«Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/> Stefano Lazzarin Una magia «troppo irrimediabilmente intelligente»: Papini, Bontempelli e il fantastico novecentesco Sommario I. II. III. IV. V. Il fantastico «intelligente» Papini e l'intelligenza onnipotente La funzione-Papini nel fantastico novecentesco italiano Papini/Bontempelli: alle origini del realismo magico Bontempelli e la magia intelligente I. Il fantastico «intelligente» Dal surreale "ironico" di Gianfranco Contini 1 al fantastico "colto" di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo 2 per arrivare fino al fantastico "intellettuale" di Italo Calvino 3 , una tradizione critica ormai consolidata ha descritto il fantastico italiano del Novecento come una letteratura estremamente consapevole, intellettualistica, ironica. In una parola potremmo dire: intelligente. Non cercherò qui di ricostruire il dibattito sul fantastico italiano, né di giustificare questa definizione, avendolo già fatto in altre occasioni; 4 mi limiterò ad aggiungere una considerazione che mi sembr a indispensabile enunciare in termini espliciti: la visione del fantastico italiano come letteratura supremamente intelligente è fondata su un preciso corpus letterario, che è quello della tradizione colta. Si tratta insomma di un punto di vista, a mio avviso inoppugnabilmente radicato nei testi, ma che non esclude altre interpretazioni; queste ultime mi paiono complementari e non contraddittorie rispetto all'interpretazione da me proposta: mi riferisco in particolare al cantiere del fantastico "popolare"
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Stefano Lazzarin Una magia «troppo irrimediabilmente intelligente»: Papini … · 2011-09-21 · del fantastico italiano del Novecento sono due: Giovanni Papini e Massimo Bontempelli.
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«Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/>
Stefano Lazzarin
Una magia «troppo irrimediabilmente
intelligente»: Papini, Bontempelli e il fantastico
novecentesco
Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
Il fantastico «intelligente»
Papini e l'intelligenza onnipotente
La funzione-Papini nel fantastico novecentesco italiano
Papini/Bontempelli: alle origini del realismo magico
Bontempelli e la magia intelligente
I. Il fantastico «intelligente»
Dal surreale "ironico" di Gianfranco Contini1 al fantastico "colto" di Enrico
Ghidetti e Leonardo Lattarulo2 per arrivare fino al fantastico "intellettuale"
di Italo Calvino3, una tradizione critica ormai consolidata ha descritto il
fantastico italiano del Novecento come una letteratura estremamente
consapevole, intellettualistica, ironica. In una parola potremmo dire:
intelligente. Non cercherò qui di ricostruire il dibattito sul fantastico italiano,
né di giustificare questa definizione, avendolo già fatto in altre occasioni;4
mi limiterò ad aggiungere una considerazione che mi sembra
indispensabile enunciare in termini espliciti: la visione del fantastico
italiano come letteratura supremamente intelligente è fondata su un
preciso corpus letterario, che è quello della tradizione colta. Si tratta
insomma di un punto di vista, a mio avviso inoppugnabilmente radicato nei
testi, ma che non esclude altre interpretazioni; queste ultime mi paiono
complementari e non contraddittorie rispetto all'interpretazione da me
proposta: mi riferisco in particolare al cantiere del fantastico "popolare"
«Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/>
italiano, uno di quelli in cui attualmente si lavora di più e quello che
promette le scoperte più interessanti.5
In questa sede ci occuperemo dunque soltanto dei "piani alti" della
letteratura - sia detto senza nessun apprezzamento di valore. Ora, a chi
consideri esclusivamente la tradizione colta, appare chiaro che i fondatori
del fantastico italiano del Novecento sono due: Giovanni Papini e
Massimo Bontempelli. E in entrambi, non a caso, risulta presente - come
parola tematica e categoria estetica, ma anche come principio che informa
di sé i testi - quell'"intelligenza" che costituisce il contributo italiano alla
tradizione fantastica del secolo ventesimo. Se Papini riflette
continuamente sul significato e le applicazioni di questa nozione, e
concepisce il proprio fantastico come un'operazione estremamente
consapevole di riscrittura della tradizione classica, Bontempelli è il primo a
mettere in scena con tanta forza - come farà poi solo Landolfi - un
fantastico che si costruisce negando il modello canonico (ottocentesco), e
al tempo stesso dichiarandosi impossibile.
II. Papini e l'intelligenza onnipotente
In quanto autore fantastico, Papini risulterebbe quasi incomprensibile a chi
ignorasse i risvolti idealistico-spiritualistici della sua opera. Il pensatore
che individua il comun denominatore della propria epoca nella «volontà di
riconoscere i problemi spirituali e morali come più importanti di tutti gli altri
problemi»,6 il teorico del potere illimitato della volontà e
dell'immensificazione dell'io, e appunto il narratore di «favole oscure e [...]
colloqui inquietanti»,7 costituiscono la stessa personalità filosofico-poetica.
