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STORIA DELLE ANTICHE MOLE BARONALI DI ASCREA, PAGANICO, COLLALTO E MARCETELLI (1289-1945) di Gregorio Gumina Dalla prima metà dell’Ottocento e sino agli inizi degli anni ‘30 del Novecento alcune piccole comunità dell’alta valle del Turano (1) vissero un breve ma intenso sviluppo economico e sociale reso possibile, soprattutto, dall’incremento della pastorizia, dall’al- levamento, dall’agricoltura e da alcune tipiche attività artigianali (2). Ma tale sviluppo s’arresto drasticamente sul finire degli anni ’30 per effetto del colpo mortale inferto alle sue antichissime popolazioni dal regime fascista, che le saccheggiò della gran parte dei migliori terreni agricoli per fare spazio ad un’inutile bacino artificiale ed alla sua diga costruita a Stipes (3). Non soltanto tali opere “grandiose”, così fascisticamente enfatiz- zate dalla propaganda di regime, sono costate ai contribuenti italiani d’allora un’enor- mità ma non hanno prodotto alcun vero progresso o beneficio a tutti quei paesi che si affacciano sulle acque del fiume: al contrario, hanno causato enormi ed incalcolabili danni economici, morali e culturali a centinaia di agricoltori ed alle loro famiglie, hanno prodotto una disoccupazione insanabile, da generazioni, costringendo migliaia di fami- glie ad emigrare in terre lontane per sopravvivere, e come se tutto ciò non bastasse, hanno eroso all’intera collettività le memorie storiche di cui questa terra era ricca. Cosa ancora più grave, ed a mio avviso da non sottovalutare, è che la creazione del bacino idroelettrico del Turano - tra l’altro oggi estremamente pericoloso tenuto conto sia delle vecchie tecnologie usate nella costruzione e sia dell’alta sismicità di questi ter- ritori - sommate alla perenne mancanza di concrete politiche occupazionali a sostegno delle popolazioni locali, ha innestato un’inarrestabile processo di spopolamento di que- sti piccoli comuni, determinandone l’inevitabile scomparsa. Vedere oggi, agosto 2012, ciò che resta di quei magnifici campi sapientemente coltivati prima della realizzazione dell’invaso artificiale, rattrista molto; paradossalmente, se in passato era l’uomo che sottraeva terreni da colonizzare ai boschi per le sue necessità, oggi, al contrario, su quei terreni la natura sta riprendendosi ciò che le era stato tolto. In questa parte dell’antica terra sabina, fra le ricchezze naturali, vi è sempre stata senza dubbio l’abbondanza dei corsi d’acqua che in primavera, allo sciogliersi delle prime nevi, scorrono prepotentemente dalle alture circostanti per andare ad alimentare l’antico fiume Turano; la sua particolare orografia ha favorito, sin dall’antichità, la costruzione di vari tipi di mulini adatti alle diverse necessità delle popolazioni locali. Nel vasto ter- ritorio dell’antica baronia imperiale di Collalto, che comprendeva, oltre a questo castel- lo, quelli di Paganico, Collegiove, Nespolo, Ricetto, S. Lorenzo, Marcetelli, l’esistenza di una piccola rete di mulini a grano è sufficientemente documentata, soprattutto nella stretta gola naturale dell’Ovito (4), tra i paesi di Paganico Sabino ed Ascrea (paese che per un certo periodo fece anch’esso parte della baronia) dove ne ritroviamo attivi addi- rittura quattro, molto vicini uno all’altro, con un grande granaio (che servì probabilmen- 52
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STORIA DELLE ANTICHE MOLE BARONALI DI ASCREA, PAGANICO, COLLALTO E MARCETELLI (1289-1945

Jan 12, 2023

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STORIA DELLE ANTICHE MOLE BARONALI

DI ASCREA, PAGANICO, COLLALTO

E MARCETELLI (1289-1945)

di Gregorio Gumina

Dalla prima metà dell’Ottocento e sino agli inizi degli anni ‘30 del Novecento alcunepiccole comunità dell’alta valle del Turano (1) vissero un breve ma intenso sviluppoeconomico e sociale reso possibile, soprattutto, dall’incremento della pastorizia, dall’al-levamento, dall’agricoltura e da alcune tipiche attività artigianali (2). Ma tale sviluppos’arresto drasticamente sul finire degli anni ’30 per effetto del colpo mortale inferto allesue antichissime popolazioni dal regime fascista, che le saccheggiò della gran parte deimigliori terreni agricoli per fare spazio ad un’inutile bacino artificiale ed alla sua digacostruita a Stipes (3). Non soltanto tali opere “grandiose”, così fascisticamente enfatiz-zate dalla propaganda di regime, sono costate ai contribuenti italiani d’allora un’enor-mità ma non hanno prodotto alcun vero progresso o beneficio a tutti quei paesi che siaffacciano sulle acque del fiume: al contrario, hanno causato enormi ed incalcolabilidanni economici, morali e culturali a centinaia di agricoltori ed alle loro famiglie, hannoprodotto una disoccupazione insanabile, da generazioni, costringendo migliaia di fami-glie ad emigrare in terre lontane per sopravvivere, e come se tutto ciò non bastasse,hanno eroso all’intera collettività le memorie storiche di cui questa terra era ricca. Cosa ancora più grave, ed a mio avviso da non sottovalutare, è che la creazione delbacino idroelettrico del Turano - tra l’altro oggi estremamente pericoloso tenuto contosia delle vecchie tecnologie usate nella costruzione e sia dell’alta sismicità di questi ter-ritori - sommate alla perenne mancanza di concrete politiche occupazionali a sostegnodelle popolazioni locali, ha innestato un’inarrestabile processo di spopolamento di que-sti piccoli comuni, determinandone l’inevitabile scomparsa. Vedere oggi, agosto 2012,ciò che resta di quei magnifici campi sapientemente coltivati prima della realizzazionedell’invaso artificiale, rattrista molto; paradossalmente, se in passato era l’uomo chesottraeva terreni da colonizzare ai boschi per le sue necessità, oggi, al contrario, su queiterreni la natura sta riprendendosi ciò che le era stato tolto. In questa parte dell’antica terra sabina, fra le ricchezze naturali, vi è sempre stata senzadubbio l’abbondanza dei corsi d’acqua che in primavera, allo sciogliersi delle primenevi, scorrono prepotentemente dalle alture circostanti per andare ad alimentare l’anticofiume Turano; la sua particolare orografia ha favorito, sin dall’antichità, la costruzionedi vari tipi di mulini adatti alle diverse necessità delle popolazioni locali. Nel vasto ter-ritorio dell’antica baronia imperiale di Collalto, che comprendeva, oltre a questo castel-lo, quelli di Paganico, Collegiove, Nespolo, Ricetto, S. Lorenzo, Marcetelli, l’esistenzadi una piccola rete di mulini a grano è sufficientemente documentata, soprattutto nellastretta gola naturale dell’Ovito (4), tra i paesi di Paganico Sabino ed Ascrea (paese cheper un certo periodo fece anch’esso parte della baronia) dove ne ritroviamo attivi addi-rittura quattro, molto vicini uno all’altro, con un grande granaio (che servì probabilmen-

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te anche da deposito del locale Monte frumentario), con un forno per il pane, con unavalchiera dove venivano follati e lavorati i panni di lana e gli stracci ed una polverierache fungeva da deposito di polveri e munizioni sia per la caccia che per la fortezza diCollalto. La concentrazione di diverse attività artigianali in quest’area, dove erano pre-senti già da secoli coltivazioni di canapa, lo sviluppo che qui ebbero la pastorizia e l’al-levamento - senza dimenticare che dal 1845 questo comune divenne sede di una impor-tante fiera annuale del bestiame, la fiera di San Giuseppe - ci consente d’ipotizzare chePaganico fu per alcuni secoli il cuore commerciale ed industriale dell’intera baronia;ragione per cui ho focalizzato la mia ricerca soprattutto in questo territorio. Prima peròdi delineare sommariamente la storia di questi mulini, ritengo sia utile fornire una brevesintesi, sia pure generica ed approssimativa, delle nostre conoscenze riguardanti questastraordinaria invenzione umana.

Dalla rudimentale mola manualis al mulino ad acqua

Allo stato attuale delle ricerche, non disponiamo ancora di elementi scientificamenteattendibili per stabilire il luogo esatto dove ebbe origine la tecnica della macinazionedei cereali per mezzo di rudimentali macine in pietra. In passato, molti ritrovamentiarcheologici di queste mole, avvenuti in gran parte della valle dell’Eufrate, ci lasciavanopresupporre che proprio in queste aree potessero esser state adoperate prima d’ognialtro luogo: nel sito archeologico di Tell Abu Hureyra, nel nord della Siria, riferibile allacultura natufiana dell’epipaleolitico o Mesolitico, il materiale rinvenuto negli scavi del1975 ed in quelli successivi ci aveva rivelato la prima forma di coltivazione di orzo, fru-mento e segale; qui furono anche dissepolte diverse macine in pietra arenaria, mortai epestelli datati tra il 9500 ed il 9000 a. C. a testimonianza di quanto antica fosse la tecni-ca della macinazione dei cereali (5): come è noto fu proprio in queste aree, durante lalunga fase del neolitico, che ebbe inizio l’agricoltura seminativa basata essenzialmentesul grano e sull’orzo, che come diversi altri cereali diffusi oggi nel mondo sono origina-

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Lago Bilancino nel Mugello, macina e pestello del paleolitico superiore

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ri di queste terre. I resti più antichi e documentati archeologicamente provengono infattidalle città di Gerico e Beidha in Palestina, Qal’at Jarmo nell’Iraq Settentrionale, dal sitoarcheologico di Ali Kosh nell’Iran meridionale, da Hagilar nell’Anatolia meridionale erisalgono a 7000 anni fa (6).Ma la recente e sensazionale scoperta di una piccola macina e di un pestello in arenariaavvenuta sulle rive del lago Bilancino nel Mugello (Toscana), nell’area di un accampa-mento stagionale del paleolitico superiore (circa trentamila anni fa), ha notevolmentespostato all’indietro le nostre conoscenze, aprendo una serie di prospettive rivoluziona-rie sulle scienze sociali. Gli scavi, intrapresi dal 1995 a1 1996 dalla Soprintendenza peri Beni Archeologici della Toscana in collaborazione con l’Istituto Italiano di Preistoria eProtostoria e coordinati dall’antropologo britannico Richard Wrangham della HawardUniversity, hanno riportato alla luce oltre quarantamila oggetti in selce (i cosiddettibulini di Noailles) e tra essi, due piccoli blocchi in arenaria sui quali, dopo alcuni annidi meticolose indagini paleobiologiche e paleobotaniche, sono stati identificati amidivegetali, in particolare di una pianta molto comune, la tifa palustre, detta anche stianciao mazza sorda. Questo ha permesso alle due ricercatrici che le hanno scoperte, di stabilire senz’altroche si trattava di una rudimentale macina e di un macinello o pestello in pietra, usatodall’Homo sapiens per triturare le radici essiccate delle piante e ricavarne una farina,con la quale realizzava un tipo di galletta, antenata del nostro pane casereccio. Analoghiritrovamenti sono avvenuti nei siti preistorici coevi di Pavlov VI (Moravia, Rep. Ceca)e nella valle del Don (Russia) a Kostenki 16 (7). La mancanza però - allo stato attuale -di validi studi scientifici che ci consentirebbero una profonda revisione delle nostreconoscenze in materia, dobbiamo necessariamente attenerci a quanto sinora c’è noto.La presenza di antiche macine da mulini in Mesopotamia, come abbiamo visto, è anti-chissima e suffragata oltre che dall’indagine archeologica anche da una millenaria lette-ratura religiosa: nell’antica Eretz Yisrael (Terra d’Israele) (8) - ad esempio - è ben docu-mentata nelle raccolte di scritture sacre all’ebraismo: arcinoto è infatti l’episodio biblicodel giudice Sansone che invaghitosi della bella Dalida e da lei tosato con l’inganno, fucatturato dai guerrieri filistei, brutalmente accecato e costretto - con robuste catene dirame - a far girare la pesante mola del mulino della prigione di Gaza assieme ad altriebrei (9). Molti grandi artisti del passato hanno tratto ispirazione e rappresentato que-st’episodio nei più svariati modi: la crudeltà e la drammaticità del suo accecamentosono state ben interpretate, per esempio, dal Rembrant in un celebre dipinto del 1636che si conserva a Francoforte. Ma l’immagine che più di altre ci fa comprendere a qualedisumana ed intollerabile fatica erano costretti gli schiavi e tutti gli altri prigionieriaddetti alle macine è senz’altro quella realizzata a Roma, nel 1863, dal pittore daneseCarl Heinrich Bloch (1834-1890) che raffigura un Sansone stremato nell’atto di spinge-re l’enorme mola in pietra, sopra la quale è seduto un uomo che lo punzecchia sadica-mente con una canna (10). Il mulino in arte lo troviamo riprodotto in molteplici opere scultoree e pittoriche, ma èsoprattutto in ambito letterario che svariati autori, in tutte le epoche storiche, si sonoprodigati e lo hanno reso celebre: come non ricordare l’Asi no d’oro di Apuleio o il DonQuijote de la Mancha, per fare solo due esempi tra i più conosciuti o lo splendido film

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neorealista di Lattuada, il mulino del Po, del1949, dal romanzo omonimo di RiccardoBaccelli (1891-1986). Non solo, quindi, l’attivitàmolitoria era disumana ed intollerabile ma, assaifrequentemente i mulini erano costruiti in localisotterranei malsani dove lavoravano ininterrotta-mente schiavi, prigionieri e quadrupedi, tra pol-vere, sudori, cattivi odori, ratti e scarafaggi, incondizioni tali da conferire agli ambienti quell’a-spetto tipicamente infernale tanto caro agli scrit-tori classici (11). Al massacrante lavoro dellamolitura, che diversi autori latini non esitavano adefinire l’ergastuli, venivano costrette soprattut-to le schiave e questo avveniva in gran parte delmondo antico (12). Del resto, secondo la tradizione religiosa, fu lostesso Dio “giustiziere” di Mosè a sorvolare sutale pratica disumana, (frutto - a mio avviso -della millenaria sottocultura maschilista), quan-do se la prese con gli egiziani, sentenziando «morietur omne primogenitum Pharaonisusque ad primogenitum ancille, quae est ad molam» (13). Oppure quando decretò ladistruzione della città di Babilonia attraverso le parole del profeta Isaia: «Scendi e siedisulla polvere, vergine figlia di Babilonia. Siedi a terra senza trono, figlia dei Caldei,poiché non sarai più chiamata tenera e voluttuosa. Prendi la mola e macina la farina,togliti il velo, solleva i lembi della veste, attraversa i fiumi», fissando, con queste“sacre” imposizioni, la collocazione della donna sul gradino più basso della scala socia-le d’allora (14). Nessuna considerazione evidentemente per il suo ruolo fondamentale ma guai a toccarele macine in pietra di una mola domestica, che rappresentavano, per tutte le famiglieisraelite, un segno di prosperità quasi sacro: «Non porterai via, in luogo di pegno, lamacina inferiore, e la superiore; che così uno verrebbe ad impegnare a te la propriavita (15). Nelle case dove si poteva udire il loro suono lamentoso prodotto durante ilmovimento regnava l’allegria ed il benessere: anche in questo caso, nella letteraturabiblica, la rabbia di un Dio fortemente “adirato” colpisce impietosamente «Farò cessarein mezzo a loro la voce della gioia e la voce dell’allegria, la voce dello sposo e la vocedella sposa, il rumore della mola (macina) e la luce della lampada» (Geremia, 25; 10).Ma se per taluni la macina era sacra per altri la si poteva tranquillamente utilizzarecome pesante accessorio, legata ben stretta al collo di chi era condannato a sprofondarenegli abissi marini per avere scandalizzato dei bambini (Matteo, 18, 6-11).Sappiamo che in gran parte del mondo antico la molitura domestica era riservata esclu-sivamente alle donne di ogni estrazione sociale alle quali, sin dalla più tenera età, veni-va insegnata assieme a tutte le attività tradizionali di casa che erano considerate (dagliuomini) adatte alla loro inferiorità sociale: tra i numerosi esempi nel mondo ellenistico,l’epopea omerica ci racconta come Ulisse, al suo arrivo nel palazzo di Alcìnoo re dei

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Sansone di Carl Bloch, Roma 1863

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Peaci, si trovò di fronte alcune giovani ancelleche sfregavano le mole a mano sul grano dorato(16). Un’altra testimonianza in proposito ce lafornisce Antipatro di Sidone, che nel linguaggiomitologico associava alle ninfe la potenza del-l’acqua: «Smettete di macinare, o donne chelavorate al mulino; dormite sino a tardi, anchese il canto del gallo annuncia l’alba. PoichéDemetrio ha ordinato alle ninfe di eseguire illavoro che facevate con le vostre mani, ed esse,saltando giù dalla sommità della ruota, fannogirare l’assale, che con le sue razze rotanti, fagirare le pesanti macine concave di Nisiria (17).Questo accenno metaforico alla nuova invenzio-ne del mulino ad acqua ci suggerisce - quanto-meno - che già allora si sentiva la necessità di fare un piccolo passo avanti verso l’af-francazione degli schiavi nel mondo ellenistico e romano dove, per secoli, il lavorologorante alle macine dei mulini, (tutti posti sotto l’ala protettrice del dio-demoneEunosto) (18), veniva “allietato” talvolta da un’antica cantilena dei molinari, l’epimilio;questo ce lo fa sapere Plutarco il quale, in una sua celebre opera, fa raccontare a Taletedi avere udito sull’isola di Lesbo una povera schiava incatenata alla pesante macinacantarne uno: «Macina o molino, macina, mentre Pittaco il re della grande Mitilene sicompiace anch’esso a macinare» (19). Altrettanto duro doveva pur essere il lavoro perquei poveri abitanti di un villaggio vicino al fiume Eufrate i quali, durante la guerra diCiro il Giovane - vòlta a spodestare suo fratello Antaserse dal trono di Persia nell’anno410 a. C. - per sopravvivere alla fame ed alla estrema penuria di risorse alimentari delloro arido territorio, con attrezzi rudimentali scavavano la dura pietra lungo il corso delfiume e la intagliavano ricavandone delle macine che portavano poi a vendere nellavicina Babilonia in cambio di grano ed altri alimenti (20). Un diverso utilizzo di questa macchina straordinaria lo troviamo nel ricordo letterariodell’ingegnoso mulino realizzato per portare acqua nei giardini del palazzo reale diMitridate VI re del Ponto a Cabira; un’opera così imponente per quell’epoca - siamo nel63 a. C. - che destò lo stupore e l’ammirazione persino del suo vincitore PompeoMagno. Il ricordo di quel meccanismo così stupefacente inorgogliva i greci, i quali dasempre ne attribuivano la paternità al mitico Milete o Mile figlio del primo re di Sparta(21); ad un altro mitico re, il cretese Pilumnum (Pilunno) che la mitologia romana arcai-ca divinizzò come figlio di Giove, veniva invece attribuita l’origine dell’invenzione delpestello - che etimologicamente deriverebbe dal suo nome - con il quale avrebbe inse-gnato agli uomini a frantumare nel mortaio i chicchi di grano per estrarne la farina (22). In epoca romana però il lavoro nel mulino non doveva essere considerato un’attivitàdignitosa se è vero che i prigionieri, i delinquenti, i cattivi pagatori, i poeti - comeNevio - e persino certi filosofi non graditi al potere, venivano condannati a fare girare lepesanti mole. Tra questi, stando alle notizie scarsamente attendibili tramandateci daAulo Gellio (23), che le aveva attinte da un’opera non pervenutaci del reatino Varrone,

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Macinatrice egiziana, Museo archeologico di Firenze

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De comoedis Plautinii, e che innumerevoli altri autori hanno poi ripreso fino ai nostrigiorni, ci sarebbe stato il celebre commediografo latino Plauto. Una volta sperperatetutte le sue sostanze (guadagnate con il teatro) a causa di investimenti commerciali sba-gliati, s’indebitò così tanto da vedersi costretto a lavorare per lungo tempo presso unsuo creditore, un pistor (fornaio), legato come una bestia da soma per fare girare unapesante molæ trusatiles da grano (24). Tale attività, stando sempre al racconto di Gellio,gli permise addirittura di scrivere diverse delle sue grandi opere, e gli ispirò la comme-dia autobiografica Addictus (una figura tipica del diritto romano arcaico, vale a direcolui che per debiti insoluti era stato assegnato dal magistrato al suo creditore, manuiniecti) (25). Diversamente, altri autori minori asseriscono che vi fu costretto per essersipermesso la libertà d’ironizzare sui potenti nelle sue opere (26). Certo però, considerata la durezza del tipo di attività diviene assai poco credibile chePlauto abbia trovato il tempo, la libertà e la tranquillità per scrivere quelle splendidecommedie; anche se, con diversi secoli di distanza, un umile mugnaio friulano taleDomenico Scandella detto Menocchio, mandato sul rogo alla fine del ‘500 da alcunigiudici ecclesiastici, era riuscito ad elaborare molte delle sue stravaganti teorie sulle ori-gini della terra e dell’uomo ed a costruirsi una sua cosmogonia intrisa di oscure mitolo-gie contadine e credenze popolari proprio lavorando nel suo mulino (27). Un discretovantaggio sociale che l’attività molitoria portava al proprietario del pistrinum e del suoforno annesso consisteva nell’acquisizione della cittadinanza romana dopo appena treanni ininterrotti di attività nella città di Roma (28): ho scritto pistrinum perchè a queitempi con questo termine s’intendeva in effetti sia il mulino che il forno, mentre perindicare la loro gestione si usava il termine tecnico pistrinum exercere. Valgano comeesempio i mulini strutturati in serie del vicolo Torto a Pompei (la cosiddetta Casa deiFornai) dove all’interno dei loro ambienti veniva svolto l’intero processo di lavorazionedel grano, dal lavaggio alla riduzione in farina fino alla sua trasformazione in pane cotto(29). Non sappiamo ancora con esattezza in quale epoca iniziarono a diffondersi nell’areamediterranea i mulini ad acqua: ma la vecchia teoria del Finley (30), che in sostanzaricalcava il Bloch (31), per il quale non esistevano prima del quarto - quinto secolo èoggi abbondantemente contraddetta dai numerosi ritrovamenti archeologici di edificidestinati a mulini. Non ultimo, per la città di Roma, il rinvenimento ai piedi dellaDomus Tiberiana sul Palatino, di una cinquantina di macine in pietra. Analoghi ritrova-menti di mole, che vennero reimpiegate per la pavimentazione ed altre strutture risalential V secolo, sono avvenuti a Porta Maggiore e nei sotterranei delle Terme di Caracalla(32). Anche Catone, nel suo De Re Rustica (cap. x) c’informa che già due secoli primadi Cristo esistevano in Italia delle mole girevoli (Molæ versatiles) e delle mole mosse daasini (Molæ asinariæ), mentre la presenza storicamente documentata dei mulini adacqua nella città di Roma risale solamente al 109 d. C. anno in cui l’imperatore Traianofece realizzare un grande acquedotto per condurre l’acqua da Bracciano al colleGianicolo alle cui pendici vennero costruiti anticamente tutti i mulini della città (33). Fudurante l’assedio di Roma del 537-538, nella prima fase della guerra gotica, che il gene-rale bizantino Belisario (34), inviato dall’imperatore Giustiniano in soccorso di papaSilverio con l’obiettivo di liberare Roma e contrastare i molti danni, soprattutto agli

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acquedotti, causati dall’esercito dei goti guidato dal re Vitige (35), fece ancorare sulTevere delle barche disposte una accanto all’altra e sopra v’installò dei rudimentalimulini azionati dall’energia idraulica (chiamati anche mulini a nave o galleggianti) perpotere macinare il frumento necessario alla città; quando i Goti si accorsero dell’inven-zione geniale tentarono di sabotarla gettando cadaveri ed alberi nelle acque del fiume.Servì a poco perché l’arguto generale fece mettere delle funi di ferro ben tese da ambe-due i lati del Tevere, legandole ai pilastridi un ponte, impedendo così non soloagli alberi ed ai cadaveri gettati dai Gotidi proseguire oltre e danneggiare i mulinigalleggianti ma soprattutto all’esercitoassediante di entrare a Roma passandoper il fiume (36).In epoca romana i mulini per macinarecereali erano in genere formati da unamola superiore a doppio cono cavo, fre-quentemente in pietra lavica, la qualeruotava - spinta dalla trazione animale odalla forza delle braccia - sopra un’ altramola a forma di cono pieno, (chiamaterispettivamente catillus e meta, mentrel’asse centrale attorno al quale girava lamacina molile) (37); per intenderci, diquelli tuttora visibili sia nel citato forno pubblico di Pompei e sia ad Ostia antica (38).Tale modello rappresentava però già un’evoluzione tecnica rispetto a quello usato inepoca arcaica: infatti, come abbiamo già accennato, inizialmente gran parte delle anti-che popolazione macinavano i loro cerali sfregandoli con una pietra di forma vagamentecilindrica sopra un’altra pietra a forma di sella. Successivamente si passò a pestare igrani dentro un mortaio, anch’esso in pietra, con notevole dispendio d’energia però econ dei risultati assai scarsi per quanto concerneva la qualità delle farine. Fino a quando non si scoprì l’utilizzo delle pietre sovrapposte, una delle quali mobile el’altra fissa. Gli ingegneri romani sfruttarono appieno la nuova tecnica per aumentare laproduzione di farina migliorando innanzitutto la struttura dei mulini idraulici: già allafine del I secolo a. C. erano già riusciti a sestuplicare il rendimento che sino ad alloraera equivalente, in potenza, all’energia di 3 cavalli, ben differente dalla precedente diappena 0,5. Un importante ritrovamento archeologico, avvenuto a Venafro sul Volturnoqualche decennio fa, di una mola romana del diametro di m 2,10 ci fa bene comprende-re come fosse imponente tale attività già nel I° sec a. C, confermandoci sostanzialmentequanto riferito da Catone nel De Re Rustica. Tale mola poteva infatti compiere 46 giri alminuto e macinare fino a 150 kg di grano l’ora; vale a dire che in una giornata di dieciore circa macinava un totale di 1.500 kg (39). Ma dove l’ ingegneria romana espresse il meglio della sua maestria (appresa natural-mente dagli etruschi) fu a Barbegal, sul territorio del Comune di Fontaivieille, vicinoArles, nel sud della Francia. Qui i Romani impiantarono una imponente struttura di 16

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Mola jumentaria, Musei Vaticani

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mulini ad acqua definito da molti come «la più grande concentrazione nota di potenzameccanica nel mondo antico» (40).

La diffusione dei mulini ad acqua nel medioevo

Nella vita sociale ed economica tra tardo medioevo ed età moderna s’innesta l’impor-tanza dell’attività di molitura come ci testimoniano d’altronde sia le aspre lotte tracomunità monastiche, chiese, feudatari e comuni (41), tutti a difesa dei propri interessie sia - finalmente - l’attenzione che ha ridestato negli storici questa straordinaria inven-zione, compagna dell’uomo durante tutto il suo millenario sviluppo e che, secondo me,andrebbe tutelata come patrimonio mondiale dell’umanità! Certamente, l’uso del nuovomulino ad acqua, che vedrà la sua maggiore espansione durante tutto l’alto medioevo,consentiva un maggiore risparmio di energie e la sua applicazione si estendeva ad altriprocessi di produzione quali la lavorazione della carta, la follatura dei panni - nei mulinitrasformati spesso in gualchiere - la lavorazione dei metalli, le segherie (soprattutto nelnord Italia), non ultimo la produzione della birra in certe zone della Francia e delBelgio. Senza però che si abbandonassero del tutto i vecchi metodi di molitura chesfruttavano ancora la trazione animale se nonaddirittura la forza delle braccia. Lo sfruttamento della forza dell’acqua avvennediffusamente soltanto in epoca medioevale, dopoche gli studi e le innovazioni tecnologiche sugge-rite dell’architetto ed ingegnere romano Vitruvio(Marcus Vitruvius Pollio, che nel suo celebre trat-tato De Architectura scritto tra il 29 ed il 23 a. C.per primo descrisse il meccanismo della ruotadentata così decisivo per l’industrializzazionedell’Europa medioevale, moderna e contempora-nea), vennero applicate anche nella costruzionedei mulini. Tra l’xI ed il xIII secolo assistiamoquindi, praticamente in tutta Europa, ad una sortadi pre-rivoluzione industriale, come teorizzavacoraggiosamente negli anni ’70 lo storico franceseJean Gimpel (42) e come anni prima aveva intuitola Carus-Wilson (43): il lavoro, sino ad alloraesclusivamente eseguito da schiavi ed animali ead un costo irrisorio, venne gradatamente coadiu-vato dall’uso delle macchine. L’incremento demografico successivo alle disastrosepestilenze del xII e xIII secolo aveva fatto aumentare in modo esponenziale la ricercadi nuovi terreni da dissodare e da coltivare sottraendoli ai boschi secolari. Tale progres-so agricolo fu però possibile grazie anche al perfezionamento delle tecniche di coltiva-zione ed al miglioramento dei prodotti della terra: questi elementi furono, principalmen-te, alla base del progresso generale avvenuto in quell’arco di tempo (44). Ovviamentecon l’aumento della popolazione aumentava anche la richiesta di risorse alimentari; èquindi senz’altro ipotizzabile che il povero mugnaio medioevale, che ancora macinava

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Funzionamento delle mole di O. Strada

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con delle rudimentali macine di pietraazionate dalla forza animale o a braccia,non fosse più in grado di fare fronte allacrescente domanda di farina. Bisognavaallora trovare il modo per produrne unamaggiore quantità: così, già nell’altomedioevo, in molti paesi dell’Europa delnord, sui fiumi, sui ruscelli, sui numerosicorsi d’acqua e persino sulle rive delmare, iniziarono a diffondersi una grandevarietà di mulini a grano sia ad acqua chea vento (Molæ alata). Anche perché rappresentavano un otti-mo investimento economico per i loro proprietari (45). Fu tale, rapida ed economica-mente rilevante nel mondo occidentale la loro diffusione che già in epoca imperiale siera reso necessario regolarne giuridicamente tutte le attività ad essi collegate (46).

I mulini nell’antico territorio sabino

Anche qui da noi, nell’antico e vasto territorio sabino che comprendeva pure l’alta emedia valle del Turano, sono svariate le attestazioni documentali farfensi che conferma-no la presenza di una fitta rete di mulini ad acqua già nell’VIII secolo. Questo nonsignifica - si badi bene - che prima non ve ne fossero, semplicemente non abbiamoancora documenti o riscontri archeologici validi per confermarne l’uso ininterrotto sindall’epoca romana. È sorprendente però che il più antico atto sinora conosciuto sia unadonazione del re Liutprando del 12 novembre dell’anno 742; in tale atto egli dona unmolinum al gastaldo di Rieti Piccone e gli conferma il Casale Ponziano (47). Questomulino si trovava sulle rive del fiume Velino, molto vicino alle mura urbane. Un’altrasignificativa donazione viene fatta dal duca di Spoleto Ildebrando nell’anno 778 alvescovo di Rieti Guicperto, al quale dona il monastero di S. Angelo con vigne, oliveti,boschi, mulino, ed altro (48). Queste e diverse altre donazioni comprovano senza dub-bio che l’edificazione di mulini e soprattutto la gestione dei corsi d’acqua erano inizial-mente esclusiva della ricca classe dirigente longobarda e successivamente di quella deifranchi. Solo dagli inizi del x secolo tale prerogativa passerà in mano ai potenti abatifarfensi, che risultano esserne i principali promotori (49). A costoro la giurisprudenzafeudale, introdotta dai conquistatori normanni soprattutto nei baronum privilegis, rico-nosceva il diritto di privativa e la percezione della molenda, ossia il prezzo per la moli-tura che era dovuto al mugnaio in danaro o in farina (50). Numerosi sono tra l’altro imulini posseduti e fatti costruire dalla grande abbazia imperiale che, assieme a quella diNonantola, lo ricordiamo, nel secolo xI era tra le più ricche d’Italia. Nella sola città diRieti vi erano diversi mulini in grado di provvedere al fabbisogno cittadino di farina, ilpiù importante dei quali potrebbe essere stato quello denominato Ianaticus o maggioreche sfruttava l’energia delle acque del fiume Cantaro: «medietatem de molino maioriqui vocatur Ianaticus, qui es foris portam Interocrinam ad Cantarum» (51).Poca cosa, naturalmente, rispetto ai novecento esistenti sui vari corsi d’acqua del conta-

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Mulini a vento di Jan Van Der Straat

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do di Milano descritti così enfaticamente dal frate Bonvesin da la Riva, maestro digrammatica e retorica, intorno al 1270: «Suprascripta equidem flumina non solumpiscium, non solum feni copiam prestant, sed cum suis molendinis, que plura nonagentissunt numero cum suis rotis, que sunt (ultra tria millia, non solum) tot Ambroxianos [...](sed) etiam pluribus centum milibus […] ministrant (52). La loro diffusione non fu peròdappertutto sincrona; in Sicilia, ad esempio, soltanto dopo la conclusione della dinastiasiculo-aragonese avvenuta con la morte di Ferdinando II d’Aragona il 23 gennaio 1516,assistiamo al moltiplicarsi delle richieste di licenze e privative per l’invenzione di nuovimulini (53), anche se sappiamo dalle fonti che già nel 1428 re Alfonso aveva concessoad un mercante catalano, Iacopo Casanova, di costruire in Sicilia dei mulini a vento(54). Che il possesso di mulini non fosse però esclusiva soltanto di abbazie, conventi,monasteri e chiese ma anche di facoltosi aristocratici (come nel caso del GastaldusPicconis) lo troviamo confermato, per esempio, in una pergamena contenente il testa-mento del signore di Arsoli, Rainero figlio di Bobone, rogato nell’aprile del 1256: eglilascia in usufrutto ai suoi eredi, il figlio Ottaviano ed il nipote Andrea, quindici castelli,un casale con orto e vigna, ed un molino (55). Nel periodo della loro massima espansione feudale, i conti Mareri intrapresero anch’essidiverse iniziative imprenditoriali nei nuovi feudi acquisiti o conquistati allo scopo digarantirsi maggiori entrate e - soprattutto - maggiori diritti feudali: investirono moltodenaro infatti nelle costruzioni di mulini, forni, macelli e hostarie sui territori a loro sot-toposti o li comprarono, creando un vero e proprio regime monopolistico. Nel territoriodell’antica Petescia (Turania), ai piedi della montagna, nel luglio del 1413 il conteNicola Mareri acquista la mola detta di Montorio da donna Maria Orsini da Licenza,vedova di Masio Marchisano, per la somma di 600 fiorini d’oro (56): il 10 marzo del1487, il conte Nicola di Marerio juniore, che si trova gravemente infermo a Calvi, nellacasa di Ser Marco Mattei dé Marescotti, fa rogare un testamento con il quale divide lesue sostanze tra i suoi cinque figli maschi: i feudi di Castelvecchio, Vallecupola edAscrea al figlio Francesco, quelli di Corbario e Villa ai figli Giovanni e Filippo, mentrequelli di Castel Colle, Borgo, Casaprota e Rocca Sinibalda a Tommaso ed a Gentile.Tutti assieme sono infine nominati eredi universali della Contea di Mareri e di tutti icastelli del contado equicolano, mentre le due figlie dovranno accontentarsi soltanto diuna dote di cinquanta fiorini d’oro (57). Un altro appezzamento di 20 rubbie (58) di territorio compreso tra il feudo ascreano eCastelvecchio, precisamente quello esistente nell’area del distrutto castello di Vulgarecte (59), lo cede ab infinitum a due lontani parenti, Niccolò Sante e Pietro Saraceno,in comproprietà con tutti i suoi figli ma inibendogli però la suddivisione. Con moltaprobabilità già a quel tempo era in funzione anche la mola ascreana, situata al terminedella stretta gola del Fosso dell’Ovito, sulla riva destra del fiume Turano, che almenodal secolo xII in poi ha rappresentato il confine naturale divisorio tra il territoriodell’Ascrea e quello di Paganico. Quest’ultimo in particolare era attraversato - almenofino alla prima metà del secolo scorso - da diversi corsi d’acqua: la sorgente AcquaCorona che aveva una capacità di duemila litri l’ora, la fonte Estrelleta con capacità dicirca millecinquecento litri l’ora, la Fonte della Signora (60) con una capacità di circamille litri l’ora e l’Ordella con circa 500 litri l’ora (61).

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Le mole baronali di Ascrea, di Paganico, di Marcetelli e Collalto

Ma era soprattutto dal Fosso dell’Ovito, dove scorreva l’antichissimo rivo Paganico,che veniva sfruttata la maggiore quantità di acqua indispensabile per fare funzionareben tre mulini a grano; il più antico a Paganico sembrerebbe essere quello citato in unacarta contabile del 1559 sotto il governatorato di Marinpietro de Stagla (62) mentre l’al-tro venne costruito o ricostruito da Prospero Bonanni nel 1564 durante la signoria deiSoderini e rientrava tra i beni spettanti alla baronia collaltese; entrambi passeranno dimano in mano ai nuovi proprietari della stessa (63). Un terzo mulino, detto la Molanova verrà fatto costruire dai principi Barberini di Palestrina agli inizi del secolo xVIII(64). Quello ascreano invece lo troviamo già documentato agli inizi del ‘600 comeappartenente all’antica e potente famiglia comitale cicolana dei Mareri, signori diAscrea, Bulgaretta, Antuni, Rigatti, Marcetelli ed altri numerosi feudi sia nello StatoPontificio che nel vicino Regno di Napoli (65). I Barberini, veri e propri uccelli da rapina “legalizzata”, proseguendo nell’insano pro-getto avviato da papa Urbano VIII di auto-glorificazione della propria casata (che a direil vero anticamente si chiamava Tafani e proveniva da una benestante famiglia di com-mercianti di stoffe originaria probabilmente di Barberino nella Val d’Elsa la quale avevaraffigurati nella propria arma parlante proprio dei tafani trasformati, grazie all’influen-za della porpora cardinalizia e dei soldi, in nobili e laboriose api), oltre ai ben noti sac-cheggi dei monumenti antichi per le loro costruzioni faraoniche (realizzate soprattuttocon denaro pubblico prelevato arbitrariamente dalle casse dello Stato Pontificio), alledepredazioni ed alle devastazioni del nostro patrimonio archeologico e culturale (che ilmantovano Carlo Castelli, con la sua pungente pasquinata contro Urbano VIII - Quodnon fecerunt Barbari fecerunt Barberini - marchiò d’infamia in saecula saeculorum)non contenti di avere scatenato una terribile guerra con complicazioni internazionali perimpossessarsi manu militari del feudo di Castro, avviarono, immediatamente dopo l’in-tricata e “forzata” elezione al soglio pontificio del loro Maffeo avvenuta nel 1623 edalla successiva elezione di suo fratello Antonio e di suo nipote Francesco a cardinali,una politica espansionistica con l’accaparramento e l’acquisizione di moltissimi feudi icui proprietari, molto spesso o erano invisi alla famiglia o si trovavano in difficoltà eco-nomiche. Con il beneplacito di Urbano VIII, esperto giurista ed abile intrigante, s’im-possessarono pure di alcuni feudi confinanti con il Regno di Napoli appartenuti aiMareri, ai Savelli ed ai Soderini e naturalmente della baronia di Collalto con tutti i suoivassalli, con gran parte del suo patrimonio immobiliare, con tutte le sue terre e le sueacque e naturalmente con tutti i suoi mulini, le valche e le polveriere esistenti aPaganico, Marcetelli, Nespolo, Ricetto (oltre che a Collalto) che fruttavano soddisfacen-ti entrate economiche: quello collaltese in particolare, stando almeno ai documenti dame consultati, potrebbe essere stato uno dei più antichi della baronia ed era appartenutoal Monastero e Chiesa di Santa Lucia delle monache Clarisse, già esistente durante ilpontificato di papa Alessandro IV (66), a cui un altro papa, Nicola IV, per la loro parti-colare devozione nell’agosto del 1289 concesse vari privilegi tra cui l’esenzione delladecima sui molini di loro proprietà (67). Non escluso però che anche i monaci del pic-colo monastero-pieve di Sant’Angelo in Cervia, che erano proprietari di tutto il vastoterritorio circostante il Monte Cervia - compreso il piccolo borgo fortificato di Paganico

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- possedessero anch’essi qualche piccolo mulino per fare fronte alle necessità primariedel monastero, soprattutto in considerazione della sua lontananza dai centri abitati edella difficoltà d’accesso durante la stagione invernale (68). Già durante la signoria deiSoderini, nel giugno del 1559, le entrate derivanti dall’attività delle mole di Paganico eCollalto (Fra le vene) erano significative e ad esse si aggiungevano gli affitti delle cin-que mole baronali riscossi trimestralmente (69).Sul finire del secolo xVIII nella baronia collaltese i Barberini possedevano cinque molea grano, due valchiere ed una polveriera che gli fruttavano annualmente 850 scudi (70):davvero una cifra considerevole se paragonata con il magro bilancio di una piccolacomunità a loro soggetta. La manutenzione continua di queste mole incideva solo inparte sulle stratosferiche sostanze economiche barberiniane; troviamo nel 1668, oltrealle spese occorrenti per la manutenzione della Rocca e del Palazzo baronale diCollalto, quelle relativi ad alcuni lavori di accomodamento delle mole di Paganico e diNespolo; in particolare vengono rimborsati Sicinio Lancia per avere apposto 19 pali eMarco Fratino per «avere rimenato l’acqua» alla mola paganichese. Altri denari verran-no spesi per accomodare il palo ed il ferro per la mola della macina (71). Come giàaccennato, presumibilmente la mola dei Mareri, detta anche della Screja, era già attivaal momento dell’acquisto del feudo ascreano da parte di Cola Mareri intorno al 1430-1433 e se ne servivano anche i vicini paganichesi essendo vassalli nello stesso Contadodè Mareri e Baronia di Coll’Alto. Non senza difficoltà però, se in un documento redattoda monsignor Reggio nel 1708, contenente una trascrizione parziale di quelli che dove-vano essere gli antichi capitoli ascreani stabiliti nel 1618 dal Governatore di Roma -dopo la perfida condanna a morte di Muzio Mareri e la confisca di tutti i suoi feudiavvenuta sotto il pontificato di Paolo V, nel 1615 - si trova confermata la richiesta dellapopolazione locale «Che s’osservi il quinto dé Capitoli stabiliti l’anno 1618 intornoalle staccie ò altro, et il Molinaro dovrà sbrigar subito, quelli, che voranno macinaresenza farli punto aspettare» (72). Tutte e tre le suddette mole si trovavano edificate nella stessa area, la Piana delle mole,distanti uno dall’altro solo poche centinaia di metri (73). Non escluso tuttavia che delledue mole paganichesi, quella che si trovava molto più vicina al fiume Turano potrebbeessere stata edificata per conto dei primi feudatari di Paganico, i Savelli, e ricostruitaforse a seguito di qualche evento naturale dal Bonanni nel 1564, come abbiamo visto,ed in seguito alla vendita della baronia di Collalto entrata a far parte del patrimonio fon-diario dei vari feudatari che vi si sono succeduti (74). La presenza poi nel territorio diVarco di una ristretta zona denominata La cava delle mole mi lascia ipotizzare che,almeno per un certo periodo, le pesanti mole di tutti i molini della baronia collaltesepotrebbero essere state ricavate proprio dalla pietra locale estratta da questa cava esi-stente lungo gli antichi confini tra Varco e Marcetelli, anch’essi territorio dei Mareri esuccessivamente dei Barberini. Fin dall’acquisto della baronia collaltese, quest’ultimi si trovarono però a dover fare iconti con dei vassalli non certo facili da contenere con sporadiche manifestazioni pub-bliche di generosità (qualche baiocco in elemosina) con qualche piccola grazia concessasul diritto di recadenthia o con lo sfoggio in pompa magna di tutti i simboli laico-reli-giosi del potere teocratico. Le controversie, come già abbiamo visto in un nostro prece-

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dente articolo sulla baronia (75), erano di varia natura ma quelle che toccavano le taschedi tanta povera gente erano le più rivoltanti. L’ennesimo contrasto di natura economicatra la Comunità di Paganico e il duca Carlo Maria Barberini di Montelibretti scoppiò nel1783 a causa del mancato pagamento, di quest’ultimo, della sua quota-tassa sui cento-mila scudi imposta dal pontefice Pio VI (76) per sostenere sia le spese del recentenuovo catasto sia quelle per gli aiuti alle comunità colpite dal terribile terremoto diRimini del 1781 (77). Il priore a quel tempo in carica, Ilario Fratini, e l’intero consiglio comunale paganicheseavevano più volte avanzato ricorsi presso la Sacra Congre gazione del Buon Governoper costringere il Barberini a versare la sua quota: quest’ultima disputa, che andavaavanti da tempo, aveva sprofondato il già misero bilancio comunale ad un livello dideficit insostenibile, compromettendo seriamente anche i numerosi creditori in granodel Monte Frumentario locale. Questa grave esposizione finanziaria, che era stata in parte provocata dalle guerre edalle carestie, andò fuori controllo anche per l’insolita gestione “familiare” di alcunipriori di Paganico che governarono questa comunità negli anni 1773-1785 e finì con ildiventare davvero insostenibile quando la Sacra Congregazione del Buon Governodecretò che tutte le comunità soggette avrebbero dovuto farsi carico dell’ennesimosalasso fiscale. Non avendo altra scelta, data anche l’ineluttabilità di tali ordini, si provvide allora conuna ripartizione equa della nuova tassa tra le persone benestanti del paese ed in partico-lare, visti anche i numerosi contrasti giudiziari in corso, si andò a colpire, giustamente,il ricchissimo principe Barberini, mettendogli in conto, oltre alle tasse sulle circa 121rubbia romane di terreni che possedeva nel solo territorio di Paganico (vale a dire circa220 ettari), anche quelle dovute per gli immobili, per l’erbaggio che questa comunitàera obbligata a pagargli annualmente attraverso la Camera Baronale, per il guadagnoannuo delle due mole con annesse valca e polveriera esistenti sullo stesso territorio, esia, (fatto davvero straordinario considerati i tempi) per le cosidette pagarelle, che eranosostanzialmente una specie di pizzo obbligatorio che i Barberini estorcevano a tutte lecomunità della baronia di Collalto, in virtù dei loro ancestrali jus feudalis.Naturalmente quest’ultima “offesa” mandò su tutte le furie Sua Eccellenza Padrone ilquale mise immediatamente in moto tutte le sue potenti aderenze politiche e religioseper colpire duramente la fellonia dei paganichesi. Inviò per prima cosa, attraverso i suoiministri economici, una dura protesta al Delegato apostolico in Rieti, accompagnata dadiversi allegati tra i quali una copia dell’affitto di tutte le sue mole dal 1783 al 1786, perdimostrare che il riparto effettuato dal Consiglio priorale di Paganico era del tutto ille-gittimo e non veritiero (78). Ciò che maggiormente si contestava però era il reddito rife-rito alle sue mole: ordinò quindi al suo Governatore di Collalto di portarsi a Paganicocon due esperti molinari (gli stessi - guarda caso - ai quali in passato aveva affittato tuttele mole baronali) per periziare il valore effettivo di tale rendita. Interessò della questione anche il vice Reggente di Tivoli (79), con l’obiettivo d’intimo-rire in tal modo la comunità ed aggravarla ulteriormente con nuove spese giudiziarie. Laquestione andò avanti per molto tempo e, come era solito fare impunemente, il principeCarlo Maria Barberini duca di Montelibretti non pagò mai tali debiti, neppure quelli

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relativi all’ennesima tassa imposta nel 1793 dall’amministrazione pontificia per il pro-seguimento della via Salaria. Dall’istituzione delle prime forme di giurisprudenza feudale, soprattutto nelle campa-gne, le mole ed i mulini di proprietà signorili erano considerati molini bannali, il chesignificava che i loro possessori, avendo assunto nel tempo le diverse prerogative delpotere regio (la possibilità di emanare leggi, promulgare divieti, gestire il territorio enaturalmente le sue acque) in cambio di una discutibile protezione esigevano gabelle,amministravano la giustizia e costringevano tutti i loro vassalli a macinare solamentenei loro mulini; per chi trasgrediva erano previste pene durissime, non esclusa la totaleconfisca del macinato ed il carcere. Talvolta questa forma di monopolio bannale venivaestesa anche ai forni per il pane e ai frantoi (80). Senza alcun dubbio le enormi speseiniziali sostenute dai proprietari per la loro edificazione e la scarsa manutenzione - chemolto spesso ricadevano sui suoi affittuari - non legittimavano affatto tanta arroganza,perché il diritto di banno costituiva sicuramente uno dei redditi signorili più lucrativi.Da secoli (81).Tra i diversi affittuari che si succedettero nella gestione delle mole baronali troviamo:nel 1658-59 Giuseppe Peruzzi che era anche il falegname “ufficiale” della baronia, nel1661 in quella di Marcetelli Ludovico Floridi e nel 1666 Giovani Croce Coletta (82),per la polveriera di Ricetto troviamo affittuario nel 1706 Giovanni Portij, che era anchefornitore di «polvere di caccia, buona e recipiente» (83). Per ciò che concerne la vec-chia mola di Paganico, che si esercitava «in conto proprio dell’eredità del CardinaleCarlo Barberini, da Domenico Riccioni dell’Ascrea, dal 18 Aprile del 1706 ne fu retrat-to» (84). Sempre nello stesso anno troviamo un Giovan Battista Giulij da Marcetelli,affittuario sia della mola paganichese che di quella collaltese che però in quella stagionenon produsse reddito a causa della mancanza d’acqua, mentre un mercante diMarcetelli, Gaetano Alessi, era affittuario per tre anni (ad iniziare dal 1 marzo 1707) siadella polveriera e sia dell’annesso granaio della mola paganichese che utilizzava comebottega per i suoi commerci (85). Alcuni decenni dopo troviamo Pietro Paolo Petroni che apparteneva ad una consistentefamiglia di piccoli imprenditori di Colle Giove e verso il quale l’amministrazioneBarberini, nel 1764, non esitò a scatenare una guerra giudiziaria per ottenere l’interoaffitto annuale delle cinque mole (si trattava di 850 scudi più le spese legali) nonostanteun alluvione avesse parzialmente distrutto e rese inservibili alcune di esse (86). IlPetroni subirà anche, nell’agosto del 1768, dei danni economici dalla Comunità diRicetto dalla quale era stato a suo tempo incaricato di eseguire dei lavori urgenti allarefota (87) della locale mola rimasta seriamente danneggiata dalle piogge, ma che nonpoté però portare a termine a causa dell’incuria dei priori nel reperimento dei materialioccorrenti (88); a questi si aggiunsero ulteriori danni per l’impossibilità di far lavorarealcuni mulini, in parte inservibili, e per le mancate entrate della molitura. Con l’arrivo delle truppe francesi, alcune cose apparentemente cambiarono: il terroreche tale invasione generò in certa aristocrazia salottiera costrinse non pochi di loro adabbassare temporaneamente le penne. Si allentarono - ma solo in apparenza - le tensionitra le popolazioni dei territori baronali ed i loro possessori. Vennero aboliti alcuni privi-legi e per un certo periodo anche l’odioso dazio sulla macinazione del granoturco, ma

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l’attenzione dei nuovi amministratori interra Sabina era rivolta soprattutto allaricerca di approvvigionamenti alimentariper le proprie truppe che guerreggiavanoin mezza Europa: era a tutti noto delresto che in queste terre, oltre ad uneccellente olio, si producevano ottimigrani. Vennero inviati ispettori nellevarie comunità con lo scopo di censiretutti i mulini, i loro guadagni, l’interaproduzione di cereali. Nell’agosto del1809 il Sottoprefetto del Circondario diRieti, in esecuzione di un decreto dellaConsulta straordinaria, trasmise una relazione economico-statistica al barone Janet,direttore delle finanze e membro della Consulta straordinaria per gli Stati Romani (89),contenente l’elenco di tutti i mulini della Sabina e delle rendite relative al diritto dimolitura. Questo documento è molto interessante perché ci fornisce un quadro sufficientementeesaustivo dello stato dei mulini a grano in tutto il Dipartimento del Tevere, con l’indica-zione numerica di quelli attivi, il quantitativo dei grani che macinavano ed il guadagnoche se ne ricavava. Vi è allegata inoltre una tabella molto significativa su quanto perce-pivano le varie comunità del dipartimento con i pagamenti della molitura, ovvero, con ildazio del macinato ad esclusione però di quello del granturco che era stato già abolito(90). Del Comune di Paganico e delle sue frazioni abbiamo invece la seguente tabellariassuntiva preparata dal maire Giuseppe Mattei nel febbraio del 1813, sulla quantità deiterreni seminati a grano e granaglie dalla quale possiamo ragionevolmente supporre ilquantitativo di grano che si produceva ed anche l’enorme lavoro dei molinari:

Stato del terreno seminato a grano e granaglie nella Comune di Paganico - 1813

(91)Nome delle Frazioni Seminativo: grano granaglie granaglie e legumi

PAGANICO Rubbie 20 Rubbie 8 Rub. 1, 6 c.COLLE GIOVE Rubbie 15 Rubbie 10 Rub. 6MARCETELLI Rubbie 16 Rubbie 8 Rub. 3ASCREA Rubbie 20 Rubbie 7 Rub. 3Totale Rubbie 71 Rubbie 33 Rub. 13,6 c.

Per sottrarsi alle numerose requisizioni francesi molti benestanti si liberarono in fretta dialcune loro proprietà; in questo modo anche diversi mulini passarono in mano al nuovoceto borghese che andava affermandosi nei nostri territori. Per una casta di titolatisquattrinati e decadenti quale si era ridotta certa nobiltà romana, mantenere un mulinocostava troppo a quei tempi ed era ovviamente più conveniente e redditizio darlo inaffitto: persino il trasporto dei grani costava molto anche per i potenti Barberini che ne

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Mulini ad acqua di Jan Van Der Straat

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inviavano grandi quantitativi alle varie mole disseminate nei feudi che ancora possede-vano. Un viaggio dalla Dominante (così veniva chiamata la capitale allora) sopra uncarro trainato da buoi o cavalli era senza dubbio estremamente lungo e faticoso - oltreche pericoloso - e poteva talvolta costare la vita ai suoi carrettieri, particolarmentedurante le torride giornate estive (92). Senza contare poi i continui danni, spesso irreparabili, che si subivano durante le eson-dazioni dei fossi o a causa delle violenti piogge. Come avvenne, per fare solo un esem-pio, nel 1813 quando il torrente dell’Ovito, straripando, provocò dei gravissimi dannialle mole di Paganico (mentre a quella di Collalto, meglio conosciuta come mola Fra leVene, ci pensarono le abbondanti piogge): «La porta di questa mola prima, è stata sga-vezzata dall’urto della corrente. Il locale ove è la macina, è ripieno di lezzo, e breccia,e così pure il carceraio. La forma che da questa mola porta l’acqua a quella di mezzo ètutta ripiena di breccia, è lezzo, mancante di un’ala di muro della lunghezza di palmi 21che per ricostruirla importa la spesa di 8:40 (scudi). Alla mola di mezzo è stato portatovia dalla corrente il forno, ed il gallinaio, e una parte di muro maestro occorre di risar-cirlo in canna una, e mezza di muro, ed importa la spesa di scudi tre e baj trenta. Illocale ove esiste la macina ed il carcerario non che il fosso di scarico al carcerariomedesimo sono ripieni di breccia, e lezzo. Dal sig. Nicola Imperi affittuario si era prin-cipiato lo spurgo ove impiegò opere 36; ma un secondo alluvione li ha nuovamenteinterrati (93).Agli inizi del secolo xVIII erano emigrati in queste terre sabine gli Orsini (da nonconfondere con la storica casata), una famiglia che proveniva dal Regno di Napoli, pro-babilmente a seguito di un altro Orsini al quale era stato concesso il governatorato col-laltese per un semestre (94). Costoro in breve tempo presero in mano tutta l’attività dimolitura della baronia, reinvestendo gran parte dei considerevoli guadagni in acquisti diterreni ed immobili principalmente a Paganico (95). Tra questi in particolare viene ricordato, nella documentazione amministrativa, soprat-tutto Francesco Orsini che per le continue irregolarità commesse nei mulini di cui eraaffittuario si era reso molto inviso alle popolazioni locali: venne denunziato più voltealle autorità di Polizia ed al Governatore di Canemorto (Orvinio) che solo nell’aprile del1835 ordinò che si ponesse rimedio ai suoi continui illeciti (96). Ma l’Orsini, incurantedelle querele ed affamato di potere oltre che di ricchezza, essendo il rappresentante piùin vista di una famiglia di possidenti benestanti si diede alla politica arrivando a farsieleggere nel consiglio comunale di Paganico fino ad assumerne la carica di priore. Tra ivari lavoranti alle sue dipendenze troviamo alcuni componenti della famiglia Recchia -proveniente da Casalivieri in provincia di Sora - che divennero anch’essi degli ottimimolinari per diverse generazioni (97). Intanto la Chiesa, per rimpinguare le finanze pontificie dopo la forzosa cura dimagranteimpostale con le armi da Napoleone, aveva reintrodotta l’odiata tassa sul macinato nel1822, estendendola a qualunque tipo di grano che si macinava per il pane o per la pasta,ad esclusione solo dell’orzo, dell’orzola, del granturco e della segale: nessuno potevaperò macinare cereali in proprio, neppure le numerose corporazioni religiose se non arischio di pesanti ammende (50 scudi) ed il sequestro sia degli attrezzi usati per la maci-nazione che dell’intero prodotto macinato. Incluse anche le piccole “macinelle” dome-

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stiche che erano presenti pressoché in tutte le case e che venivano usate soprattutto perla macinazione del farro da minestra (98). L’estrema durezza dei provvedimenti fiscalicontenuti nel decreto scatenò non pochi disordini negli Stati pontifici, in gran parte adiscapito dei mugnai. I quali frequentemente però si lasciavano tentare dall’insana abi-tudine di “alleggerire” i sacchi della farina o di far pagare per la molitura un prezzo deltutto arbitrario, che naturalmente destava rabbia ed insofferenza nelle popolazioni rura-li: non poche erano infatti le denunce inviate alla Sacra Congregazione del BuonGoverno o alla polizia contro questi abusi e queste frodi. Nel 1837 fece clamore, per fare un esempio, il processo contro i molinari DomenicoMacchia e Filippo Benedetti, mugnai della mola Fra le Vene e di quella di Ricetto per icontinui furti nel diritto di molitura che avveniva pesando il grano «a discrezione senzabilancia e senza sacco in terra, come prevedono le leggi, non sulla tramoggia comeinvece praticano» che vennero però prosciolti e continuarono indisturbati i loro comodi(99). Era chiaro che prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato a questo stato di cose. Nel 1848, l’eco di quanto stava accadendo nei diversi statarelli italiani era giunto anchetra queste contrade dove di certo abbondavano le ragioni di una forte opposizione algoverno ecclesiastico: vi furono dei violenti disordini contro il dazio sul macinato quasiin tutta la Sabina ed in particolare a Paganico, dove il 27 giugno un ascreano fece aprirecon la forza una delle mole paganichesi gestite da un tale Luigi Lucchetti (100) emacinò senza pagarne l’odiosa gabella. A quell’episodio, che sembrò inizialmente assaimarginale e poco rilevante, nei primi giorni di agosto si aggiunsero dei gravi disordiniguidati da un gruppo molto determinato di abitanti dell’Ascrea - tra i quali alcune donnearmate di bastoni ed asce – che, esaurita ogni comprensibile pazienza, assaltò le duemole paganichesi costringendo i mugnai a macinare senza il preventivo pagamento deldazio (101). Altri gravi disordini seguirono ma stavolta organizzati da un gruppo dipaganichesi con la complicità, probabilmente, sia dei Ministri Bollettari, che dei moli-nari e forse anche delle stesse autorità comunali. Sempre nel mese di agosto s’erano verificati altri disordini durante un ballo paesanonella piccola frazione di San Lorenzo di Collalto, subito sedati dalla Guardia Civicacomandata dal coraggioso collaltese Bartolomeo Latini (102). Nel mese di settembre erastato anche aggredito e duramente malmenato il nipote di Antonio Mattei, priore diPaganico, mentre abbeverava i suoi buoi ad una fonte. In quel clima generale d’ incer-tezza politica e di paura, di fronte ad un’impennata dei generi di consumo ed ad unaumento considerevole della pressione fiscale a discapito - come sempre - delle fascepiù deboli - c’era un solo modo per garantire a tanta povera gente il panem quotidianume sottrarla finalmente agli incessanti taccheggi di taluni molinari: riuscire a costruire unmulino di proprietà comunale.

Il mulino Obito I

Proprio in prossimità dell’attuale area della ex-mola comunale, poche centinaia di metridi distanza dalla zona denominata Piano delle mole, la Congregazione della SS.Annunziata di Paganico possedeva un ottimo appezzamento di terra - le Pertechecchia -confinante con una sorgente d’acqua che sarebbe stata idonea per la costruzione di unnuovo, indispensabile mulino con annessa valchiera (103). Perché, soprattutto durante i

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mesi estivi, l’afflusso dei carri che portavano il grano da macinare (provenienti anchedalle varie comuni limitrofe e dal vicino Regno di Napoli) era tale che spesso si rendevanecessario uno stazionamento prolungato con incredibili disagi soprattutto per i pagani-chesi. E non erano infrequenti i disordini e le risse tra i vari contadini ed i mugnai cheovviamente approfittavano della situazione per esigere prezzi ancora più esosi.Nonostante la solerte vigilanza del Magistrato ai Molini al quale spettava sia il controllodel regolare svolgimento delle operazioni e sia anche quello dell’emissione delle bolledi pagamento della tassa sul macinato che il Governo pontificio percepiva da secoli. Per tali ragioni, nel 1835, il priore della Comune di Paganico Pietro Ortenzi - uno tra ipiù competenti che il paese abbia mai avuto - pervenne ad un accordo con la suddettaConfraternita: l’amministrazione comunale avrebbe sostenuto le spese per la costruzio-ne di un nuovo mulino sopra il terreno di proprietà della chiesa ed in cambio, con unaparte dei futuri guadagni, si sarebbe provveduto al mantenimento sia di un cappellano esia di un maestro di scuola ecclesiastico. Avanzò quindi all’Apostolica Delegazione diRieti un’istanza a nome della magistratura paganichese e della Confraternita diretta adottenere i permessi necessari per la costruzione di questo nuovo opificio che avrebbeportato, secondo le sue ottimistiche previsioni, benessere ed utili non solo a Paganicoma all’intera collettività circonvicina. Per farsi un’idea di quanto fosse rigidamente antiquato e incartapecorito l’apparatoamministrativo della Chiesa mi basterà sottolineare che l’iter burocratico di questavicenda si protrasse per oltre 40 anni: c’era, da parte di quegli amministratori ecclesia-stici, il malcelato timore che permettendo la costruzione del mulino si andassero adintaccare i privilegi delle potenti casate dei Barberini e dei Vincenti Mareri che, ricor-diamo, non solo erano proprietari rispettivamente delle due mole già esistenti aPaganico e di quella dell’Ascrea ma ne detenevano anche i diritti esclusivi d’utilizzodelle acque. Cominciò così una penosa ed estenuante corrispondenza durata circa un quarantenniotra i rappresentanti della suddetta comunità ed i vari uffici delle autorità ecclesiastiche:l’Ortenzi però, senza lasciarsi affatto intimorire dai continui dinieghi, coinvolse tutti ipriori delle comunità della baronia di Collalto assieme ai rispettivi parroci e li convinsea sottoscrivere un documento che trovo davvero moderno nella sua condivisione inquanto, almeno per quella volta, una richiesta così esplicita alla Sacra Congregazionedel Buon Governo non veniva più da un solo paese ma dall’intera baronia ed avevanaturalmente un peso politico ben diverso. Si dovette comunque attendere la breve fase rivoluzionaria della Repubblica Romanaper iniziarne la costruzione, poco dopo interrotta dalle note vicende storiche. Il 13 lugliodel 1850 (104) la Commissione municipale di Paganico deliberò di proseguire comun-que i lavori già iniziati nel ‘48 e per accelerarne l’iter si impegnò a versare 18 scudiannui all’Erario, ma il monsignore Delegato, con evidentissimo senso di rivalsa verso«quei comunisti» rispedì nuovamente il tutto al mittente invitandolo a rivolgersi alMinistro delle Finanze. Questo ennesimo rifiuto, dal sapore di una vendetta politica piùche di una seria e motivata ragione tecnica, contro una amministrazione che si era pron-tamente schierata a fianco dei “rivoluzionari”, allungò per altri lunghi anni la sua realiz-zazione. Sembra incredibile ma bisognò attendere la cacciata del papa da Roma ad

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opera degli indimenticabili bersa-glieri che praticarono la breccia aPorta Pia mettendo così fine alregime dispotico della Chiesa. Completati finalmente i lavori, nelgiugno del 1866 venne richiestaalla Regia prefettura dell’Umbrial’autorizzazione per deviare ilcorso dell’acqua del fossodell’Ovito necessaria al nuovomulino (105): si ottenne così unaconcessione trentennale con Regiodecreto 17 ottobre 1867 per uncanone annuo di 20 lire: non mi èstato possibile reperire atti storicisulla sua inaugurazione pressol’Archivio storico comunale diPaganico in quanto tutto il mate-riale preunitario venne criminosa-mente mandato al macero dalpodestà nel 1936 (106) ed un altroconsistente nucleo dello stessoArchivio, lasciato per anni a mar-cire in un locale di proprietà priva-ta, venne accatastato in un campetto limitrofo alla Vigna del Prete e bruciato per giorniinteri in quanto gli amministratori di allora avevano l’urgenza di restituire i locali inaffitto che lo custodivano: gran parte dei registri antichi della chiesa di San Nicola diBari (nascite, matrimoni e morti) anch’essi custoditi dal Comune vennero usati comecombustibile da un impiegato comunale particolarmente freddoloso (107). Le scarseinformazioni che sono sopravvissute a tale barbarie le possiamo dunque desumere sola-mente da alcuni registri di delibere comunali a partire dal 1899. Nel mese di maggio di quell’anno erano stati eseguiti dei lavori urgenti alla canalizza-zione della nuova mola per i quali occorsero ben 179 lire (108): mentre nel mese di ago-sto il molino comunale Obito I viene affittato per quattro anni a Vincenzo Recchia figliodi Pietro di Paganico, alle stesse condizioni del precedente affittuario per 1.030 lireannue più un 10 % per il calo della macina (109). Nel mese di dicembre del 1899 ilcomune era intanto stato nuovamente commissariato a seguito di diverse irregolarità edabusi d’ufficio: alcuni consiglieri si erano appropriati di terreni di proprietà comunalementre altri erano stati accusati di avere sottratto del materiale edile acquistato per ripa-rare la nuova mola, tra questi l’ex-molinaro Giuseppe Orsini (110). Verso la fine di agosto del 1900 vi furono molti reclami contro il Recchia che risultapercepisse una tariffa troppo alta per la macinazione; intervenne allora la giunta comu-nale con una delibera che l’obbligava a percepire non più di una libra e mezza a coppa,pari a litri 24: il prezzo alto della molitura potrebbe essere stato giustificato dallo stato

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non certo eccellente delle due coppie di macine che lavoravano ormai ininterrottamenteda oltre trent’anni e dai continui guasti che costringevano l’affittuario a tenere fermo ilmulino subendo dei seri contraccolpi economici. Con un capitolato d’appalto si com-missionarono una coppia di nuove macine ad una ditta di Brescia, la Ferrata-Vitali, chevennero però messe in esercizio soltanto il 17 giugno del 1903, lasciando per oltre duemesi il mulino comunale fermo ed il Recchia senza lavoro (111). Dopo vari tentativi digiungere ad un accordo con l’amministrazione comunale il molinaro aprì una lunga eburrascosa vertenza al termine della quale il Comune si limitò a scontargli dall’affittosoltanto due mensilità. Nel 1916 uno dei mulini paganichesi era stato affittato da Ersilio Battisti per 500 lireannue (112); ma sia il dramma della guerra iniziata nel 1915 sia anche le emigrazioniche avevano svuotato il piccolo paese, avevano già, in qualche maniera, segnato la pro-gressiva fine del vecchio sistema molitorio paganichese: l’utilizzo di turbine elettricheapplicate alle macine si andava diffondendo anche in queste parti della Sabina e natural-mente occorreva maggiore disponibilità di corrente elettrica. Così nel 1922, il sindaco Giuseppe Orsini inoltrò al Ministero dei Lavori Pubblici unarichiesta, in accordo con i comuni di Marcetelli, Collegiove, Nespolo e Varco, per l’au-torizzazione a deviare l’acqua del torrente Obito necessaria per un impianto idroelettri-co, che venne poi costruito al posto del vecchio mulino Barberini. Nell’aprile del 1929,il commissario prefettizio Pietro Spaziani, provvide nuovamente ad affittare per unquinquennio il mulino comunale Obito I aumentando però la rata annuale a 3.700 lire(era stata sbassata a 2.467 lire nel luglio del 1927) e ricorrendo non più ad una pubblicaasta ma a licitazione privata, come già avvenuto nel 1914, e variando le norme contrat-tuali che prevedevano le spese di riparazione e manutenzione a carico dell’amministra-zione. Nel novembre del 1930 si aggiudica l’affitto Antonio Recchia fino al 1935: qualcheanno prima erano stati eseguiti degli importanti lavori nel letto naturale del torrenteObito, con la costruzione di una piccola diga di sbarramento necessaria per incanalarel’acqua occorrente alla produzione di energia elettrica, ma la ditta esecutrice, la FratelliAngeli di Carsoli, realizzò abusivamente una sopraelevazione di circa 60 cm che dan-neggiava le camere delle turbine del mulino comunale Obito II (o ex molino Battisti).Ne nacque una vertenza giudiziaria con sequestro cautelativo dell’intero immobile e conil pericolo, minacciato da un decreto del Pretore di Orvinio, di vendita all’asta dellostesso. Un segnale preciso dell’inevitabile declino dell’attività molitoria paganichese - duratasecoli - ce lo fornisce il freddo linguaggio burocratico nazional-popolare di un telegram-ma urgente spedito il 4 agosto del 1942 dall’allora podestà di Paganico alla Sezione pro-vinciale Alimentazione di Rieti: «Il mulino di questo Comune a causa della mancanzad’acqua non è in grado di rispondere alle richieste di macinazione della popolazione.Pregasi pertanto con ogni urgenza autorizzare questa Amministrazione a rilasciare ilpermesso di molitura presso il vicino molino di Pedescia» (113).Continuarono a macinare, seppure in forma ridotta, le vicine mole di Collato Sabino,Marcetelli, Ricetto, Montorio, Vivaro (114) e Carsoli, alcune delle quali sino alla finedegli anni ’60 e mentre ormai la civiltà contadina veniva soppiantata dall’era consumi-

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stica si andavano spegnendo anche quelle stridule ed assordanti voci delle ultime maci-ne sabine che per secoli avevano reso possibile la sopravvivenza nelle nostre contrade.�

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1- Il fiume Turano, che anticamente veniva chiamato Tolenus o Telonius, nasce nel territorio del Comune diCarsoli, è lungo circa 70 km ed attraversa una zona della provincia di Rieti ai confini tra Abruzzo e Lazio. Èl’affluente di sinistra del fiume Velino (Ri). Per qualche secolo, un’errata interpretazione degli storici e deigeografi lo identificò con il fiume Liri; reso celebre per la sconfitta del console Publius Rutilius Lupus che viperse la vita assieme ad ottomila soldati romani nel giugno dell’anno 90 (663 dalla fondazione di Roma)durante la guerra sociale e ricordato nei canti di Ovidio (Fasti, Lib. VI): «Hanc tibi, Quo prosperas, memorantdixissem Rutili? Luce mea Marso Consul abe hoste cades. Exitus accessit verbis: flumenque Telonum pur-pureo mistis sanguine fluxit aquis».2- Soprattutto il paese di Paganico Sabino dove erano attivi numerosi allevatori di bestiame e pastori e nellesue contrade si svolgeva l’importante fiera annuale di San Giovanni; vi era anche una presenza notevole difabbri, calzolai, tessitrici e sarti, mentre a Marcetelli vi erano soprattutto abili bottari e mercanti di vino.3- Piccola frazione del Comune di Ascrea (Rieti) fondata molto probabilmente nel xII secolo dall’antica fami-glia sabina dei De Romania, divenne feudo dei signori di Collalto e in seguito dei conti Mareri. Quindi passòai Cesarini e da essi agli Sforza Cesarini per concludere la sua dipendenza feudale con la famiglia Borgheseverso il 1816.4- L’Ovito (Ovitus, Obitus, Obito) è l’antica denominazione di una stretta gola che si snoda ai piedi dellaRiserva naturale dei monti Navegna e Cervia, tra i paesi di Ascrea e Paganico (Ri): la sua incerta etimologiasembrerebbe derivare dal latino tardo medievale Obitum (morte) dando adito alla supposta strage di saraceniche in realtà non è suffragata da alcun documento storico, ma non escluso che, trattandosi di un antichissimopercorso di animali ovini e caprini diretti per la transumanza sulle pianure dell’agro romano e, spesso, fin giùal Tavoliere delle Puglie, potrebbe essere derivata da una alterazione dialettale del termine latino Oves (peco-ra).5- Per il sito neolitico di Tell Abu Hureyra, cfr. A. MOORE, The excavation of Tell Abu Hureyra in Syria: aPreliminary Report. London 1975, n. 41, pp. 50-77; H. ELLIS DAVIDSON, Roles of the Northern goddess. NewYork 2001, p. 52.6- AA.VV., La Storia, nella collana “La Biblioteca di Repubblica”, Roma 2004, vol. I, p. 133.7- I risultati della scoperta italiana, fatta dalle ricercatrici Biancamaria Aranguren, della Soprintendenza aiBeni archeologici per la Toscana, e Anna Revedin, dell’istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, sono statipubblicati sulla prestigiosa rivista dell’Accademia delle Scienza americana (PNA), vol. 107, n. 44, pp. 18815-18819, “Thirty thousand-year-old Evidence of plant food processing”: si vedano anche l’articolo di A. VIGNA,Corriere della Sera, 13 dicembre 2011, le recensioni sulla rivista Darwin, n. 41, gennaio-febbraio 2011 eArcheo, gennaio 2007. Per un approfondimento cfr. A. REVEDIN- B. ARANGUREN, Un accampamento di30mila anni fa a Bilancino, Origenes, Firenze 2008.8- Secondo il Tanakh, il libro che raccoglie i testi sacri dell’ebraismo - comunemente conosciuto come laBibbia ebraica - la Eretz Yisrael (Terra d’Israele) era quella regione promessa da Yahweh (Dio) ai discendentidi Abramo attraverso suo figlio Isacco ed agli israeliti che discendevano da Giacobbe nipote di Abramo.9- P. PIETRO VANETTI, Libro dei Giudici, capitoli 13-16, in ” La Sacra Bibbia ”, Milano, 2000.10- Carl Heinrich Bloch era nato a Copenhagen (DK) il 23 marzo del 1834 dal mercante Joergen Peter Bloche da Ida Emilie Ulrikke Henriette Weitzmann. Compiuti gli studi artistici alla Royal Danish Academy of Art,dal 1859 intraprese diversi viaggi in Olanda, Belgio, Francia e Italia per arricchire le sue conoscenze culturalied artistiche. Soprattutto la sua permanenza dal ’63 al ’69 tra Roma, Sorrento, Napoli e Palestrina, lo mise acontatto con quella elite artistica dell’epoca e gli fece maturare il proprio stile personale, prevalentemente ispi-rato a soggetti di natura religiosa e folkloristica. Molte delle sue opere, purtroppo, sono oggi diventate veicolopropagandistico della Chiesa americana dei Mormoni.11- Sono molti gli autori antichi e moderni che accennano agli schiavi relegati in questi luoghi sotterranei mal-sani anche nella legislatura romana, si vedano in particolare la citazione di Plinio riportata in: A. ADAM,Antichità romane ovvero quadro dè costumi, usi ed istituzioni dè Romani, Napoli 1821, t1, p. 72: «vincti

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pedes, damnatae manus, inscriptique vultus, arva exercent»; R. D’AZEGLIO, Studi storici e archeologici sullearti del disegno, Firenze 1861, t1, p. 245.12- Già lo stesso codice Teodosiano ( Ix, 40, 3 ) metteva sullo stesso piano lo schiavo condannato all’ergasto-lo con quello condannato al mulino: «ergastulis vel pistrinis esse dedendos adque ad urbem Romam, id est adpraefectum annonae, sub idonea prosecutione, mittendos». Anche nella Satira VIII di Giovenale, si percepiscetutta la crudeltà del lavoro alla mola «condannati a tirar carrette colme, di gravi pesi, e a volger stanchi,elassi, co’ logorati colli a tardi passi, di Nipote la mola a suon di fruste» in: C.SILVESTRI, Raccolta di tutti gliantichi poeti latini, Milano 1739, vol. 8, p. 265. Che il lavoro della macina fosse destinato come punizione celo conferma anche Terenzio nella commedia Il punitore di sé stesso, atto III, scena II, quando Creme minac-cia un suo vicino, il padre di Clinia, di mandarlo alla mola. Sull’argomento si veda anche l’interessante artico-lo di R. ETIENNE, Recherches sur l’ergastule, in AA.VV., Actes du colloque 1972 sur l’esclavage, Besançon1972, pp. 249 e segg. Uno scrittore seicentesco, Tomaso Garzoni da Bagnocavallo, ci descrive in modo quasirivoltante il duro lavoro degli addetti ai mulini: «Un altro diffetto ancora provano i miseri molinari, che perlo strepito, e rumore, che tutta la notte e il giorno fanno i molini, divengono sordi e balordi come Asini, e sem-pre hàno un certo tintinnamento nell’orecchie, che da per tutto, dove vanno, portano l’impressione dè loromolini di dentro, e nel più bello del dormire vengono col boccone in bocca destati da quel suono importuno, efastidioso, che gli priva d’ogni quiete, e riposo d’animo, e di corpo. Godono ancora per l’acque vicine e moltevolte infette, mille humidità di testa, mille doglie di capo, e muoiono qualche volta il primo anno, che comin-ciano a lavorare né molini, per la corrutione, che seco porta il luogo infelice, e doloroso. Oltra che cosi d’e-state, come d’inverno passano cò piedi molli per lo fango brutto, e per lo piscio d’asino, e di mulo, e odono ilcanto vicino delle rane pantanose, che gli assorda l’orecchie, con mille altre miserie, che gli fanno compa-gnia da tutte l’hore. L’havere i molinari il fiato marcio, i piedi pieni di sudori, l’ascelle che putiscono, comela carne di becco, ò come l’harrenghe, e le botarghe, il volto carico di sudiciume, il naso, che cola giù daogni parte, il vestito imbrattato di polvere e farina, la ciera di Hebreo levantino, e quasi loro proprio in cotalmodo che per nessun patto ardisce di separarsi da quegli», in : La Piazza universale di tutte le professioni delmondo, Venezia 1665, pp. 408-410.13- Per il testo latino dell’Esodo, Biblia Sacra vulgatæ editionis Sixti V Pont. Maximi, Lugduni 1830, p. 50,cap. xI, r.5 ; «E morranno tutti i primogeniti nella terra d’Egitto, dal primogenito del Faraone, che siede sultrono di lui, fino al primogenito della schiava la quale sta alla macina, ed anche tutti i primogeniti dé giumen-ti» nella traduzione italiana di A. MARTINI, Vecchio e nuovo testamento secondo la vulgata, Prato 1826, t2, p.79. Un interessante, anche se datato, saggio sulla schiavitù nell’Egitto ellenistico, scritto dallo storico orienta-lista russo Iosif Davidovich Amusin (1910-1984) nel 1952 è stato riproposto da I. BIEZUNSKA MALOWIST,Schiavitù e produzione nella Roma repubblicana, Roma 1986, pp. 107-145.14- Libro del Profeta Isaia, xLVII, v. 1 e2 in: La Sacra Bibbia (testo CEI ), 2008.15- Cfr. Il Pentateuco o sia i cinque libri di Mosé secondo la volgata, Catania 1781, vol. 3, p. 345, cap.xxIV.16- Nel palazzo di Alcinoo vi erano cinquanta ancelle tra le quali alcune che si occupavano della molitura delgrano: lo stesso Ulisse ne aveva 12 nel suo palazzo ad Itaca, cfr. OMERO, Odissea, versione di Rosa CalzecchiOnesti, x° ediz., Einaudi, Torino 1984, p.183. Per una visione d’insieme della condizione femminile nelmondo ellenistico-romano, rimane tutt’ora interessante il lavoro di S. B. POMEROY, Donne in Atene e Roma,Einaudi 1978. 17- La citazione antipatrea è riportata in A. MILLàN GASCA, Fabbriche, sistemi, organizzazioni; storia dell’in-gegneria industriale, Milano 2006, pp. 19-20; una diversa traduzione la fornisce E. ROMAGNOLI, I poeti dellaAntologia Palatina, Bologna 1962, p. 313 (Ix, 418): «Macinatrici, accordate riposo alle mani: dormite, dor-mite, anche se l’alba di già cantano i galli. Cerere impose alle ninfe dell’acque il lavoro: d’un balzo si lancia-no esse al sommo vertice d’una rota e fan che l’asse gir: comunica questa il suo moto ai raggi ed alle cavemàcine dei Nisèi. Siamo all’età dell’oro tornati di nuovo, se i doni di Demetra possiamo gustar senza fatica».18- Il dio Eunosto o Nosto era in origine una divinità molto venerata dagli abitanti dell’antica città di Tanagra,nella Beozia (Grecia centrale) che vedevano in lui un giovane eroe ucciso a tradimento dai fratelli di Ocna,una delle figlie di Colono che costui rifiutò d’amare, (cfr: Opuscoli di Plutarco volgarizzati da MarcelloAdriani, Milano 1826, t2, p. 359), mentre dalla mitologia romana venne trasformato in protettore dei macinan-ti; una sua statuetta veniva infatti posta dentro i mulini, accanto alle macine, perché si credeva che vigilassesulla giusta misurazione della farina, impedendo frodi nella molitura. Il fortunato ritrovamento di un diaspro di

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colore rosso intenso incastonato in un anello romano sulla quale era raffigurato Eunostos ha permesso agliarcheologi, nel 1752, di vedere per la prima volta la sua raffigurazione simbolica: un giovinetto in piedi, semi-nudo, coronato con un diadema simbolo di deità, che stringe sulla mano destra delle spighe di grano mentresulla sinistra ha un piccolo mulinello a mano (molae manualis e trusatilis); sull’argomento si legga la relazio-ne di A. F. GORI, Dissertazione VI. Sopra il dio dè mulini, in “Memorie di varia erudizione della SocietàColombaria fiorentina”, 1752, vol.2, pp. 205 e segg. Naturalmente la chiesa sovrappose a questa ritualitàpagana il Sacramento del molinaro, praticato almeno sino alla fine dell’Ottocento in molte chiese, cfr. M.FANTUCCI, Monumenti ravennati dè secoli di mezzo, Venezia 1802, t4, pp.111-115.19- Talete di Mileto (640 a. C. - 624 a. C.) era un filosofo greco antico considerato il più importante tra icosiddetti Sette Sapienti che Platone inserì nel suo dialogo Protagora: è considerato come il primo filosofodella storia occidentale. Sulla citazione plutarchesca, cfr. M. ADRIANI, Opuscoli di Plutarco volgarizzati,Milano 1825, t. 1, p. 446 e C. BONUCCI, Pompei descritta, Napoli 1826, voll.1-2, p. 101. L’epimilio, o cantodella mola, era la cantilena di coloro i quali si affaticavano alle macine dei mulini; il filosofo greco Pittaco,anch’egli considerato uno dei Sette Sapienti, secondo il suo biografo Diogene Laerzio ne compose uno - anda-to perduto - che si intitolava Asma Epimilio, cfr. F. S. QUADRIO, Della storia e della ragione d’ogni poesia.Milano 1741, vol. 2, p.1, p. 21 e F. PATRICIUS, La Deca istoriale, nella quale, con dilettevole antica novità ,Ferrara 1586, p. 234.20- Senofonte, Anabasi, traduzione di Manuela Mari, Roma 1997, lib.1,5., p. 251. Lo stesso Virgilio, nelleGeorgiche, ci racconta, come i contadini che andavano in città a vendere i prodotti della loro terra, spessoriportavano indietro le mole che erano state ribattute nuovamente con il martelletto per farle lavorare meglio,cfr: F. DELLA CORTE, Le Georgiche di Virgilio, Genova 1986, p. 275.21- L’origine dell’attribuzione a Milete di tale invenzione risale a Pausania, in Descriptione Atticae, lib. III,cap. xx, 3; per la presunta località d’origine dell’invenzione si consulti il volume del geografo bizantino vis-suto nel VI secolo, S. BYZANTINUS, De Urbibus, 1694, pp. 570-571, alla voce Mylantia; per l’edizione italianacfr. A. NIBBY, Descrizione della Grecia di Pausania, 1817, vol. 1, lib. III, cap. xx, 3. p. 476; C. CANTù,Storia universale, 1848, vol. 1, p. 500: «Mile, re di Sparta, che significa mola di mulino o mugnaio; giacché latradizione greca diceva che questo re avesse inventato l’arte di macinar il grano in Arcadia».22- Molti antichi autori concordano sul fatto che gli Etruschi non conoscessero la mola e forse per questo, sup-pongo, venne creato il mito di Pilumnum poi assorbito nella mitologia romana arcaica; lo troviamo infatti redei Retuli e fondatore di Ardea. Assieme alla dea Deverra ed a Intercidona, Pilunno veniva venerato comeprotettore delle donne partorienti contro il temibile dio Silvano che tentava d’insinuarsi nelle loro camere perimpedirne il parto di nuovi esseri umani che avrebbero sicuramente distrutto altre foreste. Contro tale sventuraveniva allora compiuto un rito protettivo notturno davanti la casa della puerpera: tre giovani uomini, assumen-do i simboli e gli attributi propri di tali divinità (una scure per Intercidona, un pestello per Pilunno ed unascopa per Deverra), giravano attorno all’uscio della casa e lo percuotevano prima con la scure, poi con ilpestello ed infine pulivano lo stesso uscio di casa con una scopa. Terminato il rituale si poteva essere sicuriche Silvano non si sarebbe avvicinato più a quella casa. Per tali attribuzione Pilunno veniva anche consideratoprotettore dei bambini. Si vedano in particolare: PUBLIO VIRGILIO MARONE, Opere, Venezia 1839, vol. 4, p.1342(12), S. AGOSTINO, De civitate Dei, lib. 6, cap. 11, GERARDI IOANNIS VOSII, De theologia gentili, et phisio-logia cristiana, 1668, p. 142, GIROLAMO MARCIANO DA LIVERANO, Descrizione, origine, successi della provin-cia d’Otranto, Napoli 1855, pp. 70-7, G. LEOPARDI, Sopra gli errori popolari degli antichi, Firenze 1851, pp.110-111, G. GHERARDINI, Supplimento à vocabolarj italiani, Milano 1857, vol. 6 (T-Z) p. 416 alla voce DeaDeverra. 23- Cfr. AULI GELLII, Noctium Atticarum libri XIX, Basilea 1519, l.III, .3,14, pp. 18 -19.24- Su tali notizie poco attendibili storicamente, ma che, nonostante siano passati due millenni, sono difficilida sfatare, si vedano alcuni tra i numerosissimi autori che le riportano: SCIPIONE AMMIRATO, Gli opuscoli diScipione Ammirato, Fiorenza 1583, p. 65; GABRIEL THURENSON OxENSTIERN, Pensieri, riflessioni e massimemorali del Conte Oxenstir, Basilea 1747, t1, p. 235; C. GOLDONI, Commedie scelte, Milano 1825, p. 261;CHARLES ROLLIN, Storia antica e romana, Napoli 1827, voll. 19-20, p. 207; G. POZZOLI, F. ROMANI, A.BOZZOLI, Dizionario storico-mitologico di tutti i popoli del mondo, Livorno 1829, p. 407; C. A. VANZON,Dizionario Universale della lingua italiana, Livorno 1838, t5, p. 672; AUGUST WHILELM VON SCHLEGEL,Corso di letteratura drammatica di versione italiana. Napoli 1859, p. 97; PAOLO EMILIANI-GIUDICI, Storia delteatro in Italia, Torino 1860, vol. 1, p. 68; FRANCESCO PREDAI, Dizionario biografico universale, Milano 1867,

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vol.2, p. 387; F. DELLA CORTE, Da Sarsina a Roma: ricerche plautine, Genova 1952, pp. 28-32, 250; E.CETRANGELO, Breve storia della letteratura latina, Pordenone 1991, p. 25; L. CANALI, Ritratti di padri anti-chi: sedici scrittori latini e greci, Pordenone 1993, p. 6; W. BEARE, I romani a teatro, Bari 2002, p. 53; D.CORVINO, Nuove proposte letterarie latine e civiltà romane, Napoli 2004, p. 36; C. OSSOLA, Le antiche memo-rie del nulla, Roma 2007, p. 10; A. SPINOSA, La grande storia di Roma, Mondadori 2011, p. 165.25- L’addictus restava per sessanta giorni in mano al suo creditore, mantenendo la sua capacità d’azione e lasua personalità: trascorso però inutilmente tale termine, se nessuno si fosse presentato a pagare la sua libera-zione, poteva essere ucciso o venduto trans Tiberim, cioè in territorio etrusco, cfr: C. PELLOSO, Studi sul furtonell’antichità mediterranea, Padova 2008, p. 215; per gli aspetti legislativi L. WENGHER, Istituzioni di proce-dura civile romana, Milano 1938, p. 219 e ss. Sul significato giuridico del termine si vedano A. CORBINO,Diritto privato romano. Contesti, fondamenti, Discipline. CEDAM, 2010 e G. PUGLIESE, Il processo civileromano, Roma 1962, vol. 1, cit. 303 e ss.26- Per esempio, F. A. GERA, Nuovo dizionario universale di agricoltura, Venezia 1841, t. xVI, p. 176 (col647).27- Cfr. C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino 1976.28- Questo dal II secolo in poi, in virtù delle Costituzioni imperiali emanate dall’imperatore Traiano.29- A. STORCHI MARINO, Economia amministrativa e fiscalità nel mondo romano; ricerche lessicali. 2004, p.127.30- Tali teorie, che tendevano a marginalizzare i progressi tecnologici del mondo greco-romano, apparverosulla rivista Economic History Review nel 1965. Moses Israel Finkelstein (americanizzato Finley) (1912-1986) fu un storico ed etnologo statunitense. Nel 1954, in piena paranoia maccartista, venne licenziato dallaRutgers University ed emigrò in Inghilterra dove visse sino alla morte. La sua opera più importante,L’economia degli antichi e dei moderni del 1973, affrontava alcune tematiche socioeconomiche del mondoclassico, oggi fortemente indebolite e rifiutate dai massimi esperti di economia antica.31- Marc Lèopold Benjamin Bloch (1886-1944) fu un importante storico medievalista francese. Nel 1929fondò, assieme a Lucien Febvre, la rivista Annales d’histoire économique et sociale improntata ad una nuovametodologia d’indagine storica ispirata al concetto di “storia globale”. Insegnò per diversi anni alla Sorbonneda dove venne espulso a causa delle sue origine ebraiche: partecipò attivamente alla Resistenza al nazifasci-smo e, catturato dalla Gestapo venne fucilato nel ‘44 a Saint Didier des Formans vicino Lion. Tra i suoi lavoripiù significativi vanno ricordati: La società feudale, Torino 1984, I Re taumaturghi, Torino 1973 e l’incom-pleta Apologie pour l’histoire ou Métier d’historièn (Apologia della Storia) pubblicata postuma nel 1949 neiCahiers des Annales ed è considerata ancora oggi una tra le più importanti opere di teoria storiografica del xxsecolo; si veda in particolare il suo lavoro sui mulini ad acqua: Avènement et conquêtes du moulin a eau inAnnales d’histoire economique et sociale, 1935, t7, n.36, pp. 540-41.32- Cfr: J. P. BRUN, L’energie hidraulique durant l’empire romain: quel impact sur l’economie agricole?, pp.101-130, in: E. LO CASCIO, Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano, Capri 2003, Attidegli incontri capresi di storia dell’economia antica.33- Cfr. J. P. BRUN, op. cit. p. 110; M. BELL, Mulini ad acqua sul Gianicolo, in Archeologia laziale, II, Roma1992, pp. 67-74.34- Flavius Belisarius (500-565 d. C.) fu un grande generale Bizantino sotto l’imperatore Giustiniano I.35- L’esercito goto aveva tagliato ben 14 acquedotti della città per impedire soprattutto il rifornimento idricoindispensabile al funzionamento dei mulini, sperando in questo modo che la città si fosse arresa. Vitige erastato eletto per acclamazione re degli Ostrogoti nella città di Rieti, in aperta opposizione a Teodato, il quale,non essendo stato in grado di fronteggiare coraggiosamente Belisario, fu ucciso mentre fuggiva da Roma perrecarsi a Ravenna.36- D. COMPARETTI, La guerra gotica di Procopio di Cesarea, in Fonti per la Storia d’Italia, 1895, vol. 1, pp.144-146.37- Cfr. J. F. SCHLEUSNER, Novus thesaurus philologic-.criticus sive lexicon in XX, Lipsia 1829, p. III (Z-M)p. 586.38- G. VINCI, Descrizione delle ruine di Pompei, Napoli 1830, pp. 68-71.39- J. GIMPEL, La révolution industrielle du Moyen Age, Paris 1978, p. 13 e segg.40- Sui mulini di Barbegal esiste una produzione scientifica davvero imponente, mi limiterò a segnalare soloalcuni lavori fondamentali; F. BENOIT, L’usine de meunerie hidraulique gallo-romaine de Barbegal (Arles) in:

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Revue archéologique, 1940, vol. 15, pp.19-80; PH. LEVEAU, Les moulins de Barbegal, les ports-acqueducs duVallum des Arcs et l’histoire naturelle de la Vallèe des Baux, 1995; Barbegal: de l’histoire des fouilles a l’hi-stoire des Moulins’ Amouretti, M. - C., Provence Historique, 167-8 (1992), pp.135-49; P. LEVEAU, IlBarbegal mulino ad acqua nel suo ambiente: l’archeologia e la storia economica e sociale dell’antichità’,Journal of Roman Archaeology 9 (1996), pp.137-53; SELLIN, RHJ: The large Roman water mill at Barbegal(France), History of Technology , 8, 1983, pp. 91-109; LORENZ, WAYNE F., and PH. J. WOLFRAM: The millsto-nes of Barbegal (Possible usage of flour mill in Barbegal, France for testing designs of millstones). CivilEngineering, 77.6, June 2007, pp. 62-67; BELLAMY, RB & HITCHNER, P.- S.: ‘The villas of the Vallee des Bauxand the Barbegal Mill: excavations at la Merindole villa and cemetery’, Journal of Roman Archaeology 9(1996), pp.154-76.41- Cfr. I. MACAIONE, A. SICHENZE, Architetture ecologiche nel turismo, nel recupero della città-natura dellaBasilicata, Milano 1999, p. 157.42- Jean Jimpel (1918-1996) è stato uno storico medievista e saggista francese; la sua ricerca, tesa ad una riva-lutazione del medioevo, è incentrata soprattutto sull’applicazione delle tecnologie e sul progresso della civiltà.43- Eleonora Mary Carus-Wilson (1897-1977) è stata un’importante studiosa di storia economica del medioe-vo, cfr: A. MILLàN GASCA, Fabbriche, sistemi, organizzazioni, Milano 2006, p. 22.44- Cfr. J. LE GOFF, Il basso medioevo, in: Storia universale Feltrinelli, Milano 1967, vol. 11, p.14.45- Pur essendo, secondo il Bloch, un’invenzione pertinente all’area del bacino mediterraneo, il mulino adacqua vide una sua rapida diffusione in Europa soprattutto nella tarda romanità e nel medioevo, cfr: M.BLOCH, Avènement et conquête du mulin à eau, in Annales d’hist. èconom. et sociale, vol. VII (1935), pp. 538-563; gran parte di queste considerazioni sono state inserite dall’autore nell’edizione italiana Lavoro e tecnicanel Medioevo, Ed. Laterza, Bari 1959, pp. 48-87. Per un’esauriente descrizione dei vari tipi di mulini adacqua, arricchita da un discreto inventario dei reperti archeologici rinvenuti fino al 1943 in Inghilterra, Italia,Francia, Grecia, Asia minore ed altri luoghi, si può consultare in: E. C. CURWEN, The problems of EarlyWater-Mills, in Antiquity, vol. xVIII (1944), pp. 130-146.46- Alcuni aspetti normativi inerenti la tutela dei mulini e dell’attività dei mugnai furono messi a punto e tra-sformati in legge sotto l’imperatore Zenone (in latino Flavius Zeno ma il suo vero nome era Tarasis; fu impe-ratore romano d’Oriente dall’anno 475 al 475, nuovamente dal 476 fino all’anno della sua morte 491) e sonorintracciabili nella Legge 10 del Codex Justiniani, cfr: A. P. TISSOT, Les douse livres du Code de l’EmpereurJustinien, Metz 1807, t.4, ( lib. xI, Tit. xLII, De aquaeductu ) p. 276 e segg. Altri - già previsti dal dirittoromano - vennero sanciti dalla Lex Salica (legge salica) una raccolta delle antiche consuetudini giuridiche fattaredigere da Clodoveo re dei Franchi attorno al 510 per le popolazioni di Franchi Salii, che dal IV secolo sistanziarono nella regione costiera adiacente al fiume Reno (nell’attuale Olanda settentrionale), cfr.: J. H.HESSEL, Lex salica: the ten texts whit the glosses and the lex emendata, London 1880, n. xxII; l’edizione cri-tica di K. A. ECKHARDT, Lex Salica, in: Monumenta Germaniae Historica, Hannover 1969, t. 4, p. II, pp. 14-15,70, 200, 222; per taluni aspetti politici riguardanti l’esclusione delle donne - nel matrimonio dinastico - daldispositivo successorio previsto dalla legge salica: G. B. VESTELUNGA, La legge Salica della Francia ridottaal morale, e sziffrata dal Dottore Gio. Battista Vestelunga, Hamburg 1687. Il problema dei matrimoni dinasti-ci è stato ripreso recentemente anche da: M. A. VISCEGLIA, Politica e regalità femminile nell’Europa dellaprima età moderna. Qualche riflessione comparativa sul ruolo delle regine consorti, in Storia sociale e politi-ca : omaggio a Rosario Villari, Milano 2007, p. 426 e segg. Per un approfondimento degli aspetti normativiistituzionali tra diritto imperiale e diritto latino-germanico, si veda: V. MAROTTA, Potere imperiale e dirittibarbarici: il pactus legis salica, in Atti del Convegno Società, diritto e istituzioni nei papiri ravennati (V-VIIIsec.) 14-15 maggio 2010. Norme ben più rigide per chi osava incendiare, saccheggiare o costruire ex novo unmulino su di un terreno non suo, vennero stabilite dall’editto del re Rotari nel novembre dell’anno 643: in par-ticolare la numero CLI - Si quis molinum in terra aliena edificaverit: chi costruiva un mulino sopra un terrenoche non potesse dimostrare di sua proprietà, perdeva il mulino e veniva sancito pesantemente. Si vedano anchein proposito le norme CxLVIIII, CL, CLI, CLII, dell’Editto di Rotari riportato in: C. TROYA, Storia d’Italianel medio-evo.Napoli 1853, vol.4, p2, pp.173-174. L’editto di Rotari, scritto in latino, raccoglie organicamentele antiche consuetudini longobarde che si applicavano però soltanto alla popolazione italiana d’origine longo-barda, mentre per quella romana veniva applicato il vecchio diritto romano promulgato dall’imperatoreGiustiniano I nel 533 e codificato nel Digesto. La tutela dei mulini era stata prevista anche dalla LexVisigothorum (VIII, 4, 30-Instrumenta mulini.) fatta redigere – ma non ne siamo proprio sicuri - da Eurico dei

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Baldi, re dei Visigoti dopo la caduta dell’impero romano d’occidente: in Monumenta Germaniae Historica,Leges I, Hannover e Leipzig 1902, pp. 293 - 344.47- «Donamus atque cedimus tibi Molinum unum in fluvio q. percurrit prope muros civitatis nostrae Reatine»in: C. TROYA, Storia d’Italia nel medio Evo, vol. 4, p. 112, n. DLVI. L’abbazia di Farfa acquista inoltre, nel-l’anno 749, « casalem in Sabinis vocatum Paternum, et olivetum, et vassilicam et molendinum», in R. F. doc.23.48- Ancora valido, per taluni aspetti documentali riguardanti anche la Sabina, il lavoro dell’abate cistercenseG. FATTESCHI, Memorie istorico-diplomatiche riguardanti la serie dé Duchi e la topografia dé tempi di mezzodel Ducato di Spoleto, Camerino 1801, p. 280, n. xxxII: un altro documento molto interessante che l’Autoreha tratto dal Regesto Farfense si trova a p. 200, al n. LxxxII in appendice: durante il pontificato di papaSergio IV, l’anno 1011, il conte Ottone figlio del conte Ottaviano, dona all’abate Guido di Farfa 1500 modiali(moggi) di terra nella Sabina con molini ed altri possedimenti. 49- Cfr. L. SALADINO, M. C. SOMMA, Elementi per una topografia di Rieti in età tardoantica ed altomedievale,in: Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes, T. 105, N°1. 1993, pp. 75-76.50- Cfr.: Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia 1724, vol. 1, p. 778. 51- Cfr. Liber Largitorius, I, p. 178, doc. 322, anno 969. Questo mulino in particolare, sembrerebbe essere lostesso che troviamo qualche secolo più tardi in possesso dell’abbazia di Farfa e di San Salvatore Maggiore, dicui era abate don Francesco Orsini nel 1544; la mola a grano detta di Granica (nell’attuale comune diCastelnuovo di Farfa, in provincia di Rieti), per gli emolumenti della quale un certo Lorenzo di Bencivenga,della diocesi di Fiesoli, vantava un credito di 359 scudi, in: ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO, archivio Orsini,Pergamene, segn. II. A.23, 069.52- BONVESIN DE LA RIVA, De magnalibus Mediolani – Le meraviglie di Milano, Bompiani 1983, con la tradu-zione di Giuseppe Pontiggia, pp. 98-99.53- Cfr. A. BAVIERA ALBANESE, In Sicilia nel sec. XVI: verso una rivoluzione industriale?, Caltanissetta-Roma 1979, pp. 121-134. Interessante anche il paragrafo riguardante le varie tecniche di molitura praticatesull’isola, pp. 11-26.54- Cfr. S. FODALE, Casanova e i mulini a vento, Ed. Sellerio 1986, pp. 68-69.55- ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO, archivio Orsini, Pergamene, Segnatura: II. A.01,039, n. cat.1464.56- Idem, Fondo Orsini, Pergamene, segn. II. A.11,049.57- D. BENUCCI, Di alcuni atti del notaio Giovanni Cesidio da Gavignano, in: Bollettino della Società Umbradi Storia patria, Perugia 1896, vol. 2, p. 118, nota 1.58- Il rubbio o rubbia, era l’unità di misura agraria di superficie adottata generalmente in molti luoghi d’Italiafino a tutto il secolo xIx: negli antichi Stati pontifici essa corrispondeva a 18.480 m².59- Vulga recta, Vulgaretta, Bulgaretta: molte notizie interessanti, soprattutto di carattere storico-cronologicosu questo antico feudo che fu dei baroni longobardi Guidonisci fino all’anno 1092, si trovano in: B. TOFANI,Longone di San Salvatore Maggiore, 1988, pp. 164-172.60- Tale denominazione potrebbe trarre la sua origine dalla baronessa Elisabetta Savelli dè Mareri (la Signoraappunto) che la fece incanalare agli inizi del ‘500.61- ARCHIVIO STORICO COMUNE PAGANICO SABINO, Carteggio 1934, si veda la relazione del podestà in data 7luglio.62- La baronia nel 1559 era amministrata, per conto dei Soderini, dal Governatore Marinpietro de Stagla, dalCamerlengo Mastro Polito, da un notaro Achilli con funzione anche di Cancelliere mentre all’amministrazio-ne dei beni baronali provvedeva da tempo il fattore Federico Cascina, cfr. BAV, Archivio Barberini,Computisteria, (1559-1600).63- Come si evince dall’annotazione sul Registro della Computisteria barberiniana dell’anno 1564 fatta dalsuo amministratore Domenico Cascina; cfr: BAV, fondo Barberini, Computisteria, fascicolo n. 942 (Collalto,entrate e uscite 1562). 64- Si veda a tal proposito la già citata Relazione della visita economica di Mons. Reggio nella Baronia diCollalto (1707), da me pubblicata sulla rivista Aequa, Anno xII, n. 43, dicembre 2010, pp. 41-57.65- Proprio sul possesso ereditario di tale mola ascreana con le annesse polveriera e gualchiera, appartenuteall’abate Ottavio Mareri si generò una diatriba giudiziaria durata oltre un decennio, si veda LUDOVICI POSTII,Mantenendo, sive summariissimi possessorii, Genevae 1717, pp. 102-105. 66- Papa Alessandro IV (Rinaldo dei Signori di Jenne (1199-1261) fu papa dal 1254 al 1261). Concesse alle

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suddette monache Clarisse alcuni privilegi con l’epistola Favor vestrae devotionis di cui abbiamo perso letracce. Tale monastero con l’acclusa chiesetta - ora inglobata nel piccolo cimitero di Collalto – esisteva già nel1153 durante il pontificato di papa Anastasio IV, che la incluse nella Bulla “In Eminenti” contenente l’elencodelle chiese sottoposte alla diocesi di Rieti. Un altro papa Nicolò IV concesse diversi altri privilegi alle claris-se collaltesi, si veda nota sotto.67- Papa Niccolò IV (al secolo Girolamo Masci, 1227-1292) nella nota Bulla del 27 Agosto del 1289:«Ordinem servabatis, per litteras suos concessit, ut de possessionibus, seu molendinis vestris nulli decìmessolvere terreamini, nec ad eas solvendas compelli ab aliquo valeatis».68- Sono assai scarne le notizie riguardanti questa antica pieve e della “villa” da cui prende il toponimo: la tro-viamo attestata già nel xI secolo in un atto di concessione di alcune terre di proprietà del monastero farfense a«Farolfus et Bernardus filii Massarii, habitatores territorii Reatini, vocabule Ophiani»: da alcuni anni vengo-no svolte delle prospezioni archeologiche da parte di un gruppo di archeologi francesi ed italiani guidati daEtienne Hubert dell’école française de Rome, per localizzarne il sito, cfr; Mélanges de l’Ecole française deRome, Anno 1993, Vol. 105, pp.887- 898.69- Troviamo infatti la mola di Paganico già citata in un documento contabile del 18 giugno 1559 (in:BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA, Archivio Barberini, Computisteria, Reg. n. 1942-1943, anni 1559-1600), dal quale si apprende inoltre che il molinaro in quel periodo era un tale Valentino di Nespolo; debboringraziare pubblicamente per questa importante segnalazione archivistica e per tutte le altre concernenti ilfondo Computisteria dell’Archivio Barberini presso la Biblioteca Apostolica Vaticana il Dott. Pino de Rosis,già socio benemerito della Deputazione di Storia Patria Abruzzese e responsabile dell’Archivio storico dellaBiblioteca Alessandrina.70- ARCHIVIO STORICO DI ROMA, Congregazione del Buon Governo, b. 3284, documento datato 15 dicembre1787 dell’uditore Giuseppe Santini indirizzato al Delegato Apostolico di Rieti.71- BAV, Archivio Barberini, Computisteria, Giornale di Collalto 1659-1686.72- A. S. ROMA, S. C. B. G. Ascrea, b. 319; tale problema è esistito in tutte le epoche tanto è vero che suimolinari si sono creati molti proverbi dettati dalla saggezza popolare e quello che ancora oggi si ricorda è ilseguente: «Chi prima va al molino prima macina» cfr: ALOYSE CINTHIO DEGLI FABRITII, Libro della originedelli volgari proverbj, Vinegia 1526. Un altro antico proverbio sui mulini la dice lunga sull’ostilità verso que-sta invenzione già rilevata dal Le Goff nei suoi studi sul medioevo francese: «Né mulo, né mulino, né signoreper vicino, né compare contadino», il mulo perché tira calci, il mulino perché fa continuamente rumore, ilsignore perché ti toglie quello che hai ed il contadino perché ti chiede; cfr. A. ANTONIMI, Dizionario italiano-latino e francese, Lione 1770, t1, p. 444.73- Nel disegno della pianta del Fosso dell’Ovito del novembre 1835 si distinguono molto bene i tre muliniadiacenti uno all’altro, il primo dei quali in quell’anno apparteneva al conte Vicentini del Drago, in: A. S. R.Prefettura generale Acque e strade, b. 259; così anche nella pianta catastale di Paganico del 1819-1820, in: A.S. R. Presidenza generale del Censo, Catasto gregoriano, Rieti mappa n. 135.74- Ricordiamo che la baronia di Collalto, sequestrata al ribelle Battista di Collalto da Ferdinando Id’Aragona e recuperata dalla Camera Apostolica agli inizi del ‘500, venne infeudata nel 1513 ai Savelli chel’avevano già ottenuta 1499 da Federico I d’Aragona per i servizi resi e nel 1564 Cristoforo Savelli fucostretto a venderla al suocero Roberto Strozzi, cfr: R. AGO, M. A. VISCEGLIA, Signori, patrizi, cavalieri inItalia centro-meridionale nell’età moderna, Bari 1992, p. 219; B. FABJAN, Il cavalier Vincenzo Manenti e ilsuo tempo, Atti del Convegno 14 ottobre 2003, Orvinio.75- G. GUMINA, op. cit. in Aequa, n. 43, idem.76- Al secolo Giovanni Angelico Braschi (Cesena, 27 dicembre 1717 – Valence, 29 agosto 1799).77- E. ROSETTI, Forlinpopoli e dintorni: storia e descrizione, Milano 1890, p. 167: altre informazioni sui terre-moti si possono trovare in M. BARATTA, Sulla distribuzione topografica dei terremoti in Umbria, Roma 1898.78- A. S. R., S. C. B. G., b.3284; s. n., allegato A: contratto rogato dal notaio Francesco Carini il 1 luglio1783, alla presenza di Pietro Antonio Cerri da Trevi, nell’abbazia di Subiaco, castellano di Collalto e qualeministro di don Carlo Maria Barberini duca di Montelibretti. L’affittuario, Tommaso Zazza figlio di Giuseppedella terra di Carsoli, Regno di Napoli e Diocesi dei Marsi s’impegnava a pagare annualmente la somma discudi 850 per tutte le mole esistenti nella baronia, con le annesse valche, il granaio e la stalla che si trovava aCollalto, usata come abitazione dello stesso.79- Valentino Balducci, legato sia ai Chigi (per i quali era stato Governatore di Ariccia nel 1765, cfr: E

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LUCIDI, Memorie storiche dell’antichissimo Municipio ora Terra dell’Ariccia e delle sue colonie Genzano eNemi, Roma 1796, p. 221) e sia ai Barberini, nel febbraio del 1784 lasciò l’incarico di Governatore di PoggioMirteto per assumere quello di vice Reggente di Tivoli al posto di don Giuseppe Amici, al quale il papa con-cesse una provvisione mensile di 10 scudi. Probabilmente lo stesso Balducci fu anche Governatore di Cascia,cfr. Gazzetta universale o siano notizie istoriche, politiche, 1784, vol xI, p. 180 e l’Annuario Pontificio perl’anno 1789, p. 216 e nel 1796 Governatore di Foligno.80- Per una sintetica definizione del mulino bannale, si veda G. PICCINNI, I mille anni del Medioevo, Milano2004, p. 167.81- Per farsi un’idea di quanto fosse rilevante l’importanza dei mulini nella società feudale mi basterà dire cheè stata prodotta al riguardo, in circa sei secoli di stampa, una bibliografia considerevole. Mi limiterò ad elen-care alcuni tra i testi antichi considerati fondamentali: GRAPALDUS FRANCISCUS MARIUS, De partibus medium,Venetii 1517; Johann WILHELM WALDSCHMIEDT, Disp. Iur. De molendinis bannaris, 1748; CARLO LUDOVICO

HOHEISEL, Disputatio philologica de molis manualibus veterum, 1728; Disputatio Juridica, de jure prohibendiexstructionem molendini halae, 1700; JACOBI BESSONI, Theatrum instrumentorum et machianarum, 1582;JOHANN PHILIP TREUNER, Dissert. Hist. De molinis, Jena 1695; AA.VV., Matheseos ad politicam et iurispru-dentiam applicatae specimen de molendinis, 1703; THOMA GATAKERI, De novi in strumenti stylo disserta-tio,1648; CAESAR BUCQUE, Manuel du meunier et du constructeur de moulin,1790; CHARLES TOUAILLON, Lameunerie, 1867; GEORG ANDREAS BOCKLER, Theatrum machinarium novum, 1662; GOETZIUS, De pistrini vete-rum, 1730; JOHANN HERING, Tractatus singularis de molendinis, 1663; PETRO MULLER, Dissertatio deMolendini in genere et in specie potissimus de bannaris, Jena 1711.82- BAV, Archivio Barberini, Computisteria, Giornale di Collalto 1659-1686.83- BAV, Archivio Barberini, Computisteria, Libro Mastro dei debitori della baronia di Collalto, dal 1705 al1709.84- BAV, Archivio Barberini, Computisteria, Idem.85- BAV, Archivio Barberini, Computisteria, Registro entrate ed uscite di Collalto, 1706-1710.86- A. S. C. Collalto Sabino, Atti della Curia civile, anno 1764.87- In tutti i territori in cui l’acqua scarseggiava durante la stagione estiva, era necessario costruire accanto aimulini delle grandi vasche, chiamate appunto refote, dove venivano incanalate le acque che consentivanocomunque, attraverso l’apertura della chiusa, il funzionamento delle macine. 88- A. S. Collalto, Registro Atti civili 1786, p. 234.89- La Consulta straordinaria per gli Stati Romani venne istituita all’atto dell’annessione dei territori pontificicon decreto imperiale del 17 maggio 1809 ed entrò pienamente in vigore il 1 gennaio del 1810; sul baroneLaurent-Marie Janet si veda: Biographie nouvelle des contemporains, Paris 1823, vol. Ix, pp. 362-363.90- A. S. R., Miscellanea francese, Molini 500, s.n.91- A. S. R., Miscellanea francese, idem, s.d.92- Come accadde ad un povero Cristo, tale Giovanni Battista Paris di Marcetelli, che la domenica del 17 giu-gno 1798 tornava dall’agro romano con un carico di frumento e venne colpito da un infarto in localitàCaupona, dove c’era un’osteria, vicino a Paganico, cfr. A. S. Comune di Paganico, Liber Mortuorum, anno1789-1835, p. 94, doc. 143.93- F. PILLONCA, I danni dell’alluvione del 1813 a Paganico e Collalto, in: Aequa, Ix, n. 31, ottobre 2007, pp.47-48.94- Si tratta del dr. Carlo Orsini, che il 17 giugno 1725 venne assunto con la carica di Governatore generaledella Baronia di Collalto dal cardinale Francesco Barberini, cfr: A. S. Collalto, Registro delle deliberazionidella Magnifica Comunità di Collalto 1724-1748, p. 2995- Si vedano in proposito la già citata pianta n. 135 di Paganico nel Catasto Gregoriano del 1818, in A. S.Rieti ed il documento Tipo delle partite catastali dei fondi rustici intestati ad Orsini Vincenzo e Giuseppe, inA. S. Comune di Paganico.96- ARCHIVIO STATO RIETI, Curia baronale, Prot. Governatore di Canemorto, circolari 1835-1837, alla datadel 27 aprile 1835. Ad un altro Orsini, Giacinto, anch’esso molinaro, capitò una grave tragedia familiare: suafiglia Angela cadde nel fiume Turano durante un’improvvisa piena e non si riuscì a salvargli la vita: il suo cor-picino (aveva appena 10 anni) venne ritrovato dopo qualche giorno sotto l’Ascrea e riconsegnato al padre almulino di Paganico, cfr. A. S. Comune di Paganico, Libro dei defunti 1840-1860, p. . 44v.97- Uno di loro, Giuseppe Recchia di 20 anni, figlio di Alessio della Terra di Casalivieri, in provincia di Sora,

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morì a seguito di un incidente nella mola Barberini il 10.9.1819, si veda: A. S. Comune di Paganico, LiberMortuorum, op. cit.98- Card. Bartolomeo Pacca, Editto sul dazio del macinato del 28 dicembre 1822, Roma, 1822.99- A. S. Collalto, Registro degl’atti civili della Curia baronale di Collalto, documento n. 1038 del 9 aprile1837.100- Luigi Lucchetti lo ritroviamo proprietario di una mola nel 1853, cfr. T. LEGGIO, La Storia e la memoria,in: Itinerari sabini: storia e cultura di città e paesi della Sabina, Rieti 1995, p. 237.101- Pietro Carozzoni, Collepiccolo e la Valle del Turano, Ed.Il Velino - Rieti 1986, pp.237-241.102- In una lettera datata 10 agosto 1848 inviata dal Latini alle autorità, viene citato tra i testimoni dei disordi-ni il mugnaio Giuseppe Recchia che era affittuario della mola Fra le vene di Collalto. Bartolomeo Latini(1806-1861) apparteneva ad una delle più antiche famiglie di Collalto. Era un chirurgo e farmacista, un libera-le convinto che, durante la brevissima stagione rivoluzionaria della seconda Repubblica Romana, ricoprì l’in-carico di Capitano della sezione collaltese della Guardia Nazionale senza mai smettere d’incitare i propri con-cittadini alla rivolta contro il regime teocratico. Temuto dai suoi avversari politici, venne barbaramente assas-sinato a sangue freddo da un ex-brigadiere della gendarmeria pontificia, tale Celani, che prese parte all’infameassalto borbonico-papalino di Collalto del 13 febbraio 1861. La sua eliminazione, come anche l’assalto bandi-tesco del castello di Collalto, a mio giudizio, erano stati pianificati da tempo dagli strateghi politico-militaredella Chiesa di Roma. Cfr; Gli eccidi di Collalto avvenuti il 13 febbario 1861, Lettera autentica di CarloBaliva; B. CENNI, Relazione storica sulla invasione del Comune di Collalto avvenuta il 13 febbraio 1861,Rieti 1865.103- A. S. Roma, Miscellanea francese, Molini 500, s.n.104- A. S. R, Del. Ap., documento datato 23 luglio 1850 del Delegato Apostolico al Governatore diCanemorto.105- A. S. Paganico Sabino, copia del bando, carteggio anno 1866.106- L’8 Febbraio del 1936, il Commissario Prefettizio di Paganico Sabino, Mattei Emilio, assistito dal soloSegretario comunale Baldassarri, deliberò per l’eliminazione delle carte e degli atti d’archivio che secondo ilsuo insignificante parere e la sua inverosimile incompetenza andavano consegnate alla Croce Rossa Italianaper la loro distruzione; vennero riempiti due grossi camion e così presero per sempre il volo anche quella partedi memorie storiche comunali già abbondantemente compromesse da furti e saccheggi e danneggiamenti d’o-gni genere. Immagino ovviamente, che tali amministratori organici a quel triste regime abbiano in tal modofatto scomparire anche documenti compromettenti sul loro operato, in A. S. Paganico, Registro delle delibere,1936.107- Tali notizie mi sono state gentilmente riferite oralmente dall’ex segretario comunale di Paganico,Quartino Ortenzi, e da Ferdinando Mattei, storico fornaio del paese e proprietario della casa data in affitto alComune di Paganico per ospitarvi l’archivio storico. Fu lui, dopo svariate e quanto mai inutili richieste disgombrare tali locali fatte al sindaco di allora, a bruciare per giorni interi un’enorme quantità di documenti sto-rici.108- A. S. Paganico, Registro delle delibere 1899-1909.109- A. S. Paganico, idem.110- A. S. Paganico, Delibere 1899-1909, atto n. 21 Lettura della relazione del Regio Commissario PrefettizioDe Carolis dott. Giacinto, in data 2 febbraio 1900.111- A. S. Paganico, Delibere 1899-1909, atto del 23 agosto, il sindaco Giuseppe Orsini da lettura di una let-tera del Recchia dalla quale si apprende che «La mattina del 2 aprile 1903 si sfondò il macinello della mola agrano impedendo di macinare». 112- A. S. Paganico Sabino, Carteggio 1916, lettera del 23 settembre 1916.113- A. S. Paganico Sabino, Carteggio 1942, lettera del 4 agosto 1942.114- Sulla mola vivarese recentemente mi è capitato di leggere un interessantissimo articolo di B. SFORZA, inAequa, Anno VII, n. 20, gennaio 2005, pp. 31-35 che ne descrive i diversi aspetti tecnico-scientifici.

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