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Spunti di Nutrizione Pediatrica per il corso di Biotecnologie Mediche Dispense del corso di Pediatria, Modulo di Nutrizione, primo anno del corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche, Università degli studi di Trieste. Alberto Tommasini Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico Burlo Garofolo, Trieste Con la collaborazione di Erica Valencic e Elisa Piscianz IRCCS Burlo Garofolo e Università di Trieste 3° revisione, Marzo 2011
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Spunti di Nutrizione Pediatrica per il corso di Biotecnologie Mediche · Con la collaborazione di Erica Valencic e Elisa Piscianz IRCCS Burlo Garofolo e Università di Trieste 3°

Feb 16, 2019

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Spunti di Nutrizione

Pediatrica per il corso

di Biotecnologie Mediche Dispense del corso di Pediatria,

Modulo di Nutrizione,

primo anno del corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie

Mediche, Università degli studi di Trieste.

Alberto Tommasini

Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico

Burlo Garofolo, Trieste

Con la collaborazione di Erica Valencic e Elisa Piscianz

IRCCS Burlo Garofolo e Università di Trieste

3° revisione, Marzo 2011

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Premessa

1

Dichiarazione di responsabilità e

conflitto di interessi.

Questo testo è nato come dispensa delle lezioni di Pediatria

presso il corso di Biotecnologie Mediche dell’Università di

Trieste.

In esso sono contenute informazioni di carattere medico ad

esclusivo scopo didattico. Nonostante gli sforzi per garantire la

correttezza e l’aggiornamento dei materiali, il testo non può

essere considerato come fonte di indicazioni per la pratica

clinica su di sé o sugli altri.

L’autore non risponde di eventuali utilizzi di questo testo al di

fuori delle finalità didattiche per cui è stato scritto. L’autore

dichiara inoltre di non avere conflitti di interessi che possano

aver influenzato quanto scritto.

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Premessa

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Che cosa un pediatra può insegnare ai

biotecnologi?

Il progresso della tecnologia procede da molti anni con un

andamento esponenziale che nell’ultimo secolo ha visto

crescere enormemente la quantità delle nostre conoscenze e

la possibilità di intervenire sui processi che regolano la vita

animale. Alcune considerazioni vanno tuttavia fatte. I

fenomeni biologici di solito alternano periodi di crescita

esponenziale a periodi di crisi, cambiamento e, nuovamente,

crescita. Allo stesso modo la conoscenza di un fenomeno

biologico può aumentare progressivamente fino ad un certo

punto, dopodiché non potrà procedere se non cambiando le

metodologie e gli obiettivi della ricerca. L’aumento di

conoscenze e possibilità conduce a ricadute difficilmente

prevedibili, con conseguenti conflitti tra sentimenti di

onnipotenza e frustrazioni di impotenza (chi avrebbe detto un

secolo fa che sarebbe stato più facile viaggiare sulla luna che

curare un tumore?). Buona parte della ricerca biomedica è

finanziata da istituzioni sanitarie o da cittadini (attraverso

associazioni senza fine di lucro), alle domande dei quali

bisogna saper rispondere senza inganni quando si comunicano

i programmi e i risultati della ricerca. Nonostante l’enorme

potenza della bio-informatica avremo bisogno ancora per

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Premessa

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molto di trovare le cose semplici nella complessità, le regole o

anche solo le ipotesi nella mole dei dati.

A queste considerazioni si aggiungono altri problemi: come

può essere determinata l’attendibilità della letteratura

scientifica? E’ infatti osservazione comune che non tutte le

esperienze pubblicate sono costantemente riproducibili. Quali

possono essere, inoltre, le conseguenze bio-informatiche di

una ridotta pubblicazione dei risultati negativi della ricerca?

Nonostante gli enormi progressi della medicina, il

miglioramento della nostra salute (mortalità infantile

diminuita più di 10 volte rispetto a un secolo fa; aspettativa di

vita media fortemente aumentata) è probabilmente dovuto

più a fattori socio-economici (nutrizione, igiene e lavoro) e

ambientali (cultura e ridotta natalità) che alle tecnologie

mediche. Tuttavia esistono alcune malattie debellate

dall’intervento medico (ad esempio dai vaccini) e altre

fortemente modificate dalle tecnologie terapeutiche

(antibiotici, sieri e farmaci) e diagnostico/preventive

(screening, etc).

La strada da fare è ancora molto lunga e può essere percorsa

solo finché rimane un intimo contatto tra chi cura e chi fa

ricerca biomedica.

Per questo il biotecnologo medico deve conoscere i problemi

sui quali la ricerca può agire, ma anche il linguaggio per

interagire passo passo con il mondo clinico. Inoltre, è bene

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Premessa

4

ricordare che la cosiddetta medicina molecolare è solo uno dei

possibili approcci allo studio biomedico e non

necessariamente quello che produce i risultati più utili: se

potessimo fotografare tutte le sinapsi di un cervello

contemporaneamente e misurare ciascuna molecola che le

attraversa, non saremmo in grado di ipotizzare neanche

lontanamente a che cosa quel cervello pensava. Un

elettroencefalogramma o una tomografia ad emissione di

positroni potrebbero dirci probabilmente qualcosa di più.

Questo solo per ricordarci che sono le domande cui si vuole

rispondere e il piano sperimentale a rendere utile la ricerca.

E allora perché un pediatra? Perché tradizionalmente si

occupa di alcune patologie trattate nel corso, forse. Però è

anche vero che la visione della medicina di un pediatra può

offrire anche alcune specificità: essa è affine alla genetica,

perché in età pediatrica si manifesta la maggior parte delle

condizioni monogeniche. La genetica offre alla pediatria la

diagnosi molecolare delle malattie e recentemente anche la

terapia genica per alcune di queste. La pediatria, d’altra parte

offre alla medicina i cosiddetti “esperimenti della natura”, che

vestono i geni di significato e che collegano le molecole alle

funzioni.

La pediatria inoltre vede l’evoluzione delle funzioni al primo

contatto con l’ambiente ed è quindi il primo punto per

osservare quanto i cambiamenti di quest’ultimo possano

influire sulla salute. Questo è vero, in particolare, per

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Premessa

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quell’interfaccia dove avviene la maggior parte del confronto

molecolare con l’ambiente, cioè il tubo digerente. Il corso di

nutrizione focalizzerà proprio su questi aspetti. Molte “prove”,

portate a sostegno dei concetti descritti nel testo, derivano

proprio dagli esempi fornitici dall’esperienza clinica e genetica

di alcune malattie tipicamente infantili.

Il biotecnologo potrà intervenire per migliorare la salute sia sul

lato ambientale (evoluzione e sicurezza degli alimenti, cibi

ottenuti da organismi geneticamente modificati) che sul lato

della medicina.

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Premessa

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Il docente

Alberto Tommasini è nato nel 1966. Medico Pediatra e

ricercatore presso l'IRCCS Burlo Garofolo e docente a contratto

presso l’Università di Trieste.

Il campo di attività riguarda l’immunologia clinica, dalle

immunodeficienze primitive alle malattie autoimmuni e

reumatologiche. Uno dei fili conduttori dell’attività clinica e di

ricerca ha riguardato lo studio di difetti genetici della

regolazione immune caratterizzati da infiammazione e

autoimmunità. Più recentemente si è interessato alla

manipolazione cellulare in vitro per lo sviluppo di terapie

cellulari.

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A chi sul lavoro e nella vita di ogni giorno

ha condiviso le difficoltà e le soddisfazioni

di un percorso a metà strada tra la clinica e la ricerca

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1. Introduzione

2. Intestino e ambiente

3. Il latte materno

4. Le allergie alimentari

5. La malattia celiaca

6. La malattia di Crohn

7. Abbreviazioni e glossario

8. Bibliografia

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1. Introduzione

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1. Introduzione

Le malattie multifattoriali immunomediate: tra genetica e

ambiente.

Un’elevata percentuale delle malattie multifattoriali può

essere ricondotta a errori di funzionamento del sistema

immunitario, dovuti a loro volta in quote diverse a fattori

genetici ed ambientali1.

Alcuni esempi sono elencati nella tabella 1, che riporta anche

una stima approssimativa della diffusione di ogni malattia

nella popolazione. Come si può vedere, nell’insieme, queste

malattie interessano una percentuale rilevante della

popolazione.

Un aspetto interessante è che molte di queste malattie

mostrano una diversa incidenza nel tempo e in diverse aree

geografiche. Ciò suggerisce che mutamenti ambientali abbiano

avuto un ruolo rilevante nella loro genesi.

Questo accade ad esempio per il diabete insulino-dipendente

(o diabete mellito di tipo 1, DMT1), la malattia infiammatoria

cronica dell’intestino, la malattia celiaca e le allergie. Tuttavia

non è stato facile fino ad oggi (se non forse per la celiachia)

identificare i cambiamenti ambientali che hanno

maggiormente inciso sul rischio di sviluppare queste malattie.

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1.Introduzione

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Endocrinopatie autoimmuni 1:100

Diabete Mellito di tipo 1 (o insulino-dipendente)

Tireopatie autoimmuni

Iposurrenalismo

Ipoparatiroidismo

Ipopituitarismo

Altre malattie autoimmuni 1:1000

Miastenia gravis

Epatite autoimmune

Sclerosi Multipla 1:2000

Psoriasi 1:50

Citopenie autoimmuni

Allergie 1:20

Allergie alimentari

Asma

Malattie reumatologiche 1:100

Artrite reumatoide

Lupus Eritemaoso Sistemico

Altre

Malattia infiammatoria cronica dell’intestino

1:500

Malattia celiaca 1:100

Tabella 1. Prevalenza approssimativa di alcune malattie immunomediate

In senso generale, si riconosce che lo stile di vita

“occidentalizzato” ha costituito il determinante comune

dell’aumento di incidenza di queste patologie. Stile di vita

occidentalizzato significa diverse cose:

• maggior disponibilità di alimenti, migliore nutrizione;

• maggior ricorso ad alimenti già preparati e conservati

(frigorifero);

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1. Introduzione

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• migliori standard igienici (disponibilità e potabilità

dell’acqua, fogne, riscaldamento degli ambienti, etc.);

• minor rilevanza di patologie infettive (prevenzione delle

infezioni con vaccini; diminuite gastroenteriti e infestazioni

da parassiti; tendenza alla scomparsa di patologie come

tubercolosi e lebbra);

E’ bene sottolineare che la maggior parte dei cambiamenti

alimentari e igienici che si sono verificati nei paesi più

sviluppati ha avuto conseguenze positive. Per rendersi conto

di quanto questo sia vero, è sufficiente osservare la quota di

mortalità ancora oggi legata direttamente o indirettamente

alla malnutrizione nei paesi più poveri. Secondo alcune analisi,

i maggiori determinanti della riduzione della mortalità

infantile e dell’aumento dell’aspettativa di vita risiedono nelle

migliori condizioni nutrizionali (quantità, qualità e sicurezza

microbiologica degli alimenti), igieniche (acqua potabile,

minor affollamento domestico, luminosità e riscaldamento

degli ambienti) e socio-culturali (scolarizzazione, prevenzione

delle gravidanze precoci). Gli interventi medici (vaccinazioni in

primo luogo, ma anche disponibilità di antibiotici) hanno un

impatto minore.

Quindi, per ora, a conti fatti, dovremmo essere contenti di

pagare il prezzo di questo benessere con l’aumento di alcune

malattie che, tutto sommato sembrano abbastanza

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1.Introduzione

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controllabili con le terapie mediche. Eppure è importante

capire come i cambiamenti ambientali hanno influenzato la

nostra salute, perché negli ultimi due secoli, come vedremo

più in dettaglio, l’umanità ha accelerato enormemente il ritmo

del cambiamento, per la prima volta influenzando in modo

rilevante l’ecosistema in cui vive.

Pochi numeri saranno utili a comprendere meglio

l’argomento.

L’evoluzione biologica dell’uomo si è svolta in circa 3 milioni di

anni, caratterizzati da un’alta pressione di selezione. La

probabilità di morire prima di poter generare una prole era

molto elevata e il saldo demografico veniva mantenuto in

parità o in lieve crescita da un elevato rapporto di gravidanze

per donna fertile. In tal modo, si ritiene che la variabilità

genetica dei figli abbia consentito lentamente, di generazione

in generazione, un adattamento ottimale e relativamente

stabile all’ambiente. Negli ultimi secoli, invece, la rapidità del

cambiamento ambientale (avvenuto nell’arco di poche

generazioni) e la diminuita pressione selettiva (legata al

miglioramento delle condizioni igienico-alimentari) non hanno

potuto produrre un significativo adattamento della specie.

Questo significa che, dal punto di vista biologico, l’uomo

rispecchia in massima parte un adattamento ad un ambiente

diverso da quello che si è creato negli ultimi due secoli.

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1. Introduzione

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Fig. 1.1. L’evoluzione dell’uomo e le sue ere alimentari. Tratto da

http://www.museum.agropolis.fr/pages/expos/fresque/la_fresque.htm

Gli studiosi, infatti, distinguono in questa storia tre ere

principali, ciascuna con durata assai diversa. Come si può

desumere dalla figura 1.1, l’era più recente ha una durata

puntiforme rispetto alle altre ere. Tuttavia in quest’era, si è

assistito a cambiamenti alimentari, demografici e sanitari di

dimensioni storiche enormi: sono diminuite fino a quasi

scomparire alcune malattie infettive, mentre sono comparse e

aumentate molte malattie multifattoriali. E’ ragionevole

pensare che un ruolo nella patogenesi di queste malattie sia

stato giocato dal confronto di un organismo che era adattato

ad un ambiente diverso e che non ha avuto il tempo di

adattarsi ai nuovi cambiamenti, verificatisi nel giro di poche

generazioni.

Durante l’era agro-industriale stiamo assistendo ad altre

transizioni di portata storica: la transizione demografica e la

transizione alimentare. Nella transizione demografica

possiamo riconoscere 3 fasi:

• un periodo di aumento esponenziale della popolazione,

dovuto al mantenimento del pre-esistente elevato tasso di

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1.Introduzione

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fertilità cui si aggiunge una progressiva riduzione della

mortalità (per motivi nutrizionali, igienici e medici);

• un periodo di equilibrio in cui il tasso di fertilità comincia a

diminuire ma la riduzione della mortalità prosegue,

consentendo un saldo attivo della popolazione;

• una terza fase, in cui il tasso di fertilità diminuisce

ulteriormente (essenzialmente per motivi socio-culturali)

fino a giungere ad una crescita di popolazione intorno allo

0.

I paesi più ricchi hanno già compiuto questa transizione,

mentre i paesi più poveri sono ancora nella sua fase centrale

(e le proiezioni sul compimento di questa presentano diversi

punti di incertezza). In una posizione intermedia si pongono i

paesi asiatici (fig. 1.2, 1.3, 1.4).

Anche la transizione alimentare può essere divisa in diverse

fasi.

• 1. Il miglioramento delle condizioni nutrizionali ha inciso

largamente sulla diminuzione diretta (fame) e indiretta

(infezioni) di mortalità.

• 2. I cambiamenti si sono consolidati producendo probabili

ricadute positive sui figli di donne ben-nutrite (questo ha

portato in generale ad un aumento della statura media

della popolazione).

• 3. Si teorizza il rischio che un eccesso alimentare (obesità)

possa interrompere i trend sanitari positivi ed influenzare

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1. Introduzione

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forse per la prima volta una diminuzione dell’aspettativa di

vita nei paesi più ricchi.

Oltre all’aumentata disponibilità di cibo, la transizione

alimentare ha visto tuttavia altri importanti cambiamenti. Ad

esempio, il contenuto di proteine nel frumento è

drasticamente cambiato, con un aumento rilevante della

quota rappresentata dal glutine (dal 2 al 20% del contenuto

proteico) e questo cambiamento ha reso via via più evidente

l’esistenza di soggetti intolleranti al glutine. Non solo, come

sarà discusso più avanti (cap. 5), le manifestazioni cliniche

della celiachia sono a loro volta cambiate nell’ultimo secolo di

pari passo con il cambiamento delle condizioni igieniche.

Ancora, la nutrizione dei lattanti con latte vaccino è un

fenomeno che ha conosciuto un’ampia diffusione solo negli

ultimi due secoli; le modalità di conservazione dei cibi sono

completamente cambiate: dalla salatura, affumicatura e

salamoia si è passati sempre più all’utilizzo di conservanti o

alla conservazione in frigorifero.

L’aumento di alcune delle malattie multifattoriali che stiamo

osservando potrebbe essere la conseguenza di queste

transizioni epocali, che rischiano di essere più rapide rispetto

alla nostra capacità di adattamento biologico. Lo studio delle

malattie di oggi, quindi, potrebbe aiutarci a vigilare meglio sui

cambiamenti che produciamo all’ambiente e a prevederne i

possibili effetti dannosi per la salute di domani.

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1.Introduzione

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Fig. 1.2. Stime della popolazione e proiezioni dal 2005 al 2050 in diverse aree geografiche

2.

Fig. 1.3. Variazioni del tasso di natalità in diverse aree geografiche. La

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1. Introduzione

19

crescita 0 si osserva per un tasso leggermente superiore a 22.

Fig.1.4. Aspettativa di vita e proiezioni in diverse aree geografiche

2.

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2. Intestino e ambiente

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2. Intestino e ambiente

La nostra sopravvivenza come quella di ogni essere vivente è

resa possibile solo dall’assunzione di sufficienti quantità e

qualità di nutrienti. I nutrienti servono al tempo stesso a

fornire le molecole essenziali per il funzionamento

dell’organismo e le fonti energetiche per il loro utilizzo.

L’organismo umano dedica alla funzione nutritiva un apparato

molto complesso e raffinato: l’apparato digerente.

I primi passaggi (masticazione, omogenizzazione con saliva e

poi con succhi gastrici acidi, neutralizzazione del pH acido e

digestione da parte di enzimi pancreatici) sono rivolti alla

semplificazione dell’alimento e alla progressiva

solubilizzazione e digestione delle molecole in esso contenute.

Nelle prime porzioni del digiuno sono resi disponibili peptidi,

aminoacidi, monosaccaridi, lipidi e altre molecole che vengono

assorbite per lo più attraverso meccanismi specifici facilitati da

recettori o per diffusione semplice. In condizioni normali, il

materiale residuo che passa nell’intestino crasso non

dovrebbe contenere più quantità apprezzabili di nutrienti. I

batteri in esso contenuti favoriscono la degradazione di

macromolecole non utilizzate, come la cellulosa,

metabolizzano i residui proteici indigeriti, e sintetizzano

vitamine del gruppo B e K.

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2. Intestino e ambiente

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In realtà le cose non sono così semplici. Il fatto che la mucosa

intestinale sia dedicata all’assorbimento di molecole semplici,

fa sì che il suo epitelio sia disponibile al contatto con le

sostanze provenienti dall’ambiente con un effetto di barriera

molto fragile (sicuramente molto più fragile di quello presente

ad esempio sulla pelle). Ci troviamo dunque di fronte al

paradosso di un sistema molto vulnerabile che, per necessità

di sopravvivenza, deve essere continuamente messo alla

prova da sostanze provenienti dall’ambiente esterno: in

questa situazione eventuali sostanze tossiche o dannose o

batteri patogeni possono facilmente mettere in crisi il sistema,

penetrando all’interno del circolo ematico o danneggiando il

sistema di approvvigionamento dei nutrienti. Ma questo è un

rischio che si deve correre, se si vuole poter sfruttare la più

ampia gamma di sostanze nutritive presenti nell’ambiente. A

far fronte a questo rischio, per fortuna, si sono sviluppati

alcuni fattori di difesa: in primo luogo, il pH acido dello

stomaco, oltre a svolgere una funzione digestiva è in grado di

neutralizzare (nell’adulto) molti batteri. In secondo luogo, il

tubo digerente è disseminato di cellule del sistema

immunitario, organizzate in diversi livelli: cellule mucosali,

sotto mucosali, noduli linfatici isolati, placche del Peyer, il

tutto gravitante sul sistema di linfonodi mesenterici (fig 2.1).

Complessivamente, questo sistema costituisce il secondo

organo linfoide per dimensioni dopo la milza. Il cosiddetto

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2. Intestino e ambiente

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sistema immune associato alle mucose (MALT) comprende il

50% del tessuto linfatico dell’intero organismo e provvede al

70% della produzione anticorpale (in massima parte

rappresentata da IgA).

Fig 2.1. Sistema immune associato alla mucosa intestinale: follicoli linfatici

solitari; aggregati follicolari in placche organizzate (Placche del Peyer). Da

Sinelnikov, Atlante di Anatomia

Questi dati non sorprendono, ove si ricordi che l’intestino, per

i motivi sopra elencati, è un luogo di contatto continuo tra gli

antigeni estranei e il sistema immunitario. Il compito del

sistema immunitario in realtà non è semplice, perché prevede

che la maggior parte del contenuto alimentare venga tollerato

(questo è necessario per la nostra nutrizione), ma prevede

anche che agenti potenzialmente dannosi vengano identificati

e combattuti efficacemente. Alcuni autori suggeriscono che la

mucosa intestinale sia una centrale di addestramento sia per

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2. Intestino e ambiente

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la tolleranza immune sia per la risposta ai patogeni. Ad

esempio, è stato dimostrato che anticorpi di tipo IgA prodotti

contro Escherichia coli enterotossigeni a livello intestinale,

vengono successivamente ritrovati oltre che nei fluidi

intestinali anche nel latte materno e nella saliva. Secondo

alcuni studi, in soggetti con gravi malattie, la nutrizione

enterale, a differenza di quella parenterale, garantisce il

mantenimento di una produzione anticorpale di superficie,

anche a vantaggio della mucosa respiratoria, con migliore

difesa dalle infezioni respiratorie. Questa difesa sarebbe

garantita dalla ricircolazione di linfociti intestinali, attraverso i

linfonodi mesenterici nel dotto toracico e quindi nella

circolazione sanguigna sistemica (fig. 2.2).

Questo avviene a maggior ragione per la risposta di tolleranza

ai cibi e non solo. La differenza tra tolleranza e immunità sta

probabilmente nel modo con cui vengono riconosciuti gli

antigeni dal lume intestinale: antigeni corpuscolati (inglobati

dalle M cells e passati attraverso le placche del Peyer) e

antigeni riconosciuti in presenza di particolari tossine o di

componenti batteriche associate a patogenicità (PAMPs,

pathogen associated molecular patterns), tenderanno a

produrre una risposta immunitaria di difesa. Gli altri antigeni

saranno invece identificati come “cibo” e indurranno una

risposta di tolleranza. Possiamo dire che, in assenza di fattori

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2. Intestino e ambiente

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patogeni definiti, il programma di funzionamento basilare del

sistema immune mucosale dell’intestino è la tolleranza.

Fig 2.2. Ricircolo dei linfociti nei diversi siti mucosali.

Ora, è bene notare che i due fenomeni devono essere in un

equilibrio perfetto. La risposta contro i patogeni, infatti, non

ha solo conseguenze positive (eliminazione del patogeno) ma

anche negative (infiammazione e danno tessutale): una volta

avviata, una reazione a patogeni rischierebbe di estendersi

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2. Intestino e ambiente

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facilmente ad altri antigeni estranei presenti nel bolo

alimentare. Come fa il sistema a capire che non appartengono

al patogeno anch’essi? Non lo può capire, lo deve sapere già.

Saperlo già significa che devono esistere linfociti specializzati a

riconoscere gli antigeni alimentari come non nocivi,

specializzati in altre parole a tollerare questi antigeni, evitando

che la reazione immune venga estesa a questi. Deve esistere

cioè una memoria della tolleranza. Il fenomeno della

tolleranza agli alimenti (e anche della flora batterica saprofita)

deve quindi essere, almeno in parte, un fenomeno attivo.

L’esistenza di una tolleranza attiva mantenuta da specifiche

cellule è sostenuta anche dalle osservazioni che, attraverso la

somministrazione orale di antigeni è possibile estendere la

tolleranza anche in organi distanti dell’intestino e che, in

animali da laboratorio, questa tolleranza può essere trasmessa

ad altri animali attraverso l’infusione di linfociti periferici

(Linfociti regolatori, vedi scheda). L’importanza di questo

equilibrio per la nutrizione, e quindi per la vita, rende conto

delle dimensioni importanti del sistema immune intestinale. E’

chiaro, altresì, che una perturbazione di questo equilibrio, per

motivi diversi, potrebbe portare a conseguenze molto gravi: si

tratta proprio delle malattie di cui ci occupiamo in questo

corso.

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2. Intestino e ambiente

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Per meglio comprendere questi aspetti, può essere utile

richiamare alcune conoscenze generali sulle modalità della

risposta immune e di tolleranza.

Le cellule del sistema immunitario possono schematicamente

essere suddivise in tre gruppi:

• Cellule dell’immunità naturale. Sono capaci di fagocitare

sostanze estranee e di presentarne frammenti ai linfociti.

Sono attivate da strutture molecolari condivise di

derivazione batterica (i PAMPs), attraverso il legame con

molecole del gruppo dei toll like receptors (TLR). Sono in

grado di fagocitare cellule (batteriche o fungine o cellule

danneggiate), detriti e altre particelle opsonizzate da

molecole del complemento o anticorpi. Producono

sostanze capaci di modificare la permeabilità vasale e

capaci di richiamare altre cellule. Producono enzimi litici e

degradativi.

• Cellule natural killer. Sono dedicate soprattutto a vigilare

sulle anomalie delle cellule dell’organismo (per infezioni

virali; per trasformazione neoplastica). Producono la lisi

delle cellule bersaglio con vari meccanismi.

• Linfociti T e B. Sono le cellule dell’immunità adattativa.

Durante il loro sviluppo, ciascuna cellula va incontro a un

processo di ricombinazione genetica del proprio recettore

(recettore dei linfociti T o TCR; immunoglobuline per i

linfociti B) che è uno dei presupposti essenziali per la loro

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2. Intestino e ambiente

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definitiva maturazione. Successivamente, in seguito a

fenomeni di selezione centrale (timo per i linfociti T) e

periferica (organi linfatici) ciascuna cellula matura potrà

dare origine ad un clone più o meno ampio, recante

un’unica specificità recettoriale. Per quanto riguarda i

linfociti T, il processo di selezione centrale è molto

rigoroso, e conduce infatti all’eliminazione di più del 90%

delle cellule durante la maturazione nel timo. Attraverso

meccanismi solo in parte decifrati, il timo vaglia i recettori

dei linfociti T, distinguendo almeno tre tipi di linfociti:

quelli inutili o dannosi, che vengono eliminati; quelli

potenzialmente utili, che vengono selezionati; quelli

reattivi verso il self che, secondo l’ipotesi più accreditata,

vengono selezionati con un programma di lavoro che

permetterà la loro attivazione a difesa di possibili

autoaggressioni (linfociti regolatori o Treg, vedi scheda).

Questa breve descrizione risponde all’osservazione fatta già

un secolo fa da Paul Erlich che, a fronte dell’esistenza di

un’ampia gamma di specificità anticorpali, postulava

l’esistenza di un “horror autotoxicus”, cioè di qualche

meccanismo che impedisse al sistema immunitario di fare

anticorpi anche contro le molecole del proprio organismo.

Infatti, all’interno della centrale di addestramento timica ogni

recettore può essere confrontato con una gamma (quasi)

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2. Intestino e ambiente

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completa di antigeni dell’organismo. Tuttavia, in questa sede

non può avvenire il confronto tra il TCR e l’altrettanto ampia

varietà di antigeni alimentari che, al pari di quelli self, devono

essere tollerati. Questo scenario quindi non spiega come si

possa generare la tolleranza verso gli antigeni alimentari. La

domanda è quindi se esistano veramente linfociti regolatori

della tolleranza verso gli alimenti e se sì come e dove questi si

formino?

Una risposta ragionevole potrebbe essere che la tolleranza

verso gli alimenti nasca primariamente proprio nell’intestino,

e non nel timo, come accade invece per la tolleranza verso il

self. Questo, in effetti, sembra essere vero, almeno in parte.

Nella mucosa intestinale, infatti, vengono generate grandi

quantità di altri tipi di linfociti regolatori, che sembrerebbero

più specializzati proprio per questa funzione.

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2. Intestino e ambiente

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Linfociti regolatori e tolleranza immune: diverse prove

diversi linfociti.

1) I linfociti Tregs o natural Tregs o i “linfociti di Sakaguchi”. La prima dimostrazione dell’esistenza di questi linfociti deriva da una ricerca di S. Sakaguchi del 1995

3. Venivano utilizzati topi privi

di timo a causa di una variante genetica omozigote (topi nude BALB/c nu/nu) e topi singenici eterozigoti per la caratteristica nu (BALB/c nu/+) provvisti di un normale sistema immune. I topi nude, se non vengono tenuti in ambiente sterile, muoiono rapidamente a causa dell’assenza di un sistema immune. Linfociti ottenuti da linfonodi e milza di topi BALB/c nu/+ sono tuttavia in grado di ricostruire un sistema immune funzionale in questi animali permettendo la sopravvivenza in un ambiente normale. Sakaguchi scoprì che il trasferimento dei linfociti depletati di una piccola popolazione di linfociti CD4 caratterizzata dall’elevata espressione del CD25 (catena alfa del recettore dell’IL-2) causava nei topi riceventi lo sviluppo di malattie autoimmuni multiple. Per un limitato periodo di tempo dopo l’infusione, lo sviluppo di queste malattie poteva essere bloccato dall’aggiunta delle cellule precedentemente sottratte (CD4+CD25+). L’autore concludeva pertanto che quella popolazione dovesse contenere linfociti in grado di mantenere la tolleranza verso il self. Una decina di anni dopo, lo stesso autore dimostrò che quella particolare popolazione di linfociti CD4+CD25+ veniva generata nel timo e svolgeva la sua azione grazie all’espressione del fattore di trascrizione FOXP3

4.

Questo studio dimostra che il gene FOXP3 è importante nella formazione di un sottogruppo di linfociti regolatori (CD4+CD25+) in grado, quando stimolati, di bloccare l'attivazione di linfociti presenti nell'ambiente circostante. In particolare, la ricerca prova che FOXP3 è espresso nel timo, soprattutto nei linfociti CD4+CD25+, dove la quantità di espressione è circa 100 volte maggiore che negli altri linfociti. L’espressione forzata di FOXP3 in linfociti T naive per mezzo di un transgene si associa ad una diminuita capacità proliferativa, a una diminuita produzione di citochine e ad una aumentata espressione di alcune molecole di superficie caratteristiche dei linfociti regolatori (GITR, CD104, CTLA-4). Le cellule trasdotte in questo modo si mostrano in grado di

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2. Intestino e ambiente

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sopprimere in co-cultura la proliferazione di cellule CD4+CD25- in modo proporzionale all'espressione del transgene. Si precisa infine che l'attività soppressiva dipende dallo stimolo del recettore delle cellule regolatrici (è cioè secondaria all'attivazione di queste cellule) e si esplica attraverso il contatto cellulare e non semplicemente dalla produzione di citochine regolatorie (come descritto per altri tipi di cellule regolatorie). A conferma del ruolo regolatorio delle cellule FOXP3+ vengono compiuti anche degli studi in vivo, in cui si dimostra che le cellule transgeniche per FOXP3 sono in grado di curare la malattia causata nei topi irradiati dalla somministrazione dei soli linfociti CD4+CD25-. Nel 2001 (due anni prima di quest’ultimo studio di Sakaguchi), mutazioni del gene FOXP3 erano state descritte come responsabili di una rara sindrome genetica legata al cromosoma X e caratterizzata dalla comparsa precoce di molteplici fenomeni autoimmuni e allergici. Questa malattia, denominata IPEX (Immunodysregulation Polyendocrinopathy Enteropathy X-Linked) rappresenta l’esempio genetico del difetto dei linfociti regolatori, responsabili del mantenimento della tolleranza. Nella nostra esperienza, la cura e lo studio di un bambino con questa malattia hanno costituito un’occasione importante di incontro tra l’esemplarietà di una malattia monogenica per la ricerca di base e le ricadute delle conoscenze a servizio delle necessità cliniche

5-7.

2) Altri linfociti regolatori. Tr1 e tolleranza intestinale. I “linfociti

della Roncarolo”. Si tratta di un altro gruppo di linfociti, capaci di sopprimere l’attivazione di linfociti nel microambiente circostante (bystander action) per mezzo di citochine regolatrici, come l’interleuchina 10 e TGFbeta. Questi linfociti non hanno bisogno del contatto diretto con la cellula bersaglio e possono in tal modo favorire una tolleranza di ambiente, non specifica solo per un determinato antigene. Linfociti regolatori di questo tipo sono molto comuni nella mucosa intestinale dove, tra l’altro, l’IL-10 contribuisce a down-regolare l’eccessiva attivazione dei fagociti in continuo contatto con i più vari stimoli ambientali.

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2. Intestino e ambiente

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L’apprendimento dell’ambiente.

Il primo anno di vita è il periodo in cui avviene il maggiore

adattamento del nostro organismo all’ambiente: questo è

vero tanto per lo sviluppo del nostro cervello che per quello

del nostro sistema immune. In entrambi i casi,

l’apprendimento ha un costo energetico e cellulare elevato

(perdita di neuroni nel cervello e perdita di linfociti nel timo).

In entrambi i casi si imparano le regole per interagire con

l’ambiente: il sistema nervoso pone le basi per il linguaggio,

per il riconoscimento del sé dall’ambiente esterno (se non

ancora per la coscienza dell’”io”); il sistema immune impara la

tolleranza e la risposta immune e monta le prime risposte

adattative all’ambiente. Il primo anno è, di fatto, il momento

privilegiato perché queste interazioni si possano sviluppare

correttamente. I primi mesi sono “tutelati” dal rapporto con la

madre che, non a caso, vede fondersi il momento alimentare

con quello della conoscenza dell’ambiente: la conoscenza

tattile, gustativa e olfattiva del seno e del latte; la conoscenza

uditiva della voce della madre, il riconoscimento dei suoi

occhi; la conoscenza di tracce di alimenti ingeriti dalla madre

attraverso il latte; la graduale conoscenza di un mondo

microbiologico che si accresce pian piano. E’ logico pensare

che la perturbazione di queste condizioni nel primo anno di

vita possa avere conseguenze sia sul lato cognitivo sia su

quello immunologico.

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2. Intestino e ambiente

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La maturazione dell’immunità

intestinale nel bambino.

Ci sono prove che già in utero avvenga un certo

riconoscimento di antigeni alimentari che possono

raggiungere il feto attraverso il sangue placentare. Di fatto,

linfociti specifici per antigeni alimentari possono essere

identificati nel sangue cordonale della maggior parte dei

neonati 8-10

. In questa fase la risposta immune è però

dominata da un complesso programma immunologico che

garantisce al tempo stesso la tolleranza reciproca tra madre e

feto. Alla nascita si verificano diversi eventi in grado di

modificare in varia misura questo equilibrio.

• L’intestino del neonato viene rapidamente colonizzato da

batteri. Ci sono diverse dimostrazioni che questa

colonizzazione contribuisca a modellare l’organizzazione

del sistema immune del bambino. I linfociti B produttori di

IgA e IgM cominciano a colonizzare la mucosa intestinale

dopo una settimana dalla nascita, raggiungendo livelli

stabili solo dopo un mese. Questo non avviene in neonati

alimentati per nutrizione parenterale totale (fig. 2.3).

L’osservazione che bambini nati con taglio cesareo (in

condizioni di maggior sterilità), tendono ad avere

un’incidenza di allergie maggiore rispetto ai neonati da

parto spontaneo potrebbe fornire un altro dato indiretto a

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2. Intestino e ambiente

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sostegno dell’importanza della colonizzazione intestinale

precoce nella maturazione del sistema immunitario.

• Il bambino conosce gli antigeni alimentari attraverso

l’intestino. Questi possono essere forniti da formule per

lattanti o direttamente dall’allattamento materno. In

quest’ultimo caso, il contatto con la cute materna fornisce

un’ulteriore fonte di germi per la colonizzazione

intestinale. Inoltre, il latte materno, come vedremo nel

prossimo capitolo, contiene diverse sostanze e cellule

immunologicamente attive.

• Gli alimenti contribuiscono a modellare il sistema immune

direttamente (per le loro caratteristiche chimiche e

antigeniche) e indirettamente (per le loro caratteristiche

nutrizionali e per la capacità di influire sulla costituzione

della flora batterica intestinale).

E’ possibile che diverse modificazioni di questi elementi

possano influenzare ampiamente lo sviluppo della tolleranza

intestinale, influenzando il rischio di sviluppare malattie

allergiche, e forse anche infiammatorie e autoimmuni.

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2. Intestino e ambiente

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Fig. 2.3. Ruolo degli alimenti nella maturazione del sistema immune

mucosale

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3. Il latte materno

35

3. Il latte materno

Il latte materno è certo l’alimento naturale per un lattante.

Questo non significa necessariamente che sia il migliore

possibile. Però è stato fino ad oggi l’alimento che ha permesso

la sopravvivenza dei cuccioli umani (e dei mammiferi in

generale) ottenendo quindi dalla selezione naturale una sua

“certificazione di qualità”. Il senso di questa certificazione è

biunivoco, nel senso che è ragionevole pensare che

l’evoluzione abbia premiato le coppie nutrice-lattante

associate contemporaneamente alla migliore qualità del latte

(selezione della madre) e alla miglior capacità di tollerare

l’alimento e di utilizzarlo (selezione del bambino).

Si potrebbe d’altra parte obiettare che alcune delle condizioni

che hanno fatto la “forza” del latte materno oggi sono mutate

(almeno nei paesi più ricchi). Ad esempio, il latte materno

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3. l latte materno

36

costituisce un alimento ragionevolmente puro dal punto di

vista microbiologico (non contaminato da patogeni) e anzi

microbiologicamente protetto grazie alla presenza di alte

concentrazioni di anticorpi solubili. Queste qualità sono

particolarmente importanti per il lattante, che non è ancora in

grado di difendersi efficacemente dai patogeni assunti per via

orale, data la minore acidità dei succhi gastrici e la maggiore

permeabilità intestinale. Queste qualità fanno tuttora il

successo del latte materno nei paesi più poveri e a minori

standard igienico-sanitari. Si calcola, anzi, che il ricorso

all’allattamento materno nei paesi più poveri potrebbe

prevenire, con vari meccanismi, il 13% di tutte le cause di

morte in bambini sotto i 5 anni 11.

Oggi però è possibile preparare sostituti del latte materno con

prodotti microbiologicamente puri, almeno per quanto

riguarda l’alimentazione del mondo più ricco. Tuttavia le

differenze tra il latte materno e i suoi sostituti non si

esauriscono qui.

Alcune evidenze suggeriscono, infatti, che il latte materno

abbia un effetto sulla funzione immune del piccolo lattante

molto diverso rispetto al latte di formula.

• Nel 1996, venne evidenziato che il timo di lattanti allattati

al seno aveva dimensioni molto maggiori (fino a doppie)

rispetto al timo di bambini allattati con latte di formula 11

.

La differenza non era dovuta ad una differenza di

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3. Il latte materno

37

frequenza di infezioni nei due gruppi. Secondo studi più

recenti, l’effetto potrebbe essere dovuto alla presenza nel

latte di IL-7, una citochina tipica dello sviluppo timico dei

linfociti, o in alternativa dal diverso condizionamento della

flora batterica intestinale.

• Dati epidemiologici collegano l’allattamento al seno con un

ridotto rischio di malattie infettive nei primi mesi di vita, in

particolare con le gastroenteriti, ma anche infezioni

respiratorie. Questa protezione dipende sicuramente in

parte dall’effetto diretto delle immunoglobuline contenute

nel latte materno. In particolare, il latte contiene grandi

quantità di IgA (intorno a 1g/L), immunoglobuline

caratterizzate da importanti proprietà, tra cui la resistenza

alla proteolisi e la capacità di bloccare antigeni patogeni

senza provocare una rilevante reazione infiammatoria.

Tuttavia, molti dati suggeriscono che il latte materno abbia

anche un effetto indiretto sulla protezione da agenti

infettivi, favorendo una corretta maturazione del sistema

immune.

• L’allattamento al seno sembra associato con un rischio

ridotto di sviluppare alcune malattie immunomediate a

distanza, tra cui il diabete autoimmune. Questo rischio è,

in realtà, difficile da misurare, trattandosi di malattie

multifattoriali la cui patogenesi può essere influenzata da

diversi cambiamenti ambientali.

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3. l latte materno

38

• In alcuni neonati prematuri può verificarsi una condizione

di stress acuto a carico dell’intestino con conseguente

necrosi ipossica dell’organo (enterocolite necrotizzante del

prematuro). L’intervento terapeutico in questi bambini

prevede tra l’altro una restrizione alimentare e la

somministrazione di antibiotici. Nei bambini allattati con

latte umano, la rialimentazione precoce è tollerata senza

aggravamento della patologia, diversamente da quanto

avviene per il latte di formula, la cui introduzione deve

quindi essere posticipata. Questa differenza è stata

secondo alcuni attribuibile al benefico effetto del fattore di

crescita degli epiteli (EGF) contenuto nel latte materno.

Le proprietà biologiche che permettono questi risultati non

sono ancora del tutto comprese. Va però osservato che molte

differenze dipendono dal processo di sterilizzazione del latte

formulato. Il trattamento al calore inattiva molte molecole

biologicamente attive (citochine, fattori di crescita, anticorpi e

ormoni), distrugge le cellule (il latte è ricco di macrofagi e altre

cellule) e modifica altre sostanze nutritive. Il latte materno, al

contrario, viene consumato come tale poco dopo la sua

“preparazione”, mantenendo inalterata l’attività di tutte

queste sostanze.

In altre parole, possiamo dire che la differenza è inevitabile, se

si considera il latte non solo per le sue proprietà nutritive ma

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3. Il latte materno

39

anche per la presenza di molecole bioattive e di cellule. E’

bene precisare tuttavia che non conosciamo ancora, fino a che

punto queste qualità biologiche siano utili al corretto sviluppo

del lattante, dato che in condizioni ambientali ideali esistono

poche differenze tra i bambini allattati al seno e quelli

alimentati con le attuali formule sostitutive.

Vediamo di seguito le caratteristiche del latte materno cui

usualmente viene attribuita importanza rispetto al latte di

formula, anche se per la maggior parte di queste non è facile

misurare il reale beneficio a vantaggio del bambino.

• Compatibilità immunologica. Come accennato in

precedenza, la compatibilità degli antigeni del latte

materno con il sistema immune del bambino è stata

oggetto di una selezione naturale lunga quanto la genesi

stessa dell’uomo. Le molecole del latte di altri mammiferi

forse non sono così diverse, ma non hanno passato questo

lungo periodo di “prova di compatibilità”, dato che sono

state introdotte massicciamente nell’alimentazione dei

lattanti solo negli ultimi due secoli.

• Immunoprotezione. Diverse componenti presenti nel latte

materno possono contribuire ad un effetto protettivo

contro i patogeni. In primo luogo vanno considerate le

immunoglobuline di classe A (IgA). E’ bene sottolineare

che questi anticorpi non costituiscono un’aspecifica difesa

verso patogeni: essi portano con sé la memoria

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3. l latte materno

40

dell’ambiente in cui vive la mamma e in cui si inserisce il

lattante. Oltre alle immunoglobuline, il latte contiene

alcune proteine ad azione diretta antibatterica: il lisozima,

in grado di lisare la parete dei batteri gram+ per mezzo di

un’azione digestiva sul proteoglicano; la lattoferrina, in

grado di inibire la crescita batterica sottraendo ferro e

stimolando la produzione di citochine (la lattoferrina

costituisce la prima proteina nel latte umano, con

concentrazioni di 1-4 g/L); la lattoaderina, una

glicoproteina in grado di legare ed inattivare il rotavirus.

Ancora, il latte contiene oligosaccaridi e mucine che

possono interferire con l’adesione batterica alle cellule

intestinali. Oltre a tutte queste molecole, il latte è ricco in

cellule (100-1000 cellule/mcL), in particolare macrofagi,

che potrebbero svolgere un ruolo nell’intestino del piccolo

lattante, oltre che, ovviamente, nel prevenire l’infezione

del latte all’interno della ghiandola mammaria.

• Effetto antinfiammatorio e maturazione della mucosa.

Questi effetti sembrano essere garantiti da una miscela di

citochine e fattori di crescita, caratterizzata dalla

prevalenza di citochine antinfiammatorie, come il TGF-

beta e l’IL-10, e dalla presenza di fattori come l’epidermal

growth factor (EGF) ed il fattore di crescita dei monociti e

granulociti, GM-CSF.

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4. Le allergie alimentari

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4. Le allergie alimentari

La nascita del concetto di allergia.

Possiamo far iniziare questa storia verso la fine dell’ ‘800.

Edward Jenner aveva posto le basi per le vaccinazioni, Luis

Pasteur aveva da poco dimostrato il collegamento tra

microrganismi e malattie, Robert Koch aveva evidenziato i

criteri necessari per confermare la relazione causa-effetto tra

infezione e malattia (postulati di Koch). Nel 1885 Pasteur

utilizza per la prima volta il vaccino contro la rabbia e nel 1891

Emil Adolf von Behring a Berlino utilizza per la prima volta il

siero anti-difterico in un bambino ammalato di difterite. Le

infezioni costituivano a quel tempo la principale causa di

malattia e di morte. I progressi della microbiologia e i primi

passi dell’immunologia suggerivano la possibilità di un

cambiamento, ancor più enfatizzata dal generale spirito

positivista della scienza di fine secolo.

In questa ambientazione, nel 1896 si assiste al primo decesso

in seguito all’utilizzo di un siero anti-difterico, evento che

colpisce ancor di più in quanto si trattava di un trattamento

preventivo in un bambino sano. Successivamente vengono

riportati altri casi di reazione da siero, accompagnati dalla

comparsa di febbre, macchie cutanee e insufficienza renale

con shock. La patogenesi di questa malattia non venne subito

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4. Le allergie alimentari

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compresa finché nel 1903 Arthus dimostrò che iniezioni

ripetute di siero in conigli provocano simili reazioni e von

Pirquet e Shick sottolinearono il fattore temporale della

malattia da siero ed ipotizzarono che la malattia potesse

costituire una “collisione tra antigeni e anticorpi”.

Si tratta di un’ipotesi che rivoluzionerà lentamente

l’interpretazione di molte malattie.

Il XIX secolo aveva visto nelle infezioni la causa riconoscibile

della maggior parte delle malattie e nel sistema immunitario la

difesa da parte dell’organismo. I sintomi delle malattie

venivano anch’essi attribuiti all’azione diretta dei

microrganismi.

Von Pirquet (fig 4.1), invece, partendo dalla similitudine tra i

sintomi tipici della malattia da siero e quelli presenti in molte

malattie infettive esantematiche, ipotizzò per la prima volta

che i sintomi delle malattie infettive potessero derivare non

tanto dall’azione del germe ma dalla risposta contro di esso da

parte del sistema immunitario.

L’ipotesi, per l’epoca poteva sembrare molto azzardata, ma in

realtà si appoggiava su un’altra osservazione fondamentale: il

rapporto temporale tra la causa ed il sintomo. Il tempo di

“incubazione” della malattia da siero era, infatti, simile a

quello di alcune malattie esantematiche, come il morbillo (Lo

studio di von Pirquet, vedi scheda).

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4. Le allergie alimentari

43

Fig. 4.1. Clemens von Pirquet, ricordato in un numero del J. Immunology

Come vedremo, questi pensieri non hanno costituito solo una

speculazione filosofica ma, dimostrando che la risposta

immunitaria può essere responsabile di sintomi

“inappropriati”, aprirono il grande capitolo dello studio delle

malattie immunomediate. Questo filo logico continua oggi

nell’osservazione della patomorfosi (cambiamento nel tempo

della modalità di esprimersi di una malattia) di alcune malattie

infettive: vecchie malattie (ad esempio la tubercolosi) hanno

cambiato la loro presentazione nel tempo, a causa di

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4. Le allergie alimentari

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cambiamenti dell’ambiente e dell’ospite e non è da escludersi

che alcune infezioni si esprimano solo con lo scatenamento di

malattie multifattoriali immunomediate. Il paradosso di un

sistema immune che può creare malattia diventa ancor più

evidente in un’epoca in cui il benessere fa passare in secondo

piano la gravità delle infezioni e fa emergere l’apparente

contraddizione che von Pirquet indica come allergia (allos

ergon = alterata reattività). L’esempio di von Pirquet ci fa

comprendere la continuità tra la patologia immune di ieri

(soprattutto infettiva) e la patologia immune di oggi

(soprattutto dis-reattiva).

L’allergia, come intesa oggi, in realtà è un fenomeno immune

abbastanza diverso da quello illustrato da von Pirquet. Di

fatto, lo studioso estese ben presto il concetto ad una serie di

diverse manifestazione dovute a inappropriata risposta

immune. Reazioni che in seguito, Gell e Coombs

raggrupparono in 4 classi.

La malattia da siero corrisponde all’ipersensibilità di tipo III,

mediata da immunocomplessi. L’esempio più tipico di malattia

da immunocomplessi nell’uomo è oggi quello del Lupus

Eritematoso Sistemico.

La risposta allergica corrisponde invece a meccanismi diversi,

per lo più riconducibili alle reazioni di ipersensibilità di tipo I

secondo Gell e Coombs. Ma il concetto di una alterata

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4. Le allergie alimentari

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reattività immune, come meccanismo di malattia, resta valido

ed è oggi alla base di numerose malattie.

Lo studio di von Pirquet

Clemens von Pirquet studia teologia a Innsbruck e filosofia a Leuven, poi Medicina a Graz fino a trasferirsi all’Ospedale pediatrico di Vienna verso l’inizio del ‘900, sotto la guida del prof Escherich (padre degli Escherichia coli). In questo vivace ambiente scientifico, von Pirquet affronta il paradosso tra malattia e protezione immune, sostenendo che un agente patogeno causerebbe segni di malattia nell’organismo solo dopo essere “modificato” dalla presenza di anticorpi. Il tempo di incubazione della malattia coinciderebbe con il tempo richiesto per la formazione degli anticorpi. Per l’epoca si trattava di una teoria particolarmente innovativa e un po’ eretica rispetto ai successi del “positivismo” microbiologico. Nel 1903 (all’età di 29 anni), von Pirquet invia una lettera sigillata all’accademia delle Scienze di Vienna contenente quello che oggi verrebbe definito il suo “progetto di ricerca”. In esso era contenuta l’ipotesi di partenza e le modalità con cui l’autore si proponeva di dimostrarla. La busta sarebbe stata aperta 5 anni dopo alla presenza dello stesso von Pirquet.

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4. Le allergie alimentari

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L’ipotesi era che sintomi di malattie esantematiche come il morbillo fossero dovuti non direttamente al patogeno ma alla risposta dell’organismo contro di questo. Infatti, la febbre, le lesioni cutanee e il tempo di incubazione potevano ricordare proprio la reazione da siero. Somministrando siero di cavallo a conigli, von Pirquet dimostrò che (vedi immagine): - la formazione di anticorpi circolanti dopo l’infusione di grandi

quantità di siero eterologo è ritardata; - il ritardo è simile a quello che si osserva nella comparsa dei

sintomi della malattia da siero e nell’incubazione di alcune malattie esantematiche;

- una seconda infusione successiva porta a un calo degli anticorpi circolanti e alla comparsa immediata di sintomi;

- la reazione è specifica: la seconda infusione deve contenere lo stesso siero;

- piccole dosi di siero inducono anticorpi ma non sintomi clinici. A questa alterata reattività dell’organismo, in grado di produrre sintomi, von Pirquet dà il nome di “allergia“ (allos-ergon).

Diversi meccanismi per diverse allergie:

risposta pronta reaginica; risposta

ritardata cellulare.

La risposta allergica ricade prevalentemente tra le reazioni di

ipersensibilità di tipo I e di tipo IV secondo Gell e Coombs.

Le reazioni di tipo I dipendono dalla stimolazione di una

risposta linfocitaria dominata dalle citochine IL-4, IL-5 e IL-10

(profilo Th2) in assenza di una sufficiente attivazione di

meccanismi contro-regolatori (produzione di IgA o IgG

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4. Le allergie alimentari

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neutralizzanti; attivazione di linfociti regolatori specifici). I

linfociti Th2 sostengono a loro volta la produzione di

immunoglobuline di tipo IgE da parte dei linfociti B (effetto

dell’IL-4) e l’attivazione di granulociti eosinofili (effetto dell’IL-

5). Le IgE specifiche, dette anche reagine, si legano ai recettori

Fc sulla membrana dei mastociti, fino al momento in cui

incontrano l’allergene. Il riconoscimento dell’allergene, di

solito provvisto di epitopi ripetuti, provoca il raggruppamento

delle IgE di superficie e la degranulazione dei mastociti, con

rilascio di istamina e di altre sostanze bioattive. L’istamina

provoca vasodilatazione ed aumento della permeabilità

vasale, con conseguente edema dei tessuti, stimolazione delle

terminazioni nervose, prurito, rilascio di neuro-peptidi. Queste

reazioni si sviluppano in genere nel giro di minuti

(eccezionalmente ore) dopo il contatto con l’allergene e sono

dette perciò anche reazioni di “ipersensibilità immediata” o

“reazioni pronte” o “reaginiche”. Questo tipo di reazione,

infine, avrà diverse conseguenze in base all’organo in cui si è

verificato l’incontro con l’allergene.

Nella pelle, reazioni minori condurranno alla formazione del

pomfo, lesione elementare caratterizzata da edema

superficiale (dovuto all’aumento di permeabilità vasale),

pruriginosa e circondata da un’area più o meno ampia di

eritema (dovuto alla vasodilatazione). Reazioni più estese

possono condurre a vaste chiazze di orticaria e in caso di

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4. Le allergie alimentari

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compromissione più profonda ad angioedema (in questo caso

l’edema interessa anche gli strati cutanei profondi e il

sottocute).

Un allergene che venga inalato entrerà invece a contatto con

la mucosa respiratoria, a diversi livelli, a seconda della sua

dimensione. Particelle più grandi stimoleranno una risposta

immune a livello della mucosa nasale e paranasale

provocando edema e secrezione nasale (rinite allergica) e, nei

casi più gravi, sinusite e proliferazione della mucosa. A livello

bronchiale, l’allergene potrà invece provocare, in soggetti

predisposti (broncoiperreattività) bronco costrizione ed

edema della mucosa con diminuzione del calibro bronchiale e

difficoltà espiratoria (espirazione prolungata con fischi e

gemiti, asma). Una complicazione temibile delle reazioni

allergiche è l’edema della glottide, che può portare a morte

per soffocamento.

A livello dell’apparato digerente si potranno avere sintomi

come edema delle labbra, prurito, vomito e enterocolite

allergica.

La persistenza della stimolazione allergica può condurre ad

uno stato di infiammazione allergica cronica, caratterizzato da

un ruolo maggiore degli eosinofili e dalla persistenza di

edema.

In alcuni casi, sono sufficienti minime dosi di antigene che

raggiungano il circolo per provocare reazioni allergiche

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4. Le allergie alimentari

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sistemiche (anafilassi) che possono portare rapidamente a

decesso per shock circolatorio. Il trattamento, in questi casi,

richiede l’utilizzo di adrenalina, per mantenere il circolo e

secondariamente di antistaminici e cortisonici per arginare la

risposta allergica.

Le reazioni allergiche ritardate avvengono di solito a ore o

giorni dall’introduzione dell’allergene e sono dovute a un

meccanismo immunologico diverso, classificabile come

reazione di tipo IV secondo Gell e Coombs. Sono basate su

questo meccanismo alcune allergie come l’enteropatia da

proteine del latte vaccino. Il criterio temporale ha particolare

importanza nella diagnosi di allergia. In particolare la relazione

di causa-effetto tra l’esposizione all’allergene e lo sviluppo dei

sintomi sarà in genere evidente per reazioni immediate. Per

reazioni più lente e/o in caso di sintomi più sfumati, la

relazione di causa-effetto può essere dubbia. In questi casi,

elementi aggiuntivi per la diagnosi specifica possono essere

ottenuti da test di provocazione cutanea (prick test) o dalla

ricerca di anticorpi IgE specifici nel sangue (RAST). Anche

l’aumento degli eosinofili nel sangue (o nel muco nasale) dopo

stimolo con l’antigene può fornire un utile parametro

informativo.

Il prick test è una procedura diagnostica che ricerca la

presenza nella cute di mastociti sensibilizzati con IgE

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4. Le allergie alimentari

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specifiche. Infatti, nelle ipersensibilità immediate, le IgE

tendono a distribuirsi sui mastociti in tutte le sedi,

indipendentmente dalla

localizzazione dei sintomi

(respiratori, cutanei,

gastroenterici). La cute

offre quindi un

“laboratorio” facilmente

accessibile dove ricercare

la presenza di questi

anticorpi.

In pratica, una goccia di

soluzione contenente

un’appropriata

concentrazione

dell’antigene viene

applicata sulla cute e con

un ago si produce una

piccola scarificazione in

modo da interrompere la barriera epiteliale e facilitare il

contatto dell’antigene con i mastociti cutanei (fig. 4.2). Nel

caso che siano presenti IgE specifiche, queste indurranno la

degranulazione dei mastociti, e la formazione del pomfo. Le

dimensioni e la forma del pomfo e dell’area eritematosa che lo

circonda possono fornire un dato semi-quantitativo

Fig. 4.2.Esecuzione di un prick test.

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4. Le allergie alimentari

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sull’intensità dell’allergia. L’esame è eseguito di solito

confrontando diversi allergeni con un controllo positivo

(istamina).

Questo test, in presenza di una sintomatologia allergica, ha un

elevato potere informativo, tuttavia è bene tenere in

considerazioni alcuni aspetti. Primo, la positività al prick test

non indica necessariamente un’allergia con espressione clinica

manifesta: alcuni soggetti possono avere il prick test positivo

ma possono tollerare (con vari meccanismi compensatori)

l’allergene. In questi soggetti un’esclusione dell’allergene

potrebbe avere conseguenze peggiori che una continua

esposizione. Il prick test può risultare falsamente negativo in

soggetti che assumono farmaci antistaminici e

corticosteroidei. Infine, non sempre l’antigene applicato nel

prick test rispecchia fedelmente quello in grado di provocare

la reazione allergica (che può essere ad esempio un allergene

derivato dalla digestione di proteine nell’apparato digerente).

Un test equivalente rispetto al prick test è costituito dai RAST.

In questo caso, gli anticorpi IgE specifici sono misurati nel siero

dei pazienti per mezzo di una metodica radio-immunologica. I

vantaggi dei RAST stanno nell’elevato numero di allergeni

valutabili contemporaneamente e nella possibilità di ottenere

un dato quantitativo indipendente dal trattamento attuale del

paziente. Gli svantaggi stanno nel costo, ma anche in

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4. Le allergie alimentari

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un’eccessiva identificazione di risposte allergiche clinicamente

non rilevanti.

Nel caso di allergie con ipersensibilità di tipo ritardato, i test

utili per la conferma diagnostica saranno differenti,

includendo il dosaggio di anticorpi di tipo IgG (ad esempio

nell’enteropatia da intolleranza alle proteine del latte vaccino)

o l’applicazione dell’antigene per periodi di 48-72 ore (patch

test, nella dermatite da contatto).

In ogni caso, una prova della responsabilità di un dato

alimento in una reazione allergica potrà derivare da test di

scatenamento, in cui si riproduca (con le precauzioni adeguate

rispetto al tipo di reazione) la tipica relazione temporale tra

applicazione dello stimolo e manifestazione clinica. In caso di

sintomi soggettivi o più difficilmente misurabili e oggettivabili,

potrà essere utile eseguire test di scatenamento in doppio

cieco, cioè somministrando in giorni diversi l’antigene

“mascherato” in modo che né il medico né il paziente lo

possano riconoscere, fino a completamento della procedura.

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4. Le allergie alimentari

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Allergie alimentari: allergia al latte.

L’allergia alimentare al latte è una condizione relativamente

frequente nei primi anni di vita, interessando il 5% dei

bambini. Il sintomo più frequentemente associato all’allergia

al latte è costituto dalla dermatite, ma è bene ricordare che

meno di un terzo delle dermatiti eczematose dei primi anni di

vita dipendono da allergie alimentari. Più raramente, l’allergia

al latte può presentarsi anche (o soltanto) con sintomi di tipo

anafilattico (cioè sintomi a comparsa acuta e in genere a

interessamento multi-organo, mediati da IgE). Questi sono

riassunti nella tabella seguente (tab. 4.1).

Localizzazione Segni e sintomi

Cavo orale Prurito a labbra, lingua e palato, edema di labbra e lingua, sapore metallico in bocca

Cute Eritema, prurito, orticaria, angioedema, rash, piloerezione

Apparato digerente

Nausea, dolore addominale (colica), vomito e diarrea

Apparato respiratorio

Rinorrea, congestione nasale e starnuti; Prurito e tensione in gola, disfonia, tosse abbaiante prurito nei condotti uditivi esterni; dispnea, tosse profonda.

Apparato circolatorio

Astenia, sincope, dolore toracico, tachicardia, disaritmia, ipotensione

Altro Prurito periorale, eritema congiuntivale e lacrimazione, dolore lombare e contrazioni uterine, sensazione di morte.

Tab. 4.1. Segni e sintomi di allergia a seconda della localizzazione

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4. Le allergie alimentari

54

Nelle forme più gravi, l’anafilassi coinvolge anche l’apparato

respiratorio e circolatorio in un quadro che può giungere allo

shock e alla morte (tab 4.2). Si tratta di casi rari, ma

particolarmente gravi, perché spesso possono essere

provocati da esposizione a quantità minime di antigene, tanto

da poter essere inavvertite.

Tab. 4.2. Gradi di anafilassi, dal prurito allo shock.

Le reazioni più blande possono essere controllate con un

antistaminico, mentre nei casi più gravi è indispensabile

ricorrere all’uso dell’adrenalina, per mantenere la circolazione

e il respiro.

Purtroppo, le reazioni anafilattiche tendono a ripetersi

costringendo chi ne soffre a evitare con estremo rigore il

contatto con le sostanze scatenanti. Dato che, come si diceva,

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4. Le allergie alimentari

55

contatti inavvertiti non sono infrequenti, anche da contatti

minimi attraverso la cute o per via inalatoria 12,13

, il paziente

dovrà anche essere costantemente munito di una dose di

adrenalina auto-iniettabile, da utilizzare in caso di necessità

(fig. 4.3).

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4. Le allergie alimentari

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Va da sé che la vita per

questi soggetti cosiddetti

“super-allergici” con rischio

di anafilassi è

pesantemente penalizzata.

Impone infatti una difficile

dieta di esclusione (tracce

occulte di latte possono

essere contenute in molti

alimenti 14,15

) e una difficile

vita sociale (feste,

ristoranti, comunità) ma

nonostante ciò permane

comunque il rischio di

andare incontro a

manifestazioni gravi,

potenzialmente mortali. D’altra parte, la maggior parte dei

pazienti tende a risolvere spontaneamente la propria allergia

con la crescita e ritornando ad assumere gli alimenti

incriminati dopo alcuni anni di dieta. Tuttavia, non sempre

questo accade, e c’è una piccola parte di pazienti in cui

l’allergia non diminuisce nonostante la dieta 16,17

. In realtà ci

sono ragionevoli motivi per ritenere che lo sviluppo di una

tolleranza specifica sia più difficile in totale assenza

dell’antigene. Infatti, come abbiamo già discusso, la tolleranza

Fig. 4.3. Manifesto informativo

sull’uso di adrenalina auto-

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4. Le allergie alimentari

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immune non è solo un fenomeno passivo (assenza di linfociti

reattivi contro un dato antigene), ma soprattutto un

fenomeno attivo (presenza di linfociti specifici per l’antigene e

specializzati nel mantenimento della tolleranza).

Per questo motivo, ci si è domandati se si potessero sviluppare

protocolli per re-indurre la tolleranza attiva in questi soggetti,

somministrando l’allergene in un regime controllato e sicuro,

in modo da garantire almeno la tolleranza di piccole dosi e di

permettere una migliore qualità di vita.

Alcune esperienze, in un contesto un po’ diverso, suggerivano

che effettivamente l’anafilassi può essere prevenuta con una

forzata esposizione a piccole dosi dell’antigene: ad esempio,

nell’anafilassi da veleno di imenotteri, esistono procedure di

desensibilizzazione basate sull’iniezione sottocutanea ripetuta

di piccole dosi dell’allergene. Per le allergie alimentari, invece,

sono stati proposti protocolli basati sulla somministrazione

sublinguale o orale dell’antigene in causa, a dosi ripetute e

incrementali, avviando la procedura in un ambiente

ospedaliero protetto, dove eventuali reazioni gravi possono

prontamente essere fronteggiate 18,19

.

Con queste procedure si ottengono, in diversi centri (tra cui

quello della Clinica Pediatrica di Trieste), risultati sicuramente

incoraggianti. La maggior parte dei bambini trattati riesce a

tollerare dosi più o meno alte dell’alimento, di solito ben al di

sopra di quelle che possono essere responsabili di assunzioni

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4. Le allergie alimentari

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accidentali. In altre parole, se bevi ogni giorno mezzo bicchiere

di latte puoi essere sicuro che non avrai una reazione

anafilattica bevendone un cucchiaio.

Queste procedure di desensibilizzazione sono ancora

largamente empiriche, e si basano sul graduale aumento della

dose, giocando ai limiti delle dosi tollerate senza sintomi

importanti. Sfortunatamente, non sono ancora chiari i

meccanismi cellulari e molecolari che permettono il

raggiungimento della tolleranza in questi pazienti. Sembra

probabile che un ruolo all’inizio della procedura sia svolto

dall’“esaurimento” della risposta anticorpale specifica, per

continua lieve stimolazione; un altro fenomeno, potrebbe

risiedere nell’induzione di anergia nei linfociti specifici

continuamente stimolati; ancora, un effetto anti-allergico

viene attribuito ad una diversa modalità di risposta

anticorpale contro l’antigene con IgG4 bloccanti piuttosto che

con IgE; infine, ci si aspetta che la tolleranza definitiva si associ

anche allo sviluppo di linfociti regolatori, in grado di

mantenere attivamente lo stato di tolleranza. Una migliore

conoscenza di come la desensibilizzazione orale possa attivare

questi e altri meccanismi potrà forse permettere in futuro di

migliorare in termini di tempi ed efficacia i protocolli di

desensibilizzazione.

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4. Le allergie alimentari

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Atopia e stile di vita “occidentale”:

l’ipotesi igienica.

L’atopia è una condizione di predisposizione allo sviluppo di

risposte allergiche espresse variamente (eczema, rinite ed

asma), in risposta a comuni ed innocui antigeni ambientali.

Una parte dei fattori predisponenti è stata identificata:

• nella maggior attitudine dell’atopico a produrre IgE;

• in una risposta esagerata da parte di mastociti ed

eosinofili; nell’ipereattività bronchiale (nel caso dell’asma);

• nell’aumento di permeabilità cutanea (nel caso della

dermatite atopica).

Si tratta per lo più di caratteri geneticamente determinati (per

i quali sono stati identificati i rispettivi loci) abbastanza comuni

nella popolazione generale. Esistono poi fattori ambientali da

lungo tempo accertati come il fumo di sigaretta e l’aumento

del particellato atmosferico, che condizionano l’espressione

della malattia nel soggetto predisposto.

Negli ultimi 20 anni però si è assistito ad un sorprendente

aumento dell’incidenza e della severità delle malattie atopiche

nei paesi ad alto tenore socio-economico, difficilmente

spiegabile sulla base della genetica e dei sopramenzionati

fattori ambientali.

Uno studio condotto dopo l’unificazione tedesca ha

paragonato la prevalenza di alcune manifestazioni allergiche

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4. Le allergie alimentari

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tra bambini in età scolare della ex-Germania Est (Lipsia) e della

Germania Ovest (Monaco). L’incidenza di atopia era

lievemente minore nei bambini di Lipsia, nonostante questi

fossero esposti a livelli di inquinamento atmosferico

sensibilmente maggiori 20

. Da qui nasceva l’idea che esistesse

qualche elemento dello “stile di vita occidentale” capace di

influenzare lo sviluppo di atopia in modo più determinante

rispetto all’inquinamento ambientale, come ad esempio un

incremento nell’esposizione all’acaro della polvere in ambienti

domestici più riscaldati. L’idea è sostenuta anche da altri lavori

che hanno riscontrato un aumento dell’incidenza di atopia in

seguito alla migrazione in paesi più ricchi di soggetti

provenienti da un paese con basso standard socio-

economico 21,22

.

Non è chiaro però quale elemento della “occidentalizzazione”

sia il responsabile di questo fenomeno. Alla fine degli anni ‘80

è stato suggerito che quest’andamento potesse dipendere

dalle migliorate condizioni igieniche con disimpegno del

sistema immune sul fronte delle infezioni e suo riversamento

su una risposta allergica contro allergeni. Infatti, alcune

evidenze suggerivano che le infezioni acquisite durante

l’infanzia potessero prevenire lo sviluppo della febbre da

fieno 23

. Studi successivi hanno riscontrato una relazione

variabile tra specifiche infezioni contratte durante l’infanzia e

lo sviluppo di atopia 24-26

. A conferma dell’ipotesi “infettiva” si

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4. Le allergie alimentari

61

poteva leggere il dato che nelle famiglie più numerose l’atopia

è meno frequente ed in particolare lo è di meno nei fratelli

successivi, verosimilmente perché esposti precocemente a

infezioni trasmesse dai fratelli maggiori 27

.

Nello stesso periodo apparve evidente da studi di

immunologia che la risposta contro le infezioni è mediata da

meccanismi diversi ed antagonisti rispetto alla risposta

allergica. I linfociti Thelper che organizzano la risposta immune

nei due casi sono schematicamente distinguibili in base al

profilo di citochine prodotte in Th1 (risposta alle infezioni) e

Th2 (allergia).

In base a questo presupposto teorico è possibile leggere la

relazione inversa tra incidenza delle malattie allergiche e

miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie,

ammettendo che la diminuita esposizione a malattie infettive

alteri l’equilibrio delle citochine nell’organismo, con una

maggior disponibilità a fare risposte di tipo Th2 e quindi a

sviluppare allergia. In realtà dal punto di vista immunologico le

cose non sembrano essere così semplici poiché le scelte che

l’organismo può compiere di fronte ad una molecola estranea

non prevedono solo la possibilità esclusiva di una risposta Th1

o Th2, ma anche l’opportunità di imparare a tollerare del tutto

la nuova molecola con una modalità di risposta diversa o non

rispondendovi affatto.

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4. Le allergie alimentari

62

Di fatto i dati riguardanti la relazione tra infezioni ed atopia

sono ancora controversi. La positività ai prick test per una

batteria di allergeni inalanti è risultata dimezzata in

adolescenti che avevano avuto il morbillo in età infantile

rispetto a quelli che erano stati vaccinati e non avevano

contratto la malattia 25

. In questo studio, condotto in Guinea

Bissau, un potenziale fattore confondente potrebbe essere

costituito da un elevato livello di infestazione parassitaria.

Infatti la risposta allergica utilizza gli stessi meccanismi che

l’evoluzione ha selezionato per combattere i parassiti ed è

stata osservata una relazione inversa tra infestazioni

parassitarie ed atopia, tanto da suggerire che quest’ultima si

possa sviluppare solo laddove il sistema eosinofili-IgE resta

privo del suo obiettivo naturale.

Poiché il micobatterio della tubercolosi (MBT) è un potente

induttore di risposta tipo Th1, si è pensato che la diminuzione

dell’incidenza della tubercolosi potesse essere il fattore

infettivologico responsabile dell’aumento dell’atopia. Un

recente studio anglo-nipponico ha valutato

retrospettivamente la prevalenza di sintomi e di segni

ematochimici di atopia in soggetti che erano stati vaccinati per

la tubercolosi con un protocollo che prevedeva la ripetizione

della dose nel caso che a controlli successivi non fosse

mantenuta la positività alla cutireazione tubercolinica 28

. Nei

soggetti che rispondevano meglio al vaccino si registrava una

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4. Le allergie alimentari

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minor prevalenza di segni clinici e laboratoristici di atopia. Una

possibile interpretazione di questo dato è che i responder

siano i meno predisposti a sviluppare atopia non per effetto

del vaccino ma per caratteristiche geneticamente determinate

del proprio sistema immune. E’ difficile tuttavia utilizzare lo

stato di risposta al MBT come indicatore di una condizione

genetica di responsività immune, poiché che nell’arco di

vent’anni la reattività tubercolinica della popolazione

giapponese diminuì dal 95% al 58%. Gli autori suggeriscono

che in realtà le risposte più durature al vaccino siano

mantenute dalla circolazione di MBT nella popolazione e che

sia questo il vero fattore protettivo nei confronti dell’atopia.

Un altro dato interessante che emerge da questo lavoro è

l’aumento di incidenza di atopia in soggetti che si sono

negativizzati alla tubercolina.

Un altro lavoro svolto in Svezia, tuttavia, non ha riscontrato

alcun effetto prottetivo della vaccinazione precoce con BCG

sullo sviluppo di allergie in soggetti con familiarità per atopia 29

. D’altra parte è noto che il BCG è dotato di un’efficacia

estremamenrte più scarsa rispetto all’esposizione naturale

all’MBT, che in Svezia è pressocché assente.

Uno studio italiano su allievi militari ha dimostrato una

relazione inversa tra la prevalenza di una pregressa epatite A e

la presenza di asma e rinite. La stessa correlazione era

evidente con i parametri di laboratorio (positività di una

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4. Le allergie alimentari

64

batteria di prick test per inalanti, livelli sierici di IgE specifiche

contro i comuni allergeni inalanti). Inoltre veniva confermata

in questo lavoro una relazione inversa tra atopia e numero di

fratelli. Non è chiaro però il ruolo della pregressa infezione da

epatite A, che potrebbe essere semplicemente la spia di

condizioni igienico-ambientali, o di abitudini alimentari diverse 26

.

Se le infezioni hanno un ruolo nell’atopia è giusto pensare che

questo sia giocato anche dalle vaccinazioni. Tradizionalmente

però, le vaccinazioni sono state mirate a ottenere

prevalentemente una risposta di tipo anticorpale specifica

(come ad esempio quella bloccante le tossine tetanica e

difterica) che non riproduce quella secondaria all’infezione

naturale. Di fatto una differenza nell’attivazione di linfociti Th1

e Th2 è stata rilevata di recente con l’uso di diversi vaccini (per

esempio si è evidenziato che il vaccino antipertosse acellulare

dà una risposta sia Th1 che Th2, diversamente dal vaccino

cellulare che induce solo una risposta Th1) 30

. In molti casi la

risposta anticorpale al vaccino viene potenziata per mezzo di

adiuvanti, il più usato dei quali è senza dubbio l’idrossido di

alluminio. L’aggiunta di idrossido di alluminio a un vaccino

antipertossico cellulare condiziona non solo una maggior

risposta di tipo IgG, ma anche IgE 31

.

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4. Le allergie alimentari

65

In conclusione i dati epidemiologici permettono di sostenere

che lo stile di vita occidentale si associa a una maggiore

incidenza di atopia, ma è tuttora incerto quali aspetti

dell’occidentalizzazione siano responsabili del fenomeno in

questione. Le evidenze a favore di un ruolo delle infezioni,

sebbene teoricamente sostenute dall’ipotesi della

polarizzazione immunologica tra Th1 e Th2, necessitano di

ulteriori studi che sappiano discriminare quali infezioni

abbiano un ruolo maggiore ed in che epoca della vita. In realtà

il problema è ulteriormente confuso dalla eccessiva

semplificazione che si fa parlando di una polarizzazione tra

Th1 e Th2, trascurando altre modalità di risposta che

conducano ad una tolleranza vera e propria e non al semplice

shift della risposta. E’ verosimile che anche questo processo

sia influenzato da fattori igienico-ambientali, in particolare per

quanto riguarda la colonizzazione delle mucose da parte di

diversi microrganismi saprofiti e quindi le abitudini alimentari.

Studi in questo senso potrebbero condurre a nuovi tipi di

immunoterapia dell’atopia.

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5. La malattia celiaca

66

5. La malattia celiaca

La malattia celiaca viene descritta per la prima volta come

un’entità nosologica definita verso la fine dell’800 da Samuel

Gee, a Londra 32

. Gee indicò la malattia con il nome di

“malattia celiaca”, nome già utilizzato dal medico greco

Aretaeus di Cappadocia nel secondo secolo a.C. per indicare

una malattia caratterizzata da disturbi intestinali (koiliakos, in

greco) con diarrea untuosa, pallore e calo ponderale. E’ da

notare che questo medico operava proprio nell’Est della

Turchia, in prossimità delle regioni del Medioriente dove si

erano maggiormente sviluppati la coltivazione ed il consumo

di frumento. Forse, la descrizione di Aretaeus di Cappadocia ci

racconta di uno dei primi incontri tra l’uomo e questo nuovo

alimento, dopo più di un milione di anni di evoluzione in sua

assenza. Dopo questa descrizione, non si è parlato più di

malattia celiaca per duemila anni: è possibile che una certa

selezione negativa si sia sviluppata dopo i primi contatti e che

la malattia sia divenuta quindi più rara e meno evidente.

Successivamente, si è tornati a parlare di malattia celiaca nel

XIX secolo, forse in concomitanza con un sensibile aumento di

concentrazione di glutine nel frumento. Infatti, l’agricoltura,

dapprima con la selezione di specie più vantaggiose (ad

esempio quelle in cui i semi rimanevano più a lungo sulla spiga

e consentivano quindi una mietitura più proficua) e

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5. La malattia celiaca

67

successivamente favorendo gli incroci tra piante con

determinate caratteristiche (ad esempio la capacità di

lievitazione della farina, in gran parte dipendente dalla sua

collosità, a sua volta determinata dal contenuto in glutine) ha

gradualmente portato a varietà di frumento molto più ricche

in glutine (dal 2 al 30% del contenuto proteico del cereale).

Era della nascita della malattia celiaca.

Samuel Gee descrisse la malattia come una “indigestione

cronica” che si può verificare in persone di qualsiasi età, ma

che interessa specialmente i bambini tra 1 e 5 anni di età.

L’aspetto caratteristico riguarda le feci, che appaiono in grandi

quantità, sformate ma non liquide, con aspetto chiaro,

consistenza simile a lievito e schiumosa (a suggerire la

presenza di fenomeni fermentativi), particolarmente

maleodoranti (suggerendo fenomeni putrefattivi). Il paziente

appariva cachettico, di debole muscolatura, pallido e gonfio.

La malattia spesso conduceva a decesso e, anche in caso di

guarigione, tendeva a ricadere. Ciò che ha reso più innovativa

la descrizione di Gee, fu la sua conclusione, secondo cui l’unico

trattamento possibile doveva consistere nella dieta. Tuttavia,

le sue osservazioni riguardo a un maggior effetto lesivo di riso

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5. La malattia celiaca

68

e mais rispetto a farina di frumento si sarebbero poi rivelate

erronee.

Il fatto che la malattia possa essere diventata più frequente

che nei secoli precedenti non è induce inizialmente a ricercare

una correlazione con specifici cambiamenti ambientali.

L’identificazione dell’agente scatenante il morbo celiaco

richiese circa mezzo secolo. Per quanto la comparsa della

malattia dopo lo svezzamento potesse suggerire la

responsabilità delle farine, dapprima questa venne attribuita

alla loro composizione in amidi. Ancora nel 1921 la malattia

veniva connotata come una intolleranza ai carboidrati, mentre

i grassi erano tollerati molto meglio. Nel 1949 Sydney Haas

proponeva una dieta a base di banane, e altri frutti, alimenti

particolarmente graditi ai bambini celiaci. La buona capacità di

tollerare questi alimenti permise di “riabilitare” i carboidrati.

Contemporaneamente, in Olanda, la transitoria sostituzione

delle farine di frumento e segale con quelle di riso e patate,

più facilmente disponibili durante la carestia successiva alla

guerra, permise di richiamare l’attenzione sull’intolleranza a

specifiche farine. Fu solo nel 1952 che Anderson dimostrò la

responsabilità del glutine di frumento e non dei carboidrati,

nella intolleranza del celiaco 33

. Nell’anno successivo, l’esame

del contenuto di grassi nelle feci venne utilizzato per valutare

l’effetto di diverse farine nell’alimentazione del soggetto

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5. La malattia celiaca

69

celiaco, permettendo di confermare il ruolo del frumento,

dell’orzo, della segale e dell’avena 34

.

La storia della celiachia, tuttavia, non finisce con

l’identificazione del glutine come sua causa scatenante.

L’espressione stessa della malattia sembra assumere diverse

facce nel tempo, ogni volta associate a nuove scoperte e

nuove conoscenze. Non è perciò solo un esercizio teorico

quello di individuare nella storia di questa malattia delle vere

e proprie ere storiche che segnano in parallelismo i mutamenti

del rapporto tra uomo e ambiente, ma anche tra conoscenze

mediche e malattie (tab. 5.1).

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5. La malattia celiaca

70

Era Anni Clinica Diagnosi Biologia

Pre-

celiaca

-

1888

Non conosciuta. Minore assunzione di glutine

nella dieta umana. Prevalenza di cause infettive.

Nascita

della m.

celiaca

1888

-

1952

Sindrome

intestinale

(celiaca)

Clinica

(fattore

tempo)

Prime ricerche

chimiche

E. del

glutine

1952

-

1965

Sindrome

intestinale.

Crisi celiaca.

Frazioni

tossiche del

glutine

E. degli

AGA

1965

-

Forme atipiche:

anemia

AGA +

3 Biopsie.

HLA

Inizio studi

immunologici.

“infezione da

glutine”

E. degli

EMA

1973

-

Malattia

manifesta /

silente / latente

Autoimmunità.

EMA +

3 biospie

Primi

screening AGA

poi EMA.

Ruolo

dell’HLA.

Linfociti CD3+

intraepiteliali.

E. della

tTG o

era

moleco

alre

1997

-

L’ampio spettro

del rischio glutine

- associato

tTG +

1 biopsia

Screening su

goccia di

sangue.

Anticorpi anti

peptidi

deaminati di

gliadina.

E.

“omica”

2011

-

tTG, altro? Anti-tTG nella

mucosa.

Librerie

fagiche.

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5. La malattia celiaca

71

Tab. 5.1

L’era del glutine.

Possiamo far iniziare verso

metà del secolo scorso

l’Era del glutine. L’aspetto

clinico della malattia è

sempre incentrato sulla

”indigestione cronica” e

sulla compromissione della

funzione intestinale. In

alcuni casi può svilupparsi

una forma grave, la

cosiddetta “crisi celiaca”,

condizione caratterizzata

da un circolo vizioso di

amplificazione del danno in seguito a infezioni

gastroenteriche, e che poteva condurre a shock e morte. La

terapia della malattia si base su una dieta permanente con

esclusione dei cibi contenti glutine: frumento, orzo, segale ed

in un primo tempo avena. Il celiaco può invece assumere

liberamente altri cereali (riso, mais) e tuberi (patate), carni,

pesci, frutta, verdure, legumi (vedi fig. 5.1, da

www.farmacialoreto.it). Questi alimenti alternativi non hanno

Fig. 5.1 Alcuni esempi di cibi privi di

glutine.

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5. La malattia celiaca

72

tuttavia permesso per molti anni di produrre validi sostituti

della pasta e del pane, rendendo alquanto difficile

l’esecuzione della dieta, soprattutto nelle regioni a dieta

mediterranea.

Appartiene a questo periodo la descrizione del tipico danno

della mucosa intestinale dipendente dall’assunzione di glutine

nel celiaco. Campioni bioptici vengono ottenuti dapprima in

seguito ad interventi chirurgici e successivamente per mezzo

di una capsula automatica collegata ad un sondino e provvista

di un meccanismo di prelievo per suzione (capsula di Crosby-

Kugler) 35

. Questi esami permettono di evidenziare

l’appiattimento dei villi intestinali e l’infiltrazione di linfociti

nella mucosa (Fig. 5.2). Questo tipo di lesione conduce ad una

notevole perdita della superficie di assorbimento degli

alimenti: si dice infatti, a titolo d’esempio, che la superficie

che occuperebbe un intestino umano, se venissero svolte

tutte le sue villosità, sarebbe all’incirca pari a quella di un

campo da tennis. Per un organismo evolutosi in presenza di

una disponibilità di cibo molto variabile, la capacità di

assorbire quanto più possibile le sostanze alimentari ingerite è

infatti un imperativo. Alla presenza di un apporto dietetico

limitato, però, la perdita di superficie di assorbimento

comporta un grave difetto di nutrizione. Diversamente, con

un’alimentazione più ricca del necessario, com’è quella

disponibile oggi in molti paesi, la riduzione della superficie di

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5. La malattia celiaca

73

assorbimento può essere in parte compensata dalla quantità

del cibo. Questo, forse, è uno dei motivi che condurrà nelle

ere successive ad altrettanti cambiamenti nell’espressione

della malattia celiaca.

La disponibilità di tecniche semplificate per il prelievo e

l’analisi istologica della mucosa duodenale permette di

confermare la diagnosi di celiachia dimostrando le

caratteristiche alterazioni al momento della diagnosi e la loro

guarigione in una seconda biopsia eseguita dopo un congruo

periodo di dieta di esclusione. Non solo, l’esecuzione di una

terza biopsia dopo un tentativo di reintroduzione del glutine

poteva evidenziare la ricomparsa delle alterazioni tipiche,

permettendo al tempo stesso di rinforzare la certezza della

diagnosi e anche la convinzione che l’intolleranza costituisse in

questi soggetti una condizione permanente, da trattare con

dieta senza glutine per tutta la vita.

Villo intestinale normale Villi tozzi e appiattiti nella mucosa

Fig 5.2. Aspetto morfologico della mucosa nel soggetto normale e nel celiaco.

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5. La malattia celiaca

74

di un soggetto celiaco

L’era degli AGA (Patogenesi: la celiachia come malattia

dell’immunità; AGA nella diagnosi: non solo sintomi

intestinali).

A seguito dell’identificazione della responsabilità del glutine

nella patogenesi della celiachia, anticorpi diretti contro questa

proteina vennero identificati nel siero dei soggetti celiaci (AGA

= anti glutine). Di conseguenza, anche l’idea della celiachia

come una “indigestione cronica” venne progressivamente

sostituita dall’interpretazione della malattia come “infezione

cronica” da glutine. Infatti, l‘assunzione di glutine nel soggetto

celiaco comportava una risposta immunitaria simile a quella

messa in atto contro agenti infettivi, con la differenza che in

questo caso l’ “infezione” non può essere debellata, dato che

l’agente che ne è alla base viene continuamente assunto con

gli alimenti. E’ chiaro che non si tratta di infezione nel senso

stretto del termine, tuttavia l’immagine ben sintetizza la

natura della risposta immune patologica del celiaco. Qui può

essere utile ricordare quanto abbiamo già detto per gli studi di

von Pirquet sull’allergia per comprendere come il sistema

immunitario, più che l’agente scatenante in sé, potesse essere

il vero responsabile della malattia. Non deve quindi stupire se,

negli stessi anni, si scopre che la maggior componente

genetica di rischio di celiachia risiede in determinati

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5. La malattia celiaca

75

polimorfismi degli antigeni di istocompatibilità, che possono

condizionare il modo in cui il soggetto riconosce la proteina

estranea.

Se da un lato la presenza degli AGA aveva indotto a

interpretare la patogenesi della celiachia in chiave

immunologica, dall’altro la possibilità di dosare questi

anticorpi aveva fornito un nuovo strumento per la diagnosi

della malattia. L’era degli AGA è quindi anche l’era in cui si

consolida il ruolo della sierologia nella diagnosi della malattia:

ciò permetterà di espandere le conoscenze cliniche sulla

malattia, includendo casi con sintomi intestinali più sfumati e

con altre patologie associate, come ad esempio l’anemia da

carenza di ferro e la bassa statura isolata. Non solo, grazie alla

diagnosi sierologica, ci si è accorti che la malattia era in realtà

molto più frequente di quanto si pensasse inizialmente e che

potesse presentarsi in alcuni casi addirittura senza alcun

sintomo rilevante. Anche in questi casi, per i quali venne

coniata l’espressione di “celiachia silente”, la biopsia

intestinale mostrava tipiche alterazioni che recedevano

successivamente a dieta senza glutine.

In questo periodo viene anche compresa la relazione tra

malattia celiaca e dermatite erpetiforme. Quest’ultima è una

manifestazione cutanea di celiachia, che può verificarsi anche

in assenza di un’enteropatia manifesta 36-38

o in presenza di

una celiachia latente.

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5. La malattia celiaca

76

La coscienza del problema aumenta progressivamente, fino

alla costituzione della Celiac Society nel 1968 (11 anni più tardi

nascerà l’Associazione Italiana Celiachia).

L’era degli EMA (La celiachia come modello unico di disregolazione

autoimmune).

L’idea di un’associazione tra malattia celiaca e reazioni

autoimmuni nasce dall’osservazione della relazione tra questa

malattia e il diabete di tipo 1. Alla fine degli anni ’60 si erano

messe a punto delle metodiche di immunofluorescenza per

identificare anticorpi correlati ad una particolare nefrite

sperimentale, gli anticorpi anti-reticolina (visualizzabili con

una colorazione su sezioni di rene di ratto). Nel 1971 vengono

identificati, nel siero di soggetti celiaci, anticorpi anti-

reticolina, ai quali non si dà però subito un significato definito 39

. Due anni più tardi, viene dimostrato che questi anticorpi

sono presenti solo quando il soggetto mangia liberamente,

mentre spariscono con la dieta senza glutine 40

. L’osservazione

viene interpretata all’inizio come conseguenza di una cross-

reazione tra reticolina e glutine, ipotesi che tuttavia non verrà

confermata. In ogni caso, si comincia a studiare la sensibilità e

specificità di questo nuovo test come possibile ausilio per la

diagnosi di malattia celiaca. L’introduzione successiva

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5. La malattia celiaca

77

dell’esofago di scimmia (e più recentemente del cordone

ombelicale umano) come substrato ha permesso di migliorare

molto la qualità del test 41

che si mostrerà addirittura più

specifico della determinazione degli AGA. La reazione di

fluorescenza avveniva in questi casi verso il tessuto connettivo

di sostegno del muscolo liscio e gli anticorpi venivano perciò

denominati anti-endomisio o EMA o AEA (Fig. 5.3). Anche se

non si sapeva spiegare la loro stretta correlazione con

l’assunzione di glutine e con la celiachia, gli EMA diventarono

sempre più un test fondamentale per la diagnosi della

malattia. Questo fu tanto vero, che la presenza di EMA positivi

permetterà in seguito di identificare casi di “celiachia latente”,

in assenza di un chiaro danno della mucosa intestinale

all’indagine bioptica 42

. L’analisi delle biopsie con anticorpi anti

CD3 marcati permette comunque di identificare anche in

questi casi un infiltrato infiammatorio nell’epitelio intestinale

con aumento di un particolar gruppo di linfociti, provvisti di

recettore gamma/delta 43-45

.

Fig. 5.3 Disegno di

fluorescenza anti-

endomisio.

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5. La malattia celiaca

78

Schematicamente, l’era degli EMA è caratterizzata sul piano

clinico dalla definizione dell’associazione tra celiachia e

autoimmunità. Questa associazione viene dapprima attribuita

alla condivisione di un comune substrato genetico di

suscettibilità dato da specifici polimorfismi del sistema HLA.

Successivamente, però, alcune osservazioni suggeriranno una

relazione più complessa.

La specifica associazione degli EMA con la malattia celiaca e la

loro dipendenza dall’assunzione di glutine suggeriscono che

questa proteina sia in grado di scatenare fenomeni

autoimmuni in soggetti predisposti. Inoltre il fatto che gli EMA

potessero essere presenti in assenza di evidenti lesioni

intestinali e di altre manifestazioni cliniche rinforzava

l’importanza di reazioni autoimmuni nella malattia.

Uno studio pionieristico italiano (vedi Ventura et al., scheda di

seguito) ha messo in luce la relazione tra rischio di

autoimmunità e tempo di esposizione al glutine nei soggetti

celiaci, suggerendo l’idea di un ruolo preventivo della dieta

sullo sviluppo delle malattie autoimmuni associate.

Se questo è vero, l’azione preventiva può essere influenzata

dalla capacità di individuare precocemente i soggetti celiaci. A

questo proposito, è bene osservare che il rischio di sviluppare

malattie glutine-correlate potrebbe essere in buona parte

indipendente dall’espressione clinica della malattia. Anzi, il

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5. La malattia celiaca

79

lavoro coordinato da Ventura suggerisce che proprio i soggetti

con sintomi clinici meno evidenti possano avere un rischio

maggiore di sviluppare malattie, in quanto la loro celiachia

rimane più a lungo non diagnosticata.

Queste considerazioni sono particolarmente importanti, ove si

consideri che per molti anni si è consigliato di ritardare

l’introduzione del glutine nell’alimentazione dei lattanti con la

speranza di prevenire lo sviluppo della malattia celiaca: la

posticipazione del glutine dopo l’anno di età, infatti, si associa

a sintomi più sfumati e tollerabili. Tuttavia, chi ha assunto il

glutine nei primi mesi di vita non ha solo una reazione più

grave ed evidente, con i tipici sintomi gastrointestinali, ma ha

anche una maggior probabilità di ricevere una diagnosi

tempestiva e un trattamento preventivo efficace. Viceversa,

chi assume il glutine più tardivamente ha maggior probabilità

di essere identificato come celiaco in età più avanzata, sulla

base di sintomi più sfumati e meno tipici. Questo è quanto è

accaduto in due città non molto lontane l’una dall’altra,

Gotheborg in Svezia e Tampere in Finlandia (vedi Ascher et al,

scheda), a testimoniare ancora l’importante ruolo

dell’ambiente nel condizionare i tempi e i modi con cui

l’intolleranza al glutine può esprimersi in una popolazione.

Le differenze ambientali potevano essere responsabili anche

della convinzione che la celiachia fosse molto più rara negli

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5. La malattia celiaca

80

stati Uniti d’America che nell’Europa. Anche in questo caso,

l’era degli EMA ha permesso di effettuare screening di

popolazione in Europa come negli Stati Uniti, che hanno

mostrato una prevalenza simile della malattia nei diversi

paesi 46

.

Dal punto di vista sociale, gli screening

danno maggiore visibilità al problema

della celiachia. Vengono perciò

costituite associazioni a tutela dei

pazienti e dei loro diritti e, più

gradualmente, si giunge ad una

coscienza sociale della celiachia: viene

elaborato un logo per la certificazione

degli alimenti senza glutine (Fig. 5.4);

vengono garantiti pasti senza glutine nelle mense (e anche in

alcuni ristoranti); vengono prodotti prontuari e ricettari per

l’alimentazione senza glutine.

Fig. 5.4 Logo utilizzato

per certificare prodotti

privi di glutine.

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5. La malattia celiaca

81

Ventura A, Magazzù G, Greco L.

Duration of exposure to gluten and risk for

autoimmune disorders in patients with celiac

disease. SIGEP Study Group for Autoimmune

Disorders in Celiac Disease. Gastroenterology. 1999 Aug;117(2):297-303

47

Sono stati studiati 909 pazienti con malattia celiaca

consecutivamente riferiti in un periodo di 6 mesi presso i 10 centri

partecipanti al progetto. L’età al momento dello studio era

compresa tra 10 e 25 anni. Sono stati inoltre selezionati 1268

controlli sani tra

studenti

universitari (età

media 21 anni).

Infine, sono stati

analizzati 163

pazienti con

malattia di Crohn

come controllo

malato.

I celiaci sono stati suddivisi in tre gruppi sulla base dell’età in cui

avevano ricevuto la diagnosi. Dato che tutti i pazienti hanno

effettuato una dieta senza glutine dopo la diagnosi, e dato che l’età

attuale era simile per tutto il gruppo, la precocità della diagnosi

correlava con un’esposizione più breve al glutine, mentre i soggetti

con diagnosi più tardiva erano anche quelli più a lungo esposti alla

dieta contenente la proteina. Il grafico mostra che i soggetti esposti

più a lungo al glutine hanno un maggior rischio di sviluppare

malattie autoimmuni. Questi dati suggeriscono che una diagnosi

precoce ed una dieta senza glutine possano prevenire almeno in

parte il rischio di sviluppare malattie autoimmuni in soggetti celiaci.

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5. La malattia celiaca

82

H Ascher, K Holm, B Kristiansson, M Maki

Different features of coeliac disease in two

neighbouring countries. Archives of Disease in Childhood 1993; 69: 375-380

48

E' probabile che le modalità di introduzione del glutine nella dieta

(precocità, quantità) influenzino il tipo di presentazione clinica e, di

conseguenza, la riconoscibilità della malattia. Di fatto, in Svezia

(Gothenburg), dove il consumo di glutine da parte dei lattanti inizia

presto ed è discretamente elevato già dal quarto-quinto mese di

vita, l'incidenza della malattia celiaca è molto elevata e quasi tutti i

casi vengono diagnosticati per la comparsa del classico quadro

gastroenterologico.

In Finlandia (Tampere), dove la somministrazione di glutine ai

lattanti è più cauta, la prevalenza della malattia celiaca

diagnosticata su base clinica è significativamente inferiore, l'età

media alla diagnosi è significativamente più avanzata e prevalgono

i casi con presentazione atipica.

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5. La malattia celiaca

83

Gli screening eseguiti mostrano però che la prevalenza reale della

malattia è la stessa nei due paesi 49,50

. E' ragionevole quindi pensare

che la precoce e relativamente elevata assunzione di glutine con la

dieta dai primi mesi favorisca un modo più clamoroso e classico, e

quindi riconoscibile, di presentazione clinica della malattia celiaca

nei soggetti predisposti. Il ritardo o la cautela nell'introduzione

dell'alimento potrebbero essere causa dell'aumento di forme

paucisintomatiche o atipiche. Non va dimenticato tuttavia che larga

parte della morbidità associata alla celiachia (osteopenia, anemia

sideropenica, patologia neurologica, manifestazioni autoimmuni,

linfoma etc.) non è necessariamente correlata al grado

dell'enteropatia ma dipende piuttosto dal protrarsi dell'assunzione

di glutine. Sembra quindi ragionevole che la miglior strategia

preventiva sia quella di non ritardare l'introduzione del glutine

nella dieta e di rendere, così, precocemente manifesta e

riconoscibile la malattia nella sua forma più classica (enteropatica).

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5. La malattia celiaca

84

L’era degli EMA si

chiude con un

immagine che può

ben sintetizzare

molti dei concetti

fin qui espressi:

l’iceberg della

celiachia 51

(Fig 5.5).

Questi possono

essere riassunti nei

seguenti punti.

• La variabilità

dell’espression

e clinica della malattia

• Il ruolo degli anticorpi nella diagnosi e negli screening e

le relative conseguenze sulla definizione di quadri

clinicamente “silenti” o istopatologicamente “latenti”

• L’idea di una condizione ancora vaga e da definire di

intolleranza al glutine geneticamente determinata,

correlata alla presenza degli HLA tipici.

Samuel Gee fu il primo a descrivere la punta emersa di

questo iceberg, ma fu proprio grazie agli anticorpi che si

riuscì a svelare gradualmente la complessità della parte

Fig. 5.5 L’iceberg della celiachia

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5. La malattia celiaca

85

immersa. L’idea più importante che si celava sotto il pelo

dell’acqua era quella che una quota più o meno ampia

della popolazione potesse essere esposta ad un rischio di

sviluppare un’ampia varietà di patologie correlate

all’assunzione del glutine.

L’iceberg conteneva in sé il germe di una visione continua

della celiachia con infiniti livelli intermedi, dalla malattia ad

espressione intestinale conclamata fino a casi in cui solo

sofisticati esami immunologici avrebbero provato la presenza

di un’alterata sensibilità al glutine (vedi era molecolare).

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5. La malattia celiaca

86

L’era della transglutaminasi tessutale (il

bersaglio molecolare degli anticorpi

anti-endomisio).

Negli anni novanta molti ricercatori erano convinti che

l’individuazione dell’antigene endomisiale contro cui era

rivolta la risposta autoimmune del celiaco avrebbe permesso

di svelare gli aspetti ancora incogniti della patogenesi della

malattia. Molte cose in realtà erano già state dimostrate: si

conosceva la sequenza dei peptidi di gliadina (frazione

proteica alcol-solubile del glutine) con maggior affinità per

l’HLA DQ2 o DQ8; si erano isolati da biopsie intestinali cloni di

linfociti CD4 in grado di riconoscere questi peptidi su cellule

presentanti l’antigene provviste di HLA DQ2 e DQ8 52

; si era

dimostrato che questi linfociti producono grandi quantità di

interferone gamma, che sono almeno in parte responsabili del

danno mucosale (l’effetto viene bloccato da anticorpi anti-

interferon gamma) 53

. Insomma, si sapeva che per essere

celiaci era necessario avere un determinato HLA di rischio e si

capivano anche le basi immunologiche e molecolari di questa

predisposizione. Tuttavia solo una parte dei soggetti con

questo profilo genetico sviluppava la celiachia. Inoltre, la

malattia si associava alla presenza di anticorpi anti-endomisio

ancora più specificamente che agli anticorpi anti-glutine e

sembrava ragionevole ritenere che questa fosse la

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5. La malattia celiaca

87

caratteristica che meglio differenziava quell’un per cento di

celiaci da tutti gli altri soggetti con DQ2 e DQ8. Di

conseguenza, era logico prevedere che l’identificazione del

vero bersaglio molecolare di questi anticorpi avrebbe

permesso di spiegare anche che cosa differenzia il celiaco dagli

altri soggetti con gli stessi HLA o, in altre parole, che cosa fa si

che alcuni soggetti con quel determinato HLA riescano a

tollerare il glutine ed altri no.

Molti tentativi di isolare l’antigene bersaglio degli anticorpi

anti-endomisio erano basati su western-blot o cromatografia

d’affinità tra siero di soggetti celiaci e estratti proteici ottenuti

da tessuti contenenti endomisio (esofago di scimmia, cordone

ombelicale umano). Solo nel 1997, un gruppo tedesco riuscì a

identificare l’antigene per

mezzo di una classica

metodica biochimica:

l’immunoprecipitazione 54

.

In pratica, si trattava di

trovare le condizioni ideali

perché l’incontro tra il

siero e l’antigene in fase

solubile portasse alla

formazione di complessi

macromolecolari insolubili

che potevano essere poi

Fig. 5.6 Diagramma di una reazione

di immunoprecipitazione

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5. La malattia celiaca

88

separati per mezzo di ultracentrifugazione. Quando sufficienti

quantità di anticorpo sono mischiate con un antigene solubile

macromolecolare (contenente quindi più siti di legame), si

possono formare aggregati visibili di antigene cross-legato con

anticorpo (Fig. 5.6 da: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/bookshelf/br

.fcgi?book=imm&part=A2395&rendertype=figure&id=A2414).

Sfruttando questo principio, Dieterich e collaboratori

identificarono il bersaglio della risposta autoimmune tipico

della celiachia in un enzima denominato transglutaminasi

tessutale (tTG o TG2).

La transglutaminasi tessutale è un enzima di grande

importanza in almeno due distinti processi biologici: la

stabilizzazione dei tessuti connettivi e l’apoptosi cellulare. I

fibroblasti rilasciano l’enzima nella matrice extracellulare dove

questo resta adeso a proteine di matrice come la fibronectina.

Nelle fasi di costruzione o di riparazione del tessuto

connettivo, l’enzima stabilisce legami covalenti tra gruppi

glutamminici e lisine di proteine adiacenti, in particolare di

fibre collagene, in modo da “cucire” la trama e l’ordito del

tessuto (fig. 5.7).

Fig. 5.7 Legame tra lisina e glutammina catalizzato dalla transglutaminasi

tessutale.

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5. La malattia celiaca

89

All’nterno delle cellule, invece, l’enzima viene indotto e

attivato durante l’apoptosi cellulare. In questo caso, l’azione di

cucitura permette di condensare tutto il contenuto

macromolecolare della cellula in aggregati compatti e

insolubili (corpi apoptotici) che possono essere facilmente

rimossi dal sistema fagocitario senza che avvenga la

dispersione di antigeni immunogeni nel sistema. Lo

svolgimento corretto di questo processo fa sì che la morte

cellulare sia accompagnata solo da minimi fatti infiammatori e

senza lo sviluppo di reazioni immuni verso antigeni “criptici“

(cioè quelli normalmente nascosti al sistema immune).

Ogni tessuto danneggiato presenta di conseguenza

un’aumentata attività della transglutaminasi tessutale, e

questo vale ovviamente anche per la mucosa del soggetto

celiaco. Non solo, la mucosa danneggiata del celiaco presenta

anche un’alterata permeabilità epiteliale alle macromolecole,

e può permettere quindi il passaggio di grandi quantità di

peptidi di gliadina, che vengono a contatto con il tessuto

danneggiato e con il sistema immune. Per capire come tutto

questo possa condurre infine alla produzione di anticorpi anti-

transglutaminasi, può essere opportuno considerare un

fenomeno denominato “antigen spreading”, già noto in altre

malattie come il Lupus eritematoso Sistemico.

Questo fenomeno consiste nella produzione di anticorpi con

diverse specificità in seguito al riconoscimento di un unico

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5. La malattia celiaca

90

antigene da parte dei linfociti Thelper. Infatti, è noto che i

linfociti T riconoscono l’antigene sotto forma di brevi peptidi

presentati in un’apposita tasca delle molecole HLA di classe II.

E’ noto anche che i linfociti B possono funzionare da cellule

presentanti l’antigene: a differenza delle cellule dendritiche,

che possono fagocitare qualsiasi antigene, i linfociti B

presenteranno solo peptidi derivati da antigeni riconosciuti

per mezzo dei loro anticorpi di superficie. Questo, tuttavia,

non significa necessariamente che i linfociti B presentino ai

linfociti T peptidi derivati dalla stessa proteina che

riconoscono con i propri anticorpi. Infatti, gli anticorpi

possono legare anche complessi formati da più molecole

riunite con legami d’affinità o con legami covalenti: in questi

casi l’anticorpo può riconoscere una data molecola, mentre ai

linfociti T può essere presentato un peptide derivante da

un’altra proteina presente nel complesso macromolecolare.

Un esempio “storico” di questo meccanismo riguarda la

produzione degli anticorpi anti-DNA nel Lupus Eritematoso

Sistemico: è chiaro, in questo caso, che i linfociti B non

possono presentare ai linfociti T frammenti di DNA ma solo

peptidi che il linfocito B porta al suo interno perché

complessati al DNA (cioè peptidi derivati da proteine

istoniche).

Una cosa simile sembrerebbe accadere nella malattia celiaca.

In questo caso, gliadina e transglutaminasi formerebbero un

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5. La malattia celiaca

91

complesso macromolecolare che può essere riconosciuto sia

da anticorpi anti-glutine (AGA) che da anticorpi anti-

transglutaminasi (TGA). Entrambi i linfociti B, produttori di

AGA o TGA, potranno presentare ai linfociti T gli stessi peptidi

derivati dalla gliadina. Dell’esistenza di questi linfociti T nella

mucosa del celiaco abbiamo già parlato. Questo meccanismo

renderebbe conto del fatto che sia la produzione di AGA che

quella di TGA appaiono similmente dipendenti dall’assunzione

di glutine (Fig. 5.8).

Fig. 5.8 Possibile ruolo del glutine nella produzione di autoanticorpi anti-

transglutaminasi

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5. La malattia celiaca

92

Innanzitutto, se è vero che gliadina e transglutaminasi

possono trovarsi in complessi macromolecolari, qual è il senso

di questa interazione? Primo, la gliadina ha una struttura tale

da essere un buon substrato per la transglutaminasi. L’azione

della tTG sulla gliadina può essere varia: la gliadina può essere

legata covalentemente ad altre proteine; la gliadina può

essere deaminata su residui glutamminici. La prima possibilità,

che può teoricamente creare gravi problemi per la formazione

di neoantigeni, non è stata estesamente indagata. La seconda

possibilità, invece, è stata verificata, ed anzi è stato dimostrato

che i peptidi di gliadina così trattati dalla tTG aumentano la

loro affinità per l’HLA DQ2 e la loro tossicità per il celiaco 55,56

.

Secondariamente, la risposta anticorpale contro i peptidi

deaminati di gliadina (DGP)57

è stata utilizzata recentemente

per mettere a punto nuovi test diagnostici, che presentano

migliore sensibilità e specificità rispetto ai vecchi anticorpi

anti-glutine (AGA) 58

.

Questo insieme di dati può permetterci di costruire un

modello patogenetico della reazione immunopatologia tipica

della mucosa del soggetto celiaco (Fig. 5.9).

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5. La malattia celiaca

93

Fig. 5.9 Un qualsiasi

insulto della parete

determina un

aumento della

permeabilità

epiteliale con ingresso

di peptidi tossici di

gliadina e

contemporaneamente

un’attivazione

tessutale di

transglutaminasi.

L’azione della tTG

sulla gliadina

aumenta la reattività

di questa per l’HLA

DQ2 e l’attivazione dei linfociti CD4 specifici, avviando un circolo

vizioso, con mantenimento del danno tessutale, ulteriore ingresso di

gliadina e ulteriore attivazione di tTG.

Si riproduce così, ad un livello maggiore di conoscenza, il

modello già visto in precedenza dell’infezione cronica da

glutine.

Questo modello può spiegare come mai i sintomi

gastroenterici della celiachia possono essere slatentizzati e

aggravati in seguito a infezioni. Tuttavia, ancora una volta, il

modello non ci spiega la differenza tra il soggetto

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5. La malattia celiaca

94

geneticamente predisposto e il celiaco vero e proprio. Un

ipotesi recente valorizza il ruolo di una sovra-produzione di

IL-15 nella mucosa dei soggetti con malattia celiaca. Questa

anomalia può essere scatenata da particolari infezioni

intestinali e può a sua volta influenzare l’omeostasi intestinali,

favorendo lo sviluppo di una risposta immune agli antigeni e

ostacolando il fisiologico programma di tolleranza. Una volta

rotta la tolleranza alla gliadina, il sistema potrebbe amplificarsi

grazie alle particolari interazioni tra glutine transglutaminasi e

HLA, fino ad auto mantenersi anche al di fuori di cause

infettive59-62

.

Altri autori hanno a suggerito che un altro meccanismo in

gioco nella patogenesi della celiachia potrebbe risiedere in

una risposta attivatoria dell’immunità naturale in seguito al

contatto con la gliadina, che potrebbe avere tra l’altro anche

delle proprietà simili a quelle di alcuni pattern patogeni

batterici e virali (PAMPs). Tuttavia, i dati disponibili non

permettono ancora una chiara interpretazione in tal senso.

L’era della tTG non ha avuto solo importanti ripercussioni sulle

conoscenze patogenetiche, ma anche su quelle cliniche. La

standardizzazione di test ELISA basati su transglutaminasi

umana ricombinante ha permesso infatti un notevole

miglioramento della diagnostica della celiachia, consentendo

la realizzazione di nuovi e più sensibili screening di

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5. La malattia celiaca

95

popolazione. Uno di

questi è stato condotto

nelle scuole elementari

di Trieste, per mezzo

dell’analisi di poche

gocce di sangue

ottenuto per puntura di

polpastrello 63

. Questa

iniziativa ha consentito

di misurare la

prevalenza della

celiachia al di sopra

dell’ 1% e di

contribuire ad una disseminazione nella società delle

conoscenze sull’argomento (nella figura 5.10, un disegno dei

bambini che hanno partecipato allo screening).

La forza degli anticorpi anti-transglutaminasi ha consentito

inoltre di poter confermare la diagnosi di celiachia con

l’esecuzione di una sola biopsia senza necessità di ripetere

l’indagine a dieta e dopo scatenamento. Anzi, in casi con

sintomatologia riferibile a celiachia e anticorpi positivi, la

negativizzazione di questi e la regressione della sintomatologia

possono, secondo alcuni, essere sufficienti a confermare la

diagnosi anche senza biopsia.

Fig 5.10 La tossicità del frumento

contenuto in una pizza sull’epitelio del

celiaco, in un disegno dei bambini delle

scuole elementari

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5. La malattia celiaca

96

L’era delle “omiche”: indagando la base

dell’iceberg e cercando nuove terapie.

Al pari di quanto avviene per molti test diagnostici

quantitativi, la definizione della celiachia sulla base della

positività degli anticorpi anti-transglutaminasi rappresenta

un’approssimazione matematico-statistica più che una

certezza biologica. Infatti, i valori patologici di anticorpi sono

definiti sulla base della media di una popolazione sana più due

volte la deviazione standard della distribuzione. Il valore

concettuale di quest’approssimazione può cambiare a seconda

di come si voglia vedere la malattia celiaca: se si tratta di una

malattia “tutto o niente”, il significato degli anticorpi anti tTG

è quello di un’approssimazione probabilistica; se si tratta di

una condizione continua, con diversi livelli di malattia,

l’approssimazione riguarda la “quantità” di celiachia. Il

modello dell’iceberg della celiachia suggerisce che

quest’ultimo tipo di interpretazione possa descrivere meglio la

realtà. Nella base immersa si nasconderebbero quindi diversi

livelli di intolleranza al glutine, il cui significato deve essere

ancora valutato.

Per essere chiari, è bene dire che dal punto di vista clinico vale

la pena, per ora, di accettare un compromesso, e di fermarsi a

considerare come celiachia solo quella più facilmente

identificabile sulla base dei sintomi clinici, dei livelli sierici di

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5. La malattia celiaca

97

anticorpi, delle lesioni bioptiche. Dal punto di vista della

ricerca, invece, può essere interessante capire se, al di là di

questi casi, esista uno spettro più ampio di intolleranza al

glutine e se questo possa comportare o meno il rischio di

sviluppare altre malattie associate.

Per indagare quest’aspetto, sono stati proposti diversi

approcci, i principali dei quali consistono nella ricerca diretta

degli anticorpi anti-transglutaminasi nella mucosa intestinale

con metodiche di immunofluorescenza e nella

caratterizzazione degli anticorpi prodotti nella mucosa con la

tecnologia delle libraries fagiche. Ulteriori dati sono attesi

dall’applicazione di studi genomici e proteomici ad alta resa

(high throughput).

Partendo dal modello dell’iceberg della celiachia, è

ragionevole domandarsi se possano esistere livelli “intermedi”

di intolleranza al glutine, che sfuggano agli attuali criteri

diagnostici della malattia. E’ possibile, infatti, definire un

gruppo di soggetti con elevato rischio teorico di essere celiaci

(parenti di celiaci o diabetici con HLA DQ2 e/o DQ8) che

risultano negativi alle indagini sierologiche per la malattia

celiaca e all’esame morfologico della biopsia intestinale.

Ebbene, in alcuni di questi soggetti è possibile identificare

anticorpi anti-transglutaminasi, deposti nella mucosa a

contatto con il proprio bersaglio (vedi Koskinen et al, scheda).

Inoltre, anche con la metodica delle librerie fagiche (vedi

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5. La malattia celiaca

98

Marzari et al, scheda) è stato possibile dimostrare che alcuni

soggetti con queste caratteristiche producono nella mucosa

anticorpi anti-transglutaminasi, indotti dall’esposizione al

glutine. Quest’ultima tecnologia ha permesso inoltre di

dimostrare che questi anticorpi sono prodotti proprio dai

linfociti situati nella mucosa e non da linfociti del sangue

periferico 64

. Infine, sempre applicando questa metodica è

stato possibile caratterizzare dalla mucosa di soggetti la

produzione di altri autoanticorpi (ad esempio contro il

pancreas o contro strutture del cervello), anch’essi con

comportamento glutine-dipendente. Se questo è vero, sembra

ragionevole pensare che una dieta senza glutine possa

contribuire alla prevenzione del rischio di autoimmunità anche

in questo gruppo, come già abbiamo visto per i soggetti con

celiachia più tipica. La diagnosi di questi soggetti con

“intolleranza intermedia”, quindi, potrebbe permettere di

prevenire una quota supplementare di malattie autoimmuni

indotte dal glutine.

Va detto comunque, che è probabile che anche nei soggetti

celiaci il glutine non sia l’unico fattore ambientale in causa

nello scatenamento di reazioni autoimmuni. D’altra parte, è

possibile che l’esposizione al glutine agisca amplificando il

rischio che altri fattori ambientali provochino una risposta

autoimmune. La spiegazione più semplice per questa ipotesi è

che il particolare tipo di infiammazione indotta dal glutine

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5. La malattia celiaca

99

nella mucosa interferisca con il normale funzionamento dei

meccanismi di tolleranza nella mucosa stessa: un antigene

estraneo simile ad antigeni endogeni (mimetismo molecolare)

potrebbe rischiare di indurre una risposta autoimmune

piuttosto che una risposta di tolleranza.

Un’altra spiegazione potrebbe risiedere più specificamente nei

rapporti tra glutine, transglutaminasi tessutale e risposta

autoimmune contro questo enzima. In realtà, non c’è alcuna

dimostrazione consistente che la risposta anti-

transglutaminasi in sé abbia un ruolo preponderante nelle

malattie autoimmuni associate alla celiachia, tanto che alcuni

considerano tuttora questi anticorpi soprattutto come un

epifenomeno della malattia, specifico e utilissimo per la

diagnosi, ma forse non fondamentale nella patogenesi delle

manifestazioni della malattia. Sicuramente non indispensabile

allo sviluppo dell’enteropatia (che come abbiamo visto

dipende soprattutto dalla produzione di Interferon gamma da

parte di linfociti T CD4 specifici per il glutine). Tuttavia,

esistono alcune condizioni autoimmuni associate alla celiachia

dove il ruolo patogenetico di questi anticorpi è

definitivamente dimostrato o altamente probabile. In primo

luogo, la dermatite erpetiforme, manifestazione cutanea

autoimmune che sembrerebbe dipendere dalla produzione di

anticorpi contro la transglutaminasi epidermica (leggermente

diversa rispetto a quella tessutale). E’ possibile anche che, al

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5. La malattia celiaca

100

pari degli anticorpi anti-transglutaminasi, altri autoanticorpi

siano prodotti nella mucosa per un meccanismo di “antigen

spreading” cioè in seguito al riconoscimento di diversi antigeni

in complesso con peptidi di gliadina: come già discusso per gli

anticorpi anti-transglutaminasi, la gliadina potrebbe fornire i

peptidi riconosciuti da linfociti T anti-gliadina che a loro volta

fornirebbero l’aiuto per la produzione di diversi autoanticorpi.

Come al solito, è possibile che nella realtà siano coinvolti

diversi di questi meccanismi. Di fatto, la sola produzione di

autoanticorpi potrebbe spiegare alcune condizioni

autoimmuni (atassia, dermatite) ma più difficilmente altre

come il diabete e la tiroidite autoimmune, in cui è

ampiamente riconosciuto un ruolo patogenetico prevalente

dell’immunità cellulare.

Tutto questo, quando ancora alcuni autori discutono se la

celiachia debba o meno essere considerata essa stessa una

malattia auto-immune. L’autore di queste dispense ritiene di

no, anche se questa discussione non può avere che risvolti

scolastici. Pensare alla celiachia come una malattia

autoimmune mi sembra confondente, perché non si chiarisce

quale sia il nucleo che noi vogliamo considerare malattia. In

altre parole, se l’intolleranza al glutine è autoimmune, tutti i

malati devono avere aspetti clinici della malattia a patogenesi

autoimmune, e non semplicemente fenomeni autoimmuni

come la presenza di autoanticorpi.

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5. La malattia celiaca

101

Per esercizio, ricordiamo che la definizione di una malattia

come autoimmune prevede il soddisfacimento di alcuni criteri

abbastanza simile ai postulati di Koch per le malattie infettive.

Lasciamo al lettore il giudizio su quanto la celiachia possa

soddisfare questi criteri.

• Deve essere identificata una risposta adattativa

autoimmune anticorpale e/o cellulare in tutti i soggetti

affetti dalla malattia.

• La risposta autoimmune deve essere responsabile di un

danno caratterizzante della malattia.

• Il trasferimento delle cellule e/o anticorpi autoreattivi

deve essere in grado di riprodurre in un altro soggetto la

stessa malattia (cosa non facile da dimostrare, in assenza

di modelli animali della malattia).

In ogni caso, la definizione della celiachia come autoimmune o

meno non cambia sostanzialmente il suo ruolo nell’aumentare

il rischio di sviluppare autoimmunità. Anzi, questo ruolo

apparirebbe più chiaro e netto proprio se si ammettesse che la

malattia non è in se autoimmune.

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5. La malattia celiaca

102

Koskinen O, Collin P, Korponay-Szabo Ilma, Salmi T, Iltanen S,

Haimila K, Partanen J, Mäki M, Kaukinen K.

Gluten-dependent Small Bowel Mucosal

Transglutaminase 2-specific IgA Deposits in Overt

and Mild Enteropathy Coeliac Disease J Pediatr Gastroenterol Nutr 2008;47:436-442.

65

Vengono riportate immagini di immunofluorescenza (riquadri

grandi) e corrispondenti immagini morfologiche dei villi intestinali

(rettangoli piccoli), alla prima valutazione (A e B), dopo due anni di

dieta contenente glutine (D e E) e dopo una dieta priva di glutine (E

e F).

A e B mostrano un quadro di celiachia “latente”: I villi sono normali

(B) mentre si osservano dei depositi di IgA che co-localizzano con la

transglutaminasi tessutale (A). Non si evince dall’immagine in

bianco e nero, ma le frecce indicano il colore arancione derivante

dalla fusione della fluorescenza gialla dovuta alla presenza di IgA e

rossa dovuta alla presenza di transglutaminasi.

D: due anni dopo la mucosa mostra segni di atrofia, sono sempre

presenti anticorpi nella mucosa, ma non nel siero. Viene avviata la

dieta senza glutine.

F e E: a dieta senza glutine, la mucosa guarisce e scompaiono i

depositi di anticorpi IgA anti-transglutaminasi.

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5. La malattia celiaca

103

Marzari R, Sblattero D, Florian F, et al.

Molecular dissection of the tissue transglutaminase

autoantibody response in celiac disease. J Immunol. 2001 Mar 15;166(6):4170-6.

66

Per prima cosa è utile ricordare che ciascun linfocito B mucosale

presenterà nel proprio genoma dei riarrangiamenti che

permettono la produzione di anticorpi funzionali con un elevato

grado di diversità. Utilizzando dei primers che fiancheggiano le

regioni variabili delle immunoglobuline, è possibile collezionare

sotto forma di DNA copia (cDNA) tutto il patrimonio di diversità

anticorpali codificate nell’intestino. Per eseguire l’analisi di questa

enorme biblioteca, può essere sfruttata la tecnologia delle libraries

fagiche. In pratica, questa tecnologia permette di associare a

ciascuna sequenza di DNA codificante per una catena anticorpale la

corrispondente proteina: per far ciò, il DNA viene trasferito

all’interno di fagi in modo tale che la catena anticorpale venga

espressa sul capside. In questo modo il fago fornisce un potente

strumento di analisi e selezione: esso accoppia una proteina

(esposta sulla superficie del fago ed utilizzabile per processi di

selezione su base di affinità) al relativo DNA. Una volta identificata

una catena anticorpale di interesse, questo sistema permette di

amplificare ulteriormente il fago e di valutare agevolmente le

caratteristiche molecolari dell’anticorpo, cioè con quali moduli di

DNA questo è stato assemblato durante la ricombinazione

genetica. Il limite di questa tecnologia è che non permette di

effettuare l’accoppiamento giusto tra catene leggere e pesanti e

quindi non riproduce con certezza l’anticorpo esattamente come è

in vivo. D’altra parte, è noto che la catena pesante contribuisce per

la maggior parte alla specificità antigenica, e quindi si ritiene che

l’approssimazione delle librerie fagiche sia più che soddisfacente.

Questo tipo di analisi ha permesso di caratterizzare la risposta

autoanticorpale del soggetto celiaco, identificare le regione

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5. La malattia celiaca

104

variabili più comunemente utilizzate negli anticorpi anti-

transglutaminasi, mappare la specificità per diversi epitopi

dell’antigene e identificare la sede di produzione della risposta

autoimmune. Insieme ai risultati dell’immunofluorescenza in situ,

questa metodica ha permesso di dimostrare che gli anticorpi anti

tTG vengono prodotti e depositati nella mucosa, non solo nella

celiachia, ma anche in alcuni soggetti con diabete senza una

celiachia manifesta 67

. La metodica è stata adattata per un uso

routinario mirato a identificare se esista uno spettro di sensibilità al

glutine più ampio della celiachia tipica 68

.

Di seguito riportiamo anche un piccolo approfondimento sulle

relazioni tra malattia celiaca e diabete di tipo 1.

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5. La malattia celiaca

105

Il diabete visto dall’intestino.

Il diabete insulino-dipendente (DMT1) è una malattia

multifattoriale legata a fattori ereditari multigenici ed elementi

ambientali. Il peso dei fattori ambientali sembra essere

preponderante (la concordanza della malattia in gemelli

monozigoti è intorno al 30%), ma un substrato genetico

“permissivo” è indispensabile al realizzarsi della malattia. In

particolare, l’associazione con particolari HLA offre un interessante

collegamento tra la genetica e l’ambiente.

La possibilità di identificare soggetti ad alto rischio di sviluppare il

diabete insulino-dipendente (diabete di tipo 1) porta in sé la

frustrazione derivante dall’assenza di un’efficace strategia

preventiva della malattia. La presenza di anticorpi diretti contro il

pancreas e l’analisi dell’HLA consentono di predire con elevata

affidabilità lo sviluppo del diabete in età pediatrica (fratelli o figli di

diabetici), quando il rischio di sviluppare la malattia è ancora

elevato e i tempi per la prevenzione sono più lunghi. In familiari di

1° grado di diabeteci, il valore predittivo degli autoanticorpi contro

il pancreas varia dal 5 al 70% (in caso di positività multiple). E può

essere rinforzato dalla concordanza degli HLA di rischio.

E’ chiaro che la determinazione di questo rischio ha senso, ed è

eticamente accettabile, solo in presenza di efficaci strategie

preventive o nell’ambito di studi sperimentali di prevenzione.

D’altra parte, la presenza di una risposta autoanticorpale

persistente contro il pancreas indica forse qualcosa di più di una

condizione di rischio, qualcosa che è forse già l’inizio della malattia,

lo specchio dell’insulite, cioè dell’attivazione di linfociti autoreattivi

che infiltrano le insule pancreatiche, conducendo lentamente ad

una distruzione delle beta-cellule fino alla comparsa del diabete

manifesto. Un intervento a questo punto avrebbe già il significato

di una prevenzione secondaria.

Tra le strategie preventive, è stata valutata anche la

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5. La malattia celiaca

106

somministrazione orale di insulina, allo scopo di indurre attraverso

il sistema immune dell’intestino una risposta di tolleranza

all’ormone e al tempo stesso alle cellule pancreatiche. Per quanto

questa strategia non abbia portato finora ad apprezzabili risultati

clinici, essa contiene un’idea originale: quella che l’intestino possa

avere un ruolo nella genesi, e d’inverso nella prevenzione, del

diabete autoimmune.

Gli studi epidemiologici hanno mostrato che l’incidenza del diabete

negli anni può variare molto più di quanto vari il patrimonio

genetico della stessa popolazione, suggerendo che sia possibile

identificare i fattori ambientali attivi nella genesi della malattia. Un

recente studio collaborativo europeo ha mostrato inoltre che

l’aumento di incidenza del diabete mellito è maggiore nei bambini

più piccoli (+ 6.3% negli ultimi 15 anni), con una tendenza

all’anticipazione dell’età di insorgenza. Tra i possibili fattori

ambientali in causa, appaiono di particolare importanza

l’alimentazione e le infezioni, in particolare quelle a carico del

tratto gastro-intestinale. Entrambi questi fattori si confrontano con

l’organismo a livello della mucosa dell’intestino e il mediatore del

confronto tra la genetica e l’ambiente è quindi il sistema immune

della mucosa intestinale. L’ipotesi che stiamo valutando, e cioè che

il diabete nasca dall’intestino, appare coerente con questi dati. Di

fatto, come vedremo, l’osservazione che nei soggetti diabetici

siano identificabili sottili alterazioni del sistema immune

intestinale, è coerente con una visione più allargata della

patogenesi del diabete e di altre malattie autoimmuni d’organo.

Glutine, latte vaccino e infezione da enterovirus sono tre fattori

ambientali per i quali è stato ipotizzato un ruolo nella patogenesi

del DMT1. La prima caratteristica che questi hanno in comune è

quella di entrare in contatto con l’organismo a livello della mucosa

intestinale. I due alimenti hanno poi una seconda caratteristica in

comune, quella cioè di aver fatto parte nei secoli recenti di un

importante cambiamento delle abitudini dietetiche (almeno per

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5. La malattia celiaca

107

quanto riguarda le quantità), che non ha avuto né il tempo né le

condizioni (almeno nei paesi ad elevato sviluppo socio-sanitario) di

indurre un adattamento della specie in termini di selezione

naturale. E’ possibile che il cambiamento dietetico spieghi, almeno

in parte, la variabile incidenza di diabete nel tempo che si è

osservata in più paesi.

L’evidenza di un ruolo patogenetico del glutine, almeno in una

percentuale di diabetici (intorno al 5-10%), nasce dall’osservazione

che i celiaci non diagnosticati, esposti a lungo alla dieta contenente

glutine, hanno un rischio elevato di sviluppare il diabete (fino al

25% dopo 30 anni di dieta contenente glutine). Questo rischio si

riduce fortemente nei soggetti celiaci diagnosticati precocemente,

e quindi a dieta, indicando che un’alimentazione senza glutine

potrebbe essere in grado di prevenire in essi lo sviluppo di diabete.

Coerente con questi dati è l’osservazione che gli anticorpi anti-

pancreas, quando presenti in soggetti celiaci, tendono a scomparire

a dieta senza glutine.

Per concludere, in soggetti con il substrato genetico della celiachia

(HLA ed altro non noto), il glutine potrebbe favorire una risposta

autoimmune anti-pancreas ed infine il diabete conclamato.

L’associazione con la celiachia sembra spiegare solo una parte

minore dei casi di DMT1 (meno del 10 %), ma è possibile che anche

in soggetti non tipicamente celiaci il glutine abbia un ruolo nel

favorire l’insorgere del diabete. Questa ipotesi, finora mai valutata,

è attualmente oggetto di studio con le nuove tecniche dell’era

molecolare della celiachia.

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5. La malattia celiaca

108

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6. La malattia di Crohn

109

6. La malattia di Crohn

Fig. 6.1 Pubblicazioni sulla malattia di Crohn negli anni su due delle

maggiori riviste mediche internazionali.

Nel grafico in figura 6.1 viene riportato il numero di

pubblicazioni sulla malattia di Crohn sulle due principali riviste

mediche internazionali: l’americano “New England Journal of

Medicine” ed il britannico “The Lancet”.

L’interesse verso questa malattia non è stato sempre uguale

per le due riviste. Si possono inoltre notare alcuni picchi che

rispecchiano verosimilmente altrettanti periodi di

avanzamanto delle conoscenze. Il primo picco, alla fine degli

anni ’60 si associa a molte diverse novità, dall’introduzione di

terapie mediche di fondo alla caratterizzazzione di

manifestazioni associate alla malattia; il secondo picco, di più

ampia durata per il giornale britannico, rispecchia un ulteriore

aumento delle conoscenze, favorito anche dall’introduzione

della colonscopia con fibre ottiche; agli inizi degli anni ’90 si

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5. La malattia celiaca

110

prende atto di cambiamenti epidemiologici e alla fine dello

stesso decennio si assiste all’avvio della “rivoluzione

biologica”, con l’introduzione in terapia degli anticorpi anti

TNF-alfa; l’inizio del 2000, infine, è caratterizzato

dall’identificazione di uno dei geni maggiormente associati al

rischio di malattia, NOD2.

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6. La malattia di Crohn

111

Era Anni Clinica Diagnosi e

terapia

Biologia

B. Crohn

Chirurgia

1932 Ileo terminale:

infiammazione

cronica: ulcere,

fistole e stenosi 69

; Complicanze

nutrizionali della

chirurgia70

Chirurgica Granuloma.

infiammazione

ma non tumore

né infezione

E. medica

del

cortisone e

dell’azatiopr

ina

1951

-

1967

Anche carcinoma,

eritema nodoso,

amiloidosi,

febbre, ritardo di

crescita,

spondilite

anchilosante,

pioderma

gangrenoso

Anemia 71

Effetto del

cortisone 72

;

rischi del

cortisone 73

;

Sigmoidosco

pia 74

. 6-

mercaptopu

rina 75

76

.

E. della

dieta e

dell’ambient

e

1970 Aumento di

incidenza e

progresso socio-

igienico 77

;

aumento della

MC pediatrica

Ileostomia 78

. Dieta 79,80

.

Doppio

contrasto 81

; 82

Leucociti nel

sangue 83

e nel

muco rettale 84

.

Permeabilità 85

,

Infezione 86

;

difetto immune 87,88

; ASCA 89

E. biologica 1997 Talidomide 90,91

Infliximab 92

Modelli murini

E. genetica 2001 NOD2 come

gene rischio 93,94

E. del

sistema

immune

naturale

2002 GM-CSF

come

possible

terapia 95-97

Difetto del

fagocita98,99

.

Difetto di switch

off 100

E. delle

interazioni

2009 101

Tab. 6.1 Le ere della malattia di Crohn.

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5. La malattia celiaca

112

La nascita di una nuova

malattia: Crohn, 1932

All’inizio degli anni ‘30, un gruppo di

chirurghi del Mount Sinai Hospital di

New York, osservò una serie di pazienti

con una malattia infiammatoria cronica

dell’intestino a patogenesi ignota (né

infettiva, né tumorale). Nel 1932, Crohn

(fig. 6.2), Ginzburg e Oppenheimer descrissero questa

condizione sul Journal of American Medical Association

(JAMA) come una nuova entità nosologica, che avrebbe

successivamente preso il nome di Malattia di Crohn 69

.

Fig. 6.2 Burrill B. Crohn

Fig 6.3 La prima descrizione dell’Ileite Regionale, in seguito denominata

malattia di Crohn.

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6. La malattia di Crohn

113

La descrizione con cui iniziava l’articolo (fig. 6.3) costituisce

tuttora un’ottima sintesi delle caratteristiche della malattia:

“noi proponiamo di descrivere, nei suoi dettagli patologici e clinici,

una malattia dell’ileo terminale, che colpisce soprattutto i giovani

adulti e che è caratterizzata da un’infiammazione subacuta o

cronica necrotizzante e cicatrizzante. L’ulcerazione della mucosa si

accompagna a una sproporzionata reazione del tessuto connettivo

della restante parete della zona di intestino coinvolta, un processo

che conduce frequentemente a stenosi del lume intestinale associata

alla formazione di fistole multiple”.

Può essere utile discutere alcuni aspetti di questa descrizione

ai fini della nostra trattazione:

- La frase iniziale - noi proponiamo di descrive una malattia

– tradisce già che si sta parlando di una malattia

precedentemente sconosciuta, il che può suggerire che

cambiamenti ambientali abbiano avuto un ruolo nella sua

comparsa;

- Malattia dell’ileo terminale: oggi sappiamo che l’ileo

terminale è la localizzazione più caratteristica della

malattia, ma che altre porzioni dell’apparato digerente

possono essere ugualmente interessate, lasciando di solito

ampie porzioni del tutto sane (si parla di “lesioni a salto” o

skip lesions);

- Colpisce soprattutto i giovani adulti: questo resta vero, ma

negli ultimi decenni sono diventati sempre di più i casi ad

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5. La malattia celiaca

114

esordio più precoce, in età pediatrica, suggerendo ancora

un ruolo di cambiamenti dell’ambiente nel modificare

l’espressione della malattia;

- Infiammazione subacuta o cronica necrotizzante e

cicatrizzante, … sproporzionata reazione della parete …

stenosi e fistole: i sintomi della malattia dipendono

dall’infiammazione in sé (febbre, astenia, calo ponderale),

ma in modo ancora più caratteristico dagli aspetti

distruttivi a pieno spessore di parete dell’infiammazione

(ascessi, fistole, stenosi, masse addominali, occlusione).

Meno importante è invece il sintomo dovuto

all’infiammazione superficiale della mucosa (diarrea con

muco e sangue) rispetto a quanto si poteva osservare in

altre malattie come la colite ulcerativa.

- Più avanti, si descrive il carattere granulomatoso (vedi

scheda) dell’infiammazione, non riconducibile a cause note

(in primis la tubercolosi e le cause infettive).

L’infiammazione granulomatosa.

L’infiammazione granulomatosa è un tipo particolare di risposta

infiammatoria cronica, caratterizzata da raccolte focali di

macrofagi, cellule epitelioidi e cellule giganti multinucleate.

Questa modalità viene messa in atto in presenza di una relativa

incapacità da parte dei fagociti di rimuovere in modo efficiente un

agente patogeno, a causa di caratteristiche intrinseche del

patogeno o a causa di un difetto dei meccanismi di distruzione di

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6. La malattia di Crohn

115

questo da parte della cellula. In tali casi, le citochine e chemochine

rilasciate nella sede del danno richiameranno linfociti, che a loro

volta produrranno citochine in grado di potenziare e modulare

l’attività dei fagociti. Il risultato è il granuloma che può evolvere in

vari modi, in base alla persistenza o meno dei fattori che ne hanno

indotto la formazione.

Gli esempi più classici di reazione granulomatosa si trovano nella

tubercolosi (resistenza del micobatterio alla distruzione da parte

dei fagociti), nel corpo estraneo (indigeribilità) e in un particolare

difetto dei fagociti, la malattia granulomatosa cronica (per un

difetto della capacità ossidativa dei fagociti).

Detto questo, appare comprensibile come in questa prima era

della malattia di Crohn la malattia avesse soprattutto

connotati “chirurgici”.

Gli unici farmaci utilizzati, su base empirica, erano i

sulfamidici, che si erano da poco rivelati preziosi nel

trattamento di malattie infettive. Tra questi farmaci, la

salazopirina sembrava essere dotato di una certa efficacia, ma

è incerto se questa fosse dovuta più alle qualità anti-

batteriche o a quelle anti-infiammatorie (contenuto di

salicilato).

Nel 1950 cominciano a evidenziarsi le prime complicazioni a

distanza della gestione esclusivamente chirurgica della

malattia: dopo aver resecato la parte di intestino malata, la

malattia tende a ricadere e a richiedere nuovi interventi, fino a

portare a una rilevante diminuzione della superficie di

assorbimento con conseguenti problemi nutrizionali 70

.

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5. La malattia celiaca

116

Dal cortisone all’azatioprina: la prima

era farmacologica

All’inizio degli anni ‘50 l’uso del cortisone entra con

prepotenza nell’armamentario terapeutico delle malattie

infiammatorie, inclusa la malattia di Crohn 72

. L’efficacia del

farmaco è subito evidente e sembra permettere in molti casi

di evitare o posticipare il ricorso alla terapia chirurgica, tanto

che si parlerà di una vera e propria “era degli steroidi” 102

. Solo

più tardi, si cominceranno a rendere evidenti anche i rischi di

un trattamento steroideo prolungato (vedi scheda) 73

. Infatti,

l’esperienza insegnerà ben presto che la malattia tende a

ricadere alla sospensione del trattamento che viene quindi

mantenuto a tempo indefinito. Non solo, in alcuni pazienti si

sviluppava una certa tolleranza nei confronti del farmaco, che

costringeva ad aumentarne le dosi. Oggi sappiamo che il

trattamento steroideo nella malattia di Crohn si limita a

bloccare le manifestazioni correlate all’infiammazione, senza

influire positivamente sulla storia naturale della malattia.

Negli anni successivi si cercherà di aggiungere al cortisone altri

farmaci immunosoppressori, a cominciare dalla 6-

mercaptopurina, fino alle mostarde azotate 75

76,103

. L’era del

cortisone rappresenta quindi il momento in cui la scoperta di

farmaci con effetto anti-infiammatorio e immunosoppressivo

permette l’attuazione delle prime terapie mediche dotate di

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6. La malattia di Crohn

117

una certa efficacia sui sintomi infiammatori della malattia. I

trattamenti medici proposti in precedenza, infatti, non

avevano basi razionali altrettanto solide e spesso

rispondevano a pensieri logici arbitrari e a volte bizzarri (per

una trattazione storica vedi Kirsner, The Lancet 1998 104

).

In questo periodo, vengono descritti i primi casi familiari e

pediatrici della malattia, si introducono esami non-chirurgici

per una migliore diagnosi (biopsia rettale, sigmoidoscopia) e

vengono descritte altre condizioni morbose che si associano o

che complicano spesso la malattia di Crohn: carcinoma del

colon, eritema nodoso, amiloidosi, febbre, ritardo di crescita,

anemia, spondilite anchilosante, pioderma gangrenoso.

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5. La malattia celiaca

118

Cortisone: meccanismi di azione ed effetti

collaterali

Dal 1949, quando Hench e coll. dimostrano l’efficacia

antinfiammatoria dei corticosteroidi o dell’ACTH nell’artrite

reumatoide, i cortisonici diventano il prototipo dei farmaci

antinfiammatori (tanto che altre categorie di farmaci verranno poi

indicate come “farmaci antinfiammatori non steroidei” o ancora,

come farmaci “risparmiatori di cortisone”).

La potenza degli steroidi, giudicata in base alla capacità di

mantenere la sopravvivenza nel soggetto adrenalectomizzato,

correla con l’effetto di ritenzione di sodio (effetto

mineralcorticoide). Attraverso il legame ad un altro tipo di

recettore i cortisonici possono mediare anche un effetto più

complesso sul metabolismo, con aumento della glicemia,

diminuzione dell’uso del glucosio ed accumulo di glicogeno epatico

(effetto glucocorticoide). La potenza glucocorticoide correla con

l’azione antinfiammatoria del farmaco.

I cortisonici sono molecole liposolubili, in grado di attraversare

facilmente le membrane e raggiungere il proprio recettore nel

citoplasma della cellula. In seguito al legame con il cortisone, il

recettore media una serie di effetti di regolazione della sintesi

proteica, direttamente o indirettamente per mezzo del legame ad

altri fattori di trascrizione (vedi immagine). Gli effetti immunologici

dipendono da molteplici meccanismi: da un lato la repressione

della produzione di citochine come l’IL-1, il TNF-alfa, l’IL-6 e la

diminuita produzione di prostaglandine, leucotrieni e di enzimi

litici; dall’altro un effetto immunosoppressore più complesso sulle

cellule dell’immunità naturale e sui linfociti.

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6. La malattia di Crohn

119

L’effetto dei glucocorticoidi è molto potente, grazie anche al largo

spettro di azione su più sostanze e funzioni cellulari. Purtroppo,

però, l’utilizzo di questi farmaci nelle malattie infiammatorie

croniche comporta una serie di problemi: primo, il farmaco ha un

effetto sintomatico e non sembra cambiare la storia naturale della

malattia (anzi, forse potrebbe aggravarne alcuni aspetti); oltre agli

effetti sul sistema immunitario i cortisonici hanno marcati effetti

sul metabolismo cellulare, tanto più importanti quanto più la

somministrazione viene protratta. Non solo, l”assuefazione”

dell’organismo ad elevati livelli di cortisone comporta la perdita di

un’efficace risposta ormonale da stress (a causa della cosiddetta

soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene). I principali effetti

indesiderati di terapie di lunga durata a base di corticosteroidi sono

di seguito riassunti:

- Cardiovascolari: ipertensione

- Cute: ecchimosi, petecchie, strie rubre, acne

- Endocrino-metabolici: soppressione asse ipotalamo-ipofisi-

surrene, irsutismo, aspetto cushingoide, impotenza, irregolarità

mestruali, ritardo e arresto della crescita nei bambini, diabete,

catabolismo proteico, disturbi elettrolitici ritenzione di sodio e

acqua, ipokaliemia, ipocalcemia, calciuria.

- Gastrointestinali: ulcera peptica, emorragia gastrica

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5. La malattia celiaca

120

- Immunitari: aumentata suscettibilità alle infezioni, ritardata

guarigione di ferite

- Neuropsichici: iperattività psico-motoria, euforia, insonnia,

sindrome depressivo-maniacale, psicosi

- Oftalmici: cataratta, glaucoma, cheratiti

- Osteomuscolari: osteoporosi, necrosi asettica della testa del

femore e dell’omero, miopatia

Ambiente e immunità: dalla dieta ad

una nuova epidemiologia

Il ruolo di cambiamenti ambientali nella patogenesi della

malattia di Crohn diviene sempre più evidente: gli studi

epidemiologici mostrano un aumento della prevalenza della

malattia nel tempo 77

; la transitoria esclusione di anse

intestinali dal transito alimentare, eseguita per finalità

chirurgiche, permetteva in esse la guarigione del processo

infiammatorio 78

; la nutrizione con dieta elementare o semi-

elementare (cioè a base di molecole non complesse)

permetteva non solo di affrontare il difetto nutrizionale tipico

della malattia, ma anche la risoluzione del processo

infiammatorio 79,80

(vedi scheda). Queste e altre osservazioni

erano coerenti con un ruolo chiave dell’ambiente (ed in

particolare di quell’ambiente che entra a contatto con

l’intestino attraverso l’alimentazione) nella malattia di Crohn.

Tuttavia, non era chiaro quali elementi di quest’ambiente

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6. La malattia di Crohn

121

fossero i veri responsabili della malattia. Si osservava che

l’aumento dell’incidenza della malattia nei diversi paesi

rispecchiava il progresso socio-igienico-economico, tanto che

si cominciò a parlare di malattie correlate alla

“occidentalizzazione” dello stile di vita 105,106

. Non solo, la

malattia, inizialmente descritta come più frequente nella

popolazione ebraica, risultava meno frequente in Israele che

negli Stati Uniti 107

. Nonostante questo, non fu possibile

identificare singoli fattori ambientali sicuramente associati con

la malattia.

Dall’altra parte, cominciava a prendere piede l’ipotesi che la

malattia potesse derivare da una risposta immune anomala a

qualche mutamento ambientale non ben identificato. Infatti,

la conta dei globuli bianchi nel sangue e nel muco fecale

diventano al tempo stesso una prova del coinvolgimento

generale del sistema immunitario nella malattia e strumenti

per la diagnosi ed il monitoraggio di questa 83,84

. Ancora una

volta, però, non è facile comprendere in che cosa consista

questa anomala risposta all’ambiente: si ipotizza che la

malattia nasca dalla risposta ad agenti infettivi trasmissibili

che tuttavia non vengono mai identificati in modo convincente 86

; si ipotizza un difetto della tolleranza immune contro i

comuni saprofiti, che sarebbe coerente con l’identificazione di

un’alterata reattività cellulare e anticorpale contro alcuni

commensali 87,89

; infine, si ipotizza che una patologica risposta

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5. La malattia celiaca

122

individuale a determinati fattori ambientali possa derivare da

una condizione di difetto immunitario 88,108

. A ciò si

aggiungeva l’evidenza di un’alterata permeabilità intestinale,

che, oltre a provocare malassorbimento e difetto nutrizionale,

poteva svolgere un ruolo patogenetico anche favorendo il

confronto tra componenti ambientali e immunità mucosale. La

misura della permeabilità intestinale diventò di fatto un

ulteriore indicatore biologico dell’attività di malattia,

precedendo nel tempo l’aumento dei leucociti e degli indici di

flogosi e la ricaduta clinicamente manifesta 85

.

Contemporaneamente, lo studio di loci associati alla malattia

in famiglie con più casi affetti, promette di fornire una chiave

interpretativa, forse in grado di trovare una sintesi tra queste

diverse teorie.

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6. La malattia di Crohn

123

Dieta elementare nella malattia di Crohn 79,80

La figura mostra gli effetti della sola dieta elementare su diversi

parametri indicatori sia dello stato nutrizionale che dello stato

infiammatorio.

Come si vede, la dieta ha di per sé oltre all’effetto nutrizionale

anche un effetto anti-infiammatorio. Il meccanismo con cui si

ottiene questo effetto non è ancora del tutto noto, ma è probabile

che passi attraverso modificazioni della composizione e del

metabolismo della flora batterica intestinale.

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5. La malattia celiaca

124

I farmaci biologici: la seconda era

farmacologica

La seconda era farmacologica potrebbe essere anche chiamata

“biotecnologica”. L’idea è quella di ottenere lo stesso potere

anti-infiammatorio del cortisone, senza i pesanti effetti

indesiderati di questo farmaco. Di seguito sono riassunte le

basi di quest’approccio terapeutico.

Sebbene il sistema immune sia in grado di riconoscere una

moltitudine di patogeni ed organizzare nei loro confronti

risposte di volta in volta diverse, le fasi iniziali della difesa

primaria verso gli antigeni sono condivise. La modalità di

risposta può tuttavia essere modulata dalle caratteristiche del

patogeno, dando luogo alla produzione di diversi profili di

citochine. Quando prodotte in grande quantità, queste

citochine mediano effetti sistemici come la reazione febbrile

(azione sull’ipotalamo di IL-1 e TNF-α) e la sintesi delle

proteine della fase acuta (azione sul fegato di IL-1, TNF-α e IL-

6). A queste azioni si associa un programma di risparmio

energetico da parte dell’organismo, finalizzato a concentrare

tutte le forze sul fronte della difesa immune. In quest’ottica si

devono leggere la sonnolenza provocata dall’IL-1 e dal TNF-α e

l’inibizione della crescita mediata dall’IL-6.

Tra le citochine prodotte nelle malattie infiammatorie

croniche, quella che ha sicuramente il maggior potenziale

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6. La malattia di Crohn

125

lesivo è il TNF-α (vedi scheda), anche in ragione della sua

capacità di amplificare la produzione di citochine pro-

flogogene, a loro volta dotate di notevole tossicità. Ad

esempio la secrezione protratta di IL-1 conduce a

riassorbimento osseo, mentre la secrezione cronica di IL-6,

attraverso una diminuzione dell’IGF-I, ostacola

l’accrescimento.

Le citochine vengono prodotte per brevi periodi di tempo da

cellule attivate del sistema immune. La loro sintesi avviene

ex novo ed è regolata a partire da segnali di membrana

trasdotti attraverso una cascata di eventi, che culminano con

l’attivazione di particolari fattori di trascrizione tra cui l’NF-kB,

in grado di regolare la sintesi delle citochine pro-flogogene e

degli enzimi implicati nel metabolismo delle prostaglandine e

dei tromboxani. E’ bene dire che uno degli antagonisti più

potenti dell’azione dell’NF-kB è proprio il cortisone, ma come

abbiamo visto questo farmaco ha anche altri importanti effetti

indesiderati.

Dato il suo ruolo centrale del TNF-α nell’amplificazione della

risposta infiammatoria, si è pensato di controllare

specificamente gli aspetti più gravi dell’infiammazione per

mezzo dell’inibizione di questa citochina. Per la sua selettività,

questo intervento non è teoricamente gravato dagli effetti

collaterali propri di farmaci come il cortisone, anche se esiste il

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5. La malattia celiaca

126

rischio che una soppressione prolungata dell’attività del TNF-α

possa associarsi ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni.

Le strategie finora studiate al fine di inibire il TNF-α

comprendono l’infusione endovenosa di anticorpi monoclonali

contro questa citochina 92

, l’uso del recettore solubile per il

TNF-α coniugato con il frammento Fc di immunoglobuline di

classe IgG e la somministrazione di farmaci che diminuiscono

l’emivita dell’RNA messaggero del TNF-α (la talidomide

sembrerebbe agire in parte con questo meccanismo).

Sulla base dei trials effettuati, l’inibizione del TNF-α si è

rivelata essere una terapia fondamentale nelle fasi critiche

delle malattie infiammatorie croniche (M. di Crohn, Artrite

Reumatoide), ottenendo un’azione antinfiammatoria molto

marcata, a spese di effetti collaterali contenuti.

Effetti del TNF-αααα

Basse concentrazioni

induce molecole di adesione endoteliali, attiva leucociti

infiammatori ad uccidere i microbi

stimola la produzione di citochine pro-flogogene (IL-1, IL-6, TNF),

potenzia la difesa contro infezioni virali

Concentrazioni sistemiche (ad esempio nella sepsi)

azione pirogena ipotalamica, risposta fase acuta, attivazione del

sistema di coagulazione

inibisce la replicazione midollare, inappetenza

Quantità massicce (ad esempio nello shock settico)

depressione della contrattilià miocardica, diminuito tono della

muscolatura vasale

coagulazione disseminata, ipoglicemia

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6. La malattia di Crohn

127

Gli anticorpi anti-TNF sono oggi entrati a far parte

dell’armamentario terapeutico della malattia di Crohn, grazie

alla loro elevata potenza e alla loro relativa selettività.

E’ bene tuttavia non concedersi troppo alla facile equivalenza

tra selettività e sicurezza: per quanto meglio tollerate dei

cortisonici, le nuove terapie biologiche non sono scevre da

effetti collaterali. La loro elevata potenza e la lunga durata

d’azione possono produrre una potente soppressione di alcuni

meccanismi di risposta antimicrobica con elevato rischio di

sviluppare infezioni gravi da alcuni patogeni, come ad esempio

il micobatterio tubercolare. Inoltre, anche questi farmaci

sembrano al pari del cortisone, avere un effetto

prevalentemente sintomatico, senza influenzare in modo

chiaro l’evoluzione della malattia. In conclusione, questi

farmaci rappresentano un indubbio passo avanti nella terapia

della malattia di Crohn, ma solo una maggiore conoscenza

patogenetica della malattia potrà permettere di trovare il

giusto ruolo di questi farmaci, all’interno di terapie sequenziali

o combinate che uniscano il trattamento del sintomo

infiammatorio e le cause immuni ed ambientali che ne sono

alla base.

A questo proposito vengono messi a punto numerosi modelli

murini della malattia, ma come si vedrà in seguito, pochi di

questi si riveleranno in grado di dare informazioni utili a

comprendere meglio la malattia umana.

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5. La malattia celiaca

128

Nella tabella 6.2, i modelli murini di malattia infiammatoria

dell’intestino sono suddivisi in quattro gruppi, a seconda di

quale sia stato il difetto indotto. Va detto che nella

maggioranza dei casi quello che si ottiene è un’infiammazione

intestinale aspecifica che non riproduce necessariamente la

malattia di Crohn né la retto-colite ulcerativa umane.

Il primo gruppo, comprende alcuni ceppi murini che

sviluppano spontaneamente infiammazione. Gli altri tre gruppi

comprendono i modelli indotti: per mezzo di agenti lesivi per

la mucosa; per mezzo dell’induzione di svariati difetti

immunologici; per trasferimento di particolari sottogruppi di

linfociti in topi con immunodeficienza. Anche se non

riproducono esattamente la malattia di Crohn, questi esempi

possono testimoniare la facilità con cui vari disturbi

dell’immunità si ripercuotono sull’omeostasi intestinale.

D’altra parte, è nozione comune che molte immunodeficienze

primitive possano associarsi a vari livelli di infiammazione

intestinale. E’ opportuno sottolineare come questi modelli

siano per lo più basati sulla convinzione che il difetto immune

alla base della malattia riguardasse i linfociti della risposta

adattativa, mentre come vedremo, l’identificazione di geni

coinvolti nella malattia umana ha recentemente spostato

l’attenzione su difetti a carico dei fagociti e dell’immunità

naturale.

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6. La malattia di Crohn

129

Tab. 6.2 Modelli animali di malattia infiammatoria dell’intestino109

.

L’era genetica e della nuova patogenesi.

Il nuovo millennio si apre con l’identificazione del principale

gene associato al rischio di malattia di Crohn (NOD2) 93,94

promettendo finalmente una migliore comprensione della

patogenesi della malattia. NOD2 (Nucleotide

Oligodimerization Domain 2) è una proteina citoplasmatica,

espressa in particolar modo nelle cellule del sistema

fagocitario e coinvolta nel controllo della reazione

infiammatoria.

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5. La malattia celiaca

130

Fig. 6.4 Struttura del gene NOD2 e varianti associate a m. di Crohn

NOD2 appartiene ad una famiglia molto vasta di proteine

coinvolte nel riconoscimento di componenti batteriche

(PAMPs, Pathogen Associated Molecular Patterns) e nella

regolazione della risposta infiammatoria (attivazione di NK-kB

e Caspasi-1) oltre che nella regolazione di varie modalità di

maturazione e morte dei fagociti (apoptosi, piroptosi). Questo

sistema è anche descritto come un insieme di piattaforme

molecolari (o inflammasomi) che garantisce una fine

regolazione degli eventi suddetti, per mezzo di un continuo

riassestamento di interazioni, omo- ed etero-dimerizzazioni,

che permettono di trasdurre il segnale producendo la

dimerizzazione e l’attivazione di molecole. Tale meccanismo di

trasduzione viene anche detto “trasduzione per contiguità o

per prossimità”, ed è comune alla maggior parte delle

molecole degli inflammasomi. Nell’ultimo ventennio, una

grande mole di dati sul funzionamento di questi sistemi è

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6. La malattia di Crohn

131

derivata dallo studio di alcune malattie monogeniche umane:

le cosiddette sindromi autoinfiammatorie. Si tratta di

condizioni dovute a difetti genetici a carico di alcune di queste

proteine (pirina, nella febbre mediterranea familiare;

CIAS1/NALP3 nelle criopirinopatie) e caratterizzate dalla

ricorrenza di gravi sintomi infiammatori fin dai primi anni, o

addirittura giorni di vita. L’identificazione di NOD2 come

principale gene associato a rischio di malattia di Crohn ha

quindi indotto a seguire l’analogia tra NOD2 e le altre proteine

degli inflammasomi, ritenendo che anche la malattia di Crohn

potesse in qualche misura rientrare tra le sindromi

autoinfiammatorie, dovute ad un eccesso di attivazione e/o ad

un difetto del feedback infiammatorio. Tuttavia, già i primi

lavori mostravano un apparente paradosso, che smorzava un

po’ l’illusione di svelare la patogenesi della malattia di Crohn.

Le varianti di NOD2 associate a malattia di Crohn, erano state

trasdotte in cellule di rene insieme ad un sistema reporter

dell’attività di NF-kB: sorprendentemente, lo stimolo con vari

PAMPs (tra cui il muramil dipeptide o MDP) produceva una

risposta di attivazione di NF-kB minore e non maggiore

rispetto al NOD2 wild type. In altre parole, in un sistema

cellulare semplificato, il risultato delle varianti associate a

malattia sembrava quello di diminuire piuttosto che

aumentare l’attivazione infiammatoria.

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5. La malattia celiaca

132

Il meccanismo con cui le varianti di NOD2 conducono ad un

aumentato rischio di sviluppare la malattia di Crohn deve

quindi dipendere da equilibri più complessi, per cui è difficile

considerare la malattia di Crohn come una “semplice” malattia

autoinfiammatoria. A completare questo difficile puzzle si

aggiunge la caratterizzazione di un’altra malattia legata a

mutazione del gene NOD2: la sindrome di Blau, una malattia

granulomatosa con artrite granulomatosa, iridociclite e

granulomi cutanei. In questo caso, le mutazioni (diverse da

quelle associate con m. di Crohn) portano ad una “gain of

function” della proteina e la malattia può essere più

chiaramente inclusa nel gruppo delle malattie auto-

infiammatorie.

Il difetto dell’immunità naturale: dai

fagociti all’immunità degli epiteli

Abbiamo arbitrariamente dedicato quest’era al ruolo

dell’immunità naturalei nella malattia, anche se questa scelta

potrebbe non essere pienamente condivisa dalla comunità

scientifica. Sta di fatto che numerose evidenze hanno

coerentemente suggerito che un difetto non ben identificato

dell’immunità naturale potesse variamente contribuire alla

patogenesi della malattia di Crohn. In altre parole, nonostante

il probabile ruolo di diversi geni e diversi fattori ambientali,

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6. La malattia di Crohn

133

potrebbe essere possibile identificare nella malattia alcuni

aspetti funzionali condivisi dalla maggior parte dei casi. A ben

pensare, a suggerire questa idea, stava già da tempo la

specificità della lesione istologica granulomatosa con tendenza

alla formazione di fistole e all’elevata produzione di TNF-α.

Nell’ultimo decennio, diversi ordini di evidenze hanno

permesso di formulare nuove ipotesi riguardo alla patogenesi

dell’infiammazione tipica della malattia.

• Alcuni dei principali geni di rischio della malattia (a

cominciare da NOD2) hanno un ruolo nella risposta

immune naturale dell’epitelio e/o nella corretta funzione

dei fagociti (vedi di seguito).

• Tentativi terapeutici basati sullo stimolo dei fagociti per

mezzo del fattore di crescita dei granulociti e dei monociti

(GM-CSF) hanno portato a qualche miglioramento in alcuni

gruppi di pazienti con malattia di Crohn 95-97

.

• Alcuni difetti congeniti dei fagociti (classificati come

immunodeficienze primitive) possono esprimersi con

un’infiammazione intestinale in buona parte

sovrapponibile a quella tipica della malattia di Crohn (vedi

scheda).

• E’ stato dimostrato che monociti ottenuti da soggetti con

malattia di Crohn hanno un difetto (e non un eccesso)

nella produzione di alcune citochine (tra cui l’IL-8) e hanno

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5. La malattia celiaca

134

un relativo difetto a rimuovere batteri non patogeni

aggiunti in elevata carica 98,99

.

• Topi knock out per NOD2 sviluppano un’infiammazione

granulomatosa dopo colonizzazione con H.hepaticus. Il

trapianto di cellule staminali non è sufficiente a

proteggere dall’infiammazione, suggerendo che

l’espressione del difetto nell’epitelio intestinale sia

sufficiente a predisporre alla malattia. Al contrario,

l’espressione forzata di α-defensina nelle cellule

dell’epitelio intestinale è in grado di prevenire lo sviluppo

della malattia infiammatoria110

.

• Tra i difetti immuni associati ad infiammazione simil-

Crohn, è particolarmente interessante citare la displasia

ectodermica anidrotica con immunodeficienza, dovuta al

difetto del gene IKK-gamma, codificante la proteina

NEMO. Anche in questo caso, come per NOD2, il difetto

interessa l’attivazione di NF-KB ed è espresso sia nel

sistema immune che nell’epitelio. I pazienti affetti da

questa malattia possono sviluppare una colite

infiammatoria. Questo rischio non diminuisce in seguito a

trapianto di cellule staminali ematopoietiche,

sottolineando anche in questo caso il ruolo patogenetico

del difetto epiteliale111

.

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6. La malattia di Crohn

135

Immunodeficienze associate a infiammazione

Crohn-like

La presenza di infiammazione intestinale con le caratteristiche della

malattia di Crohn è descritta da molti anni in alcune

immunodeficienze primitive. Nella malattia granulomatosa cronica

(CGD) l’infiammazione intestinale può presentarsi anche in assenza

di sintomi infettivi 112-118

. Le caratteristiche dell’infiammazione

intestinale nella CGD sono di fatto indistinguibili rispetto a quelle

della malattia di Crohn 112

. Una malattia di Crohn si può sviluppare

anche in soggetti con vari disturbi dei neutrofili, tra cui la

glicogenosi di tipo 1b 119

, la neutropenia ciclica 120

, il difetto di

adesione dei neutrofili 121

, la neutropenia cronica e

autoimmune 122,123

. Alcuni di questi pazienti hanno mostrato una

buona risposta al trattamento con GM-CSF 124-127

, che come

abbiamo visto è un trattamento che ha dato qualche beneficio

anche in pazienti con malattia di Crohn senza un evidente difetto

dei fagociti 95-97,128

. Una colite infiammatoria simile alla malattia di

Crohn può essere presente anche in soggetti con sindrome di

Wiskott Aldrich, possibilmente correlata ad un difetto di

produzione di IL-10 129

.

Prese nell’insieme, queste evidenze suggeriscono che la

malattia di Crohn possa svilupparsi sul substrato di una più o

meno grave immunodeficienza dell’immunità naturale di

parete e/o dei fagociti. Quanto più grave è il difetto, tanto più

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5. La malattia celiaca

136

la malattia avrà un esordio precoce e si assocerà ad un elevato

rischio infettivo. Tanto più sottile è il difetto, tanto più invece

saranno necessari altri fattori genetici e/o ambientali e la

malattia tenderà di conseguenza ad avere un esordio più

tardivo. Questa idea è rappresentata nella fig. 5.6. Diverse

anomalie genetiche conducono a conseguenze funzionali

simili, con sviluppo d’infiammazione cronica granulomatosa 130

.

Fig. 5.6 L’universo dei difetti dell’immunità naturale nella patogenesi della

m. di Crohn.

Quanto più vicina è l’orbita al granuloma, tanto maggiore sarà

il ruolo della genetica e la precocità di esordio. La maggior

parte dei casi di malattia di Crohn è associata ad anomalie

periferiche di quest’universo. Tuttavia, i casi più precoci e a

maggior componente genetica possono offrire un prototipo

semplificato per comprendere la patogenesi della malattia.

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6. La malattia di Crohn

137

Se questo è vero, è possibile provare a rileggere il meccanismo

di funzionamento di diversi farmaci nella malattia (tab. 6.3) e

pensare a nuovi trattamenti che prendano in considerazione

sia la necessità di bloccare l’infiammazione che quella di

compensare un possibile difetto immune sottostante o una

difesa di parete.

Tab. 6.3 L’azione di diversi farmaci riletta sulla base delle ipotesi

patogenetiche.

L’era delle interazioni: ambiente,

mucosa e immunità.

Questa è l’era attuale. Le informazioni di cui disponiamo ci

permettono di tentare una lettura funzionale complessiva

partendo dai dati genetici e ambientali disponibili.

Nella maggior parte dei casi, è verosimile che la malattia si

sviluppi solo in presenza di diverse condizioni: un

cambiamento della flora batterica intestinale; una

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5. La malattia celiaca

138

diminuzione della capacità di barriera fisica e immunologica

della parete intestinale (teoria del “leaky gut” 131

);

un’anomalia del funzionamento dei sistema fagocitico, con

relativa incapacità di eliminare elevate cariche batteriche. E’

ragionevole pensare che difetti più gravi di una di queste

componenti possano condurre a sviluppare la malattia anche

in assenza di altri fattori, come accadrebbe ad esempio in

forme ad esordio precoce legate a gravi difetti dei fagociti.

Una teoria che cerca di mettere insieme tutti questi fattori è

stata recentemente proposta da Segal e collaboratori 101

. La

malattia si svilupperebbe quando tre diverse condizioni si

verificano, ciascuna variamente influenzata da fattori genetici

e ambientali: aumentata carica batterica; difettosa risposta da

parte dell’immunità naturale con insufficiente clearance

batterica; attivazione del sistema adattativo con tentativo di

compenso e mantenimento di una risposta cronica

granulomatosa (fig. 6.6).

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6. La malattia di Crohn

139

Fig 6.6 Un’ipotesi patogenetica a tre stadi per la malattia di Crohn, da

Segal et al. 101

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8. Bibliografia

140

7. Abbreviazioni e glossario

ACTH: Adreno Cortico Tropic Hormone. Ormone

adrenocorticotropo. Prodotto dall’ipofisi, stimola la produzione di

ormoni steroidei nella corticale del surrene.

AGA: anticorpi anti glutine

Allergeni: antigeni coinvolti in risposte allergiche.

Angioedema: improvviso passaggio di liquidi nell’interstizio

(sottocute, sottomucose) per rilascio di sostanze attive sulla

permeabilità vasale. A livello della glottide, può provocare difficoltà

respiratoria, asfissia e morte.

Apoptosi: morte cellulare programmata con basso rilascio di

antigeni e molecole infiammatorie nell’ambiente. Utilizzata per

rimuovere cellule danneggiate o cellule che hanno compiuto la

propria funzione.

Autofagia: meccanismo utilizzato per la rimozione di proteine

degradate, organelli danneggiati e/o componenti estranei dal

citoplasma. In pratica, si forma una membrana in grado di avvolgere

una data porzione del citoplasma, formando una vescicola più o

meno grande, che successivamente si fonderà con un lisosoma per

permetterne la degradazione del contenuto.

BCG: Bacillo di Calmette Guérin. Preparato ottenuto da un ceppo

attenuato di Micobatterio tubercolare.

DGP: deamidated gliadin peptide. Anticorpi contro peptidi di

gliadina deaminati dall’azione della transglutaminasi tessutale. Il

test ELISA per la misura di questi anticorpi ha mostrato risultati

migliori rispetto al test allestito con la gliadina in forma nativa.

DMT1: diabete mellito di tipo 1. E’ il diabete autoimmune, tipico

dell’età giovanile e non correlato al sovrappeso.

EGF: epidermal growth factor. Fattore di crescita dell’epidermide.

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7. Abbreviazioni e glossario

141

EMA: anticorpi anti-endomisio.

GM-CSF: Granulocyte Monocyte Colony Stimulating Factor. Fattore

di crescita dei granulociti e monociti

HLA: human leukocyte antigens. Antigeni del sistema di

istocompatibilità presenti sui globuli bianchi umani.

IBD: malattia infiammatoria cronica dell’intestino

Ig: Immunoglobulina

Istamina: sostanza contenuta nelle granulazione dei mastociti e

rilasciata in seguito all’attivazione di queste cellule (di solito per

legame di un allergene alle IgE specifiche adese sulla membrana).

L’istamina aumenta la permeabilità vasale e stimola la sensazione

del prurito. E’ responsabile delle caratteristiche lesioni del pomfo e

dell’orticaria.

Inflammasoma: piattaforma molecolare che comprende diverse

proteine caratterizzate da tipici domini funzionali. In seguito ad

attivazione da parte di un ligando (in genere un PAMP), queste

proteine innescano una catena di omo- e oligo-dimerizzazioni,

inducendo prossimità tra domini funzionali (ad esempio CARD o

PYD) in grado di attivare diversi meccanismi effettori (caspasi e/o

fattori di trascrizione).

IGF-1: Insulin –like Growth Factor 1. Anche chiamato Somatomedina

C. Ormone indotto dall’ormone della crescita, di cui media parte

dell’attività di stimolo alla crescita cellulare.

IPEX: Immunodisregolazione, Poliendocrinopatia, Enteropatia legata

al cromosoma X. E’ un difetto congenito dei meccanismi della

tolleranza immune. In questa malattia, le cellule T regolatorie non

svolgono correttamente la loro funzione a causa di mutazioni nel

gene Foxp3.

LPS: lipopolisaccaride batterico. E’ un complesso macromolecolare

in grado di stimolare le cellule dell’immunità naturale attraverso i

toll like receptors.

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8. Bibliografia

142

MALT: sistema immune associato alle mucose. Comprende linfociti

intra-mucosali, noduli linfatici solitari e formazioni organizzate come

le placche del Peyer, le tonsille e le adenoidi.

MBT: micobatterio tubercolare

MDP: muramil di-peptide. Componente della parete batterica in

grado di stimolare toll-like receptors umani. Appartiene al gruppo

dei cosiddetti PAMPs.

NF-kB: Fattore Nucleare kB. E’ un fattore di trascrizione

fondamentale in numerose funzioni leucocitarie tra cui la

proliferazione e la produzione di citochine infiammatorie.

NOD2: Nucleotide-binding oligodimerization domain 2. E’ una

proteina (nota anche come CARD15) le cui mutazioni costituiscono il

più comune fattore genetico di rischio per la malattia di Crohn nella

popolazione caucasica.

PAMPs: profili molecolari associati ai patogeni. Si tratta di marcatori

generici del mondo procariotico, condivisi tra più microrganismi, e

riconosciuti dal sistema dell’immunità naturale per mezzo dei toll

like receptors.

PIDs: immunodeficienze primitive. Difetti congeniti (geneticamente

determinati) del funzionamento di una o più componenti del

sistema immune. Possono accompagnarsi ad un’anomala

suscettibilità a infezioni gravi, malattie autoimmuni e infiammatorie,

tumori.

Piroptosi: morte cellulare programmata, senza contrazione

citoplasmatica e con rilascio di varie molecole pro-infiammatorie.

Questo meccanismo potrebbe essere attivato quando la cellula non

può andare in apoptosi in modo sicuro ad esempio per incapacità di

distruggere microrganismi fagocitati, e occorre garantire un

potenziamento della risposta immune.

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7. Abbreviazioni e glossario

143

Placche del Peyer: aggregati linfoidi mucosali strutturati,

comunicanti con il lume intestinale per mezzo di cellule specializzate

(M cells).

Pomfo: lesione elementare cutanea, caratterizzata da rilievo

cutaneo rotondeggiante e liscio, dovuto a trasudazione di liquido

nel derma per effetto dell’istamina sulla permeabilità vasale. Nei

casi più gravi, è circondato da un alone eritematoso (dovuto a

maggior afflusso di sangue) e può assumere forma irregolare con

estroflessioni (pseudopodi).

RAST: radio-allergo sorbent test. Test radioimmunologico per la

misura delle IgE specifiche contro allergeni.

Reagine: IgE specifiche contro allergeni e in grado di scatenare

risposte allergiche immediate con degranulazione di mastociti e

rilascio di istamina.

TCR: recettore dei linfociti T.

TGA: anticorpi anti-transglutaminasi.

TLR: toll like receptors. Recettori di membrana o citoplasmatici in

grado di attivarsi in seguito al legame con alcuni componenti

molecolari condivisi tra diversi microbi (o PAMPs).

Treg: linfociti T regolatori. Caratterizzati dall’espressione

dell’antigene CD4 insieme ad elevati livelli di CD25 e FOXP3 (ma

bassi livelli di CD127), sono i principali responsabili del

mantenimento della tolleranza immune periferica.

tTG: transglutaminasi tessutale. E’ il più specifico auto antigene

della celiachia.

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8. Bibliografia

144

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