Vero e proprio Uomo-Dio, l'artista quale Papini lo concepisce forgia
mediante le proprie forze spirituali una realtà "ideale" che trasforma il
mondo "reale"; dopo la morte della filosofia, egli è diventato il depositario
del sogno nietzschiano di una potenza straordinaria, di una forza dello
spirito che collochi l'uomo al di sopra degli esseri e delle cose.8 Quale
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artista meglio del narratore fantastico, creatore di mondi immaginari,
potrebbe assumersi questa responsabilità demiurgica? Còlto da
irrepressibile «disgusto per il reale», l'io narrante di Un uomo finito (1912)
aspirerà logicamente a «rifar da [...] [sé], a modo [...] [suo] un diverso e più
perfetto reale»:9 «Io non voglio accettare il mondo com'è e perciò tento di
rifarlo colla fantasia o di mutarlo colla distruzione. Lo ricostruisco coll'arte
o tento di capovolgerlo colla teoria. Sono due sforzi in apparenza diversi
ma concordi e convergenti».10
Ebbene: per il vagheggiatore dell'impossibile ch'è Papini, l'intelligenza è
un'autentica divinità. Lo scrittore le dedica perfino, sulle pagine di
«Lacerba», un Inno all'intelligenza,11 sorta di poema in prosa da cui
estraggo il seguente canto di lode e invocazione:
«Intelligenza magnifica e miracolosa, rivelatrice del cielo e della terra.
Intelligenza stupenda e tremenda, redentrice di tutte le umanità.
Intelligenza onnipossente e invisibile - ala unica e sola di noi bipedi latrine.
Intelligenza demonica e maligna - solo fuoco rosso nei gelidi paradisi
bianchi della terra.
Intelligenza umana e pericolosa - non v'è altra potenza terrestre dinanzi a
te».12
Nella già menzionata autobiografia intellettuale Un uomo finito, non
soltanto Papini prende coscienza della propria vocazione di narratore
fantastico e ne indica a chiare lettere le fonti,13 ma tratta a più riprese la
questione dell'intelligenza: la simultanea presenza di questi due temi non
è certo imputabile al caso. Così, ad esempio, ecco l'io narrante papiniano
proclamare, nel cap. 15, la sua «fede nell'intelligenza spregiudicata e nella
divina virtù della poesia e nel perenne miracolo dell'arte»;14 nel cap. 32,
viceversa, temporaneamente sconfitto nel suo sogno di onnipotenza, egli
ironizza sulla «commedia della intelligenza».15 Arriviamo al cap. 43, dove il
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protagonista è terrorizzato dall'idea della cecità, ed esclama: «Non ho altra
forza che nell'intelligenza, non ho amici che tra i morti, non ho piaceri fuori
dei libri. E non potrei leggere più!».16 E verso la fine dell'opera, ormai nel
cap. 47, egli si autodefinisce «una guardia della pura intelligenza».17
L'intelligenza, nume tutelare di tutta l'opera papiniana, lo è più
particolarmente del narratore fantastico: l'autore del Tragico quotidiano
(1906) e del Pilota cieco (1907) è senz'altro uno dei più cerebrali
sperimentatori che annoveri la letteratura fantastica non soltanto italiana,
bensì universale. Questa forte dimensione intellettualistica del fantastico di
Papini - rivendicata nella Nota dell'autore premessa all'antologia personale
Strane storie (1954), laddove si accenna alla «frenesia cerebralista»18 dei
racconti di gioventù - è l'ispiratrice di un programma eminentemente
manierista di riscrittura della tradizione classica (ottocentesca) del genere.
Al fantastico canonico Papini contrappone un nuovo fantastico,
psicologico e quotidiano - secondo una linea di tendenza che giungerà,
come vedremo, fino a Italo Calvino - e tutto ipertestuale; i temi e i miti del
repertorio tradizionale vengono sottoposti a un processo di riscrittura
destinato a rinnovarli radicalmente, come rivela la Terza prefazione. Agli
Eruditi che accompagna la prima edizione del Tragico quotidiano:
«Voi troverete in queste pagine alcune di quelle figure che dettero
occasione a molte veglie pazienti: Amleto, Don Giovanni, l'Ebreo Errante,
il Demonio. Se per un qualche scrupolo bibliografico di aficionados della
letteratura comparata voi sfoglierete questo libretto vi accorgerete subito
che quei cittadini immaginari della nobile Dreamland hanno cambiato un
po' l'anima venendo con me. [...] E se non ho inventato dei nomi nuovi per
queste nuove anime accusatene il mio orgoglio: ho creduto impresa più
ardua e più difficile dar nuova vita ad immagini che già ebbero in dono
tante vite che il creare di tutto punto persone nuove».19
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III. La funzione-Papini nel fantastico novecentesco italiano
Da trent'anni a questa parte i racconti fantastici papiniani hanno suscitato
una rinnovata attenzione critica, come mostra il gran numero di contributi
che è ormai possibile reperire sull'argomento.20 Nonostante questa
rinascenza - testimoniata anche dall'interesse per il Papini utopico che
caratterizza un recente libro di Vittorio Roda sul fantastico21 - manca
tuttora, mi sembra, uno studio panoramico che mostri l'importanza della
lezione papiniana per i narratori fantastici del Novecento italiano. Esiste in
tal senso una vera e propria linea-Papini, che meriterebbe di essere
ricostruita in dettaglio; qui ci limiteremo a indicarne alcune articolazioni,
proponendo un primo censimento dei materiali disponibili.
