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Sommario INTRODUZIONE:
LIBERA……..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………2
RITA
ATRIA………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….4
GAETANO
GIORDANO…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..6
DEFINIZIONE E BREVI CENNI DI STORIA DELLE
MAFIE…………………………………………………………………………………………………………………………9 TRE FIGURE
DELL’ANTIMAFIA: IMPASTATO, AMBROSOLI,
BORSELLINO……………………………………………………………………………………………..10 LE MAFIE IN
LOMBARDIA dalle infiltrazioni alla
colonizzazione………………………………………………………………………………………………………..19 LE MAFIE
IN
BERGAMASCA………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………...25
CORROTTI E CORRUTTORI nelle realtà
locali…………………………………………………………………………………………………………………………………….32
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Il problema non sono le mafie. Il problema siamo anche noi.
Abbiamo il dovere di chiedere allo Stato di fare la sua parte, ma
abbiamo la corresponsabilità di un cambiamento. Il problema mafia è
una questione nazionale.
Don Luigi Ciotti
Libera “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" è
nata il 25 marzo 1995 con l'intento di sollecitare la società
civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia.
Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni,
gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per
costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di
diffondere la cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei
beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica,
l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i
progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono
alcuni dei concreti impegni di Libera. Libera è riconosciuta come
associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà
Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall'Eurispes tra le eccellenze
italiane. Nel 2012 è stata inserita dalla rivista The Global
Journal nella classifica delle cento migliori Ong del mondo. Per
info: www.libera.it – www.liberainformazione.org –
[email protected]
Il Coordinamento provinciale di Bergamo Il Coordinamento
provinciale di Libera, presente sul territorio da alcuni anni, è
costituito da organizzazioni, sindacati, scuole e singoli cittadini
che condividono e promuovono la cultura della legalità e della
giustizia sul territorio bergamasco. Attualmente ne fanno parte:
ACLI, ARCI, CGIL, CISL, FILCA, FILLEA, FISCASCAT, Ass. I colori del
mondo, Ass. Mascobado, Comunità di San Fermo, Comunità Immigrati
Ruah, Coop. Amandla, Coop. Il Pugno Aperto, Coop. Il Seme,
Fondazione Serughetti La Porta, ANPI Mapello, Ass. Amici di Libera
Caravaggio, Ass. Il Porto Dalmine, Istituto di istruzione don
Milani Romano di Lombardia, Istituto Federici Trescore Balneario,
Istituto Piana Lovere, Scuola media statale Treviglio, Liceo
linguistico Giovanni Falcone Bergamo e 120 soci individuali. I
principali ambiti di intervento del Coordinamento sono: - la
formazione interna sui temi della legalità - la strutturazione di
percorsi di formazione - la creazione di contatti e relazioni con
le istituzioni del territorio - l’organizzazione, la promozione e
la partecipazione di eventi sulla legalità - la presenza nel mondo
della scuola - il divenire punto di riferimento sul territorio per
enti ed organizzazioni interessate ai temi della Legalità e del
contrasto alle mafie. Per info: www.liberabg.it –
[email protected]
Il Presidio “Gaetano Giordano e Rita Atria”
Il Presidio e un gruppo di persone che, aderendo alle idee di
Libera, su di esse si formano continuativamente, per esse agiscono,
dandosi un’organizzazione permanente. Lo scopo è quello di
costituire un punto di riferimento decentrato rispetto al
coordinamento provinciale che permetta il monitoraggio della zona
Isola bergamasca, Valle Imagna e bassa valle Brembana. La presenza
diffusa dei presidi è un punto di forza per tener alta l’attenzione
sull’illegalità e quindi rendere la rete di Libera più fitta. Al
Presidio dedicato a Gaetano Giordano e Rita Atria, inaugurato
ufficialmente nel mese di novembre 2011, aderiscono: ACLI Almenno
San Salvatore, ACLI Prezzate, ANPI Mapello, Gruppo Legalita Madone,
Comitato Peppino Impastato Ponteranica, CISL,
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CGIL e le Botteghe del Commercio Equo e Solidale Lumaca di
Almenno S. Salvatore, Mascobado di Ponte S. Pietro, Algo Mas di
Calusco, Bondeko di Villa d’Alme. Le attività del Presidio: -
organizzazione di progetti formativi nelle scuole e negli oratori
del territorio - organizzazione di progetti formativi rivolti ai
funzionari comunali - iniziative simboliche di coinvolgimento della
popolazione - osservazione e monitoraggio delle situazioni locali
nelle quali si intravedono infiltrazioni o consolidamento della
presenza mafiosa - sollecitazione a soggetti delle comunità locali
per scelte che siano coerenti con orientamenti di legalità e di
giustizia - collaborazione con le amministrazioni comunali per
mantenere alta la vigilanza e combattere comportamenti e abitudini
che possono favorire l’illegalità. Per info:
[email protected] Perché facciamo Libera Non facciamo
Libera per passatempo o per fare qualcosa di “buono”, come si
potrebbero fare tante altre cose. In questo momento storico c’è
bisogno di un impegno straordinario per salvare l’Italia. L’impegno
di Libera è decisamente politico: non è solo una bella esperienza
di volontariato, in cui si è contenti di fare del bene verso
qualcuno. Qui c’è bisogno di cambiare decisamente la situazione in
cui l’Italia si sta incamminando. Dal punto di vista politico ed
economico, morale (rispetto alla capacità di reagire con forza ed
entusiasmo da parte della gente di fronte alle crisi), etico (come
evidenza di valori, capacità di relazioni altruiste ed onestà nei
comportamenti sociali e personali). Il proliferare delle mafie è
prodotto perverso di questo svanire del vigore di un popolo e
contemporaneamente è elemento moltiplicatore di queste crisi, ne
emerge e se ne nutre. Libera ha le carte in regola per essere un
soggetto di questa “resistenza” e di questa “lotta di liberazione”,
oggi non più solo nei confronti di un nemico esterno, ma anche
contro la “mollezza”, la disattenzione e il disimpegno che è
presente fortissimo anche tra noi, tra la nostra gente. Per questo
Libera ha un compito politico, in senso forte: erede dei grandi
fondatori della nostra Repubblica. Non lo fa partecipando alle
elezioni e proponendosi per la gestione diretta della cosa
pubblica, ma con una diffusione nel territorio, con una presenza
sociale ed educativa. Nondimeno, l’obiettivo è di alto livello, di
cambiamento e di costruzione di una “Terza Repubblica” non tanto a
livello istituzionale e di regole costituzionali, ma in termini di
dignità della convivenza civile e di qualità della umanità delle
persone. E non ci potremo consolare dicendo: “qualcosa abbiamo
cercato di fare”. Il valore del nostro sforzo si misurerà anche
sulla nostra capacita di incidere profondamente nel tessuto civile
di questa nostra Italia. Di lasciare un segno storico. Niente di
meno.
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Rita Atria A cura di Piera Aiello
Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su Rita Atria, mia
cognata. Più che ricordarla come cognata, preferisco e amo
chiamarla Piccola Grande Donna, piccola perché era di statura
bassa, perché era appena diciassettenne quando è morta, ma grande
donna perché il suo gesto rivoluzionario nel dire no alla Mafia è
stato da esempio a tanti ragazzi di molte scuole italiane. E’
doveroso fare una piccola premessa: Rita Atria, figlia di un boss
mafioso, nasce a Partanna, paesino collocato nella valle del fiume
Belice, arroccato su una collinetta, cresce in mezzo ad un sistema
mafioso, che per lei era la normalità. Testimone per anni di
intrecci malavitosi, alleanze, omicidi, ben presto tocca con mano
cosa vuol dire perdere un familiare morto ammazzato, il padre Don
Vito Atria. Rita allora aveva appena 11 anni, vede il padre su un
letto di marmo nell’obitorio di Partanna, dopo pochi anni perde il
fratello Nicolò Atria, anch’esso ucciso. Subito dopo la morte
unitamente al fratello giura di vendicarsi, ma quando anche
quest’ultimo viene a mancare decide, subito dopo la mia
testimonianza, di seguire il mio esempio, prima come arma di
vendetta, ma quando conosce quel grande uomo e Giudice, Paolo
Borsellino, capisce che la vendetta non è ciò che vuole, capisce di
avere sete di giustizia, quindi si affida completamente allo zio
Paolo, così lo chiamavamo. Dopo l’attentato, non ce la fa ad andare
avanti, e compie l’atto estremo. Dopo tale evento, devastante,
leggo il suo diario, trovo scritto “andate tra i giovani, dite loro
che fuori, dal sistema mafioso c’è un mondo migliore fatto di cose
belle, di cose vere” da allora il mio impegno è stato e sarà fino
all’ultimo mio respiro, di eseguire la sua volontà, da anni porto
le parole di Rita in giro per le scuole italiane, faccio vivere
quella Piccola Grande Donna tramite la mia voce, parlo di lei a
ragazzi della sua età, porto l’esempio del cambiamento della
rivoluzione. A lei sono state intestate sale multimediali, ville,
strade, giardini, vicoletti, terreni confiscati alla mafia, non
ultima a Castelvetrano Città a pochi chilometri da Partanna, hanno
intestato una strada. Tutto questo a dimostrazione che se si vuole
il cambiamento c’è, basta dire no alla mafia, ma non solo a quella
che uccide, l’indifferenza il silenzio, il girarsi dall’altra parte
a volte uccidono di più. A te Rita, mia grande amica, va sempre il
mio pensiero, a te tutte le mie fatiche, per te respiro giorno dopo
giorno, quel fresco profumo di libertà che tanto piaceva allo zio
Paolo. Con affetto Piera Aiello
La solitudine di Rita Gian Mario Vitali, insegnante, del
Coordinamento provinciale di Libera
Il percorso della “via crucis” di Gesù è il percorso di un uomo
solo, lasciato solo da tutti, fino alla fine. È per questo che
voglio parlarti di una ragazza, di Rita, Rita Atria, una ragazza
lasciata sola che ha percorso fino in fondo, e da sola, la sua “via
crucis”. Rita è di un paese siciliano, Partanna. Quando aveva 11
anni la mafia le ha ammazzato il padre, pochi anni dopo il
fratello. Si è ribellata al destino del silenzio, voleva una vita
diversa. Rita ad un certo momento, grazie all'insegnamento della
scuola, decide di raccontare tutto quello che sa; e sa molto,
perché è nella sua casa che si sono prese tutte le decisioni della
mafia di Partanna, di cui il padre era uno dei più grandi
esponenti. Tutti questi particolari si sono impressi in quella
giovane mente con una impressionante lucidità, e lei cerca qualcuno
che le dia ascolto, che le creda. È difficile credere ad una
ragazza che ha la faccia da bambina. Come si fa a credere a una
ragazzina che si presenta e ti dice: io voglio svelare i segreti
della mafia di Partanna, gli omicidi, le rapine, le estorsioni.. Ma
poi trova la persona che la capisce, che l'ascolta, che non la
lascia sola: Paolo Borsellino. Paolo per difenderla la porta
lontano dalla Sicilia, a Roma, dove è protetta con discrezione
insieme alla cognata, anche lei testimone di giustizia. Parte tra
le maledizioni e le percosse dei suoi familiari e di sua madre.
Rinnegata, ripudiata, offesa, umiliata lascia la sua terra, la sua
Sicilia. Ma sa di avere fatto la scelta giusta. Sa di aver scelto
la giustizia, di avere scelto per il bene comune. E lo ha fatto
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con grande coraggio. Una ragazza che non aveva ancora 17 anni.
Spesso Paolo la va a trovare a Roma, scherza con lei, gioca con lei
come se fosse una delle sue figlie, le porta regali e parole di
conforto.. E nel suo diario Rita annota anche l'attesa trepida
delle visite di Paolo Borsellino, che ormai ama come un padre. E
l'ultima annotazione sul diario è questa: “Roma, dopo il 19 luglio
1992, strage di via D'Amelio. Ora che è morto Borsellino nessuno
può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Prima di
combattere la mafia devi farti un esame di coscienza e poi, dopo
aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combatterla intorno a
te”. E poi, su quella pagina di diario che resterà aperto conclude
cosi: "Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di
te sono morta". Tutto ciò si scontra con la solitudine ed il vuoto,
l’assenza dei riferimenti. Rita emerge dal nulla e viene
risucchiata dal nulla. Si avvicina al balcone e si lancerà nel
vuoto, aveva 17 anni e mezzo... è il 26 luglio 1992, una settimana
dopo la morte di Paolo e degli uomini della sua scorta. Il gesto di
Rita non è stato un gesto vigliacco. Dopo la morte di Paolo le è
mancato un punto d'appoggio che la teneva ancorata alla sua
esistenza. Era rimasta sola, e da sola si è fatta carico di un
momento di estrema solitudine. Ma non dobbiamo dimenticarci
l'esempio di grande coraggio, di testimonianza reso da una ragazza
cosi giovane. Al suo funerale non andò nessuno del suo paese. Non
andò neppure sua madre che l'aveva ripudiata e minacciata di morte.
La sua lapide per anni è rimasta bianca senza nome e senza una sua
fotografia. Sola, ancora lasciata sola, da tanti ...ma non tutti
l'hanno dimenticata e dall'estate scorsa per ricordare il XX
anniversario della sua morte è stata rimessa una foto e il suo
nome.… Rita, 17 anni, testimone di giustizia.
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Gaetano Giordano a cura di Rocco Artifoni
Portavoce Coordinamento provinciale di Libera
Gaetano Giordano nasce a Riesi (CL) il 9 giugno 1937. Dopo il
servizio militare apre un’attività di parrucchiere per uomo. Nel
1963 conosce Franca Evangelista, genovese, arrivata a Gela per
motivi di lavoro del padre. In seguito Franca e Gaetano si
frequentano, si fidanzano e si sposano, consolidando l’attività
economica che nel frattempo si era trasformata in negozi di
profumeria (unici per molto tempo nel territorio gelese). Nascono
due figli, Massimo e Tiziana, in una realtà di lavoro sana e
fiorente. Marito e moglie collaborano nell’attività commerciale in
un contesto familiare e lavorativo concreto e normale, i ragazzi
studiano con profitto e, finito il liceo a Gela, accedono alla
Luiss di Roma. Negli anni 1980-90 Gela è una polveriera, con
incendi e sparatorie fra clan rivali per la supremazia del
territorio. I commercianti, la maggior parte dei quali si adeguava
a pagare il pizzo, cominciavano a scalpitare, cercando di uscire da
questo malcostume. Nel 1989, a seguito di una richiesta estorsiva,
Gaetano Giordano sporge regolare denuncia. Il 10 novembre del 1992,
senza che nulla facesse presagire quanto poi è successo, alle ore
20, Gaetano Giordano veniva ucciso sotto casa con cinque colpi alla
schiena, mentre con il figlio, ferito nella sparatoria, stava
rientrando a casa. Dalle dichiarazioni di collaboratori di
giustizia si scoprirà che l’uccisione di Gaetano Giordano è stata
decisa a sorte tramite estrazione del biglietto con il suo nome
(altri 3 o 4 commercianti che come lui avevano denunciato erano
segnati negli altri bigliettini come possibili vittime). All’età di
55 anni Gaetano Giordano cessava di vivere per mano di alcuni
mafiosi, che verranno arrestati l’anno successivo. L’uccisione di
Gaetano Giordano doveva essere un monito per negozianti e
imprenditori che si rifiutavano di pagare il pizzo. Subito dopo i
funerali, valutando le possibilità che erano date dalla presenza di
alcuni parenti di Gaetano Giordano ad Almè, si è pensato di
tumulare la salma nel cimitero del paese bergamasco. Tutto questo
nasceva dall’incertezza per il futuro che aveva attanagliato la
famiglia, che prevedeva entro breve di trasferirsi da Gela. Questo
è il motivo per cui Gaetano Giordano è stato seppellito ad
Almè.
“Non posso piegarmi proprio ora” Serena Verrecchia
Studentessa
Gaetano Giordano non era un eroe. Aveva due figli ed era il
proprietario di un noto negozio in pieno centro storico, a Gela.
Conosceva la legge della mafia, sapeva benissimo di dover pagare il
pizzo per non incappare in situazioni spiacevoli e pericolose per
lui e per la sua famiglia; conosceva anche la storia di Libero
Grassi e ne ricordava soprattutto l’epilogo, pertanto sapeva a cosa
si andava incontro se si disobbediva alle leggi della mafia, ma
tutto ciò non gli importava. O meglio, Gaetano era consapevole, più
di tutti gli altri suoi concittadini, del fatto che, per riemergere
dalle tenebre dell’incubo del pizzo e della sudditanza nei
confronti dei poteri criminali, era necessaria una rivoluzione
partecipata di tutto il popolo, una rivoluzione nella quale tutti i
commercianti e gli imprenditori dovevano imporsi il coraggio di
urlare il proprio “no” in faccia all’estorsore che, periodicamente,
si presentava alle porte delle imprese per riscuotere il pizzo. La
voglia di sentirsi partecipe di un’ondata di cambiamento fu il
principio dell’odissea di Gaetano. Il suo estorsore era un
ragazzino, uno di quei tipacci prelevati dalla strada troppo
presto, un ventenne la cui massima aspirazione era ritrovarsi in
galera nel giro di qualche anno. “Aveva la faccia da bambino e un
sorriso innocente” ricorda Franca, la moglie dell’imprenditore. Si
chiamava Ivano Rapisarda, per gli amici e colleghi “Ivano Pistola”,
ed indubbiamente meno innocenti del suo sorriso erano le
motivazioni che lo spingevano a bussare alla porta di Gaetano, il
quale, alla richiesta della tassa da pagare alla mafia, aveva
sempre risposto con un “no” secco e deciso. Tuttavia, Ivano Pistola
non amava essere cacciato in malo modo dai negozi come un criminale
qualunque, cosi ebbero inizio le ritorsioni e l’imprenditore iniziò
a pagare le conseguenze del suo coraggio: dopo innumerevoli
minacce, gli incendiarono il negozio e gli arrecarono danni per 200
milioni. Stanco di dover fare i conti con un’organizzazione che si
sostituiva allo Stato e pretendeva forse più dello Stato,
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Gaetano denunciò tutto ai carabinieri e il Pistola fini tra le
sbarre senza deludere le aspettative. Cosa nostra però non poteva
permettere che tutto ciò avvenisse senza intralci, cosi, il 10
novembre del 1992, decise di troncare la vita dell’imprenditore.
Cinque colpi di pistola e la fine di un uomo che non amava
reputarsi un eroe, anzi, quando si lodava il suo coraggio, era
solito rispondere: “Io coraggioso? Macché. Io ho una fifa da matti.
Ma non posso piegarmi proprio ora che i commercianti hanno fatto la
rivoluzione con le denunce degli estorsori”. Gaetano Giordano non
era un eroe; era semplicemente un imprenditore per il quale pagare
il pizzo non sarebbe mai stato “normale” o necessario. Gaetano
Giordano era un uomo normale, ma sappiamo benissimo che comportarsi
da uomini normali, in alcune situazioni ed in determinate realtà,
diviene qualcosa di eroico, dunque anche Gaetano Giordano è da
considerarsi un eroe, della stessa tempra di coloro che tutt’oggi
combattono la medesima battaglia per reclamare il proprio diritto
alla Libertà e il proprio NO alle prepotenti richieste della
mafia.
Un uomo normale
Tre domande a Michele Giordano, fratello di Gaetano, residente
ad Almè
Chi era Gaetano Giordano? Gaetano Giordano - visto non da un
parente ma da un cittadino - era una persona normale. Per lui la
normalità era alzarsi alla mattina, vivere la giornata, guardare al
futuro e progredire. Gaetano è partito da niente: faceva il
barbiere. Si era impegnato per costruirsi la vita che stava
facendo. C’era riuscito, se non fosse accaduto quello che sappiamo.
Quello che talvolta viene chiamato eroismo, in realtà per una
persona normale come Gaetano era proprio la normalità. Se subisco
una prevaricazione, non potendo superarla con le parole, mi rivolgo
alle istituzioni perchè mi salvaguardino. C’è speranza che si
affermi la legalità? Oggi ho letto sul quotidiano l’Avvenire la
notizia di un allenatore di calcio che si è rivolto all’arbitro,
affinché espellesse un proprio giocatore perchè aveva commesso un
brutto fallo. Racconto questo episodio perchè penso che sia
importante credere che esistono persone oneste che possono
costruire una società più giusta. A Gaetano è stato intitolato un
presidio di Libera. Cosa ne pensi? Oggi devo ringraziare Libera
perchè mi ha aiutato a capire cosa significa ricordare una vittima
di mafia. Vuol dire non restare indifferenti a quello che succede
nella società e partecipare alla sua crescita nel rispetto
reciproco e nell’onestà. Senza la memoria di chi è caduto per un
ideale, davvero non c’e futuro.
Impensabile pagare per stare tranquilli Intervista a Franca
Evangelista
moglie di Gaetano Giordano
Il suo è un racconto che ostenta freddezza e per certi versi
anche distacco, ma quando parla di suo marito e degli anni vissuti
insieme, nella serenità familiare, le emozioni corrono veloci e
Franca Evangelista, moglie di Gaetano Giordano, commerciante ucciso
il 10 novembre del 1992, per riprendere fiato è costretta a
tossire. Genovese di nascita, vedova da 20 anni, la Sicilia non
l’ha mai voluta lasciare. Ricorda, racconta e punta l’indice contro
chi lo merita, perchè tutto serve a dare speranza.
dal sito www.antiracket.it Come seppe la notizia? Mi trovavo a
Milano con mia figlia Tiziana, allora universitaria. Eravamo andate
perchè dovevo fare un corso di aggiornamento per la cosmesi, visto
che avevamo tre negozi di profumeria. Mia figlia mi aveva
accompagnata perche doveva incontrare un’amica che studiava nel
milanese. Quella sera saremmo dovute restare in albergo, ma il
personale era in agitazione sindacale e andammo al ristorante. Mi
chiamò un parente di mio marito, dicendomi che Gaetano e Massimo,
mio figlio, avevano avuto un incidente e che mio marito era grave.
Mi sembrò strano. Dal luogo di lavoro a casa saremmo potuti andare
a piedi. L’incidente non poteva essere, mio marito aveva fatto
quella strada milioni di volte. Cosa fece? Avevo il numero di
telefono di un nostro amico che abitava nel nostro palazzo. Mio
marito quel giorno era stato a pranzo da lui. Lo chiamai chiedendo
notizie e fu lui a raccontarmi i suoi ultimi istanti di vita. Ha
voglia di raccontarli?
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Mio marito era sceso dalla macchina per rendere più agevole il
parcheggio dell’auto che guidava mio figlio Massimo. Stavano
facendo dei lavori lungo la strada e c’erano dei cumuli che
dovevano poi servire all’opera. Gaetano fu colpito con cinque colpi
alla schiena. Mio figlio solo ferito, per fortuna. Quando tornò a
casa… Fui avvolta da un manto di solidarietà. Non avevo parenti
stretti ed anche i miei suoceri erano lontani, ma i cugini di mio
marito e gli amici non mi hanno lasciata per un attimo. Avevate
immaginato una cosa del genere? Mai e poi mai. Se lo avessimo anche
solo ipotizzato, avremmo continuato la nostra vita altrove. Quando
nell’89 denunciammo la richiesta di estorsione, ci parve la cosa
più naturale da fare. Ricordo solo che quella sera mio marito mi
disse: “in fondo, se mi sparano, comunque ho già 50 anni”. Lo hanno
poi ucciso a 55. Ora, a distanza di anni, mi chiedo ancora come si
sia potuto arrivare a tanto. Si è data una risposta? So che la
morte di mio marito è stata decisa tirando un bigliettino a sorte.
E forse a porlo fra i bersagli da colpire, fu la testimonianza che
gli fu richiesta tre anni dopo la denuncia. Ricordo che gli fu
chiesto di confermare la versione dei fatti. Come ha vissuto poi?
Ho continuato a lavorare, ma ridimensionando la nostra attività. Mi
pesava entrare in quel negozio che era stato la causa di tutto. I
primi anni mi faceva male anche stare in casa. Nel ‘99 mi sentivo
pronta ad andarmene, ma poi è bastata un’altra opportunità
lavorativa per continuare a restare dove ero stata con Gaetano. E
Gela? Nell’89 c’erano già stati episodi di denunce ed i carabinieri
ci somministravano dei test, che rimanevano anonimi, per capire
forse come eravamo messi. La situazione era diventata
insostenibile, anche se il centro di Gela veniva ancora poco
toccato. Noi stessi abbiamo avuto un’unica richiesta estorsiva. Ci
fu una sola volta anche per altri commercianti. Qualcuno però,
allora come adesso, sceglie il silenzio. Si, ma non credo sia
paura, credo sia un fatto di costume. E’ un silenzio dato dal
quieto vivere e ci si ribella solo quando la tassa dell’antistato
diventa troppo onerosa. Per me e mio marito sarebbe stato
impensabile pagare per stare tranquilli. Come vive oggi, a distanza
di 20 anni? Con la normalità che avrei vissuto con mio marito
accanto. I nostri figli sono cresciuti, si sono sposati e abbiamo
dei nipoti. Tutto è andato avanti cosi come doveva.
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Definizione e brevi cenni di storia delle mafie a cura di
Tarcisio Plebani
(tratto e liberamente riadattato da testi di Umberto Santino)
Stereotipi sulle mafie L’approccio alle mafie è spesso
caratterizzato (implicitamente) da stereotipi che rendono difficile
capire precisamente cosa sono e tanto meno intervenire
efficacemente. Proviamo ad elencarne alcuni.
• Le mafie vengono spesso affrontate come una emergenza:
costituiscono un problema che sollecita le forze dello Stato e
l’opinione pubblica a mobilitarsi solo quando uccidono, in
particolare quando uccidono personaggi in vista. Ma per certi versi
le mafie sono più pericolose quando non uccidono: si inabissano e
quindi riescono ad operare senza destare allarme sociale. Inoltre
significa che riescono ad affermare il loro dominio silenzioso sul
territorio senza neppure aver bisogno di prove di forza perchè
trovano minore opposizione.
• Le mafie vengono viste come “anti-Stato”. In realtà le mafie
si differenziano dalla comune criminalità, anche organizzata,
proprio perché riescono a creare alleanze con settori delle
istituzioni, a utilizzare lo Stato per i propri fini. Senza
l’appoggio di uomini dello Stato e delle istituzioni, le mafie non
sarebbero così potenti.
• Le mafie sono una subcultura tipica del Sud, un modo di
pensare, di essere che fa parte della natura dei meridionali, quasi
un carattere antropologico difficilmente estirpabile. È uno
stereotipo rassicurante, perché ne consegue che nel Nord le mafie
non possono attecchire o comunque restano un fenomeno esogeno. Se
fosse così però non si spiega come abbiano potuto diffondersi
indisturbate in tutta Italia, con la complicità e l’appoggio di
personaggi assolutamente lombardi e bergamaschi.
• Le mafie sono un mondo “altro”, estraneo alla nostra vita
quotidiana: si uccidono tra loro ed è meglio non immischiarsi nei
loro affari; se non vengono disturbati, si fanno gli affari loro,
per quanto loschi, ma non danno fastidio a noi, normali cittadini.
Quindi la lotta alla mafia è una questione che riguarda polizia e
magistratura. I testi che seguono in questo dossier dimostrano che
ormai le mafie sono fortemente intrecciate con tutti i settori
della nostra vita civile: anche se noi non ci occupiamo delle
mafie, le mafie si occupano di noi.
• Le mafie sono una piovra: sono dappertutto e sono invincibili.
A questa convinzione opponiamo la semplice affermazione di Falcone:
“le mafie sono in fatto umano e come tutti i fatti umani hanno
avuto un inizio e avranno una fine”. Dipende anche da noi.
Definizione Le mafie sono un insieme di organizzazioni
criminali, che per mezzo di violenza, minaccia, illegalità e grazie
a codice culturale condiviso e a un certo consenso sociale,
ottengono il controllo del territorio e costruiscono reti di
relazioni con ampie fasce della società, dell’economia, della
politica (non c’è solo l’ala militare o l’organizzazione criminale:
c’è anche una “borghesia mafiosa” che sostiene e fiancheggia lei
criminali e ne trae vantaggio; l’importanza di questa azione di
complicità più o meno diretta è stata riconosciuta con il reato di
concorso esterno in associazione mafiosa). Il fine è
l’accumulazione di profitto e l’acquisizione di potere. Tipi di
mafie: Preferiamo sempre usare il plurale, per indicare la varietà
della presenza delle mafie, la diversa origine territoriale e le
caratteristiche specifiche che le differenziano: Cosa Nostra in
Sicilia, la ‘ndrangheta in Calabria, la Camorra in Campania, la
Sacra Corona Unita in Puglia. In realtà oggi tutte queste
organizzazioni sono ben diffuse al di fuori dei territori che le
hanno viste nascere, pur mantenendo solidi legami con la “casa
madre”. A queste dovremmo aggiungere le mafie straniere che si
stanno diffondendo in Italia, a volte con rapporti conflittuali,
altre di collaborazione, alleanza o non belligeranza con quelle
autoctone. Cenni storici Trascurando necessariamente i cosiddetti
fenomeni premafiosi dal XVI al XIX secolo, possiamo distinguere 3
fasi della storia delle mafie (con privilegiata attenzione alla
mafia più studiata: Cosa Nostra siciliana). a) Fase agraria:
dall’Unità d’Italia (1861) agli anni ‘50 La Sicilia, come gran
parte dell’Italia, ha una economia in assoluta prevalenza rurale; i
rapporti sociali sono improntati al rispetto delle gerarchie
sociali e delle tradizioni. Ma cominciano ad affacciarsi i primi
fermenti di nuovi movimenti sociali. I grandi latifondisti
utilizzano gli “uomini d’onore” per controllare con la violenza i
contadini e reprimere le prime forme di sindacalismo. Negli anni
1891-94 nascono i Fasci siciliani, organizzazioni locali di
contadini, con ispirazioni ideali e politiche diversificate, per
ottenere migliori condizioni di lavoro. Uno degli strumenti di
lotta utilizzati è l’occupazione delle terre, che crea tra i
proprietari e la borghesia siciliana un forte allarme. Il Governo
nazionale invia l’esercito, i Fasci vengono dichiarati fuorilegge e
i capi processati; il movimento viene repressi con più di 100
morti. Il blocco dominante degli agrari, alleato con settori delle
istituzioni statali e i poteri politici locali, si serve dei
mafiosi come braccio operativo anche quando qualche uomo dello
Stato cerca di contrastare i propri affari. Il primo omicidio
eccellente è quello di Emanuele Notarbartolo (sindaco di Palermo e
banchiere), che nel 1893 viene ucciso perché non indaghi sullo
scandalo del Banco di Sicilia. Il mandante (on. Vito Palizzolo)
verrà assolto.
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Nel periodo fascista il prefetto Mori (1925-29) viene incaricato
di una dura repressione della mafia siciliana: 11.000 mafiosi
vengono arrestati, ma l’intervento della polizia è particolarmente
molto violento anche nei confronti di chi non c’entra con la mafia.
Quando però il prefetto Mori va a toccare gli strati più alti delle
connivenze, viene mandato in pensione anticipata. Quando nel 1943
avviene lo sbarco alleato in Sicilia, i capi mafiosi (ad esempio
Calogero Vizzini) vengono contattati da Alleati per assicurare
ordine pubblico. Quando ancora la guerra è in corso al Nord, viene
costituito il Partito separatista e bande armate (come quella del
bandito Giuliano), in cui esponenti mafiosi hanno un ruolo non
secondario: l’obiettivo è quello di condizionare l’unità nazionale
antifascista. Così nel dopoguerra si susseguono gli attacchi, molto
sanguinosi, nei confronti dei carabinieri e delle truppe
dell’esercito italiano inviate in Sicilia. Ma l’episodio che ha
rilevanza anche nazionale è quello di Portella della Ginestra: il
1° maggio 1947 contadini di diversi paesi dell’entroterra di
Palermo rinnovano al tradizione di festeggiare la Festa dei
Lavoratori su questo valico, con le famiglie. La banda di Giuliano
spara con la mitragliatrice dai monti circostanti ed uccide 11
persone, provocando 50 feriti (tra cui molte donne e bambini). I
veri mandanti della strage non si sapranno mai. L’alleanza delle
forze antifasciste si rompe nel 1948 e in Sicilia si rinsalda il
nuovo blocco di potere tra agrari e gruppi conservatori. Questi
utilizzano i mafiosi per eliminare sindacalisti e politici
avversari e a loro volta ne proteggono gli affari illegali. Cosa
Nostra acquista potere e riconoscimento. b) Fase
urbano-imprenditoriale: dalla metà degli anni ’50 agli anni ‘60
Anche nel Sud si sviluppa il settore economico del terziario,
fortemente dipendente dalla spesa pubblica e dal sostegno della
Cassa del Mezzogiorno e da altri interventi investimenti dello
Stato. La speculazione edilizia fiorisce: sono gli anni del
cosiddetto “sacco di Palermo”, la distruzione di quartieri storici
e di terreni agricoli per la costruzione di grandi e squallidi
palazzi; crescono le periferie senza servizi di alcun genere e
senza regolazione. Il tutto può passare grazie alle autorizzazioni
o ai silenzi delle pubbliche amministrazioni (sono gli anni in cui
Vito Ciancimino è Sindaco di Palermo). Le attività mafiose si
trasformano: centrali diventano l’acquisizione di appalti e di
finanziamenti pubblici, tramite rapporti con gli amministratori
pubblici amici e tramite l’intimidazione della concorrenza. Le
attività economiche, commerciali e industriali, vengono gravate del
“pizzo”, l’estorsione violenta, che permette l’accumulazione di
capitali e il controllo capillare del territorio. Chi, nelle
istituzioni, individua i rapporti della mafia con la politica viene
assassinato brutalmente. Per citare solo alcuni nomi: 1971: Pietro
Scaglione, procuratore di Palermo; 1979: Boris Giuliano, capo della
Mobile di Palermo;
Cesare Terranova, giudice Peppino Impastato.
c) Fase finanziaria È la fase della grande accumulazione di
capitali illegali: in Calabria hanno questo scopo i rapimenti, che
avvengono in tutta Italia e che hanno nell’Aspromonte un
nascondiglio eccellente, mentre in Sicilia sono soprattutto le
estorsioni e le speculazioni edilizie ad assicurare denaro fresco.
In entrambi i casi questi capitali vengono reinvestiti nel nuovo
business emergente: l’acquisto di droga. Si intensificano i
traffici internazionali e circuiti di riciclaggio del denaro
ricavato. Così le mafie fanno il loro ingresso in ogni attività
illegale o in attività economiche legali gestite con metodi
illegali. Capitali acquisiti illegalmente si inseriscono in
circuiti economici legali, rendendo difficile la distinzione.
L’usura, favorita dalla disponibilità di denaro, consente
gradualmente la colonizzazione delle aziende che avevano chiesto
prestiti e non riescono a restituirli. Il rapporto con il sistema
politico è caratterizzato per un verso dalla intimidazione di chi
si oppone al potere mafioso, dall’altra parte da corruzione per
ottenere favori (addirittura si intavolano trattative per
influenzarlo e ottenere concessioni). Salvo Lima, uomo politico
democristiano, della corrente andreottiana, è il mediatore di
interessi tra politica e cosche mafiose: quando non riesce più ad
ottenere ciò che serve alle cosche viene eliminato (marzo 1992: per
inciso siamo alla vigila di “Mani Pulite” e si profila l’avvento
della cosiddetta “Seconda Repubblica”). Negli anni ’80 Palermo e
altre città della Sicilia sono insanguinate da una vera propria
guerra di mafia tra cosche rivali per conquistare la “piazza”:
emergono i corleonesi, capeggiati da Totò Riina e Bernardo
Provenzano. La nuova Cupola mafiosa decide di aprire lo scontro con
settori delle istituzioni statali, che cominciano seriamente a
contrastarne la presenza: le uccisioni del giudice Chinnici, degli
uomini politici Pio La Torre e Piersanti Mattarella, il Prefetto di
Palermo generale Dalla Chiesa, fino ai giudici Falcone e
Borsellino, che per la prima volta erano riusciti a portare a
termine un maxi-processo contro Cosa Nostra e a farne condannare i
capi. Nel 1993-94 per ottenere concessioni da parte dello Stato,
viene inaugurata la strategia stragista, con gli attentati a
Firenze, Milano, Roma, finalizzati a un non ancora chiarito disegno
di trattativa con lo Stato. Ma emerge anche una nuova voglia della
società civile di combattere le mafie e lo sforzo di forze
dell’ordine e magistratura portano all’arresto di molti dei capi
storici. Il resto è cosa dei nostri giorni: prevale la strategia
dell’“immersione” (non meno pericolosa in quanto la gente rischia
di abbassare la
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guardia, di prestare meno attenzione al problema e di dare minor
sostegno a chi si batte contro le mafie). Intanto prosegue la
penetrazione delle mafie in altre regioni italiane e all’estero (al
punto che la relazione della Direzione Nazionale Antimafia,
riguardo ala Lombardia, parla di colonizzazione) ed emergono in
modo sempre più prepotente altre mafie (la ‘ndrangheta in
particolare) che conquistano nuovi spazi a livello nazionale e
internazionale.
Tre figure dell’antimafia: Peppino Impastato, Giorgio Ambrosoli
e
Paolo Borsellino a cura di Carlo Colombi
Peppino Impastato
Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino (Cinisi, 5 gennaio
1948 – Cinisi, 9 maggio 1978), è stato un giornalista, attivista e
politico italiano, famoso per le denunce delle attività della mafia
in Sicilia, che gli costarono la vita.
Peppino Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5
gennaio 1948, da una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato
inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri
parenti erano mafiosi ed il cognato del padre era il capomafia
Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato nella sua Giulietta
imbottita di tritolo).
Ancora ragazzo rompe con il padre, che lo caccia di casa, ed
avvia un'attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fonda il
giornalino L'idea socialista e aderisce al PSIUP. Dal 1968 in poi,
partecipa, con ruolo di dirigente, alle attività dei gruppi
comunisti. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la
costruzione della terza pista dell'aeroporto di Palermo, in
territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge
attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.);
nel 1976 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, con cui
denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini,
in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti (spesso chiamato
"Tano Seduto" da Peppino), che avevano un ruolo di primo piano nei
traffici internazionali di droga, attraverso il controllo
dell'aeroporto. Il programma più seguito era Onda pazza,
trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.
Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle
elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l'8 e il 9
maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale; col suo
cadavere venne inscenato un attentato, atto a distruggerne anche
l'immagine, in cui la stessa vittima apparisse come attentatore
suicida, ponendo una carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato
sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di
Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente,
al Consiglio comunale.
Stampa, forze dell'ordine e magistratura parlano di atto
terroristico in cui l'attentatore sarebbe rimasto vittima di
suicidio dopo la scoperta di una lettera scritta in realtà molti
mesi prima. L'uccisione, avvenuta in piena notte, riuscì a passare
la mattina seguente quasi inosservata poiché proprio in quelle ore
veniva "restituito" il corpo senza vita del presidente della DC
Aldo Moro in via M. Caetani a Roma.
L'attività del "Centro siciliano di documentazione", le accuse e
le scoperte
La matrice mafiosa del delitto viene individuata grazie
all'attività del fratello Giovanni e della madre Felicia Impastato
(1916 - 2004), che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e
grazie anche ai compagni di militanza e del Centro siciliano di
documentazione di Palermo, fondato a Palermo nel 1977 da Umberto
Santino e dalla moglie Anna Puglisi e dal 1980 intitolato proprio a
Giuseppe Impastato. Sulla base della documentazione raccolta e
delle denunce presentate viene quindi riaperta l'inchiesta
giudiziaria.
Il 9 maggio del 1979, il Centro siciliano di documentazione
organizza, con Democrazia Proletaria, la prima manifestazione
nazionale contro la mafia della storia d'Italia, a cui
parteciparono 2000 persone provenienti da tutto il paese.
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Nel maggio del 1984 l'Ufficio Istruzione del Tribunale di
Palermo, sulla base delle indicazioni del Consigliere istruttore
Rocco Chinnici, che aveva avviato il lavoro del primo pool
antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emette una
sentenza, firmata dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto,
in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però
ad ignoti.
Il Centro Impastato pubblica nel 1986 la storia di vita della
madre di Giuseppe Impastato, nel volume La mafia in casa mia, e il
dossier Notissimi ignoti, indicando come mandante del delitto il
boss Gaetano Badalamenti, nel frattempo condannato a 45 anni di
reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel
processo alla Pizza connection.
Nel gennaio 1988, il Tribunale di Palermo invia una
comunicazione giudiziaria a Badalamenti. Nel maggio del 1992 lo
stesso tribunale decide l'archiviazione del caso Impastato,
ribadendo la matrice mafiosa del delitto, ma escludendo la
possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile
responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.
Nel maggio del 1994 il Centro Impastato presenta un'istanza per
la riapertura dell'inchiesta, accompagnata da una petizione
popolare, chiedendo che venga interrogato sul delitto Impastato il
nuovo collaboratore della giustizia Salvatore Palazzolo, affiliato
alla mafia di Cinisi. Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il
Centro Impastato presentano un esposto in cui chiedono di indagare
su episodi non chiariti, riguardanti in particolare il
comportamento dei carabinieri subito dopo il delitto.
Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Palazzolo,
che indica in Badalamenti il mandante dell'omicidio assieme al suo
vice Vito Palazzolo, l'inchiesta viene formalmente riaperta. Nel
novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per
Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 10 marzo
1999 si svolge l'udienza preliminare del processo contro Vito
Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti viene stralciata.
I familiari, il Centro Impastato, Rifondazione comunista, il
Comune di Cinisi e l'Ordine dei giornalisti chiedono di costituirsi
parte civile e la loro richiesta viene accolta. Il 23 novembre 1999
Gaetano Badalamenti rinuncia all'udienza preliminare e chiede il
giudizio immediato.
Nell'udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo
chiede che si proceda con il rito abbreviato, mentre il processo
contro Gaetano Badalamenti si svolgerà con il rito normale e in
video-conferenza. Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e
il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vengono respinte
le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato,
di Rifondazione comunista e dell'Ordine dei giornalisti.
Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è
costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 è
stata approvata una relazione sulle responsabilità di
rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini.
Nella commissione si rendono note le posizioni favorevoli
all'ipotesi dell'attentato terroristico poste in essere dai
seguenti militari dell'arma: il Maggiore Tito Baldo Honorati; il
maggiore Antonio Subranni; il maresciallo Alfonso Travali.
Il 5 marzo 2001 la Corte d'assise ha riconosciuto Vito Palazzolo
colpevole e lo ha condannato a trent'anni di reclusione. L'11
aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato
all'ergastolo.
Giorgio Ambrosoli Giorgio Ambrosoli (Milano, 17 ottobre 1933 –
Milano, 11 luglio 1979) è stato un avvocato italiano. Fu
assassinato l'11 luglio 1979 da un sicario ingaggiato dal banchiere
siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli indagò
nell'ambito dell'incarico di commissario liquidatore della Banca
Privata Italiana.
Ambrosoli era un avvocato esperto in liquidazioni coatte
amministrative. Dopo aver ricevuto, in famiglia, "un’educazione
fondata su una robusta fede cattolica", in gioventù aveva militato
nell'Unione monarchica italiana. Nel settembre 1974 fu nominato dal
governatore della Banca d'Italia Guido Carli, commissario
liquidatore della Banca Privata Italiana.
Nel 1971 si addensarono sospetti sulle attività del banchiere
siciliano Michele Sindona. La Banca d'Italia, attraverso il Banco
di Roma, investigò sulle attività di Sindona nel tentativo di
evitare il fallimento degli Istituti di credito da questi gestiti:
la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria. Le scelte
dell'allora governatore Guido Carli erano chiaramente motivate
dalla volontà di non provocare il panico nei correntisti. Fu quindi
accordato un prestito a Sindona, anche in virtù della benevolenza
dell'amministratore delegato dell'istituto romano
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Mario Barone. Quest'ultimo fu cooptato come terzo
amministratore, modificando appositamente lo statuto della banca
stessa, che ne prevedeva solo due: nel caso specifico, Ventriglia e
Guidi.
Fu accordato tale prestito con tutte le modalità e transazioni
necessarie e fu incaricato il direttore centrale del Banco di Roma,
Giovanbattista Fignon, di occuparsi della vicenda. Le banche di
Sindona vennero fuse e prese vita la Banca Privata Italiana di cui
Fignon divenne vice presidente ed amministratore delegato. Contro
tutte le aspettative, Fignon andò a Milano a rivestire la carica e
comprese immediatamente la gravità della situazione. Stese numerose
relazioni, ricostruì le operazioni gravose messe in piedi da
Sindona e dai suoi collaboratori e ne ordinò l'immediata
sospensione.
Il lavoro di Fignon non poteva essere sufficiente; nel settembre
del 1974 consegnò a Giorgio Ambrosoli la relazione sullo stato
della Banca. Fignon continuò nel suo operato, tanto da essere
citato anche nelle agende dell'avvocato Ambrosoli, che nulla poteva
immaginare di ciò che sarebbe seguito. Ciò che emerse dalle
investigazioni indusse, nel 1974, a nominare un commissario
liquidatore. Per il compito fu scelto Giorgio Ambrosoli.
Commissario liquidatore
In questo ruolo, Ambrosoli assunse la direzione della banca e si
trovò ad esaminare tutta la trama delle articolatissime operazioni
che il finanziere siciliano aveva intessuto, principiando dalla
controllante società "Fasco", l'interfaccia fra le attività palesi
e quelle occulte del gruppo. Nel corso dell'analisi svolta
dall'avvocato emersero le gravi irregolarità di cui la banca si era
macchiata e le numerose falsità nelle scritturazioni contabili,
oltre alle rivelazioni dei tradimenti e delle connivenze di
ufficiali pubblici con il mondo opaco della finanza di Sindona.
Contemporaneamente a questa opera di controllo Ambrosoli
cominciò ad essere oggetto di pressioni e di tentativi di
corruzione. Queste miravano sostanzialmente a ottenere che
avallasse documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se si
fosse ottenuto ciò lo Stato Italiano, per mezzo della Banca
d'Italia, avrebbe dovuto sanare gli ingenti scoperti dell'istituto
di credito. Sindona, inoltre, avrebbe evitato ogni coinvolgimento
penale e civile.
Ambrosoli non cedette, sapendo di correre notevoli rischi. Nel
1975 indirizzò una lettera alla moglie in cui scrisse:
« Anna carissima,
è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo
della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è
costato una
bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili
altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende
alla Verzotto
e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e
risma non tranquillizza affatto. E' indubbio che, in ogni caso,
pagherò a
molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e
quindi non mi lamento affatto perché per me è stata
un'occasione
unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell'Umi,
le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i
partiti:
ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome
dello Stato e non per un partito. Con l'incarico, ho avuto in mano
un potere
enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho
la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi
ovviamente
solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto
quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di
aver
avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche
se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi
mesi dopo.
I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di
farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi
firmare
centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie.
Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono
certo
saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli
nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ]
Abbiano
coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel
senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si
chiami
Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto
brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro.. Sarà per te
una vita dura,
ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e
farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi (...)
Giorgio »
Ai tentativi di corruzione fecero presto seguito minacce
esplicite. Malgrado ciò, Ambrosoli confermò la necessità di
liquidare la banca e di riconoscere la responsabilità penale del
banchiere.
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Nel corso dell'indagine emerse, inoltre, la responsabilità di
Sindona anche nei confronti di un'altra banca, la statunitense
Franklin National Bank, le cui condizioni economiche erano ancora
più precarie. L'indagine, dunque, vide coinvolta non solo la
magistratura italiana, ma anche l'FBI.
Nella sua indagine sulla banca di Sindona, Ambrosoli poté
contare solo su Ugo La Malfa come referente politico, mentre il
maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre gli fece da
guardia del corpo. Nonostante le minacce di morte, infatti, ad
Ambrosoli non fu accordata alcuna protezione da parte dello Stato.
In Bankitalia, poté contare sul sostegno di Paolo Baffi, il
governatore, e diMario Sarcinelli, capo dell'Ufficio Vigilanza, ma
solo fino al marzo del 1979, quando entrambi furono incriminati per
favoreggiamento e interesse privato in atti d'ufficio nel corso di
un'inchiesta sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti
di credito legata al caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano. Baffi si
dimise il 16 agosto 1979, lasciando l'incarico di Governatore a
Carlo Azeglio Ciampi, mentre per Sarcinelli fu eseguito il mandato
di arresto in carcere.
In un clima di tensione e di pressioni anche politiche molto
forti, Ambrosoli concluse la sua inchiesta. Avrebbe dovuto
sottoscrivere una dichiarazione formale il 12 luglio 1979.
L'omicidio
La sera dell'11 luglio 1979, rincasando dopo una serata
trascorsa con amici, Ambrosoli fu avvicinato sotto il suo portone
da uno sconosciuto. Questi si scusò e gli esplose contro quattro
colpi .357 Magnum. Ad ucciderlo fu William Joseph Aricò, un sicario
fatto appositamente venire dagli Stati Uniti e pagato con 25 000
dollari in contanti ed un bonifico di altri 90 000 dollari su un
conto bancario svizzero.
Nessuna autorità pubblica presenziò ai funerali di Ambrosoli, ad
eccezione di alcuni esponenti della Banca d'Italia.
Nel 1981, con la scoperta delle carte di Licio Gelli a
Castiglion Fibocchi, si ha la conferma del ruolo della loggia
massonica P2 nelle manovre per salvare Sindona.
Il 18 marzo 1986 a Milano, Michele Sindona e l'italo-americano
Robert Venetucci (un trafficante di eroina che aveva messo in
contatto Sindona col killer) furono condannati all'ergastolo per
l'uccisione dell'avvocato Ambrosoli.
Omaggi postumi
Giorgio Ambrosoli non ebbe grandi riconoscimenti, nonostante il
sacrificio estremo con cui aveva pagato la sua onestà e il suo zelo
professionale.
Secondo Carlo Azeglio Ciampi, «Ambrosoli era il cittadino
italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità
il suo compito e il suo dovere». Giulio Andreotti ha invece
dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi "se l'andava
cercando"», per poi precisare di voler «fare riferimento ai gravi
rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto
con il difficile incarico assunto».
Il primo omaggio alla figura di Ambrosoli fu il libro di Corrado
Stajano, intitolato Un eroe borghese. Dal libro è stato tratto nel
1995 il film omonimo diretto da Michele Placido.
Nell'anno 2000 il comune di Milano, durante il primo mandato del
Sindaco Gabriele Albertini, dedicò una piccola piazza a Giorgio
Ambrosoli in zona Corso Vercelli, e tre borse di studio di 5163,33
euro l'una.
Nel 2009, Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, anch'egli
educato nella fede cattolica, tanto che i genitori lo avevano
mandato a studiare presso i Padri Rosminiani di Domodossola,
pubblicò Qualunque cosa succeda, ricostruzione della vicenda del
padre «sulla base di ricordi personali, familiari, di amici e
collaboratori e attraverso le agende del padre, le carte
processuali e alcuni filmati dell'archivio RAI» (dalla quarta di
copertina). Nello stesso anno è morto l'altro figlio, Filippo, a
causa di un malore.
Il comune di Roma, durante il primo mandato del sindaco Walter
Veltroni gli dedicò un Largo, in zona Nomentana. Ad Ambrosoli
dedicarono vie, piazze e larghi anche altri comuni, tra cui
Alessandria, Arcene, Bolzano, Corbetta, Cornate d'Adda, Desio,
Firenze, Forlì, Landriano, Nova Milanese, Ravenna,Rodano, Reggiolo,
San Donato Milanese, Scanzorosciate, Scandicci, Seveso, Treviso,
Varese, Volvera. Il Comune di Ghiffa (sul Lago Maggiore), dove
Giorgio Ambrosoli è sepolto, ha dedicato all'avvocato milanese il
proprio lungolago.
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Paolo Borsellino Primi anni
Figlio di Diego Borsellino (1910 - 1962) e di Maria Pia Lepanto
(1910 - 1997), Paolo Emanuele Borsellino nacque a Palermo nel
quartiere popolare La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche
Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. La famiglia di Paolo era
composta dalla sorella maggiore Adele (1938 - 2011), dal fratello
minore Salvatore (1942) e dall'ultimogenita Rita (1945).
Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo Borsellino si
iscrisse al liceo classico "Giovanni Meli" di Palermo. Durante gli
anni del liceo diventò direttore del giornale studentesco
"Agorà".
L'11 settembre 1958 si iscrisse a Giurisprudenza a Palermo con
numero di matricola 2301. Dopo una rissa tra studenti "neri" e
"rossi" finì erroneamente anche lui di fronte al magistrato Cesare
Terranova, cui dichiarò la propria estraneità ai fatti. Il giudice
sentenziò che Borsellino non era implicato nell'episodio.
Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel
1959 si iscrisse al Fronte Universitario d'Azione Nazionale,
organizzazione degli universitari missini di cui divenne membro
dell'esecutivo provinciale, e fu eletto come rappresentante
studentesco nella lista del FUAN "Fanalino" di Palermo.
Il 27 giugno 1962, all'età di ventidue anni, Borsellino si
laureò con 110 e lode con una tesi su "Il fine dell'azione
delittuosa" con relatore il professor Giovanni Musotto. Pochi
giorni dopo, a causa di una malattia, suo padre morì all'età di
cinquantadue anni. Borsellino si impegnò allora con l'ordine dei
farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al
raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante
questo periodo la farmacia fu data in gestione per un affitto
bassissimo, 120.000 lire al mese e la famiglia Borsellino fu
costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso
l'esonero dal servizio militare poiché egli risultava "unico
sostentamento della famiglia".
Nel 1967 Rita si laureò in farmacia e il primo stipendio da
magistrato di Paolo servì a pagare la tassa governativa.
Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo
Piraino Leto (1909 - 1994), a quel tempo magistrato, presidente del
tribunale di Palermo. Dalla moglie Agnese ebbe tre figli: Lucia
(1969), Manfredi (1972) e Fiammetta (1973).
La carriera in magistratura
« L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel
politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato
di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però
la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un
uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura
può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può
dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io
non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire
quest'uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi
tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i
politici, le organizzazioni disciplinari delle varie
amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano
trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e
mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il
politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi
giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo
schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato,
quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di
gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci
sono le prove per condannarla, però c'è il grosso sospetto che
dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare
grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti,
facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti
comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non
costituenti reati. »
Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in
magistratura; classificatosi venticinquesimo sui 171 posti messi a
bando, con il voto di 57, divenne il più giovane magistrato
d'Italia. Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo
terminò il 14 settembre 1965 quando venne assegnato al tribunale di
Enna nella sezione civile. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazara
del Vallo. Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad
Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di
conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi.
Il 21 marzo 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò
nell'ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco
Chinnici. Con Chinnici si stabilì un rapporto, più tardi descritto
dalla sorellaRita Borsellino e da Caterina Chinnici, figlia del
capo dell'Ufficio, come di "adozione"
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non soltanto professionale. La vicinanza che si stabilì fra i
due uomini e le rispettive famiglie fu intensa e fu al giovane
Paolo che Chinnici affidò la figlia, che abbracciava anch'essa
quella carriera, in una sorta di tirocinio. Nel febbraio 1980
Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi tra cui Giulio Di
Carlo e Andrea Di Carlo legati a Leoluca Bagarella. Grazie
all'indagine condotta da Basile e Borsellino sugli appalti truccati
a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scopre il
fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di
Antonino Marchese, altro importante Boss. Il 4 maggio 1980 Emanuele
Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla
famiglia Borsellino.
Il pool antimafia
In quell'anno si costituì il "pool" antimafia nel quale sotto la
guida di Chinnici lavorarono alcuni magistrati (fra gli altri,
Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta,
Giovanni Barrile) e funzionari della Polizia di Stato (Cassarà e
Montana).
Nel racconto che ne fece lo stesso Borsellino, il pool nacque
per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano
individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza
che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di
materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore
efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il
fenomeno mafioso nella sua globalità. Uno dei primi esempi concreti
del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e
l'appena "acquisito" Di Lello, che Chinnici aveva voluto e
richiesto in squadra: Di Lello prendeva giornalmente a prestito la
documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina
successiva, dopo averla studiata come fossero "quasi delle dispense
sulla lotta alla mafia". E presto, senza che le note divergenze
politiche potessero essere di più che mera materia di battute,
anche fra i due il legame professionale si estese all'amicizia
personale. Del resto era proprio la formazione di una conoscenza
condivisa uno degli effetti, ma prima ancora uno degli scopi, della
costituzione del pool: come ebbe a dire Guarnotta, si andava ad
esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che
era veramente la sua essenza.
Nel pool andò formandosi una "gerarchia di fatto", come la
chiamò Di Lello: fondata sulle qualità personali di Falcone e
Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità -
sempre secondo lo stesso collega - di "grande intelligenza,
grandissima memoria e grande capacità di lavoro"; ed i colleghi non
l'avrebbero discussa, questa supremazia, anche per il timore di
essere sfidati a sostituirli.
Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente
l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente
giunse nel 1982, a prezzo però di nuovo altro sangue "eccellente",
quando dopo l'omicidio del deputato comunista Pio La Torre, il
ministro dell'interno Virginio Rognoni inviò a Palermo il generale
dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia
e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale,
nominandolo prefetto. E quando anche questi trovò la morte, 100
giorni dopo, nella strage di via Carini, il parlamento italiano
riuscì a varare la cosiddetta "legge Rognoni-La Torre" con la quale
si istituiva il reato di associazione mafiosa (l'articolo 416 bis
del codice penale) che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le
investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali
riciclati; era questa la strada che Giovanni Falcone ed i suoi
colleghi del pool maggiormente intendevano seguire, una strada anni
prima aperta dalle indagini finanziarie di Boris Giuliano (sul cui
omicidio investigava il capitano Basile quando fu a sua volta
assassinato) a proposito dei rapporti fra il capomafia Leoluca
Bagarella ed il losco finanziere Michele Sindona.
Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di
un'autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo da Firenze
Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale
contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre
Tommaso Buscetta ("Don Masino", come era chiamato nell'ambiente
mafioso), catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia,
iniziò a collaborare con la giustizia.
Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia,
di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da
Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario
Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà. Falcone e
Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del
carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere
l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla
sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l'amministrazione
penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed
un indennizzo per il soggiorno trascorso.
Parallelamente si impegna all'interno degli organismi di
rappresentanza dei giudici, come esponente di Magistratura
Indipendente.
A Marsala
Borsellino chiese ed ottenne (il 19 dicembre 1986) di essere
nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina
superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni
requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio.
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Secondo il collega Giacomo Conte la scelta di decentrarsi e di
assumere un ruolo autonomo rispondeva ad una sua intuizione per la
quale l'accentramento delle indagini istruttorie sotto la guida di
una sola persona esponeva non solo al rischio di una disorganicità
complessiva dell'azione contro la mafia, ma anche a quello di poter
facilmente soffocare questa azione colpendo il magistrato che ne
teneva le fila; questa collocazione, "solo apparentemente
periferica", fu secondo questo autore esempio della proficuità di
questa collaborazione a distanza.
Di parere difforme fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il
quale in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10
gennaiodel 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il
lettore a prendere atto che "nulla vale più, in Sicilia, per far
carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo
mafioso", a conclusione di un'esposizione principiata con due
autocitazioni. Si tratta della nota polemica sui cosiddetti
"professionisti dell'antimafia". Borsellino commentò (o lo citò)
solo dopo la morte di Falcone, parlando il 25 giugno 1992 ad un
dibattito, organizzato da La Rete e da MicroMega, sullo stato della
lotta alla mafia dopo la Strage di Capaci: "Tutto incominciò con
quell'articolo sui professionisti dell'antimafia.
« Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni
Falcone »
(Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)
« Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro,
propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto,
ilConsiglio Superiore della Magistratura, con motivazioni risibili
gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche
Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio
compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli.
»
(Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)
Secondo Umberto Lucentini, uno dei suoi biografi, Borsellino si
era invece reso conto della crescente importanza delle cosche
trapanesi, e di Totò Riina e Bernardo Provenzano, all'interno della
rete criminale Cosa Nostra, che ad esempio intorno a Mazara del
Vallo e nel Belice, facevano ruotare interessi notevoli che
occorreva seguire da vicino.
La fine del Pool ed il ritorno a Palermo
Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione
con l'accoglimento delle tesi investigative del pool e
l'irrogazione di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena, Caponnetto
lasciò il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso)
si attendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma il
Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa
maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore
che il pool stesse per essere sciolto.
Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese, raccontando
quel che stava accadendo alla procura di Palermo. In particolare,
in due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 a la Repubblica ed
aL'Unità, riferendosi al CSM, dichiarò tra l'altro espressamente:
"si doveva nominare Falcone per garantire la continuità
all'Ufficio", "hanno disfatto il pool antimafia", "hanno tolto a
Falcone le grandi inchieste", "la squadra mobile non esiste più",
"stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa". Per queste
dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto
inchiesta). A seguito di un intervento del Presidente della
Repubblica Francesco Cossiga, si decise almeno di indagare su ciò
che succedeva nel palazzo di Giustizia.
Il 31 luglio il CSM convocò Borsellino, il quale rinnovò accuse
e perplessità. Il 14 settembre Antonino Meli, sulla base di una
decisione fondata sulla mera anzianità di ruolo in magistratura, fu
nominato capo del pool; Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a
lavorare alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di prima
nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la costituzione di
una Superprocura e su chi porvi a capo, nel frattempo Falcone fu
chiamato a Roma per assumere il comando della direzione affari
penali e da lì premeva per l'istituzione della Superprocura.
Nel settembre 1990 intervenne alla festa nazionale del Fronte
della Gioventù a Siracusa, insieme al parlamentare regionale del
MSI Giuseppe Tricoli, e agli allora dirigenti giovanili Gianni
Alemanno e Fabio Granata.
Con Falcone a Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla
Procura di Palermo e l'11 dicembre 1991 vi ritornò come Procuratore
aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia.
Il cammino segnato
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Nel settembre del 1991, la mafia aveva già abbozzato progetti
per l'uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu Vincenzo Calcara,
picciotto della zona di Castelvetrano cui la Cupola mafiosa, per
bocca di Francesco Messina Denaro (capo della cosca di Trapani),
aveva detto di tenersi pronto per l'esecuzione, che si sarebbe
dovuta effettuare o mediante un fucile di precisione, o con
un'autobomba. Assai onorato dell'incarico, che gli avrebbe
consentito la scalata di qualche gradino nella gerarchia mafiosa,
il mafioso attendeva l'ordine di entrare in azione come cecchino
qualora si fosse propeso per questa soluzione.
Ma Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in
carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui
stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con
la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del
tutto contrario alle "regole" mafiose e sufficiente a costargli la
vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per "lavori
sporchi", da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte
emessa dall'organizzazione. Prima che finisse il periodo di
isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia
e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta
rivelatogli il piano e l'incarico, disse: "lei deve sapere che io
ero ben felice di ammazzarla". Dopo di ciò, raccontò sempre il
pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe
commentato: "nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un
uomo d'onore mi abbracciasse".
Soltanto nel 2012 si è venuto a sapere, da una rivelazione
rilasciata in tribunale del colonnello Umberto Sinico, sentito come
testimone, che Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel
mirino di Cosa Nostra, ma che preferiva che non si stringesse
troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che Cosa Nostra
scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia.
Elezione del Presidente della Repubblica e Capaci
Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso dell'XI scrutinio
delle elezioni presidenziali, l'allora segretario del MSI
Gianfranco Fini diede indicazione ai suoi parlamentari di votare
per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica, che ottenne
in quello scrutinio 47 preferenze, al sedicesimo scrutinio
(avvenuto dopo la strage di Capaci) fu eletto Oscar Luigi
Scalfaro.
Il 23 maggio 1992, in un attentato dinamitardo sull'autostrada
di Capaci, persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca
Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito
Schifani eRocco Dicillo.
« Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà allorché ci
stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor
Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse:
"Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano". »
(Paolo Borsellino, intervista a Lamberto Sposini dell'inizio di
luglio)
Dichiarazioni e rifiuti
Borsellino rilasciò interviste e partecipò a numerosi convegni
per denunciare l'isolamento dei giudici e l'incapacità o la mancata
volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte
alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse
le ragioni che avevano portato all'omicidio del giudice Rosario
Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni
giudice "sovraesposto" è destinato a fare.
Alla presentazione di un libro alla presenza dei ministri
dell'interno e della giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli,
nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu
chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di
Falcone alla "Superprocura"; alla sua risposta negativa Scotti
intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere
al CSM di riaprire il concorso ed invitandolo formalmente a
candidarsi. Borsellino non rispose a parole, sebbene il suo
biografo Lucentini abbia così descritto la sua reazione: "dal suo
viso trapela una indignazione senza confini"". Rispose al ministro
per iscritto, giorni dopo: "La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha
reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi
beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso
evento".
La strage di via d'Amelio
Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la
moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò
insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre.
Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre
con circa 100 kg di esplosivo a bordo (semtex e/o tritolo) detonò
al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche
i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia
di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli,
Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu
Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione
stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.
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Il 24 luglio diecimila persone partecipano ai funerali privati
di Borsellino (i familiari rifiutarono il rito di Stato, poiché la
moglie Agnese Borsellino, accusava il governo di non aver saputo
proteggere il marito, voleva una cerimonia privata senza la
presenza dei politici), celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa
di Marillac, disadorna e periferica, dove il giudice era solito
sentir messa, quando poteva, nelle domeniche di festa. L'orazione
funebre la pronuncia Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che
diresse l'ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta
che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno
di noi». Pochi i politici: il presidente Scalfaro, Francesco
Cossiga, Gianfranco Fini, Claudio Martelli. Il funerale è commosso
e composto, interrotto solo da qualche battimani. Qualche giorno
prima, i funerali dei 5 agenti di scorta si svolsero nella
Cattedrale di Palermo, ma all'arrivo dei rappresentanti dello stato
(compreso il neo Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi
Scalfaro), una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000
agenti chiamati per mantenere l'ordine, la gente mentre strattonava
e spingeva, gridava "FUORI LA MAFIA DALLO STATO". Il Presidente
della Repubblica venne tirato fuori a stento dalla calca, venne
spintonato anche il capo della polizia.
Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro
organizzato dalla rivista MicroMega, così come in un'intervista
televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua
condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di
Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare
le sue vittime designate.
Antonino Caponnetto, che subito dopo la strage aveva detto,
sconfortato, "Non c'è più speranza...", intervistato anni dopo da
Gianni Minà ricordò che "Paolo aveva chiesto alla questura – già
venti giorni prima dell'attentato – di disporre la rimozione dei
veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la
domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi
fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si
sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali
conseguenze".
Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di
giustizia Rita Atria, che proprio per la fiducia che riponeva nel
giudice Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti
pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.
L'eredità
« Io accetto la... ho sempre accettato il... più che il rischio,
la... condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio,
del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio.
Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di
farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre
questi pericoli. Il... la sensazione di essere un sopravvissuto e
di trovarmi in, come viene ritenuto, in... in estremo pericolo, è
una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora
profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo
faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a
me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di
continuarlo a fare senza lasciarci condizionare... dalla sensazione
che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può
costarci caro. »
(Paolo Borsellino, intervista a Sposini, inizio luglio 1992)
La figura di Paolo Borsellino, come quella di Giovanni Falcone,
ha lasciato un grande esempio nella società civile e nelle
istituzioni.
Alla sua memoria sono state intitolate numerose scuole e
associazioni, nonché (insieme all'amico e collega) l'aeroporto
internazionale "Falcone e Borsellino" (ex "Punta Raisi", Palermo),
un'aula della facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma La
Sapienza e l'aula del consiglio comunale della città di
Castellammare di Stabia. Anche la Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Brescia ha intestato una delle sue
aule più suggestive di Palazzo dei Mercanti ai giudici Falcone e
Borsellino. Dal 2011, l’aula delle udienze della Corte d’Appello di
Trento è dedicata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
« Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si
trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la
vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo
e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un'altra
tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità
incredibili. »
(Antonino Caponnetto, intervista a Gianni Minà, maggio 1996)
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Le mafie in Lombardia Dalle infiltrazioni alla
colonizzazione
di Lorenzo Frigerio
Le mafie sono presenti a Milano e in Lombardia da diversi
decenni e, oggi più che mai, rappresentano una pericolosa minaccia
per la convivenza civile e democratica. Risale agli inizi degli
anni sessanta il progressivo insediamento delle mafie dovuta
all’applicazione della misura del soggiorno obbligato, che porta in
Lombardia, a Milano soprattutto, molti uomini delle cosche. Da quel
momento è un lento diffondersi della presenza mafiosa, prima con il
controllo delle bische e del contrabbando, poi con i sequestri di
persona, per finire ai nostri giorni con il dominio del mercato
delle sostanze stupefacenti e le infiltrazioni negli appalti
pubblici. A testimonianza dell’inquinamento del sistema finanziario
ed economico milanese, l’11 luglio del 1979, viene ucciso da un
killer della mafia italoamericana Giorgio Ambrosoli1, il coraggioso
e inflessibile avvocato liquidatore della banca privata italiana di
Michele Sindona, crocevia di operazioni di riciclaggio delle
cosche. Il posto di Sindona viene poi preso da Roberto Calvi che
porta il Banco Ambrosiano al fallimento per ripianare gli
investimenti fatti per conto della mafia. A metà degli anni
novanta, il bilancio finale della lunga stagione dei processi nati
dalle inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano è
di quasi 3.000 persone condannate per associazione mafiosa, oltre
al sequestro di ingenti patrimoni: cifre di gran lunga superiori a
quelle che si registrano nello stesso periodo in realtà come
Palermo e Napoli. Nello stesso periodo, i riflettori dell’opinione
pubblica a Milano sono puntati sulle molte inchieste di
Tangentopoli. Proprio le inchieste sulla corruzione evidenziano
come il sistema mafioso prospera grazie al costante rapporto con
politica e istituzioni. Altro segnale inquietante della presenza
mafiosa in città è l’attentato di via Palestro, nella stagione
della cosiddetta “trattativa” tra Stato e antistato, quando il 27
luglio del 1993 una bomba ad alto potenziale distrugge parte del
Padiglione di Arte Contemporanea e provoca la morte violenta del
vigile urbano Alessandro Ferrari, dei pompieri Carlo La Catena,
Sergio Pasotto, Stefano Picerno e del cittadino marocchino Driss
Moussafir. I numeri delle mafie Tutti i documenti ufficiali di
magistratura e forze dell’ordine, licenziati recentemente,
raccontano di una presenza capillare e diffusa delle cosche in
città e nella regione, a motivo della centralità dell’una e
dell’altra nei processi decisionali economici e politici del nostro
Paese. La Lombardia secondo le statistiche è la prima regione per
traffico di cocaina e delle altre sostanze stupefacenti: Milano è
la piazza dove si fa il prezzo delle sostanze per tutto il nord
Europa. La Lombardia è la prima regione per segnalazione di
operazioni sospette in tema di riciclaggio all’Ufficio Informazione
Finanziaria e offre numerose e diversificate possibilità di
reimpiego dei capitali accumulati illecitamente dalle cosche. La
Lombardia è la terza regione per numero di aziende confiscate alla
criminalità organizzata. La Lombardia è la quinta regione per
numero di beni immobili confiscati, anche se negli ultimi anni si è
trovato in posizioni più elevate, tenendo conto delle singole
annualità relative alle confische. Milano e la Lombardia sono il
crocevia dei tanti traffici illeciti delle mafie transazionali che
oggi prosperano sulla caduta delle frontiere in Europa e
movimentano ingenti masse di denaro e merci di tutti i tipi,
compresi gli esseri umani. 1 Stajano Corrado, Nel 2015 la città e
la regione saranno la sede di un grande evento internazionale, Expo
2015 che movimenterà non solo presenze e relazioni, ma anche
ingenti quantità di risorse, sulle quali, è prevedibile, abbiano
già puntato le organizzazioni criminali. 2010, il brusco risveglio
Nel 2010 Milano e la Lombardia si svegliano dal lungo torpore di
questi ultimi decenni e si trovano la mafia sull’uscio di casa. È
un brusco risveglio: evidentemente si è persa la memoria di quanto
avvenuto a metà degli anni novanta, con la DDA milanese che mandò
alla sbarra e fece condannare quasi tremila affiliati alle cosche.
Oggi i tempi sono cambiati, ma a differenza della polvere che si
nasconde sotto il tappeto, per dare l’impressione che la casa sia
pulita, non è più possibile liquidare nell’indifferenza boss e
picciotti e, quindi, il loro ruolo ingombrante deve essere
analizzato e metabolizzato se si vuole trarre utile insegnamento da
quanto è accaduto e rafforzare gli anticorpi. Prima tocca al clan
Valle e poi all’operazione “Infinito/Il Crimine”, che interessa
Lombardia e Calabria, colpendo al cuore la più pericolosa delle
mafie, la ’ndrangheta calabrese. C’è spazio anche per la vicenda di
una donna, Lea Garofalo, che rompe coraggiosamente con il suo
passato, ma trova la morte a Milano. Anche questa terribile storia
racconta del potere mafioso in città. Da Reggio Calabria a Vigevano
Una vasta operazione antimafia guidata dalla DDA di Milano, che ha
visto la partecipazione di circa 250 agenti di ben sedici questure,
in accordo con il Servizio Centrale Operativo della Polizia di
Stato; settanta perquisizioni effettuate in tutto il territorio
italiano; quindici persone finite in manette con pesanti accuse che
vanno dall’associazione di tipo mafioso all’usura, passando per
l’intestazione fittizia di beni; 138 tra immobili e altri beni
aziendali sequestrati, infine, provento dell’attività usuraria per
un valore che oscilla tra gli 8 e i 10 milioni di euro. È questo
l’importante bilancio tracciato dai magistrati Ilda Boccassini,
Daniela Dolci, Paolo Storari, dal capo della Squadra Mobile
Alessandro Giuliano e da Raffaele Grassi dello SCO, al termine
delle operazioni di polizia, che interessano in particolar modo la
Lombardia tra mercoledì 30 giugno e giovedì 1 luglio. Al centro
dell’inchiesta un clan storico della ’ndrangheta, legato da vincoli
epocali con i potenti
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boss Di Stefano di Reggio Calabria. Stiamo parlando del clan
Valle, da tempo insediatosi tra Vigevano e Milano, il primo clan a
cui vennero sequestrati e poi confiscati beni in Lombardia e
riutilizzati a fini sociali, grazie alla legge 109/96 promossa da
Libera. La presenza della famiglia Valle in Lombardia risale alla
fine degli anni settanta, una presenza dovuta, da un lato,
all’esigenza criminale di espandersi in nuovi territori e,
dall’altro, motivata dai furori della guerra intestina contro i
clan rivali dei Geria-Rodà, che in quegli anni aveva mietuto
vittime da una parte e dall’altra nel territorio di origine. È però
nel decennio successivo che il clan allarga la propria sfera
d’influenza muovendo dalla provincia pavese, in particolare
Vigevano, verso Milano, passando dall’hinterland sud ovest del
capoluogo. Alla guida del sodalizio criminale il capostipite
Francesco Valle, di 72 anni, supportato dai figli Fortunato e
Angela, sposata con Francesco Lampada, altro rampollo di famiglia
mafiosa proveniente da Reggio Calabria, finito lui pure in manette.
Usura e investimenti Il patriarca si occupava in prima persona
degli affari di famiglia, incentrati soprattutto sui business
dell’usura e dell’estorsione. Le somme che “venivano prestate”
partivano da un minimo di 20mila euro per arrivare anche a un
massimale di 250mila euro mentre il tasso di interesse accordato
era del 20%: condizioni capestro dalle quali era difficilissimo
rientrare per chiunque. I proventi delle attività illecite erano
poi reinvestiti in attività commerciali e immobiliari, grazie anche
all’ausilio di compiacenti prestanome, ai quali erano intestati
esercizi commerciali e quote aziendali. Al clan sono state
ricondotte, per il momento, ben 34 tra società e aziende. In
particolare, gli imprenditori Cusenza e Mandelli avrebbero permesso
ai Valle di estendere la loro «sfera di influenza interessandosi a
operazioni legate alle costruzioni immobiliari». La zona oggetto di
interesse sarebbe quella ricadente nei comuni di Rho e di Pero,
alle porte di Milano, interessate in prima battuta dalle opere
connesse al prossimo Expo 2015. Al momento risultano solo
diciassette casi di prestito abusivo di denaro e cinque vittime di
usura, ma gli inquirenti ritengono che gli imprenditori vittime del
clan siano molti, molti di più. Il giudice Boccassini ha ricordato
in conferenza stampa che le indagini, durate circa due anni, non
sono nate da segnalazioni o denunce e questo è un aspetto
assolutamente negativo che rivela un totale assoggettamento del
tessuto civile e imprenditoriale dell’area: «Parte della
cittadinanza milanese si comportava con questa organizzazione al
pari di quello che succede a Locri, a Trapani o in Sicilia, nel
senso che avevano il rispetto totale». Il magistrato rivolge
tramite i mass media anche un accorato appello alla classe
imprenditoriale perché denunci: «O si sta con lo Stato o si sta
contro lo Stato. Nei casi borderline, quando c'è connivenza la
linea della Procura sarà durissima. Non si possono avere alibi».
Clima di omertà? Palese connivenza? Diffusa rassegnazione? Sfiducia
nelle istituzioni? Difficile dare una risposta univoca, anche se il
quadro che emerge è davvero inquietante. Nessuno ha parlato, mentre
tutti continuavano a subire. Se non fosse stato per il tanto
vituperato strumento delle intercettazioni telefoniche, diff