Top Banner
1 STEFANO LUCARELLI CORSO DI ETICA E POLITICA ECONOMICA DUMCI A.A. 2019-2020 APPUNTI DI ETICA E POLITICA ECONOMICA SECONDA PARTE The problem of maintaining equilibrium in the balance of payments between countries has never been solved, since methods of barter gave way to the use of money and bills of exchange. […] [T]he failure to solve this problem has been a major cause of impoverishment and social discontent and even of wars and revolutions J. M. Keynes, ‘Post‐war currency policy’ [8 September 1941], in The Collected Writings of John Maynard Keynes, 1971–89. London and Cambridge: Macmillan and Cambridge University Press [henceforth CWK], vol. 25, p. 21.
31

STEFANO LUCARELLI - UniBg di Etica... · 2019. 11. 18. · 1 STEFANO LUCARELLI CORSO DI ETICA E POLITICA ECONOMICA DUMCI A.A. 2019-2020 APPUNTI DI ETICA E POLITICA ECONOMICA SECONDA

Oct 20, 2020

Download

Documents

dariahiddleston
Welcome message from author
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
  • 1

    STEFANO LUCARELLI

    CORSO DI ETICA E POLITICA ECONOMICA

    DUMCI A.A. 2019-2020

    APPUNTI DI ETICA E POLITICA ECONOMICA

    SECONDA PARTE

    The problem of maintaining equilibrium in the balance of payments between countries has never been solved, since methods of barter gave way to the use of money and bills of exchange. […] [T]he failure to solve this problem has been a major cause of impoverishment and social discontent and even of wars and revolutions J. M. Keynes, ‘Post‐war currency policy’ [8 September 1941], in The Collected Writings of John Maynard Keynes, 1971–89. London and Cambridge: Macmillan and Cambridge University Press [henceforth CWK], vol. 25, p. 21.

  • 2

    ASCESA E DECLINO DEL KEYNESISMO1

    La politica economica e la politica economica dopo Keynes, dipendono moltissimo dalla struttura teorica

    di riferimento:

    nel corso della storia che va dal dopo-guerra sino ai nostri giorni, la politica economica dipenderà

    sempre di più dalla possibilità di verificare empiricamente le relazioni ipotizzate dalle teorie

    economiche.

    Almeno fino a tutti gli anni ‘60 compresi, la maggior parte del dibattito di politica economica è giocato

    su un’analisi di carattere logico-matematico

    Il Keynes del 1936, e tutta la scuola di Cambridge almeno fino agli anni ’70, innova l’analisi tradizionale

    sostenendo che le variabili da cui dipende la funzione del risparmio e le variabili da cui dipende la

    funzione di investimento sono variabili diverse tra di loro:

    i risparmi dipendono dal reddito ma gli investimenti, oltre che dal tasso d’interesse monetario di breve

    periodo, fissato dalla Banca Centrale (prima indirettamente attraverso la fissazione della quantità

    offerta di moneta, poi direttamente), dipendono anche dalle aspettative. Quindi il policy maker non può

    più pensare di agire su un’unica variabile per riportare l’equilibrio, ma deve fare cose diverse:

    le politiche monetarie espansive potrebbero fallire in caso di trappola della liquidità e allora bisognerà

    agire sulle aspettative attraverso la domanda effettiva. Si dovrà quindi intervenire sulle politiche fiscali

    e in particolare sulla spesa pubblica.

    Nelle democrazie occidentali, l’istituzione che decide come utilizzare le risorse pubbliche, e come

    reperirle è il Ministro del Tesoro insieme al Parlamento. Le coperture possono essere trovate

    innanzitutto attraverso il gettito fiscale oppure, a gettito fiscale invariato, spostando l’allocazione delle

    poste di bilancio.

    Keynes nella General Theory aveva posto l’attenzione su uno strumento: il moltiplicatore. Se ipotizziamo

    che ciascun settore industriale abbia un proprio moltiplicatore keynesiano, converrà assegnare

    maggiori risorse ai quei settori che sono a monte della catena del valore e che hanno effetti moltiplicativi

    maggiori sul reddito dell’intero sistema. Se si spostano risorse da spese improduttive a spese produttive,

    si dovrebbe riuscire ad avere risorse maggiori per poter impiegare la spesa pubblica in modo efficace,

    ossia in modo tale da migliorare le aspettative dal punto di vista degli imprenditori stessi.

    L’ultima alternativa, che per Keynes è l’ultima spiaggia, è il deficit spending. La politica keynesiana, per

    come descritta da Keynes, non è una politica che normalmente ricorre alla spesa in deficit, ma ricorre

    1 Questi appunti devono molto all’attenzione e alla cura di Tommaso Bonnici e Silvia Monaci. Si basano infatti su una prima stesura da loro redatta nel II semestre 2018-2019 durante le mie lezioni di Politica Economica (corso di laurea triennale in Economia). Sono poi intervenuto con personali integrazioni e precisazioni (Stefano Lucarelli).

  • 3

    ad essa solo in fasi del ciclo economico caratterizzate da una profonda depressione, per poi stoppare il

    deficit in fasi caratterizzate da un ciclo economico ascendente.

    Tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 si assiste ad un netto miglioramento delle statistiche nazionali, soprattutto

    negli USA. Gli istituti di statistica nazionali iniziano a raccogliere molti più dati. Iniziano ad esserci i primi

    lavori volti a giustificare proprio le forme funzionali ipotizzate da Keynes e dai suoi allievi. Il dibattito è

    tale per cui alcuni economisti, in particolar modo Jhon Hicks, Alvin Hansen, Franco Modigliani e Milton

    Friedman, tendono a convergere sull’idea che sia gli investimenti che i risparmi dipendano dal tasso di

    interesse e dal reddito. Se entrambe le due funzioni possono dipendere dalle stesse variabiliallora il

    quadro teorico su cui esercitare le riflessioni degli economisti può essere rappresentato dal modello IS-

    LM. Si tratta di ciò che passerà alla storia come sintesi neoclassica la quale riconduce una teoria generale,

    quella di Keynes, a un caso particolare del modello di EEG. Keynes viene quindi ridotto al caso della

    trappola della liquidità.

    Il modello IS-LM e la politica economica

    Come ricavare la posizione e la pendenza della curva IS e della curva LM nel piano?

    Il modello teorico prevede una serie di equazioni che devono essere svolte per passare dalla forma

    strutturale alla forma ridotta del modello: oltre alle classiche funzioni keynesiane che definiscono

    consumi, investimenti e reddito complessivo, si definiscono la domanda di moneta reale e l’offerta di

    moneta reale:

    𝑀𝐷𝑃= 𝐿 = 𝑒𝑌 − 𝑓𝑖 𝑀𝑆 =

    𝑀

    𝑃

    La domanda di moneta reale viene fatta dipendere dal reddito con segno positivo e dal tasso di interesse

    con segno negativo. Ricordiamo che l’offerta di moneta reale, nel modello keynesiano, è fissata dalla

    Banca Centrale. Oltre a queste due funzioni introduciamo anche la condizione di equilibrio:

    𝑀𝐷 = 𝑀𝑆

    Per passare alla forma ridotta del modello risolviamo il sistema e facendo tutte le sostituzioni del caso

    si trova una funzione che specifica il reddito 𝑌 e una funzione che esprime invece il tasso di interesse 𝑖

    in dipendenza di 𝑌 e dell’offerta di moneta in termini reali. Si tratta proprio delle relazioni che

    definiscono le curve IS e LM:

    {

    𝑌 =𝐶0 + 𝐼0 + 𝐺 − 𝑑𝑖

    1 − 𝑐

    𝑖 =𝑒

    𝑓𝑌 −

    1

    𝑓

    𝑀

    𝑃

  • 4

    Per risolvere questo modello dobbiamo ottenere sia il valore di 𝑌 che il valore di 𝑖, pertanto la forma

    ridotta del modello sarà quella in cui abbiamo espresso 𝑌 sostituendo il valore di 𝑖 nella prima

    equazione. Una volta ottenuto 𝑌 lo sostituiamo invece nella seconda equazione.

    Le due variabili obiettivo 𝑌 e 𝑖 sono funzioni delle variabili esogene (e fra queste vi sono gli strumenti di

    politica economica): la spesa pubblica 𝐺, l’offerta di moneta 𝑀, il livello dei prezzi 𝑃 e le due grandezze

    incomprimibili 𝐶0 e 𝐼0. Oltre a queste grandezze sono poi presenti dei parametri che è possibile stimare

    (c, d, e, f).

    Se riscriviamo l’equazione che risolve il problema in 𝑌 chiamando 𝐴0 la somma dei consumi e degli

    investimenti incomprimibili, definendo

    𝛼 =1

    (1 − 𝑐) +𝑒𝑑𝑓

    𝑒 𝛽 =1

    (1 − 𝑐)𝑓

    𝑑 + 𝑒

    otteniamo un’equazione immediatamente interpretabile in termini di politica economica:

    𝑌 = 𝛼(𝐴0 + 𝐺) + 𝛽 (𝑀

    𝑃)

    Questa equazione ci dice che gli strumenti che il policy maker ha a disposizione sono la spesa pubblica e

    l’offerta di moneta.

    I modi attraverso i quali questi due valori si trasmettono sulla variabile obiettivo sono sintetizzati da

    due coefficienti:

    1. 𝛼, il moltiplicatore della politica fiscale, che mi dice come le manovre di spesa pubblica si

    trasmettono sul reddito.

    2. 𝛽, il moltiplicatore della politica monetaria, che mi dice come le manovre di politica monetaria

    si trasmettono sul reddito.

    Da cosa dipendono 𝛼 e 𝛽? Innanzitutto dipendono dalla propensione marginale al consumo (c): una

    variabile di carattere psicologico, stimabile ma pur sempre dipendente dal modo di pensare degli agenti

    economici. Per sapere cosa sono 𝑒, 𝑑 e 𝑓 dobbiamo ritornare al modello espresso in forma strutturale. 𝑑

    è la propensione marginale ad investire, che ha a che fare con i mutamenti delle aspettative degli

    imprenditori successive alle variazioni del tasso di interesse. 𝑒 ed 𝑓 sono invece i coefficienti che

    spiegano la quota di domanda di moneta per scopi transattivi e scopi speculativi.

    Questo modello è condizionato da un’ipotesi restrittiva in particolare:

    i prezzi sono considerati fissi.

    In generale l’andamento delle due curve è simmetrico: la IS dovrebbe

    avere una forma decrescente all’aumentare del reddito, tale per cui a

    riduzione del tasso di interesse il reddito aumenta sul mercato reale.

    In un mondo non affetto dalla trappola di liquidità, gli investimenti

    reagiscono infatti al tasso di interesse secondo una relazione inversa:

  • 5

    la diminuzione del tasso di interesse fa aumentare gli investimenti. La relazione tra tasso di interesse e

    reddito nella LM presuppone invece un andamento crescente della LM: ciò significa che un incremento

    del tasso d’interesse produce un incremento del redito monetario.

    Il tipo di analisi condotta rappresenta una situazione che lascia alla stima dei coefficienti, in particolar

    modo di 1 − 𝑐, 𝑑,𝑒

    𝑓, il compito di comprendere se ci troviamo in un caso keynesiano oppure in un caso

    (neo)classico.

    1° caso keynesiano estremo

    In questo caso la curva IS è decrescente mentre la LM è orizzontale.

    Pertanto il coefficiente riferito al tasso di interesse (𝑒

    𝑓) è nullo: 𝑒

    vale 0 oppure 𝑓 tende all’infinito. Una politica fiscale espansiva

    genera allora uno spostamento della curva IS verso destra. Il tasso

    d’interesse non aumenta e quindi non trasmette i suoi effetti al

    reddito. In questo caso l’unica politica economica efficace è

    proprio quella fiscale. Grazie alle politiche fiscali attuate si riesce

    ad uscire dalla crisi e di conseguenza anche dalla trappola di liquidità: il tasso d’interesse torna quindi

    a cresce al crescere del reddito e quindi la LM torna ad avere la classica forma crescente. Nel nostro caso,

    dopo il punto 𝑌∗, continuando a fare una politica fiscale espansiva si ha un aumento del tasso di interesse

    monetario perché quando il reddito cresce la domanda di liquidità per scopi transattivi aumenta, mentre

    l’offerta di moneta rimane costante. Visto che il prezzo della moneta è rappresentato dal tasso di

    interesse monetario, il tasso di interesse inizia a crescere. Dal punto di vista degli imprenditori ciò

    comporta la presenza dell’effetto di spiazzamento: l’aumento della spesa pubblica da un lato migliora le

    aspettative degli operatori e ne aumenta la propensione a investire, ma dall’altro, spingendo in alto il

    tasso di interesse, dopo un certo livello del reddito complessivo (Y*), può ridurre gli investimenti privati.

    Questo argomento viene introdotto da Milton Friedman (economista di punta della così detta scuola

    monetarista di Chicago) per sostenere come la politica fiscale espansiva possa essere dannosa.

    1° caso monetarista estremo

    Il punto di vista dei monetaristi sulla forma della curva LM nel lungo

    periodo è dato dal grafico qui riportato, dove 𝑌 è al livello

    corrispondente al tasso naturale di disoccupazione, cioè al reddito di

    pieno impiego. Quando la curva LM è verticale e viene attuata una

    politica fiscale espansiva la curva IS sale e quindi si ha spiazzamento

    completo: la politica fiscale diviene addirittura dannosa per il sistema

    e viene pagata dalla società in termini di peggiori condizioni di

    finanziamento causate dall’incremento del tasso di interesse

    monetario.

  • 6

    Nel caso keynesiano, in cui la curva LM è orizzontale, la politica fiscale ha efficacia piena mentre la

    politica monetaria non ha efficacia in quanto l’abbassamento del tasso di interesse non fa reagire in

    alcun modo la curva IS. Nel caso monetarista invece, in cui la curva LM viene rappresentata come

    verticale, la politica monetaria espansiva è efficace perché provoca un chiaro aumento del reddito.

    Quello che ci si chiede è se, trovandosi in una situazione di reddito di pieno impiego, l’incremento della

    moneta in circolazione, che sposta la LM, possa creare le condizioni perché il livello del reddito aumenti

    ulteriormente. Friedman si rende conto che la politica monetaria espansiva può essere in grado di agire

    sul tasso di disoccupazione naturale del sistema mettendo in moto dei meccanismi strutturali sorretti

    dal progresso tecnologico, ma l’indicazione di politica economica presente nei suoi insegnamenti è

    quello di sostenere che la politica monetaria deve innanzitutto evitare situazioni di espansione poco

    controllata. Di conseguenza la Banca Centrale deve controllare l’offerta di moneta e il tasso di crescita

    di questa, assegnandosi un obiettivo: un tasso di crescita dell’offerta di moneta compatibile con il livello

    di disoccupazione “naturale”.

    2° caso keynesiano estremo

    Vediamo adesso che cosa succede alla curva IS nel momento in cui le

    variazioni del tasso di interesse non si riflettono sul reddito.

    𝐸𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐼𝑆: 𝑌 =𝐶𝑜 + 𝐼𝑜

    1 − 𝑐+

    𝐺

    1 − 𝑐−

    𝑑𝑖

    1 − 𝑐

    Se la curva IS è una retta verticale vi sono due possibilità: o 𝑑 vale zero,

    quindi le variazioni del tasso di interesse non si trasmettono sugli

    investimenti, oppure 1 − 𝑐 tende all’infinito, cioè la propensione

    marginale al consumo è molto grande e crea una situazione in cui le scelte d’investimento non

    considerano il tasso di interesse. La politica monetaria espansiva in questo caso non è efficace perché

    gli spostamenti a destra della LM comportano un’assenza di reazione del reddito. Quindi la politica

    economica efficace è solamente quella fiscale espansiva, la quale agisce direttamente sulla curva IS,

    creando una situazione che però è caratterizzata da un leggero spiazzamento degli investimenti dovuto

    dall’aumento del tasso di interesse. L’effetto di spiazzamento è minore quanto più è piatta la curva LM.

    La sfida tra la scuola di Chicago (di stampo neoclassico) e la scuola del MIT di Boston (keynesiana)

    comporta che gli uffici statistici di Chicago tendano ad utilizzare delle tecniche di stima volte a

    dimostrare che la curva LM sia verticale, mentre gli istituti statistici del MIT tendano a specializzarsi su

    tecniche econometriche che sostengono che la curva LM non sia verticale ma solo leggermente inclinata.

  • 7

    La variabilità dei prezzi e il modello AS-AD

    Abbiamo già detto che il modello IS-LM si basa in

    particolare su un’ipotesi che dovrebbe essere

    indebolita: l’idea che i prezzi siano fissi.

    Consideriamo infatti il grafico qui riportato, dove si

    considera il tasso di crescita dei prezzi (tasso di

    inflazione) negli USA. Nel periodo storico cerchiato,

    tra il 1950 e 1971, vediamo che l’inflazione rimane

    stabile. Negli interessi degli economisti di quegli anni il problema dell’inflazione appariva trascurabile.

    Dal 1971 in poi si verifica le cose cambiano: iniziano gli anni della stagflazione (stagnazione e inflazione

    insieme), il livello dei prezzi aumenta eppure non si registrano crescite del PIL. È proprio in questo

    periodo che i monetaristi diventano più ascoltati dai policy maker.

    Il modello AS-AD viene rappresentato su un piano cartesiano in cui non si mettono più in relazione il

    tasso di interesse e il reddito, bensì i prezzi e il reddito.

    La curva AD è una curva di domanda aggregata che viene

    rappresentata a partire dal modello IS-LM. Per capire la sua forma

    vediamo cosa accade nel modello IS-LM quando variano i prezzi. In

    seguito ad un calo dei prezzi, innanzitutto aumenta il potere di

    acquisto e, in termini reali, 𝑀

    𝑃 aumenta. Poiché aumenta l’offerta di

    moneta, la LM si sposta verso destra, determinando un aumento

    del reddito. Quindi, se si supera l’ipotesi di rigidità del livello dei prezzi nel modello IS-LM, una riduzione

    del livello dei prezzi comporta, attraverso ciò che accade al livello dell’offerta di moneta, un incremento

    del livello del reddito. L’inclinazione negativa della AD può essere

    quindi spiegata sia dal fatto che la riduzione dei prezzi aumenta

    l’offerta di moneta reale, sia dal fatto che il tasso di interesse deve

    diminuire per mantenere in equilibrio il mercato monetario e ciò fa

    aumentare gli investimenti, sostenendo il reddito.

    Per rappresentare la curva AS si parte dall’analisi del mercato del

    lavoro, in particolare dall’analisi di Franco Modigliani. Modigliani

    sostiene che la curva di offerta abbia la forma riportata qui affianco perché ad un certo punto si incontra

    una situazione di pieno impiego delle risorse e quindi la curva di offerta presenta un tratto verticale.

    Questo dipende anche dall’analisi che dal punto di vista statistico Modigliani fa sull’andamento dei salari

    in Italia, coinvolgendo Ezio Tarantelli. Insieme pervengono al seguente ragionamento: i salari variano

    perché qualcuno chiede che varino o, in altre parole, perché qualcuno chiede un aumento dei salari in

    seguito ad un aumento del costo della vita. Per questo motivo è necessario considerare la variazione dei

    prezzi al tempo 𝑡 − 1, anche se ciò non basta. Dal punto di vista empirico occorre considerare che il

    Y

    P

  • 8

    cambiamento delle condizioni materiali tra datori di lavoro e lavoratori impatta sul livello dei salari. La

    seconda variabile rilevante per quanto riguarda il livello salariale è infatti la differenza tra il livello di

    disoccupazione naturale e il livello di disoccupazione effettivo, osservabile al tempo 𝑡 − 1: i lavoratori

    infatti sono più forti quando si è più vicini al pieno impiego (fabbriche con molti lavoratori che

    rivendicano i propri diritti contro pochi datori). In altri termini, quanto più si è vicini al pieno impiego,

    tanto più si riusciranno a strappare aumenti salariali più alti, e viceversa.

    Va poi considerata anche la produttività del lavoro, misurata rapportando il reddito al numero di ore

    lavorate. La relazione che sussiste è diretta: se aumenta la produttività del lavoro aumentano anche i

    salari.

    Infine c’è un’ulteriore variabile che misura la forza dei sindacati: le ore di sciopero, correlate

    positivamente all’aumento dei salari (anche se oggi non è più significativa questa rivendicazione).

    Questa ipotesi resta vera fino alla marcia dei 40 mila avvenuta nel 1980: è il momento in cui a scendere

    in piazza non sono più gli operai, ma i dirigenti.

    Nel momento in cui abbiamo un’equazione dei salari costruita su queste variabili, si può ricavare una

    teoria dei prezzi legata a quella dei salari:

    ∆𝑊 = 𝑎∆𝑃𝑡−1 + 𝑃 + 𝑏(𝑢∗ − 𝑢𝑡−1) + 𝑣 (

    𝑌

    𝐿ℎ) + 𝑧(𝑆ℎ)

    Quindi:

    𝑃 = 𝑊𝑡 + µ𝑘

    In questa equazione µ𝑘 è il mark-up e tiene in considerazione il potere di mercato detenuto dalle

    imprese. La teoria economica dei prezzi compatibile con questa analisi empirica presuppone che non ci

    si trovi in concorrenza perfetta, in cui i prezzi reagiscono ai salari in base al livello di concorrenza

    presente nel sistema, ma è tale per cui le imprese sono in grado di fare pagare i loro incrementi di salario

    aggiustando i prezzi. Questo secondo Modigliani e Tarantelli crea un circolo vizioso in cui i salari

    aumentano e di conseguenza anche i prezzi, il cui aumento porta ad un ulteriore aumento dei salari e

    così via. Questa situazione è l’origine del boom inflazionistico degli anni ‘70. Al crescere della

    produzione, l’occupazione aumenta e la disoccupazione diminuisce: aumenta la forza contrattuale dei

    lavoratori e di conseguenza i salari tendono ad aumentare. Ma questo, come abbiamo appena visto,

    spinge le imprese ad aumentare i prezzi che sono stati stabiliti con la regola del mark-up, in quanto

    esiste sempre una concorrenza monopolistica.

    Esiste una relazione positiva tra il livello della produzione e il livello dei prezzi: ad ogni incremento della

    produzione è associato un incremento dei prezzi che passa attraverso l’incremento dei salari. Quando

    però si arriva al pieno impiego i prezzi continueranno a crescere mentre la produzione si ferma, ed è qui

    che sorgono i problemi.

    In questo modello si possono rianalizzare le politiche economiche viste nel precedente modello. Quando

    aumenta l’offerta di moneta la curva AD si sposta verso l’alto e i prezzi aumentano: l’incremento

  • 9

    dell’offerta di moneta aumenta le scorte monetarie reali e fa sì che il reddito aumenti, che a sua volta

    induce incrementi salariali. Le imprese trasferiscono incrementi salariali sul livello dei prezzi e ciò

    spiega perché una politica monetaria espansiva possa creare effetti inflazionistici. Inoltre l’incremento

    della domanda può incontrare anche in questo modello situazioni di spiazzamento più ci si avvicina al

    livello di piena occupazione. Ma quanto tempo passa prima che gli incrementi dei salari nominali

    generino un incremento dei prezzi?

    In altre parole, che tempi ci vogliono per passare dal breve al lungo periodo?

    Iniziamo a vedere quali sono le differenze tra breve periodo e lungo periodo. Nel breve periodo il

    capitale viene considerato come fisso e quindi non si considerano variazioni delle condizioni tecniche

    della produzione. Le imprese possono fare profitti positivi nel breve periodo, mentre nel lungo periodo

    i profitti realizzati divengono nulli. Inoltre nel lungo periodo si ha una situazione in cui è impossibile

    porre barriere all’entrata: vi è una libera entrata di competitor potenziali in un mercato. Tra breve e

    lungo periodo cambiano quindi delle condizioni qualitative. La variabile chiave per comprendere il

    comportamento degli agenti nel breve e nel lungo periodo è stata introdotta da Keynes, il quale la

    riferisce alle caratteristiche psicologiche degli operatori, ma solo la scuola di Chicago svilupperà in un

    modo analitico una teoria delle aspettative: prima proponendo una teoria delle aspettative adattive, per

    poi affermarsi nel dibattito teorico e di politica economica grazie alla teoria delle aspettative razionali.

    La teoria delle aspettative adattive

    L’introduzione di una particolare teoria delle aspettative che fa sì che il comportamento degli agenti

    possa cambiare tra breve e lungo periodo, spiega la non stabilità della curva di offerta. Se una funzione

    non è stabile nel tempo innanzitutto viene rappresentata nel breve e nel lungo periodo in due modi

    differenti. Inoltre ciò significa che quando vengono fatti degli studi empirici, i risultati della stima sono

    meno attendibili: una funzione che non è stabile nel tempo non può dare un coefficiente (cioè un indice

    che descrive in media il modo in cui la variabile dipendente reagisce a variazioni di quella indipendente)

    stabile. Si tratta di un problema che si collega con quella parte dell’analisi della politica economica che

    riguarda il cambiamento del comportamento degli agenti economici.

    Dal punto di vista delle equazioni, Milton Friedman e i suoi colleghi, riscontrano una differenza tra

    l’aspettativa dei prezzi nel presente (Pet e l’aspettativa dei prezzi nel recente passato Pet-1).

    𝑃𝑒t – 𝑃𝑒𝑡−1 = 𝛼 (𝑃𝑡−1 – 𝑃𝑒𝑡−1)

    La differenza tra le aspettative al tempo 𝑡 e al tempo 𝑡 − 1 è una proporzione della differenza tra i prezzi

    effettivi del periodo 𝑡 − 1 e prezzi attesi del periodo 𝑡 − 1. La seconda parte dell’equazione misura

    l’errore commesso. Dagli errori commessi si impara, l’apprendimento dipende da proporzione 𝛼: se 𝛼 =

    1 si incamera completamente l’errore nelle nuove previsioni che si faranno, pertanto si apprende dai

  • 10

    propri sbagli in modo completo. Invece, se 𝛼 = 0, non si impara nulla dal passato. 𝛼 rappresenta quindi

    la memoria del processo di apprendimento dagli errori.

    Detto in parole povere, la teoria delle aspettative adattive ci dice che i prezzi attesi del periodo

    precedente vengono aggiustati, nel periodo corrente, per un ammontare pari ad una frazione 𝛼

    dell’errore commesso nel passato. Questa teoria, che nasce nel contesto della scuola di Chicago, segnerà

    un nuovo terreno analitico di confronto. Anche le analisi degli economisti keynesiani dovettero tenerne

    conto.

    La novità che viene introdotta sul versante dei lavori empirici, consiste nel fatto che, per fare una stima

    che abbia un fondamento teorico stabile, occorre a questo punto considerare i valori del passato. Quindi

    bisogna introdurre dei ritardi temporali. L’equazione da cui parte l’analisi di Friedman presuppone che

    si possano stimare i prezzi attesi nel seguente modo:

    𝑃𝑒𝑡 = 𝑃𝑒𝑡−1 + 𝛼 (𝑃𝑡−1 – 𝑃𝑒𝑡−1)

    Vengono portati al secondo membro i prezzi attesi nel periodo precedente.

    Data la formulazione generale della teoria delle aspettative adattive, anche la teoria dell’offerta

    aggregata dovrà essere rivosta, perché la funzione di offerta aggregata sarà una funzione del livello dei

    prezzi attesi.

    La grande novità è che, quando i prezzi effettivi divergono dai prezzi attesi, si possono manifestare effetti

    reali. Attraverso questa possibilità, l’approccio monetarista concede che i risultati previsti dai

    keynesiani abbiano riscontro nel breve periodo. È come dire che la teoria quantitativa della moneta vale

    solo nel lungo periodo.

    I salari reali effettivi si riducono a seguito di una politica fiscale espansiva, lo spostamento a destra della

    curva di domanda aggregata spinge in alto i prezzi, ma i lavoratori non si accorgono dell’aumento dei

    prezzi. Non credono di avere una perdita del loro potere di acquisto: pensano invece, a seguito

    dell’incremento dei salari nominali, di avere un maggiore potere di acquisto. Sono vittima di un

    fenomeno che viene chiamato illusione monetaria. Se c’è illusione monetaria, cioè se la ricchezza

    nominale viene percepita come se fosse ricchezza reale (se non ci si rende conto dell’effettivo

    movimento dei prezzi), ci possono essere effetti espansivi nel breve periodo. Però nel momento in cui i

    prezzi verranno corretti (𝑃 = 𝑃𝑒) si annulleranno gli effetti espansivi sui consumi. Il sistema tornerà

    sulla curva di offerta di lungo periodo, e sarà caratterizzato da un livello di reddito uguale a quello del

    periodo precedente e da prezzi più alti.

  • 11

    Dal punto di vista grafico il discorso può essere riformulato nel modo seguente:

    𝑌𝑁 indica il livello del reddito corrispondente alla piena

    occupazione (o meglio alla disoccupazione naturale). Nel

    breve periodo la politica fiscale espansiva, rappresentata dalle

    curve di domanda aggregata decrescenti e tratteggiate, spinge

    in alto i prezzi facendo aumentare anche la produzione.

    Addirittura è in grado di far aumentare la produzione, quanto

    meno in termini monetari, più del livello di piena occupazione:

    si passa infatti da 𝑌𝑁 a 𝑌2. L’illusione monetaria fa aumentare

    il livello dei consumi, almeno fino a quando non ci si rende

    conto che si è verificato anche un incremento dei prezzi generalizzato. Il sistema si sposta fino a 𝑌2 e

    magari, in alcune particolari circostanze, genere anche effetti sull’occupazione, che però vengono

    riassorbiti non appena l’errore di previsione viene individuato e corretto. Una delle frasi che diventa

    chiave della divulgazione di questa teoria è: non puoi prendere in giro le persone per troppo tempo!

    L‘efficacia delle politiche economiche. Il dibattitto fra monetaristi e keynesiani a proposito degli effetti

    ritardati della politica fiscale.

    Dal punto di vista delle considerazioni sull’efficacia della politica monetaria e fiscale nel contesto AS-AD

    possiamo sintetizzare l’analisi sinora svolta nel modo seguente:

    Curva di offerta Descrizione Y

    determinato

    Politiche di

    stabilizzazione

    Orizzontale Modelli keynesiani a prezzi fissi Dal lato della

    domanda Efficaci

    Inclinata

    positivamente

    Modelli di breve periodo

    keynesiani e monetaristi con

    aspettative

    Dalla domanda e

    dall’offerta

    Effetti reali

    temporanei

    Verticale Modelli classici/monetaristi e di

    medio/lungo periodo

    Dal lato dell’offerta

    (a livello naturale)

    Inefficaci (effetti

    solo sui prezzi)

  • 12

    Il confronto fra monetaristi e keynesiani

    conduce a risultati empirici, ottenuti

    ricorrendo a metodologie econometriche

    distinte, che comportano due analisi

    diverse riferite al moltiplicatore della

    politica fiscale:

    1. 𝛼𝐾 è il modo in cui varia il

    moltiplicatore delle politica fiscale

    date le analisi empiriche dei

    keynesiani.

    2. 𝛼𝑀 invece è il modo in cui varia il moltiplicatore della politica fiscale per i monetaristi.

    Il moltiplicatore fiscale dei keynesiani inizia a crescere subito, raggiunge il massimo nel periodo 𝑡2, per

    poi calare da 𝑡2 a 𝑡4, rimanendo però superiore alla riga orizzontale, ovvero alla soglia in cui l’andamento

    del moltiplicatore ha effetti significativi sul tasso di crescita del PIL.

    L’andamento del moltiplicatore fiscale stimato dai monetaristi, invece, cresce poco nel breve periodo e

    raggiunge il picco massimo in ritardo rispetto a quello dei keynesiani. Dopodiché inizia a decrescere e

    si attesta ad una soglia inferiore al valore significativo per la crescita del PIL.

    Il problema consiste nel fatto che, una politica fiscale espansiva formulata per correggere un andamento

    recessivo può essere intrapresa in ritardo. Pertanto quella determinata politica, secondo la scuola

    monetarista di Milton Friedman, può impattare negativamente sul comportamento degli agenti

    economici. Il punto critico consiste quindi nell’intervenire nel momento corretto e non ritardo, in quanto

    intervenire in ritardo potrebbe portare a risultati dannosi.

    Vengono individuati tre tipi di ritardi:

    ● I ritardi esterni, ossia l’intervallo intercorrente tra l’attuazione del provvedimento e

    l’iniziale manifestazione dei suoi effetti sulla variabile obiettivo. Come ritardo, in

    generale, è più lungo per la politica monetaria (dipende dal meccanismo di

    trasmissione).

    ● I ritardi interni, legati all’efficacia degli istituti di statistica, che a loro volta si

    suddividono in due categorie:

    o I ritardi di percezione.

    o I ritardi di decisione.

    Vediamo cosa accade se si verificano questi ritardi. Supponiamo che ci sia un crollo dei consumi

    incomprimibili (la componente autonoma dei consumi). In 𝑡2 si ha un primo riconoscimento dello shock

    da parte degli uffici di statistica, i quali lo comunicano al Ministro del Tesoro. In 𝑡3 l’autorità competente

    riduce le imposte e solo in 𝑡4, sempre che i provvedimenti incomincino ad avere effetti, allora i consumi

    ripartono. Se il problema viene percepito in 𝑡2, allora un’operazione anticiclica può divenire pro-ciclica.

  • 13

    Se lo Stato interviene quando il sistema si sta correggendo da sé, la crisi viene amplificata proprio a

    causa dell’intervento statale che disturba i meccanismi di trasmissione delle informazioni tra gli agenti

    economici.

    La relazione tra disoccupazione e inflazione: il confronto fra monetaristi e keynesiani sulla curva di Phillips

    Il tema della relazione tra le politiche di controllo del livello dei prezzi e le politiche di ripresa

    occupazionale è stato studiato inizialmente nel 1958 da Alban William Phillips lavorando sui dati del

    Regno Unito. Phillips individua una relazione negativa e stabile tra il tasso di inflazione dei salari e il

    tasso di disoccupazione: quando la disoccupazione tende ad aumentare, il livello dei salari tende a

    diminuire e viceversa. L’esercizio empirico viene replicato nel 1960 da Paul Samuelson e Robert Solow

    su dati statunitensi e la relazione di Phillips viene riconfermata. È interessante analizzare anche il

    passaggio dallo studio di Phillips a quello successivo di Samuelson e Solow. Tra i due studi cambia

    innanzitutto il periodo, infatti i due studiosi americani utilizzano un periodo più breve rispetto a quello

    utilizzato da Phillips. Inoltre il tasso di crescita dei salari monetari viene sostituito con il tasso di

    inflazione misurato come indice dei prezzi al consumo. Si tratta di una differenza sostanziale perché il

    livello dei prezzi può essere misurato in modi diversi, ma non è detto che sia analogo studiare

    l’andamento dell’inflazione considerando l’indice dei prezzi al consumo o i costi del lavoro. Fatto sta che

    un tema studiato dal punto di vista statistico-descrittivo conduce ad una struttura teorica sintetizzabile

    nella seguente equazione:

    𝜋𝑡 = 𝜋𝑡𝑒 + (µ + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡

    Questa equazione subirà delle modifiche derivanti dal dibattito tra monetaristi e keynesiani: infatti

    l’analisi delle politiche possibili per individuare il mix migliore tra disoccupazione ed inflazione è

    collegata con l’efficacia delle politiche espansive.

    L’equazione indica che l’inflazione, misurata come indice dei prezzi al consumo, dipende:

    Dall’inflazione attesa 𝜋𝑡𝑒.

    Da alcune caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro come µ, il potere monopolistico

    degli imprenditori, e 𝑧, il potere dei sindacati.

    Da livello della disoccupazione con segno negativo, −𝛼𝑢𝑡.

    Si tratta di una equazione dinamica (sono presenti i tassi di crescita del livello dei prezzi) che

    rappresenta di fatto una trasformazione dell’offerta aggregata AS riscritta come relazione tra inflazione,

    inflazione attesa e disoccupazione. Questa equazione mostra come un aumento dell’inflazione attesa

    provochi un aumento dell’inflazione, in quanto se i lavoratori si aspettano un aumento del livello dei

    prezzi chiederanno un salario nominale maggiore che a sua volta provocherà un aumento del livello

    generale dei prezzi. Mostra anche come un aumento del mark-up, cioè del potere monopolistico delle

    imprese, e dei fattori istituzionali che influenzano la determinazione dei salari, in particolar modo le

  • 14

    pressioni sindacali rappresentabili da z, possano portare ad un aumento dell’inflazione. (In un contesto

    di mercato di oligopolio o di concorrenza monopolistica, la pressione sul livello dei prezzi è maggiore

    rispetto ad un mercato di concorrenza perfetta.)

    Data l’inflazione attesa, un aumento del mark-up e di 𝑧 provoca un aumento dei salari e quindi del livello

    dei prezzi. Data sempre l’inflazione attesa, un aumento della disoccupazione, visto che il coefficiente che

    trasmette la variazione della disoccupazione su π è preceduto da un segno negativo, provoca una

    riduzione dell’inflazione. Un aumento della disoccupazione comporta infatti una diminuzione del salario

    nominale e quindi un minore livello dei prezzi.

    Concentriamoci ora sulle aspettative. Né Phillips né Samuelson e Solow avevano preso in considerazione

    le aspettative. Ancora una volta è la scuola di Chicago che introduce questa importante variabile

    nell’analisi del trade-off tra inflazione e disoccupazione, mostrando come questa relazione non possa

    essere stabile nel tempo. Supponiamo che le aspettative dei lavoratori si formino in modo adattivo: dato

    un parametro 𝜃, tale che rappresenti una sorta di memoria dei prezzi passati; si crea così una relazione

    tra i prezzi attesi oggi e i prezzi effettivi del passato. Possiamo allora scrivere:

    𝜋𝑡 = 𝜃𝜋𝑡𝑒 + (µ + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡

    Non si tratta più di stimare solo 𝛼, cioè il coefficiente che stabilisce in che modo la disoccupazione si

    trasmette sull’inflazione, ma anche 𝜃, il quale indica come l’inflazione passata si trasferisca su quella

    presente, tenendo conto della teoria delle aspettative adattive.

    Supponiamo ora di trovarci nel 1958 quando Phillips scopre la sua relazione statistica. I lavoratori

    osservano i prezzi che hanno un andamento ciclico come quello del PIL, ma con dei cicli contenuti

    soprattutto se guardiamo alla storia che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1958. Si

    osserva che a volte i prezzi crescono e a volte diminuiscono, ma in media ci si può attendere un’inflazione

    nulla perché gli incrementi compensano i decrementi. È un punto fondamentale perché in questo caso

    𝜃 è pari a zero. Di conseguenza la funzione da stimare è esattamente quella descritta da Philips:

    𝜋𝑡 = (µ + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡

    L’inflazione non dipende più dall’aspettative su di essa, ma dipende solamente da µ e 𝑧, che vengono

    considerati come dati, e da 𝛼, la vera variabile che ci interessa.

    Friedman però fa notare che se si guardano i dati dopo il 1958 le cose non stanno più così: un decennio

    dopo quella data, la curva di Phillips originaria non sembra valere più!

    Solo se vale la relazione della curva di Phillips, è sempre possibile individuare il rapporto tra variazione

    della disoccupazione e variazione dell’inflazione. Si può quindi decidere facilmente che tipo di politiche

  • 15

    attuare. Se ad esempio si dovesse avere un

    problema di pressione inflazionistica eccessiva, si

    può attuare una politica monetaria restrittiva per

    controllare il livello dei prezzi sapendo già, grazie

    alla curva di Phillips, quanto si dovrà pagare in

    termini di aumento della disoccupazione.

    Friedman con la sua intuizione, giocata sulla

    teoria delle aspettative, smentisce tutto ciò.

    Mette in luce come non ci sia un legame chiaro tra

    politica monetaria e fiscale e che il rischio di fare confusione con questo mix di obiettivi è alto. Le sue

    affermazioni sono supportate dai dati riportati nel grafico qui accanto, in cui vediamo rappresentati i

    punti di correlazione tra il tasso di disoccupazione e quello di inflazione, calcolato come indice dei prezzi

    al consumo, negli USA.

    La curva di Phillips ha una forma quasi verticale perché è fissa al livello di pieno impiego. Di conseguenza

    il tentativo di ridurre il livello della disoccupazione, non fa ridurre la disoccupazione ma fa solamente

    aumentare il livello dei prezzi. Dunque lo Stato non può intervenire per ottenere un risultato

    conveniente, nemmeno in termini elettorali, perché i dati dimostrano che l’unico risultato significativo

    ottenibile è quello di una perdita del controllo del livello dei prezzi.

    Il fallimento empirico della curva di Phillips dà vita ad un dibattito che può essere raccontato in modi

    diversi. Uno di questi è incentrato sulle crisi petrolifere degli anni ’70, le quali provocarono un aumento

    dei costi di produzione che a sua volta comportò un aumento dei prezzi applicati, un aumento del mark-

    up (quindi un rincaro dei prezzi volto a sostenere i profitti degli imprenditori) e un aumento

    dell’inflazione, data la disoccupazione.

    La scuola di Chicago sostiene invece un altro insieme di nessi causali: è il nuovo modo di pensare le

    aspettative da parte delle imprese e dei lavoratori insieme agli errori di una politica economica

    keynesiana che conducono ad un’inflazione persistente. I lavoratori iniziano a pensare che l’inflazione

    dell’anno precedente si ripeterà nell’anno in corso e quindi il valore di 𝜃 è ipotizzato più vicino a 1 che

    a 0. I lavoratori si aspettano che l’inflazione nell’anno corrente sia uguale a quella dell’anno precedente.

    t − t−1 = (+ z) − ut

  • 16

    Questa equazione viene definita come curva di Philips modificata dalle aspettative.

    Nel grafico accanto è rappresentata in verde la curva di Phillips nella versione di Samuelson e Solow. Il

    punto in cui questa curva interseca l’asse orizzontale corrisponde al tasso naturale di disoccupazione e,

    nell’approccio monetarista, quella curva viene considerata

    vera solo nel breve periodo. Quando i lavoratori iniziano a

    tenere conto del tasso di inflazione e ad adeguare i salari

    proteggendo il proprio salario reale, si ha una curva di Phillips

    verticale (in rosso), valida nel lungo periodo. Difatti le

    aspettative di inflazione cambiano nel tempo e spostano la

    curva di breve periodo verso l’alto ogni volta che i lavoratori

    si rendono conto che i prezzi aumentano. Questo significa che

    la curva di Phillips è instabile e genera, nel lungo periodo, a

    livello del tasso naturale di disoccupazione, un andamento che possiamo descrivere con una retta

    verticale. Le aspettative di inflazione cambiano nel tempo e di conseguenza la curva di Philips non può

    più indicare una relazione stabile in quanto conta la differenza tra prezzi e prezzi attesi.

    Dal punto di vista della politica economica, nel caso keynesiano, la curva di Phillips è inclinata

    negativamente ed esiste un trade-off tra inflazione e disoccupazione. Lo spostamento lungo la curva, se

    si ha, è solo causato da uno shock della domanda, mentre lo spostamento della curva può avvenire per

    uno shock dell’offerta oppure per una politica dei redditi. Nel caso monetarista invece la curva è sempre

    negativa, ma temporanea. La riduzione della disoccupazione può fare accelerare l’inflazione e lo

    spostamento lungo la curva dipende da uno shock della domanda mentre lo spostamento della curva da

    uno shock dell’offerta, ma anche dall’aggiustamento delle aspettative. Nel lungo periodo la curva però è

    verticale e le politiche economiche possono controllare solo l’inflazione. Lo shock di domanda regola lo

    spostamento lungo la curva, ma la curva non si sposta più perché il tasso di occupazione è fissato al suo

    livello naturale.

    La nuova macroeconomia classica e la teoria delle aspettative razionali

    La stagflazione, quella situazione in cui l’incremento dell’inflazione è unito alla stagnazione economica,

    a partire dal 1971, colpisce in modo significativo il mondo occidentale.

    La teoria della aspettative adattive, proposta da M. Friedman e accolta negli anni ‘70 dai keynesiani,

    almeno come terreno di confronto è costruita su una logica comportamentale backward-looking: c’è una

    memoria degli agenti rispetto agli errori commessi nel passato, questo genera aspettative

    sistematicamente errate e proprio questo errore determina la differenza tra breve e lungo periodo. Se

    le aspettative vengono formulate, nel breve periodo, in modo errato allora c’è lo spazio affinché un

    aumento nominale del livello dei prezzi non sia interpretato come perdita del valore reale delle “cose”

    presenti nel sistema economico ma come un particolare successo che si ottiene in un determinato

  • 17

    mercato: il prezzo cresce perché la domanda supera l’offerta e questo crea un effetto di breve periodo

    che può essere effettivamente espansivo, giustificando quindi la possibilità di una politica economica

    Gran parte dei fenomeni che caratterizzano l’economia negli anni ’70 sono in qualche modo

    incompatibili anche con una teoria delle aspettative adattive. L’incremento del livello dei prezzi tende

    ad essere sempre più frequente come se a seguito di alcune informazioni, che nel recente passato erano

    concepite come informazioni che potevano essere interpretate in modo erroneo (dando quindi

    legittimità ad una formazione delle aspettative di tipo adattivo) si generassero immediatamente gli

    effetti di lungo periodo. Questo fa sì che si sviluppi a Chicago, tra gli allievi di Friedman, una discussione,

    capitanata da Robert Emerson Lucas Jr. (premio Nobel per l’economia nel 1995), sul modo in cui

    effettivamente gli agenti formano le proprie aspettative, una discussione anche dettata dall’esigenza di

    spiazzare ulteriormente l’approccio keynesiano alla politica economica. Difatti il dibattito tra

    monetaristi e keynesiani era giunto ad una situazione in cui comunque la politiche keynesiane nel breve

    periodo potevano essere giustificate. L’approccio degli allievi di Friedman è invece quello di cercare di

    costruire un modello teorico che, non solo sia in grado di dare una spiegazione empirica del fenomeno

    della stagflazione, ma che sia anche in grado di pervenire ad indicazioni di politica economica che

    neutralizzino le indicazioni provenienti dalla scuola keynesiana una volta per tutte.

    L’intuizione principale consiste nel fatto che gli agenti economici, nel formare le proprie aspettative sul

    livello dei prezzi, non guardino solo ai valori passati ma a tutte le informazioni disponibili che hanno. Se

    fra le informazioni disponibili c’è un modello teorico robusto che dice che una politica monetaria

    espansiva, nel lungo periodo, genera effetti inflazionistici gli agenti razionali, che conoscono questa

    teoria, anticipano nel breve periodo le pressioni inflazionistiche. Un annuncio di politica fiscale

    espansiva oggi, viene dunque considerato dagli agenti economici come il segnale per un incremento

    della tassazione domani. Nella formazione delle aspettative quindi si prendono in considerazione anche

    le informazioni che si hanno a disposizione e che sono rilevanti per poter prevedere ciò che accadrà.

    Questa intuizione fa sì che:

    1. Gli agenti economici siano descritti come dotati della stessa razionalità, la quale prevede la

    massimizzazione dell’impiego delle informazioni che si hanno a disposizione.

    2. Le aspettative siano definite come aspettative razionali (esatte in media): significa che non è

    possibile compiere errori sistematici com’erano invece gli errori compiuti nella modellistica del

    monetarismo alla Friedman 𝐸(𝑃𝑒)𝑡 = 𝑃𝑡.

    3. Vale la presenza di un tasso naturale di disoccupazione, che non è detto sia equivalente ad una

    situazione di piena occupazione in cui lavorano tutti gli agenti economici, bensì vale l’idea che vi

    sia assenza di disoccupazione involontaria. Si definisce allora un tasso di disoccupazione

    naturale quello compatibile con una situazione in cui il livello dei prezzi non accelera (NAIRU).

    Ciò comporta che ci troviamo in una situazione molto prossima al modello monetarista à la

    Friedman, dove la differenza principale sta nell’impossibilità di ottenere i risultati di breve

  • 18

    periodo, ottenibili nel modello monetarista di prima generazione, perché l’ambiente in cui gli

    agenti si muovono non è di tipo deterministico ma stocastico.

    Tutto ebbe origine nel 1961, quando il giovane economista della scuola di Chicago John F. Muth, (una

    promessa della professione che rimase eternamente tale), pubblicò su Econometrica un articolo sui

    limiti dell’ipotesi di aspettative adattive proponendo una trattazione matematica alternativa. Nel lavoro

    di Muth vi è uno shock subito noto a tutti gli agenti, ad esempio l’aumento del prezzo del petrolio.

    Ciascuno dovrebbe tener conto di questa informazione, prevedendo le corrette conseguenze sul sistema

    economico, cioè il rialzo del livello generale dei prezzi. Al contrario però l’ipotesi di aspettative adattive

    comporta un aumento graduale, e non immediato, del livello generale dei prezzi. Muth costruisce invece

    un’equazione dei prezzi attesi innovativa:

    (𝑃𝑒)𝑡 = 𝐸[𝑃𝑡|𝛺𝑡−1] = 𝑃𝑡 + 𝜀

    dove i prezzi attesi sono funzione della probabilità condizionata dei prezzi passati, data l’informazione

    disponibile. Questo significa che i prezzi attesi sono uguali ai prezzi effettivi, al netto di un errore 𝜀 che

    ha determinate proprietà. Nell’equazione precedente, l’insieme informazione 𝛺𝑡−1 comprende:

    Il modello teorico dominante, cioè il più logico dal punto di vista della spiegazione del

    funzionamento del sistema economico. In altre parole comprende l’insieme delle equazioni

    strutturali che descrivono il sistema economico2.

    Il valore dei parametri strutturali inclusi nel modello, cioè i coefficienti che si vanno a stimare.

    Essi dipendono anche dal comportamento degli agenti economici a seguito della politica

    economica stessa: di conseguenza questi parametri sono instabili. Sempre tornando alla

    funzione del consumo, si conosce la propensione marginale al consumo in quanto viene

    identificata sia dal modello stesso che dagli istituti di statistica. Se viene imposta una tassa,

    oppure se c’è un dibattito su nuove imposte, che poi magari nemmeno si realizzano, il valore dei

    parametri strutturali varia. Basta l’informazione. L’attesa di un cambiamento dell’aliquota

    2 Questo era un punto fondamentale anche nel dibattito sul modello econometrico tra keynesiani e monetaristi: i monetaristi sostenevano che l’equazione da sottoporre a stima fosse la forma ridotta del modello teorico, mentre i primi sostenevano di dover lavorare con le equazioni strutturali che definiscono il modello. Proprio questo punto di vista viene ripreso dalla scuola di Chicago, contro i keynesiani. Infatti le equazioni strutturali che descrivono il sistema economico in questo mondo vanno al di là delle grandezze aggregate: la struttura del modello teorico è la microfodazione dei comportamenti retrostanti alle grandezze aggregate. Per esempio, per spiegare il comportamento della funzione di consumo bisogna conoscere il comportamento della funzione di consumo non a livello aggregato, bensì a livello dei singoli agenti economici. Allo stesso modo per quanto riguarda la funzione d’investimento e per la funzione di spesa pubblica. Quando si va ad ottenere quello che è il valore del moltiplicatore fiscale e monetario, in realtà si saranno stimati i modi in cui vengono definite quelle grandezze dall’agente rappresentativo, il quale però avrà una funzione da stimare che è sempre la stessa: difatti gli agenti non hanno comportamenti eterogenei ma omogenei. In questo approccio teorico, per esempio, il consumo, e in particolare la propensione marginale al consumo, non può essere stimata a partire dalla funzione aggregata, bensì va costruita a partire dal modo in cui decidono le loro scelte di consumo gli agenti economici. Il modo in cui razionalmente gli agenti economici prendono queste decisioni è quello stabilito da Robert Barro: si prende in considerazione la massimizzazione di un consumo permanente nel tempo che, dato il reddito disponibile anche in più periodi, cerca di distribuire omogeneamente questo reddito in tutti quanti i periodi.

  • 19

    dell’imposta, anche in presenza di una politica fiscale espansiva, cambia il valore del parametro

    strutturale. Si hanno i cosiddetti effetti di feedback.

    Il valore delle variabili passate fino a 𝑡 − 1.

    Le proprietà statistiche degli errori casuali che è possibile commettere. 𝜀 è una variabile

    stocastica di cui è nota la media, che è nulla, la varianza, che è costante, e che gode della seguente

    proprietà: gli errori nel tempo non sono serialmente correlati. Ciò comporta che la distribuzione

    di probabilità degli errori ha le caratteristiche di una normale: è possibile dire quali son i valori

    di sintesi di questa statistica in quanto si conoscono alcune proprietà degli errori che rendono

    sempre possibile che la stima dei prezzi attesi possa essere condotta prevedendo degli stimatori

    corretti.3

    Ne consegue che le politiche economiche di stabilizzazione sono sempre inefficaci salvo in un caso:

    siccome ci troviamo in un ambiente stocastico, l’unico modo di ottenere risultati efficaci dalla

    politiche di stabilizzazione è la presenza di sorprese: eventi casuali come shock esogeni, catastrofi

    naturali, l’introduzione di una nuova innovazione oppure manovre di politica economica non attese

    e non annunciate. Quest’ultima situazione (politiche economiche non annunciate) nel momento in

    cui si verifica avrà un effetto, per lo più temporaneo, solamente la prima volta che avviene: lo stesso

    policy maker che ha sorpreso gli agenti economici mettendo in pratica una politica economica non

    annunciata, la seconda volta che volesse farlo fronteggerebbe degli agenti economici già informati

    sulle conseguenze della stessa politica, motivo per cui essa sarebbe completamente inefficace.

    La critica di Lucas ai modelli econometrici

    Una delle conseguenze della teoria delle aspettative razionali è che non è più possibile ragionare al di

    fuori di un contesto strategico: quando si fa politica economica non si può più ragionare come se il

    problema di politica economica fosse trattabile come un problema di controllo di ottimo o di

    programmazione. Tutti i problemi di politica economica hanno infatti una natura strategica: nella

    funzione obiettivo del policy maker, che nel modo tradizionale di fare politica economica poteva essere

    ottimizzata individuando i pesi che il policy maker dava agli obiettivi, bisogna inserire una parte che mi

    stabilisce la reazione di quelle politiche economiche messe in campo dagli agenti economici. Viceversa

    nelle funzioni di comportamento degli agenti economici bisognerà mettere una parte della funzione che

    mi spieghi il comportamento degli agenti economici a seguito delle scelte del policy maker. Ci troviamo

    quindi in un sistema in cui abbiamo a che fare con curve di reazione. Ogni problema di politica

    3 In realtà questo punto è quello più dibattuto perché non è detto che gli errori godano di quelle proprietà. Per esempio, soprattutto sui mercati finanziari, i prezzi delle attività finanziare hanno degli errori che non si distribuiscono sempre secondo una normale, ma seguono delle leggi (leggi di potenza) che mettono in discussione anche questa teoria di formazione delle aspettative

  • 20

    economica diventa necessariamente un problema di teoria dei giochi, anche fra diversi policy maker (ad

    esempio Banca Centrale e Governo).

    Ipotizziamo di prendere in considerazione dei modelli così fatti e che quindi valga la critica di Lucas ai

    modelli econometria tradizionali: la politica economica sia definibile come un sistema di teoria dei

    giochi. In questo caso non è più possibile pensare che, stimando i parametri con un modello di

    regressione lineare, quei parametri mi possano servire per fare simulazioni di politica economica: quei

    parametri risultano infatti instabili. I modelli di regressione lineare però, non sono fatti per tenere in

    considerazione questo problema: bisogna quindi cambiare il modo di stimare i fenomeni

    Data questa premessa vediamo il modello di politica economica basilare di questo approccio teorico.

    L’idea è che il prodotto possa scostarsi dal livello di steady state per due cause:

    1. Perché c’è un disturbo inatteso.

    2. Come sotto caso del precedente, per via di uno scostamento tra politica economica effettiva e

    politica economica prevista, che però sorprende gli agenti economici. Questo significa che la

    differenza fra l’offerta di moneta effettiva e quella attesa è diversa da 0.

    𝑚𝑡 −𝑚𝑡𝑒 ≠ 0

    Solo la parte imprevista della politica economica a ha effetti reali, il che significa che, il comportamento

    del policy maker, può essere distinto tra una parte sistematica [𝑓(·)] della politica economica e una parte

    casuale 𝜇𝑡, parte che può rappresentare una sorpresa per gli agenti economici.

    𝑚𝑡 = 𝑓(·) + 𝜇𝑡

    dove 𝜇𝑡 è white noise (un processo costituito da una successione di variabili aleatorie non correlate,

    identicamente distribuite con media nulla e varianza costante). La politica prevista è l’aspettativa

    razionale della policy rule:

    𝑚𝑡𝑒 = 𝑓(·)

    Il problema consiste quindi nella possibilità o meno di cambiare le preferenze del policy maker. Le

    preferenze del policy maker possono essere cambiate con una delega (commitment): il governo delega la

    gestione della politica monetaria ad un banchiere centrale oppure, se il modello viene riformulato in un

    contesto leggermente diverso il policy maker può delegare indirettamente la politica monetaria attraverso

    un ancoraggio della propria valuta ad una valuta estera di un Paese caratterizzato da una politica

    monetaria credibile. Le proprie politiche monetarie vengono quindi fatte fissando un cambio fisso con una

    valuta più disciplinata (es: dollarizzazione della politica monetaria nei paesi in via di sviluppo).

    Esistono tuttavia diverse critiche (molto promettenti) a questa impostazione teorica che si devono a

    diversi economisti. Fra questi una particolare attenzione meriterebbe Joseph Stiglitz. Non possiamo

    entrare nel merito della sua importante innovazione teorica rappresentata dall’analisi dei fallimenti del

    mercato e in particolare dei fallimenti derivanti dalla presenza di asimmetrie informative. Ci limitiamo a

    suggerire una lettura della lectio magistralis che tenne in occasione del conferimento della laurea honoris

    causa conferitagli dall’Università di Bergamo nell’a.a. 2003-2004 riportata in appendice a queste lezioni.

  • 21

    IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE.

    COME CAMBIA UN’ISTITUZIONE AL CAMBIARE DELLE TEORIE ECONOMICHE DOMINANTI

    È importante fare delle considerazioni su una particolare istituzione di politica economica che viene

    creata alla fine della seconda guerra mondiale all’interno degli accordi Bretton Woods: il Fondo

    Monetario Internazionale, istituzione ancora oggi molto importante che rappresenta il risultato di un

    compromesso innanzitutto posto in essere dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti e rappresenta un ottimo

    esempio di trasformazione istituzionale all’interno della storia economica mondiale. Con il

    cambiamento che ha caratterizzato il sistema monetario internazionale, dopo la dichiarazione di

    inconvertibilità del dollaro nei confronti dell’oro del 1971, è cambiata anche la natura del Fondo

    Monetario Internazionale e si è imposta una logica di funzionamento di questa istituzione che è distante

    dall’idea originaria che aveva caratterizzato gli accordi di Bretton Woods. Secondo alcuni studiosi, fra

    gli altri Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, il Fondo Monetario Internazionale con le

    sue politiche strutturali, avrebbe agevolato i processi di crisi valutaria nei Paesi in cui è intervenuto.

    Cosa doveva essere il Fondo Monetario Internazionale?

    Yanis Varoufakis ne Il Minotauro globale (2008, p. 75) riporta le parole con cui Keynes dà il commiato

    alla conferenza di Bretton Woods:

    «Abbiamo dovuto svolgere simultaneamente le parti che competono all’economista, al finanziere, al politico, al giornalista, al propagandista, all’avvocato, all’uomo di stato e persino credo al profeta e all’indovino.»

    I rappresentanti dei Paesi Alleati, e in particolare Harry Dexter White, rappresentante degli USA, e John

    Maynard Keyne, rappresentante della Gran Bretagna, progettarono due istituzioni portanti: da una parte

    il Fondo Monetario Internazionale e dall’altra la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo

    che oggi viene semplicemente chiamata Banca Mondiale.

    Cosa doveva esser il Fondo Monetario Internazionale? Avrebbe dovuto assolvere alle funzioni di

    pompiere del sistema capitalista globale, cioè fungere da istituzione sempre pronta ad intervenire e ad

    assistere qualsiasi Paese la cui casa prendesse fuoco, fornendo prestiti a condizioni rigorose in grado di

    assicurare che qualsiasi deficit sarebbe stato corretto e che i debiti sarebbero stati ripagati e la Banca

    Mondiale doveva essere una banca di investimento con il compito di incanalare gli investimenti in quei

    Paesi devastate dalla guerra. L’idea era che per garantire la pace non bisogna avere un mondo in cui le

    spinte mercantiliste rimangono vive. Un mondo in cui tutti vogliono esportare più degli altri, è un mondo

    in cui si creano tensioni politiche. Questa è l’idea di Keynes soprattutto. Per fronteggiare questo, bisogna

    che si vengano a creare degli equilibri che correggano gli squilibri nella bilancia dei pagamenti. Tant’è

    che il piano che Keynes prepara in sette versioni diverse - proprio perché c’è una mediazione che deve

    portare avanti e si gioca tutte le carte possibile – è un progetto di International Clearing Union. Il Fondo

  • 22

    Monetario Internazionale è solo il piano B che viene approvato per perseguire l’obiettivo che vi ho

    appena illustrato. Per comprendere questo bisogna capire il piano principale di Keynes.

    Cosa poteva essere - e mai fu - il FMI. L’International Clearing Union.

    International Clearing Union significa costruire delle condizioni per cui una situazione di squilibrio

    commerciale si riporti in equilibrio. L’idea di Keynes consisteva in un meccanismo di emissione

    monetaria in cui si emette direttamente una moneta internazionale, questa moneta non si deve riferire

    a nessuno stato ed è anzitutto una moneta di conto. Si chiama Bancor perché fondamentalmente è una

    moneta credito. Quando viene emesso il Bancor?

    Bisogna emettere una moneta di conto che ha puri scopi transattivi. Perciò non deve essere accumulata,

    non deve svolgere la funzione di riserva di valore: quando tu hai questa moneta la devi spendere. Qual

    è la regola? La regola di creazione di questa moneta è fondata esattamente sul riequilibro degli squilibri

    commerciali. Un Paese che ha una situazione di deficit può ottenere Bancor.

    Cosa si fa con questi Bancor? Con questi Bancor può riattivare il commercio internazionale senza dover

    chiedere in prestito sul mercato privato delle risorse. Finanziarie. L’International Clearing Union diventa

    come una banca internazionale in cui l’emissione monetaria è finalizzata solo al riequilibrio delle bilance

    commerciali con una moneta unica che deve avere una irreversibilità nei confronti dell’oro.

    L’equilibrio definito in termini di saldi fra esportazioni e importazioni e il peso dello squilibrio deve

    essere simmetricamente distribuito fra debitori e creditori. Se tu sei in una situazione in cui accumuli

    dei Bancor che non riesci più a spendere (cioè se si è in surplus) sei costretto a pagare un tasso di

    interesse nei confronti della International Clearing Union.

    Il fatto di essere in surplus non è considerato un risultato positivo, ma è un risultato negativo se si guarda

    agli equilibri commerciali globali, perché significa sostanzialmente che se tu sei in surplus, qualcun altro

    sarà in deficit.

    Questa situazione presuppone che non solo il Paese in deficit, superata un certa soglia di deficit dovrà

    tenere conto di alcune indicazioni per riuscire ad uscire da questa situazione, ma anche il Paese in

    surplus, deve impegnarsi a ridurre il surplus ed è costretto a trasferire una quota di questo surplus,

    all’interno dell’International Clearing Union, attraverso il pagamento di un tasso di interesse.

    Quindi il Bancor serve esattamente a sostenere il commercio internazionale in questa prospettiva.

    Quando viene creato? Quando qualcuno ha bisogno di comperare qualche cosa. E quanto puoi chiedere?

    L’ammontare di Bancor che puoi chiedere in prestito come Paese tiene conto della tua collocazione

    all’interno dei sistema commerciale internazionale. Come si fa a misurare la collocazione all’interno del

    sistema commerciale internazionale? Si vede quanto questo Paese esporta e importa. L’ammontare

    dell’export e l’ammontare dell’import in toto, ti danno un riferimento relativo al peso commerciale che

    questo Paese può ricoprire, quindi questa grandezza serve a stabilire quanti Bancor possono venire

    assegnati a questo Paese.

  • 23

    Nel momento in cui questo Paese ha dei Bancor, deve spenderli per acquistare le risorse che un altro

    Paese offre. I Bancor allora vengono re-distribuiti in modo tale che il commercio internazionale possa

    essere, nel medio-lungo periodo, caratterizzato da saldi commerciali che tendono al pareggio. Se

    qualcuno ha dei surplus persistenti, maturano dei tassi d’interesse negativi sulle eccedenze, se qualcuno

    ha un deficit, interviene un’altra istituzione che è una Banca Internazionale, che verrà chiamata nel piano

    finale, Banca Internazionale per la Costruzione e lo Sviluppo, che stabilisce che la struttura economica

    del Paese in deficit sia caratterizzata da una precisa politica di programmazione industriale. Questo era

    il piano di Keynes.

    Il FMI prima del 1971

    La moneta internazionale che viene scelta a Bretton Woods è anche una moneta nazionale: è il dollaro

    che rappresenta nel sistema di Bretton Woods, anzitutto, il riferimento unico nei confronti dell’oro. E

    tutte le altre monete hanno un cambio fisso nei confronti del dollaro. Tante delle contraddizioni che

    caratterizzeranno il sistema monetario internazionale dal 1944 al 1971 dipendono proprio da questa

    duplice funzione del dollaro: moneta di riserva internazionale e moneta nazionale.

    Questa decisione istituzionale, insieme al fenomeno dei petrodollari4, fa sì che la Banca Centrale

    americana non abbia più controllo sul quantitativo di dollari immessi nel sistema.

    Necessariamente questo sistema - quello di Bretton Woods scelto dopo l’abbandono del piano Keynes -

    doveva essere caratterizzato almeno da uno squilibrio commerciale forte, quello del Paese che emetteva

    la moneta. Infatti gli Stati Uniti maturano un deficit commerciale che diventa crescente e conduce alle

    tensioni che porteranno poi insieme ad altri fattori politici, all’abbandono dei sistema dei grandi fissi.

    Il sistema proposto da Keynes (l’International Clearing Union) non passa e i segni della sua sconfitta

    stanno nella natura della moneta internazionale così come oggi è concepita: una moneta che non nasce

    per essere internazionale, che essendo anche una moneta nazionale, non svolge solo una funzione

    transattiva, svolge soprattutto la funzione di riserva di valore; ma il fatto che venga accumulata crea

    delle tensioni sui saldi commerciali. Se tu non spendi la moneta in modo opportuno e invece accumuli

    per fare prestiti privati ai Paesi che sono in deficit, crei un meccanismo di dipendenza duraturo tra le

    economie che difendono la loro posizione di surplus commerciale, e Paesi in deficit.

    (Con l’eccezione degli Stati Uniti che pur essendo in deficit possono coprire i propri debiti dal punto di

    vista finanziario, con l’emissione monetaria dell’unica moneta internazionale che ha funzione di riserva

    internazionale. Il sistema dell’Euro è molto lontano da questa logica).

    Si arriva a questo sistema che poteva funzionare fin tanto che vi era l’esigenza di ricostruzione dei Paesi

    europei e del Giappone al termine della seconda guerra mondiale; nel momento in cui questi Paesi

    diventano competitivi sul piano dei mercati internazionali, non può che emergere una situazione in cui

    4 Per gli interessati questo tema (al di fuori del nostro programma d’esame) può essere visto al seguente link

    http://www.treccani.it/enciclopedia/petrodollari_%28Enciclopedia-Italiana%29/

    http://www.treccani.it/enciclopedia/petrodollari_%28Enciclopedia-Italiana%29/

  • 24

    il Paese che emette la valuta internazionale ha una posizione crescente di deficit commerciale. Perché

    gli Stati Uniti possono essere un Paese che sostiene la sua crescita grazie alle esportazioni fin tanto che

    gli altri Paesi hanno bisogno dei prestiti del piano Marshall che impiegano nell’acquisto dei beni e servizi

    necessari alla loro ricostruzione. Ma nel momento in cui si ricostruiscono, si specializzano e diventano

    competitivi nelle merci che hanno caratterizzato il modello di sviluppo fordista, che è partito dagli Stati

    Uniti ma che poi trova anche varianti del modello stesso in Europa e nel mondo (come mette in luce la

    scuola della regolazione francese) si creano esattamente delle dinamiche negative per gli Stati Uniti.

    Il Fondo Monetario Internazionale diventa esattamente quella struttura istituzionale, che a seguito

    dell’abbandono del progetto di International Clearing Union, dovrebbe garantire gli interventi necessari

    ad accompagnare quel processo di allontanamento degli squilibri commerciali che non era più garantito

    dal un sistema di cambi fissi in cui tutti i cambi sono ancorati al dollaro, valuta che svolge quindi la

    funzione di moneta di riserva internazionale. Ora cosa succede effettivamente nella prima parte della

    storia di Bretton Woods? Succede che effettivamente l’FMI, accompagna con una logica parzialmente

    keynesiana il processo di riconversione industriale di alcuni Paesi, soprattutto dei Paesi africani in un

    primo momento e di alcuni Paesi europei. Ecco cosa scrive a riguardo Stiglitz:

    «Keynes non individuò soltanto una serie di imperfezioni nei mercati, ma spiegò anche perché un’istituzione come l’FMI poteva migliorare le cose. Esercitando pressioni sui paesi affinché mantenessero la piena occupazione e fornendo liquidità alle nazioni che, afflitte da un periodo di rallentamento dell’economia, non potevano permettersi di sostenere l’aumento espansivo della spesa pubblica, il Fondo monetario sarebbe riuscito a sostenere la domanda aggregata globale»5

    Tuttavia l’FMI interviene sempre a seguito di processi decisionali che rispondono ad una struttura

    politica molto sbilanciata: al suo interno i meccanismi di decisione sono commisurati alle quote di

    capitale che i Paesi membri possiedono nello stesso FMI. E il Paese che ha da questo punto di vista la

    maggioranza è quello che vale di più nelle decisioni. E il Paese più forte erano gli Stati Uniti. Motivo per

    cui la scelta politica rispetto ai piani di aiuto sin da subito è condizionata dall’idea di sviluppo economico

    mondiale che hanno gli Stati Uniti, che non devono essere analizzati come un Paese privo di dinamica

    politica interna. Cambiano tante cose negli Stati Uniti dal ’44 al ’71. Cambiano parallelamente a quel

    processo prima di annacquamento dell’approccio keynesiano (la sintesi neoclassica) e poi mano a mano

    di sfiducia rispetto alle politiche keynesiane (la nuova macroeconomia classica della seconda scuola di

    Chicago). L’idea di poter costruire meccanismi di sviluppo anche utilizzando le risorse del Fondo

    Monetario Internazionale che si appoggiassero su politiche fiscali espansive interne, diventa sempre più

    minoritaria anche al di fuori degli USA.

    Si arriva al momento del superamento del sistema di Bretton Woods con un atteggiamento nei confronti

    di questa istituzione che ne cambia la natura. In che modo? Ne cambia la natura proprio mettendo al

    5 Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002, p. 200.

  • 25

    centro l’impossibilità di costruire un meccanismo di aiuto finanziario che non sia vincolato al controllo

    delle finanze pubbliche.

    Il FMI dopo il 1971

    Si ha dunque una grande rivoluzione interna nel meccanismo di funzionamento del Fondo Monetario

    Internazionale che accade trasformando la logica con cui era stato pensato. Ne dà una descrizione molto

    accurata Stiglitz nell’introduzione a La globalizzazione e i suoi oppositori, un libro molto bello pubblicato

    nel 2002:

    «Negli anni, l’FMI è cambiato profondamente. Nato su presupposto che i mercati funzionino male, ora sostiene con fervore ideologico la supremazia del mercato. Costituito sul convincimento che occorra esercitare una pressione internazionale sugli stati affinché adottino politiche economiche più espansive, aumentando per esempio le spese riducendo le imposte, oppure abbassando i tassi d’interesse per stimolare l’economia – oggi l’FMI tende a fornire i fondi solo ai paesi che si impegnano a condurre politiche volte a contenere il deficit, ad aumentare le tasse oppure ad alzare i tassi d’interesse e che pertanto conducono a una contrazione dell’economia. [...] Il cambiamento più determinante in queste istituzioni si è verificato negli anni Ottanta, quando Ronald Reagan e Margaret Thatcher predicavano l’ideologia del libero mercato negli Stati Uniti e nel Regno Unito. L’FMI e la Banca mondiale divennero i nuovi istituti missionari preposti a diffondere queste idee in paesi poveri e riluttanti che spesso avevano un disperato bisogno di prestiti e concessioni. »6

    Oggi quindi le due funzioni principali del FMI sono le seguenti:

    1) Monitorare le politiche monetarie commerciali dei Paesi membri; quindi il FMI ha una funzione

    di sorveglianza, che avviene in questo modo: ogni anno una delegazione del Fondo analizza in

    dati relativi all’economia e i problemi di ogni Paese, formula consigli e rende disponibile a tutti

    i membri le proprie valutazioni; i Paesi aderenti si impegnano a modificare le proprie politiche

    in base alle indicazioni ricevute in modo da armonizzare il tutto

    2) Fornire aiuto finanziario a breve termine (3/5 anni) ai Paesi membri che attraversano crisi

    economiche legate a gravi squilibri legati alla bilancia dei pagamenti. Il tasso di interesse che

    viene applicato è inferiore ai tassi di mercato, ma superiore rispetto a quelli della Banca

    Mondiale. I finanziamenti del Fondo dipendono dalle sole quote di sottoscrizione versate dai

    Paesi aderenti a differenza della Banca Mondiale, la quale è finanziata dalla vendita di

    obbligazioni ai governi. A guidare il Fondo sono i rappresentanti di tutti i Paesi membri che non

    sono presenti nella misura di uno per ciascun Paese. Francia, Germania, Giappone, Gran

    Bretagna, Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita e Russia hanno un direttore esecutivo ad hoc. Per gli

    altri Paesi ci sono dei direttori che rappresentano un certo numero di stati. Chi la le quote minori

    ha una persona che ne rappresenta più di uno. Il potere di voto è proporzionale al contributo

    versato e il Fondo è controllato esclusivamente dai Paesi più ricchi che sono Stati Uniti, Canada,

    6 Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002, pp.11-12

  • 26

    Giappone, Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia, Arabia Saudita che detengono

    insieme il 51% dei voti.

    Quindi il meccanismo che stabilisce il modo in cui si prendono delle decisioni è un meccanismo un

    po’ lontano da quella che è la classica democrazia. Nel momento in cui il FMI ha rivoluzionato le

    logiche d’intervento si assiste anche al dominio dei modelli teorici di riferimento che sono quelli

    influenzati dal monetarismo di Friedman. Viene dato per scontato che la situazione di equilibro tra

    domanda e offerta corrisponda al massimo grado di impiego dell’economia; se vi è disoccupazione,

    questo dipende da uno squilibrio del mercato del lavoro esattamente come nel modello di equilibro

    economico generale che abbiamo già visto. La disoccupazione è determinata da un eccesso di offerta

    che le imprese non sono in grado di assorbire. Quindi è sufficiente una riduzione del salario

    nominale per far sì che scompaia.

    Le modalità di produzione e di accumulazione sono ininfluenti così come le modalità di

    finanziamento dell’attività di investimento. E si costruiscono modelli di crescita che devono essere

    seguiti dai Paesi che ricevono finanziamenti dal FMI, fondati tutti sull’idea che la crescita debba

    essere trainata soprattutto dai capitali esteri e che questo comporti quindi una necessaria

    privatizzazione dell’economie nazionali, una liberalizzazione dei prezzi quindi una riduzione

    dell’intervento statale.

    La distribuzione del reddito che ha origine da un mercato in cui ci sono dei prezzi flessibili farebbe

    nascere nei lavoratori la voglia di lavorare. Quindi i problemi di squilibrio dal punto di vista dei

    redditi deriverebbero dalla diversa volontà di impegno nel mercato del lavoro.

    Questo a cosa conduce dal punto di vista delle azioni programmate dal FMI quando si chiede il suo

    intervento? La cosa può essere divisa in 6 momenti .

    1) Situazione di crisi che viene individuata. Il debito estero e il debito interno obbliga il Paese a

    ricorrere a creditori istituzionali, come il FMI.

    2) Il Fondo garantisce il finanziamento a particolari condizioni: il Paese si impegna ad adottare una

    strategia economica finalizzata a raggiungere in 3 anni il riequilibrio dei conti con l’estero e dei

    conti interni. L’obiettivo si suppone raggiunto quando si riduce il tasso di inflazione. Questa

    condizione è ritenuta necessaria per permette un successivo sostegno.

    3) Riequilibrio dei conti con l’estero: la svalutazione della moneta nazionale. Essa dovrebbe

    favorire le esportazioni. Ma spesso in realtà di riduce in una riduzione dei costi delle materie

    prime per le imprese straniere che operano dentro la nazione, perché già i prezzi dell’export

    sono bassi e la diminuzione non favorisce la domanda. La moneta si svaluta talmente tanto da

    indurrei i residenti a preferire la moneta estera, solitamente il dollaro (dollarizzazione delle

    economie). Non è necessariamente uguale in tutti i luoghi. Nei Paesi in via di sviluppo genera

    una immediata convenienza nell’acquisto di materie prime ma può generare uno spiazzamento

  • 27

    competo del circuito monetario interno. La moneta estera domina le relazioni commerciali del

    Paese. Anche i beni e i servizi non vengono più venduti come prima

    4) La svalutazione rende più costosi i prodotti importati, questa cosa è l’altra faccia della medaglia

    della perdita di valore della moneta. Se dipendi da materie prime tecnologie che devi pagare in

    dollari avrai una dipendenza finanziaria maggiore, ciò implica un aumento dei costi di

    produzioni nazionali e diventa difficile controllare il tasso di inflazione (condizione per i

    successivi aiuti). Si rende necessario comprimere la componente interna dei costi di produzione

    compensando anche l’incremento avuto dai costi di produzione che deriva dai costi delle

    importazioni. I salari vengono abbattuti per compensare i costi delle materie prime : quanto

    dipendi dall’estero, tanto i salari sono ridotti.

    5) Riequilibro dei conti interni. L’inflazione deve essere ridotta e quindi attraverso la riduzione del

    costo dei lavoro e di una liberalizzazione dei mercati che magari sono ancora invece

    caratterizzati da interventi pubblici volti a cercare di introdurre dei cambiamenti sui prezzi

    oppure a contenere i prezzi sui beni di prima necessità. Secondo un approccio neoliberista, una

    maggiore complessità sarebbe invece la ricetta da prendere in considerazione perché la

    riduzione dei prezzi dovrebbe contribuire al benessere sociale, di conseguenza diventa

    necessario adottare politiche di privatizzazione dei servizi pubblici comprimere la spesa

    pubblica, e in questo contesto vengono introdotti i piani di aggiustamento strutturale. I quali

    negli anni ’90, nell’africa subsahariana, hanno causato un aumento ingente dei costi della sanità

    e dell’istruzione che viene spesso ridotta a strutture private o ONG. Spesso con dei piani di

    formazione di livello alto che sostengono esattamente queste logiche economiche. Le università

    spesso sono i luoghi in cui si criticano le vecchie politiche keynesiane; è come se si orientasse la

    popolazione ad accettare l’idea che le condizioni che sostengono la crescita economica non

    possono che fondarsi sui precetti anti-keynesiani.

    6) Se l’equilibrio interno ed esterno vengono più o meno ripristinati nell’arco dei 3 anni, anche al

    prezzo di una recessione economiche, il Paese viene classificato come stabile, virtuoso e pronto

    per un rilancio economico a buon mercato. Che si concretizza in luoghi di lavoro e figure che

    partecipano a scelte politiche che molto spesso vengono proprio dai Paesi che hanno contribuito

    a questo rilancio. Per cui le multinazionali dei Paesi che hanno anche all’interno dei FMI delle

    quote maggiori, hanno beneficiato di questa situazione. Nel 1982 quando il Messico dichiarò di

    non poter pagare più i propri debiti, il Fondo Monetario Internazionale intervenne in aiuto. Il

    Messico però fu costretto ad attuare delle riforme che avevano come obiettivo primario

    l’abbattimento di questi debiti. In particolare fu necessario ridurre la spesa pubblica,

    privatizzando e svalutando la moneta, alzare i tassi d’interesse . eliminare i limiti delle barriere

    per aprire i mercati. Secondo un rapporto del 96 che analizzava questo, si registrava un aumento

    della povertà. In 11 dei rimanenti 15 Paesi la povertà era diminutiva meno del 2%. E le spese

  • 28

    diminuivano. I tagli della sanità e la scolarizzazione hanno portato a mortalità infantile e la

    diminuzione della scolarità Tutto ciò veniva confrontato con la logica keynesiana (anni 60-70)

    che non arrivava a questi risultati. (inversione di tendenza). La svalutazione della moneta ha

    portato ad una riduzione del potere di acquisto dei salari nell’ordine del 50-60% negli 11 anni .

    Nel best seller, La globalizzazione e i suoi oppositori (2002), Stiglitz riassume le sue analisi traendone

    giudizi politici precisi, fondati e molto duri soprattutto nei confronti del FMI:

    «Sono d’accordo con l’FMI sul fatto che a volte i mercati danno prova di eccessivo pessimismo. Ma credo anche che in certe occasioni possano mostrare eccessivo ottimismo e che questi problemi non si verifichino soltanto sul mercato dei tassi di cambio. Ci sono altre imperfezioni dei mercati in particolare in quelli dei capitali, che richiedono interventi di vasta portata. Per esempio, è stata l’eccessiva esuberanza a far scoppiare la bolla del mercato immobiliare e borsistico in Thailandia – una bolla rinforzata, se non addirittura creata, dai capitali speculativi vaganti che affluivano all’interno del paese. All’esuberanza è seguito un pessimismo eccessivo quando la tendenza si è invertita bruscamente. Per meglio dire, questa inversione di tendenza nel flusso dei capitali speculativi è stata la causa alla base dell’eccessiva volatilità dei tassi di cambio. Se questo è un fenomeno paragonabile a una malattia, ha senso trattare la malattia e non soltanto le sue manifestazioni, cioè la volatilità dei tassi di cambio. Ma con la sua ideologia neoliberista, l’FMI ha facilitato il movimento dei capitali speculativi dentro e fuori dai paesi. Trattando direttamente i sintomi, immettendo cioè miliardi di dollari sul mercato, l’FMI ha di fatto peggiorato la malattia»7

    Come antidoto alla distruttività dei movimenti di capitali, potrebbe forse essere di attualità proprio il

    Piano di International Clearing Union proposto da Keynes e messo da parte a Bretton Woods:

    l’istituzione di una moneta di conto internazionale, emessa da una Camera di Compensazione

    sovranazionale in un contesto in cui ciascun Paese conserva entro i propri confini la valuta nazionale,

    ma è intestatario anche di un conto corrente presso la Camera nella nuova moneta, che utilizza per

    scambiare merci col settore estero. Ogni volta che il Paese A vende al Paese B un bene, la Camera

    accredita il valore corrispondente in Bancor sul suo conto. Il credito di cui gode A, però, non è solo verso

    B ma verso tutti i paesi registrati nella Camera. Così, il Paese A può utilizzare questo attivo per importare

    un bene da un altro paese C. Alla fine, crediti e debiti dei paesi si compensano: il saldo contabile della

    Camera è zero e la moneta internazionale letteralmente scompare. Può succedere che un paese finisca

    le sue riserve in moneta internazionale perché in deficit strutturale di parte corrente (importazioni

    cronicamente superiori alle esportazioni). In questo caso, deve pagare una multa e ripristinare la

    competitività, comprimendo la domanda interna. Ma attenzione: nel sistema anche chi ha un avanzo

    commerciale troppo elevato è soggetto al pagamento di una tassa – che non è altro che un tasso

    d’interesse negati