1) L'importanza di Papini per Giorgio De Chirico e la metafisica - artistica e
letteraria - è stata dimostrata, con argomenti a mio parere definitivi, da
Maurizio Calvesi,22 il quale osserva fra l'altro che la parola stessa
'metafisica' giunse verosimilmente a De Chirico da Schopenhauer e
Nietzsche, ma attraverso l'uso che ne fece Papini.23 Da parte mia,
continuando a seguire il motivo conduttore del fantastico "intelligente",
vorrei sottolineare come una delle chiavi del sodalizio - per quanto di
breve durata - fra Papini e De Chirico sia appunto questa: la nozione e la
parola di 'intelligenza'. De Chirico ne parla fin dal 16 settembre 1915, in
una lettera a Paul Guillaume che Calvesi riporta a conferma dell'influenza
di Papini sul fondatore della metafisica. Il critico rileva l'affinità fra la
«tipologia [...] idealista, artecratica e metapsichica del superuomo, o
"Uomo-Dio"» papiniano,24 e la convinzione dechirichiana che esista una
categoria di esseri superiori, dotati del terzo occhio della visione artistica;
ma si ponga mente, nella stessa lettera, all'elogio dell'intelligenza
semidivina, che può richiamare il passo già citato dell'Inno all'intelligenza
di Papini:
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«ce don des Dieux (l'intelligence) est une chose peu commune; je crois
même que l'intelligence telle que nous l'entendons nous autres,
l'intelligence nietschienne [sic], l'intelligence qui tient du Dieu et de
l'acrobate, du héros et de la bête, est si rare qu'on pourrait presque dire
qu'elle est introuvable, et nous autres qui en avons ravi d'étincelles au ciel,
nous autres qui voyons, nous pouvons en être fiers, et heureux aussi, car
le bonheur, le doux et divin bonheur, nous est dû».25
Ecco insomma un primo snodo nel nostro percorso: l'intelligenza
papiniana transita per di qui e nutre la riflessione teorica della metafisica
(dechirichiana ma anche saviniana, come vedremo in seguito).26 Quando
poi De Chirico e Papini rompono, in circostanze non del tutto chiare, la
loro amicizia,27 ecco che la parola ritorna nelle Memorie dechirichiane con
un significato nuovo e polemico, proprio in relazione all'amico di un tempo
- e principe dell'intelligenza - Giovanni Papini:
«Molto contribuirono a provocare questa esterolatria, con conseguente
decadenza di ogni serietà e di ogni dignità nel campo dell'Arte e della
Letteratura, due uomini: Giovanni Papini ed Ardengo Soffici, i quali, anche
oggi, sono da molti considerati come dei "precursori" dello spirito nuovo,
come gli uomini che hanno fatto conoscere in Italia i "misteri" dello spirito
moderno francese, che hanno "purificato" l'aria, che hanno aperto la via
alle nuove idee e tante altre asinerie di cui noi ora subiamo le estreme
conseguenze e per sanare le quali ci vorranno lunghi anni di vera
intelligenza».28
Non c'è dunque da stupirsi che l'intelligenza sia un argomento ricorrente
nell'epistolario fra Papini e i due fratelli De Chirico, vista l'importanza che
tutti e tre annettono alla nozione e le svariate accezioni che le
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attribuiscono (come si può desumere dagli esempi forniti, l'intelligenza è
per Papini e i suoi interlocutori al tempo stesso categoria estetica,
contrassegno socio-professionale, traccia metafisica). Due esempi riportati
ancora da Calvesi - che riproduce nel suo saggio una parte del carteggio
Papini-De Chirico-Savinio29 - risultano illuminanti. Il primo è la lettera che
De Chirico scrive a Papini il 22 gennaio 1915: «Caro ed egregio Amico, Le
scrivo per esprimerLe le mie più sincere felicitazioni per il suo articolo: "Il
Mistero Brittanico" pubblicato nel «Resto del Carlino» del 21 corrente. È il
primo articolo intelligente che abbia letto fin'ora in un giornale»30 (si noti
che il corsivo appartiene a De Chirico, il quale forse, tramite l'enfasi, vorrà
alludere proprio all'Inno all'intelligenza papiniano uscito pochi mesi prima).
