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Stilistica della malinconia: Vita Nova XXIII-XXV e Un dì si
venne a me Malinconia
NATASCIA TONELLI Università di Siena
Nel capitolo ventitreesimo della Vita Nova la prosa racconta di
come Dante, dopo nove giorni di malattia che lo hanno costretto a
giacere dolente, sia colto dal pensiero della fragilità e caducità
della vita umana, la cui conseguenza più drammatica consiste
nell’inevitabile destino di morte di Beatrice. Indotto da questa
prima angosciante considerazione, sopravviene uno sì forte
smarrimento che lo porta a travagliare –che potremmo parafrasare
con ‘vaneggiare’- sì come farnetica persona. Dal paragrafo 4 in poi
la descrizione del delirio: visi di donne scapigliate e visi
diversi e orribili preannunciano a Dante, poi la danno decisamente
per avvenuta, la sua morte: Tu pur morrati, Tu se’ morto. Seguono i
segni annunciatori della morte di Beatrice, che sono stati
riconosciuti come gli stravolgimenti apocalittici, ovvero facenti
parte del «repertorio biblico dei segni della morte di Cristo»1 :
il sole si oscura, le stelle paiono piangere, cadono gli uccelli
morti per l’aria, la terra è scossa da grandissimi tremuoti. Cui
segue la notizia, proclamata da un amico immaginato: «Or non sai?
La tua mirabile donna è partita di questo secolo». Moltitudini
d’angeli in canti che scortano verso le paradisiache altezze la
nebuletta bianchissima che rappresenta l’anima di Beatrice paiono
per un attimo confortare e distogliere Dante dall’orroroso
farnetico; ma per poco, giacché all’annuncio della di lei morte è
data conferma dalla vista in prima persona del suo morto corpo. A
sua volta Dante invoca per sé stesso la morte, dolcissima morte,
che, da villana che era (Morte villana e di pietà nemica),
dev’esser fatta ormai cosa gentile; e torna poi ad immaginare il
mortorio di Beatrice finché il pianto e i singulti e
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il chiamare la morte non provocano la reazione e l’intervento
delle donne che ne interrompono l’incubo.
Di questa descrizione vanno sottolineati gli snodi: lunga
malattia cui sono dovuti smarrimento e in seguito farnetico; e i
contenuti del delirio: immaginazione della propria morte, poi
visioni spaventose, morte di Beatrice, conseguente desiderio di
morte. Elementi che nella precisa, medesima consecuzione si
susseguono nella canzone commentata, Donna pietosa e di novella
etade, dopo l’inizio, che è a ritroso, del testo poetico: e di
fatti è Dante stesso che replica pari pari il racconto, nei versi,
alle donne, a noi nella prosa. Così come vanno evidenziati i
termini utilizzati con ossessiva insistenza a introdurre e
circostanziare il racconto, e ribaditi ostentatamente in prosa e
poesia: imaginare, accompagnato sia dal sostantivo imaginazione,
sia usato nominalmente all’infinito, e la variante, sostanziale
sinonimo di imaginazione, fantasia. Che valgano come, anzi siano
effettivamente sinonimi è strettamente collegato al loro
significato tecnico, scientifico: si tratta, come noto, di uno dei
sensi interni, cioè della facoltà immaginativa che «apud medicos
–come dice Vincenzo di Beauvais, insieme con la phantasia– sunt una
virtus». E San Tommaso pure li usa come assoluti sinonimi:
corrrispondono allo strumento di elaborazione e di sintesi dei
materiali colti dalla percezione e in seguito trasmessi
all’intelletto; nel caso specifico, tuttavia, non si tratta tanto
di imaginatio retentiva, quanto piuttosto di imaginatio
compositiva.2 Che in questo capitolo del libro Dante affronti un
argomento col solito piglio tecnico e con un lessico
conseguentemente tecnico mi sembra evidente anche dall’esclusività
e quantità delle occorrenze: imaginare o imaginazione ricorrono 22
volte nella Vita Nova –e non tutte in accezione strettamente
psicologica–, 12 delle quali distribuite fra prosa e poesia del
ventitreesimo; fantasia è presente per 9 volte, di cui 8 sono
concentrate nel ventitreesimo. Sono accompagnate dai due soli casi
del libello di ‘farnetico’ («farnetica persona») /
farneticare.3
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Sia la fantasia sia l’immaginare e l’immaginazione per tutto il
capitolo sono fortemente ed esclusivamente connotati dalla
devianza, dal loro essere erronei: fin dai primi paragrafi l’avvio
del delirio risiede ne lo incominciamento dello errare che fece la
mia fantasia. La fantasia è di poi sempre erronea, vana e forte,
così come forte è l’imaginazione. La prosa si concluderà con
l’uscita dal fallace imaginare (par. 15) e sul vano imaginare hanno
avvio anche i versi delle visioni (v. 44), che si acutizzano
coll’imaginar fallace il quale conduce Dante a veder madonna morta
(vv. 65- 66). Da questo dipendono i fantasmi, gli incubi in stato
di semiveglia che caratterizzano conformemente prosa e canzone.
Tutto l’intero decorso della patologia che dall’infermitade
porta alla visione (o sogno4) vissuta come assolutamente veridica è
peraltro conforme a quanto descritto nel trattato De somniis di
Boezio di Dacia, dove appunto si dà spiegazione dell’alterarsi
dell’immaginazione e dell’impossibilità di giudicare correttamente
da parte dell’infermo sulla base proprio della gravità della
malattia che determina una condizione analoga a quella del sogno
:
Et eodem modo [di quanto capita a chi sogna] contingit hominibus
infirmis, sicut hominibus laborantibus gravibus aegritudinibus
propter quas impeditur iudicium rationis.
Avviene loro cioè che credano, come chi sogna dormendo, di aver
veramente visto i phantasmata / res dei loro incubi, o anche
addirittura di esser stati rapiti da angeli esultanti (cantanti e
‘che tornano in suso’, «cantantes et psallentes» come secondo la
tradizione β del De somniis):
somniant dormientes se videre loca lucida et angelos cantantes
et saltantes [β: psallentes]; expergefacti iurant se raptos fuisse
et angelos secundum veritatem vidisse.
Ancor più notevole è che i malati, senza sognare, ma proprio,
come Dante, indotti dalla malattia ad un’erronea immaginazione
(«infirmis in organo imaginationis»), al momento in cui la loro
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sofferenza e il loro delirio si attenuano, dichiarino i
contenuti della loro visione a coloro che li circondano:
mitigata passione dicunt [i malati] circumstantibus angelos
praesentes fuisse vel diabolos, et dicunt se multa mirabilia
vidisse.
Da sottolinare anche come avvenga che i contenuti del pensiero
in stato di veglia condizionino poi fortemente, secondo Boezio, le
immagini dei sogni o dei deliri dei malati, in particolare di
quelli che hanno stretta attinenza con gli eventi futuri («E quando
ei pensato alquanto di lei… dicea fra me medesmo: “Di necessitade
convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia”. E però
mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi gli occhi e
cominciai a travagliare sì come farnetica persona…»):
Alia autem sunt somnia, quae sunt causa futurorum. Sicut enim
homo aliquando vehementer cogitans de aliqua actione in dormiendo
memor est illius actionis.
Quanto alla mutevolezza di tali immagini, che da angeliche e
celestiali possono repentinamente trasformarsi in oscure e
diaboliche, sarà dovuta all’ascendere del nero fumo terrestre che
ha il potere di alterare la virtus imaginativa:
Et dico quod causa huius est quod ille vapor vel fumus
terrestris niger ascendens et movens virtutem imaginativam in suo
modo diversimode figuratur.5
Impregiudicata rimane, in Boezio come in Dante, la malattia
(infermitade, aegritudo ecc.) con febbre che induce alle visioni e
al vaneggiamento: ma credo che già via Aristotele, e via Boezio a
maggior ragione, e soprattutto grazie a Dante stesso, si possa
giungere a nominarla con qualche speranza di conformarsi alla
diagnosi di un eventuale consulto medico adunato attorno al letto
del malato in preda al farnetico. E infatti, corrisponde al fatto
che Aristotele attribuisca agli atrabiliari (e a loro in via
esclusiva nei suoi tre trattati che riguardano sonno e sogni6),
dunque a coloro che sono dominati dall’umor nero, i
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malinconici, insomma, cui è dedicato il problema XXX 1, mutevoli
e sconvolgenti visioni, il riconoscerne la causa, da parte di
Boezio, proprio in quel «vapor vel fumus terrestris niger» che
appunto connota questa particolarissima complessione.
Conseguentemente, a proposito del De divinatione in somniis, uno
dei commentatori dei problemi aristotelici, il medico Davide di
Dinant che li traduce pare ad istanza di Federico II, così
sottolinea, fra l’altro, la predisposizione elettiva dei
malinconici alla deriva dell’immaginazione, sia che dormano sia in
stato di veglia:
Plurime enim et varie sunt in eis ymaginationes tam in
dormientibus quam in vigilantibus pro eo, quod intra eorum corpus
in ipsis instrumenti sensuum fiunt multe alterationes et plurimi
fumorum discursus sunt secundum varias lineationes et figuras.
Fumosior est enim nigra colera quolibet alio humore.7
E che di un delirio da malinconia, quanto ai signa, Dante qui
voglia dare non solo corretta, ma scientificamente diffusa
descrizione credo lo si possa ragionevolmente indurre dai trattati
medici che già ho per altri motivi raffrontato ai testi poetici
danteschi e cavalcantiani, trattati a volte di maestri a lui
contemporanei, altre testi di studio fondamentali nelle università
del tempo.8 Costantino Africano, ad esempio, fra i vari malinconici
che descrive nella sua ampia monografia sulla malinconia, annovera
coloro che hanno l’imaginazione corrupta («alii corruptam habent
imaginationem et rationem»9), causa scatenante il loro delirio;
ovvero intorbidata dai fumi melancolici: «Ex fumo enim melancholico
eorum obscuratur imaginatio» (p. 127). O anche, con una delle rare
similitudini: «Quia sicut sol, qui lumen est mundi, nebula vel fumo
interveniente, lumen amittit, sic et eorum mens, cum fumus colerae
nigrae ad ipsam ascendit, turbida fit et obviatur ei, ne splendor
eius possit evagari, ut videat rem non secundum quod sit» (p. 108;
e si ricordi qui, di passaggio, la similitudine di Paradiso XXIII
79-81 in cui, dati gli stessi agenti, sole e nube, si illustra
l’azione inversa «Come a raggio di sol, che puro mei / per fratta
nube, già prato di fiori / vider, coverti d’ombra, li occhi miei»;
così come, anche, è proprio a questo «fumus
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colerae nigrae» che credo di poter far risalire l’accidioso
fummo degli iracondi di Inferno VII 123: ma di questo altrove).
Secondo Gerardo da Solo, che commenta a inizio Trecento il nono
libro ad Almansore di Razes, una delle più diffuse cause della
patologia è l’eccesso di umore atrabiliare il quale induce la
«corruptionem imaginative vel estimative»10. Dei tre gradi di
malinconia che affronta, il primo è contrassegnato da una esplicita
«falsa imaginatio»: «primus est falsa imaginatio vel estimatio ut
quando estimant quod non est estimandum et imaginantur quod non est
imaginandum».
Esattamente come per Dante è l’imaginar fallace, la vana
fantasia, per i medici è la falsa imaginatio che conduce i loro
pazienti ad imaginare «coram oculis suis [res] quae non sunt vere».
Sul derivare i sogni tenebrosi dalla condizione del malinconico che
dentro di sé porta il suo male oscuro è particolarmente deciso
Bartolomeo Anglico nel De proprietatibus rerum:
…quando aliquod obscurum, ut est fumus melancholicus, operit
cerebrum, necesse est, ut patiens timeat, quia causam, unde timeat,
secum portat, et ideo somniat terribilia et tenebrosa et visui
pessima…11
E, in particolare, come Dante descrive avvenire a lui stesso,
nascono le immaginazioni mortuarie che riguardano proprio il
soggetto affetto dall’eccesso d’umore melancolico (Tu pur morrati,
Tu se’ morto): secondo Arnaldo da Villanova, fra gli altri signa
dalla corrupta imaginatio, «de melancolicis utrum extiment…. se
esse mortuos»12. Ma la morte, oltre che immaginarla, i melancolici
possono anche desiderarla, auspicarla: Avicenna, e con lui poi
tutti i trattati che gli si ispirano, sostiene che «quidam eorum
sunt qui diligunt mortem»13. O ancora, secondo Vivaldo Belcalzer,
che ha reso in volgare mantovano l’enciclopedia di Bartolomeo
Anglico, «Altr melanconich è chi cre ch’ey mora incontanent né
possa schivar la mort…Altr melanconich è chi ama la mort e desidra
quella»14. Non c’è bisogno di ricordare come, certo a causa della
vista della morte di Beatrice, Dante accusi lo stesso repentino
passaggio - e affatto inedito,
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a quanto mi consta, in letteratura- dal temere la morte, anzi
dal credersi affatto morto, alla, più tradizionale, invocazione di
quella.
Timore e tristezza sono le cifre individuanti della malattia
(questa la definizione asciutta di Razes: «Cum alicui cogitationes
male sine causa acciderit, et timor et tristitia in eo prevaluerit,
melancolie principius in eo est»)15, le quali ne condizionano le
visioni: se non per i visi scarmigliati di donne, certo le voci
lugubri e i climi apocalittici evocati da Dante trovano riscontro
suggestivo nei trattati di medicina. Ancora Avicenna, ad esempio,
segnala che i melancolici «timent casum celi super se, et quidam
eorum timent quod terra absorbeat eos»; ma è soprattutto Costantino
che dà un quadro delle immaginazioni dei melancolici assai
pertinente, la tipologia esatta di incubo descritto da Dante:
Vident enim ante oculos formas terribiles et timorosas nigras et
similia… Alii audiunt quasi aquas currentes, ventos tempestuose
moventes, voces timorosas et terribiles in auribus suis sonantes,
sonitus neque die neque nocte desinentes. Quae tamen omnia sunt
falsa (p. 124).
E c’è, infine, di loro chi, come Dante, comprensibilmente
piange: e secondo Avicenna, «quidam sunt qui plorant, et proprie
quorum melancolia est melancolia pura». Un ulteriore sintomo a
favore dell’individuazione di questa specifica patologia proviene
dall’indicazione del farnetico che Dante non omette di segnalare,
in apertura e in chiusura del capitolo: sia per Gerardo da Solo sia
per Costantino una delle cause della malinconia può essere la
frenesia (può, infatti, avvenire «post frenesim»): anzi per il
concomitare di un’acuta febbre e di frenesia (p. 107).
Il quadro clinico che Dante descrive trova nei testi medici un
riscontro circostanziato: e credo che questi possano dar ragione
pure della supposta incongruenza -e in quanto tale evidenziata e
indagata dalla critica- fra la ribadita erroneità, falsità
dell’immaginazione e il fatto che in realtà ciò che nel capitolo
ventitreesimo Dante dà come immaginato è premonizione del vero.16
Di lì a poco, di lì a quattro
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capitoli del libro, Beatrice davvero morirà. Come abbiamo visto,
la falsa imaginatio è tale in quanto produttrice di immagini che
non rispondono a realtà oggettiva, la «corrupta imaginatio» è
semplicemente la condizione in cui la virtus imaginativa ha una
funzionalità scorretta. Certo, omnia sunt falsa, i fantasmi del
delirio malinconico: sia nella tradizione scientifica sia nella
versione di Dante. Ma la misera ed orribile visione che gli ha reso
madonna così morta, secondo la formulazione poi petrarchesca,
viceversa si invera.17 È da sapere, dunque, che, forse a
compensazione del pessimo carattere e della ineludibile vocazione
alla sofferenza, i temperamenti malinconici presentano alcune virtù
specifiche che fin dal problema (pseudo)aristotelico XXX 1 Della
malinconia sono loro ben riconosciute. Fra le più notevoli e fatali
per il destino degli artisti, come si sa e come varrà per epoche
letterarie a noi più prossime -da Ficino e Lorenzo sicuramente, ma
forse, a mio parere, fin da Petrarca- insieme ad una precipua
disposizione all’amore nelle sue forme più eccessive, sicuramente
l’ispirazione poetica, la dedizione agli studi, l’impronta della
genialità18. Questo riguarda la complessione, il temperamento
malinconico. Cosa resta di questa eccezionalità fin mitologica che
gli attribuisce lo pseudo Aristotele nelle forme patologiche
affrontate dalla trattatistica medica medioevale della malinconia,
nei suoi accessi che provocano sogni o deliri e fantasmi
dell’immaginazione? Secondo i medici, un’inspiegabile capacità
profetica. Già per Costantino Africano, infatti, i malinconici «ad
mala futura habent suspicionem» (p. 127); e per Davide di Dinant
«Plurimum autem melancolicis accidit vera videre sompnia»19. Ma chi
più si diffonde e si interroga su questa prerogativa data ormai per
scontata è Gerardo da Solo:
Nota quare melancolici melius predicunt futura: nescio causam,
nisi quia in melancolicis anima est separata a regione corporis et
bonorum temporalium, ideo non imaginantur circa talia futura, et
ideo plura habent imaginari quam mola [sic] corporis oppressi, et
estimant et imaginantur quod non imaginantur alii.
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La loro anima, dunque, separata (si pensi agli spiriti «che
ciascun giva errando» del verso 38 della canzone, o ancora
all’«anima» che «fu sì smarrita» del v. 32: e naturalmente non si
può non ricordare lo spirito peregrino dell’altra visione della
Vita Nova, l’ultima, di Oltre la spera, come anche e soprattutto la
«mente nostra, / peregrina più da la carne» del sogno/visione
dell’inizio del nono canto purgatoriale) separata dalla carne,
appunto, dalla soma del corpo, «mola corporis», «peregrina / più da
la carne…a le sue visïon quasi è divina», ha la capacità di
intravvedere il futuro. Tanto che, conclude, Gerardo,
Et ideo si tales melancolici essent astronomi [cioè ‘astrologi’]
circa plura melius possent predicere et iudicare quam alii.20
Il nome di questa patologia visionaria, se la mia
interpretazione è corretta, stava già scritto in quella implosa
variazione del capitolo ventitreesimo della Vita Nova che è
costituita da Un dì si venne a me Malinconia: la malinconia,
appunto, quella specifica greca malinconia patologica si
impadronisce di Dante innamorato e gli procura la visione, come già
nel sonetto aveva fatto, non ancora di Beatrice morta, ma di Amore
che comunque annunciava la morte di nostra donna21. Il rapporto fra
i due testi si fa, dalle rime sparse al libello, a mio vedere, più
stringente e meno pacifico di quanto la nota di Contini lasciasse
supporre («Il contenuto generale del sonetto è quello stesso della
grande canzone Donna pietosa»). Anche una serie di elementi formali
inducono a una considerazione del sonetto delle Rime in parallelo a
questo e, come vedremo, al successivo, forse ai successivi,
capitoli della Vita Nova.
Nel trattare la medesima materia, i testi poetici fanno uso
anche di materiali in parte coincidenti. Dal punto di vista delle
rime, tranne la rima B del sonetto, altre due sono precisamente
duplicate nella canzone, la A, rima in –ia, corrisponde alla rima D
della prima stanza; la rima C, -ero, è presente ai vv. 30 ss.; la
rima D, -ello, cambia di genere ai vv. 50 ss. della canzone.
Inoltre, per quel che può valere come motivo di richiamo, la
trafila in –ore comunque presente
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internamente al sonetto come Dolore, Amore, muor, è esposta in
rima nella canzone. E per quanto poco valgano, in sistemi rimici
così ridotti, asfittici quasi, qual è quello stilnovistico, le
concordanze o riprese di rime o anche di parole rima22, tuttavia
ritengo che in questo caso di condivisione dei ‘contenuti’, anche
tali aspetti formali più marginali di vicinanza risultino
interessanti: pensero è parola rima comune, e, direi più
significativamente, il costrutto ‘partire via’ : pàrtiti, va via è
la risposta di Dante a Malinconia; fecer lei partir via, al v. 9,
sono le donne che allontanano la pietosa dal letto di Dante. Dicevo
più significativa quest’ultima concordanza anche grazie a un terzo
testo che viene chiamato in causa, in quanto nel sonetto 55 del
Fiore dell’Amico all’Amante (E se. lla donna prende tu’ presente),
il consiglio, per fare ingelosire la donna, è di andarsene senza
motivare la partenza: «E pàrtiti da·llei san’ dir nïente». Il
sonetto è portatore di una delle due altre occorrenze (la seconda
al sonetto 141, 8) di malinconia (e in rima) ‘attribuibili’,
secondo la formula continiana, a Dante, anch’essa utilizzata in
accezione prettamente scientifica («ell’enterrà in sì gran
malinconia / che non le dimorrà sopr’osso carne»). E l’imperativo
del verbo, «pàrtiti», occorre queste due sole volte in tutte le
opere avanti la Commedia (dove peraltro se ne contano solo due
casi); del nesso ‘partire + via’ hanno invece l’esclusiva assoluta,
in tutta l’opera dantesca, i due soli luoghi di Un dì si venne e
Donna pietosa, che ne risultano dunque indiscutibilmente
congiunti.
Ma, solo voltando pagina per passare da una immaginazione
luttuosa ad altra immaginazione di segno affatto opposto, il nostro
sonetto malinconico pare stringere legami ancor più serrati col
sonetto che vi si incontra. Si tratta di Io mi senti’ svegliar
dentro a lo core, capitolo 24, altro testo che in qualche modo
rimanda «all’esperienza scenica e romanzesca del Fiore». Certo,
niente di più antitetico nella descrizione di Amore pur in un
medesimo contesto immaginativo, eppure, segnalata di passaggio la
tenue traccia dell’identica rima –ia, solo invertita di posizione
fra A e B, «Io mi senti’ svegliar dentro a lo core / uno spirto
amoroso che dormia», e la solita diffusa presenza del gruppo –ore
anche qui, come nella canzone, in rima, altri elementi
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congiuntivi si impongono a prima vista. Malinconia si reca da
Dante: «io voglio un poco star con teco»; nella Vita Nova, invece,
è Amore che soggiorna presso di lui: «e poco stando meco il mio
signore»: in un’identica situazione di prosopopea vengono usate le
medesime espressioni, diciamo, ‘familiari’. Ma è in particolare ai
versi 7 e 8 il sigillo della loro solidarietà: stessa struttura
sintattica che fa perno sulla coordinazione del gerundio per il
verso 7: «e ragionando a grand’agio con meco» / «e poco stando meco
il mio signore»; identica la modalità dell’agnizione poggiata sul
raddoppiamento del verbum videndi che consente la sospensione, la
suspence infinitesimale che è contenuta nello spazio di tempo che
intercorre fra il guardare e il vedere, la cristallizzazione quasi
extratemporale del gesto dello sguardo, nei versi 8 del sonetto
«guardai e vidi Amore che venia» e 8-9 della Vita Nova, «guardando
in quella parte onde venia / io vidi monna Vanna e monna Bice»,
versi che hanno, fra l’altro, la medesima uscita venia.
È la stessa prosa del capitolo 24 che, ancor prima della poesia,
per gli stilemi narrativi che usa, e che sono stati segnalati come
quelli tipici del Fiore, in particolare le consecuzioni di verba
videndi caratteristiche dello stile basso, comico, guardare e
vedere, ricorda già le visioni e le apparizioni del sonetto
successivo e di quello delle Rime23:
allora dico che mi giunse una imaginazione d’Amore; che mi parve
vederlo venire… (par. 2);
E poco dopo queste parole… io vidi venire (par. 3);
per giungere infine all’arrivo di Beatrice che con la sua
persona riempie tutta la scena e la cui epifania provoca appunto il
ribadimendo del verbum videndi; la sua apparizione necessita di
solennità maggiore, e dunque dell’applicazione del completo
costrutto:
E appresso lei [cioè, dopo Giovanna], guardando, vidi venire la
mirabile Beatrice.
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Potrà parere a prima vista strano, ma ‘guardare + vedere’ non
compare altrove nella Vita Nova, non solo nella poesia ma nemmeno
nella prosa. Segnatamente manca dove ci aspetteremmo di trovare un
tale stilema funzionale alla narrazione: nel capitolo 9, ad
esempio, che accompagna un sonetto per certi aspetti – e proprio
nella selezione linguistica, nell’impostazione formale
narrativo-comica, affine a questi, Cavalcando l’altrier per un
camino: non si va oltre l’articolazione (ma fra ‘vedere’ e ‘dire’)
presente non nella prosa ma nel solo sonetto «Quando mi vide mi
chiamò per nome / e disse» (vv. 9-10)24. ‘Guardare + vedere’
insomma affratella strettamente Un dì si venne e il capitolo 24,
prosa e poesia: la giuntura non si ritrova altrimenti nella Vita
Nova. E ancor più notevole mi pare l’assenza della consecuzione
‘vedere + venire’ («vidi venir da lungi Amore» in Io mi senti’
svegliar, e poi ancora ai vv. 9-10: «io vidi monna Vanna e monna
Bice / venire» e «Vidi amore che venia» in Un dì si venne): lo
stilema occorre sei sole volte in tutto il romanzo, e tutte e sei
le volte appartengono al capitolo 24!25 Non che sia molto più
frequente nelle Rime, peraltro: lo si può rinvenire, in tutta la
raccolta, rigorosamente una sola volta: quella, appunto, di Un dì
si venne. Occorre di nuovo, ma nella variante in cui non vi è
dipendenza del verbo ‘venire’, bensì sola consecuzione temporale in
una sorta di struttura coordinata: «Di donne io vidi una gentil
schiera / quest’Ogni Santi prossimo passato / e una ne venia». E
questo non è un caso, giacché il sonetto dell’Ognissanti, come si
sa, è strettamente imparentato col nostro della Vita Nova, che De
Robertis ipotizza essere scritto per la festa complementare del
Calendimaggio, col quale costituisce un altro dittico, cui lo
avvicinerà ancor di più, ritengo, e insieme lo avvicinerà anche al
nostro, l’occorrenza sempre in quel sonetto del nesso che abbiamo
verificato essere così raro dei due verba videndi: «e io ebbi tanto
ardir, ch’in la sua ciera / guarda’, e vidi un angiol figurato»,
vv. 7-826.
Al di là di queste circostanze formali, lessicali e sintattiche,
esistono circostanze strutturali, retoriche diciamo, che
vistosamente reclamano la vicinanza dei due testi. I due sonetti
sceneggiano entrambi una piccola processione in uno spazio non
definito ma che è
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gioco forza immaginare cittadino, per strada: nel primo è
Malinconia che avanza col suo piccolo compatto schieramento,
dialoga e precede Amore; nel secondo è Amore che giunge, parla e
precede l’arrivo delle donne. In nessuno dei due casi è esplicitata
una causalità fra il primo e il secondo incontro, il primo incontro
semplicemente col suo verificarsi, senza bisogno di dichiarazioni,
preannuncia il secondo: la Malinconia, un amore luttuoso; Amore
allegro, sé stesso incarnato in Beatrice. Dante, vedendo sia
Malinconia sia Amore, sa già cosa aspettarsi: infatti guarda verso
il luogo di provenienza della prima apparizione e quindi vede. La
dinamica è perfettamente ricalcata dall’uno all’altro sonetto:
l’apparizione di uno (o più personaggi, ma in subordine) sollecita
il soggetto a compiere un’azione grazie alla quale si produce
un’ulteriore apparizione. Un annuncio è dato solo al v. 13 di tutti
e due i sonetti, e in entrambi i testi è lo stesso personaggio che
lo dà, Amore: una volta annuncia Beatrice morente, l’altra sempre
Beatrice, ma nell’espressione sua mi pare di massima vitalità e
allegria concessale dalla Vita Nova, avanzante per strada con
l’altra meraviglia dell’amica Vanna, entrambe nominate col
familiare ipocoristico. Anche la didascalia trova spazio in
apertura del medesimo verso 13 («E lui rispose» / «Amor mi disse»),
così come la linea melodica dei due versi 14 è identica, con quella
punta dell’accento di sesta su apocope (e sùbito accento di settima
a provocare l’andamento discendente del secondo emistichio),
accento principale che in entrambi i versi, e i sonetti, fa
rintoccare il medesimo gruppo fonico definitivamente oppositivo nel
significato muor-amor: «che nostra donna muor, dolce fratello» / «e
quell’ha nome Amor, sì mi somiglia». Terza, ed ultima, proprio ad
esaurire le variazioni dantesche su quest’impronta
timbrico-sintattico-prosodica in chiusura di componimento, si
aggrega -mi suggerisce De Robertis-, così consolidando la tenuta
del gruppetto intra-extra libello, la canzone Donna pietosa, il cui
explicit appunto suona «Voi mi chiamaste allor, vostra
merzede».
Da un lato dunque Un dì si venne rappresenta una sorta di
precipitato contenutistico di quanto distesamente e
articolatamente
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prosa e poesia del ventitreesimo capitolo annunciano, dove, nel
sonetto, nominare la greca malinconia, puntare sulla sua origine
umorale e patologica di tradizione filosofica e scientifica è
sufficiente ad evocare quel complesso di sintomi e quella
condizione alienata e delirante che sempre la definiscono nella
comune cultura medica del tempo nonché nella più comune e diffusa
interpretazione che ne danno i testi letterari che la nominano –né
è necessario sottolineare quanto la cultura anche medica di Dante
fosse affatto fuor del comune. D’altro lato Io mi senti’ svegliar
sta a Un dì si venne in una contrapposizione contenutistica al
momento stesso in cui ne replica quasi alla lettera la struttura.
Li si immagini affiancati. Costituiscono un dittico modellato sullo
stesso stampo strutturale, due variazioni contrastive non su tema
bensì su schema predefinito (l’incontro, la processione,
l’annuncio…), uno a tinte fosche, l’altro rosee, il negativo e il
positivo di uno stesso procedimento del discorso, l’avvicendarsi su
di una medesima scena di personaggi diversi che fanno corte al
medesimo protagonista, regista, annunciatore: Amore.
Insomma, del cap. 23 della Vita Nova, la sostanza; la struttura
formale del 24, senza soluzione di continuità riassunte,
concentrate, o, per meglio dire, implose nella rima sparsa Un dì si
venne. E, per di più, è come se fosse, dalla sua postazione
vitanovistica, lo stesso Io mi senti’ svegliar a chiamare in causa
il suo sonetto ‘gemello’, a reclamarlo accanto a sé, anzi,
precisamente avanti a sé, prima di sé. Infatti, al verso 4 si
individua una sorta di traccia –diciamo così, ‘realistica’- di una
vicinanza primigenia, o almeno di una primogenitura di Un dì si
venne: «vidi venir da lungi Amore / allegro sì, che appena il
conoscia». Amore si avvicina per la via, immaginiamo, come Lisetta,
baldanzosamente, con sembianza lieta, tanto che Dante stenta a
riconoscerlo. Ipotizziamo per un attimo che potendone
provvisoriamente sostituire non certo il peso, l’estensione e
l’importanza, ma la funzione diegetica sì, Un dì si venne a me
Malinconia venga collocato al posto dell’intero capitolo 23: ne
risulterebbe ben più cogente l’irriconoscibilità di un amore
allegro, avendolo appena lasciato, solo una carta avanti,
luttuosamente
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addobbato, misero, pieno di guai e pensieri, e, soprattutto,
piangente: «e certo lacrimava pur di vero». Amore, è chiaro, non
era mai stato particolarmente lieto, fin qui, nella Vita Nova: ma
in Io mi senti’ svegliar si parla di una quasi irriconoscibilità,
se confrontato con un ‘prima’ che Un dì si venne attualizzerebbe al
meglio. Ricordiamo che lì Amore, incontrato guardando, e non
presente nel cuore, come, poniamo, nella canzone Donna pietosa, e
cioè volutamente personificato, aveva un cappello, un cappuccio in
testa, altro segno di lutto, come indica il commento
Barbi-Maggini27, aveva un drappo nero addosso che lo rivestiva di
novo, cioè, leggerei, innovativamente, stranamente. Difficile
credere ai propri occhi, capacitarsi di un simile cambiamento
improvvisamente incontrandolo che ’n ciascuna parola sua ridia…
Insomma, affrontando i due sonetti, non solo avremmo una sorta di
retractatio affatto simmetrica, speculare, ma, come si dice per i
canzonieri e adattandolo ai numeri, l’insieme della coppia varrebbe
molto di più della mera somma dei due singoli individui: Io mi
senti’ svegliar dentro a lo core mi pare che acquisirebbe un di più
di significato, di significatività nel disegno complessivo del
libro.
Perseverando ancora in questa ipotetica, asteriscata sequenza Un
dì si venne-Io mi senti’ svegliar di un percorso vitanovistico
indebitamente deprivato della sua canzone, come è stato detto,
portante,28 e voltando ancora pagina, si giunge al capitolo 25.
Capitolo di teoria della letteratura e di interpretazioni di
allegorie generato, dice Dante, per tutta la vasta portata dei suoi
contenuti, dal sonetto del cap. 24. Ma qual è la spinta a tali
riflessioni sulle personificazioni in poesia? Perché proprio a
questo punto Dante si acconcia a dare una spiegazione la cui
necessità era stata finora rinviata? È pretestuoso o sostanziale
l’appicco a I’ mi senti’ svegliar?
Così esordisce il capitolo venticinquesimo: Potrebbe qui
dubitare persona degna da dichiararle onne
dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò, che io dico d’Amore
come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia
intelligente, ma sì come fosse sustanzia corporale […] E che io
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dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo,
appare per tre cose che io dico di lui. Dico che lo vidi venire;
onde, con ciò sia cosa che venire dica moto locale, e localmente
mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che
io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, e anche
che parlava; le quali cose paiono essere propie dell’uomo, e
spezialmente essere risibile; e però appare ch’io ponga lui essere
uomo.
Le caratteristiche che individuano Amore in quanto uomo o
persona sono il movimento, il riso, la parola. I casi che di
seguito Dante fa di prosopopee tratte dai testi classici a
rivendicare il diritto dei poeti volgari ad usare di «alcuna figura
o colore rettorico» mostrano cose inanimate che fra loro parlano,
cose inanimate che si rivolgono ad animate, animate ad inanimate:
tutto ciò è legittimo anche nella poesia volgare purché sia detto
«con ragione la quale poi sia possibile d’aprire per prosa».
Doppiamente pertinente sarebbe stata la disquisizione in
presenza della coppia di sonetti ipotizzata: il moto da luogo che
caratterizza Amore, il fatto che parli sono presenti anche in Un dì
si venne; in più, avrebbe consentito di sottolineare l’altra
caratteristica attribuita ad Amore e che è, come il riso, esclusiva
dell’uomo di contro agli altri animali, quella del pianto («e certo
lacrimava pur di vero»).
La digressione è per intero relativa alla poesia in senso
proprio, ai versi29: e parte dall’istanza di giustificare «li
poete» che «hanno parlato alle cose inanimate, sì come se avessero
senso e ragione». E tutto quanto è voluto far dipendere
dall’interpretazione del sonetto Io mi senti’… Ma, a ben vedere,
non è certo in quel sonetto che si dà l’esempio del poeta che parla
alla cosa inanimata, quando invece vi è unicamente presente Amore
che si rivolge al poeta: il sonetto del capitolo 24 illustra dunque
il solo caso dell’inanimato (Amore) che si rivolge ad animato
(Dante).
Che cosa ha in mente Dante, quale luogo della sua poesia in cui
si dia l’evenienza affrontata in sede teorica? Forse la ballata
del
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capitolo 12, Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore, testo tutto
di parole fin dall’incipit dette alle proprie parole –ma è certo un
caso assai particolare, e non contemplato dal catalogo degli esempi
classici presi in esame nella discussione teorica, tanto che alla
fine della divisione della ballata Dante ne dichiara la
peculiarità, rinviando per la soluzione delle oscurità «in questo
libello ancora in parte più dubbiosa» («Potrebbe già l’uomo opporre
contra me e dicere che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in
seconda persona, però che la ballata non è altro che queste parole
ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere
e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa» 12,
17). Ma è forse ‘più dubbioso’ della ballata, il sonetto Io mi
senti’ svegliar? Direi proprio di no: presenta infatti una
situazione assai diffusa nel libro, e cioè appunto quella in cui
Amore parla al suo fedele. Talmente diffusa che non merita di darne
esempio. Cercheremmo invece inutilmente nella Vita Nova volendo
dare esempio dell’inverso vettore nella locuzione, non
verificandosi mai nelle rime che Dante si rivolga ad Amore.
L’essere animato, l’uomo personaggio Dante che è anche il poeta che
dev’essere, se non preventivamente difeso, almeno teoricamente
sostenuto nelle sue scelte retoriche dal capitolo venticinquesimo,
non si rivolge mai ad Amore nei testi poetici della Vita Nova (e
solo una volta gli parla nella prosa, e in sonno – sempre nel cap.
1230).
Il primo caso ipotizzato nel capitolo 25 e sostenuto con esempi
virgiliani è quello di esseri inanimati che dialogano fra di loro:
nemmeno questo è mai contemplato nei testi poetici del libro. Dove
dunque dovrebbe essere il luogo testuale tanto dubbioso cui rimanda
la fine del capitolo dodicesimo e che il venticinquesimo poi
interpreta?
Forse in un ‘non luogo’ della Vita Nova, così come la
conosciamo, che dovrebbe essere però compreso fra il capitolo
dodicesimo e il venticinquesimo, ‘non luogo’ che potrebbe
corrispondere al nostro Un dì si venne? Proprio questo sonetto,
guardacaso, presenta riunite le due evenienze in cui esseri animati
si rivolgono ad inanimati –il soggetto a Malinconia («Ed io le
dissi:
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“Pàrtiti, va’ via”») e ad Amore («Ed io li dissi: “Che hai tu,
cattivello?”»)- e viceversa, inanimati ad animati: Malinconia («Un
dì si venne a me Malinconia / e disse: “I’ voglio un poco star con
teco”») e Amore al soggetto («E lui rispose…»), in un susseguirsi
di battute dialogiche affatto inusitato. In più, non dialogano
esplicitamente, ma stanno e si muovono in compagnia fra di loro
esseri inanimati personificati e rappresentati con comportamenti,
se non sentimenti, affatto umani: «Un dì si venne a me Malinconia
/…/ e parve a me che la menasse seco / Dolore e Ira per suo
compagnia». Il moto da luogo coinvolge tutti, non solo Malinconia,
tutti sono resi persone: e dunque, sebbene imperfettamente (ma a
che pro ricercare la compagnia d’altri, se non per conversare?),
anche questo più dubbioso caso –inanimato con inanimato - vi
compare. Le tre tipologie – una delle quali totalmente assente,
l’altra rappresentata una sola volta nella Vita Nova, nel cap. 12
che viene automaticamente escluso dalle considerazioni dello stesso
Dante, tipologie comunque mancanti nel sonetto del capitolo 24,
tutte e tre raccolte – e, per i primi due casi, con doppia
presenza!- nel breve giro dei 14 versi di questo sonetto.
Non credo si possa con tutto questo proporre illazioni concrete
sul rapporto intercorrente fra Un dì si venne e la formazione della
Vita Nova, illazioni che, temo, inevitabilmente correrebbero il
rischio di appartenere all’ambito della fantafilologia; sebbene mi
pare ben si sposerebbero con le ipotesi che ripetutamente sono
state fatte intorno alla genesi affatto parallela di prosa e
canzone del capitolo ventitreesimo, intorno all’essere la canzone
un tutt’uno con la sua prosa, senza scollamento cronologico e,
anche perché contemporanee, essere, in particolare, scritte
appositamente per il libro della Vita Nova. D’altra parte, se le
rime (o alcune delle rime) erano prima del libro, id est prima
delle prose, un loro allineamento, oltre che la selezione dal
carnet disponibile, una loro seriazione, una loro messa in ordine
pure preesistette all’Incipit Vita Nova: insomma, una volta
trascelte, Dante le avrà pur messe in fila, ovvero il contrario, le
avrà selezionate sulla base appunto, se non già di una linea
narrativa, di una loro consecuzione plausibile. Nella sua mente
oppure sul suo tavolo, rime
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ancora non legate epperò non più sparse, certo l’una avrà
preceduto l’altra: che so, ad esempio, A ciascun’alma sarà certo
venuta prima di Morte villana… Ebbene, l’ipotesi che un momento
precedente il ne varietur d’autore, o almeno il momento della
selezione dei testi che andranno a costituire il romanzo potesse
annoverare piuttosto Un dì si venne a me Maliconia che la canzone
Donna pietosa e di novella etate verrebbe a corroborare le
convergenti interpretazioni di De Robertis e Baldelli31: perché in
una fase molto vicina alla stesura ultima il sonetto poi scartato
non poteva più soddisfare alle esigenze del libro che erano venute
via via crescendo, ben altro era il peso da attribuire a quel
passaggio profetico, grande invenzione narrativa che rimarrà tappa
insostituibile di ogni canzoniere d’amore e morte.
Voglio perciò di nuovo sottolineare l’ammicco del solare sonetto
accolto -«allegro sì, che appena il conoscia…» -, accettato nel
regno esclusivo del racconto, a quel fratello cupo, in parte
irrisolto, certo dubbioso «ma non sanza ragione alcuna».
Probabilmente scartato anche perché colpevole di una densità e di
un’oscurità conformi alla nigredo cui è intitolato, e che proprio
col suo incipit sa però dare un nome a più solenni e controllati
dispiegamenti di sintomi. Nella speranza di avere in qualche misura
«denudate le sue parole», col riavvicinargli quelle prose forse da
lui stesso ispirate e di cui non venne poi ritenuto degno, ma
grazie alle quali «sia –tuttavia- possibile d’aprire» anche le sue
ragioni.
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NOTE 1 Così D. De Robertis, nel suo commento ad locum di Dante
Alighieri, Vita nuova, in D. A., Opere minori, t. I, p. I, a cura
di D. De Robertis e G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984, da
cui anche, per comodità, si trae il testo dantesco (ed. Barbi);
sempre presente, per il nuovo titolo del libello e per il commento,
l’ed. a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996. 2 Si veda il
volume del Lessico Intellettuale Europeo dedicato a
Phantasia-Imaginatio. Atti del V° Colloquio Internazionale, Roma,
9-11 gennaio 1986, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1988, in part. i
saggi di R. Busa (De phantasia et imaginatione iuxta S. Thomam, pp.
135-52) e di J. Hamesse (Imaginatio et phantasia chez les auteurs
philosophiques du 12e et du 13e siècle, pp. 153-184: la cit. dal De
Beauvais a p. 172); da ricordare anche M.D. Chenu, Imaginatio. Note
de lexicographie médiévale [1946], in Id., Studi di lessicografia
filosofica medievale, a c. di G. Spinosa, Firenze, Olschki, 2001,
pp. 127-36. 3 Sottolinea la natura tecnicistico-medica di tali
termini I. Baldelli, Visione, immaginazione e fantasia nella Vita
nuova, in I sogni nel Medioevo. Seminario internazionale, Roma, 2-4
ottobre 1983, a c. di T. Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985,
pp. 1-10; poi, più circostanziatamente quanto a farneticare, P.
Bertini Malgarini, Linguaggio medico e anatomico nelle opere di
Dante, in «Studi Danteschi» LXI (1989), pp. 29-107, p. 50 4 Molto
si è discusso intorno alla qualità delle immaginazioni della Vita
Nova, si trattasse di sogni ovvero di visioni in stato di veglia:
oltre al già citato studio di Baldelli, si veda D.S. Cervigni,
Dante’s Poetry of Dreams, Firenze, Olschki, 1986, part. pp. 39-70:
già per Aristotele è tuttavia «chiaro … che la facoltà che produce
in noi nello stato di veglia le illusioni quando siamo malati è la
stessa a produrre durante il sonno l’impressione del sogno» (De
insomniis 458b), poi, secondo il trattato di Boezio di Dacia, De
somniis, la qualità e il procedimento che portano alla creazione di
immagini non differiscono affatto, si tratti di sogni veri e propri
ovvero di deliri indotti dalla malattia: ma di questo più oltre. 5
Il testo del De somniis (in Boethii Daci Opera. Topica-Opuscula,
vol. VI, p. II, a c. di N.G. Green-Pedersen, Haun, G.E.C-Gad, 1976,
pp. 381-91: (le citt. alle pp. 388-89) si può leggere anche in
traduzione italiana: Boezio di Dacia, Sui sogni, a c di M.
Sannelli, Genova, il melangolo, 1997. Quanto alla spècificità
scientifica di tale trattatello, si veda G. Fioravanti, La
"scientia somnialis" di Boezio di Dacia, in «Atti della Accademia
delle Scienze di Torino. II» 101 (1966-67), pp. 329-69;
sull’influenza del Boezio linguista sulla struttura stessa del De
Vulgari e in genere
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sul pensiero dantesco ha particolarmente insistito M. Corti,
Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Le Lettere, 1982. 6 Cfr. De
insomniis 461a; De divinatione per somnum 463b, 464a. 7 Il testo
(parziale) dei problemi e del trattatello aristotelico in Davidis
de Dinanto Quaternulorum fragmenta, ed. Marian Kurdziałek, in
«Studia Mediewistyczne» 3, 1963 (Warszawa), pp. IV-LX, 1-108, p. 7.
8 Si vedano i miei 'De Guidone de Cavalcantibus physico' (con una
noterella su Giacomo da Lentini ottico), in Per Domenico De
Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, Firenze, Le
Lettere, 2000, pp. 459-508 e Fisiologia dell’amore doloroso in
Cavalcanti e in Dante: fonti mediche ed enciclopediche, in c.d.s.
in «Donna me prega»: Guido Cavalcanti e le origini della poesia
europea (Atti del Convegno di Barcellona 16-20 ottobre 2001), a c.
di R. Arqués, Alessandria, Ed. dell'Orso, 2003. 9 Constantini
Africani Medici De Melancholia libri duo, a cura di K. Garbers,
Hamburg, Buske, 1977; la cit. a p. 120. 10 Gerardi de Solo
Commentum super nonum Almansoris…, Venetiis, per Bonetum
Locatellum, 1505, cap. XIII, De melancolia, f. 31v. 11 Lo cito
dalla ristampa Minerva di Frankfurt a. M., 1964: Bartholomaei
Anglici De genuinis rerum coelestium, terrestrium et inferarum
proprietatibus, Libri XVIII… cui accessit liber XIX De variarum
rerum accidentibus, Francofurti, per Wolfgangum Richterum, 1601, p.
113. 12 Arnaldo da Villanova, De parte operativa in Arnaldi de
Villanova medici acutissimi Opera nuperrime revisa, Huyon, Lugduni,
1520, ai ff. 123-130. 13 Liber Canonis Avicenne, ristampa
anastatica Olms, Hildesheim, 1964 dell'edizione di Venezia,
Paganino de' Paganini, 1507, f. 188v. 14 Il capitolo sulla
malinconia è edito da G. Ghinassi, Nuovi studi sul volgare
mantovano di Vivaldo Belcalzer, in «Studi di Filologia Italiana»
XXIII (1965), pp. 19-172 (testo pp. 163-72: il Capitol de la
melanconia alle pp. 165-68). 15 In Gerardi de Solo…cit, f. 31v. 16
Si veda la nota di Gorni a «fantasia» nella sua ed. cit., p. 125.
17 Lo stesso, come noto, avverrà nella ‘narrazione’ petrarchesca
dei Rvf, dove, ad una premonizione di morte di Laura (dovuta a
sogni e visioni) seguono testi ‘svianti’ di vario argomento poi
l’annuncio dell’effettiva e avvenuta morte di lei: per una lettura
dei sonetti della premonizione in chiave dantesco-malinconica vedi
il mio Fisiologia e patologia nel Canzoniere, in c.d.s. in Petrarca
e la medicina, Atti del convegno di Messina-Capo d’Orlando, 27-28
giugno 2003.
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18 Il rinvio d’obbligo è all’ancor oggi insostituito R.
Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, trad. it.
Torino, Einaudi, 1983. 19 Che peraltro continua: «et non solum
vera, ymo etiam et non vera» (ed. cit., p. 7). 20 Da Gerardi de
Solo…cit., c. 31v. 21 Per l’interpretazione di questo testo delle
Rime, rinvio al mio Fisiololgia…cit. 22 Si veda la bella relazione
tenuta da Andrea Afribo (A rebours. Il Duecento visto dalla rima)
nell’ambito del convegno su Guido Guinizelli (Padova-Monselice) del
maggio 2002, e ora in corso di stampa. 23 Ha per primo posto
attenzione a tali modalità sintattiche della narrazione che
avvicinano Fiore a Vita Nova (e poi a Commedia) Domenico De
Robertis, Il libro della “Vita nuova”, Firenze, Sansoni, 1961, poi,
accresciuta, 1970, ridiscutendoli in La traccia del “Fiore” [1997],
in Id., Dal primo all’ultimo Dante, Firenze, Le Lettere, 2001, pp.
47-62, part. 49-52. 24 Da segnalare, nel capitolo 35, il solo
«volsi li occhi, e vidi» (par. 1). 25 In verità, cinque volte
occorre nel cap. 24 e una nel cap. 25 proprio là dove viene citato
il capitolo precedente («Dico che lo [Amore] vidi venire», par. 2):
il che mi pare valga da conferma. 26 Si veda D. De Robertis, La
forma dell’evento: una (quasi) datazione dantesca [1981], in Id.,
Dal primo all’ultimo Dante cit., pp. 91-102; le citt. dei sonetti
da Dante Alighieri, Rime, a c. di D. De Robertis, Firenze, Le
Lettere, 2002. 27 In Dante Alighieri, Rime della «Vita Nuova» e
della giovinezza, a c. di M. Barbi e F. Maggini, Firenze, Le
Monnier, 1956, pp. 273-74. 28 Da ricordare l’interpretazione datane
da Singleton e poi sempre via via confermata dalla critica: Ch.S.
Singleton, Saggio sulla «Vita nuova» [1949], Bologna, il Mulino,
1979, pp. 28-38. 29 Si poneva domande simili alle mie, in
particolare relativamente al rapporto fra giustificazione teorica
del capitolo 25 e le prose del libello, Corrado Calenda, Memoria e
autobiografia nella Vita Nuova, in «Quaderni di retorica e poetica»
2, 1 (1986), pp. 47-53. 30 Parole rivolte direttamente ad esseri
inanimati personificati sono le sole invocazioni alla morte. 31
Ampia la bibliografia relativa alla canzone, al nodo del suo
rapporto con la prosa che l’accompagna e, conseguentemente, con il
libro in fieri: a partire dal Libro della «Vita Nuova» di De
Robertis (cit., pp. 152-56) ha corso l’ipotesi sopra accennata, che
poi Ignazio Baldelli ha corroborato nei paragrafi 30-32 del suo
Lingua e stile delle opere in volgare di Dante, in Enciclopedia
Dantesca, Appendice, Roma, 1978, pp. 81-83; la
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riprende per estenderla ad altri testi R. Leporatti, Ipotesi
sulla «Vita Nuova» (con una postilla sul «Convivio»), in «Studi
Italiani» 7 (1992), pp. 5-36 e da ultimo, con significative
obiezioni, M. Santagata, Donne pietose, in Id., Amate e amanti.
Figure della lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna, il
Mulino, 1999, pp. 113-139, il quale pure ipotizza che Un dì si
venne a me Malinconia «potrebbe essere il primo abbozzo dell’idea
della canzone» (p. 128), poi unico componimento in morte scartato
in quanto privo di una serie di elementi («a partire dal nome»)
individuati come decisivi (in Il lutto del poeta, ivi, p. 81).