborato in particolarenel trattato De vera religione (La vera religione) del 390, che già dal titolomostra il proposito dimostrativo dell’autore e quindi, in maniera articolata,nel confronto serrato con i più autorevoli rappresentanti della tradizioneculturale pagana, del passato e del presente, svolto anche nel De civitate Dei(La città di Dio), opera composta fra il 413 e il 426. Il passo in questione ètratto da quest’ultima opera in cui Agostino, pur in un’epoca di indiscussaaffermazione del cristianesimo quale religione ufficiale dell’Impero, deveancora respingere le critiche di ambienti colti e popolari in cui le antichetradizioni politeistiche rimanevano ancora vitali. L’argomentazione qui svoltasi collega per alcuni versi alle discussioni di Lattanzio e mette in luce ancoraaltre dimensioni della visione cristiana che riflettono aspetti peculiari dellaposizione agostiniana. Non bisogna infatti dimenticare che ogni autore che ciparla attraverso le sue opere per un verso è testimone della tradizioneculturale e religiosa a cui appartiene – e di essa esprime alcune componentipiù o meno centrali e significative – e per l’altro verso, proprio nellaselezione che egli opera di tali componenti, esprime anche le propriepersonali opzioni e il personale approccio al parametro religioso di cui purepartecipa.

Ciò emerge nettamente a proposito del testo agostiniano in questione, cheè in linea con tutta la tradizione cristiana anteriore ma sottolinea di essaalcuni aspetti che sono tipicamente agostiniani e che a loro voltainfluenzeranno la tradizione posteriore. Ogni fonte, ogni testimonianza va

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letta sempre in questa duplice ottica, ossia tenendo conto sia del contestostorico-culturale in cui essa si colloca e dell’ambiente cui appartiene, sia dellapersonalità di colui che parla, degli interessi cui obbedisce in quel momento edelle motivazioni da cui è sollecitato.

Agostino riprende la connessione ciceroniana fra religio e religere orelegere, ma le attribuisce un altro significato che avvicina il verbo alreligare lattanziano. Si ha l’uso di un verbo, religere, che qui viene usatocome sinonimo di relegere, ma in un’accezione diversa da quella attribuita adesso da Cicerone. Il discorso elaborato dal vescovo di Ippona èparticolarmente significativo poiché, in una sorta di ispirazione«comparatista» ante litteram, egli propone una serie di confronti fra i terminilatini e quelli greci pertinenti alla sfera del culto e delle credenze religiosemostrandone analogie ma anche differenze e rendendo evidente come nonsussista una perfetta corrispondenza tra l’uso linguistico greco e quello latino,e quindi tra le rispettive mentalità religiose”.[143] Dell’articolata riflessioneelaborata da Agostino, però, preme qui riportare le affermazioni conclusive.Parlando del culto rivolto a Dio, Dei cultus, da tributarsi a Lui sia con lepratiche rituali sia nell’intimo della coscienza (sive in quibusque sacramentissive in nobis ipsis), afferma: “Egli infatti è principio della nostra felicità, eglifine di ogni desiderio. Scegliendolo, anzi scegliendolo di nuovo (religentes),perché l’avevamo perduto scartandolo dalla nostra scelta; scegliendolo dinuovo (religere) dunque, poiché proprio da questo si fa derivare il [termine]religio, tendiamo a lui con una scelta di amore, per cessare dall’affannoall’arrivo, felici appunto perché in possesso della pienezza di quel fine (hunc[deum] eligentes vel potius religentes – amiseramus enim neglegentes – huncergo religentes, unde et religio dicta perhibentur, ad eum dilectionemtendimus, ut perveniendo quiscamus ideo beati, quia illo fine perfecti)” (Deciv. Dei X, 3, 2).

“Il verbo religere, dunque, nell’ottica agostiniana si pone comeequivalente di relegere, questo inteso nel senso di ‘scegliere nuovamente’(re-eligere) e non nel senso ciceroniano di «scegliere attentamente», «ri-osservare». Questa «nuova scelta» si spiega nelle parole di Agostino, perché«lo avevamo perduto trascurandolo». È qui evoca la tipica prospettiva biblica

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della storia dell’umanità, che agli occhi di Agostino coincide con quella delsingolo, cioè di un’umanità che alle origini era in diretto rapporto con Dio,dalle cui mani era stata creata, ma che ha abbandonato il suo creatorecadendo nel peccato. Da ciò una lunga serie di defezioni, di progressivo edrammatico allontanamento dal Creatore. L’uomo pertanto «sceglie» dinuovo Dio in quanto l’aveva perduto, avendolo trascurato.

Il termine religio deriverebbe dunque per Agostino da «scegliere»,configurandosi un’accezione diversa sia da quella ciceroniana sia da quellalattanziana. A quest’ultima tuttavia essa si connette più strettamente perchéquesto «scegliere Dio» implica un legarsi di nuovo a Lui, pur prevalendol’idea di una scelta vista nell’ottica di un primitivo abbandono peccaminoso epoi di un ritorno a Dio. Si parla infatti subito di un «tendere», di un«rivolgersi a» (Dio), sicché riemerge il concetto del legame ma configuratodiversamente. Nel testo di Lattanzio si parlava della pietas che lega l’uomo aDio mentre in Agostino il discorso si fa ancora più intimo: è la dilectio,l’affezione che lega l’uomo alla divinità «affinché giungendo a lui possiamoavere riposo» (ut perveniendo quiescamus). Emerge in tutta la sua pregnanzala nozione agostiniana del cor inquietum finché non riposi in Dio, ossia tuttal’esperienza agostiniana del peccato e della conversione come ritorno a Dio,un ritorno tormentato e tormentoso che peraltro si risolve nella quies,attraverso il riconoscimento delle proprie colpe e il fiducioso abbandono allamisericordia divina.

Si constata dunque come in questo passo, in cui pure l’autore intende dareuna definizione obiettiva di religio, emergano tanti aspetti tipicidell’esperienza cristiana del peccato e della salvezza e di un’esperienzacristiana vissuta da un particolare individuo. Ciò attinge al cuore stesso delproblema del significato di una testimonianza storica, che non è mai asettica,generica, ma sempre più o meno legata all’esperienza del suo autore. Qui ilpersonaggio, Agostino, fa rifluire nella nozione di religio una quantità diaspetti (l’amore, l’abbandono e il ritorno, il riposare in Dio, la beatitudine, laperfezione) che sono tipicamente agostiniani oltre che più genericamentecristiani. Di fatto, nell’immagine del ritorno a Dio inteso come riposo einsieme raggiungimento della perfezione è espressa la nozione cristiana di

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Dio come il fine dell’uomo, in cui questo può riposare beatus, ossiaraggiungere la felicità.

Da questi esempi si può concludere riconoscendo come il quadro sianotevolmente articolato e complesso. L’uso del termine religio negli autoriesaminati sul versante pagano e cristiano conferma il diverso peso, la diversaqualità che tale uso esprime in ciascuno di essi, in quanto storicamentedistinti, anche se non privi di rapporti, tanto che tutti possono usare la stessaterminologia. Tenute ferme tali diversità, peraltro, si constata come lo stessotermine possa, sia pure con gradazione e intensità diverse, ricoprire degliambiti concettuali analoghi, quali la nozione di culto prestato a una o piùentità personali e la nozione di pietas, così importante nel qualificare ilrapporto tra l’uomo e la divinità nell’orizzonte romano e centralenell’esperienza cristiana. In tale nozione sono anche presenti alcuni contenutidi tipo intellettuale, nel senso di credenza in quanto riconoscimentodell’esistenza di potenze superiori all’uomo e influenti sulla sua vita esull’ordine cosmico”.[144]

Va poi ricordato che nel de vera religione (55,111) Agostino registra lacomune convinzione che il termine religio derivi dalla idea del legare eidentifichi il legame che unisce le anime a Dio. Nelle Retractationes (1,13,9)dichiara di preferire tale etimo all’altro che fa derivare religio da re-eligere,ovvero ‘scegliere di nuovo’.

Se non è qui possibile illustrare tappe ulteriori dello sviluppo dellariflessione cristiano-occidentale sulla nozione di religio, ci limitiamo asegnalare, per il suo porre in primo piano l’idea di ‘relazione’, la definizioneofferta da Tommaso d’Aquino (1225-1274): religio proprie importat ordinemad Deum.[145] Ovvero: religione, in senso proprio, implica una relazione conDio.

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1.3 ‘Religione’: una nozione analogica

Come sopra ricordavamo, il problema della definizione dell’oggetto distudio si pone come questione preliminare, come in ogni disciplinascientifica, anche nell’ambito della Storia delle religioni.

Questa, in quanto scienza storica si qualifica per l’uso (prevalente) delmetodo induttivo. Il che vuol dire che lo storico delle religioni, a differenzadel filosofo e del teologo delle religioni, non partirà da definizioni date,aprioristiche o ideali, di religione. Del resto, l’estrema varietà di posizioniindividuabili all’interno del campo d’indagine della disciplina impediscel’utilizzo di una definizione rigida e sistematica di ciò che bisogna intendereper ‘religione’.

Se partisse da una definizione rigida e speculativa, quasi una formaesemplare di religione, o da una definizione ottimale di religione, costruitaeventualmente avendo presente la religione cristiana, si troverebbe indifficoltà quando si imbatta nel corso della ricerca in fatti che ‘sporgono’rispetto a quella definizione, per esempio in forme quali il buddhismo delPiccolo veicolo, che non presenta gli elementi più caratterizzanti, seppure inmodi diversi, il mondo delle religioni, ovvero l’idea di Dio, o del divino, el’idea della permanenza dell’‘anima’. Sulla base di una definizione ottimaledi religione, si arriverebbe a escluderlo dal mondo della religione per la suaindifferenza alle problematiche essenziali – le due indicate – delle religioni.Sarà l’indagine storica – invece, come avremo modo di illustrare – più che ilriferimento a una definizione rigida previa, a mostrare come l’‘ateismobuddhista’ e la dottrina buddhista dell’impermanenza dell’anima funzioninoconcretamente e storicamente come radicalizzazione di una tematicareligiosa, quale quella propria della speculazione vedantica sulle nozioni dikarma, sam ³sāra e nirvana, ovvero sopra l’illusorietà del mondo degliesistenti, nel quadro di una finale liberazione nell’Assoluto.

Ma se una definizione, previa, rigida o ottimale, di religione non si puòdare all’inizio di una ricerca storica, lo storico delle religioni avrà purtuttavia– come detto – bisogno di una qualche definizione di religione, per orientarela propria ricerca a materiali religiosi e non di altro genere. Si tratterà allora

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per lui di formulare una definizione non rigida, ma indicativa o ‘aperta’, chepotrà essere costruita sulla base di ciò che nel suo ambiente culturale, nellasua cultura di base è sentito come religione.

Si tratta dunque – accogliendo la suggestione metodologica di U. Bianchi– di partire dall’esperienza culturale dello storico medesimo, il quale, al di làdelle proprie personali convinzioni e opzioni, è consapevole del fatto che nelproprio ambiente culturale e nella tradizione storica che lo ha plasmatodiversi fenomeni (credenze, comportamenti, pratiche, etc.) sono percommunis opinio ritenuti religiosi. Egli, allargando progressivamente lapropria esperienza a culture sempre più lontane nel tempo e nello spazio,indagherà in esse quei fenomeni che presentano analogie più o menostringenti ma sempre qualificanti con ciò che nel suo ambiente culturale èconsiderato ‘religione’.[146]

Pertanto, il significato di ‘religione’, impostosi gradualmente allacoscienza comune nella cultura cristiano-occidentale, viene assunto neglistudi storico-religiosi quale modulo interpretativo di analoghi fenomeniriscontrabili in altre culture, anche lontane rispetto a quella.

Il criterio della ‘analogia’ non implica identità di contenuti e di funzionima neppure radicale diversità, e permette di situare in una categoria – quellaappunto di ‘religione’ – estremamente ampia e diversificata, masostanzialmente omogenea, fenomeni apparentemente così diversi, come – adesempio – la credenza e le relative pratiche rituali rivolte a entità sfuggenti epericolose, quali gli ‘spiriti’ che popolano l’ambiente naturale, pressopopolazioni di tipo etnologico, e la fede nel Dio unico dei grandi monoteismistorici.

Pertanto, legittimamente, egli chiamerà – almeno come ipotesi di ricerca– religiosi quei fenomeni che, riscontrati in aree culturali affini o diverserispetto a quella in cui egli si è formato, umanamente e scientificamente,offrano significative affinità con ciò che nella sua cultura d’appartenenza,ovvero la cultura occidentale moderna, è percepito come religione ed è conquesto termine espresso. Ma tali affinità non saranno sempre le stesse epotranno essere diverse volta per volta. Ad esempio, riscontrerà talora affinitàbasate su uno specifico contenuto, vale a dire l’idea di un dio personale,

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centrale negli orizzonti monoteistici; talaltra, invece, riscontrerà affinitàbasate su istituzioni, come quella del monachesimo, ben acclimatato in ambitiquali quello cristiano e quello buddista, i quali, sotto il profilo dei contenuti,appaiono invece così profondamente lontani.

Il termine e la nozione di ‘religione’, pertanto, non hanno un significatounivoco. Il che vuol dire che ‘religione’ non esprime un contenuto, o unafunzione o una forma (o atteggiamento), che siano sempre e comunquepresenti nella molteplicità e disparità dei concreti storici a cui viene applicatoil termine ‘religione’: “male si darebbe al termine ‘religione’ (...) unsignificato univoco, corrispondente ad una precisa definizione, sulla basedella quale, deduttivamente e in qualche senso normativamente (cioè almenonel senso di una normatività fenomenologica) cercar poi di includere nelmondo della religione determinati fatti e contesti o escluderne altri (ad. es. ilbuddismo nella sua formulazione più specifica, quella che allinea dolore,esistenza e desiderio, e la magia)”.[147]

Detto in altri termini: illusoria è la ricerca di un denominatore comune trale religioni, ossia di un contenuto, o anche una funzione o una forma,minimali, che ritornino sempre identici a se stessi nella varietà e disparità deifenomeni religiosi cui si rivolge la ricerca storico-comparativa.L’affermazione di un minimo comune denominatore diventa talora via persostenere che tutte le religioni sono allora – almeno per esso –fondamentalmente uguali, differendo nelle forme diverse di cui questodenominatore comune si riveste. Talora, come nella teoria tylorianadell’animismo primitivo e nelle altre che ne condividevano l’impostazione‘evoluzionistica’, si è tentato di identificare un minimo comune denominatoreinteso in senso dinamico-evolutivo, nel senso, cioè, che fosse non solo nuxconcettuale ma anche nux ‘storica’, da cui, per via di evoluzione, tutto il restonel mondo delle religioni potesse essere dedotto.

Né una fenomenologia che presupponga – come sopra visto – una chiaveermeneutica universale come quella del ‘sacro’ di R. Otto o del‘sacro/primordiale’ di M. Eliade, può essere accettata ove si segua il metodostorico-comparativo, giacché tali nozioni identificano un presupposto dellaricerca e non un suo risultato.

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Il termine e la nozione di ‘religione’, se non hanno un significatounivoco, non hanno neppure un significato equivoco, ovvero non copronorealtà totalmente diverse le une dalle altre e che nulla abbiano in comune.

Hanno invece un significato analogo. Il termine analogia viene qui usatonel senso aristotelico-scolastico, ossia come implicante un significato non‘univoco’ né ‘equivoco’. L’analogia, infatti, implica la presenza di aspetti,più che di compiuti anche se minimali contenuti, comuni, vale a dire lapresenza di affinità profonde e di non meno profonde disparità, formali, dicontenuto e di funzione.

‘Religione’ è una categoria analogica, che viene a coprire realtà (econcetti) che hanno tra di loro affinità e disparità, sul piano dei contenuti,delle funzioni, delle forme. Le disparità possono essere profonde quanto leaffinità (di una profondità che arriva fino alle radici storiche e motivazionalidi queste stesse realtà) e, comunque, le une e le altre non sono sempre lestesse, ma possono di volta in volta variare nei rapporti analogici trafenomeni religiosi diversi.

Ciò impedisce di considerare – come invece accade in prospettivefenomenologiche – le discontinuità e le differenze che la ricerca positivaconstata tra i fatti religiosi come degli ‘accidenti’ storici, che siano tali inrelazione a una univoca sostanza religiosa, che troppo facilmente si definisca,giacché le differenze appartengono alla sostanza non meno che le affinità.Pertanto, la religione non è pensabile come un’essenza comune di cui lediverse caratterizzazioni storiche siano accidenti. Non è possibile identificarela religione come un genus, un genere, di fronte alle religioni quali species.La religione non è un genere di cui le varie religioni storiche siano dellespecie. Il rapporto religione/religioni non è pensabile nei termini di unrapporto genere/specie, poiché “la differenza tra analoghi è molto piùprofonda e problematica di quella implicata dalla differentia specifica sullabase di un genere comune”.[148]

Un esempio, al riguardo, potrà aiutare. Il genere ‘vertebrato’ si realizza inmaniera univoca nell’uomo e nel cavallo; infatti, le entità appartenenti aentrambe le specie sono costruite su un sistema di vertebre. Il rapportogenere/specie come si realizza nel mondo animale e nel mondo vegetale non

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si presta a esprimere il rapporto religione/religioni. Nella concretezza storica,la religione non è un genere di cui le diverse religioni siano delle specie,come se tutto ciò che si trova nel genere si ritrovi anche nelle specie. Nellediverse religioni storiche non è possibile trovare la realizzazione univoca diun unico contenuto o di un’unica forma o di un’unica funzione.

L’uso della nozione di analogia per identificare il concetto di religionecomporta delle precisazioni ulteriori.[149]

Afferma, infatti, Bianchi, che l’analogia in questione è “una analogia dipartecipazione, senza un analogatum princeps rispetto a cui si misurino tuttigli altri elementi analoghi; piuttosto, un complesso di elementi analoghi, chelo sono tutti a pari diritto; nel quale, cioè, non si dà un modello teoretico difronte a cui ci siano ‘religioni’ più o meno ‘religiose’, se non nel senso,fenomenologico e storico, che alcune di esse occupano un luogo piùperiferico di altre nel quadro di un ‘atlante’ emergente dalla osservazioneobiettiva. Dunque, in questo frastagliatissimo sistema montuoso che è lareligione, potremo parlare di fenomeni più periferici o meno periferici, tali, incerti casi, da autorizzare sempre meno l’uso di una terminologia sia pureanalogica. Saranno così più periferici, cioè più problematici sul piano di unatipologia storica, quelli che avranno meno legami di affinità con altri; sarannopiù centrali quelli nei quali compariranno in maggior numero quegli elementipositivi di analogia che avremo potuto riscontrare in un raggruppamento piùvasto e appunto – in quel senso – più compatto (...)”.[150]

Sul tipo di analogia identificata in sede di ricerca positivo-induttiva comela più pertinente a descrivere la nozione di ‘religione’ – ovvero una analogiasenza analogatum princeps[151] – si sofferma ancora lo studioso: “Potrebbesorgere qui l’obiezione: si fa presto a parlare qui di analogia senzaanalogatum princeps, ma come si può essa in pratica realizzare? Allora (...)quando Wittgenstein esamina il concetto di gioco e dice che tra gioco A egioco B ci sono alcuni elementi comuni, e poi fra gioco B e gioco C ce nesono altri, in parte comuni con quelli di prima e in parte nuovi, che però sonotali da connettere in qualche modo B e C, e così si arriva a Z, e fra X e Z cisono ancora elementi comuni, ma essi sono tutti e completamente diversi daquelli che c’erano fra A e B, ma che nonostante tutto la nozione di gioco

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emerge lo stesso, – allora dico che non c’è nessuna difficoltà nel fatto che fraX e Z ci siano elementi comuni tutti diversi da quelli che c’erano fra A e B,perché le connessioni fra A e Z attraverso tutto il reticolo intermedio sonotalmente forti che si può benissimo parlare di analogia senza analogatumprinceps. Così, se non ci si può basare su un concetto univoco di religione, enon si può avere una ‘definizione rigida’ di esso, si avrà semplicemente uncomplesso di elementi che, variamente combinati, tengano insieme il variomondo della religione, ammettendosi la possibilità che alcuni fenomeni sianoin esso più periferici, altri meno, per il fatto della maggiore o minorefrequenza di elementi comuni”.[152] E ammettendosi anche la possibilità chealcuni elementi che rientrano in tale reticolo possano essere presenti anche inaltri reticoli, se vogliamo continuare a usare questa immagine, o in altriuniversali storici quali, ad esempio, quelli costituiti dalle filosofie o dalle‘sapienze’, le quali dunque solo in parte e volta per volta in modo diversoverrebbero a sovrapporsi, per loro specifici elementi, all’universale storico –nozione che più avanti illustreremo – costituito dalla religione.

Sopra si diceva che l’aporia, da più studiosi segnalata (ovvero: all’iniziodi una ricerca positivo-induttiva non posso partire da definizioni ma debbod’altra parte avere un’idea degli oggetti a cui volgere la mia ricerca), sarebbeveramente aporia nel caso si desse un concetto univoco di religione. “Seinvece il concetto di religione è analogo, di una analogia che non conoscenessun analogatum princeps, se questa analogia si fonda sulla comunità dielementi che si constata di volta in volta studiando in comparazione questa oquell’altra religione e poi quell’altra con un’altra ancora – se dunque si trattadi stabilire questo enorme reticolo di comunanze, che poi non sono sempre lestesse a seconda dei gruppi, e da esso noi traiamo il complesso mondo dellareligione, un territorio così frastagliato, con tanti picchi e non uno solo, contante displuviali e non una sola – se noi agiamo così, allora non siamo piùpreda dell’aporia e non siamo più travolti dalla dialettica del quo maiorextensio, eo minor comprehensio, ciò appunto in grazia del valore analogicodel termine e del fatto religione”.

La nozione di analogia applicata alla categoria di ‘religione’ consente lasoluzione di problemi che sembrano irresolubili fuori da essa, quale il

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seguente: “il Buddhismo, quello hinaianico e quello che sta primadell’hinaianico, insomma l’intuizione centrale del Buddha, è religione o non èreligione? Sono alternative che non hanno senso; lo avrebbero invece sefacessimo riferimento a un concetto univoco – ma come giustificarlo, su basepositiva? – di religione. Si tratterà invece di vedere quali fili, qualiconnessioni storiche e tipologiche possano tenere insieme per qualche versoil Buddhismo ad altri fenomeni che abbiamo motivo di chiamare religiosi perla frequenza in essi di certi aspetti tipici – non sempre gli stessi – cheautorizzano un uso meno problematico di questo termine. (...) Si potrà parlaredi una certa perifericità del Buddhismo rispetto alle frequenze del mondoreligioso, e perciò stesso si potrà parlare del carattere periferico (meglio cheatipico) del Buddhismo rispetto al mondo delle religioni; per quanto, se ci siponesse da un altro punto di vista e si spostasse un po’ la prospettiva, sipotrebbe dire che sotto un altro aspetto il Buddhismo è invece piuttostocentrale nel mondo della religione per la sua critica e relativizzazione delmondano e per il carattere assoluto della liberazione che esso annunzia”.[153]

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1.3.1 Analogia e univocità: ancora sulla definizione di ‘religione’L’affermazione della portata analogica del termine e della nozione di

religione, e insieme la coscienza che la categoria ‘religione’ (come insiemeintegrato di dottrine, prassi cultuali e comportamenti etici, che pertiene larelazione tra l’uomo e il livello che sopra dfinivamo del supra e del prius),propria dell’ambiente culturale in cui si muove lo studioso occidentale, sia ilfrutto del cammino storico conosciuto dal mondo occidentale stesso,identificano una posizione metodologica da distinguere nettamente rispetto adaltre posizioni che già in merito alla questione della definizione di religione sipongono diversamente. Citiamo qui, a titolo esemplificativo, alcune propostemetodologiche che propongono definizioni univoche di religione.

Per esse, il termine e la nozione di religione avrebbero, dunque, unsignificato univoco, ovvero esprimerebbero un contenuto o una funzione ouna forma, supposti come comuni alle formazioni religiose diverse, ossiacome presenti, sempre identici a se stessi, pur nella disparità radicale deiconcreti fenomeni religiosi. Si è così variamente tentato di identificare talisupposti comuni denominatori, e, sulla base di quelli, di offrire unadefinizione ‘univoca’ di religione.

Nel tentativo di definire che cosa è ‘religione’ si è venuti a privilegiare unaspetto su altri, sia per quanto concerne i contenuti (per es., il teismo), sia perquanto concerne la forma (per es., il sentimento di dipendenza assoluta), siaper quanto concerne la funzione (per es., quella di controllarel’incontrollabile, come per A. Brelich, o quella di superare il rischioesistenziale, come per E. De Martino, studiosi ai quali torneremo più avanti).In tal modo, si è venuti spesso a valutare una forma religiosa, o più spesso la‘religione’ in quanto tale, con i moduli di un’altra forma, o di una specificaforma, nella quale tale contenuto, tale forma o tale funzione fosseroparticolarmente evidenti.

Senza pensare di poter essere esaustivi al riguardo, offriamo qui soloalcuni esempi particolarmente significativi di diversi tipi di definizioniunivoche formulate in sede di studi.

A principiare da un esempio di definizione di tipo reale, o obiettivo o

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ostensivo, vale a dire da una definizione che esprima il contenuto di ciò che siintende definire, e nel presente caso un supposto contenuto comune allediverse religioni.

M.E. Spiro (1920-), antropologo americano, definisce la religione come‘un’interazione, culturalmente modellata, con esseri sovrumaniculturalmente postulati’.[154] Tale definizione taglia fuori dal novero dellereligioni fenomeni come il buddhismo del Piccolo Veicolo, un fenomeno checertamente si presenta – come già sopra detto – abnorme rispetto al mondodella religione per la sua posizione negativa o agnostica circa i temi di dio edella permanenza dell’anima. D’altra parte, però, la sua posizione di fondocirca il desiderio e la sofferenza umane lo rende così centrale nel mondo dellareligione. Senza contare i profondi e insolubili rapporti storici tra ilbuddhismo del Piccolo Veicolo e la speculazione indiana upanishadica,esperienza squisitamente religiosa, della quale esso venne a utilizzare e aradicalizzare importanti e centrali temi.

Anche il tentativo di rifarsi all’etimologia di ‘religione’ al fine diidentificarne univocamente il significato, ovvero il tentativo di desumeredall’etimologia il proprium della nozione di ‘religione’, si è rivelato illusorioperché il termine latino religio – come visto – ha un significato diverso e piùristretto rispetto a quello che è venuto assumendo il termine ‘religione’ nellacultura occidentale.

Ulteriore tipo di definizione univoca proposta in sede di studi è costituitodalle definizioni funzionali.

Si tratta di definizioni che, senza impegnarsi nell’identificazione dicontenuti supposti come ovunque presenti nelle religioni storiche, ritengonodi poter trovare il proprium o l’essenza della religione in una sua funzionesupposta come comune pur nella disparità dei contenuti delle diversereligioni. Esse vengono a interpretare le religioni come modalità diverse disoddisfare le medesime domande esistenziali ed intellettuali, laddove, per lostorico delle religioni che intende ‘religione’ come una nozione analogica, lereligioni più che dare risposte diverse alle medesime domande spesso dannorisposte diverse a domande diverse.

Esempi di definizioni funzionali sono quelle proposte da A. Brelich o da

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E. de Martino. Un accenno a entrambe.Per A. Brelich (1913-1977), le credenze e le prassi religiose sono

determinate dai bisogni di una società e, nello specifico, dal bisogno diproteggersi da ciò che con altri mezzi essa non è capace di dominare. Essepertanto sono dallo studioso interpretate come mezzi per controllare ciò chenon è controllabile con altri mezzi umani e per sottrarre la realtà alla sferanon umana della contingenza e conferirle una significazione umana. Brelich,dunque, identifica le religioni come “quei complessi di istituzioni, credenze,azioni” che costituiscono i “prodotti di un tipo particolare di sforzo creatoredelle differenti società umane, grazie al quale esse tendono ad acquistare ilcontrollo di ciò che, nella loro esperienza concreta della realtà, sembrasfuggire a tutti gli altri mezzi umani di controllo”.[155]

Come appare programmaticamente nella sua Introduzione alla storiadelle religioni,[156] Brelich avanza questa proposta interpretativa prendendole distanze da altri e differenti approcci al fenomeno religioso: il considerarele religioni come degenerazione di una religione primordiale (sulla linea diW. Schmidt); il considerare (sulla linea di certa fenomenologia) la religioneconnaturata all’uomo, e le religioni come differenti manifestazioni di talequalità innata, oppure la religione come una struttura unica comune a tutte leesperienze religiose. Brelich – in polemica con M. Eliade – afferma che da unpunto di vista storico non possiamo essere certi che sia sempre esistito ciòche chiamiamo convenzionalmente ‘religione’ e nemmeno che essa esisteràsempre. L’assunto dell’homo religiosus è, cioè, storicamente indimostrabile,come è indimostrabile l’esistenza di una struttura unica che caratterizzi tuttele religioni e soltanto le religioni.[157]

Per E. de Martino (1908-1965) la religione avrebbe una funzionedestorificante, intesa al superamento della ‘crisi della presenza’, ovvero dellacrisi del vivere in questo mondo (dasein) e dell’angoscia connessa allaesperienza creativa della storia. La religione, dunque, si identificherebbe conil, e mirerebbe a, realizzare una evasione dalla storia, ossia con il riscatto dalrischio e dalla angoscia causati dal sentirsi responsabili del proprio destino.Tale riscatto sarebbe ottenibile mediante il temporaneo rifugio nel mito e nelrito. La destorificazione religiosa è il processo mediante il quale – in

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particolare con lo strumento costituito dal rito – l’uomo si sottrae a quellastoria da cui si sente minacciato. Tale teoria interpretativa dei fatti religiosi,che risente di suggestioni heideggeriane, viene dallo studioso enunciata, inparticolare, a partire dalle analisi condotte sulle classi subalterne delMeridione d’Italia,[158] per le quali, impossibilitate ad essere artefici dellapropria storia e del proprio destino, l’operazione destorificante del ritorisulterebbe – nella lettura di de Martino – l’unica via percorribile inmancanza di alternative più efficaci, come i mezzi economici, l’istruzione, ecosì via. Tale tecnica psicologica di destorificazione, intesa come mezzo persuperare situazioni esistenziali critiche, sarebbe destinata a scomparire –perché non più necessaria – dalla coscienza di una umanità progredita e dallasua storia.

Siamo di fronte, ancora una volta, a una definizione funzionale, cheaddita il proprium della religione non in uno o più contenuti, ma in unasupposta sua univoca funzione.

Può essere qui riportata la critica di U. Bianchi al riguardo delle posizionidi Brelich e de Martino citate. Esse risultano inammissibili dal punto di vistastorico-religioso in quanto psicologistiche, generiche e non individuanti, oltreche deterministiche, nel momento in cui additano un meccanismo psicologicoche si riproporrebbe in maniera univoca e indiscriminata in relazione allediverse forme religiose. Le quali, invece, a un’indagine comparativa,appaiono diversamente orientate: si pensi alla diversità tra religioni chetendono alla ‘fuga’ dal mondano e religioni che invece implicano un fattivoimpegno nella storia. Quanto – nello specifico – allo schema demartiniano‘angoscia-crisi-riscatto’ che si offrirebbe come universalmente valido esoggiacente a tutte le manifestazioni religiose, si può obiettare che non esisteriscatto che non supponga questa o quella visione del mondo. Inoltre, esempre in relazione al paradigma interpretativo demartiniano, “taleinterpretazione viene condotta sulla base di un materiale documentarioassolutamente parziale, cioè sulla base di fenomeni religiosi o parareligiosi(pianto rituale), o addirittura non religiosi, in cui si riscontrino anomalie dicomportamento psichico cioè forme esasperate (e talora aberranti, nonsoltanto di fronte all’attuale coscienza religiosa) nelle quali sia facile

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constatare la presenza di scariche psichiche da interpretare in chiave di ‘crisiesistenziale’ angosciosa e di superamento evasivo della medesima. Tutto ilrestante (e prevalente) mondo dei valori religiosi (...) rimane, nella teoriadella ‘tecnica di destorificazione’, fuori di ogni adeguata considerazione”.[159]

Quanto poi alla posizione di Brelich sopra ricordata, che addita lafunzione della religione nella tensione a controllare l’incontrollabile, è statoobbiettato che tale funzione potrebbe essere adempiuta, di per sé, anche daaltri atteggiamenti umani diversi da quello religioso (per esempio da quegliatteggiamenti che si esprimono nell’ambito dell’astrologia o della magia). Epertanto, si ripropone il problema di identificare ciò che è religioso e didistinguerlo da ciò che non è religioso. Queste osservazioni vanificano laproposta di una definizione funzionale di religione e mostrano come non sipossa rinunciare all’identificazione di uno o più aspetti, più che veri e propricontenuti, qualificanti la religione e le religioni.

Nell’ambito delle definizioni univoche di ‘religione’ vanno poi registratequelle definizioni che tentano di individuare una forma comune o unatteggiamento comune alle diverse religioni e in esso identificare il propriumdistintivo della religione. Verificata la difficoltà di pervenire a definizionifondate su credenze e dottrine, e tali dunque da identificare specificicontenuti delle religioni, sia perché le credenze si rivelano così diverse traloro, sia perché in diversi mondi religiosi come, ad esempio, nelle religionidei popoli cosiddetti primitivi, le credenze hanno un peso minore rispetto alleusanze e ai riti, nella identificazione di ciò che viene ritenuto il propriumdella religione si è così tentato di spostare l’attenzione dal concettualeall’emozionale e all’intuitivo.

F. Schleiermacher (1768-1834) – ad esempio – ha potuto definire lareligione come “sentimento di dipendenza assoluta”. A una definizione diquesto tipo, definizione non ostensiva, non funzionale, ma piuttosto formale,lo storico delle religioni obietta che ogni sentimento è rivolto verso qualcheoggetto, e che pertanto esiste pur sempre un contesto concettuale di unqualche tipo.

A un tipo di definizione siffatto si avvicina, quale ulteriore esempio, la

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definizione – proposta dal teologo protestante Paul Tillich (1886-1965) eripresa da altri studiosi dopo di lui – di ‘religione’ come ultimate concern,ossia come ‘interesse supremo’ di un individuo o di un gruppo umano: “con iltermine religione, intendiamo l’essere toccato, coinvolto (ergriffenseins) daun Problema, una questione ultima che fa apparire tutte le altre questionicome puramente transitorie, passeggere”.[160] Si tratta di un uso lato deltermine ‘religione’, in relazione a sentimenti o atteggiamenti che implicanouna dedizione in qualche modo assoluta o ‘ultima’ (appunto un ultimateconcern). Questo tipo di definizione, solo da taluni distinta dalle definizionifunzionali, sposta il problema ma non lo risolve. Di fatto, l’ultimate concernpotrebbe venire a comprendere qualsiasi tipo di relazione con una realtà allaquale una persona attribuisce valore massimo. Di conseguenza si potrebbeparlare – al limite – di ‘religione del denaro’, ‘della libertà’, e così via. In talmodo si perde la specificità del fatto e dell’esperienza religiosi.

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1.3.2 ‘Riduzionismo’ e ‘antiriduzionismo’Nella storia degli studi, i vari e diversi tentativi di definire che cosa sia

‘religione’ si sono spesso accompagnati a interpretazioni riduzionistiche della‘religione’ stessa.

Per riduzionismo, nell’ambito dello studio dei fenomeni religiosi,s’intende la programmatica (ovvero: prima e fuori da ogni positiva indagine)riduzione della religione a altri aspetti e dimensioni, non religiosi, dellatradizione culturale in cui una religione si colloca, e più in generale nellasistematica spiegazione della religione mediante la non-religione. In sostanza,il riduzionismo “consiste nel ricorso programmatico a categorie concettuali ereali diverse da quella religiosa per spiegare l’insorgere e il perdurare dellareligione, o la natura di questa”.[161]

Possiamo qui dedicare soltanto un accenno a diverse forme diriduzionismo espressesi nello studio e nell’interpretazione del fatto religiosoe dei fatti religiosi.

La riduzione razionalistica della religione si ha quando si ammette lanecessità di eliminare i contenuti di fede da una religione. In tale direzione,ad esempio, si muove G. Bruno (1548-1600) che addita nella religione deidotti o dei filosofi una forma superiore alla religione grossolana del volgo,intrisa di superstizioni e mossa dalla paura. Su questa linea si pone anche B.Spinoza (1632-1677), nel momento in cui afferma (Ethica V,23) lacoincidenza di religione e filosofia nell’amor Dei intellctualis del dotto.

G.W.F. Hegel (1770-1831) può rappresentare un esempio emblematicodella religione ridotta alla ragione. Nel suo sistema di pensiero la filosofiasupera la religione (che è ‘la conoscenza che lo Spirito infinito ha del proprioessere come Spirito assoluto’) e questa è chiamata a risolversi in quella,perché, pur avendo entrambe lo stesso oggetto, la religione si muoverebbe –per coglierlo – sul piano imperfetto della rappresentazione e del mito, mentrela filosofia si muove sul piano perfetto della ragione. Con la filosofia il Diodella religione muore (il ‘Venerdì Santo Speculativo’) e risorge come Spiritoassoluto (cfr. in particolare le Vorlesungen über die Philosophie der Religion,1832).

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Vi è poi una riduzione moralistica della religione, per la quale si ritieneche le religioni nelle loro forme tradizionali e nei loro aspetti cultuali e dipietà siano forme imperfette di impegno etico, mentre la vera religioneconsterebbe della sola vita morale. Nozioni e istituzioni come peccato,redenzione, preghiera, Chiesa, sarebbero allegorie esprimenti i diversi aspettidella vita morale. Solo l’imperativo morale testimonia in favore dell’esistenzadi Dio. Emblematico di questa posizione è il pensiero di I. Kant (1724-1804),il quale ne La critica della ragion pratica afferma: “La religione è laconoscenza di tutti i nostri doveri come comandi divini”.

Altro esempio di siffatta forma riduzionistica è il pensiero del filosofoamericano J. Dewey (1859-1952), il quale afferma (Una fede comune, tr. it.Firenze 1959; ed. or. New Haven – London 1934) che la religiosità autenticaè la moralità toccata dall’emozione, mentre del tutto accessori, se nondannosi, sono riti, credenze e istituzioni religiose.

Vi è poi una riduzione della religione all’antropologia, e tale forma diriduzione si manifesta quando si considera la religione come una proiezionedell’uomo sul piano del trascendente. Già in età antica era stato denunciato daSenofane (al quale avremo modo di ritornare) l’antropomorfismo degli deidei miti. In età moderna, basti qui ricordare come per L. Feuerbach (1804-1872) l’oggetto e il soggetto della religione coincidano: ciò che vienechiamato ‘Dio’ è l’uomo sottratto ai suoi limiti. La religione deriva da unmeccanismo di proiezione psicologica mediante il quale l’uomo s’innalza aldisopra dei limiti e delle carenze dell’umanità. La teologia è antropologia, ildiscorso su Dio è in realtà discorso sull’uomo. E la vera religione non èquella di Dio ma quella dell’uomo, ossia l’antropologia è teologia. Ilcristianesimo, nell’interpretazione di Feuerbach, avrebbe confermato questaintuizione con la dottrina dell’Incarnazione.

Si ha poi un riduzionismo sociologico, analogo al precedente, e a suavolta tale da conoscere diverse espressioni (positivistico-comtiano, marxiano,etc.), con la differenza che il riferimento non è all’uomo in quanto tale maalla collettività umana. La riduzione di tipo sociologico (espressa ad esempiodalle tesi di E. Durkheim) fondamentalmente considera la religione comeipostatizzazione dei legami sociali.

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Si dà poi un riduzionismo psicologico, esempi classici del quale possonoessere quelli costituiti, da un lato, dalla “riduzione freudiana della religione aesito di eventi della storia psichica dell’individuo, eventi esemplarizzati in unpresunto evento primordiale: il parricidio primordiale sorgente del complessodi Edipo: una ipotesi certo non confermata dalla ricerca positiva in campoetnologico”;[162] nelle profondità dell’inconscio individuale, in sostanza,sarebbe l’origine di quelle rappresentazioni e di quelle esperienze che sonoalla base della mentalità religiosa, e così la religione viene ricondotta e ridottaa un meccanismo psicologico, a circostanze tipiche della storia psichicadell’individuo. Dall’altro lato, dalla teoria dell’‘inconscio collettivo’ di C.G.Jung (1875-1961), per il quale l’inconscio collettivo trasmetterebbe quegliarchetipi che sono alla base delle varie mitologie. Nella direzione di unriduzionismo psicologico va anche la ben nota teoria di D. Hume (1711-1776) circa l’origine della religione dalla paura.

Ma va anche menzionata la riduzione della religione in fattoripsicopatologici, la quale lega a una matrice psicopatologica, ovvero adeterminate malattie psichiche, particolari fenomeni tradizionalmentepercepiti come religiosi, quali esperienze mistiche o esperienze estatiche e, allimite, la religione stessa.

I vari riduzionismi, dei quali qui abbiamo fornito solo alcuni esempi, purdiversi tra loro hanno in comune il fatto di voler spiegareprogrammaticamente la religione con la non-religione, di voler ricondurre eridurre la religione a ciò che religione non è. In sostanza, in materia di‘religione’, il riduzionismo consiste nel ricorso programmatico a categoriediverse da quella religiosa per spiegare l’insorgere e il perdurare dellareligione e la natura di questa. In tale prospettiva la religione – perduta la suaspecificità – diventa o semplice preliminare o semplice appendice di unadiversa attività umana. Una posizione riduzionistica, “per il fatto cheintroduce presupposti di natura filosofico-sistematica in una ricerca che vuolessere essenzialmente e irriducibilmente storico-positiva, contrasta con ipresupposti stessi della metodologia della storia delle religioni – così comecontrasterebbero altri presupposti di tipo teologico, anti-teologico ofilosofico-sistematico, quando fossero parimenti addotti come strutture

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portanti o anelli di una argomentazione storica. Questa, per essere tale, deveessere valevole e verificabile per tutti coloro che, appunto, alla metodologiastorica intendano riferirsi”.[163] La stessa indagine storico-comparativa portaa mostrare come spesso i riduzionismi operino una selezione del materialereligioso ai fini della legittimazione delle teorie interpretative volta per voltaproposte.

Le diverse interpretazioni ‘riduzionistiche’ del fatto religioso possonodividersi in due tipi: ovvero si può dare un riduzionismo ad extra, che riducala religione alla non-religione, che riduca, cioè, il religioso a ciò che non èreligioso, sia esso lo psichico o lo pscicopatologico, o il sociale o altro. E sipuò dare un riduzionismo ad intra, che o venga a identificare lo specifico delreligioso in un suo elemento o in una sua componente, sia essa razionale oemotiva o sentimentale o irrazionale, o sia alla ricerca di pretesi minimicomuni all’interno delle religioni. Esempio di riduzioni irrazionalistiche delfatto religioso può essere identificato nelle tesi dell’Otto sopra ricordate.Esempio di ricerca di, e riduzione a, un minimo comune può essere costituitodalle posizioni evoluzionistiche sopra ricordate.

Occorre poi registrare come interpretazioni riduzionistiche del fattoreligioso tendano programmaticamente ad affermare la prossima (lontana ovicina) eliminazione o il superamento dello stesso. Basti qui ricordare comel’interpretazione marxista, peraltro articolata, consideri la religione unasovrastruttura alienante propria di una realtà sociale ed economicacaratterizzata dallo sfruttamento delle classi inferiori. Sovrastruttura destinataa scomparire con l’avvento di una società senza classi. Secondo taleinterpretazione, la religione sarebbe sorta dalla miseria sociale: gli emarginatie i poveri a compenso della propria sofferenza si sarebbero ‘creati’ una realtàoltremondana nella quale tutti i desideri avrebbero trovato soddisfazione e leclassi dirigenti avrebbero sfruttato tale credenza per i propri scopi. Colmiglioramento della situazione economica la religione non avrebbe avuto piùsenso.

Un superamento della religione è altresì idea programmatica all’interno diquelle interpretazioni del fatto religioso, di impostazione generalmenteevoluzionistica, che lo vogliono – come sopra visto – una sorta di spiegazione

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prescientifica del mondo, che il progresso della scienza si sarebbepreoccupato di confutare.

Tesi a superare i tentativi riduzionistici di diverso tipo furono pensatoricome il già ricordato F. Schleiermacher, il quale affermò (Discorsi sullareligione e monologhi, tr. it., Firenze 1947) che la religione, lungi dal poteressere ridotta a conoscenza razionale o a moralità, è “sentimento e gustodell’Infinito” ovvero “sentimento dell’assoluta dipendenza”.

Siffatto tentativo, che pur fu meritorio in quanto tale da aprire la strada alrecupero della religione in una regione autonoma che non fosse quella delconoscere o quella del fare, finisce con l’essere anch’esso riduzionisticoseppur di diverso segno rispetto a quelli che volle combattere, dal momentoin cui esso identifica l’atteggiamento religioso in un solo aspetto della vitadell’uomo, ovvero lo identifica con un sentimento di dipendenza creaturale difronte all’Assoluto, tralasciando altri aspetti come, ad esempio, la moralità ola razionalità. Un atteggiamento non riduzionistico porta, invece, allapossibilità di riconoscere nell’atto religioso un atto e un’esperienza di totalità.Ovvero: un atto o un’esperienza che possono coinvolgere il soggettonell’interezza e nella profondità del suo essere. È l’intera persona a esserne –in tal caso – coinvolta, non solo i suoi aspetti sentimentali o emotivi, maanche il suo intelletto e la sua razionalità.[164]

Contro i diversi riduzionismi moderni della religione si sono mossi, inparticolare, esponenti della fenomenologia della religione, come R. Otto e M.Eliade, e storici delle religioni.

Tuttavia, nel combattere il riduzionismo, la prospettiva storico-religiosa,secondo la lezione metodologica di R. Pettazzoni e di U. Bianchi, percorreuna via diversa da quella percorsa dalla fenomenologia religiosa. Nel suotentativo di opporsi alle posizioni riduzionistiche che riducono e finisconocon il dissolvere il religioso nel non religioso, la fenomenologia religiosa, purnelle sue diverse espressioni, intende ‘salvare’ il religioso identificandolo inun suo supposto univoco aspetto o univoca sostanza, quasi dotata diautonoma sussistenza e soggiacente alla cangiante gamma degli accidentistorici nei quali esso, o essa, si esprimerebbe. La fenomenologia vuole essereantiriduzionistica e lo fa venendo a presupporre un concetto di religione come

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categoria a priori necessaria ed eterna, e quindi programmaticamenteirriducibile.

Se l’approccio storico-comparativo ai fatti religiosi ritiene che il religiosonon sia riducibile a ciò che non è religioso, e dunque né al sociale né allopsichico né allo psicopatologico e neppure agli altri aspetti della cultura, dellaquale pure fa parte e ai quali è connesso da una trama complessa eineliminabile di rapporti (in questo senso sopra si parlava di ‘autonomiarelativa’ della religione), e non è disposto a spiegazioni dell’origine dellareligione con ciò che non è ancora religione, questo non vuol dire che taleapproccio sia disposto ad ammettere – come invece fa la fenomenologia – ilreligioso come una forma a priori dello spirito, che non spetta allastoriografia postulare. Bianchi affermava – infatti – che l’irriducibilità dellareligione come attività dello spirito non potrà essere supposta a priori, eneppure a priori negata, ma si tradurrà piuttosto metodologicamentenell’esigenza di indagare i fatti religiosi – fatti verificabili nella misura in cuisi riflettono in documenti degni di fede – in tutti i loro aspetti e in tutte le loropieghe, senza selezioni arbitrarie.

Così, mentre la fenomenologia religiosa, come visto, poggia il suoantiriduzionismo su una nozione univoca di religione (ad es. la religionecome sensus numinis, o ‘sentimento del completamente altro’, per R. Otto; lareligione come reintegrazione di una pienezza originaria, in contrapposizionecon la storia, per M. Eliade, etc.) l’approccio storico-comparativo, nellalezione metodologica di U. Bianchi, fa propria una nozione analogica del suooggetto, la religione. Per la Storia delle religioni, in sostanza, l’esclusione deiriduzionismi “non implica affatto un’affermazione pregiudiziale econdizionante della religione come metafisica struttura a priori auto-giustificantesi e coestensiva per principio ad ogni storia umana nel tempo enello spazio. L’affermazione di una universalità della religione rispetto alleculture umane rimane sempre, si noti, ben fondata (nonostante l’esempio,ancora non probante, di società attuali parzialmente ateistizzate): ma,appunto, l’affermazione di una universalità della religione in tanto è valida(in sede di storia delle religioni) in quanto verificabile con la metodologiastorico-comparativa, e tenendo conto del (...) concetto di ‘analogia’”.[165]

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Per la Storia delle religioni, dunque, affermare l’autonomia della religionenel senso della sua irriducibilità ad altri aspetti della cultura – ai quali peraltroè intimamente legata – e dell’atteggiamento religioso a specifichecomponenti dello spettro esistenziale umano, non significa sostenere unaposizione essenzialistica, ossia affermare a priori o postulare una essenzadella religione, sia essa teologica, ad esempio il ‘sacro’, la cui esistenza èpostulata da R. Otto come realtà autonoma e dotata di specifichecaratteristiche, sia essa antropologica (ad esempio la nozione dell’uomo comenaturaliter religioso), alla base del fatto religioso o dei fatti religiosi; maneppure può – la autonomia della religione – a priori essere negata, come falo storicismo, e nello specifico quello crociano a cui abbiamo fatto soprariferimento. La Storia delle religioni, in sostanza, si muove, con la suaaffermazione dell’autonomia relativa della religione, tra la affermazione dellaassoluta autonomia della stessa, propria di larga parte della fenomenologia, ela negazione assoluta della autonomia della religione, propria dellostoricismo, come pure – seppur sulla base di presupposti diversi – dellediverse forme di riduzionismi sopra evocati.

Si osservi come in sedi, quali la teologica, che ammette un fondamentotrascendente della religione, la questione dell’autonomia della religione sirisolva in maniera affermativa, appunto con la affermazione che la religione èl’insieme delle relazioni umane con tale realtà trascendente. Ma, né ilpostulare tale realtà trascendente né il negarla appaiono posizioni pertinentialle esigenze della ricerca storica. Neppure è corretto metodologicamente insede di ricerca storica presupporre una facoltà umana innata (come nelleteorie antropologiche circa l’homo religiosus) della quale le diverse religionistoriche sarebbero espressione.

Ribadisce la Sfameni Gasparro in merito alla irriducibilità del fenomenoreligioso alle varie e concomitanti componenti della tradizione culturale incui esso si colloca, con una fisionomia e una funzione proprie: “Tale‘irriducibilità’, peraltro, non è qui intesa nel senso essenzialista, ovvero qualericonoscimento a priori di un’obiettiva e ontologica realtà del ‘sacro’,distinto se non opposto rispetto al complesso dei dati culturali di ciascuncontesto storico”.[166] Infatti, “la ricerca storica non ha gli strumenti né la

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finalità di dimostrare o negare l’esistenza di tale realtà (il sacro, il divino ocome si volesse altrimenti denominare). Rimettendo tale compito e obiettivoalla filosofia e alle diverse teologie che appunto per statuto epistemologicosono interessate a dirimere la questione (in positivo o in negativo), èopportuno ribadire che la disciplina storico-religiosa ha piuttosto il compitodi indagare e circoscrivere – con gli strumenti dell’indagine positivo-induttiva, ossia su base documentaria – quella componente di un quadroculturale che, in senso analogico rispetto alla nozione di religione elaboratanel corso della tradizione occidentale di matrice antico-romana (con il suouso di religio/religiones) e cristiana (con l’appropriazione e trasformazione diquei termini e dei loro contenuti), può essere denominata appunto religiosa. Eciò in base a quella presenza di qualificati aspetti analoghi e di differenze chela comparazione permette di individuare”.[167]

In sede di storia delle religioni l’affermazione dell’autonomia dellareligione si deve tradurre metodologicamente – come affermava Bianchi nellasua diuturna riflessione metodologica sul tema in questione – nell’esigenza diindagare i fatti religiosi in tutti i loro aspetti e in tutte le loro pieghe, senzaselezioni arbitrarie.

Lo storico delle religioni “è uno specialista che, armato delle armi dellaricerca storica, è capace di affrontare il suo oggetto, le religioni e la religionestoricamente indagate, in tutte le loro pieghe, aspetti, contenuti, senzaamputazioni, senza riduzioni operate a priori, senza ‘ermeneutiche’ chevogliano dimostrare quello che in realtà si dà già per scontato”.[168]

Concludiamo. L’indagine storico-religiosa intende contrastare ogni formadi riduzionismo e affermare l’irriducibilità del fenomeno religioso alle altre ediverse componenti culturali del quadro sociale nel quale esso si manifesta econ le quali è connesso da una complessa trama di rapporti, come purel’irriducibilità dell’atteggiamento religioso a singole e specifiche facoltàumane, siano esse il raziocinio o l’emozione o il sentimento, e così via.

Come nel passato l’approccio storico-comparativo ha inteso denunciare econtrastare i riduzionismi di vario genere, dei quali sopra abbiamo fornitoalcuni esempi, ancora oggi esso può contribuire a illuminare e correggere inuovi riduzionismi. Mi riferisco ad approcci nuovi, o antichi rivisitati, al

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mondo delle religioni; approcci quali quelli costituiti, ad esempio, dallescienze cognitive, dagli studi di genere, dagli studi post-coloniali. Tuttiapprocci che, come sopra già osservato, se forniscono strumenti utili percomprendere aspetti, contenuti e modalità dei fatti religiosi in relazione adeterminate circostanze e a determinati momenti storici, risultano fuorviantie, appunto, riduttivi, quando pretendano di offrire una chiave interpretativadel fatto religioso in quanto tale.

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1.3.3 Vanificazione e decostruzione della categoria ‘religione’?Una ricerca storica e storico-comparativa che si avvalga in maniera critica

di una nozione di religione analogica e storicamente condizionata, potràoffrire un argine alle tendenze decostruzioniste che sono oggi particolarmentediffuse in seno agli studi religionisti e che vengono a colpire nozioni di lungoe consolidato uso scientifico, come quelle – ad esempio – di politeismo,monoteismo, induismo, e, appunto, la stessa nozione di religione.

In relazione a quest’ultima, la deriva decostruzionista sorge da un lato aseguito delle difficoltà manifestatesi nella ricerca di una definizione‘univoca’ di religione (sia di tipo ostensivo, come in M. Spiro; sia di tipofunzionale, come in A. Brelich; sia di tipo formale, come in F.Schleiermacher). Dall’altro lato, a seguito dell’acquisizione di una coscienzacritica nei confronti dell’etnocentrismo che spesso avrebbe – e taloraeffettivamente ha – caratterizzato gli studi religionistici.

In direzione decostruttiva si è posto un recente indirizzo di studi che inItalia fa capo a D. Sabbatucci (1923-2002) e che propone la ‘vanificazione’della religione. Con questa espressione si intende affermare che, essendo lanozione di religione, come visto, un prodotto della cultura occidentale dimatrice cristiana, tale nozione non può essere applicata a culture altre ediverse da questa. Il suo uso per definire fenomeni ‘altri’ rispetto a quellioccidentali significherebbe una sorta di nuovo colonialismo ovvero diimperialismo culturale non rispettoso dell’‘altro’.

Tale ‘vanificazione dell’oggetto religioso’ si attua peraltro, conSabbatucci, all’interno di una prospettiva di chiara marca storicistica, nelmomento in cui lo studioso afferma che “lo storico deve muoversi dall’ipotesiche tutta la sua materia sia riducibile a cause umane”.[169]

In ambito internazionale, va ricordata la critica mossa alla nozione direligione, come usata in sede di studi, da parte di Wilfred Cantwell Smith(1916-2000).[170] Per lo studioso ‘religione’ è quella ‘tradizione cumulativa’che esprime attraverso elementi ‘esterni’ e osservabili l’aspetto ‘interno’costituito dalla fede personale nella trascendenza. Ogni studio deve per luitener conto di questa distinzione, tra fede e tradizione, ove il peso cade

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sull’elemento interno, pertinente all’interiorità dell’individuo che crede.Un’interiorità – e allo stesso tempo una sorta di ‘essenza’ della religione –che qualsiasi interpretazione riduzionistica di ‘religione’ misconosce. Alcontempo, è il punto di vista del credente in una specifica religione acostituire l’autorità ultimativa nell’interpretazione dei fatti di quella stessareligione. Suo intento è porre le premesse per una convivenza pacifica tra ipopoli in una società divenuta ormai post-cristiana e multireligiosa.

Eric J. Sharpe (1933-2000), pur sulla base di premesse diverse, critical’uso in sede di studi della categoria denominata ‘religione’, la quale per luirisulta una costruzione intellettuale, un espediente con cui la passionerazionalista per le classificazioni si esprime.[171]

In una posizione di radicale decostruzione della categoria di religione sipone Jonathan Z. Smith (1938), il quale giunge ad affermare che “nonesistono dati per la religione. La religione è esclusivamente una creazionedella ricerca dello studioso”.[172] In sostanza ‘religione’ non è una categoriaautonoma ma è una costruzione analitica dello studioso che, per analizzaredeterminati comportamenti umani, fa opera di comparazione e digeneralizzazione.[173]

Altri studiosi, come Timothy Fitzgerald (1947),[174] pure suggerisconol’abbandono del termine ‘religione’, in quanto l’utilizzarlo – insieme contutto il bagaglio intellettuale occidentale implicito nel termine – sarebbe unaennesima espressione del colonialismo occidentale che vuol ricondurre a séogni alterità; in sostanza quella di ‘religione’ sarebbe una categoriaideologica creata dall’Occidente per i propri interessi. Affermando come iltermine ‘religione’ non possa avere alcuna validità analitica, in particolare inquei contesti asiatici ove non è dato reperire una nozione ‘corrispondente’alla nozione occidentale di ‘religione’ (non essendo infatti corrispondenti aquesta né la nozione di shukyo in ambito giapponese né quella didharma/dhamma negli ambiti dell’induismo e del buddismo), lo studiosopropone di puntare l’attenzione sul solo studio del rituale, nel quale siesprimerebbero adeguatamente i valori di una cultura (manifestati in precisirituali quali, per addurre un esempio dello stesso autore, anche l’inchinarsidei giapponesi all’esattore delle tasse).

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Ninian Smart (1927-2001), dal canto suo,[175] propone di usare i terminiindigeni e non quelli di matrice occidentale e in particolare cristiana perindicare precise realtà religiose al di fuori di tali contesti, e dunque, adesempio, di non usare il termine ‘dio’ come categoria transculturale, matermini propri delle varie tradizioni religiose, quali Allah o Shiva o altri; o dinon usare il termine ‘devozione’ per ambiti come l’induismo ma il terminebakhti, e così via. E, più in generale, di non usare il termine ‘religione’ maaltri termini, quali worldview (visione del mondo), intendendo con questotermine un sistema di “credenze che, attraverso simboli e azioni, mette inmoto i sentimenti e i desideri degli esseri umani”.

Il pericolo, additato da tale linea interpretativa, di un uso acritico deltermine religione per contesti altri e diversi da quello cristiano occidentale nelquale esso si è venuto formando, e, di più, il pericolo di un uso cherisulterebbe espressione di un nuovo ‘colonialismo’ occidentale, sembra,tuttavia, possa venire evitato ove si abbia una precisa coscienza che lanozione di religione che si va usando, oltre che storicamente condizionata, èanche una nozione analogica, non univoca, e dunque capace di salvare ildelicato equilibrio fra continuità e discontinuità riscontrabili all’interno delvariegato mondo delle religioni. E questo senza addivenire a quelle derivedecostruzioniste cui approdano in misura diversa gli studi cui s’è fatto or orariferimento e altri ancora. La coscienza dei condizionamenti storici legati allanascita e all’uso di determinati termini, come, nel nostro caso, il termine‘religione’, non deve necessariamente comportare, come vorrebbe invece undecostruzionismo radicale, il loro rifiuto, come avremo modo anche diosservare più avanti, quando parleremo di ‘politeismo’ e ‘monoteismo’,categorie o ‘tipi’ religiosi che pure sono stati in anni recenti oggetto dicritiche decostruttive.[176]

La nozione di ‘religione’, nozione analogica, come sopra detto, puòessere pertanto usata per designare, senza forzature né intenzionietnocentriche, o pretesa alcuna di rimandare a un modello normativo‘occidentale’ o ‘cristiano’, fenomeni che, in contesti storico-culturali più omeno lontani dalla matrice occidentale in cui essa è nata e si è sviluppataassumendo, come visto, una specifica accezione, offrano con ciò che

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nell’occidente moderno è inteso per ‘religione’, e con questo termineespresso, significative analogie.

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1.4 ‘Religione’: un ‘universale storico’

Intimamente legata alla identificazione della religione come un analogon,ossia una realtà analogica, è, nella riflessione metodologica di U. Bianchi,l’identificazione della religione come un ‘universale storico’ o un ‘universaleconcreto’.

Infatti, la ricerca storico-comparativa constata la diffusione universale (inrapporto ad una storia avvicinabile con documenti, lasciando fuori dallaquestione la preistoria più lontana e il futuro lontano) della religione, nelsenso analogico sopra illustrato. La religione, sulla base di quanto detto, nonsarà da intendere come un tipo ideale, o come una generalizzazione astratta,ma come un “esteso e articolato universale concreto o storico, cioè come unafamiglia di fenomeni che, per quanto varii e spesso irriducibilmentedifferenti, purtuttavia dimostrano, se non sempre una continuità oconnessione reale in una successione storica provata dai fatti, almeno alcuneaffinità di carattere e di funzione (ma non solamente di funzione); affinità chenon dovrebbero essere meno profonde che le differenze”.[177]

Dunque, ‘universale’ in relazione alla diffusione di questi aspetti comunie ‘storico’ o concreto, perché si tratta di fatti storici, i fatti religiosi, aperti allaverifica storica. L’universalità del fatto religioso, nell’ambito della storiadelle religioni, è constatata dalla ricerca storico-comparativa, e dunque èaffermata per via induttiva, per così dire dal basso, nel momento in cui è laindagine storica a verificare la universalità dei fatti religiosi, e ‘religiosi’ ingrazia – come visto – di un concetto analogico di religione.

Diversamente accade in altre discipline che si occupano di religione ereligioni sulla base di una certa impostazione fenomenologica, la quale fadella religione un prodotto dell’homo religiosus, e dunque un universale.Espressivi di questa posizione sono, di recente, in particolare gli studi di J.Ries, storico delle religioni belga, la cui proposta metodologica con iltrascorrere degli anni si è sempre più indirizzata nel senso di una antropologiareligiosa, che ha al suo centro la nozione di homo religiosus. Quivil’universalità del fatto religioso viene affermata per altra via, ovvero per viadeduttiva. Infatti, la tesi dell’homo religiosus afferma essere la religione un

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fenomeno universalmente umano, a partire dal riconoscimento di unadimensione ‘religiosa’ strutturale e congenita dell’umano. In sostanza, ilparlare della religione come di un universale storico o concreto, nell’ambitodella storia delle religioni, non implica l’attribuzione alla religione diun’universalità a priori e de iure, prescindendo – la storia delle religioni – daun concetto di religione come categoria dello spirito o portato di unadimensione antropologica naturaliter religiosa. Tematiche, queste, chesaranno invece oggetto di riflessione da parte del filosofo, il quale potràperaltro – o forse, meglio, dovrà – prendere in carico la problematica storica ele sue acquisizioni.

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CAPITOLO QUARTO Il metodo della Storia delle religioni

In una disciplina scientifica, il problema della definizione dell’oggetto èprofondamente connesso con quello della formulazione del metodod’indagine. “L’oggetto e il metodo si richiamano talmente l’uno l’altro che(...) si condizionano a vicenda; in tanto parleremo di religione, in quantoavremo una metodologia pertinente per individuarla. Possiamo anzi parlare diuna dialettica tra oggetto e metodo, che si generano a vicenda, e in qualchemodo sono la stessa cosa: in tanto parleremo di religione in sede di storiadelle religioni, in quanto il metodo storico-comparativo ci metterà sulletracce di certe contiguità, di certe comunanze di aspetti, che ci permetterannodi estendere il termine religione quanto sarà possibile sulla base di questametodologia storico-comparativa; in altre parole, questa metodologia‘genererà’ l’oggetto religione, in quanto questo venga affrontato con quellametodologia”.[178]

Veniamo, dunque, più da presso al metodo della Storia delle religioni.Una possibile definizione della disciplina così suona: la Storia delle

religioni è una scienza storica e più precisamente storico-comparativa il cuioggetto è costituito da quei fenomeni che, manifestatisi nell’universalità deltempo e dello spazio, vengono, con termine che lo studioso farà oggetto diuna problematizzazione, qualificati come ‘religiosi’.

Ciò che salva la definizione data dall’essere tautologica, ovvero dalriproporre nella frase (definiens) che intende definire l’espressione ‘Storiadelle religioni’ i medesimi termini contenuti nel definiendum (‘Storia dellereligioni’) è, da un lato, l’accentuazione del carattere storico-comparativodella disciplina e, dall’altro lato, la problematizzazione scientifica del termine‘religioso’.[179]

Se più sopra ci siamo occupati delle questioni definitorie connesse con iltermine ‘religione’, qui illustriamo più diffusamente le caratteristiche e gli

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scopi del metodo storico-comparativo proprio della Storia delle religioni.In quanto scienza storica, ovvero fondata sul metodo storico, e più

precisamente storico-comparativa, essa studia il particolare e il concretostorico, ciò che è esistito e si è manifestato. E lo studia nel concreto deldivenire storico, ovvero non solo nel suo manifestarsi ma anche nel suodivenire, nonché nel suo trovarsi vitalmente situato in un contesto storico,che, a sua volta, si identifica come un processo storico. A tale caratteristicadella ricerca storica si riferisce negli anni ’50 R. Pettazzoni, allorchéprogrammaticamente afferma che “ogni phainomenon è un genomenon”.[180] Tale espressione significa che per comprendere un qualsiasi fattoculturale e dunque anche i fatti religiosi dobbiamo ricostruirne la genesi eseguirne gli sviluppi. Con essa, Pettazzoni vuole opporre alle analisifenomenologiche la necessità dell’interpretazione storica, ovvero di unostudio dei fenomeni concreti non solo nel loro manifestarsi ma anche nel lorodivenire.

La Storia delle religioni, pur se accosterà problematiche generali sulla‘religione’, primariamente non studierà la religione ma – in quanto disciplinastorica – le religioni o singoli fatti religiosi come fenomeni della storia,ovvero avvenimenti, personaggi, pratiche, credenze, espressisi nella storia eindagabili con i mezzi della storiografia.

In quanto scienza storica, essa è nutrita di filologia, intesa nel senso diattenzione alle fonti e di critica delle fonti: fonti scritte (come testi letterari odocumenti epigrafici) e orali, oltre che archeologiche, monumentali eiconografiche. Può essere interessante ricordare come per taluni contestireligiosi le testimonianze iconografiche[181] abbiano una preminenzaassoluta sulle testimonianze letterarie. È, ad esempio, il caso del mitraismonell’impero romano: la sua diffusione e i suoi contenuti sono a noi noti per lopiù dallo studio di iscrizioni e graffiti, di bassorilievi e affreschi ospitati neimitrei, come pure dalla analisi della struttura degli stessi mitrei e del lorocorredo.

Per quanto concerne le fonti orali vanno fatte alcune precisazioni. Adesse, prevalentemente, si deve affidare lo studio delle religioni dei popolinon-letterati. Tali fonti conoscono per lo più delle mediazioni di diverso tipo,

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quali le relazioni di viaggiatori, missionari, autorità coloniali, che sono entratiin contatto con quei popoli, o le registrazioni di racconti forniti darappresentanti particolarmente qualificati di gruppi umani di tipo tribale. Purse una relazione viene presentata come fedele resoconto di quanto espressoda componenti o qualificati rappresentanti di un gruppo ‘primitivo’, puòaccadere – è stato osservato in sede di studi – che chi trascrive tenda asovrapporre le proprie convinzioni a quelle espresse dal ‘primitivo’ ocomunque che la modalità stessa di porre le domande orienti la risposta diquello (il quale, per esempio, sarà indotto a fornire risposte consone a quelleche ritiene essere le attese dell’interrogante). Cosicché non è sempre agevolefare le parti tra il linguaggio del narratore indigeno, ad esempio del narratoreo dei narratori di un mito, e la trasposizione operata dall’antropologo che èstato messo a parte della narrazione stessa.

Anche lo studio delle fonti orali, dunque, implica una critica delle fonti,aspetto qualificante ogni ricerca storica, ossia un vero e proprio esame criticodelle circostanze e delle modalità della raccolta e della trasmissione dellefonti stesse, e pertanto della loro attendibilità.

La ricerca propria della Storia delle religioni comporta anche,particolarmente nella fase euristica ovvero di ricerca e raccolta del materiale,il ricorso a quelle che venivano dette ‘scienze ausiliarie’ della storia, ovvero aquelle discipline (archeologia, epigrafia, paleografia, numismatica, etc.) che,sorte ai margini e in funzione del lavoro storico e assurte successivamentealla dignità di discipline autonome, indagano – in base ai rispettivi metodi –documenti e fonti di diverso genere.

La Storia delle religioni dunque muove – sulla base dell’esame e dellacritica delle fonti – dall’analisi di specifici fatti, quelli – si è detto – che contermine problematico, e che comunque deve esso stesso essere fatto oggettodi attenzione critica, sono tradizionalmente definiti ‘religiosi’. Tali fatti(elementi di credenza o di culto, fenomeni, personaggi, testi, processi) essaanalizza e interpreta con attenzione, in primo luogo, alla lorocontestualizzazione, ovvero alla loro collocazione cronologica, geografica,storico-culturale: essi, infatti, non nascono e si sviluppano in vitro, ma sonosituati in specifici contesti storico-culturali, che su di essi influiscono e/o sui

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quali essi stessi influiscono.Tali fatti, poi, essa studia nelle loro manifestazioni e nel loro sviluppo

storico, indagando le loro origini – per quanto ciò sia possibile ovvero perquanto lo permettano le fonti -; il loro divenire, ovvero la loro evoluzione oinvoluzione; i contatti e gli influssi esercitati e subiti in relazione sia ad altriaspetti ed elementi di quella stessa cultura cui il fatto indagato appartiene, siaa fenomeni analoghi propri di altri ambienti storici e culturali; i loro esitifinali, qualora si constati la ‘fine’ di un fenomeno o di una tradizionereligiosi.

Tuttavia la ricerca storica propria della Storia delle religioni se conosceuna prima fase, quale quella sopra descritta, idiografica e individuante, non siferma ad essa, come nelle discipline, appunto, idiografiche, quali, adesempio, la storia del cristianesimo o la storia greca, ma programmaticamentesfocia nella comparazione, che è la prosecuzione ideale di una ricercaidiografica.

Si ricorderà un’efficace asserzione di G. Lanczkowski:[182] “Poiché ognicomprendere ciò che è estraneo rappresenta anzitutto un porre in connessionea ciò che è già conosciuto, la comparazione anzitutto dà generalmente lapossibilità di comprendere nelle scienze dello spirito”.

Per comparazione, lo storico delle religioni intende sia quella verticale cuialludeva Pettazzoni affermando che ogni phainomenon è un genomenon,ovvero che ogni fatto è una formazione storica della quale vanno comprese letappe del divenire e questo si ottiene comparando uno stadio della sua linea disviluppo con altri stadi precedenti; sia quella orizzontale che si hacomparando un fatto, per dirla con A. Brelich una soluzione scelta da unasocietà tra le differenti soluzioni possibili, con altri offerti da situazionianaloghe.

La comparazione, che la Storia delle religioni programmaticamenteprofessa, è un’esigenza posta dallo stesso metodo storico.[183] Questo,infatti, come già precisato, studia i fatti manifestatisi nella concretezza storicaovvero nella realtà di un ambiente dove essi hanno conosciuto contatti conaltri fatti storicamente contigui, fatti simili o diversi, contatti di simpatia o direpulsione.

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Nell’ambito dei fenomeni religiosi la comparazione è resa possibile dalleaffinità che l’indagatore scorge, insieme alle differenze, tra i fatti indagati. Ilmetodo storico-comparativo, capace di cogliere somiglianze e differenze tra ifenomeni religiosi, è chiamato anche a rendere ragione, una ragione ‘storica’,delle une come delle altre. Esso, nel tentativo di interpretare le analogie cheintravede tra fenomeni storici diversi, sarà chiamato a pronunciarsi – ove siapossibile – o nel senso della diffusione a partire da un’origine unica dei fattistudiati (monogenesi), allorché, ad esempio, si constati la influenza di unmondo culturale su un altro, o la presenza di elementi di una religione nellagenesi di un’altra; oppure nel senso di sviluppi paralleli e indipendenti apartire da più eventi originanti quei fatti stessi (poligenesi). Di fatto lostudioso constaterà come le analogie che individuerà tra fatti e processistorici “possono concernere il campo più specifico degli influssi, delleconvergenze, delle divergenze eventualmente verificabili tra realtà che sianostate in contatto obiettivo nel tempo e nello spazio (per esempio, studiare imisteri di Mithra in rapporto alle origini persiane del dio Mithra, ma anche inrapporto agli altri culti misterici del mondo tardo-romano, che influirono sulmitraismo e gli comunicarono anche determinati contenuti). Tuttavia (...)rapporti, relazioni, ‘analogie’,(...) possono essere verificabili anche tra fatti oprocessi storici che non siano stati in contatto immediato nel tempo e nellospazio, ma che corrispondano a una tipologia di genesi e svilupposufficientemente ‘analoga’. In altre parole, si dà pure un legittimo concetto di‘tipologia storica’”.[184] Esempio classico di questo secondo caso ècostituito dal politeismo, ossia da quel particolare tipo di credenza e di prassireligiosa che è sorto, sembra verisimile talora in maniera indipendente, inrelazione alle cosiddette ‘alte culture’ o ‘civiltà superiori’ del modo antico.

Come l’approccio storico non deve limitarsi a descrivere, l’approcciostorico-comparativo non deve limitarsi a segnalare somiglianze e differenze.Scriveva al riguardo R. Pettazzoni: “In sede metodologica si tratta di vederese la comparazione non possa essere altro che una meccanica registrazione disomiglianze e differenze, o se non si dia – invece – una comparazione che,superando il momento descrittivo e classificatorio, valga a stimolare ilpensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimento della coscienza

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storica”.[185] Egli intendeva così differenziare la comparazione, come da luiintesa, da altre forme di comparazione, quali quella propria delle correntievoluzionistiche e soprattutto quella propria dell’ambito fenomenologico. Èper contrastare quest’ultima che si spiegano le accentuazioni in merito a unacomparazione che, in sede di Storia delle religioni, deve avvenire vuoi trafatti inseriti in contesti e processi religiosi, vuoi tra i contesti e i processistessi,[186] e non già tra fenomeni staccati dal loro contesto, i qualipotrebbero, così avulsi dal tessuto della storia in cui essi si esprimono, esserefraintesi e arbitrariamente identificati o contrapposti. Una comparazione,dunque, quella storica, tra ‘fatti’ – dati elementari – ma anche, e soprattutto,tra ‘contesti’ e ‘processi’ storici, ovvero una comparazione che “avviene traimmagini ‘in movimento’ e non tra immagini immobili come quelle di unapparecchio per diapositive”.[187]

Risulterà altresì utile ricordare quanto affermava A. Brelich in relazioneal metodo storico-comparativo, in quanto vi si sottolinea un’ulteriorecaratteristica del metodo stesso:[188] “Non è un male che lo storico dellereligioni limiti il proprio ambito di ricerca a una sola religione, quella di cui èin grado di conoscere bene l’ambiente culturale, dal punto di vista filologico,archeologico, etc. Ma quel che è importante è che egli studi una datareligione come storico delle religioni e non come storico della civiltàcorrispondente; che la sua problematica e il suo metodo siano quelli dellastoria delle religioni; metodo (...) essenzialmente comparativo, anche se nellacomparazione ogni studioso deve affidarsi alle ricerche dei suoi colleghispecializzati in altri settori storici e filologici, ma ugualmente storici dellereligioni”.

Quanto agli scopi della comparazione storico-religiosa, essa mira a unapiù adeguata comprensione del fenomeno stesso collocato nell’orizzonte piùvasto dei fenomeni consimili. Scopo della comparazione non è dunqueidentificare cose disparate ma distinguere cose altrimenti confuse,individuandone lo specifico. Il metodo storico-comparativo professato dallaStoria delle religioni non è teso ad ‘appiattire’ tutte le religioni sullo stessopiano, quasi che comparare significhi solo cogliere affinità. Al contrario, ilmetodo storico-comparativo appare uno strumento atto a meglio distinguere,

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ovvero a meglio comprendere le singole religioni, illuminando – tramite lacomparazione – ciò che costituisce lo specifico di esse. Può essere quiricordata un’efficace affermazione di R. Turcan: “Il faut comparer pourdistinguer, distinguer pour comprendre”.[189]

Una precisazione, questa, circa lo scopo differenziante e individuantedella comparazione come praticata nell’ambito della Storia delle religioni,che risulta particolarmente importante se si ricordi che il metodocomparativo, come inteso e applicato dalla Storia delle religioni, fu accusato,da parte storicistica[190] e da parte ‘confessionale’, e sulla base dimotivazioni diverse, al momento del nascere in Italia della Storia dellereligioni come disciplina accademica dotata di un proprio statutoepistemologico, di porre, per così dire, tutte le religioni sullo stesso piano.

Merita ulteriormente, qui, distinguere le modalità e gli scopi dellacomparazione come intesa nell’ambito degli studi storico-religiosi che fannocapo alla figura di R. Pettazzoni, rispetto a quelli della comparazioneottocentesca di impostazione evoluzionistica, e rispetto ancora a quelli dellacomparazione come esercitata nell’ambito, pur variegato, dellafenomenologia religiosa. Di fatto la proposta metodologica della scuolapettazzoniana venne a formularsi e a precisarsi in relazione agli ambiti cheessa intese contrastare. Il quadro di storia degli studi sopra offerto, seppurparziale e limitato a specifici autori tra i più emblematici dei rispettiviindirizzi di studio, ha potuto già fornire delle indicazioni al riguardo, che quiriproponiamo.

La fenomenologia religiosa – come visto – opera sulla base dellacomparazione, come la storia delle religioni, ma mentre nella storia dellereligioni la comparazione serve – soprattutto – a individuare in ogni singolaformazione religiosa ciò che vi è di specifico e di nuovo sullo sfondo di ciòche invece l’accomuna ad altre formazioni parzialmente affini (in tal senso siparla di ‘comparazione differenziante’), in fenomenologia la comparazioneserve – soprattutto – a individuare ciò che tra formazioni storiche diverse vi èdi strutturalmente comune. Si tratta di una comparazione che, generalmente epur con le differenze tra i suoi diversi esponenti, prescinde dalle nozioni diambientazione, origine, sviluppo e divenire storici, ovvero dalla

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contestualizzazione dei fatti studiati e dalla loro storia, e che quindifacilmente approda a una visione astratta, statica e spesso arbitraria distrutture, di cui non si considera in alcun modo o non si considerasufficientemente la problematica storica, che invece appare importante perevitare anacronismi e livellamenti ingiustificati.

In sostanza, la fenomenologia, comparando tratti morfologico-formalidecontestualizzati e destorificati, rischia di vedere come simili fenomeni lacui somiglianza è soltanto il riflesso illusorio di processi di sviluppo diversi, edi vedere come diversi fatti che dietro una diversità esteriore o di superficieadombrano una sostanziale omogeneità di processi. Essa diventa antistoricanel momento in cui cerca di ricostruire strutture atemporali comuni allereligioni, eventualmente fondate ontologicamente (ovvero a partire dallaammissione di una realtà trascendente e in tal caso sfocia nella teologia) ofondate su di una comune natura umana (e in tal caso sfocia nellaantropologia religiosa). I fenomenologi della religione sono più propensi acogliere una unitarietà dietro la diversità e pertanto a concepire la religionecome concetto univoco, laddove gli storici delle religioni, valorizzando lediversità e affermando la impossibilità di cogliere denominatori comuni allevarie religioni concepiscono la religione come un concetto analogico.

In sostanza, la storia delle religioni, attuando un approccio storicocomparativo ai fatti religiosi, tende a superare la comparazionefenomenologica, sistematica, e a consentire uno sguardo, sinottico comequello della fenomenologia, ma portato su realtà in movimento, in un teatrovasto come il mondo. Essa identifica – dunque – delle ‘strutture’ nel pensieroreligioso (ad esempio, l’idea monoteistica) e nella prassi religiosa (adesempio, il tipo costituito dai culti iniziatici-esoterici), che chiamerà piuttostotipologie religiose, senza perdere di vista il fatto che si tratta di ‘strutture’, omeglio di tipologie storiche, ovvero relative a fatti inseriti nel fieri della storiae di tipologie a carattere analogico e non univoco. A esse verremo tra poco.[191]

Alla luce di quanto sopra esposto circa il metodo storico-comparativoproprio della Storia delle religioni, appariranno ulteriormente chiare le riserveespresse da storici delle religioni nei confronti di nozioni chiave della

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fenomenologia e della antropologia religiosa quali quelle di ‘sacro’ e di homoreligiosus, riserve sulle quali ritorniamo perché tali nozioni, elaborate in unapassata stagione di studi, risultano ancora ampiamente presenti e attive nellepubblicazioni scientifiche e divulgative dedicate ai temi della religione e dellereligioni.

Afferma Bianchi che “il concetto di sacro e anche quello di homoreligiosus, oltre che generici e perciò in parte arbitrari, specie il concetto disacro, sono anche fortemente ambivalenti; lo sono non soltanto nel senso diquell’ambivalenza posta dall’Otto tra l’aspetto fascinans e quello tremendumdel sacro, ma anche nel senso che la pretesa uniformità sostanziale dellapercezione del sacro nelle diverse religioni e culture impedisce unavalutazione sia storica che teologica del processo evolutivo e ‘revolutivo’ cuiil fatto religioso come ogni altro fatto è disponibile nella storia dell’umanità.In altre parole, non è che nelle diverse forme religiose Dio, o gli dei, o glispiriti, o altre entità oggetto di credenze, siano percepiti come tali solo tramitela loro appartenenza alla categoria del sacro, oppure siano riducibili a questa,quasi che il sacro si manifesti o esista allo stato puro e in sé e per sé; ma alcontrario la categoria del sacro costituisce un aspetto dove più dove menorisultante da quelle diverse concezioni, dalle quali la coscienza religiosa maiprescinde. Dunque, si danno nel concreto varie e diverse forme del sacro, chesi riferiscono alla diversità dei contenuti di credenza”.[192]

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1. Approccio storico e approccio storicistico

Nella prospettiva metodologica descritta in queste pagine, va distinto –secondo la lezione dello storico delle religioni U. Bianchi – il metodo storicoda ogni impostazione storicistica. Di fatto, Bianchi rifiuta decisamente ognipresupposto filosofico storicistico nella indagine storico-comparativa dei fattireligiosi.

Se Raffaele Pettazzoni, iniziatore in Italia della Storia delle religioni,risentiva solo parzialmente della temperie storicistica del suo tempo,un’impostazione storicistica caratterizza invece una linea di studi che daPettazzoni s’origina, rappresentata – in particolare – da E. De Martino e A.Brelich, e da discepoli di questi.

Di Pettazzoni si può ricordare come, se da un lato affermava che “lacultura storico-religiosa non solo non contrasta agli interessi della religione,ma li serve”[193] o anche che il proprio pensiero “per essere laico non habisogno di essere anti-religioso, e nemmeno a-religioso”,[194] dall’altro latoarrivasse nei suoi ultimi appunti ad affermare che “in fondo è sempre l’uomoche crea il suo mondo ideale”, ovvero, è l’uomo “che crea il suo creatore”.[195]

Il presupposto storicistico risulta evidente, ad esempio, in posizioni qualiquella di E. de Martino, allorché questi afferma che “conoscenza storica dellereligioni significa risolvere senza residuo in ragioni umane ciò chenell’esperienza religiosa in atto apparvero ragioni numinose”.[196] Ovvero,compito dello storico “è compito essenzialmente, esclusivamente di trovare leragioni umane delle religioni”.[197]

L’approccio storicistico è un approccio totalizzante alla storia nel sensoche concepisce ogni realtà, anche quella religiosa, come mero frutto dicondizionamenti storici, ovvero rende la religione un momento all’interno diuna dialettica che programmaticamente lo trascende e lo cancella. Essointende risolvere senza residui nella storia i fenomeni religiosi ed escludere apriori ogni riferimento metastorico, affermando che la religione è un prodottoesclusivamente umano. Unica realtà è la storia e l’uomo è unico fautore di

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essa. È vero solo ciò che è storicamente dimostrato. Non si danno fattoritrans-storici e trans-umani. In tal modo si pone come opzione filosoficapiuttosto che come metodo storico.

La Storia delle religioni, invece, indaga i fatti religiosi in quanto fattidella storia e indagabili con mezzi, metodi e strumenti della ricerca storicaovvero della storiografia.

Quanto ai requisiti richiesti allo storico delle religioni nell’esercizio dellasua indagine, U. Bianchi, inserendosi in un lungo e annoso dibattito di cuiancor oggi non si sono spenti gli echi, afferma che lo storico delle religioni,in quanto storico, non deve essere né credente, né non credente: “Chi applicala ricerca storica e storico-comparativa allo studio della religione, non è, nondeve essere, né ‘impegnato’ né ‘asettico’, quando questo significhipresupposta tendenza o, al contrario, sostanziale disinteresse per i dati inquestione”.[198]

Unico presupposto del suo lavoro deve essere un sincero interesse, sipotrebbe dire una ‘simpatia’ per il fatto religioso e i fatti religiosi, la qualefaciliti la loro comprensione. In quella sincera passione per l’oggetto distudio, in quella “simpatia, nel senso di interesse umano scientificamenteprovato, che faciliti una comprensione”[199] – e talora parlava di Einfühlung,di ‘consentimento’, purché non applicata a dosi eccessive e in direzionesbagliata –,[200] egli, inserendosi – come detto – in un pluridecennaledibattito circa la necessità della condivisione di una fede o, al contrario, lanecessità di una non condivisione di una fede per, rispettivamente,‘comprendere’ (come richiedevano le posizioni definibili fenomenologiche) o‘spiegare’ (come richiedevano le interpretazioni positivistico-evoluzionistiche) il fatto religioso, vedeva l’unico presupposto per una ricercastorica (non storicistica). Di contro alle ammissioni – ben presenti in sedefenomenologica – che solo una capacità innata o solo la condivisione di unafede consentano all’uomo di percepire il sacro ovvero di comprendere lareligione e le religioni, U. Bianchi osservò che ciò significa la fine dellaricerca positivo-induttiva sulla religione e le religioni, la quale ricerca,invece, deve essere aperta a, praticabile e verificabile da, chiunque vogliapraticare la – e attenersi alla – metodologia propria di ogni ricerca storica.

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Detto in altri termini, nessuna opzione filosofica o teologica devecomandare la ricerca o costituire un anello della ricerca, anche se una fedepersonale da parte dello studioso può suggerire certe ipotesi di lavoropiuttosto che altre o condurre a privilegiare certi campi piuttosto che altri otalora può facilitare il riconoscimento della ricchezza dei dati religiosi. Senzacontare che i frutti della ricerca dello storico delle religioni possono essere dirilevante interesse per la riflessione filosofica o per quella teologica o perquestioni di etica e di morale.

Pertanto la Storia delle religioni non può considerarsi ‘impegnata’ erichiedere allo storico la condivisione di una fede come condizione necessariaper condurre la sua ricerca; ma neppure deve essere, al contrario, agnostica(ché si tratterebbe pur sempre di un’opzione filosofica) o neutrale e richiedereallo storico la non condivisione di una fede.

Essa deve solo preoccuparsi di essere e di essere considerata comemetodologicamente pertinente alla sua natura di ricerca storico-positiva, e, inquanto tale, le sue argomentazioni devono essere valide erga omnes, valideper tutti coloro che – nel senso di verificabili da parte di tutti coloro che – allametodologia storica intendono riferirsi, senza che presupposti filosofici oteologici intervengano all’inizio della ricerca o nel corso della stessa qualianelli della catena argomentativa.[201] Pertanto, essa non può né negare latrascendenza in materia di religione e religioni, né partire da una professionedi fede nella esistenza e trascendenza del divino.

Va poi ricordato – di contro a una storiografia di stampo positivistico chesosteneva l’esistenza del fatto storico ‘in sé’ indipendentemente dalla personadello storico che si limita a raccoglierlo e a registrarlo – come appaiaacquisito dalla coscienza storica attuale il fatto che la storia non esiste senzalo storico, ovvero la fondamentale importanza della personalità dello storiconel processo di conoscenza storica, con i problemi che lo studioso che facciaricerca storica suscita, con le questioni che pone, con i nuovi documenti chescopre e con le questioni trascurate che – di documenti già noti – mette inluce.

Altro aspetto di fondamentale importanza per quanto concerne il metodostorico-comparativo proprio della Storia delle religioni è che esso non porta

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ad emettere giudizi di verità sui fatti religiosi, giudizi pertinenti in altra sede,ovvero in sede di riflessione teologica (giudizio di verità sulla base dellafede) e filosofica (giudizio di verità entro i limiti della ragione).

Ma può, e forse deve, condurre a, legittimi, giudizi di valore, ovverogiudizi circa, ad esempio, il ruolo o la funzione esercitati da una determinataespressione religiosa all’interno di una determinata cultura: un esempio puòessere quello della creatività ‘culturale’ del cristianesimo delle origini rispettoa forme del paganesimo coevo o rispetto alla sterilità ‘culturale’ di ‘nuovereligioni’ contemporanee. O ancora: giudizi circa una maggiore o minorericchezza o complessità di prospettive e di contenuti di una tradizionereligiosa rispetto ad un’altra o di una fase di una tradizione religiosa rispettoad altre fasi della stessa; o giudizi circa una maggiore o minore coerenza dicerti sviluppi a partire da certe premesse, o, ancora, circa una maggiore ominore presenza (e in taluni casi assenza) di risposte a domande e attese digruppi umani e di individui in un determinato momento storico.

Qualcosa di analogo – è stato detto – accade in linguistica, allorché siconsideri come questa non possa esprimere giudizi di verità sulle varielingue, quasi che una lingua possa essere più o meno ‘vera’ di un’altra, mapossa e debba esprimersi, per esempio, sul fatto che una lingua offra, rispettoad un’altra, una più ampia o più ristretta gamma di possibilità per esprimerele sfumature delle percezioni umane.

Nel rapporto cristianesimo – altre religioni, la ricerca storico-comparativapuò fornire un apporto prezioso alla discussione, elaborata in sede teologica,circa il carattere assoluto della rivelazione cristiana, proprio perché è in gradodi mettere in luce l’irriducibilità storico-fenomenologica del cristianesimorispetto alle altre religioni, che è un concetto diverso da quello – teologico –di valore assoluto o assolutezza del cristianesimo.

Quanto ancora alle finalità della Storia delle religioni, Bianchi nedifendeva il carattere di disciplina non programmaticamente tesa ad un – eneppure troppo immediatamente trasferibile in un – mutual understanding o‘mutuo intendimento’ tra religioni e nemmeno primariamente tesa a undialogo tra le religioni.

In merito a quest’ultimo, lucida appare la sua distinzione fra un dialogo

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“tra ciò che, talora, non può ‘dialogare’”, ossia le religioni, e un dialogo “traquelli (e son tutti) che devono ‘dialogare’, perché tutti membri della stessasocietà civile, e tutti partecipi della stessa vocazione all’universale”.[202]

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PARTE SECONDA

PER UNA TIPOLOGIA STORICA DELLE RELIGIONI

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CAPITOLO PRIMOIntroduzione alle tipologie storiche

Dopo avere trattato di questioni metodologiche relative alla Storia dellereligioni in quanto disciplina scientifica, entreremo nel merito della materiadi questa disciplina, presentando le principali tipologie secondo le quali lereligioni, considerate storicamente, possono essere classificate.

La disciplina storico-religiosa, dunque, comporta una ricerca storico-comparativa che muovendo da un concreto contesto culturale gradualmente siallarga verso ambienti contigui fino a quelli più lontani, nel tempo e nellospazio, venendo a cogliere tra i vari fenomeni suo oggetto di studio – queifenomeni che con termine di significato analogico essa, come visto, chiamareligiosi – difformità ma anche affinità, le quali permettono di raggruppare lereligioni in categorie o tipi o – appunto – tipologie, sulla base di criteridiversi, ossia in base a specifiche e qualificate caratteristiche delle stesse.

In sostanza, il metodo storico-comparativo, sopra illustrato, permette allostudioso di costruire induttivamente e positivamente – ossia muovendodall’esame concreto e puntuale dei singoli fatti documentati, inseriti neirispettivi contesti e processi storici, e dalla successiva comparazione fra diessi, la quale consente di individuare elementi e aspetti affini insieme alledifferenze – ‘tipologie’ storiche delle religioni. La formulazione di tipologiereligiose permette di organizzare in categorie, duttili e non rigide, categoriecostituite sull’esclusiva base della documentazione storica, la materia vasta emultiforme che è possibile ricondurre al parametro ‘religioso’.

Tali tipologie sono dunque costruite empiricamente, ossia attraversol’esperienza dei diversi ambiti religiosi e nel rispetto della specificità storicadi ciascuno. Contesti culturali assai diversi potranno, sulla base dellequalificate analogie riscontrate, essere situati sotto un’unica rubrica –appunto, la tipologia – senza che ciò significhi che la ricerca storicatrascurerà le differenze anche notevoli che intervengono tra fenomeni

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tipologicamente affini, differenze che verranno invece adeguatamentesottolineate e che sarà proprio la comparazione tra fenomeni pur appartenential medesimo tipo a illuminare ancor più efficacemente.

V’è consenso sul fatto che per orientarsi nella complessità e diversità deidati, c’è bisogno di schemi classificatori.[203]

Così, di fronte alla ricchezza e varietà delle forme religiose “si imponeanzitutto il dovere di classificare. Dovere penoso, talora difficile, maessenziale. Una classificazione non rigida delle religioni, delle esperienzereligiose, ma insieme una classificazione severa che non permetta diconfondere concetti, espressioni, idee, credenze, fedi che rimangono insiemesimili e diverse. Una certa fenomenologia della religione, oggi, ci ha pocoavvezzi a questa necessaria esigenza di classificazione, di distinzione,insieme tipologica e storica, delle diverse manifestazioni dell’esperienzareligiosa. Una tale fenomenologia può avere alcuni vantaggi, perché puòsottolineare nell’uomo, nell’umanità, concretamente e storicamente indagata,la presenza di quella che qualcuno senz’altro chiamerebbe un particolarefacoltà, una particolare categoria, quella della religiosità; peraltro, questamedesima fenomenologia sotto altri profili è pericolosa. Pericolosa, dico, daun punto di vista di conoscenza scientifica, perché tutto assimilando e taloraconfondendo, rende meno facile, meno attento, meno intelligente lo sguardo,e forse dissimula, copre e nasconde quelle stesse realtà che l’uomo religioso elo studioso, o, semplicemente, l’uomo umano avrebbero tutto l’interesse aconoscere: anche quelle realtà religiose che sono diverse, estranee alla suapropria tradizione religiosa. Eppure, c’è tutto l’interesse a conoscerle, tuttol’interesse a chiedersi a quali domande, a quali esigenze, queste diverserisposte religiose corrispondano”.[204] Si tratta dunque di abbandonare “itemi di una fenomenologia troppo facile, che nella sua genericità troppo findall’inizio volesse concludere e provare, ma non provando in realtà nulla dipiù di quanto è già noto – che cioè il fatto religioso è di estrema rilevanzastorica e umana”.[205]

Orbene, le topologie storiche sono categorie in cui sono situabili i varifenomeni sulla base di significative affinità che la ricerca storico-comparativariscontra tra quelli. Esse identificano tipi di religioni che, pur rimanendo

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ciascuna unica e irripetibile nella sua individualità, offrono tra di loroqualificate somiglianze sotto specifici aspetti che pertengono la loro originenella storia (religioni etniche e fondate), la loro diffusione e ‘vocazione’(religioni nazionali, universali e complessi mitico-rituali cosmopolitici), i lorocontenuti (fondamentalmente – ma non esclusivamente –: politeismi,monoteismi, monismi, dualismi).

La ricerca storico-comparativa è chiamata – anche se non sempre è ingrado di farlo – a spiegare le affinità da essa riscontrate tra i fenomeni,ovvero a optare tra due opposte possibilità: da un lato, l’ipotesi genetica ediffusionistica, che ammette la possibilità di rapporti genetici o di influssidocumentati tra fatti e processi storici e che comporta il diffusionismo,ovvero la diffusione storicamente provata di un rito, una credenza, unaistituzione a partire da un centro originario. Dall’altro lato, l’ipotesi checomporta il policentrismo o parallelismo, ovvero lo sviluppo parallelo di riti,credenze, istituzioni, a partire da una pluralità di centri di origine e da unaaffinità storicamente valutabile di circostanze che ne hanno segnato l’origine,ne hanno offerto gli impulsi iniziali e ne hanno caratterizzato i rispettivisvolgimenti.[206]

Il primo caso è costituito, ad esempio, dalle affinità riscontrabili tral’antico complesso già d’età faraonica relativo a Iside e Osiride e i tardicomplessi mitico-rituali di tipo misterico relativi a queste stesse entità divine,come pure dalle affinità riscontrabili tra i diversi culti di mistero d’etàellenistico-romana diffusi nelle terre dell’Impero.

Sembra invece, il secondo, il caso – ad esempio – dei politeismi, tipichemanifestazioni religiose delle alte culture del mondo antico, sorti –verisimilmente in maniera indipendente, almeno taluni di essi – in circostanzeanaloghe, appunto quelle costituite dalle stesse alte culture, come risposta astimoli ed esigenze storiche analoghi.

Le tipologie non sono aprioristiche classificazioni imposte alla storia masono il frutto, parziale e provvisorio, della ricerca storico-comparativa e lostrumento per un approfondimento della ricerca stessa. Come non si tratta di‘tipi ideali’, previamente stabiliti, o modelli normativi, ma di tipi storici,appunto, induttivamente costruiti, così non si tratta neppure di classificazioni

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fini a se stesse, ma si tratta piuttosto di stimoli a un progresso della ricercastorica.

Se una forma di classificazione è indispensabile per muoversi nel mondocosì ampio e variegato delle religioni, questo avviene non solo per unanecessità pratica di sistematizzazione, ma anche perché identificare ecircoscrivere aspetti peculiari analoghi tra diversi quadri religiosi permette dicomprendere meglio i loro rapporti, le eventuali connessioni sul pianostorico, le possibilità di influsso reciproco.

Inoltre, anche sotto un ulteriore aspetto la tipologia favorisce lacomprensione storica. Infatti, la comparazione tra le formazioni appartenentia una medesima tipologia, ad esempio quella delle religioni fondate, conducea cogliere meglio la specificità di una singola formazione religiosa inrelazione alle altre della tipologia cui appartiene, ovvero il suo specifico inrapporto al criterio distintivo che comanda quella tipologia stessa. Nel casoaddotto come esempio, quello delle religioni fondate, essa aiuterà a coglierelo specifico di una formazione religiosa fondata rispetto alle altre affini, sottoil profilo dell’essere, appunto, fondate. La comparazione consente, infatti, dicogliere le profonde diversità tra coloro che con un termine non sempre e deltutto proprio vengono indicati come ‘fondatori’ religiosi. Si cita solitamentela comparazione tra il Buddha, il quale – per così dire – allontana da sé leattenzioni, in quanto non è la sua persona a essere importante ma solo ladottrina ovvero la via da lui mostrata e per primo da lui percorsa, e Gesù diNazaret. In questo secondo caso, è la sua Persona a essere centrale e acoincidere con la via, come emerge dal luogo giovanneo (14,6): “Io sono lavia, la verità e la vita” (ove, nell’“Io sono” – segnala la criticaneotestamentaria – riecheggerebbe l’“Io sono” pronunciato da Jahvé nel notoluogo anticotestamentario (Es 3,14).

Le tipologie storiche costruite dall’indagine storico-comparativa sonodiverse dai tipi fenomenologici, quali quelli elaborati, ad esempio, da G. vander Leeuw o da M. Eliade. Si tratta in questi casi piuttosto di classificazionicostruite sulla base di un’indagine, quella fenomenologica, cui èfondamentalmente estranea ogni problematica, squisitamente storica, diorigine, di svolgimento, di influssi esercitati e subiti. Le classificazioni

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fenomenologiche fissano – come sopra visto – la morphé (forma) deifenomeni – da cui l’espressione ‘morfologia’ religiosa o ‘morfologia dellareligione’ con cui spesso si designano alcune espressioni della fenomenologiareligiosa – e li descrivono così come essi appaiono (da phainomai, ‘appaio’,‘mi mostro’, da cui l’espressione ‘fenomenologia’), senza interessarsi diorigine, sviluppo, contatti e influssi. Inoltre identificano per lo più categoriedi singoli elementi religiosi (il sacrificio, la preghiera, ad esempio) e non diintere storie religiose, ovvero di processi e dinamiche storici (le religionietniche vs le religioni fondate, ad esempio).

Vero è che anche nell’ambito della storia delle religioni sono statecostruite tipologie di singoli elementi religiosi, siano essi di credenza o diculto, come nel caso del tipo costituito dalla nozione, vuoi speculativamentevuoi miticamente espressa, della ‘colpa antecedente’, che avremo modo diillustrare più avanti. Ma, anche in questo caso, si tratta di un elemento,appunto la ‘colpa antecedente’, non ‘fotografato’ alla manierafenomenologica, ma contestualizzato, storicizzato e ‘inseguito’ nella suagenesi e nel suo sviluppo storico, dunque nella sua storia. Una storia che, nelcaso del tipo in questione, la nozione di ‘colpa antecedente’, sembraprincipiare, in occidente, nel mondo greco e specificamente orfico eproseguire con la tradizione platonica fino ai movimenti gnostici e aimovimenti dualistici medievali. Tutti ambiti di cui tratteremo più avanti.

L’utilità delle classificazioni tipologiche quali tipi non tanto di singolielementi ma piuttosto di contesti e di processi storici, è apparsaparticolarmente evidente – ad esempio – nel caso di una categoria oggettodella indagine storico-comparativa quale quella dei culti cosmopolitici diorigine orientale, che vengono a costituire una delle più significative paginedella storia religiosa del mondo antico e tardoantico. Si tratta di quei culti –come vedremo più diffusamente – originari delle regioni orientali del bacinomediterraneo, i quali, avendo già ciascuno di essi una storia secolare neirispettivi ambienti d’origine, in età ellenistica ed imperiale si diffusero fuoridai propri confini nazionali, presso Greci, Romani e numerose altrepopolazioni occidentali. Questo fenomeno non potrebbe essere compresonella sua reale dimensione storica se l’indagine si fermasse a considerare il

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singolo culto senza inquadrarlo all’interno della più ampia tipologia cui essoè riconducibile e all’interno di quella valutarne le continuità e le discontinuitàcon i fenomeni analoghi.

In particolare, poi, una precisa comprensione delle caratteristiche dellatipologia in questione, quella dei culti cosmopolitici di origine orientale,aiuterà a comprendere meglio le ragioni e le modalità di diffusione diquell’altro fenomeno, in parte parallelo sotto il profilo della diffusionegeografica e cronologica, che fu la propagazione del cristianesimo. Unatematica squisitamente comparativa e di tipologia religiosa alla qualeaddiverremo.

E veniamo ora a un’illustrazione di tipi di contesti e processi storici, iquali – tipi – saranno identificati sulla base di specifiche caratteristiche diquei contesti e processi. Avremo modo di constatare come, dal punto di vistadelle loro modalità di darsi nella storia, si distingueranno i grandi tipicostituiti dalle religioni etniche, da un lato, e da quelle fondate, dall’altro lato.Dal punto di vista della loro ‘apertura’ e diffusione o ‘vocazione’, sidistingueranno le religioni nazionali, le universali e i fenomeni religiosi ditipo cosmopolitico. E infine, dal punto di vista dei ‘contenuti’, e nellospecifico delle modalità di concepire le potenze sovrumane che sono al centrodelle credenze e delle pratiche rituali proprie dei diversi contesti religiosi, sidistingueranno i politeismi, i monoteismi, i monismi e i dualismi. Tipologiequeste ultime, che, come avremo modo di precisare, non esauriscono tuttavial’universalità dei contesti religiosi a cui l’indagine storico-comparativa puòaccedere.

Fuori dalla nostra attenzione rimarranno tipi religiosi che hanno avutoampia fortuna in passate stagioni di studi ma che l’indagine storico-religiosaha fortemente relativizzato, come pure categorie classificatorie ampiamentediffuse, le quali – però – pertengono ad una indagine non di storia dellereligioni quanto piuttosto di teologia delle religioni, quali – ad esempio – lacategoria di religioni naturali, ovvero di religioni non rivelate ma derivate dauna innata esigenza religiosa dell’uomo e tali da svolgere per alcuni aspettiun ruolo di ‘preparazione’ all’annuncio cristiano.

Rimane, qui, da registrare una tendenza che si va delineando sempre più

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decisamente nell’ambito degli studi scientifici dedicati alla religione e allereligioni. Infatti, da più parti, viene contestato il ricorso alle tipologie nellostudio storico dei fenomeni religiosi, in quanto esse sarebbero – nel miglioredei casi – inessenziali e inutili per il proficuo avanzamento della ricercastorica, quando non, addirittura, dannose nello studio storico dei fattireligiosi. E questo o perché, giudicate come forme di cripto-fenomenologia,condurrebbero a un livellamento dei dati non rispettoso della varietà ecomplessità degli stessi, oppure perché, accusate di non accontentarsi dicostituire uno strumento euristico e una tappa provvisoria della ricerca, essecondurrebbero a reificazioni inesistenti nella storia.

Riteniamo, per contro, che lo strumento delle tipologie storiche, ove siacorrettamente inteso e utilizzato, risulti proficuo per l’avanzamento dellaricerca storico-comparativa e per una miglior comprensione e interpretazione– nei confini propri della disciplina storico-religiosa – dei fenomeni religiosistessi.

“La ricerca storico-religiosa, in quanto intesa alla costruzione di unadisciplina scientifica con un proprio statuto epistemologico, riconosce l’utilitàdi formulare delle tipologie, non certo di carattere normativo, imposte comeun a priori dell’indagine, ma piuttosto di carattere descrittivo, a fondamentostorico e formulate a posteriori, sulla base dell’indagine positivo-induttiva. Inaltri termini, lo storico delle religioni, con un procedimento dialettico chemuove dai fatti accertati e dalla loro interpretazione, su base comparativa,elabora delle tipologie storiche come grandi categorie comprensive difenomeni analoghi, mai perfettamente identici, proprio perché prodotto diprocessi storici differenziati. Su questa base si possono costruire categorieclassificatorie ampie, come quelle di ‘politeismo’ e di ‘monoteismo’, in cuisituare quelli che si chiameranno i varii ‘politeismi’ e ‘monoteismi’ storici,ossia una serie più o meno vasta di fenomeni caratterizzati da qualificateanalogie, relative a elementi distintivi e peculiari di essi”.[207]

Quantomai opportuna rimane tuttavia la cautela metodologica suggeritada U. Bianchi: “Chi si affacci sul grande panorama delle religioni mondiali,di quelle oggi esistenti e di quelle che sono scomparse nel corso millenariodella storia, sente istintivo, di fronte a tanta varietà, il bisogno di uno schema

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classificatorio che gli dia la possibilità di orientarsi. E, in realtà, schemiclassificatori sono stati elaborati, benché per ciascuno di essi sia necessariauna cautela: lo schema ha necessariamente dell’astratto, talora addirittura delpre-fabbricato, e come tale può mortificare la vivezza, varietà e complessitàdei fenomeni, per non vederne che un aspetto, sia pure il più rilevante, o,peggio, per svisare i fenomeni medesimi. Occorrerà quindi non dimenticaremai che ci troviamo di fronte a mondi religiosi, più che a elementi singoli dicredenza e di culto e che la storia e la scienza delle religioni sono chiamate aprendere tali mondi in considerazione complessiva”.[208]

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CAPITOLO SECONDOReligioni etniche

Prima di addivenire a classificazioni tipologiche che mirano a identificaree a distinguere specifici contenuti dottrinari o almeno credenze in merito aquel livello del supra e del prius che appare qualificante il mondo dellereligioni, facciamo riferimento a una prima e più ampia distinzione operabilenel campo dei fenomeni religiosi, ovvero quella che attiene alla naturarispettivamente ‘etnica’ e ‘fondata’ degli stessi, cominciando dalle religionietniche.

Si definiscono ‘etniche’ (da ethnos,‘popolo’) quelle tradizioni religioseche non devono la loro origine alla figura di un ‘fondatore’. La ricerca storicanon consente di conoscere chi abbia dato loro origine e in quale epoca,ovvero non è possibile individuare uno o più personaggi che abbiamoesercitato una funzione decisiva nel determinarne le origini e i contenuti. Essesi identificano, invece, con una particolare cultura e civiltà e le loro originicome pure il loro sviluppo, ed eventualmente anche la loro fine, si leganoinestricabilmente con le origini e con lo sviluppo, e talora anche con lascomparsa, di quella cultura e di quella civiltà. Con esse nascono e con esseper lo più muoiono, e talora muoiono prima, come nel caso della religioneromana che nasce con Roma e che muore prima che Roma come entità etnica,nazionale, politica, morisse o si trasformasse definitivamente. Le religionietniche si presentano dunque all’approccio storico come un elementocostitutivo della fisionomia culturale dei popoli (ethne) che ne sono portatori,ossia quale espressione – insieme alle altre espressioni, come l’economia ol’organizzazione sociale e politica e così via – di una specifica identitàculturale.

Di tipo etnico sono le espressioni religiose di tutte le popolazionicosiddette primitive o illetterate (ma non, al loro interno, quei culti profeticiai quali faremo più avanti cenno), la maggior parte delle esperienze religiose

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dell’umanità nel passato e prima che l’una o l’altra delle grandi religionifondate nel loro diffondersi si imponessero a popoli e culture portatori direligioni etniche. Etniche sono pertanto le religioni di Grecia, di Roma,dell’India, le tradizioni religiose germanica, celtica, slava, altaica, mongola,cinese, giapponese. Si pensi al caso della Grecia: i primi documenti sullaciviltà greca sono anche i primi documenti relativi alla religione – ma oggitaluno preferisce dire ‘alle religioni’ – del popolo greco né si conosconopersonaggi storici che abbiano contribuito in maniera più o meno incisiva allaformazione delle credenze, istituzioni e prassi cultuali tipiche del mondogreco. Si viene da parte dello storico in contatto con un popolo e con la suacultura e contestualmente con le sue credenze religiose.

Tra le religioni etniche lo storico delle religioni “opera un’ulterioredistinzione, individuando una serie di fenomeni che, per le loro peculiaricondizioni storico-culturali, configurano una tipologia più specifica eristretta. Mi riferisco alle religioni cosiddette ‘nazionali’, attinenti a popoli dialta cultura presso i quali il fatto religioso si pone coscientemente comeespressione precipua della propria identità, insieme agli altri elementi (lingua,ordinamento socio-politico, tradizione storica, patrimonio letterario, artisticoetc.) che ne definiscono la fisionomia e la distinguono rispetto agli altripopoli. Talora l’elemento religioso assume in tali contesti il carattere disigillo e coronamento di tutti gli elementi culturali evocati. Si riserva pertantola denominazione di ‘etniche’ alle tradizioni religiose dei popoli cosiddettiilletterati o etnologici, ossia a quei gruppi più o meno consistenti (numerosiprima dell’impatto più o meno violento e distruttivo con la culturaoccidentale) caratterizzati da strutture e attività socio-economiche varie(caccia e raccolta, allevamento, agricoltura più o meno specializzata) e daforme culturali genericamente definibili come ‘primitive’, senza peraltroattribuire a questo termine alcun giudizio di valore. Soprattutto si tratta dipopolazioni ignare di sistemi di scrittura atti a facilitare lo sviluppo delleproprie acquisizioni culturali e a permettere la registrazione delle vicendestoriche, essendo affidata alla memoria e alla comunicazione orale latrasmissione del patrimonio culturale della comunità alle nuove generazioni.Di questo patrimonio costituiscono parte integrante le credenze e le pratiche

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religiose, le quali, anzi, risultano essere il fondamento e il motore dell’interoquadro esistenziale caratterizzato da un notevole conservatorismo culturale,tanto più evidente sul piano religioso dal quale tale quadro trae le ragionistesse della propria sussistenza e continuità. Le tradizioni religiose,contestuali alle origini del gruppo umano e della sua facies culturale, offronodunque ad essi legittimazione e significato, sebbene ciò avvenga in forme piùo meno implicite, senza una programmatica presa di coscienza del caratteredistintivo del proprio patrimonio religioso da parte del gruppo che ne èportatore. Ciò è invece quanto accade nel caso delle religioni nazionali,pertinenti come si è detto a popoli di alta cultura, che hanno elaborato formesociali ed economiche complesse e sistemi di scrittura attraverso i quali,procedendo all’accumulazione delle conoscenze perseguite dalle variegenerazioni, si è innescato un processo di accelerazione culturale sempre piùintenso e vivace. Si è così costituita – a partire dalle grandi civiltà del VicinoOriente già pienamente articolate nel III millennio a.C. – quella grandecorrente culturale sboccata, attraverso la civiltà greco-romana, nell’attualeciviltà occidentale ormai pervasiva a vario titolo e grado dell’intero arcoculturale umano”.[209]

Le religioni etniche, dunque, possono essere ulteriormente distinte al lorointerno tra quelle che più specificamente si potranno definire etnologiche,pertinenti alle culture cosiddette primitive (o tribali o tradizionali), e quelleche più propriamente potranno essere definite come etnico-nazionali onazionali, pertinenti ai popoli di alta cultura o culture superiori del mondoantico. Le prime interessano gruppi umani di ridotte dimensioni, quali igruppi tribali, le seconde interessano quelle entità che possono essere definite‘nazioni’ intendendo con tale termine una molteplicità di gruppi umani, unititra loro da determinate caratteristiche, come la lingua, le tradizioni, leistituzioni e, appunto, la religione.

In merito alle tradizioni religiose etnico-nazionali dedichiamo almeno uncenno alla greca e alla romana, nel loro offrire, sotto il profilo quiconsiderato, profonde affinità tra di loro ma anche differenze altrettantosignificative. Un primo e fondamentale motivo di affinità è dato dallastruttura politeistica che esse conoscono e che condividono con le numerose

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tradizioni religiose dei popoli dell’area mediterranea e del Vicino Oriente.Verificheremo più avanti come tale struttura non implichi solo unamolteplicità di potenze ma anche e soprattutto una precisa organizzazione dellivello sovrumano, costituito da figure dotate di specifica e individuapersonalità e di particolari attributi e competenze, sul piano cosmico come suquello delle attività umane, oltre che legate – ma questo specificamente nellatradizione greca – da rapporti che costituiscono l’oggetto di narrazionimitiche teogoniche.

Un motivo di differenza è invece dato dalle rispettive situazioni storico-culturali. “A Roma siamo in presenza di un’unica e compatta identitàcittadina che, pur nel progressivo allargamento dei propri confini territoriali enel graduale moto di annessione alla propria sfera di influenza politica di unnumero sempre maggiore di popoli e di culture fino a raggiungere ledimensioni di un vasto Impero sovranazionale, mantenne sempre il sensodella propria qualità di urbs, di comunità di cittadini sanzionata da unaspecifica e individua facies religiosa. Il panorama greco è assai più vario ediversificato. Le numerose stirpi greche, infatti, fin da epoca omericaappaiono caratterizzate da elementi propri e distintivi e da tradizioni storichedifferenziate, ma tuttavia sono accomunate da una lingua sostanzialmenteunica pur nella varietà dei dialetti, da certe connotazioni culturali alla cuiomogeneizzazione contribuì potentemente proprio l’epica omerica e infine daun peculiare quadro religioso. Di esso ciascuna stirpe e comunità cittadina,pure portatrice di tradizioni mitico-cultuali specifiche, poteva riconoscersipartecipe e pertanto percepiva in tale orizzonte religioso una componenteessenziale della propria facies ‘nazionale’”.[210]

“L’identità dei pur numerosi e diversi gruppi greci si configurava pertantocome unitaria e distinta da quella di qualsiasi popolo non greco, che appunto iGreci medesimi, in virtù dei dati evocati, distinguevano da sé come barbaros,ossia ‘non elleno’. Anche dopo la fine dei regni micenei, con la costituzionedelle poleis, le città-stato dalle dimensioni più o meno ampie quanto aterritorio e sfera di influenza socio-economica, il mondo greco mantienequesta tipica frammentazione politica, notoriamente espressa anche in acceserivalità e tensioni belliche assai frequenti, e insieme questa sostanziale

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compattezza culturale che proprio sul piano religioso trovava uno dei suoi piùsaldi e imprescindibili fondamenti. Basti pensare ai grandi santuaripanellenici quali quelli di Olimpia e di Delfi, periodicamente sedi degliagoni, insieme gare di destrezza e festività religiose, a cui convergevanoquanti si riconoscevano elleni, non solo dal suolo greco ma anche dallecolonie orientali e occidentali che, proprio in virtù delle proprie tradizioniculturali e religiose in particolare, mantenevano vivi e costanti i legami con lamadrepatria nella più assoluta autonomia politica e socio-economica.

Infine, non ultimo segno della specificità dell’orizzonte religioso greconella sua qualità di ‘religione nazionale’ contessuta all’intero spettro culturalee linfa vitale di tutti i gangli costitutivi di esso, è la circostanza ben nota chetale orizzonte – in assenza ovvero nel rilievo solo marginale di una letteraturareligiosa specifica anche in conseguenza della mancanza di classi sacerdotalispecializzate – si riflette nell’intero panorama documentario relativo allecomunità greche. Per conoscere credenze e pratiche cultuali dei Grecibisogna dunque interrogare le fonti letterarie di ogni tipo, dai poeti, aifilosofi, agli storici che, pur nella personale prospettiva e interpretazione etalora addirittura nella critica delle tradizioni religiose, mantengono sempreuna sostanziale aderenza ai parametri concettuali cui quelle sono improntate,oltre a testimoniare positivamente i loro contenuti. E ancora essenzialitestimoni del fatto religioso greco sono le fonti epigrafiche e monumentali,essendo in particolare la dimensione artistica ispirata dal dato religioso, il cuipeculiare antropomorfismo ha permesso ai Greci di esprimere le nozioni dibellezza, equilibrio e perfezione delle forme in una geniale simbiosi di divinoed umano.

Parzialmente diversa – come si è accennato – è la situazione di Roma,dotata della compattezza socio-economica e culturale propria di una cittàStato gradualmente dilatata nelle dimensioni territoriali e non esente dainflussi culturali estranei, da parte etrusca e greca innanzitutto, ma pure sottoil profilo religioso decisamente caratterizzata da una peculiare impronta‘nazionale’. Nell’equilibrio dei rapporti fra la comunità umana e i propri dèi –garantito dalla scrupolosa osservanza delle pratiche cultuali fissate dal mosmaiorum – era infatti individuata da parte dei Romani la ragione della propria

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identità e fondata la stessa sopravvivenza e fortuna del proprio Stato”.[211]Si ricorderà come la nozione romana di religio – sopra illustrata – esprimaproprio l’idea di una fedele adesione ai culti tradizionali che sola puògarantire la pax deorum, ovvero l’armonico rapporto tra livello divino elivello umano, e con essa la vita dei cittadini e dello stato. Seppure non siadel tutto estraneo a questo quadro l’elemento della ‘credenza’ nell’esistenzadelle varie potenze sovrumane e nella loro capacità di influenza sulla vitaindividuale e collettiva, rimane essenziale nella prospettiva romana, seppurcon accentuazioni diverse nell’arco della sua storia, il dato dell’osservanzacultuale.

E veniamo alle religioni fondate.

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CAPITOLO TERZOReligioni fondate

Religioni fondate sono quelle la cui origine è attribuibile all’azione di unapersonalità con connotazioni storiche più o meno nette e percepibili secondo icasi, la quale, operando in un determinato tempo e ambiente culturale, eall’interno di una tradizione religiosa vuoi di tipo etnico vuoi di tiponazionale, o comunque appellandosi a una tradizione religiosa consolidatadalla quale peraltro si distacca secondo modalità e per ragioni diverse, dàimpulso ad una nuova formazione religiosa, ovvero elabora e diffonde unproprio messaggio, spesso affidandolo per iscritto o oralmente ad una cerchiadi discepoli che si offrono a loro volta come testimoni e garanti dello stesso.

Si tratta dunque, nel caso delle religioni fondate, di formazioni omovimenti più o meno ampi e strutturati, alla definizione della cui identitàrisultano essenziali – seppure in forma volta per volta diverse – la persona,l’opera e l’insegnamento dei rispettivi ‘fondatori’.

Legata alla figura del fondatore è, come visto, la nozione di un messaggioda lui elaborato e comunicato a discepoli, nonché affidato a testi, scritti(almeno parzialmente) o dal fondatore stesso o da discepoli o lorocontinuatori dopo aver conosciuto – tale messaggio – una trasmissione, più omeno prolungata nel tempo, di tipo orale. Risulta così fortemente connessaalla nozione di ‘religione fondata’ la nozione di ‘canone’ da intendersi comeun complesso di testi – venutosi a costituire secondo particolari e volta pervolta diversificati processi storici – i cui contenuti hanno un caratterenormativo e vincolante, e la cui accettazione o rifiuto decidedell’appartenenza o meno del singolo al contesto religioso che a quel canonesi appella.

Tuttavia non è da ritenere che la nozione di ‘canone’ sia esclusiva dellereligioni di tipo fondato. Infatti, si danno in seno alle religioni etniche casiparticolari come quello della religione vedico-brahmanico-induistica, la

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quale, pur essendo religione etnica, è religione basata su un canone scrittoconsiderato di autorità divina. “È d’altronde indubbio che la presenza o menodi un canone letterario sacro opera nell’ambito delle religioni ‘etniche’ unanotevole distinzione: le religioni che tale canone posseggono (...) sidistaccano in qualche modo e costituiscono nell’ambito delle religioni etnichel’ala più avanzata nella direzione delle religioni fondate, soprattutto là, comenel caso del taoismo o dell’orfismo, ove si faccia riferimento a un sia pureleggendario fondatore. Di più, in quelle tra le religioni ‘etniche’ in cui si dàun canone, vige in qualche modo un principio di unità almeno formale e,nello stesso tempo, l’opera dei singoli autori delle varie parti del canone, senon sostituisce l’ineguagliabile unità del fondatore, pure in qualche modo dàquella impronta più tangibile di personalità che spesso riesceirrimediabilmente irrecuperabile nelle religioni etniche illetterate”.[212]

Rispetto alle religioni etniche che posseggono una sorta di canone vannodistinte quelle, pure etniche, “dei popoli illetterati e di quei popoli culti che,pur possedendo scritti di carattere rituale o oracolare (e in certo sensocanonici ma di contenuto troppo episodico, come nel caso di Roma), o purvantando una letteratura religiosa (o di interesse anche religioso) splendida(come la Grecia con la sua religione ‘olimpica’), non vi riconobbero ilfondamento centrale e la misura (appunto: il canone) di una ortodossia: quelgruppo, in altre parole, di religioni che non conobbero il concetto diortodossia”.[213]

Prescindendo qui dai vari movimenti minori, tra i quali, attualmente, lamaggior parte delle cosiddette ‘nuove religioni’, grandi religioni storiche ditipo fondato sono il cristianesimo, l’islamismo, lo zoroastrismo, ilbuddhismo, il giainismo, il manicheismo e, con modalità del tutto particolari,l’ebraismo-giudaismo. Quest’ultimo, infatti, risulta connesso a fortipersonalità di diverso e talora problematico spessore storico che hanno inmomenti diversi contribuito alla formazione della sua identità, quali le figuredi Mosè e già di Abramo, ma allo stesso tempo offre un’ineliminabileconnotazione etnico-nazionale. Vanno anche menzionati la religione dei Sikhe i culti profetico-nativistici.

La ricerca storico-comparativa, che pur ha illuminato la problematicità

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della nozione di ‘fondatore’ come pure di quella di ‘religione fondata’ inrelazione a specifici contesti, ritiene tuttavia legittimo l’uso di tali nozioni seassunte non in una maniera rigida e univoca ma piuttosto in una manieraanalogica, ovvero tale da rispettare – insieme agli elementi di affinità – anchela varietà e profonda diversità di situazioni storiche e di processi storiciconosciuti dalle religioni fondate.[214]

Innanzitutto, in relazione alla nozione di fondatore, il carattere di storicitàrisulta decisivo e tale da distinguere le religioni fondate da altre formazionireligiose che appellano a personaggi pertinenti al livello mitico. È il casodell’orfismo greco, che pone sotto l’autorità del mitico cantore trace un fasciodi credenze e dottrine teologiche, antropologiche e cosmologiche diispirazione dualistica e pratiche rituali di tipo catartico, tese alla liberazionedella componente di natura divina che l’orfismo stesso riconosce propriadell’umana costituzione.

Altro caso di sistema religioso che fa riferimento a una personalitàevanescente di fondatore e al contempo integra elementi religiosi di chiaraconsistenza etnica è il taoismo, il cui fondatore, Lao-tze, non è molto più cheun nome al quale sono attribuite convenzionalmente dottrine che, se hannouna qual loro unitarietà ideologica ed etica, tuttavia difficilmente possonoessere messe in rapporto storico con una determinata personalità storica e conla sua predicazione.

Non è tuttavia da ignorare, quando invece ci si trovi di fronte a fondatori‘storici’ e al fine di una corretta valutazione della loro fisionomia e della loroopera, il dato costituito dalla possibilità che attorno alla figura del ‘fondatore’si aggreghino, tanto più quanto più quella figura risulta lontana nel tempo,elementi ‘agiografici’, spesso leggendari.

Inoltre, fondamentale per un corretto approccio alle diverse figure di‘fondatori’ oltre alla consistenza storica risulta il dato della ‘intenzionalità’,ovvero della volontà più o meno esplicita e programmatica da parte del‘fondatore’ di dare vita a una nuova creazione religiosa.

Di fatto, si constata come in taluni casi il dar vita a una nuova formazionereligiosa avvenga in maniera intenzionale e quasi programmatica. Esemplareal riguardo è il caso di Mani (ca. 216 – ca. 276 d.C.), il fondatore del

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manicheismo, personaggio del quale le fonti attestano una programmaticavolontà di dare vita, là dove le precedenti tradizioni religiose avevano a suodire fallito, a una nuova formazione che, da subito dotata di testi scritti dalfondatore stesso, fosse esente dai limiti e dagli errori di quelle e pertantopotesse conoscere quella diffusione che le precedenti non gli apparivano averconosciuto.

Talora, invece, la nozione di ‘fondatore di una religione’ risulta piuttostoartificiosa o quantomeno tale da mortificare la ricchezza di valenze dellafigura del ‘fondatore’ e della sua opera.

In sostanza, se la nozione di fondazione in sé offre una dimensione diintenzionalità ovvero di più o meno esplicita volontà di dare vita a una nuovacreazione religiosa, che non sempre è dato effettivamente riscontrarenell’opera dei ‘fondatori’, la nozione di religione, come visto, nella suaattuale fisionomia complessa e articolata, è categoria moderna che nonsempre e non necessariamente si adatta alla concreta situazione nella quale simuove e agisce il ‘fondatore’. Di fatto, spesso, la fondazione si esprimepiuttosto come la comunicazione da parte di un personaggio dalle eccezionalidoti carismatiche di un messaggio di diversa consistenza e di diverso‘spessore’, ritenuto dallo stesso e/o percepito dai suoi ascoltatori o discepoli edai continuatori di questi come innovativo, in misura diversa, rispetto allatradizione culturale e religiosa in cui il primo e i secondi si muovono.

In particolare, riserve suscita la troppo immediata identificazione di Gesùdi Nazareth come fondatore del cristianesimo, giacché “Gesù non ebbe mail’intenzione di ‘fondare’ una ‘nuova religione’ che soppiantasse il‘giudaismo’”.[215] Tanto più superata la teoria che voleva porre tra Paolo eGesù una distanza tale da far diventare Paolo il secondo, se non addirittura ilvero, ‘fondatore’ del cristianesimo. “In realtà, l’allontanamento [scil. delcristianesimo dall’ebraismo] fu lento, e si prolungò su più di un secolo, dagliesordi di Gesù, verso il 27-28, fino alla seconda guerra giudaica, sottoAdriano”.[216]

Continuando a usare la categoria di fondatore, seppur con le cauteleenunciate, occorre segnalare la frequente presenza, in relazione alla figura delfondatore, di un carattere profetico, allorché “egli si autorappresenta ovvero è

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rappresentato nella tradizione relativa come destinatario di una rivelazionedivina, di cui media la trasmissione agli uomini. Tale connotazione èpreminente nel caso di Zarathuštra (lo Zoroastro delle fonti greche) nellatradizione mazdaica e di Maometto in quella islamica, entrambi portavocedella parola di un Dio sommo creatore, entrambi definiti appunto ‘profeti’ neirispettivi contesti, mentre essa assume valenze peculiari in relazione allafigura di Gesù di Nazareth e non può essere invece attribuita a GautamaBuddha, il cui messaggio prescinde dalla nozione di una divinità personale.Tuttavia, non si trascurerà un importante aspetto di analogia con la tipologiaprofetica nella qualità dell’‘Illuminato’ come protagonista di un’esperienza,appunto, di ‘illuminazione’ interiore, aperta verso un ‘al di là’ rispetto allarealtà cosmica, coincidente con un’acquisizione di verità da trasmettere, infunzione salvifica, a tutti gli uomini”.[217]

In relazione alle religioni fondate, un problema storico fondamentale ècostituito dal rapporto tra il fondatore e l’ambiente culturale in cui egli simuove, già caratterizzato da una specifica tradizione religiosa la quale puòessere a sua volta di tipo etnico ma anche di tipo fondato, ossia avere giàconosciuto ‘fondatori’ o comunque personalità decisive ai fini delladelineazione della sua identità. Di fatto, un fondatore di religione si muove inuno scenario storico particolare e agisce all’interno di una precedentetradizione, nei confronti della quale la sua azione risulterà in varia misuracaratterizzata sia da aspetti di novità, talora anche rivoluzionaria, sia daaspetti di continuità. Talora, nello specifico, il fondatore presenta la propriaazione come tale da operare una restaurazione di elementi e valori primordialiormai da tempo perduti o offuscatisi. In sostanza, il fondatore per un versoutilizzerà elementi della tradizione precedente rielaborandoli nel nuovocontesto, mentre per altro verso si opporrà ad essa o comunque proporrànovità più o meno radicali.

Talora la questione della continuità (almeno parziale) tra il fondatore el’ambiente culturale e religioso nel quale egli si forma e agisce risultaparticolarmente importante e può venire a decidere della (e a chiarire la)qualitas religiosa del messaggio del fondatore. È il caso del buddhismooriginario, in relazione al quale si constata come molte nozioni della dottrina

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buddhista (karman, samsara, moksa, dharma, ed altre) già svolgessero unimportante ruolo in India e nella sua peculiare tradizione religiosa al tempodel Buddha, il cui messaggio si appropriò, modificandole o radicalizzandole,di tali nozioni. Un fatto storico, questo, di decisiva importanza per unavalutazione tipologica del suo messaggio come messaggio, appunto,‘religioso’ (e non – ad esempio – solo filosofico), legato strettamente allatradizione religiosa che lo precedette.

A esemplificazione delle problematiche che si offrono all’indaginestorico-comparativa per quanto riguarda il rapporto tra la figura del fondatoree il contesto storico, culturale e religioso in cui egli si colloca e agisce,offriamo alcuni cenni relativi a religioni fondate, le quali, comunque, sarannopiù ampiamente e sotto profili anche diversi trattate nelle parti ulteriori delpresente testo.

Esempio tipico di religione fondata è quella islamica, in quanto creazioneoriginale di Maometto, nonostante le sue profonde connessioni con latradizione ‘pagana’ preislamica e con credenze proprie del giudaismo e delcristianesimo pure professati nell’Arabia al tempo di Maometto.

Maometto è un fondatore cui la documentazione in nostro possessoconsente di attribuire l’esplicita intenzione di annunciare un messaggioreligioso nuovo che viene custodito in un testo sacro, il Corano, il quale,compiutamente redatto dopo un lungo periodo di trasmissione orale, intendepresentarsi come la trascrizione fedele della rivelazione divina ricevuta daMaometto, parola di Allah, preesistente e consegnata agli uomini attraversol’inviato prescelto a tale scopo.

L’islamismo nasce nel contesto di una religione etnica, quella del popoloarabo, portatore di credenze religiose consistenti nella venerazione di variepersonalità sovrumane solitamente riunite in triadi, e nelle connesse praticherituali. Tale ambito religioso era altresì caratterizzato da una complessademonologia. La predicazione di Maometto per un verso opera un nettorifiuto delle tradizioni anteriori nel momento in cui alla credenza in esserisovrumani molteplici contrappone la credenza nell’unico Dio, Allah, di cuiMaometto si presenta come il profeta. Per altro verso, accetta di quelle stessetradizioni alcuni contenuti, come le credenze demonologiche, e pratiche

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rituali come il culto tradizionale reso dalle tribù beduine a la Mecca, le une –credenze – e le altre – pratiche – peraltro trasformate una volta inglobate nelnuovo contesto.

Lo stesso contenuto monoteistico del messaggio di Maometto, ovvero lacredenza nel dio unico, Allah, mentre costituisce un elemento di rottura conla tradizione etnica araba, è da lui stesso in maniera programmatica posto indiretta continuità con la tradizione biblica, dal momento che Maomettoafferma che il Dio unico che a lui si è rivelato come all’ultimo profeta, è lostesso Dio rivelatosi ad Abramo e a Gesù, considerato da Maometto comeprofeta. Tale continuità – del resto – ha una precisa consistenza storica perchéMaometto fu a contatto con comunità giudaiche e cristiane.

Il cristianesimo, dal canto suo, si presenta come religione fondata acontenuto monoteistico che nasce nel solco della tradizione religiosagiudaica, e dunque nell’ambito di una religione anch’essa a suo modofondata, pur con ineliminabili caratteristiche etnico-nazionali, e anch’essa dicontenuto monoteistico. Gesù di Nazareth si presenta come perfettamenteinserito nella tradizione ancestrale del popolo ebraico, di cui è membro, e inpari tempo portatore di un nuovo messaggio che si offre come dirompente neiconfronti dello stesso monoteismo giudaico. Ovvero, se per un verso vi èprofonda continuità tra il nuovo messaggio e la tradizione giudaica nel sensoche Gesù di Nazareth si dichiara Figlio dello stesso Dio che era il fondamentodi quella tradizione, per altro verso, proprio nel manifestarsi come Figlioincarnato di quel Dio che per gli ebrei era assolutamente trascendente rispettoalla creazione, e del quale si sottolineava in maniera radicale l’unicità e laseparazione rispetto all’uomo, rivoluziona profondamente la prospettivamonoteistica giudaica. Pertanto, e a prescindere dai numerosi altri aspetti chedifferenziano per un verso e avvicinano per l’altro i due contesti, il messaggiodi Gesù di Nazareth, se trova accoglienza in una parte del popolo, vienerespinto dalla maggioranza di esso e soprattutto dai rappresentanti ufficialidel giudaismo (il Sinedrio, gli Scribi, i Farisei) è rifiutato come incompatibilecon l’insegnamento tradizionale. Il rifiuto a livello religioso sfocia nellaconsegna all’autorità politica di Roma e nella conseguente condanna allapena capitale. Il suo insegnamento, raccolto e trasmesso per via orale, viene

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poi consegnato a testi scritti da alcuni discepoli o dai più immediatiascoltatori e continuatori di questi. Si costituisce in tal modo un corpus discritti che, passato al vaglio delle comunità cristiane, attraverso un processoarticolato nel tempo e che principia già nel II secolo, diventa ‘canonico’.

Un altro esempio di religione fondata è costituito dalla religionezoroastriana, così denominata dal suo fondatore, Zarathustra (Zoroastro nellefonti greche), vissuto in ambiente iranico in un’epoca difficilmente definibile,giacché, mentre nel caso di Gesù di Nazareth e di Maometto si hanno deiprecisi riferimenti storici, le fonti che a lui si riferiscono sono per lo più diepoca molto più tarda e riflettono una profonda elaborazione delle tradizionia lui relative. Si possiede tuttavia un gruppo di Inni, le Gatha, che, facentiparte del libro sacro degli zoroastriani, l’Avesta, costituitosi gradualmente nelcorso dei secoli attraverso la composizione e raccolta di diversi scritti,risalgono probabilmente allo stesso Zarathustra, nel senso che ne raccolgonoil messaggio, messo per iscritto dai discepoli. Tuttavia gli studiosi oscillanonella datazione di questi testi e nella collocazione storica del personaggio tral’VIII-VII sec. a.C. (tale è l’ipotesi tradizionale) e la fine del II millennio oinizi del I millennio a.C.

In sostanza, nel caso di Zarathustra, si tratta di un fondatore di indubbiaconsistenza storica, ma in relazione al quale sussistono molte incertezze perquanto concerne la sua collocazione nel tempo e in un particolare ambientegeografico e culturale. Il messaggio di Zarathustra, caratterizzatodall’affermazione dell’esistenza di un unico e sommo dio, Ahura Mazda,creatore di tutta la realtà e dotato di caratteristiche morali fortementeaccentuate, si offre come monoteistico e – come vedremo più ampiamente –tale da offrire anche forti valenze dualistiche.

Pertanto, nel caso dello zoroastrismo, come – ma solo parzialmente – nelcaso sopra considerato dell’islamismo, il rapporto tra il fondatore e il contestoreligioso precedente risulta caratterizzato da due forti aspetti di diversità senon addirittura di opposizione, poiché, in primo luogo, da una religione acarattere etnico si viene ad una religione fondata, e in secondo luogo talereligione fondata si presenta come messaggio religioso a caratteremonoteistico rispetto ad una tradizione precedente o politeistica (quale quella

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iranica prima della riforma di Zarathustra, ma sulla questione esistonodivergenze di opinione tra gli studiosi, come vedremo) o comunque tale daammettere una pluralità di esseri sovrumani variamente caratterizzati (qualequella dell’Arabia preislamica). Vero è che nel caso dello zoroastrismo citroviamo di fronte a una religione fondata e monoteistico-dualistica la quale aun certo punto della sua storia recupera alcuni elementi della stessa tradizioneetnica che era venuta a contestare, rielaborandoli alla luce del nuovo quadroreligioso.

Una menzione particolare meritano, in relazione alle questioni quidibattute, i culti (meglio che religioni) profetici (o profetico-nativistici)presso i primitivi.

Si tratta di movimenti religiosi e, in senso embrionale, politici suscitati da singole personalitàappellantesi solitamente a rivelazioni o investiture dall’alto, in ambienti primitivi, come reazioneagli influssi culturali delle nazioni colonizzatrici; movimenti occasionati solitamente da difficoltà eimbarazzi causati agli indigeni dal nuovo stato di cose, e spesso provocati da incomprensioni eingiustizie delle autorità o dei coloni bianchi. In simili circostanze, che potremmo chiamare diconflitto, o quanto meno di transizione culturale, avviene talvolta che sorga una predicazionecatastrofica e escatologica da parte di qualche indigeno, che attribuisce i mali presenti (talorarappresentati anche da catastrofi naturali) alla presenza dei bianchi e all’ira dei vecchi dèi dellatribù. Si tratta allora di pacificare questi dei rifiutando tutto il nuovo; o più spesso si tratta dirivolgere, coscientemente o inconsciamente, elementi di dottrina appresi dai colonizzatori e daimissionari, e fatti ormai propri, contro i loro portatori medesimi. Si tratta cioè di affermare comedottrina salvatrice una dottrina, o un complesso di nozioni, in cui vengono fusi in manieraartificiosa e non di rado grottesca, elementi cristiani di origine missionaria ed elementi etnici,pagani, in contrasto e in contraddizione con la dottrina ufficiale dei missionari; questa dottrinanuova viene in genere, come si è detto, presentata come frutto di una rivelazione o di unaispirazione, e non è raro il caso di ‘profeti’ che si presentino come nuovi Cristi, o come nuove sueincarnazioni. (...) Come è chiaro, ci troviamo di fronte, in questi casi, a religioni – ma megliosarebbe dire ‘culti’ – che solo in certo senso noi possiamo chiamare fondate, nel senso dato fin quia questo termine: giacché in esse l’elemento essenziale, il reattivo, è costituito precisamente nonsolo dalla reazione a una situazione etnico-politico-religiosa nuova (il dominio dei bianchi) – il chepotrebbe essere una occasione come un’altra per il sorgere di una religione ‘fondata’–, ma anchedalla assunzione, cosciente o meno, di elementi di religiosità cristiana derivati dagli insegnamentidei missionari e dai testi biblici. Giacché si deve notare che il sorgere di questi ‘profeti’ avvienespesso in ambienti già toccati più o meno profondamente dall’opera del missionario (i profetimedesimi sono in genere indigeni ex-cristiani). Non solo: ma si deve anche notare come fattosintomatico che movimenti profetici indigeni di questo tipo sorgono soprattutto in terre colonizzateed evangelizzate da protestanti. L’interpretazione libera della Bibbia, specie dell’AnticoTestamento (l’elemento profetico-guerriero!), e certe forme di culto della persona del Salvatore,alla maniera in cui possono essere recepite nella mentalità talora tendenzialmente estatica del‘primitivo’, possono indubbiamente favorire il sorgere di culti profetici spontanei più facilmente di

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quanto non avvenga in un ambiente che conosca l’organizzazione gerarchico-sacramentale dellaChiesa cattolica. Di più, sempre in questo ordine di idee, l’autonomia organizzativa e la tendenzaal frazionamento denominazionale delle chiese protestanti favorisce la formazione di collettivitàreligiose o cultuali nuove e autonome, sia sul piano organizzativo che su quello dottrinale.[218]

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CAPITOLO QUARTOReligioni nazionali e religioni universali

Per religioni nazionali, come sopra visto, s’intendono quelle religionietniche pertinenti ai popoli di alta cultura (e dunque distinte da quelle deipopoli privi di scrittura) le quali si rivolgono programmaticamente alla‘nazione’ che ne è portatrice e di essa intendono costituire l’espressionereligiosa peculiare, anche se non esclusiva, accettando di convivere con altretradizioni religiose o con loro specifici complessi cultuali che siano penetratinell’ambito della religione nazionale in questione.

Le religioni nazionali sono dunque religioni di tipo etnico, non fondato, lequali sono percepite dai loro stessi portatori come espressione distintiva ecaratterizzante della propria facies culturale, del proprio essere una ‘nazione’,vale a dire una comunità più o meno ampia con una autonoma e specificaidentità, o una molteplicità di gruppi, uniti fra di loro da catteristichespecifiche, quali la lingua, le tradizioni, le istituzioni socio-economiche eappunto le istituzioni religiose. Nelle religioni nazionali la qualificazionereligiosa del singolo coincide con quella etnica e culturale.

Grandi religioni nazionali nel mondo antico furono – ad esempio – quelledei Sumeri e degli Assiro-Babilonesi, degli Egizi, dei Greci e dei Romani.Tuttavia nella Roma antica, meglio della ‘religione’ in quanto tale sidirebbero ‘nazionali’ specifici culti – come ad esempio quello di Giovecapitolino o quello dell’imperatore –, tali da promuovere, per così dire, unaconsapevolezza nazionale e politica. Ma vanno ricordati anche lozoroastrismo nell’impero sasanide, nonché lo shintoismo di stato comepraticato in alcuni periodi della storia giapponese.

Nell’ambito delle religioni etniche di tipo ‘nazionale’, che dunque sipongono coscientemente come il sigillo distintivo di una nazione,esprimendone e celebrandone i valori, la religione è, pertanto, l’espressionedi un popolo e come tale è riconosciuta legittima dagli altri popoli. Vi è tra le

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religioni etnico-nazionali nel mondo antico un rapporto di reciproco e mutuoriconoscimento. Perspicua è l’espressione di Cicerone:[219] “Ogni nazioneha la propria religione, o Lelio, e noi abbiamo la nostra” (Sua cuique civitatireligio, Laeli, est, nostra nobis).

Anche la religione di Israele venne generalmente riconosciuta dai ‘gentili’come religione legittima – nonostante la sua specificità nella direzione delmonoteismo – in quanto religione di un popolo.

Il conflitto tra tradizioni religiose subentra in caso di guerra. La vittoria diun popolo su un altro è vittoria degli dei dei vincitori su quelli dei vinti iquali, dei, vengono o esautorati o assoggettati a specifici trattamenti.Particolarmente significativo, al riguardo, è in Roma il fenomenodell’evocatio con cui gli dei dei popoli nemici vengono chiamati (evocare,‘chiamare fuori’) a passare dalla parte dei vincitori.

In merito a quello che sopra chiamavamo ‘mutuo riconoscimento’ trareligioni etnico-nazionali nel mondo antico può essere precisato quantosegue.

Tale atteggiamento comporta il riconoscimento da parte di una tradizionereligiosa etnico-nazionale a struttura politeistica della propria omogeneità conle altre tradizioni affini, quali furono, appunto, nell’antichità quelle dell’areamediterranea e vicino-orientale, con l’eccezione dell’ebraismo-giudaismo ovesi affermò gradualmente la figura di un unico dio creatore di tutte le realtà edi tutti gli uomini, il che non privò, come detto, il giudaismo di una patente dilegittimità da parte delle religioni etnico-nazionali a struttura politeistica, inquanto riconosciuto religione, appunto, del popolo d’Israele. Tale omogeneitàrese possibile il fenomeno dell’interpretatio, o ‘traduzione’ di un dio inseritoin una tradizione religiosa con quello di un’altra tradizione il qualepresentasse o sembrasse presentare attributi e funzioni analoghe.

In tal modo – ad esempio – Erodoto ritiene di poter riconoscere la‘omogeneità’ dell’egizio Osiride con il greco Dioniso o della egizia Iside conla greca Demetra. Nello storico greco si offre in nuce quanto si sarebbesuccessivamente esplicitato con un altro uomo di cultura greca, Plutarco, cheormai in età tardoantica si sarebbe spinto a riconoscere la sostanzialeomogeneità o equivalenza delle diverse figure divine proprie dei diversi

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pantheon a lui noti.[220] Ci troviamo di fronte all’attestazione presso taluniinterpreti del ‘paganesimo’ antico di una sorta di universalismo, fondato nonsu un messaggio, quale quello proprio delle grandi religioni universalistiche –alle quali addiverremo –, ma sulla polinomia dei grandi dei, cioè sullacredenza in una loro universalità solo mascherata dalla differenza di nome. Eciò sembra annunciarsi, come detto, in qualche modo già con Erodoto,secondo il quale “l’Egitto ha fatto conoscere i nomi degli dei, il che significamolto di più che un problema di onomastica divina o di interpretatio deorum,e meno che mai di sincretismo. Il concetto di Erodoto, certamente partecipatoanche dai più sensibili tra i Greci d’Egitto, è che Dioniso è effettivamenteOsiride, che Demetra è Iside, che Neitis è Athena (...). Già nella visione diErodoto, e poi in quella più ellenocentrica di Plutarco, gli dei, o almeno laloro maggioranza, hanno una presenza e una verità universali, al di là deiconfini di popoli e culture. Il sistema politeistico, ancora nel suo pienovigore, si riafferma negando una parte importante della sua essenza. Esso nonè più il portato originale e irriducibile di culture disparate, le quali, purammettendo derivazioni e innesti, si definiscono come etniche – greca,egizia, siriana, fenicia, etc. – e vedono sostanzialmente i loro dei comeracchiusi in strutture senza porte e finestre. Al contrario, questo nuovopoliteismo – che non è ignaro, già con Erodoto, di puntate sul generico temadel ‘divino’ – si fa interetnico e sovrannazionale, traducibile in molte lingue eraffigurabile in molte immagini. (...) Allorché Cesare, adattando un’anticaformula, dichiara che i Galli deorum maxime Mercurium colunt, e Tacitoripete l’identica frase a proposito dei Germani, si è di fronte a un fatto diinterpretatio nel senso di ‘traduzione’, ma che già accenna a ‘interpretazione’nel senso di Ermeneutica. Gli dei sono gli stessi, sia pure sotto diversi cieli econ diversi nomi, anche quando sono arricchiti con diversi attributi di originebarbarica”.[221]

In tal senso si può dire che i politeismi, i quali non espressero mai nelloro seno dei monoteismi, ovvero non conobbero mai una evoluzione insenso monoteistico e furono piuttosto spazzati via da monoteismi (essendoaltra cosa rispetto al monoteismo quelle tendenze alla unità e unicità deldivino che in essi si manifestarono e sulle quali torneremo), seppero

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esprimere, entro i limiti del ‘sistema’ che fu loro proprio, posizioniuniversalistiche (ben diverse dall’universalismo che, come vedremo, venne acaratterizzare i messaggi monoteistici), vale a dire tali da ammettere che glidei o taluni di essi sono comuni a tutti i popoli pur se venerati con nomidiversi.

Se, come sopra detto, una religione nazionale intende porsi comel’espressione religiosa peculiare di una determinata nazione ma nonesclusiva, si potrà parlare di una religione nazionale come di una religioneche è giunta “ad una particolare coscienza di sé sul piano dei valori nazionali,ma anche, corrispondentemente, a una particolare coscienza dei propri limitisul piano del soddisfacimento delle esigenze religiose del singolo”.[222]

Ciò si esprime con evidenza nel caso, ad esempio, di una grande religionenazionale praticata nella storia del Giappone, lo shintoismo, il quale, mentrerappresenta un’esaltazione e un’interpretazione di valori nazionali sul pianoreligioso, proprio per questo motivo, ovvero per questa riconosciuta angustiadi prospettiva ha accettato di convivere, in Giappone, con un’altra religione,di tipo individuale e universale, ovvero il buddhismo, entrato in Giapponenell’anno 552 d.C., con questo spartendo la coscienza religiosa del singolo edel popolo.

Ma tale caratteristica si esprime anche nel caso delle religioni nazionalidell’antichità classica. Si pensi al caso di Roma, ove “una religione che daetnica si fa sempre più coscientemente nazionale, e che tale rimanenonostante gli apporti ricercati o subiti delle religioni circonvicine (...),percepisce a un certo punto e riconosce la sua insufficienza alsoddisfacimento delle esigenze religiose, vieppiù crescenti, del singolo, eaccetta di fatto di convivere con i più disparati culti, misterici o non,provenienti dal lontano oriente, e anzi talora sollecita l’avvento di questi culti(culto della Magna Mater), limitandosi a intervenire con divieti motivatidall’ordine pubblico e dalla moralità (Baccanali). Accetta di convivere,abbiamo detto, con il solo patto della lealtà del singolo e dei gruppi ai cultinazionali, quello capitolino, e poi, soprattutto, quello imperiale: unaposizione cioè analoga a quella dello shintoismo nel Giappone in certi periodidella sua storia. E in Grecia avviene l’analogo, sia pur tenuto conto del

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maggiore frazionamento, e quindi della diversa efficacia, dei poteri politici. Auna religione ufficiale della polis si unisce, nel favore di singoli e gruppi, unareligione individuale, risultante dalla universalizzazione di questo o quelculto greco locale, o (anche qui) dall’introduzione di culti stranieri, odall’elaborazione religioso-filosofica di nozioni religiose tradizionali, chevengono elevate, trascese, interpretate, – in certo senso e relativamente almondo classico – universalizzate”.[223]

E veniamo alle religioni universali.La distinzione tra queste ultime e le religioni nazionali “concerne non

tanto – o non solamente – il fatto della diffusione universale o meno dellereligioni in oggetto, quanto la presenza o meno, in esse, di una vocazione, diuna tendenza, di una apertura universali. Abbiamo detto: non tanto o nonsolamente; giacché anche il fatto obiettivo della diffusione universale (orelativamente universale) di una religione ha il suo peso per l’attribuzione diessa all’una o all’altra categoria. Giacché si possono dare religioni, o sistemireligiosi, che siano stati concepiti dai loro fondatori in funzione universale,ma che tale diffusione non abbiano mai attinto – che anzi siano rimasti nientepiù che un episodio locale, o che al massimo abbiano goduto favore solopresso una minoranza cosmopolitica: si pensi a religioni – per lo più diformazione secondaria (cioè ponentesi come esplicita e ‘costruita’ neo-formazione sistematica) – quali il babismo-baha’ismo. (Locale, ma di ampiosuccesso, il sikhismo, religione indiana sincretistica e di aspirazioneuniversalistica)”.[224]

Diversamente dalle religioni etnico-nazionali o nazionali tout court, lereligioni universali si rivolgono a ciascun individuo e conseguentemente atutti gli individui, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica enazionale. Se nel caso delle grandi religioni nazionali del mondo antico (sipensi quali esempi alla religione etrusca o alla religione romana), e in quellodelle religioni tribali, l’uomo fa parte di una tradizione religiosa in quanto faparte di una specifica nazione, o di uno specifico gruppo tribale, le religioniuniversali appellano innanzitutto alla persona. Dunque, sono al contempouniversali e individuali (o personalistiche), ma ciascuna di esse – comeavremo modo di verificare – con differenze storicamente rilevanti rispetto ad

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altre tradizioni pur tipologicamente affini, ossia anch’esse universali eindividuali.

Le religioni universali sono basate su un messaggio universale disalvezza, non limitato a gruppi specifici, e sono caratterizzate sia daprospettive escatologiche e oltremondane sia da un forte impegno etico.

Nell’ambito di tali religioni vanno annoverati il cristianesimo,l’islamismo, il buddhismo, e in qualche modo anche il giudaismo, seppurecon le specificità che tratterranno più avanti la nostra attenzione, el’induismo, seppur questo sia profondamente legato a una dimensione etnico-geografica e a una struttura castale.

Al riguardo della dimensione personalistica delle religioni universaliosserva efficacemente U. Bianchi: “Qui consideriamo solo un aspettocomune di queste religioni: ma esse si differenziano per aspetti essenziali, alpunto che il termine ‘religione’ applicato ad esse è solo analogo, specie perl’induismo, che è una forma di gnosi, e ancor più per il buddismo ortodosso,che prescinde dalla divinità e si occupa solo della liberazione dal ciclodoloroso delle rinascite. (...) Queste religioni sono dunque personalistiche; sesono personalistiche hanno evidentemente in sé una dinamica che insiste nelcontatto personale fra la verità (Dio, o la divinità, di queste religioni) e lepersone che sono ‘interpellate’, vocate a questa conversione; perché nellegrandi religioni universalistiche si entra per conversione e non per diritto dinascita. Questo implica evidentemente tutto un complesso di rapporti che è insé dinamico, non è affatto statico; è statica invece una religione nella quale siottengono i diritti e si prendono i doveri rispettivi per diritto di nascita,rispetto al quale non c’è nulla da cambiare. Cicerone, che guardava congrande scetticismo i suoi dèi, non si sarebbe sognato di negarli, e quandoSocrate sembrò farlo, fu chiamato ‘ateo’ perché non restava (o non sembravarestare) in quella situazione in cui per sua natura sarebbe dovuto restare,come ateniese.

Si capisce dunque che se ci si basa sul concetto di persona viene avantitutta una quantità di rapporti che sono intimamente dinamici. C’è undinamismo in queste religioni nel senso che non possono non appellare allacoscienza, all’approfondimento delle esigenze della coscienza, e allora si può

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anche intravedere la possibilità, se non per queste religioni, per lo meno per iloro membri, di evolvere verso posizioni di coscienza ulteriori: dunque unadinamica, non tanto di queste religioni come tali, perché difficilmente l’islamo il cristianesimo o il buddismo potranno evolvere l’uno verso l’altro, o versouna presunta e immaginaria super-religione che in qualche modo li sincretizzie li riassuma tutti, quanto piuttosto una dinamica nella coscienza dellepersone”.[225] Quanto alla posizione del cristianesimo rispetto alle altrereligioni ‘personalistiche’ sopra ricordate, e sotto lo specifico profilo del‘personalismo’, sembra si possa nel cristianesimo – come suggerisce ancoraBianchi – vedere “rappresentato il carattere personalistico in una maniera deltutto specifica, del tutto speciale rispetto alle altre religioni universalistiche(...). Nel cristianesimo c’è un contatto con la Persona che è Dio – questovarrebbe anche per l’islam – e con la Persona che è Gesù Cristo, una persona,Cristo, che (...) interpella (...) in modo del tutto originale rispetto a quello diogni altro fondatore o profeta. In altre parole, nel contatto attuale con lapersona di Cristo si celebra in maniera estrema il carattere personalisticodella religione cristiana. Tutto quello che ho detto prima per le altre religionivale di più per il cristianesimo, nella misura in cui la persona di Gesù Cristodà al cristianesimo, accentua nel cristianesimo e a suo modo assolutizzaquell’incontro personale (...) fondamentale, tipico delle grandi religioni, diquelle che appellano a una loro missione universale, diretta a tutti gli uomini,a tutte le persone”.[226]

Altra religione – al pari del cristianesimo – compiutamenteuniversalistica, di un universalismo de iure ma anche di un universalismo defacto, e senza residui di nazionalismo, come invece accade per le religioni aun tempo nazionali e universali alle quali faremo tra poco riferimento, è ilbuddhismo.

Esso si offre come un messaggio religioso, con forte connotazionefilosofico-speculativa, che nell’India del VI secolo a.C. si rivolge all’uomo inquanto tale e non a una nazione o a una cultura specifica e neppure all’uomoin quanto inserito in una specifica cultura, ovvero in quanto membro di unacomunità etnica o di uno specifico contesto nazionale. A differenza delcristianesimo, tuttavia, esso può coesistere, nel sistema di credenze di un

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singolo individuo e nel contesto culturale in cui l’individuo vive, con altrecredenze e pratiche religiose, come avviene, ad esempio, nel caso, già citato,del Giappone, ove è diffusa una doppia devozione, al buddhismo e alloshintoismo.

Infatti, il buddhismo è, come il cristianesimo, religione fondata euniversalistica, ma a differenza del cristianesimo non esprime un contenutomonoteistico. Per queste sue caratteristiche esso è tipologicamente affine almanicheismo, religione fondata e universalistica ma non monoteistica.Tuttavia, buddhismo e manicheismo derivano l’apertura universalistica deirispettivi messaggi da presupposti dottrinari diversi tra di loro e diversi daquelli implicati da una religione monoteistica. In quest’ultima, infatti, èproprio l’idea monoteistica a implicare (almeno de iure se non sempre defacto) l’universalismo perché comporta la nozione di un unico dio creatore ditutta la realtà e di tutti gli uomini. Pertanto, questa unica figura divina che insé, o meglio nella sua unicità, realizza compiutamente l’orizzonte delsovrumano, risulta decisiva per tutte le creature che da essa derivano la loroesistenza. Il cristianesimo, pertanto, poggia la sua apertura insiemeuniversalistica e personalistica su un contenuto monoteistico, e, rivolgendo ilsuo messaggio all’individuo in quanto tale, prescindendo dalla suaappartenenza ad una razza, ad una nazione e alla relativa cultura, lo chiama aun’adesione totale ed esclusiva, ossia a una ‘conversione’ sul piano etico ereligioso. Esso è dunque “rigorosamente esclusivista, sia sul piano deiprincipi, affermando l’esclusiva verità dei propri contenuti sia sul pianoesistenziale, non accettando di convivere con alcun’altra credenza e praticareligiosa in quanti ad esso aderiscono. Ciò lo differenzia nettamente dallereligioni etnico-nazionali, le quali invece, per il loro statuto medesimo diespressione di una specifica identità storico-culturale, riconoscono parilegittimità alle tradizioni degli altri popoli e – nel quadro del fenomenotipicamente ellenistico dell’incontro fra popoli e culture diverse – dannoluogo ai cosiddetti culti cosmopolitici”.[227] Ma lo differenzia anche da altrereligioni di apertura universalistica e personalistica come il buddhismo.Quest’ultimo, infatti, deriva tale apertura dal volersi porre come messaggio disalvezza che, indagando le radici del dolore quale esperienza universalmente

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umana, vuole additarne le cause e insieme proporne i rimedi e con essi la viadella salvezza aperta all’uomo in quanto tale e dunque a tutti gli uomini chetale messaggio accolgano.

La similarità funzionale tra cristianesimo e buddhismo (tanto più notevolein quanto essi, sotto il profilo dottrinale e ideologico, sono profondamentediversi) è stata particolarmente valorizzata da R. Pettazzoni, il quale osservacome queste due religioni presentino “somiglianze inerenti al lorosvolgimento, alle loro interferenze con altre religioni, etc. In linea generale, ilBuddhismo attua nell’Oriente (estremo) quel trapasso dal tipo antico dellareligione nazionale al tipo moderno della religione supernazionale chenell’Occidente è attuato dal Cristianesimo”.[228]

Il manicheismo, dal canto suo, in quanto religione gnostica ma con sueproprie peculiarità in relazione alle altre formazioni gnostiche dei primi secolidell’era cristiana, fonda la sua apertura universalistica sulla dottrina dellapresenza nell’uomo e in ogni uomo, secondo il messaggio di Mani, di unascintilla divina, drammaticamente perdutasi nella materia ma suscettibile diessere salvata e ricondotta – in grazia della acquisizione della gnosi salvificamanichea – al mondo divino a lei connaturale.

Pertanto, l’universalità di messaggi religiosi quali quello buddhistico equello manicheo va distinta dalla universalità propria di altre propostereligiose universalistiche: nel momento, infatti, in cui, in modo particolare ilprimo e con limiti il secondo, possono convivere nella persona del fedele conaltre adesioni religiose, essi si pongono piuttosto sulla linea delle formazionireligiose cosmopolitiche o sovranazionali, alle quali addiverremo tra poco,che non su quella delle religioni propriamente universali, le quali realizzanotale loro qualità anche nel senso di una unicità che non ammettecompromissioni con altre appartenenze religiose. Ovvero, esse richiedonouna ‘conversione’.

Inoltre, e ciò in relazione al manicheismo, questo appare piuttosto – alpari degli altri movimenti gnostici – latore di un messaggio salvifico rivoltonon all’uomo in quanto tale ma al ‘vero uomo’, vale a dire alla sua solacomponente divina.

Nell’ambito delle religioni universali si danno poi taluni casi nei quali tali

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religioni risultano associate a specifiche culture e pertanto possonocomprendere anche una prospettiva nazionale, almeno in alcune fasi dellaloro storia, tendenzialmente quelle iniziali. Nel corso dei rispettivi camministorici, tali religioni possono accentuare gli aspetti univeralistici che eranorimasti per lungo tempo soltanto, per così dire, in nuce.

Così, l’islamismo inizialmente si pone come messaggio profeticoindirizzato alla nazione araba, sebbene esso si ponga come la forma finaledella rivelazione storica di Dio. La stessa assunzione, cui s’è fatto cenno, daparte di Maometto di credenze e pratiche già proprie della tradizione etnicaaraba, appare fondata dalla volontà da parte di Maometto di dar vita a unareligione che fosse innanzitutto la nuova religione della nazione araba, e,pertanto, non più etnica ma nazionale. Progressivamente con l’espandersidell’Islam si attua l’apertura universalistica che era implicita nel messaggiomonoteistico e che non dovette essere assente neppure nei primi tempi dellanuova religione.

Venendo alla religione d’Israele, poi, essa ha fortissimi connotatinazionali: Iahwé è Colui che ha stretto con Israele un rapporto privilegiato. Ilpopolo ebraico ‘esiste’ in conseguenza del suo patto con Iahwé. Tuttavia, delDio di Israele si predicano – con una progressiva accentuazione nel periodopost-esilico – una unicità e una universalità che superano ogni orizzontenazionale. Inoltre Egli è considerato come creatore di tutta la realtà e di tuttigli uomini e signore attuale della storia umana. In età ellenistico-romanal’universalismo a livello concettuale implicito in un messaggio religioso afondamento monoteistico conosce una progressiva realizzazione storica nelmomento in cui fenomeni come quelli costituiti dai ‘proseliti’ e dai ‘tementiDio’ (o ‘timorati di Dio’) mostrano l’adesione a credenze e a pratiche dellareligione d’Israele anche da parte di non ebrei.[229]

Quanto allo zoroastrismo, esso è stato per lungo periodo la religionenazionale dell’Iran e degli imperi che si sono succeduti su questo suolo. Lozoroastrismo si rivolge in maniera privilegiata alla nazione iranica. Il sovranoiranico è ritenuto investito del proprio potere da Ahura Mazda stesso, unpotere che era considerato nella teoria (e in qualche modo lo era anche nellapratica) come universale e l’universalità della sovranità del ‘re dei re’

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appariva come il riflesso della sovranità del suo dio, Ahura Mazda. D’altraparte, lo zoroastrismo ha conosciuto anche una qualche diffusione al di fuoridel territorio iranico, in quelle terre che per periodi più o meno lunghiappartennero all’impero persiano e furono soggette a una emigrazione iranicaqualificata, quale quella di colonie di magusei, i magi della diaspora, inregioni dell’Asia Minore e della Mesopotamia.

Religioni universalistiche come il cristianesimo (e lo zoroastrismo)possono, d’altra parte, in periodi della loro storia, legarsi a specifici interessinazionali, culturali e politici, ovvero essere associate a culture specifiche e aspecifiche entità statuali, come, ad esempio, nella storia dell’impero bizantino(e di quello sasanide).

In grazia delle loro specifiche connotazioni, le religioni universaliconoscono solitamente la nozione di ‘missione’ ovvero di azioneprogrammaticamente volta a diffondere un messaggio religioso. Tale nozioneva distinta da quella di diffusione o propagazione di un messaggio religioso,la quale avviene piuttosto a seguito di migrazioni o spostamenti di gruppiumani e del successivo contatto tra gruppi diversi conviventi in un medesimoambito e portatori di credenze religiose diverse (come nel caso, ad esempio,della diffusione attorno al bacino del Mediterraneo in età ellenistica edellenistico-romana dei culti cosmopolitici di origine orientale), come pure daquella di proselitismo, che si riferisce piuttosto allo zelo di un individuo o diun gruppo nella comunicazione di un messaggio religioso.

Inoltre, solidale con la nozione di universalismo è quella di ‘conversione’ovvero di adesione esclusiva a un messaggio religioso e di rinuncia aprecedenti, o altre, adesioni. Uno studio ormai classico sul tema dellaconversione la definisce come “il riorientare l’anima di un individuo, nel suopassaggio dall’indifferenza o da uno stadio precedente di pietà ad un altro, inun passaggio implicante la coscienza che esso coinvolge un grandecambiamento, che il vecchio è sbagliato e il nuovo è giusto”.[230] Lamolteplicità di adesioni che le religioni nazionali e i culti cosmopoliticiconsentono si differenzia, come detto, dall’unicità della conversione richiestada una religione universale, a contenuto monoteistico.[231] Tuttavia, talemolteplicità di adesioni (presente anche nel caso di religioni universali a

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contenuto non monoteistico, come il buddhismo) deve essere vista anche esoprattutto sotto un aspetto non quantitativo ma qualitativo. Afferma P.Siniscalco:[232] “Confrontata con altre manifestazioni religiose del mondoantico, la conversione cristiana mostra la propria originalità. Essa non trovaparallelo nel culto pubblico del paganesimo greco-romano e neppure nelleforme iniziatiche dei misteri; né l’uno né gli altri sono destinati a rinnovaregli spiriti e i cuori (...). Si può parlare di adesione esterna, per conseguire laquale sono richiesti atti formali che spesso hanno poco o nulla a che vederecon un’intima convinzione”.[233]

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CAPITOLO QUINTOCulti cosmopolitici o sovranazionali

Innanzitutto occorre distinguere tra ‘religione’ e ‘culto’. Le categorietipologiche di ‘religione’ e di ‘culto’, “nonostante l’indubbia parte diconvenzione insita in ogni scelta terminologica, intendono circoscrivere ecaratterizzare realtà storiche diverse. Senza naturalmente alcuna pretesa dirisolvere la vexata quaestio della definizione del concetto di ‘religione’,intendiamo (...) assumere tale termine nella sua accezione più comune,almeno nella tradizione occidentale di matrice cristiana dove esso, incontinuità insieme e in contrasto con le proprie radici nell’ambiente greco-romano (...), è venuto a indicare l’intero complesso di credenze in uno o piùesseri sovrumani, di prassi rituale e di regole di comportamento a quelleconnesse, di cui è portatore un gruppo sociale. (...) Il termine ‘culto’ definiscepiuttosto una peculiare forma religiosa implicante venerazione di una singoladivinità, con tutto il relativo bagaglio di tradizioni mitiche e di praticherituali, all’interno di quel più ampio panorama di credenze e di prassicoesistenti a vario titolo con essa, sia nell’individuo sia nell’intera comunità,il quale nella sua globalità integra la nozione di “religione” nel senso soprachiarito’.[234]

Pertanto, alla nozione di culti, più che non a quella di religioni,rispondono quei complessi mitico-rituali che ricevono la denominazione dicosmopolitici o sovranazionali e ai quali ora verremo.

“Con questa denominazione si caratterizzano quei complessi mitico-rituali solitamente di origine orientale (ma anche greci impiantati in Oriente)che si diffondono fuori dai propri confini nazionali trovando accoglienza, alivello pubblico e privato, presso popoli di diversa cultura e tradizione. Cosìun greco o un romano poteva prestare culto, talora anche con grande fervoree partecipazione affettiva, all’una o all’altra divinità straniera, come il Mithrairanico, la Cibele frigia, l’Iside e il Serapide egiziani, senza per questo

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rinnegare le proprie tradizioni avite, anzi continuando a praticarle nelle formeconsacrate dall’uso ancestrale.

Tale fenomeno, che interessò in maniera ampia e profonda tutte le civiltàdell’area mediterranea nel periodo ellenistico e imperiale romano, senzacausare attriti profondi né turbamenti (salvo episodi particolari in casi chepotevano minacciare l’ordine costituito, come a Roma il famoso episodio deiBaccanali di età repubblicana) all’interno delle rispettive religioni nazionali,fu possibile per la sostanziale omogeneità dei mondi religiosi a contatto, tutticaratterizzati da strutture politeistiche e da quel carattere etnico-nazionale dicui si è discusso”.[235]

Si ricorderà, infatti, un elemento fondamentale che distingue le religioninazionali da quelle universalistiche, ovvero il carattere ‘esclusivo’ che èproprio delle seconde (con le precisazioni sopra fatte in merito a specifichetradizioni religiose universali quali il buddhismo) a differenza delle prime.Infatti, una religione nazionale accetta per principio l’esistenza di altrereligioni nazionali o comunque di altre forme religiose che sono riconosciutecome tipiche di altri popoli, di altre culture diverse dalla propria. Invece, unareligione universalistica, con significative eccezioni cui abbiamo giàaccennato e che ora ricorderemo di nuovo, non ammette di convivere conaltre credenze religiose nella persona del singolo fedele, né ammette – inlinea di principio – una pluralità di posizioni religiose, dal momento che sipone come l’unica ‘vera’ espressione religiosa, laddove le altre risultanoinadeguate o francamente erronee. Eccezione, al riguardo, è – come visto – ilbuddhismo, che è religione universalistica, sia perché il suo messaggio sirivolge all’individuo in quanto tale sia perché tale messaggio ha conosciutouna diffusione assai ampia, sovra-nazionale, ma che accetta – come detto – diconvivere a vario titolo con altre forme religiose. Invece le religioni nazionalia struttura politeistica, nell’ambito del mondo mediterraneo antico, non soloriconoscono come legittime le tradizioni religiose degli altri popoli, ovveroaccettano l’idea che ciascun popolo abbia i propri dèi, le proprie credenze epratichi i riti secondo regole tradizionali, ma possono accogliere al propriointerno i culti di divinità appartenenti ad altri popoli, soprattutto quando siriscontri una certa affinità con divinità e culti propri.

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Orbene, il fenomeno del cosmopolitismo, nel caso delle religioni delmondo antico, si realizza in rapporto a religioni nazionali a caratterepoliteistico e concerne specifici complessi mitico-rituali al loro interno.

Esso fu possibile – come detto – proprio per la sostanziale omogeneità ditali mondi religiosi, che entravano in tal modo a contatto, e che erano tutticaratterizzati da strutture politeistiche e da quel carattere etnico-nazionale cuisopra si faceva riferimento.

Piuttosto che di ‘religioni’ cosmopolitiche è opportuno parlare – si è detto– di ‘culti’ cosmopolitici. Il fenomeno interessa, infatti, non le religioni comeinteri e articolati contesti, che dalla loro patria di origine si diffondano versoaltre regioni. Si tratterà piuttosto di particolari culti, o meglio di complessimitico-rituali, relativi a una o a più divinità con caratteristiche peculiari,legate fra di loro da particolari rapporti (solitamente – ma con significativeeccezioni – si tratta di figure che nel mito che le riguarda sono presentatecome sposo e sposa, ovvero come una dea e il suo paredro), e situateoriginariamente in una particolare tradizione religiosa di cui costituisconouna componente più o meno importante. Inseriti fin dalle loro origini incontesti etnico-nazionali a carattere politeistico, in determinate circostanzestoriche, per particolari motivi politici, economici o religiosi, che la ricercapositiva è chiamata a indagare volta per volta, essi assumono la capacità ditravalicare i confini nazionali e di diffondersi in altre regioni, presso altripopoli e presso altre culture.

Provenendo per lo più dalle regioni dell’oriente mediterraneo essi toccanodapprima la Grecia e poi si diffondono presso gli altri popoli dell’Occidente,ove vengono accolti sia a livello privato, ossia da parte di singoli individui,sia a livello pubblico, ossia da parte dell’intera comunità cittadina enazionale. Talora, da parte della stessa autorità politica se ne sollecital’introduzione.

È il caso – per quanto concerne Roma – dell’introduzione ufficiale, decisae sanzionata dai pubblici poteri, del culto della Magna Mater anatolica, comefu chiamata la dea dai Romani, ovvero la dea Cibele originaria dell’AsiaMinore, quella Grande dea che già i Greci conoscevano fin dal VII sec. a.C. eavevano introdotto nel loro pantheon ellenizzandola. Al tempo della guerra

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annibalica, nel 204 a.C., con un atto ufficiale di politica religiosa, le autoritàromane, consultati i Libri Sibillini, decisero di richiedere al re Attalo diPergamo, città sede di uno dei maggiori santuari anatolici della dea, la pietranera, ritenuta sede della potenza divina di Cibele. Così la dea e il relativoculto furono introdotti ufficialmente in città. La Magna Mater fu connessacon la tradizione delle origini troiane di Roma, essendo il monte Ida pressoTroia una delle sedi privilegiate del suo culto. La dea anatolica poté apparirequale protettrice di Enea, che la tradizione voleva alle origini stesse delpopolo romano, e dunque non divinità ‘straniera’ ma al contrario dea‘nazionale’, oggetto di culto pubblico, celebrato dai rappresentantidell’aristocrazia nelle cerimonie annuali dei Megalensia o Megalesia.

Del resto molti culti greci furono accettati ufficialmente a Roma come ilculto di Apollo, di Asclepio, di Dioniso, mentre la triade Cerere-Libero-Libera fu identificata con quella costituita da Demetra-Kore-Dioniso. Siamocosì in presenza di un contesto religioso nazionale che non solo accetta diconvivere con altre religioni, ma che può, in determinati momenti storici eper particolari esigenze, accettare e anzi addirittura introdurre in manieraufficiale dei culti appartenenti ad altri contesti religiosi. Così il civis romanuspuò continuare a praticare i culti ufficiali di Roma, ad assolvere tutti i propridoveri di uomo religioso che rispetta i culti cittadini e, nello stesso tempo,può prestare culto alla Magna Mater, che i pubblici poteri avevano accoltocome divinità in qualche modo anch’essa nazionale, ed anche ad altre divinitàstraniere. E questo già in Grecia. Un cittadino di Atene – ad esempio – potevaprestare culto ad Athena, dea protettrice della città, partecipare alle grandicerimonie pubbliche cittadine e contestualmente venerare l’egizia Iside, o ladea anatolica Cibele e altri dei di origine orientale.

Quanto fin qui detto ci mostra, dunque, come i culti cosmopoliticicondividano con le religioni universali l’ampia diffusione al di fuori deiconfini del luogo d’origine, e anche il rivolgersi all’individuo in quanto tale enon in quanto appartenente a un ethnos o a una specifica cultura (si puòessere un veneratore di Mithra senza appartenere al popolo iranico e cosìvenerare Iside senza essere egizio). In tal modo entrambi, sia le religioniuniversali sia i culti cosmopolitici, appellano ad una decisione autonoma

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dell’uomo che accetta di aderire ad essi se vi trova degli elementi chesoddisfino le proprie esigenze religiose.

Tuttavia, una prospettiva di tipo monoteistico e universalistico-individualistico non accetta compromessi con altre forme religiose, poichérisulta impossibile – ad esempio – essere un fedele di Iahwè o di AhuraMazda e nello stesso tempo venerare una divinità straniera. Il caratteredell’‘esclusivismo’ distingue nettamente i due ambiti tipologici in esame,ossia quello dei culti cosmopolitici (come già delle religioni nazionali) equello delle religioni universali, quando queste abbiano un preciso contenutomonoteistico (ossia, ancora, con l’eccezione del buddhismo che non émonoteistico né teistico). La religione universalistica, quando abbia uncontenuto monoteistico, non accetta di convivere nello stesso individuo conaltre forme religiose, laddove un culto cosmopolitico accetta di convivere neisuoi stessi cultori con varie forme di adesione religiosa. Inoltre, i culticosmopolitici all’interno dei nuovi ambiti di diffusione accettano diconvivere tra di loro e con le tradizioni religiose nazionali dei popoli presso iquali si diffondono; è ad essi estraneo l’esclusivismo proprio di una religioneuniversalistica a contenuto monoteistico.

Le ragioni della loro accoglienza vuoi da parte della stessa autoritàpolitica vuoi da parte di singoli individui o gruppi di individui andranno voltaper volta adeguatamente indagate. Tuttavia, la ricerca storico-comparativaconsente di illuminare alcuni caratteri che intervengono a motivare in largaparte le ragioni della accoglienza riservata in età ellenistica e imperiale nelleregioni dell’occidente ai culti cosmopolitici di origine orientale. Questi infattisono percepiti come tali da poter venire a offrire ‘garanzie’ che la religionenazionale non sembrava poter offrire.

Tocchiamo qui un aspetto nodale della problematica relativa alladiffusione dei culti di origine orientale a carattere cosmopolitico nelle regionioccidentali. Le ragioni della loro grande diffusione e dell’amplissimaaccettazione anche a livello individuale (e non solo da parte di comunitàcittadine, come nel caso dell’introduzione ufficiale del culto della MagnaMater anatolica nella Roma repubblicana), andranno ricercate nei contenutidi cui questi culti si presentavano come portatori, e nei loro stessi messaggi

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andrà ricercata anche la differenza tra l’accoglienza, da parte delle autorità, ditali culti e il rifiuto da parte delle stesse di un altro ‘culto’ anch’esso diorigine orientale quale il cristianesimo che si andava, come quelli,diffondendo in età ellenistico-romana per le contrade dell’Impero. Proprio laloro diversa tipologia religiosa, sotto il profilo che andiamo qui illustrando,deve essere adeguatamente valutata. Infatti, per quanto riguarda la diffusionedei culti orientali in Occidente, non v’è per l’individuo alcun contrasto fra ilmantenimento delle proprie credenze e dei relativi comportamenti religiosi el’adesione all’uno o all’altro dei culti venuti dall’Oriente (o, per i popoliorientali, dall’Occidente), talora accettati anche a livello ufficiale. E pertantol’individuo non si pone in contrasto con il quadro socio-culturale di origine, icui equilibri interni non risultano sostanzialmente modificati. Chi accetta ilmessaggio cristiano, invece, deve rinunziare alla sua esperienza religiosaprecedente, personale e comunitaria, e operare una radicale ‘conversione’,ossia il passaggio netto, senza possibilità di compromessi, da un’identitàreligiosa, con relativo patrimonio di credenze e della conseguente prassi, adun’altra.

Se ai contenuti propri dei culti cosmopolitici di origine orientaleaccenneremo in sede di definizione delle strutture politeistiche con le qualiessi, sia nei luoghi di origine sia in quelli di diffusione, furono sempresolidali, qui ricordiamo solo come una corretta lettura storico-religiosa delfenomeno costituito dalla diffusione in età imperiale di tali culti e di quelloconnnesso, costituito delle molteplici adesioni ad essi e a culti tradizionali‘indigeni’ da parte, in particolare, di esponenti della aristocrazia romana neltardo impero,[236] dovrà tenere conto sia di motivazioni squisitamentereligiose sia di motivazioni di tipo politico. Le prime consisteranno neltentativo da parte degli ‘ultimi pagani’ di appellarsi a quelli che ai loro occhipotevano apparire come i contenuti e le modalità più efficaci per opporsi alcristianesimo e nel contempo per venire incontro ad esigenze spiritualiparticolarmente sentite; le seconde potranno essere espresse con le efficaciparole di J.Rüpke che di seguito riportiamo,[237] con l’avvertenza che non citrova tuttavia d’accordo l’esclusione operata dallo studioso di qualsiasimotivazione di carattere ‘religioso-spirituale’ alla base di tali molteplici

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adesioni. Osserva, infatti, lo studioso: “il cumulo delle cariche sacerdotali chegli aristocratici del IV secolo, e in particolare della fine, perseguirono, apparenon più come ‘l’ultima battaglia del paganesimo’ ma come una strategia perristabilire l’autorità politica e sociale che li aveva in passato automaticamentequalificati ad assumere funzioni religiose, adesso però mediante un processoinverso, e cioè con l’accumulo di autorità religiosa in funzione dellarivendicazione di potere politico: una reazione al nuovo, ora religioso livellodella competizione per il potere, ovvero della gara in cerca del dio in grado difornire la più forte legittimazione”.

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CAPITOLO SESTOPoliteismo, monoteismo, dualismo, monismo. Riflessioni introduttive

Le tipologie religiose che di seguito illustreremo e sulle qualisoffermeremo, in maniera diffusa, la nostra attenzione, sono costruite sullabase di un criterio discriminante diverso da quelli che fino a questo momentoci hanno consentito di identificare e distinguere religioni etniche, fondate,nazionali, universali e culti cosmopolitici. Si tratta, ora, del criterio costituitodal contenuto ‘dottrinale’ e più nello specifico da quella che potremmodefinire la ‘componente teologica’ di una forma religiosa, ovvero laconcezione, percezione e rappresentazione (vuoi per via dottrinale vuoi pervia di narrazione mitica), del divino, o, in termini più generali, del livello delsupra e del prius; con l’avvertenza che tale componente interessa non meno illivello ideologico o razionale che quello sentimentale o affettivodell’atteggiamento religioso.

Due esempi. “La religione monoteistica di Israele si interpreta piùcompiutamente considerando, oltre l’idea, anche il sentimento vivo (due coseche non si escludono, ma si richiamano a vicenda) di un patto, quasi di unmatrimonio, tra Dio e il suo popolo, il quale, quando è infedele, fornica congli idoli. Nel caso della gnosi, accanto all’aspetto ideologico del drammadell’anima, dramma che (...) ne rappresenta il fulcro, è sempre da tenerpresente l’angoscia esistenziale del singolo che aspira a una supremaliberazione dai vincoli del destino, del tempo, della morte, del mondo”.[238]

Inoltre, tale componente teologica interviene in diverso grado e condiversa incidenza nei diversi quadri religiosi, peraltro sempre legata alleespressioni cultuali, organizzative ed etiche proprie di quegli stessi quadri. Cirendiamo conto dei limiti offerti da tale scelta, ovvero quella di entrare più dapresso nel mondo delle religioni per il tramite di queste tipologie (politeismo,monoteismo, dualismo, monismo) costruite sulla base dei contenuti

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‘teologici’ offerti dalle religioni in questione.Di fatto, una tale scelta lascia fuori, ad esempio, le tradizioni religiose dei

popoli illetterati o privi di scrittura, o culture tribali, quelle culture che,oggetto privilegiato di studio da parte dell’antropologia ottocentesca, sonostate volta per volta classificate sotto espressioni, spesso di dubbia legittimitàscientifica, quali animismo, feticismo, totemismo, o altre. Si pensi, adesempio, a tutto l’orizzonte religioso costituito dalle religioni tradizionaliafricane, le quali sono classificabili come religioni etniche e piùspecificamente etnologiche, cui si appartiene nascendo e crescendo in unparticolare gruppo umano e non primariamente sulla base di una adesione oscelta personale.

Inoltre, rispetto alla categorie tipologiche che ora verremo ad illustrare, inuna maniera problematica o ‘periferica’, sotto il profilo dei contenutiteologici, ed eventualmente della assenza di questi, si pongono, comevedremo, fenomeni come il buddhismo o altri, pur ben inseriti, in grazia diuna nozione analogica di religione, nella grande famiglia dei fenomenireligiosi dell’umanità.

Va infine osservato che le tipologie storiche che ora verremo a trattare sipongono in maniera diversa in rapporto con le diverse e diversificate culture ele loro storie religiose. Infatti, come avremo modo di argomentare, ipoliteismi (ancor oggi in parte viventi) si identificano ai loro albori come letipiche formazioni religiose di culture specifiche, le cosiddette alte culture delmondo antico. I monoteismi si offrono come il frutto di predicazioni‘profetiche’ espressesi in seno a talune di queste culture del mondo antico. Idualismi – secondo l’accezione storico-religiosa di dualismo, che illustreremo– in taluni casi si offrono come delle tendenze interpretative espressesi supatrimoni dottrinari già costituiti sia di tipo politeistico sia di tipomonoteistico; in altri casi, invece, i dualismi vengono a identificarsi conintere tradizioni religiose, come nel caso dello zoroastrismo, che èmonoteistico e dualistico al contempo, o a identificarsi con specificimovimenti religiosi, come i movimenti gnostici, o a caratterizzare taluneespressioni proprie di culture etnologiche. Infine, il monismo si esprime perlo più come un’interpretazione, fortemente debitrice di istanze filosofiche,

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che interviene in maniera privilegiata su patrimoni religiosi e dottrinaricostituiti, di tipo prevalentemente politeistico, come nel caso delleinterpretazioni monistiche dell’antico politeismo vedico.

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1. Politeismo

Non si può parlare di politeismo, in sede storico-religiosa,[239] senzaavere presente una serie di cautele metodologiche. E fondamentalmente ilfatto che la nozione di politeismo non si pone come alternativa unica enecessaria a quella di monoteismo, essendo applicabile soltanto a contestireligiosi molto specifici relativi a culture altamente specializzate (lecosiddette ‘alte culture’) e generalmente non riferibile, ad esempio, allemolteplici e differenziate credenze religiose e relative pratiche rituali propriedelle culture etnologiche, che pure contemplano una grande varietà di‘potenze’ sovrumane.

In ogni caso, né l’una né l’altra categoria, quella di politeismo e quella dimonoteismo, trovano soltanto nel dato dei ‘molti’ o dell’‘uno’, in relazionealla nozione di ‘dio’, l’elemento distintivo e qualificante la propria identità. I‘molti’ possono essere presenti in orizzonti non politeistici e l’‘uno’ puòessere presente in orizzonti non monoteistici. L’elemento numerico, inrelazione alla o alle potenze sovrumane che occupano i rispettivi quadrireligiosi, infatti, non è il solo e principale discrimine tra un orizzontepoliteistico e un orizzonte monoteistico, giacché occorre definire edistinguere la qualitas di quell’‘uno’ e la qualitas di quei ‘molti’. L’unicità,infatti, può afferire a entità tipologicamente diverse, ovvero si può essere‘unici’ a diverso titolo: altro è l’‘unico Dio’ dei monoteismi storici, altrol’‘Uno’ o unico principio dei monismi che qualificano per buona parte aspettidelle tradizioni religiose orientali; altro l’unico principio o archésemipersonale di antiche teogonie greche.

Per converso, si può essere ‘molti’ a diverso titolo: altri – per esempio – i‘molti’ oggetto di culto della tradizione religiosa araba preislamica, altri i‘molti’ dei della religione greca nell’età della polis; gli uni e gli altri legati a(ed espressione di) situazioni storiche diverse. Infatti, i ‘molti’ nell’ambitodell’Arabia preislamica sono oggetto di credenza e di culto da parte di unasocietà ad assetto tribale; i ‘molti’, del politeismo greco, sono oggetto dicredenza e di culto da parte di una società che conosce una situazione storica

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e un assetto sociale ben diversi, oltre a una particolare frammentazionepolitica, non tale peraltro da far venir meno la percezione di una comuneappartenenza, anche religiosa. Determinante è allora, come si diceva, ladiversa qualitas storico-religiosa dell’‘uno’ e dei ‘molti’.

Ma altre cautele metodologiche si impongono.La categoria storico-religiosa di politeismo non è univoca ma è analogica,

tale dunque da coprire una serie di fenomeni legati fra loro da affinità edifferenze, continuità e discontinuità. Altro è il politeismo egizio da quellogreco e da quello mesopotamico, pur essendo tutti rubricabili sotto questotermine, appunto politeismo, che designa – negli studi storico-religiosi – laspecifica forma religiosa, caratterizzata da una serie di credenze e di prassicultuali, manifestatasi nelle cosiddette alte culture di fase arcaica. Il carattereanalogico del politeismo emerge anche all’interno di una medesima cultura,per esempio quella greca, ove la struttura politeistica che le è intimamentelegata conosce trasformazioni, evoluzioni o involuzioni, a seguito di sviluppiinterni diversamente orientati e motivati, come pure di influenze esterne.Altro è il politeismo come riflesso nella sistematizzazione esiodea dinarrazioni mitiche tradizionali, altro il politeismo come professato e difeso inetà ellenistico-romana da un Celso o da un Giuliano Imperatore. E infine:altro il volto del politeismo come emerge, ad esempio, in testi letterari cheriflettono idee e nozioni sul divino elaborate da un poeta, altro il volto delpoliteismo come emerge nel culto, sia privato sia pubblico, d’ambientecittadino o d’ambiente rurale. Tutte forme d’alterità, queste segnalate, che,peraltro, non escludono quelle continuità di forma e di contenuto checonsentono a tutte queste manifestazioni di essere definite come politeistiche.

Nello studio del politeismo, poi, si devono registrare, in questi ultimidecenni, alcune tendenze che, comunque valutate, attestano l’attualità di unariflessione in sede storico-religiosa sul politeismo e i politeismi.

Innanzitutto, da parte di un certo neopaganesimo contemporaneo e più ingenere in larghi settori della cultura contemporanea si guarda al politeismocome a una forma ideologica che avrebbe garantito nella storia pluralismo etolleranza, laddove il monoteismo viene invece percepito come una formareligiosa di per sé legata alla violenza e all’intolleranza. Non è questo il luogo

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per una disamina della questione, sulla quale pure ritorneremo, e che,ricordiamo, ha ricevuto enfasi in anni recenti a seguito della pubblicazione diopere come Mosè l’Egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, di J.Assmann.[240]

Inoltre, in ambito scientifico si fa ampio uso per talune espressionipoliteistiche della tarda antichità che espressero una forte tendenza alla unitàe/o alla unicità del divino, della categoria di ‘monoteismo pagano’, una formadi monoteismo – così viene ritenuto – in qualche modo ‘concorrenziale’rispetto a quello giudaico-cristiano e destinato a soccombere, nel mondotardoantico, a fronte di un sempre più pervasivo monoteismo cristiano. Ilquale, lungi dall’essere apportatore di un novum nel mondo del paganesimomorente, altro non sarebbe stato che una variante, quella di successo, di unapiù diffusa tendenza monoteistica. A questa questione verremo più avanti.

E ancora, la categoria di politeismo è stata in anni recenti oggetto diapprocci decostruzionisti, al pari di altre tradizionali categorie classificatorienell’ambito della storia delle religioni quali quelle di paganesimo, diinduismo, solo per ricordarne alcune, o della stessa categoria di religione. Lacritica decostruzionista si fonda sulla denuncia del carattere culturalmentecondizionato delle categorie definitorie in questione e nello specifico, nelcaso della categoria di politeismo, della carica derogatoria conosciuta datermini del lessico greco e latino con i quali (ad es. polytheia o ‘molteplicitàdivina’) autori giudaici e poi cristiani denunciavano la pluralità di potenzedivine propria dell’orizzonte religioso delle culture politeistiche.[241] Talunistorici delle religioni, tuttavia, opportunamente ritengono che la categoriadefinitoria di politeismo, ove si abbia coscienza del carattere culturalmentecondizionato della stessa, possa essere legittimamente usata, libera daqualsiasi giudizio di valore, ossia da qualsivoglia carica derogatoria, qualestrumento scientificamente adeguato alla definizione di specifici contestireligiosi che presentino aspetti analoghi sotto il profilo delle caratteristicheche andremo enunciando.

Il termine politeismo (dal greco polys – πολύς –, molto, e theos – ϑεός –,dio) è di conio moderno e si deve a un autore del XVI sec., Jean Bodin(1529-1596), che sembra averlo proposto per la prima volta nel suo scritto De

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la démonomanie des sorciers (Paris 1580), ove è usato all’interno di unariflessione teologica in riferimento a credenze considerate ‘inferiori’ rispettoalla rivelazione ebraico-cristiana. Il termine, tuttavia, si radica in un usoantico, attestato già in Filone Alessandrino, un ebreo ellenizzato della primametà del I sec. d.C., nel contesto di una argomentazione tesa ad affermare lasuperiorità del monoteismo ebraico sulle altre forme religiose del mondoantico, che egli interpreta come una proiezione celeste delle forme politichedi tipo democratico, le peggiori ‘tra le peggiori forme di costituzione’ (de op.mundi 171). Filone denomina polytheos (πολύθεος) il ‘veneratore dei moltidèi’ in opposizione ai Giudei che riconoscono un solo Dio (cfr. de migr. Abr.69) e polytheia (πολυθεῖα) la credenza, doxa, che ammette una pluralità diesseri divini (de op. mundi 171; cfr. de mut. nom. 205). I termini in questione,insieme al termine polytheotes (πολυθεότης), saranno adottati dagli autoricristiani di lingua greca a partire dal II sec. d.C. per definire l’orizzontereligioso degli avversari caratterizzato da una pluralità di presenze divine(cfr. Or. CCels I, 1; I, 36 e III, 73). Ma, nello stesso periodo, anche Lucianopresenta sarcasticamente uno Zeus sgomento dinanzi ad una polytheotateekklesia, ovvero una assemblea affollata di molti dei (Iup. Tr. 14). Tuttavial’antichità di una formulazione linguistica che coniuga l’idea del divino aquella della pluralità e che risulta estranea a ogni intenzione derogatoria osarcastica è attestata da Eschilo che in una sua tragedia definisce polytheon(da πολύϑεος, -ον) l’‘altare per i molti dei’ presso cui si erano rifugiate leDanaidi quali supplici (Suppl.423 s.).

“Ne risulta che il riconoscimento della molteplicità delle presenze divineattive nello scenario cosmico e umano era esprimibile per un greco attraversouna specifica formazione linguistica che appare dunque priva, in quanto tale,di qualsiasi connotazione di tipo valutativo, limitandosi a registrare un datoobiettivo, strutturalmente costitutivo dell’orizzonte religioso dei Greci e ditutti i popoli dell’oikoumene mediterranea portatori di tradizioni nazionali dianaloga consistenza. Lo storico delle religioni, pertanto, pur consapevole deicondizionamenti culturali e dell’uso talora influenzato da opzioni filosoficheo francamente teologiche che nel corso della stessa ricerca scientifica è statofatto del termine politeismo, non sente alcuna necessità di abbandonare una

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categoria definitoria fortemente radicata nell’esperienza degli studiosi delladisciplina, oggetto di importanti indagini ispirate da una corretta metodologiacomparativa”.[242]

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1.1 Per una storicizzazione della categoria di politeismo

L’indagine storico-comparativa ha individuato una serie di fenomenistorici che, pur nella peculiare e irriducibile fisionomia di ciascuno di essi,presentano degli aspetti analoghi che permettono di situarli in una tipologiaomogenea, quella appunto del politeismo.

Con il termine politeismo è da intendersi un particolare tipo di credenza edi prassi religiosa implicante una pluralità di esseri sovrumani, condeterminate caratteristiche, verificatosi con sufficiente analogia di forme etalora con origine indipendente, in relazione a determinati svolgimenti storici,vale a dire con l’affermarsi delle alte culture o civiltà superiori del mondoantico.

“Storicamente il politeismo è un fenomeno ben circoscritto nel tempo eanche nello spazio, ma soprattutto nelle sue coordinate culturali, collegandosiesso in una maniera specifica con certe situazioni storico-culturali. In altritermini si constata l’esistenza di strutture politeistiche in relazione allamanifestazione di un’alta cultura, ossia di una civiltà complessa e articolatache conosce l’uso della scrittura. L’invenzione della scrittura è infatti un datodecisivo per distinguere due grandi aree culturali alle quali corrispondono deifenomeni religiosi anch’essi molto specifici e distinti, ossia il complesso dellecosiddette alte culture da una parte e delle civiltà illetterate dall’altra. Senzapoter qui addentrarci nella complessità del problema, diciamo soltanto che ilfenomeno delle alte culture sorge in concomitanza con l’invenzione dellascrittura e si pone in stretto rapporto con un altro elemento culturalespecifico, ossia lo stanziamento stabile di comunità fondate – sotto il profiloeconomico – sullo sfruttamento del suolo. L’invenzione dell’agricoltura è unfenomeno relativamente recente rispetto ai lunghi periodi della storia umanain cui l’attività fondamentale era quella della caccia, della raccolta, ovvero diforme ancora rudimentali di sfruttamento del suolo, le quali spesso vengonochiamate orticultura. L’invenzione dell’agricoltura con l’aratro econtestualmente la semina del cereale, fu un fatto decisivo nella storiadell’umanità. Tale evento, almeno per quanto riguarda l’ambientemediterraneo e vicino-orientale, si verificò in una certa area geograficamente

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circoscritta, ossia nella cosiddetta ‘mezzaluna fertile’, l’area compresa tra ilbacino del Tigri e dell’Eufrate, ossia la Mesopotamia e le terre circostanti, pergiungere in Egitto.

In quest’area si verificano i due grandi fenomeni decisivi per la storiaculturale dell’umanità: l’invenzione dell’agricoltura, che portò allostanziamento stabile delle comunità e al progressivo loro sviluppo, el’invenzione della scrittura. Nelle zone indicate, comprendenti laMesopotamia con le più antiche civiltà ivi stanziate, ossia la civiltà deiSumeri e quelle dei Babilonesi e degli Assiri, e poi anche in Egitto, in unperiodo intorno al 6000 a.C. sembra potersi fissare l’inizio delle praticheagricole e cerealicole e successivamente, a partire dal 3° millennio,l’invenzione della scrittura.

Questi due dati furono decisivi sotto il profilo culturale perché lapossibilità di scrivere, quindi di redigere dei documenti che lasciano memoriadegli avvenimenti accaduti, è un fattore decisivo di accelerazione culturale.Laddove invece la memoria degli eventi è affidata esclusivamente allatradizione orale non c’è possibilità di stabilire una prospettiva storica conscansioni temporali definite né di accumulare rapidamente le acquisizioniculturali. Invenzione dell’agricoltura e della scrittura furono in qualche modoi fattori scatenanti di un processo di accelerazione culturale che – conl’accrescersi di comunità umane in sedi stabili – portò ad una notevolearticolazione all’interno di queste. Al contrario, in una comunità che vive deiprodotti della caccia, eventualmente anche della pesca, e dei prodotti che ilsuolo offre spontaneamente, si ha una specializzazione economica secondo isessi, per cui l’uomo si dedica alla caccia e la donna alla raccolta dei bulbi edei tuberi, essendo dunque comune l’attività per tutti gli uomini dellacomunità e rispettivamente per tutte le donne. Invece in una comunità a baseagricolo cerealicola si cominciano a delineare delle specializzazioni di arti emestieri, sorge la tessitura, l’uso della ceramica, la possibilità di lavorare imetalli etc., sicché la società si organizza secondo distinti classi sociali especifiche attività economiche. La società in questa sua maggiorearticolazione crea delle strutture politiche più elaborate che di solito risultanodi tipo regale: la comunità si organizza sotto l’autorità di un unico

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personaggio che assume il potere insieme politico e religioso. (...)Contestualmente alla notevole articolazione della comunità sotto il profilosociale, economico e politico si ha un’articolazione molto complessa eun’organizzazione del livello divino. Nell’ambito delle alte culture citroviamo di fronte a quei fenomeni religiosi che possiamo chiamarelegittimamente di tipo politeistico perché non si tratta soltanto di ammetterel’esistenza di numerose potenze sovrumane, con le quali si instaura unrapporto attraverso le forme cultuali, ma di concepire queste potenzesovrumane come inserite in una rete organica di reciproci rapporti, in unaprospettiva peculiare che è appunto quella del ‘politeismo’”.[243]

Tale impostazione storica del problema delle origini del politeismo,ovvero il suo manifestarsi in civiltà superiori (cioè tali da conoscere sistemidi scrittura, agricoltura e nello specifico cerealicoltura, sedentarietà,costruzioni in materiale duraturo, organizzazione sociale articolata,specializzazione dei mestieri, istituto monarchico, templi e personalesacerdotale legato alle strutture di corte e all’economia templare, nonché unasituazione economica caratterizzata da un surplus che favorisce la creazionedi classi elevate e – in queste – un modo di rapportarsi al divino menocondizionato da contingenze economiche), consente di superare sia le ipotesievoluzioniste che hanno tentato, come visto, di fare del politeismo una tappanecessaria del processo evolutivo che l’umanità avrebbe conosciuto, da formereligiose semplici, identificate in modi diversi, ad esempio animistiche, alpoliteismo e infine al monoteismo; sia quelle ipotesi che, al contrario, comevisto sopra, lo ritenevano il prodotto della degenerazione di un monoteismoprimordiale. Ma sul problema del rapporto tra monoteismo e politeismo esulle diverse modalità di configurare, nella storia degli studi, tale rapportotorneremo.

Talora gli studi si sono particolarmente impegnati a valorizzare lacomponente ‘politica’ del politeismo. I politeismi antichi – è stato segnalato –sono essenzialmente politeismi politici, e questo a prescindere dalla diversastruttura delle comunità politiche, siano esse la città-stato ateniese o i grandistati delle civiltà dell’America precolombiana. Contrariamente a una certavulgata interpretativa che tende a vederli come forze essenzialmente naturali

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e cosmiche, gli dèi dei sistemi politeistici sono chiamati a fondare e regolareun cosmo in cui le forze della natura collaborano a sostenere e a farfunzionare la vita stessa dello Stato. Tale caratteristica emerge con particolarechiarezza nel cosiddetto fenomeno della regalità sacra, tipico del mondoegizio o babilonese. L’autorità del sovrano è garantita o dalla sua originedivina o dalla scelta degli dei stessi. Il compito degli dei della città o delloStato, infatti, è quello di cooperare, attraverso un complicato sistema dicontrattazione rituale incentrato intorno alla pratica sacrificale, e in Roma benespresso dalla nozione di pax deorum, o concordia tra la comunità dei cives ele divinità, alla realizzazione del benessere non del singolo ma della comunitàcittadina o statuale.[244]

Il politeismo non è, pertanto, come detto sopra, caratteristico delle culturecosiddette primitive, ovvero di quelle società tribali ove si dà per lo più unaeconomia di pura sussistenza che non permette né l’accumulo di ricchezze néla conseguente formazione di strati sociali superiori. Presso i popoli‘primitivi’, a partire da quelli più ‘arcaici’, come i cacciatori e i raccoglitori,infatti, interviene una molteplicità di esseri sovrumani, privi tuttavia, per lopiù, di quella fisionomia personalistica e di quella funzionalità specializzatain relazione ai settori cosmici e alle diverse attività umane, che caratterizzanogli dei dei contesti politeistici. Si tratta invece, presso le culture etnologiche,di una pluralità di entità, venerate nel culto o attive soltanto nei miti, qualispiriti, antenati, eroi culturali, dema o la figura dell’Essere Supremo.[245]

Le principali religioni politeiste sono, procedendo da est a ovest, loshintoismo giapponese, la religione vedica dell’India, la religione persianaprezoroastriana, la mesopotamica (ovvero sumerica e assiro-babilonese),quella degli ittiti e di altri popoli anatolici come gli hurriti, quella dei cananei,quella egizia, greca, romana, etrusca e dei popoli italici, la germanica, laceltica e, nel continente americano, le religioni precolombiane del Messico(Maya, Aztechi e popoli affini) e del Perù (Inca).

Come eccezionali sono le religioni politeistiche presso i primitivi,altrettanto lo sono le religioni non politeistiche in civiltà superiori prima diriforme religiose che in esse si poterono manifestare: tale è il caso dell’anticaCina. Si trattava di una civiltà superiore che non produsse una religione

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politeistica. La religione dell’antica Cina conosceva un ‘dio-cielo’ (Ti’en) edaltre entità pallide ed evanescenti, personaggi mitici, ma non divinitàcomplesse e differenziate.

Quanto alle origini del politeismo gli studiosi si sono divisi. Da un lato visono coloro che sostengono una ipotesi monogenetica e diffusionistica,ovvero ritengono che il politeismo si sia formato una sola volta, in base allaconvergenza di diversi fattori storici e senza escludere la libera creativitàumana, mai risolvibile in meri fattori causali, e che poi si sia diffusoattraverso le vie dei contatti culturali. Il primo politeismo sarebbe stato quellodei Sumeri in Mesopotamia, che sembra effettivamente il più anticoconosciuto e che si sarebbe diffuso verso oriente e verso occidente. Dall’altrolato, vi sono coloro che sostengono invece una tesi poligenetica e tale dacomportare ‘parallellismo’ o sviluppo parallelo, tesa a vedere i politeismicome sorti indipendentemente in diverse regioni del globo (dal Mediterraneoall’Asia minore all’estremo Oriente all’America centrale) in contesti culturalifortemente analoghi e sulla base di condizioni storiche fortemente analoghe,quelle proprie delle cosiddette alte culture del mondo antico, ovvero comerisposte analoghe a bisogni analoghi.

In tal senso, in particolare, sono interpretati generalmente i politeismipropri delle alte culture mesoamericane (Maya, Aztechi) i quali, solo da uncerto momento, avrebbero risentito degli influssi del ‘vecchio mondo’.Verisimili appaiono, dunque, entrambe le ipotesi in relazione a situazioni econtesti diversi.

Attuali forme di politeismo sono lo shintoismo giapponese[246] el’induismo, soprattutto in forme di devozione popolare. Esso appare erededelle più antiche credenze induiste, assoggettate nel corso dei secoli areinterpretazioni moniste tese a identificare anche gli dei come formetranseunti dell’assoluto, il Brahman.

Veniamo ora più da presso a caratteristiche che l’indagine storico-comparativa rileva come pertinenti alle figure sovrumane proprie degliorizzonti politeistici.[247]

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1.2 Politeismo: una struttura dinastico-dipartimentale

A. Brelich, allo scopo di addivenire ad una precisa delimitazione dellanozione di ‘dio’ nei contesti politeistici enumera differenti tipi di esserisovraumani o extraumani non divini.[248]

In primo luogo, esseri mitici non divini, che compaiono nei miti diorigine, spesso con caratteristiche animalesche e talora nelle vesti dicollaboratori-avversari del creatore; vi sono poi gli antenati, ovvero entitàche avevano uno statuto umano e che, defunte, sono oggetto di atti cultuali,come preghiere o feste. Si danno inoltre esseri protagonisti, talora esclusivi,di miti di origine, che li presentano come tali da aver istituito delle forme diesistenza legate alla alimentazione e alla ritualità e come morti, per lo più dimorte violenta. Ad essi, in quanto morti, non si rivolgono atti cultuali e daessi non si attende nessun beneficio nella attualità. Si tratta dei dema (terminein uso presso gli indigeni della Nuova Guinea) e degli antenati totemici. Sihanno poi gli spiriti. Privi di una personalità definita e tali da esercitareun’attività solo limitata e sporadica (per es. lo spirito di un fiume è ritenutoattivo solo presso il fiume stesso). Da ultimo anche la categoria degli Esserisupremi va distinta da quella degli ‘dei’.

E veniamo a quest’ultima categoria, ovvero quella degli esseri sovrumanidivini, gli dei (lat. dei o dii; gr. theoi).

Discussa è l’etimologia del termine greco theos e del latino deus. Ad ognimodo esso veicola la percezione del ‘dio’ in una religione politeistica qualequella greca, e solo successivamente fu applicato al dio di religionimonoteistiche. Esso viene pertanto a coprire entità che vanno adeguatamentedifferenziate, gli dei dei politeismi e il dio dei monoteismi, pur avendo essealcuni caratteri affini che giustificano tipologicamente e motivanostoricamente l’uso del termine in questione per entrambi i contesti. Si tratta dientità che sono percepite come tali da sovrastare l’uomo e dalle quali questisente una forma di dipendenza, entità dalla personalità spiccata, dotate diefficacia e potere, e tali da porsi come oggetto di culto e ‘interlocutrici’ inuna relazione ‘personale’, seppur di intensità diversa e esprimentesi conmodalità diverse. Nell’uso comune il termine ‘dio’ viene poi spesso, del tutto

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arbitrariamente, a coprire entità sovraumane o extraumane non assimilabili néal dio dei monoteismi né agli dei dei politeismi, quali entità fra quelle sopraidentificate come ‘non divine’.

E veniamo agli attributi di quegli esseri sovrumani che, contemplati nelleformazioni politeistiche, sono definibili come ‘dei’.

Va menzionato innanzitutto il loro carattere personalistico. Gli dei sonoesseri sovraumani o extraumani, comunque non umani e non d’origineumana, percepiti come entità personali ossia dotate di caratteristicheindividuali per le quali agiscono autonomamente, secondo specifici attributi eambiti di competenza. La loro personalità è delineata nei miti che liriguardano e in testi letterari di genere diverso, nonché rappresentatanell’iconografia.

Un cenno solamente sull’antropomorfismo, ovvero sulla tipicarappresentazione (già criticata in Grecia da Senofane) delle divinità sotto leapparenze di persone umane. È noto, innanzitutto, come nella antica religioneegizia le divinità presentino tratti iconografici teriomorfi, ovvero sianoraffigurate o completamente in forma di animale (per es. Hor come falco), ocon il corpo umano e la testa d’animale (si tratta di raffigurazioni teriocefale,come, per es., quella di Anubis con testa di sciacallo), ma non mancanodivinità completamente antropomorfe (come Osiris). Tali rappresentazioniteriomorfe o teriocefale obbediscono all’esigenza di rappresentare il nonumano, l’alterità rispetto all’umano.

Talora l’antropomorfismo può diventare ipermorfismo, come nel caso deldio babilonese Marduk, che è rappresentato come avente quattro occhi, evenire ad esprimere anche per questa via l’alterità del divino rispettoall’umano.

Nel caso dell’antropomorfismo degli dei della Grecia antica, A. Brelichha sostenuto che esso rappresenta una conquista, ovvero il prodotto finale diuna tendenza creativa che ha ormai superato la rappresentazione teriomorfa,della quale peraltro rimarrebbero tracce, essendo attestata – per esempio –dagli animali con cui molte divinità greche sono in rapporto (per es. la civettadi Atena o l’aquila di Zeus), animali che, rappresentandone soltanto degliattributi, sarebbero allusivi di un carattere teriomorfo ormai eliminato. Come

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allusive dello stesso sarebbero le trasformazioni in animali – da parte ditalune divinità – narrate nei miti (ad es. le trasformazioni di Zeus in toro).L’esigenza di un rapporto di tipo personale con le divinità sarebbe – secondotale interpretazione – alla base di questo processo di antropomorfizzazione.

L’antropomorfismo, tuttavia, non elimina la delineazione, in particolareper via mitica, delle caratteristiche di ineliminabile alterità del divino rispettoall’umano. Basti pensare a quelle caratteristiche che nella religiosità greca ditipo ‘olimpico’, che più avanti esamineremo, oppongono, appunto, gli dei –immortali e beati per antonomasia – agli uomini, mortali e infelici, e nesottolineano la superiorità.

Dunque, le divinità delle religioni politeistiche hanno ciascuna una bendefinita personalità, diversa da quella di altre. A contribuire alla delineazionedi tale personalità intervengono i nomi, gli epiteti, ovvero forme aggettivaliche rilevano una qualità della divinità e ne evidenziano un aspetto particolare,e le epiclesi, brevi frasi o formule stereotipe che assolvono a funzioneanaloga a quella degli epiteti.

I legami che nomi o attributi divini spesso offrono con elementi o realtànaturali non consentono interpretazioni naturistiche degli dei dei pantheonpoliteistici ovvero interpretazioni per le quali gli dei sarebbero, almeno inorigine, personificazioni di elementi naturali (come Helios in rapporto alsole). Il dio non si identifica, neppure alle origini, con un elemento dellanatura ma pur mantenendo un rapporto con quell’elemento ha anche valenzeulteriori e altre rispetto a quell’elemento, valenze descritte nei miti e celebratenei riti, e relative a diversi e diversificati interessi umani.

Il cumulo degli epiteti e dei nomi divini su di un’unica figura divinaall’interno di un pantheon viene a caratterizzare particolarmente in etàellenistico-romana il fenomeno dell’enoteismo, a cui avremo modo diaccennare più avanti.

A delineare la personalità degli dei intervengono anche le specifichefunzioni che essi svolgono. Infatti, le divinità politeistiche sono connesse –almeno le principali – con il funzionamento di questo mondo ovvero con ivari e particolari ambiti (dipartimenti) della vita cosmica ed aspetti della vitaumana. Da qui il carattere ‘dipartimentale’ di un tipico pantheon politeistico.

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Ogni figura divina ha un suo ambito di competenza ben definito, una sfera diinfluenza (in greco timé, plur. timai) che non si sovrappone mai ad un’altra.Si ricorderanno – ad esempio – le connessioni di Poseidon con il mare,essendo questi il dio che regola e determina i fenomeni connessi con l’ambitodelle acque; di Demetra con la terra, essendo ella la dea che presiede allafecondità della terra, e nello specifico ai ritmi agrari connessi con lacerealicoltura, ovvero con la produzione, attraverso delle pratiche agricoleben precise, del grano e dell’orzo; o di Zeus con il cielo, essendo Zeus ilpatriarca degli dei, colui che – secondo l’impostazione del tipo omerico edesiodeo – presiede all’ordine divino, cosmico e umano, e questo secondo unaimpostazione tipicamente politeistica che contempla la nozione di unasuprema giurisdizione esercitata da un personaggio divino, solitamentecaratterizzato dagli attributi della sovranità celeste.

Le connessioni tra la potenza divina e l’ambito cosmico da essa tutelatonon andranno interpretate nel senso che un dio sia la ‘personificazione’ di unelemento naturale, giacché mai una personalità divina si identifica conl’ambito cosmico al quale presiede e rispetto al quale è entità trascendente epersonale, pur vitalmente interessata al funzionamento della sfera cosmica inquestione.

Di fatto, questo rapporto tra gli dèi del politeismo e gli ambiti cosmici èfondamentale, giacché in una struttura politeistica il mondo è visto come uncosmo, ossia – come dice il termine greco – un tutto ordinato in cuisussistono equilibri insieme naturali e divini: in tanto il mondo funziona econ esso si dà per l’uomo possibilità di vita, in quanto esistono le potenzedivine che hanno messo in moto quest’ordine, lo garantiscono e lomantengono.

L’azione degli dei di un pantheon politeistico, tuttavia, come detto, non siesplica soltanto in relazione agli elementi cosmici, ossia non ha soltantoriferimenti naturistici, ma offre anche connessioni con vari aspetti della vitaumana, sia individuale sia comunitaria. Essi, in sostanza, sono profondamenteinteressati e calati nella vita di questo mondo. Così, gli dei del politeismopossono essere attivi a più livelli e presentare una plurivalenza di funzioni.Basti qui ricordare il caso di Demetra che non soltanto è la dea che presiede

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ai ritmi agrari ordinati, e nello specifico a quelli cerealicoli, ma è anche la deache dà i thesmoi, le leggi che regolano la vita umana soprattutto sotto ilprofilo matrimoniale. O è anche il caso di Zeus, il dio che ha moltepliciprerogative, un’idea questa alla quale allude il tema mitico delle suemolteplici unioni coniugali. Egli, infatti, (ultimo nato della dinastia divinasecondo la Theogonia esiodea e patriarca degli dei nell’epica omerica) nonsoltanto ha connotazioni celesti e di garante di determinati valori, come quellidell’ospitalità e della giustizia (dike), ma anche, in alcuni contesti, agisce alivello della fecondità ctonia e presiede al sottoterra, oltre ad apparireMeilichios, ovvero uno Zeus benevolo. Di fatto, in Grecia come in molti altriambiti politeistici è attestata la concezione per cui il regno dei morti è il luogoda cui promana la fecondità.

La distribuzione delle rispettive sfere di competenza ai vari dei è motivopresente nelle narrazioni mitiche teogoniche e cosmogoniche proprie diambiti politeistici. Si pensi alla Theogonia esiodea allorché Zeus è presentatonell’atto di distribuire le rispettive timai alle divinità che lo avevanoaffiancato nella titanomachia; una distribuzione delle competenze è descrittaanche nel poema babilonese Enuma Elish, ove è Marduk a determinare lefunzioni delle altre divinità alla fine del processo cosmogonico e teogonicoche il poema descrive.

Nella realtà storica, la fissazione delle sfere di competenza riconosciutealle singole divinità è frutto di lunghi processi storici che interessano lesingole culture portatrici di religioni politeistiche.

Una caratteristica importante che interviene a delineare la personalitàdelle figure divine nei pantheon politeistici è, pertanto, costituita dal fatto chele divinità sono per lo più percepite come efficaci nella attualità. Questacaratteristica le distingue da esseri come i dema o come gli Esseri supremi‘oziosi’, attivi solo nel tempo del mito, allorché i primi morirono conclusisigli eventi che alle origini li avevano riguardati mentre i secondi si ritiraronoin luoghi lontani.

E in quanto tali – gli dei –, ovvero in quanto attivi e efficaci nel’attualità,sono oggetto di un culto, che non si esaurisce nella rievocazione delle gestada loro compiute all’inizio dei tempi, rievocazione peraltro tesa a consolidare

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gli effetti prodotti da quelle gesta. Il culto, che comprende principalmente gliatti costituiti dal sacrificio e dalla preghiera, ed anche processioni, giochi,gare, danze, non ha un esclusivo e immediato scopo utilitario.

Nelle religioni politeistiche – infatti – le varie forme del culto e i loroelementi costitutivi possono avere anche la funzione di precisare e fissare icaratteri della divinità (per esempio, le peculiarità di danze diverse evocano lequalità diverse e peculiari delle divinità chiamate in causa; i sacrifici possonoessere diversi a seconda delle diverse personalità divine). La stessa posizionenel tempo e nello spazio degli atti cultuali può caratterizzare diversamente ledivinità a cui essi sono dedicati. Pertanto le caratteristiche delle diverseespressioni cultuali intervengono come modalità ulteriori di delineazionedella personalità divina e dei suoi attributi.

Il culto prestato alle divinità politeistiche è fondamentalmente lostrumento, necessario, mediante il quale l’uomo riconosce la funzione oprerogativa del dio, la sua timé, e la fa essere. Il culto è strumento attraversoil quale l’uomo si inserisce nell’ordine cosmico, quell’ordine formatosigradualmente con la nascita degli dei e successivamente garantito dagli deiattuali, nel mondo greco, Zeus e i suoi collaterali; venerando gli dèi che a taleordine presiedono l’uomo contribuisce al suo mantenimento. Il cultocontribuisce al retto funzionamento di quel cosmo che gli dei hanno posto inessere e che tutelano ciascuno secondo le proprie competenze o timai. Se taleordine viene turbato per qualsiasi ragione, l’uomo si trova in una condizionedi estremo disagio e nella necessità di intervenire per restaurare l’ordinatofunzionamento del mondo. La prassi rituale nelle sue varie forme è unacomponente indispensabile della struttura religiosa politeistica; di fatto, seviene meno il culto, l’ordine cosmico entra in crisi perché gli dei sono privatidella timé, l’onore che spetta loro.

La nozione della necessità di azioni cultuali, come il sacrificio, in ambitogreco, ai fini dell’ordinato funzionamento del mondo, è bene espressa, tra lealtre fonti, anche dalla trama narrativa di un importante testo di rilevanzareligiosa della Grecia antica, ovvero l’Inno ‘omerico’ a Demetra, al qualeritorneremo anche più avanti. Di fatto, tale inno narra di come nel tempomitico, un tempo primordiale qualitativamente diverso dal tempo attuale,

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talune divinità si siano sottratte alle proprie funzioni, in base a specifichemotivazioni. È il caso di Demetra che – come narra il mito offerto dall’Innopseudo-omerico ‘A Demetra’, essendole stata rapita la figlia, si rifiuta diassolvere il proprio compito di datrice della fertilità agraria, con laconseguenza di mettere in crisi tutta la struttura cosmica e l’ordinatofunzionamento di questa, insieme ai corretti rapporti – basatisull’espletamento del culto da parte degli esseri umani – tra questi e gli dei.

Quando la dea si sottrae alle funzioni ovvero rinunzia a tutelare la suasfera di competenza e ad esercitare la sua timé – narra il mito – gli uominirischiano di perire per la mancanza del grano e anche gli dèi, privati delleofferte costituite dai sacrifici, entrano in crisi e in qualche modo rischianoanch’essi di venir meno. Ne consegue che Zeus, il sovrano degli dei, ècostretto a intervenire imprimendo alla vicenda uno sviluppo particolare, cheil mito provvede a narrare e che tratterrà la nostra attenzione più avanti. Quibasti concludere che, sulla base dell’Inno in questione, risulta confermata latipica caratteristica del politeismo come di una specifica struttura costituita daun complesso di entità sovrumane, a ciascuna delle quali spetta un ambitospecifico che deve essere rispettato dagli altri dèi, i quali non possonointerferire in esso. Un sistema equilibrato, dunque, il cui equilibrio si poggiasull’esercizio da parte degli esseri divini della loro specifica funzione e daparte degli esseri umani del loro specifico compito, quale esso si esprimenella sfera cultuale.

Veniamo a un’ulteriore caratteristica degli dei del politeismo.Gli dei sono dotati di un’esistenza permanente (immortalità). Essi sono

immortali come le realtà cui essi presiedono, con le eccezioni e leparticolarità che avremo modo di segnalare più avanti. Infatti, un caso a sé, acui verremo, è quello dei cosiddetti dying gods, ‘dei morenti’ o ‘dei morti’,che una ipotesi interpretativa, peraltro contestabile, voleva eredi di figuredema. Dei che muoiono per poi riprodursi da una loro parte, come nel caso diDioniso, o per vivere (Osiris) come sovrani dell’Ade. Oppure che muoiono,ma il cui statuto non è propriamente divino ma semidivino, o che nella mortenon conoscono il disfacimento proprio della morte umana, come avremomodo di illustrare più avanti.

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Come gli dei non finiscono così non finisce la realtà cui essi presiedono:“il politeismo non guarda abitualmente ad una Endzeit. Di fatto, questaEndzeit potrebbe per esso essere niente altro che un crepuscolo degli dei.Tale concezione costituisce tuttavia un’eccezione forse condizionata dalleidee escatologiche cristiane e sviluppatasi dalla percezione dell’inarrestabiletramonto del mondo religioso tradizionale del politeismo germanico”.[249]

Ogni pantheon politeistico si qualifica come una struttura organica nonsolo di tipo dipartimentale, come detto, ma anche di tipo genealogico-dinastico, ovvero come un quadro religioso che contempla un organicocomplesso di divinità, legate – almeno le principali – da rapporti di parentelaillustrati a livello mitico secondo schemi genealogici e di alleanzematrimoniali. Non solo antropomorfe sono le singole divinità maantropomorfa è la comunità divina, modellata sulla comunità umana.

La manifestazione degli dèi, oggetto delle grandi narrazioni teogoniche eal contempo cosmogoniche, riscontrabili sia in ambito mesopotamico,sumerico e assiro-babilonese, sia in quello egizio, e più generalmente nellevarie culture del Vicino Oriente, e infine anche nel mondo greco, èsolitamente concepita sotto un profilo antropomorfico di generazioni divine:si narra cioè la ‘nascita’ degli dei sulla base di successive generazioni, apartire da entità primordiali semipersonali fino alle divinità che presiedonoall’attualità, sicché il mondo divino viene a strutturarsi secondo uno schemadinastico. Gli dèi dell’attualità solitamente si manifestano a conclusione di unprocesso teo-cosmogonico, essendo venuti all’esistenza, insieme alle realtàcosmiche, attraverso un succedersi di coppie divine, e più generalmenteattraverso genealogie divine, a partire da entità primordiali, da archai,principii, che non sono più attive ed efficaci nell’attualità ma che purrappresentano il fondamento dell’esistenza attuale.

Ogni divinità non è isolata rispetto alle altre ma è legata alle altre daspecifici rapporti. Tali rapporti assicurano l’organica unità del mondo divino,la sua – si direbbe – intelligibilità. E insieme contribuiscono ulteriormente acaratterizzare le singole divinità. È stata segnalata negli studi la funzionedifferenziatrice, e dunque individuante, svolta dalle genealogie nellamitologia greca. Basti pensare al diverso carattere dei figli di Zeus generati

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da madri diverse tra loro, dal Dioniso generato con Semele, alla Persephonegenerata con Demetra, e così via.

L’organicità che il sistema di relazioni detto viene a instaurare nel mondodivino ha un suo riflesso immediato nell’organicità con cui viene percepital’intera realtà, stante il legame inscindibile, cui sopra si accennava, tra levarie figure divine, o almeno le maggiori tra esse, e i vari dipartimenti delcosmo e della società umana.

Per quanto concerne specificamente il pantheon greco, non senzaantecedenti nel mondo vicino-orientale, le diverse e successive generazioni sicaratterizzano per caratteri che le distinguono. Si pensi al caratteresemipersonale delle figure della prima generazione, quella costituita da Uranoe Gaia; al carattere violento e immane degli dei della generazione intermedia,anello di passaggio tra la prima e la terza e ultima generazione; al caratterecompletamente differenziato e oltremodo complesso dell’ultima generazione.Tali sono i caratteri che emergono dallo schema genealogico come offertonella Theogonia di Esiodo, poema che descrive le varie generazioni divineche si succedono a partire dalla coppia primordiale formata da Urano e Gaia,dalla quale deriva la stirpe dei Titani, fra i quali è Cronos che, eliminatoviolentemente il padre, con Rhea genera quella che è la terza generazionedivina; questa, sotto la signoria di Zeus, presiede all’attuale scenario cosmico,mentre scarso peso hanno in esso ormai le figure divine iniziali, quali lostesso Cronos e soprattutto Urano e Gaia.

L’organizzazione del pantheon può essere il frutto di un intenso lavoroteologico ad opera di caste sacerdotali come nell’antico Egitto o nell’anticaIndia, oppure può essere il frutto di un processo prevalentemente spontaneoin cui è coinvolta la collettività o parte di essa, e nel quale, come in Grecia,rivestono un ruolo di primaria rilevanza i poeti, gli aedi, i cantori.

Non si dovrà poi dimenticare come i singoli pantheon politeistici inmomenti diversi della loro storia e sulla scorta di circostanze storiche epolitiche diverse abbiano conosciuto fenomeni di ‘teocrasia’, ovvero difusione delle maggiori figure divine in una sola figura, come in Egitto,nonché fenomeni di assorbimento delle minori da parte delle maggiori, di cuile prime diventano epiteti, aspetti e funzioni. Nel fenomeno tipicamente

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ellenistico e imperiale dell’‘enoteismo’ – a cui verremo – la necessità diesaltare una figura divina e di instaurare con essa un rapporto particolarmenteintenso e privilegiato da parte di un suo devoto, come nel caso di ElioAristide con il dio Asclepius, o nel caso ‘letterario’ di Iside con il suo devotoLucio, nelle Metamorfosi apuleiane, porta a concentrare in una unica figuraepiteti e attributi delle altre, mai peraltro esplicitamente escluse dall’orizzontedivino.

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1.3 Politeismo: un sistema ‘aperto’

Un ulteriore aspetto dei sistemi politeistici va qui illuminato.Si tratta di quel carattere per cui il politeismo si può definire come un

sistema aperto, e non rigido, ovvero aperto al riconoscimento dell’‘altro’ –quel reciproco riconoscimento, di cui sopra si parlava, tra religioni etnico-nazionali –, e disposto ad accogliere al suo interno, a livello pubblico eprivato, e talora a sollecitare, l’introduzione di nuovi culti. Tale caratteristicasi offre con maggiore incidenza a Roma rispetto alla Grecia. Del resto lareligione romana è religione di una città multietnica fin dalle origini e findalle origini nutrita di molteplici apporti (latini, italici, etruschi, greci),laddove quella greca (ma taluno preferisce parlare di ‘religioni’ greche) èreligione di un ethnos. Fatti salvi casi specifici, ove si assiste a repressioni permotivazioni di ordine pubblico, i nuovi culti – e un caso specifico è costituitoda quelli di origine orientale sopra ricordati – vengono accolti nel momentoin cui si riconosce che essi offrono garanzie diverse da quelle offerte dallareligione pubblica, patrocinata dallo stato.

Si è parlato spesso negli studi di una fondamentale tolleranza delpoliteismo e dei politeismi, opposta a una fondamentale intolleranza delmonoteismo e dei monoteismi. Tale equazione è oggetto di una opinioneormai diffusa[250] ma non per questo totalmente fondata. Senza poter quientrare in maniera approfondita nel merito di tale questione, ci limitiamo aosservare quanto segue.

La nozione di tolleranza è categoria moderna e non può essere in manieraacritica applicata al mondo antico.[251] Alla definizione di tale categoria sisono in età moderna applicati in particolare J. Locke con la sua opera Essayconcerning Toleration, del 1689, e Fr. Voltaire, con il Traité sur la tolérance,del 1763.

‘Tolleranza’ (dal verbo tolerare con significato di ‘portare un peso,sopportare, sostenere una difficoltà o un dolore’) significa ‘sopportazionepaziente’, ‘capacità di resistenza’ e più in generale accettazione esopportazione di un qualche cosa di negativo, di un qualche cosa che èpercepito come un male. Il termine, ad ogni modo, mantiene una sua

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dimensione negativa perché l’oggetto o gli oggetti, le idee, le forze, lepersone concrete a cui si rivolge, sono misurate in rapporto a criteri di veritàcome false, e in rapporto a criteri di valore, come male. Merita qui esserericodato almeno un importante intervento di P. Garnsey sul tema dellatolleranza nel mondo antico,[252] ove lo studioso afferma che la nozione ditolleranza implica “disapprovazione o disaccordo uniti a riluttanza ad agirecontro quelli che sono considerati negativamente nell’interesse di qualcheprincipio morale o politico” e che essa pertanto è un concetto dinamico, dadistinguere da concetti come quelli di indifferenza o passiva acquiescenza. Sutale base e su quella di un’ampia disamina di situazioni storiche del mondogreco e romano, lo studioso conclude che “l’antitesi comunemente delineataper il mondo dell’antichità classica, tra un paganesimo tollerante e uncristianesimo intollerante” è basata su un’errata interpretazione dellareligione greca e di quella romana.

Diversa dalla nozione di tolleranza è quella di libertà, religiosa oltre chedi parola, di opinione, di stampa, etc. come diritto pubblico soggettivo di ogniindividuo.

Nel mondo antico – per quanto concerne l’ambito delle tradizionireligiose circum-mediterranee – quelle situazioni per le quali si ricorreimpropriamente alle idee, appunto, di tolleranza e di libertà religiosa, sono(salvo specifici casi come ad esempio quello costituito, nella Roma imperiale,dall’Editto di Costantino del 313, in materia di libertà religiosa) più situazionidi fatto che non conseguenze di scelte argomentate e teoreticamente motivate.O piuttosto, tali situazioni conseguono alla realtà storica del politeismo e deipoliteismi del mondo antico, alla quale abbiamo già accennato e che meritacomunque di essere qui – per questo specifico aspetto che andiamoapprofondendo – ricordata.

Infatti, le facies religiose politeistiche dei vari ambiti culturali del VicinoOriente e dell’Occidente greco-romano erano caratterizzate dalla mancanza diun concetto di ‘ortodossia’ vale a dire dalla assenza di rigidi parametriideologici ed erano ampiamente disponibili non solo alla convivenza maanche al reciproco riconoscimento delle rispettive tradizioni, come legittimevoci religiose delle singole nazioni o popoli, accompagnata dalla tendenza

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più o meno accentuata a proporre ‘identificazioni’ o forse meglio‘equivalenze’ tra figure divine appartenenti a pantheon diversi ma dotate dianaloghe prerogative e funzioni. Tali equivalenze, in particolari circostanzestoriche e comunque in maniera subordinata a regole, permettevanol’accettazione di culti stranieri e la loro integrazione in un nuovo panoramareligioso. Infatti, i politeismi del mondo antico (intendendo con questotermine l’ampio arco storico che nelle alte culture del mondo mediterraneo evicino-orientale si estende dal IV-III millennio a.C. alla caduta dell’ImperoRomano), conoscevano, in misura diversa a seconda del momento storico edell’ambiente culturale in cui tale fenomeno avveniva, la libera circolazionedi culti di singole divinità, ovvero di divinità legate tra di loro, per es. coppiedivine, che risultavano facilmente ‘trapiantabili’ – come sopra giàricordavamo – dall’uno all’altro ambiente e nelle nuove sedi capaci di attirarefedeli senza creare squilibrio o conflitto alcuno all’interno del sistemareligioso locale. Tuttavia, tale accettazione risultava, come detto, subordinataa norme e regole diverse per il mondo greco rispetto a quello romano. Difatto in Grecia e a Roma diverse erano le modalità di introduzione dei cultistranieri.

In Grecia, essa doveva sottostare a un’accettazione ufficiale da parte delleautorità cittadine, spesso previa consultazione di autorevoli oracoli comequello dell’Apollo delfico, che era il censore delle innovazioni in materiareligiosa. Le forme d’introduzione privata erano invece considerate illecite etacciate, come dimostra il caso di Socrate, di empietà.

A Roma l’ostilità e la repressione del culto straniero scattavano allorchéle modalità del culto straniero infrangessero i canoni comportamentali dellaprassi rituale tradizionale, come nel noto affare dei Baccanali nella Roma del186 a.C. Allo stesso periodo risale una norma che vietava ai cittadini romanil’ingresso nelle file dei sacerdoti della dea Cibele, i galli, noti per la praticadell’autoevirazione, ritenuta immorale in quanto incompatibile con il mosRomanus. Inoltre, nei loro domini i romani proibirono e combatteronospecifiche prassi rituali (come i sacrifici umani) proprie di religioni esternequali la religione punica e quella celtica. Del resto, va registrato unprogressivo inasprimento nel corso del I sec.d.C. delle misure repressive nei

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confronti di quest’ultima religione, “forse il caso più clamoroso e meglioconosciuto di una religione non orientale ed etnica, che fu perseguitata daRoma, in teoria per la sua incompatibilità coi mores Romani, in concretoanche per il suo ruolo di elemento panceltico capace di aggregare intorno a sérinnovate forme di opposizione politica al dominio romano, come già erasuccesso all’epoca di Cesare e come successe di nuovo tra Claudio e Neronein Britannia”.[253]

Appare evidente come, sullo sfondo delineato e costituito dalle religionietnico-nazionali a struttura politeistica greca e romana e dai culti stranieri,cosmopolitici o sovranazionali, che in esse trovavano accoglienza con lelimitazioni cui sopra si accennava, risulti improprio il concetto di tolleranzadate le connotazioni negative che esso comporta per quanto riguardal’oggetto ‘tollerato’, come improprio (salvo specifici casi) risulta il concettodi libertà religiosa che implica un positivo riconoscimento teorico eargomentato dei diritti individuali, e neppure si potrà troppo agevolmentericorrere alla nozione di ‘indifferenza’ della autorità statale e politica – ovefosse chiamata a regolamentare i fatti religiosi, locali o stranieri – neiconfronti dei contenuti ideologici delle diverse espressioni religiose checonvivevano in uno stesso ambito geografico e sociale.

E comunque l’analisi storico-religiosa e storico-comparativa dovrà voltaper volta identificare e distinguere circostanze e motivazioni diverse. Così adesempio potrà distinguere tra posizioni che siano automatica espressione diun ethos proprio di culture etnico-nazionali da posizioni che siano frutto diuna consapevole teoria o di formulazioni teoriche circa i rapporti trafenomeni religiosi e la loro convivenza in un quadro storico e socialepluralistico; tra posizioni che conseguano a disposizioni legislative da partedell’autorità e posizioni, invece, piuttosto legate a contingenti accadimentistorici.

Qui ci limitiamo tuttavia a suggerire, in merito alla caratteristica deipoliteismi come sistemi aperti al riconoscimento dell’‘altro’, in fatto direligione e religioni, e alla introduzione o accoglimento dell’‘altro’, inmateria di culti stranieri, nel proprio tessuto sociale, come la ‘maschera dellatolleranza’ – se vogliamo continuare ad usare questa espressione pur, come

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sopra segnalato, impropria[254] – possa coprire una dimensione più profondadel politeismo in quanto tale, caratterizzante le religioni etnico-nazionali delmondo antico, con le loro caratteristiche sopra evidenziate, ovvero ilriconoscimento di una congenita insufficienza a rispondere alle diversedomande e ai diversi bisogni intellettuali, esistenziali e spirituali manifestatisicon particolare urgenza in determinati momenti storici nelle culture portatricidi strutture politeistiche.

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1.4 Sul politeismo in Grecia: tendenza ‘olimpica’ e tendenza ‘mistica’

Intendiamo qui illustrare alcune tipiche modalità di concepire il rapportotra il livello umano e il livello divino in orizzonti politeistici del mondoantico e successivamente addivenire ad un approfondimento di tali modalitàall’interno di un particolare politeismo, quello greco, il quale, se per un versosi presta in maniera perspicua ad esemplificare il fenomeno del politeismo inquanto tale, per altro verso mostra alla indagine storica sue irriducibilispecificità, che si offrono anche in relazione alle tematiche che andremo adillustrare.

Nell’ambito di una religione politeistica, l’uomo è fondamentalmenteconcepito in una posizione di assoluta dipendenza rispetto al mondo divino edi netta distinzione da esso. Infatti, la prerogativa peculiare degli dèi è,insieme alla loro potenza, l’immortalità. Gli dei sono per antonomasia gliimmortali, anche se non eterni nel senso di un dio monoteistico. Infatti, i mititeogonici che sono anche di solito miti cosmogonici ne descrivono la nascita,la quale avviene contestualmente alla nascita del cosmo. Pur avendo avutoorigine nel tempo, e nel tempo del mito, essi non muoiono, salvo – comesopra detto – alcuni casi di divinità che ‘scompaiono’ e ‘ritornano’ o che, semuoiono, non conoscono una morte analoga a quella umana. Gli uomini,invece, a differenza degli dei, sono esistenzialmente caratterizzati dallamortalità.

Tutti i contesti politeistici del Vicino Oriente esprimono la nettadistinzione fra uomini e dèi, pur qualificandola in maniera diversa.

Nell’ambito mesopotamico, sumero-accadico, ad esempio, è presente lanozione dell’uomo come servo, ‘schiavo’ del dio: l’uomo deve lavorare perprodurre quei frutti che poi deve offrire agli dei, come omaggio e mezzo disostentamento. Di fatto è presente la nozione secondo la quale gli dèi devonoessere nutriti e un ‘pasto’ rituale deve essere presentato loro quotidianamente:tale è l’offerta sacrificale, sia di vittime animali che di prodotti vegetali.

Tale condizione servile dell’uomo nei confronti degli dei che presiedonoall’attualità riceve una fondazione mitica. Il mito babilonese della creazionenarra della formazione dell’uomo dal sangue di un personaggio primordiale,

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Kingu, un essere mostruoso corrispondente al Tifone greco, ribellatosi aglidèi e successivamente sconfitto. L’umanità è formata per prestare ilnecessario culto agli dei. Un servizio che, sempre secondo i mitimesopotamici, avrebbero dovuto rendere agli dei maggiori quei personaggiviolenti e mostruosi a quelli ribellatisi e poi sconfitti, ma del quale risultaronosgravati perché, comunque, pur sempre appartenenti ad un livello sovrumano.In luogo di queste entità è l’umanità a prestare il dovuto servizio agli dei peril tramite delle pratiche cultuali, che costituiscono dovere imprescindibile perl’uomo e unico momento e luogo nel quale si dà contatto fra il livello umanoe quello divino.

Allorché lo ebbero legato [scil. Kingu] e portato davanti al dio Ea gli imposero la punizione etagliarono il suo sangue. Con il suo sangue egli [scil. Marduk] costruì l’umanità per il serviziodegli dèi, e liberò gli dèi.[255]

Siamo nel contesto del documento più solenne della letteratura religiosababilonese, il poema della ‘creazione’, Enuma Elish, espressione chesignifica ‘quando in alto’, il quale così principia:

Quando di sopra non era (ancora) nominato il cielo e di sotto (la terra) ferma non aveva unnome, l’Abisso primordiale, il loro [scil. degli dei] generatore Mummu e Tiamat [scil. ‘figura’delle acque primordiali], la generatrice di tutti loro (...). Abitazioni (per gli dei) non erano ancoracostruite e la steppa non era (ancora) visibile, quando (ancora) nessuno degli dei era stato creato,ed essi non portavano (ancora) un nome, e i destini non erano stati destinati, furono procreati glidei in mezzo ad essi.[256]

Si tratta di un’impostazione di tipo teogonico-evolutivo ben diversa daquella creazionistica: dal principio primordiale, l’Abisso, entità amorfa eimpersonale o semipersonale, nasce la stirpe degli dei, i quali devono lottareper imporsi sulle entità iniziali e diventare signori di quello che sarà il mondodegli dei e degli uomini. Contro le entità primordiali e abissali interviene ildio di Babilonia, Marduk, il quale sconfigge Tiamat e con la sua carcassaspaccata in due “come un’ostrica” forma il cielo e la terra.

Tirò un chiavistello e stabilì guardiani, ingiunse loro di non lasciare uscire la sua acqua,camminò per il cielo, osservò i luoghi, pose di fronte all’Abisso la dimora di Nudimmud [scil. ildio Ea] – il signore (Marduk) misurò la dimora dell’Abisso –, una grande dimora, egli pose comequello Esharra (la ‘casa universale’, qui: il cielo). La grande dimora Esharra, che costruì comecielo, egli fece abitare da Anu, Enlil ed Ea per loro dimore. Egli formò la sede per i grandi dei,stabilì le stelle, loro somiglianze (...), fissò l’anno e lo divise in sezioni (...). Fece splendereNannaru (la Luna) e gli affidò la notte, lo stabilì quale ornamento della notte per stabilire i giorni.[257]

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Diverso rispetto al mondo mesopotamico è quello greco, ove l’uomo nonè considerato come servo degli dei. Tuttavia, proprio nella sua qualità diessere mortale, destinato al lavoro e alla sofferenza, l’uomo appartiene a unlivello completamente distinto da quello divino. Di fatto, una strutturapoliteistica implica una netta separazione tra il livello degli dei e il livellodegli uomini, pur esplicandosi la funzione promotrice e garante da parte deglidei nella sfera cosmica e in quella umana, e spettando all’uomo, o meglio,alla comunità umana, la pratica rituale e nello specifico il sacrificio cruento,che nel mondo greco è l’atto sacro per eccellenza, ai fini del mantenimentodell’ordine fondato e garantito dalle potenze divine. In tale contesto la praticarituale, e nello specifico sacrificale, si pone come modalità privilegiata dicomunicazione tra il livello umano e il livello divino.

Il politeismo greco conosce a partire dai più antichi testi letterari diinteresse religioso e in particolare dai poemi omerici ed esiodei una tendenza,che negli studi storico-religiosi che fanno capo alla impostazionemetodologica di U. Bianchi viene definita ‘olimpica’,[258] la quale sottolineanotevolmente il distacco tra gli dèi beati, stabili, non toccati dal dolore e dallamorte, e gli uomini che invece sono soggetti ad un destino, aisa, mortale, ealle pene del vivere.

Nel quadro del politeismo greco sono tuttavia presenti anche prospettivediverse, elaborate in ambienti particolari, che intervengono a esprimere unatendenza definita – nei medesimi studi – come ‘mistica’, e tale da conosceredelle specificazioni ulteriori in senso misterico e in senso misteriosofico.

“È utile contrapporre la religiosità (o gli dèi) di tipo mistico allareligiosità (o agli dèi) di tipo olimpico. La religiosità di tipo olimpico, che siesprime in modo particolare (ma non unicamente) nella religione omerica(ove per religione omerica intendiamo il riflesso nell’epica omerica di unaparte del patrimonio religioso greco delle epoche cui risale la composizionedei due poemi, nonché delle tradizioni ancora vive negli ambienti da cui ipoemi stessi promanano), è caratterizzata da una assoluta contrapposizione dinatura e di sorte fra gli dèi e gli uomini, tra il mondo degli dèi e quello degliuomini. Come gli dèi sono beati, così sofferente è l’uomo, la cui vita suquesta terra e la cui vaga sopravvivenza come ombra nell’Ade sono dipinte

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talora a tinte fosche”.[259] Si tratta di una visione dell’esistenza umana cheemerge, tra le diverse fonti che si potrebbero addurre, dal paragone che ilpoeta post-omerico Mimnermo (fr.2 West) intesse tra la vita umana e quelladelle foglie.

“Ben diversa è la prospettiva che offre la religiosità a tipo mistico, laquale ammette, a differenza di quella olimpica, una ‘partecipata’ e vissutainterferenza di piani tra il divino e l’umano, nel senso che alcuni dèi sonocoinvolti in vicende non compatibili con una loro olimpica impassibilità, eche gli uomini, partecipando in vario modo e a vario titolo a tali vicende, sitrovano con gli dèi in un rapporto di solidarietà se non addirittura di affinità odi connaturalità.

Intendiamo il concetto di misterico come una ulteriore specificazione delconcetto di mistico. Laddove quest’ultimo si riferisce al modo di concepire ladivinità, il primo fa diretto riferimento a un tipo particolare, a una benindividuata struttura rituale (quale ad es. quella dei misteri di Eleusi nonchédi altri che nel mondo greco possono essere a questi paragonati): nei ‘misteri’un dio subisce una vicenda (per es. Kore rapita negli Inferi e poi liberata, siapure con un parziale ritorno ciclico fra gli dèi), mentre gli uomini,partecipando attraverso il rito iniziatico a questa vicenda (come appunto aEleusi), si assicurano una prospettiva beata nell’aldilà infero in cui regnaKore-Persephone.

Con il concetto di misteriosofico ci riferiamo, infine, a quelle dottrine econcezioni religiose greche che giovandosi di concetti ricavati da credenze eprassi religiose di tipo mistico e misterico (soprattutto l’idea della vicenda) lireinterpretano alla luce di una conoscenza ‘sapienziale’, di una sophia. Diquesta è tipica l’idea che nell’uomo è insito un elemento di natura divina,assoggettato a una caduta nel mondo e nel corpo, nonché l’idea del corpointeso come custodia, prigione o anche tomba dell’anima, nel quadro di unadottrina di salvezza che comprende il concetto della metempsicosi. (...) Ilperno attorno cui ruota la spiritualità misteriosofica non è più – dunque –tanto la vicenda di un dio, come accade nella spiritualità misterica, quanto lavicenda dell’anima divina”.[260]

A un approfondimento delle categorie del mistico, del misterico e del

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misteriosofico, come tali da identificare le principali tendenze – oltreall’olimpica – espressesi nel seno del politeismo greco, dedicheremo ora lanostra attenzione, non prima di aver precisato come i termini che quiutilizziamo, e nello specifico il termine di ‘mistica’, sono usati con precisoriferimento al mondo greco antico al quale del resto si riferiscono le primeattestazioni del termine e della nozione in questione e non sono usati in unsenso generico o fenomenologico o comunque non qualificato dal punto divista storico-religioso.

Venendo ora a sostanziare di dati storici la definizione categoriale dimistica sopra offerta, facciamo riferimento a fenomeni religiosi che in Greciasi distinguono dalla prospettiva olimpica come sopra definita in quantocercano di stabilire un contatto più diretto e partecipato con la divinità, qualeè tipico del contesto misterico eleusino, che verremo a descrivere, e di ognicontesto misterico, ma diversamente da questi non conosce una prassiiniziatico-esoterica e nemmeno (come invece attestata ad Eleusi) unaprospettiva di beatitudine oltremondana.

“Tale, ad esempio, è il caso del dionisismo dei tiasi che, nell’ambito diuna prassi rituale caratterizzata dall’orgiasmós, cioè da uno stato diconcitazione suscitato dal suono di sacri strumenti, da danze e da certepratiche rituali, tende a stabilire un contatto diretto tra il fedele e la divinità,Dioniso appunto. Tale contatto è espresso nelle forme dell’invasamento, cioèdella possessione del fedele da parte del dio, e nella forma complementaredell’estasi, ossia dell’esperienza di un ‘uscire fuori di sé’ da parte del fedele,per attingere il livello divino. Si ha quindi una forma di religiosità analoga aquella che si realizza nel contesto misterico eleusino con la differenza che laprassi rituale dei tiasi bacchici – a quanto risulta dal complesso delle fonti –non contemplava generalmente nel periodo classico iniziazione edesoterismo. Anch’essa tuttavia si caratterizzava per una certa riservatezzaessendo compiuta da gruppi di fedeli, donne soprattutto anche se nonesclusivamente, che si appartavano in luoghi extra-cittadini per lacelebrazione del culto; i riti dionisiaci dei tiasi (ossia delle piccole comunitàdi fedeli) non si svolgevano infatti in un santuario ma avevano piuttostoun’ambientazione montana o comunque si compivano in luoghi aperti, a

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contatto con la natura e con gli animali selvatici.Per caratterizzare un tipo di culto siffatto che, senza implicare iniziazione

ed esoterismo, tende alla realizzazione di un tipo di rapporto con la divinitàanalogo a quello che si stabilisce nell’ambito dei misteri, useremo il termine‘mistico’. L’aggettivo greco mystikós deriva dalla stessa radice my cheinterviene nei termini mysteria (misteri) e mystes (‘iniziato’). Nel camposemantico greco mystikos è dunque un aggettivo che si riferisce alla sfera deimisteri in tutti i loro varii aspetti, caratterizzando il rituale, la natura delledivinità e l’atteggiamento del fedele nell’ambito del culto.

Ai fini dell’analisi storica dei varii contesti, tuttavia, useremo in manieradifferenziata i termini ‘misterico’ e ‘mistico’, indicando con il primo tutto ciòche si riferisce ai misteri, ossia a un culto a carattere iniziatico-esoterico.Useremo invece ‘mistico’ piuttosto per indicare tutti quei culti che, senzapresentare l’aspetto iniziatico-esoterico dei mysteria, tuttavia hanno incomune con questi ultimi il riferimento ad un certo tipo di divinità, diversodagli ‘impassibili’ dèi olimpici, tale da subire una crisi, ossia un tipo didivinità ‘in vicenda’. In pari tempo, l’atteggiamento mistico è utile aqualificare quei contesti che realizzano una forma di religiosità fortementepartecipativa, nei quali il fedele, attraverso il rito, sperimenta una forma dicomunicabilità più diretta e immediata con il livello divino. L’aspetto ritualerimane sempre importante, così come ad Eleusi lo è il rito iniziatico–esoterico. È infatti nel contesto rituale che si compie questo contattoimmediato e si realizza questa comunicabilità di esperienza tra livello umanoe divino.

Un altro aspetto ancora da considerare ai fini della caratterizzazione deiculti mistici è quello relativo alle prospettive che si offrono al fedele, aspettoassai importante nell’ambito dei misteri, siano esse prospettive inframondaneed escatologiche insieme (come ad Eleusi), siano invece prospettive soltantoinframondane (come a Samotracia). Nel caso del culto dionisiaco quale èdescritto nelle Baccanti euripidee un beneficio offerto dalla pratica del culto èindicato nell’invasamento, nella mania benefica perché segno dellapossessione divina. In questa tragedia è contenuto un celebre makarismós,ossia una proclamazione di beatitudine, la quale è rivolta al fedele di

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Dionisio. Esso richiama la nozione eleusina dell’iniziato come olbios, “felicee fortunato”, stabilendo un ulteriore elemento di affinità fra questi due culti.In essi si realizza una forma eccezionale di beatitudine per l’uomo: neimisteri attraverso la prassi inziatico-esoterica e nel rituale bacchico attraversole modalità del culto entusiastico-orgiastico.

L’individuo è beato perché realizza nell’ambito del culto dionisiaco unimmediato contatto con la divinità. Nei culti a carattere orgiastico, come ildionisismo, la mania ha due facce: essa infatti ha un aspetto benefico,positivo, ma anche l’aspetto di potenza distruttrice, allorché l’individuo sirifiuti di celebrare il culto ovvero ostilmente si ponga contro di esso.Numerose tradizioni greche, tra cui quella elaborata da Euripide nelleBaccanti, conoscono la vicenda di personaggi che, a causa dell’ostilità neiconfronti di Dionisio, furono sottoposti all’invasamento, alla mania, per essirovinosa, in quanto li ha portati alla distruzione come nel caso di Penteo.

Senza poter entrare nei dettagli del culto dionisiaco, diciamo soltanto cheesso può essere addotto come tipico esempio di quelle forme di religiosità edi prassi rituale presenti nel mondo greco che possiamo definire di tipo‘mistico’ in quanto finalizzate a stabilire un rapporto diretto tra l’individuo ela divinità, analogo a quello realizzato all’interno della prassi misterica. Nelcontesto dionisiaco si realizza nel rito una sorta di identificazione tra il fedelee il dio, quale viene espressa nel termine bakchos che li designa entrambi.

Per quanto riguarda il culto dionisiaco di età classica risulta dalletestimonianze che la prospettiva offerta all’uomo era sostanzialmenteinframondana, essendo la beatitudine del fedele circoscritta al momento dellacelebrazione rituale. Non sono attestate prospettive escatologiche, che invececominciano ad affermarsi in età ellenistica quando anche i riti dionisiaciassumeranno la forma di misteri. Si assiste, infatti, ad un’evoluzione storicaper la quale le comunità di veneratori di Dionisio adottano la prassi iniziatico-esoterica, propria di un culto misterico. I riti dionisiaci, gli orgia, assumonocosì anche il carattere di mysteria a tutti gli effetti e si ha pure notiziadell’esistenza di prospettive escatologiche. Pertanto nello sviluppo storico delculto dionisiaco bisogna distinguere un primo periodo, quello dei tiasi, chenon ha prassi iniziatico-esoterica, se non in alcuni contesti particolari,

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piuttosto eccezionali, e che circoscrive la beatitudine del fedele al momentorituale in cui si instaura – nelle forme dell’entusiasmo orgiastico –l’immediato rapporto tra il fedele e il dio. In un periodo successivo anche lareligiosità dionisiaca assume la forma iniziatico-esoterica e conosce delleprospettive soteriologiche in senso escatologico per il fedele”.[261]

Se il dionisismo d’età arcaica e classica nella forma dei thiasoi nonpresenta il carattere esoterico-iniziatico che assumerà a partire dall’etàellenistica, configurandosi nella forma dei misteri, e purtuttavia si presentacome una formazione ‘mistica’, che implica e realizza un peculiare rapportodi familiarità fra livello divino e livello umano, quanto “all’esistenza di una‘vicenda’ di Dionisio è difficile pronunziarsi poiché le testimonianze a noipervenute a proposito del culto dei tiasi non ci dicono nulla intorno ad unacrisi del personaggio o di vicende paragonabili a quelle delle due dee elusine.Dionisio risulta protagonista di una vicenda drammatica di morte, ma in unaltro contesto religioso che possiamo definire “misteriosofico”, cioè uncontesto che implica una sophia, una sapienza, quindi una meditazioneulteriore su certe realtà dei misteri”.[262]

Ma se a una religiosità misteriosofica verremo più avanti, qui delineiamo– ancora una volta sulla scorta della efficace sintesi offerta dalla SfameniGasparro – gli elementi propri di una religiosità di tipo misterico,esemplarmente espressa nel mondo greco dai rituali misterici eleusini, che necostituiscono, appunto, l’esempio più antico e articolato.

Misterico è, dunque, un complesso mitico-rituale avente al proprio centrodivinità in vicenda, con le quali, attraverso la rievocazione rituale dellavicenda divina, l’uomo, e più specificamente l’iniziato, ritiene di poterinstaurare un rapporto di sympatheia, ossia un ‘patire insieme’ tra fedele edivinità, in un contesto rituale istituzionalizzato tale da assumere la formainiziatico-esoterica, ovvero tale da offrire, diversamente dai culti a caratteremistico, le connotazioni rituali dell’iniziazione e dell’esoterismo, puroffrendo, come i culti mistici, la possibilità per il fedele di entrare in unaqualche forma di rapporto partecipato con il dio, e con quello specifico dio (odea) ‘in vicenda’ che risulta caratterizzante il livello divino in sede direligiosità mistica e misterica.

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1.4.1 I misteri greci: Eleusi e SamotraciaIl termine ‘mistero’ che nel nostro linguaggio comune significa cosa

segreta, o nascosta, o incomprensibile, deriva dal greco mysterion, pl.mysteria. Tali termini designano nella documentazione a partire dalla fine delVI-inizi del V sec. a.C. in maniera privilegiata anche se non esclusiva deglispecifici complessi mitico-rituali, ed in particolare il culto che si celebrava adEleusi, una piccola cittadina vicino ad Atene, in onore di due importantidivinità del pantheon olimpico, Demetra – che come Zeus è figlia di Cronos eRhea ed è stata pure sposa di Zeus – e la figlia Kore-Persephone, che già ipoemi omerici menzionano come sposa di Hades, il quale presiede alleregioni sotterranee, laddove i fratelli Zeus e Poseidon presiedono allerimanenti due parti dell’universo, ovvero rispettivamente alla sfera celeste eterrena e alla sfera delle acque. Persephone, in quanto sposa di Hades, èsignora degli inferi e dei defunti, ed appare connessa anche con il benesserectonio.

“L’epopea omerica non dice nulla in merito ad eventuali rapporti traDemetra e Persefone, ma ciò non significa che all’epoca della composizionedei Poemi omerici non sussistessero tali rapporti. Piuttosto si devericonoscere che per la visione omerica la ‘bionda’ Demetra è colei chepresiede alla coltura del grano mentre Persefone appare come sposa di Hadese sovrana degli Inferi, senza che emerga alcuna connessione fra le duedivinità. Già in Esiodo apprendiamo che Persefone è la figlia di Demetra epoi tutta la tradizione greca dall’epoca arcaica al periodo più tardo conosceràcome dato fondamentale della struttura religiosa il rapporto tra Demetra ePersefone come madre e figlia. Questo rapporto risulta già noto ad Esiodo edè illustrato brevemente ma in un contesto molto significativo. Proprio quandonarra, a conclusione della Teogonia, le molteplici nozze di Zeus, attraverso lequali il dio fonda e garantisce il proprio potere universale appropriandosi divarie sfere di competenza, Esiodo fa un brevissimo accenno ad un contestomitico che le successive fonti ci illustreranno in dettaglio. Il poeta infattiafferma che Zeus contrasse nozze con Demetra, la quale generò Persefoneche Aidoneus (altro nome di Hades) rapì dalle ginocchia della Madre,

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avendolo permesso Zeus (vv. 912-914).Questi pochi versi sono molto importanti poiché rivelano tutto un

retroterra mitico sul quale le fonti posteriori ad Esiodo o pressochécontemporanee offrono ampi particolari. Si ha dunque un quadro di nozzedivine fra Zeus e Demetra e la nascita della fanciulla, Persefone. Che essa siala sposa di Hades è già noto in Omero, ma come sia diventata la sua sposa lodice Esiodo, buon conoscitore delle tradizioni mitiche greche. Il poetaconosce dunque il rapporto tra Demetra e Persefone e le specifiche modalitàattraverso le quali Persefone è diventata quella che è nell’attualità, cioè lasposa di Hades, la signora degli Inferi.

Un aspetto tipico delle strutture religiose politeistiche sono le narrazionimitiche attraverso cui si rappresenta la formazione degli equilibri attuali,mostrando come gli dèi hanno assunto le loro attuali funzioni e prerogative.Esiodo conosce il mito delle nozze fra Hades e Persefone, compiuteattraverso un ratto ma realizzate con il consenso di Zeus che ha stabilito didare in sposa la figlia al proprio fratello. Siamo nel contesto, già definitocome tipicamente dinastico-dipartimentale, di una struttura politeistica che sifonda su una serie di alleanze matrimoniali, in obbedienza a certe regole chedefiniscono gli ambiti divini. Il matrimonio fra Hades e Persefone risultadunque perfettamente inserito in questo quadro dinastico dipartimentale. Latradizione greca conosce tuttavia un altro esito di questa vicenda in rapportoall’istituzione religiosa dei mysteria di Eleusi.

Si narrava un mito relativo a quella vicenda, il quale però non facevaparte del contesto esoterico, cioè segreto, riservato del culto stesso. Il termineche designa tale culto, mysteria, è connesso etimologicamente con il verbomyo, il quale già secondo gli antichi ma anche secondo i grammatici modernisi connette con una radice indoeuropea mu che significa ‘chiudo’ e, in sensoassoluto, ‘chiudo gli occhi’ o ‘chiudo la bocca’. Già nella radice del terminein questione in qualche modo è insita pertanto la nozione del silenzio, delnascondimento che caratterizza la prassi rituale.

Di fatto i riti che si compivano ad Eleusi erano dei riti esoterici, cioèsegreti e riservati soltanto a quanti fossero previamente iniziati (hoimemyemenoi). Ogni individuo, purché fosse greco ovvero conoscesse il

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greco, poteva partecipare ad una prassi rituale che si chiama appunto‘iniziazione’, termine che deriva dal latino initium, mentre in greco lanozione è espressa dal termine myesis, ‘iniziazione’ appunto, connesso con lastessa radice my di mysteria. L’iniziazione era una prassi rituale che dovevaabilitare l’individuo a partecipare ai mysteria. Questi erano dunque ritiriservati agli iniziati, il che significava che l’iniziazione era previa allapartecipazione ai misteri. Sia la prassi iniziatica che il rituale complesso deimysteria rimangono dunque preclusi ai ‘profani’ e di fatto il segreto sui lorocontenuti e modalità fu mantenuto nel corso dei secoli sicché soltanto dascarse e allusive notizie traiamo qualche elemento di conoscenza a lororiguardo.

Si hanno notizie abbastanza numerose sul periodo in cui si celebravano imisteri eleusini, sulle divinità oggetto del culto, ma le fonti sono moltoreticenti intorno alla loro struttura interna. Sappiamo sostanzialmente che laprassi misterica si articolava secondo tre livelli fondamentali: vi erano tadromena (‘le cose fatte’) ossia si facevano certe cose e si compivano certi riti;ta legomena (‘le cose dette’), cioè si comunicavano delle sacre formule agliiniziati e ta deiknymena (‘le cose mostrate’) ossia si facevano vedere ai fedelioggetti o spettacoli. Si tratta dunque di una struttura rituale assai diversa daquella degli altri culti a cui partecipavano tutti i membri della città: ai misteridi Eleusi tutti i cittadini di Atene e i greci in genere erano abilitati apartecipare, ma dovevano decidere di farlo in quanto individui e sottoporsialla iniziazione, quale previa abilitazione rituale al culto segreto.

La legge dell’esoterismo era estremamente rigorosa e fu osservata da tuttigli autori pagani mentre quelli cristiani che vennero a conoscenza dei misterici hanno tramandato, con intento polemico e dissacratorio, qualche formulasacra e qualche notizia sulla prassi rituale. Ben nota è invece la narrazionemitica che si connetteva al culto eleusino la quale, attestata da numerose fontidi varia epoca, è contenuta nella sua forma più antica ed articolata nell’Inno aDemetra che fa parte della raccolta degli Inni cosiddetti omerici. Tale Inno èuno fra i più antichi della raccolta, datato in maniera abbastanza concordedagli studiosi intorno al 600 a.C. La narrazione mitica, proprio per essereesposta in un testo letterario, non fa parte del contesto esoterico tipico dei

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misteri, essendo a tutti nota. Tuttavia, quanto l’Inno ci dice intorno allavicenda delle due dee Demetra e Persefone è fondamentale per conoscerel’ethos dei misteri. Infatti, l’autore del testo in maniera esplicita eprogrammatica intendeva con esso comunicare ad extra, cioè a quanti nonfossero iniziati, il significato dei riti di Eleusi. Questo Inno di fatto vuoleillustrare le circostanze della fondazione dei riti misterici, attribuita alla stessaDemetra. Esso inoltre presenta ciò che gli uomini potevano attendersi inseguito alla partecipazione a questo culto, dal momento che le prospettiveofferte all’iniziato non facevano parte del segreto iniziatico.

Le fonti letterarie ed epigrafiche attestano che, a partire almeno dal Vsecolo a.C., Atene aveva inserito nel proprio orizzonte religioso i mysteria diEleusi, divenuti così un culto patrocinato ufficialmente dalla polis: la città diAtene sovrintendeva al corretto svolgimento dei riti che si compivano adEleusi e ai quali presiedeva un personale sacro appartenente a famiglieelusine. Questo culto, pur aperto a tutti, uomini donne e anche schiavi,esigeva che l’individuo scegliesse di parteciparvi in quanto tale e non solocome cittadino. Esso quindi, pur essendo un culto ‘pubblico’ nel senso diculto ufficiale, cittadino, nella sua qualità di culto esoterico-iniziaticorichiedeva un’adesione personale.

Il mito narrato nell’Inno A Demetra, pur relativo a due grandi divinità delpantheon olimpico, Demetra e Persefone, tuttavia le presenta sotto un profilosostanzialmente diverso rispetto a quello peculiare della fisionomia di unagrande divinità olimpica. Esse infatti appaiono soggette, nel tempo originariodel mito, ad una crisi che ha compromesso le loro stesse funzioni e tuttol’ordine cosmico.

Senza dilungarci sulla narrazione mitica, notiamo soltanto come nelcontesto religioso eleusino le figure di Demetra e di Persefone-Koreassumono degli aspetti profondamente diversi rispetto alla loro stessa faciesolimpica, e tali aspetti sono di importanza decisiva ai fini della comprensionedella sfera cultuale dei mysteria. La vicenda è sostanzialmente quella nota adEsiodo, ossia quella relativa al ratto di Persefone. Si narra come la fanciullaraccoglieva dei fiori in un prato in compagnia delle Oceanine quando la terrasi apre lasciando emergere Hades col suo occhio che trascina con sé

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Persefone nel mondo infero. Si inserisce tuttavia nello scenario un fatto deltutto nuovo, quasi rivoluzionario nella prospettiva olimpica: Demetra ode legrida della figlia e, angosciata, si mette alla sua ricerca, assumendo cosìimmediatamente una connotazione che la qualifica in maniera ben diversarispetto agli dèi olimpici. La dea entra in crisi, perché ha subito un’offesa chela tocca nel più intimo della sua natura: le è stata sottratta la figlia e Demetranon accetta questo evento. Ella rifiuta le nozze di Persefone, che pure nelcontesto olimpico sono espressione di una delle tante alleanze divine, unamaniera per fondare i ritmi vitali e l’intero ordine cosmico. Il regno dei mortiha un sovrano e deve avere una sovrana. Ma questo schema vienecontraddetto perché Demetra non accetta di essere separata dalla figlia,quindi in definitiva non accetta la volontà di Zeus, rifiutando di sottomettersialle regole del pantheon olimpico per cui gli dèi contraggono nozze tra di loroe Zeus sovrintende a tutta la ‘famiglia’ divina.

Si ha poi un susseguirsi di eventi. Il primo episodio riguarda la situazionedi Demetra: essa aveva udito il grido della figlia, ma non sapeva cosa fosseaccaduto. Da Helios (il Sole) che dall’alto ha visto tutto, apprende che lafiglia è stata rapita per diventare sposa di Hades, col volere di Zeus. Demetraperò non accetta questa decisione, si allontana dall’assemblea celeste deglidèi e si avvicina al modo degli uomini. Abbiamo pertanto un ‘passaggio’dall’uno all’altro livello, che deciderà poi l’esito di tutta la vicenda; Demetrainfatti solidarizza con gli uomini, si allontana dal mondo divino che leappartiene, in qualche modo rinunziando alle proprie prerogative divine. Ciòviene espresso in maniera mitica attraverso vari elementi: la dea assume illutto, si rifiuta di mangiare, di prendere il bagno, tutti comportamenti chedefiniscono una tipica situazione di crisi.

Ne risulta un quadro contraddittorio rispetto a quello peculiare dellavisione religiosa ‘olimpica’, in quanto una divinità assume un atteggiamentotipicamente umano, essendo venuta in una situazione che è agli antipodi dellapropria: la dea, per sua natura beata, felice, stabile nelle sue prerogative sitrova invece in una situazione di dolore e di contrasto con il proprio ambito diappartenenza.

Demetra, allontanandosi dagli dèi e accostandosi agli uomini, assume un

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aspetto umano e quale donna anziana giunge ad Eleusi, stabilendosi così unprimo collegamento tra la vicenda divina e la realtà cultuale. Nella cittàabitava una famiglia regale formata dal re Celeo, dalla regina Metanira edalle figlie, le quali per prime incontrano la dea, e anche da un piccolobambino, per il quale la dea si offre come nutrice.

Ella, in veste umana, si fa dunque nutrice di un bambino ma, in quantodea, lo alleva in maniera eccezionale: egli cresce con straordinaria rapidità, ènutrito di ambrosia, il cibo degli dèi. Demetra cerca quindi diimmortalizzarlo: “di notte – dice il testo – lo immergeva nel fuoco”. Maaccade un fatto che sconvolge i progetti della dea: la regina, insospettita dallequalità eccezionali di questa nutrice, la spia e, vedendo il bambino nel fuoco,lancia un grido spezzando l’incantesimo. Demetra si manifesta allora nellasua vera identità e rimprovera la stoltezza degli uomini, che non sannoriconoscere il loro bene, sanzionando in pari tempo lo stato mortale, non piùmodificabile del bambino.

Questo episodio pone il problema di individuare le ragioni per cui esso,che mostra il fallimento dell’azione immortalizzante di Demetra, è statoinserito in un Inno che intende proclamare le lodi della dea e la fondazionedei misteri. Vedremo più oltre quale risposta si può dare a questointerrogativo. Ora diciamo che la situazione non è ancora conclusa perché ladea, rivelatasi tale, esige di avere un tempio dagli uomini, non potendo ormaistare in immediato contatto con loro. Esso viene rapidamente costruito e ladea vi si ritira mantenendo quel distacco dal modo divino di cui il contattocon gli uomini era stata la premessa.

La vicenda allora conosce il momento decisivo: Demetra in lutto facessare la fecondità del suolo, gli uomini continuano ad arare la terra, maquesta non produce più alcun frutto. Si constata come tutta la vicenda siainserita in quella prospettiva olimpica che già conosciamo: Demetra è lagarante dei ritmi agrari sicché, se ella scompare, se entra in lutto, tali ritminon funzionano più. Ciò minaccia l’intero ordine cosmico, una volta chesenza i prodotti della terra gli uomini rischiano di perire per fame e gli dèinon ricevono più sacrifici. Zeus deve dunque intervenire: il sommo dio cheaveva messo in moto la vicenda decidendo le nozze della figlia con il sovrano

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degli Inferi, è costretto dall’azione di Demetra a modificare i suoi piano; lavicenda mitica conosce l’invio di vari messaggeri di Zeus, ma nessuno èaccettato da Demetra, la quale vuole rivedere la figlia. Ella si oppone dunquealla legge che domina il pantheon olimpico, ma vi si oppone in quanto dea,rifiutando di assolvere la propria funzione nel quadro generale degli equilibridivini. Quindi Zeus cede al suo volere e invia Hermes all’Ade perché lafanciulla sia consegnata alla madre; la vicenda conosce tuttavia un particolaresviluppo perché Hades, lo sposo infero di Persefone, non può più lasciare inmaniera definitiva la fanciulla. Ciò è espresso miticamente con l’immagine diun cibo (chicchi di melograno) offerto alla fanciulla, che mangia di esso. Difatto chi è stato accolto negli Inferi e vi ha preso cibo rimane ad essiindissolubilmente legato.

In alcuni versi dell’Inno viene fissato il destino di Persefone: Hades dicealla fanciulla di ritornare dalla madre, ma nello stesso tempo dichiara che ellaresterà sua sposa e regina degli Inferi. Persefone ritorna presso Demetra equesta accetta che la fanciulla divida – per cosi dire – il suo tempo tra i duelivelli, olimpico, materno, e infero, alternando in essi la propria presenza. Lavicenda si conclude quindi in termini positivi. Demetra riassume la propriafunzione e la terra lavorata riprende a dare i suoi frutti. Ma Persefone non èpiù quella che era all’inizio della vicenda perché, pur ritornando nell’Olimpopresso la madre, periodicamente si recherà negli Inferi. Nello stabilizzarsinella nuova dimensione di regina dei defunti, dunque, essa mantiene un ritmoalternante di presenza-assenza: per una parte dell’anno risiede presso lamadre, per l’altra con lo sposo negli Inferi.

Bisogno ora vedere quali sono i riflessi a livello umano di questacomplessa vicenda divina. Abbiamo finora assistito ad una serie di eventidivini, che peraltro hanno interessato in maniera diretta gli uomini: presso diessi si è recata Demetra, è divenuta nutrice di un bambino ma ha fallito nellasua immortalizzante, si è fatta costruire un tempio dagli abitanti di Eleusi. Aquesto punto ella proclama un messaggio religioso: promette di consegnareagli uomini i sacri riti (orgia) esoterici che non possono essere né penetrati,né divulgati, i quali saranno celebrati in suo onore ad Eleusi dalle famiglie delluogo. Celebrando questo culto – dice la dea – gli uomini si renderanno

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propizio il suo animo. Questa promessa sarà mantenuta alla conclusione dellavicenda allorché la dea, prima di ritornare nell’Olimpo, consegna i sacri riti aicapi del popolo.

Ma ancora l’Inno non è concluso: nei versetti finali saranno illustrate lemodalità e le finalità del culto. Si proclama infatti olbios, cioè felice efortunato, chi tra gli uomini mortali ‘ha visto’ questi riti, perché quando se neandrà nell’oscura tenebra dell’Ade non avrà la stessa aisa, lo stesso destinoche hanno tutti gli uomini. Si ha pertanto un’apertura in senso escatologicodelle prospettive offerte dal culto misterico: i benefici di cui gode l’iniziatoeleusino riguardo sia la vita terrena (in cui, oltre a godere delle benevolenzedelle dee, ottiene Ploutos, cioè la ricchezza, un’abbondanza di beni presso ilsuo focolare) sia la condizione ultraterrena, in cui egli avrà un destinomigliore dei non-iniziati. Ne risulta una prospettiva sostanzialmente diversada quella comune, già presente nei poemi omerici, di una sopravvenienzaumbratile (...) nell’Ade. Rimane la nozione di un mondo sotterraneo edoscuro, ma in esso è riservata agli iniziati una particolare condizione dibenessere. Altre fonti chiariranno meglio questa prospettiva escatologicadescrivendo la situazione positiva degli iniziati, in termini di luminosità e diripetizione beata del rito.

Il culto eleusino permette all’uomo di partecipare simpateticamente (cioèattraverso un sympathein, un ‘soffrire con’) alla vicenda divina narratanell’Inno. I riti misterici, con modalità che ci rimangono ignote, mettevanol’uomo in diretto contatto con Demetra e Persefone, considerate non comeimpassibili divinità olimpiche, ma quali personaggi che hanno sofferto, hannosubito una crisi, superata peraltro in modo positivo. La partecipazione ritualealla vicenda aveva degli effetti benefici per l’uomo in duplice direzione:durante la vita terrena un’abbondanza di beni, una garanzia dunque dibenessere infra-mondano, ma anche garanzie per la vita ultraterrena.

Si configura, in tal modo una prospettiva religiosa diversa rispetto aquella olimpica, la quale avrà una grande importanza ai fini del processo ditrasformazione di alcuni culti orientali diffusi in Occidente. Essa trova unadelle sue espressioni più nette nell’ambito del culto demetriaco di Eleusi, lacui caratteristica peculiare è quella di essere – come abbiamo detto – un culto

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misterico, cioè un culto che implica iniziazione ed esoterismo. Tuttavia, ciòche è tipico della facies eleusina non è soltanto la struttura rituale esoterico-iniziatica, per la quale si distingue nettamente da altri culti greci, ma anche ilparticolare rapporto che al suo interno si instaura tra l’uomo e la divinità.Egualmente specifico è il carattere delle figure divine della tradizione mitico-rituale di Eleusi. Dinnanzi al tipo della divinità olimpica, stabile nelle suefunzioni e prerogative, si situa quello delle divinità che possiamo chiamaremisteriche, in questo caso Demetra e Persefone.

Si tratta – come abbiamo visto – di personaggi in crisi, o meglio ‘invicenda’, ossia divinità che hanno subito una particolare vicenda drammaticache, nel tempo originario del mito, ha posto in discussione la loro stessanatura e le loro prerogative. Demetra è venuta meno alla sua funzionespecifica di garante dei ritmi agrari in seguito ad un pathos che l’ha coinvoltadirettamente. Si tratta quindi di una Demetra, e con lei Persefone, cheattraversa una crisi patetica, la cui soluzione positiva ha un riflesso precisosul destino dell’uomo, una volta sanzionata nell’ambito rituale. Infatti,all’uomo che accetta di sottoporsi all’iniziazione e di partecipare al cultomisterico di Eleusi si aprono delle prospettive speciali, le quali sono rivolte inuna duplice direzione: da una parte c’è una prospettiva cosmica, infra-mondana (l’iniziato attende Ploutos, la ricchezza, presso il suo focolare)essendo le dee specificatamente connesse con il benessere agrario. Di questobenessere gode l’uomo e per il tramite dell’individuo tutta la comunitàcittadina. In pari tempo l’iniziato ha un’aisa migliore nell’aldilà; quindiattende al di là della morte, una ‘parte’ positiva che gli altri, i non iniziati,non avranno. Abbiamo già detto che la conoscenza dei contenuti soteriologicidello statuto dell’iniziato eleusino non era soggetta a segreto, che inveceriguardava la prassi rituale. Al contrario, le prospettive positive per i fedelifacevano parte del messaggio di propaganda dei misteri medesimi. Tutta unaserie di fonti, a partire dall’Inno omerico e quindi dal 600 circa a.C., fino adepoca tarda, ci attestano la presenza ad Eleusi di prospettive escatologiche,ossia di un’attesa di salvezza nell’aldilà, riservata all’iniziato.

Si delinea pertanto una diversa prospettiva religiosa rispetto a quellaolimpica poiché nel culto misterico eleusino si instaura un’interferenza vitale

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tra mondo divino e mondo umano. Questi due mondi, che nella prospettivaolimpica – pur venendo in contatto nella prassi cultuale – rimangonosostanzialmente distinti, ad Eleusi entrano ritualmente in ‘simpatia’. Questonuovo tipo di religiosità implica quegli altri due aspetti di cui dicevamo: dauna parte esso appella a divinità di carattere particolare, le quali sono‘patibili’, ‘in vicenda’ e, nel caso di Kore-Persefone, si ha un personaggio chesi stabilizza in una situazione alternante di presenza-assenza. Dall’altra partela religiosità misterica offre dei particolari benefici all’individuo per la vitapresente e quella futura.

Il mondo greco, oltre al fenomeno eleusino, conosce altri fenomeni più omeno analoghi. Un culto a carattere esoterico-iniziatico, egualmente definito‘misteri’, è attestato già da Erodoto (V sec. a.C.) con sede nell’isola diSamotracia. Tuttavia sui misteri di Samotracia, che furono praticati fino adepoca tarda e in età romana ebbero una grande popolarità in tutto il bacinomediterraneo, abbiamo scarse notizie per quanto riguarda sia le divinità allequali si rivolgeva il culto sia le modalità rituali e infine le stesse prospettiveofferte agli iniziati. Sappiamo che gli dèi venerati a Samotracia erano indicaticon l’appellativo di Megaloi Theoi, “Grandi Dèi”, appellativo che vuolesottolineare la grandezza di queste divinità, ma – ci dice una fonte – i loroveri nomi non erano noti altro che agli iniziati. Si è pertanto in presenza di unculto che riserva soltanto agli iniziati la conoscenza della vera identità dellepersonalità divine cui si rivolge. (...) Scarsissime sono anche le testimonianzesui riti; da qualche indizio risulterebbe che a Samotracia si compiva la ricercadi una fanciulla divina, qui identificata con Harmonia. Anche ad Eleusi ilmito ci parla della ricerca di Kore da parte della madre e varii indiziabbastanza espliciti fanno pensare che la prassi rituale dei misteri implicassela rievocazione di quell’evento divino. Se ciò accadeva anche a Samotracia sipuò pensare ad un’analogia di struttura mitico-rituale ovvero ad un influssoeleusino.

Un terzo elemento importante in un contesto misterico di tipo eleusino èquello relativo alle prospettive che si offrono all’iniziato. Il complesso dellanostra documentazione su Samotracia, che spesso ai Grandi Dèi dàl’appellativo di ‘salvatori’ (soteres), ci fa constatare come la salvezza

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(soteria) a cui gli iniziati aspiravano riguardava sostanzialmente la vitaterrena. Specificamente si trattava di salvezza dai pericoli del mare, comerisulta anche dal fatto che talora le divinità maschili furono identificate con iDioscuri. Siamo dunque in presenza di un tipo di rituale iniziatico-esotericoche dava delle garanzie a coloro che vi partecipavano, ma delle garanzie – aquanto pare – completamente infraterrene; non abbiamo alcuna fonte che cipermetta di dire che a Samotracia c’era un’attesa di beni per l’aldilà.

Questo è un dato importante, pur nella scarsezza estrema di fonti suSamotracia, perché mostra come non sia corretta un’interpretazione, pure disolito ampiamente accettata, che colleghi quasi in maniera imprescindibile imisteri con la nozione di una salvezza escatologica. Si afferma spesso, infatti,che ogni culto di tipo misterico garantisce una buona sorte nell’aldilà. Taleconclusione non è adeguata alla realtà storica, come si constata anche aproposito dei misteri di alcune divinità orientali. Già il mondo greco cimostra che, se ad Eleusi c’era un culto misterico implicante un’intimapartecipazione di vicenda tra dèi ed uomini, il quale dava all’iniziato dellegaranzie di beni ultraterreni oltre che terreni, i misteri di Samotracia – aquanto pare – erano interamente rivolti alla garanzia del benessere terreno.Dal punto di vista della fenomenologia religiosa non è dunque possibileidentificare in maniera netta e imprescindibile il tipo cultuale dei misteri e lasoteriologia in senso escatologico”.[263]

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1.4.2 La ‘misteriosofia’Il termine è di conio moderno e designa un particolare tipo di credenze e

prassi religiose comportanti – solitamente sulla scorta di unareinterpretazione e rielaborazione di nozioni e pratiche già proprie di ambitimistici e misterici – una dottrina sapienziale, ovvero una sophia, avente alsuo centro l’idea della natura divina dell’anima umana, caduta dal mondodivino a seguito di eventi drammatici variamente configurantisi, e destinataad essere reintegrata alla sua ‘patria’ d’origine.

Prima grande espressione in Grecia di un’ideologia misteriosofica èl’orfismo.[264] Si tratta di una tradizione religiosa, risalente almeno al VI seca.C., che così si denomina da Orfeo, il cantore trace oggetto di varietradizioni mitiche.

L’orfismo si caratterizza essenzialmente per essere una letteratura, tàorphiká, le ‘cose orfiche’ o meglio ‘gli scritti orfici’ (ricordati da Euripidenella tragedia intitolata Ippolito), la ‘massa di libri’ menzionata in Platone(Resp. 364e). Si tratta dunque di una serie di testi, posti sotto l’autorità delpersonaggio mitico Orfeo: una letteratura (non una chiesa, dunque, né unareligione a sé), che vide la sua più ricca fioritura nell’Atene di Pisistrato (fineVI secolo a.C.), in cui visse e operò Onomacrito, ritenuto autore di opereorfiche, ma anche in Sicilia e in Magna Grecia che ne furono centri disviluppo e di diffusione. La letteratura orfica ha una lunga storia che giungefino alla Tarda Antichità (III-IV sec. d.C.), allorché si assiste ad unareviviscenza di tale tradizione – talora esplicitamente in funzione anticristiana– presso i circoli pagani colti d’ispirazione neoplatonica.

La letteratura orfica veicola un fascio abbastanza unitario e coerente diconcezioni sul divino, sull’umano (oltre che sul cosmico) ben diverse daquelle attestate nell’ambito di una religiosità olimpica (testi omerici edesiodei) ma anche nell’ambito di una religiosità misterica (ad es. Innopseudo-omerico a Demetra).

Si tratta di testi letterari di vario genere accomunati dalla idea chenell’uomo sia presente un’anima intesa di natura, di derivazione e didestinazione divina, protagonista di una vicenda di caduta dal divino a

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seguito di una ‘colpa antecedente’, e destinata a una reintegrazione al divino,a seguito di un doloroso ciclo di metensomatosi espiatorie. Tipicaformulazione di una prospettiva misteriosofica è nel quesito di Euripide citatoda Platone nel Gorgia (492e): “chi sa se la vita è soltanto un morire e lamorte invece vita”? Citazione cui segue immediatamente la frase di un‘saggio’: “Noi ora siamo morti e il nostro corpo è la nostra tomba”.

In tale ribaltamento di prospettiva rispetto al comune sentire di un ambitopoliteistico teso alla proroga e alla garanzia della vita, l’orfismo si pone comeefficace espressione di quella età assiale, ovvero il VI secolo a.C. (per usareuna felice formulazione di Karl Jaspers) che in Occidente vede appunto lasvolta orfica e quella pitagorica e in Oriente la contestazione dell’induismo(religione etnica con contenuti di tipo politeistico pur se volentieriassoggettati a reinterpretazioni monistiche) da parte dell’‘eresia’ buddhista epoco dopo da parte di quella jainista. Tutte espressioni accomunate da unatteggiamento anticosmico, diversamente fondato, che proclama la necessitàdella fuga dal mondo e dal ciclo delle esistenze nel mondo.

Comunque l’antropologia orfica, nel suo essere dualistica, cioè fondatasull’idea di una netta dicotomia fra l’elemento invisibile spirituale, l’anima(psyche), e l’elemento materiale, il corpo (soma), considerato come una sortadi prigione dell’anima, si pone in opposizione rispetto alle comuni concezioniantropologiche proprie dell’ambito della religione ufficiale della polis,secondo le quali l’uomo è un essere mortale, composto da elementi spiritualie materiali, tra i quali tuttavia non sussiste alcuna opposizione. Ogni forma difelicità va perseguita su questa terra giacché dopo la morte attende l’uomosoltanto una forma di sopravvivenza umbratile nel buio regno dell’Ade. Lareligiosità misterica offre all’uomo una migliore prospettiva nell’aldilà maquesta prospettiva non implica in sé l’idea della natura divina dell’anima, nél’idea di una divinizzazione dell’uomo. Infatti, dopo la morte, l’iniziato andrànell’Ade, ma laggiù non starà nelle tenebre, secondo la comune condizionedei morti, poiché godrà – come sopra visto – di una ‘parte’ (aisa) migliorerispetto a quella che spetta ai non iniziati. Nelle fonti posteriori all’Inno aDemetra, la condizione degli iniziati sarà presentata in termini di vicinanza efamiliarità con le figure divine che presiedono al mondo infero, ossia Hades e

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Persefone, nonché di soggiorno beato in boschetti luminosi e ameni. Latradizione orfica si distacca da queste posizioni perché, implicando l’ideadella natura divina dell’anima caduta dal mondo del divino, addita ad essa lavia per ritornare al suo luogo d’origine.

Il rapporto tra orfismo e culti mistici e misterici, e insieme la possibilità diidentificare l’orfismo come una misteriosofia – come sopra detto – apparecon evidenza quando si consideri l’uso che gli Orfici facevano del materialemitico tradizionale, in particolare quello dionisiaco. Esemplare, al riguardo, èuna particolare narrazione mitica, che circolava in ambiente orfico, relativa aDionisio quale soggetto di una drammatica vicenda che viene a fondare laparticolare antropologia dualistica di cui gli orfici erano portatori.

Nel mito in questione, il fanciullo Dioniso, figlio di Zeus e di Persephoneo – secondo una tradizione alternativa – di Demetra (e dunque un Dionisodiverso dal dio tebano dei tiasi, figlio di Zeus e di Semele), viene affidato,quali custodi che dovrebbero proteggerlo dalla gelosia di Hera, la legittimasposa di Zeus, ai Titani. Si ricorderà come queste divinità appartenenti aun’epoca anteriore a quella attuale, siano della stirpe di Cronos e, secondo laTheogonia esiodea, nemici di Zeus e degli dèi olimpici. “L’ambiente orfico,utilizzando varie tradizioni appartenenti al comune contesto religioso greco,le trasforma per adattarle ai propri presupposti ideologici. I Titani, se per unverso sono custodi del bambino Dionisio, per l’altro si comportano inmaniera aggressiva e violenta in conformità al carattere loro attribuito nellaTeogonia. Essi offrono dei giocattoli al fanciullo per distrarlo e l’assalgono,lo fanno a pezzi e – secondo una tradizione attestata fin dal III sec. a.C. maesposta in maniera ampia soltanto in fonti piuttosto tarde – lo sottopongono aun duplice trattamento di cottura, in quando ne fanno bollire e arrostire lecarni. Questa prassi apparentemente assai strana risulta essere l’inversione,che implica una critica e un rifiuto, dell’atto comunitario del sacrificiocruento, rito fondamentale dello scenario religioso greco. I Titanisottopongono il bambino Dionisio ad una prassi che ripete, ma in sensocontrario, le azioni che si compivano durante il sacrificio cruento neiconfronti dell’animale: esso veniva ucciso, una parte delle carni, gli splankna,cioè le interiora (il cuore, il fegato etc.) venivano fatte passare per il fuoco e

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consumante immediatamente tra i partecipanti al rito, mentre il resto dellecarni dell’animale veniva fatto bollire nel calderone. Quindi il mito delladuplice cottura di Dionisio non è un’invenzione strana e gratuita da partedegli orfici ma riflette una ideologia di rifiuto del sacrificio cruento, ora vistocome ‘delitto’.

Ritornando al mito orfico, vediamo come, dopo l’uccisione di Dionisiobambino, Zeus, conosciuto il misfatto, punisce i Titani scagliando contro diloro il suo fulmine. Essi vengono inceneriti e dai fumi delle loro ceneri, comeattesta una fonte tarda (ma varii indizi permettono di risalire almeno fino aPlatone per l’idea di un’origine titanica degli uomini), sarà poi formatal’umanità. Questa ha pertanto in sé una componente dionisiaca perché –ancora narra il mito – i Titani si sono cibati delle carni cucinate di Dionisio;l’umanità che nasce dai fumi delle ceneri dei Titani eredita da costoro,insieme con la loro natura aggressiva e violenta, anche la sostanza dionisiacache essi avevano ingerito. Dionisio da parte sua però rinasce a nuova vita,poiché dal cuore del fanciullo ‘sacrificato’, sottratto da Athena ai suoiuccisori, viene formato un nuovo dio, destinato a regnare sull’ultima etàcosmica.

Da questa complessa narrazione mitica si può dedurre che nell’ambitodell’orfismo sia stato operato un recupero di tematiche dionisiache, mafortemente rielaborate e inserite in un contesto ideologico nuovo. Infatti, tuttoquesto discorso su Dionisio ucciso, sbranato dai Titani, cotto e mangiato,mira ad esprimere precise nozioni antropologiche. Il fine del mito è dimostrare qual è l’origine e la natura dell’uomo: egli è il prodotto di unavicenda drammatica svoltasi a livello divino, la quale ha condizionato alleradici l’esistenza dell’umanità attuale, che risulta contaminata nel nascere dauna ‘colpa’ che però non è umana ma piuttosto divina. I Titani appartengonoad una stirpe primordiale di dèi, quindi la colpa che grava sull’umanità puòessere definita ‘antecedente’; non si tratta infatti di un ‘peccato originale’ allamaniera biblica ma di un’azione colpevole di personaggi divini i cui effetti siriflettono nella costituzione dell’uomo.

Ne risulta nettamente il tema dualistico che sta a fondamentodell’antropologia orfica, una volta che l’attuale condizione dell’uomo è il

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risultato di una causa antecedente considerata come delitto. A questo eventonegativo, tuttavia, si coniuga l’idea di un’origine e di una componente divinadell’uomo: l’uomo possiede una parte dionisiaca, sia pure mescolata a unanatura titanica, a quella titanike physis di cui parla Platone nelle Leggi in unaforma molto allusiva. Il filosofo, infatti, non dice che si tratta di unaconcezione orfica né parla di Dionisio. Ma quando afferma che gli uominiviolenti ed empi, distruttori delle leggi della città, rivelano e imitano l’‘anticanatura titanica’, non è illegittimo dedurne che, da buon conoscitore quale egliera delle tradizioni mistiche, Platone, che spesso fa riferimento a ‘quelliattorno ad Orfeo’, intende alludere al mito orfico che presenta l’umanitàcome il risultato di un dramma divino che contempla un dio ‘in vicenda’, chesubisce morte e poi rinasce a nuova vita.

L’antropologia dualistica degli Orfici, quale viene enunciata in formemitiche nel racconto sopra riferito, si traduceva in una particolare forma diprassi rituale e in un particolare comportamento, implicando in pari tempospecifiche nozioni escatologiche, cioè una dottrina relativa al destinoultraterreno dell’uomo. Essenziale nella prospettiva orfica è, infatti, ladefinizione dei mezzi attraverso i quali l’uomo può salvarsi, cioè ritornare aquella condizione divina dalla quale è caduto, reintegrando nel livello divinouna parte di sé stesso, quella sostanza dionisiaca che era stata assorbita daiTitani. Interviene dunque nell’orfismo una componente etica del tuttospecifica e una prassi rituale che, da parte sua, può essere avvicinata peralcuni aspetti a quella dei misteri e dei culti mistici.

Nell’ambito dell’orfismo, infatti, oltre alle speculazioni antropologiche,teologiche e cosmologiche era presente una dimensione rituale per la qualequesto fenomeno religioso si pone in continuità con i culti misterici e mistici.(...) Di fatto, presso gli Orfici si praticavano quelle che con termine grecovengono chiamate teletai. Il termine teleté (pl. teletai) è usato fin dal V sec.a.C. per indicare dei contesti rituali con connotazioni catartiche moltoaccentuate, ossia con peculiari finalità di ‘purificazione’, e toni entusiastico-orgiastici. (...) In ciò convergono i due elementi, quello speculativo-antropologico e quello cultuale. La prassi rituale mirava infatti a purificarel’uomo, cioè ad operare la separazione dei due elementi, divino e titanico, da

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cui l’uomo attuale risulta costituito.Da alcuni significativi indizi presenti nelle nostre fonti risulta che tali riti

catartici erano finalizzati a purificare l’uomo da quel delitto primordialecompiuto non dall’uomo stesso, ma dai suoi mitici progenitori, i Titani.Contro la prassi rituale di questo tipo in più luoghi delle sue opere Platonepolemizza, essendo ai suoi occhi la purificazione un fatto interiore, dicarattere intellettuale ed etico insieme. Il filosofo respinge la possibilità chepratiche rituali possano permettere all’uomo di purificarsi dalle colpe, siaquella ‘antecedente’ alla vita attuale siano invece quelle compiute dai singoliindividui, e quindi di ottenere una buona sorte nell’aldilà, come promettevanogli Orfici. La buona sorte che questi attendevano evidentemente sarà ilrecupero dell’originaria dimensione divina dell’uomo. Nell’orfismo tuttavia ilraggiungimento di questo fine non era affidato soltanto alle teletai ma siaffermava la necessità di una particolare condotta di vita a carattereastensionistico, implicante il rifiuto delle carni: per ottenere la purità e quindiil ritorno dell’anima alla sua fonte divina era indispensabile evitare dimangiare cibo animale, ossia di una creatura in cui aveva albergato un’animavivente.

Questa prescrizione astensionistica ci riconduce alla sfera del sacrificiocruento, una volta che in Grecia non si mangiavano carni se non quelle dianimali sacrificati; il mangiare carne è un atto legato in manieraimprescindibile al rito sacrificale, sicché rifiutare le carni significa rifiutare ilsacrificio cruento. Si spiega pertanto perché il delitto dei Titani vienepresentato nelle forme di un sacrificio, sia pure di un anti-sacrificio, perché èvisto come un delitto laddove per la polis il sacrificio animale era l’attosupremo di eusebeia, di rispetto e venerazione cultuale prestati agli dei. Pergli Orfici invece l’uccisione degli animali è un delitto (phonos), comechiaramente risulta dal secondo, complementare aspetto dell’antropologiadualistica orfica, ossia la dottrina della metensomatosi. Si afferma cioè chel’anima divina passa attraverso varie forme di vita, per cui se non si èpurificata nel corso di un’esistenza passa attraverso tutti gli esseri viventi,non soltanto uomini ma anche animali. C’è dunque l’idea di una possibilità ditrasmigrazione dell’anima attraverso le diverse specie viventi. Se ne deduce

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allora che il sacrificio cruento è un phonos perché uccide una creatura viventein cui alberga un’anima di natura divina, data la profonda omogeneitàsussistente tra l’essere umano e le altre specie viventi.

Questa nozione è fortemente elaborata in quell’altro ambiente mistico emisteriosofico che è il Pitagorismo, sul quale non possiamo ora soffermarciin dettaglio. Basti però pensare ad un personaggio come Empedocle diAgrigento, il quale appare pienamente inserito in questi scenari dimisterosofia orfico-pitagorica, come risulta dai pochi ma significativiframmenti residui del suo poema, intitolato appunto Katharmoi,‘Purificazioni’. Empedocle proclama tutta la negatività del sacrificio cruento,presentato appunto come delitto, nel quadro di una dottrina dellametempsicosi assai elaborata. Vi si afferma esplicitamente, infatti, l’ideadella possibilità per l’anima di trasmigrare in forme diverse di vita, umane,animali, vegetali, un’anima chiamata da Empedocle, secondo una peculiaretradizione greca, anche daimon, ossia essere divino che, decaduto dallaprimitiva unità per avere obbedito al richiamo di Neikos (la Discordia),attende di ritornare – dopo una serie di vite e di purificazioni – al livellodivino cui appartiene”.[265]

L’antropologia dualistica appare un connotato essenziale delle diverseespressioni che furono proprie dell’orfismo e che trovarono voce in fonti digenere diverso. Se nel mito di Dioniso smembrato dai Titani, come sopraevocato e attestato presso un tardo neoplatonico, Olimpiodoro, ma giàprobabilmente echeggiato in Platone (Leg. III 701 c), vi è, all’internodell’uomo, la contrapposizione tra dionisiaco e titanico ma non l’esplicitaassimilazione del corpo al titanico e dell’anima al dionisiaco, ché anziOlimpiodoro afferma che il corpo è dionisiaco perché i Titani avevanogustato le sarkes (carni) di Dioniso (e che dunque non è lecito il suicidio),altre fonti orfiche si esprimono in termini diversi eppur con parziali analogie.

In una di quelle fondamentali, seppur problematiche, testimonianze dellareligiosità orfica che furono le laminette auree, il defunto afferma di esserenato dalla Terra e dal Cielo stellato e dunque di essere di razza titanica.Altrove sarà esplicita l’assimilazione del corpo (soma) a una tomba (sema)per l’anima di natura divina, ovvero ad un carcere, che talora – però – assume

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le valenze più provvidenziali di una custodia (phrourà).Queste suggestioni antropologiche si collocano all’interno di un quadro di

più ampio respiro che riguarda il cosmo e il suo farsi, entrambi vistipessimisticamente e non ottimisticamente come nella teogonia esiodea. Nonv’è, come nella teogonia esiodea, una uscita dalla indistinzione del caos e unaprogressiva affermazione di quell’ordine al quale presiedono gli deidell’attualità e che, come tale, va mantenuto, ma v’è una deprecata cadutanella distinzione, nella separazione e nella molteplicità del reale a partire daun primordiale concepito come intatto e unitario.

In tal senso si pronuncia – ad esempio – la cosmogonia orfica attestatanelle Argonautiche di Apollonio Rodio (I 496 ss.), per la quale agli iniziterra, mare, cielo erano uniti e successivamente furono separati dalla dolorosaDiscordia. E si pronuncia pure un detto di Museo citato da Diogene Laerzio(Proem.3): “Tutto nasce dall’Uno e tutto nel medesimo si risolve”.

Lo stretto legame tra la vicenda dell’anima divina e la vicenda del Tutto èpoi ben attestato nella visuale di Empedocle, circa la perenne attivitàdell’Amore e della Discordia, rispettivamente tali da aggregare e dadisgregare gli elementi di cui si compone lo Sfero, e la drammatica vicendadei daimones assoggettati a caduta ma destinati a finale reintegrazione aldivino.

Si tratta di un complesso di idee, quelle orfiche sull’anima divina,probabilmente originarie dell’area nord-orientale rispetto alla Grecia, ovverodel mondo trace: Orfeo era detto provenire dalla Tracia e Platone (Carmide156d) parla di medici traci che curavano anche l’anima. Un’area – quellatrace – che come tutta l’Eurasia settentrionale doveva conoscere esperienze ditipo sciamanico, ovvero fondate sulla nozione della separabilità dell’anima, acarico di determinati personaggi. E la tradizione fa riferimento a nomi qualiquelli di Abaris, Ermotimo, Aristea, oltre che di Pitagora. Ma si osservi cometale nozione, quella di ‘anima’ separabile, ancora non identifica la nozioneorfica di ‘anima divina’.

Se tali poterono essere le radici storiche dell’orfismo, ovvero affondare inun ambito trace, sul suolo greco esso dovette esprimere l’insoddisfazione diintellettuali nei confronti delle idee religiose e nello specifico delle idee

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intorno al divino, all’umano e al cosmico, come codificate nei testi omerici edesiodei, e come facenti parte della religiosità ‘ufficiale’. È stata altresìsottolineata, in taluni studi, la carica di contrapposizione, nei confronti dellacultura orale ancora viva, che esprimerebbe l’orfismo nelle sue primestagioni, in quanto ‘letteratura’ che si affida alla scrittura. D’altra parte,l’orfismo dovette conoscere anche una diffusione presso i ceti popolari, a cuidovevano appartenere quei ‘mendicanti’ detti ‘orfeotelesti’ che – secondo latestimonianza platonica – ai ricchi chiedevano denaro promettendopurificazioni. Abbiamo visto essere centrali in ambito orfico le prassipurificatorie, teletai, legate peraltro alla nozione di colpe pregresse, taloraesplicitate come colpe titaniche, ma più spesso genericamente eallusivamente indicate.

Di fatto, l’allusività caratterizza, secondo la magistrale analisi di U.Bianchi, la nozione di colpa antecedente, ovvero di una colpa che precedel’esistenza dell’uomo e di tale esistenza è la causa, distinguendosi, in questesue caratteristiche, dalla nozione di peccato originale, ovvero peccatocommesso alle origini dal primo uomo, come venutasi a definire nellatradizione cristiana.[266] Colpa, quella antecedente – e non peccato, per iltroppo immediato riferimento che quest’ultima nozione ha con l’ambitobiblico –, che oltre ad essere pre-umana appare essere anche pre-cosmica eradicata nel mondo divino o comunque dei principii. Pertanto la nozione dicolpa antecedente non condiziona soltanto una specifica visioneantropologica ma anche visioni cosmologiche, teologiche e ontologiche, lequali vengono a offrirsi come dualistiche. Se alla nozione storico-religiosa didualismo faremo più avanti ampio riferimento, qui basti ricordare come lanozione di colpa antecedente, una colpa causatrice di esistenza, spesso sicaratterizzi, nelle fonti che la esprimono, per una allusività, ottenuta conl’impiego di aggettivi indefiniti, che bene esprime la lontananza prospetticanella quale essa si colloca rispetto a questa vita fenomenica nella qualel’uomo, o talora più precisamente la sua anima divina, si trovano caduti o‘gettati’.

Di aliqua scelera, ad esempio, ovvero di alcune non meglio precisatecolpe, parla, infatti, una testimonianza ciceroniana (Hortensius Fr. 88), ove si

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afferma che, secondo gli antichi vati, “noi siamo nati per pagare il fio dialcune colpe (aliqua scelera) contratte nelle vite precedenti”. Ma già il Fedroplatonico (248c) parlava di un non meglio precisato incidente, ovvero una tissyntychia, come causa della caduta dell’anima dal mondo delle idee al mondodel sensibile.

Tornando alle regole della ‘vita orfica’, orphikos bios, essecomprendevano essenzialmente il rifiuto di ogni uccisione, l’astensione daicibi carnei (e dalle uova), l’orrore per il sangue che macchia gli altari deglidei, la rinuncia ai piaceri sessuali, speciali regole relative al seppellimento,oltre a pratiche purificatorie, sulle quali già sopra si richiamava l’attenzione,tese a separare l’esistenza degli orfici da tutto ciò che è soggetto alla morte ealla corruzione. Con ciò si venivano a rifiutare i valori dello Stato e del suosistema religioso, e anche se non si giungeva a un radicale rifiuto delpoliteismo tradizionale, se ne condannava il principale fondamento rituale, ilsacrificio, e contestualmente quei legami sociali che si venivano a stabilireall’interno della comunità sacrificante, allorché una vittima animale venivasacrificata sull’altare e la sua carne spartita in una cerimonia collettiva.

Quanto agli scritti orfici, attribuiti al mitico personaggio – ritenuto talorapersonaggio vissuto qualche generazione prima di Omero – o ai suoi seguaci,basti qui la menzione di una Catabasi, dei Discorsi sacri, dei Bacchici, deiTestamenti, attribuiti spesso a Onomacrito di Atene, che li avrebbe divulgatiattribuendoli a Orfeo. Come pure opere in esametri dattilici, quali i Litica, suipoteri delle pietre, gli Argonautica, sulla spedizione guidata da Giasone, gliInni, raccolti da un compilatore tardo e di datazione e provenienza assaidiscusse, consistenti in componimenti preceduti da un proemio in cui Orfeoinsegna a suo figlio Museo come bisogna pregare e a quali divinità ènecessario rivolgersi.

La ricerca archeologica ha portato alla luce, alcuni decenni or sono, nuovidocumenti che paiono provenire direttamente da comunità orfiche: si tratta inprimo luogo del papiro di Derveni (località vicina a Salonicco), scoperto nel1962 all’interno di una tomba e contenente ampi frammenti di un commentofilosofico a una teogonia e a una cosmogonia orfiche, compostoprobabilmente prima del 400 a.C.

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Si tratta, inoltre, delle cosiddette ‘tavolette in osso di Olbia’ (città grecasul Mar Nero), scoperte nel 1978, che attestano l’esistenza nel V secolo a.C.di un gruppo di ‘orfici’ e il loro specifico interesse per il dio Dioniso; e,infine, delle nuove ‘laminette orfiche’, come quella di Hipponion (1973), chevengono ad accostarsi a quelle note fin dalla fine dell’800 e ampiamentestudiate. Esse sono piccole e sottili lamelle d’oro, datate tra il V secolo a.C. eil III d.C e provenienti dalla Magna Grecia e dalla Sicilia, oltre che da Creta,dalla Tessaglia e da altre aree periferiche del mondo greco. Ritrovate (per lopiù ripiegate) quasi sempre all’interno di sepolture, vi sono incisi brevi testiin greco, simili tra loro ma non identici, spesso in versi. Vi si descrivel’itinerario che il defunto dovrà percorrere dopo la morte (“c’è sulla destrauna fonte”), indicano le formule che egli dovrà pronunciare nell’aldilà (“sonofiglio della Terra e del Cielo stellato”), e alludono a riti da praticare in vita(“capretto caddi nel latte”). Ma, soprattutto, attestano la dottrina tipicamentemisteriosofica relativa alla caduta dell’anima, di natura e di origine divina,nell’involucro corporeo e nel ciclo delle rinascite, caduta provocata daqualche oscura ‘colpa antecedente’ (“ho pagato la pena per azioni nongiuste”), e alla necessità della purificazione rituale per conseguire, nell’aldilà,la reintegrazione al divino, espressa talora dalla formula “da mortale seidiventato dio”.

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1.5 Culti mistici e misterici di origine orientale

E veniamo ad una disamina dei principali complessi mitico-rituali diorigine orientale, cosmopolitici secondo la denominazione sopra illustrata,che si diffusero nelle terre dell’Occidente circum-mediterraneo in etàellenistica e poi in età imperiale, con una particolare menzione di queicomplessi che videro progressivamente la propria fisionomia ‘mistica’, giàtale da caratterizzarli da tempo remoto nelle rispettive terre d’origine,assumere – anche per una qualche influenza da parte dei misteri greci e inparticolare di quelli eleusini –, connotazioni specificamente misteriche.[267]

Quanto all’età ellenistica, è noto come con il termine ellenismo[268] sidesigni una periodizzazione della storia antica, che principia con la morte diAlessandro Magno (356-323 a.C.), le cui imprese avevano segnato una svoltaepocale nelle vicende politico-culturali del mondo circum-mediterraneo, etermina con la conquista romana dell’Egitto dopo la battaglia di Azio (31a.C.). La complessa fisionomia culturale, e conseguentemente anchereligiosa, di tale arco temporale è segnata dall’incontro e dall’amalgama tral’elemento greco e le diverse tradizioni dei popoli, orientali soprattutto maanche occidentali, che con esso vennero a più diretto contatto. Fondata su unalingua comune, il greco della koinè costituito sulla base del dialetto attico, lacultura ellenistica, e nello specifico la sua facies religiosa, pur nelleineliminabili differenze che caratterizzano le diverse aree da essa interessate,appare segnata dalle caratteristiche del cosmopolitismo e dell’individualismo:in un periodo storico caratterizzato dalla costituzione dell’impero diAlessandro Magno e poi dei regni ellenistici, si assiste ad un ampio travaso diindividui dall’una all’altra regione del Mediterraneo orientale, e con essi –sotto il profilo religioso – di numerosi culti, ovvero complessi mitico-rituali,diffusisi al di là dei rispettivi confini nazionali, e dunque di tipocosmopolitico, secondo la terminologia sopra adottata, cui aderiscono nellenuove terre singoli individui o gruppi di individui sulla base di una scelta.L’assenza di forme di ortodossia nei contesti religiosi interessati, ossia lereligioni etnico-nazionali a struttura politeistica, e insieme la loro omogeneitàsotto tali profili, rese possibile il fenomeno del cosmopolitismo a livello

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religioso, ossia la diffusione di tali culti, gravitanti intorno a singole divinitào a ‘famiglie’ divine. È il caso dei culti di origine orientale che si diffondonoin Grecia e in Occidente ma anche dell’ampia penetrazione in Oriente dellafacies religiosa greca la quale, in misura diversa amalgamandosi osovrapponendosi a quella locale, conferisce alla vita religiosa delle grandicittà orientali di antica o di nuova fondazione un’impronta ellenica più omeno marcata.

Per un verso gli orientali che per varie motivazioni si trasferiscono inGrecia, in Italia e in altre regioni occidentali, portano con sé le loro pratichetradizionali (come, ad esempio, i mercanti egizi che nel IV secolo a.C.ottengono dalle autorità ateniesi il permesso di erigere un tempio,verisimilmente al Pireo, in onore di Iside), mentre, per altro verso, il cittadinogreco (come più tardi quello romano), riconoscendo la legittimità di tali cultistranieri in quanto espressione dell’identità nazionale dei loro portatori e laloro sostanziale omogeneità con le proprie strutture religiose, altrettantopoliteistiche, senza abbandonare le credenze e le pratiche tradizionali del suoambiente può decidere di aderire all’uno o all’altro di tali culti quando ritengadi trovarvi garanzie e soddisfacimento di personali esigenze anche esoprattutto spirituali. E analogamente, nel caso del trasferimento in Oriente digruppi greci, questi vi conducono i propri dèi e i propri culti e in pari tempoprestano omaggio alle divinità locali.

Tuttavia occorre distinguere tra le vicende d’età ellenistica e quelle d’etàimperiale, e per quanto concerne questa almeno fino all’anno 392 d.C. conl’Editto di Teodosio che vieta la pratica del culto pagano. Infatti, se nellaprima età la Grecia continentale e insulare nonché le grandi poleis ellenizzated’Asia e d’Africa risultano protagoniste indiscusse di quella mobilità diindividui, pratiche e idee religiose che andiamo segnalando, in età imperialesi assiste a un mutamento di prospettiva, in quanto esse rivestono un ruolodecisamente marginale mentre Roma diviene il centro di attrazione dei cultidi origine orientale e il centro di propulsione per la loro diffusione nelle terredell’Impero.

Nell’impossibilità di dar qui conto dell’amplissima problematica alriguardo della diffusione dei culti di origine orientale in età ellenistica e poi

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ellenistico-romana in Grecia e successivamente, in maniera ormai ellenizzatae pertanto con valenze nuove ed estranee alla loro originaria facies, tra lepopolazioni dell’Occidente latino, ci limiteremo ad alcuni cenni per quantoconcerne due tra quei complessi mitico-rituali che espressero una maggiorecapacità di diffusione e di penetrazione dapprima nel tessuto religioso greco esuccessivamente nel quadro religioso del mondo imperiale romano.

Si tratta dei complessi mitico-rituali relativi a Cibele e Attis, nonché aIside e Osiride.[269]

La dea Cibele (Kybele, dal monte Kybélon in Asia Minore) aveva inPessinunte uno dei principali centri di culto. Già nel VI secolo a.C. inseritanelle strutture religiose greche, sia in Ionia sia nella madrepatria enell’Occidente ellenizzato, viene introdotta a Roma nel 204 a.C. per iniziativadei pubblici poteri che si rivolgono al re Attalo di Pergamo richiedendonel’immagine aniconica, la pietra nera che sarà ospitata nel santuario eretto perla dea sul Palatino. Protettrice e garante delle fortune dello stato, Cibele vedeaccanto a sé, a partire dall’età ellenistica la presenza, in fonti letterarie,monumentali ed epigrafiche, di un personaggio giovanile, Attis, che, pur inposizione a lei subordinata, appare oggetto di culto. Questo si caratterizza perconnotazioni tipicamente mistiche, nell’accezione in cui usiamo questotermine, ovvero in relazione a complessi mitici-rituali centrati su una figuradivina ‘in vicenda’, ossia protagonista di una serie di eventi drammatici checontemplano disparizione/morte, ritorno/sussistenza nella morte ecelebrazione cultuale di tale vicenda da parte dei fedeli, in profonda sintoniacon i patimenti del dio. Tale è appunto Attis, una personalità divinafortemente e funzionalmente connessa al livello della vegetazionearborescente e florescente.[270] Nel mito che ne narra la morte, questa, purdefinitiva, appare riscattata da una forma di sussistenza (i capelli continuanoa crescere, il dito mignolo a muoversi) che esprime la qualità divina delpersonaggio e la sua funzione di supporto dei ritmi vegetali.

A Roma la dea è oggetto di un culto pubblico a base aristocratica,espresso negli annuali giochi Megalesia e nella processione con bagno dellastatua nelle acque dell’Almo. Gli aspetti frigi del culto, nel periodorepubblicano relegati all’interno del santuario insieme con la figura di Attis e

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i suoi ambigui fedeli, i Galli, sul finire della Repubblica e nei primi annidell’Impero escono per le strade di Roma, oggetto di aspre satire da parte diGiovenale. Per l’intervento di Claudio (41-54) e soprattutto di Antonino Pio(138-161), si istituisce il grande ciclo festivo di marzo (15-27) che celebrapubblicamente la cruenta vicenda di Attis, con le esplosioni di orgiasmotipiche dei riti dei Galli. A partire dal 160 d.C., poi, per l’impero si diffonde ilrito sacrificale metroaco, costituito dal taurobolio (sacrificio di un toro),spesso accompagnato dal criobolio (sacrificio di un ariete). Compiuto per lasalute dell’Imperatore e della sua famiglia da parte di privati e di comunitàcittadine, manifestazione di lealismo politico e religioso insieme, conosceun’evoluzione che lo porta a diventare in prevalenza rito privato, finalizzatoalla purificazione e alla salvezza del fedele che, per esso, può riconoscersi“rinato per l’eternità”.[271] In esso gli ‘ultimi pagani’ della fine del IV secolotroveranno una delle privilegiate espressioni della loro strenua difesa deivalori del paganesimo morente. Per il periodo imperiale è altresì attestata lapratica di misteri di Attis,[272] mentre misteri di Cibele sono attestati in varielocalità del mondo greco fin dal III secolo a.C.

E veniamo a Iside e Osiride.Erodoto (V secolo a.C.), attento indagatore di usi e costumi dei popoli

barbari, registra che “non tutti gli egiziani onorano allo stesso modo gli stessidèi, tranne Iside e Osiride, che dicono essere Dioniso; questi invece tuttisenza distinzione li venerano” (II, 42). Di fatto, nella vita religiosa dell’anticoEgitto il culto isiaco e osirico, in grazia della sua connessione con l’ideologiafaraonica, con le pratiche funerarie e l’escatologia, con la promozione dellafecondità agraria, aveva assunto un ruolo centrale. L’interpretatio greca, giàcon Erodoto,[273] vedeva Osiride come equivalente di Dioniso, sia per le suevalenze ctonie e vegetali sia per i pathe, o sofferenze, che ne qualificano lavicenda mitica e sono evocati nella prassi rituale. Al contempo, Iside èassimilata a Demetra, in grazia del suo legame con la sfera della fecondità.Tuttavia, in età ellenistica, mentre il suo culto si diffonde – fuori dai confiniegizi – sempre più ampiamente in Asia Minore, nelle isole dell’Egeo e nellaGrecia continentale, in Sicilia e in Italia meridionale (se ne ricorderanno leattestazioni ad Ercolano e a Pompei), la dea Iside conosce uno straordinario

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arricchimento degli attributi e delle prerogative, fino a raggiungere ladimensione di divinità panthéa, secondo la definizione di Apuleio,[274]numen unicum venerato sotto nomi diversi presso tutti i popoli.

Documenti privilegiati dell’isismo sono quegli inni o ‘litanie’tradizionalmente definiti aretalogie, attestate epigraficamente nel mondogreco e in documenti letterari, nei quali la dea stessa enuncia i propri poteri(dynameis) ed enumera le proprie benemerenze (aretai), insieme ai beneficilargiti all’umanità, secondo il modello ellenistico dell’euretès, inventore delleprincipali istituzioni e benefattore (euergètes), prerogative riconosciute a dèiquale Dioniso, a eroi quale Eracle, nonché a condottieri e sovrani che in virtùdi quelle assurgono al rango eroico e divino e sono fatti oggetto di culto. Lecaratteristiche di dea ormai di respiro universale, signora dell’universo nellasua dimensione cosmica e umana, reggitrice del destino astrale, oHeirmarméne – forza oscura e tirannica che si imponeva all’uomo di etàellenistica ed imperiale –, ne motivano il favore eccezionale di cui ha godutoil suo culto. In esso l’individuo ritiene di trovare risposta al bisogno digaranzie personali, per la vita presente e per quella futura. Fondamentale, alriguardo, appare già il ruolo che la dea assolve, secondo l’antica ideologiaegiziana, all’interno della struttura mitico-rituale che la vede associata con losposo Osiride, il figlio Horo e le altre divinità del ciclo osirico (Seth, Anubi,Nefti), e della quale testimone appare Plutarco nel suo de Iside et Osiride.L’autore greco, che ne riporta per esteso il mito (relativo alla morte dellosposo Osiride, allo smembramento del suo corpo e alla dolorosa ricerca daparte della dea dello stesso, con l’esito finale che vede Osiride vivere nelmondo infero come sovrano dei morti), risulta altresì testimone dellafisionomia del culto quale era venuta assumendo nel I-II secolo d.C.: egliinfatti dichiara che la dea, dopo aver riportato vittoria su Tifone/Seth, “non sirassegnò a che le lotte e i travagli che aveva sopportati e il suo proprio vagabondaggio e le molte opere di sapienza, e le tante gesta di valore andassero,per così dire, perdute, accettando che l’oblio e il silenzio le avvolgessero, ma,congiungendo a santissime cerimonie immagini e sensi nascosti erappresentazioni di quelle vicende di un tempo trascorso, consacrò uninsegnamento di pietà e un motivo di consolazione per uomini e donne

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oppressi da simili sventure”.[275] “La vicenda divina, che contemplasofferenza e morte ma anche soluzione positiva nella ‘rianimazione’ diOsiride che recupera la propria sovranità, sia pure nel regno dei morti, èdiventata allo sguardo di un greco, consapevole di esperienze religiose tipichedei culti greci a carattere misterico, un modello esemplare per l’uomo attualeche in essa, tradotta in termini rituali (le teletai), può trovare materia disperanza per un parallelo superamento delle difficoltà e dei patimenti dellapropria esistenza. Si apre qui una prospettiva di primario interesse storico-religioso. Se, infatti, nell’antica tradizione egiziana i riti osirici a caratterefunerario assicuravano al morto una buona sorte nell’aldilà, la partecipazionedel fedele al culto del dio non implicava il carattere iniziatico peculiare di unculto misterico. Sebbene Erodoto, venuto a parlare dei riti di Osiride, siatrattenuto dallo scrupolo religioso di rivelarne i contenuti in quanto relativi aduna vicenda luttuosa analoga a quella che in Grecia rientrava nell’orizzontedei misteri, sì da poter definire tali i ‘patimenti’ (pathe) del dio egizianoevocati ritualmente nelle cerimonie di Sais (Storie II,170, 1-171,1), tutta ladocumentazione esclude la legittimità di tale definizione per i riti osirici, inquanto essi non contemplavano la componente iniziatica ed esoterica. Talecomponente è assunta dal culto isiaco in età tardo-ellenistica e se Plutarco neltesto citato verisimilmente allude ad essa, Apuleio nel libro XI delleMetamorfosi ce ne offre la più completa ed espressiva testimonianza. Senzapoterla analizzare in dettaglio, basti notare che essa contempla, dopo unaserie di pratiche astensionistiche e catartiche, l’esperienza coinvolgente di undiretto contatto con la divinità, in un quadro di dimensioni cosmiche, el’assunzione da parte dell’iniziato di connotazioni solari, espresse nella sacraveste con cui è abbigliato e offerto alla venerazione dei fedeli, la quale evocauno scenario astrale. La dea cui attengono i misteri promette al fedelesuccesso e benessere per la vita presente e, nella sua qualità di “regina deidefunti”, un soggiorno beato nel regno infero, in cui egli godrà della visioneluminosa di lei, splendente fra le “tenebre dell’Acheronte” (Metamorfosi XI,6). Se lo scenario misterico, che contempla anche riti segreti del “grandeOsiride”, sembra modellato sullo schema eleusino e comunque èun’acquisizione tarda nell’ambito del culto isiaco, rimane peculiare di questo,

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riflesso della situazione religiosa del tempo, il rapporto di totale devozione ededizione che la partecipazione ai riti iniziatici impone all’uomo. Il Lucio diApuleio, in cambio della protezione divina che ha saputo spezzare i legamidella cieca Fortuna e lo ha introdotto nei segreti del culto, deve promettere adIside la propria esistenza. L’‘intero corso’ della sua vita dovrà essere votatoalla dea configurandosi un legame di ‘religione personale’ (...) che, senzapoter esser definito in termini di ‘conversione’ in quanto persiste neglischemi di una devozione per una divinità particolare all’interno di un quadropoliteistico (...), tuttavia esprime un’esperienza religiosa assai diversa, perintensità e qualità dell’impegno personale, rispetto a quella vissuta nelletradizionali pratiche dei culti pubblici nazionali e, a quanto pare, anche neglistessi misteri di età classica. La partecipazione a questi ultimi, infatti, puressendo frutto di una personale scelta, non implicava l’adesione ad unacomunità né l’assunzione di particolari regole di condotta sicché l’esperienzadi familiarità con gli dèi titolari dei misteri restava circoscritta all’ambitocultuale”.[276]

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1.5.1 Gli ‘dei in vicenda’Le due esemplificazioni sopra addotte, relative ai complessi mitico-rituali

di Cibele e Attis e di Iside e Osiride, intendono introdurre una riflessione –sempre pertinente al tema del politeismo come categoria o tipologia storica, edei politeismi come storicamente espressisi nelle regioni circum-mediterraneein età antica e tardoantica – in merito ad un particolare tipo di divinità, ilcosiddetto ‘dio in vicenda’, che fu al centro di culti misterici greci come imisteri eleusini e di larga parte dei culti di origine orientale nella lorodiffusione in Occidente, e che costituisce un ‘tipo’ divino di fondamentaleinteresse storico-religioso, al centro di un ampio dibattito scientifico.

Con l’espressione ‘culti orientali’ (preferibile a quella di religioniorientali),[277] o meglio ‘culti di origine orientale’ si fa riferimento – comeabbiamo visto – a una serie di complessi mitico-rituali relativi a divinitàoriginarie dell’Egitto e del Vicino Oriente Antico, che si diffondono inmomenti diversi e con diseguale esito e successo nel mondo ellenistico eparticolarmente, poi, in quello ellenistico-romano.[278]

Taluni di questi culti di origine orientale, in data più o meno antica aseconda dei casi, hanno potuto assumere, nel corso della loro diffusione inOccidente, connotazioni misteriche, in particolare il culto metroaco e quelloisiaco-osirico, ai quali abbiamo fatto sopra particolare riferimento. Ove taliculti abbiano sviluppato una facies misterica, questo comporta che essi sonovenuti ad assumere quella componente esoterica e iniziatica che definisce latipologia dei misteri (mystéria), attestati in Grecia almeno a partire dalla finedel VII sec. a.C. ad Eleusi. Si tratta di culti che impongono ai partecipanti unaprevia abilitazione rituale, l’iniziazione, per poter essere ammessi alla lorocelebrazione e contestualmente il divieto di rivelarne i contenuti a quanti nonne abbiano fatta esperienza diretta. In più gli assicurano, come nel casoeleusino, una sorte più garantita rispetto a quella del non iniziatonell’oltretomba.

Nei rispettivi paesi d’origine, tali culti non conoscono una dimensionemisterica ma solo una fisionomia ‘mistica’, quando essi gravitavano attorno apersonalità divine per molti aspetti affini alle divinità mistiche greche, sia per

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le loro connessioni agrarie e ctonie sia per essere coinvolte in vicendedrammatiche di presenza/assenza, sofferenza/gioia, vita/morte. Nel contattocon il mondo greco alcuni complessi mitico-rituali di origine orientale e diaspetto ‘mistico’ assunsero la dimensione esoterica ed iniziatica, ossiamisterica, che venne poi a caratterizzarne la successiva storia e che peraltromai eliminò definitivamente la loro dimensione pubblica, non esoterico-iniziatica.

È stato osservato negli studi come tale trasformazione coincida con iprofondi mutamenti sociali e spirituali dell’ellenismo e dell’età imperiale,quando si fa sempre più forte l’esigenza di un contatto diretto con il livellodivino e al contempo – cadute le barriere nazionali e sfaldatisi i legami tral’individuo e la comunità cittadina d’appartenenza – di nuove forme diaggregazione, come dimostrano le innumerevoli associazioni di tipo socio-economico, professionale e religioso che si diffondono in questo periodo(synodoi, thíasoi, eranoi). La partecipazione a un culto esoterico-iniziaticosoddisfa l’esigenza di una personale ed intensa esperienza religiosa modulatasull’esemplare vicenda divina che viene evocata ritualmente e attualizzata, sìda offrire al fedele la “buona speranza” di poter ottenere anch’egli beneficioltre che per la vita presente anche per quella futura.

Avremo modo più avanti di illustrare una celebre formula addotta da untardo polemista cristiano, Firmico Materno, nel contesto della sua descrizionedi riti, verisimilmente misterici, a carattere luttuoso celebrati in onore di undio non identificato (Attis o più probabilmente Osiride). Tale formula,recitata in greco a conferma di come ancora in questo scorcio del IV secolod.C. la lingua sacra di tanti culti di mistero risentisse dell’influsso ellenico,esprime in maniera emblematica le attese e le emozioni vissute all’interno diuna prassi cultuale misterica, ed insieme la tipica fisionomia che interviene acaratterizzare gli ‘dei’ al centro di tali prassi misteriche.

Prima, tuttavia, ricordiamo che, se taluni culti di origine orientaleassumono sul modello greco la fisionomia esoterica e iniziatica, nel periodoellenistico e poi romano i misteri greci di antica data, quali quelli di Eleusi edi Samotracia, si mantengono vitali e attraggono a sé fedeli delle più diversenazionalità. Uomini politici e personalità della Roma repubblicana, quali Silla

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e Cicerone, e, più tardi, vari imperatori giungono ad Eleusi per celebrarviquel culto misterico che, secondo la suggestiva definizione di Cicerone,[279]ha permesso all’uomo, tratto dalla vita ferina alla civiltà, di ‘conoscere ifondamentali principi dell’esistenza’ avendo appreso ‘non solo le ragioni pervivere lietamente ma anche per morire con una migliore speranza’.

Cadute le riserve e le ostilità manifestatesi contro di loro nel periodorepubblicano (si pensi all’affare dei Baccanali), in età imperiale i culti diorigine orientale conoscono una grande diffusione e vengono a coesistere coni culti ufficiali. I più diffusi, come abbiamo sopra visto, furono quello diCibele ed Attis, di origine traco-frigia, i culti egizi e in particolare di Iside eOsiride, quello di Serapide che non conosceva connotazioni mistiche e maiassunse caratteri misterici, al pari dei principali culti siriaci e commagenicicome quello di Giove Dolicheno e quello di Giove Eliopolitano; il culto diMithra che si diffuse a Roma dalla fine del I secolo d.C. con specifiche edesclusive connotazioni misteriche.

Nel mondo romano si diffondono anche altri culti di origine orientale,come quello di Sabazio, già noto ad Atene nel IV sec. a.C., culto di carattereorgiastico e mistico, e forse anche misterico (in questa direzione sembrapotersi interpretare in particolare la formula ‘Fuggii il male, trovai il meglio’,Έφυγον κακόν, έυρον άμεινον, attestata da Demostene, de corona 259-60); ilculto di Ma-Bellona di origine anatolica e di tipo orgiastico, introdotto daSilla a Roma in occasione della guerra contro Mitridate; il culto di Adonis(solo problematicamente evoluto in senso misterico) e quello della Dea Syriadalla Siria.

Detti culti sembravano venire incontro a bisogni sempre più forti di una‘fede’ non più limitata all’ambito cittadino o regionale, ma tale daaccomunare gli uomini di ogni nazione e rango sociale e da venire incontroalle attese di quelli in quanto individui e non tanto in quanto membri di unaspecifica entità cittadina o statuale. Rispondevano dunque a esigenze diffusedi universalismo e al contempo di personalismo. Infatti, la partecipazione adessi si fonda sulla libera scelta dell’individuo che, senza venir meno ai cultiufficiali, e per il cittadino romano – in particolare – al culto capitolino e piùtardi a quello imperiale, decide di aderire ad essi. Con il loro diffondersi si

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assiste all’affermarsi di una forma di quella che è stata definita come‘religiosità personale’,[280] più sentita e compartecipata rispetto a quelladelle divinità tradizionali dei pantheon greco e romano. Al loro centroappaiono divinità più sollecite nel rispondere ai bisogni dei singoli uomini,diremmo alle attese di salute e di salvezza, tanto in questa vita come dopo lamorte.

In particolare, se divinità di origine siriaca e commagenica come GioveDolicheno e Giove Eliopolitano, che nell’appellativo fanno riferimentodiretto alla loro terra d’origine, saranno invocati per una bona salusd’interesse intracosmico, intesa come ‘salute’ e non come salvezzaoltremondana, divinità come Iside e Osiride, Mithra, Cibele e Attis offrirannouna salute mondana ed anche una forma di salvezza oltremondana, volta pervolta da qualificare nelle sue specificità.

Orbene, all’interno delle figure divine che sono al centro dei tanticomplessi mitico-rituali di origine orientale, diffusisi a partire dalle rispettiveterre d’origine, in età ellenistica e poi imperiale in Grecia e nelle diverseregioni dell’Occidente, la indagine storico-comparativa ha individuato estudiato una categoria particolare di figure divine, dei e dee, che offronoprofonde affinità con altre figure divine vuoi del mondo greco già arcaicovuoi del mondo mesopotamico, sumerico e poi accadico, e che la stessaindagine denomina quali ‘dei in vicenda’.

Si tratta di divinità singole, come Mithra, ma più spesso in coppia, comeIside e Osiride, Cibele e Attis, Afrodite e Adonis, Demetra e Persefone, Ishtar(o Inanna) e Dumuzi (o Tammuz), delle quali i miti narrano (con l’eccezionedi Mithra) vicende caratterizzate da profonde crisi ed eventi luttuosi, cuisegue una soluzione positiva degli stessi, mentre i riti, evocandone e inqualche modo attualizzandone le vicende dolorose e gli sbocchi positivi,offrono al fedele che vi partecipi in forme fortemente simpatetiche lasperanza di una altrettanto felice soluzione dei propri dolorosi casiesistenziali. I complessi mitico-rituali con al centro tali figure divine ‘invicenda’ si connotano, secondo la terminologia in altro luogo illustrata, comemistici e possono conoscere – ma non sempre conoscono – una evoluzione insenso misterico, a partire da una ‘preistoria’ mistica, quali culti di fecondità,

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che già, con l’eccezione del culto mitriaco, li caratterizzava nella loro terrad’origine e in parte continua a caratterizzarli nella loro diffusione nelle terredell’impero. Nel momento in cui tali complessi mitico-rituali assumono unavalenza misterica, vengono a garantire ai loro fedeli che partecipano ad unrituale iniziatico ed esoterico una salvezza che, seppur diversamenteconfigurantesi e talora – peraltro – problematicamente attestata, puòriguardare la condizione dell’iniziato nel post mortem.

Occorrerà a questo punto ricordare che oggi la ricerca storico-religiosanon accetta la terminologia ‘dei morenti e risorgenti’ (dying and rising gods),la cui fortuna risale agli studi di J. George Frazer, e in particolare al suo TheGolden Bough, Il ramo d’oro, né l’interpretazione che tale terminologiaveicola dei dati mitici e rituali relativi a queste figure sovrumane.

Si preferisce, nell’ambito di studi che fanno riferimento alla lineainterpretativa di U. Bianchi, utilizzare la formula ‘dei in vicenda’ o ‘deipatibili’. Ma anche la tipologia in tal modo definita, come già la più anticacategoria frazeriana del dying god, ‘dio morente’ o del dying and rising god,‘dio morente e risorgente’ o ‘dio morto e risorto’, viene in studi recenticontestata.[281] E questo, al pari di quelle categorie con le quali il tipo del‘dio in vicenda’ appare profondamente legato, ovvero le categorie del‘mistico’ e del ‘misterico’, come formalizzate in studi e convegni scientifici,a partire dagli anni ’70 -’80, quali categorie da applicare alle tradizionireligiose d’area mediterranea e vicino-orientale in età antica e tardoantica.Tali tipologie – si afferma talora – risulterebbero schemi astratti che nonsalvaguarderebbero la dinamicità della storia e l’originalità dei vari contestireligiosi che tali tipi vorrebbero designare. La questione meriterebbe unapprofondimento che esula dagli intenti di queste pagine. Basterà qui solo unaccenno.

Effettivamente i culti mistici e quelli misterici, nonché le figuresovrumane al loro centro, gli ‘dei in vicenda’, hanno costituito, per la lorolunga presenza nel contesto storico del Mediterraneo e del Vicino Oriente, intaluni casi dal VII secolo a.C. alla fine del ‘paganesimo’, e per la vastitàdell’area geografica interessata, un privilegiato banco di prova dell’indaginestorico-comparativa. Ma non solo di quella. Infatti, nell’ambito degli studi di

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carattere fenomenologico, M. Eliade, per fare un solo nome, nella sua operaNaissances Mystiques (Paris 1959) studia le iniziazioni ai misteri al pari delleiniziazioni di diverso tipo (tribali, alle società segrete, sciamaniche, etc.) allaricerca delle strutture ricorrenti al di sotto delle varianti e le individua in unpattern o modello unitario, che consisterebbe nel loro esprimere e significareuna nuova nascita dell’individuo. A. Van Gennep, dal canto suo, studia irituali iniziatici come specifiche modalità di quella categoria che a lui deve lapropria formalizzazione, ovvero la categoria dei ‘riti di passaggio’. Approcci,tuttavia, questi segnalati, i quali, a giudizio dello storico delle religioni nontengono adeguatamente conto di questioni storiche di origini, sviluppo,trasformazioni, contestualizzazioni, influssi reciproci.

A questioni di tipo squisitamente storico sono stati sensibili invece,seppur con modalità diverse, gli studi di storici delle religioni quali A.Brelich e U. Bianchi. Del primo basterà qui ricordare come egli si interroghisulle origini delle iniziazioni misteriche greche e valorizzi la analogia traqueste e le iniziazioni puberali dei gruppi tribali, chiedendosi se questaanalogia non possa attestare una sopravvivenza nelle civiltà superiori delmondo antico, quale appunto la greca, di forme iniziatiche ‘primitive’,accolte nelle culture superiori che ne avrebbero tuttavia modificato lafunzione; nel caso specifico, da una funzione originaria – attestata presso leculture primitive – quale quella di inserire a pieno titolo l’iniziato nel gruppodegli adulti, alla funzione di garantire all’iniziato benessere e ‘salute’ inquesta come nell’altra vita. Una funzione quest’ultima, peraltro, a sua volta inparziale continuità con la funzione, pure connessa alle iniziazioni tribali, digarantire protezione all’iniziato una volta inserito nel gruppo tribale.

Alle attuali culture etnologiche, nella ricerca delle possibili origini dellefigure divine al centro di culti misterici, quali la Kore-Persephone eleusina, oOsiride, guardano anche quegli studi che sono tesi a ricondurre tali figure apersonaggi del tipo dei dema, vale a dire personaggi mitici maschili ofemminili attestati presso popolazioni a livello etnologico, come quelle dellaMelanesia studiate da A.E. Jensen agli inizi del XX secolo.

Si tratta – nel caso delle figure definite nei linguaggi locali dema – dipersonaggi dei quali i miti narrano come venissero messi a morte

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violentemente e smembrati, e come dai loro resti sepolti traessero origine lepiante alimentari necessarie alla sussistenza dei gruppi umani. Si ritiene, intali studi, che l’ambito mediterraneo preistorico e prepoliteistico (oltre cheprecerealicolo, e dunque tale da conoscere solo forme di coltivazione delsuolo più rudimentali rispetto alle forme agricole) dovette conoscere figure dital tipo, le quali vengono appunto valorizzate nel momento in cui si studia la‘ierogenesi’, o processo di formazione storica (diversa dalla nozione di‘ierofania’, propria – come visto – di approcci fenomenologici), di elementimitico-rituali presenti nel politeismo greco e nei politeismi del mondomediterraneo antico. Un altro approccio, teso a reagire a questa impostazioneche cerca gli antecedenti degli ‘dei morenti’, dying gods, nelle figure definitedema, appare piuttosto propenso a individuare precise situazioni storiche cheavrebbero prodotto all’interno dei contesti politeistici i personaggi del tipodying gods: tale, ad esempio, risulterebbe l’accoglienza in ambito politeisticodell’istituto regale e la conseguente aporia provocata dalla circostanza che unuomo di rango divino, il sovrano, e nello specifico il faraone in ambitoegizio, dovesse ugualmente subire la sorte degli altri uomini e noncondividere invece l’immortalità divina.

Altri studi, quali quelli di U. Bianchi, ritengono che occorra inveceesplorare i legami del tema mitico della presenza / assenza di figure divinetipicamente ‘in vicenda’, quali, in ambito greco, la Kore-Persephone eleusina,con miti del Vicino Oriente antico relativi a figure analoghe a quella, comeInanna/ Ishtar. Una parola su questa.

La sumerica Inanna, in termini assiro-babilonesi Ishtar, nellaMesopotamia dei millenni II e I avanti Cristo, costituisce, insieme al paredroDumuzi (Tammuz in termini assiro-babilonesi), una tipica coppia di figuresovrumane ‘in vicenda’.

Mentre la dea tutela la fecondità della natura, l’eroe suo compagno,secondo il mito che li riguarda, è connesso con la sfera della vegetazione ecoinvolto in una dolora vicenda di morte. Nel poema mesopotamicodenominato Epopea di Gilgamesh, uno dei più importanti testi mitici dellaletteratura accadica, l’eroe Gilgamesh, leggendario re di Uruk, rifiuta lenozze con la dea ricordando la sorte luttuosa occorsa ai di lei amanti, tra i

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quali il pastore Dumuzi, dalla dea costretto a soggiornare negli inferi in luogodella dea stessa (“A Dumuzi, l’amante della tua giovinezza / anno per annohai destinato la lamentazione”, recita il testo in questione). I dati offerti ancheda altri testi, relativi al mito della discesa di Ishtar agli inferi, pur nellaproblematicità legata alla frammentarietà delle redazioni e all’oscurità ditaluni particolari mitici, consentono tuttavia di dedurre come il sacrificio diDumuzi – dato agli inferi a riscatto della dea – ottenga il ripristino dellafecondità del suolo, tutelata dalla dea.

La vicenda luttuosa che vede protagonista il giovane viene annualmentecelebrata all’interno di riti tesi a promuovere e garantire per un ulteriore annola fecondità del territorio e l’abbondanza dei beni agricoli. Si tratta di ritiluttuosi di cui è traccia anche nel testo biblico. Ivi, infatti (Ezechiele 8,14), ilprofeta ebraico del VI sec. a.C. condanna le lamentazioni funebri perTammuz che le donne elevano presso la porta settentrionale del tempio diGerusalemme.

I riti tammuzici nel mondo mesopotamico, pertanto, interessano lacollettività (dei vivi e dei defunti) e non il singolo individuo – a differenza deiriti misterici – se si esclude la persona del re che interviene nel rito ma non inquanto individuo singolo bensì in quanto rappresentante della collettività. Inessi, il giovane paredro della dea è rappresentato come tale da ritornareannualmente per coniugarsi con la dea della fecondità (un coniugio sacroespresso dal re, che assume le veci di Tammuz, e dalla sacerdotessa della dea,a sua volta rappresentante di questa) e poi di nuovo allontanarsi verso l’altromondo. La cerimonia si conclude con le lamentazioni per la dipartita delgiovane Dumuzi.

Tali rituali, secondo le tipologie sopra illustrate, sono di aspetto ‘mistico’e non misterico. Infatti, essi hanno carattere pubblico e non esoterico-iniziatico e sono tipici culti di fecondità, tesi a rinnovare anno per anno leenergie vitali del territorio. Anche i morti – sembra di poter dedurre dalletestimonianze – ottenevano dei benefici dalla celebrazione del rito. Ma, anchequesta loro forma di partecipazione, piuttosto che esprimere una prospettivasoteriologica individuale, ne esprime la appartenenza alla collettivitàterritoriale. La soteriologia implicata da questi culti si presenta come una

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attesa di benessere e di abbondanza di beni per la collettività. Al contempo, ilgenio della fecondità, Dumuzi / Tammuz, coinvolto in questi riti e oggettodei miti, sia in versione sumerica come in versione accadica, si confermasecondo le tipiche coordinate del ‘dio in vicenda’, ovvero di figura divina, etalora, piuttosto, figura sovrumana, coinvolta in una dolorosa vicenda dipresenza e assenza, lontananza e ritorno, vita e morte, narrata nel mito erievocata nel rito. Anche la dea conosce nel mito una vicenda di crisi e disoluzione definitiva della crisi, ed esprime, in questa sua vicenda, diversa daquella del paredro, la tipica caratteristica delle figure femminili attiveall’interno di tali coppie, figure femminili che, pur toccate dalla dolorosavicenda del compagno, godono tuttavia di una maggiore stabilità come puredi una maggiore ‘attività’.

Tali coordinate – quelle proprie della figura del ‘dio in vicenda’ del tipoDumuzi/Tammuz – delineano anche le vicende mitico-rituali di altripersonaggi sovrumani del mondo vicino-orientale e poi greco, quali – adesempio – la figura di Adonis a cui ora dedicheremo qualche breve cenno.

Adonis, che il mito vuole figlio di Myrra e del re di Cipro e dunque‘semidio’ o, come a lui ci si riferisce nell’idillio teocriteo sotto citato ‘unicotra i semidei’, è amato da Persephone e da Afrodite e muore colpito da uncinghiale.[282] Più ricca sotto il profilo mitico-rituale è la testimonianza diTeocrito di Siracusa (IV-III sec.a.C.) nell’Idillio XV, che descrive il culto diAdonis ad Alessandria. Tale culto, che si celebra annualmente, vede il diocome ‘tornante’ al fine delle necessità dello stesso culto, teso alla promozionedella fertilità e della fecondità; lo vede poi coniugarsi con la dea Afrodite e,alla fine delle celebrazioni, ‘ritornare’ in un mondo altro, rappresentato dalmare verso cui si allontana la processione che accompagna tra lelamentazioni funebri il simulacro del dio, su di una lettiga, nell’attesa chel’anno successivo il dio di nuovo torni per poi ancora allontanarsi, dopo averpropiziato con il suo ritorno e le sue nozze – nell’ambito del rito – l’efficaciadel ciclo stagionale, e ciò senza soluzione finale.

Nell’Epitafio (o ‘canto funebre’) di Adonis dello Ps. Bione, ovvero di unseguace del poeta di Smirne del I sec.a.C., è espresso il lamento di Afroditeper il ‘bel morto’, ossia Adonis, e l’invito da parte del poeta ad Afrodite

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stessa perché cessi il suo pianto per il presente anno sullo sposo morto, dalmomento che dovrà piangere di nuovo l’anno successivo. Anche questa fonteconiuga il dato mitico (la morte di Adonis come conclusione della suavicenda) al dato rituale (il riproporsi anno dopo anno di un rituale funebre chevede Adonis tornare, essere oggetto dell’amore della dea e di nuovoriallontanarsi verso quella sfera del mondo dei morti cui egli continua adappartenere). L’amato di Afrodite, in sostanza, non è protagonista, maoggetto intransitivo di una ripetitività rituale che Ovidio poté ben definire‘immagine replicata di morte’ (repetita mortis imago).

Un’ultima fonte importante al riguardo dell’antico complesso mitico-rituale relativo ad Adonis è l’opera di Luciano di Samosata, in Siria (IIsec.d.C.), de Syria dea, ove l’autore afferma di aver visitato il tempio diAfrodite (Astarte) a Byblos, luogo di celebrazione annuale di rituali in onoredi Adonis, all’interno dei quali vi è l’affermazione rituale che ‘Adonis è vivonell’Ade’. Questa sua caratteristica, quella di conservare una forma disussistenza nell’Ade, costituisce la base per la possibilità che il rito lo celebricome annualmente ritornante, nel contesto di un culto teso al rinnovo annualedella fecondità.

Queste pur rapide considerazioni in merito a tipiche figure di ‘dei invicenda’ ci aiutano a comprendere quanto fosse inadeguata l’espressione ‘deimorenti e risorgenti’ o ‘morti e risorti’ in relazione alle figure maschili ‘invicenda’ al centro dei complessi mitico-rituali di cui è stata fino ad oraparola, e al centro di altri complessi mitico-rituali a questi fortementeomologhi.

Innanzitutto, le coppie che compaiono al centro di tali complessi miticorituali, con l’esclusione della coppia costituita da Demetra e Persephone, sonocostituite già nella loro terra d’origine da una divinità femminile (Iside inEgitto, Cibele in Anatolia, Afrodite in Siria, Inanna presso i Sumeri, Ishtar aBabilonia) associata ai temi della vita e della fecondità, e da una entità divinao sovrumana maschile, spesso concepita come inferiore alla prima, e ancheessa legata al mondo della fecondità, ma piuttosto nel suo aspetto ciclico:Osiride in Egitto, Attis in Anatolia, Adonis in Siria, Dumuzi presso i Sumeri,Tammuz a Babilonia.

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Gli studi, oggi, di fatto, sono più attenti ad una distinzione tra il livello delmito e il livello del rito inerenti a tali figure, come pure alla diacronia chesegna la evoluzione dei complessi mitico-rituali in questione. Per esempio,altra è la Iside a cui ‘guarda’ Erodoto, altra quella a cui ‘guarda’ Apuleio.Altro il Dumuzi sumerico rispetto al Tammuz assiro-babilonese.

A livello del mito che li riguarda, vanno fatte delle adeguate distinzioni:infatti, il mito o non parla di morte ma di trasferimento, come nel caso diPersephone, che non ‘ritorna a vivere’ perché non è mai morta, ma è statasoltanto trasferita da un regno cosmico all’altro, non ha attraversato la portadella morte ma è come scivolata sotto alla sua soglia e alterna il suosoggiorno agli inferi – soggiorno finalizzato al suo ruolo di sposa di Ade e diregina degli inferi – con il suo ritorno presso gli dei olimpi; o – sempre ilmito – assegna a tali figure divine ‘in vicenda’ una fine portandole a moriremiseramente e non parla di un ritorno alla vita, anche se contiene indizi infavore di un loro non essere annientati dalla morte, ovvero cenni di una loronon completa estinzione. Adonis, per esempio, è concepito nel mito, e inqualche modo anche nel rito, come morto, e infatti è significativamentevenerato dalle donne come ‘il bel morto’, colui che pur nella morte vede lapropria bellezza intatta e dunque non toccata dalla putrefazione; ad Attis purmorto, ma non toccato dalla putrefazione, i capelli – secondo il mito –continuano a crescere e il dito mignolo a muoversi; Osiride, secondo il mito,espresso esemplarmente da Plutarco nel de Iside et Osiride, ‘vive’nell’altretomba di cui è sovrano. In taluni casi, poi, ovvero quelli diPersephone e di Adonis, già il mito parla di una loro alternante presenza-assenza tra gli dei e nel mondo infero. Invece, l’alternante presenza, tra i vividurante la celebrazione rituale, e assenza, in un mondo altro, cuiappartengono per la maggior parte dell’anno, caratterizza solitamente lacelebrazione rituale e non già la narrazione mitica. Nei casi sopra riferiti, diPersephone e Adonis, ove l’alternante presenza assenza tra i vivi e nel regnodei morti appartiene già al livello del mito, il mito stesso in qualche modosembra anticipare e preparare la ripetitività del rito.

Della formula cara a una passata stagione di studi, ovvero ‘morte eresurrezione’, se il secondo elemento va cancellato, giacché non si dà

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resurrezione intesa come trionfo definitivo della vita sulla morte né nel mitoné nel rito, il primo – la morte – va sfumato. Proprio perché il mito lipresenta, come visto, morti, tranne Persefone, ma non completamenteannientati, il rito, di tipo mistico eventualmente in taluni casi divenutomisterico, ammette una loro capacità ritornante, celebrata periodicamente, manon una definitiva resurrezione; capacità ritornante che è però quanto bastaad assicurare il rinnovamento della vita – nei culti mistici – e le buone sortidell’iniziato – ove tali riti abbiano conosciuto una evoluzione in sensomisterico.

Adonis, Tammuz e gli altri personaggi maschili sopra evocati, se è veroche per un verso subiscono un destino tipicamente umano, per altro versoquesto loro destino è anche tipicamente sovrumano, dal momento che essisono capaci di promuovere annualmente la vita, con i loro rituali nuziali eorgiastici.

In relazione a personaggi sovrumani tipicamente ‘in vicenda’come Attis oAdonis, è stato detto che[283] “la loro assenza più che la loro presenza, licaratterizza; è più il tempo che essi, dei morenti ma anche morti, passanolaggiù che non quassù; essi ritornano per le necessità del rito stagionale, etornati si coniugano, così almeno Adonis ad Alessandria, con la dea di ognifecondità, e la loro morte – repetita mortis imago (Ovid. Met. X 726) – èaccompagnata non dalla constatazione di un ritorno a breve termine, chechiuda definitivamente il ciclo, ma da un rasserenante annunzio (...), che ècertezza che Adonis e Attis esistono ancora in qualche parte, e non hannocessato la loro tornante funzione (...)”.

Va registrato che talora i loro culti, come quello di Attis nel mondoromano, registrano manifestazioni di gioia dopo quelle luttuose eaccompagnate da cerimonie cruente come la castrazione, e così anche ritualiosirici che celebravano il gioioso ritrovamento del dio dopo la crudeleuccisione e spartizione del suo corpo ad opera del maligno Seth, e insieme ilsuo ritorno in vita da concepirsi come consacrazione quale re dei morti,ovvero di coloro che vivono in una dimensione particolare. E a unaalternanza di lamenti e di manifestazioni gioiose fa riferimento latestimonianza di Firmico Materno su di un rituale misterico notturno alla

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quale faremo più avanti riferimento. Tuttavia la tonalità generale di questiculti rimane sempre tipicamente funebre, come risulta anche da immaginiscolpite su antichi sarcofagi.

Ove i culti, centrati intorno a un dio ‘in vicenda’, culti mistici secondo ladefinizione in altro luogo illustrata, conoscano un’evoluzione in sensomisterico (evoluzione che peraltro non caratterizza tutti questi culti o – peralcuni di essi – solo problematicamente, e comunque non ne elimina lecelebrazioni pubbliche, non esoterico-iniziatiche), il rito assicura all’iniziato(e non più alla collettività, come nei culti di fecondità, mistici, secondo lanostra terminologia) anche una buona sorte nell’al di là; buona sortediversamente configurantesi, ma comunque modulata in analogia con lavicenda del dio, il quale, appunto, non conosce il completo annientamento mauna qualche soluzione positiva – variamente espressa – delle proprie dolorosevicende, seppur non una resurrezione definitiva.

Anche il rapporto stretto che tali figure divine o sovrumane ‘in vicenda’hanno con il ciclo stagionale e il rinnovamento della natura è fortemente oggiridimensionato negli studi. Quel rapporto, già nelle antiche testimonianze diinterpreti e polemisti cristiani, e poi nella storia degli studi, era riconosciutocome esaustivo del significato di quelle figure, così che personaggi come unAttis o un Adonis erano visti come immagine della vegetazione che,rispettivamente, matura o appena fiorente, era sopraffatta dalle forzemortifere della stagione avanzante. In sostanza, il riferimento alla vicendastagionale e al rinnovamento della natura che, secondo gli studi che facevanoriferimento alla categoria dei dying and rising gods sarebbe stato primario perla comprensione del significato di tali figure sovrumane, è oggi fortementeridimensionato giacché si riconosce che il riferimento naturistico è soltantouna delle loro caratteristiche e forse talora neppure la principale.

Pertanto, se per le ragioni sopra addotte, il modello del dio morente erisorgente, o morto e risorto, non appare fondato in base alla documentazionepertinente a tali figure divine o sovrumane, non appaiono ricevibili neppurele contestazioni da più parti sollevate che ritengono impossibile delineare unatipologia, quella non più certo del dio morto e risorto, o morente e risorgente,ma piuttosto quella del ‘dio in vicenda’, secondo la descrizione offerta.

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Tali contestazioni di fatto negano che tali figure divine possanorispondere a un modello o tipo unitario. Si viene però in tal modo adimenticare come il tipo del ‘dio in vicenda’, come sopra delineato, non siaun tipo ‘univoco’, ma sia piuttosto un tipo ‘analogo’, come analoghe sono lecategorie che la storia delle religioni individua e studia; una analogia chericonosce le affinità – le quali esistono nella documentazione che li riguarda esono tali da poter comunque differenziare queste figure divine ‘in vicenda’dalle figure stabili, ‘olimpicamente’ stabili, sia dell’antico pantheon greco siadei mondi religiosi vicino orientali –, ma anche le profonde differenze,ovvero le specificità a livello mitico e a livello rituale che caratterizzano lediverse figure in questione ove siano comparate tra di loro; ma caratterizzanoanche – affinità e differenze – le diverse attestazioni documentarie relativealle diverse fasi della ‘storia’ di una singola figura divina ‘in vicenda’, nelsuo migrare lungo le strade del mondo circum-mediterraneo e vicino-orientale in età antica e tardoantica.

Le osservazioni che abbiamo svolto in merito al tipo del ‘dio in vicenda’ vorrebbero ancheservire per rendere ragione – per il tramite dell’esempio addotto – delle differenze che intercorronotra la prospettiva storico-comparativa propria della storia delle religioni e una tipica prospettivafenomenologica quale quella propria di M. Eliade, come sopra riferita. “Prendiamo una figura diestremo interesse nel campo della storia delle religioni, una figura tipica nelle religionimesopotamiche: quel dio o semidio o genio della fertilità, come vogliamo chiamarlo, che èTammuz, oggetto di pianto rituale (perfino da parte delle donne di Gerusalemme, come denunziacon disapprovazione il profeta Ezechiele): un personaggio, Tammuz, legato a una tematicafunebre, una figura patetica, di cui ogni anno si celebravano gli eventi, lieti per un verso, dolorosiper l’altro; quel Tammuz che si coniugava con la grande dea della fecondità e che poi spariva giùnell’Ade accompagnato da canti di lutto e di lamentazione. Nella vicenda e nel destino di unpersonaggio di tale genere si possono studiare il pathos e la caratteriologia che lo identificano.Sorge però un problema: andiamo noi – in sede di storia delle religioni – ad indagare questa figura,a ‘scoprire’ questa figura, come se essa avesse una sua presupposta consistenza a parte rei, o nellamente umana, una consistenza che si tratta solamente di scoprire? Indulgeremo noi a una posizionedi tipo fenomenologico, notevolmente psicologistica, quasi che esistesse nella mente umana, chissàda quale epoca e chissà con quale universalità, un archetipo del ‘dio morente’? Si tratta forse di‘scoprire’ questo ‘dio morente’ e la struttura mitica – il ‘mitologema’ o il tema mitico – che lodefinisce, e di far cadere tutte le scaglie che possono rendercelo meno sconosciuto, questa specie distatua vivente, questo personaggio che già esiste oggettivamente e che si deve solo scoprire ericostruire? Evidentemente non è questa la situazione, in sede di ricerca positiva. La ricercastorico-comparativa deve ricostruire tale personaggio, anzi lo deve ‘costruire’; cioè gli deve dareun senso storico-religioso, quello che risulta dall’indagine storico-comparativa; quindi lo deveindagare senza ammettere che esso sia un a priori al di qua o al di là di tutte le varianti storiche che

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lo concernono, le quali sono spesso irriducibili tra loro e rispetto ad una non attestata immagine‘complessiva’. Evidentemente, questo non è il discorso filosofico; qui non si intende parlare delproblema dell’esistenza oggettiva, a parte rei, di Dio, del divino, o degli dei, indagabile su basefilosofica o teologica. Qui non si tratta di ciò; perciò, anche se mi occupo – in sede di storia dellereligioni – dell’idea monoteistica di Dio, dovrò comparare i dati, e non dedurli da ciò che a meappaia – anche con buone ragioni teoretiche – implicito in un concetto di monoteismo; e ciò aprescindere dall’esistenza a parte rei del Dio unico”.[284]

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1.5.2 Un caso particolare: Mithra e mitraismo in età imperialeLa ricerca storico-comparativa indirizzata alle figure divine al centro dei

culti di origine orientale che si diffusero nelle terre dell’Occidente consentedi illuminare la specifica e peculiare fisionomia di quel particolare ‘dio invicenda’ che fu Mithra e al contempo gli aspetti di specificità di quelparticolare culto di origine orientale che fu il mitraismo, diffusosi nei dominiromani tra la fine del I sec. d.C. e il IV sec.d.C.

In primo luogo, il culto mitriaco è il solo a non avere dietro di sé, nellaterra d’origine, l’Iran, e poi nella sua diffusione in Occidente, una fase in cuisi connoti come culto mistico, ovvero è il solo ad offrire, nelle terredell’Impero, unicamente una facies misterica. Si tratta di un culto che,rispetto agli altri di cui qui è parola, maggiormente offre, pur nell’innegabilecontinuità, differenze di contenuto e di struttura rispetto al proprio contestonazionale. Il culto del dio iranico Mithra, dopo un periodo oscuro di‘incubazione’ durato secoli nei quali elementi di antica tradizione iranicaandavano fondendosi con apporti anatolici e greci, verisimilmente all’internodi cerchie iraniche ellenizzate dell’Asia Minore, esplose verso la fine del Isecolo d.C. in una forma misterica, ossia iniziatica ed esoterica, diffondendosinegli ambienti cittadini e negli accampamenti militari disseminati perl’Impero. Aperto ai soli uomini, privo di una dimensione pubblica e tuttoconchiuso nella cerchia degli iniziati, celebrato all’interno degli oscuri spélea(‘grotte’), figure del vasto cosmo, il mitraismo propose una complessaideologia di ispirazione cosmosofica e insieme un’etica severa, di impegnoattivo nella vita sociale sull’esempio del ‘dio invitto’, Mithra, al centro deimisteri. Senza aver mai assunto la dimensione ufficiale di culto pubblico, ilmitraismo seppe così coagulare larga parte delle istanze religiose ed etichedelle classi militari e degli alti funzionari dell’apparato statale, al punto dapoter offrire in momenti di profonda crisi supporto alla identità politico-religiosa della Roma pagana, come attesta la proclamazione da parte deiTetrarchi a Carnuntum nel 307 d.C. del Sol Invictus Mithra quale protettoredel loro imperium.[285]

In secondo luogo, il mitraismo è il solo a non offrire la figura di un dio

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patetico quali sono invece i dei cosiddetti ‘morenti e risorgenti’, ma meglio‘dei in vicenda’, ovvero quegli dei che conoscevano nel mito o una definitivasorte nell’Ade o una alternante presenza nel mondo infero e nel mondodivino, e nel rito una annualmente rinnovantesi capacità tornante. Alriguardo, se da taluni[286] si contesta la assimilabilità di una figura divinacome quella di Mithra al tipo del ‘dio in vicenda’, da altri, come U. Bianchi,si afferma che per identificare il tipo del dio in vicenda basta che si dia unavicenda mitica che contempli la nozione di una crisi o di un pathos profondo,assenti nelle vicende delle divinità di tipo ‘olimpico’, e un contesto rituale nelquale i fedeli, celebrando la vicenda del dio, la sentano come efficace perl’uomo e le sue attese. E tale sarebbe anche il caso del complesso mitico-rituale mitriaco.

Infatti, Mithra, spesso definito nelle fonti come ‘invitto’, è protagonista diuna vicenda mitica che non conosce sparizioni, sconfitte, ‘morti’, ma chetuttavia matura attraverso prove, fatiche, difficoltà. In particolare, la ricerca,la cattura e poi l’uccisione del toro, o tauroctonia, viene a essere l’attofondamentale della vicenda mitica di Mithra e il principale tema iconograficoche interviene sulle pareti dei mitrei, atto fondatore e promotore di vita (comein Iran il sacrificio del toro primordiale da cui derivano i vegetali e glianimali o in India la soppressione del personaggio primordiale che si opponeal fluire della vita cosmica e ne impedisce il funzionamento), atto capace dicontrastare le forze mortificatrici e corruttrici (in Iran le forze demoniacheahrimaniche).

Alla tauroctonia si riferisce la fondamentale prospettiva soteriologicaespressa nella nota iscrizione (del III sec.d.C.) presente nel mitreo di S. Priscaa Roma: Et nos servasti aeternali sanguine fuso (‘E, versato il sangue eterno,ci hai salvato’).

Se per tale formula si è potuto parlare di una possibile influenza cristiana,si tratta di una prospettiva ben specifica, e ben diversa da prospettive disalvezza d’ambito cristiano: si tratta infatti di una salute collettiva e cosmica,ove il sangue eterno è il sangue del toro ucciso nei primordi da Mithra perpromuovere la vita del cosmo. Il perfetto servasti, da servare, salvare, èimportante. Gli iniziati di Santa Prisca non si aspettano una salute futura,

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eventualmente in prospettiva escatologica, ma riconoscono che il dio li hasalvati tutti e definitivamente, vale a dire ha salvato tutta la creazione buona,di una positività che appare erede diretta di quella propria della creazioneohrmazdica in ambito iranico. È una salvezza bio-cosmica, erede diretta delvitalismo iranico. Ad essa si univa, nelle attese dei fedeli, una salvezza intesasempre come salvaguardia della vita ma in riferimento al singolo individuo oal singolo imperatore o alla famiglia imperiale.

Tuttavia, a tale prospettiva costituita da una salvezza intramondana, nellesue diverse forme, si unisce un’altra prospettiva, espressa da rilievi edecorazioni che mostrano Mithra ascendere al cielo in unione col Sole, versoquell’alto a cui gli iniziati sperano di poter giungere dopo la morte, dopo averpercorso un cammino ascensionale attraverso le sette sfere che porta allaottava, quella delle stelle fisse.

Tale è la prospettiva attestata nella testimonianza di Celso.[287] Questa,dunque, ci mette di fronte a una tematica di ascesa delle anime, all’interno diun cosmo, non concepito come carcere ma come scala, che l’anima deveappunto salire, per poter accedere ad un livello di aeternitas, al cielo dellestelle fisse cui immette l’ottava porta menzionata nel testo di Celso. Unavisione, questa, che è misteriosofica, se vogliamo usare una terminologia inaltro luogo illustrata, ma, per così dire, di una misteriosofia dimidiata, perchénon è attestato il tema della discesa o caduta delle anime, ma solo quello dellasalita. O, meglio ancora, si tratta di una visione cosmosofica, nella quale ilcosmo non va condannato ma promosso (secondo la tipica prospettivairanico-zoroastriana), e al contempo trasceso.

Utile è qui il riferimento al Documento finale del ColloquioInternazionale sul mitraismo tenutosi a Roma nel 1978. Tale Documento cosìsi esprime: “Il mitraismo è una religione di tipo ‘mistico’, a struttura‘misterica’, fondata su un dio ‘in vicenda’, sebbene non concepito come‘morente’ ma come invictus, che fonda per l’uomo una prospettivasoteriologica intra- ed extra- mondana, espressa con una simbologia nonpriva di connessioni con la tematica della fertilità, all’interno di una strutturainiziatica celebrantesi in santuari appositi sulla base del principio esoterico.Ma questa struttura misterica si effonde in una prospettiva ‘misteriosofica’

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fondata sull’idea di una vicenda dell’anima, all’interno di un cosmo nonconcepito come ‘carcere’ ma come ‘scala’ che l’anima deve percorrere esuperare, oltrepassando le sette sfere celesti per avere accesso a queltrascendente livello di aeternitas (le ‘stelle fisse’) cui immette l’ottava portamenzionata nel noto testo di Celso. Si tratta quindi di una tutta specialemisteriosofia, non anticosmica, ma al contrario ‘cosmosofica’, cioèimplicante una visione misteriosofica positiva del cosmo stesso, sebbene,come in ogni specie di misteriosofia, nel contesto di una vicenda o storiadell’anima. La maniera di vivere del mitriasta si dispiega in questo mondo,che a sua volta è situato in rapporto a un altro mondo, cosicché il mitraismo,senza essere un culto pubblico né ufficiale, e senza essere in continuità congli antichi culti naturistici (Osiride, Attis, etc.) che evolvettero verso ilmisticismo, poté paradossalmente esercitare una funzione pubblica eufficiale, ponendo in atto una simpatia reciproca con il potere imperiale e conil culto ufficiale del Sole”.[288]

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1.5.3 Misteri e salvezza. Studio di un caso: il ‘dio salvato’ (Firm. Mat. de err. prof. rel. 22,1-3)

Dopo F. Cumont e le sue opere Les religiones orientales dans lepaganisme romain (Paris 1929²) e Lux perpetua (Paris 1949), è invalsal’abitudine di considerare i culti di origine orientale (denominazionepreferibile a quella di ‘religioni orientali’), quali quelli di Cibele, Iside,Mithra, Adonis e degli dei siriaci, come ‘religioni di salvezza’ e taleespressione, appunto ‘religioni di salvezza’, si è largamente diffusa, ma si èvenuta intendendo tale salvezza in maniera non adeguata, e cioè o in sensocristiano, come redenzione dalla colpa originaria e dalle colpe attuali, dunquesalvezza di tipo etico come affrancamento dal peccato e libertà di operare ilbene. O in senso orfico-platonico, e più generalmente misteriosofico, comeliberazione dal mondo e dal corpo. In realtà, un’analisi delle prospettivesalvifiche offerte dai singoli culti consente di differenziarle da attese disalvezza proprie dell’ambito cristiano come pure proprie delle concezionimisteriosofiche, anticosmiche e antisomatiche, ma anche dalle prospettivesoteriologiche proprie dei culti civici. Al contempo, occorre cogliere accantoalle continuità anche le discontinuità che le prospettive soteriologiche offertedai singoli culti di origine orientale offrono tra di loro. Per esempio, specificasarà la nozione di salvezza espressa da accenni di Apuleio nelle Metamorfosi,che parlano in favore di un affrancamento dal Fato per l’iniziato ai misteri diIside, ove la salvezza allora si identifica con lo sfuggire alle influenzecostringenti delle potenze astrali e della Heimarmene; e specifica sarà lanozione di salvezza in ambito mitriaco, rivelando il mitraismo anche sottoquesto aspetto l’indubbia specificità – sopra ricordata – nel più ampiopanorama dei culti di origine orientale diffusi nell’Impero. In sostanzavariano, nei diversi culti di origine orientale, le concezioni di salus, nonché imodi per conseguirla, e questo avviene non solo tra i diversi culti ma ancheall’interno di uno stesso culto, quando questo presenta un livello essoterico opubblico (eventualmente di tipo mistico, ossia fortemente partecipativo) e unlivello esoterico-iniziatico o misterico. In sostanza, lo studio dei culti diorigine orientale diffusisi in Occidente e nello specifico delle loro rispettive

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attese soteriologiche si rivela un buon banco di prova di un’indagine storico-comparativa tesa a illuminare le differenze non meno che le affinità e a dareper quanto possibile una ragione storica delle une come delle altre.

A esemplificazione di una prospettiva soteriologica come offerta da unculto misterico, e al contempo della specifica facies di un dio ‘in vicenda’ alcentro di un culto misterico, si farà ora brevemente riferimento allatestimonianza di Firmico Materno, contenuta nell’opera de erroreprofanarum religionum (22, 1-3), in merito ad un rituale notturno celebratointorno ad un ‘dio anonimo’.

L’opera dell’apologista cristiano, scritta tra il 343 e il 346, è indirizzataagli imperatori Costante e Costanzo II perché prendano provvedimenti per ildefinitivo abbandono ufficiale dei culti pagani. Da taluni l’opera di Firmico,caratterizzata più da vis polemica che da approfondimento teologico, è statadefinita come espressione di una battaglia di retroguardia, giacché nel 341 uneditto, non dovunque applicato, proscriveva ‘la superstizione e la follia deisacrifici pagani’. Lo stesso Firmico era stato un pagano dagli interessiastrologici intrisi di neoplatonismo (si ricorderà la sua opera Mathesis). I cultiorientali occupano nel de errore profanarum religionum una parteconsiderevole e l’opera risulta uno strumento utilissimo per tanteinformazioni su di essi.[289]

La testimonianza che consideriamo descrive un rituale notturno in cuivengono operate certe manipolazioni sulla statua di un dio innominato: lastatua giacente e forse divisa in parti viene ricomposta e innalzata. Il cultonon è nominato perché doveva essere ben noto e vivo. Gli studiosi sono statia lungo divisi sull’attribuzione del culto in questione a Attis o Osiride maanche ad Adonis. L’attribuzione ad Attis[290] riposa sul fatto che Damascio,autore neoplatonico del VI secolo, riferendo un sogno da lui avuto a Ierapoli,in Frigia, nel quale si vide diventato Attis e onorato dalla Madre degli dei(Cibele) nella festa degli Hilaria, afferma: “questo sogno mostrava che noieravamo salvati dall’Ade”.[291] Ma diversi studiosi hanno osservato cometra i due contesti, quello di Firmico e quello di Damascio, non vi sia unaanalogia dimostrativa, salvo il verbo ‘salvare’, applicato peraltro nellaformula di Firmico ai dolori (‘salvare dai dolori’) e nel testo di Damascio

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all’Ade (‘salvare dall’Ade’); in particolare, poi, nel testo di Damascio non c’èuna liturgia notturna comparabile con quella descritta da Firmico.[292]Fuorviante è dunque la comparazione con il testo di Damascio, soprariportato, ove la menzione dell’Ade sembra fare riferimento a una prospettivagià misteriosofica, quale quella che è propria delle rielaborazioni in sensoorfico, e nella nostra terminologia misteriosofico, dei misteri, ad esempio deimisteri eleusini, allorché la vita nell’al di qua è già vista come un Adetenebroso e fangoso per chi non ha fede nei beni di là.[293]

A un’identificazione del dio innominato con Osiride pensano, tra gli altri,F. Cumont, MJ. Lagrange, M.P. Nillsonn, R. Turcan, che anni or sono curòuna importante edizione critica dell’opera in questione.[294] L’attribuzionedel rituale descritto da Firmico a un contesto osirico riposa in particolare sulfatto che il ricomporre le membra di pietra d’una statua sparse – a cui ci siriferisce nella testimonianza – potrebbe richiamare il mito di Osiridesmembrato e ricomposto, mito trasmessoci nella sua interezza dal de Iside etOsiride di Plutarco. È così parso potersi dare una dimostrazione convincentedi come il rituale descritto da Firmico si debba ritenere un rituale osirico.[295] Veniamo alla testimonianza di Firmico.

Il testo descrive una liturgia notturna compiuta su un idolum, ovvero unastatua, simulacrum, di un dio innominato, giacente su una lettiga, lectica,statua forse divisa in parti e ricomposta, poi innalzata (corrigis). Le diversefasi del rituale sono descritte per esteso (totus ordo dicendus est). Quando ifedeli sono sazi dei pianti e delle lamentazioni notturne compiute sopra lastatua, viene introdotto un lume e successivamente il celebrante unge a tutti lefauces, la gola, e mormora la formula rituale, σύμβολον o σύνθημα, in linguagreca: “Abbiate fiducia (o: rallegratevi, gioite), o iniziati (misti) del diosalvato (o: essendo stato salvato il dio): ci sarà infatti per noi salvezza daidolori” (Θαρρεῖτε, μύσται τοῦ θεοῦ σεσωσμένου. Ἔσται γὰρ ἡμῖν ἐκ πόνωνσωτηρία).[296]

Dal testo di questa formula e dal commento di Firmico che la segue sideduce come la conclusione del rito dovesse essere festosa e piena di gioia.Essa è preparata dalla lunga e spossante fase del pianto, dalla fase intermediadell’unzione delle fauces, e dal silenzio con cui tutti i fedeli attendono le

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parole che il sacerdote a bassa voce, con grande solennità e in greco (linguadi particolare importanza sacrale), va pronunciando.

Le manipolazioni operate sulla statua alludono in qualche modo a unpassaggio da morte a vita e certamente la dialettica morte/vita è sottesa alrituale e all’impianto argomentativo del polemista, ma il problema è tentareuna interpretazione corretta di tale dialettica in relazione a questo specificocontesto. Per determinare il tipo di salvezza offerto da un culto è importantestudiare il carattere del dio a cui quel culto è dedicato, e il carattere del dio losi evince, per questa età e per questi contesti, dai miti e dai riti che al dio siriferiscono. Certamente si deve subito dire che, stante la probabileidentificazione del dio anonimo con Osiride (ma anche in caso di altreidentificazioni), si tratta di una figura divina, quella cui il rituale si riferisce,che non conosce, come sopra si è visto, a livello mitico-rituale il motivo diuna definitiva resurrezione; pertanto, anche le prospettive che si aprono aidevoti non sono da immaginare nei termini di una resurrezione, ed essi nonsono salvati dalla morte bensì nella morte.[297] La formula in greco riportatada Firmico non ha in alcun luogo l’equivalente. A lungo la critica si èesercitata nell’interpretazione di tale formula, sia per il tramite dellacomparazione con altre formule liturgiche, solo per qualche aspetto similari,sia inserendola nel più ampio contesto rituale che la ospita. Interessante mafuorviante la comparazione[298] della formula liturgica riportata da Firmicoe in particolare del motivo della salvezza dell’iniziato dai dolori con i Versiaurei pitagorici (che parlano di una salvezza dell’anima dai dolori),[299] conriferimento ad un contesto misteriosofico che pertanto è altro e diversorispetto al contesto misterico cui fa riferimento la cerimonia descritta.

Invece, illuminante appare la comparazione con un’altra testimonianzasicuramente riferibile ai rituali osirici, come noti a Plutarco agli inizi del IIsecolo d.C. Si tratta del capitolo 27 del de Iside et Osiride, già sopraricordato, testo di pochi decenni anteriore alla testimonianza di Apuleio nelleMetamorfosi relativa al culto già misterico di Iside. Infatti, accanto a un’Isideal centro di rituali pubblici, percorreva le vie dell’impero anche un’Isidemisterica, diversa, nelle sue prerogative, dall’Iside degli antichi testi dellepiramidi e delle più recenti, ellenistiche ed ellenistico-romane, aretalogie

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isiache. Decisivi, comunque, nello sviluppo di un culto misterico isiacodovettero essere specifiche caratteristiche, che già le antiche versioni del mitoalla dea riconoscevano (lei “che aveva reso immortale il grande Osiride”,come si esprime un papiro, doveva essere ritenuta capace di esaudire lesperanze escatologiche dei suoi devoti), e l’influsso esercitato dai misterieleusini, a sua volta favorito dalla identificazione da remota data (si vedaErodoto) di Iside con Demetra.

Il testo plutarcheo narra come, dopo le drammatiche vicende connessecon la scomparsa e il ritrovamento dello sposo e dopo aver sconfittol’opposizione di Seth, Iside istituisse specifici riti, affinché non fosserodimenticate le fatiche e le lotte che aveva dovuto superare durante le sueperegrinazioni alla ricerca di Osiride e affinché non cadessero nell’oblio lemolte opere di saggezza e di coraggio che essa aveva promosso: Iside“consacrò, inserendoli in rituali (teletai) santissimi, figure, simboli eimitaziazioni dei dolori (pathemata) di allora, affinché fossero diinsegnamento e insieme di consolazione per coloro, uomini e donne, che sitrovassero presi in simili dolorosi casi (symphorai)”. Si tratta dunque di unrituale dove si rappresentano le drammatiche vicende sofferte dalla coppiadivina che corrispondono ad altrettante prove di coraggio e di saggezza daparte di Iside.

Questo testo rivela quali fossero, nell’idea di Plutarco e dei suoicontemporanei, le finalità del culto misterico di Iside e Osiride: il ritualedrammatico rappresenta e rievoca le vicende occorse ai due dei per essere diinsegnamento e di consolazione per tutti coloro che vi si accostasseroall’interno dei rituali, ma non ancora, esplicitamente, come invece nel testo diFirmico, che è del IV secolo, di salvezza.

I pathemata dei due dei, da un lato, diventano per Iside altrettante provedi coraggio e di saggezza e come tali possono risultare di insegnamento pergli uomini, mentre, dall’altro lato, rimanendo tali, cioè casi dolorosi, offronoqualche somiglianza con i dolori degli uomini. Nel rituale istituito dalla deagli uomini partecipano ai casi dolorosi dei due dei e al contempo vedonocoinvolti anche i propri casi dolorosi e li vedono ‘medicati’, ossia fattioggetto di insegnamento e di consolazione.

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La tipica interferenza tra i piani divino e umano propria dei rituali misticie misterici si realizza qui sul piano dei fatti (i dolori attraversati da dei –quegli specifici dei che sono sopra stati definiti ‘in vicenda’- e da uomini, nelsenso che dei e uomini sono toccati da dolorosi casi), sul piano dei sentimentie degli atteggiamenti (la dea intende far partecipare gli uomini dei sentimentie degli atteggiamenti sperimentati da lei, negativi e poi positivi; vale a diredel lutto e del dolore, ma anche del coraggio, della saggezza e dellaconsolazione) e sul piano degli effetti (lieta soluzione della vicenda di Iside eOsiride e, sperata, lieta soluzione dei casi dolorosi degli uomini).

Quale soluzione per gli uomini? Si osservi, con U. Bianchi, che ha fattooggetto questo testo di una fine analisi storico-religiosa, come nel testo‘uomini e donne’ non sia mera espressione totalizzante per indicare ‘tutti’, maindichi la possibilità da parte di uomini e donne di essere raggiunti nellapropria individua personalità, essendo la differenziazione sessuale ciò che dipiù profondo caratterizza l’individuo. All’individuo la dea garantisce unasalvezza che si può ritenere configurarsi nei seguenti termini: non salva, ladea, dal grande Destino, la macchina dell’universo, come poteva accadere perl’Iside pubblica, capace di sciogliere dai vincoli dell’Heimarmene; e neppuredai singoli e frammentari casi dell’esistenza (naufragi, malattie, rovesci difortuna etc.) come i tanti dèi ‘salvatori’ del pantheon greco e poi romano; masalva da un destino doloroso che è insieme universale e personale: il destinodi morte. L’iniziato può sperare di oltrepassare indenne la soglia della morteper raggiungere un Elisio infero, ove brillano le luci della dea.

Ne avremmo conferma in un altro testo riferibile sicuramente a ritualiisiaci ormai sicuramente misterici, vale a dire le Metamorfosi di Apuleio(XI,6), ove è la descrizione, in termini significativi anche se allusivi e oscuri,della prospettiva aperta all’iniziato la quale consisterebbe in un beatosoggiorno nel regno infero ove egli potrà godere di un rapporto di familiaritàcon la dea, espresso dalla possibilità di contemplare il suo fulgore cheillumina le tenebre dell’Acheronte. Una prospettiva analoga, sotto questoaspetto, a quella eleusina, e tale da ignorare ogni concezione relativaall’immortalità dell’anima o a divinizzazioni di sorta. Un analogo modulointerpretativo delle prospettive aperte all’iniziato sembra proporsi in relazione

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anche al testo di Firmico sopra commentato, a cui ora torniamo.Innanzitutto, i ponoi (dolori, prove) ivi menzionati possono essere visti in

parallelo ai pathemata sopportati da Iside e Osiride nel testo di Plutarco soprariferito e alle symphorai (casi dolorosi) sopportati dagli uomini nello stessotesto plutarcheo. Se nel testo di Plutarco il rituale offre consolazione rispettoalle symphorai, qui, nel testo di Firmico, si annuncia la salvezza dai ponoi.

Se la salvezza è la liberazione dai ponoi il problema è come interpretarequesti ponoi. Riteniamo l’interpretazione di Bianchi la più pertinente earticolata: “l’uso assoluto, generico sia di ponoi che di soteria assicura chenon si tratta di qualunque dolore, male o incidente che possa capitare a questoo quell’uomo, ma del dolore per eccellenza, del male intrinseco all’esistenzaumana, e che non si tratta di qualunque salvezza (liberazione dalleconseguenze di una malattia, di un naufragio, etc.), ma di una salvezza daquell’universale dolore che si celebra nell’intimo di ogni individuo, nell’orain cui la morte lo identifica in maniera incancellabile. Ebbene questa salvezzaconcerne l’iniziato così come, prima, concerne il dio, alla cui vicenda siriferisce il rito nelle diverse fasi del suo svolgimento: dal che risulta ilparallelismo tra le due situazioni, divina, del dio mistico, e umana,dell’uomo, anzi dell’iniziato, e insieme risulta la compartecipazione non solosul piano dei fatti e degli effetti (vicenda e scioglimento della medesima) tracose divine e umane, ma anche sul piano dei sentimenti e degli stati d’animo,manifestati da lutto e gioia. D’altra parte, dato il contesto in cui figural’espressione ‘soteria dai ponoi’, contesto che riguarda la sepoltura d’un dio,che viene pianto e poi viene tratto fuori dalla sepoltura (idolum sepelis,idolum plangis, idolum de sepoltura proferis, commenta Firmico), ci si puòchiedere quanto il tema della morte concerna, oltre che il dio, anche i fedeli,gli iniziati; quanto, più in generale, sia coinvolto il tema della umanamortalità. Se in questo senso si deve pensare, si potrà allora ritenere che iponoi in questione, i dolori dell’umana esistenza, concernano anche e forseanzitutto il destino di morte. In questo caso, la soteria dai ponoi sarebbe, inun senso o nell’altro, salvezza relativa al fatto della morte, cioè, in definitiva,prospettiva di buona sorte oltre la morte, qualcosa di analogo alle buonesperanze di cui si parla nei testi relativi al culto di Eleusi, con la novità che

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questa volta sarebbe coinvolto il senso stesso di ‘salvezza’, e di ‘salvezza da’,termini e concetti che invece non compaiono quando si tratta di Eleusi. Labuona sorte promessa agli iniziati di Eleusi non implica una ‘salvezza da’:implica piuttosto un privilegio riservato all’iniziato, pur nel comune destinodi morte, che concerne sia l’iniziato che il non iniziato. Naturalmente ladifferenza tra i due destini resta immensa: mentre il non iniziato,attraversando la soglia della morte, verrà spogliato di tutto, e resterà pura emisera ombra, l’iniziato passerà per così dire sotto la soglia della morte, nonsubirà alcun danno dal passaggio, non dovrà nulla a quei terribili portinai odoganieri, anzi si avvierà verso la sede della regina degli Inferi, che gli saràbenevola, e verso una specie di Elisio sotterraneo riservato agli iniziati. Ilconcetto che il non iniziato venga anche punito per una sua impurità connessaalla mancanza di iniziazione comincia a farsi strada in epoca successiva,quando il modulo orfico e misteriosofico della purezza dell’anima si infiltranella visuale dei misteri eleusini (...). Il caso della salvezza dai dolori di cui siparla nel testo di Firmico può (...) dirsi in certo modo intermedio tra quellache sembra essere la posizione eleusina originaria e quelle che sono leevoluzioni in senso orfico-platonico. Cioè: mentre ad Eleusi si dàoriginariamente all’iniziato una garanzia che il suo aldilà sarà diverso, cioèimplicherà vita, e non la condizione misera delle ombre, e mentre nellavisuale orfico-pitagorico-platonica solo la morte darà accesso alla vita, a unavita in comunione con gli esseri divini, (...) nel caso degli iniziati di cui parlail testo di Firmico apparirebbe che l’iniziazione non è solo ‘garanzia di’ maanche ‘salvezza da’, da un destino umano doloroso e ineluttabile come iponoi (sempre ammesso che questi accennino anche e soprattutto alla morte),senza che peraltro si arrivi alle posizioni orfico-platoniche svalutanti la vitadel corpo e nel corpo (concetto del corpo-tomba, soma-sema). Se le cosestanno così, il testo di Firmico sarebbe buona testimonianza di una situazioneabbastanza tipica nell’età tardo-antica, quando si fa sentire il bisogno disalvezza, salvezza dal destino umano nelle sue forme più caratteristiche,quindi anche salvezza dalla morte, senza che con questo vengano d’altra partefatte proprie le non facili concezioni orfico-pitagorico-platoniche di una vitache è morte e di una morte che è vita”.[300]

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Se dunque la formula riferita da Firmico offre il tema di una salvezza nonda qualunque dolore o incidente che possa capitare, come detto, a questo o aquell’uomo, ma da un dolore individuale e universale insieme quale la mortee quindi di una salvezza che si traduca in una prospettiva di buona sorte dopola morte, nulla nel testo autorizza una interpretazione in senso misteriosofico(cioè orfico-platonico e gnostico), dunque con allusione a una vita che èmorte e a una morte che sola dà l’accesso alla vera vita. Tale modulomisteriosofico è, di fatto, stato erroneamente applicato alle concezioni disalvezza espresse da vari culti misterici del tardo ellenismo, al pari di un altromodulo, anch’esso inadeguato al riguardo, quello cristiano. Tale scarto con laprospettiva cristiana di salvezza, appare evidente quanto si consideri, inparticolare, la fisionomia del dio al centro dl rituale descritto da Firmico.Infatti, tale dio non è definito salvatore, ma salvato. Il che ne esprime lafondamentale intransitività, passività, l’essere più oggetto che soggetto di unavicenda.

Tale caratteristica del dio – ove questi sia, come sembra, da identificarecon Osiride – appare bene in continuità con la tradizione egizia antica oveOsiride non è un salvatore ma un salvato. Sarà piuttosto la sua salvatrice, nelmito, Iside, a vedersi assegnato, già nel mito, e poi nei riti misterici di etàgreco-romana (come testimoniano Plutarco nel de Iside et Osiride e Apuleionelle Metamorfosi) un ruolo più attivo in ordine alla salvezza dell’iniziato.

Ritorniamo brevemente al testo di Firmico. La formula che abbiamocommentato, relativa alla salvezza dai dolori, è rinchiusa in una cornicedescrittiva che unisce a preziose indicazioni su quelle che dovevano essere lemodalità di espletazione del rito moduli che pertengono al contesto polemicoche ospita tale descrizione, vale a dire le espressioni ironiche, prima e dopo laformula, e le indicazioni che rivelano la specifica interpretazione che ilpolemista offre del rituale pagano in questione.

Dopo la formula sopra evocata, il polemista si rivolge a una secondapersona che può essere interpretata come il celebrante ma anche come ildemonio, ispiratore – nella interpretazione di Firmico – del rito in questione.Poi, il polemista si rivolge al fedele con una serie di ‘tu’ che sottolineanocome Firmico veda nel rituale un fatto meramente umano dovuto

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all’iniziativa umana e non un fatto che si impone all’uomo, come invece,nell’idea di Firmico, la resurrezione di Cristo, che Firmico viene ad opporrealla ‘morte’ del dio anonimo. A tale sottolineatura risponde anche lariproposizione, per tre volte, del termine idolum, quasi a sottolinearel’affannarsi umano e, si direbbe, l’accanirsi attorno a una realtà, l’idolumappunto, che altro non è se non materia inerme. In particolare si considerinole seguenti espressioni: Tu deum tuum liberas, efficace apostrofe di Firmicoche vuole sottolineare come siano degli uomini a salvare l’idolo piuttosto chead essere salvati da quello; o l’espressione ‘tibi agat gratias deus tuus’ chevuole, nell’intenzione di Firmico, esprimere un paradosso, quello di un dioche deve essere grato all’uomo, ma che non è così paradossale in una logicapoliteistica, almeno per il politeismo classico, per il quale il sacrificio ‘tienein vita’, per così dire, il dio.

L’inanità della gioia, poi, è una tematica interessante perché nelleintenzioni di Firmico mira a significare la infondatezza e fallacia dellasperanza nutrita dall’iniziato, ma all’interno di una tipica prospettiva dirituale misterico ha una ragione d’essere se si considerano rituali mistericicome quelli d’Attis o di Adonis nei quali, come sopra accennato, il momentodella gioia è una parentesi all’interno di una situazione che è di mestizia e dilutto, nell’attesa che il dio di nuovo ritorni (nel rito).

L’espressione tuus deus, ancora, risulta particolarmente efficace. Da unlato essa suona come ironica, così nell’intenzione di Firmico, dall’altra, però,viene a suggerire quel legame di vicinanza che il fedele percepiva legare a séil dio, ovvero quella compartecipazione tra vicenda del dio e vicenda delfedele che avveniva, come sopra detto, sul piano dei fatti, degli effetti e deisentimenti. Siamo nel clima di quella che ha potuto essere definita, nel corsodella storia degli studi, come ‘religiosità personale’ (personal religion).

Il passo che andiamo analizzando si inserisce nel consueto schemaargomentativo dell’apologista cristiano che procede per continuecontrapposizioni tra la vicenda storica di Cristo e le vicende mitiche degli deipagani, vicende, precisiamo noi, che avvengono in un tempo, quello mitico,che per definizione è altro e diverso rispetto al tempo storico. L’eventosalvifico cristiano da Firmico viene opposto come fatto definitivo avvenuto in

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un tempo storico alle gesta attribuite agli dei del paganesimo che sono invecerelative a un tempo mitico. Il dio pagano resta morto, sottolinea Firmico dopoaver descritto la celebrazione del rituale notturno di cui sopra, a differenza diCristo, la cui resurrezione, sottolinea Firmico, è storica e definitiva,annunciata – prima che avvenisse – e comprovata, dopo essere avvenuta,dalle apparizioni del risorto; il ritorno rituale del dio anonimo, precisiamonoi, è invece ciclico, cioè caratterizzante un rito periodicamente riproposto.

Va tuttavia qui ricordato che, come i culti misterici antichi e d’etàimperiale non costituirono un fenomeno unitario quanto a credenze e stilirituali, anche l’atteggiamento dei polemisti cristiani non fu univoco nei loroconfronti, ma caratterizzato da alcune fondamentali tendenze. La prima èquella di un rifiuto che si manifesta come ripugnanza. Tale sentimento erasuscitato in particolare dal culto isiaco (che pur non essendo esclusivo delledonne era tuttavia loro particolarmente congeniale), condannato per la suaostentata effeminatezza, e, per ragioni opposte, dal culto metroaco o dellaMagna Mater Cibele, con le pratiche cruente dei suoi sacerdoti, i galli, e ilsuo cruento rito del taurobolio, nel quale – secondo una importantetestimonianza di Prudenzio la cui attendibilità storica è contestata dallamaggior parte della critica recente – il fedele veniva bagnato dai fiotti delsangue del toro ucciso, rito che per i cristiani è pollutio, contaminazione,laddove nelle intenzioni di chi lo praticava è lavatio, purificazione. L’altratendenza, come visto con Firmico, è quella della condanna di tali riti inquanto ritenuti contraffazioni diaboliche di riti cristiani e denunciati nella loroinutilità come strumenti per raggiungere i fini salvifici che i pagani ritengonodi poter, per loro tramite, raggiungere. Talora, tuttavia, poteva esseremanifestato nei loro confronti un atteggiamento di ammirazione, occasionatocomunque da singoli gesti, quali quello ricordato da Tertulliano[301] cheriferisce di come gli iniziati di Mithra dovessero, in un determinato contestorituale, rifiutare una corona che era loro offerta e proclamare che il loro dioera la loro corona.

Un’ultima osservazione per quanto concerne l’idolum di cui parla FirmicoMaterno, nel testo da noi considerato. Il simulacro, per la sua posizionereclinata e per le manipolazioni rituali di cui doveva essere oggetto, è parso

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agli studiosi offrire una certa connessione con l’idolum del Gianicolo,statuetta in bronzo dorato ritrovata agli inizi del ’900, in via Dandolo alGianicolo, e rappresentante un personaggio maschile giovane cinto da unaguaina che si allarga in corrispondenza delle orecchie e dà alla figura unaspetto egittizzante di mummia; avvolto da un serpente a sette spire e con latesta del serpente appoggiata sopra la testa del personaggio, fu trovato inposizione reclinata, in un’apposita struttura, con gli occhi aperti, attorniato dafiori, uova e semi di cereali, in attesa che la celebrazione annuale lo riportassefuori, e presumibilmente lo presentasse stante nell’occasione dell’inizio delnuovo ciclo annuale, cui si riferiscono le uova che erano sepolte con lui nellasua tomba.

Ritrovata nell’ambito di una struttura templare dedicata a divinità diorigine orientale (egizie o siriache più probabilmente), e risalente alla fine delIII-inizi del IV secolo d.C., la statuetta ha fatto pensare o a un Adonis siro-egizio o, piuttosto, a un Aion, personificazione divina del Tempo ciclico edeterno.

Si tratta di un’epoca tarda e il culto cui l’idolo fa riferimento può essere ilrisultato di quei sincretismi che furono all’ordine del giorno in un’epoca incui il paganesimo raccoglieva e mescolava tutte le sue risorse ideologiche erituali per resistere di fronte al cristianesimo. L’interpretazione dell’idolo ècontroversa e comunque deve tener conto delle possibilità varie offerte dalsincretismo dell’epoca. In esso confluiscono elementi egizi ed elementi siriacisenza che, con questo, la figura possa essere interpretata come un Osiride ocome un Adonis; molto c’è di Adonis dato il carattere prevalentementesiriaco della struttura templare che lo ospita, ma è diversa la figura inquestione da quella del patetico pastore ucciso dal cinghiale secondo il mitoche ha Adonis come protagonista. Infatti, l’immagine è caratterizzata dallasolennità propria delle raffigurazioni di Aion, personaggio giovanile per lopiù identificantesi con il trascorrere circolare del tempo. La statua è statatrovata in posizione supina, cioè deposta ritualmente in una posizionecertamente significativa, che ci richiama particolari della descrizionedell’idolo di Firmico Materno. In tale posizione reclinata (si parla di‘reposizione’ e non tanto di ‘sepoltura’) doveva essere tenuta per la maggior

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parte dell’anno, tranne il giorno o i giorni in cui doveva essere tirata fuori dalsacello che la ospitava ed alzata alla vista dei fedeli, all’interno di un ritualeforse non dissimile da quello descritto da Firmico Materno. Comunque, lareposizione dell’idolo del Gianicolo è chiaramente rituale e non frutto dellavolontà di nasconderlo di fronte a imminenti o possibili profanazioni, comeper altre statue dello stesso santuario. Una posizione, quella in cui si trovavaper la maggior parte dell’anno, che è posizione di riposo, quiete, se non dimorte, ma morte comunque relativa, perché l’idolo ha gli occhi aperti ed èritualmente riproposto ogni anno. Gode insomma – il personaggio maschilerappresentato – di una forma di vita nella morte, come Attis che pur mortovede, secondo il mito, crescere i capelli e muoversi il dito mignolo, mentrenel rito è oggetto di una celebrazione annuale, o come Adonis, il ‘bel morto’per eccellenza. Questa reposizione parla in favore di una vicenda, quella dellafigura divina rappresentata dall’idolo, che non è tale da concludersi con unaforma di risurrezione definitiva, ma è invece concepita come eternamenteripetentesi nel rito. Le spire del serpente alludono infatti all’idea di un tempociclico che eternamente si rivolge su se stesso, pur dovendo assicurare a ognirivoluzione il prorogarsi della vita e della fecondità cosmica (quella feconditàa cui alludono le uova, i fiori, i grani).

È l’assenza, è stato detto, a caratterizzare queste figure divine ‘tornanti’nel rito, più che la loro presenza; è più il tempo che esse passano lontano olaggiù, in una condizione che è una morte ma sui generis, ovvero in posizionereclinata, che non nel momento del loro rituale ritorno stagionale, allorchévengono offerti alla venerazione degli astanti in posizione eretta.

Dopo queste specifiche menzioni di un particolare rito misterico,verisimilmente osirico, quello descritto da Firmico, e di un particolareoggetto rituale, l’idolum del santuario di divinità d’origine siriaca alGianicolo, torniamo, concludendo, a riflessioni più generali sui culti mistici emisterici d’origine orientale diffusisi in Occidente in età imperiale, sulle loroprospettive di salvezza e sugli ‘dei in vicenda’ al centro di culti.

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1.5.4 Osservazioni conclusiveAl riguardo, i culti di origine orientale, pur nelle loro diversità, sia in una

propspettiva diacronica sia in una prospettiva sincronica, consentono alcuneconclusioni che possono essere così sintetizzate, e delle quali il testo diFirmico, pur nella incerta identificazione del dio innominato, fornisce buonatestimonianza.

In primo luogo, in nessun caso si ammette che la soteria o ‘salvezza’ siaapportata dalla loro sofferenza, morte o tantomeno resurrezione (eccezione,ma solo apparente, è l’iscrizione del mitreo di S. Prisca a Roma, sopraconsiderata). La soteria che il fedele spera di attingere si dà per una sorta diparallelismo tra la vicenda del dio, che ha conosciuto crisi profonde esoluzione di quelle crisi, e la vicenda dell’uomo che, segnata dall’esperienzadelle crisi dolorose come da una sua cifra costitutiva, attende di essereanch’essa medicata e lenita.

In secondo luogo, nessuna delle figure divine in questione (Attis, Osiride,Adonis) muore volontariamente. Detto in altre parole, non vi è alcunaintenzionalità salvifica del dio verso l’uomo. Casomai, intenzionalità èespressa nel caso dei rituali osirici come fondati da Iside perché fossero diconsolazione agli uomini, nel noto testo plutarcheo sopra riferito (de Is. etOsir. 27). Intenzionalità che già si propone in relazione al motivodell’istituzione dei misteri eleusini da parte della dea Demetra secondo l’Innopseudo-omerico a Demetra. Da quanto detto sopra, si comprendeulteriormente la dimensione luttuosa del culto di un dio che ha soffertoqualcosa che gli è stato imposto. La spiritualità cristiana, invece, parla di unaspetto regale, trionfante della croce, voluta e non subita.

Dunque il ‘dio in vicenda’, più che un salvatore, appare un salvato, comeefficacemente emerge dall’attributo del dio nella formula riferita da Firmico,e la salvezza di cui il dio è oggetto è talora legata, nel mito, alla figura che leè paredra, come Iside, e che costituisce l’elemento più stabile della coppia.Sotto questo aspetto la coppia divina, costituita da un elemento maschile ‘invicenda’ e da un elemento femminile, che, pur toccato dalla vicenda del dio ein essa coinvolto, gode di maggior stabilità, rivela una sua specifica

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funzionalità. Quasi conferma di queste osservazioni è il fatto che, nel caso diMithra, unico caso in cui non compare la coppia divina, il dio non è unsalvato, ma piuttosto un salvatore, e tuttavia in un senso del tutto specifico,come sopra visto.

Si potrà dunque affermare come le attese salvifiche espresse dai culti diorigine orientale diffusisi in Occidente si differenziassero, pur senza ignoraretalora degli aspetti comuni, tra di loro e si differenziassero dalla salusgarantita dai culti ufficiali, seppur in taluni casi, come quello del cultomitriaco, questo si ponesse in consonanza con il culto ufficiale nell’assicurarela salus della collettività o del singolo (ma non esauriva, come visto, inquesta finalità la sua portata soteriologia).

Inoltre si differenziavano sia dalla salvezza in ambito cristiano con la suaportata eminentemente etica, ove salvezza è fondamentalmente redenzionedalla colpa originaria e dalle colpe attuali, sia dalle forme di salvezza propriedegli ambiti misteriosofici, ove salvezza è fondamentalmente liberazione daquesta esistenza vista come frutto di una colpa pregressa, in relazione a unaconcezione del male che è di tipo prevalentemente ontologico (essendo lamateria e il corpo ontologicamente male in sé) e non primariamente etico.

E in relazione a quest’ultima osservazione una precisazione si impone. Sipotè dare, talora, una continuità storica tra misteri e misteriosofia, nel sensoche talune posizioni misteriosofiche, come lo gnosticismo naasseno,utilizzarono la figura di dei in vicenda quali Attis come immagine dell’animadivina e della sua vicenda di caduta e di reintegrazione.

Una utilizzazione che fu propria anche di interpreti del paganesimomorente come Giuliano Imperatore, detto l’Apostata, nel suo inno alla Madredegli dei, Cibele.[302] L’Attis ‘misteriosofico’ degli gnostici naasseni e deineoplatonici non è più un modello mitico al centro di un rituale mistico edeventualmente misterico, ma incarna piuttosto in sé l’idea dell’animadecaduta che aspira a ritornare al mondo divino.

E quand’anche i culti offrano, nella loro facies misterica, una salus cheevade rispetto a una mera prospettiva di salute mondana, e dunque offranouna prospettiva di salvezza oltremondana, in questa la componente etica nonrisulta affatto decisiva e neppure, talora, presente. Come pure non risulta

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attestata una dimensione ontologica, caratterizzante, invece, le espressionicoeve dello gnosticismo e del manicheismo, per quanto concerne leformazioni religiose, e del tardo platonismo, per quanto concerne lemanifestazioni più squisitamente filosofiche. Si potrebbe parlare, nel caso deiculti misterici del tardo ellenismo, di una salvezza di tipo ‘esistenziale’ comemedicamento di un’esistenza intrinsecamente connotata dal male e dai mali;non come una salvezza dalla materia e dal corpo concepiti come male, edunque come salvezza da un male ontologico, e neppure come una salvezzada un male e da mali di tipo etico.

Infine, anche in relazione alle attese soteriologiche espresse da tali culti, èbene ribadire la loro qualifica di culti cosmopolitici, ovvero di culti cheoffrono quale caratteristica peculiare la mancanza di una esclusività richiestaai loro fedeli, i quali, come testimoniano numerose epigrafi del secondoellenismo, potevano aderire a diversi culti orientali oltre che ai cultitradizionali locali e magari rivestire all’interno di ognuno di essi carichecultuali specifiche. In sostanza, l’uomo del secondo ellenismo sembra non siariuscito a trovare un’esauriente risposta ai propri bisogni in un singolo culto epertanto si sia rivolto a divinità diverse, con storie mitiche diverse e condiverse capacità di offrire garanzia e risposte ad attese che interessavanotanto questa vita quanto la sopravvivenza nell’aldilà.

Ben diversa è la portata qualitativa della componente soteriologica checaratterizza una ‘religione’ d’origine orientale (e non più solo un cultod’origine orientale) vale a dire il cristianesimo. Fin dal suo primo apparirenell’Urbe e nell’orbe romano, esso, infatti, si qualifica immediatamente comeuna religione universalistica (che realizza tale sua qualità non solo nel sensogeografico della sua diffusione, ma anche e soprattutto nel senso di unaunicità che non ammette compromissioni) e non come un cultocosmopolitico, e si fa portavoce di una soteriologia individuale e collettiva alcontempo, aperta cioè all’uomo in quanto tale e non in quanto membro di unethnos o di una comunità civica o politica, e aperta a tutti gli uomini, laddovei culti orientali di natura misterica potevano garantire una soteriologiaindividuale, ossia destinata al singolo che diventasse iniziato, e nel casospecifico del mitraismo alla sola componente maschile dell’umanità e

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dell’umanità romana. È stato detto, ma la cosa meriterebbe una verificaulteriore, che proprio la componente esoterica di questi culti misterici, purcosì capace di caratterizzarli, potè rivelarsi in misura maggiore o minore unostacolo nei confronti di una loro più duratura e universale diffusione.

Tuttavia, nel momento della loro massima diffusione, tra II e IV secolo, iculti misterici furono percepiti da autori cristiani come gli avversari piùpericolosi. Tra le motivazioni della loro ampia diffusione e capacità attrattivaandranno ricordate la suggestione esercitata dai riti segreti che siaffiancavano ai riti pubblici, il tipo di religiosità fortemente partecipativa cheessi incarnavano, le promesse di salvezza che essi offrivano e le istanze dipurificazione che le loro cerimonie iniziatiche, teletai, esprimevano.

Inoltre, si consideri che essi proponevano una sorta di cammino gradualedi avvicinamento a una condizione finale più garantita e con essa, in talunicasi, a una conoscenza più piena del divino, accentuavano l’elemento dellascelta personale e quello della volontarietà nella scelta ma non richiedevanoche questa scelta fosse esclusiva. Affiancandosi alle religioni ufficiali,garantivano prospettive che queste non garantivano e nello specificosoddisfacevano le speranze dei propri adepti in una vita migliore ovvero inuna esistenza più garantita dopo la morte. Si inserivano così in un clima diinsoddisfazione nei confronti del paganesimo greco-romano nelle sue forme‘ufficiali’. Tuttavia, a differenza del cristianesimo, come abbiamo detto, nelmomento in cui, come questo, si offrivano alla libera scelta dell’individuo,non richiedevano a lui adesione esclusiva e profonda o ‘conversione’.

Si potrebbe parlare, al riguardo, di una coscienza da parte di questi cultidella propria parzialità e incapacità a farsi portavoce di tutte le istanzespirituali e ‘mondane’ dell’uomo del mondo imperiale. La pluralità diadesioni esibita da personaggi influenti del secondo ellenismo, in epigrafi cheattestano la appartenenza di un personaggio a molteplici ambiti cultuali, sianazionali sia di origine straniera, fa pensare, come si è detto, che l’uomodell’età imperiale non sia riuscito a trovare una risposta esauriente ai propribisogni in un solo culto e pertanto abbia finito per rivolgersi a divinitàdiverse, con diverse capacità di rendersi garanti delle molteplici ediversificate attese dell’uomo del tempo, concernenti questa vita e la vita

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oltremondana.Essi, inoltre, non identificandosi come religioni, ovvero come complessi

autonomi e autosufficienti tali da coprire l’intero spettro dei comportamenti edelle credenze – attinenti alla sfera del supra e del prius – di un individuo odi un gruppo, sono sempre da collocare e da capire come sezioni o frammentidi contesti più ampi, i sistemi politeistici di Grecia, di Roma e del mondovicino orientale antico.[303]

Il cristianesimo dal canto suo, in rapporto a siffatti culti, mentre appellaad una adesione individuale, profonda ed esclusiva, ossia a una conversione,si offre come una proposta non parziale ma totale, e come una propostauniversale, non solo per tutti gli uomini ma per tutto l’uomo nelle sue attese,‘mondane’ e spirituali, nella sua dimensione somatica e nella sua dimensionespirituale.

Al contempo, peraltro, e qui si aprirebbe una riflessione che merita benpiù diffuso spazio, il cristianesimo fa proprie terminologie squisitamentemistiche e misteriche per esprimere i suoi specifici contenuti, irriducibili aquelli veicolati da quei contesti mistici e misterici che abbiamo sopraesaminato.

Basti pensare al termine e alla nozione di ‘mistica’ che oggi, e non solo inambito cristiano, viene a designare una perfezione raggiunta nella vitaspirituale che comporta una sorta di ‘comunione’ se non di ‘unione’ con ladivinità, fatte salve le profonde differenze tra la mistica propria dei contestimonoteistici e tra essi in particolare del cristianesimo e la mistica delle grandireligioni orientali e in particolare dell’induismo. Una differenza su cuirichiamiamo l’attenzione in altra sede.

Qui vogliamo solo segnalare come le esperienze religiose greche cheabbiamo sopra illustrato abbiano trasmesso al mondo occidentale i termini‘mistico’, ‘misterico’ oltre a termini correlati. Ma non solo il cristianesimo eprima ancora il giudaismo di lingua greca – basti pensare alla cosiddettaBibbia dei Settanta e a Filone Alessandrino – hanno fatto largo spazio a unaterminologia mistica e misterica, bensì già gli stessi filosofi greci. ConPlatone inizia un processo di utilizzazione di termini e nozioni di area‘mistica’ e ‘misterica’ a indicare esperienze intellettuali e spirituali, quali, ad

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esempio, la contemplazione delle realtà trascendenti di cui le anime giàgodevano prima della incorporazione nel basso e che è fine supremodell’uomo. Tale processo di utilizzazione e di risemantizzazione dellaterminologia mistica e misterica interesserà tutta la tradizione platonica finoal neoplatonismo ove, ad esempio, con Plotino essa si presterà ad esprimere ilmovimento dell’anima verso l’Uno e l’unione con esso tramite lacontemplazione.

Ma torniamo – e concludiamo – all’ambito del cristianesimo e nellospecifico al rapporto tra i misteri ‘pagani’e la nozione cristiana e già paolinadi ‘mistero’, un tema pertinente la storia del cristianesimo antico che è statooggetto di ampi e importanti studi ma al quale qui possiamo dedicare soltantola presente – ma particolarmente efficace – riflessione.

“Dio ci ha fatto conoscere ‘il mistero della sua volontà’, scrive Paolo aicristiani di Efeso (1, 9ss.). Un mistero che ‘nelle età passate non fuconosciuto dai figli degli uomini, come ora è stato rivelato ai suoi apostoli eai profeti per mezzo dello Spirito...’(3,3ss.). Paolo usa più volte il terminemistero, il cui suono richiama concezioni e pratiche dell’antichità pagana, imisteri o ‘culti di mistero’; e ci stimola alla ricerca di collegamenti eventuali,di affinità, di somiglianze e differenze. È ciò che hanno fatto con attenzioneparticolare gli storici delle religioni antiche, quegli storici del cristianesimoche intorno agli Anni Venti del secolo scorso si rifacevano alla cosiddetta‘scuola storico-religiosa’, e anche gli storici della liturgia e della spiritualitàcristiane.

Qualcuno vide nei riti pagani in questione quasi un’ombra anticipatricedella figura di Cristo, cosicché il cristianesimo potrebbe apparire come larivelazione e la realizzazione piena di ciò che l’umanità aveva cercato epresentito fin dalla tradizione più remota. Altri invece avanzavano sostanzialiobiezioni di fatto a certi accostamenti.

Noi non ci fermeremo qui sulla contesa, ricordando piuttosto che tra leobiezioni più pertinenti una riguarda l’uso specifico del termine ‘mistero’. Iculti misterici pagani sono indicati in greco con il termine al plurale,mysteria. E questo plurale, come altri termini affini (teletai, orghia, tele) sta aindicare il carattere rituale degli atti religiosi in questione. I Padri della

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Chiesa, invece, usano il termine mysterion al singolare. E così sembrano dareall’espressione un significato quasi esclusivamente intellettuale e didattico,non un significato cultuale.

Nella Lettera agli Efesini abbiamo visto poi che mysterion indica unsegreto nascosto in Dio e poi rivelato con Cristo. Il senso, dunque, è moltodiverso da quello dei misteri greco-romani con il loro carattere segreto, con lastruttura mitico-rituale del culto, che è quella che qualifica il senso di‘mistero’ e ‘misterico’ nel mondo pagano”.[304] Innanzitutto “il contestostorico della dottrina della salvezza e del messianismo cristiani èradicalmente diverso da quello dei culti del paganesimo antico. Sono anchediversi e per un aspetto contrapposti i sottofondi storici, cioè quello giudaicoper il cristianesimo e i culti preistorici o protostorici mediterranei e asiaticiper il paganesimo greco-romano. Il contesto cristiano, con l’idea del Regno diDio che culmina nell’evento di Cristo, è caratterizzato da elementi che nonhanno alcun riscontro né con il paganesimo greco-romano in genere né con iculti di mistero in specie; questi elementi sono il monoteismo, la vocazione diAbramo, la storia del popolo dell’Alleanza, i profeti, l’incarnazione del Figliodi Dio, la Chiesa come corpo di lui, le Scritture, la dottrina degli ultimi tempi(escatologia). Nello stesso tempo questi medesimi elementi caratterizzanoalcuni altri aspetti: la vicenda di passione e di risurrezione del Cristo, lapartecipazione dei fedeli a questa vicenda tramite il battesimo, latestimonianza che essi ne danno attraverso il banchetto eucaristico; e suquesti elementi la scuola ‘storico-religiosa’ ha potuto istituire dellecomparazioni con i culti di mistero pagani”.[305] Sulla base di quanto oraosservato e delle caratterizzazioni – sopra delineate – proprie degli ‘dei invicenda’ del paganesimo antico al centro di culti mistici e misterici, etornando alla questione ‘Paolo e i misteri’, “risulta molto chiaro che non c’èparallelismo tra i misteri pagani e la visione paolina del battesimo comemorte in Cristo e con Cristo in attesa di risorgere con lui (Romani 6,4 ss.). Equesto non solo a causa della storicità del sacrificio di Cristo (in contrasto colcarattere mitico degli ‘dei morenti’ del paganesimo), ma anche a causa didifferenze essenziali nella struttura e nel significato delle rispettiveconcezioni.

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Emerge tra queste differenze, giova ripetere, il carattere ineliminabilefunebre dei personaggi divini nei misteri pagani; mentre nel caso dell’‘invittoMithra’ ciò che manca è invece la vicenda dolorosa, il destino di morte cheaccompagna le divinità protagoniste degli altri culti misterici. Resta solo unrichiamo comune, ma generico, a una alternanza, a una ‘dialettica’ dolore-gioia. Questo è un dato significativo, nell’insieme di esperienze religiose peril resto fortemente diverse, quando non opposte, come appunto il messaggiocristiano, e la ‘teologia dei culti di mistero’.

In particolare – e questo è di estrema importanza – nel funebre destinodegli dei morenti dei misteri pagani non vi è nulla di sacrificale, nullacomunque che significhi donazione di sé. [...] questi dei sono piuttosto‘oggetto’ del loro destino e i loro fedeli sono chiamati soltanto a unapartecipazione emotiva. Li si invita a piangere la vittima di un destinocrudele. Essi venerano uno che muore. Ma la morte non avviene per qualchecosa. Non è il supremo atto di amore.

Anche sotto questo aspetto ci appare chiara l’immensa diversità tra ilpatetico dramma erotico-funebre del mitico Adonis o Tammuz e il volontariosacrificio di Cristo secondo la forte espressione di Paolo nella Lettera aiFilippesi: ‘(Gesù Cristo), sussistendo in natura di Dio (...) svuotò se stesso,assumendo la natura di schiavo’ (2,5 ss.). Analoga differenza si notanell’effetto del sacrificio sui fedeli: ‘Consepolti con Lui per mezzo delbattesimo nella morte, affinché, come fu risuscitato Cristo (...) così anche noicamminiamo in novità di vita’ (Romani 6,4 ss.). E scrivendo agli Efesinil’Apostolo ancora insiste: «‘Risvegliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti’, eCristo ti darà luce» (5,14)”.[306]

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1.6 Pluralità, unità e unicità del divino

È venuto il momento di esaminare quelle tendenze alla unità e unicità deldivino che in misura diversa e in momenti diversi intervennero acaratterizzare i sistemi politeistici antichi e nello specifico – nella nostratrattazione – il politeismo greco-romano.

All’interno dei politeismi propri delle alte culture del mondomediterraneo e vicino orientale si espressero, con modalità diverse e inmomenti storici diversi oltre che sulla base di circostanze storiche diverse,delle tendenze volte a unificare le figure sovraumane di un orizzontepoliteistico o, più spesso, alcune di esse. Questo fenomeno ha interessato –con modalità diverse – in genere tutti i grandi politeismi, come il politeismoegizio, quello mesopotamico, quello indiano e vedico in particolare, e quellogreco-romano, su cui ci soffermeremo in modo particolare.

Per varie ragioni, e soprattutto per ragioni storico-politiche, e inparticolari momenti, un personaggio divino emerge su altri e su di essorifluiscono, come suoi epiteti, le altre (o altre) figure del contesto religioso inquestione. I nomi che designavano gli altri personaggi divini e le loroprerogative diventano suoi appellativi. Una tendenza non ignota presso igrandi politeismi del mondo antico, come quello degli assiro–babilonesi odegli egizi, ambiti nei quali questo fenomeno era guidato dalle classisacerdotali.

In Grecia la tendenza a unificare il divino si manifesta, con modalitàdiverse, all’interno della produzione letteraria e specificamente poetica, dellariflessione filosofica e delle pratiche cultuali come documentateci da fonti didiverso genere (letterarie, epigrafiche, monumentali e così via). Dunque taletendenza ha una dimensione teoretica o dottrinale e una dimensione cultuale,ossia inerisce sia le modalità di pensare e di rappresentare il divino sia lemodalità di rapportarsi al divino stesso.

Si potrebbe dire che una dialettica irrisolta tra la pluralità, mai rinnegata,e l’unità o – con modalità specifiche – la unicità, percepite come cifre dellaperfezione del divino, attraversi tutto il politeismo greco-romano e ipoliteismi che, in età ellenistica e ellenistico-romana, sotto la cifra dominante

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di quello greco-romano, sono espressi dalle diverse culture del mediterraneoe del vicino oriente.

Una fonte, fortemente speculativa, espressiva di quella che sopradefinivamo come una irrisolta dialettica tra unità/unicità del divino e pluralitàdello stesso, in un orizzonte politeistico, può essere da subito ricordata. Inpolemica con i cristiani gnostici che frequentavano la sua scuola romana eche – secondo le tipiche coordinate di una visione gnostica – siconsideravano superiori a tutti gli altri uomini e disprezzavano il mondovisibile, Plotino afferma: “È necessario sforzarsi di diventare sempremigliori, ma non bisogna credere di essere soli in questa possibilità didiventarlo. Difatti così non <si diventerebbe> mai migliori. Bisogna pensareche ci siano altri uomini perfetti e che ci siano i demoni buoni e, inoltre, glidei che sono in questo mondo e contemplano l’Intelligibile e, sopra tutti, ilCapo dell’Universo, Anima beatissima; in seguito è necessario celebrare glidei intelligibili e sopra tutti il Grande Re degli esseri intelligibili, chemanifesta la sua grandezza attraverso la molteplicità degli dei. Non ridurre ilDivino a un solo essere, ma mostrarlo moltiplicato così come esso si èmanifestato significa conoscere la potenza di Dio, che, pur rimanendo ciò cheè, produce i molteplici <dei> che a Lui si riferiscono e sono per Lui e da Lui.Anche questo mondo è per Lui e a Lui guarda, e così è di tutti gli dei,ciascuno dei quali è nunzio dell’Uno agli uomini e con oracoli dice quelloche a Lui è caro. È secondo l’ordine del mondo che essi non siano ciò cheEsso è”.[307]

Per converso, sul fronte cristiano, è Agostino, la cui profonda affinitàintellettuale con i neoplatonici è ben nota, a rimproverare ai portatoridell’ideologia platonica nella sua facies tarda di attardarsi nel culto dei moltipur dopo aver scoperto l’Uno. Ancora sul limitare del IV e agli inizi del Vsec. d.C. il tenace attaccamento ai culti ancestrali oltre che alle pratichecultuali teurgiche con finalità catartiche, da parte dei pagani neoplatonici suoicontemporanei, è indicato da Agostino come il principale ostacolo alla loro‘conversione’.[308]

Sulle complesse ragioni di questo attaccamento da parte degli ‘ultimipagani’ alle forme cultuali tradizionali e alle nuove, come le teurgiche, non è

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possibile qui dilungarsi. Basterà solo osservare come ragione non ultima diquella che Agostino e larga parte dei cristiani del suo tempo consideravanocome una contraddizione risiede nella particolare fisionomia di quell’Unonelle tarde teologie ‘pagane’, sulla quale avremo modo di soffermarci: essonon è oggetto di culto nella sua abissale trascendenza ovvero non è oggetto esoggetto di una relazione con il livello umano e prima ancora non è legato daun rapporto ontologico di tipo creazionistico con la realtà cosmica e conquella umana, garanti delle quali, invece, ove siano adeguatamente fattioggetto di culto, continuano ad essere i molti dei e le molte figure delsovrumano di un orizzonte politeistico, secondo una logica funzionale edipartimentale mai veramente sconfessata.

Taluni studi, ricordando un dato ormai acquisito, ovvero che in ambitopoliteistico si poteva riconoscere – come avremo modo di illustrare – undivino unico dietro o al di sopra dei molti dei cui si rivolgeva il culto,affermano come[309] la distinzione più profonda tra monoteismo epoliteismo consista “nell’accettazione oppure nel rifiuto della possibilità dientrare nella relazione immediata con l’unico Assoluto, paragonabileanalogicamente al dialogo interpersonale.(...) Il monoteismo nella sua essenzasi fonda proprio nella particolare coscienza di entrare in relazione immediatae pienamente personale con l’Assoluto, relazione espressa anzitutto dallaparola, ma anche da altre forme di comunicazione interpersonale. Ilmonoteismo, riconoscendo l’unicità dell’Assoluto, ne riconosce il caratterepersonale grazie al quale egli può parlare e si può parlare con lui”.[310]L’argomentazione è pertinente. Innanzitutto essa mette l’accento su quelloche appare nell’ambito di studi storico-religiosi il quid distintivo di unatteggiamento definibile come ‘religioso’: la convinzione di poter instaurare,a seguito di una rottura di livello, una relazione con un livello superiorevariamente qualificato, ovvero con un supra e un prius diversamente intesi.[311] Tuttavia occorre che in sede storico-religiosa si addivenga a unaadeguata delineazione delle espressioni diverse, e non omologabili tra loro, diquello che con termine comprensivo qui viene chiamato l’‘unico’ ‘Assoluto’.

Si conferma la necessità di sottoporre a una analisi di storia e di tipologiareligiosa quella tendenza alla unità e, in forme specifiche e non esclusiviste al

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pari di quelle proprie dei monoteismi storici, alla unicità del divino, tendenzache, fattasi pervasiva nel paganesimo dei primi secoli d.C., aveva conosciutonella cultura greca in età arcaica, classica ed ellenistica, molteplicianticipazioni. Una tendenza che da più parti è stata definita, impropriamente,come ‘monoteismo pagano’,[312] e talora, più propriamente, come‘enoteismo’, due categorie che approfondiremo più avanti nella nostratrattazione.

Cominciamo con il ricordare che già nei testi omerici si può presentarel’uso di o theos, ‘il dio’, al singolare e senza un nome identificante, oppuredel neutro, pure al singolare, to theion, ‘la divinità’, ma in senso collettivo ein riferimento alla potenza divina generica.[313] Un modo – questo – peresprimere una qualche percezione di una forma di unità del mondo divino chepur resta ‘plurale’.[314]

Le antiche teogonie greche, come l’esiodea e le orfiche, che erano alcontempo cosmogonie, ammettevano la derivazione delle entità cosmiche edegli dei da principii o archai di carattere semipersonale o abissale, come ilChaos in Esiodo o la Notte in ambito orfico. Ma, mentre la teogonia ecosmogonia esiodea aveva un carattere, per così dire, ascendente per il qualel’ordine non è agli inizi ma alla fine del processo teo-cosmogonico, tipicadell’impostazione orfica era l’idea monistica, non monoteistica, dell’unità etotalità primordiali del divino, assoggettato a lacerazioni e frammentazioni acausa di un principio agente sulla totalità intatta del primordiale. Unacosmogonia orfica, attestata nel III sec.a.C. da Apollonio Rodio, parla di unadiscordia che all’origine separò l’uno dall’altro i tre elementi cosmici (terra,mare, cielo), separazione cui sarebbe poi succeduta tutta la storia cosmica e levarie generazioni di dei fino a Zeus.[315]

Vicino al pensiero orfico è Empedocle che parla dell’Uno primordiale informa sferica ove stanno compattati i quattro elementi cosmici (acqua, aria,terra, fuoco), ai quali egli dà nomi di dei. L’Uno è soggetto all’alternanteazione di Neikos (Discordia) e Philia (Amore). Al ‘teologo’ orfico Museo eraattribuito il detto “Tutto nasce dall’Uno e tutto nel medesimo si risolve”.[316]Visioni, queste orfiche, che esprimono aspetti monistici e dualistici, per usarequi una terminologia che avremo modo più avanti di illustrare. È stato

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riconosciuto il ruolo importante svolto dalle antiche cosmogonienell’investigazione più propriamente filosofica da parte dei presocraticidell’arché, il principio primo, il primordiale fondamento e inizio delle cose(con Talete, VII-VI sec. a.C., l’acqua; con Anassimandro, l’apeiron,l’‘illimitato’; e così via). Tali posizioni, secondo studi recenti,[317]attesterebbero una tendenza monoteistica. Per M. West[318], ad esempio,Anassimandro non era solo monista ma anche monoteista “perché derivavaogni cosa da un singolo divino principio”. A simile interpretazione si puòobiettare che anche il caricare sul principio primo attributi divini non loassimila ai diversi theoi di un panteheon politeistico né tanto meno allo theosunico di un orizzonte monoteistico. Di fatto, West e gli altri autori che hannocontribuito all’opera The Pagan Monotheism, cui qui facciamo particolareriferimento, includono nella categoria di monoteismo qualsivoglia formulaideologica e espressione religiosa che contempli un primo principio dellarealtà, operando così un indebito allargamento di tale categoria che non vienepiù ad afferrare specifici contesti distinguendoli da altri.

È vero invece che già nell’ambito delle antiche teogonie, come quellaesiodea, si esprime, non a livello speculativo ma poetico e immaginifico,un’esigenza di unità ricorrendo ad artifici diversificati. Basti pensareall’attribuzione alla volontà di Zeus (boulé Dios), quella provvidenzialevolontà che regge il mondo attuale, di alcuni degli avvenimenti (come laevirazione di Cronos) che concernono momenti della teogonia in cui Zeusnon era stato ancora generato. Un controsenso logico, ma funzionale aun’unificazione o ‘compattazione’ della pluralità di quelle figure divine chela teogonia offre secondo una impostazione di tipo genealogico-dinastico.Anche il tema tipico dell’epica greca arcaica costituito dall’assemblea deglidei presieduta da Zeus è motivo in qualche modo unificante, ma non certotale, come per M. West nel contributo citato, da costituire un passo verso ilmonoteismo.

Senofane di Colofone, nella Ionia (ca. 570-478 a.C.), più coscientementedi quanto non abbiano fatto i suoi predecessori, lega la speculazionesull’arché e sull’Uno alla speculazione relativa alla divinità. All’interno dellasua polemica contro la concezione politeistica epico-eroica, e in particolare

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contro l’antropomorfismo e le modalità di descrizione omerico-esiodee deglidei, che a questi attribuiscano ogni sorta di vizi, egli, in un contestopervenutoci frammentario e quindi di difficile interpretazione, parla di unadivinità ingenerata, immobile, una, che Senofane esalta in contraddittorio conil crasso politeismo dei miti eroici, ma della quale è difficile dare un precisoconcetto, e che comunque non esclude l’esistenza di altri dei: “un solo dio (o:‘uno è dio’, heis theos), tra gli dei e gli uomini grandissimo (o: il più grande),né nel corpo ai mortali simile né nell’intelletto” (fr. B23). “Nel suo tutto eglivede, nel suo tutto pensa, nel suo tutto ascolta” (fr.B24). “Sempre nello stessoluogo rimane senza muoversi né gli si addice passare ora in un luogo ora inun altro” (fr.B26). Altri frammenti, tuttavia, fanno riferimento all’acqua e allaterra, o alla sola terra, come elementi cosmogonici, e confermano la difficoltàa fare del dio di Senofane un principio della realtà e tanto più un dio creatore:“Dalla terra viene la totalità delle cose e nella terra la totalità delle cose sirisolve” (fr.B27) ovvero “Tutti dalla terra e dall’acqua siamo nati” (fr.B33).

Come afferma U. Bianchi,[319] “siamo lontani da una posizionemonoteistica nel solo senso pienamente (e storicamente) legittimo, cioè nelsenso creazionistico”. Infatti, tra il Dio dei cristiani e il Dio di Senofane nonc’è commensurabilità: “Il primo ha delle caratteristiche di trascendenza e dicreatività, oltreché di personalità, che non sono tutte proprie del secondo: ilquale, del resto, non esclude l’esistenza – certo su altro e inferiore livello – dialtri dei”. Del resto “tra il Dio di Senofane e lo Zeus di Esiodo non c’ècommensurabilità, perché il primo è metafisicamente uno e primordiale el’altro è solo l’ultimo epigono di una dinastia e il gerarca di una corte diparenti e di sudditi. Ma tutti e due convengono nella possibilità di nonmonopolizzare la qualifica di ‘dio’, perché ammettono la coesistenza di altridei. Il Dio di Senofane è ‘pagano’ non meno dello Zeus di Esiodo – anche seè più filosofico di esso”. Lo studioso conclude affermando che bisogna esserecauti nel parlare di concezioni monoteistiche nell’ambito della grecitàpagana, dal momento che il concetto di ‘dio’ che esse presuppongono èdiverso da quello delle religioni bibliche, e ciò nonostante il fatto che ‘tral’una e l’altra parte della barricata’ vi possano essere delle affinità, che sievidenziano quando si leggono – ad esempio – certe affermazioni di Eschilo

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o di Platone o di Plotino. Qui lo studioso fa un esplicito riferimento alleconcezioni religiose di Eschilo. Questi, se da un lato, nelle sue tragedie, offreuna nozione per così dire ‘pura’ della divinità, dall’altro non rinuncia a unaconcezione ‘inferiore’ della stessa che risente delle ben note caratterizzazionimitologiche. Nel coro dell’Agamennone, ad esempio, di Zeus siafferma[320]: “Zeus, chiunque egli sia (...) io non ho nulla da mettergli alconfronto, se non Zeus stesso (...)”. È un dio elevato cui si esita a dare unnome proprio perché la sua elevatezza lo rende quasi incomprensibileall’uomo; tale dio poi ha forti connotazioni etiche perché è detto punirel’hybris, come accade anche nei Persiani, ove[321] è la nozione di uno Zeusincommensurabile e giusto, che indirizza gli uomini al bene anche punendoli.Ma Zeus è anche, sempre in Eschilo, l’intraprendente figlio che assalì suopadre Cronos. Infatti, il Prometeo incatenato presenta uno Zeusperfettamente ‘teogonico’, che acquista il potere con la violenza, e vuoleeliminare la primitiva umanità, ostacolato in questo suo progetto da Prometeostesso. Contraddizioni, queste segnalate, che – come osserva Bianchi –devono tenere conto del carattere del genere tragico e della situazione storico-religiosa in cui il poeta vive, caratterizzata da un politeismo cui non eraignota una certa percezione della unità e trascendenza della divinità.

Ma, tornando alle considerazioni sul dio di Senofane, che avevanooccasionato questa digressione nell’ambito della tragedia, lo studioso citatoconclude ricordando come, in ambito ‘pagano’, una essenziale distinzionedovrà operarsi tra una concezione personalistica del dio e una concezionemonistica, anche se le due non sempre sono nettamente distinguibili, e come,comunque, l’estraneità al concetto di creazione e l’impostazione teogonicaqualifichino gli dei in Grecia in senso diverso da quella trascendenza di Diopropria delle religioni bibliche.[322]

Osserva A. Brelich, storicizzando – opportunamente – il pensiero diSenofane:[323] “non bisogna neppure isolare il personaggio di Senofane datutta la sua epoca. Egli non è fuori del suo tempo. Si tratta di un’epoca in cuila civiltà greca vive un processo di profondo rivolgimento. Per effetto dellarapida trasformazione sociale del VI secolo – che vede dovunque il crollo delregime aristocratico, l’ascesa della tirannide appoggiata dalle masse e l’inizio

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della democrazia – tutte le antiche forme tradizionali dell’esistenza grecaappaiono, quasi all’improvviso, messe in questione: così anche quelle dellareligione”. E ricorda il caso di Eraclito, contemporaneo e probabilmente piùgiovane di Senofane, il quale, nell’ambito di una posizione antiritualista,proclama un logos universale che solo per alcuni aspetti offre delle analogiecon il dio sovrano del pantheon greco, Zeus. E per tale ragione afferma: “Unosolo, l’unico saggio [scil. il logos; o, secondo altra traduzione: L’Uno, l’unicosapiente], vuole e non vuole il nome di Zeus” (fr.B32).

Veniamo ad altre testimonianze della grecità antica che esprimono unatendenza all’unità e – sotto gli specifici profili considerati – all’unicità deldivino.

Già noti a Platone[324] dovevano essere i versi orfici riferitici da fontidiverse tra cui il de mundo pseudo-aristotelico:[325] “Zeus nacque per primo,per ultimo Zeus dalla vivida folgore;/ Zeus è la testa, Zeus il mezzo; tutto si èprodotto da Zeus; / Zeus è la base della terra e del cielo stellato; /Zeus fumaschio, Zeus immortale fu fanciulla pronta alle nozze. Zeus è il soffio ditutte le cose; Zeus è l’impeto del fuoco instancabile;/ Zeus radice del mare;Zeus, sole e luna; /Zeus è re, Zeus dalla vivida folgore il sovrano di tutte lecose; (...)”.[326]

Zeus ha, qui, un ruolo primordiale e insieme riassume e conclude l’interoprocesso delle cose. Nell’affermazione che Zeus è il primo e l’ultimoecheggia il concetto di una compiutezza, una totalità o, si potrebbe dire,‘rotondità’, in senso temporale cui si collega una totalità in senso spaziale.Nel verso successivo, infatti, si dice che Zeus è l’inizio, il mezzo e ilcompimento. E poi che la terra e il cielo, cioè il tutto, hanno Zeus comesostanza o fondamento. Anche la menzione del maschio e della fanciullaesprimono una prospettiva totalizzante. Vi è poi una prospettiva ditrascendenza (l’idea della sovranità) e di immanenza al contempo.

Siamo lontani dall’idea di un dio personale, totalmente trascendente. Ildio è per larga parte il cosmo, grande organismo eterno vivente, o meglio è lasostanza di cui è fatto il cosmo. Una posizione, questa, definibile panteistica.[327] Nel panteismo tutto è dio, o tutto è divino; il mondo è divino edesaurisce il divino.

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Ma più propriamente, per questa specifica testimonianza, si può parlare didottrina ‘teopantistica’, per la quale la divinità è il tutto che pur essasopravanza e di cui costituisce la trascendente base e sostanza.[328] Nelteopantismo il mondo ha una sostanza divina ma la divinità, purtuttavia, incerto modo lo trascende. Il corpo di Zeus non è puramente identicoall’universo visibile, ma ne è la sostanza divina. Rimane cioè una qualchedistinzione tra il corpo di Zeus e il cosmo. Bianchi ebbe modo di precisarecome, nella posizione che si va qui descrivendo, non si tratti di un panteismovolgare per il quale gli elementi visti nella loro immediata materialità sonodivini, ma di una “idea per cui le membra del dio, corrispondenti alle zone delcosmo, sono piuttosto la sostanza (in senso etimologico) divina di questemedesime e del cosmo nella sua totalità. Una concezione in cui immanenza etrascendenza si combinano in modo originale, a fondare quel tipico nessomonistico-dualistico che doveva formularsi in buona parte della visioneantica del mondo”.[329]

Un’altra posizione teopantistica esemplare è nel noto frammento eschileoche peraltro, isolato com’è, non deve essere sopravvalutato:[330] “Zeus èl’etere, Zeus è la terra, Zeus il cielo, Zeus il tutto (ta panta; oppure ‘tuttequeste cose’) e quanto al di sopra di questo (o: ‘e tutto ciò che è al di sopra diesse’)”. Il dio è il tutto (piuttosto che il tutto è il dio, cioè esaurisce dio), edunque è un dio cosmico, che pure in certo modo trascende il cosmo. E siosservi come il dio cosmico, in una mentalità come quella greca che ignora ilconcetto di creazione, è ‘uno’ perché tutto abbraccia e tutto si risolve e siidentifica in lui, principio unificante dell’universo, ed è anche – perconseguenza – un dio ‘unico’, in quanto appunto ‘dio cosmico’.

La posizione teopantistica, di cui è qui parola, deve essere distinta daquella espressa dalla formula heis theos, ‘uno è dio’ già usata, come visto, daSenofane nella sua polemica sull’antropomorfismo delle rappresentazionitradizionali degli dei. Infatti, nella formula di Senofane si insiste piuttostosulla unità del divino che non sulla questione del suo rapporto con il tutto.[331]

Per alcuni aspetti analogo a quello orfico, seppure in trascrizione stoica, èil sentire di Cleante (334-232 a.C.), il secondo scolarca della Stoa. Lo

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stoicismo, dal suo sorgere alle più tarde declinazioni, si caratterizza per latendenza a una legittimazione delle pratiche tradizionali di tipo politeisticounita a una tendenza alla reinterpretazione degli dei, oggetto di culto e dinarrazioni mitiche, quali espressioni di un’unica potenza divina. Nell’inno aZeus di Cleante,[332] il dio, la grande potenza cosmica reggitrice del tutto, hatuttavia una personalità etica molto caratterizzata e si pone anche al di sopra eal di là della Ragione (Logos) universale che, nella comune posizione stoica,tutto pervade. Difficilmente si può pensare che tale composizione poetica,l’inno di lode a Zeus, che mette in campo uno Zeus quale dio sommo conforti tratti personali, sia stata integrata in celebrazioni rituali.

Rimane, comunque, importante segnalare come le testimonianze orficheche abbiamo sopra riportato, nel momento in cui descrivono un grande diocosmico che in sé riassorbe il tutto ma al contempo lo trascende,[333] offranouna sistematica del divino caratterizzata da una tendenza alla unità e allaunicità, nei modi sopra delineati, ormai lontana da una logica di teogonia. Mapure lontana da una logica di verticalità divina, quale quella che vedremoinvece attestata in testimonianze del tardo ellenismo che considereremo piùavanti. E se, sotto il profilo dell’antropologia, la visione orfica ha molto incomune con quella platonica, cui la legano i concetti base del soma-sema,corpo-tomba, e della ‘colpa antecedente’, sotto il profilo della teologia se nedistanzia: altra, infatti, è la visione ‘circolare’ o unitaria per cui il diosostanzia il tutto e lo trascende, altro è il divino trascendente e opposto alsensibile di Platone.

Le visioni teologiche greche fin qui considerate manifestano una tendenzaall’unità del divino, un’unità che talora, e sotto i profili considerati, si faanche unicità, rimanendo comunque lontane, tali visioni, da posizionimonoteistiche.

Le testimonianze cui ora accenneremo, pur continuando a esprimere unatendenza alla unità e unicità del divino, vengono a coniugarla con unatendenza a concepire il divino secondo una prospettiva di tipo verticale egerarchico.

Le modalità di rappresentazione della pluralità divina subirono delleprofonde trasformazioni col trascorrere dei secoli, dal periodo arcaico, a cui

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risale la sistematizzazione esiodea degli dei del pantheon politeistico greco, alperiodo ellenistico e poi ai primi secoli dell’era cristiana. Si può affermare,con U. Bianchi, che l’antico politeismo si vede sovvertito nella suaorizzontalità stratificata e sostituito da una verticalità senza compromessi.[334]

Per orizzontalità stratificata si intende la tipica modalità di presentazionedelle diverse collettività divine o sovrumane come offerta fin dai testiomerici, legate a strati diversi della grande geografia sacrale. Questacontempla gli dei dell’alto Olimpo, le figure sovrumane che stanno sullealture come le Muse, o che vagano nei boschi come le ninfe; gli eroi chestanno negli anfratti del sottoterra; i grandi dei come Hades che presiedonoagli Inferi, ma che non hanno, pur nella loro collocazione spaziale ‘inferiore’,una dignità minore rispetto agli dei olimpici; le entità che abitano i recessi delTartaro e della voragine del Chaos, come la Notte, entità primordiale.

Vi fu – come detto – una virata nel modo di concepire il divino allorché atale orizzontalità stratificata si venne a sostituire, come dimensioneprevalente, la verticalità e con essa vi fu l’abbandono di quella logicateogonica che comandava la teologia esiodea.

È la logica teogonica a comandare in Esiodo, e nella teologia che a luiattinge, le disparità all’interno del mondo divino, vale a dire le disparità tragli dei di un tempo, violenti e immani, e i nuovi dei, non meno violentiquando si tratti di assicurare il superamento dell’antico e la affermazione delnuovo, ma – una volta instaurata la definitiva signoria divina – garantidell’ordine ed espressioni di razionalità. Quell’ordine e quella razionalità che,quali cifre dell’attualità, invece, larga parte delle teogonie orfichecontestavano, proponendo un fieri teogonico e cosmogonico di segno oppostorispetto a quello esiodeo.

In relazione al mondo divino, come sistematizzato in Esiodo, simanifestano già delle innovazioni quando alle vecchie teogonie sisostituiscono nuove gerarchie divine: al di sopra gli dei, se non addirittura ildio, sotto i daimones e infine gli eroi.[335] È questa una tematicasquisitamente platonica e poi senocratea. In sostanza, il divino, o più ingenerale il sovrumano, tende a normalizzare le sue disparità interne non più

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sul piano di una diacronia di fasi temporali diverse e successive, seppur di un‘tempo degli dei’ diverso quantitativamente e qualitativamente dal ‘tempodegli uomini’, e di diverse e successive collettività divine (le entitàsemipersonali delle origini, le entità titaniche delle generazioni di mezzo e glidei ultimi, i signori dell’Olimpo), ma sul piano di una graduazione verticale.

In questa, particolare rilevanza assume la categoria dei daimones.In Omero, il termine daimon, pl. daimones, poteva essere alternativo a

quello di theoi ‘dei’, oppure designare agenti sovrumani personali, capaci diintervenire nei destini umani in senso positivo o negativo, comunqueimprevedibile. Nel mito esiodeo delle cinque razze, contenuto nellaTheogonia, il termine daimones designa gli uomini della prima e dellaseconda razza, dopo la loro morte, e dunque delle entità a statuto speciale,non umane ma distinte dai grandi dei del pantheon olimpico che nascono perun processo teogonico. A livello popolare doveva essere diffusa laconvinzione che i daimones fossero la sopravvivenza di uomini morti. Anchenella lirica sono presentati come esseri sovrumani caratterizzati da unaparticolare capacità di intervento, in senso positivo o negativo, nei confrontidegli uomini. Platone nel Convito afferma essere i daimones, come Eros,esseri intermedi e intermediari.[336] L’autore dell’Epinomis parla dei demonicome di esseri intermedi, anche spazialmente, tra gli dei e gli uomini.[337]Dopo ‘la razza divina degli astri’,[338] infatti, l’autore pone i demoni eterei eaerei e i ‘semidei’, costruendo una scala di potenze sovrastate dal sommoprincipio della teologia platonica.

La quale, dunque, ci si offre come una teologia che, mentre addita lanecessità – secondo il noto passo della Repubblica[339] – di un discorso‘veritiero’ sul dio, si viene a caratterizzare in senso ‘gerarchico’, come mostraanche un luogo del Timeo ove Platone introduce una gerarchia divina, chedistingue tra il sommo dio o demiurgo e gli dei ‘generati’, a lui inferiori, altrie diversi da quello per natura e funzioni.[340] Mentre il primo, il dioingenerato, infatti, forma la parte razionale dell’anima, gli dei inferiori, ogenerati, formano le parti animale e vegetativa, come pure il corpo. E ciò inomaggio all’esigenza squisitamente platonica, e già espressa nel passo dellaRepubblica sopra ricordato, di liberare il più possibile la divinità dalla

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compromissione con il male, che si manifesta a carico delle parti inferioridell’anima come del corpo.

Per il discepolo di Platone, Senocrate (396-314 a.C.), gli dei dellamitologia tradizionale e quelli al centro di culti orgiastici e fortementepartecipativi, ovvero culti mistici eventualmente evoluti in senso misterico,sono interpretati come daimones, suscettibili di passioni, ambigui e talorafrancamente maligni.[341] Si va affermando la tipica tripartizione greca degliesseri sovrumani in theoi-daimones-heroes, che ancora nel tardo antico saràribadita da autori neoplatonici.

La distinzione tra dei e demoni, quali differenti classi del sovrumano, masenza necessariamente implicazioni ‘verticali’, apparteneva oltre che allariflessione dotta anche al patrimonio popolare di credenze e di riti, comeattestano delle iscrizioni oracolari a Dodona (IV sec.a.C.), le laminettefunerarie di Thurii in Magna Grecia (IV-III sec. a.C.), documenti iconograficie l’epigrafia funeraria in diverse località del mondo greco ed ellenizzato,dall’Egitto a Roma all’Arabia.[342]

Nei primi secoli dell’era cristiana, la riflessione demonologica verràaccolta e ulteriormente articolata da Plutarco (ca.50-120 d.C.), attentoindagatore della complessa facies religiosa del suo tempo. Nella sua opera deIside et Osiride, egli verrà a interpretare Iside e Osiride e gli altri personaggidel mito egizio, protagonisti di vicende drammatiche che egli ritieneincompatibili con la dignità divina, come daimones, negativi – quali Seth-Tifone – o positivi, come Iside e Osiride, assurti – questi ultimi – dopo ledrammatiche prove narrate dal mito, che Plutarco stesso provvede a riferire,al rango di dei.

Va precisato, a questo punto, come le indicazioni circa l’unità e verticalitàdel divino o del sovrumano, che andiamo illustrando, appartengano piuttostoal versante della riflessione dotta, costituita dalle interpretazioni delpatrimonio religioso greco da parte di singoli autori, siano esseinterpretazioni personali o di scuola (nel caso in cui un autore o un’operasiano inseribili all’interno di una scuola o una corrente di pensiero specifica).Versante, questo, altro e diverso rispetto a quello costituito dalle credenze edalle pratiche diffuse nei diversi strati popolari o tra le comunità cui gli stessi

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pensatori appartengono, ambiti che si espressero attraverso testimonianze digenere diverso (epigrafi, iscrizioni, dediche, fonti archeologiche eiconografiche di diverso tipo, come tombe, are, vasi, etc.) e non solo di tipoletterario quali quelle che veicolano le rappresentazioni del divino cheandiamo esaminando. Difficile è valutare lo scarto esistente tra dette credenzecomunitarie e le interpretazioni di pensatori quali quelli cui si fa quiriferimento. Ovvero fino a che punto questi riflettano una tradizione in cuiaffondano le loro radici ideologiche e culturali, oppure introducano in essainnnovazioni e variazioni.

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1.6.1 ‘Monoteismo pagano’ nella Antichità tardiva?Se non è nuova la riflessione sulle supposte ‘tendenze monoteistiche’ se

non decisamente sul ‘carattere monoteistico’ di posizioni filosofiche ereligiose greche dalle filosofie presocratiche, intese all’individuazione delprincipio della realtà, a quelle degli ultimi neoplatonici, alcune recentiproposte interpretative, facendo uso della categoria classificatoria di‘monoteismo’, a proposito di formulazioni filosofico-religiose che a variotitolo chiamano in causa la nozione di un primo principio della realtà,comunque caratterizzato, dall’arché primordiale dei presocratici all’Unodegli Oracoli caldei, per fare solo due esempi, hanno riproposto la tipologiadel ‘monoteismo pagano’ come formula assiomatica.[343]

Si tratta di un Seminario svoltosi ad Oxford nel 1996 sul tema ‘Paganforms of monotheism in late antiquity’, i cui Atti sono stati pubblicati, a curadi due autorevoli studiosi della tarda antichità quali P. Athanassiadi e M.Frede, nel 1999, con il titolo Pagan Monotheism in Late Antiquity.[344]Questo ‘monoteismo pagano’ sarebbe attestato da un’ampia basedocumentaria, che dal VII-VI sec. a.C. giunge fino al V sec.d.C. e che idiversi contributi dell’opera percorrono: dalle posizioni dei filosofipresocratici,[345] alle ‘filosofie pagane’ della tarda antichità[346] con unaparticolare attenzione per gli Oracoli caldaici[347] e i Saturnalia diMacrobio,[348] alla tradizione gnostica,[349] a un giudaismo di difficileidentificazione quale quello attestato da culti del ‘dio Altissimo’ (theòsHypsistos)[350]. Per converso e contemporaneamente, si tende a valorizzarecome espressioni di una sorta di politeismo, manifestatosi in ambito giudaicoe cristiano, prassi e concezioni quali, ad esempio, il culto dei martiri o degliangeli, proprio di certi ambienti – rispettivamente – cristiani e giudaici, o lostesso riconoscimento, in ambito cristiano, della natura divina di Cristo e ilculto prestatogli. Tutte assunzioni, queste, che suscitano molte perplessità insede di una corretta analisi storico-religiosa.

Infatti, come è stato rilevato in sede di studi, l’opera è ricca diosservazioni stimolanti ma priva di solidi fondamenti metodologici,[351] e adessa, come a quelle che offrono analoga impostazione metodologica, si deve

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imputare un uso troppo generico della categoria di ‘monoteismo’, cheverrebbe a identificare, come detto, qualsiasi posizione filosofico-religiosache chiami in causa un principio unico della realtà, pervenendo a indebiteconfusioni e livellamenti tra realtà storiche e religiose diverse.

È opportuno offrire di seguito una rassegna – senza alcuna pretesa diesaustività su di una tematica così ampia dal punto di vista documentario ecosì complessa dal punto di vista delle implicanze religiose, filosofiche,politiche e, più in generale, culturali – delle principali fonti coinvolte neldibattito scientifico sul ‘monoteismo pagano’ nella Tarda antichità.

Anche in questo ambito, l’analisi storico comparativa, tesa a cogliereaffinità e differenze tra le diverse posizioni religiose che si confrontano e siscontrano nel grande scenario della Tarda antichità, potrà illuminare letangenze e insieme le distanze tra le formulazioni teologiche di marcaellenica e quelle riconducibili all’area monoteistica del giudaismo e delcristianesimo.

Considereremo pertanto, seppure in maniera cursoria, per l’ambitoellenico, fonti letterarie di interesse religioso che, a diverso titolo, fannoriferimento al tardo platonismo, ovvero a quella corrente filosofica che, nellesue forme denominate ‘medioplatonismo’ e ‘neoplatonismo’, dopo averrecuperato, esaurita la fase scettica, l’interesse per la ‘seconda navigazione’, econ esso per la trascendenza, fu, più degli scritti di Platone, il verointerlocutore filosofico dei fenomeni religiosi d’età imperiale come le settegnostiche, i culti di salvezza d’origine orientale, e, prima di tutti, ilcristianesimo.

Il medioplatonismo[352] nasce dalle ceneri dell’Accademia platonicaverso la seconda metà del I sec.a.C. e dura fino all’epoca di Plotino, con cuisi apre la fase neoplatonica. Si tratta di un indirizzo di pensiero che sipropone il compito di offrire un’interpretazione corretta degli scritti diPlatone, senza ignorare l’apporto delle cosiddette ‘dottrine non scritte’ esenza tralasciare di instaurare un rapporto con il pitagorismo e l’aristotelismo.

Tema fondamentale della riflessione medioplatonica non è l’etica (comeper le scuole della prima età ellenistica) ma la teologia, che viene a esserecaratterizzata per la formulazione netta della trascendenza divina. Per il

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medioplatonismo, miti e riti della religione tradizionale esprimono in manierapiù o meno oscura e inconsapevole verità che solo il filosofo sa riconoscerecompiutamente.

Oltre alla gerarchia divina, che era formulata in termini astrattamentefilosofico-teologici e che traeva la sua origine dalla riflessione propriadell’ambito medioplatonico sul rapporto tra il divino, i modelli ideali, e ilsensibile, come teorizzati da Platone in particolare nel Timeo, viene teorizzatada autori d’ambito medioplatonico un’altra gerarchia, maturata da unariflessione sui dati offerti dalle tradizioni religiose a struttura politeistica, coni loro miti, le loro figure divine e sovrumane, le loro pratiche di diverso tipo,da quelle sacrificali a quelle oracolari. In tal modo vengono formulati sistemiteologici caratterizzati da una visione graduata o gerarchica del divino, di tipopiramidale, intesa a coniugare la trascendenza di un dio sommo inconoscibilee innominabile e la moltitudine delle presenze divine dai profondi legamicosmici, contemplate dai diversi pantheon tradizionali, che vengonolegittimati e al contempo assoggettati a una reinterpretazione nel senso quiindicato.

Se lo stoicismo ammetteva un principio divino immanente al mondo, cheesso pervade interamente, nel medioplatonismo la divinità suprema, o protostheos, ‘il primo dio’, è al di là del mondo sottoposto alla genesis, al divenire,ma anche al di sopra della sfera divina cui si rivolge il culto, la sfera deglidei, distinta al suo interno in dei visibili e invisibili, al di sotto della quale èquella dei demoni, anch’essi al loro interno diversificati, come vedremomeglio più avanti.

Il dio sommo e unico al suo livello ha generalmente un carattere noetico,e non è accessibile al linguaggio comune impiegato per denominare le realtàsensibili. Di fatto è volentieri definito dalla coppia concettuale arretos-akatonòmastos, indicibile–innominabile. Infatti, l’anonimia è unacaratteristica dominante delle rappresentazioni di questo dio. Si ammette,tuttavia, la possibilità per via analogica di approssimarsi alla sua natura, conla conseguenza che si viene ad affermare che i tanti nomi divini che le diversetradizioni religiose hanno usato sono ugualmente validi per esprimerla. E,dunque, si viene ad ammettere come caratteristica del dio sommo anche la

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polinomia. Un’idea, questa, fortemente dibattuta negli ambienti filosofico-religiosi di Alessandria, condivisa da Celso,[353] e che avrà in Origene unpuntuale confutatore.[354] Dibattuto era pure, nello stesso ambiente,l’argomento che l’unico vero figlio e dunque immagine di Dio non potesseessere l’uomo (immagine) e neppure Cristo (figlio) ma, se mai, il cosmo,[355] come già aveva detto Platone,[356] annunciatore di una ‘religionecosmica’ che sarebbe stata diffusa in epoca ellenistica,[357] per la quale ilmondo nel suo ordine e nella sua bellezza è espressione immediata dellanatura nascosta e ineffabile del dio.

Numenio, medioplatonico e vicino anche al neopitagorismo, istituisce unagerarchia[358] tra il primo dio, protos theos, presentato come un nous chenon svolge alcuna attività oltre al pensiero di se stesso,[359] ma chemetaforicamente è detto ‘padre’ del secondo dio; il secondo dio, dettoanch’esso nous, o demiurgo della genesis[360] laddove il primo è dettodemiurgo della ousia; il terzo dio, identificato ora con l’Anima del mondo oracon il cosmo stesso[361]. Dal canto suo, la materia è presentata comeingenerata, quale fiume che scorre impetuoso, concupiscente, identificatacome non essere, data la sua incapacità di permanere sempre nello stessostato. Pur subendo l’azione del secondo dio, essa riesce a scinderlo in due,possedendo un epithymetikon ethos, e ad attrarlo a sé introducendo in lui ildesiderio per il mondo sensibile[362]. La materia è vista come principio ecausa del male.[363]

Uno scritto ‘pseudepigrafo’ pitagorico, ‘Sul dio e sul divino’, situabileverisimilmente fra I e II sec. d.C e di cui Stobeo ha tramandato un frammentocome opera del pitagorico Onata, dopo aver illustrato le prerogative del ‘dio’che sovrasta tutti i viventi, inconoscibile se non da parte di pochissimiuomini, insieme intelletto, anima e principio razionale direttivo di tutto ilcosmo, non percepibile sensibilmente ma soltanto attraverso la ragione el’intelletto e per il tramite delle sue opere ed attività,[364] dichiara: “Misembra che non ci sia un solo Dio, ma Uno il più grande (ho meghistos) e piùelevato, il quale domina il tutto, e gli altri molti sono differenti per potenza.Egli regna su tutti costoro e domina, superiore per grandezza e virtù. Questo èil dio che abbraccia tutto intero il cosmo”, mentre gli altri dèi si muovono nel

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cielo secondo il movimento del Tutto, sottoposti al primo dio intellettuale.Il rifiuto della concezione di ‘un solo Dio’, che gli interpreti identificano

come propria degli ambienti giudaici e cristiani, si sostanzia di un giudizionegativo, speculativamente interessante, sulla unicità del dio di contesti qualiquelli giudaico e cristiano, in quanto solitudine e debolezza: “Coloro che nonammettono altro che un solo Dio – prosegue – si ingannano, poiché noncomprendono che ciò che eleva di più la trascendenza divina è il fatto diregnare e di avere il comando sui suoi pari, di essere il più forte e al di sopradegli altri”. Anche in altre fonti si sarebbe espressa una analoga polemica daparte pagana contro l’esclusivismo giudaico e cristiano, che fa vivere –secondo la percezione pagana – il dio unico in solitudine e desolazione.

Basti ricordare quanto asserisce, nell’Octavius di Minucio Felice (10,30),il pagano Cecilio, il quale scorge un segno di debolezza nel fatto che il Diodegli Ebrei sia unicus, solitarius, destitutus, tanto che la nazione di coloro chelo venerano è stata sconfitta e ridotta in cattività dalle armate romane.Un’accusa di solitudine che avrebbe trovato nella riflessione trinitaria su Diocome somma espressione di relazione, una relazione intradivina, un’efficacerisposta.

All’ambito medioplatonico fa riferimento anche Apuleio[365] con la suaopera De Platone et eius dogmate, che è un manuale di filosofia platonica, econ il De deo Socratis. Egli illustra uno schema teologico che contempla ladistinzione tra un dio supremo trascendente (anche rispetto alla sfera divina,[366] in quanto summus exsuperantissimus deorum) e ‘ineffabile’,[367] le cuicaratteristiche sono esposte a partire da una citazione da Tim. 28C, e unaschiera di dei inferiori,[368] detti dii caelicolae (o caelites), distinti invisibili, oratoi (i divini corpi celesti: sole, luna, stelle e pianeti) e invisibili,aphaneis, identificabili con le divinità dei culti tradizionali e protagoniste deimiti. Gli dei del secondo rango sottostanno al dio supremo e non hanno unrapporto diretto con gli uomini, di cui si prendono cura per mezzo deidemoni; se ne deduce una maggior importanza degli dei visibili, in quantoaccessibili all’esperienza, ma soprattutto in quanto legati, in questainterpretazione, all’autorità platonica laddove sugli altri pesava l’ipotecamitica.

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Al di sotto del livello divino e al di sopra del livello umano sono collocatii demoni, che operano come tramiti tra i due livelli. Ai demoni vengonoriferiti i fenomeni della divinazione e della magia come pure i sogni.Suscitano le profezie, i sogni veridici e gli oracoli[369]. Ricevono sacrifici esono oggetto di atti cultuali. Apuleio raccomanda la venerazione dei demonida parte dell’uomo.[370]

I demoni sono anche responsabili del male e in questa direzione possonoagire come strumenti della divina provvidenza e giustizia nella punizione deimalvagi. La loro presenza e la loro attività consentono ad Apuleiol’affermazione classica della teodicea platonica e medioplatonica, secondo laquale il dio non è colpevole del male commesso dagli uomini.[371] Taleteologia graduata apuleiana si rivela allora particolarmente funzionale a unaspecifica impostazione e soluzione del problema dell’unde malum, ovveroalla soluzione di questioni di teodicea, concernenti la responsabilità di dio inordine al male. È infatti a livello del divino inferiore e specificamente deldemonico che, ove la questione dell’unde malum sia posta, viene collocata laradice del male. I demoni, infatti, si è detto, possono essere responsabili delmale agendo come strumenti della divina provvidenza e giustizia nellapunizione dei malvagi. Ma c’è, a livello del demonico, anche una zona, percosì dire, d’ombra, nella quale essi non si muovono più come intermediaridella provvidenza. Il livello demonico si caratterizza, infatti, per una tensioneinterna, tra demonico ‘buono’ e demonico ‘cattivo’, come già in Plutarco, equest’ultimo demonico ha un rapporto stretto con il male. Ci troviamo difronte a una concezione del male del tutto specifica nel senso che essa ha ache fare con una gradazione e graduazione all’interno del divino, dalmomento che il male si origina all’interno del demonico, ovvero di una sortadi divino inferiore, o un ‘meno divino’ rispetto a un ‘più divino’, il divinosuperiore, il quale rimane estraneo a qualsiasi problematica di male e diorigine del male, secondo il placito già platonico per cui il dio è innnocente,anaitios.[372]

Si tratta di una concezione di male non meramente etico, ma anche esoprattutto ontologico: vale a dire un male che si radica e si origina non in undifetto di volontà a carico di una creatura umana libera (male etico), ma in

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una natura data, una natura divina seppur inferiore, la natura demonica. Taleconcezione del male, dunque, presuppone una specifica visione del divino,graduata al suo interno. Ci si potrebbe poi interrogare su quale potesse essereil rapporto tra il divino sommo, e al suo livello unico, e le altre espressionidel divino o del sovrumano, vale a dire gli dei inferiori e i demoni, come puretra il divino sommo e il mondo o l’uomo. La prima questione pertiene ilcampo della teologia e la seconda quello della cosmologia e dell’antropologia.

In Apuleio il dio supremo è parens degli dei, omnium rerum dominatoratque auctor, assiduus opifex del mondo, genitor rerumque omniumexstructor,[373] patrem et architectum huius divini orbis.[374] Attribuzionidi paternità, riferite al deus summus, che sono simili a quelle presenti anchein altri autori medioplatonici. Un’eco degli epiteti apuleiani sembra essere nelfilosofo Ierocle[375] che definisce il dio dei pagani rex, maximus, opifexrerum, fons bonorum, parens omnium, factor altorque viventium. In sostanza,dopo Platone, l’applicazione di pater e poietes al dio è tradizionale, comepure quella di demiourgos kai pater o di poietes kai demiourgos. Unapaternità, quella nei confronti degli altri dei o comunque delle fasce inferioridel sovrumano, che tuttavia non è esplicitamente messa a tema per quantoriguarda le sue specifiche modalità, se per via generativa o emanativa, ma chesi presta piuttosto ad esprimere una superiorità gerarchica.[376]

Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra il dio sommo e il mondo, sipotrà qui solo ricordare come tutto il medioplatonismo, ma già primaSenocrate e Aristotele,[377] sulla questione del rapporto tra il dio e il mondo,si basino sul noto passo del Timeo[378] e sviluppano in direzioni diversel’ambivalenza già implicita nella posizione platonica, ora prendendo allalettera l’indicazione platonica secondo la quale il mondo è nato (gegone), orainvece sostenendo che la ‘nascita’ del mondo in realtà consista in unpassaggio dal chaos al cosmo, propendendo, dunque, per una interpretazionemetaforica del passo in questione. Apuleio (come altri medioplatonici) ritieneche il mondo sia senza inizio temporale, ma frutto di un intervento divino chemette ordine alla materia originaria che si muoveva caoticamente, per effetto(secondo Plutarco[379]) dell’anima cosmica malvagia. È, pertanto, eterno in

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quanto la materia da cui è tratto esiste ab initio, e ha avuto inizio in quanto ècosmo, ovvero frutto di un intervento che ha messo ordine nel chaos. Insostanza, si deve dire che non si è mai raggiunta una chiarezza sul piano di unvero creazionismo[380] nella linea esegetica indicata, laddove nell’ambitodella riflessione cristiana andava maturando una progressiva chiarificazionesul tema del rapporto fra Dio e il mondo, che sarebbe sfociata in una decisaprospettiva creazionistica,[381] nel senso di creatio ex nihilo.

Il sistema graduato di Apuleio, sopra illustrato, ha affinità con altresistematiche del divino presenti in testi del platonismo della prima etàimperiale. Per il Didascalico[382] dopo il demiurgo (che è il secondo nousovvero il theos epouranios) vengono gli dei delle sette sfere planetarie (noeràzoa) e al di sotto di essi, collocati nella sfera sublunare, alloi daimones, chepossono essere oratoi, ‘visibili’, oppure aòratoi, ‘invisibili’. Qui la visibilitàè intesa come capacità di questi demoni (composti di etere, di fuoco, di aria odi acqua) di apparire in situazioni eccezionali, non come nel caso dei corpicelesti la cui presenza visiva è costante). Da essi dipendono i fenomenioracolari[383].

Celso, autore della prima argomentata confutazione a noi notadell’impianto dottrinale cristiano e di quello giudaico cui quest’ultimointendeva ancorarsi, alla nozione giudaica del Dio unico, che rifiutavedendola inficiata da un superbo esclusivismo, contrappone la concezione diun Dio sommo, un ‘dio sopra tutti’, su cui vede convergere tutte le tradizionireligiose, che attribuiscono nomi diversi a questa entità suprema e nonmisconoscono le numerose altre personalità divine che popolano i rispettiviquadri religiosi. Per Celso “non fa differenza se uno chiama il Dio sommo fratutti col nome usato dai Greci, ovvero con quello usato, ad esempio, dagliIndiani, ovvero dagli Egiziani”[384]. Una polinomia, questa, piegata in Celsoal riconocimento della legittimità delle diverse tradizioni religiose, di controall’esclusivismo giudaico e poi cristiano. Subordinata al dio sommo è unagraduata gerarchia di potenze, funzionalmente connesse ai vari dipartimenticosmici[385] e identificabili con le molteplici personalità dei pantheontradizionali di tutta l’oikoumene mediterrea. Ad esse è necessario prestare ildovuto culto secondo le diverse tradizionali modalità rituali, nelle quali le

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varie società umane riconoscono un elemento distintivo e qualificante dellapropria identità culturale e religiosa[386]. Ai cristiani che si rifiutano diprestare culto alle divinità dei pantheon tradizionali, potenze subordinate aldio sommo e garanti della stabilità dei diversi dipartimenti cosmici, e checome tali sono da lui accusati di fare opera destabilizzante, ovvero di causarela rovina dell’Impero, Celso obbietta che l’affermazione secondo cui ‘non èpossibile che lo stesso uomo serva parecchi padroni’, che i cristiani stessioppongono all’invito a partecipare al culto degli dèi tradizionali[387], è “lavoce di ribellione d’una gente che ha innalzato una trincea attorno a sé e siisola dal resto degli uomini”[388]. A suo parere, infatti, se quell’affermazionepuò valere nei rapporti umani, non vale se riferita alla divinità: “colui il qualevenera parecchi dèi, onora uno di quelli che appartengono al grande Dio, eper questo è gradito a lui”.[389] La venerazione degli dei inferiori e deidemoni, paragonati a ‘satrapi, governatori, generali e prefetti’ del primo Dio,paragonato al Gran Re persiano o all’Imperatore,[390] è auspicabile e tale danon contraddire la posizione primaria del sommo Dio, ma anzi da onorarloattraverso i suoi ministri e rappresentanti.

Incomprensibile appare pertanto al pagano Celso il rifiuto da partecristiana a prendere parte alle grandi festività cittadine, in cui si esprimeva ilfondamento comunitario e sociale dei culti tradizionali[391].

Senza pretese di esaustività, si potranno ricordare qui altre fonti d’epocaimperiale ugualmente espressive di una teologia graduata del tipo di quellegià ricordate e tali da attestare l’ampia circolazione di siffatte concezionianche fuori dalle ristrette cerchie di filosofi e letterati.

Apollonio di Tiana (30-98 d.C.), di formazione neo-pitagorica, presentatocon toni apologetici dal biografo ammiratore Filostrato (170-249 d.C.), autoredi una ‘Vita’ di Apollonio, fu un profeta itinerante, oggetto di un progressivocoagularsi intorno alla sua figura, per taluni in origine molto modesta dimago e mistico cappadoce, di tratti leggendari di guaritore e taumaturgo;avvicinata a quella di Pitagora di Samo, e caricata di tratti demonici, oggettodi culto in alcuni centri dell’Asia Minore, è esemplare degli interessi religiosidi larghi strati degli ambienti pagani nei primi secoli d.C. Diverse fonti[392]gli attribuiscono una teologia graduata e la nozione di un ‘sacrificio

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spirituale’ come unica offerta degna del dio sommo raggiungibile soltantoattraverso “il puro silenzio e i puri pensieri che lo riguardano”. Nel suo (ma lapaternità è dubbia) trattato ‘Sui sacrifici’ avrebbe proclamato: “Al dio che noichiamiamo primo, che è unico, separato da tutti gli altri e dopo il qualebisogna situare tutti gli altri, non si offrirà assolutamente alcun sacrificio; nonsi accenderà del fuoco né lo si nominerà con parole sensibili”.[393] I sacrificisono da compiere in relazione ai diversi dei. E questo perché le realtàmateriali sono in modo diverso toccate da qualche contaminazione.

Tale prospettiva sarebbe stata ribadita da Porfirio di Tiro – al qualeverremo più avanti – che avrebbe affermato, sulla base di una analogateologia graduata, essere i sacrifici cruenti da destinarsi ai demoni, checostituiscono la fascia inferiore del divino.[394] Si ricorderà come ilsacrificio fosse l’atto sacro per eccellenza delle religioni etnico-nazionali astruttura politeistica d’ambito circum-mediterraneo. Era l’evento in cui sirealizzava, per eccellenza, la comunicazione tra comunità umana e livellodivino, anche se non in maniera esclusiva, dandosi altre forme e modalità dicomunicazione tra l’umano e il divino, come il fenomeno oracolare o ladivinazione, nelle sue diverse forme, sulle quali avremo modo di riflettere trabreve.

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1.6.1.1 L’‘oracolo teologico’

A dimostrazione della pervasività nei diversi ambienti del tardoanticodegli schemi teologici che andiamo illustrando, faremo ora riferimento allapratica oracolare come attestata nei primi secoli dell’era cristiana.[395]

La pratica oracolare (o divinazione o mantica) è l’arte dell’interpretazionedi messaggi simbolici ritenuti come inviati dagli dei. Gli oracoli, piùspecificamente, sono messaggi divini in linguaggio umano, ricevuti in formadi affermazioni fatte da un dio, di solito in risposta a domande. Il termine‘oracolo’ designa, poi, i luoghi in cui questi messaggi sono sollecitati ericevuti, di solito santuari con tutto un apparato di pratiche rituali e dipersonale specializzato che funge da mediatore tra il consultante e il dio. Inetà tardo-ellenistica è diffusa anche la figura del profeta libero, itinerante,personaggio storico e non puramente mitico come la Sibilla. Altre forme didivinazione sono la cleromanzia (estrazione a sorte), l’ornitomanzia(interpretazione dei segni forniti dal volo degli uccelli), l’epatoscopia(osservazione delle viscere dell’animale sacrificato), la ieromanzia(osservazione del comportamento dell’animale destinato al sacrificio durantei riti preliminari), la piromanzia (osservazione del fuoco sacrificale), lacledonomanzia (interpretazione dei suoni e degli omina di vario tipo),l’oniromanzia (interpretazione dei sogni). La forma usuale di consultazione edi responso era quella orale, ma a Dodona e in altri luoghi domanda e rispostapotevano essere formulate per iscritto. Se il fenomeno oracolare poteva avereconosciuto, come testimonia Plutarco,[396] un parziale declino al suo tempo,va tuttavia registrata soprattutto una virata nel modo di concepire l’oracolo.

Infatti, la pratica oracolare si sostanzia, nel tardo ellenismo, di uninteresse teologico, in quanto si propongono alla divinità non tanto questionispecifiche e contingenti, riguardanti la vita personale o della comunità,questioni riguardanti anche la sfera religiosa, quali ad esempio l’opportunitàdi istituire o diffondere determinati culti, ma interrogativi sui fondamentidell’esistenza, in particolare sulla provenienza dell’anima umana e la suasorte dopo la morte,[397] sulla natura del divino e le sue modalità dimanifestazione. Testimoni, gli oracoli teologici, di una ‘età d’angoscia’,[398]nella quale alle rivelazioni pubbliche o private si sollecitava una risposta alle

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proprie inquietudini religiose. Si ebbe pertanto una vasta produzione, dellaquale abbiamo documentazione epigrafica e letteraria, di oracoli teologici,relativi ai tradizionali dei oracolari greci, come Apollo, oppure ad altredivinità di origine orientale. Sottoposti a un’esegesi filosofica da parte diPorfirio, recepiti dal tardo autore della Theosophia di Tubinga,[399] non sonoper lo più meri prodotti letterari ma autentici oracoli realmente provenienti dacentri oracolari, quali, nel caso che esamineremo, la sede oracolare di Apollodi Claro. Si può pertanto ritenere che essi rispondessero a reali esigenze delcostume mentale e religioso di questi secoli, dal II al V d.C. L’esigenza diinterrogarsi sul divino, che essi manifestano come diffusa in larghe fascedella popolazione, appare legata ad un disagio o a una ansia religiosa che leforme della religione tradizionale non potevano soddisfare.

Ci limitiamo qui a esporre un responso di Apollo Clario, ovveroproveniente dal santuario microasiatico di Klaros, responso fornito a uninterrogante che chiedeva chi fosse il dio e quale fosse la sua natura. Taleresponso si trova in Lattanzio,[400] nella Theosophia di Tubinga,[401] e inuna epigrafe (del II-III sec.) rinvenuta a Enoanda in Licia (Asia Minore),[402] una delle città da cui provenivano le delegazioni inviate a consultarel’oracolo. Il fatto che sia stato in parte inciso sulle mura della città diEnoanda, in speciale posizione, nel punto che suole essere colpito all’alba daiprimi raggi del sole, mostra come l’oracolo abbia acquisito una dimensionepubblica. La collocazione dell’epigrafe ha un legame con il contenuto,giacché nella seconda terzina dell’epigrafe stessa si raccomanda la lode voltiverso oriente al levarsi del sole.

L’epigrafe di Enoanda, divisa in 16 righe, corrisponde a due terzine diesametri, la prima delle quali soltanto corrisponde all’oracolo 13 dellaTheosophia e di Lattanzio (ma con una variante al verso 2, cfr. infra).L’oracolo 13 della Theosophia è costituito da 16 versi, ma Lattanzio ciinforma che si trattava di un responso originariamente redatto in 21 righe, dicui l’autore cristiano riporta solo una piccola parte, tre esametri in tutto, chene costituivano, egli dice, il principium.[403] Lattanzio cita questo oracolo alpari di altre fonti pagane per dimostrare che anche queste affermavano ‘unumesse regem mundi, unum patrem, unum dominum’.[404]

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Secondo Lattanzio, il responso oracolare era stato sollecitato da uninterrogante che aveva posto un preciso quesito teologico: quis aut quid essetomnino Deus (‘chi o che cosa fosse, in definitiva, dio’). La Theosophiaconosce il nome del consultante, Teofilo, ma pone la domanda in terminidiversi: ‘Sei tu Dio oppure lo è un altro?’ (su ei theos e allos). In entrambi icasi si rivela nel fedele un bisogno di conoscere la verità su dio e la suanatura. In forma compiuta, l’oracolo appare nella Theosophia di Tubinga:

C’è una fiamma occupante lassù la conca iperurania che si muove incessantemente, eternitàinfinita; e fra i beati è irraggiungibile, se non voglia deliberare il grande padre che si possa mirarese stesso. Là non conduce l’etere le scintillanti stelle, né la luna si libra splendente; non lo incontrasul percorso un dio; neppure io stesso, viaggiatore dell’etere, lo raggiungo dispiegando i mieiraggi. Da dio si produce l’immenso torrente della vampa, che procede a spire, sibilando. Néqualcuno dividerebbe il proprio animo toccando quel fuoco etereo, perché non ammetteseparazione, ma si unisce eternità con le eternità, dal dio stesso prodotte, nell’incessante travaglio.

Seguono i tre versi comuni anche a Lattanzio e all’epigrafe di Enoanda(con una variante al verso 2 della terzina nella versione di Enoanda):

Nato da se stesso, dotato di scienza infusa, privo di madre, imperturbabile, / senza ammetternome espresso in verbo (ounoma medè logoo choroumenos) dimorante nel fuoco,/ questo è Dio:noi siamo invece una minuscola particella di Dio, noi angeli messaggeri (aggeloi).[405]

Nella versione di Enoanda, come detto, c’è una variante al v.2 che,invece, recita: ‘che non ammette appellativo e ha molteplici nomi’ (ounomame choròn, poluònumos). Se il dio, nella versione di Enoanda, ècaratterizzato dalla polinomia, ovvero dall’avere molti nomi, in Lattanzio enella Theosophia è caratterizzato invece dalla anonimia, tratto tipico di unateologia negativa o apofatica, dovuto a un intervento, verosimilmente – manon necessariamente – da parte cristiana, volto a correggere una annotazioneche appariva di sapore troppo politeistico.

L’epigrafe di Enoanda ai tre versi citati aggiunge i seguenti tre versi: “Ese si vuole conoscere questo, intorno a dio, quale sussiste in atto, disse (scil.Apollo) che l’etere onniveggente è dio, a cui mirando si prega, di primomattino, rivolti verso il levante”.

Oracolo per eccellenza teologico, in quanto si pronuncia su dio e la suanatura, avrebbe conosciuto un cammino di questo tipo: reso ad un consultantedel quale è stato conservato il nome in risposta a una domanda purepervenuta, sarebbe uscito dal santuario e giunto a Enoanda, ed infine sarebbe

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entrato nel circuito letterario, in raccolte di oracoli, come la Theosophia, e inopere di scrittori cristiani, come Lattanzio.

La prospettiva teologica espressa dall’oracolo in questione si basasull’identificazione del dio con il fuoco trascendente che occupa la voltaiperurania, increato ed eterno, del quale non è dicibile il nome né accessibilela sede. Della sua potenza gli altri esseri invocati come dei costituisconocome una piccola porzione (meris). Se l’oracolo doveva conoscere anche unadimensione cultuale, esso tuttavia si caratterizza soprattutto per unadimensione speculativa, che teorizza intorno ai rapporti tra il dio sommo e glidei tradizionali, sue dynameis, o potenze, e aggeloi,[406] o messaggeri, comeApollo, che nell’oracolo parla in prima persona, nonché sui rapporti tra il dioe il tutto, che il dio sommo permea senza peraltro esaurirsi in esso.

L’oracolo considerato si pone come suggestivo esempio di unaproduzione oracolare che, fornendo risposte a interrogativi circa la natura el’essenza del divino, tenta di conciliare i politeismi tradizionali con le spinteall’unificazione del divino pervasive nel secondo ellenismo.

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1.6.1.2 Testimonianze neoplatoniche

E veniamo a testimonianze che si collocano in una temperie ormaineoplatonica. A partire da Porfirio, il secondo grande neoplatonico greco. Lavisione teologica illustrata da Porfirio contempla un Principio primoassolutamente trascendente, oggetto da parte dell’uomo della solacontemplazione spirituale, unico mezzo della vera salvezza.[407] Al di sottodi quello si pone il livello degli ‘dèi intelligibili’, ai quali possono essererivolti inni proferiti con parole (hymnodia),[408] e quello degli dèi-astri in cuionore, secondo l’insegnamento pitagorico, deve essere acceso il fuoco lorocongenere. Anche ad essi, peraltro, non deve essere offerto alcun essereanimato ma solo vegetali.[409] Le vittime animali sono destinate ai demoni,buoni o malvagi,[410] che integrano il livello inferiore dello schemateologico illustrato da Porfirio.

Giamblico, il terzo grande neoplatonico greco, parla di dei intelligibili,dei visibili e demoni,[411] nonché di eroi e anime.[412] In tardi esponenti delpaganesimo che si esprime in latino, come Firmico Materno,[413] Tiberianoe Marziano Capella, è possibile trovare il concetto di un dio unico,inesprimibile eppure venerato in più modi e in varie lingue da tutti i popoli,diffuso nell’universo e suo reggitore, attorniato da una schiera di divinitàminori a lui sottomesse.[414]

Sintomatico è il fatto che quando il polemista cristiano Eusebio diCesarea (ca. 260-340 d.C.) vuole sintetizzare quello che gli appare ilpanorama religioso della grecità tarda ne mette in luce la tipica impostazioneillustrata: egli mostra,[415] avendo come fonte probabilmente Porfirio, comela teologia dei Greci (elleniké theologia) contempli quattro tipi (gene) didivinità: il dio supremo (protos theos), ‘padre e sovrano di tutti gli dei’, unaseconda categoria (deuteron genos) di dei, quelli abitanti l’etere e il cielo finoalla luna; i demoni, distinti in buoni e cattivi, che risiedono nelle regioni sub-lunari e nell’atmosfera, e infine gli eroi, ovvero le anime dei morti, abitantidelle regioni terrestri e sotterranee. E riferisce, dopo aver riportato una taledistinzione, come i fruitori di tale visione dicano che bisogna innanzituttorendere culto agli dei del cielo e dell’etere, in secondo luogo ai demoni buoni,in terzo luogo alle anime degli eroi, e in quarto luogo occorre conciliarsi (o

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‘rendersi propizi’) i demoni malvagi.In una temperie spirituale neoplatonica rientra anche la potente visione

teologica espressa dal discorso di Vettio Agorio Pretestato, di cui notetestimonianze epigrafiche documentano le molteplici adesioni religiose, neiSaturnalia di Macrobio.[416] Scritti attorno al 430 d.C., esprimono la visionedel politeismo tradizionale presso l’ultima generazione di pagani: una visionecaratterizzata dalla sincrasia tra le entità divine che nei diversi pantheonoccupano una posizione in qualche modo somma e il sole. La prospettivaespressa da Macrobio si caratterizza per la sua connotazione solare, per ladistinzione tra gli dei sopracelesti e infracelesti (ai quali ultimi solo competela rappresentazione sotto forma mitica) e per l’interpretazione di larga partedelle figure divine tradizionali come espressioni delle caratteristiche del sole.

Non orientata in senso strettamente speculativo è, poi, l’epistola delgrammatico Massimo di Madaura (città della Numidia non lontana daTagaste e Ippona, nell’Africa settentrionale) ad Agostino di Ippona,[417]scritta forse nel 390, che mostra quale potesse essere il volto del politeismocome percepito dalle cerchie colte del tempo.

Nella sua epistola, Massimo chiede ad Agostino di abbandonare ladenigrazione del paganesimo e di aprire un dialogo con lui sulla natura delladivinità. Come i cristiani, i pagani colti – argomenta Massimo – credono inun unico supremo dio del quale i tanti dei sono come le membra; un ‘padrecomune di dei e uomini’ che è lodato sotto vari nomi, quelli degli dei deipoliteismi tradizionali. Questo padre comune non è l’esclusiva proprietà diqualcuno e può essere venerato in modi diversi.[418]

La posizione di Massimo si pone come un tentativo di legittimazione deiculti tradizionali prestati, nella interpretazione di Massimo, a quelle che sonoconsiderate le membra, ovvero le manifestazioni, note ai diversi popoli connomi diversi, di un medesimo dio sommo e unico al suo livello. Larappresentazione di questo (‘senza inizio né prole naturale’) esclude la tipicarappresentazione teogonica greca e al contempo, per quanto concerne laseconda caratteristica, il non aver prole, esclude l’affermazione cristiana dellafigliolanza divina di Gesù Cristo.

La polinomia del dio, ovvero la indifferenza del nome nella comune

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ignoranza del vero nome, è un tratto caratteristico di queste rappresentazioniteologiche da parte pagana, già presente in Celso[419] e vivamentecombattuto da Origene, nella sua requisitoria nei confronti di questo. Origeneafferma, infatti,[420] che non è affatto indifferente il nome, poiché – secondoil testo biblico – Dio stesso rivela il proprio nome. Il culto poi, nellaprospettiva difesa da Massimo, è rivolto alle singole espressioni del diounico, le sue ‘membra’, ma non a lui, o meglio, a lui solo in maniera mediatae non diretta. L’insistenza sul pluralismo delle forme di culto prestateall’unico Dio ribadisce la nozione, peculiare degli ambienti religiosi con cuidiscute Agostino, della molteplicità delle ‘vie’ religiose e quindi dellalegittimità dei culti tradizionali, che la legislazione imperiale andavaproscrivendo, rivisitati alla luce della nuova spiritualità ‘enoteistica’. Tuttociò nella certezza dell’ineffabilità del dio sommo e della inadeguatezza dellecapacità umane a una piena conoscenza di lui.

Tuttavia, la posizione di Massimo e quelle precedentemente evocate diMacrobio e dell’oracolo teologico della Theosophia, si differenziano dallevisioni teologiche elaborate da Apuleio, o da Apollonio di Tiana o daPorfirio, solo per citare qui alcune delle principali fonti al riguardo di talivisioni. Se queste, più sistematiche, esprimono una rigida gerachia divina ditipo piramidale, quelle offrono una visione che potrebbe essere piuttostodefinita ‘circolare’, nel momento in cui interpretano i tanti come parti(l’oracolo teologico considerato), o espressioni (il discorso di Pretestato inMacrobio) o membra (Massimo di Madaura) dell’Uno.

Alle affermazioni di Massimo, e in particolare a quella per cui “siffatti deisono come le membra dell’unico e sommo Dio” Agostino risponde con unabreve, derogatoria lettera,[421] scritta forse prima dell’emanazione dellalegge contro il culto pagano del 28 febbraio 391, e nella quale non senza uncerto sarcasmo (‘Trattiamo fra noi qualcosa di serio o vogliamoscherzare?”[422]) Agostino ribadisce la fede da parte dei christiani catholicinell’unum ipsum Deum qui fecit et condidit omnia,[423] e argomenta intornoalle diverse questioni sollevate da Massimo.

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1.6.1.3 Attestazioni cultuali

Larga parte delle fonti fin qui considerate delineano con modalità diverseuna tipica visione teologica ispirata alla nozione di una monarchia divinaespressa da un divino sommo e unico al suo livello, da cui dipendono unaserie di esseri a lui inferiori, ma in continuità ontologica con quello, definitianch’essi ‘dei’, nonché ‘demoni’, espressioni – questi – di un divino inferioree di natura particolare.

Tale visione costituisce lo sbocco di una riflessione, da lunga datamaturata in ambito greco in forme non sempre sistematiche, sulle credenze epratiche cultuali delle tradizioni religiose etniche a struttura politeistica delbacino del Mediterraneo. L’ampia diffusione del messaggio monoteisticocristiano, in continuità parziale con il giudaismo, e l’attacco da quello mossoalle tradizioni religiose antiche a struttura politeistica, ormai omogeneizzatesotto la cifra dominante della tradizione greca, aveva acuito detta riflessione‘pagana’ orientata a valorizzare con modalità diverse una sorta di unità eunicità del divino, pur nella mai rinnegata comprensione plurale dello stesso.In pari tempo si imponeva, da parte pagana, la necessità di mostrareall’interlocutore cristiano il rapporto organico della facies religiosatradizionale con le conquiste del pensiero filosofico, con quel logos greco chegli stessi cristiani erano pronti a riconoscere in molti suoi aspetti come unaacquisizione fondamentale e irrinunciabile. Sulla sollecitazione di tali stimoli(e, forse, non solo di essi), si dispiegò un ampio ventaglio di posizioni che,nell’impossibilità di essere percorse in maniera esaustiva, date l’ampiezzadell’arco storico che le comprende e la varietà di fonti e generi letterari che leespressero, abbiamo qui solo schematicamente, e selettivamente, proposto: dapensatori come Apuleio a strenui difensori dell’‘antico discorso sacro’ comeCelso a profeti itineranti e taumaturghi come Apollonio di Tiana, da testioracolari come quelli ‘teologici’ variamente utilizzati sia tra pagani come tracristiani, agli interlocutori – quali Massimo di Madaura – di un Agostinoormai approdato dopo un sofferto percorso intellettuale alla cattolicità.

Parallelamente a queste espressioni, e talora intersecandosi variamentecon esse, si andavano diffondendo altre posizioni più propriamente pertinentiil piano cultuale, sia in forma pubblica sia in forma esoterico-iniziatica,

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relative a figure divine, volta per volta acclamate come ‘uniche’, in quantotali da vedere su di sé confluire prerogative e nomi di altre divinità; figured’ampiezza non più settoriale ma cosmica, dotate di capacità soccorrevolenelle diverse contingenze della vita umana. Ad alcune di tali espressionicultuali, che peraltro contemplano anche importanti prese di posizione‘teoriche’, faremo ora cenno.

In Egitto, durante l’ellenismo, con i Tolomei, si era addivenuti ad unafusione di elementi egizi con elementi greci anche nell’ambito del culto,come dimostra la fondazione di un nuovo culto da parte di Tolomeo I Soter,quello di Serapide, esempio forse unico di culto fondato, nell’ambito ditradizioni religiose di tipo etnico, e testimoniato da fonti sia letterarie siaarcheologiche e numismantiche. Confluendo in lui i caratteri di Osiride e delgreco Plutone-Hades, Serapide è espressione della fusione tra l’elementoegizio e l’elemento greco perseguita dalla politica di Tolomeo e dei suoisuccessori. Al centro di un culto cosmopolitico (più che propriamenteuniversalistico), ma non misterico, a Serapide si riferiscono tipiche iscrizionidi tono enoteistico quali quella che recita “uno (heis) (è) Zeus, Serapide,Helios, signore del cosmo (kosmokrator), invincibile (aniketos)”. Taleiscrizione fonde la nota formula heis theos (uno è dio), con l’altra, non menodiffusa formula, consistente nella enumerazione e identificazione di piùdivinità somme. Chiamare Serapide ‘Zeus’ significa attribuirgli caratteri disommità e sovranità tradizionalmente legati in ambito greco a Zeus, echiamarlo ‘Helios’ significa attribuirgli non il carattere settoriale del sole,quale poteva emergere già dai poemi omerici, ma quei caratteri che il Soleandava assumendo in età ellenistica ed ellenistico-romana, come figura in cui,per eccellenza, si poteva identificare la divinità. Gli altri attributi loqualificano come potente (ma non bellicoso come Mithra, pure ‘invitto’),signore del cosmo, non certamente creatore, ma tale da promuoverel’esistenza del cosmo stesso. La definizione che ne dà Plutarco[424] di dio‘comune a tutti gli uomini’, ne esprime il carattere universale tipicamenteellenistico: se prima gli dei erano legati fortemente al gruppo etnico e nonc’erano dei propriamente universali, nel mondo ellenistico così aperto allauniversalità, o meglio alla cosmopolicità, si rendono possibili queste

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definizioni. Strettamente legata all’universalità è la cosmicità del dio,riconosciuto come colui che promuove il movimento dell’universo, dio legatoal mondo infero da cui promana fertilità e fecondità, dio salvatore nel sensodi largitore di salute, dunque benefico e guaritore. Non più dio settorialecome il tipico dio politeistico, anche se tale da potersi occupare di piùfunzioni, come Demetra. Non dio in vicenda come Osiride, mafondamentalmente stabile, e più plasticamente ‘vivo’ dello Zeus orfico, soprada noi evocato, anch’esso ‘dio cosmico’. Dio privo di genealogia e di miti, inaccordo con le esigenze della sua età. Più tardi, ai tempi di Macrobio,[425]Serapide si sarebbe prestato alla identificazione con il sole, nell’ambito diquella teologia solare che il paganesimo, da ultimo, tentò di oppore alcristianesimo.

Caratterizzazioni solo in parte analoghe a quelle di Serapide viene adassumere Iside. Man mano si diffonde il culto di Iside in Asia Minore,Grecia, Sicilia, Italia meridionale (Ercolano e Pompei), la dea vede arricchirele proprie prerogative, oltre a quelle originarie di nume tutelare dellafecondità. Nelle Metamorfosi apuleiane[426] si autoproclama a Lucio numenunicum venerato dai molti popoli con vari nomi (myrionoma). Detta ancheTyche o Fortuna, è riconosciuta come reggitrice del Destino astrale(Heimarmene). Nelle aretalogie viene caratterizzata con l’espressione unaquae es omnia, pantokrator Eisis. Quella isiaca, come venutasi a configurarenel secondo ellenismo, esprime una forma di ‘religione personale’[427]ovvero di devozione particolare per una divinità specifica all’interno di unquadro politeistico. Si tratta di un’esperienza religiosa diversa da quellavissuta sia all’interno dei culti pubblici nazionali sia negli antichi cultimisterici, quali quello eleusino. In questi, infatti, che pur comportavano unascelta personale, non espressa nell’ambito – invece – dei culti pertinenti lareligione nazionale, non vi era l’adesione a una comunità e neppure vi eranoparticolari regole di condotta, ma soltanto la convinzione di una acquisitafamiliarità con determinate figure divine, quali le dee eleusine, a seguito dellaespletazione del rituale misterico che le riguardava.

In ambiti mitico-rituali come quello isiaco d’età ellenistico-romana,invece, era contemplata la possibilità di un rapporto particolare, percepito

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come intenso e particolarmente coinvolgente, e tale da travalicare i confinidell’esistenza terrena, con una figura divina, appunto Iside, che, in un quadronon monoteistico ma enoteistico, ovvero tale da non escludereprogrammaticamente le altre figure divine (cfr. infra), aveva assunto unafisionomia totalizzante, ponendosi la dea come numen unicum, ma nonesclusivista.

Le posizioni cultuali quali quelle qui riferite, negli studi volentieridefinite di tipo enoteistico, esprimono la tendenza alla unità e unicità deldivino, un divino che è uno e unico perché tale da assommare in sé le altrefigure divine o almeno quelle che hanno una posizione di rilievo.

Tali espressioni cultuali sono dunque da distinguere tipologicamenterispetto a quelle posizioni teoriche che pure tendevano ad affermare l’unità el’unicità del divino ma ricorrevano a una verticalizzazione gerarchica, che siprestava – come visto – ad esprimere valenze particolari: da quella del ruolointermediario degli dei inferiori e soprattutto dei demoni come mediatori tral’alto e il basso, a quella di una riflessione sulla origine, nel livello demonico,del male, a quella, infine, sul valore e i limiti dei culti tradizionali, legittimiper le sole fasce inferiori, divina e demonica, ma non per la espressionesomma del divino cui conviene solamente un culto spirituale e interiore.

Le testimonianze su Serapide (e quelle analoghe su Iside) sonoattestazioni di un movimento che si potrebbe definire centripeto, ovvero diuna sincrasia che porta a far convergere volta per volta su una figura divina, apreferenza che su altre, figura al centro di una vera e propria prassi rituale,attributi, nomi e competenze diversi, originariamente distribuiti fra più entitàdivine.

Le posizioni più sistematiche da noi sopra esaminate, nelle loro purdiverse declinazioni, esprimevano piuttosto un movimento ‘centrifugo’, che –per così dire – separa le epressioni del divino o del sovrumano lungo unascala gerarchica, e non carica sull’Uno i molti, ma li distingue dall’uno e lidistingue al loro interno, sia in senso orizzontale (ad esempio, tra dei visibilie dei invisibili, o tra demoni buoni e demoni cattivi) sia in senso verticale (trail sommo dio e gli dei, tra dei invisibili e demoni, inferiori a quelli).

Una distinzione, questa che proponiamo, tra visioni gerarchiche del

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divino che estraggono l’Uno dai molti e lo separano dai molti e visioni checaricano sull’Uno i molti, i loro attributi e le loro competenze, la quale ha unaricaduta nel modo di considerare il culto. Nelle posizioni che, per così dire,estraggono l’Uno dai tanti, si ammette che il culto tradizionale debba essereriservato ai tanti, siano essi dei o demoni, e si ritiene quell’Uno degnosolamente di un culto interiore; nelle posizioni più propriamente cultuali, danoi qui sopra ricordate, l’Uno, che assomma in sé i molti, è oggetto dispecifici complessi rituali, vuoi pubblici vuoi esoterico-iniziatici.

Tuttavia, e concludendo, le diverse posizioni evocate, sia quelle piùmarcatamente ideologico-speculative, frutto delle sistematiche delle variescuole filosofiche, sia quelle più espressive di una reale prassi religiosa,offrono caratteristiche che non consentono di assimilarle a posizionimonoteistiche.

Si tratta di quadri teologici, infatti, che, per ammissione teorica dei variautori e per comune prassi cultuale nel concreto vissuto di individui ecomunità, includono le numerose divinità dei pantheon tradizionali dell’interaoikoumene mediterranea. Alle tante potenze divine continuano ad esseredemandati compiti necessari al funzionamento della vita umana e cosmica, ecome tali sono oggetto di culto.

Tali posizioni si distingono, già nella percezione dei loro portatori, daposizioni quali quelle giudaiche e cristiane in cui il Dio ‘uno’ è anche ‘unico’–e non solo unico al suo livello, come il deus summus delle teologie verticalisopra esaminate – e non è incluso in uno scenario di entità a lui omologhesotto il profilo della natura.

Per queste ultime posizioni può essere utilizzata la categoria definitoria di‘monoteismo’, che più avanti illustreremo. Qui ribadiamo la necessità didistinguere il ‘dio unico’ di uno scenario monoteistico dal ‘dio uno’, ‘sopratutti’, ossia esercitante un potere monarchico su esseri cui si riconosce una,sia pur graduata, natura divina, degli scenari ‘pagani’ sopra discussi.Connotazioni essenziali del Dio giudaico e cristiano sono la radicaletrascendenza rispetto alla creazione e il suo forte spessore personalistico afronte del delicato equilibrio fra trascendenza e immanenza che caratterizza lanatura del ‘dio sopra tutti’ delle varie posizioni teologiche pagane.

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Quest’ultimo, infatti, come emerso dalle varie testimonianze sopra riportate,ha una personalità che si stempera talora in direzione della assolutatrascendenza, quale primo principio intellegibile, innominabile einconoscibile, talora in direzione dell’immanenza, quando, ad esempiosecondo il modello stoico, appare come principio divino razionale, pervasivodell’intera realtà, oppure, secondo il modello teopantistico, viene ad esseresostanza della realtà senza tuttavia esaurirsi in essa.

Del resto, già Proclo, nell’avanzato V sec., poteva sostenere che “tutte leforme di religioni e di sette affermano l’esistenza di una causa prima e tuttigli uomini la chiamano dio”[428], ma, al contempo, subito precisava che nontutte concordano sul fatto che, dopo questa causa prima, vi sia una pluralità didei, venendo così ad additare la tangenza e insieme il discrimine tra i duegrandi ambiti religiosi e culturali a confronto: da un lato, le tradizionireligiose ancestrali a struttura politeistica dei popoli del mediterraneo, ormaisegnate in profondità dalla cifra ellenica; dall’altro, il giudaismo e, in unrapporto di continuità e di discontinuità con questo, il cristianesimo.

L’uno e l’altro escludono in maniera programmatica una molteplicità dipresenze divine inferiori al dio unico; questo infatti, percepito in terminivividamente personali, e dunque differente dal deus summus delle teologieverticali sopra ricordate, conferisce l’esistenza a esseri che, pur diversi(angeli, uomini, realtà cosmiche), sono omologati tra loro – e al contempodistanziati dal creatore – in quanto creature. Tuttavia l’idea monoteistica,come ricorderemo più avanti, che accomuna tali ambiti, si declina in manieraspecifica rispetto al giudaismo, nel cristianesimo. In particolare, il datocentrale nell’evento cristiano dell’incarnazione del Figlio di Dio, risultavaincompatibile così come con la prospettiva degli ‘Elleni’ anche con quellagiudaica.

Va tuttavia detto che si poterono registrare dei riconoscimenti di analogiefra le formulazioni teologiche elleniche e quelle giudaiche e cristiane, datedal fitto reticolo di rapporti stabilitosi nel confronto-scontro fra di esse. E sipoterono dare, non solo in ambito pagano, come abbiamo visto, per esempionel caso di Massimo di Madaura, ma anche in ambito giudaico e cristiano,voci propense a riconoscere, in un contesto apologetico, una qualche affinità

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con le dottrine dei principali rappresentanti, sapienti, filosofi e poeti, delletradizioni elleniche.[429]

L’indagine storico-religiosa pertanto, attenta a evitare indebitiappiattimenti di prospettive diversificate, rinuncia ad un usoonnicomprensivo, e dunque generico e privo di qualsiasi valore scientifico,della categoria classificatoria di ‘monoteismo’ per definire quei contesti dicifra ellenica nei quali pur intervenga, con le differenze sopra evidenziate, latematica della unità e della unicità del divino.

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1.6.2 EnoteismoUna categoria classificatoria spesso utilizzata nella storiografia religiosa,

per definire tali contesti, in relazione al mondo antico e tardo-antico, è quelladi ‘enoteismo’. Il termine è di conio moderno (da heis, gen. henos ‘uno’ etheos, ‘dio’) ed è costruito sulla acclamazione eis ho theos, ‘uno (è) il dio’,nota, oltre che ad ambiti cristiani, anche a diversi documenti, letterari edepigrafici, della antichità pagana. In questi secondi, peraltro, essa noncomporta alcuna programmatica esclusione degli altri dei, ma segnalal’unicità, sotto specifiche caratteristiche e in relazione a determinate funzioni,di quella figura divina che è in quello specifico contesto oggetto diacclamazione e lode.

Il termine ‘enoteismo’ è stato coniato dall’indianista F. Max Müller(1823-1900) in relazione a determinati aspetti della religione vedica e designail culto indirizzato volta per volta (da cui il termine specifico di‘catenoteismo’, dal greco kath’hena,‘uno a uno’) verso un solo dio, senzaescludere la realtà degli altri dei. Egli, secondo un’impostazione tipicamenteevoluzionistica, ritenne che l’enoteismo potesse costituire una fase originariadello sviluppo religioso dell’umanità e potesse dare esiti sia in sensopoliteistico sia in senso monoteistico.

Negli studi[430] vengono per lo più definite enoteistiche quelleespressioni cultuali, non prive di profonde implicanze teoriche, quali quellein ambito isiaco o in relazione alla figura di Serapide, come visto sopra, per lequali in un dio o in una dea, a preferenza che in altri, di volta in volta – da quil’espressione ‘catenoteismo’ – si concentrano le prerogative, gli attributi e inomi di diverse figure divine, che, inserite in quello stesso pantheon o in altripantheon nazionali, siano legate a sfere di competenza diverse da quelletutelate dalla divinità in questione. La quale vede dunque confluire in sé inomi e le competenze, appunto, delle tante figure divine, che peraltro nonvengono negate come tali.

Occorre distinguere queste posizioni enoteistiche nelle quali una divinitàassomma in una certa misura le altre, o altre, senza che si arrivi a negarel’esistenza di queste, dalle posizioni più propriamente speculative che, per

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così dire, estraggono l’uno dai tanti, i quali vengono collocati ad un livelloinferiore o a livelli inferiori. Tali erano, come si ricorderà, le visioniteologiche espresse da taluni medioplatonici e neoplatonici, quali Apuleio oPorfirio. Va tuttavia registrato che spesso negli studi anche questeimpostazioni verticali e gerarchiche, o piramidali, del divino, ricevono laqualifica di enoteistiche, e talora, più precisamente, si parla di esse come diforme di ‘enoteismo gerarchico’.

In ogni modo, gli studi più avvertiti distinguono nettamente tra enoteismoe monoteismo.[431] Se l’enoteismo si può esprimere come la riduzione deitanti ai pochi o al limite all’Uno, qualificato con i nomi e le attribuzioni deitanti, il monoteismo, come affermò R. Pettazzoni, è piuttosto l’affermazionedell’Uno attraverso la negazione dei molti. Lo stesso Pettazzoni affermò:[432] “Le pretese tendenze monoteistiche che si sono volute trovare in seno avarie religioni politeistiche – egizia, babilonese, assira, cinese, greca, etc. –rappresentano tutt’al più uno pseudo-monoteismo, in quanto si riducono allasupremazia di una divinità sulle altre, sia all’assorbimento di varie divinità inuna sola, ma sempre in modo che accanto alla divinità suprema ne sussistonoaltre (inferiori), e con ciò il politeismo non si può dire superato”. Si è potutoanche, talora, considerare l’enoteismo un monoteismo fallito o,piuttosto,‘virtuale’[433], che, se giunse molto vicino, nelle sue attesesalvifiche, nelle sue aperture universalistiche e nella idea di una natura divinaunitaria, alle posizioni monoteistiche giudaica e cristiana, peraltro nonconseguì mai, diversamente da queste, l’idea di un dio che crea e neppure diun dio che redime.[434]

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1.7 Una categoria storico-religiosa: il mito

Dedichiamo ora attenzione a una categoria storico-religiosa fortementesolidale con gli orizzonti politeistici anche se non coestensiva ad essi, come ilcaso di Roma antica ci mostrerà, e non esclusiva degli stessi, in quantopresente anche in culture non politeistiche, come le culture etnologiche.

Si tratta della categoria di ‘mito’.Essa indica un fenomeno centrale nel mondo delle religioni e tale da

conoscere un’estensione vastissima, senza essere peraltro universale, datal’esistenza di religioni non mitiche, come, ad esempio, il giudaismo, ilcristianesimo o l’islamismo. Nell’ambito di studi di storia delle religionicome in quelli di filosofia e psicologia della religione si è talora giunti ad unaidentificazione tra ‘mito’ e fatto religioso in quanto tale, e alla conseguentenegazione dell’esistenza di religioni non mitiche. Ciò è avvenuto sulla base diun uso non sufficientemente specifico del termine ‘mito’ e di una definizionetroppo ampia della nozione da esso espressa. Un allargamento indiscriminatodel senso del termine e della nozione di mito (quale quello, ad esempio, chelo identificasse come l’opposto rispetto allo storicamente verificabile e alrazionale) risulta metodologicamente dannoso in quanto provoca unappiattimento della prospettiva e impedisce di riconoscere le specificità disingoli contesti religiosi.

Il termine mito nell’uso corrente attuale si carica di significati diversi.Esso viene a essere usato quale sinonimo di ‘idea forza’, ‘termine ideale’,come, ad esempio, nell’espressione ‘mito della razza’ in ideologie totalitariedel XX secolo. Solitamente, poi, la nozione di mito viene opposta a quella diverità obiettiva e accertata e il termine viene volentieri a designare un‘racconto fantastico’ altro e diverso da una narrazione storica.

Come il termine e la nozione di ‘religione’ anche altri termini e nozionibasilari del lessico storico-religioso, quali – appunto – quello di ‘mito’,devono essere sottoposti in sede scientifica a una riflessione critica. E comela definizione di religione comporta – come visto sopra – una storicizzazionedel termine e della nozione di religione, anche il termine e la nozione di mitovanno adeguatamente storicizzati.[435] Il dibattito sull’origine e sulla natura

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del mito è altrettanto articolato e complesso dello stesso dibattito sull’originee sul significato del termine e della nozione di religione, ed articolata è lastoria degli studi per quanto concerne le diverse proposte interpretative edefinizioni del fenomeno del mito.

È innanzitutto opportuno fare riferimento all’etimologia del termine.‘Mito’ deriva dal termine greco mythos (lat. mythus), che significaoriginariamente ‘cosa detta’,‘parola’, successivamente ‘cosa detta in forma diracconto’, dunque ‘racconto’, ‘narrazione’. In quanto tale, originariamente èsinonimo di logos.[436] Il termine logos verrà a specializzarsi come ‘parolache provoca una discussione’, e dunque ‘argomento’ e verrà a contrapporsi amythos. Questo, con gli storici, verrà a contrapporsi a historia ovvero a unaricerca e a una conseguente narrazione di eventi con pretese di attendibilità.

Se il latino ha reso il greco mythos piuttosto con il termine fabula che noncon mythus, che compare solo in grammatici tardoantichi, il termine mythosricompare negli studi del XVIII secolo a partire dal filologo classico earcheologo Christian Gottlob Heine (1729-1812), che può essere consideratol’iniziatore dello studio scientifico del mito in età moderna nonché di unapproccio ad esso in senso lato comparativo.

La nozione di ‘mito’ nasce in relazione alle narrazioni di dei ed eroidell’antica Grecia, ma l’antropologia moderna ha esteso la nozione di mitofino a comprendere le narrazioni diffuse nelle società arcaichecontemporanee. Pertanto nella storia delle religioni il termine mito designanarrazioni analoghe in uso sia presso culture illetterate attuali come presso leantiche culture letterate. Caratteristica comune di narrazioni così eterogenee,come quelle greche e quelle d’ambito etnologico, è quella di esserenarrazioni tradizionali.

‘Narrazioni’, in quanto dotate di una struttura drammatica, nel senso che,come è stato affermato in sede di studi, i veri protagonisti formali del mitosono le azioni degli esseri primordiali, degli dei, degli eroi che davano formaal mondo e stabilivano le coordinate politiche, culturali e ideologichedell’universo umano. Il mito fa degli dei i protagonisti di un’azionedrammatica.[437]

E narrazioni tradizionali (traditional tales) perché tramandate

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originariamente per via orale (si suol dire ‘da bocca a orecchio’) digenerazione in generazione, a partire da un’epoca remota.[438]

L’aggettivo ‘tradizionale’ implica che i miti siano racconti narrati inprevalenza in tipi di società fondati sulla tradizione, ovvero in società oilletterate o in cui, pur dandosi la conoscenza della scrittura, largo spazio haancora la oralità; ma implica anche che siano racconti che sono riusciti adiventare tradizionali, cioè ad essere ritenuti degni di essere trasmessi digenerazione in generazione. Diverse dai miti sono le narrazioni tradizionaliche identificano generi pur limitrofi per forma e argomenti ai miti, come lesaghe, le leggende, le fiabe, le favole animalesche o i racconti popolari, anchese la distinzione tra questi generi e i miti non è sempre agevole.

Utile al riguardo appare allora la distinzione proposta da R. Pettazzoni:[439] ciò che rende riconoscibile un mito dalle altre forme della narrativaorale è l’atteggiamento che nei suoi confronti viene tenuto dalla collettivitàfabulatrice. Il mito è considerato una storia vera, ed è sentito come qualcosadi fondamentale importanza per il gruppo sociale, una volta che gli eventinarrati sono ritenuti fondanti nei confronti dell’attualità.

Si possono dunque definire miti quelle narrazioni tradizionali, che,nell’ambito delle relative culture, sono accettate dal gruppo umano come‘vere’ ossia tali da esprimere nozioni e realtà riconosciute valide a livelloesistenziale dalla comunità che ne è portatrice.[440] Non si tratta dunque diracconti fantastici o affidati all’inventiva del singolo, anche se non è esclusala possibilità di interventi creativi individuali. La ‘verità’ del mito non èpuramente razionale, ma è piuttosto una verità esistenziale per il gruppoumano, che, per il tramite di narrazioni che illustrano la complessa trama deirapporti dell’uomo con il livello del supra e del prius, esprime nel racconto lapropria ‘visione del mondo’, il proprio modo di porsi dinnanzi alla realtà o aaspetti importanti di essa, ovvero un complesso di valori di importanza vitalenell’ambito di quella cultura che ha elaborato e trasmesso tali narrazionimitiche.

Si può affermare, dunque, che nel suo valore di ‘racconto sacro’, ritenutoveritiero e valido dalla società in cui è sorto e che lo trasmette, il mito sidistingue dalla ‘favola’, intesa come narrazione fantastica con elementi

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didattici e moralistici; dalla ‘fiaba’, in cui tali elementi risultano assenti ocomunque risulta preponderante il gusto del bel racconto; dalla ‘saga’, otrasposizione narrativa di eventi storici sul piano della libera creazione dellafantasia.

Sia nelle alte culture del mondo antico, sia presso le popolazionicosiddette primitive attuali, un dato importante dei rispettivi orizzontireligiosi è costituito dalla tendenza a elaborare delle narrazioni cheriguardano le potenze sovrumane o a diverso titolo non umane (come, adesempio, animali o elementi e fenomeni cosmici personalizzati, quali il Sole,la Luna etc.), che hanno agito alle origini stabilendo i fondamenti dell’attualevita cosmica ed umana. Si hanno così presso le alte culture del mondo anticoa struttura politeistica miti cosmogonici ovvero miti interessatispecificamente alla formazione del cosmo, nonché alla prima manifestazionedegli dei (miti teogonici) e degli uomini (miti antropogonici). In relazione aicontesti religiosi ‘primitivi’ che conoscono esseri sovrumani di tipo diversorispetto agli dei dei contesti politeistici, come ad esempio l’Essere supremo ol’eroe culturale (ossia un personaggio che ha istituito determinati elementidella cultura umana) o altre figure talora con connotazioni più o menoanimalesche, si parla piuttosto di ‘miti di origine’ in rapporto a narrazionirelative alla nascita o al primo manifestarsi di queste figure nonché alle lorovarie imprese, le quali, talora implicanti contrasti, rivalità o altro, pongono ifondamenti dell’esistenza umana o almeno dell’esistenza del gruppo che talinarrazioni elabora e tramanda.

Legato al carattere tradizionale della narrazione mitica è il suo nonpresentare una forma fissa e rigida. Non esiste il mito in quanto tale. Nelmomento in cui un mito entra nel circuito narrativo, ne esistono solamenteversioni. Nelle società illetterate, se i temi centrali rimangono costanti, iparticolari mutano col mutare del narratore e della sua personalità, col mutaredelle caratteristiche dell’uditorio, col mutare dei caratteri, dei bisogni e dellecircostanze relativi all’uno e all’altro. È in tali società ‘tradizionali’ che i mitiacquistano la loro massima importanza come mezzi di discussione, dipersuasione, di conforto e di comunicazione. J.P Vernant lega decisamente iracconti mitici all’oralità affermando: “memoria, oralità, tradizione: sono

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proprio queste le condizioni di esistenza e sopravvivenza del mito”.[441]Invece, i miti greci sono racconti tradizionali di tipo diverso, in quanto la

maggior parte di essi è stata fissata in forme letterarie, è entrata a far parte diuna letteratura e le modifiche di una determinata narrazione, ovvero levarianti dei miti, sono dettate dai diversi generi letterari e da finalità diverse,in particolare estetiche.

Così nella Grecia antica i canti eroici orali divennero la base delle epopeeomeriche. Queste stanno alla fine di una lunga tradizione orale e il materialemitico ivi cantato risale in parte al tempo della guerra di Troia (ca. XIII sec.a.C.) se non a epoca anteriore alla stessa. Così pure il poema esiodeoTheogonia accoglie e sistematizza materiale molto più antico. Di fatto conEsiodo principia un’opera di sistematizzazione di un patrimonio narrativofamiliare a tutti e per tutti immediatamente perspicuo, culminata idealmentenella Bibliotheca dello pseudo-Apollodoro, un patrimonio trasmesso dall’etàsub-micenea a Platone ancora in larga parte oralmente.

Nelle culture etnologiche come nelle culture letterate la narrazione è fattada personale qualificato e riconosciuto come particolarmente autorevole dallacomunità. Nelle società etnologiche si hanno individui o categorie, come adesempio caste familiari, addetti a tali narrazioni, come i griot presso alcunepopolazioni dell’Africa occidentale. Presso le alte culture sono solitamente imembri delle classi sacerdotali ad assolvere a tale compito. Tuttavia, inGrecia, autori delle narrazioni mitiche non sono caste sacerdotali depositariee interpreti delle tradizioni religiose, come accadeva in Mesopotamia, inEgitto e nell’India Vedica, ma autori non specializzati sotto il profilo sacrale,ovvero poeti, mitografi, etc. e legati alle diverse comunità cittadine. I testinon sono di origine sacerdotale (come invece lo sono i testi che documentanola mitologia vedica o la egizia o la ugaritica) né provengono da unadeterminata classe sociale o da una élite dominante. Sono scritti di poeti,drammaturghi, logografi, storici, grammatici che si rivolgono a pubblicidifferenti, dispiegandosi lungo un arco temporale che va dai poemi omericifino all’erudizione bizantina. La mitologia greca è affidata quasiesclusivamente a testi e in misura minore a raffigurazioni che non‘raccontano’ miti ma fissano singoli momenti di vicende mitiche a noi note

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dai testi, o documentano dettagli che non figurano nei testi e che pertanto nonpossiamo ricostruire se non congetturalmente. Raramente le fonti offrononarrazioni complete, più spesso presentano menzioni, allusioni e accenni,talora contraddittori tra di loro. Si definiscono ‘varianti’ mitiche le‘contraddizioni’ esistenti tra le narrazioni del medesimo mito. Nellaletteratura greca, se si eccettua Esiodo, i poeti lirici Stesicoro, siciliota (VIsec.a.C.), Simonide e Bacchilide (tra VI e V a.C.), e i poeti tragici, gliscrittori greci classici come Pindaro (V sec. a.C.) si riferiscono ai miti senzaesporli integralmente tanto erano noti. La situazione cambia in età ellenisticaquando autori come Callimaco narrano miti per esteso e come loro nel mondoromano Properzio e Ovidio, per lo più concentrandosi su aspetti specifici,come – nel caso di Ovidio, per esempio – le metamorfosi.

In taluni casi, un mito può rispondere a – o correggere – un altro mitorichiamandolo esplicitamente. In ambito mesopotamico è il caso del mito diGilgamesh che, amato dalla dea Inanna, si rifiuta di unirsi a lei ricordandolela sorte luttuosa del giovane Dumuzi anche lui oggetto di amore da partedella dea.[442]

Anche in Grecia, come presso gli ambiti etnologici, sono presenti delledistinzioni fra miti e miti. Già Platone distingue tra miti minori (raccontati dabalie, nonne e mamme) e miti maggiori (raccontati dai poeti).[443] Ladistinzione è legata alle occasioni. A differenza dei primi, i secondi sirecitavano in occasioni pubbliche e solenni (giochi, feste, esequie, simposi,etc). I miti maggiori debbono obbedire a precise regole, ovvero occorre che‘il dio’ sia rappresentato ‘così come egli è realmente’.[444] E se Platonesottopone a una severa critica i miti omerici ed esiodei, lui stesso, come noto,crea miti come strumenti per esprimere ciò che il logos non riesce aesprimere.

In Grecia, fino ad un certo periodo, difficilmente peraltro identificabile,nelle altre culture politeistiche e nelle popolazioni a livello etnologico,significato e significante del mito coincidono. Se la narrazione degli eventiera tutt’uno con l’espressione del significato, le due cose successivamente siscindono e nel mondo greco matura la convinzione che dietro le cose narratedebba celarsi un significato più vero e profondo, ovvero che significante e

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significato non coincidano più.Già nel VI secolo a.C., in Grecia, inizia il dibattito filosofico sul mito,

circa la veridicità delle rappresentazioni sugli dei e sugli eroi. La filosofiacomincia a interrogarsi sulla possibilità di conciliare la tradizione religiosaconsacrata dai poemi omerici ed esiodei con alcune esigenze del pensierorazionale relative alla nozione del divino. Così l’opera omerica cominciò adiventare oggetto di critica a causa delle rappresentazioni ora ritenuteinverosimili, assurde e immorali che essa offriva della divinità. Pitagora,[445]Senofane[446] ed Eraclito[447] furono tra i primi ad attaccare Omero peraver ingiuriato gli dei rendendoli rei di adulterio, infanticidio e altri crimini,in ciò seguiti da Platone.[448] Per quanto concerne Senofane, celebre è il suoframmento (15): “I mortali credono che gli dei abbiano nascita, che indossinovesti e posseggano voce e figura come loro; (...) ma se i buoi, i cavalli e ileoni avessero mani per potere, con esse, dipingere e rappresentare come gliuomini, i cavalli raffigurerebbero gli dei simili a cavalli e i buoi simili a buoi,ciascuna specie in corrispondenza del proprio aspetto”.

In concomitanza con l’avvento e l’affermazione della filosofia, il terminemythos assume il significato di ‘discorso falso’ in opposizione a ‘discorsovero’ formulato, sugli dei, appunto dalla filosofia. Proprio le critiche mosse aimiti antichi favorirono, in particolare in ambiente stoico, la nascita e losviluppo del metodo allegorico, al fine di salvaguardare l’autorità e ilprestigio dei poemi antichi. Si riteneva che dietro il velo costituito dallanarrazione presa alla lettera si celasse un nucleo di verità nascosta, e chel’antico poeta avesse scelto di impiegare un linguaggio cifrato sia per tutelarela verità agli occhi degli indegni a riceverla; sia per spingere e sollecitare allaricerca gli spiriti filosofici; sia per rendere la verità più bella e desiderabile; einfine, perché l’immagine concreta si imprime nella memoria meglio di unconcetto astratto.

Si viene così a ricercare la verità profonda dietro la lettera attraversol’interpretazione allegorica dei personaggi e delle vicende mitici, e adistinguere tra significato letterale e senso profondo.[449]

L’interpretazione allegorica (o allegoresi, quando applicazionesistematica del metodo allegorico) può essere di tipo fisico, morale o mistico.

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Secondo tale interpretazione, il mito era rappresentazione di quelle stesseverità fisiche e morali che la ricerca filosofica andava scoprendo. La primaforma di allegoria fu quella fisica, per la quale si riteneva che dietro i mitiomerici ed esiodei si nascondessero delle nozioni relative alla natura, per cui ipersonaggi del mito erano figura degli elementi dell’universo. L’esegesimorale, applicata ai testi omerici ed esiodei, interpretava vicende epersonaggi mitici come figure di valori e di disvalori e vi vedeva la fonte diinsegnamento per singoli e città. L’esegesi definita mistico-teologica, daultimo, è quella che, con i neoplatonici a partire dal III sec. d.C., vedeva neimiti – in particolare omerici – l’anticipazione delle dottrine sul divino esull’anima proprie del neoplatonismo.

La messa in discussione della validità del mito continua con i sofisti del Vsec. (Protagora, Prodico di Ceo) che, peraltro, non si peritano dal crearenuovi miti (Prodico di Ceo e il mito di Ercole al bivio), i quali, articolatiattorno a protagonisti già al centro delle narrazioni tradizionali, servono perveicolare messaggi etici e per uso didattico.

Tra IV e III secolo, l’evemerismo, da Evemero di Messene (330-240a.C.), si afferma come un particolare modello interpretativo, per il quale glidei dei miti sarebbero stati antichi re o uomini segnalatisi per azioni insigni,che sarebbero stati divinizzati dopo la loro morte. Nei miti in tal modosarebbe da vedere la traccia di avvenimenti storici del passato. Questainterpretazione storicizzante viene ad affiancarsi alla più diffusa allegoresi.

Nei grandi centri dell’ellenismo comincia poi quell’insieme di ricercheerudite e filologiche, aventi per oggetto i miti, che costituisce la mitografia.Esemplare al riguardo è la Bibliotheca dello Pseudo-Apollodoro (II sec.d.C.).

L’atteggiamento verso la mitologia classica da parte dei cristiani si avvaledi tecniche esegetiche già utilizzate dai greci stessi e in particolare diinterpretazioni allegoriche ed evemeristiche, inserite – peraltro – in unacornice che era estranea sia alle filosofie greche sia alle tradizioni religioseetniche a struttura politeistica, vale a dire la distinzione tra vera e falsareligione.

A partire al Nuovo Testamento il termine mythos è impiegato incontrapposizione polemica all’aletheia della Sacra Scrittura per designare

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qualcosa di falso, che contrasta con la verità.[450] Tale falsità significamancanza di verità storica (i miti narrano eventi che non sono realmenteaccaduti) e disparità tra i valori che essi propongono e i valori checaratterizzano la vita cristiana (mancanza di verità teologica ed etica). Il mitopagano in Gregorio di Nazianzo, ad esempio, è rifiutato in quanto espressionedi una religione politeista confutata sotto i suoi diversi aspetti: le origini, chesono umane, avendo gli uomini deificato gli elementi della natura (secondo latipica allegoresi fisica), oppure comuni mortali (secondo la interpretazioneevemeristica), oppure le passioni stesse dell’uomo, in particolare i vizi; a talientità sovraumane l’uomo si è rivolto per ignoranza o tornaconto; esse sonoree di immoralità, sono motivo di scandalo per il fedele; le conseguenti formedi culto sono caratterizzate da violenza, irrazionalità e spesso oscenità. PerGregorio di Nazianzo[451] i miti sono sorti per suggestione del Maligno, inun momento successivo rispetto al sorgere del politeismo, il quale a sua voltasarebbe posteriore al monoteismo – cui l’uomo sarebbe strutturalmentepropenso – come frutto della fantasia umana per favorire, al pari delle statue,[452] la diffusione del culto degli dei e legittimare l’invenzione delle divinità.Anche il mito è pertanto rifiutato in quanto veicola i contenuti della teologiapagana; i miti sono inaccettabili sul piano letterale perché immorali e dannosiper chi vi si accosta ed anche se interpretati allegoricamente, come avevanofatto i pagani stessi, non sono portatori di alcun messaggio religiosamente oeticamente utile.

Generalmente, tuttavia, si ammise come legittimo accogliere da parte diun autore cristiano elementi della tradizione letteraria e dunque anche miticapagana purché si scindesse nel mito l’aspetto religioso da quello letterario. Eciò al fine di destare l’attenzione dei pagani, abituati a prodotti raffinati. Cosìsi giustifica presso i cristiani l’uso di exempla mitici. Infatti, i miti erano parteimportante della formazione culturale del tempo, in particolare di quellaretorica, che comportava un intenso esercizio sul materiale mitologico.

Una riflessione a parte meriterebbe quella categoria di miti che ècostituita dai miti elaborati in ambito gnostico e manicheo. Di fatto, iprotagonisti dei miti gnostici e del mito manicheo sono personaggi sovrumanidelle origini (ma anche dell’attualità), i quali, inseriti in una trama di rapporti

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e di relazioni di vario tipo, che solo per alcuni aspetti possono evocare irapporti di tipo teogonico, teogamico e teomachico che definivano iprotagonisti degli antichi miti greci, sono soggetto, ma anche oggetto, diazioni e di vicende che risultano fondative della realtà attuale e fornisconomoduli e criteri perché l’uomo possa orientarsi e agire in questa stessa realtà.

Tuttavia i miti gnostici e quello manicheo – ai quali verremo più avanti –,diversi tra di loro e prodotti di situazioni sociali e storiche diverse, nonrisultano ‘tradizionali’, ovvero non sono tali da aver conosciuto una lungatrasmissione orale prima di venir messi per iscritto o addirittura da averconosciuto solamente una ‘vita’ orale attraverso successive generazioni, masono piuttosto miti creati ex novo, creazioni originali dovute a singoli autori,a capiscuola o a gruppi, e il cui focus argomentativo risulta diversamenteorientato rispetto ai miti della classicità e a quelli delle popolazionietnologiche.[453] Tale loro caratteristica non esime tuttavia dalla necessità,in sede storico-religiosa, di indagare in merito alle loro possibili radici, alleforme e ai modi con i quali essi utilizzano materiale mitico o dottrinaleproveniente da coeve e antecedenti tradizioni religiose, piegandolo adesprimere una nuova e specifica ‘teoria’ o visione del divino e dell’umano.Dietro le varianti del mito gnostico, per esempio del grande mito valentinianorelativo alla caduta di Sophia, ci sono tradizioni teologiche diverse,controversie – all’interno di gruppi e di correnti – che si esprimevano ancheattraverso la creazione di particolari mitici diversi o una diversificatainterpretazione di questo o di quel particolare di un comune patrimoniomitico. Per taluni aspetti vicina alla categoria dei miti gnostici e manicheo èquella dei miti platonici e plutarchei, creati ex novo e aventi al proprio centrol’interesse per la natura e il destino dell’anima.

Tra le religioni politeistiche un cenno merita quella di Roma antica perl’assenza nella religione romana indigena del mito.[454]

Infatti, rispetto a quello greco e a quelli delle regioni del Vicino OrienteAntico, il politeismo in Roma si segnala per l’assenza – se si prescindedall’assunzione di forme di importazione greca, di solito ridotte a temiletterari e comportanti interpretationes di divinità greche in divinità romaneritenute corrispondenti – di narrazioni mitiche ‘indigene’ analoghe alle

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narrazioni greche e vicino-orientali, sulla nascita e le generazioni degli dei(teogonie) e insieme sulla nascita degli elementi cosmici (cosmogonie). Lenarrazioni ‘romane’ sulle divinità sono piuttosto narrazioni sulle ‘epifanie’ omanifestazioni degli dei.

Sulle possibili ragioni della mancanza in Roma di una mitologia indigenagli studi hanno ampiamente dibattuto, offrendo motivazioni diverse e inparticolare, da un lato, parlando di una mancanza di attitudine del popoloromano, più atto ad attività pratiche, a produrre narrazioni mitiche; dall’altrolato, introducendo la possibilità di una demitizzazione voluta e operata dairomani stessi sul proprio patrimonio mitico. Gli studi più recenti sonopiuttosto orientati a parlare non di assenza di miti romani ma di funzionediversa di miti romani rispetto alla funzione espressa dai grandi miti greci. Insostanza, i romani avrebbero elaborato narrazioni ‘mitiche’ intorno non afigure divine ma a personaggi storici o ritenuti tali (Muzio Scevola, OrazioCoclide, Cornelia etc.) al fine di offrire modelli di comportamento alcittadino romano.

Caratteristico di Roma sarebbe allora, come si esprime J.Rüpke,[455] “ilprospettarsi del mito in forma storica, e più precisamente in forma di storialocale. Ciò che la Teogonia di Esiodo significa per i Greci è rappresentato aRoma dai racconti sul proprio passato, sulla fondazione della città da parte diRomolo, sui re, sul pacifico Numa, sul bellicoso Tullo Ostilio, su Tarquinio ilSuperbo, sulla cacciata dei prepotenti tiranni da parte di Bruto. (...) A Romacogliamo la cultura d’una città-stato che si differenzia chiaramente dallacultura greca nella misura in cui questa era maggiormente la cultura di moltecittà-stato contemporaneamente e poneva di conseguenza al complesso delmondo mitico tutt’altre esigenze anche in termini di interpretazionisuperregionali e di capacità esplicativa rispetto a quelle postulate dal mitoromano”.

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1.7.1 Cenni di storia degli studiIn età moderna, sulla scia di suggestioni offerte già nel mondo antico,

sono state elaborate diverse teorie interpretative dei miti.La prima fu quella secondo la quale tutti i miti sono miti della natura,

ossia si riferiscono a fenomeni cosmologici e meteorologici. Diffusasi inInghiletrra con F. Max Müller, riteneva – come sopra visto – che i mitidovessero la loro origine a equivoci sui nomi, in particolare, di corpi celesti edi elementi della natura (terra, cielo, sole, luna, etc.) e che pertanto fosseronati da una sorta di ‘malattia del linguaggio’ che procedesse allapersonificazione delle entità naturali.

Interessata alla questione delle origini del linguaggio, la scuola di MaxMüller indicava nella contemplazione dei fenomeni della natura, inparticolare lo spettacolo del sole e della luce, o di fenomeni sconvolgenti cherompevano la regolarità del corso delle cose, l’origine delle narrazionimitiche e riteneva che i termini che originariamente designavano elementi edeventi naturali pian piano passassero ad indicare personalità e azionisovrumane. Dal nomen al numen. È il nomen che dà origine al numen. A unateoria siffatta, ove pretenda di essere chiave interpretativa universale dei miti,è stato obiettato che, se taluni protagonisti di miti, e le loro azioni dai mitistessi descritte, hanno riferimento con elementi ed eventi della natura, altrinon rientrano in tale tipo d’interpretazione. Inoltre, varie figure divine,almeno tra le maggiori, hanno più di un riferimento.

La seconda delle teorie onnicomprensive del mito è quella designataimpropriamente come eziologica, per la quale tutti i miti indicano la causa ola spiegazione di qualche fatto del mondo reale (da aition,’causa’). Già gliantichi chiamavano certi miti aitia. Solitamente si definiscono miti eziologicidelle creazioni letterarie attraverso le quali poeti ed eruditi dell’età ellenisticasi sforzano di spiegare le particolarità di usi e costumi. Ma molti miti nonspiegano né propongono la causa di alcunché, come quello del vello d’oro oquello dell’eviraziome di Urano da parte del figlio. Esistono molti mitichiaramente esplicativi ma lo sono in modi così diversi e a livelli così distintiche risulta insufficiente parlare di ‘spiegazione’ come della loro supposta

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funzione comune.Un esempio: antichi miti esiodei, come il mito prometeico, mentre

forniscono le cause delle modalità attuali del sacrificio, le inserisconoall’interno di una più ampia visione del rapporto tra dei e uomini, della naturadei primi e della natura dei secondi. Il mito prometeico non solo narra ilprimo sacrificio sul cui modello si continua a sacrificare da parte dell’uomogreco, ma introduce una serie di considerazioni sulla donna e i suoiambivalenti aspetti nella cultura e nel sentire greci arcaici. In questo senso ilmito può essere definito, con U. Bianchi, una ‘teoria’, nel senso di visioneglobale. I miti non sono tentativi prescientifici di indagare le cause e leorigini dell’universo, delle quali si sarebbe poi occupata la scienza. Cosìritenevano molti studiosi che vedevano nei miti dei tentativi prescientifici diindividuare le cause dell’universo, dei fenomeni naturali e di tutto ciò di cuisi sarebbero occupate le scienze della natura.

Bronislaw Malinowski (1884-1942), principale rappresentante dellascuola funzionalistica inglese e americana, combattè la teoria dei miti comenarrazioni esplicative e propose (è questa la terza teoria esplicativa) diconsiderarli come ‘patenti’ che convalidano costumi, istituzioni e credenze.All’interno della interpretazione funzionalistica delle culture, per la qualeogni cultura è un complesso organico nel quale ciascun elemento assolve unadeterminata funzione, l’autore, sulla base dei suoi studi sugli abitanti delleisole Trobriand del Pacifico occidentale, sostenne che in una societàtradizionale ogni istituzione o costume tende a essere convalidato oconfermato da un mito che ne enuncia un antecedente e non cerca dispiegarlo in senso logico o filosofico.

La quarta teoria, che ha potuto essere considerata come una elaborazionedella teoria del mito-patente di Malinowski, seppure in una prospettiva e conconclusioni ben diverse da quelle tipiche della corrente funzionalista, è quellaespressa da M. Eliade. Mentre l’interpretazione funzionalista del mitocomporta il carattere positivo della realtà storica in cui l’individuo e il grupposociale sono impegnati, l’interpretazione eliadiana del mito, secondo la qualescopo di ogni mito è quello di evocare o addirittura restaurare l’età delleorigini, il tempo primordiale, interpretazione articolata sullo sfondo della

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tipica dialettica eliadiana tra sacro e profano, tra tempo sacro del mito etempo profano della storia, comporta, generalmente, un deprezzamento diquest’ultima. Tale teoria, se risulta applicabile ad alcuni miti, non ècertamente valida per tutti. Schematica è apparsa ad alcuni studiosi lacontrapposizione istituita da Eliade tra il tempo mitico, l’illud tempus, e iltempo storico. Opportunamente osserva J. Rudhardt:[456] “Cet illud tempuscomprend plusieurs moments successifs, parfaitement distincts, et lesévénements mythiques ne se situent pas tous au même moment dans cettesérie”.

Mette conto anche osservare come nella interpretazione eliadiana delmito, la quale occupa un posto del tutto centrale all’interno della più vastainterpretazione da parte di Eliade del fatto religioso in quanto tale, si tenda adavvicinare e quasi ad identificare il fatto mitico con quello religioso in quantotale, e questo in grazia del comune carattere destorificante che lo studiosoritiene di poter individuare alla base di entrambi.

La quinta teoria, propria del cosiddetto ‘approccio mitico-rituale’,proclama che tutti i miti sono strettamente associati a riti. Essa cerca la chiaveper svelare “ciò che è detto” nell’analisi di “ciò che è fatto”. Nella sua formaestrema asserisce che i miti sono derivati dai riti, i quali col passare del tempovengono ad apparire privi di senso e oscuri e perciò danno origine a raccontiche mirano a spiegarli in qualche modo. In sostanza, i particolari dellenarrazioni mitiche intorno agli dei sarebbero elaborati in prima istanza comespiegazioni di oscure azioni rituali. Il mito, dunque, come spiegazione di unrito non più compreso. Formulata dallo studioso dell’Antico TestamentoWilliam Robertson Smith (1846-1894), fu sviluppata da J.G. Frazerdivenendo il presupposto fondamentale del suo ‘Il Ramo d’oro’. Il diffusomito del ‘dio morente’, rifletterebbe, per esempio, rituali legati al tema dellaregalità sacra. A siffatta teoria è stato obiettato che i miti non sono sempreassociati ai rituali o solo talora contengono riferimenti, spesso marginali, arituali. E comunque il rapporto che unisce il mito al rito non è a senso unico,nel senso che se una narrazione mitica può essere costruita per spiegaredettagli e caratteristiche dell’operazione rituale, e in questo caso si va dal ritoal mito, con miti che si pongono come tentativi di giustificazione di rituali

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divenuti col tempo incomprensibili, in altri casi il rituale comporta larappresentazione o almeno la rievocazione dell’evento mitico. In questo caso,il rito ripropone periodicamente l’evento mitico. Il rito – in tal caso – è tipicomentre il mito è prototipico. In Mesopotamia, le celebrazioni di Capodanno(akitu) contemplano la recitazione del mito della ‘creazione’ contenuto nelpoema Enuma Elish. Se in Mesopotamia i miti sono sovente recitati inoccasioni rituali, in Grecia il legame tra mito e rito è scarsamente attestato. Èimpossibile stabilire comunque perfette corrispondenze tra elementi mitici edelementi rituali.

Vi è poi una serie di interpretazioni dei miti che ritengono di individuarela realtà ultima dei miti nella psiche individuale (o collettiva). Le funzioniobiettive, come quelle, per esempio, svolte dal mito-patente, sarebberosecondarie rispetto alle esigenze psicologiche dell’individuo checostituirebbero il primo motore mitopoietico. Il mito avrebbe dunque lafunzione di esprimere un qualcosa che altrimenti giacerebbe represso o sopitonell’individuo, ovvero di soddisfare qualche desiderio o creare unacondizione emotiva auspicabile. Le grandi teorie psicologiche del mito sonostate espresse da Sigmund Freud,[457] che vede le strutture del mitoanaloghe a quelle del sogno, da Carl Gustav Jung[458] ed Ernst Cassirer, ilquale, ricollegandosi alla tradizione vichiana circa lo stretto rapporto tra mitoe linguaggio, ritiene il mito come una delle principali forme simboliched’espressione, rivendicandone il carattere logico pur se di una qualità diversarispetto alle categorie scientifiche.

Va ricordata anche la teoria strutturale dei miti avanzata dall’antropologofrancese Claude Lévi-Strauss, il quale intende applicare allo studio del mitogli strumenti propri dell’indagine linguistica al fine di metterne in luce lestrutture fondamentali e ricorrenti al di là dei contenuti diversi. Lévi-Straussvede i miti come un sistema di comunicazione, come la lingua o lo scambiodei beni; dall’analogia con la lingua derivò il suo metodo consistente nelcapire il mito con gli strumenti dell’analisi strutturalistica. Come la lingua sicompone di singoli segni fonetici, i fonemi, in sé privi di significato ma talida assumere un significato solo nella loro combinazione, così anche il mito sicompone di segni analoghi, i mitemi. Il mitema è la più piccola unità del

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linguaggio mitico, ma è un’unità complessa essendo un gruppo diproposizioni sinonime. La narrazione mitica si riferisce a una temporalitàdistinta dalla temporalità storica. Come tali, le proposizioni, anche secompaiono in una narrazione in momenti differenti e successivi possonoessere raggruppate appunto insieme in un mitema, per potere poi studiare ilgioco dei rapporti che uniscono o oppongono tra di loro i mitemi. La critica atale impostazione ha osservato come, in tal modo, si attui un’operazioneillegittima, in quanto si rompe la struttura narrativa del mito. Infatti, qualeche sia la natura della temporalità mitica, i termini di una narrazione sisuccedono in un ordine determinato che può essere significativo come ogniordine di successione lo è in un qualsiasi linguaggio. La riunione in unastessa unità di più proposizioni separate dalla cronologia della narrazione èdunque arbitraria.

Sottesa al procedimento di analisi strutturalista del mito è l’asserzione chela mente umana operi sempre nello stesso modo, sicché i miti in quantoprodotti della mente ne riflettono la struttura comune, sempre uguale a sestessa in ogni periodo e in ogni società. Fondamentale caratteristica di questastruttura sarebbe la tendenza a polarizzare l’esperienza e a dividerla, ai finidella comprensione, in serie di opposti, come fa un operatore binario.[459]Una delle antinomie fondamentali scoperte nei miti e nella vita di nativi delBrasile e del Paraguay, ai quali si indirizzò per lo più la sua ricerca, è quellatra natura e cultura, spesso simboleggiata dalla differenza tra crudo e cotto.

Per Lévi-Strauss, i miti, da lui raccolti presso gli indiani sudamericani,avrebbero la funzione di mediare le contraddizioni (tra desiderio e realtà, traindividuo e società, tra esperienza della morte e anelito alla vita) cheaffliggono l’uomo sia su un piano individuale sia su un piano più generale, erenderle pertanto sopportabili. Inoltre, l’analisi delle numerose variantimitiche offerte dalle narrazioni considerate lo porta a ritenere che ciò che inun mito tende a mutare col passare del tempo sono gli eventi specifici mentrerimangono immutati i rapporti tra personaggi o fatti, vale a dire la strutturadel racconto. Secondo questo orientamento metodologico che, come detto,tende a mettere in luce meccanismi di pensiero sempre uguali nelle lororelazioni e nel loro funzionamento, i contenuti specifici dei miti diventano

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presoché irrilevanti come irrilevante risultano la prospettiva storica e lecoordinate culturali dell’ambiente dal quale i miti promanano e nel qualesono tramandati. Più che sulla base di un’ambientazione storico-culturale, ilmetodo in questione ritiene di poter interpretare i fenomeni oggetto di studio,e nello specifico i miti, sulla base di schemi teorici ispirati a premesse diordine filosofico e psicologico.

L’analisi di tipo strutturalista di Lévi-Strauss fu applicata al mito grecodal gruppo parigino raccolto intorno a Jean-Pierre Vernant (1914-2007), e inparticolare da Pierre Vidal-Naquet (1930-2006) e Marcel Detienne (1935), lecui indagini, in cui c’è poco spazio per la storia, appaiono tese a portare allaluce la ‘struttura’ quale organizzazione sistematica che dà significato ai miti.

Va segnalata poi l’analisi del mito operata dalla semiotica particolarmentecon gli studi di Algirdas Julien Greimas (1917-1992)[460] e dall’etologiabiologica applicata al fatto religioso, con W. Burkert, sopra ricordato.

Nell’ambito degli studi italiani di Storia delle religioni si segnalainnnazitutto la posizione di R. Pettazzoni, che, come visto, parla –polemizzando nei confronti di chi vede il mito come espressione di fantasia epuerilità – di ‘verità del mito’, nel senso che esso è profondamente connessocon l’orizzonte esistenziale e culturale del popolo che lo ha creato, loracconta e lo tramanda alle giovani generazioni.

Merita considerare da vicino alcune affermazioni di Pettazzioni sul temadel mito.

In Grecia, nell’epica stessa, per R. Pettazzoni, sarebbero da scorgere iprimi segni di un processo di secolarizzazione che si inserisce su unsignificato originariamente religioso del mito. Si può parlare di un significatoreligioso del mito quando questo è percepito come un modo per esprimerequella ‘rottura di livello’ che gli studi storico-religiosi identificano come quidqualificante il fatto religioso. I miti ‘secolarizzati’ – dal canto loro – educano,divertono, affascinano, celebrano. Afferma Pettazzoni: “Il mito è più anticodi Omero, ed appartiene ad un mondo che credeva negli dei. Questa fede nelmito, questa realtà religiosa del mito, che è già offuscata in Omero, è inveceben viva nelle mitologie primitive”.[461]

Per quanto concerne queste ultime, Pettazzoni riporta testimonianze di

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indigeni dell’America settentrionale (i Pawnee)[462] i quali distinguono‘storie vere’ e ‘storie false’, e pongono tra le prime quelle relative alle originidel mondo, nelle quali sono protagonisti esseri sovrumani, eroi culturali etc.;le false sono identificate con quelle che vedono per protagonista il Cojote olupo delle praterie, personaggio mistificatore, lestofante, ovvero tale daesprimere le caratteristiche proprie del tipo storico-religioso costituito dal‘demiurgo-trickster’.[463] La distinzione tra storie vere e storie false èconosciuta anche da altri gruppi tribali in America centrale, Australia e inAfrica e non investe solo i contenuti dei miti (quelli veri per lo piùconcernono atti cosmogonici delle origini) ma si esprime anche comedifferenza nelle modalità di recitazione. Quelli ‘veri’ si recitano nel corso dideterminate celebrazioni rituali o nell’intervallo tra un rito e l’altro, in certitempi dell’anno e in determinate ore del giorno (e segnatamente la notte) enon sono di dominio pubblico.

La distinzione tra ‘storie vere’ e ‘storie false’, offerta da una vastacasistica studiata dal Pettazzoni, gli consente di affermare che “il mito non èpura finzione, non è favola, ma storia: ‘storia vera’ e non ‘storia falsa’. Storiavera per il suo contenuto, racconto di avvenimenti realmente accaduti, acominciare da quelli grandiosi delle origini: origine del mondo edell’umanità, origine della vita e della morte, origine delle specie animali evegetali, origine della caccia e dell’agricoltura, origine del fuoco, origine delculto, origine dei riti iniziatici, origine delle società samanistiche e dei loropoteri terapeutici: eventi lontani nel tempo, dai quali ebbe principio efondamento la vita presente, dai quali procede la struttura attuale della societàe tuttora ne dipende. I personaggi divini o superumani che operano nel mito,le imprese loro straordinarie, le singolari avventure, tutto questo mondomeraviglioso è una realtà trascendente che non può essere messa in dubbioperché è l’antecedente e la condizione sine qua non della realtà attuale. Ilmito è storia vera perché è storia sacra: non solo per il suo contenuto, maanche per le concrete forze sacrali ch’esso mette in opera. La recitazione deimiti delle origini è incorporata nel culto perché è culto essa stessa e concorreagli scopi per cui il culto è celebrato, che sono quelli della conservazione edell’incremento della vita. (...) Raccontare la creazione del mondo giova a

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conservare il mondo; raccontare le origini del genere umano giova amantenere in vita l’umanità, cioè la comunità, il gruppo tribale; raccontarel’istituzione dei riti iniziatici e delle pratiche samanistiche vale ad assicurarel’efficienza e la durata nel tempo. Così nell’antica Mesopotamia recitare il‘Poema della Creazione’ nella festa dell’anno nuovo (akitu) era come ripeterel’atto della creazione, era come se il mondo avesse ancora una voltaprincipio, e con ciò l’anno era veramente inaugurato nel modo migliore,come un nuovo ciclo di tempo che si apriva con un nuovo atto creativo. Eccoperché i miti sono storie vere e non possono essere storie false. La loro veritànon è di ordine logico; nemmeno è di ordine storico: è, soprattutto, di ordinereligioso, e più specialmente magico. L’efficienza del mito ai fini del culto,per la conservazione del mondo e della vita, sta nella magia della parola, nelpotere evocativo della parola, del mythos, della fa-bula, non come ‘discorsofavoloso’, ma come forza arcana e possente, affine – anche secondol’etimologia – alla potenza del fa-tum”.[464] Dunque il mito è vero in quanto“è la tavola di fondazione della vita tribale, cioè di tutto un mondo che nonpuò sussistere senza quel mito. Reciprocamente, il mito non può vivere senzaquel mondo, di cui organicamente fa parte come ‘spiegazione’ delle sueorigini, come sua ragion d’essere iniziale, come suo ‘prologo nel cielo’. Lavita del mito, che è insieme la sua ‘verità’, è la vita stessa di quel suooriginario mondo di formazione e d’incubazione. Fuori di questo il mito puòbensì sopravvivere: ma il mito sopravvissuto non è più vero, perché non è piùvivo. Non è più ‘storia vera’: è ‘storia falsa’”.[465] Così, nella formulazionedi Pettazzoni, i miti, disgregatisi il mondo e la cultura che li aveva comepropri e spogliati con ciò del loro carattere religioso, “vanno per le vie delmondo passando di bocca in bocca per puro gioco e divertimento”. I raccontiprofani possono allora essere identificati come ‘antichi miti sconsacrati’.[466]

A. Brelich, cooptato alla scuola di Pettazzoni – collocandosi in unorizzonte storicistico, che postula il totale risolversi dei fenomeni religiosinelle forme culturali nelle quali essi si radicano – rileva significativamente ilconsenso venutosi a creare tra studiosi pur di diverse posizionimetodologiche, tra i quali cita in particolare G. van der Leeuw, K. Kerény, R.

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Pettazzoni, M. Eliade, sulla definizione e interpretazione del mito nei terminiche Brelich così delinea: “Anziché allegoria, ricordo deformato, prodotto dilibera fantasia o tentativo pre-scientifico di spiegazione, il mito è, anzitutto,un racconto e precisamente un racconto sacro; ciò risulta anche da quantohanno osservato gli etnologi, cioè che i miti non vengono raccontati inqualsiasi occasione, da chiunque a chiunque, come i racconti profani. Lanarrazione dei miti ha quindi caratteri comuni con la celebrazione dei riti. Ilmito narra eventi svoltisi in un tempo primordiale, in un tempo situato fuoridal tempo ordinario, in cui la realtà ha preso origine per opera di esseri nonumani; con ciò esso ‘fonda’ e nello stesso tempo forma e definisce la realtà –cosmica, umana, istituzionale che sia – decidendo anche come le cose‘devono’ essere, fornendo cioè modelli permanenti per l’esistenza”.[467]

A. Brelich, pertanto, valorizza la nozione di ‘fondazione mitica’:[468] ilmito non tanto spiega la realtà attuale, ovvero non tanto mette in campo unaspiegazione con motivazioni razionalistiche, ma la fonda, ovvero la faesistere e la garantisce; mostrando come una determinata realtà sia venutaall’esistenza, il mito tende a rendere accettabili le modalità attuali diesistenza. Una caratteristica tipica del mito è rappresentata dal suo ‘tempo’.Brelich non solo sottolinea l’antecedenza del tempo mitico rispetto al tempoattuale, ma anche e soprattutto la sua diversità rispetto al tempo dell’attualità.Il tempo del mito è un tempo radicalmente diverso dal tempo attuale, e inesso agiscono personaggi altrettanto diversi. E non solo diverso, ma anziapposto rispetto a quello attuale; l’attualità verrebbe ad essere il rovesciospeculare della primordialità mitica.

Tuttavia il modulo interpretativo della natura e funzione del mito,applicato in particolare da studiosi come A. Brelich, e dopo di lui da D.Sabbatucci e G. Piccaluga, modulo che definisce il mito come narrazione chefonda la realtà rappresentandone l’aurorale opposto, è apparso ad altristudiosi riduttivo. U. Bianchi, in relazione – per esempio – al mitoprometeico come narrato in Esiodo, afferma come non ci si possaaccontentare di una spiegazione che vede in Prometeo unicamente ilpersonaggio che ha ribaltato la situazione originaria, giacché, se questoribaltamento è stato operato, esso ha in sé le caratteristiche della personalità

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di Prometeo stesso. Inoltre, appare riduttivo allo studioso anche il parlareunicamente di una funzione ‘fondante’ del mito: il mito non solo fonda maanche spiega la realtà attuale, parlando di un come, di un quando, di un dovee di un perché, e risalendo a dei primordi che è comunque riduttivo vedere –come detto – quale il puro rovescio dell’attualità.[469]

Inoltre, U. Bianchi, piuttosto che di ‘verità’ del mito, come il suo maestroR. Pettazzoni, preferisce parlare di ‘validità’ del mito, in quanto ‘raccontocollegato alla vita’.[470] Infatti, il mito, nel momento in cui spiega e fonda larealtà attuale, gli usi e le credenze vissute, non è favola ma realtà vissuta,vincolante e valido. Parlare di validità del mito significa segnalare il rapportotra il mito e la vita, vale a dire le istituzioni e la concezione del mondo di ungruppo o di una popolazione che lo ha come proprio. Il mito, pertanto, è unatheoria, o ‘visione’ (tale il senso etimologico di ‘teoria’), del mondo e dellavita, visione propria di una comunità umana che lo ‘inventa’ e lo tramanda,nonché una modalità per narrarli, oltre che per orientarsi in essi.Naturalmente un mito non esaurisce questa visione della realtà ma costituisceun approccio ad essa insieme ad altri miti propri di una medesima cultura.

Bianchi ritiene non si possa, diversamente da Pettazzoni, parlare del mitocome espressivo di una verità ‘esistenziale’, espressione – questa – in cuiBianchi vede implicita l’idea di una infondatezza a fronte di un’altra verità,quella di ragione. Bianchi ritiene, infatti, che nel mito si possa cercare sia ilriferimento esistenziale, sia quello intuitivo-fantastico, sia quello razionale. Insostanza, in relazione a quest’ultimo aspetto, lo storico dovrà prendere sulserio il gruppo primitivo che attribuisce esplicitamente al mito – che essonarra – un valore di verità oggettiva, un valore di verità di ragione, perchéanche tale gruppo sente come problemi – e anche come problemi di ragione –quelli che sono pure i nostri, a cominciare da quelli relativi ai grandi perchédelle cose.

Pertanto il mito, sottolinea Bianchi, è frutto di un’attività umana totalecomprendente atteggiamenti emozionali ed elementi razionali, giacché il mitonon è prelogico o irrazionale, perché non è estraneo al pensiero razionale,cioè causale e finale, ma, al contrario, offre un pensiero causale e finale anchese privo di sistematicità; al contempo, comprende una forte componente

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immaginativa – che permette di rappresentare in maniera diretta e immediatauna specifica ‘visione del mondo’ – e riferimenti esistenziali, fondati sullacomune natura umana e sulle specifiche circostanze storiche, sociali eculturali, in cui esso nasce e vive.

Da un punto di vista formale e di contenuto, Bianchi propone unadescrizione di ‘mito’, più che una definizione rigida, una descrizione che,fondata sull’esperienza concreta e vasta dei fenomeni in questione, ne colgaquelli che appaiono all’osservatore come caratteri peculiari.

In sede storico-religiosa, dunque, si userà il termine mito per indicare unanarrazione (non un sistema o una teoria speculativa), i cui personaggi sonoesseri sovra-umani o pre-umani, o comunque appartenenti a un’epocaprimordiale o molto lontana (le origini o la fine dei tempi), qualitativamentediversa dall’attualità ma significativa nei confronti di quest’ultima. Talipersonaggi sono rappresentati con caratteri fortemente (ma nonesclusivamente) antropomorfici (talora, anzi, il loro ‘ipermorfismo’ – moltebraccia, molti occhi – li segnala come diversi e ‘trascendenti’) e sono inseritiin una cornice adeguata a tali caratteri, ovvero in un milieu, in un ambienteche in vari sensi li trascende e li condiziona ed è più vasto di loro, e nel qualeessi sono non solo soggetto ma anche oggetto di vicende e di eventi cheriguardano per lo più le origini (e talora anche la fine) degli dei, dell’umanità,della civiltà o cultura e delle istituzioni o caratteristiche relative. Invece, per‘tratti mitici’, aderenti eventualmente a figure divine non inserite in contestimitici, si intenderanno tutti quegli aspetti che richiamano sotto profili diversiquelli più organicamente e legittimamente integrati nei miti.[471]

Particolarmente perspicua nella descrizione di ‘mito’ qui offerta è lacaratteristica per la quale le entità protagoniste dei miti appaiono inserite inun milieu che in vari sensi le trascende ed è più vasto di loro. Di fatto, talipersonaggi si trovano inseriti in una trama di rapporti con altre figure o lorotipologicamente affini o di tipo diverso, per esempio di rango inferiore. Sitratta di rapporti genealogici (nel senso che i protagonisti di miti possonoavere padre, madre, sposa o sposo o figli); di rapporti teomachici (nel sensoche si trovano, alle origini, a dovere confrontarsi con un oppositore o rivale,ove l’opposizione risulta efficace ai fini della fondazione di determinati

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aspetti della realtà attuale, e a dovere, con la forza, affermare il loro potereche di solito perdura nell’attualità) o di rapporti naturistico-stagionali (comenei miti che stanno alla base dei culti di fecondità e nei quali i protagonistisovraumani sono legati all’alternante ritmo della vegetazione che essitutelano con la loro alternante presenza-assenza).

La descrizione sopra offerta della nozione di mito consente a Bianchi diilluminare quello che egli ritiene essere il carattere non mitico della figura diJahvé nei primi capitoli della Genesi, ove si vuole esprimere l’idea di Diocome creatore e quella della bontà e positività del creato: “Nel caso del Diod’Israele, il suo fondamentale carattere non mitico è motivato dal fatto cheesso non è oggetto di una vicenda (teogonica, teogamica, naturistico-stagionale), né trasceso da essa”.[472]

Più in generale, la descrizione di ‘mito’ sopra offerta permette didistinguere e di chiarire la posizione di religioni ‘non mitiche’, in cui nonhanno posto ‘racconti sacri’ del tipo sopra descritto e in cui la divinità non èprotagonista di vicende mitiche, nel senso sopra delineato, ma si pone comefondamento unico della realtà, trascendente rispetto ad essa e di questa stessarealtà fonte in quanto potenza creatrice. Tali sono le religioni bibliche, ovveroebraismo e cristianesimo, e l’islamismo, religioni nelle quali si può discuterecirca la eventuale presenza di motivi mitici, ossia di motivi particolari chepresenti, in un quadro mitico strutturalmente legati agli altri elementi diquello stesso quadro, possono comparire anche al di fuori di esso eintervenire a caratterizzare un personaggio sovrumano ‘non mitico’ e il suocomportamento. Tali motivi mitici nelle religioni non mitiche possonorisultare originari oppure possono venire in esse introdotti da altri ambientiper contatti storici, influssi o altro ancora.

Anche la categoria di mito, come altre tradizionali degli studi religiosi, apartire dalla categoria stessa di ‘religione’ – come visto –, è stata in tempirecenti oggetto di una critica decostruttiva. Se ne contesta – a partire inparticolare da studi di J.P. Vernant[473] e di M. Detienne,[474] la legittimitànon solo per ambiti estranei al mondo occidentale, ma anche per questo enello specifico per il mondo greco, in relazione al quale si nega che lanozione di ‘mito’ possa identificare un genere letterario specifico come pure

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uno specifico contenuto o una serie di contenuti. Essa risulterebbe piuttostoun vuoto involucro che può ospitare sensi e contenuti diversi a seconda deimomenti storici e delle personalità diverse che la utilizzano. In sostanza, lacategoria di mito sarebbe solamente una categoria moderna, puro artefattoeurocentrico e non una categoria indigena al mondo greco né tantomeno unacategoria di validità universale.

Di contro a tale critica decostruttiva, che in anni più recenti ha visto gliimportanti studi di Claude Calame (1943),[475] si sono levate voci chedifendono l’utilità operativa di tale nozione, e mostrano come il corpus dinarrazioni tradizionalmente designato negli studi come ‘miti greci’ fossericonosciuto come una categoria a sé.[476] In particolare, il racconto miticoconserverebbe un proprium che interviene comunque a caratterizzarlo e chetrascende le differenze di generi letterari e di circostanze narrative in cui essosi esprime: si tratterebbe di una diversa ‘qualità del tempo’ del narrato (iltempo mitico) rispetto al tempo del narratore (il tempo storico o tempodell’attualità) e tale diversità sarebbe ben presente allo stesso narratore greco.[477] Quella di ‘mito’ sarebbe dunque già una categoria ‘emica’ del pensierogreco (ove la nozione di ‘emico’ indica il modo con cui gli appartenenti a unadeterminata cultura ne intendono le concezioni e le manifestazioni, mentre‘etico’ riguarda la valutazione di quelle stesse da parte di un osservatoreesterno a quella cultura) e avrebbe legittimità scientifica.

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2. Monoteismo

La categoria classificatoria di ‘monoteismo’ (da monos,‘unico’, ‘solo’ etheos, ‘dio’) spesso si configura, anche in studi specialistici, quale alternativa,quasi ovvia e necessaria, rispetto a quella di ‘politeismo’. Nella parte dedicataal politeismo si è visto quanto infondata sia tale assunzione. L’alternativa tramonoteismo e politeismo non risulta esaustiva del mondo delle religioni, nonsolo perché si danno delle forme specifiche e ulteriori quali l’enoteismo, lamonolatria, il diteismo, ma anche perché si danno formazioni religiose che, adifferenza di quelle ora citate, e a differenza del monoteismo e del politeismo,non sono dei teismi, ovvero non conoscono un concetto di divinità personaledistinta dal mondo, una entità cui convenga l’appellativo di dio, theos o deus,in senso politeistico o in senso monoteistico (essendo, in quest’ultimo senso,la divinità personale nettamente distinta dal mondo e tale da trascendere ilcosmo, senza più conoscere quelle parziali compromissioni con il mondo e isuoi elementi che le divinità politeistiche ancora, e talora, conoscono). Sitratta dei sistemi monistici ai quali faremo più avanti riferimento, e per i qualisi può pensare a quelle forme dell’induismo che conoscono la nozione diBrahman o al taoismo che fa riferimento alla nozione di Tao o all’orfismoche mette in campo – in alcune sue formulazioni – la nozione dell’Uno. Sitratta, in questi casi e in altri analoghi, di tradizioni o movimenti religiosi chefanno riferimento non a un dio ma a un’entità semipersonale osostanzialmente impersonale, ovvero a un principio primo o a una arché, nelcaso dell’Uno e del Brahman, o a una ‘legge’, nel caso del Tao. Siamocomunque lontani dal tipo di una divinità vigorosamente personale epersonalistica quale Jahvè in ambito biblico o più in generale quale il dio alcentro dei contesti monoteistici.

Anche altre entità sovrumane o preumane o extraumane – nel mondodelle religioni – risultano estranee alla definizione di ‘dio’. Si pensi a quegliesseri primordiali che sono propri di taluni contesti etnologici e che non sonooggetto di culto nella attualità, quali i dema, uccisi nel tempo primordiale etrasformatisi in vegetali commestibili, o agli spiriti di un contesto animistico,

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o allo stesso Essere supremo cui quelli, in diversi contesti etnologici,risultano subordinati.

Per identificare ambiti religiosi non teistici sono state usate negli studidenominazioni che hanno avuto fortuna diversa e che risultano in manieradiversa congrue, quali quelle di monismo, animismo, polidemonismo,feticismo, e altre.

Inoltre, cautele metodologiche analoghe a quelle sopra espresse inrelazione alla categoria di ‘politeismo’ si impongono quando si tratti diaffrontare quella di monoteismo, in quanto anch’essa è una categoriaanalogica, ovvero tale da ricoprire contenuti in parte affini e in parte diversi.Anche a prescindere dal cosiddetto ‘monoteismo primordiale’, o‘monoteismo primitivo’ (Urmonotheismus), che studi successivi a quelli diW. Schmidt (quali quelli di R. Pettazzoni) hanno ampiamente dibattuto, lediscontinuità tra i monoteismi storici, come le continuità, storiche efenomenologiche, devono essere fatte oggetto di attenta considerazione e adesse accenneremo più avanti.[478]

Anche la categoria classificatoria di monoteismo è stata coinvolta inquella tendenza decostruzionista che ha avuto in anni recenti come oggettodiverse categorie classificatorie nell’ambito degli studi storico-religiosi,categorie certamente convenzionali ma pur sempre necessarie, se usate concautele e con la opportuna duttilità, alla fondazione e all’elaborazione di undiscorso scientifico sulle religioni quale quello proprio della Storia dellereligioni.

Tali tentativi decostruzionisti fanno leva sul fatto che termini, di coniomoderno, quali appunto politeismo e monoteismo, insieme con altri, sonostati al centro di interpretazioni sistematiche dei fatti religiosi (si pensi alleinterpretazioni di tipo evoluzionistico ma anche ad altre, formulate in sedeteologica e alle quali faremo cenno più avanti) le quali caricavano tali terminidi precise connotazioni valoriali. La cura di evitare ogni giudizio di valore oogni giudizio normativo nella definizione e descrizione dei fenomeni religiosida parte dello studioso che si occupi di storia delle religioni ha portato, inposizioni estreme, a respingere tali termini come inadeguati alla definizione edescrizione delle tradizioni religiose da lunga data definite con tali termini.

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Tuttavia, un uso metodologicamente avvertito dei termini in questione, enello specifico del termine ‘monoteismo’, qui oggetto della nostraconsiderazione, si pone come necessario correttivo delle posizionidecostruzioniste sopra citate. Lo storico delle religioni, infatti, non considerail ‘monoteismo’ come un ‘tipo ideale’ (ted. Idealtypus) o come un modellonormativo. La sua sarà una definizione operativa, non certo normativa o‘ideale’, della categoria di ‘monoteismo’.

Né tale categoria sarà da lui intesa in senso univoco: ovvero, il termine‘monoteismo’ non intende indicare, nella terminologia da lui usata, unfenomeno unitario e monolitico, che come tale è inesistente, ma piuttosto unacategoria classificatoria di certi fenomeni che presentano profonde estrutturali analogie, cui peraltro nei diversi contesti definibili ‘monoteistici’ siaggregano volta per volta elementi distintivi e specifici. Correttamente sidovrà parlare di ‘monoteismi’, ossia di concreti contesti religiosi storicamentedeterminati, tra i quali sussistano aspetti e contenuti tali da permetterne lacollocazione all’interno di una tipologia storica (quella appunto di‘monoteismo’) sufficientemente omogenea, ma non, appunto, univoca.[479]

È anche opportuno, in sede preliminare, prendere atto del contestoculturale in cui il termine monoteismo fu per la prima volta formulato,nonché dell’oggetto o degli oggetti a cui si è inteso applicarlo e ai quali sicontinua a riferirlo.

Il termine ‘monoteismo’ non trova antecedenti nell’uso linguistico anticoe viene coniato dal filosofo e teologo Henry More (1614-1687),[480]appartenente al circolo dei Platonisti di Cambridge,[481] il quale lo utilizza aifini della definizione di alcuni contesti religiosi.

L’autore “nel distinguere diverse formulazioni della nozione del divino,elabora di fatto una sorta di ‘scala evolutiva’ dei fenomeni che intendeanalizzare, sul tipo di quelle che più tardi saranno proposte dagli antropologiottocenteschi e più in genere dagli studiosi di ispirazione positivistico-evoluzionistica. In ogni caso è netta e dichiarata l’opzione filosofico-teologica intesa a individuare un ‘modello’ religioso conforme al criterio diverità, che l’autore identifica nel cristianesimo, e quindi a enunciare giudizidi valore sui fenomeni in esame. Un primo tipo di concezione religiosa è

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quindi indicata nel politeismo/idolatria, ed è giudicata come una forma diateismo, così come espressione di un materialismo ateo è ritenuta lavenerazione del sole, quale si presenta in molti contesti del mondo antico.Quindi l’autore considera le posizioni intese a identificare il mondo con dio,quelle che, a partire dal secolo successivo, saranno definite‘panteistiche’[482]. È significativo notare che a proposito di siffatte posizioniil filosofo usa la definizione di ‘falso monoteismo’. Al di là del netto giudiziodi valore, teologicamente motivato, ne risulta la percezione egualmente nettache il motivo dell’unitarietà del divino non è criterio sufficiente peromologare posizioni del tipo in questione a quelle che a parere dello studiosorealizzano la corretta nozione monoteistica. Queste sono le due tradizioni dimatrice biblica, l’ebraismo-giudaismo e il cristianesimo, sebbene la prima siagiudicata forma di ‘monoteismo imperfetto’ in quanto caratterizzata da formemateriali di culto e soltanto la seconda sia ritenuta realizzare la forma ‘pura’di ‘monoteismo’, interamente spirituale”.[483]

Il termine ‘monoteismo’ è stato poi accolto nel linguaggio filosofico,teologico e, successivamente, anche storico-religioso, venendo a designare letre grandi religioni di origine biblica, ebraismo-giudaismo, cristianesimo eislam, oltre che lo zoroastrismo.

Si tratta di formazioni storiche che, “pur nella distinzione delle rispettivefisionomie dottrinali e storiche, presentano delle caratteristiche comuni sullequali gli interpreti concordano sostanzialmente. Si tratta in primo luogo dellanozione di un dio personale, creatore di tutta la realtà e trascendente rispettoad essa, attivo nella storia umana intesa come luogo di manifestazione dellasua potenza, la cui unicità implica l’esclusione di qualsiasi altro essere divinoe che si propone, con le norme etiche di cui è fondamento e garante, allascelta di ogni uomo e di tutti gli uomini. Esclusivismo, individualismo euniversalismo appaiono pertanto altrettanti corollari della nozione del Diounico nei tre contesti religiosi in questione, sebbene tutti questi elementipresentino formulazioni e aspetti diversi che li differenziano l’uno dall’altroe, all’interno di ciascuno di essi, nei diversi momenti storici di sviluppo enella varietà delle posizioni assunte nell’ampio arco cronologico e geograficodella loro formazione e diffusione nelle comunità che ne sono il luogo di

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origine e di realizzazione storica”.[484]Va poi considerato un elemento ulteriore, ovvero la qualità

specificamente religiosa dei fenomeni storici designati con il termine‘monoteismo’: “Esso infatti, fin dalla sua prima utilizzazione e nell’usoscientifico posteriore, ha un senso specifico in quanto inteso a caratterizzarealcune tradizioni religiose e non dei costrutti speculativi, filosofici, anche sefilosofi e teologi fanno largo uso di tale categoria classificatoria e seall’interno delle tradizioni religiose definite monoteiste è fatta una parteampia a formulazioni sistematiche di vario tipo”.[485] La tipologia del‘monoteismo’ definisce, dunque, fenomeni religiosi, ossia fenomeni checoniugano il duplice referente della credenza e del culto, ove entrambi glielementi risultano radicati in un contesto comunitario e tradizionale,fenomeno religiosi – si diceva – e non teorie o postulati ideologico-speculativi pertinenti a particolari correnti filosofiche e a personalità rilevantiall’interno di esse. E questo sebbene allo storico debba essere ben presentesia il fatto che determinate teorie filosofiche possono essere profondamenteradicate nei quadri religiosi dei contesti culturali ove esse sono state espresse,sia il fatto che, soprattutto nel mondo antico e tardoantico, il livello dellariflessione teorica, e in particolare delle riflessioni teoriche a forte caricateologica, e quello dell’esperienza religiosa sono talora profondamente legatitra di loro.

Il monoteismo si qualifica pertanto come credenza, e relativo culto, in unafigura divina caratterizzata da valenze peculiari, che verremo ora a esaminaree che sono diversamente declinate nei diversi contesti monoteistici.

Innanzitutto i contesti monoteistici affermano la unità e la unicità di Dio.Quanto all’unità, osserviamo quanto segue. Il dio nei contesti

monoteistici è una entità sovrumana ‘una’. Dire che Dio è uno può significareche è ‘unificato’ e tale predicato, l’unità o uniformità, lo caratterizza in sé;può significare che è uno solo e unico, e tale predicato, l’unicità, locaratterizza in rapporto alle altre entità a lui omologhe, che vengono escluse;può infine significare che è lo stesso per tutti gli uomini e tale predicato,l’universalità, ne definisce il rapporto non con sé, non con altre entità a luiomologhe, ma con entità rispetto a lui diverse, gli uomini.

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Consideriamo qui la caratteristica dell’unità nel primo significato. Alriguardo appare efficace la seguente formulazione: “Dio può essere uno percontinuità con sé, poiché è privo di soluzioni di continuità. Il Corano si fa unarappresentazione di questo tipo quando, in una sura celebre, usata spessocontro l’idea della Trinità cristiana, chiama Dio ‘l ‘Impenetrabile’, as-samad(112,2). Ma già gli antichi commentatori non conoscono più il senso diquesto aggettivo e, come spesso avviene, per spiegarlo devono ricorrere acongetture. Talvolta lo spiegano dicendo che Dio è come un elementocontinuo, senza faglie, senza scaglie, come un pezzo di metallo forgiato. Diopuò essere uno per fedeltà a se stesso nel quadro di un progetto di salvezzache si dispiega in una storia. È forse questo ciò che esprime la famosaformulazione con cui il Dio di Israele si presenta nominandosi: ‘Io sono coluiche sono’ (Es 3,14). Dio può essere uno grazie all’accordo, nell’amore, delletre ipostasi della sostanza divina. La Trinità, per il Cristianesimo, non è unmodo per attenuare il rigore del monoteismo. È, al contrario, un modo perpensarlo sino in fondo dicendo in quale modo Dio è uno. Se ‘Dio è amore’ (1Gv 4,16), l’amore deve costituire anche la legge interna del suo essere e, diconseguenza, della sua unità con se stesso”.[486]

L’unicità, poi, del Dio dei contesti monoteistici lo qualifica come entitàtale da esaurire l’orizzonte del divino. Si ricorderà come nelle diverseformulazioni di quel ‘monoteismo pagano’ che sopra ha trattenuto la nostraattenzione, la unicità del divino sommo, del deus summus, unico al suolivello, si coniugava con la pluralità delle figure divine (e demoniche)inferiori. Anche nelle formulazioni non rigidamente verticali e gerarchiche,l’unicità del dio, ad esempio del dio unico cui fa riferimento Massimo diMadaura nella sua lettera ad Agostino sopra citata, si coniugava con lamolteplicità dei tanti dei oggetto dei diversi culti ‘pagani’, e da Massimodefiniti come ‘membra’ del dio ‘unico’.

Nelle tre grandi religione monoteiste, costituite dall’ebraismo-giudaismo,dal cristianesimo, dall’islamismo, la riflessione sul Dio uno e unico è statacondotta, a partire dal dato considerato rivelato nei rispettivi contesti, anche,seppure in misura maggiore o minore, con l’ausilio di argomentazionifilosofiche, ovvero approfondita razionalmente con il contributo del pensiero

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filosofico greco e in particolare platonico e aristotelico, nonché – perl’islamismo – della filosofia araba.

Il Dio uno e unico dei monoteismi è ‘personale’.[487]Tale caratteristica, pur declinata diversamente nei diversi ambiti

monoteistici, lo identifica come distinto dalla realtà cosmica, come dotato dicoscienza e volontà e come termine di una relazione con l’uomo. Qui bastiricordare come in ambito cristiano la nozione di ‘persona’ abbia ricevuto unaprogressiva chiarificazione in relazione allo sviluppo della teologia trinitariae in ambito scolastico.[488]

Il dio dei contesti monoteistici è creatore, ossia autore della realtàsecondo le modalità di una ‘creazione’, ove il termine creazione “designa laproduzione per antonomasia, attribuita all’Essere assoluto, del tutto dellarealtà, l’atto cioè per cui Dio fa apparire qualcosa come distinto da sé, senzatrarlo né dalla propria sostanza, né da un elemento preesistente, ma ponendoin assoluto il reale esistente al posto del nulla”.[489]

Tale modalità produttiva, consistente nel chiamare all’essere da partedella divinità le cose che non sono, formalizzata in ambito scritturistico in 2Mac 7,28 e Rm 4,17, avrebbe ricevuto nel linguaggio teologico e filosofico laspecificazione di ex nihilo e sarebbe stata denominata creatio ex nihilo,‘creazione dal nulla’.

Nell’ambito della riflessione cristiana e in particolare di quella trinitaria siè venuta formulando la nozione della creazione non solo come ex nihilo maanche come ex amore Creatoris (cfr. Gaudium et spes 2). E, contestualmente,anche la nozione della finalità della creazione, che non solo – dunque –conosce una fine (escatologia) ma anche un fine, ovvero è orientata allacomunione dell’uomo con la vita divina trinitaria.

Di fatto, i monoteismi sviluppano un’articolata dottrina escatologica, taleda contemplare non solo una escatologia individuale, la quale non èprerogativa dei soli monoteismi, ma anche una escatologia collettiva, chevede coinvolta l’umanità in quanto tale e la realtà cosmica.

La prospettiva creazionistica propria dei monoteismi comporta la totaledistinzione tra creatore e realtà creata, ossia la trascendenza del primo rispettoalla seconda, la libertà dell’atto creativo e la contingenza o non necessità

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della realtà creata.Un’impostazione creazionistica salva nettamente il discrimine tra il

divino e il cosmico, che non è divino, come pure tra il divino e l’umano, chenon ospita in sé – come elemento o parte della sostanza di cui è composto – ildivino; inoltre, essa fa del mondo e dell’uomo – come detto – il portato di unlibero atto creativo.

Nella visuale creazionistica biblica l’uomo non è necessario, come invecelo è in diverse formulazioni degli antichi politeismi ove l’uomo serve a‘sostentare’ gli dei. E neppure il mondo, al pari dell’uomo, è emanazionenecessaria del divino, come in posizioni moniste e panteiste. E nemmeno lacreazione del mondo e dell’uomo risultano offrire quella necessarietà cheesse invece mostrano, seppur con modalità diverse, all’interno di orizzontireligiosi dualistici, ove la creazione, o talora meglio la ‘formazione’, dellarealtà cosmica e umana è necessaria ai fini della evizione del secondoprincipio, il principio negativo di tali visuali dualistiche (cfr. infra).

Dunque, in una prospettiva creazionistica, Dio potrebbe darsi senza ilmondo ma non viceversa. Non così in una prospettiva monistica, alla qualeverremo, e nella quale l’identificazione parziale o totale tra il principio divinodel mondo e il mondo stesso (teopantismo o panteismo) comporta tra ildivino e il mondo una sorta di rapporto di reciproca e necessaria dipendenza.

Va segnalato come nell’ambito della filosofia e della teologia cristiane sisia sviluppata la riflessione su un ulteriore aspetto della nozione di creazione:la creazione può essere intesa come una relazione, cioè come una dipendenzacontinua e fondante di ciò che è creato dal suo creatore. Si deve taleapprofondimento in particolare alla “filosofia dell’atto di essere” sviluppatada Tommaso d’Aquino.[490] La nozione di ‘atto di essere’ implica[491]“l’atto continuo e trascendente con cui Dio chiama all’essere una creatura,dal quale dipendono l’esistenza attuale della creatura (il fatto che essa adessoesista) e la sua specifica essenza (il fatto che sia propriamente ciò che essa è).Mediante tale atto, che è ciò che fa essere la creatura se stessa, il Creatorepuò essere presente nella creatura in modo intimo e costitutivo, nonrimuovendo bensì fondando la sua autonomia”.[492]

Si può pertanto dire che in tale prospettiva il Dio uno e unico è, in

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relazione al mondo, origine prima e unica, fine ultimo e costante fondamento.In opere di autori cristiani dei primi secoli la nozione di creazione dal

nulla viene anche a fondare e a dimostrare la plausibilità di altre nozionibasilari della dottrina cristiana quale, ad esempio, quella della resurrezionedei corpi, in relazione alla quale tali autori vengono ad affermare che chi hafatto dal nulla tutte le cose non ha difficoltà a ricrearle in qualsiasi momentodopo la morte e la dissoluzione del corpo.[493]

Nelle prospettive non teistico-creazionistiche proprie dei monoteismi, mamonistico-evolutive, proprie delle teo-cosmogonie elaborate in ambitipoliteistici, come ad esempio quelle espresse dal babilonese Enuma Eliš edalla Theogonia esiodea, si ha uno sviluppo teogonico e insiemecosmogonico per il quale a partire da archai o principi iniziali di caratteresemipersonale, abissale e caotico, emergono gli dei delle successivegenerazioni e le diverse entità cosmiche. Tali teogonie sono al contempocosmogonie, ovvero il mondo nasce in concomitanza con gli dei come vera epropria manifestazione divina, in senso tipicamente pagano, non peròcompiutamente panteistico o monistico, giacché le divinità, anche quelle piùcollegate con le entità cosmiche, come, si pensi alla Theogonia esiodea, leMontagne, i Fiumi, l’Oceano, mantengono più o meno la loro individuapersonalità. Spesso, inoltre, le archai primordiali, sconfitte o superate daglidei più giovani, vengono ridotte a elementi dello scenario cosmico sul qualenella attualità si muovono uomini e dei.

Talora le teo-cosmogonie sono piuttosto di tipo devolutivo: a partire daprincipi iniziali, concepiti come realtà intatte e perfette, narrano l’emergeredella pluralità e la differenziazione delle realtà cosmiche, destinate a lorovolta ad essere riassorbite nella unità originaria indifferenziata, secondo unadialettica senza fine. Si tratta di sistemi anch’essi monistici, intendendo permonismo la dottrina relativa alla unicità, non del dio con le caratteristichesopra evidenziate come nei sistemi monoteistici, ma del principio divino dellarealtà. I monismi – su cui torneremo più avanti – possono esprimersi comepanteismi quando vengono a identificare, senza residui, la realtà divina conquella mondana, ovvero identificano, in vario modo, il principio divino e ilmondo. Tale identificazione comporta la dipendenza reciproca e necessaria

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tra il principio divino e il mondo, mentre nei monoteismi Dio potrebbe darsisenza il mondo ma non viceversa.

Si ricorderà, poi, come nelle rappresentazioni ‘piramidali’ e gerarchichedel divino proprie delle teologie pagane alle quali sopra abbiamo fattoriferimento, la derivazione del mondo dal dio sommo non è messa a tema e ledefinizioni di questo dio sommo e unico al suo livello come di autore dellarealtà sembrano avere più un valore metaforico che alludere a una precisaderivazione o a una tanto più improbabile creazione.

La menzione di queste teologie pagane gerarchiche, sopra diffusamenteillustrate, ci consente di fare un’ulteriore affermazione, e cioè che latrascendenza del divino nelle specifiche modalità in cui si dà nei contestimonoteistici, e a prescindere dalle diverse accentuazioni che di questatematica danno i grandi monoteismi storici, si pone per così dire in unaposizione di equilibrio tra due tendenze opposte, entrambe espresse da quelleteologie pagane. Da un lato, la tendenza che porta alla sottolineaturadell’abissale trascendenza del divino sommo rispetto alla realtà umana ecosmica; dall’altro lato, la tendenza che porta, all’opposto, a immergeretotalmente o parzialmente il divino nella realtà cosmica e umana, all’internodi posizioni immanentistiche, siano esse panteistiche siano esseteopantistiche. Paradossalmente – ma solo a una prima e superficiale letturadelle cose –, le due tendenze estreme qui illustrate possono coesistere elegarsi profondamente all’interno di una medesima visuale, quale, adesempio, quella propria di talune concezioni gnostiche, come la valentiniana.Questa, infatti, coniuga l’abissale trascendenza del divino sommo, dettosignificativamente in una delle sue denominazioni Bythos, ovvero ‘Abisso’,con lo sfondo monistico di tutta la visione teologica e antropologicavalentiniana, per la quale il divino e il sé umano, ovvero il vero uomo,l’uomo interiore, vengono ad essere della stessa sostanza, ossia si pongono incontinuità ontologica.

Trascendenza e immanenza, ma immanenza nel senso di vicinanza eintimità del divino con l’umano, sono invece coniugate, e in una prospettivadiversa rispetto a quella gnostica, nella prospettiva biblica, che fugge dagliestremi opposti costituiti, il primo, dalla assoluta trascendenza intesa come

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irraggiungibilità e inconoscibilità del principio divino e, il secondo, dalla suaontologica immanenza alla sostanza di cui sono fatti il mondo e l’uomo. Atale del tutto particolare compresenza di trascendenza e di immanenza fannoriferimento passaggi biblici quali quello che afferma che il Dio, rivelatosi inGesù Cristo, è «un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisceper mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6; cfr. At 17,28).

Torniamo alla riflessione sulla nozione di creazione.La cosmogonia e antropogonia biblica, dunque – espressa in particolare

all’inizio della Genesi ma richiamata in tanti luoghi scritturistici siadell’Antico come del Nuovo Testamento –, è di tipo creazionistico, ovverosuppone una Persona divina che ai primordi passa volontariamente eliberamente come supremo artista all’opera creatrice al culmine della qualesta la creazione dell’uomo.

Siffatta prospettiva estrae il dio da qualsiasi struttura teogonica eteomachica che lo condizioni e ne condizioni l’agire: ciò vuol dire che non lovede inserito in una linea teogonica a partire da entità caotiche originarie, enon lo vede dover faticosamente e violentemente imporsi su di esse ai fini dipoter esistere e operare, e dunque creare, facendo violenza a queste entitàprimordiali che lo hanno prodotto (come nelle teo-cosmogoniemesopotamiche). È stato osservato come, talora, proprio questecaratteristiche, più che l’idea precisa di una creatio ex nihilo la quale puòanche essere implicita o addirittura mancare a beneficio della idea di‘formazione’, distinguano le concezioni creazionistiche da quelle teo-cosmogoniche.

Va poi ricordato che una sorta d’idea creazionistica, non certo espressa intermini speculativi, è presente anche presso popoli etnologici anche di culturaparticolarmente arcaica, come Pigmei, Paleoriberiani, Australiani del S.E.,nel contesto di miti – spesso di tipo dualistico; cfr. infra – che vedono attiviEsseri supremi o personaggi sovrumani delle origini, da distinguerecomunque tipologicamente dagli dei unici dei contesti monoteistici.[494]

Il dio dei monoteismi, inoltre, oltre ad essere attivo alle origini, èpercepito anche come efficace e attivo lungo tutta la storia cosmica e umana,storia che, nelle impostazioni monoteistiche, è orientata in senso

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escatologico, ovvero verso una fine che è anche un fine, dopo i quali visaranno, per usare una espressione tratta dalla Apocalisse, un ‘nuovo cielo’ euna ‘nuova terra’, ovvero una realtà cosmica che è diversa dalla attuale e chevedrà, dopo un ‘giudizio finale’, la beatificante comunione della creatura conil suo creatore. Ma una comunione che non comporta l’indistinzione tra ledue realtà come accade nelle prospettive finali di contesti monistici, alle qualiin altro luogo facciamo riferimento.

La sua presenza attiva nella storia e lungo la storia rende il Dio deicontesti monoteistici diverso dalle figure di Essere supremo proprie di diversiambiti etnologici, un essere spesso descritto come deus otiosus, attivo alleorigini ma non più nella attualità e neppure, nella attualità, oggetto di culto.Nei monoteistismi, in buona sostanza, e rievocando una terminologiaintrodotta in relazione ad una riflessione sulla nozione di ‘religione’ comerottura di livello, si realizza compiutamente una coincidenza tra il livello delsupra e quello del prius.

Altri attributi tipici del dio dei contesti monoteistici sono la onniscienza ela onnipotenza, la quale ultima, peraltro, viene fortemente compromessa neimonoteismi dualistici, come vedremo.

Il dio di un contesto monoteistico – inoltre – è un dio ‘morale’ ovvero èfonte e garante delle norme etiche. Egli richiede alle sue creature una sceltaesclusiva, gravida di connotazioni etiche e nella prospettiva di una salvezza,una scelta da realizzare concretamente in un quadro comunitario, con larelativa prassi cultuale.

Le caratteristiche fin qui illustrate risultano, seppure con modulazionidiverse, presenti in quei contesti religiosi che si solgono chiamaremonoteistici, ovvero nell’ebraismo-giudaismo, nel cristianesimo,nell’islamismo e nello zoroastrismo. In misura più o meno legittima ricevonola qualifica di monoteistiche anche formazioni storiche minori, come lariforma operata dal faraone Akhenaton nel XIV sec.a.C. (‘monoteismosolare’), e la religione dei Sikh o Sikhismo, alle quali verremo più avanti.

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2.1 Politeismo e monoteismo. Cenni di storia degli studi

Per le scuole evoluzionistiche, come visto, il politeismo tipico dellegrandi civiltà del mondo antico costituiva una fase ulteriore rispetto a fasioriginarie – diversamente identificate dai diversi studiosi – della storiareligiosa dell’umanità, e da esso si faceva evolvere, come culminedell’evoluzione religiosa, il monoteismo. Gli spiriti, le anime, gli antenati –secondo tali scuole interpretative – si sarebbero trasformati, arricchendo lapropria personalità, negli dei del politeismo e da questi, come per selezione,si sarebbe trascelto ed esaltato l’unico dio del monoteismo. Il quale, in questavisuale, rappresenterebbe l’ultimo stadio di una graduale riduzione numericadegli esseri sovrumani o non-umani – dai moltissimi, ai molti, all’uno – esarebbe il risultato finale di una progressiva evoluzione, correzione eaffinamento del concetto di divinità.

La scoperta da parte dell’etnologo scozzese A. Lang della credenzapresso i ‘primitivi’ dell’‘Essere Supremo’ introduce un elemento inaspettato,non considerato dalla problematica evoluzionistica, e consente di superare leteorie animistiche e più in generale evoluzionistiche.

Sulla scorta delle scoperte di A. Lang, W. Schmidt, fondatore della scuola‘storico-culturale’, viene a individuare la presenza di credenze nell’EssereSupremo in un più ampio numero di culture ‘primitive’ e, ipotizzando unasostanziale conformità tra le civiltà più arcaiche a lui contemporanee e leprime fasi di sviluppo dell’umanità, viene a definire queste come espressivedi un ‘monoteismo originario’, o ‘monoteismo primordiale’,Urmonotheismus; rispetto a questo le altre forme religiose, intorno alle qualile scuole evoluzionistiche avevano teorizzato, come animismo, manismo epoliteismo, sarebbero state posteriori, e avrebbero costituito un offuscamentoe una degenerazione della concezione monoteistica originaria. Dette formereligiose, tuttavia, vengono pur sempre pensate come gradini di una scala, inquesto caso devolutiva e non evolutiva.

R. Pettazzoni, in Italia, riprese lo studio dell’Essere supremo nelle culturedei primitivi in relazione all’idea di ‘dio’ nelle religioni monoteistiche epoliteistiche.

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A tali indagini è dedicato in particolare il primo volume, L’Essere Celestenelle credenze dei popoli primitivi (Athenaeum, Roma 1922), della sua operaDio. Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni.

Sulla base di una ampia indagine comparativa in merito alle credenzeespresse dai popoli primitivi ‘attuali’ egli viene a delineare le fondamentalicaratteristiche di quella entità ‘suprema’ che, denominata Essere supremodalla letteratura antropologica precedente, egli preferisce denominare EssereCeleste.

Per Pettazzoni, l’Essere supremo è una personificazione prodotta da unasfera ben precisa dell’attività del pensiero, una sfera che appartiene all’ordinedel fantastico o, meglio, dell’intuitivo e precisamente a quella forma diintuizione che è espressa dal mito. Più precisamente, l’Essere supremo è unapersonificazione – nella cui formazione non interverrebbro fattori di ordinelogico-causale – di un elemento naturale, il cielo. Nel prosieguo della suaricerca, Pettazzoni si concentra sullo studio degli attributi dell’Esseresupremo. Questo ha innanzitutto una dimora celeste e le varietà cromatichedel cielo al pari delle diverse manifestazioni meteoriche ne esprimono lediverse declinazioni del carattere, dell’umore e della disposizione neiconfronti degli umani. In particolare, poi, esso conosce un aspetto statico euno dinamico.

Il primo aspetto consente di definirlo come deus otiosus, ovvero comeentità sovrumana che – secondo le narrazioni mitiche delle popolazioni che lohanno come proprio – dopo gli atti creativi, seppur non concepiti secondo lespecifiche modalità di creatio ex nihilo, si allontana e si ritira nella suadimora celeste. In tal caso egli non è più oggetto di culto.

L’aspetto suo dinamico, invece, si esprime nelle perturbazioni meteorichee atmosferiche come pioggia, venti, tempeste, uragani, nonché in fenomeniconcomitanti come l’arcobaleno, il tuono, il lampo, la nebbia, la grandine.

Le caratteristiche peculiari del cielo, come spazio cosmico che sovrastatutte le cose e che non ha confini, sono per Pettazzoni all’origine delleprerogative specifiche dell’Essere Celeste quali l’onniveggenza el’onnipresenza. Dalla natura uranica di questo Essere che, dunque, tuttoconosce e pertanto anche le azioni umane, buone e cattive, discende anche il

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suo carattere morale, ovvero la sua caratteristica di giudice e i suoi interventipunitivi che si esprimono, ancora una volta, mediante i diversi fenomenimeteorici ed atmosferici.

Lo studioso distinse poi diversi tipi di Essere supremo, diversi nelleforme e negli attributi, in relazione a ambienti o ‘cicli culturali’ diversi, eindividuò figure di Esseri supremi non di natura uranica (quali quelli delleciviltà pastorali-patriarcali), come la figura della Madre Terra quale esseresupremo femminile, tipico di un complesso agricolo-matriarcale, o la figuradel Signore degli animali, tipca delle primitive culture dei cacciatori.

Quanto al problema delle origini del monoteismo, quel monoteismo chela scuola storico-culturale aveva visto come attribuibile già alle popolazioniattuali di fase più arcaica e di conseguenza alle prime fasi di sviluppo dellecredenze religiose dell’umanità, il Pettazzoni fondamentalmente mostra comeil diffuso carattere di deus otiosus dell’Essere Celeste e le sue connotazionimitiche di entità immersa in una rete di rapporti familiari o di altro tipo,costituiscono altrettanti caratteri che non intervengono a delineare, invece, lafacies degli dei al centro dei monoteismi storici. E pur riconoscendo parzialicontinuità storiche e tipologiche fra gli Esseri supremi dei primitivi, i sommidei di formazioni politeistiche e il dio unico dei monoteismi, affermò –tuttavia – doversi riconoscere quest’ultimo – il monoteismo – solo nellegrandi religioni dell’Antico Testamento, del cristianesimo, dell’islamismo edel mazdeismo. Da qui l’opportunità – sostenuta da Pettazzoni – di rinunciareper le credenze primitive a un termine e a un concetto, quelli di‘monoteismo’, d’aspetto così sistematico e culto.[495]

Esso, infatti, implica un complesso solidale di nozioni intorno a Dio,complesso che si ritrova soltanto in grandi religioni come l’ebraismo, ilcristianesimo, l’islamismo e lo zoroastrismo. Inoltre, il monoteismo, perPettazzoni, implicando la credenza in un solo Dio e la negazione di tutti glialtri, presuppone un politeismo nel senso che si pone come reazione, omeglio rivoluzione, nei confronti di un precedente politeismo.

Per Pettazzoni, allora, il politeismo non nasce per evoluzione da unprecedente politeismo, come per le scuole evoluzionistiche, ma per‘rivoluzione’, allorché un fondatore religioso, un profeta, neghi tutti gli dei

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per affermarne uno solo. Infatti, la storia mostra come i politeismi non sianoevoluti, quasi per una sorta di meccanismo interno, verso i monoteismi,neppure i politeismi particolarmente maturi e che dunque potevano esserepronti per dare nuovi frutti, come in Mesopotamia e in Grecia, ove si ebberoeventualmente esiti ‘enoteistici’. Ma come, invece, sia intervenuta lacreatività di una persona, di un profeta o fondatore religioso che affermal’unicità (monos) del dio e al contempo nega tutti gli altri dei.

U. Bianchi, allievo di R. Pettazzoni, ha osservato come, in tale visuale,per la quale il monoteismo non sorgerebbe per evoluzione dal politeismo, maper rivoluzione e contro di esso, il politeismo rimarrebbe comunquepresupposto, quasi tesi ad antitesi. Se la formulazione di Pettazzoni risulta piùattenta, rispetto alle evoluzionistiche, alle esigenze e ai dati della storia, essapresuppone tuttavia pur sempre, osserva Bianchi, una dialettica ‘univoca’ tra idue termini, appunto politeismo e monoteismo. Anche la formulazione diPettazzoni, in base alla quale il monoteismo presupporrebbe sempre unarivoluzione antipoliteistica, risulta, per Bianchi, troppo rigida. Lo studiosoafferma,[496] infatti, che occorre rinunciare a chiavi interpretative generali eonnicomprensive, quali quelle di ‘evoluzione’ e di ‘rivoluzione’, e valutarecaso per caso le modalità del sorgere nella storia di predicazioni orientate insenso monoteistico.

Nel caso del monoteismo ebraico, ricorda Bianchi, esso si forma nel senodi un popolo, Israele, e nel seno di una tradizione, quella patriarcale, ove –secondo la rappresentazione biblica – non si offre tanto come reazione erivoluzione contro il politeismo, ma come risposta da parte di Abramo ad unappello di Jahvé, risposta cui sono legate le origini stesse del popolo diIsraele. La polemica antipoliteistica non risulta primaria e nemmenoperspicua almeno fino al Deutero Isaia, come avremo modo di osservare piùavanti.

Per Bianchi, dunque, il monoteismo non implica necessariamente ecomunque una rivoluzione antipoliteistica. Insomma, non è soltanto – o non èsempre e primariamente – la polemica contro i molti dei a caratterizzare lapredicazione dei grandi rappresentanti delle religioni monoteistiche. Essa puòrivolgersi anche contro altri aspetti giudicati incongruenti con la loro visione

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e non solo contro la molteplicità degli dei.Del resto, si può osservare che una rivoluzione operata in seno a un

ambito politeistico, e assoggettato a interpretazioni in senso monistico, nonnecessariamente porta a esiti monoteistici, come dimostra il caso dellarivoluzione religiosa ad opera del Buddha espressasi nei confrontidell’induismo del suo tempo.

Inoltre, all’interno di ciascuna predicazione monoteistica occorrevalutare, accanto agli elementi di rottura con la tradizione religiosapreesistente – quegli elementi che portano Pettazzoni a parlare di una‘rivoluzione’ –, anche gli elementi di continuità con la tradizione neiconfronti della quale un fondatore o un riformatore si pone.

Infatti, talora, i profeti di predicazioni monoteistiche tendono a presentareil loro Dio come quello che fin dalle origini era stato oggetto di culto e diconseguenza a non presentarsi come i primi rivelatori del culto del vero eunico Dio. Maometto fa riferimento alla tradizione abramitica e al cultoosservato dagli hanif, che avrebbero mantenuto la continuità del cultomonoteistico in Arabia prima dell’avvento del profeta. Il monoteismopredicato da Maometto, nell’Arabia preislamica e ‘politeistica’, risente delpotente influsso del monoteismo ebraico, ivi ben noto in quanto praticato datribù giudaiche, che Maometto conobbe – come conobbe le comunitàcristiane ivi presenti – e con le quali in un primo momento pensò di poter farcausa comune.

Anche Zarathustra fa riferimento a un ‘principio’ in cui le leggi di AhuraMazda vennero stabilite, quelle leggi che ora il profeta – Zarathustra –ribadisce. Per quanto concerne la sua predicazione, inoltre, oggi si ritiene chela negazione di tutti gli dei e l’affermazione di uno solo, Ahura Mazda, chene costituiscono la cifra distintiva, possano non costituire un unicum nellastoria religiosa del mondo iranico, ma essere state preparate da tendenze giàorientate in senso analogo.

In sostanza, Bianchi rifiuta chiavi interpretative rigide, sottolinea ilcarattere ‘analogico’ della categoria di ‘monoteismo’ e con esso la necessitàdi una maggior attenzione ai singoli contesti storici monoteistici e alle lorospecificità, dunque alle discontinuità oltre che alle continuità tra gli stessi.

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Terminiamo questa parte dedicata ai rapporti tra monoteismo e politeismocome espressi nella storia degli studi storico-religiosi, con rapidi cenni a unaserie di tematiche particolarmente dibattute ai nostri giorni.

Si assiste da qualche decennio a una sorta di riscoperta e valorizzazionedel politeismo, che ha peraltro radici lontane nella storia della culturaeuropea. Il Rinascimento recupera a livello dell’arte, nella pittura e nellascultura, gli dei degli antichi politeismi. E nella rinascita platonica dellaFirenze del XV secolo gli dei dell’Olimpo ricevono legittimazione tramiteun’interpretazione filosofica.

L’illuminismo tedesco ha ritenuto di poter contrapporre un paganesimo‘sereno’ (heiter) a un cristianesimo tinto di angoscia.[497] È tuttavia F.Nietzsche a voler offrire in età moderna una fondazione teoretica dellasuperiorità del politeismo sul monoteismo. E con Max Weber si viene avalorizzare il politeismo come figura della pluralità dei valori.[498] Prendecosì corpo un’equazione tra politeismo e tolleranza, da un lato, monoteismo eintolleranza o violenza, dall’altro lato, che viene difesa in moltepliciinterventi e saggi, tra i quali qui si potranno ricordare – tra gli ultimi – quellidi J. Assmann.[499]

Tipica della posizione di Assmann è la tesi della ‘distinzione mosaica’,ovvero dell’introduzione con Mosè della distinzione tra vero e falso inmateria di religione. L’egittologo tedesco pratica un tipo di indagine, la‘semantica culturale’, attenta al rilievo che i fatti assumono, più che nellastoria, nella rappresentazione della memoria. Sulla base di questametodologia, egli ritiene che i testi dei monoteismi ebraico, cristiano eislamico, siano caratterizzati da un linguaggio della violenza che viene ainterrompere quello che ad Assmann appare l’atteggiamento proprio deipoliteismi, caratterizzato da reciproco riconoscimento e da traducibilità deirispettivi dei. Il monoteismo con la sua nozione di un unico dio verointrodurrebbe nel mondo delle religioni la distinzione tra verità e falsità,cosicché le religioni ‘altre’ e i loro dei in quanto falsi divengono oggetto dicondanna e persecuzione. L’autore non ignora come i politeismiconoscessero espressioni di violenza, ma afferma che in essi la violenza eramotivata da ragioni ‘politiche’, di potere, e non da questioni concernenti la

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‘verità’ su dio e sugli dei.[500] Nello sviluppo della sua riflessione, tuttavia,Assmann attenua la tesi della violenza come conseguenza necessaria delmonoteismo e la lega piuttosto a un uso politico del monoteismo stesso.

Non è questo il luogo per dibattere queste tesi.[501] Possiamo soloricordare come i tre monoteismi, cui solitamente ci si riferisce nel dibattitoattuale sul monoteismo, abbiano avuto una diversa origine e una diversaevoluzione e come tale diversità risulti troppo spesso misconosciuta osottaciuta allorché si propone – come in un’ampia gamma di studi recenti emeno – l’equazione tra monoteismo e violenza. E se l’ebraismo e ilcristianesimo hanno – seppur in misura diversa – partecipato al processo disviluppo della civiltà occidentale, l’islamismo ne è rimasto estraneo. Di fatto,nei testi fondativi del cristianesimo vi è la distinzione tra la sfera politica(‘Cesare’) e quella religiosa (‘Dio’), mentre nell’islamismo la religioneinveste tutti gli aspetti della vita e dell’esperienza umana, ovvvero non si dàseparazione tra sfera religiosa e sfera politica. Di fronte a una troppo rapidaequazione tra monoteismo e violenza meriterebbero anche di essereapprofondite, da un lato, la riflessione sviluppata solo in seno a contestimonoteistici come l’ebraismo e il cristianesimo circa la sacralità dellapersona umana; dall’altro lato, le radici ideologiche legittimanti la violenzaproprie di contesti non monoteistici quali alcune forme dell’induismo ancherecente.

Nell’impossibilità di seguire i diversi filoni in cui si è articolato nelloscorso secolo e nell’attuale il dibattito intorno al monoteismo,[502] cilimitiamo – da ultimo – a un cenno sulla questione ‘monoteismo e teologiapolitica’.

La formalizzazione della nozione di ‘teologia politica ’si deve al giuristaCarl Schmitt,[503] che afferma essere tutti i concetti più pregnanti dellamoderna dottrina dello Stato dei concetti teologici secolarizzati, ovvero che laradice fondamentale di tutti i concetti della scienza politica moderna èteologica. Più in generale si usa detta espressione per designare i rapporti trale rappresentazioni del divino e le espressioni del potere politico.

La tesi che il cristianesimo abbia rifiutato la reciproca contaminazione delpolitico e del religioso nel momento in cui ha affermato il dogma della

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Trinità che esprime la modalità specifica di essere del Dio uno e unico delmonoteismo cristiano, è difesa da Erik Peterson, teologo tedesco che nellaGermania del 1935 scrive Il monoteismo come problema politico.[504] Dadue anni in Germania il nazionalsocialismo aveva preso il potere,proclamando la fede in ‘un solo popolo, un solo impero (Reich) e un solocapo (Führer)’. Opponendosi all’idea di teologia politica di Schmitt, Petersonmostra il legame tra il rifiuto di ogni teologia politica e la formulazione deldogma trinitario, additando come caso esemplare la crisi ariana che scosse laChiesa agli inizi del IV secolo.[505] Menti abituate, da un lato, al modellodelle rappresentazioni pagane del divino che tentavano, come visto, diconciliare l’unicità del dio sommo con la pluralità degli dei inferiori, e,dall’altro lato, alla sottolineatura della unicità di Dio propria del monoteismogiudaico, potevano essere particolarmente sensibili a una teologia comequella ariana e al suo modello di una ‘monarchia divina’ per la quale il Padrefosse il Dio supremo e in un certo senso unico mentre il Figlio fosse un dio disecondo ordine. La monarchia divina è una modalità di descrivere il divinocon categorie prese dall’ambito politico. Nel momento storico della crisiariana l’autorità imperiale tese a sostenere la concezione monarchica delmonoteismo, ovvero quella teoria che sarebbe stata condannata come eretica,che concepiva la monarchia divina sul modello della monarchia terrena,incarnata allora dall’impero romano. Ad una concezione politica che facevacorrispondere monarchia terrena (l’impero) e monarchia divina meglio siadattava il subordinazionismo degli ariani, che riduceva Cristo a un ‘divinoinferiore’, piuttosto che non il trinitarismo degli ortodossi che poneva ilFiglio e lo Spirito Santo al medesimo livello di dignità divina rispetto alPadre.[506]

La soluzione della crisi ariana – attraverso il rigetto da parte del Conciliodi Nicea di un monoteismo pensato come ‘monarchia divina’, l’affermarsidella teologia cappadoce e le soluzioni dottrinarie adottate dal concilio diCostantinopoli del 381 – indicò la necessità di abbandonare l’idea di Dio edella sua unicità come riflesso della monarchia terrestre. Il mistero dellaTrinità concerne soltanto Dio e non offre alcuna analogia con i modelli diunicità presenti nelle realtà del mondo, a partire dall’unicità dell’imperatore.

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2.2 Monoteismo e monoteismi

Le caratteristiche che in sede storico-religiosa identificano la tipologia delmonoteismo sono – come detto – diversamente declinate all’interno diciascuno dei monoteismi storici.[507] Facciamo di seguito un rapidoriferimento ai tre monotesmi (ebraismo-giudaismo, cristianesimo, islamismo)che con espressioni comunemente usate, ma improprie, vengono definiti‘monoteismi abramitici’ o anche ‘religioni del libro’.

Per quanto concerne la prima espressione, quella di monoteismiabramitici – o religioni abramitiche – essa vuole indicare il fatto che le trereligioni in questione, ebraismo-giudaismo, cristianesimo e islamismo, sirifarebbero ad Abramo come all’inizio di una storia di rivelazione. Tuttavia,tale espressione misconosce il fatto che la figura di Abramo, che compareall’interno dei testi riconosciuti come canonici dalle tre religioni in questione,vi assume una diversa fisionomia. Come pure il fatto che diversamente daGesù Cristo, dagli apostoli, da Paolo e dai primi cristiani, Maometto e i primimusulmani non erano di ascendenza ebraica. Per quanto concerne, nellospecifico, la figura di Abramo, l’ebraismo valorizza la esemplarità della suafede, mentre il cristianesimo, a questo dato, unisce il motivo del sacrificio delfiglio di Abramo come prefigurazione del sacrificio di Cristo. Mentrel’ebraismo valorizza il fatto che Dio stesso ferma la mano di Abramo esostituisce la vittima umana con un montone, per il cristianesimo è Dio stessoa sacrificare il proprio Figlio amato. Nell’Islam vi è un’altra prospettiva: ilCorano innanzitutto inserisce Abramo nella serie dei profeti che avrebberoricevuto il ‘libro’, proiettando così all’indietro il modello di Maometto stesso(53,37; 87,19; 20,133). Inoltre (2,125-127) l’Islam fa di Abramo il costruttoredi una ‘casa’ che la tradizione posteriore identifica con il tempio cubico dellaKaaba alla Mecca. Ma soprattutto fa di Abramo un seguace dell’Islam,religione che, nell’interpretazione coranica, era già stata di Adamo, di Noè,laddove ebraismo e cristianesimo costituiscono – sempre in tale prospettiva –deformazioni del messaggio originario consegnato ad Adamo.

Per quanto concerne l’altra espressione, religioni del libro, anch’essa sipresenta impropria.

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Essa deriva, infatti, dal diritto islamico. È nel diritto islamico chel’espressione ‘gente del libro’ (ahl al-kitab) ha un preciso significato,venendo a designare quelle popolazioni che, al momento della primadiffusione dell’Islam, possedevano testi sacri, e in particolare ebrei e cristiani,e che, pertanto, diversamente dai pagani che potevano solo scegliere tra laconversione e la morte, venivano a costituire delle ‘comunità protette’ (ahlal-dhimma), con precisi diritti e doveri giuridicamente sanciti, ma comunquein una condizione di inferiorità rispetto ai ‘fedeli’ islamici.

Per il resto, l’espressione ‘religione del libro’ risulta imprecisa sia perchéle religioni che espressero fonti scritte di rilevanza religiosa, importanti per irispettivi orizzonti religiosi anche se non sempre e non necessariamente‘canoniche’, non sono solamente le tre considerate (ebraismo-giudaismo,cristianesimo, islam), sia perché il rapporto che ciascuna di queste tre ha conil proprio ‘libro’ è profondamente diverso e altrettanto – e contestualmente –diversa la natura del ‘libro’ nei tre contesti.

I libri che compongono l’Antico Testamento appartengono a diversigeneri letterari e sono stati composti da autori anonimi lungo un arcotemporale di diversi secoli. Mentre gli ebrei vi riconoscono solo i testi scrittiin ebraico, i cristiani vi riconoscono anche quelli tradotti in greco (Siracide) oscritti direttamente in greco (Sapienza). Anche il Nuovo Testamento contienediversi generi letterari (Vangeli, Atti, Epistole, Apocalisse). È scritto inun’unica lingua, il greco, e la sua redazione copre un periodo di alcune decinedi anni. Nel caso specifico del cristianesimo si suole affermare chel’espressione ‘religione del libro’ è quanto mai impropria poiché ilcristianesimo si fonda prima di tutto su un evento legato a una Persona, Gesùdi Nazareth, e solo secondariamente su un ‘libro’, che narra un evento.

Il Corano offre, almeno all’apparenza, una maggiore unità e una notevoleintertestualità (ripetizioni, citazioni, allusioni). In un determinato momento,difficile da datare con precisione, sono stati raccolti i discorsi che Maomettoavrebbe tenuto secondo la tradizione islamica alla Mecca e dall’anno 622 aMedina, dove peraltro incontrò l’opposizione degli ebrei che si rifiutarono diriconoscere il suo messaggio. Nell’Islam, ‘il libro’ occupa un postoparticolare, in quanto fonte normativa dei diversi aspetti, religiosi e civili,

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della vita del singolo e della collettività. Inoltre, laddove per ebraismo ecristianesimo i rispettivi testi sacri sono ispirati da Dio ma scritti da uominiche ne sono gli autori, per l’islamismo il libro sacro è dettato da Dio stessoche ne viene ad essere, in qualche modo, il vero autore. Egli vi rivela nontanto se stesso ma la propria volontà, promulgando una serie di comandi.

E veniamo ora a una descrizione di come l’idea monoteistica vengadeclinata – tra aspetti di continuità e di discontinuità – all’interno deimonoteismi storici, a principiare dall’ebraismo-giudaismo.

Vorremmo che apparisse chiaro come un’adeguata comprensione deimonoteismi storici (come del resto di ogni tradizione religiosa) non si possaconseguire soltanto con una comparazione di tipo fenomenologico dellerispettive nozioni dottrinali e pratiche cultuali, e nel presente caso unacomparazione – nello specifico – degli attributi divini come predicati daimonoteismi storici, ma comporti anche una comparazione più squisitamentestorica, ossia relativa ai modi e alle circostanze storiche di nascita e disviluppo delle tradizioni religiose monoteistiche di cui sarà qui parola.

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2.2.1 Ebraismo-giudaismoIl termine ebraismo generalmente indica l’intera civiltà ebraica lungo il

suo arco storico fino ad oggi. Tuttavia negli studi esso assume anche unsignificato più specifico, venendo a designare la religione degli Ebrei dallapiù remota antichità sino al periodo della cattività babilonese. In questosecondo caso, il periodo successivo ad essa si suole chiamare giudaismo.Quest’ultimo termine designa pertanto quella forma storica e culturaledell’ebraismo che ha come protagonista la superstite tribù di Giuda,localizzata nella Giudea, dalla fine dell’esilio babilonese (538 a.C.) fino ainostri giorni. Il giudaismo si suole dividere in tre epoche: giudaismo antico(V-III sec. a.C.), medio giudaismo (III sec.a.C. – II sec. d.C.), giudaismorabbinico, dal II sec.d.C. in poi.

Nel caso dell’ebraismo-giudaismo, il ‘monoteismo’, come affermazionedella unità e unicità di Dio, è frutto di un lungo e complesso processo storico,oggetto di un dibattito antico e sempre attuale.[508]

Esso viene definito come ‘monoteismo primario’ allorché se ne sottolineala indipendenza genetica da altre forme monoteistiche, e in particolare dalmonoteismo mazdeo (e zoroastriano). I rapporti tra questi due monoteismisono stati e sono oggetto di ampi dibattiti scientifici che registrano posizionidiversificate e, al limite, opposte. Così, ad esempio, R. Pettazzoni suggeriva –ma solo come ipotesi – che il monoteismo mazdeo potesse dipenderegeneticamente da quello ebraico, il quale – in tal caso – sarebbe il primo acomparire all’orizzonte della storia e che comunque il monoteismo si fosseformato una sola volta nella storia.[509] Se altri asseriscono, al contrario, inmaniera invero troppo perentoria che prescinde dalle numerose questioniancora aperte alla discussione scientifica, essersi il monoteismo espressooriginariamente una sola volta nella terra dell’Iran, una posizione piùequilibrata appare invece a molti quella che suggerisce la formazioneindipendente, e tale da seguire nei due casi percorsi fortemente diversi, purcon importanti contatti, del monoteismo ebraico e di quello mazdaico, alquale – peraltro – faremo più avanti riferimento.

A differenza dei monoteismi ‘secondari’, cristiano e islamico, che si

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pongono in esplicita continuità – seppur in modi profondamente diversi –rispetto a quello, il monoteismo nel caso dell’ebraismo-giudaismo non si puòcollegare alla figura storica di un fondatore, ma è piuttosto frutto, come detto,di un lungo e complesso processo storico, all’interno del quale l’ebraismo-giudaismo tuttavia riconosce la funzione peculiare e ‘fondativa’ sotto aspettidiversi delle figure di Abramo e di Mosè.

Abramo è presentato come il padre della nazione ebraica, colui che perprimo ha stabilito il patto d’alleanza con Iahwè. Al pari dell’altra personalitàche la tradizione biblica riconosce come ‘fondatore’, ovvero Mosè, si pone ilproblema oltremodo complesso di definire la storicità di queste figure. Mosèè presentato dalla tradizione biblica come il profeta che ha avuto contattodiretto con Dio, il quale gli ha comunicato le norme fondamentali della Leggesu cui si basa la vita religiosa e civile del popolo ebraico. Ma per una correttavalutazione della fisionomia dell’ebraismo-giudaismo e della sua ideamonoteistica, occorrerà non dimenticare che questa tradizione religiosamentre sottolinea il ruolo ‘fondante’ di figure umane, offre una fortedimensione ‘nazionale’, in quanto è proprio il patto con Iahwè a porre lefondamenta del popolo di Israele e a costituire l’elemento distintivo della suaidentità storica e culturale. Nella relazione esclusiva con il proprio dio, ilpopolo ebraico percepisce il fattore della propria identità e insiemel’elemento di distinzione dagli altri popoli. E tuttavia, questa dimensionenazionale viene a comporsi con un’apertura universale, fondata sullaconcezione monoteistica come viene progressivamente a definirsi – e inparticolare a partire dalla tradizione post-esilica e in essa con il Deutero-Isaia– ovvero sulla concezione che Iahwè è il dio unico, creatore di tutta la realtà equindi il dio di tutti gli uomini, al quale tutte le genti devono guardare.

Nell’autocoscienza di Israele, come si esprime nell’Antico Testamento,all’origine della religione ‘monoteistica’ di Israele si pone un appello da partedi Dio ad Abramo: “Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gliapparve e gli disse: ‘Io sono Dio onnipotente (el shaddai); cammina davanti ame e sii integro’” (Gen 17,1). Non è qui presente l’idea di una rivelazione delnome di Dio. Il teonimo Jahvé, e propriamente il tetragramma YHWH,infatti, è collegato invece dalle tradizioni bibliche all’autorivelazione di Dio a

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Mosè sul monte Horeb (Es 3,14): “Dio disse a Mosè: ‘Io sono colui chesono’. Poi disse: ‘Dirai agli Israeliti: Io-sono mi ha mandato a voi’”.[510] AMosè Dio si rivela come YHWH, ‘Colui che è’.[511]

Tornando al testo genesiaco relativo all’appello rivolto ad Abramo, ‘El’,termine semitico traducibile con ‘dio’ (plur. Elohim), e Shaddai,‘onnipotente’, sono le designazioni divine tipiche dell’epoca dei patriarchi, eindicano il dio del clan familiare, il ‘dio dei padri’.[512]

La tradizione veterotestamentaria mostra Abramo rispondere a questoappello ed abbandonare le tradizioni politeistiche dei suoi antenati per seguireil comando di Dio (cfr. Gios. 24,2-4) che gli impone di lasciare Ur deiCaldei[513] – l’esortazione a lsciare Ur è esortazione a una ‘rottura culturale’– e gli promette una discendenza numerosa in Canaan (cfr. Gen 11-12).

Alle origini del monoteismo ebraico non sta tanto un’affermazione teoricao speculativamente impegnata o una dottrina esclusivista del tipo ‘esiste unsolo dio, e gli altri dei non sono nulla’, o semplicemente ‘non sono’, ma stauna affermazione ‘esclusivista’ di tipo, per così dire, ‘pratico’ o concreto,secondo la mentalità semitica, nel senso che afferma un legame esclusivo traun popolo e il suo Dio, che a quello si è legato con un patto che Israele[514] èchiamato ad osservare, con una alleanza che Israele è chiamato a custodire erinnovare nonostante le numerose ‘deviazioni’ in senso politeistico, espresseda quelle pagine bibliche che denunciano l’idolatria.

I testi biblici più antichi conoscono la pluralità degli dei nel senso delriconoscimento che ogni popolo ha il suo dio e così JHWH è il dio di Israelecome, ad esempio, Kemosh è il dio dei Moabiti loro vicini (Gdc 11,24).

Sia i testi confluiti nel canone veterotestamentario sia l’evidenzaepigrafica ed archeologica attestano, nella antica religione ebraica, cultiprofessati in onore di altre figure divine,[515] quei culti nei confronti deiquali con veemenza si sarebbero scagliati i profeti.[516] L’affermazione‘monoteistica’ ovvero l’affermazione della esistenza di un solo Dio a cuiprestare un culto esclusivo e della non esistenza degli altri dei, deve pertantoessere intesa, nella fase pre-esilica, nei termini detti, nei termini di unrapporto esclusivo (o una relazione esclusiva, ma asimmetrica) tra il popolod’Israele e il suo dio, e solo esso. Tale popolo non doveva render culto a

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nessun altro dio.[517] Si potrebbe forse parlare di un ‘monoteismorelazionale’.

In questa direzione si colloca la grande apostrofe deuterocanonica, ilcosiddetto Shema Israel (‘Ascolta Israele’), chiamato così dall’espressionecon la quale inizia. “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore èl’Unico (o, secondo diversa traduzione, ‘il Signore è uno solo’)” (Dt 6,4), cuisegue: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima econ tutte le forze” (Dt 6,5). Lo Shema Israel ribadisce l’alleanza stabilita nelDecalogo; infatti allo Shema Israel fa eco il primo comandamento delDecalogo in una formulazione che sembra introdurre un confronto: “Nonavrai altri dei di fronte a me”.[518]

“In origine lo yahvismo non era monoteista”.[519] Nelle sue primeattestazioni che risalirebbero al XIII sec.a.C. e ancora in età monarchica loyahvismo era, piuttosto, monolatrico (ove il termine monolatria designa ilculto di una sola divinità),[520] con un culto verisimilmente aniconico,ovvero privo di immagini.

In tale direzione vanno diversi testi tra i quali possiamo qui ricordare Dt10,17: “Perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei signori,il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali”. Sitratta dunque di un Dio in qualche modo ‘etnico’, del Dio di Abramo e dellasua stirpe, che non esclude l’esistenza di altri dei né la possibilità che lostesso Israele si dia alla loro adorazione, a quella idolatria, o culto degli idoli,contro la quale si scagliano violentemente i profeti.[521] È ben notal’immagine sponsale, ovvero il rapporto amoroso tra lo sposo e la sua sposa,che in testi veterotestamentari esprime il legame tra Dio e il suo popolo,[522]come pure lo è quella del tradimento o della prostituzione per esprimere lainfedeltà di Israele nei confronti del suo Dio.[523]

Sono qui da evidenziare, sulla scorta di studi fioriti al riguardo, i tratti checonsentono di delineare una specificità del Dio di Israele nei confronti deglidei dei popoli circostanti.

L’essere divino che parla ad Abramo, secondo la narrazione genesiacasopra riferita, pur non avendo ancora i caratteri dell’unico Dio di tutti gliuomini e di tutto il mondo ha tuttavia una fisionomia specifica. Egli non è un

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numen locale come quelli che si trovavano presso i popoli circostanti, ma unnumen personale. Egli afferma la propria identità non in relazione a un luogo,non è il Dio di Betel, del Sinai o di Canaan, ma è un Dio delle persone, diAbramo, di Isacco e di Giacobbe. E neppure è coinvolto con elementi comeacqua o terra o la vegetazione, ovvero con il ciclo della vita al pari del Baaldel pantheon dei Cananei (la popolazione indigena dell’area siro-palestinese);non è – come quello – un potere immanente di fertilità ma dà anche lafertilità.

L’Antico Testamento non offre una ‘teologia’ in senso stretto, ossia unvero e proprio ‘discorso’ sistematico su Dio. E gli attributi che lo descrivononon ne definiscono teoricamente l’essenza ma piuttosto delineano le modalitàdella presenza divina nella storia umana.

Per quanto concerne la sua caratteristica primaria, vale a dire quella dellasua viva ed efficace ‘personalità’, va detto che nell’Antico Testamento non viè un riferimento esplicito a Dio come persona, con l’introduzione di questaspecifica nozione, che pertiene ad altri ambiti culturali e momenti storici, main questa direzione si pongono diversi temi e in particolare la nozione per laquale Jahvé ha un nome.

L’esistenza di un nome presuppone la possibilità di parlare a qualcuno, diascoltare e di rispondere. Il nome è teso a rendere possibile una relazione. Il‘nome’, in Es. 3,14, vale a dire ‘Io sono colui che sono’, mentre ne affermal’identità personale, per altro verso si pone – per così dire – come un ‘nonnome’, ovvero non è sullo stesso piano dei nomi degli dei dei popolicirconvicini.

Infatti, esso sottolinea la trascendenza di Dio e la possibilità di accostarsialle profondità del mistero divino solo per rivelazione. Non è tuttavia questoil luogo per dipanare gli enormi problemi esegetici che concernono taleformulazione di Es.3,14 relativa al nome ‘proprio’ di Dio: dalla possibilità diinterpretarla come affermazione dell’essere di contro al divenire, allapossibilità di intenderla come un ‘essere per’ o un ‘essere con’, a quella diintenderla in riferimento a un ‘far essere’. In sostanza, la risposta a Mosè haricevuto diverse interpretazioni: essa è stata letta come elusione, ovvero comenon risposta e affermazione della propria sovranità assoluta, in maniera

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analoga a quanto accade con la formula “Io dico quel che dico” (Ez 12,25).Ma al contempo è stata letta anche come affermazione dell’esserci sempre, daparte di Dio, accanto al suo popolo e dunque veicolerebbe le nozioni diefficacia, potenza e fedeltà.

Dal testo biblico emerge un’ulteriore caratteristica del dio ‘personale’,ovvero quella di un dio morale, non indifferente al male perpetrato dallacreatura, che egli ha voluto libera, ma giusto e misericordioso.

Rimane da ricordare, come tratto ulteriore della ‘persona’ divina, ilcarattere ‘non mitico’ della rappresentazione divina nei primi capitoli dellaGenesi, carattere cui sopra abbiamo già fatto riferimento: “Nel caso del Diod’Israele, il suo fondamentale carattere non mitico è motivato dal fatto cheesso non è oggetto di una vicenda (teogonica, teogamica, naturistico-stagionale), né trasceso da essa”.[524]

È stato osservato in alcuni studi[525] come Israele abbia osato adorarel’Assoluto stesso come Assoluto. In questo starebbe la sua totale differenzarispetto al politeismo, il quale non significherebbe, primariamente e nellaspecifica prospettiva in cui si muovono gli studi in questione, l’affermazionedella pluralità dell’Assoluto, ma piuttosto l’affermazione della suainaccessibilità. E per contro il monoteismo non solo riconoscerebbe l’unità el’unicità dell’Assoluto, ma soprattutto crederebbe alla possibilità dirivolgergli la parola e alla sua stessa possibilità di parlare. Un aspetto, questo,che spiegherebbe come la coscienza moderna sia molto contigua aipresupposti fondamentali del politeismo, e come l’ateismo moderno abbia perlarghi tratti e paradossalmente un carattere politeistico.[526]

Ma torniamo allo sviluppo del monoteismo ebraico.Qui basti dire che “sussiste ormai un largo consenso tra gli studiosi nel

riconoscere che il monoteismo ebraico è il frutto di un lungo e complessoprocesso storico in cui, più che un’unica figura di ‘fondatore’ quale latradizione biblica identifica con Mosè, hanno agito varie personalità e gruppia forte tinta profetica. In un contesto di comunità tribali accomunate dal cultoper un dio ‘nazionale’ Ihwh (Yahweh), nome sul cui significato gli specialistidiscutono, le quali vivevano nel territorio palestinese a contatto con lepopolazioni cananee e i rispettivi culti politeistici, in situazione di conflitto

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ma anche spesso partecipando a tali culti o comunque praticando ritiappartenenti a un comune sostrato religioso che contemplava una pluralità dipresenze divine, si sarebbero gradualmente sviluppate tendenze intese adaffermare non solo la necessità di seguire fedelmente solo il dio protettore diIsraele e di riservare a lui ogni forma di culto, ma anche di esaltarlo sopratutti gli altri. L’evento decisivo in questo quadro sembra essere stato – dopola sconfitta del regno di Giuda e una prima deportazione di ebrei (fra cui ilprofeta Ezechiele) a Babilonia nel 597 a.C. – la distruzione di Gerusalemmeda parte del sovrano babilonese Nabucodonosor II nel 587/586 a.C. e ladeportazione a Babilonia di gruppi di israeliti, appartenenti in prevalenza allaclasse dirigente. Nel periodo dell’esilio babilonese (587/586-520 a.C.),all’interno di tali gruppi costituiti in larga parte da rappresentanti delle classialte e colte di Israele, con una forte componente sacerdotale, e con ilconcorso di figure profetiche di grande spessore religioso, come Ezechiele,Geremia e l’autore denominato Deutero-Isaia, si sarebbe costituito un fortemovimento di ispirazione monoteistica, con l’affermazione sempre più decisadell’unicità di Yahweh e della sua potenza assoluta nella creazione e nellastoria. Con il ritorno in patria e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme lanuova visione religiosa si sarebbe imposta sempre più nettamente al popolo,procurando una rivisitazione del proprio passato alla luce della nozione dellarivelazione del Dio unico e sulla base di un patrimonio di antiche tradizioniscritte e orali, quale si riflette nella redazione del Deuteronomio”.[527]

Si conviene pertanto in sede di studi nell’indicare nel periodo delSecondo Tempio il momento decisivo per la formulazione di un credoreligioso fondato sulla nozione di un dio ‘solo e unico’ ad esclusione di ognialtro. Si tende così a vedere nel VI secolo, ed esemplarmente nel SecondoIsaia, il periodo per una compiuta riflessione e una sistematizzazione in sensomonoteistico delle tendenze verso l’affermazione della unicità – taloraespressa come ‘solitudine’ – del Dio d’Israele, espressesi nei secoliprecedenti, a partire da forme di monolatria ovvero di venerazione di un Diodi un gruppo etnico o tribale nomade, passando attraverso il rafforzarsidell’unione di vari gruppi tribali della Palestina e il progressivo imporsi diuna unità statuale sotto l’egida della monarchia, e con l’accentramento

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burocratico e cultuale nella capitale, Gerusalemme, con il suo Tempio, luogounico del culto di YHWH.

Dunque, un’affermazione compiutamente esclusivista, ovvero relativaalla unicità di YHWH (con esclusione di ogni altra figura divina) e allauniversalità del suo potere, compare in testi post-esilici, ovvero dopol’esperienza dell’esilio delle élites politiche e religiose e dei loro sacerdoti eprofeti, come Ezechiele, in Babilonia e del contatto degli esiliati con ilpoliteismo del regno neo-babilonese.

Ivi, il culto delle statue degli dei rivestiva un ruolo importante (quegli deidei babilonesi che i profeti, come Ezechiele, avrebbero affermato essere idolifatti da mano d’uomo), e si andava manifestando un particolare fermentoreligioso causato da una rivalità tra i sostenitori del dio Marduk (inBabilonia) e quelli del dio Sin (ad Harran) per la preminenza nel pantheonbabilonese. L’esperienza della sconfitta del popolo ebraico da parte deibabilonesi e di quella che poteva apparire una sconfitta del dio d’Israele difronte agli dei dei vincitori, dovette favorire una profonda riflessionereligiosa che condusse alla affermazione sempre più chiara ed esplicita delladivinità unica di YHWH e del suo potere universale.

Normalmente un Dio che perde la sua terra, lascia il suo popolo sconfitto e non è stato in gradodi difendere il suo santuario, è un Dio detronizzato. Non ha più nulla da dire. Scompare dallastoria. Nell’esilio di Israele sorprendentemente avviene il contrario. Emerge la grandezza di questoDio, la sua totale alterità rispetto alle divinità delle altre religioni, la fede di Israele acquistasoltanto ora la sua vera grandezza. Questo Dio può permettersi di lasciare ad altri la sua terra,perché non è legato a nessuna terra. Può lasciare che il suo popolo sia vinto, per risvegliarloproprio così dai suoi falsi sogni religiosi. Non dipende da questo popolo, ma non lo lasciaaffondare nella sconfitta. Non dipende dal tempio e dal culto ivi celebrato, secondo quella che è laconcezione comune: gli uomini nutrono gli dei, e gli dei sostengono il mondo. No, non ha bisognodi questo culto, che celava sotto un certo aspetto la sua essenza. Così insieme ad una approfonditaimmagine di Dio si fa luce anche una nuova idea di culto. Certamente già dal tempo di Salomonesi era verificata l’equiparazione del Dio personale dei padri con il Dio di tutti, il creatore (...).Questa identificazione compiutasi in linea di principio, anche se fino allora nella coscienzaverosimilmente poco efficace, diviene ora la forza della sopravvivenza: Israele non ha un Dioparticolare, ma adora semplicemente l’unico Dio esistente. Questo Dio ha parlato ad Abramo ed hascelto Israele, ma in realtà egli è il Dio di tutti i popoli, il Dio comune, che guida tutta la storia. Neconsegue la purificazione dell’idea di culto. Dio non ha bisogno di nessun sacrificio, egli non deveessere mantenuto dagli uomini, perché tutto gli appartiene.[528]

I testi del Deutero-Isaia, o Secondo Isaia (ovvero i capitoli 40-55 dellibro di Isaia),[529] un profeta vissuto sotto il regno di Nabonedo verso la

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metà del VI sec.a.C., che parla al termine dell’esilio babilonese, testi redattitra il 550 e il 539 a.C., sono espliciti al riguardo. In essi è la formula: ‘Io[scil. Jahvé] sono il primo e io l’ultimo. Fuori di me non vi sono dei’.[530] Eancora: ‘Sono io, io solo, il primo e anche l’ultimo’ (Is. 48,12).

L’universalità del Dio unico, creatore di tutte le cose (cfr. Is. 40, 12-13;40, 21-22.28; 45,9.12.18; 48,13; et al.), comporta, nei testi in questione, chenon solo Israele ma anche tutti gli altri popoli lo riconoscano come l’unicovero Dio, in rapporto al quale gli altri presunti dei sono nulla (cfr. Amos 1-2;9,7; Ger 27,5-8; 15, 5-17; Is 7,18-19; et al.). Pur avendo scelto un popolo,Israele, si pone come padre di tutti i popoli in virtù del fatto di essere creatoredi tutti i popoli, oltre che del cielo e della terra.

Progressivamente, si sviluppa dunque l’idea che il Dio di Israele, Dio diun popolo specifico, unico Dio al quale quel popolo presta culto, è un Diocreatore che, avendo stipulato un Patto di alleanza con Israele e avendoconsegnato la Legge a quello mediante il suo ‘servo’ Mosè, si propone allaadorazione da parte di tutti gli uomini e in prospettiva escatologica tuttichiamerà a riconoscerlo. Tuttavia, l’universalismo, insito nell’idea stessa dimonoteismo, e nello specifico nel monotesmo ebraico, nel caso di questo nonne cancella la fondamentale dimensione etnica, ed anzi non viene maicompiutamente a realizzarsi nell’alveo del giudaismo. E ciò nonostante leaperture di tale orizzonte ‘etnico’ venutesi a manifestare lungo la storia diIsraele in particolare con il fenomeno del proselitismo e con le conversioni disingoli e di gruppi fino all’età moderna.[531]

Di fatto, nella vicenda storica dell’ebraismo-giudaismo operacostantemente una dialettica fra tendenze universalistiche, corollario dellarigorosa affermazione dell’unicità di JHWH, quale si definisce – come visto –a partire dalla fase post-esilica e in particolare con il Deutero-Isaia, econnotazioni nazionali, nel quadro della teologia del Patto e dell’‘elezione’ diIsraele. Tale dialettica conosce a seconda dei diversi momenti storiciaccentuazioni o nella direzione della separatezza e delle peuliarità etnico-nazionali della fede ebraica – a fronte della necessità di proteggere la propriaidentità e la propria esistenza da aggressioni esterne – o nella direzione di unaapertura verso l’esterno, con il fenomeno del proselitismo.

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Sul problema dell’origine del monoteismo ebraico la critica si è divisa trai sostenitori di un’ipotesi endogena, quale quella descritta, che vede nascere esvilupparsi l’idea monoteistica all’interno della storia dell’ebraismo stesso,pur non ignorando l’importanza di contatti tra questa e le storie religiose delmondo antico circostante, e ipotesi esogene, che vedono l’idea monoteisticacome espressasi in seno all’ebraismo-giudaismo essere per così direimportata dall’esterno del mondo ebraico. In particolare due sono le direzioniverso le quali hanno guardato gli studi che ammettono una ‘importazione’ –collocabile in età diverse – dell’idea monoteistica.[532]

La prima direzione è quella che guarda ad ambienti di cultura iranica e inessi allo zoroastrismo.

Il problema dei rapporti tra la svolta in senso compiutamentemonoteistico del pensiero religioso ebraico, come espressasi nel VI sec. a.C.,e il monoteismo professato dai sovrani achemenidi, in particolare da quelCiro che andava fondando un immenso impero e che con la conquista diBabilonia (539 a.C.) avrebbe liberato gli esiliati dal giogo babilonese (conl’editto di Ciro[533] del 538 a.C. ha inizio il ritorno di alcuni gruppi di giudeiin patria), è troppo complesso perché possa essere qui sviluppato. Basteràricordare come, soprattutto in una passata stagione di studi, si fosse portati ariconoscere le affermazioni esclusiviste giudaiche come retaggi del contattotra la religione d’Israele e quella mazdaico-zoroastriana al tempo dell’esiliodegli ebrei in Babilonia, e più in generale una dipendenza di temi qualificantila teologia giudaica dalla teologia mazdaico-zoroastriana. Così, oltre allanozione della unicità di Dio, altre nozioni, come – ad esempio – la dottrinadei due spiriti come formulata in testi rinvenuti a Qumran, la qualerisentirebbe della nozione dei due spiriti ‘gemelli’, Angra Manyu e SpentaManyu, nelle Gatha zoroastriane, alle quali verremo più avanti. In realtà,indagini più accurate hanno illuminato le profonde diversità, in relazione aspecifici temi e in relazione alla stessa impostazione monoteistica, tra lareligione d’Israele e lo zoroastrismo, come avremo modo più avanti disegnalare. Le caratteristiche del monoteismo zoroastriano che lodifferenziano dagli altri monoteismi storici e in particolare dal monoteismogiudaico, oltre che le difficoltà di datazione dei testi fondanti dello

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zoroastrismo, vale a dire le Gatha attribuibili a Zarathustra, come pure ledifficoltà di datare la figura stessa di Zarathustra, sono da tenere in adeguataconsiderazione quando troppo genericamente si ipotizzi una dipendenza ditratti che sarebbero diventati propri del monoteismo giudaico dal monoteismozoroastriano, ad opera della classe sacerdotale d’Israele a seguitodell’esperienza della cattività babilonese.[534]

La seconda direzione è quella che guarda all’Egitto e specificamente alsupposto ‘monoteismo’ solare sviluppato dal faraone Akhenaton nel XIV sec.a.C. Tale ‘germe’ monoteistico sarebbe stato accolto dal costituendo popolodi Israele e avrebbe prodotto il monoteismo escusivista proprio dei testibiblici che affermano l’unicità di Jahvé e la non esistenza degli altri dei.Avremo modo più avanti di accennare alle debolezze di tale ipotesi.

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2.2.2 CristianesimoQui ci limitiamo a delineare gli aspetti salienti della specificità del

monoteismo cristiano, in rapporto alle caratteristiche peculiari degli altrimonoteismi storici cui si fa riferimento nelle presenti pagine.

Gli studi degli ultimi decenni hanno sempre più valorizzato la matricegiudaica del cristianesimo nascente (giudeo è Gesù di Nazareth, come pure losono gli apostoli e Paolo di Tarso) e al contempo la complessità interna algiudaismo del tempo (il giudaismo cosiddetto del ‘Secondo tempio’), il qualesi vede diviso in quattro filoni fondamentali (ma non tali da esaurirne lafacies), ovvero quello dei sadducei, dei farisei, degli zeloti e degli esseni. Nelquadro articolato offerto dal giudaismo coevo si inserisce il nuovo gruppo deidiscepoli di Gesù di Nazareth e dei discepoli di questi, il cui annuncio dellavita, delle opere e degli insegnamenti di Gesù di Nazareth, alla lucedell’evento pasquale, delinea un progressivo cammino di distanziamento dalgiudaismo, cammino che non ignorò reciproche ostilità e le cui tappe ecaratteristiche sono oggetto particolarmente dibattuto degli studi attuali.

Nel solco dell’affermazione monoteistica ed esclusivistica impostasi nelgiudaismo post-esilico, e dunque rifiutando, da un lato, la deriva diteistica diun Marcione, alla metà del II secolo, e, dall’altro lato, le declinazionidualistiche gnostiche a partire da quello stesso secolo, il cristianesimo detto‘della Grande Chiesa’ realizzò – aprendosi a giudei e a ‘gentili’ – de factoquella apertura universalistica che de iure caratterizzava già il monoteismogiudaico in particolare nel post-esilio ma che in esso non era pervenuta acompimento storico.

Al contempo, principiò un cammino di riflessione teologica che, sullabase dei testi neotestamentari quali venutisi a definire come canonici a partiredal II sec. e rielaborando dati già propri del giudaismo, in particolare‘sapienziale’, come quelli degli attributi divini o della parola (in greco logos)divina creatrice, portò alla fissazione dogmatica dello specifico volto‘cristiano’ – se così ci è consentito esprimerci – del monoteismo, vale a dire ilvolto trinitario. Questo verrà a costituire il discrimine fondamentale con ilmonoteismo giudaico nel momento in cui – tale è la prospettiva trinitaria –

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verrà a proporre un’articolazione intra-divina pur mantenendosi ilfondamento monoteistico, ovvero la nozione biblica dell’unico Dio creatore esalvatore.

In sostanza, e come vanno valorizzando anche gli studi sulla teologiatrinitaria, la nozione di ‘relazione’ diventa centrale nella comprensionecristiana della nozione del Dio uno e unico, e viene innalzata a concettochiave per spiegare ciò che (o meglio chi) Dio è.[535] “Dio in se stesso èrelazione”.[536]

La formulazione trinitaria, ovvero l’affermazione che Dio è uno e trino, èla specifica modalità con cui Dio, l’‘unico’ Dio della tradizione già giudaica,è percepito come ‘uno’. “L’unità stessa di Dio viene approfondita ed intesa inmodo nuovo: essa non è più unicità legata necessariamente alla solitudine,ma è compresa come unità di una comunione d’amore così totale che il Padreed il Figlio sono una cosa sola. Quindi, Jahvé è uno ma non è solo, perché èPadre ed ha il Figlio”.[537]

La formulazione della dottrina trinitaria dovette contrastare due tendenzeopposte, da un lato quella ad accentuare l’unità della sostanza divina econseguentemente ad attenuare la distinzione tra le persone divine, dall’altrolato quella ad affermare tale distinzione al punto da compromettere l’identitàdella sostanza divina.

La dottrina trinitaria si sviluppa progressivamente attraverso i dibattititeologici e le controversie dogmatiche dei primi secoli e riceve una suaformulazione teorica puntuale nel corso del IV secolo d.C, grazie inparticolare allo sforzo di chiarificazione dottrinale realizzatosi per far frontealla crisi ariana.

Con Ario (256-336), presbitero di Alessandria, trovò voce quelsubordinazionismo (ovvero, affermazione dell’inferiorità ontologica delFiglio rispetto al Padre) che caratterizzava la teologia alessandrina nelle suediverse formulazioni. Lo stesso pensiero dell’alessandrino Origene (185-253)comportava formulazioni che sarebbero state intese in sensosubordinazionista. Ma era nell’ambito dello gnosticismo valentiniano, ossiafacente capo alla figura di Valentino, nativo di Alessandria, che si esprimevatipicamente una teologia graduata, ovvero una scalarità del divino, la quale

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porta fatalmente a una devoluzione e a una crisi a carico dello stesso divino, esegnatamente della sua ultima ipostasi, Sophia, come avremo modo diillustrare. Anche un altro autore di origine alessandrina, Plotino, ammettevauna visione scalare delle ipostasi divine, che procedeva dall’Uno al Nousall’Anima del mondo ed infine alle singole anime, a carico delle quali si davacaduta e conseguente incorporazione.

Per Ario, il Figlio non è coeterno al Padre ma è creato dal Padre neltempo ed è pertanto essenzialmente inferiore a lui ovvero non homoousios oconsustanziale rispetto al Padre. Se il Figlio non è eterno per natura,nemmeno il Padre è Padre dall’eternità, ma è Dio prima di essere Padre.

Il Concilio di Nicea (325) dichiara il Figlio immagine perfetta del Padre,cioè uguale e consustanziale a Lui. Viene così condannata la posizione arianacirca una inferiorità e una similitudine del Figlio rispetto al Padre e vienenegato che il Figlio fosse ‘creato’ dal Padre nonché generato da lui nel tempo.Le tre Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo – sono una cosa sola nell’unica‘sostanza’ di Dio. A Nicea risale la formula usata ancor oggi nel Credo oSimbolo apostolico niceno-costantinopolitano, che definisce il Figlio “Diovero, da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.

Nel frattempo emerse il problema di come concepire il rapporto tra loSpirito e le altre due Persone divine. Di fronte alla tendenza emersa in alcunecorrenti ariane a concepire lo Spirito Santo come creato, il I Concilio diCostantinopoli (381) pervenne alla definizione dogmatica della divinità delloSpirito Santo, ovvero affermò la homoousia dello Spirito e introdusse ladefinizione dello Spirito Santo come ‘Signore’ e ‘Vivificatore’ (‘che dà laVita’), che ‘procede dal Padre’; settanta anni dopo, il Concilio di Calcedonia(451) inserì la fomula Filioque, ossia ‘e dal Figlio’, che non sarebbe stataaccettata dalle chiese orientali. Tale non accettazione costitusce uno dei puntidottrinari del dissenso tra la posizione cattolica e quella ortodossa (staccatasidalla comunione con Roma nel 1054).

Anche il dibattito teologico[538] sulle due nature di Cristo e sullemodalità della loro unione nella persona del Figlio trovò una chiarificazionecon il Concilio di Calcedonia (451) che cercò di afferrare concettualmentel’unione della divinità e dell’umanità in Gesù Cristo con la formulazione che,

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in Lui, l’unica Persona del Figlio di Dio abbraccia e porta le due nature –quella umana e quella divina – in modo ‘inconfuso ed indiviso’. La recezionedella formula di Calcedonia – due nature, un’unica Persona –fu faticosa e sidelinearono nette divisioni: mentre le Chiese di Roma e di Bisanzioaccettarono la formulazione conciliare, Alessandria (Egitto) preferìmantenere la formula “una natura divinizzata” dando luogo in tal modo allaeresia monofisita. Di fatto il monofisismo riconosce a Cristo un’unica natura(physis). In Siria, l’eresia nestoriana, dal nome del vescovo Nestorio (381-451), rifiutò il concetto di “un’unica Persona” che pareva comprometterel’umanità reale di Gesù. Il nestorianesimo, condannato dal Concilio di Efeso(431), si diffuse molto in Asia.

Ancora nel VII secolo si esprimono delle persistenze del monofisismocon le due grandi eresie cristologiche, costituite dal monoenergismo e dalmonotelismo, con i quali se si venne a mantenere la nozione dell’unità dellaPersona di Cristo se ne dedusse tuttavia anche l’esistenza in Cristo diun’unica azione e di un’unica volontà. Tali dottrine furono condannate dalTerzo Concilio di Costantinopoli convocato intorno al 680 che chiuse legrandi controversie cristologiche.

Appartiene alla storia dei rapporti tra i tre monoteismi storici, costituitidall’ebraismo/giudaismo, dal cristianesimo e dall’islamismo, l’accusa – daparte ebraica e, successivamente, islamica – rivolta al cristianesimo di nonessere una fede monoteista, accusa a cui la riflessione teologica cristana harisposto mostrando come la nozione della Trinità non contraddica ilmonoteismo ma ne rappresenti la specifica declinazione in ambito cristiano.[539]

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2.2.3 IslamismoL’Islam (lett. ‘sottomissione’) è il più recente tra i grandi monoteismi

storici.[540] La concezione monoteistica e, con essa, la figura del ‘profeta’ o,meglio, dell’‘inviato’ costituiscono all’analisi da parte dello storico dellereligioni i due aspetti fondamentali dell’Islam, gia presenti all’internodell’annuncio che costituisce la ‘formula di fede’ basilare dell’Islam, ovveroche Allah è Dio e che Maometto è il suo profeta.

Un’adeguata valutazione storico-religiosa dell’Islam deve tenere conto didue aspetti. Da un lato, del fatto che l’Islam è una nuova creazione religiosaed esprime un ribaltamento di posizioni rispetto alla situazione religiosapreesistente – quella dell’Arabia tribale del VI-VII sec. d.C. – operato da unaspecifica personalità, quella di Maometto, e non si intende al di fuori diquesta personalità. Dall’altro lato, del fatto che l’Islam conserva e rielaboraelementi di credenza e di culto propri del mando arabo preesistente aMaometto.

Per quanto concerne il quadro storico dell’Arabia all’epoca di Maometto,va ricordato come nell’Arabia del sud (all’incirca in corrispondenzadell’attuale Yemen) vi era stata una civiltà fiorente, l’Arabia Felix delleantiche fonti romane – ma ormai all’epoca di Maometto in decadenza – conistituzioni proprie di una cultura superiore come l’istituto monarchico e conforti presenze giudaiche. Nell’Arabia centrale che più immediatamentepertiene alla vita e all’attività del ‘profeta’ vivevano tribù nomadi la cuiricchezza fondamentale era costituita dal bestiame e prosperavano le attivitàcommerciali lungo le grandi vie carovaniere che facevano capo alle grandioasi ove sorgevano importanti città come La Mecca, dove da tempo erastanziata la potente tribù dei Coreisciti, passata dal nomadismo alla vitasedentaria, e Yathrib (in età islamica divenuta Medina, ‘La Città’ pereccellenza, ove Maometto si rifugiò e ne diventò un capo).

L’assetto comunitario dell’Arabia al tempo del profeta si fonda – inassenza di una precisa unità statuale – sull’elemento costituito dalla tribù,ovvero da gruppi familiari più o meno numerosi, nomadi e dediti allapastorizia, i quali si riallacciano a un patriarca, dai connotati spesso

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leggendari, che dà il nome alla tribù stessa, e i cui appartenenti si sentonolegati da un vincolo di sangue che regola i rapporti tra i diversi componenti diuna tribù e tra questi e quelli di una tribù diversa. In sostanza, ad una fortesolidarietà interna alle singole tribù corrispondeva una decisa conflittualitàinter-tribale. Quando all’elemento della tribù si sostituirà, con l’avvento dellanuova religione, quello della comunità dei credenti (ummah), tale solidarietàdi sangue sarà trascesa dai nuovi vincoli della fede condivisa dagliappartenenti alla comunità stessa.

L’Arabia preislamica conosceva una tradizione religiosa di tipo etnico,profondamente legata alla storia della cultura e della civiltà arabe.Caratterizzante il panorama religioso dell’Arabia preislamica era la presenzadi culti tribali locali rivolti a una molteplicità di esseri sovrumani, potenzeancestrali proprie dei vari gruppi tribali, a noi note attraverso ladocumentazione epigrafica, la tradizione islamica stessa e la polemica anti-idolatrica presente nel Corano, e che solo impropriamente possono esseredefiniti di tipo politeistico.

Infatti, come sopra si era considerato, la categoria di politeismo in sedestorico-religiosa, pertiene a quelle formazioni religiose che contemplano unamolteplicità di figure sovrumane dotate di una personalità nettamentecaratterizzata, legate da rapporti parentali e connesse ciascuna di esse con ilfunzionamento dei vari ‘dipartimenti’ cosmici e attività umane. Il panoramareligioso dell’Arabia preislamica non contemplava una struttura siffatta mauna frammentazione di culti locali e tribali, relativi a entità sovrumane spessoorganizzate per triadi o per coppie. Posizione preminente all’interno delpanorama sovrumano era occupata da Allah (‘il dio’), protettore della tribù,spesso accompagnato da una paredra, Allat (‘la dea’), in posizionesubordinata.

La località che godeva di maggior peso economico, politico e religiosoera La Mecca, la quale si trovava sotto il controllo della tribù dei Coreisciti,cui apparteneva, in un ramo secondario, lo stesso Maometto. A La Mecca lasituazione di nomadismo tipica delle tribù arabe si era da tempo trasformatain una condizione di stanziamenti fissi ove erano fiorenti le attivitàcommerciali cui si dedicavano le tribù meccane. Il principale santuario de La

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Mecca, che nel VI secolo era diventata un importante centro religiosopanarabo, era la Ka’aba, la quale ospitava una serie di culti prestati a divinitàlocali tra i quali quello di Hubal, che riceve anche il nome di al-ilah, Allah,cioè il nome designante nelle lingue semitiche la divinità e in particolarequella che gode di una posizione somma. Dunque Maometto recepisce ilnome di Allah dalla tradizione araba preislamica, la quale, in questo, siricollega alla tradizione semitica più comune che ha come proprio il nomecomune el, traducibile con ‘dio’, che è anche nome della grande divinità, El,in cananeo e in ebraico, collegata con le altezze celesti.

Contro la molteplicità dei culti presenti nel santuario della Ka’aba, in cuiera custodita la pietra nera, e ove periodicamente convergevano le varie tribùpraticandovi insieme ai riti anche intensi scambi commerciali, si sarebbescagliato Maometto, che li avrebbe espulsi dal santuario, e ivi sostituito adessi la venerazione dell’unico Dio, dopo avere purificato la Ka’aba e averneconnesso la fondazione alla figura di Abramo.

I diversi atti rituali, prescritti al fedele musulmano in occasione delpellegrinaggio alla Mecca, che costituisce uno dei cinque ‘pilastri dell’Islam’,sono buon esempio della permanenza nella nuova religione fondata daMaometto di usi e tradizioni proprie dell’Arabia preislamica, rienterpretati ecaricati di nuove valenze. Al folklore arabo preislamico apparteneva anche lacredenza nei ginn, sorta di spiriti particolarmente imprevedibili e temibili.

L’Arabia preislamica conosceva soprattutto a Yathrib-Medina e a LaMecca una forte presenza di comunità di giudei. Dovettero esercitare suMaometto una forte suggestione le caratteristiche principali della lorotradizione religiosa. Essi possedevano libri sacri (e il diritto islamico liavrebbe definiti ‘gente del libro’), recitati in appositi luoghi di riunione, lesinagoghe, e questo fatto contrastava con l’analfabetismo e il tradizionalismoorale dei beduini e degli arabi ‘pagani’ in genere. Ma, soprattutto, il lororigido monoteismo contrastava con l’orizzonte ‘politeistico’ tipico del mondoarabo prima della predicazione di Maometto. Peculiari della tradizionegiudaica e tali da essere fatti propri da Maometto seppur assogettati nellanuova ‘costruzione’ religiosa a una profonda rielaborazione erano poi l’idea(accolta anche in ambito cristiano) che Dio si rivelasse nella storia attraverso

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dei profeti, la nozione (anch’essa pure cristiana) di un giudizio finale e di unaconnessa retribuzione per i buoni e i cattivi, la presenza di una Legge checomporta prescrizioni sia di carattere giuridico e sociale come pure dicarattere religioso, ed infine quelle concezioni di carattere scientifico seppureembrionale possedute dai rabbini.

Risalente ad apocrifi giudaici (Vita di Adamo ed Eva ed Apocalisse diMosè) è poi la figura di Iblis, il ‘lapidato’, ovvero Satana, l’angelo ribelle,come pure lo sono le specifiche motivazioni che lo indussero a ribellarsi aDio: essendo stati gli angeli invitati a prestare omaggio alla creatura umanaad immagine di Dio, Adamo, egli rifiuta e per questo motivo vienecondannato (Corano 7,12).

L’Arabia preislamica conosceva anche una più sporadica presenza dicomunità cristiane, per la maggior parte di ispirazione nestoriana, sia neicentri abitati come nel deserto. Quivi, in particolare, erano presenti deimonaci la cui vita ascetica si presentava così peculiare e diversa da quella deigiudei come degli arabi, sia beduini del deserto sia abitanti delle cittàmercantili. Del cristianesimo dovette Maometto conoscere dottrine teologichee in particolare la dottrina trinitaria, seppure in maniera ritenutacomunemente dagli studiosi approssimativa, dal momento che – per quantoconcerne, appunto, la Trinità – presso Maometto essa risulta composta dalPadre, da Maria e da Gesù.

Questi, nel Corano, è presentato come un inviato di Dio, sua ‘parola’ –con evidente riferimento alla nozione giovannea di Cristo-Logos –, natomiracolosamente da Maria.

Sulla ‘nuova’ creazione religiosa operata da Maometto dovetteroesercitare un influsso anche concezioni gnostiche, e, in particolare, lanozione, propria di quella forma radicale di gnosticismo che fu, a partire dalIII secolo, il manicheismo, di una catena di rivelatori che culmina nel ‘sigillodei profeti’, quale si era proclamato Mani e quale si sarebbe appuntoproclamato Maometto stesso.

Di verisimile ascendenza gnostica, seppur nello gnosticismo inserita in unorizzonte dottrinale completamente diverso e implicante una posizionedocetistica, dovette essere pure l’idea offerta dal Corano che non Cristo

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avesse patito e fosse morto in croce ma un’altra persona al suo posto,essendosi Cristo dopo la cattura sottratto alla crocifissione. Di ascendenzagnostica e in particolare manichea dovettero poi essere specifici elementi checonfluirono nel ramo sciita dell’islamismo, a cui acccenneremo tra poco.

Il panorama religioso dell’Arabia all’epoca di Maometto comprendevaanche la presenza dei cosiddetti hanif, ovvero di arabi – non giudei e noncristiani – che professavano credenze di tipo monoteistico relative al sommodio denominato Allah, creatore dell’universo. Essi parvero a Maomettoattestare la presenza di una tradizione araba monoteistica risalente adAbramo, sulla base della tradizione già attestata nell’Arabia preislamica, inracconti tradizionali del popolo arabo, relativa ad Ismaele, quale figlio diAbramo e della schiava Agar (Gen 16,15), e patriarca delle genti d’Arabia,ovvero progenitore del popolo arabo (laddove l’altro figlio di Abramo,Isacco, lo sarebbe stato degli Ebrei). Abramo diventa, nella prospettiva diMaometto che utilizza e rielabora tradizioni a lui antecedenti, il primo hanif,ovvero il primo adoratore del Dio unico, Allah. La tradizione monoteisticasarebbe così passata – sempre secondo la prospettiva di Maometto – aglihanif che l’avrebbero conservata al pari degli ebrei.

Si può ben affermare che Maometto (arab. Muh ³ammad, ‘il Lodato’), nelmomento in cui si presenta come profeta dell’unico Dio, Allah, ovvero comecolui al quale Allah parla in un preciso momento storico per rivolgere ilproprio messaggio alla nazione araba, chiamarla al proprio culto e a unacondotta di vita adeguata ed allontanarla dall’idolatria, programmaticamentee consapevolmente si pone in continuità con la tradizione monoteisticagiudaica e cristiana e con le posizioni degli hanif arabi.

Dal punto di vista storico-tipologico si assiste ad una ‘fondazionereligiosa’ che offre aspetti di rivoluzione e aspetti di continuità rispetto allesituazioni storiche e religiose antecedenti e coeve.

Infatti, da un lato si ha – con l’affermazione monoteistica relativa adAllah come Dio unico, onnipotente e creatore – una netta opposizione allatradizione religiosa nazionale araba e alla pluralità dei culti tribali e dellepresenze sovrumane che la caratterizzava. Per altro verso, la stessaaffermazione monoteistica da parte di Maometto si pone in continuità vuoi

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con la tradizione locale degli hanif vuoi con le tradizioni religiosemonoteistiche giudaica e cristiana.

Ma l’elemento di rottura nei confronti della tradizione araba si lega anchead aspetti di continuità con elementi della stessa. Infatti, Maometto utilizza,rielaborandola, tutta una serie di credenze e di pratiche proprie dell’ambientereligioso arabo.

Tra le credenze, si cita solitamente quella relativa ai ginn, una sorta dispiriti, presenze imprevedibili e capricciose, spesso malevole, legate ai variambienti naturali. Tra le pratiche rituali pre-islamiche si deve invecemenzionare, in particolare, il pellegrinaggio al santuario de La Mecca, untempo sede degli ‘idoli’ e poi, a seguito della predicazione di Maometto,riconosciuto come luogo sacro per eccellenza dell’Islam e originaria sede delculto di Allah ivi istituito da Abramo; luogo restituito con Maometto alla suafunzione originaria, dopo le contaminazioni idolatriche.

Tra i contenuti propri dell’Arabia preislamica mutuati non senza unaprofonda rielaborazione da parte del Profeta è anche quel vivo senso dellasolidarietà basata sui vincoli del sangue che, proprio della antica strutturatribale araba, ora si ripropone nel forte senso di fratellanza e di unità tra gliappartenenti alla ummah, la comunità religiosa islamica.

Appartenente alla tribù dei Coreisciti, seppur ad un ramo collaterale, enato verso il 570, a La Mecca, riceve – secondo la narrazione coranica all’etàdi quarant’anni – una rivelazione per il tramite dell’arcangelo Gabriele che loesorta a ‘leggere’ ovvero a prendere atto della parola – scritta in cielo, comesi sarebbe espresso il Corano, o ‘recitazione’ – circa la unicità del Diocreatore di tutte le cose.

A seguito di difficoltà incontrate a La Mecca, ovvero della ostilità deiricchi commercianti meccani che erano ‘politeisti’ e che lo perseguitarono,vedendo nella sua predicazione una minaccia per le tradizioni ancestraliidolatriche e soprattutto per il proprio potere economico che si fondava inlarga parte sul prestigio religioso della città ove periodicamenteconvergevano le altre tribù arabe per partecipare ai riti comuni, si trasferisceinsieme al primo gruppo di seguaci a Yathrib (Medina) nel 622 (l’annodell’‘egira’, ovvero della ‘fuga’, o ‘passaggio’ da La Mecca a Yathrib, il

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quale segna l’inizio dell’era musulmana), e ivi diviene capo politico ereligioso della città.

Attraverso diversi eventi di carattere politico e militare, tra i quali inparticolare la lotta contro gli ebrei di economia agricola che vivevano nellepoche zone fertili nel nord dell’Arabia, e la cui presenza a Yathrib eraparticolarmente forte, si addiviene alla fondazione della comunità deicredenti, la ummah, comunità religiosa e politica insieme, ovvero retta daleggi al contempo religiose, politiche e civili, e con essa al superamentodell’ordinamento tribale.

Va ricordato che i rapporti tra Maometto e gli ebrei furono abbatanzabuoni in una prima fase, allorché Maometto ritenne di poter trovare deglialleati, contro le tribù ‘pagane’ de La Mecca che lo contrastavano, negli stessigruppi giudaici presenti soprattutto a Yathrib; tale prima fase sembratestimoniata dalla direzione della preghiera (qibla) originariamente voltaverso Gerusalemme.

Ben presto gli originari rapporti pacifici andarono progressivamentedeteriorandosi. Di fatto, Maometto, facendo propria e rielaborando la nozionegià attestata in diverse tradizioni precedenti e in particolare – come detto –nel manicheismo della successione dei profeti e degli inviati di Dio, ovverol’idea che Dio si sarebbe progressivamente rivelato in vari tempi e in variluoghi per il tramite di suoi inviati, si propone come il sigillo dei profeti,l’ultimo degli inviati di Dio, inviato – appunto – alla nazione araba comeMosè, Gesù e altri profeti lo sarebbero stati per altri popoli. Egli sarebbel’ultimo anello di una lunga catena di rivelatori del Dio unico, i quali, in unaparticolare formulazione di tale catena, risultano essere Noè, Abramo, Mosè,Gesù e Maometto stesso.

Siamo dunque di fronte all’idea di una rivelazione che attraversosuccessive ‘ondate’, fino a Maometto, ‘sigillo dei profeti’, raggiunge tuttal’umanità, e con Maometto specificamente e innanzitutto gli Arabi. In talmodo Maometto intende porre la propria predicazione nell’alveo dellarivelazione ebraica e poi cristiana, come ultima e definitiva espressione ditale rivelazione.

Inoltre, mentre – sempre nella prospettiva di Maometto – gli altri popoli

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avrebbero tradito la rivelazione ricevuta, solamente gli arabi, a seguito dellapredicazione di Maometto, avrebbero compiutamente adempiuto alle richiestedi Dio. Pertanto, la religione islamica si pone come superiore e più perfettarispetto alle altre ‘religioni del libro’ che pure – sebbene inferiori all’Islam –sono anch’esse superiori alle altre religioni. Ricordiamo come la nozione di‘religioni del libro’ e quella di ‘monoteismi abramitici ’ o ‘religioniabramitiche’, spesso utilizzate in sede di dialogo inter-religioso, nascano e sisviluppino in seno all’Islam e siano pertanto condizionate dalla specificadottrina propria di tale religione, e come tali non possano essere acriticamenteutilizzate come categoria storica e storico-religiosa.

In particolare, la polemica nei confronti degli Ebrei muove – comeemerge esemplarmente dalla seconda sura, la sura meccana detta ‘DellaVacca’, dall’accusa da parte di Maometto a questi di non aver seguito iprecetti divini, di non aver rispettato il Patto e ora, non riconoscendo inMaometto l’inviato di Dio, di essere venuti meno all’impegno di fedeltà neiconfronti di Dio stesso.

La polemica contro i cristiani, dal canto suo, si poggia in particolare suforti riserve di ordine teologico nei confronti dei cristiani stessi, accusati daMaometto – come emerge con vivacità dalla diciannovesima sura coranica, la‘Sura di Maria’ – di avere travisato il messaggio del profeta Gesù, ritenendoquesti uguale a Dio e Dio lui stesso. Idea questa – per l’Islam – incompatibilecon la trascendenza divina e la sua incommensurabilità con la natura umana.

Entrato trionfalmente a La Mecca nel 630, due anni prima della morte, nel632, a suggellare l’alleanza intervenuta con le tribù meccane, vi compie quelpellegrinaggio che sarà regola per i fedeli islamici almeno una volta nellavita.

I primi tre secoli dopo la morte di Maometto videro il cristallizzarsidell’Islam nelle forme che sono rimaste fino ai nostri giorni, ovvero,fondamentalmente, la distinzione tra l’Islam sunnita (ovvero della sunna, latradizione, fondata sull’esempio dato da Maometto), e l’Islam sciita (ovvero‘del partito’ o ‘del partito di Alì). Quest’ultimo appare, rispetto al primo,porsi come un’eresia anche se la nozione di ‘eresia’ è qui diversa rispetto acome essa si offre nell’ambito del cristianesimo con la distinzione venutasi ad

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operare in questo tra la Grande Chiesa e, appunto, le eresie.Dopo la morte di Maometto, si pose il problema del successore (khalifa)

del profeta, come capo politico e militare della ummah, la comunità-popolodei fedeli, e difensore di questa e della fede islamica. Con i primi califfi lanuova religione vede quell’universalismo che la caratterizzava per così dire inpotenza tradursi in atto, e si diffonde con la conquista armata di terre estraneeall’Arabia (Egitto, Persia, Siria e Mesopotamia).

Ucciso il terzo califfo, Uthman, sotto il quale era avvenuta la definitivaredazione del testo coranico, il suo successore Ali, cugino e genero diMaometto, viene contestato da parte del primo califfo della dinastia omniadee dei suoi sostenitori. Principia, così, lo scisma sciita che vede questi opporsiai sostenitori della dinastia degli Alidi, e che offre, al di là delle questioni dilegittimità dinastica, anche connotazioni di tipo dottrinale e pratico.

Con Uthman si era avuta – come detto – la redazione definitiva delCorano, conservato dapprima per il tramite della memorizzazione da parte deiprimi discepoli, e nel quale si erano via via andati raccogliendo e ordinandocontenuti presentati da Maometto come rivelazioni, oltre a prescrizioni eproposizioni di vario contenuto. Ad esso si venne ad affiancare – conl’intento di esplicitare e regolamentare ciò che nel Corano non era presentema che, offerto dalla nuova situazione venutasi a creare con la conquista disempre nuove terre, doveva essere oggetto di legislazione – la Sunna, otradizione, consistente in hadith, ovvero singole tradizioni riferentisiall’esempio e ai detti di Maometto. Queste risalivano o venivano fatte risalireattraverso una catena di testimoni fino a Maometto stesso e ai suoi immediatiseguaci.

Il Corano[541] è considerato eterno e increato, come Dio e i suoi attributi.Non è inteso dalla tradizione islamica come opera di Maometto, ma cometrascrizione della parola divina preesistente, a lui rivelata e trasmessa aidiscepoli dapprima in forma orale e poi scritta. È la parola stessa di Dio,sussistente da tutta l’eternità, ricevuta da parte di Dio e ‘recitata’ daMaometto. Tale sua connotazione fu contestata dai mutaziliti, dotti dei primisecoli dell’era islamica, considerati ben presto fuori dall’ortodossia.

Si tratta, secondo la tipologia ben nota nell’ambito della storia delle

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religioni, di un testo sacro con funzione normativa, canonica, contenente ildeposito considerato intangibile del messaggio divino.

È diviso in 114 sure, o capitoli, che raccolgono rivelazioni fatte a LaMecca (sure meccane) e a Medina (sure medinesi), e che nell’attuale formacoranica sono classificate non in ordine cronologico, ma in ordinedecrescente di lunghezza, dalla più lunga alla più breve. Si tratta di branirecitati da Maometto in occasioni diverse e su temi diversi (contenutidottrinari, professioni di fede, riferimenti escatologici, norme di vita sociale ereligiosa, riferimenti autobiografici, e così via).

Gli islamici tendenzialmente rifiutano di applicare ad esso i metodistorico-critici oggi comunemente applicati allo studio del testo biblico, nellaconvinzione che il Corano sia parola rivelata in quanto dettata e non – comela ‘Parola’ biblica – in quanto ispirata. Il suo autore è Dio stesso e nonMaometto. Dettato in lingua araba non può essere tradotto ufficialmente inun’altra lingua, e ogni musulmano non arabo dovrebbe imparare l’arabo alfine di poterlo recitare nella lingua originale e prendere così parte al cultoislamico.

Oltre al Corano vi è la Sunna, la ‘tradizione’, che raccoglie – come detto– gli atti e i detti, o hadith, di Maometto, con valore normativo. Essa èformulata in forma di proverbi e di sentenze e ricca di riferimenti alla vita diMaometto. Vi è poi – quale terza fonte della religione e del diritto islamici,ovvero della Legge (Shari’ah) – il consenso (igma) dei dotti qualificati, edinfine, quale quarta fonte, la analogia, ovvero l’applicazione – sulla base dicriteri umani – a sempre nuove situazioni di deduzioni tratte da norme giàcodificate sulla base della Sunna e del consenso. Tuttavia, questo quartocriterio non è oggetto di valutazione unanime in ambito islamico e risultaessere talora, come nel caso dei Wahabiti dell’Arabia saudita, rifiutato, innome di un ritorno al rigore e alla purezza delle origini.

Una menzione particolare, per le sue caratteristiche dottrinali, merita unacorrente nata dall’Islam sunnita, ovvero quella dei mutaziliti.

Essi, di contro alle critiche di ‘fatalismo’ rivolte da non musulmani e inparticolare da cristiani (quali Giovanni Damasceno), difendevano la nozione– rifiutata dall’Islam ortodosso – del libero arbitrio nell’agire umano, con la

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conseguente ammissione della eternità delle pene anche per il peccatoremusulmano e non per il solo peccatore non musulmano.

Si opponevano, inoltre, al letteralismo nella interpretazione del Corano inmerito alla questione degli attributi di Dio (che essi intendevano comeidentici a Dio ovvero suoi ‘modi’, laddove il Corano li presenta come distintida Dio e a lui coeterni), alla questione dell’antropomorfismo usato dalCorano nelle descrizioni di Dio (antropomorfismo che i mutazilitiinterpretano allegoricamente e non alla lettera), ed infine alla questione dellanatura stessa del Corano (dai mutaziliti considerato creato laddovel’ortodossia islamica lo considera increato ed eterno).

Va poi ricordata la corrente mistica dei sufi, i quali si avvalgono di unaserie di tecniche particolari tra cui la ripetizione dei nomi divini ai fini delraggiungimento della realizzazione spirituale. Il sufismo fu visto dallaortodossia islamica con forti riserve se non con decisa ostilità, a motivo delfatto che esso contempla la possibilità, per il tramite della sapienza (sophia ingreco, con possibile legame con il termine sufi, che una diversa etimologiaspiega, invece, come significante ‘coloro che portano il mantello di lana’), diuna esperienza di unione con il divino giudicata dalla ortodossia tale dapregiudicare la trascendenza assoluta di Dio, in particolare nelle sue formeestreme quale quella espressa dal mistico Al Hallaj, messo al rogo a Baghdadnel 922. L’affermazione attribuita ad Al Hallaj “Io sono la verità” (nel sensoche l’unico Vivente è Dio che si manifesta in ogni creatura), che gli è valsal’impropria definizione di ‘Gesù dell’Islam’, stante la somiglianza con laaffermazione che il Vangelo di Giovanni (14,6) riferisce a Gesù di Nazareth“Io sono la Via, la Verità e la Vita”, appariva in netto contrasto con laposizione coranica tradizionale per la quale solo Dio è la Verità. In contrastocon la teologia tradizionale, che enfatizzava nel rapporto tra uomo e Dio latotale sottomissione del primo al secondo, appariva pure l’idea –caratterizzante il suo pensiero – del rapporto d’amore tra l’uomo e Dio.Inoltre, la sua fine fu giustificata da buona parte dello stesso sufismo inquanto egli avrebbe pubblicamente predicato le sue teorie come via regia allasalvezza.

Va tuttavia osservato che l’esperienza dell’unione con Dio, anche ove

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espressa con modalità quali quelle proprie del sufi Al Hallaj non comportatendenzialmente la nozione di una identità o mescolanza o naufragiodell’essenza umana nell’essenza divina, idea che invece caratterizza lamistica indiana, alla quale avremo modo di fare cenno più avanti. Le diversitàdei contesti, monoteistico (ovvero tale da implicare la nozione di un solo Diocompiutamente trascendente e distinto dalla realtà creata) quello in cui sicolloca la mistica islamica – in questo vicina alla mistica cristiana – e, invece,monistico (ovvero tale da contemplare la nozione di un unico principio,l’Uno, che, lungi dall’essere pienamente trascendente rispetto alla realtàfenomenica, soggiace invece al molteplice, il quale ne è o manifestazioneillusoria o emanazione o frammentazione), quello in cui si colloca la misticadell’induismo, rendono ragione delle diversità offerte dalle rispettiveesperienze mistiche e dalle teoresi sulle stesse nei rispettivi contesti.[542]

La storia dell’Islam ha visto anche la presenza di confraternite cheinsistono in maniera privilegiata su determinati aspetti ascetici e devozionalio rituali, come la danza quale via estatica presso i Dervisci, e possonoconoscere al loro interno diversi e successivi gradi di iniziazione.

Distinto dall’Islam sunnita è, come detto, quello sciita, ovvero del‘partito’ di Alì, quarto califfo e genero oltre che cugino di Maometto.

Alle motivazioni dinastiche che ne determinarono il sorgere, in quanto losciismo rifiutava la dinastia degli Omniadi e affermava dover rimanere ilpotere califfale agli Alidi ovvero alla famiglia di Alì, si aggiunseromotivazioni più strettamente ‘religiose’. Tipica dello sciismo, infatti, è lanozione di imam (‘guida religiosa’) ovvero di successore ispirato (ma nellecorrenti estreme dello sciismo addirittura ‘divino’) di Alì, il primo imam dellosciismo. Dopo una successione di dodici, per la shi’a duodecimana, o di sette,per la shi’a settimana, l’ultimo imam sarebbe scomparso e di lui, consideratoancora esistente, si attende il ritorno.

Interviene al riguardo la nozione del venturo Mahdi, il ‘ben diretto’,comune anche all’Islam sunnita, con la differenza che per quest’ultimo ilMadhi è personaggio messianico di cui si attende la venuta nei tempi finali, eche farà trionfare l’Islam ovunque; gli sciiti, invece, fondono la dottrina delMahdi venturo con quella dell’imam nascosto. Si profila così nello sciismo

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un elemento messianico, che risente probabilmente dei messianismi giudaico,cristiano e, in Persia, zoroastriano, e che si collega alla idea, propria dellosciismo, della successione legittima all’interno della famiglia di Alì. Con ilche si mostra come lo sciismo non sia solo questione di controversie sullalegittimità dinastica ma implichi, nelle diverse espressioni che è venutaassumendo la shi’a, anche una serie di nozioni – tutte rifiutate dall’Islamsunnita – che riguardano la figura dell’imam e che ne fanno un mediatore traDio e gli uomini. Tra queste, la nozione di una particolare assistenza divina dicui egli godrebbe, o la idea – con possibile influenza da parte di ideegnostiche presenti in forme persiane preislamiche come la setta mazdakita –di una sorta di sostanza divina a lui immanente, come per gli sciitiduodecimani che erano prevalenti in Persia e che consideravano lo Sciàtenere le veci dell’imam nascosto, o la nozione di un suo carattere profetico edella possibilità di godere di una sorta di ispirazione divina.[543]

In sostanza, l’Islam sciita, pur nelle sue diverse manifestazioni, viene acaratterizzarsi specificamente, e con ciò a distinguersi da quello sunnita, “perla fedeltà ad Alì, diventata la fedeltà a un ideale religioso e non piùsemplicemente a un diritto dinastico, l’aspetto messianico e l’aspettognostico, cioè la presenza, almeno nei duodecimani, di questo elementodivino o luce divina particolare nell’imam nascosto”.[544]

Ritornando ora all’affermazione monoteistica come declinata in ambitoislamico, essa va dunque inserita quanto alla sua origine in una specificaistanza socio-culturale, sullo sfondo di un travaglio caratterizzante l’Arabiadel tempo, istanza perseguita da Maometto di formare un popolo a partire dauna pluralità e frammentazione etnico-tribale, di dotarlo di una legge comunea fronte di una frantumazione legislativa e riguardante le diverse consuetudinicomportamentali etnico-tribali.

Questa è la successione: Un Popolo (umma) – Una Legge (sharīʼā) – Un Dio (Allāh).[545]

Il monoteismo islamico, come predicato da Maometto ed espresso dalCorano, nonché oggetto di approfondimento da parte delle varie scuoleteologiche musulmane, sottolinea l’assoluta trascendenza e sovranità di Dio eimpone all’uomo la totale sottomissione alla sua volontà. Dio, affermato nellasua esistenza, unità e unicità, è invocato attraverso i suoi 99 ‘bei nomi’.

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Recita, ad esempio, la sura 59, 22-24: “Egli è Dio, il Benefattoremisericordioso, il Re, il Santissimo, la Salvezza, il Pacificatore, ilPreservatore, il Potente, il Violento, il Superbo, il Creatore, il Novatore, ilFormatore. A Lui i nomi più belli”. E ancora: “Invocatelo con questi nomi”(sura 7,180).

Una delle designazioni di Allāh, ovvero Rabb, significa Signore ecomporta la speculare designazione dell’uomo come ʽabd, servo, all’internodi una relazione, quale quella delineata nel Corano, qualificata comesubordinazione da parte del servo e signoria trascendente di Dio.

“Il termine dīn (usato per indicare ‘religione’) mette l’accento sul debitoche il servo (ʽabd) deve pagare al suo Signore (Rabb) attraverso lasoddisfazione dei suoi doveri e la sottomissione alla sharīʼā. L’uomo (insān)da parte sua concepisce i suoi diritti e i suoi limiti in rapporto ai diritti diAllāh (...). I diritti di Dio sono i doveri dell’uomo, i suoi diritti si inscrivonodentro i diritti di Allāh”.[546]

La lettura di alcune sure coraniche potrà risultare utile per introdurci nelmondo di Maometto e del Corano.

Così recita la sura ‘di apertura’ del Corano:Nel nome di Dio clemente e misericordioso! Sia lode a Dio, il Signore del creato, il clemente,

il misericordioso, il padrone del dì del giudizio. Te noi adoriamo, Te noi invochiamo in aiuto;guidaci per la retta via, la via di coloro sui quali hai effuso la tua grazia, la via di coloro coi qualinon sei adirato, la via di quelli che non vagano nell’errore!

Propri del linguaggio coranico e collocati in apertura delle sure, oltre chedella litania dei 99 nomi di Allāh istituzionalizzati dalla tradizione, fannoparte anche gli attributi divini congiunti rah ³mān – rah ³īm, solitamentetradotti nelle lingue europee come “clemente e misericordioso” ma chesecondo taluni commentatori andrebbero piuttosto intesi, e tradotti, come“benefattore e datore generoso”.

Sebbene la bontà viscerale di Allāh rappresenti uno degli aspetti fondamentali del Corano, essanon ha trovato uno sviluppo congruo nella speculazione giuridico-teologica, essendo l’attenzionedei giuristi e dei ‘teologi’ assorbita dal tema della sharīʼā (Legge). Il tema incontra invece leaspettative del sufismo (...). Nel contesto della bontà viscerale di Allāh, invano si cercherebe nelCorano la tipologia di padre o di madre o di sposo in riferimento a Dio, al modo in cui essa èpresente nella Bibbia. L’interdizione coranica a perseguire la via della paternità divina dipende dadue precise contestualità; la prima riguarda la ‘famiglia divina’ della Kaʼba (luogo di venerazionedelle tante divinità) e quindi il bisogno di purificare la fede ‘politeista’; il linguaggio della paternità

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intesa nel senso fisicista, naturalista, avrebbe ricondotto i meccani a concepire una proliferazionedi tante divinità da parte del Padre. La seconda contestualità riguarda più precisamente la questionedi Gesù, concepito nella fede cristiana come Figlio di Dio.[547]

L’attributo fondamentale di Dio è additato nella sua unità-unicità (laprofessione della quale da parte del fedele islamico è detta tawh ³īd), che lodistingue dai tanti dei dei contesti politeistici e dal Dio come predicato daiCristiani poiché viene rifiutata la dottrina della natura divina di Cristo, econseguentemente la dottrina della Trinità, che comprometterebbe – cosìnella lettura islamica – la unità e unicità di Dio. Ai cristiani il Corano (4,171)rivolge il seguente invito: “O gente della Scrittura, non siate esagerati nellavostra religione. Dite solo la verità nei confronti di Dio. Il Messia, Gesù,figlio di Maria, è solo l’inviato di Dio e la sua parola gettata in Maria è unospirito che viene da Dio. Credete in Dio e nei suoi inviati e non dite ‘Tre’.Cessate di farlo”.

Mentre l’attributo dell’unicità viene ad escludere altri dei, l’attributo dellaunità, particolarmente valorizzato dalla tradizione teologica post-coranica,indica la non divisibilità, l’unità interna di Dio, di fronte alla professionecristiana del Dio-Trinità.

Questo Dio a cui nulla e nessuno può essere ‘associato’ (diversamente daquanto fanno i cristiani che, appunto, ‘associano’ – secondo unaformulazione tipicamente islamica – a Dio un Figlio, Cristo) si sarebberivelato alla umanità in un messaggio salvifico particolare contenuto nelCorano.

Sottolineate dal Corano sono la sua azione creatrice e quellaprovvidenziale e misericordiosa.

Solo un cenno, ora, alla morale.Estranea all’islamismo è la nozione cristiana di una natura umana ferita

dal peccato originale come pure quella di una redenzione apportata all’uomo.Fondamento della morale è l’autorità di Dio espressa dal Corano. Ladistinzione tra bene e male non è ontologica e non rimanda alla natura dellecose ovvero a una nozione di legge naturale, ma dipende unicamente dallavolontà di Dio. Vale la pena soffermarsi sulla dottrina che solo nel decreto diDio è l’origine del bene e del male.

Questa dottrina significa che “tutto ciò che c’è e che si fa è creato da Dio:

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gli eventi che noi diciamo ‘naturali’ e gli atti degli uomini. Non ci sono leggipropriamente naturali, perché è Dio che opera, sia pure secondo un habitussempre lo stesso, il quale ci dà l’impressione che ci siano leggi naturali; inrealtà è Dio che, ogni volta, ‘occasionalmente’ opera. Anche gli attidell’uomo sono creati da Dio, (...) quindi non ci sono cause seconde. Non èl’uomo che agisce come causa seconda sulla base di una libertà di arbitrioconcessagli da Dio creatore, ma la creatività di Dio si estende fino al puntoche egli crea tutti i singoli atti degli uomini. E naturalmente viene ilproblema: che cosa è allora qui la libertà dell’uomo? Siamo di fronte ad unaforma che noi chiamiamo fatalistica, purché per fatalismo non si intenda ciòche si intende per ‘fato’ nella nostra civiltà. Nella nostra civiltà il fato èun’entità impersonale, qui invece si parla di Dio. Si tratta insomma di unaforma di ‘destinazione’ assoluta collegata alla dottrina islamica dellacreazione. In questo contesto Dio è l’origine del bene e del male, non certonel senso di una amoralità divina, o nel senso che Dio sia ‘al di là’ del bene edel male. Che nel decreto di Dio sia l’origine del bene e del male, va intesonel senso che Dio è origine di tutto ciò che avviene, che nulla avviene fuoridella creatività e volontà di Dio. Rimane del resto, nel concetto islamico,l’idea del peccato, della colpa, e quindi del giudizio e della retribuzione”.[548] La salvezza è assicurata fondamentalmente dalla fede. L’ortodossiaislamica afferma che la condanna nel fuoco dell’inferno, accompagnato daaltri supplizi, non sarà eterna per il musulmano riconosciuto peccatore ma losarà per il non musulmano. La nozione di paradiso, descritto con aspettisensuali, contempla anche l’idea, peraltro contestata da alcune correntiislamiche, di ‘visione’ di Dio.

L’atto morale essenziale è la sottomissione alla volontà di Dio e il peccatoper eccellenza è quello di voler ‘associare’ altre divinità a Dio. Pertanto, laproclamazione della unità e unicità di Dio, cuore della proclamazione di fede,viene a costituire il primo dei cosiddetti ‘cinque pilastri’ dell’Islam, ovvero lasha’ada: “Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo inviato”. Seguono:la preghiera (quella rituale, che la legge prescrive si faccia cinque volte algiorno, ovvero all’alba, a mezzogiorno, a metà del pomeriggio, al tramonto ealla sera, in stato di purità rituale, con formule appropriate e prostrazioni,

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nella direzione della Mecca, e in origine, probabilmente, di Gerusalemme; ilvenerdì a mezzogiorno tale preghiera va fatta in assemblea, dopo una omelia,al fine di testimoniare l’unità della ‘comunità’ musulmana); l’elemosina(rituale, per l’assistenza ai musulmani e la diffusione dell’Islam, dadistinguere da elemosine devozionali o da atteggiamenti caritativi personali);il digiuno annuale (comportante astensione da cibo, da bevande edall’esercizio della sessualità, da eseguire dall’alba al tramonto, nel mese diRamadan, e fatto per onorare Dio, per disciplinare il corpo e per imparare lacompassione per gli infelici; dopo il tramonto il Ramadan comporta il pasto,festeggiamenti e devozioni ulteriori); il pellegrinaggio a La Mecca, almenouna volta nella vita (per ogni musulmano adulto che sia in condizioni di farlo,eseguito secondo certe regole e distinto da altri eventuali pellegrinaggidevozionali).

Tornando all’idea monoteistica, nella sua specifica declinazione islamica,occorrerà ribadire, in sede conclusiva, come essa si radichi e si caratterizi inrelazione ad una triplice prospettiva storica: infatti, da un lato essa muove dauna polemica nei confronti di posizioni idolatriche, quale era la religionemeccana agli occhi di Maometto; dall’altro lato, essa si delinea in relazionealla polemica nei confronti di posizioni associazionistiche, quale quellacristiana relativa alla Trinità. In sostanza, sulla base delle forme dicristianesimo conosciute dall’Islam e tali da averne influenzato la concezionemonoteistica, l’Islam sviluppa una forte polemica nei confronti delmonoteismo trinitario cristiano, considerato una abdicazione rispetto allapurezza del monoteismo; la polemica nei confronti dell’ebraismo, infine,poggia in particolare sulla accusa agli ebrei di non aver corrisposto confedeltà alle promesse di Dio e di aver rifiutato la predicazione del ‘suo’inviato, Maometto.

Le tre fasi che, secondo diversi studi, caratterizzano lo sviluppodell’Islam, ovvero quella coranica, quella apologetica e quella sufica, non sidifferenzierebbero tra di loro quanto alla affermazione della unità ed unicitàdi Dio, ma lo farebbero a livello di implicazioni teoretiche e spirituali. Infatti,la prima fase rimanderebbe alla enunciazione e alla conferma della“Rivelazione”; la seconda concluderebbe con la nozione di unità

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“ontologica”, per la quale Dio è indivisibile in sé e solo rispetto ad altro; laterza rimanderebbe alla esperienza spirituale della unicità di Dio mediante launificazione con lui.[549]

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2.2.4 ZoroastrismoUna facies del tutto peculiare rispetto ai tre monoteismi citati, che pur

conobbero discontinuità di non poco conto per quanto riguarda le rispettiveorigini, le linee di sviluppo e gli esiti storici, nonché i contenuti dottrinali e leprassi etico-rituali, caratterizza il monoteismo zoroastriano, ovvero la faciesmonoteistica offerta dallo zoroastrismo, intendendo con tale denominazionela tradizione religiosa che in maniera diretta o indiretta si rifà allapredicazione di Zarathustra (Zoroastres nelle fonti greche e Zoroaster nellefonti in latino, da cui Zoroastro).[550]

Motivo fondamentale, ma non unico, della specificità del monoteismozoroastriano, infatti, è costituito dal fatto che esso si coniuga, in tutte le fasidella sua storia, con un dualismo di tipo ontologico (e non meramente etico,come avremo modo di illustrare). Il monoteismo zoroastriano è – si puòaffermare – un monoteismo dualistico.

Discussi sono stati e sono tutt’ora i rapporti storici tra lo zoroastrismo e ilmazdeismo, ove con il termine mazdeismo si intende la tradizione religiosaetnica iranica che, formatasi per un processo di evoluzione da una religiositàaria più antica, assegna nella dottrina e nel culto una posizione di preminenzaalla figura divina di Ahura Mazda (‘Signore Saggio’).

Il nome di Zarathustra, nell’Occidente moderno, è legato, come noto,all’opera Così parlò Zarathustra (1883-1885) di Friedrich Nietzsche (1844-1900).

Dibattute dalla critica sono le ragioni per le quali Nietzsche avrebbechiamato in tal modo, appunto Zarathustra, il suo solitario annunciatore dellaverità, ovvero della morte di Dio e delle dottrine del superuomo e del ‘grandemeriggio’. Comunque la questione vada risolta, il filo più evidente che legalo Zarathustra di Nietzsche allo Zarathustra storico appare essere quellocostituito dalla tematica della lotta tra il bene e il male. Una tematica che, senella sua declinazione nietzschiana qui non ci concerne, appare invececentrale per il nostro studio – come avremo modo di verificare – nella suadeclinazione all’interno delle fonti zoroastriane, sia quelle piùimmediatamente riferibili alla predicazione del profeta iranico sia quelle

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posteriori. Parlando dello zoroastrismo ci riferiamo ad una regione, l’attualeIran (o ‘terra degli arii’, l’antica Persia) che vide nell’antichità lo stanziarsi diuna popolazione d’origine indoeuropea imparentata con il gruppo che sistanziò invece in India e con esso costituente la famiglia degli ‘indoiranici’, o‘arii’ (Arya, ‘nobili’, ‘signori’), appartenente al più ampio gruppo degliindoeuropei.

Di fatto, sia la comparazione linguistica sia la comparazione piùpropriamente religiosa e nello specifico quella di nomi, attributi e narrazioniintorno agli dei e alle figure sovrumane dei rispettivi pantheon, quelloindiano e quello iranico originari, mostrano profonde affinità tra le duefamiglie costituenti il gruppo degli indoiranici. Infatti, in epoca preistorica lestirpi iraniche formavano con quelle indiane una profonda unità, costituendoil ceppo etno-linguistico indo-iranico, che in un certo momento si diviseallorché alcuni gruppi discesero nella penisola indiana ed altri inveceoccuparono le regioni dell’Iran. L’originario contatto di tali popoli si deducedalle profonde affinità linguistiche e storico-culturali, tra essi intercorrenti,oltre che dalle strette affinità religiose. Nelle parti più recenti dell’Avestazoroastriano, ad esempio, si vedono riemergere alcune delle antiche divinitàpresenti nell’ambiente indo-iranico, quale si può ricostruire dal confronto conle tradizioni dell’India. Dell’antico patrimonio religioso indoiranico, poi,diverse nozioni intervengono nella predicazione di Zarathustra e nella suacostruzione religiosa, che, ancora una volta, come negli altri casi di religionifondate a cui abbiamo avuto modo di riferirci, si sostanzia di elementi dinovità e al contempo di elementi di continuità con l’ambiente storico,culturale e religioso cui l’iniziatore della nuova formazione religiosaappartiene.

Innanzitutto, la nozione di rta in sanscrito, in avestico asha, terminevariamente tradotto, come ‘ordine’,‘giustizia’, ‘verità’, nel senso di un ordineche regge il cosmo, la vita sociale ed umana, nonché la corretta esecuzionedel rito religioso. Verisimile – ma discussa – è la connessione del latino rituscon tale antico termine. E comunque collocabile a partire da tale orizzonte èla nozione della corretta esecuzione del rito come strumento necessario almantenimento dell’ordine cosmico. Schematizzando prospettive più

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complesse, si può tuttavia affermare che mentre il mondo indoiranico apparedominato dall’idea di base di un tale ordine, di carattere semipersonale oimpersonale (pur se, in ambito avestico, risalente ad Ahura Mazda), che reggee domina le cose e a cui l’uomo deve conformarsi, il mondo semitico apparepiuttosto fare riferimento alla idea di base di una volontà positiva di unaentità divina, personale, creatrice e reggitrice della realtà.

Tornando a Zarathustra (lett. ‘colui che possiede vecchi cammelli’ o ‘ilvecchio dai cammelli’), discussa è la cronologia, da quella tradizionale che locolloca nel VI sec. a.C. alle ipotesi di alcuni iranisti che la vogliono piuttostoalzare alla fine del II-inizi I millennio a.C.; discussi sono pure la regione(forse la parte orientale dell’altipiano iranico) che vide la sua attività e laprima diffusione del suo messaggio, nonché il rapporto di Zarathustra con lacategoria dei magi, che dovettero essere dei sacrificatori nell’ambito di unaantichissima tecnica sacrificale, verisimilmente antecedenti rispetto aZarathustra.

Discussa negli studi è altresì la portata storica della predicazione diZarathustra. Tradizionalmente si riteneva che Zarathustra avesse operato unribaltamento rivoluzionario della tradizione religiosa iranica e della suastruttura politeistica,[551] affermando l’unicità di Ahura Mazda (l’esseresupremo celeste, corrispondente al Varuna delle fonti indiane) ovveroapprovando il culto del solo Ahura Mazda e negando gli altri dei delpantheon politeistico iranico, a sua volta strettamente imparentato con quellodell’antica India a causa delle comuni origini delle due famiglie di popoli,quelli stanziatisi – come detto – in India e quelli stanziatisi sull’altipianoiranico. Tale rivoluzione monoteista sarebbe alla base di quel ribaltamentosemantico conosciuto dal termine daiva (deva in India), il quale avrebbesignificato positivo (‘dio’) in tutta la fase indoiranica e assumerebbesignificato negativo (‘demone’) nei testi zoroastriani e achemenidi. Lariforma religiosa attuata da Zarathustra nei confronti delle credenze religioseindoiraniche, ricostruibili in particolare attraverso la comparazione con i testivedici, avrebbe valutato positivamente la categoria divina espressa dallatradizione indoiranica con i termini ahura/asura, ‘signore’ (che in India eraattributo proprio di Varuna), al punto da chiamare il sommo dio del pantheon

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iranico appunto Ahura Mazda, e al contempo avrebbe condannato ideva/daiva della tradizione indoiranica, caratterizzati da tratti come laviolenza e l’aggressività ritenuti inconciliabili con il potere piuttosto‘mentale’ e ‘spirituale’ della categoria degli ahura in generale e di AhuraMazda in particolare.

Alcuni studi hanno tentato di mostrare, invece, come l’attività diZarathustra si sia inserita in una tendenza verso posizioni monoteistiche giàespressasi prima e a prescindere dalla persona di Zarathustra e dalla suapredicazione. Tali tendenze avrebbero caratterizzato il mazdeismo, cometradizione religiosa che proclamava – appunto – l’unicità di Ahura Mazda,quale creatore, e sarebbero state sistematizzate da Zarathustra in un sistemareligioso coerente, lo zoroastrismo. In sostanza è dibattuto se Zarathustraabbia riformato in senso monoteistico e con un’operazione rivoluzionaria unprecedente politeismo, quello iranico, o se sia autore soltanto di una riformadi secondo grado, la quale intervenga su riforme precedenti degli dei delpoliteismo iranico.

Questione dibattuta dagli iranisti e dagli storici delle religioni è stataaltresì quella dell’identità religiosa della dinastia achemenide, principiata conCiro I (seconda metà del VII sec.a.C.) e che vide con Ciro II detto il Grande(550-530 a.C.) la fondazione di un grande impero di respiro universalistico.La dinastia achemenide terminò con l’assassinio di Dario III nel 330 a.C..Seguirono la conquista da parte di Alessandro Magno, la dominazione deiSeleucidi e degli Arsacidi e la contestuale penetrazione in Iran della culturaellenistica (nonché di elementi iranici in occidente).

Se taluni ritengono che gli Achemenidi siano stati zoroastriani, ossiaseguaci dell’insegnamento di Zarathustra (che mai le iscrizioni degliAchemenidi nominano), e questo già con Ciro o eventualmente solo conDario e Serse, altri li vedono piuttosto espressivi di una tradizione religiosapiù antica rispetto alla predicazione zarathustriana o comunque indipendenteda questa, ovvero la mazdaica.

Di fatto, la religiosità espressa dalle fonti achemenidi (quali le iscrizioni ei monumenti della capitale del regno, Persepoli) e quella emergente dalleGatha sono accomunate dal riferimento alla figura di Ahura Mazda quale

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creatore universale, mentre le parti più recenti dell’Avesta conoscono anchequelle figure sovrumane quali Mithra e Anahita che sono presenti anche neidocumenti achemenidi, come baga o ‘dei’, laddove il quadro gathicoriconosce soltanto accanto ad Ahura Mazda gli Amesa Spenta, ‘ImmortaliBenefici’, vale a dire entità di tipo mentale, quali Vohu Manah, il ‘BuonPensiero’, Armaiti, la ‘Santa Pietà’, ed altre analoghe. Rimane la questionese, nelle fonti achemenidi, il riferimento ad Ahura Mazda sia peculiare dellariforma zoroastriana o se non appartenga al patrimonio religioso dell’Irananche prima o comunque indipendentemente da tale riforma. Ad ogni modonei documenti achemenidi il potere regale, il potere del sovrano di un imperodi respiro universale, ovvero – come si esprimono tali documenti – il poteredi ‘uno’ su ‘molti’, appare fondato e legittimato dalla specifica personalità diAhura Mazda, il Dio grande, che sovrasta – come nella ideologia gathica –tutta la realtà in grazia della propria capacità creativa.

Esemplare al riguardo è una iscrizione di Persepoli (DNa 1-8) che mettein bocca a Dario Il Grande (521-486 a.C.) le seguenti affermazioni: “Ungrande dio è Ahuramazda, che ha creato questa terra, che ha creato il cielolassù, che ha creato l’uomo, che ha creato felicità per l’uomo, che ha fattoDario re, uno re di molti, uno signore di molti”.

Particolarmente significativa ai fini dell’identificazione dell’ethosreligioso achemenide come tale da aver risentito della predicazionezoroastriana è apparsa a taluni studiosi la valenza che nei testi verisimilmenteriferibili alla predicazione di Zarathustra stesso offre il termine daiva. Taletermine nel pantheon indoiranico designava gli dei o meglio una categoria didei (per esempio nei Veda è termine attribuito al violento demiurgo Indra),diversa dall’altra categoria divina costituita dagli asura, mentre nellapredicazione di Zarathustra conosce un netto capovolgimento dell’accezioneantica, venendo tale termine a designare i ‘falsi dei’, non necessariamente deinon esistenti ma piuttosto dei da non venerare, vuoi perché dotati dicaratteristiche che il profeta ritiene incompatibili con la natura divina, vuoiperché dei di popolazioni straniere, dei non del popolo iranico.

Orbene, una forte assonanza zoroastriana presenta, in fonti achemenidicome la nota iscrizione di Serse a Persepoli (XPh), un analogo uso assoluto

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del termine daiva per indicare entità sovrumane di segno negativo. Nellacitata iscrizione, il significato intrinsecamente negativo del termine daiva nonpare ricevere adeguata spiegazione se non alla luce della tradizione religiosazoroastriana che professa l’intrinseca negatività dei daeva. Ne risulta che taleiscrizione sembra decisiva ai fini dell’identificazione dei sovrani achemenidi,almeno a partire da Dario e Serse, come tali da professare non solo ilmazdeismo ma anche e più specificamente lo zoroastrismo, eventualmenteadattato all’ideologia imperiale.

Venendo più da presso a Zarathustra, questi si presenta come il profeta diun dio personale, Ahura Mazda,‘Signore Saggio’, con cui si sente in contattoper il tramite del ‘Buon Pensiero’, Vohu Manah, una delle entità emanate daAhura Mazda.

Emerge già dalla qualifica di ‘saggio’ la caratteristica essenzialmentementale dell’entità divina annunciata dal profeta e della sua attività creatrice.Alcune somiglianze tra il Dio dell’Antico Testamento e il Dio di Zarathustra(per esempio l’attività creatrice) non devono far perdere di vista gli elementidi difformità tra le due persone divine e tra i contesti nelle quali esse sicollocano. A distinguere il Dio di Zarathustra dal Dio dell’Antico Testamentosta in particolare il costante inserimento del primo in un orizzonte di pensieroche è dualistico, come verificheremo.

Zarathustra ribaltò dunque, secondo l’impostazione tradizionale di studi,la prospettiva dell’antica religione propria del suo ambiente definendo –come detto – daiva, cioè ‘demoni’ e quindi associabili al potere di AngraManyu, lo ‘Spirito Distruttore’, alcuni fra i grandi dèi del politeismo indo-iranico. Egli dunque, proclamando l’unicità del dio Ahura Mazda e rifiutandole credenze politeistiche, accomuna allo Spirito Distruttore alcuni dei grandidèi della tradizione indoiranica, soprattutto quelli caratterizzati dacomportamenti violenti e battaglieri. In questo caso si realizza una netta‘rivoluzione’ monoteistica nei confronti di un precedente politeismo, di cuil’India ci offre il parametro di confronto più pertinente in quanto nelle suetradizioni, quali ad esempio sono attestate nei Veda, troviamo dellepersonalità divine molto affini a quelle che dovevano essere le principalifigure del politeismo iranico contro cui operò Zarathustra. Alcune di queste

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personalità, peraltro, furono in qualche modo riassorbite nella riformazoroastriana, la quale evidentemente dovette fare i conti con le tradizionipopolari. Le antiche divinità, come ad esempio Mithra, dio garante dei patti edella giustizia, o Anahita, grande divinità femminile connessa con lafecondità, che per le loro connotazioni positive e benefiche, si prestavano adessere adattate al nuovo quadro teologico, furono reintrodotte e compaiono ininni avestici post-gathici, poste ad un livello inferiore rispetto ad AhuraMazda, come ‘yazata’, ‘venerabili’, ossia entità sovrumane che collaboranocon quello per ottenere la vittoria del bene sul male.

Fonti principali dello zoroastrismo sono l’Avesta e i trattati pahlavicimedievali, scritti appunto nella lingua pahlavica, tesi a spiegare ecommentare l’Avesta, i quali offrono anche importanti riassunti di partidell’Avesta andate perdute. La letteratura teologica pahlavica, insieme allaformazione del canone avestico, risale per larga parte a quel periodo dellastoria religiosa dell’Iran che vide, con la dinastia sassanide (dal III sec.d.C.alla conquista araba del VII sec.d.C.), la proclamazione del mazdeismo qualereligione di stato e insieme la restaurazione dell’antica dottrina e ilconsolidamento dell’organizzazione sacerdotale. I più tardi testi pahlavici,redatti già in pieno periodo islamico, rispondono all’esigenza di difendere latradizione mazdaica di fronte all’Islam trionfante.

Nelle Gatha, o ‘Canti’, testi poetici che costituiscono le parti più antichedell’Avesta (il libro ‘sacro degli zoroastriani costituito da un complesso ditesti di natura prevalentemente liturgica, la cui redazione scritta sarebbeavvenuta – dopo un lungo periodo di trasmissione orale – soltanto in etàsassanide, ovvero tra il 224 e il 579 d.C.) e che risalgono verisimilmente allapredicazione di Zarathustra stesso, vi è un inno (Yasna 44) in onore di AhuraMazda che offre assonanze formali con un testo dell’induismo quale avremomodo di riportare più avanti, ovvero l’inno dedicato al primo principio, al‘Chi?’. Significativa è la comparazione tra questo inno e quello indiano alfine di rilevare le differenze fra le persone sovrumane destinatarie di tali innidi lode e le differenze fra i contesti religiosi a cui tali testi fanno riferimento.

Nell’inno gathico in questione così si esprime il grande profeta dell’Iran,Zarathustra:

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Ecco ciò che ti domando, Signore, rispondimi bene: quando comincerà la migliore esistenza(scil. nel tempo escatologico), allora le ricompense soddisferanno coloro che le avrannodesiderate? (...) Ecco ciò che io ti domando, o Signore, rispondimi bene: Chi è stato alla nascita ilpadre primo della Giustizia? Chi ha assegnato il loro cammino al sole e alle stelle? Chi è colui, senon tu, per cui la luna cresce e decresce? Ecco ciò che io voglio sapere, o Saggio, e altre cose. Chiha fissato la terra in basso e il cielo nelle nubi perché non cada? Chi ha fissato le acque e le piante?Chi ha attaccato al vento e alle nubi i due corsieri? Chi è, o Saggio, il creatore del Buon Pensiero?(...) Quale artista ha fatto la luce e le tenebre, quale artista il sonno e la veglia, chi ha fatto ilmattino, il mezzogiorno e la sera, per indicare all’intelligente il suo dovere? (...) Chi ha fatto ilfiglio rispettoso nella sua anima verso suo padre? Io mi sforzo così di riconoscere in te, o Saggio,in quanto Spirito Benefattore, il creatore di ogni cosa.

Diversamente da quanto accade nell’inno del mondo indiano dedicato a‘Chi?’, quest’inno è dedicato a un dio che ha un nome, ovvero Ahura Mazda,il ‘Signore Saggio’, padre – come si esprime il testo – degli Amesha Spenta,o Immortali benefici, da concepire come sue manifestazioni agenti – checontinuano dei concetti propri della antica cultura degli arii – e creatore ditutta la realtà sia quella spirituale o invisibile sia quella materiale o visibile.

I passaggi riportati tendono a esprimere l’universale creatività e signoriadi Ahura Mazda e in questo offrono delle analogie con testiveterotestamentari e in particolare con un passaggio del Deutero-Isaia (Is45,7) ove è l’affermazione di Jahvé: “Io sono colui che forma la luce e crea latenebra; colui che fa il bene e provoca la sciagura (o: crea il male); io, ilSignore, compio tutto questo”.

Tale passaggio intende, anch’esso, al pari del testo gathico sopra citato,affermare l’universale creatività e signoria di Dio e non certo additare Dioquale responsabile del male. Del resto, neppure il passaggio gathico soprariferito intende legare il male alla responsabilità divina, ove si consideri chele tenebre, di cui si afferma nel testo gathico essere Ahura Mazda il creatore,non sono le tenebre di sostanza demoniaca, tipica essenza e manifestazioneahrimanica, proprie dello zoroastrismo posteriore, ma sono semplicemente unelemento della buona creazione di Ahura Mazda. Sia nel testo biblico comenel testo gathico le polarità quali luce e tenebre, sonno e veglia, bene e male,stanno a indicare la totalità della realtà. Fermo restando che la nozione dimale in ambito zoroastriano si colloca, come preciseremo, in un contestodualistico, diversamente da quanto accade in ambito biblico.

L’unicità, almeno al suo livello, di Ahura Mazda (l’Ohrmazd di fonti più

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tarde), il creatore della realtà tutta, si compone nello zoroastrismo con unoscenario di presenze sovrumane.

Infatti, Ahura Mazda è indissolubilmente legato, già nei testi più antichi,ai sei Amesha Spenta,‘Immortali benefici’, sue manifestazioni agenti emediatrici del suo potere benefico, entità a carattere mentale-spirituale, cheincarnano i valori più importanti della prospettiva religiosa ed etica gathica.Si tratta di Vohu Manah o Buon Pensiero, Asha o Ordine/Rettitudine, SpentaArmaiti o Benefica Devozione, Khsathra o Dominio, Haurvatat oIntegrità/Salute, Amretat o Immortalità. Riconducibili tuttavia alla personalitàdi Ahura Mazda, rimane confermata, seppure non esplicitamente eprogrammaticamente affermata nelle Gatha, l’unicità di Ahura Mazda. NelleGatha, pertanto, la posizione unica di Ahura Mazda, la quale interviene acaratterizzare tutti i vari generi di testimonianze relative alla religione iranica(al pari della impostazione dualistica), integra una posizione monoteistica.

In età posteriore, vale a dire già nelle parti più recenti dell’Avesta, lequali però possono contenere anche nozioni più antiche, tale ‘scenario dipresenze’ si allarga e viene a comprendere, a livelli inferiori rispetto adAhura Mazda, altre figure sovraumane, quali Mithra, o Anahita, antichedivinità del pantheon indoiranico, reintrodotte, dopo la riforma di Zarathustra,ed integrate nel nuovo quadro zoroastriano come espresso dall’Avesta‘recente’.

Tali figure sono dette yàzata o ‘venerabili’, funzionalmente eontologicamente subordinate ad Ahura Mazda e collaboratrici nel suoprogetto di creazione, di mantenimento della vita e di salvezza delle creature.Oggetto di inni e lodi nell’Avesta, sono figure autonome che agisconotuttavia all’interno dei piani di Ahura Mazda.

La possibilità di inserire il mazdeismo, almeno nella sua formazoroastriana, nel novero dei monoteismi è stata dibattuta negli studi. Qui bastimenzionare la posizione di R. Pettazzoni che identificava quali religionistoriche monoteistiche “il Jahvismo, il Mazdeismo, il Cristianesimo el’Islam”, e quella, diversa, di A. Bausani per il quale i quattro monoteismitipici sarebbero il Jahvismo, l’Islam (primari), il Cristianesimo e il Babi-Baha’ismo (secondari). Per Bausani, troppe sarebbero quelle che lui chiama

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rimanenze mitico-naturalistiche premonoteistiche nello zoroastrismo,nonostante l’indubbia opera storica di un fondatore rivoluzionario. Lostudioso giunge a definire lo zoroastrismo, se comparato con i monoteismiprimari, un ‘monoteismo primario fallito’, come il manicheismo potrebbe perlui definirsi tipologicamente come ‘un monoteismo secondario fallito’.

Lo zoroastrismo ha potuto essere definito, in sede di studi storico-religiosi, come un monoteismo ‘funzionale’, in quanto l’unicità di AhuraMazda inerisce in particolare il livello dal dio occupato e la sua funzione,ovvero si fonda sulla sua qualifica di creatore della realtà tutta, spirituale emateriale. Là dove emerge che egli la trae dalla sua sostanza luminosa, citroviamo di fronte ad una nozione di creazione che ha degli aspetti‘monistici’ ignoti agli altri monoteismi sopra evocati (ebraismo,cristianesimo, islamismo).

Quello zoroastriano è stato definito, inoltre, come un monoteismo adintra, cioè relativo al mondo ideologico dei Persiani che possono riconoscerel’esistenza anche di altri dei, quali quelli dei popoli sottomessi, per esempio ilDio di Israele. Ancora: lo zoroastrismo offre degli aspetti, quali il culto deglielementi e in particolare del fuoco, che gli conferiscono un aspettopaganeggiante e che comunque sono molto lontani da una mentalità biblica,come lontani da una mentalità biblica sono anche quegli accenni monistici inrelazione alla dottrina della creazione ai quali più sopra abbiamo fattoriferimento.

Da ultimo, il monoteismo zoroastriano è un monoteismo dualistico.Infatti, l’unicità di Ahura Mazda, nelle caratteristiche sopra descritte, vacompresa all’interno di un quadro che è dualistico, ovvero tale da ammettere– come approfondiremo più avanti – due diversi e opposti principi dellarealtà.

Di fatto, monoteismo non si oppone a dualismo. Una concezionemonoteistica può in sé inglobare degli aspetti dualistici. Piuttosto si oppone amonismo, ossia a un’impostazione, spesso non tanto o almeno nonesclusivamente religiosa ma piuttosto sistematico-speculativa, in cui siaffermi la derivazione della realtà da un unico principio, con la conseguenteammissione – per lo più – della sostanziale unità di tutte le cose, ovvero della

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unicità della sostanza: il tutto è Dio, Dio è tutto.Tornando al monoteismo nella sua declinazione zoroastriana, illuminiamo

qui i suoi aspetti dualistici.Rimandando a una parte ulteriore per quanto riguarda la nozione di

dualismo in sede storico-religiosa, qui ricordiamo come l’antico Iran ocomunque terre di cultura e dominazione iraniche siano state, per così dire,terra di elezione del dualismo, dapprima del dualismo zoroastriano esuccessivamente, con il III secolo d.C., di quello manicheo. Quest’ultimo, puroffrendo – come vedremo – aspetti di continutà con il primo, quali inparticolare la formula radicale, che vede l’opposizione originaria di dueprincipii contrapposti, ne è tuttavia profondamente diverso: il dualismomanicheo contrappone come due principii originari il divino e la materia,mentre quello zoroastriano contrappone l’attività creatrice di Ahura Mazda(e, nelle Gatha, dello ‘spirito benefattore’, a quello solidale) a quelladistruttrice dello ‘Spirito Distruttore’ delle Gatha, divenuto l’Ahriman deitesti post-gathici, a sua volta ritenuto autore di una parte della realtà.

Venendo dunque al dualismo come espresso nel quadro gathico, questocontempla la presenza, seppure a un livello inferiore rispetto a quello del diounico Ahura Mazda, di due spiriti radicalmente contrapposti, ovvero loSpirito Benefattore (Spenta Manyu) e lo Spirito Distruttore (Angra Manyu).

In un testo gathico (Yasna 30), particolarmente controverso già a livellodi traduzione, il profeta canta:

Io dirò a chi vuole ascoltarlo ciò che un saggio deve sapere, le lodi e le preghiere del BuonPensiero al Signore e la gioia che verrà, nella luce per chi le avrà osservate. Ascoltate ciò che è ilsommo bene, guardate con un pensiero chiaro le due parti tra le quali ogni uomo deve scegliere perse stesso (...). Ora, all’origine, i due spiriti (scil. lo ‘spirito benefattore’ e lo ‘spirito distruttore’)che sono conosciuti (...) come gemelli, sono l’uno il meglio, l’altro il male, in pensiero, parola eazione. E tra questi due gli intelligenti scelgono bene, non gli sciocchi. E quando questi due spiritis’incontrarono, stabilirono all’origine la vita e la non vita, e che alla fine la peggiore esistenza siaper i cattivi ma per il giusto il Miglior Pensiero. Di questi due spiriti, il cattivo scelse di fare le cosepeggiori, ma lo Spirito Benefattore, vestito dei cieli più stabili, s’è unito alla Giustizia, e cosìfecero tutti quelli che si compiacciono di piacere con azioni oneste al Signore Saggio.

La critica ha particolarmente discusso in merito all’immagine dellagemellarità dei due spiriti e a quella della scelta loro attribuita.

Quanto all’affermazione contenuta nel testo gathico che i due spiriti sono

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conosciuti come ‘gemelli’, essa per taluni interpreti – tra i quali si segnala U.Bianchi – va intesa nel senso che i due spiriti sono uguali e contrari e non nelsenso che i due spiriti abbiano un padre in comune, né tantomeno che questopadre sia Ahura Mazda. A questa interpretazione, infatti, si oppone laconsiderazione delle caratteristiche dello Spirito Distruttore, opposte a quelledi Ahura Mazda, dio benefico e sorgente della vita.

Quanto all’elemento della scelta, occorre distinguere la scelta operata daidue spiriti da quella che sono chiamati ad operare gli uomini. La scelta che iltesto afferma essere stata fatta all’origine dai due spiriti sarebbe da intenderecome una dichiarazione o manifestazione della loro rispettiva natura, positivae negativa. Con essa i due spiriti appaiono come ‘pietrificati’ nelle lororispettive nature e attività. Quanto a quella degli uomini, invece, si tratta diuna vera e propria scelta di valenza etica.

La nozione della scelta è molto importante nell’etica zoroastriana: ogniuomo è chiamato a scegliere tra i due principii ispiranti e attivi, ovvero adaderire al principio positivo o al principio negativo (e nei testi più tardi adAhura Mazda piuttosto che ad Ahriman). Tale scelta condiziona la sorteultima degli esseri umani, ovvero la loro condizione escatologica. Beato(ashavan) dopo la morte è il giusto, colui che è fedele ad asha (arta), lagiustizia, termine che designa l’ordine cosmico attivo a tutti i livellidell’essere, la forza della quale è garante Ahura Mazda ed insieme la suaipostasi. Ad essa si oppone druj, menzogna o disordine, forza demoniaca tesaa dostruggere la buona creazione di Ahura Mazda.

Il testo gathico sopra considerato, dunque, esprime già la dimensionedualistica, nel senso storico-religioso di opposizione di principiiontologicamente distinti e fondanti l’attuale condizione cosmica e umana,dimensione dualistica che viene a caratterizzare lo zoroastrismo lungo il suointero sviluppo storico.[552]

Pertanto: lo zoroastrismo è dualistico in quanto contempla l’esistenza diun secondo principio della realtà, l’Angra Manyu delle Gatha, diventato – perabbreviazione – l’Ahriman dell’Avesta recente (ovvero dell’Avesta nongathico e in particolare del Videvdat) e dei tardi trattati medioevali. Compostiquesti ultimi, con intenti apologetici e polemici, quando l’Iran era già stato

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conquistato dai musulmani, contengono in parte antichi testi avestici andatiperduti e in parte sviluppi dottrinari successivi. In particolare, mette contoricordare come essi vengano a contrapporre direttamente Ahura Mazda, orachiamato – con contrazione dell’antico nome – Ohrmazd, creatore di tutta larealtà a livello materiale e spirituale, ad Angra Manyu, ora, sempre percontrazione, denominato Ahriman, potenza demonica e distruttrice che,autore di una propria controcreazione negativa e mortifera, si oppone allaazione di Ohrmazd e ne contamina le creature introducendo nella buonacreazione di Ohrmazd corruzione e morte, oltre a tutto ciò che in quellaprospettiva ideologica è percepito come ‘male’.

Il primo, Ohrmazd (così nel trattato Bundahishn, cioe ‘Creazioneprimordiale’), risiede da sempre nelle luci, in alto, e il secondo nel basso,nelle tenebre. Fra i due vi è il vuoto. Questo, per iniziativa di Ohrmazd, verrà‘riempito’ dalla creazione, quale campo di battaglia sul quale attirareAhriman per combatterlo e vincerlo, alla fine dei duemila anni che segnano ladurata della lotta tra i due antagonisti.

In tal modo l’Avesta cosiddetta ‘recente’ e i tardi trattati medioevalivengono a sistematizzare e non a eliminare l’originario impianto dualisticogià gathico. In particolare, il secondo principio, proprio di ogni visualedualistica che opponga, appunto, due principii chiamati a rendere ragionedell’esistenza di ciò che esiste nel mondo, se nei testi più antichi èidentificato, quale Spirito Distruttore, come il principio distruttore dellacreazione ‘buona’ operata da Ahura Mazda, e dunque tale da incidere su diessa non solo in senso etico ma anche in senso ontologico – risultandoconfermata la valenza dualistica in senso storico-religioso del quadro inquestione – nei testi posteriori, il secondo principio, da identificare conAhriman, si vede attribuita anche una capacità creativa in ordine a realtànegative come piante o animali nocivi. In sostanza, si attribuisce all’anti-dio,Ahriman, una contro-creazione, vale a dire la creazione di esserisostanzialmente, cosmologicamente cattivi e distruttori della creazione buonaohrmazdica e dei suoi elementi.

Pertanto, con lo sviluppo dello zoroastrismo, si radicalizza la formuladualistica in quanto all’Angra Manyu, divenuto Ahriman, si contrapporrà

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direttamente Ohrmadz (già Ahura Mazda).Sia nel primo come nel secondo caso, ovvero sia lo ‘Spirito distruttore’

sia Ahriman, esplicando un’attività diversa ma comunque tale da avere unaefficacia ontologica, si presentano come un vero e proprio secondo principiodi una visuale dualistica e in questo si differenziano dalla figura del Maligno(Satana, diabolos) della tradizione tardogiudaica e poi cristiana.

E questo non tanto perché quest’ultimo è creatura di Dio e a Dio ribelle, enon è entità indipendente rispetto a Dio, come invece appaiono essere sia loSpirito distruttore gathico sia l’Ahriman dei testi post-gathici, quantopiuttosto perché il Maligno o Satana esplica, secondo le tradizionisummenzionate, una attività a livello ‘etico’ e non a livello ontologico.

Se dualismo è dottrina dei due principi, ovvero delle due fonti o radicidella realtà, allora lo zoroastrismo è dualistico in tutte le sue fasi mentrel’ebraismo e il cristianesimo non lo sono, se non all’interno di specifiche lorocorrenti, giudicate devianti dall’ortodossia sia d’ambito giudaico sia d’ambitocristiano. E, di fatto, a movimenti dualistici di ispirazione cristiana in etàmedioevale accenneremo più avanti, in sede di una presentazione dellacategoria storico-religiosa del dualismo.

Qui ci rimane da ricordare una tematica zoroastriana che, esplicitata daitesti medio-persiani, appare già in nuce nei testi avestici. Si tratta delladistinzione tra due modalità ontologiche, quella invisibile e spirituale, dettamenog, e quella visibile e corporea, detta getig (una sorta di platonismozoroastriano, è stato detto).

La ‘buona creazione’ di Ahura Mazda, dapprima concepita allo statomenog, viene successivamente trasferita allo stato getig, livello necessarioquale campo di battaglia ove si svolge la lotta tra Ahura Mazda ed Ahriman,lotta che termina con la evizione di quest’ultimo. Mentre le entità ‘divine’come gli Immortali Benefici conoscono sia lo stato menog sia lo stato getig(ovvero si manifestano ciascuno di essi in un corrispettivo elementomateriale, prendendosi cura del quale lo zoroastriano venera al contempol’Immortale Benefico che è a quell’elemento collegato), Ahriman e i demoniconoscono solo la esistenza al livello menog.

A tale loro condizione, deficitaria, si riferiscono espressioni dei testi

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medio-persiani quali quella che afferma che “Ahriman non è mai esistito enon esiste [nemeno ora]” (Dk VI,278).

Si tratta di una prospettiva speculativamente interessante e specificadell’orizzonte mentale zoroastriano, seppur tale da offrire degli esiti anchenel manicheismo: Ahriman e il mondo demoniaco “non possono che tentarein continuazione di supplire a questo deficit, in modo da avere accesso allecreature esistenti dello stato ontologico visibile/materiale. I demoni,insomma, possono partecipare dello stato ontologico visibile/materiale(getig), per così dire, solo da parassiti. Anche se non esistono allo statoontologico visibile/corporeo, Ahreman e i demoni sono senz’altro reali, e ifedeli devono sempre badare a non farli avvicinare o mandarli via, agendo siasul piano morale che su quello rituale”.[553]

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2.3 ‘Pseudo-monoteismi’

Rimane da accennare a due formazioni ‘monoteistiche’, o comunementesupposte tali, ulteriori.

Facciamo innanzitutto riferimento a una creazione religiosa che è stataspesso definita negli studi come ‘monoteismo egizio’ o ‘monoteismo diAkhénaton’.

Nella seconda metà del XIX secolo e agli inizi del XX si sono avute inEgitto delle scoperte archeologiche (el-Amarna nel Medio Egitto) che hannoportato al centro dell’attenzione di studiosi la figura del sovrano Akhénaton(Amenophi o Amenhotep IV), della XVIII dinastia, che regnò attorno allametà del XIV sec. a.C. Egli operò una riforma religiosa, proclamando quellache è stata talora definita come la prima forma di ‘monoteismo’ della storiadell’umanità, ovvero il culto del disco solare, dell’‘unico’ Aton. A causa dellasua opzione per ‘un dio solo’, Aton, il sovrano mutò il proprio nome inAkhénaton, ‘Colui che è utile ad Aton’.

Il netto esclusivismo caratterizante tale riforma, ossia la negazione diqualunque altro referente divino, insieme alla sua antichità, ha suggerito –nella storia degli studi – ipotesi o vere e proprie teorie interpretative secondole quali la religione di Aton avrebbe influenzato la predicazione monoteisticamosaica.

Sigmund Freud, nella sua opera ‘L’uomo Mosè e la religione monoteista’(1938) vedeva in Akhénaton l’ispiratore di Mosè, e in Aton il prototipo delDio d’Israele Yahweh, postulando una sorta di filiazione spirituale diretta trai due ‘profeti del monoteismo’. La cronologia incoraggiava questa ipotesiinterpretativa nel momento in cui tendeva a porre la giovinezza di Mosè nellaterra d’Egitto nel XIII secolo a.C., un secolo circa dopo Akhénaton. Laquestione del monoteismo egizio, dopo interventi di egittologi della metà delXX secolo – è stata ripresa con ben altro strumentario dall’egittologo diHeidelberg, Jan Assmann (1938).[554]

In realtà, le ricerche più avvertite hanno mostrato come l’attribuzionedella categoria di monoteismo alla religione di Aton faccia difficoltà einsieme faccia difficoltà la stretta connessione tra la riforma di Akhénaton e

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quella mosaica.Mentre in ambito monoteistico – infatti – si ha una forte accentuazione

del dio unico come essere personale, la predicazione di Aton comporta unaspersonalizzazione del ‘dio’, più simile a una sorta di motore immobilearistotelico che a un dio monoteistico.

Muto e impersonale, Aton è piuttosto un principio, una arché analoga aquella di cui erano alla ricerca i presocratici, un principio che agiscemeccanicamente e che si identifica con il disco solare e con la luce di cuiquesto disco è sorgente. Lungi dal trascendere il cosmo esso fa parte delmondo materiale. Da qui la difficoltà a identificare Aton come un dio, ovverocome una entità sovrumana personale, e tanto più come il dio unico. Si èpotuto parlare, pertanto, negli studi, della ‘religione di Aton’ come dellaprima forma di ateismo o come di un ‘materialismo trascendente’.

Il sovrano impose il culto del disco solare con una lotta distruttiva controi tanti dei e i loro sacerdoti, e in particolare contro il dio di Tebe, Amon-Ra(‘Il nascosto’), e il suo potente clero. Di fatto, nell’opera intrapresa daAmenophi IV, le motivazioni religiose si legarono strettamente a quelle‘politiche’, e nello specifico al tentativo di esautorare la potente classesacerdotale tebana.

Fu creata presso la località oggi conosciuta come el-Amarna nel MedioEgitto una città sacra al dio (Akhetaton) e i tempi tradizionali lasciarono ilposto a un nuovo tipo di tempio, privo di sacello, ove l’unica immaginedell’unico ‘dio’, ossia il disco solare che irraggia la luce portatrice di vita,rendeva superflua la presenza di statue rappresentanti figure divine.

L’interpretazione ‘monoteistica’ della religione di Aton – che per altri,più prudentemente, può definirsi come ‘monolatria’, che cancella gli altri deidal culto senza affermarne la non esistenza – poggia in particolare su un innoal sole, ritrovato sulle pareti di una tomba, del quale sono stati studiati isupposti parallelismi con il Salmo 104 e con Isaia 44,6-8, e nel quale siinneggia ad Aton come ‘unico’ e datore di vita.[555] L’iconografia lorappresenta come il disco solare da cui si dipartono i raggi dispensatori di vitasulla terra.

Mentre faraoni precedenti potevano presentarsi come ‘figli di Ra’, o

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Amon-Ra, in quanto tali da svolgere sulla terra una funzione analoga a quelladivina, di sostentamento e di garanzia di vita, Akhénaton si proclama ‘graditoad Aton’ o ‘utile ad Aton’, in quanto è il solo che può parlare in nome diAton.

La sua riforma ebbe breve durata (e per taluni solo il faraone e la suafamiglia adoravano il Sole in maniera esclusiva) e non riuscì a sradicare ilpoliteismo dalla terra egizia. Alla sua morte il successore, Toutankhamon,restaurò i culti tradizionali condannando il suo predecessore alla damnatiomemoriae.

La sua riforma, in realtà, come segnalano studi che riprendono laquestione del preteso ‘primo monoteismo’ e della pretesa filiazione da questodel monoteismo mosaico, si inseriva in una tendenza già da tempo propria delpoliteismo egizio a operare sincretismi dei tanti dei o, meglio, di tanti dei inuno, oppure a riconoscere la preminenza di uno sui tanti che peraltro nonvengono mai come tali negati; in buona sostanza, ad insistere sulla unità deldivino più che sulla pluralità. Si tratta di posizioni definibili ‘enoteistiche’. Intale prospettiva, nella unicità del sole e nella pervasività della luce, vieneadditato il dio ‘uno’ Aton, dio visibile, laddove Amon era il dio ‘nascosto’, ildio creatore, o meglio demiurgo, a partire dal caos originario di tutta la realtàe di tutti gli dei.

La riforma di Akhénaton interviene – per così dire – a demitologizzare lavisione teologica che aveva al proprio centro Amon e a identificare il dio‘unico’ in quanto supremo, Amon, al globo solare, Aton, e nella luce daquello irradiata il principio della realtà intera.

Gli studi pertanto, e contestualemnte, propendono ora a segnalare leprofonde differenze tra il Dio dell’Antico Testamento e quello di Akhénatone a escludere qualsiasi idea di rapporto e di filiazione. In particolare, gli studibiblici vengono a esprimersi nel senso di un’impossibilità di far risalire ad unperiodo antecedente l’esilio babilonese – come visto – la formalizzazione diposizioni monoteistiche rigidamente esclusivistiche quali quelle del Deutero-Isaia (VI sec. a.C.). L’intervallo temporale è troppo esteso – come segnalanoad esempio gli studi di Ch. Cannuyer[556]- perché se ne possa dedurre unaqualche forma d’influenza diretta della ‘rivoluzione’ di Akhénaton sul

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sorgere del monoteismo biblico.Solo un accenno al recente studio – già citato – dell’egittologo Jan

Assmann che identifica come monoteistica la teologia del faraone Akhénatonriconoscendone i tratti propri di quella che egli chiama la ‘distinzionemosaica’, ovvero la contrapposizione verità-errore come criterio religiosodiscriminante.

Osserva opportunamente la Sfameni Gasparro:[557] “Per lo studioso, afronte di quelle che chiama ‘religioni primarie’, ossia le tradizioni religiose abase politeistica e carattere etnico-nazionale disponibili alla reciprocaconvivenza e aperte alla ‘traducibilità’ dei rispettivi patrimoni teologici ecultuali, si pongono le tradizioni cosiddette ‘secondarie’ ovvero anche‘contro-religioni’ poiché fondate sulla ‘distinzione mosaica’, dalla peculiarecarica rivoluzionaria e legate alla persona di un ‘fondatore’, tra le quali poneappunto i monoteismi biblici e – sia pure con qualche distinguo – ilbuddhismo. (...) In questo quadro dalle linee apparentemente nette e bendistinte rimane, a mio avviso, una aporia che apre una falla nella formulainterpretativa adottata. Per Assmann, infatti, una caratteristica peculiare delle‘religioni primarie’ sarebbe quello che (...) definisce ‘cosmoteismo’, ossia lanozione della divinità del cosmo ovvero dell’identificazione della divinitàcon l’uno o l’altro degli elementi cosmici. Ma quando, con proprietàterminologica e concettuale, viene a confrontare più da vicino quello checontinua a chiamare ‘il monoteismo egiziano’ di Akhenaton e il monoteismobiblico dichiara che essi ‘sono agli antipodi l’uno dell’altro’. ‘Il dio cheAkhenaton sostituì al pantheon tradizionale era il Sole, una potenza naturale,una energia cosmica’ continua e conclude: ‘Akhenaton rimase là nei limitidel cosmoteismo’. A differenza di questa nozione di un dio ‘cosmico’, privodi relazioni con l’umanità se non per il tramite del faraone, ‘muto’ perchéestraneo a ogni forma di comunicazione e rivelazione, lo studiosoopportunamente sottolinea la qualità del dio biblico come trascendente ilcosmo, personale e attivo nella storia umana”. Tale distinzione segnala ladistanza tra il preteso monoteismo egizio di Akhénaton e quello biblico,nonostante le analogie, che Assmann valorizza, tra i due, vale a direl’affermazione della unicità divina con il connesso esclusivismo nei confronti

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di qualsiasi altro dio, nonché la opposizione tra verità ed errore come criteriodiscriminante di una posizione religiosa, criterio che Assmann chiama‘distinzione mosaica’.[558]

Un cenno, infine, a un’altra formazione religiosa che viene classificatacomunemente ma impropriamente come ‘monoteistica’, il Sikhismo.

Fondata da Guru Nanak (1469-1539 d.C.), nell’India settentrionale(Punjab) e poi sviluppata da dieci guru successivi, la religione dei Sikh(‘apprendisti’) opera una sintesi tra tendenze monistiche indiane e ilmonoteismo portato in India dall’Islam.

Afferma l’esistenza di un Dio unico, Vahiguru (il Signore meraviglioso’),immortale, non creato, esistente da se stesso, creatore dell’universo,onnisciente e pieno d’amore. Tuttavia, questo Dio ha delle caratteristiche chelo differenziano rispetto al dio unico dei contesti tradizionalmente, elegittimamente, definiti monoteistici.

Egli, infatti, è trascendente il mondo come pura potenzialità, ma alcontempo immanente al mondo che ne è la incarnazione. Mentre ha una suaqualche personalità individuale, è anche diffuso in ogni dove. Può esseredenominato anche come Allah, come Jahvé, ovvero con i nomi degli dei unicial centro delle religioni monoteistiche, e a lui tante vie religiose possonocondurre. Importante ruolo nella prassi cultuale del fedele è svolto dallameditazione e dalla recitazione del nome di Dio, Vahiguru.

La salvezza finale, per gli esseri umani, al termine di una lunga serie dinascite e di morti, consiste nel perdersi dell’uomo nell’essere divino, comeacqua che si mescola ad acqua. Due tratti, quelli ora delineati, uno teologico euno antropologico, che manifestano la pesante ipoteca del pensiero indianosul Sikhismo e sul suo supposto monoteismo, il quale di fatto viene aintrodurre forti elementi monistici, estranei ai grandi monoteismi storici. Purtentando la religione dei Sikh di operare una fusione tra Islam e pensieroindiano, di fatto vede piuttosto il prevalere dell’elemento indiano. Il fondatoreebbe come successori i guru, o ‘maestri’. Il libro sacro del sikhismo è ilGranth (o Guru Granth Sahib) che viene collocato nei luoghi di culto e ivifatto oggetto di venerazione.

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2.4 Monoteismo tra esclusivismo e inclusivismo

Il giro d’orizzonte effettuato sin qui sui grandi monoteismi storici nonchésu quelle formazioni storiche impropriamente definite sovente negli studicome monoteismi, ci consente ora di ritornare con maggior cognizione dicausa sul piano più propriamente tipologico, per accennare ai rapporti tra latipologia storica di monoteismo e altre categorie formalizzate negli studireligionisti quali le categorie di eclusivismo, inclusivismo e pluralismo.

Partiamo da una suggestione offerta in recenti studi di storia dellereligioni,[559] che unificano sotto la categoria di monoteismo quelli che glistessi studi definiscono come ‘monoteismi inclusivi’ e quelli che definisconocome ‘monoteismi esclusivi’. Ci chiediamo se la differenza, che taliformazioni contemplano, tra un atteggiamento definibile – sempre sullascorta di tali studi – inclusivo e un atteggiamento definibile esclusivo,consenta di rubricare tutte queste formazioni sotto la medesima categoria,appunto di monoteismo, o non piuttosto tale unificazione, proposta neglistudi in questione, faccia esplodere la stessa categoria di monoteismo, nelsenso che venga a snaturarla e ad identificarla, ancora una volta, conqualsivoglia tendenza storicamente espressasi alla unificazione del divino.

Di fatto, si constata che i monoteismi storici, ovvero quelle formazionicui legittimamente è riferibile la denominazione di monoteismo, esprimono –seppur talora con accentuazioni diverse nelle diverse fasi della loro storia –posizioni esclusivistiche e al contempo universalistiche (sia che queste ultimesi siano storicamente realizzate, come nel caso del cristianesimo o dell’Islam,sia che siano rimaste – pur presenti in nuce – non compiutamente realizzate,come nel caso dell’ebraismo e dello zoroastrismo). Per converso, i politeismi,in grazia delle proprie connotazioni ‘nazionali’ tendono a essere pluralisti, nelsenso che tendono a riconoscere la legittimità delle altre formazioni religiosead essi omologhe, in quanto nazionali e a struttura politeistica, come pure lalegittimità di quei culti – cosmopolitici più che universalistici, come sopravisto – che, provenendo da tradizioni politeiste esterne, si siano venuti adinstallare all’interno del proprio orizzonte ideologico e cultuale, risultando inquesto orizzonte particolarmente funzionali ad esigenze di individui e di

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gruppi, espressesi nei momenti storici che ne videro la diffusione el’accoglimento.

L’universalismo e il connesso esclusivismo, come espressi daimonoteismi storici, appaiono fondati sulle specifiche caratteristiche che inessi intervengono a definire la facies di quel dio uno e unico che è al centrodei rispettivi orizzonti religiosi. Diversamente, l’universalismo professato dareligioni universali ma non monoteistiche, quali il buddhismo, e dunquefondato su presupposti altri e diversi da quelli che lo comandano all’internodelle religioni monoteistiche, non porta a posizioni esclusivistiche, come difatto accade appunto nel buddhismo che non è esclusivista ma accetta diconvivere nella stessa persona del fedele con altre adesioni religiose.

Invece, per tornare alla distinzione dalla quale sopra avevamo preso lemosse, quella tra monoteismi inclusivi e monoteismi esclusivi, i primi, e cioèi cosiddetti monoteismi inclusivi, abbraccerebbero, secondo gli studi inquestione, sia quelle formazioni storiche, religiose ma più spesso filosofico-religiose, che sono piuttosto – secondo la nostra terminologia sopra ilustrata –da intendersi come enoteismi, sia formazioni pseudo-monoteistiche, comesopra le definivamo, quali il sikhismo.

In tali formazioni, da quelle enoteistiche tardoantiche al modernosikhismo, e diversamente dai monoteismi storici, è centrale la nozione di unprincipio divino semipersonale o impersonale e talora francamenteindifferenziato, del quale si predica come esso sia diversamente denominatodai diversi popoli con nomi diversi. Propria di tali formazioni èl’interpretazione delle diverse religioni come espressioni diverse dell’unicoprincipio divino, espressioni ‘locali’ e distinte di un unico e indifferenziatodivino, e vie altrettanto legittime per giungere a esso. Nelle posizionienoteistiche, poi, mai si giunge ad una affermazione compiuta della unicitàdel divino e della esclusione di ogni altra entità divina al di fuori di quellariconosciuta come unica esistente.

La particolare categoria del monoteismo inclusivista, in sostanza, che –nella proposta interpretativa di cui sopra era parola – verrebbe ad abbracciaretutte queste espressioni, non appare avere una legittimità sotto il profilodell’essere ‘monoteista’ nel momento in cui essa non offre quelle

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caratteristiche che risultano proprie dei monoteismi storici e che sono statesopra delinate. Avremo modo di tornare più avanti sulla categoriadell’inclusivismo, come espressa – appunto – non da religioni monoteistiche,ma piuttosto da tradizioni religiose a tendenza prevalentemente monista, qualil’induismo.

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3. Dualismo

Una tipologia storica illustrata in particolare negli studi di U. Bianchi edella sua scuola è quella del dualismo.[560]

Precisiamo innanzitutto che non intendiamo qui come dualistica qualsiasicontrapposizione tra coppie antitetiche di termini, come bene e male, spirito emateria, luce e tenebre. Talora si parla, infatti, di dualismo etico, cioè sicontrappongono attività o comportamento definibili buoni o positivi adattività e comportamenti cattivi o negativi, sotto il profilo etico. E ciò sia inrapporto agli uomini che a personaggi non umani.

E neppure intendiamo il dualismo nell’accezione che solitamente si offrein sede filosofica, allorché si definisce come dualistica ogni concezioneescludente il monismo.

In sede di storia delle religioni, è dualistica ogni concezione religiosa,espressa sia in forma speculativa o sistematica (e allora parleremo di dottrina)sia in forma mitica (attraverso narrazioni che mostrano in azione – come vistosopra – vari personaggi sovrumani o non umani), che ammetta una dicotomia(o drastica opposizione) di principii, coeterni o non, all’origine di ciò cheesiste e si manifesta nel mondo. In altri termini, il dualismo in senso storico-religioso è la nozione di due principi, cioè di due fonti distinte e contrappostedella realtà.

Accanto a un principio buono o ‘positivo’, diversamente identificato,concepito come autore della creazione o di parte di essa o comunque comefondante la realtà o parte di essa, una posizione dualistica ammette unsecondo principio ‘negativo’ (sia derivato sia inderivato dal primo),anch’esso diversamente espresso, sia esso un secondo dio, o un antidio o undemiurgo inferiore o anche, come possibilità estrema, un principiomeramente formale e non un’entità o un essere specifico. Tale secondoprincipio risulta comunque anch’esso principio di esistenza, ossia fondativodell’esistenza di parte della realtà, sia essa realmente sussistente o soloapparente.

Non sono dualistiche, secondo l’accezione di dualismo qui illustrata, le

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dottrine caratterizzate dalla presenza di coppie generatrici composte da dueelementi opposti ma complementari, quali ad esempio il principio maschile eil principio femminile della cosmologia cinese.

Né è dualistica la contrapposizione tra Dio e l’avversario come delineatain fonti del tardo giudaismo e del cristianesimo. “Per fare un esempiofamiliare dell’accezione etica del termine, relativa cioè alla contrapposizionebene-male, si può ricordare il caso del diavolo o di Satana della tradizionegiudeo-cristiana. Si tratta di un personaggio che ha un comportamentofortemente malvagio, che stimola al male l’uomo sotto vari profili; tuttaviaegli, oltre ad essere per sua natura una creatura dell’unico Dio e quindi inorigine buona, è diventato cattivo per libera scelta della sua volontà e –soprattutto – in questa sua attuale condizione di malvagità non crea nulla.Non si attribuisce dunque a questo personaggio della tradizione giudeo-cristiana (salvo che in particolari ambienti che proprio per questo – in taletradizione – vengono emarginati e definiti ereticali, e che dal punto di vistastorico religioso definiamo allora dualistici) alcuna capacità creativa. Pertantonon si parlerà in tal caso di dualismo, ma semplicemente di un’opposizione dibene e male che del resto è diffusissima nei più svariati ambienti religiosi edespressa in vario modo e a vari livelli. Si ha invece dualismo quando ilsecondo personaggio di questa formula si oppone al primo Creatore inmaniera efficace a livello ontologico, cioè crea a sua volta qualche elementodella realtà sia pure esso di rilevanza limitata”.[561]

“Come si vede, perché una religione si possa dire dualistica non èassolutamente essenziale che si dia l’ammissione di un avversario dell’Esseresupremo da lui indipendente quanto all’origine, o a lui contrapposto dasempre, come è il caso, per esempio, del mazdeismo e del manicheismo: anzi,nelle cosmogonie dualistiche, sia presso certi primitivi, sia presso certofolklore religioso, dell’Europa orientale e dell’Asia settentrionale e centrale,alternano queste due versioni: dell’avversario si ignora l’origine, essendosiesso presentato alle origini venendo non si sa da dove, ovvero l’avversario èil risultato di un’azione creativa di Dio, ma per lo più di un’azione malriuscita, o non voluta dal creatore, o realizzatasi in certo modospontaneamente, attraverso il residuo di materiali usati dal creatore”.[562]

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Il dualismo in sede storico-religiosa può caratterizzare intere formazionireligiose ossia identificare delle religioni in quanto tali, per esempio lozoroastrismo e il manicheismo, ma anche caratterizzare correnti o dottrine otendenze manifestatesi all’interno di religioni non dualistiche. Così l’orfismonell’ambito della religione greca, il quale si innesta e viene a reagire neiconfronti di un orizzonte politeistico, o i movimenti dualisti medioevali, chesi innestano in un orizzonte monoteistico, quale quello cristiano.

Inoltre, il dualismo può essere espresso sia nelle cosiddette ‘culturesuperiori’ che offrono una documentazione scritta, sia nelle cultureetnologiche, come pure nelle tradizioni folkloriche e popolari. L’ampiadiffusione di concezioni religiose dualistiche ha posto agli studiosi importantiproblemi storici per quanto concerne la genesi e lo sviluppo, come pure leinfluenze reciproche, delle formazioni religiose dualistiche, ma ancheproblemi di natura tipologica, concernenti la possibilità di identificare eclassificare ‘tipi’ fondamentali di dualismo.

Una tipologia che è stata proposta negli studi sul dualismo storico-religioso concerne le tre fondamentali coppie di alternative cui pare obbedireogni forma di dualismo.

Il dualismo, infatti, può essere, in primo luogo, radicale oppure mitigato(o monarchiano).

Nel dualismo radicale i due principi sono coeterni, e indipendenti –quanto ad origine – l’uno dall’altro.

Tra gli esempi di dualismo radicale sono da annoverare lo zoroastrismo, ilmanicheismo, alcune forme – quelle appunto ‘radicali’ – delle dottrine cataremedievali, la metafisica di Empedocle, la metafisica di Platone, conl’opposizione tra idea e chora, ma anche con la dottrina, formulata nelleLeggi, di una duplice e contraddittoria anima del mondo, l’una causa del benee l’altra del male, o anche con la dottrina, teorizzata nel Politico, relativa aidue movimenti caratterizzanti, eternamente e alternativamente, il cosmo.

Il dualismo mitigato o monarchiano ammette un solo primo principio,mentre il secondo principio, negativo, deriva dal primo, insorge in unmomento dato e a seguito di certe circostanze. Tra gli esempi di dualismomitigato si possono ricordare la maggior parte dei movimenti che

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costituiscono il cosiddetto ‘gnosticismo siro-egizio’, e in particolare ilvalentinianesimo, la dottrina dei Bogomili e le correnti catare del dualismomitigato.

Il dualismo può inoltre essere dialettico oppure escatologico.Il dualismo dialettico implica una struttura (talora di tipo ciclico), per la

quale l’opposizione dei due principii, oltre ad essere costitutiva del mondo, èanche irresolubile, cioè non conosce una finale e definitiva eliminazione delmale come principio. Tra gli esempi di dualismo dialettico si possonoricordare le dottrine platoniche, le orfiche e la empedoclea, come pure ledottrine indiane.

Il dualismo escatologico ammette la finale eliminazione o evizione delprincipio negativo, ossia la eliminazione finale del male come principio. Tragli esempi di dualismo escatologico sono da annoverare lo zoroastrismo e ilmanicheismo, le dottrine bogomile e catare, le dottrine gnostiche.

Si può osservare come il dualismo dialettico sia un fatto soprattuttoindiano e greco, e si inserisca pertanto nel quadro di una storia intesa o come‘ciclica’, o almeno senza soluzione finale, mentre il dualismo escatologicocaratterizza quei sistemi che o sono anche monoteistici, e dunque esprimonouna concezione ‘lineare’ della storia, come lo zoroastrismo, o, come lecorrenti gnostiche, fanno propri, assoggettandoli a una profondarielaborazione, aspetti e contenuti propri del monoteismo giudaico e di quellocristiano.

Si noti poi come, mentre un dualismo dialettico è anche radicale, nonnecessariamente ogni dualismo radicale sia anche dialettico, come mostrano icasi costituiti dallo zoroastrismo e dal manicheismo, che sono dualismiradicali ed escatologici.

Infine, il dualismo può essere procosmico oppure anticosmico.Il dualismo procosmico giudica favorevolmente il cosmo, questo mondo

visibile. Esempi ne sono lo zoroastrismo, per il quale la creazione, nei suoiaspetti spirituali e materiali, è opera del creatore, Ahura Mazda (o Ohrmazd)pur se guastata dalla incursione dall’esterno del contro-creatore Ahriman edelle forze distruttive proprie della contro-creazione ahrimanica.

Nel dualismo anticosmico, la materia di cui sono fatti il cosmo e il corpo

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è ontologicamente negativa e tale da derivare dal principio negativo. Tipiciesempi di dualismo anticosmico sono il manicheismo, le correnti gnostiche, ilbogomilismo e il catarismo.

Va tuttavia osservato che quest’ultima alternativa, tra dualismoanticosmico e procosmico, conosce delle soluzioni – per così dire –intermedie o comunque ulteriormente articolate.

Si pensi al caso del manicheismo, per il quale il cosmo è negativo quantoalla sostanza di cui è composto, ma positivo per quanto riguarda la funzioneche è chiamato ad assolvere, vale a dire la progressiva liberazione della lucedispersa nella materia. Sempre nel manicheismo, poi, il corpo è negativoquanto alla sostanza diabolica che lo costituisce e negativo quanto allafinalità per la quale è prodotto dai demoni tenebrosi, quella di servire dacarcere nel quale prorogare, attraverso le onde delle successive generazioni,la prigionia dei frammenti di luce. Si pensi poi al caso costituito dalle dottrineplatoniche, nel momento in cui esprimono, riguardo al cosmo, una posizionefavorevole, mentre riguardo al corpo fanno propria la dottrina orfica cheidentifica il corpo (soma) a una tomba (sema), o a una prigione o custodia(phrourà) ove l’anima è punita per colpe pregresse.

Rimane una sottolineatura da esplicitare: “La connotazione essenziale eunitaria del dualismo risiede (...) nella dicotomia operata nel mondo, nelsenso che una parte di questo viene pensata come creazione o naturale eoriginario dominio del maligno, e a tale parte viene attribuita una malignitàintrinseca, connaturale, ontologica; a differenza di quanto avviene, peresempio, nel cristianesimo, dove il male è originariamente e essenzialmentesolo un dato di contenuto morale (e non ontologico né cosmologico), un datoche si pone in essere con l’orientamento di una volontà libera, nel quadro diun regime che si estende quanto l’universo, di un mondo di cui esclusivoautore e signore è Dio; ed è su questa base che si deve intendere e limitarequella coloritura negativa che talora assume nella terminologia cristiana iltermine ‘mondo’, come luogo ove si manifesta e si manifestò il peccato conle sue conseguenze. Al contrario, ulteriore connotazione essenziale di ognidualismo è l’idea di una non universale signoria di Dio, e di una più o menoestesa (anche se provvisoria e relativa) impotenza di lui rispetto all’avversario

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e alle sue iniziative, attraverso le quali l’avversario realizza un suo riservatodominio, su cui esercita i poteri di creatore”.[563]

Dunque, ogni impostazione dualistica offre alla questione dell’undemalum, ‘da dove il male?’, una soluzione che sporge rispetto alle soluzionicristiane che fondamentalmente appellano a un male etico o comunque diorigine etica, ovvero a un male che si esprime come peccato, ossia ‘cattivascelta’ a carico di creature, sia angeliche, sia umane, e come conseguenze ditale scelta. Detto in altri termini, identificano il male come defectus boni,ovvero come mancanza – da parte della creatura – di un bene dovuto, e comeconseguenza di tale defectus.

Il tema del ‘peccato’ umano non è ignorato dalle dottrine dualistiche,come per esempio dal manicheismo, dove però il peccato èfondamentalmente il frutto della azione prevaricatrice della sostanza malignacommista, nell’uomo, a quella spirituale.

Il dualismo può intervenire in formazioni monoteistiche (ad es.zoroastrismo) come pure in sistemi monistici, come nell’orfismo o nellognosticismo o nella tradizione indiana upanishadica, con il suo drammaticoopporre il molteplice illusorio all’Uno, ma può intervenire anche inparticolari ambiti politeistici.

Per quanto concerne le tendenze dualistiche presenti in contestimonoteistici, se esse sono radicali, fondamentalmente intendono liberare ildio dalla responsabilità del male, attraverso l’ammissione di un principio, ouna forza o una sostanza, o una entità, a lui da sempre avversa e da luiindipendente, ontologicamente negativa e responsabile degli elementi di‘male’ presenti sulla scena cosmica e nella vita umana. Ma la presenza dasempre di un secondo principio, indipendente da Dio, viene a finalizzarel’azione di Dio stesso e dunque a condizionarlo dall’esterno, facendo venirmeno quella caratteristica di gratuità della creazione, e della salvezza, checaratterizza – con modalità diverse tra di loro – l’azione di Dio nei contestimonoteistici non dualistici.

Quando invece si ammette, nei dualismi monarchiani, una derivazione delsecondo principio dal primo, come accade sia in contesti monoteistici, qualitaluni movimenti dualistici medievali, sia in contesti tendenzialmente

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monistici quali ad esempio il valentinianesimo, si offrono specifichesoluzioni volta per volta diverse a rendere ragione di tale derivazione.

Per quanto concerne le tematiche dualistiche in contesti monistici sipotranno ricordare i seguenti esempi.

Nel fascio di credenze e prassi che si usa denominare orfismo si ha unacontrapposizione dualistica tra un’anima di natura divina e un corpo intesocome prigione o addirittura come tomba dell’anima. La dottrina diEmpedocle, fondamentalmente monistica nel suo affermare la molteplicitàdel reale come frutto della frammentazione dello Sfero primordiale e comedestinata a risolversi periodicamente e ciclicamente nell’unità dello Sferostesso, ha anche importanti implicanze dualistiche nel momento in cuiammette come responsabili dell’alterno ed eterno scomporsi e ricomporsidell’Uno, i due principi opposti costituiti da Amore (Philia) e Discordia(Neikos).

Osserviamo, poi, come nella definizione sopra data di dualismo, comedottrina dei due principii che, coeterni o meno, fondano l’esistenza, reale oapparente, di ciò che esiste e si manifesta nel mondo, l’espressione ‘esistenzaapparente’ e il riferimento a ciò che ‘si manifesta’ nel mondo, evidentementesenza esistere realmente, facciano riferimento al mondo indiano. Concezioniespresse dalle Upanishad e dal Vedanta sono dualistiche, nel momento in cuiammettano che māyā sia autrice di questo mondo di illusione, mondoapparente e non realmente sussistente, e dunque come essa sia un vero eproprio secondo principio di una visuale dualistica. Come tale, essa sioppone, nella speculazione indiana, al primo principio, il Brahman, unicosussistente, e, nella posizione buddhista, al livello del nirvana, il livello dellaliberazione allo stato assoluto, che, comunque inteso, prospettivamente latrascende.

Nei sistemi gnostici di tipo siro-egizio, come il valentinianesimo, su unoschema fondamentalmente monistico caratterizzato dalla consustanzialità tralo pneuma che è nell’uomo e il mondo divino, il pleroma, e dalla produzionedella realtà divina pleromatica a partire dal principio unico originariovariamente denominato (Pre-Padre o Bythos o altro) si danno importanticonnotazioni dualistiche offerte dalla presenza di un secondo principio, da

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identificare con Sophia o piuttosto con la sua colpa, causa formale, se nonefficiente, della venuta all’essere delle realtà non divine, vale a dire dellasostanza psichica e della sostanza materiale, come pure della successivadispersione e imprigionamento dei semi divini nella realtà materiale.

Per quanto concerne i contesti politeistici, gli studi hanno messo in luce leconnotazioni di ‘secondo principio’ offerte da figure come Prometeo,causatore, in contesto esiodeo e nelle riprese posteriori delle tematicheesiodee, di specifiche modalità di esistenza dell’uomo, nell’ambito di unacontrapposizione con Zeus che la Theogonia, le Opere e i Giorni esiodee, maanche il Prometeo incatenato eschileo, provvedono a descrivere.[564]

Il dualismo religioso non interessa solamente il campo della speculazioneteologica ma anche quello della morale, ossia ispira particolari modalità delvivere e del morire.

Un’ascetica di timbro dualistico, ispirata alle idee sopra illustrate, deveessere nettamente distinta – non solo sul piano teologico ma già sul pianostorico-religioso, che è quello che qui ci concerne – da un’ascetica di tipocristiano (non gnostico). Basti pensare alla povertà come praticata e predicatain un ambito dualistico quale è quello cataro, ove essa è concepita in funzionedi una diabolicità intrinseca della materia, creata dal maligno, rispetto – peresempio – alla povertà come teorizzata e praticata in ambito francescano.

Dottrine dualistiche possono comandare anche una più ampia sfera diatteggiamenti e di prassi quali, ad esempio, il rifiuto delle leggi civili(antinomismo), in quanto percepite come espressione del potere tirannico diun secondo principio, rappresentato da arconti malvagi e inferiori rispetto aldivino sommo o, in altro contesto, di Satana, o il rifiuto della autorità politica,ispirato ad analoghe motivazioni; o il rifiuto del lavoro, almeno per gli‘eletti’, motivato, nel manicheismo, dalle premesse anticosmiche che gli sonoproprie.

Le dottrine dualistiche possono avere un’incidenza anche nella sfera delculto, nel senso che questo può risultare decisamente ridimensionato rispettoalla componente della ‘conoscenza’ salvifica, che è conoscenza dellaestraneità ontologica del proprio sé divino rispetto alla realtà materiale; maanche nel senso che esso può contemplare pratiche rituali votate al secondo

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principio, negativo, e tese a scopi apotropaici, ovvero a soddisfarlo e amantenerle lontano o comunque propizio, come in certa magia iranicaattestata da Plutarco; oppure pratiche rituali volte a purificare, ossia a‘separare’, come le teletai orfiche, la sostanza divina dalla sostanza corporeae a preparare il ritorno della prima al divino cui essa è consustanziale.

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3.1 Unde malum?

La descrizione della categoria storico-religiosa del dualismo ci conduce atoccare brevemente una tematica cui qui possiamo solamente accennare, purmeritando essa ben più ampio sviluppo.

Si è detto come il dualismo nelle sue diverse forme offra una soluzionespecifica al problema dell’origine e della natura del male, un male che, inambito dualistico, si connota sempre, pur se con modalità diverse, per esserefondamentalmente e primariamente un male di tipo ontologico, e dunque pernon identificarsi con un male etico o di origine etica, come ad esempio nelleposizioni cristiane non dualistiche.

Tenendo ferma questa caratteristica, possiamo qui allora proporre unaclassificazione di possibili soluzioni del problema dell’origine del male inrapporto al divino, offertesi nel mondo delle religioni.

Secondo una prima soluzione l’origine del male è in un’entità, ovvero inuna realtà dotata di una ontologica concretezza, in una sostanza al di fuori deldivino e indipendente quanto a origine da esso, una entità o sostanza chetuttavia viene a condizionare, con la sua presenza, il divino e la di lui attività.È la soluzione offerta – in particolare – dallo zoroastrismo, ove tale entitàaltra e diversa dal creatore è Ahriman (l’Angra Manyu dei testi gathici) e dalmanicheismo (ove tale entità è la materia – hyle – intesa come principiooriginario da sempre contrapposto al principio divino). Essi sono due formedi dualismo radicale. Il male ha primariamente una connotazione ontologicaperché si identifica con una natura data, o originaria, il secondo principio, econ le realtà da questo derivate.

In una seconda soluzione, l’origine del male è all’interno del divino, eprecisamente nelle fasce inferiori e più deboli dello stesso. È la tipicasoluzione offerta dallo gnosticismo valentiniano, al quale più avantiaccenneremo, e che si caratterizza come un dualismo monarchiano omitigato. Anche in questo caso il male ha una natura ontologica perché la suaradice è in una natura divina inferiore, la Sophia o ultimo eone divino,protagonista di una drammatica vicenda di crisi e di caduta che causa le realtànon divine, quali la materiale e la psichica, e l’incarceramento di scintille

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divine nel mondo e nel corpo.Secondo una terza soluzione, il male s’origina al di sotto del divino, vale

a dire a livello delle creature, siano esse angeliche, siano esse umane, econsiste, utilizzando una formulazione squisitamente cristiana, in unaprivatio boni, ovvero nella mancanza di un bene dovuto e non esercitato daparte della creatura, e nelle conseguenze di tale mancanza. Tale soluzionedell’origine e della natura del male non offre una dimensione ontologica, maetica.

Quivi dunque (in un contesto caratterizzato dalla idea di un divino ‘compatto’ e non graduatoal suo interno), l’origine del male non è collocata al livello di una delle fasce inferiori del divino, eneppure in una sorta di antidivino, da sempre al divino contrapposto, ma a livello della creaturaumana o anche della creatura angelica. Quest’ultimo è tema particolarmente sviluppatodall’apocalittica giudaica, in alcune opere della quale si passa sotto silenzio la responsabilità deiprotoplasti in ordine alla prima origine del male per attribuirla invece a angeli trasgressori deiprecetti divini in quanto indebitamente coniugatisi con le donne, come pure all’azione nefasta deiloro figli, i giganti, i quali, pure dopo la morte, come spiriti demonici continuano a esercitare unaazione negativa tra gli uomini. Il tema è sviluppato nel I Libro di Enoch, in alcuni testi di Qumran,nel Libro dei giubilei, nei Testamenti dei dodici patriarchi e in II Baruch ed è noto anche a scrittoriecclesiastici e Padri della Chiesa (Giustino, Ireneo, Ambrogio, Girolamo). Per quanto concerne,invece, le fonti che sviluppano piuttosto il motivo della originaria trasgressione umana, questa simanifesta come uso perverso della volontà libera, ovvero come orgogliosa tentazione di farsi comeDio e concupiscenza delle cose create (cfr. Gn. 3).[565] La narrazione genesiaca dellatrascgressione della prima coppia umana non trova eco negli altri libri veterotestamentari, se non intesti tardi, come il Libro di Tobia, l’Ecclesiastico o Siracide, la Sapienza di Salomone, libri redattiin greco o pervenuti in greco. Rimasti esclusi dal canone ebraico, furono accolti in quello cristiano.Il Siracide è il primo fra i libri biblici fuor dalla Genesi a menzionare la trasgressione e, nelcontesto della descrizione degli effetti rovinosi di una cattiva moglie, sottolinea la responsabilitàdella donna: “È ad opera della donna che il peccato ha avuto inizio, è a causa sua che tuttimoriamo” (25,24). La prevalente responsabilità della donna è tema sviluppato anche dalla giudaicaletteratura apocrifa su Adamo (Vita Adae latina e Apocalisse di Mosè greca). La Sapienza inveceenfatizza la responsabilità del diavolo identificato con il serpente della Genesi: “È per l’invidia deldiavolo che la morte è entrata nel mondo” (2,23), accennando in tal modo con estrema sobrietà aun tema, quello appunto dell’invidia nutrita dall’angelo decaduto nei confronti della creaturaumana, immagine di Dio, ampiamente sviluppato invece nella letteratura apocrifaintertestamentaria.

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3.2 Religioni e correnti dualistiche

Daremo di seguito alcune informazioni per quanto concerne religionidualistiche e movimenti di tipo dualistico espressisi nella storia del mondoantico e tardoantico. Principiamo dallo zoroastrismo, per precisare lecaratteristiche dualistiche dello stesso, altrove peraltro già dibattute.

Nel contesto zoroastriano ci troviamo di fronte a un quadro di tipomonoteistico, che afferma la capacità creativa e la sovranità di Ahura Mazda,e in pari tempo dualistico, giacché si attribuisce un’attività negativa conrilevanza ontologica a un personaggio inferiore ad Ahura Mazda, che nelleGatha viene chiamato Angra Manyu, ‘Spirito Distruttore’, e che nellatradizione post-gathica sarà chiamato Ahriman. Questo vede accentuarsi leproprie caratteristiche di secondo principio in senso ontologico in quantoconosce una specifica attività creativa pertinente – ad esempio – ad animalinocivi e mortiferi (serpenti, scorpioni etc.). Valenze di secondo principiosono peraltro già offerte da Angra Manyu seppur in forma diversa. Questo,infatti, nelle Gatha, che sembrano collegate direttamente alla predicazione diZarathustra, è visto non solo come un principio negativo sotto il profilo etico,giacché egli in qualche modo incarna in sé la menzogna, così come AhuraMazda incarna la verità, ma anche sotto il profilo ontologico e dunque comesecondo principio di una visione dualistica: a lui si attribuisce unaconsistenza ontologica distinta da quella di Ahura Mazda e insieme unaindipendenza di origine e di natura, e soprattutto la capacità di introdursinella buona creazione di Ahura Mazda per guastarla, rovinarla, non solo alivello etico inducendo gli uomini alla menzogna, al peccato, ma anche alivello ontologico, ossia intervenendo in senso negativo come distruttoredella buona creazione divina. Dunque, il pensiero zoroastriano conosce, nellasua impostazione dualistica, un’evoluzione che porta ad accentuare l’efficaciaontologica dell’avversario di Ahura Mazda, attribuendogli delle specificheattività creative di segno negativo.

Veniamo ora allo gnosticismo e al manicheismo.Diciamo subito che il cuore del sentire gnostico può essere individuato in

una serie coerente di caratteristiche (o struttura) che si possono riassumere

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nella concezione della presenza nell’uomo di una scintilla divina (per lo piùdenominata pneuma), la quale, proveniente dal mondo divino (pleroma) ecaduta in questo mondo e in questo corpo a seguito di una crisi occorsa neldivino stesso, deve essere quaggiù risvegliata tramite un salvatore-rivelatore,portatore di conoscenza (gnosis), ed essere così reintegrata al suo mondod’origine. Per una presentazione dei movimenti gnostici, tuttavia, ci serviamoora di una efficace sintesi offerta dalla Sfameni Gasparro.

“All’inizio dell’era cristiana fiorirono numerosi movimenti religiosi, che,per il loro costante riferimento alla gnosis (conoscenza), vengono accomunatinell’unica denominazione di gnosticismo. La gnosi dello gnosticismo,peraltro, ha una sua natura e qualità ben precise, che la distinguononettamente e dal razionale conoscere dei filosofi e da ogni altra forma diconoscenza, anche religiosa, di diverso tipo. Per essa l’uomo percepisce lapresenza in se stesso di un elemento divino (lo pneuma o il nous) che è la suastessa sostanza (ousia) e che, incarcerato nel corpo materiale, deve ritornareal mondo superiore cui appartiene. Così, ad una natura somatica, hylica(materiale), naturalmente destinata alla distruzione, si contrappone nellognostico, o in genere nell’uomo, una sostanza pneumatica, la ‘scintilla’(spinther) luminosa, pneuma o nous, consustanziale al mondo divino. Unaterza ‘componente’ dell’uomo, poi, è la psyche, l’anima ‘animale’ che,secondo molte dottrine gnostiche, attraverso la gnosi può ottenere la salvezzaassimilandosi all’elemento superiore, ovvero rimanere legata al corpomateriale subendo un destino di morte.

Questa concezione ha un preciso carattere dualistico, poiché il corpo e lopneuma nell’uomo non solo sono distinti ma nettamente contrapposti in unatensione estrema, che si esprime nel totale rifiuto dell’elemento somatico peridentificare la vera essenza dell’uomo, l’‘uomo interiore’, con l’elementospirituale. (...) Al dualismo antropologico che oppone – come detto – il corpoallo pneuma, corrisponde un dualismo cosmologico, per il quale risultanocontrapposti il mondo superiore divino, detto anche pleroma (ossia‘pienezza’), e il cosmo materiale, soggetto alla legge del destino, dellagenerazione e della morte. L’uomo gnostico, infatti, sa di essere prigioniero,oltre che del corpo che racchiude ed ottenebra la scintilla divina, il ‘Me’

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interiore, anche del mondo visibile il quale, con i suoi sette cerchi planetari,gli impedisce l’ascesa verso la sua dimora celeste. Su questo cosmo si esplical’autorità di un signore duro e tirannico, il demiurgo, che lo ha creatomanipolando la materia preesistente e che, insieme ai suoi arconti, lo governaimponendo il rispetto delle proprie leggi. Anche l’umanità rientra nella sferadel potere arcontico e demiurgico per la sua parte somatica e ‘mondana’, cheappunto, insieme al resto della creazione, è stata modellata dal dio inferiore.Soltanto lo pneuma sfugge al regime di questo mondo quando, per mezzodella gnosi, sia fatto consapevole della propria dignità divina e della propriaorigine pleromatica.

Al dualismo antisomatico si accompagna così, nella visione gnostica, unaltrettanto radicale dualismo anticosmico, poiché il corpo e il mondo visibilesono coinvolti nell’unica condanna che colpisce tutto ciò che è materia etenebra. Tale condanna ha il suo fondamento nel riconoscimento dellainferiorità ontologica, anzi dell’assoluta negatività di quella cellula creatorische è il cosmo, al quale si oppone la pienezza del mondo divino.

Poiché lo gnosticismo, prima che un complesso di dottrine più o menosistematiche, è una ‘visione del mondo’ chiaramente individuabile nei suoiaspetti caratteristici, bisogna ricordare che il suo tipico dualismo si esprime inuna serie di immagini e di simboli pienamente significativi. Così, per lacomprensione del fenomeno gnostico è possibile fare riferimento a tutta unaricca tipologia che, come risulta dall’analisi penetrante di H. Jonas,[566]illumina la particolare maniera di sentire degli gnostici. La condizione tipicadell’uomo in questo mondo, prima che intervenga la chiamata dall’alto aconferirgli la gnosi, è quella dell’oblio, del sonno, dell’ebbrezza; in unacompleta assimilazione alla realtà mondana che impedisce qualsiasipossibilità di salvezza. Quando poi una interiore illuminazione abbia destatol’Io interiore dello gnostico, tosto si rivela a lui l’infelicità profonda dellapropria situazione. Egli, infatti, sente di essere straniero al mondo in cui vivee ai signori che lo governano, superiore ad essi e in grado di disprezzarli ecalpestarli. Comprende di essere stato strappato dalla sua radice divina egettato nella tenebra. Questa vita gli appare ormai come una morte dallaquale non potrà evadere che quando, liberato dal carcere corporeo, ritornerà

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alla sua dimora celeste. Quest’ultima si configura spesso come una cameranuziale nella quale si celebreranno le mistiche nozze con la contropartedivina dell’anima, con l’angelo, suo sposo celeste. Lo gnostico hasmascherato ormai la vacuità (kénoma) del mondo visibile, la cui materialitàè tenebra e distruzione, e condanna la nascita e la generazione (genesis) chead esso sono intimamente legate. Egli conosce l’esistenza di un mondodivino, i cui attributi sono la luce, la vita e la pienezza (pleroma) e al quale lopneuma è consustanziale.

A questa polarità fra i due mondi corrisponde la contrapposizione fra idue dèi che ad essi presiedono.[567] La divinità somma è, infatti, invisibile,perfetta, incomprensibile, innominabile; essa è ‘altra’ rispetto alla realtàvisibile, quindi straniera ad essa e sconosciuta. Suoi attributi sono la libertà ela misericordia.

Il Demiurgo, invece, che in quanto creatore è spesso identificato al Diodella Bibbia, vorrebbe imporre il proprio dominio sull’uomo e possederlointeramente, ma in ciò fallisce perché l’elemento pneumatico sfugge alla suapresa. Egli è ‘materiale’ (hylikós) come il cosmo su cui regna, e ‘animale’(psychikós); è ignorante oltre che blasfemo nel suo proclamarsi unico Dio. Ilcreatore, infatti, ignora il mondo divino ovvero ne intuisce solo vagamentel’esistenza, mentre la divinità di luce conosce ogni cosa ed ha i mezzi perstrappare al demiurgo quella scintilla che, nel momento della creazionedell’uomo, è discesa dall’alto per animare la ‘fattura’ (plasma) cui ildemiurgo non aveva saputo dare la vita.

È poi tipica dello gnosticismo l’idea di un inviato celeste, un messaggeroproveniente dal mondo divino per ridestare nell’uomo la scintilla pneumaticaottenebrata dal corpo materiale. Questo personaggio tutto spirituale è ilSalvatore, che si manifesta in forme visibili, pur rimanendo del tutto estraneoal cosmo e ad ogni elemento somatico.[568] Egli è in pari tempo il rivelatoredella gnosi, poiché nello gnosticismo la salvezza si attua nell’hic et nunc incui la sostanza divina prende coscienza di sé e si dissocia dal destino dellacreazione demiurgica.

Questa comune visione dualistica si esprime nei diversi sistemi gnosticicon una varietà di miti e di narrazioni relative alle complesse vicende

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attraverso cui si è giunti alla formazione del cosmo e dell’uomo.Nonostante le differenze notevoli presenti nelle speculazioni elaborate dai

diversi gruppi gnostici, è possibile procedere ad una distinzione di due tipifondamentali, di due grandi categorie a cui, sotto il profilo fenomenologico, ivari sistemi sono attribuibili. Si tratta del tipo cosiddetto della gnosi siro-egizia, nel quale il secondo principio (la materia e il Demiurgo che ad essapresiede) è derivato, in seguito ad un incidente originario (per lo più la cadutadi un personaggio del mondo divino), dal primo principio (la divinità sommae il mondo pleromatico). In questa impostazione, pertanto, si realizza laformula del dualismo ‘mitigato’.

La seconda categoria è quella della gnosi cosiddetta di ‘tipo iranico’, laquale ammette una originaria e simmetrica contrapposizione di due princìpi:da una parte il superiore mondo luminoso e la Divinità e dall’altra la materiacon gli esseri tenebrosi e malvagi che vi abitano. Una caratteristica di questosecondo tipo di speculazione gnostica, in cui si realizza la formula deldualismo assoluto, è l’aggressività e la violenza del principio inferiore.

Intorno alla natura e alle origini dello gnosticismo sono state formulatenumerose teorie. Dopo un periodo in cui esso fu giudicato una sorta di‘filosofia orientale’ (...), si affermò un’interpretazione eresiologica secondo laquale il movimento gnostico si spiega in funzione della storia delcristianesimo; esso nasce dall’incontro di questo con le idee filosofiche,mistiche e religiose diffuse nel II sec. A questo indirizzo, che ebbe in A. vonHarnack uno dei suoi maggiori rappresentanti, si oppose l’interpretazionestorico-religiosa, attenta a ricercare le origini pagane dello gnosticismo.Tuttavia il metodo religionsgeschichtlich (tra gli studiosi di tale tendenzaricorderemo lo Anz, il Reitzenstein e il Bousset), troppo proclive a ridurrel’intero fenomeno gnostico a una serie di prestiti dei diversi contesti religiosi,[569] fu superato da ulteriori studi. Così H. Jonas, attraverso un’analisiapprofondita dello gnosticismo, ha messo in luce l’interna coerenza di esso inquanto espressione di una precisa visione del mondo non riducibile ad unmosaico di elementi disparati. Altri studiosi, poi, hanno sottolineatol’importanza delle concezioni giudaiche nel processo di formazione dellognosticismo, ovvero le connessioni di questo con il mondo greco (orfismo,

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pitagorismo, platonismo). Gli attuali indirizzi interpretativi, di fatto, nellaquestione delle ‘origini’ prestano una privilegiata attenzione al mondo deltardo-giudaismo e del cristianesimo come importanti parametri di riferimentoper alcuni aspetti essenziali del fenomeno gnostico, soprattutto per la suasoteriologia”.[570]

E ora consideriamo il manicheismo.“Nel 216/17 d.C. nella Mesopotamia settentrionale nasce Mani, fondatore

di un movimento religioso di tipo gnostico, il quale avrà una notevolediffusione in Occidente e in Oriente presentandosi come una religioneuniversale, complemento e sigillo delle tradizioni religiose proprie dei popolicon cui verrà in contatto. Le principali religioni con le quali il Manicheismoebbe dei rapporti e dalle quali, in maggiore o minore misura, mutuò deglielementi, elaborati e trasformati alla luce della propria dottrina gnostico-dualistica, furono lo zoroastrismo, il buddhismo e il cristianesimo. La volontàcosciente di utilizzare tali tradizioni religiose ai fini della costruzione delproprio sistema ideologico e insieme in vista della propaganda missionariapresso i seguaci di esse, è manifesta nell’affermazione, da parte di Mani, diessere l’ultimo di una serie d’inviati divini, il ‘sigillo’ di una serie di profeti icui maggiori esponenti erano stati Zoroastro, Buddha e Gesù.

Si può notare tuttavia che, mentre gli imprestiti dal buddhismo sonopiuttosto da vedere nell’adozione di figure divine o di una terminologiapropria a tale religione, le connessioni con la tradizione iranica sono piùstrette e decisive. Le influenze iraniche sul manicheismo sono da vederesoprattutto nella stessa formulazione dualistica di tipo assoluto, implicantel’aggressività delle potenze demoniache, nella concezione dei “tre tempi” neiquali si articola la vicenda cosmica, (vedi oltre) e nella nozione dello statoattuale del mondo come ‘mescolanza’. Tra zoroastrismo e manicheismorimane tuttavia la differenza pregiudiziale sussistente tra un’impostazionedualistica che vede nel mondo e nell’uomo l’opera di Dio e quindi valutapositivamente tali realtà, e la concezione gnostica che identifica il male allamateria e considera cosmo e corpo opera di potenze demoniache riponendonella gnosis l’unico principio di salvezza. I rapporti di Mani con la tradizionegiudeo-cristiana risultano oggi più evidenti dopo la scoperta del Codice di

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Colonia, relativo all’esperienza religiosa del personaggio maturata all’internodi una comunità ‘battista’ di tipo elchasaita. La vicenda di Mani èsufficientemente nota da numerose fonti antiche che forniscono ampie notizieintorno al manicheismo e al suo fondatore.

A quanto risulta da tali notizie, Mani, discendente da nobile famigliapartica, fu educato in una cerchia battista alla quale era aderente il padre. Inseguito a due visioni ricevute all’età di 12 anni (228/229) e l’altra più tardi(240/241), egli si ritenne investito dalla missione di predicare e diffondere fragli uomini la rivelazione divina. A questo scopo compì un viaggio in India,dove la sua predicazione incontrò un certo successo e quindi fece ritorno neiterritori dell’impero iranico, a quel tempo sotto la dominazione della dinastiasassanide. L’attività missionaria di Mani ottenne un risultato decisivo inseguito alla conversione del fratello del re e quindi l’incontro conquest’ultimo, il quale, colpito favorevolmente dall’insegnamento delMaestro, gli diede la sua protezione. Sotto il regno di Sapore (242-273),pertanto, il manicheismo si diffonde ampiamente in tutto l’impero persiano enumerose missioni vengono compiute dai discepoli di Mani in varie regioni,ad est e ad ovest, di esso. Anche il figlio di Sapore, Hormizd I (273-274) èfavorevole alla nuova religione, ma con l’avvento di Bahram I (274-277),l’atteggiamento della corte muta radicalmente per l’influsso esercitato dallapotente casta dei sacerdoti zoroastriani, avversi al manicheismo. Mani,chiamato al cospetto del re, viene imprigionato e finisce la sua esistenza nelfebbraio del 276/77.

La dottrina manichea conobbe una larga diffusione in Occidente dovesono raggiunte dalla vivace propaganda missionaria dei discepoli di Mani, laSiria, l’Arabia settentrionale, l’Egitto e la provincia d’Africa settentrionale, laPalestina, l’Asia Minore, l’Armenia, la Dalmazia e l’Italia, la Gallia e laSpagna. In Oriente il Manicheismo si espande largamente nell’Asia centrale etrova ampia eco in Cina, dove se ne possono seguire le tracce fino al XIV sec.

La dottrina predicata da Mani si fonda sulla contrapposizione radicale didue princìpi, coeterni ed ontologicamente estranei: Dio e la Materia.[571] Aquesti due princìpi sono rispettivamente propri gli attributi di Luce e Tenebra,Verità e Menzogna.

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La divinità regna in un mondo luminoso, a lei consustanziale, ‘circondatadalla sua luce, dalla sua forza e dalla sua saggezza’; tale regno di luce siestende senza limiti a Nord, ad Est ed a Ovest mentre a Sud confina conl’oscuro regno della Materia. Quest’ultimo, al contrario del mondo divino incui domina la pace e la tranquillità, è agitato da forze demoniache in lottacontinua, le quali hanno un capo nella persona del Principe delle tenebre. Inconseguenza di questo continuo e violento movimento che scuote la materia,i personaggi che in essa risiedono emergono alla superficie e, avendocontemplato il mondo luminoso, meditano di scagliarsi contro di esso. IlPadre sommo, sapendo che il suo regno, pacifico e sereno, non possiede imezzi adeguati di difesa, ‘chiama’ (cioè evoca) un’entità femminile, la Madredi Vita, la quale a sua volta “chiama” l’Uomo primordiale destinato acontrastare il piano aggressivo della Materia. Egli, secondo una simbologiamutuata dalla prassi guerresca “indossa l’armatura”, cioè riveste cinqueelementi luminosi (etere, vento, luce, acqua, fuoco), i quali sono anche dettisuoi figli e, in quanto a lui consustanziali, costituiscono il suo “Io”, la suaanima.

Disceso nel tenebroso caos della Materia, l’Uomo primordiale subisceuna sconfitta e diventa preda delle forze demoniache, essendo caduto in unsonno profondo. Il Dio della Luce evoca altri personaggi, fra i quali lo SpiritoVivente che avrà la funzione di recuperare l’Uomo primordiale, il quale hasacrificato se stesso per impedire che l’assalto delle entità demoniachecolpisse il mondo divino. Mediante l’Appello dall’alto e la Risposta da partedell’Uomo, quest’ultimo viene risvegliato e sottratto alla presa delle tenebre,facendo ritorno alla sua patria celeste. Ma l’‘armatura’, i cinque elementiluminosi che avevano accompagnato l’Uomo nella sua discesa, rimangonoprigionieri delle potenze demoniache, costituendo in pari tempo una sorta di‘esca’ per mezzo della quale quelle potenze medesime, alla fine dellavicenda, saranno sconfitte e rese incapaci di nuocere oltre.

Per recuperare i cinque elementi di Luce, lo Spirito Vivente dà inizio allacreazione, utilizzando le carcasse dei demoni (‘Arconti’): con la loro pelleforma il cielo, con le ossa i monti e con la carne la terra. Il cosmo visibile,pertanto, è negativo nella sua intima essenza, che è di natura demoniaca,

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tenebrosa e materiale. Veicolo della liberazione della sostanza divina sonosoprattutto il sole e la luna, formati con porzioni di luce non contaminate,mentre gli altri astri sono fatti con quelle parti di luce che hanno subìto unasia pur lieve contaminazione.

Per recuperare la luce che si è mescolata con la tenebra viene mandato unulteriore personaggio divino, il Terzo Inviato, il quale sarà protagonista di uncomplesso mito relativo alla ‘seduzione degli Arconti’. Egli infatti,mostrandosi in tutto il suo splendore, induce le potenze demoniache ademettere le parti di luce inghiottite; da quest’emissione avranno luogo ivegetali, in cui è presente in notevoli proporzioni la sostanza luminosa, glianimali, nei quali invece predomina la sostanza tenebrosa, e infine, dopo uncomplesso seguito di vicende, la prima coppia umana, nata dalle nozze tradue demoni. Il corpo umano, e la concupiscenza che ad esso è intrinseca,sono dunque di natura e di origine demoniaca; su questa concezione si fondal’antisomatismo tipico e il rifiuto delle nozze e della generazione checaratterizza la prassi etica dei manichei.

In Adamo, tuttavia, è presente anche la sostanza luminosa che deve essererecuperata. A tal fine viene mandato dal regno della Luce un Salvatore, ilquale è manifestazione del Terzo Inviato e riceve nomi diversi nei testimanichei: Figlio di Dio, Ohrmizd o Gesù Splendore.

L’incontro fra il Salvatore e Adamo rievoca la situazione originariadell’Uomo primordiale risvegliato dal sonno ad opera dello Spirito Vivente:anche Adamo, la cui scintilla divina era offuscata dal contatto con la materiaviene ridestato e gli è comunicata la gnosi. Ha inizio così il processo salvificoche interessa la sostanza divina disseminata nel cosmo e presente, inmaggiore misura, nei corpi umani e nei vegetali. Questo processo si configuracome una lenta opera di purificazione cui l’elemento luminoso è sottoposto;attraverso l’astinenza dalle nozze e dai cibi carnei l’uomo purifica il propriopneuma, e in pari tempo, cibandosi di vegetali, facilita la liberazione dellaluce in essi incarcerata. La sostanza luminosa così purificata ascendeincessantemente, come una colonna splendente, verso l’alto deponendosinella luna che nel suo ciclo mensile si riempie per poi svuotare la luceraccolta nel sole che la rimanda nel regno divino.

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La vicenda si concluderà con un cataclisma universale, allorché lasostanza divina sarà stata recuperata interamente o nella maggior parte. Dopouna lotta finale tra le forze del bene e quelle del male, il cosmo verrà distruttoe la materia, insieme con i demoni e i dannati, costituirà una sorta diammasso informe (bolos) che sprofonderà in un baratro enorme, dal qualeormai non potrà esercitare alcuna azione aggressiva e malefica.

Questo è lo schema generale della visione manichea della vicenda divinae cosmica, la quale contempla tre momenti, tre ‘tempi’: la situazioneoriginaria di separazione fra le Luce e le Tenebre, il periodo dell’assalto dellepotenze demoniache e della conseguente mescolanza delle due sostanze einfine la soluzione definitiva. Questa implica la separazione di luce e tenebreindebitamente commiste, ma in una condizione radicalmente diversa dalleorigini poiché non potrà mai più verificarsi l’assalto delle forze demoniache,ormai svuotate dalla loro carica aggressiva e non più capaci di nuocere”.[572]

“La diffusione del manicheismo in Oriente e in Occidente fu favorita, tral’altro, dalla struttura gerarchica che il fondatore seppe dare al movimentoreligioso, la quale permetteva di mantenere stretti contatti tra le variecomunità. Nell’ambito di queste era anzitutto essenziale la distinzione fra duecategorie, quella degli ‘eletti’ e degli ‘uditori’, con terminologia cristianadetti anche fideles e catecumeni.

Abbiamo accennato al “dogma” manicheo secondo il quale la liberazionedella luce incarcerata nel corpo è possibile solo attraverso un rigorosoascetismo implicante il rifiuto delle nozze e della carne. Le prescrizioniimposte ai manichei si possono riassumere nei tre “sigilli” di cui dà notiziaAgostino (de moribus manichaeorum, cap. 10): signaculum oris, signaculummanuum, signaculum sinus. Si tratta dunque di divieti che riguardano labocca, la mano e le operazioni del sesso, implicando rispettivamente il rifiutodi alimenti proibiti (carne, vino) e delle dottrine contrastanti con i princìpimanichei, l’astensione da azioni riprovevoli che possano ostacolare ilprocesso salvifico, più precisamente azioni dirette contro le piante e glianimali; infine l’astensione dalle nozze. Un’etica così rigorosa non potevaessere seguita dalla totalità dei fedeli e pertanto, di fronte alla più ristrettacerchia di coloro che si votano alla missione di favorire la liberazione della

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luce, in un completo distacco dai piaceri terreni (gli “eletti” o “giusti”),stavano tutti coloro che, pur accettando le dottrine manichee, non aderivanopienamente ai precetti astensionistici (“uditori” o “catecumeni”). Per costorola salvezza si sarebbe realizzata soltanto attraverso successive incarnazioni.[573] Intanto essi acquistavano dei meriti provvedendo alle necessità deglieletti i quali, in obbedienza al signaculum manuum non potevano procedereneppure alla raccolta e alla manipolazione dei cibi vegetali, dei qualiunicamente si nutrivano. I catecumeni erano tuttavia obbligati ad un giorno diastinenza settimanale (la domenica), mentre gli eletti dovevano osservareun’astinenza più rigorosa nei giorni sacri di domenica e lunedì”.[574]

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3.3 I dualismi medievali

Diamo di seguito alcune informazioni in merito alle tre grandi correntireligiose dei Pauliciani armeni, dei Bogomili bulgari e dei Catari dell’Europaoccidentale le quali, in una fitta trama di reciproci rapporti, percorronol’Oriente e l’Occidente dal VII al XIV sec.[575]

A partire da Pietro Siculo e dalla sua redazione, a conclusione delsoggiorno nella roccaforte pauliciana di Tefriche (869-870), della “Storiautile, confutazione e distruzione della folle e vana eresia dei Manichei,chiamati anche Pauliciani”, si inaugura un parametro interpretativo di talimovimenti religiosi del medioevo cristiano, definiti appunto “manichei”, chesarà ampiamente diffuso sia tra i polemisti cristiani ‘ortodossi’ sia in ampisettori della moderna ricerca scientifica. Tale definizione appare fondata nelmomento in cui le dottrine e le prassi ritali, pur diverse nei diversi gruppi inquestione, partecipano di una visione del mondo di tipo dualistico, al pari diquella propria dei Manichei. Infatti, Pauliciani, Bogomili, Catari – i quali,tutti, si proclamano cristiani, e, in aperta polemica nei confronti dellagerarchia e della tradizione dottrinale e liturgica della Chiesa cattolica, sipresentano come gli unici depositari della rivelazione di Gesù e i solipartecipi della salvezza – ammettono l’esistenza di due princìpi che, a variotitolo e con modalità diverse, hanno dato origine a tutta la realtà. I loropostulati dottrinari dunque – dualistici – si rivelano in continuità con quelli,pure dualistici, propri delle molteplici correnti dello gnosticismo (II-IV/Vsec.), del marcionismo e del manicheismo. Ricordiamo tuttavia che ildualismo manicheo, di tipo radicale, che oppone il mondo della Luce a quellodella Materia tenebrosa, aggressiva e violenta, si differenzia da quello propriodi molti movimenti gnostici che vedono la materia derivata da una crisioccorsa all’interno del divino, e, purtuttavia, entrambi i dualismi, gnostico emanicheo, convergono nella condanna della materia e nel riconoscimentodella presenza nell’uomo di una sostanza spirituale omogenea al superioremondo divino. L’io intimo, il vero Sé, dello gnostico e del manicheo èdunque consustanziale alle entità divine, decaduto e imprigionato nel livellomateriale, ma pur capace, a seguito della comunicazione della gnosi salvifica

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da parte di un Rivelatore celeste, identificato solitamente nel Gesù deiVangeli, di riconoscere e in tal modo recuperare la pienezza della propriaoriginaria natura e fare ritorno alla patria divina.

Orbene, i movimenti dualistici medievali, pur condividendo con quellignostico e manicheo presupposti dottrinali dualistici e conseguenti prassietiche astensionistiche, si differenziano da quelli gnostici e da quellomanicheo sia sulla base dei rispettivi quadri storici di riferimento, sia suquella delle rispettive ideologie di fondo. In particolare, si differenziano inrelazione alla visione antropologica che essi offrono: mentre lo gnosticismo eil manicheismo conoscono la nozione della consustanzialità divinadell’elemento spirituale dell’uomo, le correnti dualistiche medioevaliconoscono piuttosto un legame tra la angelologia da essi professata e laantropologia, nel momento in cui – forse con l’eccezione dei Pauliciani –affermano la presenza nel corpo umano di un’entità angelica ‘imprigionata’dal Creatore dell’uomo e destinata a fare ritorno al Dio sommo.

In relazione ai movimenti dualistici medievali si può condividerel’equilibrata posizione di G. Sfameni Gasparro, che afferma: “Per un versoriteniamo riduttive tutte quelle interpretazioni che, privilegiando gli aspettipolemici e contestatari dei movimenti eterodossi del Medioevo cristiano, ivicompresi quelli di ispirazione dualistica, vedono sostanzialmente in essil’espressione di un conflitto, a base socio-economica, fra masse popolari epoteri costituiti, rappresentati allo stesso grado dalle gerarchie ecclesiastichee dai regimi politici. In tale visione risulta infatti mortificata, se non ridotta asemplice ‘sovrastruttura’, la peculiare carica religiosa che una corretta analisidella documentazione mostra invece decisiva molla della ‘protesta’ ereticale.In pari tempo, riconosciuta la preminente dimensione religiosa dei diversifenomeni eterodossi del Medioevo cristiano, e opportunamente valorizzatol’indiscusso intreccio di essi con le rispettive situazioni socio-politiche eculturali, non riteniamo adeguato un approccio ‘eresiologico’ al problemadelle origini e della peculiare consistenza dei movimenti a caratterespecificamente dualistico di cui qui si discute. Di fatto, una corretta analisicritica, mentre respinge il cliché dell’antica e moderna eresiologia chedefiniva “manichei” o “neo-manichei” i dualisti medievali, deve evadere da

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una diversa ma parallela formula eresiologica che intende valutare talifenomeni in esclusiva relazione con la tradizione cristiana del tempo, qualiradicalizzazioni del messaggio evangelico o interpretazioni aberranti di essoin particolari situazioni socio-culturali e spirituali.

Senza porre ipoteche pregiudiziali sulla soluzione di quel problema nelsenso di una derivazione o almeno di una continuità rispetto ai più antichifenomeni dello gnosticismo e del manicheismo, ovvero di una sempliceanalogia tipologica, la ricerca non deve eludere la questione posta dallaspecifica qualità dell’impostazione dualistica della visione del mondo di cuisono portatori da una parte gnostici e manichei e dall’altra i dualistimedievali. Ne risulta che il problema, nella sua indispensabile dimensionecomparativa, non può essere posto correttamente nella prospettiva diun’eresiologia che guardi soltanto al gioco di azioni e reazioni all’interno delcristianesimo medievale. Al contrario, esso deve essere situato nel terreno diuna storia delle religioni capace di abbracciare, con la sua peculiaremetodologia storico-comparativa, contesti e fenomeni diversi, a vario titoloconnessi e interferenti”.[576]

L’indagine storico-comparativa, di fatto, ha riconosciuto la “fondatapossibilità di una continuità storica tra le varie correnti gnostiche, ilmarcionismo, il manicheismo e le eresie dualistiche medievali, continuitàperaltro da intendere non in termini di ‘fıliazione’ diretta o pedissequaimitazione bensì come risultato di una serie di stimoli e sollecitazioni,elaborati poi in maniera autonoma nei diversi ambienti, sì da produrrecreazioni nuove e parzialmente originali”.[577]

Venendo a una seppur rapida presentazione di tali movimenti,principiamo dai Pauliciani.

Il loro movimento sorse in Armenia intorno alla metà del VII sec. e eraancora vitale in territorio bizantino all’epoca della IV Crociata. Fonterilevante per la conoscenza della loro storia e delle loro concezioni èl’Historia utilis di Pietro di Sicilia, composta nell’870 circa, dopo unsoggiorno dell’autore presso la comunità pauliciana di Tefriche quale inviatoufficiale dell’Imperatore Basilio I per trattare la pace con Karbeas, in unmomento storico in cui la comunità pauliciana era impegnata in una rete di

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alleanze con gli emirati arabi e di scontri con le truppe bizantine. A tale fontesi aggiungono, tra le altre, il primo libro del trattato ‘Contro i Manichei’ delPatriarca Fozio, e il capitolo XXIV della Panoplia dogmatica del monacoEutimio Zigabeno (sec. XII).

L’Historia (36-37) evidenzia il netto dualismo che caratterizza la dottrinapauliciana: “essi proclamano due principi (archai), un dio malvagio e un diobuono, l’uno autore e signore di questo mondo e l’altro di quello futuro”.Altre fonti ci informano come – per il tramite di una peculiare interpretazioneallegorica dei testi evangelici e paolini e nello specifico, in questo caso, di Gv14,30 (“Viene il signore di questo mondo e nulla troverà in noi”) – iPauliciani identificassero il signore e autore del mondo attuale, il Dio dellatradizione vetero-testamentaria, con il diavolo della tradizione cristiana. Sidelinea così un tipico schema di dualismo radicale, che ammette la originariaindipendenza dei due “princìpi”, mentre una fonte più tarda attribuisce ancheal Dio Buono una sua creazione, pertinente ad un mondo superiore di creatureangeliche dal quale proviene Cristo in funzione salvifica. Questo èinterpretato docetisticamente, nel momento in cui essi affermano che ilSalvatore non è nato da Maria ma è solo passato attraverso di lei, recando dalcielo il proprio corpo. Egli inoltre assolve al ruolo di ‘rivelatore’ e la praticaeucaristica viene rifiutata, dal momento che il pane e il vino della cena sonointerpretati come figura dell’insegnamento del Salvatore. Rifiutato totalmentel’Antico Testamento, anche il canone scritturistico neotestamentario vienefortemente ridotto rispetto a quello riconosciuto dalla Grande Chiesa, mentrevalore di testo sacro assumono scritti di personaggi autorevoli o didaskaloi(maestri) del movimento stesso.

E veniamo ai Bogomili.Nati nel X sec. – con il pope Bogomil (da bogu milu, “degno della pietà

di Dio” o piuttosto, secondo alcuni studiosi moderni, “amato da Dio”,equivalendo dunque a Teofilo) – nel regno bulgaro, di recente cristianizzato esottoposto a forti influenze politiche e culturali oltre che religiose da parte diBisanzio, la consistenza ereticale della loro dottrina è immediatamentepercepita dalle autorità dello Stato e della Chiesa. L’unico testo originalebogomilo, pervenuto nella traduzione latina in uso presso i Catari, ma redatto

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originariamente in greco o in bulgaro, l’Interrogatio Johannis, in forma didomande poste dall’Apostolo a Gesù, offre un vivo quadro della teologiadualistica bogomila, insieme con l’angelologia, la cosmologia e l’escatologia.Molteplici fonti indirette attestano la radicale ispirazione astensionistica delmovimento fondata su un messaggio dualistico che risultò decisivo poi per leformulazioni dualistiche proprie del catarismo occidentale dei sec. XII-XIV,e che – presso i bogomili – comportò una serie di implicanze quali, oltre allagià citata forte carica astensionistica, una radicale condanna dei costumicorrotti delle gerarchie ecclesiastiche e un atteggiamento protestatario neiconfronti delle autorità politiche che si esprimeva come rifiuto del lavoromanuale, condanna delle ricchezze, invito a non prestare ossequio ai poteridello stato. Il postulato dottrinale che comandava questi atteggiamenti è cosìillustrato dal trattato composto nel 972 in bulgaro dal prete Cosma perdenunciare e smascherare la – come la definisce – ‘recente eresia’: “Essistessi gli (al diavolo) hanno dato il nome di Mammona e lo chiamano ilcreatore e l’ordinatore delle cose terrestri. E dicono che è stato lui acomandare agli uomini di prendere moglie, di mangiare carne e di bere vino:oltraggiano in una parola tutte le nostre gioie umane, e si presentano comeabitanti dei cieli, mentre chiamano servitori di Mammona gli uomini che sisposano e vivono nel mondo”. Commenta la Sfameni Gasparro: “Mentre ladefinizione di se stessi come ‘abitanti dei cieli’ illumina l’autocoscienza diindividui appartenenti ad un regime trascendente, già salvati in virtù deldistacco da tutti i valori mondani, l’affermazione secondo cui ‘non è Dio cheha fatto il cielo e la terra né tutto questo mondo visibile’ [offerta dal trattato;n.d.a.] definisce un quadro a due referenti, come nella prospettiva pauliciana:un Dio estraneo alla realtà materiale e un creatore cosmico, identificato con ildiavolo della tradizione giudeo-cristiana e, come lo stesso Cosma rivela, conil Dio dell’Antico Testamento. I Bogomili rifiutano infatti l’AnticoTestamento e condannano i profeti, che hanno parlato di propria iniziativa enon per ispirazione dello Spirito Santo. Lo scenario dualistico peraltro siarticola in maniera da lasciare trasparire una trama di rapporti fra i dueprotagonisti della vicenda cosmica e umana, i quali saranno illustrati conricchezza di particolari nelle fonti più tarde. Gli eretici, di fatto, ritenendo il

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diavolo “creatore degli uomini e di tutta la creazione”, lo chiamano anche“angelo decaduto” e ancora altri “l’economo di iniquità” (...) con chiaroriferimento alla narrazione di Lc XVI, l-9. Infine, “udendo nel Vangelo ilSignore raccontare la parabola dei due figli, fanno del Cristo il figlio anzianoe il più giovane, quello che si è traviato lontano da suo padre, designa perloro il diavolo” (...)”.[578]

Si constata, dunque, come sulla base di un’interpretazione allegorica deitesti sacri i Bogomili vengano ad elaborare un quadro dualistico di tipomitigato o monarchiano, in quanto, nella sua qualità di angelo decaduto o di‘figlio’, il creatore e attuale reggitore del mondo è originariamentedipendente da Dio, pur se dotato di una capacità demiurgica che lo costituiscesecondo principio sul piano ontologico, all’interno di una visuale – appunto –dualistica, che avrà modo di riproporsi nell’immaginario cataro, comedocumentato da polemisti cattolici e dalle confessioni di catari stessi raccoltenei verbali dell’Inquisizione.

Sul piano del culto, i Bogomili rifiutano le pratiche ‘ortodosse’ delbattesimo, della celebrazione eucaristica e della confessione, come pure ilculto delle immagini e della croce, la venerazione della Vergine. Si dannoinvece a una rigorosa pratica di astensioni e di digiuni, accompagnata dallarecita del Pater noster in varie ore del giorno e della notte. Tale prassiastensionistica doveva comprendere astensione dai cibi carnei e dal vinocome pure divieto di lavoro manuale. Dovettero tuttavia esistere, al riguardo,delle distinzioni all’interno del bogomilismo bulgaro, e nello specifico unacategoria che, sul tipo dei ‘perfetti’ manichei, riceve i mezzi di sussistenzadai comuni fedeli che si attengono, invece, alle normali regole di vita.

La struttura dualistica monarchiana delle dottrine bogomile come attestatadal Trattato di Cosma viene confermata da altre fonti più tarde, e inparticolare dall’Interrogatio Johannis. Esse offrono la narrazione miticarelativa a due figli di Dio, rispettivamente il Logos-Cristo e il diavolochiamato Satanael, qui detto il maggiore dei due, il quale, a capo dellegerarchie angeliche, per amore di potere e per orgoglio si ribella al Padretrascinando nella defezione molti angeli preposti alla custodia dei cieli eprocede all’ordinamento degli elementi materiali per la formazione del

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mondo e alla formazione dell’uomo. L’antropogonia offre temi di assonanzagnostica: il corpo viene plasmato dal Demiurgo, il quale, incapace dianimarlo, o provvede alla incarcerazione nella prima coppia di angeli,oppure, secondo diversa fonte, richiede l’intervento di Dio affinché introducail suo “spirito di vita” nella nuova creatura. Tipicamente gnostico e manicheoè anche il motivo dell’“invidia” del Creatore nei confronti di un’umanità chesi rivela a lui superiore in virtù della presenza nel corpo umano di unelemento di origine divina (angelo o “spirito di vita”). Mosso da tale invidia,il Demiurgo si unisce a Eva generando da lei due figli. “Il tema encratitadell’origine diabolica di nozze e generazione assume qui, come negli schemiantropologici dello gnosticismo a tendenza astensionistica e nelmanicheismo, la forma crudamente realistica di un ripugnante coniugio fra ildiavolo/serpente e la donna, fondamento e modello delle nozze umane. Ilrifiuto di queste nella prospettiva etica dei dualisti, pertanto, si configura intutta la sua carica ontologica di condanna di una realtà intrinsecamentenegativa, implicante commistione indebita di sostanze estranee(materiale/demoniaca e spirituale/angelica), al di là delle valenze etico-ascetiche del comportamento astensionistico in questione. Il livello delleattività sessuali e della generazione è anzi focus privilegiato dimanifestazione dell’antisomatismo e dell’anticosmismo da cui si qualifica lavisione dualistica bogomila”.[579]

Il mito bogomila continua narrando come il Padre celeste, riconoscendosiingannato in quanto privato di potere sulla creatura che aveva contribuito acreare e avendo pietà dell’anima che egli stesso aveva insufflata, e che pativacosì miseramente, emanò il Logos per smascherare il signore del mondo.Senza nulla assumere di materiale, il Salvatore discende dall’alto (secondouna peculiare reinterpretazione dell’Incarnazione, per la quale Cristo simanifesta attraverso l’orecchio destro della Vergine, essa stessa un angelosecondo l’Interrogatio), rivela i misteri nascosti, avversato dal Creatore vienemesso a morte ma, dopo l’apparente sconfitta, risorge e smaschera il Malignolegandolo nelle profondità del Tartaro.

E veniamo, da ultimi, ai Catari.Preceduta da alcuni episodi ereticali fioriti nell’XI sec., a partire dalla

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metà del XII sec. è attestata la presenza in Francia, in Italia, in Germania dieretici dalla netta fisionomia dualistica denominati Catharoi (‘puri’). Tra ifattori che contribuirono alla nascita e alla diffusione del movimento catarovanno posti la sollecitazione da parte dei dualismi orientali, sulla base delladiffusa azione in Occidente di esponenti del bogomilismo, l’aspirazione aduna rigenerazione dei costumi di contro ad una pratica cultuale sclerotizzata ead una gerarchia in larga parte mondanizzata o comunque compromessa con ipoteri politico-economici.

La ricca documentazione di cui disponiamo sui Catari si compone, da unlato, di testimonianze indirette di polemisti e teologi ortodossi, costituite perlarga parte da opere di confutazione dell’eresia catara; dall’altro lato, di fontidirette, promananti dagli stessi ambienti catari, relative alla dottrina e al culto.Fra queste, i registri dell’Inquisizione, che permettono di ascoltare – purfiltrata dalla formulazione stereotipa propria di documenti di tal genere – lavoce di uomini e donne, semplici fedeli o “perfetti”, che parlano della propriaesperienza religiosa e delle proprie attese di salvezza. Fra i documentioriginali catari vanno anche ricordati, oltre all’Interrogatio Johannis diorigine bogomila, il Liber de duobus principiis (“Libro dei due principi”), cheelabora un’articolata speculazione di tipo dualistico radicale e riflette leposizioni di un maestro cataro, Giovanni di Lugio, e il testo del rituale catarodel consolamentum pervenuto in due redazioni, in lingua provenzale e latina.

La fitta rete di contatti instauratisi tra Oriente e Occidente in occasionedelle varie spedizioni militari per la conquista dei luoghi santi costituì uno deiprincipali canali di trasmissione all’Europa occidentale del messaggiodualistico. In Francia e nell’Italia del nord si formano così diverse comunitàle quali, pur nel fondamentale postulato dualistico che, come già perPauliciani e Bogomili, distingue e oppone il Dio sommo padre di Cristo almalvagio creatore e signore del mondo identificato con il diavolo (Satana oLucifero), conoscono posizioni diverse per quanto riguarda il problema deirapporti fra questi due principii, venendosi così a originare accesi contrasti trale varie comunità. Si distingue, infatti, una formula di tipo assoluto oradicale, implicante l’originaria indipendenza del diavolo rispetto a Dio, euna formula di tipo mitigato o monarchiano che fa del primo un angelo

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(talora un ‘figlio’ come per i Bogomili) ribelle e decaduto, ma autorecomunque di una sua creazione (il cosmo e l’uomo) a partire dagli elementicosmici. Mentre le varie chiese di Francia aderiscono al dualismo assoluto esi viene a costituire, soprattutto nelle regioni meridionali, una salda tradizionecatara di ispirazione radicale, in Italia si giunge alla formazione di due grandicorrenti, gli Albanenses della chiesa di Desenzano, di osservanza radicale, e iGaratenses (seguaci del vescovo Garatto di Concorezzo), di osservanzamonarchiana.

Nel corso del XII secolo il catarismo si sviluppa notevolmente,penetrando in larghi strati della società europea e in particolare tra borghesi(mercanti e artigiani) e aristocratici, e conosce il suo massimo fiorire nel XIIIsecolo.

“Allorché la lotta del fenomeno ereticale condotta sul duplice piano deldibattito teologico e dell’esempio di una rinnovata vita cristiana, fondata suivalori della povertà e della carità, fornito dall’ordine francescano, si rivelòimpotente ad arginarlo, le autorità ecclesiastiche appellarono all’aiuto delbraccio secolare. Con la costituzione di Federico II contro gli eretici lombardi(1222) e successivamente contro quelli tedeschi (1232), fu giuridicamenteformulato il delitto di eresia equiparato a quello di lesa maestà e pertantopassibile della pena di morte sul rogo. Nel 1233, con l’istituzionedell’Inquisizione ad opera di Gregorio IX, fu affidato all’ordine domenicanodi predicatori il compito di estirpare l’“eretica pravità”, procedendo allaricerca degli eretici per indurli all’abiura e, se pervicaci nell’errore,consegnarli al tribunale secolare. L’azione congiunta dei poteri religiosi ecivili riuscì gradualmente a sopraffare le diverse comunità catare, in Franciaduramente provate già all’inizio del XIII sec. dalla cosiddetta Crociatacondotta dalla nobiltà del Nord contro gli Albigesi, ossia i Catari provenzali(12081226) sostenuti da larga parte della nobiltà locale ostile al regno diFrancia. La presa della fortezza catara di Montségur (1244) inferse un altrocolpo mortale alla tradizione dualistica che peraltro persistette ancora inProvenza e conobbe una momentanea ripresa tra la fine del XIII e gli inizi delXIV sec. soprattutto ad opera di un “perfetto”, Pierre Autier, ritornato inpatria dalla Lombardia dove la situazione politica permetteva una più

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tranquilla esistenza alle varie comunità catare.Nel corso del XIV sec. peraltro, nonostante sporadici episodi di

reviviscenza, l’estinzione della tradizione dualistica in Occidente può dirsicompiuta”.[580]

Veniamo più da vicino alle dottrine catare, principiando da quelledualistiche mitigate o monarchiane.

“Posto il comune fondamento dualistico, le numerose comunità catarediffuse in Italia, in Francia, in Germania e nei Paesi Bassi, divergono nelladefinizione dei rapporti fra i due contrapposti princìpi della realtà,esprimendo peraltro le rispettive posizioni dottrinali non in rigorose formuleteologiche (con l’eccezione del “maestro”filosofo Giovanni di Lugio) bensìin una serie complessa di affabulazioni mitiche, liberamente variando sualcuni temi essenziali, di preminente contenuto angelologico (...). Il dualismo“monarchiano” si caratterizza per la nozione di un Dio unico, creatore deiquattro elementi materiali e di un variegato mondo angelico, cui appartienequel Lucifero che, insieme con un certo numero di angeli, sarà scacciato dalcielo a causa di una colpa. Sulla natura di tale colpa si registrano duetradizioni, di cui l’una espressa nella bogomila Interrogatio Johannis, implicaribellione del personaggio (identificato al villicus iniquitatis evangelico), suacaduta nel livello inferiore insieme con altri angeli e plasmazione del cosmo edei corpi umani in cui sono imprigionati due angeli inviati da Dio. Soggette aun processo di incarnazioni successive, le creature angeliche potrannoottenere liberazione solo attraverso la penitenza e la pratica di vita catara. Laseconda tradizione, a carattere esoterico, implica l’esistenza nel caosprimordiale di uno spirito malvagio, quadriforme, che seduce Luciferodisceso fino ad esso. Tornato nel mondo celeste, Lucifero convince allaribellione altri angeli e con essi viene espulso e precipitato in basso, Nonriuscendo a dividere gli elementi primordiali per formare il mondo, il diavoloottiene da Dio l’invio di un angelo buono. Questo però sarà poi introdotto conla violenza nel corpo del primo uomo. Eva, contaminata dal serpente, siconiuga con Adamo e da queste nozze avrà origine l’umanità, discendendotutti gli spiriti dall’unico angelo incarcerato in Adamo”.[581]

Per quanto concerne, invece, le formulazioni dualistiche di tipo radicale:

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“Le fonti sono concordi nell’attribuire ai Catari della chiesa di Desenzano(Albanenses) la credenza in due dei, rispettivamente buono e cattivo, principiisenza inizio né fine, creatori entrambi, l’uno del mondo celeste e degli angelibuoni, l’altro degli angeli cattivi e del mondo materiale. Lucifero è ritenutofiglio del dio malvagio e protagonista di una singolare impresa di seduzione edi lotta nei confronti del regno celeste del Dio Buono. Egli infatti si“trasfigura” in angelo di luce e, per intercessione degli angeli ammirati dellasua bellezza, viene accolto nel mondo divino e qui nominato amministratore(villicus) della corte angelica. Ma tosto Lucifero seduce parte degli angeli eingaggia una terribile lotta con gli altri guidati da Michele.

A questa versione del mito riferita nel De heresi catharorum, alternano inaltre fonti narrazioni relative ad una violenta incursione di Lucifero e dei suoiangeli malvagi nel cielo, da cui sono scacciati ad opera dell’arcangeloMichele e degli angeli buoni. Nell’una e nell’altra tradizione, comunque, èessenziale il motivo della cattura di una terza parte degli angeli celesti. Questiinfatti sono ritenuti formati da tre elementi: corpo, anima, spirito. I corpiangelici rimangono inerti nel cielo mentre le anime sono catturate daLucifero, incarcerate nei corpi umani e sottoposte ad un inarrestabile ciclo dimetensomatosi che potrà avere fine solo quando esse, conosciuta la verità sutale tragico “prologo in cielo”, prenderanno coscienza della propria natura edignità. In questo processo salvifico essenziale è il ruolo dello spirito, l’“io”celeste non toccato dal contagio demoniaco: esso, “custode dell’anima e suaguida” (...), instaura con essa un rapporto di singolare pregnanza “gnostica”.Dopo la caduta dell’anima, infatti, lo spirito vaga alla sua ricerca “e quandol’ha trovata, le parla e l’anima risponde. E tosto l’anima riconosce lo spiritocol quale fu nel cielo, allora si ricorda che in cielo ha peccato e comincia afare il bene in luogo del peccato commesso””.[582]

E veniamo, da ultimo, all’organizzazione delle comunità catare e nellospecifico alle loro prassi etiche e liturgiche: “Se il panorama dottrinalepresenta numerose varianti e spesso vede polemicamente contrapposti irappresentanti dei vari “ordini”, uniformi sono invece la strutturaorganizzativa, la prassi etica e liturgica del movimento cataro, configurandoun’esperienza religiosa sostanzialmente omogenea in tutte le sue

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manifestazioni nel tempo e nello spazio.Alla base di tale compattezza stanno i precetti di un’etica rigorista che,

nella percezione acuta della negatività ontologica della materia e dellasessualità, impone l’astensione dall’unione fisica, dalla generazione edall’uso dei cibi di origine animale, prodotti cioè da tali attività (carni, uova,formaggi). Se in linea di principio tali astensioni si impongono a tutti i fedelie comunque sono condizione imprescindibile per la salvezza, nella suaspecifica dimensione di fuga dal ciclo cosmico delle metensomatosi e ritornoall’originaria condizione angelica, in pratica l’osservanza di questi divieti èimposta solo ai “perfetti”, ossia a quanti hanno ricevuto, con ilconsolamentum, il dono celeste dello Spirito pervenendo nella condizione di“salvati”.

Si costituiscono così due classi, quella dei “consolati” detti anche eretici“vestiti” e dei semplici “credenti” che, pur accettando l’insegnamentodualistico, non hanno praticato il rito del consolamentum e quindi continuanoa vivere secondo le comuni regole del mondo, coniugandosi ed esercitando lenormali attività. Costoro sono tenuti a fare atto di venerazione (ilmelioramentum) nei confronti dei perfetti e talora stabiliscono con essi unpatto (detto convenentia nel linguaggio dei catari provenzali) secondo cui, inpunto di morte, riceveranno il “battesimo dello Spirito”.

Nel XIII sec., soprattutto nel Catarismo provenzale è attestato l’usodell’endura ossia della pratica dei malati di astenersi dal cibo dopo ilconsolamentum per morire in stato di perfezione spirituale assicurandosi lasalvezza. (...)”.[583]

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3.4 Monoteismo e dualismo

A margine della presentazione, di cui sopra, di religioni e movimentidualistici, rimangono alcune osservazioni sul rapporto tra le due categorie,del monoteismo e del dualismo, nella specifica accezione che esse rivestononell’ambito degli studi storico-religiosi.

Si può affermare che tra le due categorie vi è una distinctio inadaequata,nel senso che vi è un settore che è comune ad entrambe, ovvero vi sono dellerealtà storiche che sono al contempo monoteistiche e dualistiche. Questacoincidenza di monoteismo e dualismo si realizza, per quanto concerne ilcampo delle religioni, fondamentalmente nello zoroastrismo e per quantoconcerne il campo delle tendenze o dei movimenti all’interno di una specificatradizione religiosa, nelle correnti dualistiche medievali. All’uno e alle altreabbiamo sopra dedicato la nostra attenzione. Bisogna tuttavia approfondire,qui, quali siano le caratteristiche che intervengono a segnare un orizzontereligioso monoteistico quando esso si qualifichi anche in senso dualistico.

In un monoteismo dualistico, innanzitutto, la presenza di un secondoprincipio negativo e fonte di realtà ontologicamente negative, sembraliberare, per così dire, il dio unico dalla responsabilità del male ovvero daogni forma di compromissione col male. E taluni studi hanno interpretatoproprio il dualismo come una protesta nei confronti del monoteismo,[584]motivata dalla constatazione della presenza ineliminabile del male nelmondo.

Ma se il dio, al centro di un orizzone monoteistico, è liberato dallaresponsabilità del male, esso è al contempo fortemente condizionato ecompromesso dalla presenza dell’‘avversario’, ovvero del male comesecondo principio.

Si può, infatti, constatare come una impostazione dualistica che affianchial dio unico un secondo principio si risolva nella riduzione e nellamortificazione della potenza del dio unico, il quale nei contesti monoteisticinon dualistici si connota tipicamente come onnipotente. Gli studi hannoillustrato il tema, squisitamente dualistico, dell’insufficienza del dio creatore,della sua incapacità a far fronte a eventi causati dall’avversario, ovvero quello

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di una sua più o meno estesa, anche se per lo più provvisoria e relativa,impotenza rispetto all’avversario e alle iniziative di questo. Hanno inoltremostrato come siffatto tema sia ampiamente diffuso in Iran al di fuori dellaletteratura mazdaica ortodossa e in un’ampia area folklorica dell’Europaorientale oltre che in ambito etnologico.[585]

Un monoteismo dualistico – in sostanza – comporta una ‘diminuzione’dell’idea monoteistica in quanto viene a compromettere fortemente il diounico, per quanto concerne la sua potenza e ad affermare la di lui nonuniversale creatività o almeno la non universale signoria.

Legata a questa caratteristica è una ulteriore, per la quale la presenza abaeterno di un principio negativo a fronte del dio, nei contesti dualisticiradicali, finalizza l’agire del dio. Detto in altre parole, il male – inteso comeprincipio ontologico nei contesti dualistici – condiziona il primo principio neisuoi atti e finalizza l’azione del bene, del bene inteso come primo principio.

In tale prospettiva si colloca il tema della creazione in ambitozoroastriano. Essa è intrinsecamente positiva, in quanto frutto della attivitàdel dio ‘buono’, l’Ahura Mazda delle fonti più antiche o l’Ohrmazd dei testipiù tardi. Ma, ove è esplicitato – come nel trattato teologico medioevaleBundahishn – il motivo della creazione quale necessario campo di battagliasu cui attirare e sconfiggere l’avversario, ovvero l’anti-dio Ahriman, unavversario che il dio buono non può evitare che esista e non può altrimentisconfiggere, stante tra i due alle origini il vuoto, ecco che la creazione stessanon appare più, come invece in ambito biblico, il frutto di un atto di liberavolontà, ma appare come un evento a cui il creatore è mosso da uncondizionamento a lui esterno, appunto la presenza minacciosa e inquietantedell’antidio, il principio negativo, da sempre a fronte del dio.

In ambito manicheo, poi, risulta particolarmente evidente come lapresenza del secondo principio, la materia demoniaca, condizioni l’agire delprimo principio, il dio,[586] e risulta anche evidente il carattere necessariodel mondo, concepito come una grande macchina – del tipo dei mulini idricidell’antica Mesopotamia – costruita da entità divine con la materia tenebrosae funzionante per recuperare la sostanza divina dispersa e frammentata nellamateria.

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4. Monismo

Prenderemo qui in considerazioni le espressioni monistiche nell’ambitodelle tradizioni religiose mentre non ci occuperemo del monismo in ambitopiù propriamente filosofico.

Il monismo[587] afferma la derivazione della realtà da un unico principiosecondo modalità che vengono a comportare la sostanziale unità di tutte lecose, ovvero l’unità della realtà e pertanto una immanenza del divino nelmondo. Il Tutto è divino e il divino permea il tutto (panteismo). Le dueposizioni, monismo e panteismo, esprimono sostanzialmente modi diversi diguardare la medesima realtà, monistiche se si guarda al principio, panteistichese si guarda al rapporto tra questo e il mondo.

Il termine’panteismo’ (da pan, tutto, e theos, dio) nasce con l‘inglese J.Toland che nel 1705 si disse ‘panteista’ e chiamò Pantheistikon la sua ultimaopera apparsa postuma nel 1720. Si definisce panteistica ogni posizionefilosofico-religiosa che consideri l’Assoluto come impersonale osemipersonale e come non distinto dal mondo, ovvero che identifichi in variomodo il divino e il mondo.

Si danno del panteismo due forme diverse e in certa misura opposte. Laprima è costituita dal panteismo ‘cosmico’ o ‘immanentistico’, che accentuala presenza dell’assoluto in tutte le realtà ‘finite’. La seconda è costituita dalpanteismo ‘acosmico’, che viene come ad annullare nel loro essere proprio edistinto le realtà ‘finite’, ridotte a pure manifestazioni dell’Assoluto. Reale èsolo l’Assoluto o il divino e il resto è non-reale, illusione, senza propriasostanza.

Il tutto non è ciò che appare essere nella molteplicità delle nostrepercezioni, ma o è per essenza un’unica realtà divina (il divino è l’unità di ciòche esiste), o è essenzialmente un’illusione.

Una distinzione essenziale nell’ambito delle religioni è quella tra sistemiteistico-creazionistici e sistemi monistici.[588]

Nei primi si dà l’idea di un essere divino concepito come personale ecome creatore trascendente la realtà creata.

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Nei secondi si dà la nozione di un essere impersonale o semipersonale,una arché, o principio, concepito come la fonte dell’essere e del divenirecosmici. Qui un’ampia tipologia religiosa potrebbe venire evocata: il Tao cheè Uno, anzi precedente l’Uno, e che fonda, nella cosmogonia cinese, lo Yin elo Yang, i due principi dell’individuazione, la cui distinzione e unionegeneratrice forma gli esseri di questo mondo; lo Sfero primordiale nellavisione empedoclea, al quale, espressione della originaria totalità e perfezionedell’essere, una volta aggredito dal principio di distinzione, Neikos, segue ladistinzione degli elementi cosmici; l’Uno di testimonianze orfiche: una tipicaimpostazione monistica, quella che lo ha come proprio, e secondo la quale lamolteplicità di forme che cade sotto i nostri sensi nasce per frammentazionedell’unico (monos) principio, appunto l’Uno, e all’Uno è chiamata a ritornare.Una dialettica, quella dall’Uno al molteplice e dal molteplice all’Uno che nonconosce soluzione. Infatti una visione monistica è fondamentalmente astoricae non conosce l’escatologia.

Si pensi, poi, all’Uno della speculazione indiana del Veda tardo e delleUpanishad (a cui faremo più avanti esplicito riferimento); si tratta di unsistema monistico caratterizzato dalla idea dell’Uno, il Brahman, entitàsostanzialmente impersonale, o anche di Brahma, che ha una maggiore caricadi personalità, ma che comunque rimane una arché e non può essere messasullo stesso piano di un dio vigorosamente personale, quale Jahvé. Unadifferenza che si traduce in un’altra e corrispondente differenza, quella tral’attività creatrice di Jahvé, che non introduce alcuna compromissione nelladi lui personalità, e il rapporto esistente tra il Brahman e il cosmo, che delBrahman è la manifestazione e estrinsecazione, in un quadro che è appuntomonistico.

Si comprende, dunque, come monoteismo e monismo si escludano avicenda: il primo è teistico, cioè si basa sul concetto di divinità personaledistinta dal mondo, ed è creazionistico; il secondo, per le caratteristiche sopraesposte, implica una posizione panteistica. Ma più in generale si potrà direche i sistemi di tipo monistico e panteistico si distinguono dai sistemi teistici,nei quali cioè la personalità degli dei è distinta dal cosmo, sia che la divinitàtrascenda il cosmo, come nel mondo biblico, sia che questa in qualche modo

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ne faccia parte, come nei sistemi politeistici quali, ad esempio, quello greco equello indiano più antico. E non sarà un caso che proprio su sistemi di questosecondo tipo si esercitarono di preferenza le interpretazioni di tipo monistico.

Bisogna però precisare, prima di approfondire la tematica del monismo,che il mondo religioso indiano non conobbe da sempre queste formulazionimonistiche. La letteratura vedica, che costituisce la testimonianza più anticadella religione indiana, pur conoscendo tendenze monistiche soprattutto nelleparti più recenti (come il primo e il decimo libro del Rigveda),[589] vedepredominante un quadro di natura politeistico-naturistica, per il quale divinitàdi varia natura si agitano in un cosmo che è come un vasto teatro, talune diuna particolare consistenza personalistica, come Indra, il dio tempestoso, che,abbattendo il mostro primordiale Vrtra, realizza le condizioni di esistenza peril cosmo, o come Varuna, demiurgo (più che creatore) e custode della leggeuniversale, lo rta, che regola (con una qualche analogia con la nozione grecadi Dike) il corso delle cose cosmiche e umane, avendo pertanto unriferimento cosmico ed etico insieme. Invece, delle quattordici più importantiUpanishad sopravvissute, mentre alcune sono orientate in senso teistico, altreesprimono posizioni monistiche:

In verità al principio questo universo era soltanto il Brahman. Esso conobbe se stesso dicendo:‘Io sono il Brahman’. Da lui tutto l’universo derivò. E chi tra gli dei si levò a tale conoscenza,diventò lui pure Brahman (...). E ancora oggi colui che sa di essere il Brahman diventa questouniverso. (...) Come un ragno secerne la sua tela, come le scintille sprizzano dal fuoco, così daquesto Sé emergono tutti i soffi vitali, tutti i mondi, tutti gli dei, tutti gli esseri.[590]

E ancora:In verità questo mondo intero è il Brahman, da cui proviene, senza il quale si dissolverebbe e

nel quale respira.[591]

Monistica appare anche, sempre in ambito indiano, l’impostazione dibuona parte della letteratura vedantica, ossia di quei testi che danno voce auna tradizione filosofico-religiosa, il Vedanta, caratterizzata dalla riflessionesistematica sugli antichi Veda e sulle Upanishad (c.800-400 a.C.). Allatradizione vedantica si allaccia il sistema advaita (‘non duale’) del qualegrande rappresentante fu il mistico Shankara (VIII-IX sec. d.C.) e che puòessere considerato come una paradigmatica espressione di monismo.Shankara interpreta la nozione di brahman offerta dalle Upanishad nel sensodell’ammissione di due aspetti del brahman, ossia il brahman nirguna

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(l’indeterminato) e il brahman saguna (il determinato). Quest’ultimo includequalsiasi realtà cosmica, umana e divina, che solo apparentemente è separatadal brahman ma in realtà è lo stesso brahman.

Torniamo alle caratteristiche più generali dei sistemi monistici. Essigeneralmente si pongono anche come evolutivi, per cui si parla di sistemimonistico-evolutivi, contrapposti, come sopra si segnalava, ai sistemiteistico-creazionistici.

Infatti, a differenza di quelli teistico-creazionistici, ma al pari dellamaggior parte dei sistemi politeistici, i sistemi monistici conoscono deiquadri teogonici, ossia narrazioni mitiche concernenti la nascita degli deiall’interno di un’impostazione genealogica che parta da entità originarie dicarattere semipersonale, quadri che spesso sono anche cosmogonici,realizzandosi in essi anche la nascita delle entità naturali, prime fra tutte ilcielo e la terra, quelle entità che in un sistema creazionistico sono invecedovute all’opera creatrice del dio. Tuttavia, mentre nelle teo-cosmogonie deipoliteismi le entità cosmiche e le persone divine pur derivando dalle entitàprimordiali mantengono una loro individua e separata esistenza e, nel casodegli dei, una personalità obiettiva, e non si offrono come provvisoriemanifestazioni o frammenti rispetto ai principi o al principio primordiale, ocomunque non sono chiamati a risolversi in essi o in esso, queste ultimecaratteristiche si danno invece nelle teo-cosmogonie proprie dei sistemimonistici.

Le narrazioni teo-cosmogoniche tipiche dei sistemi monistici pongonoalla base del tutto un Uno, il quale, nelle sue diverse formulazioni, vienevolentieri presentato come l’Indistinto, il Non manifestato, il Notturno, ilDormiente. Talora questo Uno primordiale rappresenta l’indistinzione caoticae notturna da cui emerge l’essere come espressione di razionalità edistinzione. È il caso di quegli orfici che ponevano alla base delle propriecosmogonie la Notte, alla quale facevano seguire l’Uovo cosmico, dal cuiaprirsi emergeva Phanes, il demiurgo, mentre la parte superiore del gusciodava luogo alla formazione del cielo e quella inferiore alla formazione dellaterra. Ma più spesso l’orfismo integrava una diversa posizione, quella per laquale l’unità primordiale ha un aspetto di positività e di completezza, che si

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perde attraverso l’individuazione degli esseri, che rappresenta unaframmentazione e in definitiva un impoverimento.

Le concezioni monistiche tendono, così, a svalorizzare il distinto e ilmolteplice, sia che al molteplice venga riconosciuta solo un’esistenzaillusoria come nella speculazione prevalente nelle indiane Upanishad, sia chead esso venga riconosciuta una esistenza reale, seppur di cifra negativa, inbase alla quale il nascere, piuttosto che illusione, è male. Ne consegue, inentrambi i casi, la tendenza ad annientare il tempo riassorbendolo in unaconcezone ‘ciclica’ che contempla, appunto, il periodico o ciclico ritorno allaorigine una e indistinta da parte di tutti gli esseri, umani e divini, come puredelle realtà cosmiche.

Torniamo alla contrapposizione tra sistemi monistici e sistemi teistici, pervalorizzare un ulteriore elemento di distinzione.

In una religione teistica, l’apice del divino è ‘persona’, sia essa declinataalla maniera politeistica, sia essa declinata alla maniera monoteistica.L’essere personale, divino, è un valore ultimo e non superabile dietro al qualenon si può afferrare, per così dire, nulla di più grande. Eccezioni a questacaratteristica sono tuttavia le interpretazioni e legittimazioni ‘filosofiche’ delpoliteismo – alcune di quelle forme del ‘monoteismo pagano’ cui sopra s’èfatto riferimento – che intravedono dietro alla pluralità una unità trascendentee inconoscibile nella sua essenza ultima.

Per larga parte dell’induismo, almeno là dove su un sostrato politeistico siespressero le interpretazioni monistiche, e per il buddhismo (che in questooffre profonde tangenze con un pensiero monistico), invece, l’‘assoluto’ staal di là del personale, e, specificamente nel buddhismo, rimanere sul pianodel ‘personale’ vorrebbe dire rendere eterna quella sete di esistere che – inquella visione – è la fonte della sofferenza; superarlo, invece, per approdareal puro nulla è lo scopo ultimo della tensione religiosa.

È stato osservato in alcuni studi come le religioni asiatiche, compreso ilbuddhismo, si trovino per un aspetto in continuità con talune espressioni delpoliteismo, pur così diverso sotto molteplici aspetti da esse, e nello specificocon quelle interpretazioni del politeismo in senso monarchico e verticale cuisopra si faceva cenno. Anche per le religioni dell’Asia, l’assoluto divino è

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sovrapersonale e perciò non destinatario di atti religiosi positivi, che non hala possibilità di percepire e che dunque sarebbe insensato dedicargli. Tali attisi possono indirizzare solo alle immagini riflesse dell’Assoluto, gli dei. Epertanto questi non sono l’ultimo, ma il penultimo. Mentre nell’occidente enel vicino oriente il profetismo biblico e la filosofia greca si confrontavano,sotto questo aspetto, con il problema del politeismo, nello stesso periodoanche la religiosità asiatica faceva qualcosa di analogo, nel momento in cuiintendeva l’intera religiosità positiva solo la penultima parola, laddovel’ultima parola per l’induismo veniva ad essere l’unione con l’assolutoimpersonale del Brahman e per il buddhismo era costituita dalla ‘negazione’anche di quello, sola possibilità di liberazione dal penultimo e di ingressonell’ultimo.

Sotto altri aspetti, invece, larga parte della religiosità asiatica sidifferenzia nettamente dal politeismo, e in particolare nel suo ammettere leentità divine personali come chiamate a riassorbirsi ciclicamente nell’assolutoal pari della realtà cosmica, la quale peraltro è concepita nella suamolteplicità e distinzione come pura apparenza, essendo l’assoluto l’unicacosa reale.

E veniamo, ora, ad approfondire le nozioni di ‘distinzione’ e‘indistinzione’ come legate, rispettivamente, ai sistemi monoteistico-creazionistici e ai sistemi monistico–evolutivi. Una differenza essenziale –infatti – interviene tra questi ultimi, che pongono alla base del tutto un Unoimpersonale o semipersonale e i primi, che pongono alla base della realtà unUno che è ‘persona’.

In una concezione monistica “si ha una consustanzialità degli esserimolteplici rispetto all’Uno, che crea un drammatico (per quanto non semprecosciente) nec tecum nec sine te, per cui il singolo non può esistere chespezzando e impoverendo l’Uno, da cui esso sfugge per essere se stesso, e acui deve in qualche modo ritornare per essere ancora se stesso, ma anche perannullarsi in lui. Nella visione creazionistica, invece, [scil. si ha] unaconcezione ‘creaturale’, con degli esseri finiti e molteplici: i quali hannoanche essi una vocazione di ritorno all’Uno, che però lascia intatto il caratterecreaturale dell’essere finito. Qui l’Uno è insieme il supremamente distinto

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(...) e la sorgente degli esseri creaturali, anch’essi distinti: per cui l’indistintoè confinato in una negatività senza riscatto. La distinzione degli esseri finiticoincide con la loro venuta alla esistenza, e questa distinzione si realizza noncome colpevole o illusoria rottura di una indistinzione primordiale, ma comeuna partecipazione alla suprema distinzione di un primordiale che è Persona,e persona sommamente distinta, ‘assolutamente’ distinta”.[592]

Rimangono qui, solamente, da ricordare due tematiche legate almonismo.

La prima, in altra sede maggiormente sviluppata, è la componibilità nellastoria delle religioni tra monismo e dualismo. Essa si realizza, ad esempio, insistemi gnostici quali il valentinianesimo, ove l’aspetto monistico èfortemente presente e attestato dalla nozione della consustanzialità dellopneuma (l’elemento divino) che è nell’uomo con il pleroma divino (la‘pienezza’ del mondo divino), come pure dalla nozione della derivazione(diretta) della sostanza divina e (indiretta) della sostanza non divina, ovveropsichica e materiale, dal principio primo divino. L’aspetto dualistico èpresente nel momento in cui si identifica nella crisi che occorre al divinoperiferico, la Sophia del sistema valentiniano, il secondo principio, fonte escaturigine immediata delle realtà non divine, ovvero la psichica e lamateriale.

Ma tematiche monistiche sono presenti anche nei sistemi gnostici cheesprimono un dualismo radicale, come il manicheismo, ove la componentemonistica è data, ancora una volta, dalla consustanzialità tra la luce o ildivino ‘alto’ e la sostanza luminosa e divina frammentata e dispersa nellamateria. Anche il sistema di Empedocle è un buon esempio di dottrina alcontempo dualistica e monistica.

La seconda tematica, che qui però non svilupperemo, concerne lapresenza di aspetti monistici e panteistici in larga parte della cosiddetta‘nuova religiosità’ e in particolare in quelle posizioni ascrivibili a New Agenelle quali si afferma che l’‘io’ è chiamato a entrare nella corrente di energiavitale che pervade il tutto.[593]

Nella ‘nuova religiosità’, infatti, una religiosità “senza Dio e senzaChiesa”, per larga parte erede delle tradizioni esoteriche moderne e i cui

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rapporti con lo gnosticismo tardoantico sono oggetto di un’ampiabibliografia, domina una concezione monistico-panteistica del divino.Questo, persi i tratti personali del Dio al centro degli orizzonti monoteistici, siè trasformato nell’Energia cosmica che costituisce il fondamento del Tutto.

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4.1 Induismo

Offriamo qui una sintetica presentazione dei fondamentali aspettidottrinali che caratterizzano le due tradizioni religiose orientali, vale a direl’induismo e il buddhismo, alle quali si è fatto sopra cenno in relazione alladescrizione delle caratteristiche del monismo in ambito religioso.[594]

Principiamo con l’induismo.Il termine ‘induismo’[595] non indica una tradizione ben precisa e

definita, ma un insieme di credenze e relative narrazioni mitiche, pratichecultuali e sistemi speculativi, che si sviluppano e si moltiplicano a partiredall’iniziale vedismo. Il termine ‘induismo’ è stato introdotto dagli europeicon evidente riferimento etnico-geografico al sub-continente indiano,crogiuolo di etnie e lingue diverse, laddove l’induismo designa se stessocome dharma, o ‘legge’, ‘norma’ (con l’esplicitazione sanatana, ‘eterna’, edunque sanatanadharma, ossia ‘legge eterna’) ma non in senso puramentelegalistico, bensì nel senso ampio di un fascio di norme di vita fondate su unaparticolare visione del mondo.

La legittimità del termine induismo per designare la religione tradizionaleindiana, religione etnica, che non conosce la figura di un fondatore storico,[596] è oggi messa in forse da diverse parti. Vi è chi propone di eliminarlaovvero opera una radicale decostruzione del vocabolo e chi invece la ritieneutilizzabile pur se da assoggettarsi a una doverosa riflessione critica.[597]

Induismo (o hinduismo) deriva da hindu, che è termine non emico,ovvero non di origine indiana, ma di origine persiana, e che originariamentedesigna al singolare il fiume Indo e al plurale ‘quelli che vivono sulle rivedell’Indo’. Hindu designa dunque nel suo significato originariosemplicemente gli Indiani (indoi per gli antichi Greci), ovvero coloro cheabitavano sulle sponde dell’Indo. Successivamente fu applicato a una identitàreligiosa solo per via di esclusione. Esso infatti è venuto ad indicare, da partedi popolazioni straniere e precisamente da parte degli invasori islamici che apartire dall’VIII sec. d.C. hanno cominciato a mettere radici nella partesettentrionale del subcontinente indiano, coloro che non aderivano a nessunadelle religioni del libro (ebraismo, cristianesimo, islamismo). Il termine

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induismo poi comincia ad essere applicato dai colonizzatori inglesi, nel XIXsecolo, per designare coloro (hindu) che non seguono né una religione dellibro né alcuna delle religioni indiane fondate, vale a dire lo jainismo, ilbuddhismo, il sikhismo.

La storia dell’induismo si suole dividere in periodi e fondamentalmente inquello precristiano e in quello postcristiano. La fase precristiana, negli studitradizionali indicata come vedismo, a sua volta viene distinta in vedismo veroe proprio, di carattere popolare e di contenuto fondamentalmente politeistico;brahmanesimo, ovvero la religione dei sacerdoti centrata sui ritualisacrificali, e infine la terza fase denominata vedantismo.

I Veda (denominazione che, collegata al latino video e al greco oida,esprime la nozione del ‘sapere’), raccolta di testi in sanscrito (detto vedico),consentono di risalire in parte alla religione e alla cultura di quellepopolazioni indoeuropee o arie che sul finire del II millennio a.C. daipassaggi a nord ovest dell’India invasero la valle del Gange e quelladell’Indo. Quivi, era già declinata una un tempo fiorente civiltà, con centriprincipali le città di Harappa e Monhenjo Daro, la ‘civiltà dell’Indo’,connessa con le popolazioni dravidiche ancor oggi occupanti l’India centro-meridionale, e tale da aver verisimilmente lasciato – questo sostrato localepre-indoeuropeo – alcune tracce in quella che successivamente, sulla basedegli apporti arii, sarebbe stata la cultura e la religione, o meglio quel fasciodi culture e quel fascio di religioni che si suole denominare con il termine‘induismo’.

I Veda sono una raccolta di testi, di età diversa, di carattereprevalentemente rituale suddivisi in quattro gruppi: il Rigveda (o ‘Veda degliInni’, ascrivibile verisimilmente al secondo millennio a.C., diviso in diecicicli, il primo ed ultimo dei quali sono i più recenti ed hanno un carattereprevalentemente mistico-dottrinale, tesi come sono ad indagare i principiidell’universo; i rimanenti, più antichi, mostrano un carattere più propriamenterituale e si riferiscono ai culti propri delle singole divinità del pantheonpoliteistico ario; la loro recitazione è funzionale alla tutela e all’incrementodella fertilità e della fecondità); il Samaveda; lo Yajurveda, contenenteformulari rituali (mantra) e parti descrittive ed esplicative dei riti, tali da

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annunciare un genere di letteratura religiosa che avrebbe avuto grandefortuna, ovvero quello dei brahmana, nei quali alla nozione dell’efficaciasalvifica del rito viene via via a sostituirsi quella dell’efficacia salvifica dellaconoscenza o ‘gnosi’ del senso del rito; infine, l’Atharvaveda (insieme ditesti e formule rituali).

La seconda fase, o brahmanesimo, è caratterizzata dalla composizione ditesti detti brahmana,‘decisione dei brahmani’, che vengono ad aggiungersi aitesti componenti i Veda e che sono opera di coloro ai quali sono affidatil’insegnamento e la tradizione dei Veda, i brahmani o bramini, la castasacerdotale dell’India classica, il cui nome da taluni è ricondotto alla figurasacerdotale romana denominata flamen e nei quali si manifesta la forzadivina, espressa dal termine brahman. I brahmana “contengono riflessioni einterpretazioni relative al culto, di carattere esplicativo o anche narrativo:narrativo di eventi od episodi mitici che hanno un carattere di fondazione egaranzia della realtà attuale. Questa dunque poggia sull’appropriataconoscenza dei miti – le imprese degli dei che fondarono il mondo – esull’esatta interpretazione dei riti. In tal modo, il mito in qualche senso‘rappresentato’ (cioè riprodotto e reso attuale) dal rito è fondazione dellarealtà attuale e insieme oggetto di ripetizione di eventi che sono primordialima anche in qualche modo tipici e fuori del tempo, e quindi sempre attuali;l’approfondimento del mito (...) garantisce l’efficacia del rito, e di questaultima il brahmano e il fedele sommamente si preoccupano”.[598]

Il brahmanesimo – che vede i brahmani impegnati in operazionisincretistiche tra i diversi culti locali delle diverse popolazioni del sub-continente indiano e le proprie speculazioni condotte sulla base dei Veda –vede così lo svilupparsi di una complessa speculazione sopra il valoreassoluto del rito quando sia correttamente eseguito e conseguentemente soprauna sorta di subordinazione degli dei al rito stesso. In sostanza, il ruolo deisingoli dèi si fa sempre più sfuocato o quantomeno subordinato a quello delsacrificio stesso. Con la speculazione brahmanica il sacrificio viene a porsisempre più come l’atto per eccellenza che fa funzionare la grande macchinadel cosmo per sua intrinseca efficacia, fondata sul brahman come forzadivina ‘gestita’ dai brahmani. Trattasi di una forza impersonale, denominata

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con nomi diversi, come tapas,‘calore’, che pervade dei, uomini e realtànaturali e fa funzionare l’universo. Il termine brahman, che nel Veda piùantico designa quella forza ‘divina’ che trattata dai brahmani è espressa dalsacrificio ed ha efficacia ‘creatrice’ e ‘ricreatrice’ dell’universo, sarebbediventato, nella speculazione mistico-cosmosofica, o ‘filosofica’ ma in senso‘mistico’, il primo Principio, ‘sostegno’ e ‘Io’ profondo dell’universo:Brahman, appunto, talora personificato in una entità dai contorni teistici,Brahma.

I brahmana, in sostanza, contengono in germe riflessioni mistico-filosofiche che sarebbero state più tardi sviluppate dal pensiero upanishadico.Alla letteratura costituita dai brahmana si riallacciano gli Aranyaka, o ‘testidella foresta’ contenenti le speculazioni dei cosiddetti ‘asceti della foresta’basate su interpretazioni mistiche e simboliche dei riti.

Peculiari della terza fase, o vedantismo, sono le Upanishad, chiamateanche Vedanta, cioè ‘la fine dei Veda’, o ‘il compimento dei Veda’, segnatedall’aspirazione a una liberazione oltremondana definitiva e orientate insenso decisamente monistico. È la fase delle grandi scuole filosofiche in senoall’induismo e del conseguente formarsi, a partire da esso, di buddhismo ejainismo (VI sec.a.C.).

Nei secoli attorno all’inizio dell’era cristiana si assiste a una profondatrasformazione delle antiche credenze soprattutto per effetto dellapredicazione buddhista e si ha il cosiddetto induismo classico o induismo toutcourt.

Infine, l’impatto con l’islamismo e con il cristianesimo determinò quellache è considerata la terza fase della storia dell’induismo, ovvero ilneoinduismo.

Torniamo ai Veda.Nei testi più antichi del Rigveda, espressivi della religiosità dell’India più

antica, i cantori narrano le gesta degli dei potenti, concepiti in maniera più omeno antropomorfica, di un pantheon politeistico dai toni fortementemitologici.

In esso spiccano le figure di Veruna e di Indra.Varuna, assimilabile alla figura di Essere supremo di tipo teistico, è

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descritto come creatore della realtà anche se non propriamente secondo lemodalità di una creatio ex nihilo quanto piuttosto secondo quelle di unaazione demiurgica. È il dio potente che tutto vede dall’alto del cielo stellato:“Di là – si afferma nel Rigveda – osserva attentamente tutto ciò che ènascosto, ciò che avvenne e ciò che avverrà”. Lui, il dio saggio, “che ha in séla signoria, deve superare in grandezza tutti quelli che già esistono, lui comedio sommamente (fra tutti) è gradito onorare”. Con la sua forza invincibiletutela l’ordine universale del cosmo (rta; concetto che si ritrova anche in Iranove lo rta è manifestazione di Ahura Mazda, verisimilmente avente originecomune con Varuna) e ne punisce i violatori. Egli regge l’universo attraversoil suo potere misterioso ed efficace, detto maya.

Indra è il demiurgo le cui azioni si caratterizzano per la violenza, comel’atto demiurgico per eccellenza che gli viene attribuito, ovvero l’uccisionenei primordi del mostro serpentiforme Vrtra, l’‘ostacolo’, che impediva ilfluire delle acque datrici di vita e fecondità, e con esse il retto funzionamentodell’universo.

Vi sono poi, tra gli altri, Agni, il dio del fuoco (cfr. lat. ignis); Dyaus, ildio ‘cielo’, ovvero connesso con la luminosità della volta del cielo diurno evenerato con l’attributo di ‘padre’, da cui Dyauspitar (cfr. lat. Juppiter, gr.Zeus patér, a dimostrazione della vasta presenza nei relativi pantheon,ricostruita a partire dalla comparazione linguistica tra lingue di origineindoeuropea, della figura di una divinità concepita come particolarmenterilevante quando non somma, dagli attributi celesti e dalle connotazioni‘paterne’); Bhaga, il dio del destino; Mithra, il dio del contratto.

Tutte (o larga parte di) queste figure del pantheon vedico sono stateinterpretate, in una passata stagione di studi ovvero quella della cosiddetta‘scuola di mitologia della natura’, facente capo a Fr. Max Müller, come‘personificazioni’ di elementi e di processi naturali. L’indagine storico-religiosa oggi è fortemente critica nei confronti di nozioni quali, appunto,quella di ‘personificazione’, quando con tale nozione si voglia ‘ridurre’ unaentità divina ad espressione di quell’elemento della natura a cui il suo nomefarebbe riferimento, senza con ciò riconoscerle il carattere di ‘forza’ ed anzidi ‘persona’ divina, le cui competenze (gr. timai) vanno spesso al di là della

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realtà naturale implicata dal loro nome.Inoltre, tali ‘persone’ divine, spesso gli inni vedici invocano una per una e

volta per volta, quasi come divinità somme e ‘uniche’ al loro livello,dall’amplissima sfera di competenza. Da qui l’espressione ‘enoteismo’ omeglio ‘catenoteismo’ – cui sopra abbiamo già fatto riferimento – con lequali si designa negli studi la prospettiva religiosa propria di tali inni vedici,rivolti per lo più a una sola e volta per volta diversa delle figure divine delpantheon vedico.

Il rituale, in particolare sacrificale, ha nella religione vedicaun’importanza fondamentale, dal momento che il rito è concepito comefondamento della vita e potenziamento di questa e delle stesse divinità delpantheon politeistico. Il sacrificio è mezzo per ottenere vita, longevità,fecondità, prole.

Elementi di base ne sono, innanzitutto, il soma, succo spremuto da unaparticolare pianta, fonte di vita e, in un certo senso, di immortalità, bevandadi uomini e di dei, come il dio Indra che se ne inebria prima delle sue impresedemiurgiche. Appartenente già al patrimonio rituale ario, lo si ritrova anchein Iran, con il nome di haoma. Il dio Soma ne è la ‘personificazione’ e la sua‘uccisione’ rituale si lega alla spremitura della pianta dalla quale si ottiene ilsucco in questione.

Altro elemento essenziale del rituale vedico è il fuoco, Agni (cfr. lat.ignis), dio ed elemento naturale insieme, intermediario tra uomini e dei aiquali fa giungere, da parte dei primi, il sacrificio; esso è al centro di ritualidomestici e dei grandi rituali ‘pubblici’, di quelli occasionali come di quelliricorrenti, ovvero scanditi dai ‘passaggi’ propri della vita dell’individuo, o‘riti di passaggio’, quali quelli relativi alla nascita, alla iniziazione religiosadel fanciullo e alla sua introduzione presso il maestro brahmanico, alle nozze,alla morte (in relazione alla quale si è imposta la cremazione come pratica perassicurare al defunto la consacrazione ai ‘padri’ o pitaras). Essenziali per ilbenessere del defunto risultano anche le offerte eseguite dal figlio maschio,da cui l’importanza riconosciuta al matrimonio e alla procreazione.

Il rito risulta, in momenti successivi dell’evoluzione del pensieroreligioso come espresso nei Veda, al centro di una complessa speculazione

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sull’universo e la sua origine, la quale viene ad essere presentata come laesecuzione di un grande atto sacrificale. É, ad esempio, il caso di Purusha,l’Uomo primordiale, dal sacrificio del quale, compiuto dagli dei, scaturisce –secondo la narrazione offerta dal decimo e ultimo inno del Rigveda –l’universo, le cui diverse parti corrispondono ciascuna a una parte delPurusha sacrificato, il quale, per essere più precisi, è solo un quartodell’intero Purusha. Siamo nel quadro di una speculazione cosmosofica,ovvero tale da esprimere un sapere profondo intorno all’universo, un saperedi tipo panteistico e più propriamente teopantistico: il teopantismo è ladottrina secondo la quale il principio divino è per larga parte immanenteall’universo ossia si identifica con la sostanza di cui è fatto l’universo e alcontempo lo trascende, non annegando completamente in esso, ma neppureesprimendo una compiuta trascendenza. Una posizione, questa, bene espressadal particolare mitico secondo il quale, come detto, le membra sacrificate diPurusha costituiscono solo un quarto di lui. La speculazione teopantisticariguardante la figura di Purusha è confrontabile con l’interpretazioneteopatistica di Zeus (ovvero uno Zeus identico al cosmo e nello stesso tempotrascendente rispetto ad esso) in testi orfici e in un frammento eschileo sopraricordati.

A differenza dei testi più antichi del Rigveda, dunque, i suoi cicli menoantichi, ovvero il primo e il decimo, al pari dell’Atharvaveda, e le fasisuccessive del pensiero indiano hanno privilegiato, in sostanza, una viadiversa da quella della puntigliosa e corretta esecuzione rituale e inparticolare sacrificale; si passa infatti dalla percezione della efficacia salvificadel sacrificio a quella della efficacia salvifica della conoscenza della suasimbologia, ovvero dalla insistenza sul sacrificio nella sua ‘materialità’ allainsistenza sulla meditazione e comprensione del senso mistico del sacrificiostesso, un senso accessibile ai soli iniziati; e ancora, da una situazione in cuisalvifico è l’atto rituale a una situazione in cui salvifica è la conoscenzamistica ed esoterica del suo significato profondo, della sua simbologia.Insomma: una volta si sia trascorsi dal ritualismo alla ‘gnosi’, si è venutaprivilegiando la via della ricerca dell’Assoluto, attraverso un faticoso risaliredel pensiero e della coscienza verso il primo e più remoto Principio

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dell’universo, al di là degli uomini come degli dei. Tale primo Principio vienediversamente concepito e denominato.

Esemplare di tale direzione della ricerca è un famoso inno (Rigveda10,121) intitolato a Ka, ovvero “Chi?”.

(Qual) germe d’oro sorse nel principio; appena nato fu l’unico signore di ciò che esiste: Eglisostenne la terra ed il cielo: a qual dio dobbiamo fare l’omaggio con l’oblazione? Colui che dà ilrespiro, che dà il vigore, il comando del quale tutti gli dei seguono, ombra del quale è l’immortalitàe la morte; a qual dio? (...) Colui che per la sua grandezza è divenuto unico re di ciò che respira echiude gli occhi, del mondo; che è padrone del bipede e del quadrupede; a qual dio? (...) Colui permezzo della grandezza del quale questi (monti) nevosi (esistono) e dicesi (che c’è) il mare con laRasa (il fiume Oceano); le due braccia del quale sono questi punti cardinali; a qual dio? (...) Coluidal quale il cielo possente e la terra furono fissati, dal quale fu stabilita la luce e la volta celeste; ilquale nello spazio mediano fu il misuratore dell’atmosfera; a qual dio? (...).

Un altro testo del Veda (Rigveda 10,129,1-4) recente celebra il PrimoPrincipio, l’Uno (di genere neutro) al di là degli uomini e degli deidell’affollato pantheon politeistico indiano, al di là di ogni positivaconoscenza e di ogni determinazione.

Allora non c’era il non essere, non c’era l’essere, non c’era l’atmosfera né il cielo di sopra. Checosa si muoveva? dove? sotto la protezione di chi? Che cosa era l’acqua (del mare) insondabile,profonda? Allora non c’era la morte né l’immortalità, non c’era il contrassegno della notte e delgiorno. Senza (produr) vento respirava per propria forza quell’Uno. Oltre di lui non c’eranient’altro. Tenebra ricoperta da tenebra era in principio; tutto questo (universo) era unondeggiamento indistinto; quel principio vitale che era serrato dal vuoto generò se stesso (come)l’Uno mediante la potenza del proprio valore. Il desiderio nel principio sopravvenne a lui.

“Non è da meravigliarsi se, sulla base di un’esperienza di questo genere,il pensiero successivo in India abbia ulteriormente scavato il concetto dellanullità, della miseria, dell’apparenza (maya) di questo mondo fenomenico,dietro al quale soltanto esistono le sostanze eterne, anzi la sostanza eterna,l’Atman (o il Brahman), quella che questo mondo mai conoscerà, e che solosarà intuita e raggiunta dal brahmano e dal saggio; quella di cui fu in qualchemodo una debolezza che questo mondo venisse all’esistenza (come nel citatoinno all’Uno)”.[599]

Siamo così di fronte alla ‘professione originaria’ – come è stato detto –della religiosità indiana, tipica di alcune Upanishad (il termine è traducibilecon ‘tradizione nascosta’ o ‘esoterica’) e del sistema ‘advaita’ (lett. ‘nonduale’), ovvero all’ammissione di un principio primo, il Brahman, termine digenere grammaticale neutro, divino e nascosto, che si sviluppa nelle sue parti

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per ritornare in se stesso ad ogni declino del mondo. Manifestandosi in modoempirico nei diversi gradi dell’essere, esso è la forza portante di tutto ciò cheesiste, l’unica cosa reale e duratura nel mondo variabile e mutevole delleapparenze. La realtà è una, “tutto questo mondo è Brahman”.[600]

In tal modo le Upanishad (le più antiche delle quali risalgono all’VIII-VIsec.a.C.), o almeno alcune di esse, sviluppando idee presenti in germe già neicicli più recenti del Rigveda (il I e il X) e nei brahmana, vengono a esprimereun tipico quadro monistico, teso a ritrovare l’Uno, l’origine ineffabile dellecose, l’arché, che riceve diversi nomi, al di là della molteplicità degli esseri edelle forme. Contestualmente tale speculazione appare tesa a dentificarel’atman, l’io profondo individuale, con l’‘Io’ profondo dell’universo, chericeve in particolare il nome di Brahman, o Brahman-Atman, primo Principioe fondamento dell’essere.

A tali idee, che ampia suggestione esercitarono in filosofi occidentali delXVIII e XIX secolo come Fr. Schelling e A. Schopenhauer, fa riferimentouna delle più importanti Upanishad, ovvero la Chandogya Upanishad (‘U. deicantori di Inni’), un passaggio della quale introduce un brahmano cheafferma:

Questo mio atman nell’interno del cuore è più piccolo di un granello di riso, d’orzo, di senapa,di miglio o del nucleo di un granello di miglio; questo mio atman nell’interno del cuore è piùgrande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo, più grande di questi mondi.Ricettacolo di ogni azione, di ogni desiderio, di ogni odore e sapore, racchiudente in sé l’universo,tacito, indifferente, questo è il mio atman nell’interno del cuore; esso è il Brahman. Con questo miriunirò partendomi di qui.[601]

Al pari di altre religioni asiatiche, che hanno potuto essere definite come‘religioni dell’eterna legge del mondo’,[602] anche per l’induismo, la leggeeterna (dharma) decreta il ‘girotondo cosmico’ ovvero il ciclo cosmico(samsara) dell’eterno morire e rinascere. Essa abbraccia il cosmo e l’uomo, ilmacrocosmo e il microcosmo; si manifesta come ordine naturale (nel motodegli astri, nello sviluppo delle piante, nell’alternarsi delle stagioni, e cosìvia), come ordine morale (che detta le regole di condotta a seconda dellecaste e degli stadi della vita e stabilisce la ricompensa per le buone e lecattive azioni), come ordine rituale (che stabilisce le modalità di espletamentodegli atti sacri).

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La nozione espressa dal termine dharma (che deriva dalla radice dhar,‘supporto’, ‘fondamento’) solo per alcuni aspetti si avvicina alla nozioneespressa dal termine moderno ‘religione’, risultando carica di più ampiriferimenti, in particolare quando si consideri che essa si riferisce all’idea diun ordine universale ed eterno che fonda la religione come prassi umana.Altro termine che esprime solo alcune valenze analoghe a quelle del termine‘religione’ è marga, ‘via’.

E a questa legge cosmica, che decreta il sorgere dei mondi cui fa seguitoun nuovo declino in una successione infinita, anche gli dei sono soggetti. Conil cosiddetto kaliyuga, l’ultimo grande periodo di un eone che si conclude, sidissolve l’ordine sancito dalla legge eterna del dharma. Nel kaliyuga – un’etàche i testi descrivono con immagini molto vicine alla descrizione esiodeaofferta nelle Opere e giorni dell’ultima parte dell’età del ferro, la quinta età –le condizioni di vita peggiorano, i costumi e la morale decadono, gli uomininon compiono più i doveri che spettano loro per nascita, situazione sociale,sesso, età.

Si danno, pertanto, fondamentali differenze tra questa prospettiva e laprospettiva biblica.

Infatti, all’inizio non c’è l’atto di un Dio creatore che dal nulla chiamaall’esistenza il mondo e l’uomo. Non si dà una creatio ex nihilo, e pertantonon si dà alterità tra creatore e creatura. Piuttosto, si dà un’emanatio ex ente,per la quale ciò che è da sempre trae da se stesso sempre nuove forme.All’inizio, in altre parole, non c’è un dio la cui ‘parola’ dia origine all’essere,ma l’impulso di un essere senza tempo (Brahman) ad esplicarsi. Sia che,come ad esempio presso Shankara, il mondo venga concepito come privo diconsistenza propria, ovvero come maya, ‘illusione’, e solo la ‘nonconoscenza’ (avidya) può attribuire alla realtà fenomenica una consistenzache essa non ha, sia che, come ad esempio presso i Vishnuiti, esso siaconcepito come il gioco, līlā, reale del dio, esso è comunque l’eternamanifestazione dell’Eterno Esistente.

Il Dio biblico, in quanto causa prima, non è subordinato all’essere comelo sono invece gli dei del pantheon indiano rispetto al Brahman. E mentre,nella prospettiva cristiana, Dio si è fatto conoscere nelle sembianze di una

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persona, Cristo, alla quale l’induismo riconosce solo un significato etico edesemplare, nella prospettiva induista le figure del pantheon venerate comedivinità costituiscono le molteplici possibilità (avatara) del manifestarsi delBrahman, che tutto abbraccia e compenetra. Le narrazioni mitiche propriedell’induismo, non sempre uniformi, esprimono con immagini diverse e modidiversi la nascita degli dei e delle entità cosmiche a partire dall’Uno. Lateogonia è anche cosmogonia.

Per quanto concerne l’antropologia, ovvero la concezione dell’uomo, essaè sostanzialmente una parte dell’ontologia: interrogarsi sulla natura e suldestino dell’uomo, infatti, significa interrogarsi sulla natura dell’essere.Fondamentale per la concezione induista dell’uomo è il rapporto tra atman eBrahman. L’uomo è chiamato a divenire consapevole dell’identità nascostadi atman e Brahman.

Il termine atman indica l’‘io’, il ‘sé’ (essendo grammaticalmente unaforma del pronome riflessivo), ovvero il presupposto dell’esistenzaindividuale dell’uomo. Esso è il principio caduco dell’individuazione e la suafunzione è quella di combinare insieme, ad ogni nuova vita, le caratteristichefisiche e psichiche del singolo. L’uomo è, per il suo atman, unamanifestazione di questo Brahman, e dunque divino per origine e natura. Ilriconoscimento dell’identità di atman e brahman, ovvero il riconoscimentodella propria natura brahmanica, innata e nascosta, lo porta a non sentirsi piùun io separato, ma a riconoscersi parte integrante di un misterioso contestouniversale e intimamente unito agli altri individui, che sono ‘altri’, ovveroseparati da lui, soltanto in apparenza. Invece, nella gran parte, gli individuirestano aggrappati al loro essere persona, sono soggetti alle tentazionidell’affermazione di sé e dell’egocentrismo, alla angoscia esistenziale e alla‘paura dell’altro’.

Come non vi è per il mondo inizio assoluto, o creazione, e neppure fineassoluta, o distruzione, così anche per l’uomo, il quale in grazia dell’identitàtra il proprio atman e il Brahman, non conosce propriamente né inizio néfine. Afferma Krishna rivolgendosi ad Arjuna nella Bhagavad-Gita: “Non c’èmai stato tempo in cui né io né tu, né questi re degli uomini non esistessimo;né mai ci sarà tempo in cui cesseremo di esistere. Come l’anima [lett.

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‘l‘incorporato’] passa attraverso l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, epermane sempre la stessa; così essa permane dietro il mutamento dei corpi”.[603] Di fatto l’atman “ingenerato e immortale, immutabile ed eterno, non èucciso con l’uccisione del corpo (...). Come l’uomo smette vestiti vecchi e neindossa nuovi, così, avendo smesso corpi usati, l’Inabitante ne assumenuovi”.[604]

La tensione alla salvezza è centrale in tutte le fasi dello sviluppo delpensiero induistico e si può affermare che i grandi sistemi filosofici dell’Indiasono nati come vie per raggiungere la salvezza. Questa, tuttavia, assumeforme diverse.

In particolare, se il pensiero vedico è teso ad una salvezza di tipomondano, ovvero all’ottenimento e all’incremento di prosperità e di vita,ottenibili in grazia del sacrificio e degli dei, il pensiero upanishadico apparepiuttosto orientato – come lo sarebbe stato il buddhismo – ad una definitivaliberazione (moksa) – ottenibile mediante la conoscenza, una sorta di ‘gnosi’,e nel quadro di un deciso anticosmismo che vede questo cosmo comeillusione (maya) o frutto di una frammentazione dell’Unità originaria – daldoloroso ciclo delle sempre nuove nascite e delle sempre nuove morti(samsara), messo in moto dalla legge del karman.

Questo, il karman (termine derivato da una radice indicante il ‘fare’ esignificante originariamente ‘fatto’ o ‘frutto dell’azione’ e, nello specifico,dell’azione sacrificale), non è più, come nella prospettiva prevalentementerituale vedica e brahmanica iniziale, il benefico frutto – e dunque positivo ericercato – del rito sacrificale, garanzia di vita e di benessere, ma è la legge,vista negativamente, che lega le azioni al loro frutto in una catenaincessantemente riproducentesi fino al momento in cui intervenga, appunto,la definitiva liberazione.

Dunque, il karman, nella prospettiva upanishadica, e poi buddhistica, inquanto frutto dell’agire terreno nelle esistenze passate e motore di semprenuove esistenze, e dunque come tale separante dall’assoluto, deve esseresciolto, reso inoperante. Si osservi come, nell’evoluzione del pensieroindiano, il termine karman conosca un sintomatico cambiamento di valore, inmaniera analoga a quanto avviene per un altro fondamentale termine della

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storia religiosa indiana: il termine maya. Questo, nei Veda designa – comevisto sopra – il potere invisibile di Varuna e, in senso più ampio, lo stessopotere ‘creativo’ della divinità. Ma quando l’esistenza mondana verrà adapparire come un dato negativo e il mondo fenomenico come un elementonegativo e, talora, più specificamente, illusorio, maya, il potere invisibile cheregge l’esistenza, verrà a significare la forza generatrice di questo mondo diillusione.

Quanto alle vie e ai modi della salvezza, va innanzitutto ricordato il ruolodella conoscenza (jnana, apparentato linguisticamente al greco gnosis)redentrice, la quale è frutto di un’autoriflessione sulla vera natura del ‘sé’, sulsuo essere brahmanico, e non richiede un intervento divino salvifico. Cade ladifferenza qualitativa tra uomo e dio. La differenza con gli esseri riconosciutie venerati come divini, gli dei e le dee, è soltanto relativa. L’ordine karmico(essendo il karman la legge che determina le modalità delle nuove vite sullabase delle esistenze precedenti) non esclude per lui il grado divino.L’evoluzione o la regressione nella sequenza infinita delle rinascite dipendeda come l’uomo realizza la sua ‘divinità’, ovvero la sua natura brahmanica.La Brhadaranyaka Upanishad afferma: “Chi dice ‘io sono Brahman’diventerà tutto sia che sia Dio, saggio o uomo (...) ma chi venera una divinitàe dice ‘Lui è una cosa e io sono un’altra cosa’ è ignorante”.[605]

Una via (marga) salvifica ulteriore e diversa dalle vie salvifichecostituite, l’una, dalla via dei sacrifici e delle azioni rituali (karmamarga), el’altra, dalla via della conoscenza (jnanamarga), è quella della devozione(bhaktimarga).

Essa si collega con un filone della speculazione upanishadica, e più ingenere vedantica, caratterizzato dalla presenza di un concetto teistico delladivinità, cioè dall’idea di una divinità somma ed unica al suo livello, dicarattere personale: Ishvara (‘Il Signore’), nome che talora viene ad assumereShiva.

Tuttavia, anche questa sorta di teismo upanishadico e vedantico si collocapur sempre all’interno di un quadro che, caratterizzato dalla dottrina di basedel samsara o ciclo delle rinascite, rimane distinto dal quadro teistico biblico.Così l’esperienza propria della religiosità induista bhakti, culminante

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nell’adorazione mistica di una divinità, è esperienza dell’unità tra uomo edivinità, esperienza di identificazione, resa possibile dal fatto che il Brahmanabbraccia e integra insieme il mondo degli dei e quello degli uomini.

Del tutto difforme è l’antropologia biblica che riconosce al singolo uomouna insostituibile e irripetibile specificità,[606] che si prolunga oltre l’arcodella sua vita terrena.

Mette conto qui ricordare come spesso gli studi abbiano identificato conl’appellativo di ‘monoteistiche’ sia le tendenze all’unificazione del divinoovvero i tentativi diversi – manifestatisi in seno alla lunghissima storiareligiosa del subcontinente indiano – di concepire il divino come una realtàunitaria nonché di ricercarne la origine prima e nascosta, sia le tendenzecultuali a privilegiare una entità divina sopra le altre. È il caso delle grandicorrenti religiose dell’induismo, costituite dal Shaktismo, che ha al propriocentro il culto della Shakti, propriamente l’Energia che procede eternamentedal suo Signore, o Ishvara, ed eternamente ‘crea’, conserva e vivifica tutte lecose; dallo Shivaismo, o culto di Shiva (lett. ‘Benigno’), personaggio divinoambivalente che distrugge gli esseri, ma non nel senso di portareall’annichilimento tutte le cose quanto piuttosto in quello di portarle alcompimento perché una nuova fase delle stesse si possa aprire. Tale è il sensodella raffigurazione di Shiva danzante nel cerchio di fuoco (come ‘re delladanza’, Nataraja); e, infine, del Vishnuismo, o culto di Vishnu, il Dio giàvedico: se nei Veda egli compare come aiutante di Indra nellasummenzionata uccisione del mostro primordiale e gli si attribuisce unaqualità ‘cosmica’, avendo egli con tre passi giganteschi percorso e misuratol’universo diventandone in tal modo il signore, nella speculazione posterioreegli è sovente identificato con il principio primo e ultimo, che pervade ognicosa e ogni cosa conserva. Caratteristica precipua di Vishnu appare essere labenevolenza, alla quale l’uomo può rispondere con un atteggiamento dibhakti, o devozione amorosa. Tale attitudine del dio lo spinge, nei momenticritici della storia del mondo e dell’umanità, a discendere nei suoi avatara,sue manifestazioni personali, nelle quali egli, assumendo le più diverseforme, anche di animali oltre che di eroi divini, come il dio Krishna – come siesprime la Bhagavad-gita – interviene a salvare il cosmo dalla distruzione.

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Tuttavia Vishnu, pur con tale identificazione, conserva una caricapersonalistica rafforzata dal fatto che nel suo culto confluirono tradizionipopolari poco avvezze a speculazioni monistiche quali quelle dei brahmani,ma più inclini a rappresentazioni personalistiche e antropomorfe delladivinità. In grazia delle caratteristiche sopra delineate, in relazione a Vishnu eal suo culto si è potuto parlare negli studi di tendenze monoteistiche.

Va tuttavia precisato che il termine monoteismo anche in relazione a taliambiti risulta inadeguato.

Infatti, e introducendo una riflessione più generale, il principio divino ditutte le realtà, il Brahman, non ha alcun attributo personale ovvero non è‘persona’ al pari degli dei unici al centro degli orizzonti religiosimonoteistici, ossia del Dio di Israele, del Dio fattosi carne in Gesù diNazareth, e del Dio che si rivela a Maometto.

Esso, nella speculazione di Shankara (780-820 d.C.), a cui fa capo unadelle grandi Scuole Vedantiche a carattere fortemente speculativo e teologico,è identificato come Brahman Nirguna (‘non manifesto’), che assumecoscienza di sé, ovvero diventa Ishvara, il Brahman ‘manifestato’, o BrahmanSaguna, entità divina personale, denominata Brahma, come personali sono lealtre divinità che s’originano dal Brahman. Esse costituiscono il divinopersonale ma multiforme, oggetto di conoscenza e di devozione, espressionetuttavia – questo livello del divino – provvisoria e sempre cangiante di unlivello diverso del divino, il livello autentico, quello della Verità ultima, ilBrahman Nirguna, al di là di ogni forma e rappresentazione, di ognipossibilità di essere conosciuto e pensato, e attingibile dalla sola meditazionecoadiuvata da specifiche tecniche ma non riducibile ad esse. In sostanza, alivello di Brahman non è presente una idea teistica e laddove essa è presente,a livello degli dei personali sue manifestazioni, lo è in forma plurale. Èdunque preferibile parlare di politeismo e di monismo in relazione allediverse fasi e ai diversi ambiti della storia religiosa del subcontinente indiano.E più preciamente è opportuno parlare di origini politeistiche del complesso ecomposito mondo religioso dell’induismo e di tendenze monisticheesercitatesi in esso a partire dalle parti più recenti del Veda. Si può dire che“si tratta di un politeismo che mantiene una nostalgia dell’Uno e che sente il

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bisogno di articolarsi in funzione di esso; di un politeismo che (...) ha talora,soprattutto nel Vishnuismo e nello Shivaismo, una colorazione monoteistica,favorita dalla concezione personalistica di questi dèi”.[607]

Appartiene all’induismo classico una ricca produzione letteraria di poemiepici, trattati di diritto, purana (o ‘antichità’) e testi rituali detti tantra. Tra ipoemi epici merita una menzione almeno il Mahabhàrata, nel quale sono inoti passaggi, costituenti la Bhagavad-gita, o ‘Canto del Beato’, che occupaquasi tutto il sesto libro del poema epico in questione, e nel quale l’eroeKrishna, uno degli avatara di Vishnu, ossia colui in cui è ‘disceso’ Vishnu, il‘Beato’, la somma divinità di carattere personale, esprime di fronte alguerriero Arjuna, che esita a combattere i nemici, sebbene ciò sia dovere delsuo stato, le ragioni dell’impegno nei doveri terreni. Krishna, che afferma diessere il primo Principio Brahman che ‘crea se stesso’ e rinasce ogni volta altermine di un ciclo cosmico per proteggere i buoni e distruggere i malvagi,rassicura Arjuna che l’azione quando sia conforme al proprio stato,spassionata e non mossa dal desiderio e dall’attaccamento al fruttodell’azione, non produce il karman causatore di rinascita e pertanto nonimpedisce la liberazione. Al contempo le parole di Krishna si collocanonell’orizzonte ideologico dominato dalla nozione della unità di tutti gli esseri.

La Bhagavad-gita introduce – con i limiti sopra segnalati – unaconcezione personale del divino – Krishna – che ha rapporti con la nozione diyoga. Tale termine significa ‘unione’ ed indica anche i mezzi per realizzarla.A seconda del modo con cui si concepisce il termine di questa ‘unione’ e imodi per realizzarla si danno diversi tipi di yoga. Secondo la distinzione giàofferta dalla Bhagavad-gita e poi accettata dall’induismo più in generale, sidà una triplice via di liberazione (trimarga) ovvero tre modalità di yoga:karma-yoga (o ‘via dell’azione’, ma non più dell’azione come intesa neiVeda ma di quella priva di attaccamento ai frutti della stessa), jñāna-yoga o‘via della conoscenza’ (che, nel testo in questione, non è tanto il risultato diuno sforzo tutto umano ma il frutto di una rivelazione graziosa da parte delSignore Supremo, Ishvara), bhakti-yoga o ‘via della devozione’, sempre neltesto in questione, culmine delle altre vie.

Altro grande poema epico è il Ramayana, ove compare Rama quale altra

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grande ‘manifestazione’ (oltre a Krishna) di Vishnu.Tra i trattati di diritto basti la menzione delle Leggi di Manu, il ‘Primo

Uomo’, che fondò gli ordinamenti sociali. Per quanto concerne i purana,grande parte hanno in essi i due grandi dei Vishnu e Shiva, venerati datradizioni diverse, appunto il vishnuismo e lo shivaismo, volta per volta comedivinità somma, oppure insieme a Brahma riuniti nella Trimurti, la grande etriforme divinità induistica, che crea, conserva e distrugge. Una nozione,quella della Trimurti, da tenere adeguatamente distinta – come vedremomeglio più avanti – dalla dottrina trinitaria cristiana.

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4.1.1 EticaTradizionali dell’induismo fin dal tempo dei Veda sono i quattro ideali di

vita (purushartha), ovvero il piacere (kama), il benessere (artha), larettitudine (dharma) e la liberazione (moksha). Quest’ultimo, introdotto conle Upanishad, assorbe e relativizza gli altri tre.

Tradizionale è pure il sistema castale. Le caste (termine che, derivato dallat. castum, ‘puro’, detto di razza, traduce il sanscrito jati, ‘nascita’, comepure varna, ‘colore’, giacché ogni casta è indicata da un colore diverso)originarie sono quattro: la casta sacerdotale, costituita dai Brahmani (colorebianco); la casta dei guerrieri (Kshatriya), poi divenuta classe del poterepolitico e amministrativo (colore rosso); la classe dei Vaishya, o detentori delpotere economico, come allevatori di bestiame, proprietari terrieri,commercianti (colore giallo); ed infine la classe dei Shudra, ovvero i semplicilavoratori manuali (colore nero). L’appartenenza ad una casta è per nascita edè pertanto legata alla dottrina della trasmigrazione. La divisione in castecomporta l’endogamia, l’ereditarietà del lavoro, le norme di commensalità.Essa trova il suo fondamento ‘ontologico’ nel tema mitico – già illustrato –dello smembramento del corpo di Purusha. Fuori dal sistema castale sonodiverse categorie di persone, come gli appartenenti a comunità tribali maiassimilate, ma anche gli omosessuali, gli zingari, i nati da matrimoniintercastali, i lebbrosi, i malati mentali. Si tratta dei paria, in tamil, gli‘intoccabili’, o dalit, gli ‘oppressi’, come preferiscono chiamarsi.

Il sistema castale è stato diversamente contestato da movimenti di riformaall’interno dell’induismo e abolito dalla costituzione indiana, ma rimaneferma la idea di un insieme di doveri o di una ‘morale’ propria di ogni statodi vita.

Per quanto concerne l’etica, secondo la concezione indiana, la vitadell’uomo –come si è già detto – è soggetta alla grande ‘trama’ del1e leggicosmiche. Ogni uomo, sulla base delle sue esistenze precedenti, deve seguirela propria legge o dovere personale (svadharma). Ad essa corrispondonoprecisi elenchi di doveri finalizzati a quello che di volta in volta è il giustocomportamento del singolo. Il ‘dovere’ etico, quindi, non è tanto una

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questione relativa ad una scelta di valori della quale si è responsabili e alledecisioni che ne derivano. Il singolo è chiamato a realizzare ciò a cui èdestinato per nascita.

L’induismo classico, si è trovato – dopo le speculazioni brahmaniche evedantiche – di fronte alla necessità, per chi volesse salvare il significatodell’agire nel mondo e fare fronte ai compiti che l’esistenza nel mondocomporta, di elaborare, senza venir meno ai contenuti essenziali di quellespeculazioni, degli orientamenti in merito a comportamenti etici.

L’induismo moderno (sviluppatosi alla fine del XVIII secolo a seguitodell’impatto con la colonizzazione occidentale e caratterizzato dallaformazione di società, o Samaj, come la Brahma-Samaj, cui appartenneDevendranath Tagore, 1817-1905) ha tentato, anche per il tramite di unaparticolare e nuova esegesi degli antichi testi sacri, e, in alcuni interpreti, conriferimenti all’etica del Nuovo Testamento, di fare spazio a un’etica dellaresponsabilità personale. Esso, in sostanza, ha mostrato come una concezionepersonalistica del tipo di quella occidentale sia irrinunciabile anche perl’attuale immagine indiana dell’uomo, pur se, inserita nella cornice dellaconcezione indiana del mondo, vi rimane come un corpo estraneo.“L’esperienza di identità delle Upanishad, il tat tvam asi,[608] non è in gradodi dare fondamento alla validità permanente e alla dignità dell’unicitàindividuale di ogni singolo uomo. Non la si può associare alla idea che questavita è solo una fase di passaggio nell’alternarsi dei livelli di rinascita. (...) Sequesta vita resta una delle molte altre esistenze possibili, l’essere personairripetibile perde il contesto che le dà fondamento”.[609]

Le riforme dell’induismo in epoca moderna hanno tentato correzionidottrinali nella direzione dell’affermazione di una dignità dell’uomo, non piùsoggetto alle costringenti leggi del dharma, al fine di addivenire ad unaabolizione di usanze induiste sancite dai presupposti dottrinali stessi dellareligione induista, come il rogo delle vedove (sati), le leggi delle caste e ilmatrimonio tra bambini. A tale scopo le regole e i precetti un tcmpo validivengono spesso trasformati nel loro contrario. Si afferma che l’uomo non èpiù soggetto alle condizioni di vita determinate dal dharma in base alleproprie precedenti esistenze, ma può determinare il corso della propria vita.

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Questo vale a tutti i livelli di esistenza: per i ceti sociali, i rapporti diparentela, i gradi di età, le differenze di sesso e di casta.

Nella direzione di un’abolizione delle premesse fondamentali del sistemadi vita induista, ossia della eliminazione dei processi di fissazione dell’uomoper mezzo delle leggi del dharma, come espresse nell’induismo tradizionale,si pongono gli sforzi di Sarvepalli Radhakrishnan, filosofo e uomo politicoindiano (1888-1975).

Nel suo ideale di cittadino libero e responsabile, questi è colui che mira arealizzare la sua vera natura brahmanica liberandosi dalle catene del mondodelle apparenze, condizionato da maya, e seguendo il criterio del ‘bene’morale da realizzare sulla base di una libera scelta etica. È stato tuttaviamesso in luce negli studi come, in queste espressioni dell’induismo riformato,le categorie etiche non risultino adeguatamente fondate dalle premessedottrinali proprie dell’induismo. Il processo di concentrazione meditativosulla natura brahmanica nascosta nell’uomo garantisce il ‘distacco dalmondo’, ma non una nuova etica vincolante.

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4.1.2 Trimurti e TrinitàMerita almeno un accenno la nozione di Trimurti, spesso erroneamente

accostata alla nozione cristiana di Trinità. Ci soffermiamo sulla comparazionetra le due nozioni, perché essa può costituire un perspicuo esempio diindagine storico-comparativa differenziante.[610]

Si tratta di due concezioni che, innanzitutto, hanno un diverso pesonell’ambito dei sistemi in cui esse sono inserite.

Infatti, il concetto induistico di Trimurti a differenza della dottrinacristiana in merito alla Trinità non costituisce un elemento costante e univocoall’interno dell’induismo.

Innanzitutto esso rimanda alla tendenza manifestatasi in seno alpoliteismo vedico e brahmanico a una sistemazione delle figure divine ingruppi “nell’intento di mettere ordine in un mondo mitologico disordinato, edi realizare una coincidenza tra quella che possiamo chiamare la geografiadivina e la geografia cosmica. Così, la tripartizione del cosmo indiano: cielo,atmosfera e terra, dà occasione a una sistemazione tripartita del mondodivino: si dànno cioè dei celesti, dei atmosferici e dei terrestri, in tuttotrentatré, diversamente ripartiti a seconda delle diverse scuole”.[611] Latripartizione divina appare, secondo la formula interpretativa duméziliana,legata a una tripartizione sociologica funzionale – d’origine indoeuropea – trasacerdoti o brahmani, nobiltà guerriera e produttori.

Ma la nozione di Trimurti, ove il termine fa riferimento al concetto di‘triformità’, va inquadrata più specificamente in quella tendenza espressasi inrelazione al politesmo vedico e a partire dalla speculazione brahmanica a unariduzione monistica all’Uno, ove i tre membri della triade costituente laTrimurti, ovvero Brahma (personificazione del principio più impersonaleBrahman), Vishnu e Shiva, sono visti come ‘forme’ o manifestazionidell’Uno, che li unifica o li concilia. Tale Uno, nei testi relativi alla Trimurti,si identifica ora con l’uno ora con l’altro dei tre membri. Quando si identifica,ad esempio, con Vishnu, come nel sistema del Vishnuismo, o con Shiva,come nel sistema a quello concorrente dello Shivaismo, la figura divina inquestione viene ‘estratta’ dalla Trimurti e sostituita in essa da una figura che

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le sia in qualche modo legata, come, nel caso di Vishnu, da una delle suemanifestazioni, il dio Krishna. E in tal caso la Trimurti sarà costituita daBrahma, Krishna, Shiva mentre Vishnu ne sarà il principio unificatore.

Venendo a una comparazione tra Trinità e Trimurti sarà da segnalare, sulpiano fenomenologico, innanzitutto la differenza tra una concezione, comequella trinitaria, nella quale le Persone divine hanno la medesima dignità euna concezione, quale quella della Trimurti, nella quale si dà una figuradivina superiore alle altre o sintetizzante le altre.

E soprattuttto: “La Trinità cristiana riposa sul concetto monoteistico di unDio persona, dalla forte individualità, che l’Antico Testamento determina concolori che non sono né mitologici né astrattamente filosofici, presentandolocome il creatore personale, intelligente e volitivo, del cielo e della terra edell’uomo, con il quale uomo egli, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe,realizza un rapporto tutto fatto di concretezza e di calore personalistico. UnDio di cui la rivelazione cristiana squarcia parzialmente il mistero, facendonebalenare le grandiose e umanamente incommensurabili ricchezze interiori, lericchezze di una vita trinitaria ad intra che è compito vertiginosamentesovrumano l’esplorare. La speculazione indiana sull’Uno è altra cosa: essa èun cammino faticoso che parte dalla terra, dalle profondità sempre piùradicalmente scavate dell’io, alla ricerca del principio e dell’Uno, ma cheruota per così dire all’infinito senza un punto d’appoggio: giacché essaconosce l’assoluto ma lo annega nell’identico; una speculazione che solosporadicamente, a fatica e precariamente costruisce sul concetto di persona.Una speculazione, quella triadica induistica, che solo sporadicamente escedalle secche del politeismo e del monismo per acquietarsi nel personalismosereno della concezione monoteistica. È dunque la Trimurti una Trinità? No:e per una quantità di ragioni: prima di tutto perché nella Trinità sono appuntoessenziali e l’idea monoteista e la viva irriducibilità del concetto di persona.Si aggiunga che l’impostazione triadica non serve all’induismo solo perunificare, ma anche per conciliare i termini di una dualità: in un famoso testo,Brahma, che qui è il principio supremo, riconcilia Vishnu e Shiva, gli altridue membri della triade, tra i quali è scoppiata una lotta. E non è a direquanto siamo qui in un mondo ideale radicalmente diverso da quello biblico e

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cristiano. Altra e non meno decisiva circostanza é infine il fatto che icomponenti della Trimurti classica hanno ognuno la loro preistoria religiosapropria, e in parte la loro area geografica di elezione: sono cioè delle figurestoricamente autonome, il cui collegamento nell’ambito di una triade ètutt’altro che un fatto originario e costante”.[612]

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4.1.3 Induismo e inclusivismoPer quanto concerne il rapporto tra l’induismo e altre forme religiose che

con esso siano venute in contatto nella storia, ricordiamo come l’induismoappare tipicamente legato a una categoria che è venuta definendosi in sede distudi come ‘inclusivismo’. L’apparente autocontradditorietà e la evidenteeterogeneità[613] di quelle concezioni e pratiche religiose che comunementesono accomunate sotto l’etichetta di induismo vengono composte in grazia diuna prospettiva ermeneutica che è squisitamente emica, ovvero propria diquel contesto storico e culturale, e che, secondo la definizione di P. Hacker,[614] è l’‘inclusivismo’.

L’inclusivismo è quella teoria secondo la quale una particolare tradizionereligiosa presenta la verità finale mentre le altre tradizioni riflettono aspetti diquella verità ultima o costituiscono approcci a essa, o stadi preparatori, tali daesprimere una verità solo parziale. E in tale specifico senso questa religioneviene a includere le altre.

Poiché l’induismo conosce come una delle sue dottrine basilari l’idea chela divinità possa manifestarsi in modi diversi e tutti in qualche modo validinel corso dei tempi e nelle diverse regioni della terra, esso è venutoesprimendo lungo la sua storia una tipica capacità di assimilare al suo internodiverse correnti e formazioni religiose.

Le modalità inclusivistiche, impropriamente talora definite ‘tolleranti’ edopposte a quelle ‘esclusiviste’ viste come ‘intolleranti’, appaiono strettamentelegate alla storia della cultura e della religione indiane, fin dalle prime fasidella loro evoluzione. Esse cominciarono a esprimersi in particolare con ibrahmani propensi a mescolare le loro dottrine con usi e credenze di caratterepopolare di origine aria e di origine autoctona, a patto che rimanessero saldialcuni principi fondamentali del brahmanesimo, come il riconoscimentodell’origine sovrannaturale dei testi vedici, l’idea che le divinità comunquerimandassero a un Brahman come assoluto, il rispetto del sistema castale e lanozione del karman come legge che regola il ciclo delle nascite e rinascite.

In sostanza, l’inclusivismo come modalità secondo la quale l’induismostruttura il rapporto tra religione e religioni, ovvero il rapporto tra sé e l’altro,

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appare come il prolungamento dell’inclusivismo come modalità checaratterizza, lungo il corso della plurimillenaria storia dell’induismo, ilrapporto tra le diverse e diversificate componenti dottrinarie e cultuali chevennero a costituire l’induismo stesso. Tale modalità interna si esprime con iltentativo di assimilare, reinterpretandole, tendenze varie e diverse rispetto aquanto già accettato e riconosciuto.

Già nel Rig-Veda si legge: “La Verità è una, gli uomini la chiamano connomi diversi”.[615] Nella Bhagavad-Gita[616] Krishna rassicura Arjuna conqueste parole: “Qualunque sia la Forma di Me, che un devoto con piena fedeadori, sono Io che animo la sua fede. Con questa fede, egli adora quellaForma; e in forza della sua fede e della sua adorazione egli ottiene ciò chedesidera; ma sono di nuovo Io che esaudisco i suoi desideri”.

Meritano di essere qui riportate le osservazioni di U. Bianchi,[617] inrelazione alla posizione tipica offerta dall’induismo in merito al rapportoreligione/religioni: “Nonostante tutto, l’induismo presenta se stesso tutt’altroche come una religione tra le religioni, come si potrebbe pensare a primavista sulla base delle ripetute affermazioni circa le varie strade checonducono gli uomini alla cima, ognuno secondo il suo ‘temperamento’ e ilsuo ambiente. Esso si pone in realtà come la religione, e in particolare comela religione eterna e quindi universale, cui de iure e de facto appartengono giàtutti gli uomini, ne siano consci o no; e ciò nell’atto stesso in cui l’induismoriconosce le diverse religioni del mondo, nonché le diverse osservanze in cuiesso è diviso”.

L’induismo come ogni posizione inclusiva ritiene di avere trovato lachiave interpretativa della religione ‘altra’, chiave più vera di quanto nonpossa esserlo l’autocomprensione espressa dai fedeli di quella determinatareligione.

Tuttavia una particolare difficoltà all’assimilazione ossia all’inclusionenel sistema di pensiero induista si è manifestata in rapporto a religioni cheammettono la rivelazione storica di Dio, e in particolare, tra queste, l’Islam.

Di fatto, a seguito dell’espansione armata dell’Islam in terreoriginariamente di tradizione cristiana, di tradizione zoroastriana e, infine, ditradizione induista, in queste ultime l’incontro-scontro tra le due tradizioni

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religiose non ha portato né alla pressoché totale eliminazione della tradizionereligiosa propria delle terre conquistate – come in Persia ove l’Islam hasoppiantato quasi totalmente lo zoroastrismo –, né alla sconfitta dell’Islamstesso. Si è venuta invece a creare da un lato una scissione – matrice di fattidi natura politica e sociale sovente drammatici – tra India musulmana e Indiainduista e, dall’altro lato, la formazione di movimenti religiosi che hannooperato una sorta di fusione tra elementi delle due tradizioni religiose, comenel caso del Sikhismo e della sua nozione dell’unico principio divino, laquale risente ad un tempo della nozione dell’unico Dio del monoteismoislamico e di quella dell’unico Principio dell’orizzonte di pensiero induista.

Un tentativo di fusione tra elementi islamici ed elementi indiani, anche se,pur in questo caso, con il prevalere dei secondi sui primi, si è avutonell’ambito della mistica e più specificamente della nozione di unione misticacon Dio, una nozione, come visto, fortemente osteggiata dall’Islam‘ortodosso’.

Tale tentativo è stato operato, ad esempio, dal sovrano Akbar, detto ‘ilGrande’ (1542-1605) che ha voluto creare una sorta di religione ritenuta taleda superare tutte le altre, di carattere sincretistico e di tipo mistico, fondatasulle nozioni dell’unione mistica con Dio e dell’unità del reale. Un Dio che,anche in questo caso, vede i caratteri dell’Uno impersonale proprio dellateologia induista prevalere su quelli del Dio uno, unico e personale, delmonoteismo islamico. Ma la questione della mistica in ambito indiano meritauna riflessione a parte cui dedicheremo il capitolo seguente.

Tornando alla categoria dell’inclusivismo come tipica del pensieroindiano, si dovrà qui osservare come per il suo tramite, ovvero nel momentoin cui con essa il pensiero indiano affermi che il divino si possa raggiungereattraverso varie vie, di fatto lo stesso pensiero indiano venga ad operare unasorta di fagocitazione delle altre vie, solo apparentemente legittimate etutelate, e questa fagocitazione avviene nel momento in cui la mentalitàindiana vede questo divino con categorie peculiari della sua propriatradizione.

“In realtà è difficile, per non dire impossibile, separare la qualità della viao delle ‘vie’ dalla nozione di Dio cui esse debbono condurre. Quindi, anche

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quando ammette ‘tutte’ le ‘vie’, il pensiero induista si riferisceimplicitamente alla propria visuale, caratterizzata da proprie, anche se, entrocerti limiti, varie nozioni della Divinità”.[618]

Tale prospettiva, tipica dell’induismo, a prima vista pluralistica ma inrealtà inclusivistica, merita di essere ulteriormente precisata: “l’induismo,facendo riferimento 1) alla sua varia composizione, 2) alla pluralità delle vie(marga) ammesse per la salvezza (la via del rito, quella della ‘gnosi’ e quelladella devozione), e 3) ai vari nomi e ai vari concetti con cui ha chiamato echiama il Primo Principio, si pone in una situazione non univoca per quantoconcerne le religioni e il problema ‘religione e religioni’. Esso, infatti, da unaparte si pone come uno dei cammini per la salvezza e per giungere a ‘Dio’(comunque lo denomini o concepisca), ma dall’altra parte tende ad essere, perle tre caratteristiche or ora citate, come onnicomprensivo, cioè capace diricomprendere in sé o ‘fagocitare’ ogni altra espressione religiosa. Quello cheva peraltro ben tenuto presente a questo riguardo è che, nell’atto diricomprendere in sé o ‘fagocitare’ le altre religioni (con sincretismi più omeno esterni o anche con reinterpretazioni di fondo) l’induismo in realtàtende facilmente a relativizzare queste religioni, o piuttosto a sottometterle alsuo particolare schema di base. È significativo, per esempio, che pensatoriinduisti (Gandhi, etc.) o istituzioni neo-induiste anche cristianeggianti, comela (...) Brahma-Samaj, si arrestino di fronte al carattere proprio delCristianesimo come rivelazione storica di Dio, avvenuta nel quadro di unastoria della salvezza quale il cristianesimo (e anche, a suo modo, l’islamismo)la concepisce. Perciò, adottando anche verso le altre religioni il suo schema,l’induismo non cessa di atteggiarsi come una religione a sé, anche laddovevoglia atteggiarsi a modello interpretativo universale e, quasi, ‘riassunto’della religione e delle religioni. Di ciò, talora, non si tiene abbastanza conto”.[619]

Di fatto, e precisando ulteriormente concetti sopra esposti, per l’induismoè inimmaginabile che Dio si manifesti in un unico modo. Per esso l’Uno siesprime nel gran numero di divinità che popolano l’induismo stesso ma ancheal di fuori di questo. Riconosce, infatti, il ‘divino’ nella persona di GesùCristo, che l’induismo colloca, tuttavia, nella molteplicità di forme delle

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manifestazioni del divino.[620] Colpiti dall’etica di Gesù e dal suo influssonella storia dell’umanità, i pensatori induisti dell’ultima generazione siadoperano per integrare la figura di Gesù Cristo nel mondo ideale indiano.Egli viene così interpretato come una delle grandi manifestazioni del divinosotto sembianze umane (avatara) che compaiono continuamente nella storia.Lungi dal costituire un unicum, l’Incarnazione è vista come un eventodestinato a ripetersi nell’eterno trascorrere delle forme mutevoli. Inoltre,l’Incarnazione rappresenta ancora, per l’induismo, un grado transitoriodell’esperienza e della venerazione di Dio. In sostanza la via cristiana basatasull’evento dell’Incarnazione è ritenuta una delle strade per ‘salire sulla vetta’dell’illuminazione interiore (moksa), alla quale, peraltro, anche altre ‘vie’possono condurre, ovvero altre esperienze religiose, rimanendo tuttavia fermala concezione, in ambito induista, che la vetta sia toccata solamente da coluiche, in grazia della perfetta meditazione interiore (samadhi), si identifica conil divino che comunque gli è proprio. Il culto di un dio personale è tappaprovvisoria verso una meta ulteriore che è costituita da quelle credenze eprassi cultuali che propiziano e rendono possibile l’assorbimento del séumano nel principio divino.

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4.1.4 Induismo e misticaIntendiamo qui sottolineare come il tipico inclusivismo induista si leghi

strettamente a uno specifico modello di divino, monistico, cui è legata unaspecifica antropologia e una altrettanto specifica modalità di intendere illegame tra il divino e l’umano, in questo caso la modalità che comporta lafinale ‘indistinzione’, ovvero il riassorbimento del sé profondo dell’individuonel Sé del Tutto.

Il monismo indiano, con la correlata ‘mistica dell’indistinzione’,[621]formulata in maniera esemplare da Radhakrishnan, cui torneremo più avanti,considera se stesso come ‘la via’ che – come già detto – comprende e superale altre vie, che pur vengono lasciate sussistere, ma nella loro relatività. Talevia perviene alla fusione nella realtà ultima, divina, dell’individualità umana.

Merita al riguardo un cenno la figura di Ramakrishna (1834/6-1886).Mistico induista, fu con il discepolo Swami Vivekananda alla base della

rinascita dell’induismo in età moderna. Il suo insegnamento è caratterizzatodall’idea della verità di tutte le religioni come strade che conduconoall’Assoluto. Una visione inclusiva, questa, che intendeva integrare i diversi espesso conflittuali aspetti già propri delle diverse tradizioni all’internodell’induismo e poi propri delle religioni del mondo. Nel suo insegnamento,egli afferma la verità delle religioni con le loro divinità, da intendersi – questeultime – come manifestazioni o forme della Sakti o Madre divina(personificazione della potenza divina) che qualsiasi fedele devoto di ognireligione può arrivare a scoprire all’opera, o piuttosto al ‘gioco’ divino (lila),[622] che essa gioca con gli uomini nell’universo fisico. La RamakrishnaMission, presentata da Swami Vivekananda al Parlamento Mondiale dellereligioni, tenutosi a Chicago nel 1893, ne ha diffuso le idee nel mondo.L’idea dell’uguale valore di tutte le religioni per il raggiungimentodell’Assoluto fu affermata con forza da organizzazioni quali la SocietàTeosofica (fondata nel 1875) e la fede Baha’i.

Un cenno particolare merita poi la posizione del filosofo indianoSarvepalli Radhakrishnan (1888-1975), che fu Presidente dell’UnioneIndiana dal 1962 al 1967.

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Nei suoi scritti, che mostrano l’influenza – da un lato – dell’esperienzareligiosa induista e – dall’altro – della filosofia occidentale e in particolaredell’idealismo, egli insegna la relatività di tutti i messaggi religiosistoricamente espressisi e la validità della sola, e a suo parere unica emedesima, esperienza religiosa spirituale (spiritual experience), o ‘religionedello spirito’, l’unica cosa davvero reale in tutte le religioni, maiadeguatamente dicibile laddove tutto quello che è dicibile e formulabile nellereligioni è un’espressione simbolica secondaria. In sostanza, egli viene apredicare una sorta di religione dell’avvenire, una religione dello spirito, checoniugherà in sé l’unità di fondo offerta dalle religioni e la molteplicedifferenziazione che esse pur esprimono.

In sede di studi, è stato osservato come l’opzione di Radhakrishnan poggisu un cortocircuito:[623] “Infatti, solo in apparenza Radhakrishnan oppone alpunto di vista ‘partigiano’ di chi è cristiano una apertura super partes versotutto ciò che è religioso; in verità, come chi è cristiano, egli parte da unadottrina della assolutezza che corrisponde alla sua struttura religiosa; e per ilcristianesimo (in genere per ogni tipo di vero e proprio ‘monoteismo’) lapretesa della sua via non rappresenta una pretesa minore di quella chel’assolutezza cristiana rappresenta per la propria. Infatti, se egli insegnal’assolutezza della ineffabile esperienza spirituale e la relatività di tutto ilresto, chi è cristiano nega la validità unica ed esclusiva dell’esperienzamistica e insegna l’assolutezza della chiamata divina che s’è fatta udibile inCristo. In ultima analisi, inculcare per forza a chi è cristiano l’assolutezzadella mistica quale sola realtà vincolante costituisce una pretesa non inferioreal sostenere di fronte a chi non è cristiano l’assolutezza di Cristo”.

Merita di essere ulteriormente esplicitato il tentativo di Radhakrishnan diadditare nella mistica il denominatore comune delle religioni e al contempo la‘religione di prima mano’.

In questo ordine di riflessioni, per ‘mistica’ si intende propriamente “unadisposizione che non tollera nessuna realtà sovraordinata a sé, considerandoin ultima analisi le esperienze ineffabili e misteriose del mistico come l’unicarealtà vincolante nell’ambito del religioso. Questo atteggiamento ècaratteristico di Buddha come dei grandi pensatori religiosi del gruppo delle

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religioni induiste, persino quando le loro posizioni sono così opposte fra loro(...). È la via che, con molteplici varianti, costituisce comunque lo sfondounitario delle grandi religioni asiatiche. È caratteristica di tale mistical’esperienza della indistinzione. Il mistico sprofonda nell’oceano dell’Uno-tutto (che esso sia definito come ‘nulla’, in un’accentuata ‘teologia’ negativa,o positivamente come ‘tutto’. È la stessa cosa). Nell’ultimo stadio di taleesperienza il mistico non dirà più al suo Dio: ‘io sono tuo’, ma la sua formulasarà: ‘io sono te’. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lostadio definitivo è la fusione, l’unità”.[624]

Orbene, S. Radhakrishnan vede nella religiosità mistica una sorta di‘metareligione’, in cui le religioni storiche trovano la loro superiore unità.Facendo questo, tuttavia, egli assimila le esperienze mistiche delle altrereligioni a quella propria della mistica indiana advaita, fondata sul principiodella unità tra atman e Brahman. I mistici delle varie religioni vengono così acostituire una sorta di unica ‘comunità dello spirito’ al di là di tutte ledifferenze tra le religioni. Il tentativo di Radhakrishnan si inserisce all’internodi una ampia riflessione sulla mistica come centro e motivo unificante lediverse religioni, che caratterizza in particolare gli esponenti dell’induismomoderno. Nella loro proposta, le differenti esperienze mistiche all’interno didiverse religioni sono elevate al rango di una sorta di ‘religione trasversale’.

In realtà, si può osservare, si assume a criterio interpretativo delle diverseforme di mistica l’esperienza di identità propria della mistica indiana. Comemostra l’indagine storico-comparativa, l’aspetto mistico di una religione èdeterminato dai contenuti di quella specifica religione. Le religioni sidifferenziano anche in relazione alle esperienze mistiche che intervengono –quando intervengano – a caratterizzarle. Come osserva H. Bürkle,[625] perquanto le forme di religiosità mistica delle diverse religioni sianoconfrontabili,[626] non se ne può tuttavia trarre una base comune.

Più in generale, si può dunque affermare che la tipica impostazioneteologica, monistica, e la altrettanto tipica visione antropologica, segnatadall’esperienza dell’indistinzione, proprie dell’induismo, sono a fondamentodella ‘teologia delle religioni’ induista (e più in generale asiatica).

Una ‘teologia delle religioni’ per la quale tutte le diverse religioni,

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proprio perché sono diverse, pertengono al mondo del provvisorio, quelmondo in cui la parvenza della separazione copre ancora, quale velo irreale,la profonda e unica realtà costituita dalla indistinzione. L’Assoluto è al di làdi qualsiasi distinzione. Invece, per il cristianesimo, sulla base della suaprospettiva monoteistica e non monistica, “l’ultima parola dell’essere non èpiù l’assolutamente innominabile, ma l’amore che poi si fa concretamentevisibile in quel Dio che diviene Lui stesso creatura e così unisce la creatura alCreatore”.[627]

È sulla base del suo monismo di fondo che l’induismo, come detto,considera se stesso la via che comprende e supera le altre. Esso relativizzatutto il resto ma, per così dire, lo lascia sussistere nella sua relatività. J.Ratzinger ha denunciato i postulati di una siffatta ‘religione nelle religioni’ o,forse meglio, di una ‘religione dietro le religioni’: “L’equiparazione di tutte lereligioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentalecontemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nellaasserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Altempo stesso risulta chiaro perché, per la religione asiatica, la persona non siaun che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: lapersona, l’io e il tu contrapposti, appartiene al mondo della separazione;anche il confine che distingue l’io e il tu sprofonda, si rivela provvisorionell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto”.[628]

Osserva, con efficacia, H. Bürkle[629]: “In fondo tutti i tentativi dieliminare la correlazione religione-religioni in favore di una ‘unità superiore’sono sguardi e imitazioni, pieni di nostalgia, rivolti a quelle forme, propriedelle religioni asiatiche, di un’esperienza di identità. Per questo si sceglie didare loro la denominazione generalizzante di ‘mistica’. Pensatori appartenentialla religione indù, come Sarvepalli Radhakrishnan e Mahatma Gandhi, sonostati pionieri in questi tentativi. Anche ai loro successori, che annunciano una‘unità in tutte le religioni’, interessa valorizzare in generale l’esperienzad’identità propria dell’India primitiva. Il proprio essere personale-individualedeve venire superato: esso deve trascendersi nel meditativo processo difusione col divino senza nome, designato come brahman. Tutte le religionisarebbero allora soltanto approcci e percorsi che, lungo le vie dei propri

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condizionamenti culturali, tendono allo scioglimento dell’identità personalenell’ancestrale – ed eternamente uguale a se stesso – Sé divino. Può trattarsidei metodi del classico yoga indiano, oppure dell’auto-alienazione seguendoil sentiero ottuplice di Gautama Buddha che sfocia nel nirvana. Ebbene contali metodi si realizzerebbe l’unica ‘religione’. L’unità delle religionidovrebbe radicarsi in questa profondità mistica che esclude la molteplicità. Intale prospettiva tutte le religioni dell’uomo esistenti nella storia reale hannovalore soltanto in quanto stadi preliminari. Tale unità sarebbe raggiungibilesempre e soltanto nella forma dell’approssimazione. Rimane una meta-idealetipica, e come tale continua a sottostare alle leggi naturali del mondocangiante del samsara attraverso l’infinito circolo delle esistenze”.

Espressive di una teologia delle religioni tipicamente asiatica e nellospecifico induistica sono, tra le altre, le pur diverse posizioni di M. Gandhi edi R. Pannikar, alle quali qui possiamo dedicare soltanto un accenno.[630]

Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948)[631] nasce da famiglia distretta osservanza induista e aperta all’influsso della religione giaina,caratterizzata da un rigido astensionismo e dal rispetto estremamente rigorosoper ogni forma di vita.

Induista riformatore e leader politico, fu a Londra dal 1888 al 1891 astudiare Legge. Ottenuta l’abilitazione all’esercizio forense va in Sud Africanel 1893. Nella sua patria si dedicherà alla causa dell’indipendenza dell’Indiaattraverso la pratica della non violenza (ahimsa).

In contatto a Londra con la Teosofia e poi con il poeta indianoRabindranath Tagore, esprime nelle sue idee sulla pluralità delle religioni unsolido radicamento nella tradizione religiosa indiana. Infatti, fa propria laconcezione di Dio peculiare della tradizione mistica indiana che lo vuoleRealtà ineffabile e insondabile, ‘senza qualità’, nirguna. Afferma:“L’esperienza assidua mi ha persuaso che nessun altro Dio esiste all’infuoridella Verità. Quand’ero giovane mi insegnavano a recitare quella parte dellescritture hindu che si chiamano i mille nomi di Dio: ma Dio ha tanti nomiquante sono le creature e perciò dobbiamo concludere che egli non ha nome;poiché in molte forme appare, forma egli non ha; siccome per mille linguaggia noi parla lo possiamo chiamare il silenzioso. Sebbene alcuni dicano che è

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amore, io penso che sia sì anche amore, ma egli è soprattutto verità. Or sonodue anni feci un passo avanti e dissi che la Verità è Dio”.[632] Egli spiega ladifferenza che esiste tra dire che “la verità è Dio” rispetto a dire che “Dio èVerità”. E indica le ragioni per la preferenza della prima affermazione.Afferma che gli atei non hanno mai sollevato obiezioni alla necessità dellaforza della verità, nonostante nella loro ricerca di questa verità essi neghinol’esistenza di Dio. Soprattutto trova nella tradizione induista quella che gliappare come una conferma della legittimità dell’identità tra i due termini.Infatti, la parola nella lingua sanscrita che si rende con l’italiano ‘verità’,ovvero satya, “significa letteralmente ‘ciò che esiste’, esattamente come Diostesso, che solo è, e nient’altro esiste all’infuori di Lui; una concezione checorrisponde a quella di kalma della fede islamica”.[633]

Un cenno ora a R. Pannikar.Teologo, nato da madre spagnola cattolica e da padre indiano e indù,

ritiene che alla base di ogni esperienza religiosa vi sia un ‘principiotrascendente’ o ‘mistero’, che costituisce il ‘fatto religioso fondamentale’ eche è sempre più grande di quanto ogni esperienza religiosa possa affermare.[634] Pertanto – tale è la sua posizione – nessuna religione può entrare indialogo con altre religioni se pretende di possedere la normatività definitiva eassoluta valida per tutti. Il Cristianesimo, nello specifico, se vuole dialogarecon le altre religioni, deve sottoporre la nozione tradizionale della unicità euniversalità di Cristo a una reinterpretazione basata sulla distinzione tra‘Cristo universale’ e ‘Gesù particolare’ o ‘Gesù storico’. Il primo sarebbe ‘ilsimbolo vivente della totalità della realtà: umana, divina, cosmica’incarnatosi in Gesù di Nazareth. Ma non solo in lui, e non in manieradefinitiva, perché nessuna forma storica può – per Pannikar – esserel’espressione piena e definitiva di Cristo. Dunque, il Cristo salvatore non puòessere ‘ristretto alla figura meramente storica di Gesù di Nazareth’. Gesùsarebbe una delle molteplici forme storiche in cui si sarebbe realizzato ilprincipio cosmoteandrico, il Cristo ‘universale’, del quale anche altri maestriin altre religioni sarebbero espressioni. Pertanto il dialogo – nell’idea diPannikar – può avvenire solo con l’abbandono del ‘cristocentrismo’ in favoredel ‘teocentrismo’, ovvero dell’ammissione di un Assoluto, personale o

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impersonale che sia, al fondo di tutte le religioni. Esse sarebbero, infatti,manifestazioni storiche, tutte parziali e relative, di una ‘medesima realtà’, diun unico Mistero divino. Il dialogo interreligioso dovrebbe diventare undialogo intrareligioso, nel quale – cioè – ciascun fedele dialogante con fedelidi altre tradizioni religiose entri, in qualche modo, dentro l’altra tradizionecondividendone l’esperienza religiosa. Questo porta – afferma Pannikar – allapossibilità di una ‘duplice appartenenza religiosa’, per cui si può appartenerea più di una religione sulla base di una ‘convergenza di spiritualità’.

Non è questo il luogo per una critica, pur doverosa – già dal punto di vistadelle risultanze di una storia comparata delle religioni – della posizione inquestione, peraltro largamente echeggiata in altri teologi contemporanei eoggetto di puntuali disamine critiche alle quali rimandiamo chi vogliaapprofondire tali tematiche.[635]

Possiamo solo rilevare, sulla base di una riflessione che pertiene la storiadelle religioni, e che pertanto è quella che qui ci compete, come posizioni diquesto genere vengano ad additare un cristianesimo che non è più tale ma cheè una nuova interpretazione del cristianesimo, la quale comporta la negazioneradicale di ciò che qualifica la specificità del cristianesimo, ovvero l’unicità,‘assoluta’ e non soltanto ‘relativa’, di Gesù di Nazareth. Inoltre non è datoindividuare, sulla base di una indagine storico-comparativa, un puntod’incontro tra le diverse religioni nella modalità di concepire la ‘Realtàultima’, ma modalità diverse e spesso reciprocamente escludentisi diconcepirla, nonché esperienze religiose con contenuti e forme diversi, se nonopposti, di viverla. Osserva, infatti, Bianchi: “Dal punto di vista storico-fenomenologico, l’obiezione che si può fare alle riflessioni del Panikkar è cheesse astraggono troppo, e talora molto ipoteticamente, dalla realtà concreta estorica delle religioni in questione”.[636]

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4.2 Buddhismo

Esso, almeno nella sua forma originaria, può considerarsi come un esitodi quella speculazione in senso monistico esercitatasi, con la sua ricerca di unUno inafferrabile, sul più antico fondo politeistico del pensiero indiano, unesito che vede ormai trasferita l’attenzione dal primo principio, l’Uno, almondo attuale fenomenico, intessuto di illusione e apparenza, di dolore, dirinascita e di morte.

Di fatto il buddhismo nasce in India in quel VI secolo che vede il rigogliodella speculazione upanishadica. Di questa e più in generale dellaspeculazione vedantica, in linea a sua volta con il brahmanesimo, essocondivide la tensione alla definitiva liberazione, ma mentre questa nelleforme dell’induismo menzionate contempla il riconoscimento, ilraggiungimento e l’unione, da parte dell’atman individuale, con l’Assoluto,l’Atman universale, primo principio soggiacente a tutte le manifestazionidell’esistenza, nel buddhismo questa tensione all’unione con l’Assoluto el’esistenza dello stesso sono messe da parte e la liberazione si identifica nelladissoluzione della catena di esistenze dolorose e prima ancora nelladissoluzione del desiderio dell’esistere che – come vedremo – ne è la causa.

Merita di essere ulteriormente illustrato questo nesso tra il buddhismooriginario e la speculazione upanishadica, perché esso fornisce la chiave perdirimere la questione – alla quale ritorneremo – se il buddhismo sia unareligione o non piuttosto una filosofia, una morale o una forma di sapienza:“L’insistenza della visione del mondo buddistica va tutta sugli aspettinegativi che caratterizzano il susseguirsi delle esistenze, e il contenuto diqueste, tutte compaginate come sono di dolore: con la novità, però, checontroparte del fenomenico e transeunte non è qui un Assoluto, che abbia icaratteri della identità al profondo ‘Sostegno’ dell’Essere e al profondo,eterno ‘Atman’. Di questo Assoluto, il Buddismo nulla sa e nulla intendepredicare. Assoluti sono invece, paradossalmente, il senso e l’urgenza dellaliberazione, della dissoluzione (cioè scioglimento) di questi grumi dicoscienza dolorosa aggregati dal karman, che producono la catena dolorosadelle esistenze. L’assoluto inteso dal buddismo è questa stessa liberazione e

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questo stesso scioglimento, che sbocca nello stato di Nirvana. E l’atman èposto da parte non solo nel suo significato upanishadico di Io profondo, diAssoluto e di Sostegno, unico eterno e sussistente al di là della molteplicitàfenomenica, ma è messo da parte anche come anima individuale che siasussistente attraverso le varie trasmigrazioni e reincarnazioni, e soggetto ditali trasmigrazioni. Il buddismo non acccetta di presupporre l’esistenza di talesoggetto, che verrebbe a diminuire la mera fenomenicità delle esistenze,ridotte a puri stati di coscienza e aggregati di karman, e potrebbe reintrodurre,attraverso l’upanishadica identificazione tra atman individuale e atmanuniversale, o meglio attraverso l’upanishadica risalita dell’atman individualeall’atman universale, quell’Assoluto che il buddismo concentra invece nellaliberazione come tale, sboccante nel Nirvana”.[637]

Di fatto, si osservi, non si dà la nozione di una trasmigrazione delleanime, che presupporrebbe quella della sostanzialità di un ‘io’ che passa dicorpo in corpo, ma si dà piuttosto la nozione del perpetuarsi, all’interno delciclo del samsara, di uno ‘stato di coscienza’, determinato dal karman ossiaeffetto delle azioni compiute, di modo che l’ultimo stato di coscienza siperpetua dopo la morte dando vita a un nuovo organismo.

Pertanto, è solo con le precisazioni che or ora abbiamo fatto che èpossibile non tanto collocare il buddhismo nell’alveo della tipologia delmonismo, ma legare il buddhismo al tipo del monismo. Nel senso che ilbuddhismo radicalizza dottrine monistiche nella direzione di un lorosuperamento. Le affermazioni monistiche espressesi in seno all’induismosono dal buddhismo apprezzate nel loro additare la irrealtà delle coseparticolari, ma allo stesso tempo sono intese come una tappa del camminoche superandole conduce all’illuminazione.

Prima di concentrarci sulla figura del ‘fondatore’ del buddhismo e sulleprincipali dottrine che tale religione espresse nella sua evoluzione storica,ritorniamo su un dato storico di primaria rilevanza, ovvero su quel VI secoloa.C. che K. Jaspers[638] ha definito una epoca assiale della storia. Esso videsorgere in occidente la letteratura orfica, Pitagora, in India l’illuminazionebuddhista seguita a poca distanza dalla predicazione jainista, e in estremooriente quell’ideologia taoista, con Lao-Tze, che per alcuni aspetti richiama la

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speculazione upanishadica e quella buddhista. Un filo comune tiene unite leposizioni orfico-pitagoriche in occidente e quelle buddhiste in Oriente ed è lacontestazione del ciclo della vita, che gli antichi culti nazionalipromuovevano e ancora la dottrina upanishadica contemplava purcombattendolo. Ora, con l’orfismo, il ciclo delle nascite è visto come ciclo dinuove morti che incatena l’anima divina al rinnovarsi di sempre nuovi corpi.E il buddhismo viene a combattere tale ciclo in forma estrema, negando lapermanenza dell’anima e additandone il definitivo scioglimento nel nirvana.

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4.2.1 Il ‘fondatore’A differenza dell’induismo, religione etnica, il buddhismo è una religione

fondata, che si rifà a un fondatore, di nobile famiglia, Gautama Siddhartha,detto Buddha (566-486 circa a.C.), nato a Kapilavastu, nell’attuale Nepal, nelnord-ovest dell’India.

Il titolo onorifico di ‘Buddha’ significa ‘il risvegliato’, ovvero colui che ègiunto all’illuminazione. A lui è riuscito, mediante uno sforzo autonomo, discrutare il mondo che, secondo una tipica concezione indiana, è velato damaya, e di giungere alla conoscenza che salva.

Le tradizioni venutesi a costituire intorno alla figura del Buddha narranocome gli incontri con la vecchiaia, la malattia, l’indigenza e la morte sianostati gli eventi decisivi che hanno aperto i suoi occhi e lo hanno condotto alriconoscimento della radicale insufficienza del mondo caduco. Sempresecondo la tradizione, Siddhartha intraprende allora una ricerca che dapprimalo porta a diventare discepolo di due grandi maestri indiani dell’epoca, mache poi egli conduce in solitudine.

Nel settimo anno di ascesi attraverso una meditazione metodica giunseall’illuminazione che cercava, e questa esperienza del fondatore è stata dallatradizione buddhista fissata nella forma di un primo discorso di annuncio, ilcosiddetto ‘discorso di Benares’ (luogo santo nella tradizione induista) rivoltoda Buddha ai cinque asceti che lo avevano accompagnato nel suo cammino.Dopo aver superato il dubbio iniziale sulla capacità degli uomini a cogliere ilsuo messaggio, la sua predicazione si rivolse agli uomini e alle donne di tuttele classi sociali, esprimendo in tal modo una portata di tipo universalistico.

Gli insegnamemti del Buddha furono messi per iscritto solo dopo secoli efino ad allora trasmessi oralmente dai monaci. Il complesso dei libri scritti inlingua pali è denominato Tripitaka, ovvero ‘i tre canestri’, che formano ilcosiddetto Canone Pali (di Ceylon), ossia il Canone buddhista antico.

Molti elementi della tradizione buddhista hanno come presupposto letradizioni del mondo religioso indiano prebuddhista.

Innanzitutto, il ricorso ciclico delle epoche. Per esso, Siddhartha non èstato il primo Buddha, né sarà l’ultimo. All’interno delle ere del mondo che si

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susseguono, possono comparire vari Buddha. Ogni volta che il sacro ordinedecade e la dottrina viene dimenticata, uno di questi ‘illuminati’ devecomparire nel mondo per annunciare la dottrina. Questo e altri elementi dicontinuità con l’antica tradizione vedica mostrano come il buddhismooriginario intendesse porsi come un compimento delle rappresentazioni chein quella trovavano prefigurazione mitica e che ormai apparivano transitorie esuperate.

Questo aspetto del buddhismo è stato talora paragonato – erroneamente –al rapporto di promessa e compimento, presente tra Antico e NuovoTestamento, ignorando una fondamentale differenza: i modelli e leprefigurazioni indiane della comparsa del Buddha nonché delle circostanze edegli eventi che la accompagnano hanno un carattere mitico. Il pantheonindiano ha assunto una funzione strumentale e di accompagnamento rispettoall’evento rappresentato dal Buddha. Nel momento stabilito dal pianocosmico, gli stessi dei – che non sono immortali ma sono anch’essi soggettial ciclo delle rinascite – esortano il Buddha a scendere e a svolgere il suoruolo di annunciatore della dottrina, ovvero del ‘sentiero in otto parti’, che ilBuddha per primo insegna e percorre, e che solo consente, al singolo uomo,di interrompere il doloroso ciclo del divenire, trascorrere e rinascere, cicloche, peraltro, continua a essere vigente e con esso il dharma universale.Perciò gli dei non sono più un argomento della dottrina del Buddha. Essihanno adempiuto alla loro funzione preparatoria dell’evento costituito dallacomparsa del Buddha.

Pertanto, la predicazione del Buddha, ovvero, come preciseremo, ilbuddhismo Hinayana, quello originario o del ‘Piccolo Veicolo’, puòconsiderarsi una religione ‘atea’ solo in un senso molto particolare, vale adire nel senso che esso non nega l’esistenza di divinità personali, ma negal’esistenza di un dio creatore e signore dell’universo, e ritiene ilcomportamento nei confronti delle divinità del tutto irrilevante ai fini dellasalvezza.[639] Da qui la sua contestazione dei sacrifici brahmanici dell’Indiavedica e il rifiuto di esprimersi in merito alla controversie brahmanicheriguardanti il mondo degli dei. Di fatto, rispetto al brahmanesimo ilbuddhismo si distacca sensibilmente proprio per la sua estraneità a posizioni

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teistiche che pure nel brahmanesimo – nonostante le sue profonde tendenze almonismo – avevano avuto spazio, oltre che per il suo rifiuto dei Veda comeautorità rivelata e del sistema delle caste, essenziale per il brahmanesimo.

Le cose stanno diversamente nel rapporto tra Antico e NuovoTestamento, ossia tra fase di preparazione veterotestamentaria e storia delcompimento neotestamentario: “La salvezza, che fa la sua comparsa in GesùCristo, si serve delle tradizioni veterotestamentarie dei padri non (...) comecornice tradizionale mitica, che diventa così superflua. La fase precedente,storicamenre avvenuta, dell’alleanza di Dio con Israele rappresenta piuttostoil duraturo ambito di riferimento e il contesto interpretativo dell’eventocristologico. L’azione di Dio nell’Antica Alleanza non viene successivamentecancellata. Acquista piuttosto il suo significato universale per l’umanitàrispetto a questa storia della salvezza in precedenza limitata a Israele”.[640]

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4.2.2 Le dottrineVenendo più da presso alle dottrine espresse dal Buddha, e alle

evoluzioni storiche che queste conobbero, esse possono essere cosìsintetizzate.

L’annuncio del Buddha si propone, fondamentalmente, il superamentodel dolore (pāli: dukkha; sanscrito: duhkha) mediante la conoscenza dellecondizioni che lo determinano.

Di fatto – secondo il paragone introdotto da Buddha stesso – un uomocolpito da una freccia non si sofferma a interrogarsi circa la provenienza e lanatura di questa, ma si affretta a cercare di estrarla, per evitarne o limitarne leconseguenze perniciose. Orbene, fuor di metafora, nella logica buddhista leconseguenze sono le diverse forme di sofferenza, la quale si genera,attraverso la legge del karman, dal desiderio, “quel desiderio che già laspeculazione upanishadica condannava come passionale attaccamento alfrutto dell’azione e quindi sorgente di karman e perpetuazione della catenadelle rinascite e ri-morti, ma che qui, nel buddismo, investe ogni forma diappetito, anche quello che è diretto alle prospettive escatologiche ispirate dalconcetto brahmanico di Essere Assoluto. Sotto questo profilo il buddismo,per quanto fosse anticipato, nel suo ridurre l’esistenza a karman, da certisviluppi dottrinali nell’ambito della precedente riflessione indiana,rappresenta insieme una radicalizzazione e un ribaltamento della prospettivabrahmanico-upanishadica, che a sua volta era sboccata in un rovesciamentodella ‘mondana’ visuale della religione vedica”.[641]

Afferma il Buddha nella ‘predica di Benares’:Due estremi esistono, o asceti, da cui chi abbia rinunciato al mondo deve tenersi lontano. Il

primo è la dedizione ai piaceri dei sensi, che è bassa, volgare, rivolta al mondo, ignobile e senzascopo; e l’altro è l’abbandono ai tormenti che uno infligge a se stesso, che è doloroso, ignobile,vano. Il Sublime (Buddha) ha evitato questi due estremi. In lui è nata la conoscenza della viamedia, che apre gli occhi, chiarifica la mente e porta al riposo, all’illuminazione, al Nirvana.Questo sentiero medio è il nobile sentiero che consiste in otto parti: retta fede, retta decisione, rettaparola, rette azioni, retta vita, rette aspirazioni, retto ricordo, retta meditazione. Questa, o asceti, èla nobile verità circa il dolore. La nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, lamorte è dolore, essere uniti a qualcosa che non ci è caro è dolore, essere divisi da qualcosa che ci ècaro è dolore, non ottenere ciò che desideriamo è dolore; in breve i cinque oggetti della percezione(o, secondo diversa traduzione: i cinque elementi dell’esistenza) sono dolore. Questa è, o asceti, la

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nobile verità circa l’origine del dolore: è il desiderio avido che conduce alla rinascita, ed esso,congiunto con la gioia e con la cupidigia, è ora qua, ora là in cerca di gioie, cioè il desiderio avidodel piacere dei sensi, il desiderio avido dell’esistenza (...). Questa è, o asceti, la nobile verità circala soppressione del dolore. Essa è l’estinzione di questo desiderio avido per mezzo della totaleassenza di passione, la rinuncia ad esso, respingerlo, lasciarlo passare, non ospitarlo in sé. Questaè, o asceti, la nobile verità circa la via che mena alla soppressione del dolore. È questo il nobilecammino che consiste in otto parti (...) [scil. quelle sopra elencate]. Fintanto che io, o asceti, nonebbi chiara la perfetta conoscenza di queste quattro nobili verità, fin allora io non ebbi coscienza diaver ottenuto la più alta illuminazione sulla terra. Da che io ottenni questa conoscenza, da allora ioebbi coscienza d’aver ottenuto l’illuminazione più alta in questo mondo e in quello degli dèi, fratutte le creature, compresi gli asceti e i brahmani, gli dei e gli uomini. E apparve la conoscenza e laliberazione del pensiero che non può essere smarrita: questa è la mia ultima esistenza, per me nonci sarà più una rinascita”.

Nella stessa ‘predica’, dunque, accanto alla nozione che ogni dolore ha lasua origine nella ‘sete di esistenza’ ovvero nell’attaccamento alla vita, èespresso un altro dato centrale della dottrina buddhista: “O monaci, io vi dicoche tutto quanto provo è dolore, cioè è causato dall’impermanenza di tutte leformazioni”. Tutto è dolore perché tutto passa e finisce. Tutto quanto èimpermanente, fenomeno passeggero, non dotato di alcuna sostanza. Anchel’uomo non è un io permanente, un soggetto permanente di qualsiasi operato,e non possiede una anima sostanziale e dunque permanente. Nel mondo enell’uomo nulla è sostanza e tutto è nome e forma. Tutto è un continuodivenire e una cosa causa l’altra, tutto è un continuo succedersi per ilprincipio di causa ed effetto, che condiziona anche le continue rinascite.Buddhagosha (IV sec.) afferma poetando: “Solo la sofferenza esiste, ma nonsi trova alcun sofferente / gli atti sono, ma non si trova l’attore”.

Se non si dà un io permanente (tale è la dottrina buddhista dell’anatta, insanscrito anâtman) come può darsi una responsabilità che condizioni e motivila rinascita in una condizione buona o in una misera a seconda di come siastata la esistenza precedente? Un testo del Canone Pali, il Milindhapanha (‘Ledomande di Milindha’), così afferma: “Un uomo appicca il fuoco alla casa, ilfuoco si propaga di tetto di paglia in tetto di paglia: tutto il villaggio brucia.L’incendiario potrebbe sostenere che il fuoco appiccato alla sua casa non è lostesso che ha distrutto il villaggio, ma è sempre lui che ha incendiato. Il nomee forma che rinasce non è sostanzialmente identico a quello che è morto, mane deriva”.

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L’uomo si può liberare dal dolore estinguendo, mediante il metodoadditato dal Buddha, la ‘sete’ (tanhâ, sanscrito trishna) di esistenza: “È lasete che porta di rinascita in rinascita, insieme alla gioia e al desiderio, chetrova talvolta la sua gioia: la sete di piacere, la sete di divenire, la sete ditrascorrere”. Per liberarsi dal dolore occorre affrancarsi da tale sete,condizione per evadere dal ciclo delle rinascite ed entrare in quellacondizione di liberazione finale che è indicata col termine difficilmentetraducibile (ma letteralmente significa ‘scomparsa’ o ‘estinzione’) di nirvana(sanscrito) o nibbana (pāli).

Ad essa si perviene osservando i seguenti precetti: a) non uccidere alcunessere vivente, compresi gli animali e i più piccoli insetti: b) non prendere ibeni degli altri; c) non prendere la donna d’altri; d) non mentire; e) non bereliquori inebrianti. In senso più ampio, occorre percorrere l’ottuplice sentiero,oggetto dell’insegnamento del Buddha: “retta fede, retta decisione, rettaparola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, rettaconcentrazione”.

Sul piano comparativo si potrà qui solo osservare che il superamento didolore e sofferenza è un tema presente nel messaggio cristiano, e a coloro chesoffrono è promessa consolazione.[642] Tuttavia, si dà una sostanzialedifferenza tra il modo buddhista e quello cristiano di concepire il dolore: “NelVangelo si dice a chi soffre che la sua sofferenza è raccolta e trasformata ingioia nella sofferenza di Gesù Cristo. Non viene indirizzato su una via cheegli stesso deve percorrere e che consiste in un’applicazione metodica di unanuova concezione del rapporto con i fattori che provocano sofferenza. Alcontrario, il ‘venite a me’di Cristo (Mt 11,28) rinvia l’uomo, distaccandolo dase stesso, all’evento attraverso cui il suo destino doloroso subisce una svolta.Colui che indica la via e la via stessa si identificano in modo unico in GesùCristo (Gv 14,6). L’eliminazione del dolore e della sofferenza si compieconsegnandoli a Colui che, inviato da Dio a questo scopo, ha sperimentato lasofferenza nella sua forma più profonda. La risposta cristiana non offrel’esempio e le indicazioni di come sopportare le difficoltà della vita medianteun distacco interiore dalla propria sofferenza. Attraverso la propriapartecipazione al superamento della sofferenza grazie al Figlio di Dio,

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divenuto uomo per questo, il credente ha parte alla creazione della vita nuovada lui operata.

Questa differenza diviene chiarissima se si confronta l’esortazione rivoltaai successori dal Buddha con le dichiarazioni degli apostoli riguardo a questapartecipazione. Il concetto di fuga costituisce la perifrasi con cui i testibuddhisti esprimono la possibilità di evadere dai falsi legami con la vita.L’uomo è chiamato alla fuga. È lui stesso a doverla compiere. Dipende da luie dal suo comportamento durante la fuga se riuscirà. (...) Viceversa ilmessaggio di consolazione del Vangelo spinge l’uomo a distaccarsi da sestesso e lo rinvia a Cristo che supera il dolore. La propria sofferenza trovarisposta e viene nel contempo annullata nella sua sofferenza. ‘Coeredi diCristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anchealla sua gloria’ (Rm 8,17). Patire insieme a Cristo è sentito come una graziaparticolare (Fil I,29). Nella partecipazione alla sua sofferenza, il propriopatimento già si trasforma nella gioia di aver parte alla sua vittoria su ognisofferenza (l Pt 4,13)”.[643]

Dunque, per il buddhismo, l’applicazione metodica del sentiero in ottoparti conduce all’illuminazione liberatrice o bodhi. “Nella concezionecristiana è Dio che apre gli occhi della fede. ‘Quelle cose che occhio nonvide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo: queste ha preparatoDio per coloro che lo amano’ (1 Cor 2,9). È Dio che apre gli occhi agliuomini perché riconoscano suo figlio Gesù Cristo. Il mistero però vienesvelato da Dio stesso. Qui non è la via metodica della meditazione interioreche origina la percezione liberatrice”.[644]

Tuttavia, la predicazione buddhista originaria, a causa della rigidità delleprescrizioni additate nel ‘sentiero in otto parti’ del Buddha, era rivolta aipochi, i ‘monaci’ del suo seguito, nella persuasione, nutrita dal Buddhastesso, come segnala la tradizione buddhista, che sarebbe stato estremamentedifficile per la maggioranza degli uomini percorrere con successo tale via.

Agli inizi il buddhismo si presentava come una comanità monastica dibhikkhu, ‘mendicanti’, che lasciavano tutto per percorrere il camminoindicato dal Buddha. Di fatto, solo i monaci possono vivere integralmente gliinsegnamenti del Buddha circa il celibato, la povertà e una equilibrata ascesi,

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nutrita di distacco dal proprio io e dalle realtà esterne, di non violenza,pazienza, benevolenza, indifferenza. Originariamente le donne non potevanoaccedere al sangha, o comunità monastica.

Alla via per i pochi, ovvero – secondo la definizione posteriore – al‘Piccolo Veicolo’ (Hinayana), succede il buddhismo del ‘Grande Veicolo’(Mahâyâna), destinato a venire incontro alle esigenze dei molti per i quali lavia additata originariamente dal Buddha risultava impraticabile.

Caratteristica di questa forma successiva di buddhismo, sviluppatasi circa500 anni dopo la morte di Buddha, è la dottrina per la quale l’uomo non èsolo sulla strada che conduce all’illuminazione liberatrice, e con essa allacondizione di ‘buddha’, ma è aiutato dai bodhisattva, ovvero ‘aspirantiBuddha’ o ‘esseri sulla via dell’illuminazione’. Si tratta di coloro che, puressendo già giunti alla meta, hanno rinunciato, mossi dalla compassione(metta) per i molti che sono ancora in cammino, ad entrare nel nirvana, perfar sì che, con il loro aiuto e in grazia dei loro meriti, il maggior numeropossibile di uomini si salvi, ossia raggiunga la finale liberazione.

Con l’idea di queste innumerevoli figure di soccorritori sul camminodella vita, entra nel Buddhismo del Grande Veicolo anche una, per alcuniaspetti, nuova concezione della meta della salvezza, il nirvana.

Esso assume la fisionomia di un luogo di beatitudine, descritto conimmagini di eventi naturali straordinari, una ‘terra pura’, oggetto di unasperanza nell’al di là che era ritenuta, secondo il messaggio originario delBuddha, addirittura un ostacolo per la liberazione stessa. Gli studiosi nonescludono la possibilità che nel corso del tempo si siano esercitati sulMahayana influssi cristiani (dal cristianesimo nestoriano dei primi secoli allemissioni degli ordini mendicanti nel Medioevo alle attività gesuitiche inEstremo Oriente nel XVII secolo) oltre che manichei. Infatti “non si cerca piùla liberazione, come nel buddhismo del Piccolo Veicolo, esclusivamente nelcompimento da parte del singolo della graduale esperienza di illuminazione.All’aiuto esterno da parte del bodhisattva corrisponde anche il traguardouniversale, extraindividuale, in un ‘paese del Buddha’ ultraterreno”.[645]Tuttavia, a segnalare una radicale differenza tra quest’attesa e quella propriadell’escatologia cristiana, rimane il fatto che il ‘paese del Buddha’ è pur

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sempre caratterizzato dall’ideale di liberazione dell’antico buddhismo, per ilquale l’esistenza e la persona dei singoli uomini, come pure dei soccorrevolibodhisattva, sono chiamate ad estinguersi, laddove nell’escatologia cristiana,la fine – e il fine – dell’uomo non è affatto l’estinzione definitiva dellaidentità personale ovvero lo spegnersi dell’‘io’, fugate ogni illusione e ognirinascita, ma la conservazione della propria identità nella comunione tra lacreatura e il creatore. Invece, nel Mahayana, ancora una volta non è ammessol’io sostanziale, mentre si fa strada un certo culto del Buddha e deibodhisattva.

Da ultimo, occorre segnalare un’ulteriore differenza tra l’attesa buddhistadel paradiso del ‘paese puro’ e l’escatologia cristiana.

Quest’ultima, infatti, inserisce la speranza personale nella speranzaescatologica di compimento del mondo intero. Ovvero: cosmologia eantropologia sono strettamente correlate ed entrambe oggetto – nellaprospettiva cristiana – dell’opera redentrice di Gesù Cristo.[646] Nelbuddhismo, invece, le leggi cosmiche non sono toccate dall’illuminazioneliberatrice, la quale, pur diversamente intesa nello Hinayana e nel Mahayana,si compie nell’uomo e non invalida le leggi del ritorno cosmico delle ere.Mondo e uomo restano separati l’uno dall’altro e il ‘soggiorno’ nel ‘paesepuro’ non inficia la realtà di un ordine cosmico immutabile e delle sue leggi.“La sfera di Buddha, a cui l’illuminato partecipa, è zona franca, sottratta aglieventi, che restano validi, a cui è soggetta la realtà delle apparenze”.[647]

Sradicato dall’India, dove era nato, dall’invasione islamica nel 1197 (erimasto, nel subcontinente indiano, soltanto nell’isola di Ceylon nella formadel ‘Piccolo Veicolo’), il buddhismo si diffuse ampiamente in altre regionidell’oriente antico e moderno: in Indocina, in Thailandia (nella formaTheravada, o ‘Scuola degli anziani’, la più antica scuola buddhista tra quelleesistenti), in Cina (nella forma del ‘Grande Veicolo’o Mahayana), inGiappone (ove, nella forma del ‘Grande Veicolo’ e nella declinazioneparticolare del buddhismo Zen,[648] esso convive con la religione ‘indigena’shintoista), nel Tibet (ove il buddhismo del Mahayana ha assunto una formaparticolare, quella del lamaismo), in Corea e Vietnam. Nella sua diffusione insiffatte regioni, il buddhismo mahayanico è venuto a contestare le pretese dei

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seguaci dell’Hinayana di essere gli autentici eredi del Buddha e insiemel’idea che soltanto gli scritti del canone pali (ovvero gli scritti più antichi,redatti in pali) e non anche i più tardi testi redatti da autori mahayanici cinesie giapponesi contengano l’autentica predicazione del Buddha. A loro volta, ibuddhisti hinayanici di Ceylon accusano i mahayanici di essere deicontinuatori dell’induismo in quanto disposti, come questo, ad accogliere ead integrare credenze diverse, dando luogo a nuove declinazioni delmessaggio buddhista originario.

Di particolare interesse, infine, la corrente dell’amidismo, particolarmentediffusa in Giappone, con la sua venerazione dell’Amida Buddha, entitàdivina, personale e salvatrice, la cui invocazione da parte del fedele ottiene aquesto la salvezza intesa come immortalità nel nirvana. Infatti, l’amidismoprofessa la dottrina del Buddha primordiale ed eterno (Adibuddha), distintodal Gautama storico e manifestatosi in innumerevoli entità e in particolare incinque Buddha di cui uno è il Buddha Amitabha (in sanscrito, o AmidaBuddha in giapponese), ‘Luce infinita’, che regna in un paradiso di luce,luogo e condizione diversi da quelli puramente negativi del nirvana. Attornoa lui venne a configurarsi quasi una religione a sé stante, basata sulla praticarituale della ripetuta invocazione del nome del Buddha, la quale era ritenutacapace di creare un vincolo particolare tra il Buddha e l’orante.

Rimane da rispondere alla questione cui sopra si accennava se ilbuddhismo, anche quello originario, sia da intendersi come una religione onon piuttosto come una filosofia, una forma di sapienza o una morale. “Nellamisura in cui il buddismo ha alcuni aspetti (tra altri) tipologicamente ‘affini’alle forme che senza difficoltà chiamiamo religiose (ad. es. il trascendimentodel mondano, in cui si inserisce un’aspirazione e una tematica soteriologica,che si manifesta anche in norme e forme di vita, tra cui il monachesimo) essova chiamato religione, esso è religioso. Ma soprattutto si dovrà tener conto, aldi là di questa visuale solo tipologica, del dato storico (di una tipologiastorica, studiante cioè il concreto storico nelle sue connessioni reali con altriconcreti storici): il quale dato storico è la (...) connessione di fatto delbuddismo con la speculazione e la esperienza religiosa di tipo upanishadico,che esso sviluppa anche se in maniera tutta propria, a suo modo ribaltandola

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o modificandola radicalmente”.[649]

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4.3 Confucianesimo e taoismo

Da ultimo, facciamo una rapida menzione di due tradizioni religiose che,seppur in maniera diversa tra di loro, possono essere percepite se nonesplicitamente almeno come tendenzialmente moniste,[650] per il loro farriferimento – in particolare il taoismo – ad una speculazione sul’Uno comevera, unica e stabile realtà.

Si tratta, con il taoismo e il confucianesimo, di due formazioni religioseche – insieme al buddhismo, nato però in terra indiana – appartengonoall’orizzonte religioso tradizionale della Cina. Anche per queste dueformazioni – e anche questo giustifica la loro collocazione a questo puntodella nostra trattazione – si sono poste e si pongono negli studi delle questionianaloghe a quelle più sopra affrontate in merito al buddhismo, ovvero il loropoter essere o meno identificate come formazioni religiose o non piuttostocome filosofie o morali. Ed anche nei casi di confucianesimo e di taoismo,come vedremo, la risposta a tali questioni non passa attraverso l’adozione diuna rigida definizione di religione quanto attraverso, da un lato, il riferimentoa una nozione analogica di religione e, dall’altro lato, la considerazione dellespecifiche modalità del loro nascere e del loro svilupparsi nel vivo delle storiereligiose in cui essi affondano le proprie radici.

Da ultimo, si tratta di esperienze che si collocano anch’esse, con ilbuddhismo e il jainismo, o in occidente l’orfismo e il pitagorismo – tuttifenomeni che nascono nel VI secolo a.C. – nel cuore di quella che conJaspers poté essere definita come ‘epoca assiale’.

Confucio (da Confucius, latinizzazione di Kongfuzi o Kongzi,‘MaestroKong’) è un personaggio storico nato da famiglia di nobili origini ma cadutain disgrazia nel piccolo stato feudale di Lu nella provincia moderna diShangtung nel 551 a.C. La Cina era travagliata dalle lotte tra i vari principireggenti i diversi stati che ricusavano l’obbedienza al sovrano e sicontendevano l’egemonia. Confucio si adoperò, senza successo, per larestaurazione dell’ordine del regno. Si accostò all’insegnamento di Lao Dan(Vecchio Dan) o Laozi (Maestro Lao), fondatore del daoismo, movimento dipensiero che ha al suo centro il concetto di dao quale principio ineffabile

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preesistente all’universo e origine di tutti gli esseri.Raccolse attorno a sé numerosi discepoli, cui volle trasmettere i valori

della cultura antica cinese fiorente sotto i saggi sovrani del passato e inparticolare le norme rituali, che egli intese porre alla base di un coerentesistema etico, la musica e la poesia. Morì nel 479 a.C. Furono i discepoli diConfucio dapprima e poi i discepoli delle generazioni successive ad annotaresu listelli di bambù gli insegnamenti del maestro, i quali, con l’introduzionedella carta come materiale scrittorio, assunsero la forma di un’opera chevenne denominata Dialoghi.

Alla base del confucianesimo era il culto degli antenati che apparteneva alpatrimonio tradizionale cinese da tempo immemorabile e che Confucioassunse rielaborandolo alla luce del cosiddetto sistema Tsung, che regolava irapporti parentali presso l’aristocrazia cinese e che Confucio consideravaespressione del Tao, l’ordine perfetto del mondo, attivo a livello cosmico,politico e morale.

La via (dao) che l’individuo deve intraprendere, e che ha come capisaldiil principio dell’agire con la massima lealtà e quello del non imporre agli altriquello che non si desidera per sé, ha come meta il coronamento del processodi formazione e maturazione dell’uomo, che culmina con il conseguimentodella umana ‘benevolenza’ (ren; Dialoghi 8,7). Il conseguimento della‘felicità’ (tale il significato di base del termine fu) appare l’aspirazionedominante della spiritualità confuciana e la nozione di fu contempla benimondani come la ricchezza, la lunga vita, la prole numerosa, la pace, ilsoddisfacimento dei bisogni, l’armonia con il mondo e con il cosmo. Essa èassicurata dal corretto espletamento dei riti (li) per la maggior parte legati alculto degli antenati e dall’osservanza di precetti morali. A questi fariferimento, tra gli altri, il seguente passaggio di un testo fondamentale delconfucianesimo che è il Libro dei riti:

La bontà da parte del padre; la pietà filiale da parte del figlio. La gentilezza da parte del fratellomaggiore; l’ubbidienza da parte del fratello minore. La giustizia da parte del marito; lasottomissione da parte della moglie. La bontà da parte degli anziani. La deferenza da parte deigiovani. La benevolenza da parte del sovrano. La fedeltà da parte dei sudditi.

L’insegnamento di Confucio fu approfondito e articolato in direzioniparzialmente diverse dai suoi tre più imporatnti discepoli, Mencio, Gaozi e

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Xunzi, e ha segnato il pensiero cinese fino ai nostri giorni, pur conoscendo,dopo la fine della millenaria epoca imperiale, nel 1911, e l’inizio dell’erarepubblicana, e in particolare con la fondazione nel 1949 della RepubblicaPopolare Cinese e la presa del potere da parte del Partito Comunista, profondiattacchi in quanto considerato, dal potere politico e dal pensiero dominante,principale responsabile dello stato di arretratezza culturale, politica edeconomica della Cina.

Per quanto concerne la presenza nel pensiero confuciano di unadimensione specificamente ‘religiosa’, ovvero di quella dimensione cheabbiamo detto essere quella del rapporto con un supra e un prius, Confucionon nega la esistenza delle entità sovrumane che facevano parte delpatrimonio tradizionale di credenze della antica Cina, quali in particolareShangdi, l’’Antenato’ o ‘Dio in alto’, e Tian, il ‘Cielo, il cui Figlio per ladinastia dei Chou regnante al tempo di Confucio era il re, e che Confuciovedeva come il supremo garante dell’ordine morale. Ma indirizza il suopensiero e il suo insegnamento sulla formazione dell’uomo e non sullaspeculazione in merito a quelle entità – noi diremmo quel supra e quel prius– che egli afferma essere al di là della umana comprensione. Esemplare ditale posizione l’apostrofe che egli indirizza ad un discepolo che gli chiedevacome onorare i numi: “Se non sai onorare gli uomini, come puoi pensare dionorare divinità e spiriti?” (Lunyu 11,12).

Contemporaneo di Confucio fu Lao-Tzu, il quale pure si ispirò allatradizione religiosa della Cina antica, ma, diversamente da Confucio cheguardava alla società aristocratica del tempo, egli guardava soprattutto alpopolo.

A Lao-Tzu è tradizionalmente attribuito il Tao-Te Ching, nel quale sono iprincipi del suo pensiero, basato sulla nozione del Tao, il principio dell’esseree del non essere, l’unico vero immortale, indefinibile e inimmaginabile.

È stato osservato in sede di studi come in Cina il taoismo offra temianaloghi a quelli orfici circa la separazione del cielo dalla terra a partire daun’unità indistinta che si manifesta nel molteplice e lllusorio per poiriassorbirlo in sé. E come l’orfismo in occidente offre la convivenza degliaspetti dottrinali propri dei theologoi e che sedussero Platone con le forme

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popolari e utilitaristiche degli orfeotelesti che lo stesso filosofo denunciò,così in oriente il taoismo potè veder convivere nel suo seno le altespeculazioni di sapore filosofico con le pratiche immortalizzanti eutilitaristiche delle forme popolari. E del resto anche il buddhismo,analogamente, aveva visto “l’austerità nichilista del buddhismo originariocon la folla di credenze e pratiche del mahayana”.[651]

La morale taoista è basata su cinque proibizioni (uccisione degli esseriviventi, alcolismo, ipocrisia, furto, dissolutezza) e dieci consigli: obbedire aigenitori, servire l’imperatore e il proprio maestro, essere buono verso tutte lecreature, sopportare con magnanimità il male ricevuto, risolvere le vertenze etogliere l’odio, aiutare i poveri, liberare gli animali catturati e nutrire gliesseri viventi, scavare pozzi, piantare alberi e costruire ponti, prendersi curadei propri simili e istruirli, recitare i libri taoisti e bruciare l’incenso peronorarli.

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Mircea Eliade-Károly Kerényi, Morcelliana, Brescia 2006Spineto 2009: N. Spineto (a cura di), L’antropologia religiosa di fronte alle espressioni della

cultura e dell’arte, Jaca Book, Milano 2009Spineto 2010: N. Spineto, Religioni. Studi storico-comparativi, in A. Melloni (a cura di),

Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, II, Il Mulino, Bologna 2010, 1256-1317Stausberg 2013: M. Stausberg, Zarathustra e lo zoroastrismo, tr. it. Carocci, Roma 2013 (ed.

or. Zarathustra und seine Religion, München 2005)Tanzella-Nitti, Maspero 2007: G. Tanzella-Nitti - G. Maspero (a cura di), La verità della

religione. La specificità cristiana in contesto, Cantagalli, Siena 2007

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Table of ContentsSOMMARIOPREMESSA

PARTE PRIMA LO STATUTO EPISTEMOLOGICO DELLA STORIA DELLE RELIGIONI.OGGETTO E METODO

CAPITOLO PRIMO INTRODUZIONE ALLA DISCIPLINA ‘STORIA DELLE RELIGIONI’CAPITOLO SECONDO CENNI DI STORIA DEGLI STUDI1. F. MAX MÜLLER E LA SCUOLA DELLA ‘MITOLOGIA DELLA NATURA’2. EVOLUZIONISMO E TEORIE INTERPRETATIVE DELLA RELIGIONE2.1 L’ANIMISMO DI E.B. TYLOR2.2 J.G. FRAZER E LA MAGIA3. PER UN SUPERAMENTO DELLE TEORIE EVOLUZIONISTICHE3.1 A. LANG E W. SCHMIDT4. GLI INDIRIZZI ANTROPOLOGICI5. R. OTTO E IL ‘SACRO’6. LA FENOMENOLOGIA RELIGIOSA6.1 G. VAN DER LEEUW6.2 M. ELIADE7. R. PETTAZZONI E LA NASCITA IN ITALIA DELLA STORIA DELLE RELIGIONI8. INDIRIZZI DI STUDIO RECENTICAPITOLO TERZO L’OGGETTO DELLA STORIA DELLE RELIGIONI1. LA QUESTIONE DELLA DEFINIZIONE DI ‘RELIGIONE’1.1 ‘RELIGIONE’: ROTTURA DI LIVELLO1.2 ‘RELIGIONE’: UNA NOZIONE STORICAMENTE CONDIZIONATA1.2.1 RELIGIO NELL’ANTICA ROMA: IL DE NATURA DEORUM DI CICERONE1.2.2 DALLE RELIGIONES ALLA RELIGIO VERA1.2.3 LA NOZIONE DI RELIGIO IN AUTORI CRISTIANI DI LINGUA LATINA DEI PRIMI

SECOLI1.3 ‘RELIGIONE’: UNA NOZIONE ANALOGICA1.3.1 ANALOGIA E UNIVOCITÀ: ANCORA SULLA DEFINIZIONE DI ‘RELIGIONE’1.3.2 ‘RIDUZIONISMO’ E ‘ANTIRIDUZIONISMO’1.3.3 VANIFICAZIONE E DECOSTRUZIONE DELLA CATEGORIA ‘RELIGIONE’?1.4 ‘RELIGIONE’: UN ‘UNIVERSALE STORICO’CAPITOLO QUARTO IL METODO DELLA STORIA DELLE RELIGIONI1. APPROCCIO STORICO E APPROCCIO STORICISTICO

PARTE SECONDA PER UNA TIPOLOGIA STORICA DELLE RELIGIONICAPITOLO PRIMOINTRODUZIONE ALLE TIPOLOGIE STORICHECAPITOLO SECONDORELIGIONI ETNICHECAPITOLO TERZORELIGIONI FONDATECAPITOLO QUARTORELIGIONI NAZIONALI E RELIGIONI UNIVERSALICAPITOLO QUINTOCULTI COSMOPOLITICI O SOVRANAZIONALICAPITOLO SESTOPOLITEISMO, MONOTEISMO, DUALISMO, MONISMO. RIFLESSIONI

INTRODUTTIVE1. POLITEISMO1.1 PER UNA STORICIZZAZIONE DELLA CATEGORIA DI POLITEISMO1.2 POLITEISMO: UNA STRUTTURA DINASTICO-DIPARTIMENTALE1.3 POLITEISMO: UN SISTEMA ‘APERTO’

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1.4 SUL POLITEISMO IN GRECIA: TENDENZA ‘OLIMPICA’ E TENDENZA ‘MISTICA’1.4.1 I MISTERI GRECI: ELEUSI E SAMOTRACIA1.4.2 LA ‘MISTERIOSOFIA’1.5 CULTI MISTICI E MISTERICI DI ORIGINE ORIENTALE1.5.1 GLI ‘DEI IN VICENDA’1.5.2 UN CASO PARTICOLARE: MITHRA E MITRAISMO IN ETÀ IMPERIALE1.5.3 MISTERI E SALVEZZA. STUDIO DI UN CASO: IL ‘DIO SALVATO’ (FIRM. MAT. DE

ERR. PROF. REL. 22,1-3)1.5.4 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE1.6 PLURALITÀ, UNITÀ E UNICITÀ DEL DIVINO1.6.1 ‘MONOTEISMO PAGANO’ NELLA ANTICHITÀ TARDIVA?

1.6.1.1 L’‘ORACOLO TEOLOGICO’1.6.1.2 TESTIMONIANZE NEOPLATONICHE1.6.1.3 ATTESTAZIONI CULTUALI

1.6.2 ENOTEISMO1.7 UNA CATEGORIA STORICO-RELIGIOSA: IL MITO1.7.1 CENNI DI STORIA DEGLI STUDI2. MONOTEISMO2.1 POLITEISMO E MONOTEISMO. CENNI DI STORIA DEGLI STUDI2.2 MONOTEISMO E MONOTEISMI2.2.1 EBRAISMO-GIUDAISMO2.2.2 CRISTIANESIMO2.2.3 ISLAMISMO2.2.4 ZOROASTRISMO2.3 ‘PSEUDO-MONOTEISMI’2.4 MONOTEISMO TRA ESCLUSIVISMO E INCLUSIVISMO3. DUALISMO3.1 UNDE MALUM?3.2 RELIGIONI E CORRENTI DUALISTICHE3.3 I DUALISMI MEDIEVALI3.4 MONOTEISMO E DUALISMO4. MONISMO4.1 INDUISMO4.1.1 ETICA4.1.2 TRIMURTI E TRINITÀ4.1.3 INDUISMO E INCLUSIVISMO4.1.4 INDUISMO E MISTICA4.2 BUDDHISMO4.2.1 IL ‘FONDATORE’4.2.2 LE DOTTRINE4.3 CONFUCIANESIMO E TAOISMO

BIBLIOGRAFIA

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[1] Si vedano, per esempio, la Storia delle religioni, fondata da P. Tacchi Venturi e diretta da G.Castellani, I-V, UTET, Torino 1970 (sesta ed.; prima ed. 1934), o i più recenti Storia delle religioni,curata da G. Filoramo, I-V, Laterza, Roma-Bari 1990-1997, e G. Filoramo - M. Massenzio - M. Raveri- P. Scarpi, Manuale di Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari 1998 (e successive ed.).

[2] Bianchi 1979.[3] Bianchi 1982, 160.[4] Bianchi 1983a, 27.[5] Bianchi 1970.[6] Utile rassegna in Filoramo-Prandi 1991², Casadio 2005, Mapelli 2009, Spineto 2010.[7] Utile rassegna degli studi religiosi d’impianto comparativo nel XIX e XX secolo in Spineto

2010.[8] Sfameni Gasparro 2011,63-64.[9] Sfameni Gasparro 2011, 68.[10] Come nel caso delle iniziazioni tribali attestate presso i Kurnai, popolazione dell’Australia del

Sud-Est, nel corso delle quali si facevano roteare delle asticelle di legno (appunto, i rombi) cheprocuravano un suono cupo e terrificante, della cui reale natura gli iniziandi venivano a conoscenzasoltanto nella fase culminante dell’iniziazione, mentre ne rimanevano all’oscuro le donne e i bambini.

[11] Altri studiosi si sarebbero invece proposti di criticare i postulati razionalistico eindividualistico caratterizzanti le teorie di E.B. Tylor e di J.G. Frazer. Si tratta in particolare di L. Lévy- Bruhl (1857-1939), che, pur appartenendo al vasto panorama del positivismo evoluzionistico, sicolloca all’interno del particolare indirizzo metodologico proprio della scuola sociologica francese.

[12] Sfameni Gasparro 2011, 81-88.[13] Sfameni Gasparro 2011, 91-92 (testo al quale rimandiamo anche per una opportuna

esemplificazione della figura e delle cratteristiche dell’Essere supremo, sulla base di una narrazionemitica (ma si veda già R. Pettazzoni, Miti e Leggende, I, Africa, Australia, Torino 1948, 410-411) dellatribù dei Kurnai, nell’Australia del Sud-Est.

[14] Bianchi 1982, 158.[15] E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, tr. it., Milano 1963, 50; ed. or. Paris

1912.[16] Ries 1989, 36.[17] Cfr. Sfameni Gasparro 2011, 100-102.[18] Tr. it. di E. Buonaiuti, Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al

razionale, Zanichelli, Bologna 1926 (Feltrinelli, Milano 1966², rivista sulla base della sec. ed. tedesca;1981³).

[19] Il Sacro, 98.[20] Sfameni Gasparro 2011, 96-97.[21] Sfameni Gasparro 2011, 97-100.[22] Sfameni Gasparro 2011,95-96.[23] Per una introduzione bio-bibliografica a Eliade, si veda Spineto 2006.[24] Sulle oscillazioni di significato che il termine archetipo offre nell’opera eliadiana, si vedano

J.P. Culianu, Mircea Eliade, Cittadella, Assisi 1978; N. Spineto, Mircea Eliade e gli archetipi, in L.Arcella - P. Pisi - R. Scagno (a cura di), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e idntità storica,Jaca Book, Milano 1998, 447-463.

[25] M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, tr. it., Rusconi, Milano 1975 (ed. or. Paris 1949).

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[26] M. Eliade, Il sacro e il profano, tr. it., Bollati-Boringhieri, Torino 1967 (ed. or. Paris 1956).[27] M. Eliade, Mito e realtà, tr. it., Borla, Torino 1966 (ed. or. Paris 1963); Id., Miti, sogni e

misteri, tr. it., Rusconi, Milano 1976 (ed. or., Paris 1957); Id., La nostalgia delle origini, tr. it.,Morcelliana, Brescia 1972 (ed. or., Chicago-London 1969).

[28] N. Spineto (a cura di), R. Pettazzoni - M. Eliade. L’histoire des religions a-t-elle un sens?Correspondence 1926-1959, Editions du Cerf, Paris 1994

[29] Pettazzoni 1959, 10.[30] Pettazzoni 1959, 10.[31] Pettazzoni 1959, 14.[32] Per una ricostruzione della figura e del percorso scientifico del quale si vedano Casadio 2002 e

Monaca 2012.[33] Tra gli altri luoghi, Bianchi 1970, 22-24.[34] Bianchi 1979, 33.[35] Bianchi 1979, 43, n. 35.[36] R. Pettazzoni, La religione nella Grecia Antica fino ad Alessandro, Zanichelli, Bologna 1921.[37] Pettazzoni 1959.[38] Per un’introduzione agli inizi della Storia delle religioni in Italia, cfr. P. Siniscalco, Gli

insegnamenti storico-religiosi nell’Università di Roma. Origini e primi sviluppi, in G. SfameniGasparro (a cura di), Agahthe Elpis. Studi storico-religiosi in onore di U. Bianchi, ‘L’Erma’ diBretschneider, Roma1994, 149-170; C. Prandi, La storia delle religioni in Italia tra XX e XXI secolo,Humanitas 66, 2011, 65-87.

[39] R. Pettazzoni, La confessione dei peccati, I-III, Zanichelli, Bologna 1929-1936.[40] Si veda in particolare Bianchi 1970.[41] Cfr. P. Antes - A.W. Geertz - R.R. Warne (a cura di), New Approaches to the Study of

Religion. I. Regional, Critical, and Historical Approaches, Walter de Gruyter, Berlin 2004.[42] In direzione analoga vanno i ricorrenti tentativi di modificare il nome della International

Association for the History of Religions (IAHR), il cui organo scientifico ufficiale è la rivista Numen, eche è stata ed è patrocinatrice di periodici convegni scientifici internazionali.

[43] Rimandiamo per approfondimenti a Filoramo-Prandi 1991², Filoramo 2004, Casadio 2005,Mapelli 2009, Spineto 2010.

[44] Utile per un primo approccio all’antropologia religiosa può risultare Spineto 2009 e, per unaintroduzione alle differenze tra storia delle religioni e antropologia religiosa, Cerutti 2009. Di J. Ries èin corso di pubblicazione, a cura di N. Spineto, l’Opera omnia, Queriniana - Jaca Book, Brescia-Milano2006-.

[45] Tra le altre opere, J. Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro, I-V, Jaca Book –Massimo, Milano 1989-1995; Id. (a cura di), I simboli delle grandi religioni, Jaca Book, Milano 1988.

[46] Ad es. Bianchi 1986.[47] Vanno tuttavia segnalati i rischi offerti da “la pratica di una filosofia della religione che,

trascurando di accostarsi allo studio dei fatti con la necessaria mediazione della storia delle religioni edella fenomenologia da questa nascente, intendesse subordinare queste ultime alla cosiddetta‘precomprensione’ e, criticando l’‘oggettività’ del fatto, rivendicasse a se stessa la questionedell’‘ermeneutica’ e del ‘significato’ (Bianchi 1979, 88).

[48] Utile panoramica delle questioni di teologia delle religioni in M. Crociata (a cura di), Teologiadelle religioni. Bilanci e prospettive, Edizioni Paoline, Milano 2001; Id. (a cura di), Teologia dellereligioni, la questione del metodo, Roma 2006; P. Coda, Il Logos e il Nulla. Trinità, religioni, mistica,

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Città Nuova, Roma 2004².[49] Bianchi 1969, 48.[50] Ad es. 1 Tim. 2,4.[51] Utili sul tema B. Sesboüé, “Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza”. Storia di una formula e

problemi di interpretazione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009 (ed. or. Paris 2004); G.Canobbio, Nessuna salvezza fuori dalla Chiesa? Storia e senso di un controverso principio teologico,Queriniana, Brescia 2009.

[52] Vedasi ad esempio il documento Il Cristianesimo e le religioni, elaborato dalla CommissioneTeologica Internazionale nel 1997.

[53] Invitiamo il lettore a prendere visione, tra i più significativi documenti al riguardo, almeno deiseguenti: Enciclica Singulari quidem (Pio IX, 17 marzo 1856); Catechismo della Chiesa cattolica, nn.846-848; Enciclica Redemptoris Missio (Giovanni Paolo II, 7 dicembre 1990), nn. 4-5, 9-10; DominusIesus. Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede circa l’unicità e l’universalitàsalvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (6 agosto 2000), nn. 4-10, 20-22.

[54] Sul tema, tra gli altri, G. O’Collins, Salvezza per tutti. Gli altri popoli di Dio, tr. it.,Queriniana, Brescia 2011.

[55] Rassegna delle diverse posizioni in, ad es., G. Canobbio - F. Dalla Vecchia - G. Montini,Cristianesimo e religioni in dialogo, Morcelliana, Brescia 1994; Documento della CommissioneTeologica Internazionale, Il Cristianesimo e le religioni, del 30 settembre 1996 (cfr. La CiviltàCattolica 148, 1997, 146-183).

[56] G. Canobbio, Verità, rivelazione e pluralismo. Annuncio e dialogo tra le religioni, Humanitas56, 2001, 198-211, 204.

[57] Canobbio, Verità, rivelazione e pluralismo, 205-6.[58] Tra le sue opere, Nessun altro nome? Brescia, Queriniana 1991. Per una critica alle sue

posizioni, cfr. Ratzinger 2005, 119-120[59] J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, tr. it., Queriniana, Brescia

1997.[60] Utili rassegne in A.W. Geertz – R.T. McCutcheon – S.S. Elliott (a cura di), Perspectives on

Method and Theory in the Study of Religion, Brill, Leiden 2000; P. Antes - A.W. Geertz - R. Warne (acura di), New Approaches to the Study of Religion, I-II, Walter de Gruyter, Berlin 2004.

[61] A. Hultkrantz, Ecologia e religione, in Enciclopedia delle religioni, diretta da M. Eliade;edizione tematica europea a cura di D.M. Cosi - L. Saibene - R. Scagno, da un primo progetto ditematizzazione a cura di J.P. Couliano, vol. V: Lo studio delle religioni. Discipline e autori, Marzorati– Jaca Book, Milano 1995, 110-115, 110-112.

[62] Sfameni Gasparro 2011, 150.[63] W. Burkert, Mito e rituale in Grecia. Struttura e storia, Bari 1987, 28 (ed or. 1979)[64] W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, tr. it.

Torino 1981, 22-23; ed. or. 1972.[65] Sfameni Gasparro 2011, 177.[66] Sfameni Gasparro 2011, 162.[67] Burkert 2003, 221.[68] Per un approfondimento rimandiamo all’efficace sintesi offerta al riguardo da Sfameni

Gasparro 2011, 108-114.[69] The Naturalness of Religious Ideas: A Cognitive Theory of Religion, University of California

Press, Berkeley 1994; Id. Religion Explained. The Evolutionary Origins of Religious Thought, Basic

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Books, New York 2001.[70] E. Th. Lawson – R.N. McCauley, Rethinking Religion: Connecting Cognition and Culture,

Cambridge University Press, Cambridge 1990.[71] Sfameni Gasparro 2011, 109.[72] Bianchi 1993, 1994.[73] Cfr. Filoramo 2004.[74] Filoramo 1993,621.[75] Vero è che in sede filosofica si segnala come, rispetto all’idea di definizione quale

dichiarazione dell’essenza sostanziale dell’oggetto (definizione reale), oggi si sia venuta imponendopiuttosto un’idea di definizione quale definizione nominale, ovvero dichiarazione del significato di untermine, vale a dire dell’uso che si può fare di questo termine in un ambito di ricerca.

[76] Sfameni Gasparro 2011,5.[77] Ibidem.[78] Eliade 1954, 36.[79] Sfameni Gasparro 2011, 7-8.[80] Sfameni Gasparro 2011, 9.[81] Cfr. Bianchi 1979, 203-216.[82] Sul tema Spineto 2002, 412. Cfr. anche Ries 1994, 146.[83] Bianchi 1986, 122-123. Si tratta della seconda edizione aggiornata (la prima ed. è del 1958),

ove viene esplicitata, con il riferimento a M. Eliade, quella che nella prima edizione (alle pp. 116-118)era solo un’allusione priva del nome dello studioso rumeno.

[84] Bianchi 1986, 124.[85] Rispetto all’anno (1958) della prima edizione di Problemi di storia delle religioni.[86] Bianchi 1970, 30.[87] Trovo l’espressione ‘rottura di livello’ come conseguente all’esperienza di bodhi (‘risveglio’,

‘illuminazione’) in relazione al buddhismo, ad esempio, in G. Bonola, Il paradosso della liberazionedal male nel buddhismo. Figure della liberazione: dal nirvâna alla prajña alla fede nel grande voto diAmitabha, in G. Cunico - H. Spano (a cura di), Religioni e salvezza. La liberazione dal male tratradizioni religiose e pensiero filosofico, Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli 2010, 45-79.

[88] Cfr. Spineto 2002, 416.[89] I rischi insiti nell’utilizzazione dell’espressione ‘rottura di livello’ sono esplicitamente

riconosciuti dallo stesso Bianchi (1982, 161-162) il quale, nella sua critica di alcuni tentativi definitoridel fatto religioso, dalla nozione di ‘sacro’ propria di R. Otto, alla nozione di ultimate concern e adaltre, viene a definire l’espressione ‘rottura di livello’ come “espressione valida entro certi limiti, manon utilizzabile con implicanze di autoevidenza generalizzante”.

[90] Religion: Problem of Definition and Explanation, in M. Banton (a cura di), AnthropologicalApproaches to the Study of Religion, London 1966 (rist. 2004), 85-126, 90.

[91] 1983a, 22.[92] A tale humus appartengono molti altri termini del lessico religioso, basti pensare anche soltanto

ai termini ‘rito’ e ‘culto’. Per quanto concerne il termine ‘rito’, esso deriva dal lessico dell’antica Roma,ove il termine ritus indicava un’azione formalizzata, compiuta secondo precise norme e volta a ottenereun effetto preciso. Il termine ‘culto’, dal canto suo, che indica una serie di atti con i quali un individuo ouna collettività stabilisce dei rapporti con una o più entità sovrumane, deriva anche esso dal latinocultus, connesso al verbo colere, ‘coltivare’. Originaria, e attestata in diversi ambiti religiosi del mondoantico, è l’idea che occorra ‘coltivare’ da parte dell’uomo, come verificheremo, gli esseri sovrumani,

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affinché questi esistano. Va tuttavia ricordata, in sede di analisi storico-religiosa, la distinzione,proposta da Brelich 1966, fra riti cultuali (quali il sacrificio, la preghiera, l’invocazione, e così via), chefanno riferimento a esseri sovrumani, e riti autonomi (tra i quali lo studioso citato include i riti magici ei riti di passaggio) che non vi fanno necessariamente (o non vi fanno affatto) riferimento.

[93] Questioni del tutto specifiche, che esulano dagli intenti di questa nostra presentazione,intervengono allorché si registri come nella cultura occidentale post-moderna un fattore ampiamentecaratterizzante il vissuto religioso sia costituito da una scissione, a livello individuale e collettivo, deitre elementi che sopra venivano indicati come costitutivi della nozione occidentale e moderna di‘religione’. Ci si trova, infatti, di fronte in misura sempre maggiore a quello che studi di orientamentosociologico definiscono believing without belonging, vale a dire ‘credere senza appartenere’. Si tratta diun atteggiamento che, osserviamo noi, in qualche misura può essere visto come opposto aquell’atteggiamento che è espresso, nell’orizzonte culturale della Roma repubblicana, dalle parole delpontefice e accademico Cotta nel ciceroniano De natura deorum a cui avremo modo più avanti di fareriferimento: un atteggiamento che, per utilizzare gli stessi termini della espressione inglese sopraregistrata, potrebbe essere definito belonging without believing, ‘appartenere senza credere’.

[94] Utile, al riguardo, Casadio 2010.[95] Per un approfondimento di tali tematiche si veda Sfameni Gasparro 2011, 27-55, alla cui

trattazione queste nostre pagine ampiamente si ispirano.[96] De nat. deor. I, 6, 15.[97] De nat. deor. II, 28, 72.[98] De nat. deor. II, 11, 30.[99] De nat. deor. II, 23, 60.[100] De nat. deor. II, 24, 62.[101] De nat. deor. II, 24, 63.[102] De nat. deor. II 28, 72.[103] De nat. deor. II, 67, 168.[104] De nat. deor. III, 2, 5.[105] Sfameni Gasparro 2011, 35-36.[106] Sfameni Gasparro 2011, 36.[107] De nat. deor. III, 2, 5-6.[108] Sfameni Gasparro 2011, 38-39.[109] Sulla nozione di ‘verità’ nell’Antico Testamento rimandiamo a M. Morani, Alétheia tra greco

classico e greco biblico. Divagazioni linguistiche, in Mazzanti 2008, 13-63; V. Possenti (a cura di), Laquestione della verità, Armando, Roma 2003.

[110] I temi in questa parte solo accennati sono più ampiamente sviluppati in Mazzanti 2008 eCerutti 2008. Sul tema della ‘verità’ della religione, in prospettiva storica, filosofica e teologica, cfr.Tanzella-Nitti, Maspero 2007.

[111] G. Tanzella-Nitti, Il cristianesimo fra universalità della ragione e universalità della religione,in Tanzella-Nitti, Maspero 2007, 173-202, 187-188.

[112] Sul tema cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it., Nuova edizione ampliata,Torino 2005.

[113] Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, 74.[114] K.P. Vanhoutte, Sulla “vera” filosofia: un’archeologia della filosofia cristiana, Città del

Vaticano 2009, 7-8. Per la storia del pensiero dei Padri in una prospettiva filosofica, cfr. Moreschini2004; Id., Storia del pensiero cristiano tardo-antico, Bompiani, Milano 2013.

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[115] Cfr. ora Vanhoutte, Sulla “vera” filosofia, 112-114.[116] Porph. Vita Plot. 10.[117] Cfr. G. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, tr. it., Jaca Book, Milano

1975 (ed. or. Paris 1949).[118] Testo, traduzione e ampio commento in Pellegrino, Siniscalco, Rizzi 2000.[119] Min. Fel. Oct. 6,1.[120] Oct. 5,3.[121] Oct. 5,4.[122] Oct. 5,13.[123] Oct. 6,1.[124] Aug. de civ. Dei VI, 5,1-3.[125] Aug. de civ. Dei IV, 27.[126] Oct. 6,2-3.[127] Cic. de nat. deor. III, 2,5.[128] Rel. III, 8-10.[129] Pellegrino, Siniscalco, Rizzi 2000, 288.[130] Oct. 6,1.[131] Oct. 38,6.[132] Per un’‘attualizzazione’ dello scetticismo sotteso al discorso di Cecilio, cfr. Ratzinger 2005,

76-77, n. 6.[133] Moreschini 2004, 227.[134] Ratzinger 2005, 174.[135] Ratzinger 2005, 176.[136] De virg. vel. 1,1.[137] E. dal Covolo, Religio e pietas nell’età classica, in Tanzella-Nitti, Maspero 2007, 37-51.[138] Sfameni Gasparro 2011, 46-47.[139] Sfameni Gasparro 2011, 47.[140] Sfameni Gasparro 2011, 48.[141] Div. Inst. IV, 28, 2-3.[142] Div. Inst. IV, 28, 16.[143] Sfameni Gasparro 2011, 49-50.[144] Sfameni Gasparro 2011, 51-53.[145] Summa Theologiae IIa, IIae, q. 81, a. 1.[146] Cfr. Bianchi 1979.[147] Bianchi 1982, 149.[148] Bianchi 1991,4.[149] Vi sono diversi tipi di analogia secondo la logica aristotelico-tomista, e fondamentalmente:

analogia di proporzionalità (propria o intrinseca), secondo la quale quello che viene predicatoanalogamente esiste nei soggetti in diversa misura, ovvero quando un concetto si predica di unamolteplicità di cose per una somiglianza di rapporti che tra queste intercorrono; analogia diattribuzione, o di proporzione semplice, per la quale quello che viene predicato analogamente esiste neisoggetti secondo una gerarchia; tale tipo di analogia contempla il princeps analogatum, o analogatoprincipale, ovvero il termine principale e fondamentale su cui si basa l’analogia, quello che esprimenella sua forma più piena e perfetta il contenuto del predicato.

[150] Bianchi 1983a, 17-18.

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[151] Può essere utile, per converso, riportare qui un esempio di affermazione del carattereanalogico della religione, ma di un’analogia implicante un analogatum princeps. Afferma P.E. Dhanis(cit. da Bianchi 1983a, 24-25): “Ciò che dà agli oggetti rispettivi delle diverse religioni la loro unitàprofonda, è, crediamo, il fatto di presentarsi – talora espressamente, talora soltanto in una apprensioneconfusa e sotto figure snaturanti – come supreme sotto ogni rispetto, come aventi un primato assoluto.A ciò che è supremo sotto ogni riguardo, noi riserveremo ormai il nome di divinità”. Al riguardoosserva Bianchi (ibi, 25): “Lasciando da parte la questione di come possa identificarsi il concetto di‘snaturante’ nella questione che ci occupa, osservo che, secondo questa opinione, è sulla base di un taleanalogatum princeps (primato assoluto della divinità, con maggiore o minore partecipazione di questacaratteristica) che nozioni e prassi varie saranno religiose. Ma osservo che, se per un verso l’uso deltermine ‘analogia’ permette una maggiore agilità di manovra, per un altro il parlare di una analogia chesi misuri come partecipazione più o meno perfetta a un punto di riferimento supremo e assoluto fariemergere in sede di storia delle religioni, o comunque di ricerca positivo-induttiva sulla religione e lereligioni, tutto il problema. Dal punto di vista di questa disciplina e di questo tipo di ricerca possonoessere altrettanto religiosi gli spiriti, i culti di fecondità, determinate pratiche per la pioggia, così comelo sono quelle nozioni ed esperienze relative all’assoluto e alla divinità nel senso descritto dal Dhanis. Ilche (...) non significa né relativismo né riduzione, ma solo esigenza dell’elaborazione di una tipologiastorica della religione costruita sull’osservazione dei dati e dei nessi che li concernono”.

[152] Bianchi 1983a, 22-23.[153] Bianchi 1983a, 23-24.[154] Religion: Problems of Definition and Explanation, 96.[155] Brelich 1976, 33. Con la precisazione, da parte di Brelich, che evidentemente non si tratta di

un controllo semplicemente tecnico, giacché esso risulterebbe prima o poi illusorio, ma soprattutto diricondurre alla portata dell’uomo ciò che è umanamente incontrollabile, investendolo di valori umani,attribendogli un significato, per giustificare e con ciò rendere accettabili gli sforzi indispensabiliall’esistenza.

[156] Brelich 1966.[157] Brelich 1966,4.[158] Tra le sue opere: Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1958; Il mondo magico.

Prolegomeni a una storia del magismo, Torino 1948; La terra del rimorso, Milano 1961; Sud e magia,Milano 1959.

[159] U. Bianchi, Religione, mito e storia: con particolare riguardo ai miti di origini presso iprimitivi, in AA.VV., Il problema dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia, 1961, 302-315, 309.

[160] Das Christentum und die Begegnung der Weltreligionen, 1962, in Id., Ges. Werke, V,Stuttgart 1964, 52s.

[161] Bianchi 1982, 156.[162] Bianchi 1979, 19.[163] Bianchi 1982, 156-157.[164] Sul tema cfr. Tanzella-Nitti, Maspero 2007.[165] Bianchi 1982, 157.[166] Sfameni Gasparro 2011, 13.[167] SfameniGasparro 2011, 13-14.[168] Bianchi 1983, 27-28.[169] Sabbatucci 2000, 146.[170] The Meaning and End of Religion, Minneapolis, MN, Fortress, 1991.

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[171] E.J. Sharpe, Understanding Religion, London, Duckworth & Co., 1983, 46.[172] Imagining Religion. From Babylon to Jonestown, University of Chicago Press, Chicago 1982,

xi.[173] Dello stesso si veda Map Is Not Territory. Studies in the History of Religions, Brill, Leiden

1978.[174] The Ideology of Religious Studies, Oxford University Press, Oxford-New York 2000.[175] Worldviews: Cross-Cultural Explorations of Human Beliefs, Prentice Hall, New York 2000³.[176] Un argomentato rifiuto di posizioni decostruzioniste è in Filoramo 2004.[177] Bianchi 1979, 147.[178] Bianchi 1983a, 18.[179] Cfr. Bianchi 1982.[180] Pettazzoni 1959, 10.[181] In merito all’iconografia religiosa utile la serie diretta da Th.P. van Baaren, Iconography of

Religions, Brill, Leiden.[182] Cit. da Bianchi 1979, 83.[183] Bianchi 1993.[184] Bianchi 1982,156. In questo contesto lo studioso sembra riservare la nozione di tipologia

storica, appunto, a quei contesti che pur non essendo verisimilmente stati in contatto storico presentinotuttavia significative analogie. Nel nostro studio, tuttavia, come apparirà nella parte dedicata alletipologie storiche, facciamo riferimento (come già, ad es., Sfameni Gasparro 2011) a una nozione ditipologia storica più ampia e tale da coprire anche tipi di fenomeni religiosi che siano stati in contattotra di loro nel tempo e nello spazio.

[185] Pettazzoni 1959, 10-11.[186] Se Pettazzoni affermava che la comparazione tra tratti statici, strutturali, è improduttiva,

mentre non lo è la comparazione tra processi dinamici di sviluppo, tra dinamiche storiche, trovavaconferma di questo assunto – ad esempio – nello studio, da lui condotto ne La religione della Greciaantica, della religione greca, la quale – affermava – può essere spiegata (ovvero: se ne possono coglierei tratti differenziali e lo specifico) solo se inserita nella globalità della civiltà greca, che è una realtàstorica da spiegare nella sua formazione e nel suo sviluppo. Formazione e sviluppo che, a loro volta,possono essere intesi nella loro originalità solo se comparati con i processi analoghi (non identici) diformazione e di sviluppo di altre civiltà del mondo antico.

[187] Bianchi 1982,146.[188] A. Brelich, Prolegomeni a una storia delle religioni, in Id., Storia delle religioni: perché,

Liguori Editore, Napoli 1979, 137-183, 183.[189] R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Paris 1992², 16 (prima ed. 1989; 2000

terza ed.).[190] Di fatto, l’approccio storicistico allo studio dei fatti religiosi avversava la comparazione in

quanto considerava ogni formazione storica unica e irripetibile, e pertanto non comparabile.[191] Se nelle presenti pagine abbiamo considerato il tema della comparazione soprattutto in

relazione alle fasi aurorali della disciplina storico-religiosa in Italia, nel suo confronto con lacomparazione evoluzionistica e con quella fenomenologica, qui possiamo solo registrare come ildibattito in merito alla comparazione storico-religiosa si sia via via arricchito di apporti diversi einterventi significativi per i quali utile può risultare la sintesi offerta da G. Filoramo - N. Spineto (a curadi), La storia comparata delle religion, “Storiografia”, 6, 2002. Tra i più recenti interventi, C. Calame -B. Lincoln (a cura di), Comparer en histoire des religions antiques. Controverses et propositions, Liège

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2012; G. Casadio, Storia della religione greca e storia comparata delle religioni: Brelich (1975/1985);Vernant (1987/1990); Bremmer (1994/2001), Postfazione a J. Bremmer, La religione greca, tr. it.,Edizioni Lionello Giordano, Cosenza, 2002, 157-175; P. Clemente - C. Grottanelli (a cura di),Comparativa/mente, Seid Editori, Firenze, 2009; M. Burger - C. Calame (a cura di), Comparer lescomparatismes. Perspectives sur l’histoire et les sciences des religions, Paris-Milano, Arché 2006.

[192] Bianchi 1979a, 215.[193] Religione e cultura, ripubbl. in Religione e società, a cura di M. Gandini, Ponte Nuovo,

Bologna 1966, 171.[194] Socialismo e cultura storico-religiosa, ripubbl. in Religione e società, 176.[195] Scritti nel settembre del 1959, furono riordinati e pubblicati a cura di A. Brelich in SMSR 31,

1960, 25-55.[196] E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, SMSR 28, 1957, 89-

107, 90.[197] E. de Martino, Commemorazione di R. Pettazzoni, in M. Gandini (a cura di), Raffaele

Pettazzoni e gli studi storico-religiosi in Italia, Forni, Bologna 1969, 88.[198] Bianchi 1983, 27-28.[199] Bianchi 1979, 60.[200] Bianchi 1979, 222.[201] Cfr. Bianchi 1982, 156-157.[202] U. Bianchi, Cronaca. Il I Congresso Internazionale sulla Teologia del Concilio Vaticano II.

Roma, 26 settembre – 1° ottobre 1966, Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 2, 3, 1966, 578-587,579.

[203] Anche in relazione all’ambito più propriamente della teologia delle religioni, J. Ratzinger(Ratzinger 2005) osserva come di contro a un giudizio indifferenziato sulle religioni ‘altre’ come massaindistinta, si fa sempre più strada l’idea che le religioni non debbano essere oggetto di unaconsiderazione indifferenziata, potendo all’interno di esse distinguere tipologie varie e, all’interno diuna stessa religione, essere presenti modalità profondamente diverse. Al riguardo, cita il caso dell’Islamche può conoscere sia forme distruttive sia, tra le altre, forme a cui si riconosce una qualche vicinanza aforme mistiche cristiane.

[204] Bianchi 1969, 46-47.[205] Bianchi 1969, 47.[206] U. Bianchi affermava (cfr. Bianchi 1979) che – propriamente – queste due possibilità

corrispondono a due tipi di comparazione. Una più propriamente ‘storica’, che studia i rapporti storicitra fatti, contesti o processi, ovvero tra realtà che siano state in contatto tra di loro nel tempo e nellospazio. L’altra, di ‘tipologia storica’, che studia parallelismi di sviluppo che non implichino il contattostorico, ma implichino invece la produzione indipendente, in più luoghi e tempi, di certi effetti legati acerte cause o a certe occasioni simili. Questa seconda studia comparativamente fatti e processi storiciche non siano stati tra di loro in verificabile contatto nel tempo e nello spazio ma che tuttaviarispondano ad una tipologia di genesi e di sviluppo sufficientemente analoga. Tuttavia, come sopraabbiamo già precisato, noi usiamo in questa sede la nozione di tipologia storica in un senso più ampio etale da abbracciare le due possibilità qui delineate.

[207] Sfameni Gasparro 2003, 104.[208] Bianchi 1986, 33.[209] Sfameni Gasparro 2011, 130-131.[210] Sfameni Gasparro 2011, 132.

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[211] Sfameni Gasparro 2011, 133-134.[212] Bianchi 1986, 35-36.[213] Bianchi 1986, 36-37.[214] Utile per un primo approccio a figure di fondatori l’opera di P. Antes (a cura di), I fondatori

delle grandi religioni, tr. it. Torino 1996 (ed. or. 1992), peraltro carente, in quanto rassegna di singolipersonaggi, di una adeguata problematizzazione storico-comparativa della categoria del fondatore,come mostra Sfameni Gasparro 2011, 189-190.

[215] P. Mattei, Il cristianesimo antico. Da Gesù a Costantino, tr. it., Il Mulino, Bologna 2012 (ed.or. Paris 2008), 61.

[216] Mattei, Il cristianesimo antico, 142.[217] Sfameni Gasparro 2011, 186.[218] Bianchi 1986, 42-44.[219] Pro Flacc. 28,69.[220] Cfr. de Is. et Os. 67.[221] U. Bianchi, Diffusione, proselitismo, missione. Tre esempi di fenomenologia religiosa, in G.

Ghiberti (a cura di), La missione nel mondo antico e nella Bibbia, XXX Settimana Biblica Nazionale,Ricerche storico-bibliche 1, 1990, 13-24, 17.

[222] Bianchi 1986, 46-47.[223] Bianchi 1986, 47-48.[224] Bianchi 1986, 45.[225] Bianchi 1967, 89-90.[226] Bianchi 1967, 91.[227] Sfameni Gasparro 2011, 147-148.[228] R. Pettazzoni, Saggi di Storia delle religioni e di mitologia, a cura di G. Casadio, Loffredo

Editore, Napoli 2013 (ed. or. 1946),165.[229] Utile al riguardo G. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, tr. it., Jaca Book,

Milano 1975, rist. 2005 (ed. or. Paris 1947), 95-120.[230] A.D. Nock, Conversion: the Old and the New in Religion from Alexander the Great to

Augustin of Hippo, Oxford 1933, 7; tr. it., La conversione. Società e religione nel mondo antico,Laterza, Bari 1985.

[231] Sulla conversione in ambito cristiano, si veda Bardy, La conversione al cristianesimo neiprimi secoli.

[232] V. Conversione e convertiti, Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Marietti,Genova-Milano 2006, 1173-1174.

[233] Osserva Nock, Conversion, 15: “una conversione al paganesimo apparirà soltanto quando ilcristianesimo sarà diventato così potente che il suo rivale sarà, per così dire, trasformato in un’entità peropposizione e contrasto. A quel punto troviamo uomini che ritornano in penitenza e con entusiasmo allafede del passato che adesso è stato rivestito con una nuova serietà”.

[234] Sfameni Gasparro 2003a, 234-235.[235] Sfameni Gasparro 2011, 148.[236] Cfr. ad es. CIL 6, 1778 ss.[237] J.Rüpke, La religione dei Romani, tr. it., Einaudi, Torino 2004, 177.[238] Bianchi 1986, 67-68.[239] Tra gli studi sul politeismo, D. Sabbatucci, Politeismo. 1- Mesopotamia, Roma; Grecia,

Egitto; 2- Indoiranici, Germani, Cina, Giappone, Corea, Roma 1998; A. Brelich, Il politeismo, a cura

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di M. Massenzio e A. Alessandri. Prefazione di M. Augé, Roma 2007; R.J. Zwi Werblowski, s.v.Polytheism, in M. Eliade (ed.), The Encyclopedia of Religion, vol. XI, New York-London 1987, 435-439; ed. it. vol. III, Milano 1993, 424-426; F. Schmidt (a cura di), L’Impensable polythéisme. Étudesd’historiographie religieuse, Paris 1988.

[240] Tr. it. Adelphi, Milano 2000 (ed. or. 1998).[241] Anche il termine ‘paganesimo’, come denominazione che descrive gli adepti delle religioni

altre e diverse dal giudaismo e dal cristianesimo nel mondo mediterraneo antico (come i terminialternativi ‘gentile’ ed ‘elleno’) viene in taluni studi rifiutato a causa della valenza derogatoria che essopoté assumere nell’uso cristiano. Caso analogo è costituito dal termine ‘primitivo’, usato in una passatastagione di studi per designare le popolazioni prive di scrittura attualmente viventi, in un contesto chefiniva per caricarlo di un valore derogatorio. Anche per questo termine, l’uso può considerarsi legittimo(cfr. ad es. Bianchi 1979, 297-306), una volta che si riconoscano i condizionamenti storici cui questo egli altri termini presi in considerazione sono stati assoggettati.

[242] Sfameni Gasparro 2003, 102.[243] Sfameni Gasparro 2007, 106-107.[244] Filoramo 2004, 181-182; Id. - F. Pajer, Di che Dio sei? Tante religioni un solo mondo, SEI,

Torino 2011, 63-64.[245] Si segnalano negli studi almeno due eccezioni, ossia due civiltà primitive politeiste, quella di

alcuni popoli (come gli Yoruba) della costa occidentale dell’Africa e quella polinesiana. I polinesianiprima dell’arrivo dei bianchi si trovavano allo stadio del neolitico e ignoravano l’uso dei metalli,praticavano orticoltura e pesca, non costruivano in materiale duraturo e non conoscevano scrittura.

[246] Shinto è parola sino-giapponese che significa ‘via (cin. tao) degli dei (cin. shen)’. Questi sonodetti kami e comprendono anche gli ‘avi’, originariamente legati ai clan. Lo shintoismo, religioneetnica, e meglio nazionale, le cui origini si legano strettamente con quelle della nazione giapponese, fula religione ufficiale dello Stato giapponese dal 1870 al 1889. Successivamente sotto una forma diversa,ovvero classificato dallo Stato giapponese non come una religione ma come una istituzione patriottica enazionale, rimase un riferimento obbligatorio per il cittadino giapponese. Religione politeistica, ‘senzaescatologia e senza soteriologia’, come la definì R. Pettazzoni (Saggi di Storia delle religioni e dimitologia, 187), dai forti riferimenti naturistici, è ancora oggi via privilegiata di espressione di lealismoe devozione verso l’Imperatore, venerato – fino a tempi non lontani – come essere di ascendenzadivina.

[247] Offriamo qui alcune indicazioni bibliografiche per un primo approccio alle grandi religioni astruttura politeistica del mondo antico, nonché a loro specifici aspetti e temi, privilegiando – per un usodidattico – le opere più recenti e/o quelle in lingua italiana o tradotte in italiano. Per i politeismi delmondo mediterraneo e vicino orientale: G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, I: Le religioniantiche, Laterza, Roma-Bari 1994; Ph. Borgeaud - F. Prescendi (a cura di), Religioni antiche, tr. it.,Carocci, Roma 2011; B. Hrouda, La Mesopotamia (Universale Paperbacks Il Mulino 443), Il Mulino,Bologna 1997; P. Buccellati, “Quando in alto i cieli...”. La spiritualità mesopotamica, Jaca Book,Milano 2012; R. Buongarzone, Gli dei egizi, Carocci, Roma 2007. Per la Grecia: U. Bianchi, Lareligione greca, Utet, Torino 1992 rist.; J.N. Bremmer, La religione greca, tr. it. (Biblioteca di studireligiosi 4), Lionello Giordano Editore, Cosenza 2002; W. Burkert, La religione greca di epoca arcaicae classica, tr. it., Jaca Book, Milano 2003²; S. Price, Le religioni dei Greci (Universale Paperbacks IlMulino), Bologna 2002; E. Suarez de la Torre, Religiόn griega o religiones de la Grecia antigua?,Myrtia 21,2006, 9-35. Per Roma: J. Champeaux, La religione dei Romani (Universale Paperbacks), IlMulino, Bologna 2002; J.Rüpke, La religione dei Romani, tr. it., Einaudi, Torino 2004; J. Scheid, La

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religione a Roma, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2004. Per i culti mistici e misterici: R. Pettazzoni, Imisteri. Saggio di una teoria storico-religiosa, Zanichelli, Bologna 1924, rist. 1997; W. Burkert,Antichi culti misterici, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1989 (ed. or. 1987); G. Sfameni Gasparro, Misteri eteologie. Per la storia dei culti mistici e misterici nel mondo antico, Lionello Giordano Editore,Cosenza 2003; P. Scarpi (a cura di), Le religioni dei misteri. Vol.I: Eleusi, Dionisismo, Orfismo; vol. II:Samotracia, Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, Mondadori, Milano 2002.

[248] A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, rist.2003; Id., I Greci e gli dei, Liguori, Napoli 1985.

[249] Brelich, Il politeismo, 141.[250] Tra le ultime pubblicazioni al riguardo, ad es., M. Bettini, Elogio del politeismo. Quello che

possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014.[251] M. Sina (a cura di), La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, Vita e

Pensiero, Milano 1991.[252] P. Garnsey, Religious Toleration in Classical Antiquity, in W.J. Shiels (a cura di),

Persecution and Toleration. Studies in Church History, Oxford 1984, 1-27.[253] G. Zecchini, Religione pubblica e libertà religiosa nell’impero romano, in G.A. Cecconi, Ch.

Gabrielli (a cura di), Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico. Poteri e indirizzi, forme dicontrollo, idee e prassi di tolleranza. Atti del convegno internazionale di studi (Firenze 24-26settembre 2009), Edpuglia, Bari 2011, 187-198, 194-195.

[254] Essa peraltro costituisce il suggestivo titolo dell’opera La maschera della tolleranza(Ambrogio, Epistole 17 e 18; Simmaco, Terza Relazione). Introduzione di I. Dionigi. Trad. di A.Traina. Con un saggio di M. Cacciari. Testo latino a fronte, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano2006.

[255] Trad. Bianchi 1969, 57.[256] Trad. Bianchi 1969, 56.[257] Trad. Bianchi 1969, 56.[258] Cfr. Bianchi 1991.[259] Bianchi 1991, 59-60.[260] Bianchi 1991, 60-61.[261] Sfameni Gasparro 2007, 119-120.[262] Sfameni Gasparro 2007, 121.[263] Sfameni Gasparro 2007, 112-118.[264] Nell’impossibilità di offrire qui una adeguata rassegna bibliografica relativa all’orfismo, ci

limitiamo a segnalare la nuova edizione critica dei frammenti e delle testimonianze curata da A.Bernabé (Poetae Epici Graeci. Pars II, Fasc. 1: Orphicorum et orphicis similium testimonia etfragmenta, Monachii et Lipsiae 2004), nonché edizioni di singoli testi o raccolte di documenti ointroduzioni generali al fenomeno orfico, quali G. Ricciardelli, Inni orfici, Milano 2000; G. Betegh, TheDerveni Papyrus, Cambridge 2004; A. Bernabé - A.I. Jiménez San Cristóbal, Instrucciones para elMás Allá. Las laminillas órficas de oro, Madrid 2001; P. Scarpi, Le religioni dei misteri, I, Eleusi,Dionisismo, Orfismo, Milano 2002; M. Tortorelli Ghidini - A. Storchi Marino - A. Visconti (a cura di),Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture nell’antichità, Napoli 2000; A.-F. Morand, Étudessur les Hymnes orphiques, Leiden-Boston-Köln 2001; A. Bernabé, Platone e l’orfismo, in G. SfameniGasparro (a cura di), Destino e salvezza. Tra culti pagani e gnosi cristiana. Itinerari storico-religiosisulle orme di U. Bianchi, Cosenza 1998, 33-93; A. Bernabé, La tradizione orfica dalla Grecia classicaal neoplatonismo, in G. Sfameni Gasparro (a cura di), Modi di comunicazione tra il divino e l’umano,

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Cosenza 2005, 107-150.[265] Sfameni Gasparro 2007, 121-125.[266] Bianchi 1991, 55-70.[267] Per un approfondimento del tema cfr. Sfameni Gasparro 1994.[268] Cfr. tra le pubblicazioni più recenti G. Zecchini (a cura di), L’ellenismo come categoria

storica e come categoria ideale, Vita e Pensiero, Milano 2013.[269] Per una più ampia trattazione rimandiamo a Sfameni Gasparro 1994.[270] Paus. VII, 17, 10-12; Arn. Adv. nat. V, 5-7.[271] CIL VI,510 del 376 d.C.[272] Una fonte attesta come il fedele, alla fine del percorso iniziatico, si proclamasse “mista di

Attis” (Firm. Mat. de err. prof. rel. 18).[273] II,171,1; II, 59, 2 e 156, 5.[274] Met. XI,5.[275] De Is. et Osir. 27.[276] Sfameni Gasparro 1994, 425-426.[277] Denominazione e categoria, quella di ‘religioni orientali’, che deve la sua fortuna agli studi

dello storico delle religioni belga Franz Cumont (1868-1947), e in particolare alla sua opera Lesreligions orientales dans le paganisme romain, Paris, 4 éd. revue 1929 (prima ed., Paris 1906; 2 éd.revue, Paris 1909; rist. a cura di C. Bonnet, Fr. Van Haeperen - B. Toune (Bibliotheca Cumontiana.Scripta Maiora 1), Torino 2006; tr. it., condotta sulla seconda ed. francese, Le religioni orientali nelpaganesimo romano, Bari 1913, rist. 1967), oggi oggetto di profonda revisione critica che ha datoluogo a studi e incontri scientifici di ampia risonanza.

[278] Ora si potrà far utile riferimento a E. Sanzi, I culti orientali nell’impero romano.Un’antologia di fonti (Collana di studi storico-religiosi 4), Lionello Giordano Editore, Cosenza 2003.

[279] De leg. Il, 14,36.[280] Cfr. A.J. Festugière, Personal Religion among the Greeks, Berkeley-Los Angeles 1954,

1960².[281] Cfr. P. Xella (a cura di), Quando un dio muore. Morti e assenze divine nelle antiche

tradizioni mediterranee, Essedue, Verona 2001.[282] Ps. Apollod. 3,14,4.[283] U. Bianchi, Lo studio delle religioni di mistero, in Id. – M.J. Vermaseren (a cura di), La

soteriologia dei culti orientali nell’impero romano, Atti del Colloquio Internazionale, Roma 24-28settembre 1979, Leiden 1981, 11-15.

[284] Bianchi 1983a, 20-21.[285] CIMRM II, 1698.[286] Cfr. M.V. Cerutti, Mithra ‘dio mistico’ e dio ‘in vicenda’? in U. Bianchi (a cura di), Mysteria

Mithrae, Atti del Seminario Internazionale, Brill, Leiden 1979, 389-395.[287] Orig. Contra Celsum VI, 22.[288] Bianchi (a cura di), Mysteria Mithrae, p. xv.[289] Si veda ora l’introduzione, la traduzione e il commento di Ennio Sanzi a Firmico Materno.

L’errore delle religioni pagane, Città Nuova, Roma 2006.[290] Cfr. D.M. Cosi, Aspetti mistici e misterici del culto di Attis, in Bianchi – Vermaseren (a cura

di), La soteriologia dei culti orientali nell’impero romano, 485-504.[291] Vita Isidori ed. Zintzen p. 176, 13.[292] Al riguardo si vedano le perplessità espresse da R. Turcan, Discussione, sulla relazione di J.

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Pepin, in Bianchi – Vermaseren (a cura di), La soteriologia dei culti orientali nell’impero romano, 273,che propende per una interpretazione di tipo osirico, anche in base alle somiglianze che il cap. XXIIdell’opera offrirebbe con luoghi del cap. II della stessa, consacrato al culto di Iside e Osiride.

[293] Plut. de anima fr. 178 Sandbach, apud Stob. Flor. IV 107.[294] R. Turcan, Firmicus Maternus. L’erreur des religions païennes, Les Belles Lettres, Paris

1982.[295] J. Podeman Sorensen, Attis or Osiris? Firmicus Maternus, de errore 22, in Id. (a cura di),

Rethinking Religion. Studies in the Hellenistic Process, Copenhagen 1989, 73-86.[296] De err. prof. rel. 22,1-3: “Aliud etiam symbolum proferimus ut contaminatae cogitationis

scelera revelentur; cuius totus ordo dicendus est, ut apud omnes constet, divinae dispositionis legemperversa diaboli esse imitatione corruptam. Nocte quadam simulacrum in lectica supinum ponitur, etper numeros digestis fletibus plangitur. Deinde, cum se ficta lamentatione satiaverint, lumen infertur.Tunc a sacerdote omnium, qui flebant, fauces unguentur; quibus perunctis, sacerdos hoc lentomurmure susurrat: Θαρρεῖτε, μύσται τοῦ θεοῦ σεσωσμένου, Ἔσται γὰρ ἡμῖν ἐκ πόνων σωτηρία. Quidmiseros hortaris gaudeant? quid deceptos homines laetari compellis? quam illis spem, quam salutemfunesta persuasione promittis? quid illos falsa pollicitatione sollicitas? Dei tui mors nota est, vita nonparet, nec de resurrectione eius divinum aliquando respondit oraculum, nec hominibus se post mortem,ut sibi crederetur, ostendit. Nulla huius operis documenta praemisit, nec se hoc facturum essepraecedentibus monstravit exemplis. Idolum sepelis, idolum plangis, idolum de sepultura proferis, etmiser, cum haec feceris, gaudes! Tu deum tuum liberas, tu iacentia lapidis membra componis, tuinsensibile corrigis saxum. Tibi agat gratias deus tuus, te paribus remuneret donis, te sui velit esseparticipem. Sic moriaris ut moritur, sic vivas ut vivit”.

[297] Tra i più recenti interventi sul tema, G. Scandone Matthiae, Osiride, l’africano, ovvero lamorte regale, in Xella (a cura di), Quando un dio muore, 15-30.

[298] Cfr. F. Cumont, Lux perpetua, Paris 1949, 404.[299] Cfr. J.C. Thom, The Pythagorean Golden Verses, With Introduction and Commentary, Brill,

Leiden-New York-Köln 1995, 205-215.[300] U. Bianchi, La salvezza nei culti misterici dell’impero romano, in AA.VV., Le religioni della

salvezza nel mondo antico, Faenza 1983, 19-20.[301] De cor. XV, 3-4.[302] Cfr. D.M. Cosi, Casta mater Idaea. Giuliano l’Apostata e l’etica della sessualità, Marsilio,

Venezia 1986.[303] Indichiamo al lettore una bibliografia minima sui culti mistici e misterici: W. Burkert, Antichi

culti misterici, tr. it., Roma-Bari 1988 (se ne veda la recensione di Bianchi in Gnomon 67, 1995, 1-5);R. Pettazzoni, I misteri, Cosenza 1997 (rist.; prima ed. 1924); K. Prümm, I cosiddetti ‘dei morti erisorti’ nell’Ellenismo, Gregorianum 39, 1958, 410-39; D. Sabbatucci, Saggio sul misticismo greco,Roma 1979; P. Scarpi (a cura di), Le religioni dei misteri, I Eleusi, Dionisismo, Orfismo; II Samotracia,Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, Milano 2002; G. Sfameni Gasparro, Misteri e culti mistici diDemetra, Roma 1986; Ead., Misteri e teologie. Per la storia dei culti mistici e misterici nel mondoantico [Hierà. Collana di studi storico-religiosi 5], Cosenza 2003; P. Xella (a cura di), Quando un diomuore, Verona 2001; si considerino poi i diversi volumi della collana Études Préliminaires auxReligions Orientales dans l’Empire Romain (EPRO), ora Religions in the Graeco-Roman World, e inparticolare i volumi n. 80 (U. Bianchi (a cura di), Mysteria Mithrae Atti del Seminario Internazionalesu ‘La specificità storico-religiosa dei Misteri di Mithra, con particolare riferimento alle fontidocumentarie di Roma e Ostia’ Roma e Ostia 28-31 Marzo 1978 / Proceedings of the International

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Seminar on the ‘Religio-Historical Character of Roman Mithraism, with Particular Reference to Romanand Ostian Sources’, Rome and Ostia, 28-31 March 1978 (EPRO 80), Roma-Leiden 1979), n. 92 (U.Bianchi - M.J. Vermaseren (a cura di), La soteriologia dei culti orientali nell’Impero romano. Atti delColloquio Internazionale su La soteriologia dei culti orientali nell’Impero romano, Roma 24-28Settembre 1979 (EPRO 92), Leiden 1982) e 149 (dedicato ai culti di Attis); G. Sfameni Gasparro,Strategie di salvezza nel mondo ellenistico-romano. Per una tassonomia storico-religiosa, in AA.VV.,Pagani e cristiani alla ricerca della salvezza (I-III sec.). XXXIV Incontro di studiosi dell’antichitàcristiana, Roma 5-7.5.2005, Studia Ephemeridis Augustinianum 96, Roma 2006, 21-53.

[304] U. Bianchi, Gli dei morenti e i misteri pagani, in V. Marras (a cura di), Sulle orme di Paolo,IV, Paolo e i Galati, Milano 2009 (rist.; ed or. 1982), 52-57, 53-54.

[305] Ibi, 54-55.[306] Ibi, 56-57.[307] Plot. Enn. II, 9,9. Tr. G. Faggin, in Plotino, Enneadi. Porfirio, Vita di Plotino. Testo greco a

fronte. Traduzione, introduzione, note e bibliografia di G. Faggin. Presentazione e iconografiaplotiniana di G. Reale. Revisione finale dei testi, appendici e indici di R. Radice, Milano 2000, 303.

[308] De vera rel. I,1; IV, 7; De Trin. IV, XII, 15. Fine analisi storico-religiosa in G. SfameniGasparro, Fra astrologi, teurgi e Manichei: itinerario agostiniano in un mondo che si interroga sudestino, male e salvezza, in L. Alici - R. Piccolomini - A. Pieretti (a cura di), Il mistero del male e lalibertà possibile (IV): ripensare Agostino, Atti dell’VIII Seminario del Centro Studi agostiniani diPerugia, Studia Ephemeridis Augustinianum 59, Roma 1997, 49-131, in particolare 93-112, rist. conaggiunte in EAD., Agostino. Tra etica e religione, Brescia 1999, 75-142, in particolare 122-142.

[309] Cfr. ad es. J. Kròlikowski, Il ‘Neopaganesimo’. La sfida politeista tra oriente e occidente,Annales theologici 13 (1999), 133-172.

[310] Kròlikowski, Il ‘Neopaganesimo’, 139. Lo studioso ricorda come il carattere personale deldio della tradizione giudaica e cristiana, di contro al carattere non personale del divino in religioniasiatiche, si esprima nel fatto che l’‘assoluto’ ha un nome (che il testo biblico presenta come frutto diuna autorivelazione) e può essere nominato adeguatamente attraverso il linguaggio umano. Dio puòessere conosciuto nelle sue caratteristiche e natura attraverso le Scritture, è oggetto di preghiere di lodee petizione e di atti cultuali.

[311] Il tema della instaurazione di un rapporto con un livello altro e diverso è motivo che puòintervenire nella delineazione di una distinzione tra la categoria di ‘religione’ e la categoria di‘filosofia’, intesa quest’ultima piuttosto come indagine razionale intorno, per continuare a usare laterminologia in questione, al livello ‘altro’. Vero è che le due categorie non erano così facilmentedistinguibili nell’antichità, né da un punto di vista terminologico e neppure per quanto riguarda lerispettive forme e contenuti. Si ricorderà che un termine equivalente a quello che oggi appare essere iltermine ‘religione’ non esiste nel mondo greco antico e neppure nella Roma repubblicana. Il terminephilosophia, d’altro canto, potè in certi periodi dell’antichità designare fatti religiosi come il giudaismoe il cristianesimo. Di fatto, fu la ricerca filosofica e non le religiones come ambiti specificamentecultuali a comportare aspetti che oggi definiremmo tipicamente religiosi, come la tensioneall’assimilazione al divino, la ricerca di salvezza oltremondana, uno specifico stile di vita, la ricercadella verità sul divino e gli dei.

[312] Cfr. P. Athanassiadi - M. Frede (a cura di), Pagan Monotheism in Late Antiquity, Oxford1999.

[313] Sul tema cfr. G. Francois, Le Polythéisme et l’emploi au singulier des mots Theos, Daimondans la littérature grecque d’Homère à Platon, Paris 1957.

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[314] Altre suggestioni nella direzione di una sorta di unità del mondo divino sono state viste da unlato nei versi omerici (Od.V,79-80) “Non sono ignoti uno all’altro i numi immortali, nemmeno chimolto lontano ha dimora” (tr. R. Calzecchi Onesti, Omero. Odissea, Torino 1963, 133), e, dall’altrolato, nella nozione di Destino come superiore al mondo divino stesso.

[315] “Cantava (Orfeo) come la terra, il cielo e il mare, / dapprima uniti tra loro in una sola forma /per la rovinosa discordia furono separati l’uno dall’altro (...)” (Apoll. Rod. I 496-499, trad. P. Scarpi, Lereligioni dei misteri, I, Eleusi, Dionisismo, Orfismo, Mondadori, Milano 2002, 373).

[316] Diog. Laert. Proem. 3.[317] Athanassiadi, Frede (a cura di), Pagan Monotheism in Late Antiquity.[318] Ibi, 31.[319] La religione greca, Utet, Torino 1992 (rist.), 139-140.[320] Vv. 160ss.[321] Vv. 823ss.[322] La religione greca, 160-161.[323] Il politeismo, 11.[324] Il quale (Leg. IV 715e-716a) menziona “il dio che secondo l’antico racconto (logos) detiene il

principio e la fine e il mezzo di tutto ciò che esiste (...)”. Si tratta però, in Platone, di una concezionepiù personalistica del dio, oltre che etica e provvidenzialistica. Cfr. Bianchi, La religione greca, 255-256.

[325] 401a27-b27 (=Orph. Fr. 21a Kern).[326] Trad. P. Scarpi, Le religioni dei misteri, I, Mondadori, Milano 2002, 371. Similmente i versi

del papiro di Derveni (ibi, 369) ascrivibile verisimilmente al V-IV sec. a.C.[327] Il termine risale allo scrittore inglese J. Toland (1670-1722). Panteismo (pan, tutto, e theos,

dio) significa che tutto è dio. Dottrina da distinguere rispetto a quella denominata panenteismo. Iltermine panenteismo (pan, tutto; en, in; theos, dio) risale al filosofo tedesco K.F. Krause (1781-1832).Indica una dottrina per la quale tutto è in Dio. Cfr. Ch. Hartshorne, v. Panteismo e Panenteismo, in M.Eliade (a cura di), Enciclopedia delle religioni, V, tr. it., Milano 1993, 412-418.

[328] Cfr. U. Bianchi, Il ‘dio cosmico’ e i culti cosmopolitici, in AA.VV., Mythos. Scripta inhonorem Marii Untersteiner, Genova 1970, 97-106, 100 n. 8.

[329] Bianchi, Il ‘dio cosmico’, 99.[330] Eliadi fr. 70 N².[331] La formula heis theos è stata usata anche da autori cristiani con altre implicanze concettuali,

vale a dire monoteistiche, che hanno portato anche a un ampliamento della formula heis theos monos,‘uno e unico è Dio’. E. Peterson, Heis Theos: Epigraphische, formgeschichtliche undreligionsgeschichtliche Untersuchungen (FRLANT 24), Göttingen 1926, ha studiato le formule relativealla unità/unicità del dio in fonti pagane del secondo ellenismo, formule peraltro compatibili con lacredenza e la pratica cultuale relative a altri dei, sia percepiti come manifestazioni diverse di unacomune essenza divina sia pensati come secondari e sottoposti a un sommo dio, spesso inconoscibile.Una duplice modalità unificante, sulla quale avremo modo di ritornare più avanti.

[332] Cfr. Bianchi, La religione greca, 260-261.[333] Una posizione teopantistica è anche nei posteriori inni orfici ove i più diversi nomi e il

riferimento ai più diversi miti servono a insistere sul concetto fondamentale ‘teopantistico’ del diocosmico orfico. Testi rituali (ma probabilmente anche letterari) in uso forse presso comunità d’Asiaminore nel II sec.d.C., sono caratterizzati dall’accumulo di epiteti caratterizzanti il dio (aggettivi,participi, brevi proposizioni relative). Tale tecnica propria del genere innico già attestata negli Inni

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omerici, conosce un incremento in epoca ellenistica (per es. Inno a Zeus di Cleante, Inni a Iside diIsidoro) e particolarmente imperiale (papiri magici, oracoli d’Apollo Claro e Didimeo, Dionisiaca diNonno). Piegati ad esprimere la polimorfia degli dei invocati (molteplicità dei campi d’azione eandroginia, apertura cosmica) sono legati al tipo di richiesta che segue all’invocazione e che costituiscela parte finale dell’inno. Non necessariamente connesso a una funzione magica, l’accumulo di epitetirisulta piegato ad una concisa descrizione della ‘essenza’ o natura del dio invocato (secondo unprocedimento tipico anche di alcuni oracoli teologici, i quali peraltro veicolano una concezionefortemente enoteistica a differenza degli Inni orfici che non attestano l’idea di un dio supremo) e alcontempo all’esigenza di mobilitarne la potenza. Sul tema, cfr. M. Hopman-Govers, Le jeu desépithètes dans les Hymnes orphiques, Kernos 14 (2001), 35-49; A.F. Morand, Etudes sur les HymnesOrphiques (Religions in the Graeco-Roman World 143), Brill, Leiden-Boston-Koln 2001.

[334] U. Bianchi, Sulla demonologia del medio- e neoplatonismo, in E. Corsini - E. Costa (a curadi), L’autunno del diavolo, I, Bompiani, Milano 1990, 51-62.

[335] Già Talete di Mileto aveva operato una distinzione diversa, tra dei, uomini ed eroi (Athen.Leg. 23).

[336] 202e-203a; Apol. Socr. 27b-28a.[337] Epin. 981a-986a.[338] 981e.[339] 379a.[340] Tim. 41a.[341] Plut. de Is. et Osir. 25; de def. orac. 13.[342] Fonti e ampio commento storico-religioso sulla demonologia antica in ambito colto e

popolare ora in G. Sfameni Gasparro, Oracoli, sibille e profeti, LAS, Roma 2002.[343] Per una disamina di tale problematica in contesti religiosi del Vicino Oriente Antico, si veda

B. Nevling Porter (a cura di), One God or Many? Concepts of Divinity in the Ancient World, Bethesda-New York 2000.

[344] P. Athanassiadi - M. Frede (a cura di), Pagan Monotheism in Late Antiquity, Oxford 1999.Un uso generico e acritico della categoria di ‘monoteismo’, oltre che nello studio in questione, anche inaltri studiosi, tra cui C. Ramnoux, Sur un monothéisme grec, RPhL 82 (1984), 175-198; C. Ando,Pagan Apologetics and Christian Intolerance in the Ages of Themistius and Augustine, JECS 4 (1996),171-207, il quale afferma che i filosofi medioplatonici sarebbero stati ‘né più né meno monoteisti delcristianesimo contemporaneo’; G.W. Bowersock, Recapturing the Past in Late Antiquity, MediterraneoAntico 4 (2001), 1-15. Si vedano anche S. Mitchell - P. Van Nuffelen (a cura di), One God. PaganMonotheism in the Roman Empire, Cambridge University Press, Cambridge, UK 2010; S. Mitchell - P.Van Nuffelen (a cura di), Monotheism between Pagans and Christians in Late Antiquity.Interdisciplinary Studies in Ancient Culture and Religion 12, Peeters, Leuven 2010.

[345] M.L. West, Towards Monotheism, in Athanassiadi - Frede, Pagan Monotheism, 21-40.[346] M. Frede, Monotheism and Pagan Philosophy in Later Antiquity, in Athanassiadi-Frede,

Pagan Monotheism, 41-67.[347] P. Athanassiadi, The Chaldean Oracles: Theology and Theurgy, in Athanassiadi-Frede,

Pagan Monotheism, 149-183.[348] W. Liebeschuetz, The Significance of the Speech of Praetextatus, in Athanassiadi-Frede,

Pagan Monotheism, 187-205.[349] J. Dillon, Monotheism in the Gnostic Tradition, in Athanassiadi - Frede, Pagan Monotheism,

69-79.

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[350] St. Mitchell, The Cult of Theos Hypsistos between Pagans, Jews, and Christians, inAthanassiadi - Frede, Pagan Monotheism, 81-148.

[351] Si vedano al riguardo le recensioni all’opera da parte di L. Lugaresi in Adamantius 8 (2002),316-321, e di T.D. Barnes, Monotheists All? Phoenix 55, 2001, 142-162. Importante presa di posizionecritica è quella di G. Sfameni Gasparro in Monoteismo pagano nella Antichità Tardiva? Una questionedi tipologia religiosa, Annali di Scienze Religiose, 8, 2003, 97-127, ripubblicato, insieme ad altriimportanti contributi della studiosa sul tema, in G. Sfameni Gasparro, Dio unico, pluralità e monarchiadivina. Esperienze religiose e teologie nel mondo tardoantico, Morcelliana, Brescia 2010. A questaopera rimandiamo per un approfondimento delle tematiche in questo capitolo dibattute.

[352] Per una presentazione d’insieme J. Dillon, The Middle Platonists, A Study of Platonism 80B.C. to A.D. 220, London 1977, 1996, tr. it. a cura di E. Vimercati, Milano 2010; P.L. Donini, Lescuole, l’anima e l’Impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1983.

[353] Orig. Contra Cels. I 24 e V 41; CH V 9 e 10; Ascl. 28.[354] Contra Cels. I 24.[355] Contra Cels. VI 47 e 63; CH V 3 e IX 8; Ascl. 26.[356] Per Platone gli dei erano oratoi, visibili, ed erano gli astri eterni del cielo (Tim. 30b, 92c; Leg.

XII 966e; Epin. 984 d).[357] Cfr. J.Pépin, Théologie cosmique et théologie chrétienne, Paris 1964.[358] Frr. 21 e22 Des Places.[359] Frr. 12 e 13 Des Places.[360] Frr. 12, 16 e 21 Des Places.[361] Frr. 11 e 21 Des Places.[362] Fr. 11 Des Places.[363] Fr. 52 Des Places. Tuttavia una certa ambiguità sulla questione dell’origine del male permane,

se il fr. 43 Des Places afferma l’origine del male dalle sfere celesti.[364] Ps. Onata, Peri theou kai theiou, apud Stob. 1.1.39 p. 48 Wa.[365] Cfr. J. Beaujeu, Apulée. Opuscules philosophiques (Du Dieu de Socrate, Platon et sa

doctrine, Du monde) et Fragments, Paris 1973; C. Moreschini, Apulei Platonici Madaurensis operaquae supersunt. Vol. III: De philosophia libri, Stuttgart-Leipzig 1991; Id., Apuleio e il platonismo,Firenze 1978.

[366] De Plat. et eius dog. I,12.[367] De magia 64; de deo Socr. 124; de Plat. et eius dog. 190-191.[368] De Plat. et eius dog. 1,11, 204-205.[369] De deo Socr. 6-7.[370] De deo Socr. 14.[371] De Plat. et eius dog. I,12,205.[372] Plat. Resp. II, 379.[373] De deo Socr. 3,123-124; Apol. 64; de Plat. et eius dog. 1,5, 190-191.[374] De Plat. 1,11,204.[375] Cfr. Lact. Div. Inst. 5,2,12-3,26.[376] Ma non si dovrà dimenticare che la produzione epica stessa poteva dare a Zeus l’epiteto di

‘padre degli dei e degli uomini’, come nella Theogonia esiodea senza che questo comportasse né unaderivazione degli dei nella loro totalità da lui, che anzi era presentato come l’ultimo destinato erede diun processo teogonico, né una sua attività di creatore o demiurgo degli uomini.

[377] Sulla questione Moreschini, Apuleio e il platonismo, 148-161.

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[378] 27c ove si trova il verbo gegonen (da gignomai).[379] Plut. Quaest. 1003a; de an. procr. 1015e.[380] Così si esprime Bianchi 1986, 93: “La tarda antichità se da una parte è sboccata in posizioni

di natura monoteistica dall’altra è sboccata anche in sistemi di consistenza monistica: anzi spesso le duecose si sono alquanto confuse date soprattutto l’insufficiente determinazione teistica (e la mai raggiuntachiarezza sul piano di un vero creazionismo) dei sistemi religiosi della posteriore classicità”.

[381] Il motivo della creatio ex nihilo non emerge dai primi versetti della Genesi ma piuttosto da IIMacc. 7,28 (II sec.a.C.), testo peraltro talora interpretato nel senso di esprimere la inconoscibilitàdell’opera divina da parte dell’uomo che solo sa esserne Dio l’autore (così P. Gibert, II Macc. 7,28 dansle Mythos biblique de la création, in La Création. Actes du Congrès de l’A.C.F.B. 1985, Paris 1986,463-476). La creatio ex nihilo appare piuttosto formalizzata nel pensiero cristiano a partire dal II secolod.C. e dopo una prima apparizione presso Basilide si sviluppa come risposta alle posizioni gnostiche,dapprima presso Taziano e Teofilo di Antiochia e poi nel pensiero cristiano più in generale (cfr. G.May, Schöpfung aus dem Nichts, Stuttgart 1978), dopo una fase di incertezza che sembra ancoracaratterizzare il periodo degli apologisti (per es. Aristide nella sua Apologia; cfr. B. Pouderon - J. Doré(a cura di), Les Apologistes chrétiens et la culture grecque, Paris 1998).

[382] 14-15 pp. 170-171 Hermann.[383] Didasc. 15 p. 171 Hermann.[384] CCels I, 24.[385] CCel V, 26; VII, 68; VIII, 2, 28 e 58-61.[386] Analoga concezione è espressa da Giuliano Imperatore, in polemica con l’esclusivismo

giudaico e cristiano, nell’opera Contra Galilaeos, in particolare al fr. 21 ed. E. Masaracchia, GiulianoImperatore. Contra Galilaeos, Introduzione, testo critico e traduzione a cura di E.M., Roma 1990, 255,ove si afferma che “i nostri dicono che il demiurgo è padre comune di tutto e re, ma ha assegnato ognialtra funzione a divinità nazionali e cittadine, che amministrano ciascuna in modo conforme alla proprianatura la propria sfera di competenza”.

[387] Cfr. CCels VIII, 68-70.[388] CCels VIII, 2.[389] Ibidem.[390] CCels. VIII 35.[391] Ibi VIII, 21.[392] Ad es. Filostrato, VA III,41; Eus. Praep. Ev. IV, 13,1.[393] Eus. Praep. Ev. IV, 13,1[394] De abst. II,33,1; II,37,5.[395] Sul tema ora G. Sfameni Gasparro, Oracoli, profeti, sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo

antico, Roma 2002.[396] De def. orac. 410b, 411e ss., 434 c ss.[397] Lact. Inst. VII,13,6.[398] E.R. Dodds, Pagan and Christian in an Age of Anxiety, London 1965.[399] P.F. Beatrice, Anonymi Monophysitae Theosophia. An Attempt at Reconstruction, Brill,

Leiden-Boston-Köln 2001.[400] Div. Inst. I 7.[401] Theos. 13.[402] L. Robert, Un oracle gravé à Oenoanda, CRAI (Comptes rendus Ac. Inscriptions et Belles

Lettres) 1971, 597-619; M. Guarducci, «Chi è Dio?». L’oracolo di Apollo Klarios e un’epigrafe di

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Enoanda, RAL, Cl. Sc. mor., S. VIII, 27, 1972, 335-347; G. Gallavotti, Un’epigrafe teosofica adEnoanda nel quadro della teurgia caldaica, Philologus 121, 1977, 95-105; S. Pricoco, Un oracolo diApollo su Dio, RSLR 23,1987, 3-36; E. Livrea, Sull’iscrizione teosofica di Enoanda, ZPE 122 (1998),90-96.

[403] Div. Inst. I 7,1.[404] Div. Inst. I 7,3.[405] Cfr. Lact. Div. Inst. I 7, 1: mikrà de theou merìs aggeloi emeis.[406] Denominazione usata, soprattutto, nella documentazione epigrafica, per designare talune

categorie di esseri sovrumani proprie delle tradizioni religiose politeistiche tardoantiche; cfr. F.Cumont, Les anges du paganisme, RHR 72, 1915, 159‑182.

[407] De abst. II, 35, 1-2.[408] De abst. II, 34, 4.[409] De abst. II, 36, 3-4.[410] De abst. II, 36, 5.[411] De myst. I 20, 61-3.[412] Ibi II 1,67-2,69.[413] Egli (Math. 1,10,14) identifica la divinità suprema nel sole optimus maximus, definito mens

mundi atque temperies che signoreggia su tutti gli altri dei.[414] Cfr. Ch.O. Tommasi Moreschini, Tra politeismo, enoteismo e monoteismo: tensioni e

collisioni nella cultura latina imperiale, Orpheus n.s. 28, 2007, 186-220.[415] Praep. Ev. IV 5,1-3.[416] Cfr. W. Liebeschuetz, The Significance of the Speech of Praetextatus, in Athanassiadi - Frede

(a cura di), The Pagan Monotheism, 185-205. Classico il lavoro di J. Flamant, Macrobe et lenéoplatonisme latin à la fin IVe siècle, EPRO 58, Brill, Leiden 1977.

[417] Agostino di Ippona, eminente personalità nell’ambito della letteratura cristiana antica dilingua latina, nacque a Tagaste, in Numidia, nel 354. Studiò dapprima a Tagaste, poi a Madaura e infinea Cartagine. Attratto dal manicheismo, fu maestro di retorica a Cartagine, poi a Roma e a Milano (384-386). Qui si staccò dal manicheismo in grazia della decisiva influenza che esercitò su di lui la letturadei libri platonicorum, come li definisce lo stesso Agostino, in particolare di Plotino e Porfirio nellatraduzione di Mario Vittorino, e del contatto con l’ambiente neoplatonico di Milano. Nel 386abbandonò l’insegnamento e, ormai cristiano, si dedicò al servizio di Dio. Battezzato a Milano daAmbrogio nel 387, tornò in Africa e ivi fu presbitero nel 391 e, nel 395, vescovo a Ippona. Morìnell’agosto del 430.

[418] Aug. Ep. 16,1: “Che il monte Olimpo sia la sede degli dei, la Grecia lo racconta senza sicuracertezza. Che però la piazza della nostra città sia abitata da un gran numero di divinità salutari(salutarium numinum frequentia), noi lo vediamo e lo sperimentiamo.E parimenti, che il Dio sommosia unico, senza inizio (sine initio) né prole naturale (sine prole naturae) in quanto Padre grande emagnifico, chi potrebbe essere tanto stolto e dissennato da negare che sia cosa certissima? Lemanifestazioni della sua potenza, diffuse nell’universo creato, noi le invochiamo con molti nomi,poiché tutti evidentemente ignoriamo il vero nome di Lui; Dio, infatti, è un vocabolo comune a tutte lereligioni. Per conseguenza appare certamente chiaro che, mentre ne onoriamo separatamente, per cosìdire, le membra con vari riti, lo adoriamo tutto intero”. Dopo aver rinfacciato ad Agostino come icristiani preferiscano il culto di uomini morti (riferendosi ai martiri, e dimostrando come nell’ambientepagano fossero diffuse oltre alla ostilità anche la incomprensione nei confronti di pratiche cristiane)piuttosto che quello degli dei immortali, prosegue: “Ma ti chiedo, uomo sapientissimo, che, messo

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completamente da parte il vigore dell’eloquenza (...) mi dimostri concretamente chi sia questo dio chevoi cristiani rivendicate come vostra esclusiva proprietà e fingete di veder presente in luoghi nascosti.Poiché noi adoriamo i nostri dei con pie preghiere alla luce del giorno, visti ed ascoltati da tutti gliuomini, ce li propiziamo con vittime fragranti e cerchiamo che questi atti siano visti e approvati datutti” (16,3). Le critiche che qui Massimo rivolge ad Agostino si riferiscono a ciò che i paganisapevano, confusamente, dell’Eucarestia. E più avanti il saluto rivolto da Massimo al suo interlocutoreribadisce la tipica prospettiva in cui si muovevano i pagani colti del tempo (16,4): “Ti conservinoquegli dei (dii te servent), sotto il cui nome noi tutti mortali quanti siamo sulla terra, in mille modi macon una varietà che mira a un identico fine (mille modis concordi discordia), veneriamo il padrecomune a loro e a tutti gli uomini” (tr. in NBA vol. XXI, 77).

[419] Orig. Contra Cels. VIII,2.[420] Orig. Contra Cels. I,24.[421] Aug. Ep. 17.[422] Ep. 17,1.[423] Ep. 17,5.[424] De Is. et Osir. 28.[425] Sat. I,20,13 s.[426] XI, 5-6.[427] A.J. Festugière, Personal Religion among the Greeks, Berkeley 1954.[428] In Tim. III, 153,6-15 Diehl.[429] Come, in ambito giudaico, ad esempio, l’anonimo autore della Lettera di Aristea, o

l’altrettanto anonimo redattore del Testamento di Orfeo (apud Eus., Praep. Ev. XIII, 12, 4-5 = fr. Kern247); oppure la stessa produzione oracolistica sibillina. Fra gli autori cristiani, basterà qui fare il nomedi Atenagora, in ambito greco, e di Lattanzio in quello latino.

[430] Tra essi, basti qui ricordare E. Peterson, Heis Theos, Epigraphische, formgeschichtliche undreligionsgeschichtliche Untersuchungen, Göttingen 1926; H.S. Versnel, Inconsistencies in Greek andRoman Religion I. Ter unus. Isis, Dionysos, Hermes. Three Studies in Henoteismus, Leiden-New York-København-Köln 1990; Id., Thrice One: Three Greek Experiments in Oneness, in Nevling Porter, OneGod or Many?, 79-163; M. Yusa, v. Enoteismo, in M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle religioni,tr. it., vol.I, Milano 1993, 243-244.

[431] Come pure tra enoteismo e monolatria, termine che viene solitamente usato per designare lavenerazione esclusiva di un dio da parte di un determinato gruppo sociale, e viene applicato per lo piùalla fase più antica della religione d’Israele, allorché era vietato il culto delle divinità altre da Jahvé (Es.22,20) che pure non erano esplicitamente dichiarate inesistenti.

[432] L’onniscienza di Dio, Einaudi, Torino 1955, 17.[433] Cfr. M. Simon, Christianisme antique et pensée païenne, BFS 38, 1960, 323: la vittoria del

cristianesimo sul piano storico «apparaît comme la victoire d’une pensée résolument monothéiste surun monothéisme virtuel, tiraillé entre le polythéisme et le panthéisme».

[434] Is. 42,5; 43,1; 44,24.[435] Una minima bibliografia introduttiva alla nozione di mito può comprendere i seguenti lavori:

R. Pettazzoni, Verità del mito, SMSR 21, 1947-48, 104-116; G.S. Kirk, Il mito. Significato e funzioninella cultura antica e nelle culture altre, tr. it., Liguori, Napoli 1980; Id., La natura dei miti greci, tr. it.Laterza, Bari 1993; R. Buxton, La Grecia dell’immaginario. I contesti della mitologia, tr. it., La NuovaItalia, Firenze 1997; A. Brelich, Mitologia, Politeismo, Magia e altri studi di storia delle religioni(1956-1977), a cura di P. Xella, Liguori, Napoli 2002; M. Detienne, L’invenzione della mitologia, tr. it.

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Boringhieri, Torino 1983; C. Calame, Mito e storia nell’Antichità greca, tr. it., Laterza, Bari 1999; P.Veyne, I Greci hanno creduto ai loro miti?, tr. it., Il Mulino, Bologna 2005; L. Brisson, Introduction àla philosophie du mythe, I: Sauver les mythes, Vrin, Paris 2005: J. Ries, Le costanti del sacro: mito erito (Opera Omnia IV/2), Jaca Book, Milano 2008.

[436] Cfr. Hes. Erga 106.[437] Bianchi 1986, 84.[438] Cfr. Kirk, La natura dei miti greci.[439] Pettazzoni, Verità del mito.[440] Con il termine mitologia si intende, poi, sia il corpus di miti presente in una determinata

tradizione sia lo studio dei miti stessi.[441] J.-P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini. Il racconto del mito, tr. it., Einaudi, Torino

2000, 6.[442] Sul tema, tra gli altri, U. Bianchi, Mitologia orientale e mitologia greca, Oriens Antiquus 28,

1988, 261-269.[443] Resp. II,377-378.[444] Resp. II,379a.[445] Cfr. Diog. Laert. Vit. philos. VIII,1,21.[446] Cfr. Sest. Empir. Adv. Math. IX,193.[447] Cfr. Diog. Laert. Vit. philos. IX,l.[448] Resp. II, 378 (cfr. supra); Euthyph. 5D-9B.[449] Ora, cfr. R. Radice, Allegoria, evoluzione del concettoe del metodo nel pensiero greco, in A.

Ghisalberti (a cura di), Mondo uomo Dio. Le ragioni della metafisica nel dibattito filosoficocontemporaneo, Vita e Pensiero, Milano 2010, 303-326.

[450] Ad es. 2 Tim. 4,4; Min. Fel. Oct. 20,4.[451] Or. 28,14.[452] Cfr. Lact. Div. Inst. I 2,17; 23-25.[453] Cfr. G. Filoramo, Dal mito gnostico al mito manicheo: metamorfosi di modelli culturali, in G.

Giuffrida - M. Mazza (a cura di), Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità, II, Jouvence,Roma 1985, 491-507.

[454] Cfr. U. Lugli, Miti velati. La mitologia romana come problema storiografico, ECIG, Genova1996.

[455] J.Rüpke, La religione dei Romani, tr. it., Einudi, Torino 2004, 143-144.[456] A propos de l’hYmne homérique à Déméter, Museum Helveticum 35, 1978, 1-17.[457] In particolare Totem e tabu, tr. it., Garzanti, Milano 1973 (ed. or. 1913).[458] Allievo dissidente di S. Freud (Man and his Symbols, New York 1964), considera i miti – al

pari dei sogni – creazioni dell’inconscio, individuale e collettivo, che si esprimerebbe in certi simbolichiave, gli ‘archetipi’. Si tratta di figure che ricorrerebbero nei miti come nei sogni. Nell’animo umanoin quanto tale (e non in una fase infantile della storia della umanità) sarebbe insita la tendenza arappresentare determinati motivi arcaici ereditati, appunto gli archetipi, che verrebbero tramandaticome programmi biologici, come parte dell’informazione genetica. Su tali presupposti viene spiegata lapresenza di tratti mitici simili o identici presso popoli lontani tra loro nel tempo e nello spazio.

[459] La critica ha osservato come fattori obbiettivi spingano a considerare le cose in questo modo,binario, come l’esistenza dei due sessi, il contrasto tra soggetto e oggetto, tra se stessi e il mondoesterno. Sembra pertanto opportuno ritenere che aspetti binari dell’organizzazione umana e sociale siimpongono all’intelletto piuttosto che ammettere che una struttura puramente mentale determini ogni

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prodotto del comportamento umano.[460] Cfr. J. Courtés, Sémiotique et théorie actantielle du récit dans la perspective d’A.J. Greimas,

in B. Gentili - G. Paioni (a cura di), Il mito greco, Ateneo, Roma 1977, 323-347.[461] Pettazzoni, Verità del mito, 104.[462] Cfr. R. Pettazzoni, Miti e leggende, Utet, Torino 1948-1963.[463] Cfr. U. Bianchi, Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico, Ateneo, Roma 1983².[464] Pettazzoni, Verità del mito, 108-109.[465] Ibi, 113-114.[466] Ibi, 115.[467] Brelich, Mitologia, 96.[468] Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Edizioni dell’Ateneo, Roma

1958, 27 (rist. Adelphi, Milano 2010).[469] Bianchi 1991.[470] Bianchi 1986.[471] Bianchi 1970, 119.[472] Ibidem.[473] Le mythe au réfléchi, in J.B. Pontalis, Le Temps de la reflexion, I, Gallimard, Paris 1980,21-

25 (rist. in J.P. Vernant, Entre mythe et politique, Ed. du Seuil, Paris 1996, 352-356).[474] L’invention de la mythologie, Gallimard, Paris 1981 (tr. it. L’invenzione della mitologia,

Bollati Boringhieri, Torino 1983).[475] Ed., Metamorphoses du mythe en Grèce antique, Labor et Fides, Lausanne 1988; Id., Mythe

et histoire dans l’antiquité grecque, Payot, Lausanne 1996 (tr. it., Mito e storia nell’antichità greca,Dedalo, Bari 1999).

[476] R.L. Fowler, Early Greek Mythography, OUP, Oxford 2000; G. Casadio, Mythos vs mito.Mythos vs Myth, Minerva 22, 2009, 41-63.

[477] G. Tosetti, Unione divino-umane. Un percorso storico-religioso nel mito greco arcaico, L.Giordano Editore, Cosenza 2008.

[478] Utile introduzione alla categoria di ‘monoteismo’ è il volume Le monothéisme. Diversité,exclusivisme ou dialogue? Association européenne pour l’étude des religions (EASR), Congrès deParis, 11-14 septembre 2002, actes édités par Charles Guittard, Paris, Éditions Non Lieu, 2010.

[479] Cfr. Giulia Sfameni Gasparro, Advantages and Risks of Typology of Religions: The Case of‘Monotheism’, Historia Religionum, 1, 2009, 39-57.

[480] H. More, An Explanation of the Grand Mystery of Godliness, London 1660.[481] La prima menzione del termine theism, teismo, per definire una categoria che comprende

monoteismo, politeismo, enoteismo, sarebbe individuabile nell’opera di un altro platonico diCambridge, R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe, London 1678, citato in N.MacDonald, Deuteronomy and the Meaning of “Monotheism”, Tübingen 2003, 6 n. 4.

[482] I termini ‘panteismo’ e ‘panteista’ appaiono rispettivamente nel 1705 e nel 1732. Cfr.MacDonald, Deuteronomy, 6 n. 5.

[483] Sfameni Gasparro 2010, 21; Cfr. D. Sabbatucci, Monoteismo, Bulzoni, Roma 2001, 10-11; P.Scarpi, Si fa presto a dire Dio. Riflessioni per un multiculturalismo religioso, Ponte alle Grazie, Milano2010, 68.

[484] Sfameni Gasparro 2010, 22.[485] Sfameni Gasparro 2003, 106.[486] R. Brague, Il Dio dei cristiani. L’unico Dio?, tr. it., Cortina, Milano 2009 (ed. or. Paris 2008).

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[487] Per un approfindimenro della categoria di persona in sede antropologica e teologica, cfr. C.Peri, La categoria di persona e il Dio di Gesù Cristo, in M. Crociata (a cura di), Il Dio di Gesù Cristo ei monoteismi, Città Nuova, Roma 2003, 199-218.

[488] Si veda la speculazione tomista sulle persone divina e umana in Summa Theologica, Pars I, q.29.

[489] U. Bianchi, v. Creazione, in Enciclopedia filosofica. Nuova edizione interamente riveduta eampliata. Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, Bompiani, Milano 2006 (ed. or. 1979), II,coll. 594-595, 594.

[490] “La creazione determina una entità nella cosa creata soltanto secondo la categoria dellarelazione; poiché ciò che è creato non viene prodotto per mezzo di un moto o di una mutazione [...]. Lacreazione nelle creature non è altro che una certa relazione verso il Creatore, causa del loro essere”(Summa theologiae, I, q. 45, a. 3; cfr. Contra Gentiles, II, c. 18; De Potentia, q. 3, a. 3).

[491] Cfr. De Veritate, q. 8, a. 16, ad 16um; Summa theologiae, I, q. 105, a. 5.[492] G. Tanzella-Nitti, v. Creazione, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede,

www.disf.org/voci.[493] Cfr. J. Guitton, Filosofia della risurrezione, Edizioni Paoline, Milano 1981.[494] Cfr. Bianchi, Creazione.[495] R. Pettazzoni, Dio. Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni. I:

L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi; Id., L’onniscienza di Dio, Einaudi, Torino 1955;Id., L’essere supremo nelle religioni primitive, Einaudi, Torino 1957.

[496] U. Bianchi, Introduzione alle religioni dei primitivi, Roma 1967; Id. 1986.[497] G.E. Lessing, Come gli antichi raffiguravano la morte, tr. it. Palermo 1983.[498] Vedasi al riguardo L. Lugaresi, La questione della verità nel contesto culturale del

neopaganesimo contemporaneo. Qualche spunto patristico di confronto e di riflessione, in A.M.Mazzanti (a cura di), Sulle tracce della verità. Percorsi religiosi tra antico e contemporaneo, ESD,Bologna 2008, 249-323; Id., Perché non possiamo più dirci pagani. Spunti patristici per una critica delneopoliteismo contemporaneo, in A.M. Mazzanti (a cura di), Verità e mistero, ESD, Bologna 2009,282-347; Id., E il neopoliteismo sfida il cristianesimo, Vita e Pensiero 2009, 71-86.

[499] J. Assmann, Mosè l’Egizio: decifrazione di una traccia di memoria, tr. it. Adelphi, Milano2000 (ed. or. 1997); Id., Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, tr. it., IlMulino, Bologna 2007; Id., Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, tr. it., Il Mulino,Bologna 2009.

[500] Una posizione analoga in altre pubblicazioni recenti, tra le quali G. Bettini, Elogio delpoliteismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014;Scarpi, Si fa presto a dire Dio.

[501] Invitiamo al riguardo il lettore a prendere visione, oltre che degli studi di Lugaresi sopraricordati, in particolare di Ratzinger 2005. Le religioni politeiste – osserva J. Ratzinger– non offronol’immagine ideale di una storia priva di conflitti e di violenze in nome della religione. Nello stesso testobiblico al popolo d’Israele che, uscito dall’Egitto, rimpiange il passato è ricordato come l’Egitto non siaterra di libertà e di pace ma casa della schiavitù, paese di oppressione e di guerre. La tesi secondo cuigli dei del politeismo sono interscambiabili e quindi sono mezzi di comprensione interculturale non èavvallata dalle storie dei diversi politeismi. La traducibilità tra gli dei si è potuta esprimere solo in certicontesti e in certi momenti storici ma non è affatto coestensiva con il politeismo in quanto tale. Giàl’epica omerica – per esempio – esprime l’idea delle lotte tra dei e delle guerre umane come riflesso econseguenza di quelle. Gli dei non erano sempre così facilmente interscambiabili ma spesso erano

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piuttosto causa di violenze reciproche. I politeismi, inoltre, non sono così statici, come appaiono nellapresentazione di Assmann. Le narrazioni mitiche, ad esempio, che nella loro fase aurorale sonoespressioni di una visione e di un’esperienza del mondo e della vita, col passare del tempo e col mutaredella sensibilità religiosa, sottostanno alla domanda se tutto ciò che esse offrono sia vero o meno.Rimandiamo per un’opportuna critica alle tesi di Assmann anche a E. Zenger, Il Mosè egizio diAssmann. Qual è il prezzo del monoteismo?, Humanitas 57, 2002, 576-584; come pure a V. Possenti (acura di), Ragione e verità. L’alleanza socratico-mosaica, Armando, Roma 2005, il quale afferma (ivi,14-15) opportunamente che nella ricostruzione operta da Assmann “l’esclusivo riferimento a Mosèappare problematico e strumentale all’esito desiderato: il controesodo, il ritorno in Egitto. In realtà,prima di Mosè sta la fede di Abramo quale ricerca del vero Dio: il monoteismo nasce con Abramo, noncon Mosè”.

[502] Potrebbe essere interessante, ma il discorso ci porterebbe lontano, esaminare alcuni approccial monoteismo in studi attuali. In alcuni ambienti intellettuali, per esempio, in Francia con Alain deBenoist (Come si può essere pagani?, tr. it., Roma 1984), si esprime una critica al monoteismo su basifilosofiche e si auspica un ritorno al politeismo. Una ‘difesa del monoteismo’ è invece in altri pensatorifrancesi come Bernard Henry Lévy (Il Testamento di Dio, tr. it., Milano 1980) che vede nelmonoteismo una funzione liberatoria e di salvaguardia nei confronti di ogni forma di totalitarismoovvero di soggezione a idoli di ogni genere. Una critica al monoteismo caratterizza anche ambiti dellacosiddetta teologia femminista che interpretano il monoteismo come il modello più radicale di potere eautorità patriarcali.

[503] Teologia politica, tr. it., Giuffré, Milano 1970,1992.[504] Tr. it., Queriniana, Brescia1983 (ed. or. Der Monotheismus als polytisches Problem, Leipzig

1935).[505] Ancora utile sul tema, M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975.[506] Cfr. Simonetti, La crisi, 562.[507] Per un’introduzione al tema: M. Crociata (a cura di), Il Dio di Gesù Cristo e i monoteismi,

Città Nuova Editrice, Roma 2003; Id. (a cura di), L’uomo al cospetto di Dio. La condizione creaturalenelle religioni monoteiste, Città Nuova Editrice, Roma 2004.

[508] Per un primo approccio utili M. Clauss, Israele nell’età antica (Universale Paperbacks IlMulino, 448), Il Mulino, Bologna 1999, 2003; P. Stefani, Gli Ebrei, il Mulino, Bologna 2006².

[509] Si veda R. Pettazzoni, Saggi di Storia delle religioni e di mitologia, a cura di G. Casadio,Loffredo Editore, Napoli 2013 (ed. or. 1946).

[510] L’uscita dall’Egitto, la permanenza nel deserto attorno al Sinai e l’inizio della successivalenta conquista della Palestina sono tradizionalmente collocati attorno alla metà del XIII secolo.

[511] Tale nome probabilmente era quello della divinità madianita di cui era sacerdote Ietro,suocero di Mosè (Es 3,1; 18,12). Cfr. A. Lemaire, La nascita del monoteismo. Il punto di vista di unostorico (Studi biblici 145), Brescia 2005 (ed. or. Paris 2003).

[512] Gn 31,5; 50,17; Es 3,6; 18,4.[513] Una trasmigrazione, quella alla quale farebbe riferimento il tema in questione, che viene

generalmente posta attorno al 1850 a.C.[514] Col nome di Israele, dato a Giacobbe, nipote minore di Abramo, viene abitualmente chiamata

la nazione costituita dalle dodici tribù derivate dai figli di lui.[515] Utile stato dell’arte in E. Bons, Th. Legrand (a cura di), Le monothéisme biblique. Évolution

contextes et perspectives, Cerf, Paris 2011.[516] Cfr. O. Loretz, L’unicità di Dio, tr. it., Brescia 2007 (Studi Biblici 154; ed. or. Darmstadt

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1997).[517] Cfr. P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo. Riflessioni sul giudaismo antico e medio,

Morcelliana, Brescia 2010, 95, ove l’A. afferma che “prima dell’esilio è impossibile parlare di unareligione ebraica monoteistica. Anche l’affermazione che almeno intorno ai profeti ci fosse un‘monoteismo assoluto e severo’ non è facile da dimostrare. (...) L’esistenza di una pluralità di deidoveva essere un fatto riconosciuto da tutti. Lo zelo dei profeti, almeno fino all’esilio, è volto a faravere a YHWH il culto che gli spetta, non a dichiararlo unico Dio”.

[518] Es 20,3. Cfr. Dt 5,7.[519] Lemaire, La nascita del monoteismo. Il punto di vista di uno storico, 38.[520] È pertanto da distinguere la nozione di monolatria, nel senso precisato, da quella di

enoteismo, come concezione che privilegia, in forme diverse, come sopra visto, una entità divina sullealtre, senza escludere la venerazione di queste. La monolatria invece riconosce l’esistenza di unapluralità di figure divine, ma ammete la legittimità della devozione a una sola di queste.

[521] Cfr. in particolare Is. 2,8; 40, 18-20; 44, 9-20; Ger 2,5; 2,27-28; 10, 1-16; 16,20; Bar 6.[522] Cfr. Os 2,1-25; Ger 2, 2-7; 3,6-8; Ez 16, 1-63; et al.[523] Cfr. Os. 2,7-15; Ger 5,7.[524] Bianchi 1970, 119.[525] J. Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi. Un contributo al problema della theologia

naturalis, tr. it., Venezia 2007 (ed. or. 1960).[526] Una continuità tra antico e ‘nuovo’ politeismo, per la quale rimandiamo agli studi di

Lugaresi: E il neopoliteismo sfida il cristianesimo; La questione della verità nel contesto culturale delneopaganesimo contemporaneo; Perché non possiamo più dirci pagani.

[527] Sfameni Gasparro 2011, 125.[528] J. Ratzinger, Fede fra ragione e sentimento, da Archivio Teologico Torinese, 5, 1999, 7-19

(http://www.disf.org/Documentazione/125.asp).[529] La critica distingue tre parti diverse all’interno dell’opera attribuita al profeta Isaia. La prima

parte (capp. 1-39) è attribuibile al personaggio di Isaia, collocabile attorno alla metà dell’VIII sec.a.C.;la seconda parte (capp. 40-55) è opera di un autore della (seconda) metà del VI sec.a.C.; la terza parte(capp. 56-66) è attribuibile ad altro personaggio o verisimilmente composta da più mani.

[530] Is. 44,6; cfr. 43,10-11; 45,5-6 e 18.[531] Cfr. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli.[532] Oltre ad un’ulteriore direzione rivelatasi ben presto non percorribile, quella che guarda a un

presunto ‘monoteismo’ in Mesopotamia, ovvero a una devozione privilegiata ad un dio, come alla fontedel monoteismo ebraico. Per un’opportuna disamina critica della questione B. Nevling Porter (a curadi), One God or Many? Concepts of Divinity in theAncient World, Chebeague (Casco Bay), ME 2000;G. Buccellati, Quando in alto i cieli. La spiritualità mesopotamica a confronto con quella biblica, JacaBook, Milano 2012.

[533] Una versione del quale è riportata in Esdra 1,1-4; 7, 12-25.[534] Per un orientamento, M. Krebernik - J. Van Oorschot (a cura di), Polytheismus und

Monotheismus in den Religionen des Vorderen Orients, Münster 2002.[535] Efficace sintesi ora in G. Maspero, Uno perché trino. Breve introduzione al trattato su Dio,

Cantagalli, Siena 2011.[536] Benedetto XVI, 11.10.2010, al Sinodo per il Medio Oriente.[537] Maspero, Uno perché trino, 28-29.[538] Cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione,

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Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011.[539] Per un approfondimento, cfr. M. Crociata - M. Naro, Fede Trinitaria e monoteismo, in

Crociata (a cura di), Il Dio di Gesù Cristo e i monoteismi, 335-361.[540] Per un’introduzione all’Islam si potranno consultare P. Branca, I musulmani, Il Mulino

(Collana Farsi un’idea 48), Bologna 2000; Id., Il Corano, Il Mulino (Collana Farsi un’idea 68),Bologna 2001; S. Mervin, L’Islam. Fondamenti e dottrine, B. Mondadori, Milano 2001; A. Vanzan, GliSciiti, Il Mulino (Collana Farsi un’idea 156), Bologna 2008; M. Campanini, I Sunniti, Il Mulino(Collana Farsi un’idea 149), Bologna 2008; P. Antes, Islam. Una guida, Palomar, Bari 2006; A.J.Silverstein, Breve storia dell’Islam, Carocci, Roma 2013; E. Francesca, Economia, religione e moralenell’Islam, Carocci, Roma 2013.

[541] Fondamentale è ancora la traduzione di A. Bausani, Il Corano. Introduzione, traduzione ecommento, Rizzoli, Milano 1988, 2006 rist.; si veda inoltre G. Mandel, Il Corano, Utet, Torino 2006.

[542] Anche se esperienze e teoresi nella direzione di un monismo emanatistico poterono darsianche nell’ambito della mistica islamica come nel caso del maestro sufi Ibn Arabi (1165-1241).

[543] Sullo sciismo si veda ora M.A. Amir-Moezzi, The spirituality of Shi’i Islam: beliefs andpractices, I.B. Tauris, London 2011.

[544] Bianchi 1976, 56.[545] G. Rizzardi, La comprensione di Dio nel Corano e nella tradizione islamica, in Crociata (a

cura di), Il Dio di Gesù Cristo e i monoteismi, 145-179, 177.[546] Rizzardi, La comprensione di Dio nel Corano e nella tradizione islamica, 151.[547] Ibi, 152-153.[548] Bianchi 1976, 40-41.[549] Cfr. M. Borrmans, Il monoteismo islamico e l’immagine trinitaria di Dio, in G. Cereti (a cura

di), Monoteismo cristiano e monoteismi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 101-120.[550] Utili per un primo approccio J. Wiesehöfer, La Persia antica, tr. it., Il Mulino, Bologna 2003;

Stausberg 2013.[551] R. Pettazzoni, La religione di Zarathustra nella storia religiosa dell’Iran, Bologna 1920.[552] Per un approfondimento dei temi qui segnalati cfr. Bianchi 1991.[553] Stausberg 2013, 63.[554] Mosè l’Egizio, tr. it. Milanon 2000 (ed. or. 1997); Id., Non avrai altro Dio, Bologna 2007.[555] Cfr. J.A. Wilson, The Hymnto the Aton, in J.B. Pritchard (a cura di), Ancient Near Eastern

Texts relating to the Old Testament, Princeton NJ 1969³, 369-371.[556] Ad es. Ch. Cannuyer, Questions sur la religion d’Akhénaton et son prétendu ‘monothéisme’,

MelScRel 59, 2002, 23-82.[557] Sfameni Gasparro 2010, 28-29.[558] L’operazione di Assmann è tuttavia a taluni apparsa – a ragione, secondo noi – marcata da

presupposti ermeneutici finalizzati a una operazione di carattere politico-teologico, più che non unalettura storico-religiosa (ad es., G. Casadio, Postfazione, in Pettazzoni, Saggi di Storia delle religioni edi mitologia, 199-271, 240; Ch. Markschies, The Price of Monotheism: some New Observations on aCurrent Debate about Late Antiquity, in S. Mitchell - P. Van Nuffelen (a cura di), One God. PaganMonotheism in the Roman Empire, 100-111).

[559] Filoramo 2004, 188-190.[560] Bianchi 1991; Id., Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico; M.V. Cerutti, Ugo

Bianchi e il dualismo, in Casadio 2002, 291-326.[561] Sfameni Gasparro 2007, 88.

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[562] Bianchi 1986, 103-104.[563] Bianchi 1986, 104-105.[564] Sul tema dualistico in ambito prometeico, cfr. Bianchi 1991.[565] Utile introduzione alla nozione di ‘peccato originale’ in G. Baudry, Le péché dit originel,

Beauchesne, Paris 2000.[566] H. Jonas, Gnosis und spätantiker Geist, vol. I-II, Gottinga 1953-54 (3a ed. 1964), tr. it.

Milano 2010; Id., The gnostic Religion, Boston 19672 (trad. it. Torino 1973, 1991).[567] Una rigorosa sistematizzazione dell’antitesi fra due divinità, l’una buona e l’altra giusta, si ha

nella dottrina di Marcione. In altri sistemi gnostici si ha piuttosto un’entità divina somma dalla qualeemanano successivamente altri esseri pneumatici (gli aiones) distinti per ‘coppie’ (syzygiai). Il livelloinferiore è popolato da numerose ‘potenze’ (dynameis ed exousiai) angeliche, alle quali presiede uncapo, il Demiurgo.

[568] Il suo corpo è una pura apparenza, un phantasma nel senso forte del docetismo, che implical’impossibilità da parte di creature pneumatiche di assumere sostanzialmente un corpo materiale.

[569] La ‘Scuola storico-religiosa’, Religionsgeschichtlicheschule, riteneva ‘storicamente’ spiegatoogni elemento di credenza e di prassi religiosa, per il solo fatto che se ne ritrovassero, o si credesse diritrovarne, precedenti in altre forme religiose. La metodologia storico-religiosa, invece, ritiene che lecomparazioni debbano avvenire tra contesti e processi storici concreti e che ove si comparino singolielementi di quelli essi mai debbano essere avulsi dai rispettivi contesti storici. Inoltre la ‘Scuola storico-religiosa’ era propensa a interpretare fenomeni complessi del mondo tardoantico, come ad esempio lognosticismo, con il ricorso programmatico alla nozione di sincretismo, inteso come fusione di elementioriginariamente appartenenti ad ambiti religiosi diversi in una unica nuova entità religiosa. La nozionedi sincretismo, tuttavia, non può essere invocata troppo di frequente e il ricorso ad essa, comunque,richiede che si indaghi come, per quali vie e in quali circostanze, un elemento riscontrato in unfenomeno appunto definito sincretistico e del quale si ritenga provata l’esistenza in un milieu religiosoantecedente, sia pervenuto al nuovo ambito religioso e soprattutto come in questo esso ‘funzioni’. Sullanozione di ‘sincretismo’ si potrà utilmente vedere N. Spineto, Sincretismo, in J. Ries. (a cura di),Metamorfosi del sacro, Jaca Book, Milano 2009, 159-172.

[570] Sfameni Gasparro 2007, 191-195.[571] Il postulato fondamentale del manicheismo è enunciato, tra numerose fonti, anche da

Agostino nella sua polemica contro Fausto, al quale attribuisce la seguente dichiarazione: “Io insegnodue princìpi, Dio e la Materia. Alla Materia attribuiamo ogni potenza nociva, a Dio ogni potenzabenefica, come gli si addice” (Contra Faustum XXI,1).

[572] Sfameni Gasparro 2007, 195-197.[573] Pertanto, mentre l’anima dell’“eletto” dopo la morte del corpo raggiunge il regno luminoso,

l’anima del catecumeno subisce la metensomatosi finché non si incarni in un eletto e raggiunga in talmodo la salvezza.

[574] Sfameni Gasparro 2007, 197-198.[575] Per una più ampia disamina rimandiamo il lettore a G. Sfameni Gasparro, I dualismi

medievali, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, III: Religioni dualistiche, Islam, Laterza,Roma-Bari 1995, 69-98. A tale trattazione si ispirano queste nostre pagine.

[576] Sfameni Gasparro, I dualismi medievali, 72.[577] Ibi, 72-73.[578] Ibi, 83-84.[579] Ibidem, pp. 85-86.

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[580] Ibi, 92.[581] Ibi, 92-93.[582] Ibi, 93-94.[583] Ibi, 95-96.[584] W.B. Henning, Zoroaster, Politician or witch-doctor?, Oxford-London 1951.[585] Bianchi, Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico.[586] Per un approfondimento, cfr. C. Giuffré Scibona, How Monotheistic is Mani’s Dualism?

Once more on Monotheism and Dualism in Manichaean Gnosis, Numen 48, 2001, 444-467.[587] Il termine di conio moderno (1734) si fa risalire al filosofo tedesco Christian Wolff (1679-

1754) che, nella sua opera Psychologia rationalis, definisce ‘monisti’ coloro che ‘ammettono un unicogenere di sostanza’.

[588] Per questa parte ci siamo ispirati in particolare a Bianchi 1986.[589] “La realtà è una, che i saggi chiamano con diversi nomi” (Rigveda 1,164,36).[590] Brhadaranyaka Upanishad 1.4.10.[591] Chandogya Upanishad 14.1.1.[592] U. Bianchi, Religione, mito e storia: con particolare riguardo ai miti di origini presso i

primitivi, in AA.VV., Il problema dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia 1961, 302-315, 314.[593] Per una prima introduzione al tema, si veda A. Porcarelli, v. New Age, in Dizionario

Interdisciplinare di Scienza e Fede, Vol.I, Urbaniana University Press – Città Nuova Editrice, Roma2002, 1044-1061 (nonché la bibliografia ivi indicata).

[594] Tra le molteplici presentazioni manualistiche delle stesse ci limitiamo qui a segnalare i duevolumi di M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle religioni, ed. it., Milano 2008, dedicatirispettivamente a Buddismo e Induismo, nonché Bürkle 2000, 120-152, opera alla quale questa nostrepagine fanno ampio riferimento.

[595] Per un’introduzione, si veda R.C. Zaehner, L’induismo, Ed Mediterranee, Roma 2012; H. vonStietencron, Hinduismo, a cura di A. Pelissero, tr. it. Brescia 2002; F. Scialpi, Tempo, cosmo eliberazione nell’India antica, SMSR 73, 2007, 371-94; Id., La lezione di Gandhi: il fascino dell’utopiaal confronto con la storia, SMSR 74, 2008, 323-333.

[596] Religione etnica dunque, costituitasi sulla base degli apporti della cultura hindu, dal 7000 caa.C. e fiorente tra il 3000 e il 1750 a.C., e di quella degli arii (arya, ‘nobili’) vedici, d’origineindoeuropea, immigrati in India dopo la metà del II millennio a.C.

[597] A. Pelissero, Deconstruction and Redefinition of Categories from the Indological Field,Historia Religionum 1, 2009, 115-126.

[598] Bianchi 1976, 95.[599] Bianchi 1969, 54.[600] Chandogya Upanishad 3, 14,1.[601] Chandogya Upanishad 3, 14,3-4.[602] Cfr. Bürkle 2000, 121.[603] Bhagavad-Gita 2, 12-13.[604] Bhagavad-Gita 2, 20-25.[605] Cit. in Bürkle 2000, 27.[606] In questa direzione vanno intesi i riferimenti al ‘nome’, stigma di particolarità e unicità (cfr.,

ad es. Gv 10,3; Lc 10,20; Fil 4,3; Ap. 13,8).[607] U. Bianchi, Trimurti e Trinità, in AA.VV., Il simbolo. Vol. XVI: La Ss. Trinità, Edizioni Pro

Civitate Christiana, Assisi 1959, 132-138, 136.

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[608] L’espressione significa letteralmente “Tu sei quello” (ove per ‘quello’ le speculazionivedantiche intendono il brahman nirguna (senza qualità distintive). È la frase che nella ChandogyaUpanishad (6,8,7 et al.) Uddhalaka ripete al figlio Shvetaketu, a indicare l’identità del suo atman conl’unico Assoluto, il Brahman.

[609] Bürkle 2000, 129.[610] Sviluppiamo qui le osservazioni offerte da Bianchi, Trimurti e Trinità.[611] Bianchi, Trimurti e Trinità, 134.[612] Bianchi, Trimurti e Trinità, 137.[613] Ci rifacciamo qui a formulazioni di Pelissero, Deconstruction and Redefinition.[614] P. Hacker, Inklusivismus, in G. Oberhammer hersg., Inklusivismus. Eine Indische Denkform,

Wien 1983, 11-28.[615] I, 164,46.[616] VII, 21-22.[617] Bianchi 1979a, 120.[618] Bianchi 1976, 66.[619] Bianchi 1976, 111-112.[620] Quella che in ambito cristiano è la sequela di Cristo, sequela che il cristiano è chiamato ad

attuare nella Chiesa,‘corpo mistico di Cristo’, nell’induismo è piuttosto il rapporto tra il maestro, laguida religiosa (guru), e gli adepti.

[621] Ratzinger 2005, 32[622] Per la rilevanza della nozione di ‘gioco’ divino nell’induismo e per la sua relazione con le

motivazioni della nascita dell’universo, utile, in primis, N. Hein, v. Lila, in Enciclopedia delle religioni,diretta da M. Eliade, ed. it., vol. 9, Milano 2006, 219-223.

[623] Ratzinger 2005, 29.[624] Ratzinger 2005, 31-32[625] Bürkle 2000, 202.[626] Un discorso a parte meriterebbe la mistica islamica, il sufismo – fortemente osteggiata

dall’Islam vincolato alla sunna –, in quanto essa sembra offrire alcuni aspetti accostabili a quelli dellamistica indiana, allorché cerca la somma beatitudine nel dissolversi dell’anima nella sua origine divina.

[627] Ratzinger 2005, 87.[628] Ratzinger 2005, 32.[629] H. Bürkle, Introduzione. Religione o religioni?, in Tanzella-Nitti, Maspero 2007, 13-34, 23-

24.[630] Solo problematicamente legato all’induismo è il movimento nato attorno a Sathya Sai Baba

(1926-2011), il quale in India è stato oggetto di critiche non meno che di riconoscimenti comeesponente eminente dell’induismo. Dall’organizzazione italiana che a lui fa riferimento è presentatocome una figura che solo casualmente è nata nel contesto induista, in quanto in lui si incarnerebbe laVerità suprema, che è al di sopra di tutte le religioni e le riunisce in sé.

[631] Cfr. Scialpi, La lezione di Gandhi.[632] Cit. da Scialpi, La lezione di Gandhi, 328; cfr. M.K. Gandhi, Antiche come le montagne, a

cura di Sarvepalli Radhakrishnan, Milano, 1975 settima ed., 100.[633] Scialpi, La lezione di Gandhi, 328.[634] Tra l’ampia bibliografia di R. Pannikar basti qui citare The Intrareligious Dialogue, New

York 1978.[635] Ad es. Il cristianesimo e le altre religioni. Il dibattito sul dialogo interreligioso, La Civiltà

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Cattolica 1996, 107-120; M. Aliotta (a cura di), Cristianesimo, religione, religioni. Unità e pluralismodell’esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, San Paolo, Milano 1999.

[636] U. Bianchi, Problemi universalistici nel cristianesimo, in P. Tacchi-Venturi - G. Castellani,Storia delle religioni, vol. IV, Utet, Torino 1971, 695-709, 706.

[637] Bianchi 1976, 115.[638] Origine e senso della storia, tr. it., Milano 1965; ed. or. 1949.[639] Talora negli studi si parla di transteismo, o superamento della funzione e della realtà

ontologica delle figure divine.[640] Bürkle 2000, 140. Cfr. H. de Lubac, Aspetti del Buddismo, tr. it., Milano 1980.[641] Bianchi 1976, 116.[642] Mt 5,4.[643] Bürkle 2000, 143.[644] Bürkle 2000, 145.[645] Bürkle 2000, 150.[646] Basti qui ricordare l’affermazione paolina secondo cui ‘la creazione attende con impazienza

la rivelazione dei figli di Dio’ (Rm 8,19). E ancora: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione gemee soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primiziedello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (ibi,22-23).

[647] Bürkle 2000, 152.[648] Zen significa ‘meditazione’ e la sua pratica è un esercizio che tenta di liberare il ‘principio

fondamentale’ presente in ogni uomo dalla ‘zavorra’ impura delle passioni. La liberazione può avveniresia attraverso lo studio approfondito delle scritture sacre del buddhismo, sia attraverso praticheascetiche od esoteriche.

[649] Bianchi 1976, 116.[650] Trovo questa distinzione in Bianchi 1986, 96-97.[651] Bianchi 1986, 99.

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Frontespizio _____________________________________________________________________________________2Premessa________________________________________________________________________________________4Parte prima Lo statuto epistemologico della Storia delle religioni. Oggetto e metodo ________________________5

Capitolo Primo Introduzione alla disciplina ‘Storia delle religioni’ ____________________________________________________6Capitolo Secondo Cenni di storia degli studi ____________________________________________________________________11

1. F. Max Müller e la Scuola della ‘Mitologia della natura’ ___________________________________142. Evoluzionismo e teorie interpretative della religione _____________________________________16

2.1 L’animismo di E.B. Tylor ____________________________________________________________________192.2 J.G. Frazer e la magia______________________________________________________________________25

3. Per un superamento delle teorie evoluzionistiche________________________________________313.1 A. Lang e W. Schmidt ______________________________________________________________________36

4. Gli indirizzi antropologici _______________________________________________________485. R. Otto e il ‘sacro’ _____________________________________________________________526. La fenomenologia religiosa ______________________________________________________58

6.1 G. van der Leeuw _________________________________________________________________________636.2 M. Eliade ______________________________________________________________________________66

7. R. Pettazzoni e la nascita in Italia della Storia delle religioni________________________________738. Indirizzi di studio recenti________________________________________________________81

Capitolo Terzo L’oggetto della Storia delle religioni _____________________________________________________________1001. La questione della definizione di ‘religione’ ___________________________________________101

1.1 ‘Religione’: rottura di livello _________________________________________________________________1051.2 ‘Religione’: una nozione storicamente condizionata _________________________________________________112

1.2.1 Religio nell’antica Roma: il De natura deorum di Cicerone _______________________________________________________________1181.2.2 Dalle religiones alla religio vera_________________________________________________________________________________1281.2.3 La nozione di religio in autori cristiani di lingua latina dei primi secoli ______________________________________________________138

1.3 ‘Religione’: una nozione analogica_____________________________________________________________1461.3.1 Analogia e univocità: ancora sulla definizione di ‘religione’ ______________________________________________________________1531.3.2 ‘Riduzionismo’ e ‘antiriduzionismo’ _______________________________________________________________________________1591.3.3 Vanificazione e decostruzione della categoria ‘religione’? ________________________________________________________________168

1.4 ‘Religione’: un ‘universale storico’ _____________________________________________________________172Capitolo Quarto Il metodo della Storia delle religioni ____________________________________________________________174

1. Approccio storico e approccio storicistico ____________________________________________183Parte seconda Per una tipologia storica delle religioni _______________________________________________188

Capitolo PrimoIntroduzione alle tipologie storiche ______________________________________________________________189Capitolo SecondoReligioni etniche___________________________________________________________________________197Capitolo TerzoReligioni fondate_____________________________________________________________________________203Capitolo QuartoReligioni nazionali e religioni universali _________________________________________________________213Capitolo QuintoCulti cosmopolitici o sovranazionali_____________________________________________________________225Capitolo SestoPoliteismo, monoteismo, dualismo, monismo. Riflessioni introduttive ___________________________________232

1. Politeismo _________________________________________________________________2351.1 Per una storicizzazione della categoria di politeismo ________________________________________________2401.2 Politeismo: una struttura dinastico-dipartimentale _________________________________________________2451.3 Politeismo: un sistema ‘aperto’ _______________________________________________________________2551.4 Sul politeismo in Grecia: tendenza ‘olimpica’ e tendenza ‘mistica’ _______________________________________260

1.4.1 I misteri greci: Eleusi e Samotracia ______________________________________________________________________________2681.4.2 La ‘misteriosofia’ ___________________________________________________________________________________________279

1.5 Culti mistici e misterici di origine orientale ______________________________________________________2901.5.1 Gli ‘dei in vicenda’___________________________________________________________________________________________2971.5.2 Un caso particolare: Mithra e mitraismo in età imperiale _______________________________________________________________3121.5.3 Misteri e salvezza. Studio di un caso: il ‘dio salvato’ (Firm. Mat. de err. prof. rel. 22,1-3) __________________________________________3161.5.4 Osservazioni conclusive ______________________________________________________________________________________329

1.6 Pluralità, unità e unicità del divino ____________________________________________________________3371.6.1 ‘Monoteismo pagano’ nella Antichità tardiva? _______________________________________________________________________3511.6.1.1 L’‘oracolo teologico’ ________________________________________________________________________________________3611.6.1.2 Testimonianze neoplatoniche__________________________________________________________________________________3651.6.1.3 Attestazioni cultuali ________________________________________________________________________________________3681.6.2 Enoteismo________________________________________________________________________________________________375

1.7 Una categoria storico-religiosa: il mito __________________________________________________________3771.7.1 Cenni di storia degli studi _____________________________________________________________________________________388

2. Monoteismo________________________________________________________________4012.1 Politeismo e monoteismo. Cenni di storia degli studi ________________________________________________4132.2 Monoteismo e monoteismi _________________________________________________________________421

2.2.1 Ebraismo-giudaismo ________________________________________________________________________________________4242.2.2 Cristianesimo _____________________________________________________________________________________________4352.2.3 Islamismo _______________________________________________________________________________________________4392.2.4 Zoroastrismo _____________________________________________________________________________________________457

2.3 ‘Pseudo-monoteismi’ _____________________________________________________________________4722.4 Monoteismo tra esclusivismo e inclusivismo______________________________________________________477

3. Dualismo _________________________________________________________________4803.1 Unde malum? __________________________________________________________________________4893.2 Religioni e correnti dualistiche _______________________________________________________________4913.3 I dualismi medievali______________________________________________________________________5023.4 Monoteismo e dualismo ___________________________________________________________________514

4. Monismo __________________________________________________________________5164.1 Induismo _____________________________________________________________________________524

4.1.1 Etica ____________________________________________________________________________________________________5414.1.2 Trimurti e Trinità __________________________________________________________________________________________5444.1.3 Induismo e inclusivismo ______________________________________________________________________________________5474.1.4 Induismo e mistica __________________________________________________________________________________________552

4.2 Buddhismo ____________________________________________________________________________5594.2.1 Il ‘fondatore’ ______________________________________________________________________________________________5624.2.2 Le dottrine _______________________________________________________________________________________________565

4.3 Confucianesimo e taoismo__________________________________________________________________573Bibliografia____________________________________________________________________________________577