Quanto al secondo esempio, la firma in calce alla lettera - indirizzata
sempre a Papini il 20 aprile 1918 - è di Savinio: «Mi dicono meraviglie del
tuo giornale [«Il Tempo» di Roma] - certo il più intelligente che ci sia ora in
Italia».31
2) Abbiamo nominato il minore dei fratelli De Chirico; anche l'opera di
Alberto Savinio risulta in effetti attraversata da un tema sotterraneo
dell'intelligenza. Esso affiora a più riprese nei testi di Torre di guardia
(1934-1940), dove figurano persino due saggi contigui, Amore nascosto e
Richiamo,32 dedicati rispettivamente all'Intelligenza e alla Stupidità - un po'
come il dittico di Papini già citato, formato dalla Preghiera per l'imbecille e
dall'Inno all'intelligenza. Alla lode di ascendenza papiniana dell'intelligenza
Savinio affianca considerazioni di natura etnico-culturale; l'intelligenza gli
sembra - così come la ragione33 - una prerogativa della mente latina. In
Mangiatore di abissi, lo scrittore contrappone, secondo uno schema
dicotomico che ritorna spesso nei suoi testi a carattere saggistico, la civiltà
latina alla gotico-germanica, e considera l'intelligenza e l'ironia quasi due
specificità italiane:
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«L'uomo intelligente, e particolarmente l'italiano, possiede una
preziosissima facoltà che lo mette in guardia contro le seduzioni della
fantasia astronomica. Questa facoltà è l'ironia. Se Ludovico Ariosto ha
potuto senza danno montare in groppa agli ippogrifi e mandare in giro i
suoi paladini per gli spazi interplanetari, è perché messer Ludovico non si
è mai lasciato sfuggir di mano questo utilissimo filo d'Arianna: l'ironia».34
I racconti offrono conferme interessanti; basterà menzionare un esempio
abbastanza noto, quello di Mia madre non mi capisce (nella raccolta Casa
«la Vita», 1943):
«Se i libri di Nivasio Dolcemare non negano l'esistenza di Dio, è perché in
essi l'inesistenza di Dio è sottintesa e vi si parla di là dall'esistenza di Dio,
di là da molti postulati che una volta, e non per lui ma per gli altri, erano
essenziali ma che lui Nivasio non ha preso in seria considerazione
neppure da ragazzo, e che di poi ha completamente dimenticato.
Orgoglioso è Nivasio di questo argenteo vuoto che lo circonda e che egli
riempie della sua sola intelligenza, come si riempie di vino una coppa di
cristallo».35
3) Dino Buzzati conosceva i racconti e le prefazioni di Papini? Lo scrittore
bellunese, appassionato lettore dei grandi testi del fantastico europeo e in
particolar modo dei capolavori ottocenteschi, al punto da dichiarare senza
ambage che ad aver avuto «influsso» su di lui erano «gli scrittori
dell'Ottocento»,36 non sembra dover molto agli scrittori della tradizione
italiana, con la cospicua eccezione di Leopardi.37 Ma appunto Papini
potrebbe rappresentare un'altra eccezione. Sull'argomento esiste uno
studio di Neria De Giovanni, che tuttavia sottolinea le differenze più che le
somiglianze tra i due scrittori. Attraverso un'analisi prevalentemente
tematica, De Giovanni approda a una caratterizzazione oppositiva del
«Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/>
fantastico papiniano e buzzatiano: in Papini, sostiene, quel che conta è
«l'eccezionalità, la straordinarietà» dell'esperienza narrata;38 in Buzzati, al
contrario, conta l'effetto di realtà barthesiano, la verosimiglianza
dell'evento che perturba l'ordine consueto della quotidianità. E dunque:
«Papini [...] non vuole fare apparire verosimili le sue storie, bensì
straordinarie e impossibili, in ciò collocandosi nella dimensione
diametralmente opposta a Buzzati che invece utilizza ogni tecnica
letteraria per indurre il lettore a credere al suo "fantastico"».39 La tesi è
interessante ma discutibile; basterà pensare a uno scritto teorico molto
importante di Papini, la Seconda prefazione. Ai Filosofi anteposta al
Tragico quotidiano. Come ha dimostrato Maurizio Calvesi, la prefazione
papiniana costituisce la fonte principale delle famose pagine di De Chirico
sulla visione "metafisica";40 ora, io credo che anche Buzzati la conoscesse,
e ne abbia tenuto conto. I passi più significativi in tal senso sono due;
entrambi pongono l'accento sui prodigi nascosti nella realtà di tutti i giorni,
che l'uomo per eccesso di routine non sa più riconoscere: