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Sono Svezia, Danimarca, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca ...
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DI JAMES HANSEN
Gli inglesi potrebbero presto andare dal fruttivendolo e tornare a comprare qual-che libbra di frutta e verdura. Secondo i piani svelati dal governo di Boris John-son, infatti, sarà nuovamente legale per bancarelle, negozi e supermercati ven-dere i propri prodotti utilizzando solo il tradizionale sistema di pesatura britan-nico. Quindi spazio nuovamente a libbre e once: il ritorno alle mi-sure imperiali è un effet-to collaterale della Bre-xit. Se l'Unione europea aveva imposto anche al Regno Unito di pesare e vendere le merci al chilo-grammo, ora che Londra si è sganciata da Bruxel-les può decidere in auto-nomia quale sistema me-trico utilizzare e, stando a quanto riportato nel do-cumento Brexit Opportu-nities pubblicato nei gior-ni scorsi dal governo, la decisione è quella di adot-tare le vecchie unità di misura. Chissà se Steve Thoburn, il fruttivendolo di Sunderland condannato nel 2001 per-ché vendeva l'ortofrutta in libbre e once, adesso assaporerà il gusto della rivinci-ta sulle regole europee. Sicuramente sa-rà soddisfatto il gruppo Metric Martyrs, che si batteva per il diritto di scegliere quale unità di misura utilizzare. Per la precisione in Gran Bretagna è legale fis-sare il prezzo delle merci in libbre e on-ce, ma devono essere visualizzate insie-me al prezzo in grammi e chilogrammi.
La mossa di Johnson è quella di una simbolica vittoria post-Brexit: i ministri hanno annunciato un'importante revi-
sione di tutte le leggi europee. «Migliaia di singoli regolamenti dell'Ue tenuti au-tomaticamente nel libro degli statuti do-po la Brexit», viene spiegato in una nota diffusa dall'esecutivo, «saranno esami-nati dal governo per garantire che aiuti-no il Regno Unito a prosperare come Pae-se moderno, dinamico e indipendente e a promuovere l'innovazione in tutta l'e-conomia britannica. La revisione mire-rà a rimuovere lo status speciale di cui
gode ancora il diritto dell'Ue nel nostro quadro giuridico. Ciò avverrà for-nendo alle imprese e ai cittadini la certezza del diritto e proseguirà il pro-cesso di ripristino del par-lamento del Regno Unito alla sua corretta posizio-ne costituzionale».
I pub inoltre potranno vendere pinte in bicchie-ri con il Crown Stamp, an-ch'essi vietati dalle nor-me comunitarie. Il sigillo della corona inglese, in-fatti, era usato per garan-tire agli avventori che il loro boccale era una misu-ra accurata, una tradizio-
ne andata avanti per secoli, ma poi è sta-to sostituito con il marchio Ce dell'Ue nel 2007. Il documento presentato dal go-verno prevede misure per modernizzare l'economia e la pubblica amministrazio-ne, «eliminando la necessità di scartof-fie inutili e burocrazia superflua», ha detto il ministro per la Brexit David Fro-st. «Abbiamo l'opportunità di fare le cose in modo diverso e garantire che le liber-tà della Brexit siano utilizzate per aiuta-re le imprese e i cittadini ad andare avan-ti e ad avere successo».
Più di 900 bottiglie, uscite dalle cantine di Château Canon e Rauzan-Ségla, saranno vendute all’asta da Sotheby’s dal 15 ottobre. Nulla di insolito, se non il fatto che i vini provengono da due tenute di Chanel: la celebre maison di moda possiede da alcuni anni le due proprietà storiche, situate una di fronte all’al-tra sulle rive della Gironde, nella regione di Bor-deaux e classificate Grand Cru e Premier Cru.
Centinaia di bottiglie, di dieci formati differen-ti, selezionate con cura dai responsabili delle prestigiose cantine, an-dranno all’incanto in un evento senza precedenti che culminerà in un'asta dal vivo a Londra il 29 ot-tobre.
A Rauzan, così come a Canon, ci sono vini con una longevità ecceziona-le. Appannaggio di un grande vino è la sua capa-cità di attraversare i de-cenni. La vendita presen-ta una gamma di oltre sessanta rare annate che abbracciano più di un seco-lo, dal 1917 al 2020, in una varietà di formati, dalla bottiglia al Melchior (18 litri). Tra le bottiglie più in-teressanti c’è una magnum di Canon del 1955. Ma tra le star figurano anche bottiglie di annate come il 1917, in piena grande guerra, il 1929, anno della gran-de crisi o il 1940, all’inizio del secondo conflitto mon-diale.
L’asta è inoltre caratterizzata da esperienze esclu-sive: dal tour dei vigneti e dei castelli al pernotta-mento durante il periodo della vendemmia, da una visita all'appartamento di Mademoiselle Chanel a Parigi alla possibilità di scoprire i campi di fiori del-la maison a Grasse, la culla della profumeria.
Quando l’Unione euro-pea comunica per «in-formare, non influen-zare», tende com-
prensibilmente ad accentuare ciò che è positivo nell’anda-mento del «progetto europeo» e a trascurare i momenti me-no felici, come il voto del 1982 con cui la (minuscola) popola-zione della Groenlandia (aven-do ottenuto l’autonomia rispet-to alla Danimarca) decise di uscire dall’Ue. La cosa è ovvia-mente di scarsa importanza (visto che i groenlandesi sono meno di 60 mila) anche se l’Ue, curiosamente, insiste an-cora nel conteggiarli tra i pro-pri «cittadini» nelle sue stati-stiche.
Di maggiore impatto è la minoranza di paesi dell’Unione che preferisce re-stare fuori dall’euro. Dopo la Brexit, sono 8 su 27: Svezia, Danimarca, Bulgaria, Croa-zia, Repubblica Ceca, Unghe-
ria, Polonia e Romania. Con la sola eccezione del regno di Da-nimarca, che respinse il Trat-tato di Maastricht con un refe-rendum nazionale nel 1992, tutti gli altri sarebbero obbli-gati a entrare nel sistema eu-ro «prima o poi», al raggiungi-mento di certi criteri economi-ci e legali riguardanti la stabi-lità economica, l’inflazione, l’integrazione dei mercati e i bilanci di pagamento naziona-
li. Ipoteticamente, l’andamen-to dei «criteri di convergenza» dovrebbe essere misurato ogni due anni, ma - e non è un «ma» da poco - solo su richiesta del paese interessato.
I singoli stati possono al-lora rimandare l’effettiva entrata nell’euro sine die: ed è esattamente ciò che hanno fat-to finora, né ci sono indicazio-ni che intendano entrarci pros-
simamente. Le motivazioni dei paesi riluttanti sono per lo più economiche. Riguardano la percepita necessità di man-tenere l’indipendenza nello stabilire le politiche moneta-rie rispetto a temi come l’inde-bitamento nazionale e la ge-stione dell’inflazione, nonché la possibilità di svalutare la propria moneta all’occorren-za. I dubbi sulla gestione cen-tralizzata europea sono cre-sciuti dopo il crac del 2008. Gli inglesi (mai entrati nell’euro) reagirono quasi istantanea-mente, nel 2009, con un pro-gramma di quantitative ea-sing, iniettando 375 miliardi di sterline «nuove» nell’econo-mia, mentre la Banca centrale europea attese fino al 2015 pri-ma di ricorrere agli stimoli eco-nomici. La «gara» economica di quegli anni è stata vinta net-tamente dagli inglesi…
Da allora, la politica del-la Bce di creare nuovi soldi à gogo in risposta allo sconvol-gimento economico provocato dal Covid non ha fatto che au-
mentare i dubbi dei paesi Ue fuori dall’euro, afflitti come so-no dalle stesse incertezze colti-vate da buona parte dell’esta-blishment tedesco. Qualche consolazione c’è, però. Esisto-no alcuni paesi non-Ue che uti-lizzano la valuta europea. Non sono forse economie pri-marie, ma comprendono Koso-vo, Montenegro, Andorra, San Marino, Monaco e la Città del Vaticano, come anche alcuni piccoli territori francesi d’ol-tremare: Saint-Pierre e Mi-quelon (al largo della costa ca-nadese), alcune isole nell’Oceano Indiano e Saint-Barthélemy, nel mare dei Caraibi.
Altri utilizzano l’euro senza aderire al sistema. La Croazia, per esempio, dalla creazione nel 1994 della pro-pria valuta, la kuna, segue una politica di pegging che le-ga strettamente il valore della moneta domestica a quella eu-ropea, seppure non necessaria-mente in via permanente...
Sono Svezia, Danimarca, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania