1 SOCIOLOGIA ECONOMICA I. Profilo storico (Carlo Trigilia) Introduzione. Che cosa è la sociologia economica Il campo di studio della sociologia economica è caratterizzato da un insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. DUE DEFINIZIONI DI ECONOMIA Karl Polanyi (1977) ci suggerisce due definizioni di economia: 1) possiamo guardare all’economia come all’insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi (questa definizione non è condivisa da tutti gli economisti); 2) possiamo guardare ai fenomeni economici come sinonimi di “economizzare”, cioè porre l’accento su attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi (è quella che prevale nei testi di economia). Qui i soggetti perseguono razionalmente gli interessi individuali (es. si suppone che ciascun individuo sarà propenso a comprare più quantità di un bene se il prezzo è basso per effetto dei rapporti tra domanda e offerta, e viceversa se il prezzo è alto). Dall’incontro della domanda dei consumatori e dei produttori sul mercato dipenderà la quantità effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo. Se nelle società primitive le attività economiche si svolgono nell’ambito delle strutture familiari e parentali che regolano le modalità di produzione, nei grandi imperi dell’antichità lo stato assume un ruolo essenziale nella regolazione delle attività economiche. Nelle società capitalistiche, che si basano sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, l’economia si emancipa dai controlli sociali e politici ed i mercati si “autoregolano” e l’allocazione delle risorse e la formazione dei prezzi sono condizionati dai rapporti tra domanda e offerta. Le definizioni dei fenomeni economici che abbiamo richiamato non devono essere considerate come alternative ma come due modi diversi di guardare all’economia da cui discendono vantaggi e limiti che è bene conoscere. La seconda definizione è la più diffusa tra gli economisti ed ha consentito un notevole avanzamento delle conoscenze sui meccanismi autoregolativi dell’economia (sull’influenza dei movimenti della domanda e dell’offerta sulla formazione dei prezzi e sull’allocazione delle risorse). Operando con pochi assunti semplici relativi al comportamento utilitaristico degli attori, e considerando le istituzioni come un dato, l’economia ha potuto sviluppare modelli teorici a elevata generalizzazione. Su questa base ha anche affinato strumenti previsivi e normativi. Tuttavia, sul piano più specificamente interpretativo, emergono difficoltà quando occorre misurarsi con contesti in cui il mercato autoregolato ha un ruolo limitato o addirittura nullo (es. contesti precapitalistici) o quando si vuole rispondere a domande del tipo: perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri? perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri? In questi casi presenta dei vantaggi la prima definizione la quale si apre maggiormente allo studio dell’interazione tra economia e società ed è quindi più vicina alla prospettiva della sociologia economica ma anche dell’antropologia e della storia economica. Tali discipline hanno un’ottica diversa dall’economia e guardano all’attività economica come un processo istituzionalizzato (non si parte dal singolo individuo isolato ma si
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SOCIOLOGIA ECONOMICA
I. Profilo storico (Carlo Trigilia)
Introduzione. Che cosa è la sociologia economica
Il campo di studio della sociologia economica è caratterizzato da un insieme di studi e ricerche volti ad
approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali.
DUE DEFINIZIONI DI ECONOMIA
Karl Polanyi (1977) ci suggerisce due definizioni di economia:
1) possiamo guardare all’economia come all’insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una
società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi (questa definizione non è condivisa da tutti gli
economisti);
2) possiamo guardare ai fenomeni economici come sinonimi di “economizzare”, cioè porre l’accento su attività
che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi,
al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi (è quella che prevale nei testi di economia). Qui i soggetti
perseguono razionalmente gli interessi individuali (es. si suppone che ciascun individuo sarà propenso a
comprare più quantità di un bene se il prezzo è basso per effetto dei rapporti tra domanda e offerta, e viceversa
se il prezzo è alto). Dall’incontro della domanda dei consumatori e dei produttori sul mercato dipenderà la
quantità effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo.
Se nelle società primitive le attività economiche si svolgono nell’ambito delle strutture familiari e parentali che
regolano le modalità di produzione, nei grandi imperi dell’antichità lo stato assume un ruolo essenziale nella
regolazione delle attività economiche. Nelle società capitalistiche, che si basano sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione, l’economia si emancipa dai controlli sociali e politici ed i mercati si “autoregolano” e l’allocazione
delle risorse e la formazione dei prezzi sono condizionati dai rapporti tra domanda e offerta.
Le definizioni dei fenomeni economici che abbiamo richiamato non devono essere considerate come alternative ma
come due modi diversi di guardare all’economia da cui discendono vantaggi e limiti che è bene conoscere.
La seconda definizione è la più diffusa tra gli economisti ed ha consentito un notevole avanzamento delle
conoscenze sui meccanismi autoregolativi dell’economia (sull’influenza dei movimenti della domanda e
dell’offerta sulla formazione dei prezzi e sull’allocazione delle risorse). Operando con pochi assunti semplici
relativi al comportamento utilitaristico degli attori, e considerando le istituzioni come un dato, l’economia ha
potuto sviluppare modelli teorici a elevata generalizzazione. Su questa base ha anche affinato strumenti previsivi e
normativi.
Tuttavia, sul piano più specificamente interpretativo, emergono difficoltà quando occorre misurarsi con contesti in
cui il mercato autoregolato ha un ruolo limitato o addirittura nullo (es. contesti precapitalistici) o quando si vuole
rispondere a domande del tipo: perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri? perché alcuni paesi si
sono industrializzati prima di altri?
In questi casi presenta dei vantaggi la prima definizione la quale si apre maggiormente allo studio dell’interazione
tra economia e società ed è quindi più vicina alla prospettiva della sociologia economica ma anche
dell’antropologia e della storia economica. Tali discipline hanno un’ottica diversa dall’economia e guardano
all’attività economica come un processo istituzionalizzato (non si parte dal singolo individuo isolato ma si
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considerano le istituzioni che regolano le attività economiche). Per istituzioni si intende un complesso di norme
sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che tendono a garantirne il rispetto da
parte dei singoli soggetti. Le sanzioni possono essere:
- positive: se incentivano un certo comportamento;
- negative: se tendono ad impedire un certo tipo di azioni;
- informali: se si basano sulla disapprovazione degli altri;
- formali: se stabilite dalla legge (norme giuridiche).
Per il momento è opportuno sottolineare che il concetto di istituzione si riferisce, nel linguaggio sociologico, a un
insieme di fenomeni più ampio di quello che viene di solito preso in considerazione dal linguaggio comune (che si
riferisce alle istituzioni politiche).
E’ bene non confondere le istituzioni con le organizzazioni che sono invece le collettività concrete che coordinano
un insieme di risorse umane e materiali per il raggiungimento di un determinato fine (es. imprese, sindacati, camere
di commercio, ecc.).
Mentre a un’organizzazione possono essere imputate delle azioni, ciò non è possibile per le istituzioni.
Guardare alle istituzioni equivale a gettare un ponte tra economia e società; consente di storicizzare i fenomeni
economici. Non si parlerà dunque di economia in generale ma per esempio di economia capitalistica, feudale, delle
società primitive, ecc.
Il concetto di sistema economico acquisisce un rilievo cruciale in questa prospettiva; esso tende a sottolineare le
diverse modalità, nello spazio e nel tempo, attraverso le quali le istituzioni orientano e regolano le attività
economiche.
LA SOCIOLOGIA ECONOMICA SECONDO SCHUMPETER E WEBER
La differenza di prospettiva tra l’economia e le altre scienze sociali emerge anche da una famosa definizione di
Joseph Schumpeter (1954) che attribuisce alla sociologia economica il compito di spiegare come le persone sono
giunte a comportarsi in un certo modo (specificando che le azioni devono essere messe in rapporto con le istituzioni
che sono rilevanti per il comportamento economico: stato, proprietà privata, contratti, sindacati, ecc.). La sociologia
economica, insieme alla storia e alla statistica, è presentata da questo autore come uno strumento che l’economista
teorico dovrebbe padroneggiare.
La definizione di Schumpeter è in sintonia con quello di sociologi dell’economia che non si sofferma soltanto
sull’influenza del contesto istituzionale sull’economia, ma anche sul condizionamento inverso (es. valutare come le
strutture economiche capitalistiche abbiano favorito una conflittualità sociale e politica che ha, a sua volta, portato
a estendere l’intervento dello stato nell’economica e il ruolo del sindacato e delle relazioni sindacali). La
bidirezionalità dell’indagine – dalla società all’economia e dall’economia alla società – consente di mettere a fuoco
il cambiamento delle strutture economiche.
Anche per Max Weber una scienza economico-sociale è sostanzialmente una scienza dei rapporti di
interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. Per Weber, mentre l’economia si concentra soprattutto sulla
formazione del mercato e dei prezzi nella moderna economia di scambio, la sociologia economica si preoccupa
principalmente di mettere in luce i fenomeni economicamente rilevanti (l’influenza esercitata da istituzioni non
economiche, come quelle religiose o politiche, sul funzionamento dell’economia) e quelli economicamente
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condizionati (mettono in evidenza come gli orientamenti politici, o religiosi, ecc., siano influenzati da fattori
economici).
Weber si confronta esplicitamente con Marx in quanto non può accettare sul piano scientifico un’interpretazione
tendente a ricondurre esclusivamente a cause economiche i caratteri di una determinata società.
La formulazione di generalizzazione, che Weber chiama idealtipi, ha specifiche limitazioni spazio-temporali ed è
essenzialmente finalizzata al miglioramento della conoscenza storica (in nessun caso deve condurre alla ricerca di
leggi generali che pretendano di individuare nessi causali tra aspetti economici e non economici al di là di un
contesto storico).
Per Talcott Parsons (1937) invece la finalizzazione delle generalizzazioni teoriche all’indagine storica costituisce
un limite allo sviluppo scientifico della sociologia che va superato.
Tuttavia, i tentativi operati in direzione di modelli teorici a elevata generalizzazione non hanno dato, in generale,
risultati soddisfacenti.
SOCIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIA ECONOMICA
Possiamo meglio mettere a fuoco in che cosa differiscano le prospettive analitiche di queste discipline
considerandone:
a) l’oggetto di studio privilegiato;
b) gli strumenti utilizzati;
c) il grado di generalizzazione teorica.
Antropologia economica
a) le società primitive;
b) l’osservazione partecipante;
c) è scarso (generalmente si parla di reciprocità come categoria per interpretare le forme istituzionali di
organizzazione economica delle società primitive).
Storia economica
a) il passato;
b) analisi documentaria;
c) l’elaborazione e la discussione di generalizzazioni teoriche esplicite è molto più limitata e spesso considerata
con diffidenza.
Sociologia economica
a) società contemporanee;
b) analisi documentaria e indagine empirica basata su interviste o su raccolta diretta di informazioni trattabili
anche quantitativamente;
c) si punta maggiormente a elaborare generalizzazioni teoriche sui rapporti tra fenomeni economici e non
economici (nella pratica di ricerca prevale la formulazione di modelli teorici limitati a particolari contesti
spazio-temporali).
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LO STATUS SCIENTIFICO DELLA DISCIPLINA
Dalla discussione precedente emerge un’immagine della sociologia economica che si colloca in una posizione
intermedia tra l’ottica generalizzante dell’economia e quella più individualizzante della storia.
La concezione monista positivista dell’attività scientifica incontra dei problemi se viene applicata ai fenomeni
sociali.
Secondo tale concezione non esistono differenze qualitative tra scienze fisiche e naturali e scienze sociali:
a) esiste un solo metodo scientifico che si basa sulla formulazione di ipotesi e sulla verifica empirica;
b) l’attività conoscitiva è diretta all’elaborazione di spiegazioni causali dei fenomeni;
c) l’attività scientifica attraverso l’accumulazione delle conoscenze, tende a formulare leggi generali;
d) la differenza di oggetto tra scienze fisiche e naturali e scienze sociali comporta solo specifici problemi tecnici
per queste ultime.
Raymond Boudon (1984) attraverso l’uso di alcuni esempi smentisce le affermazioni dei punti c) e d).
La teoria economica prevede che se il prezzo di un prodotto sale, la domanda di quel prodotto scende. Ma non è
sempre così perché bisogna supporre che il secondo bene abbia le stesse caratteristiche del primo e che sia
conosciuto dal consumatore altrimenti lo stesso potrebbe scegliere di spendere di più ma continuare a comprare il
primo bene. Nella scelta individuale intervengono sempre dei margini di incertezza che ostacolano la formulazione
di previsioni generali.
Altro esempio può essere quello della formulazione di una legge del tipo: se peggiorano le condizioni economiche,
aumenta la violenza collettiva (rivolte, agitazioni, scioperi). Gli studi storici ed empirici non confermano questa
connessione, almeno nella sua pretesa generalità. Per esempio occorrono dei leader che organizzino la protesta i
quali valuteranno l’esistenza di libertà di manifestazione oppure la forza degli apparati repressivi, ecc.
Questi semplici esempi ci mostrano la difficoltà di formulare leggi del tipo “se A, allora B” nello studio dei
fenomeni sociali.
Anche la concezione dualista storicista (in base alla quale solo le scienze della natura possono stabilire nessi causali
generali ed ogni fenomeno sociale ha invece un carattere distinto e non è possibile alcuna generalizzazione di tipo
teorico) non si addice alla sociologia economica.
Lo status scientifico della sociologia economica, e delle scienze sociali in genere, può essere fondato su una
concezione diversa dal monismo e dal dualismo. L’applicazione del metodo scientifico non richiede
necessariamente la formulazione di leggi generali. Le scienze sociali possono invece aspirare alla formulazione di
modelli. Mentre le legge ha una pretesa di applicabilità generale, i modelli sono ricostruzioni ideali di situazioni
particolari, definite da specifiche condizioni che ne limitano la validità nello spazio e nel tempo.
L’individualismo metodologico cerca di spiegare i fenomeni sociali partendo dalle motivazioni individuali e si
contrappone all’olismo metodologico (es. si studia l’influenza del livello complessivo di istruzione sullo sviluppo
economico, ma non si tiene adeguatamente conto delle motivazioni degli attori).
Per trattare la società come la natura occorre in tutti i casi sbarazzarsi degli attori e ridurli a stereotipati esecutori
delle costrizioni del sistema.
IL PLURALISMO INTERPRETATIVO: SCIENZA E VALORI
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La linea di frattura tra individualismo e olismo metodologico attraversa la storia delle scienze sociali alimentando il
pluralismo interpretativo (cioè la coesistenza di diversi modelli interpretativi in concorrenza tra loro).
I due problemi principali sono dunque la complessità dell’oggetto di indagine (le condizioni che influenzano
l’azione dell’uomo sono molteplici e variano nello spazio e nel tempo) ed il margine di discrezionalità del
ricercatore che fa parte della società che studia ed ha quindi le sue preferenze ed i suoi criteri di orientamento che lo
guidano in un senso piuttosto che in un altro.
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PARTE PRIMA
DALL’ECONOMIA ALLA SOCIOLOGIA ECONOMICA
CAPITOLO 1
ECONOMIA E ISTITUZIONI NELLA FORMAZIONE DELL’ECONOMIA CLASSICA
L’economia come disciplina nasce nel corso del 1700 quando le attività economiche si emancipano da controlli e
vincoli sociali e sono regolate dal mercato.
Karl Polanyi (1968) ci aiuterà a comprendere il rapporto tra economia e sociologia economica.
Polanyi si è valso dei contributi dell’antropologia e della storia nello studio delle economie primitive. In questi
contesti le attività economiche sono incorporate in un sistema di istituzioni non economiche con la conseguenza
che la produzione e lo scambio dei beni legati all’agricoltura, all’allevamento, alla pesca e all’artigianato possono
essere organizzati sulla base di due principi:
- reciprocità: si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di solidarietà condivisi nei
riguardi degli altri membri del gruppo parentale o della tribù. Tali obblighi sono di solito legati alle prescrizioni
di una religione prevalente. Non è il guadagno individuale che incentiva il comportamento economico dei
singoli;
- redistribuzione: al principio della reciprocità può affiancarsi quello della redistribuzione (es. le norme sociali
prevalenti possono prescrivere che al capo del villaggio o della tribù vengano consegnati determinati prodotti.
Questi verranno immagazzinati, conservati e successivamente redistribuiti in occasioni cerimoniali particolari.
Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi sociali condivisi, ma da specifiche regole
formali fatte valere dal potere politico, pur se di solito legittimate in termini religiosi (es. grandi imperi
burocratici come quello romano, egiziano).
Secondo Polanyi, non è possibile un’indagine sull’economia che prescinda dallo studio delle strutture politiche in
cui le attività economiche sono incorporate.
Nel contesto europeo, a partire dal Medioevo si viene costituendo uno spazio crescente e autonomo del mercato
come strumento di organizzazione dell’attività economica, a spese delle altre due forme di integrazione (reciprocità
e redistribuzione). Non bisogna comunque identificare tutti i tipi di scambio con lo scambio di mercato, ve ne sono
tre tipi:
- scambio di doni: tipico della reciprocità;
- scambio amministrato: caratterizzato da transazioni rigorosamente controllate dal potere politico (economie
arcaiche dei grandi imperi);
- scambio di mercato: in senso stretto.
Nel corso dell’Ottocento, i mercati autoregolati (che determinano i prezzi attraverso il gioco tra domanda e offerta)
diventano lo strumento primario da cui dipende la produzione e distribuzione di beni e servizi nei paesi più
sviluppati. L’ordinamento politico si limita a garantire dall’esterno i diritti di proprietà e la libera contrattazione. È
in questo quadro che si può sviluppare un’indagine economica autonoma basata sulle leggi del mercato. Polanyi
sottolinea che solo l’emancipazione e l’autonomizzazione delle attività economiche dai condizionamenti sociali e
politici rende possibile l’economia come scienza.
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Ma occorre evitare di sovrastimare il ruolo dello scambio di mercato nell’economia anche in quei contesti dove
esso è particolarmente sviluppato. Nel capitalismo ottocentesco il predominio del mercato concorrenziale non è
stato mai totale. Nelle società contemporanee, per reagire agli effetti destabilizzanti del mercato, queste società
hanno teso a reincorporare in parte l’economia cercando di sviluppare nuove forme di regolamentazione politica e
sociale delle attività economiche.
In tutti questi casi si apre uno spazio che può essere ricoperto da quella che Polanyi definiva un’analisi istituzionale
dell’economia e che noi possiamo considerare come lo spazio della sociologia economica. Essa ha il compito di
chiarire il posto delle economie nelle società ovvero si sforzerà di mostrare come le attività economiche siano
collegate alle strutture sociali.
Ma questa separazione non era originariamente così netta: l’economia classica, soprattutto nella versione di Adam
Smith, aveva una sua sociologia economica. Ed è da qui che dobbiamo partire.
LA FORMAZIONE DELL’ECONOMIA POLITICA
È solo nella seconda metà del ‘700, con i fisiocratici e con l’opera di Adam Smith, che l’idea di una sfera
economica come sistema autonomo di parti tra loro interagenti giunge a maturazione. Diventa anche più netta la
distinzione tra analisi scientifica del funzionamento dell’economia e proposte di politica economica (suggerimenti
al potere politico per interventi di regolazione).
Cercheremo di mettere in evidenza come la formazione dell’economia politica si accompagni a una riflessione
esplicita e consapevole sui rapporti tra economia e società. vi è dunque una sociologia economica che precede
quella poi sviluppatasi all’interno della tradizione sociologica, e in un certo senso ne costituisce il presupposto. Il
confronto con l’economia politica sarà infatti una componente essenziale della prospettiva sociologica.
I mercantilisti
Nel 1600 si diffonde una pratica di economia politica, cioè di analisi dei caratteri e dei problemi delle attività
economiche strettamente finalizzata agli obiettivi di rafforzamento dei nascenti stati nazionali. Con il pensiero
mercantilista si fa strada invece una valutazione più autonoma e scientifica dei fenomeni economici, soprattutto da
due punti di vista tra loro collegati (il comportamento economico viene visto come sostanzialmente guidato
dall’interesse personale in termini di guadagno; viene riconosciuto il ruolo dello scambio di mercato nel senso
prima chiarito, cioè l’influenza della domanda e dell’offerta nella formazione dei prezzi). Nel ‘600 i commerci
avvengono ormai tra gli stati nazionali e ne condizionano la potenza politica. Le monarchie europee erano
interessate a promuovere l’attività commerciale e la penetrazione coloniale per rafforzarsi nella competizione
internazionale. L’obiettivo primario era quello di garantire un afflusso di moneta metallica (oro, argento). Erano
favorite le importazioni di materie prime a buon mercato, mentre si sosteneva la produzione nazionale di manufatti
con dazi protettivi nei riguardi della concorrenza estera. Il protezionismo, tipico in generale di questa esperienza
storica, riflette una situazione di limitata emancipazione dell’attività economica.
Gli uomini che cominciano a osservare con spirito positivo le vicende economiche sono essenzialmente degli
uomini pratici, che non vendono dalle università, e si pongono un obiettivo concreto: come migliorare l’economia
nazionale. Il modello di analisi che si propongono è di tipo macroeconomico (essi verranno rivalutati da Keynes). I
mercantilisti puntano molto sulla ricchezza nazionale identificata con la moneta metallica disponibile (oro, argento)
per cui tendono a mantenere la bilancia commerciale in attivo con la politica protezionistica.
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I mercantilisti hanno un orientamento di tipo induttivo e concreto (in sintonia con l’empirismo della tradizione
culturale inglese) a differenza dei fisiocratici, deduttivi ed in sintonia con il razionalismo dominante nel contesto
intellettuale francese.
I fisiocratici
Rispetto ai mercantilisti essi formano una vera scuola scientifica in senso moderno. Il periodo di maggior influenza
della corrente fisiocratica si colloca intorno alla metà del ‘700. François Quesnay è il fondatore della scuola.
Il clima intellettuale in cui maturano le idee dei fisiocratici è quello della Francia negli anni che precedono la
Rivoluzione. Essi sono preoccupati per la situazione economica e finanziaria del paese. Le crescenti spese militari,
e quelle per il mantenimento della corte di Versailles, avevano portato ad una maggiore pressione fiscale
sull’agricoltura. I fisiocratici sostengono un progetto di riforma dell’agricoltura e sviluppano una critica severa nei
confronti delle politiche mercantilistiche. Occorreva liberare l’agricoltura da vecchi vincoli di origine feudale,
liberalizzare il commercio cerealicolo, razionalizzare il sistema fiscale con un’imposta unica. Ma il tutto doveva
avvenire senza intaccare i diritti di proprietà dell’aristocrazia e il ruolo della monarchia.
Vediamo meglio come si è sviluppata questa operazione. Fisiocrazia significa “governo della natura”. I fisiocratici
partono infatti dall’assunto che esistono leggi naturali della società simili a quelle che governano il mondo fisico.
Esiste un “ordine sociale naturale” che può essere conosciuto per mezzo della ragione. Quanto più la società si
organizzerà in modo confacente a queste leggi, con l’aiuto della scienza, tanto più potrà aumentare sia il benessere
individuale che quello collettivo. Non è il commercio e l’afflusso di moneta a creare ricchezza, e nemmeno la
manifattura, ma solo l’agricoltura ha la virtù di dare, con i suoi raccolti, un reddito aggiuntivo rispetto alle risorse
in essa investite.
Questo è il punto su cui si concentreranno maggiormente le critiche successive, a partire da quella di Smith.
Mentre verrà apprezzato, rispetto al mercantilismo, lo spostamento di ottica dall’analisi degli aspetti monetari a
quelli “reali” della produzione della ricchezza nazionale, si considererà ingiustificato il ruolo attribuito
all’agricoltura a scapito di quello dell’industria.
Se si esclude il ruolo particolare attribuito all’agricoltura, sono dunque presenti, e più o meno sviluppati, nella
fisiocrazia una serie di elementi che confluiranno nel patrimonio dell’economia classica:
- l’idea di leggi naturali dell’economia studiabili autonomamente;
- l’identificazione del comportamento economico come motivato sulla base del guadagno;
- le positive conseguenze, economiche e sociali, attribuite al libero perseguimento dell’interesse individuale
attraverso il mercato;
- un ruolo delle istituzioni politiche che, a differenza di quanto ipotizzavano i mercantilisti, deve limitarsi a
garantire il diritto di proprietà e la sicurezza dei traffici.
LA “GRANDE SINTESI” DI ADAM SMITH
Per i fisiocratici, il libero perseguimento dell’interesse individuale è in grado di conciliare “naturalmente”, per
mezzo del mercato, benessere individuale e collettivo.
Per Smith non è così (nonostante uno stereotipo diffuso ne abbia fatto il paladino del laissez-faire, ma tale
espressione non gli appartiene), la ricerca dell’interesse individuale e il funzionamento del mercato possono
favorire il benessere collettivo solo se sono controllati da precise regole istituzionali (socioculturali, giuridiche,
politico-organizzative). Lo studio di tali vincoli istituzionali è parte integrante, per Smith, dell’indagine sulle
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“cause della ricchezza delle nazioni”. Economia e sociologia economica sono pertanto strettamente collegate nella
sua opera.
Adam Smith (1723 – 1790) nasce e si forma in Scozia e per più di dieci anni insegna filosofia morale
nell’Università di Glasgow.
Pubblica La teoria dei sentimenti morali (1759).
Dopo un viaggio in Francia, nel quale ebbe contatti con esponenti dell’illuminismo e con i fisiocratici, torna in
Scozia e scrive Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776).
Nel contesto scozzese (influenzato dal filosofo Hume) nasce una prima concezione sociologica dell’azione umana
come un’azione istituzionalizzata e cioè influenzata dai valori e dalle norme che prevalgono storicamente in una
determinata società (distaccandosi dall’uomo naturalmente egoista di Hobbes e anche dall’uomo naturalmente
guidato dalla ragione di Locke e dei fisiocratici).
I fondamenti sociali dell’azione economica
Il perseguimento dell’interesse individuale è per Smith una molla importante del comportamento umano ma tende a
essere regolata da norme condivise dai membri della società (il termine simpatia che usa Smith si avvicina a quello
che oggi possiamo chiamare processo di socializzazione).
Il comportamento economico non può essere per Smith spiegato con una naturale tendenza alla ricerca della
ricchezza ma è influenzato dalle norme sociali (il guadagno individuale non deve essere considerato un fine in sé,
come un obiettivo naturale dell’uomo, ma piuttosto uno strumento per ottenere approvazione sociale). Il desiderio
di migliorare le proprie condizioni appare come un dato permanente del comportamento umano, ma esso è
alimentato dal bisogno di approvazione sociale.
Che l’azione economica motivata dalla ricerca del massimo guadagno abbia origini non economiche è anche
confermato dall’analisi dello sviluppo capitalistico nelle campagne che Smith proporrà nel libro III della Ricchezza
delle nazioni: le grandi proprietà terriere di origine feudale non erano condotte in modo efficiente in quanto non vi
erano gli stimoli al miglioramento produttivo (il grande proprietario bada più agli ornamenti che soddisfano la sua
fantasia che ad un profitto di cui non ha bisogno; non ci si può inoltre aspettare un interesse al miglioramento
produttivo della terra da parte dei lavoratori ridotti a servi della gleba).
Diversa è la situazione nelle città che nel periodo medievale hanno visto consolidarsi le libertà comunali: quando
gli uomini sono sicuri di godere i frutti delle loro attività, cercano naturalmente di migliorare la loro condizione
(crescono dunque le attività commerciali e manifatturiere cittadine).
Iniziano così a diffondersi i beni di lusso che spingono i grandi proprietari terrieri a procurarseli e quindi ad
introdurre cambiamenti rilevanti nell’organizzazione produttiva delle campagne.
Secondo la teoria dei quattro stadi di Smith vi sono quattro stadi dello sviluppo storico che si succedono nel tempo
e che sono caratterizzate da un tipo di organizzazione economica prevalente:
- caccia
- pastorizia
- agricoltura
- commercio
Ne consegue che le istituzioni che governano la società cambiano storicamente; l’azione economica è socialmente
determinata e storicamente variabile.
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Smith è quindi molto lontano sia dal razionalismo astratto dei fisiocratici che dall’utilitarismo individualistico che
attribuisce al singolo una naturale propensione a massimizzare il proprio interesse.
C’è chi vede una contraddizione tra la teoria dell’azione presente nella prima opera di Smith e quella di tipo
utilitaristico che sarebbe invece al centro della Ricchezza. Ciò è dovuto al fatto che nel primo lavoro egli mette a
punto una teoria del comportamento individuale come socialmente condizionato e nella seconda invece esplora le
conseguenze economiche che discendono dal diffondersi dei nuovi comportamenti.
Produzione dei beni e distribuzione dei redditi in una “società commerciale”
In una società commerciale l’attività economica non è più regolata in maniera prevalente dalla reciprocità e dalla
redistribuzione ma dallo scambio di mercato.
Ma in che modo la cura del proprio interesse in un contesto di libero mercato porta a risultati ordinati e prevedibili
dal punto di vista economico?
Come risposta possiamo esaminare due aspetti:
- la determinazione della quantità di beni prodotti: se si suppone che vi sono molti venditori, che le informazioni
circolino liberamente, che le risorse di capitale e di lavoro possano essere spostate da un impiego all’altro,
allora la quantità di beni prodotti tenderà a corrispondere alla domanda effettiva esistente per tali beni. Smith
distingue tra prezzo di mercato (riflette le oscillazioni di breve periodo della domanda e dell’offerta) e prezzo
naturale (si afferma nel lungo periodo e riflette il costo di produzione).
- la determinazione dei redditi distribuiti ai partecipanti all’attività economica: si suppone l’esistenza di un
prezzo definito dal mercato per salari, profitti e rendite:
- salario: vi sono dei meccanismi che spingono il prezzo di mercato verso un prezzo naturale che tende a
coincidere con il salario di sussistenza (teoria dei salari di sussistenza di Malthus). Gli operai spingono per
ottenere salari sempre più alti mentre i datori di lavoro per diminuirli. Prevalgono questi ultimi perché sono
riescono più facilmente a coalizzarsi essendo in numero minore e resistendo più a lungo. Se i salari
scendono al di sotto del livello di sussistenza interviene un meccanismo demografico che porta attraverso il
calo delle nascite allo ristabilimento dell’equilibrio. Smith fa un uso molto cauto di questa teoria dicendo
che vale soprattutto per gli strati sociali inferiori. Egli ritiene in generale che i salari sono destinati a
crescere per effetto dello sviluppo economico, che fa aumentare la domanda di lavoro;
- profitto: anche i profitti sono determinati dal rapporto tra domanda e offerta del mercato (il mercato degli
impieghi di capitale);
- rendita:
Perché possa avvenire tutto questo occorre che il quadro istituzionale della società si modifichi diventando una
società capitalistica in cui:
- vi è una classe di lavoratori salariati le cui condizioni di vita dipendono dalla vendita del loro lavoro sul
mercato;
- si affermi una classe di capitalisti che abbiano le risorse per avviare il processo produttivo e le cui condizioni di
vita dipendono dal profitto conseguito con l’investimento del capitale;
- che i proprietari terrieri traggano a loro volta il sostentamento dalla possibilità di affittare la terra ai capitalisti
agrari che la coltivano pagando loro una rendita.
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In un contesto capitalistico, il prezzo naturale delle merci viene determinato da un calcolo dei costi di produzione
che oltre al salario del lavoro deve includere anche il profitto e la rendita.
Lo sviluppo economico e le istituzioni
Perché le istituzioni del capitalismo possono assicurare efficienza economica e consenso?
La concorrenza determina un’allocazione efficiente delle risorse all’interno di una determinata attività, perché
spinge i prezzi ad avvicinarsi ai costi di produzione e perché spinge capitale e lavoro a spostarsi verso gli impieghi
più vantaggiosi, riducendo così le differenze di rendimento.
Gli economisti sono stati comprensibilmente affascinati dalle capacità ordinatrici di questa “macchina” per cui ogni
singolo soggetto “mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che
non rientra nelle sue intenzioni ………… perseguendo il suo interesse egli spesso persegue l’interesse della società
in modo molto più efficace di quanto intende effettivamente perseguirlo”.
Smith oltre all’efficienza statica del mercato e cioè alla ripartizione efficiente di risorse date in cui le istituzioni
sono un dato, era interessato anche all’efficienza dinamica e cioè alla creazione di nuove risorse in cui le istituzioni
diventano una variabile.
Il mercato può avere una funzione dinamica, può sostenere lo sviluppo economico, se è regolato da istituzioni
appropriate.
Per Smith è particolarmente importante la divisione del lavoro perché aumenta la produttività cioè la quantità di
lavoro che lo stesso numero di persone può svolgere (perché accresce l’abilità di ogni singolo operaio; perché si
risparmia tempo a non passare da un lavoro all’altro; perché si facilita l’invenzione di macchine che riducono il
tempo di lavoro).
La divisione del lavoro varia con l’entità degli investimenti (+ investimenti + concorrenza + specializzazione
produttiva).
Per comprendere il ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico possiamo ricordare due temi toccati nella
Ricchezza:
1) i vantaggi del capitalismo concorrenziale su quello monopolistico nelle manifatture e nel commercio: Smith
critica le politiche protezionistiche e di incentivazione del mercantilismo e pensa che, una volta eliminate le
barriere istituzionali dovute a politiche economiche errate, la società civile sia spontaneamente in grado di
produrre un’imprenditorialità diffusa, tale da alimentare mercati concorrenziali. Supponiamo che sia diffusa
una situazione di capitalismo concorrenziale: perché per Smith questa è superiore ad una situazione di
monopolio? Perché:
a) nel monopolio non vi è una efficiente allocazione delle risorse per cui il consumatore ha a disposizione
quantitativi inferiori di merce ad un prezzo più alto;
b) con la concorrenza si abbassano i tassi di profitto con conseguente stimolazione dell’imprenditorialità del
singolo capitalista per far crescere la produttività introducendo innovazioni tecnologiche (quindi impegno
diretto del capitalista e contrarietà al modello impersonale delle società per azioni);
c) Smith considerava negativamente l’organizzazione sindacale (per i rischi di distorsione del mercato del
lavoro) e riteneva opportuna, per migliorare la produttività, una politica unilaterale di alti salari da parte
degli imprenditori. Salari più alti rendono gli operai più attivi e svelti e, come dimostra l’esperienza
nordamericana, incoraggiano gli operai ad impegnarsi per diventare proprietari egli stessi;
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2) il ruolo dello Stato nello sviluppo economico: abbiamo già visto che per Smith per il formarsi ed il riprodursi
del capitalismo concorrenziale sia necessario che lo stato:
a) assicuri la libertà commerciale;
b) garantisca la proprietà privata;
c) limiti il suo intervento nell’economia rinunciando alle pratiche mercantilistiche;
d) assicuri la difesa nazionale;
e) garantisca l’amministrazione della giustizia;
f) provveda ad opere pubbliche necessarie per l’attività economica e l’istruzione.
È importante sottolineare che Smith si preoccupava, non solo di quello che lo stato non avrebbe dovuto fare per
sostenere l’economia, ma anche di ciò che avrebbe dovuto fare, e del modo migliore di farlo. Per Smith
l’efficienza delle istituzioni pubbliche è dipendente dalla capacità di organizzare l’attività di chi vi lavora sulla
base di meccanismi di responsabilizzazione che leghino il più strettamente possibile remunerazione e impegno
professionale (remunerare adeguatamente giudici e insegnanti universitari per contrastare i rischi di scarso
rendimento e di corruzione). Il modo in cui Smith si occupa delle istituzioni pubbliche conferma ulteriormente
che egli non può essere genericamente considerato come un alfiere del laissez faire.
A questo punto possiamo tornare alla domanda posta all’inizio di questo paragrafo. Perché queste istituzioni sono
in grado di conciliare efficienza economica e consenso?
Per due motivi:
1) perché producono più sviluppo e con lo sviluppo aumenta il benessere di tutte le classi sociali (diffusione di
prodotti a basso prezzo e quindi fruibili anche dalle classi più povere);
2) perché il mercato concorrenziale riduce le disuguaglianze (porta a bassi profitti e alti salari) e fa dipendere
maggiormente dall’impegno individuale nel lavoro. Il desiderio di migliorare la propria condizione produce
beneficio collettivo e concilia sviluppo economico e consenso.
Smith credeva nella capacità diffusiva dello sviluppo ritenendo che i benefici del mercato concorrenziale si
sarebbero imposti ad aree territoriali sempre più vaste. Così, ciascun paese avrebbe potuto importare ciò che era
prodotto dagli altri a costi minori, specializzandosi a sua volta in quelle produzioni in cui poteva essere più
competitivo. Sviluppo e mercato concorrenziale avrebbero ridotto non solo le disuguaglianze sociali, ma anche
quelle territoriali.
Ne risulta una sorta di paradosso:
- da un lato, Smith contribuisce a mettere in luce l’importanza delle istituzioni, e della loro autonomia e
variabilità, per lo sviluppo economico;
- dall’altro, tende poi a sottovalutare, in prospettiva, la loro capacità di resistenza a lasciarsi plasmare dalla logica
del capitalismo concorrenziale.
Finisce così per immaginare un progresso lineare, continuo, omogeneizzante (così come vedremo in Marshall).
Questa immagine della società capitalistica in cui l’economia favorisce un’elevata capacità di integrazione sociale
sarebbe stata sottoposta a dure sfide a anche a smentite severe da parte della storia.
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CAPITOLO 2
LA SVOLTA ECONOMICISTA E I SUOI CRITICI: STORICISMO E MARXISMO
LA “SCIENZA TRISTE”
Con Malthus e Ricardo l’attenzione verte sui limiti naturali allo sviluppo economico. Si tratta di vincoli che
riguardano la tendenza alla crescita della popolazione, a fronte di una disponibilità ridotta e decrescente delle
risorse che la terra può dare. In questo quadro le possibilità di aumentare la ricchezza prodotta sono molto più
contenute di quanto non apparisse a Smith.
Questo orientamento dell’analisi economica (che portò più tardi Carlyle a parlare di scienza triste) matura in un
contesto, quello inglese, in cui si sviluppava la rivoluzione industriale ed il ruolo del mercato come strumento di
regolazione dell’attività economica si è ormai esteso e consolidato ma con conseguenze sociali pesanti (abbandono
delle campagne, urbanizzazione, condizioni di vita e di lavoro precarie e dure per una massa crescente di uomini,
donne e bambini).
È in questo quadro che Thomas Malthus (1766-1834), un ecclesiastico, concepisce il suo Saggio sul principio di
popolazione (1798): l’assunto fondamentale di questo lavoro è la costante tendenza che hanno tutti gli esseri
viventi a moltiplicarsi più di quanto lo permettano i mezzi di sussistenza di cui possono disporre. Di qui la minaccia
permanente di una sovrappopolazione. Un argine essenziale contro questa minaccia è costituito dalla legge ferrea
del salario:
- un aumento del salario porta i lavoratori, per una forza incontrollabile della natura, a moltiplicarsi;
- ne consegue una maggiore offerta di braccia e quindi più concorrenza sul mercato del lavoro;
- i salari sono così spinti nuovamente al livello di sussistenza;
- la popolazione eccedente si ridurrà naturalmente per la mancanza dei mezzi di sostentamento.
Le istituzioni non possono alterare le leggi dell’economia che hanno una forza naturale, devono solo adeguarvisi.
La società con le sue istituzioni non deve intralciare il funzionamento autonomo dell’economia. Per Malthus, lo
scopo del suo lavoro non è tanto di proporre disegni di miglioramento, quanto il mostrare la necessità di rassegnarsi
a quel modo di miglioramento che la natura ci prescrive.
David Ricardo (1772 – 1823), ex agente di cambio ritiratosi precocemente per dedicarsi agli studi, condivide la
vena pessimistica di Malthus ma è ancorato a più rigorose argomentazioni sul piano economico. Con Ricardo, il
pensiero economico assume in pieno quelle caratteristiche di rigore analitico-deduttivo e di astrazione che ne
avrebbero più connotato a fondo gli sviluppi successivi. Per Ricardo il problema fondamentale dell’economia
politica è la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del reddito tra i proprietari terrieri, i capitalisti
ed i lavoratori.
Per Smith la rendita, non incide sui profitti del capitalista e quindi sul tasso di accumulazione, ma è un residuo
(equivale a quello che resta del valore del prodotto una volta detratti profitti e salari necessari per la produzione).
Per Ricardo la rendita condiziona il livello dei profitti e dei salari e quindi il tasso di accumulazione e la crescita
della ricchezza. Occorreva eliminare ogni forma di protezionismo agricolo basata su dazi alle importazioni (con
questa sua posizione rigidamente liberista entrava in polemica con Malthus che nel conflitto di interesse tra
proprietari e capitalisti aveva invece preso una posizione favorevole ai primi).
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Malthus era giunto alla conclusione che fosse presente nell’economia capitalistica una tendenza alla
sovrapproduzione: le merci prodotti rischiavano di non essere tutte vendute per mancanza di una corrispondente
domanda effettiva da parte dei consumatori.
Questa ipotesi andava contro a quanto era stato sostenuto da Smith e che era poi stata codificata dall’economista
francese J.B. Say (1767 – 1832). Secondo la legge di Say ogni offerta di beni genera sempre una domanda
adeguata a soddisfarla (Ricardo restava fedele alla legge di Say che prevalse a lungo sul piano teorico e politico).
La discussione con Malthus contribuisce comunque a mettere in evidenza come il conflitto tra proprietari terrieri e
capitalisti influenzasse significativamente lo sviluppo economico. Ma vi è anche un secondo conflitto di interessi
che i due economisti, come del resto Smith, fanno emergere attraverso la loro analisi: quello tra imprenditori
capitalisti e lavoratori. In questo caso entrambi richiamano la legge ferrea che tende a mantenere i salari a livello
di sussistenza e non prendono in considerazione la possibilità che i lavoratori si organizzino per mutare le proprie
condizioni economiche.
Gli economisti classici sono di solito accomunati per avere una visione simile dell’indagine economica pur con
alcune differenze. Tutti questi autori assegnano all’analisi economica l’obiettivo di studiare lo sviluppo, i
meccanismi che regolano la crescita della ricchezza e le possibilità di aumentarla nel tempo. Nel perseguire queste
finalità essi considerano le modalità di distribuzione del reddito tra le classi sociali come un elemento cruciale da
cui dipende lo sviluppo economico.
Vi sono però delle differenze essenziali che forse devono essere messe più in luce.
Per i tre autori lo sviluppo economico è funzione dell’incremento del capitale investito. Ma da che cosa di pende
tale crescita?
Per Malthus e Ricardo essa dipende dall’aumento dei profitti (un saggio di profitto più elevato consente di avere
più risorse da investire e dà anche più incentivi a farlo). Ma mentre per Ricardo è necessario limitare con un rigido
liberismo la rendita agricola per Malthus è vero il contrario. Entrambi gli autori, sostengono che i salari sono
controllati dalla pressione demografica che li spinge verso il basso ed inoltre vedono nel lungo periodo dei limiti
naturali allo sviluppo economico, determinati dal combinarsi della pressione demografica e della limitatezza delle
terre disponibili (sottovalutano fortemente il ruolo del progresso tecnico).
Anche per Smith il capitale investito dipende dalla crescita complessiva dei profitti (non da un elevato saggio di
profitto bensì da un basso saggio di profitto) e da un alto saggio del salario. Bassi saggi di profitto e alti saggi
salariali stimolano la crescita della produttività favorendo la divisione del lavoro. Ciò crea un maggiore volume
complessivo di profitti e quindi maggiore ricchezza, a parità di lavoro, che può essere reinvestita in nuove attività.
Per Smith il progresso tecnico deve essere dunque incorporato nella spiegazione dello sviluppo economico: questo
lo porta ad essere più ottimista di Malthus e Ricardo.
Smith chiama in causa anche il ruolo di fattori non economici e cioè delle istituzioni che devono mantenere un
quadro concorrenziale e promuovere l’istruzione.
Altra differenza.
Per Smith gli attori economici sono dei soggetti che interpretano la situazione in cui operano e perseguono il loro
interesse secondo norme di condotta influenzate dal contesto sociale in cui agiscono (vi è quindi una variabilità di
comportamento che è funzione delle istituzioni). Per Smith quindi il problema dello sviluppo porta a
un’integrazione tra economia e sociologia economica.
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Non è così per Malthus e Ricardo che vedono l’attore economico come un soggetto che non interpreta con relativa
autonomia la situazione, ma come un mero calcolatore la cui azione è ricostruibile a partire dalla situazione in cui si
trova (essenzialmente la situazione di classe: es. la legge ferrea dei salari). A questo non è più necessario occuparsi
delle istituzioni per vederne gli effetti sui fenomeni economici. Economia e sociologia economica possono
separarsi. Questo comporta una maggiore precisione analitica e una più elevata possibilità di generalizzazione, ma a
costo di una perdita di aderenza alla realtà storico-empirica su cui si appunteranno le critiche che ora
considereremo.
Con l’estendersi dello sviluppo capitalistico, nel corso dell’800, il rapporto tra economia e società appare più
problematico. Le vecchie economie tradizionali e artigianali sono minacciate dalla concorrenza della produzione
industriale. Lo sviluppo economico e la diffusione del mercato determinano così nuove differenziazioni territoriali
che non accennano a colmarsi. La trasformazione delle campagne e la crescita della classe operaia si
accompagnano a condizioni di vita e di lavoro estremamente disagiate per masse crescenti di popolazioni (si profila
la nascente questione sociale.
In questo contesto, la sistemazione teorica dell’economia classica appare inadeguata e viene imputata ad essa
un’incapacità a spiegare i fenomeni concreti e a fornire una guida valida per l’intervento.
Possiamo individuare due tipi di critiche:
- lo storicismo tedesco: che si concentra sulle differenze territoriali dello sviluppo economico e sulle modalità
per colmarle;
- la critica di Marx: mette in discussione l’interpretazione dei rapporti tra le classi sociali nello sviluppo
capitalistico.
LO STORICISMO TEDESCO
Nei primi decenni dell’800 diversi autori, riconducibili alla scuola storica tedesca di economia politica, si sono
posti il problema delle differenze di sviluppo economico tra i vari stati nazionali. Essi hanno criticato l’astrattezza
degli schemi teorici dell’economia classica per l’incapacità di rendere conto di questa questione. La soluzione
doveva essere cercata in un’indagine che restasse più aderente alla realtà concreta e che quindi si servisse del
metodo storico piuttosto che di quello analitico-deduttivo. L’indagine storica doveva chiarire come aspetti culturali,
sociali, politici si combinassero con variabili economiche dando luogo a specifiche forme di organizzazione
dell’economia. Gli storicisti arrivarono a mettere in discussione l’orientamento rigidamente liberista dell’economia
classica legittimando forme di politica economica più interventiste, specie in termini di protezionismo doganale.
Gli storicisti tedeschi hanno in genere proposto classificazioni di diversi stadi di sviluppo dell’economia, risultanti
dalla combinazione di fattori economici e istituzionali:
- Friederich List (1789 – 1846), un precursore della scuola storica, assume come unità di analisi l’economia
nazionale. La prosperità di una nazione è grande non in rapporto all’accumulazione della ricchezza, ma in
rapporto allo sviluppo delle forze produttive. Critica l’economia classica per non tener adeguatamente conto del
ruolo delle istituzioni che condizionano l’evoluzione nel tempo delle diverse economie. Elabora una
classificazione basata su 5 stadi di sviluppo (primitivo, pastorale, agricolo, agricolo-manifatturiero e
commerciale). List sostiene che la marcata differenza tra i vari paesi in termini di industrializzazione richiedeva
politiche di protezione dell’industria nazionale. Un orientamento rigidamente liberista poteva essere
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conveniente per l’Inghilterra, le cui industrie erano più sviluppate; ma gli altri paesi, per vincere la concorrenza
inglese, dovevano sostenere le loro industrie fino a quando non fossero diventate competitive e solo a quel
punto un quadro di libero commercio avrebbe effettivamente contribuito allo sviluppo di tutto. Per le sue idee
List fu imprigionato ed esiliato ma la sua ricetta, pochi anni dopo, fu seguita dalla maggior parte dei paesi
avviatisi verso l’industrializzazione;
- Altri autori (Roscher, Knies, Hildebrand, Scholler, Bucher) hanno ripreso e sviluppato l’impostazione di List in
vari modi.
Bisogna dire che nel complesso la critica dello storicismo porta a un difetto opposto rispetto a quello imputato
all’economia classica: il rifiuto del metodo deduttivo a favore di quello storico conduce all’accumulo di materiale
empirico, a volte anche di interesse, ma la cui interpretazione appare problematica.
Sull’indeterminatezza teorica che caratterizza lo storicismo insisterà, con la sua nota critica, Weber (1903 – 1906).
LA CRITICA DI MARX
Marx critica gli economisti classici per l’incapacità di rendere adeguatamente conto del conflitto tra capitalisti e
lavoratori che caratterizza l’economia capitalistica ed avrebbe portato ad una società socialista. Egli sottolinea
l’esistenza di vincoli sociali legati alle istituzioni fondamentali dell’economia capitalistica, cioè la proprietà privata
dei mezzi di produzione e il lavoro salariato come strumenti che regolano la produzione dei beni e la distribuzione
dei redditi.
Alla visione armonica di Smith per cui l’economia capitalistica in regime liberista avrebbe favorito insieme la
crescita della ricchezza e la cooperazione tra le classi sociali, Marx (influenzato dall’idealismo di Hegel)
contrappone una visione dialettica per la quale il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi
sociali che porta a un intensificazione del conflitto, che a sua volta determina il superamento delle vecchie forme di
organizzazione economica.
Lo storicismo insiste sulle differenze nazionali che si accompagnano allo sviluppo economico, Marx su quelle di
classe. Mentre lo storicismo resta legato alla visione idealista dello sviluppo storico, in cui l’evoluzione culturale
condiziona l’organizzazione economica, Marx ribalta il rapporto tra aspetti culturali ed economico-sociali, sono
questi ultimi il vero motore dello sviluppo storico. Mentre gli storicisti si propongono di mostrare una generica
interconnessione tra i diversi aspetti della realtà sociale, Marx vuole invece formulare una teoria generale dello
sviluppo storico, all’interno della quale la sua attenzione di concentra sulla società capitalistica e sulle sue
trasformazioni, sulle sue leggi di movimento (nella prefazione al Capitale scrive: fine ultimo di quest’opera e
svelare la legge economica del movimento della società moderna).
Gli ingredienti intellettuali
Karl Marx (1818 – 1883) si forma all’Università di Berlino in un ambiente influenzato dalla filosofia hegeliana, la
sua formazione iniziale è filosofica e giuridica e solo più tardi si è accostato allo studio dell’economia politica.
Tra il 1843 e il 1845 durante la sua permanenza a Parigi si accosta al pensiero riformista e socialista francese e alla
tematica del conflitto di classe (Saint-Simon, Fourier, ecc.). Qui conosce Friedrich Engels (1820-1895) con il
quale avvia una collaborazione e un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita (con Engels scrisse nel 1846
L’ideologia tedesca rimasta inedita fino al 1937).
Lo studio dell’economia politica classica inglese lo svolgerà sistematicamente a Londra, a partire dal 1850, e darà
vita a due scritti:
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- Per la critica dell’economia politica (1859);
- Il Capitale (il primo volume pubblicato nel 1867; gli altri due furono pubblicati postumi a cura di Engels nel
1885 e nel 1894).
Nel pensiero di Marx troviamo una miscela complessa tra idealismo tedesco, socialismo francese ed economia
classica inglese in cui non è possibile separare l’economia dalla sociologia ed entrambe da una teoria generale dello
sviluppo storico. Marx vuole gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e
aspetti istituzionali sono strettamente collegati e non sono separabili (Marx e Engels si impegnano anche sul campo
politico come organizzatori del movimento dei lavoratori).
Egli resta fedele alla visione dialettica dell’idealismo hegeliano in cui la storia appare un continuo divenire
attraverso stadi diversi. Il motore del cambiamento deve essere cercato nei fattori economico-sociali, cioè nel modo
in cui gli uomini organizzano la produzione e permettono quindi alla società di mantenersi nel tempo. Le
condizioni economico-sociali prevalenti (i modi di produzione) generano nel tempo le forze sociali (le classi) che li
metteranno in discussione portando a forme di organizzazione economica e sociale diverse. L’obiettivo del
socialismo poteva essere concepito come un passaggio storico iscritto nelle leggi di movimento della società
capitalistica. Per questo Marx si considerava come fondatore di un socialismo scientifico, contrapposto alle utopie
dei precedenti pensatori socialisti. La teoria della storia basata sul materialismo dialettico apriva la strada al
socialismo scientifico. Ma la visione totalizzante in cui “un unico schema spiega tutto” impegnerà lungamente il
dibattito teorico e politico con interpretazioni fortemente divergenti.
La teoria dello sviluppo storico
Per Marx non è possibile separare analisi economica e contesto istituzionale. Egli critica i classici perché non
ritenevano che lo sviluppo dovesse portare inevitabilmente al conflitto di classe e che tale conflitto dovesse a sua
volta generare un superamento dell’economia capitalistica. Per Smith, lo sviluppo capitalistico avrebbe favorito la
cooperazione e l’integrazione sociale. Per Malthus e Ricardo, vincoli naturali legati alla dinamica demografica e
alla scarsa disponibilità di terra avrebbero in sostanza contribuito a mantenere la classe operaia a livello di
sussistenza, impedendole di organizzarsi efficacemente per cambiare le proprie condizioni.
Marx, insistendo sul ruolo delle istituzioni, si pone due obiettivi:
1) storicizzare l’analisi economica, individuando sia forme di organizzazione corrispondenti a società diverse (a
stadi differenti dello sviluppo storico), sia meccanismi di passaggio da uno stadio all’altro;
2) mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica e il mutamento che esso imprime
all’intera società.
Non è per Marx possibile studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la produzione è
sempre un processo sociale e non solo economico.
Da questa premessa discendono una serie di conseguenze tra loro collegate:
1) i rapporti sociali entro i quali gli individui producono (rapporti sociali di produzione) costituiscono per Marx
l’elemento essenziale dal quale bisogna partire nell’indagine su ogni forma di società. essi fondano la divisione
in classi nel senso che i membri di una determinata società si dividono a seconda del modo in cui partecipano
alla produzione. Marx insiste in tutta la sua opera sul fatto che la società capitalistica non può essere concepita
secondo il modello individualistico-utilitaristico dell’economia classica (individui isolati con pari opportunità
che si scambiano beni e servizi cercando di massimizzare il loro interesse). Gli attori che scambiano sul
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mercato non hanno pari opportunità e non sono su un piano di uguaglianza. Coloro che dispongono solo della
propria capacità di lavoro sono costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte da chi controlla i mezzi
di produzione, cioè dai capitalisti. Ma vediamo meglio in che modo;
2) i rapporti di produzione (che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, cioè
l’insieme dei mezzi materiali di produzione) costituiscono la struttura della società. Questa struttura economica
condiziona a sua volta l’organizzazione sociale e politica, l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo
culturale, religioso e artistico; che insieme rappresentano la sovrastruttura della società. Per Marx ci può essere
un certo ordine sociale in cui la classe dominante svolge un ruolo economico di sostegno allo sviluppo delle
forze produttive e non si fonda sulla coercizione (es. i valori della classe che controlla i mezzi di produzione
riescono a imporsi e sono condivisi anche dalla classe dominata; il potere culturale, sociale e politico, derivante
dal controllo dei mezzi di produzione, non incontra ostacoli e viene accettato dalle classi subalterne);
3) l’ordine sociale e la società, caratterizzata da un determinato modo di produzione, sono però destinati a
cambiare. Ciò avviene quando si forma una nuova classe sociale emergente che lotta contro la vecchia classe e
contro i vecchi rapporti di produzione che costituiscono ora un vincolo per le forze produttive. Nel corso del
conflitto viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Si diffondono nuove idee che criticano il
vecchio ordine e la classe in esso dominante. Le stesse istituzioni politiche non riescono più a difendere
adeguatamente la classe dominante e i preesistenti rapporti di produzione. Alla fine del processo un nuovo
modo di produzione si afferma;
4) Marx non rinnega mai il ruolo attivo nel processo storico della coscienza di classe e dell’azione politica, ma
resta profondamente convinto che questi fattori possono esplicarsi pienamente solo quando si hanno le
condizioni economiche favorevoli;
5) sulla base dello schema teorico precedente, vengono individuate quattro tipi di società:
a) antica: si basa sul modo di produzione basato sulla schiavitù;
b) feudale: ………. servitù della gleba;
c) borghese: ……… lavoro salariato;
d) asiatica: ………. in cui vi è subordinazione dei lavoratori agricoli allo stato;
La crescita delle forze produttive, stimolata dalla borghesia, porterà alla formazione di una nuova classe, quella
operaia, che cambierà il modo di produzione capitalistico e introdurrà il socialismo.
Questa teoria dello sviluppo storico ha esercitato un grande fascino per la sua apparente semplicità ma nel momento
in cui si tenta di applicare lo schema a spiegazioni storiche emergono notevoli difficoltà.
Vediamo ora quali conseguenze ha l’applicazione della teoria dello sviluppo storico applicata alla società
capitalistica e alla sua evoluzione, aspetto sul quale si concentra tutta l’opera matura di Marx.
Lo sviluppo capitalistico
Abbiamo visto come Marx rivendichi, nei riguardi dell’economia classica, la storicità delle forme di organizzazione
economica. Egli vuole anche dimostrare che lo sviluppo capitalistico crea, nel corso della sua evoluzione, le
condizioni economiche per il rafforzamento della classe operaia.
Per comprendere questo processo si può partire dall’interrogativo iniziale al quale cerca di rispondere Marx: quali
sono le origini del profitto?
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In un’economia capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, non ci può essere produzione
di beni se non c’è profitto per i detentori del capitale. Nello stesso tempo però il valore di scambio delle merci
riflette la quantità di lavoro in esse incorporata (egli riprende la teoria del valore-lavoro di Ricardo). La forza
lavoro può essere paragonata ad una qualsiasi merce che viene acquistata ad un certo valore che è il salario e che
viene fissato ad un livello necessario ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione dei lavoratori stessi e delle
loro famiglie. Ma la forza lavoro acquistata dal capitalista e utilizzata nel processo produttivo crea più valore di
quello necessario ad acquistarla (del salario); tale differenza viene definita pluslavoro e cioè plusvalore (esso dà la
misura del tasso di sfruttamento della forza lavoro). D’altra parte, il progresso tecnico, nella misura in cui accresce
la produttività del lavoro, si risolve in un aumento del plusvalore prodotto. A questo punto è chiara per Marx
l’origine del profitto nel plusvalore.
Marx distingue tra capitale variabile (le anticipazioni salariali) e capitale costante (impianti e materie prime
necessari per il processo produttivo) e sostiene che il capitale costante non crea valore aggiuntivo ma soltanto il
capitale variabile ha questa capacità. Per composizione organica si intende il rapporto tra il capitale costante ed il
capitale variabile; al crescere di tale rapporto diminuirà quindi il tasso di profitto. In una situazione di concorrenza i
singoli capitalisti-imprenditori hanno però l’interesse ad introdurre nuove macchine e quindi ad aumentare il
capitale fisso a spese del lavoro. Anche gli altri imprenditori gradualmente introdurranno le stesse innovazioni
provocando:
- aumento della disoccupazione (che Marx chiama l’esercito industriale di riserva) e peggioramento delle
condizioni di vita della classe operaia: quando aumenta la domanda di lavoro l’esercito si riduce e i salari
aumentano; ciò determina una diminuzione del saggio di profitto e quindi un successivo calo della domanda di
lavoro e un abbassamento del salario. Un eventuale crescita dei salari costituisce peraltro un ulteriore incentivo
alla sostituzione di lavoro con macchinario che nel tempo significa ingrossamento dell’esercito industriale. Per
Marx dunque la disoccupazione non è dovuta alla pressione demografica ma al funzionamento stesso
dell’accumulazione capitalistica. L’accresciuta disoccupazione provoca un progressivo immiserimento dei
lavoratori le cui condizioni di vita peggiorano. Anche le condizioni lavorative peggiorano (alienazione dei
lavoratori ridotti a insignificante appendice della macchina);
- caduta tendenziale del saggio di profitto che riduce lo stimolo alla produzione: la spinta alla meccanizzazione,
se inizialmente favorisce il singolo capitalista a spese degli altri, più tardi, quando le innovazioni si diffondono,
determina un abbassamento del saggio di profitto per il maggior peso del capitale costante rispetto a quello
variabile e quindi al minor plusvalore.
Occorre tuttavia chiarire che i fattori economici, le “contraddizioni” del modo di produzione, non portano
automaticamente alla sua crisi e al suo superamento. Essi costituiscono piuttosto le premesse che determinano la
progressiva trasformazione della classe operaia da aggregato di individui in concorrenza tra loro sul mercato del
lavoro a gruppo sociale coeso, ad attore storico. Solamente quando questo processo si compie, e la classe operaia si
organizza politicamente, si determina la trasformazione del vecchio modo di produzione.
Il circolo vizioso della sociologia economica di Marx
La sociologia economica di Marx sfocia in un circolo vizioso: la crisi economica dipende dal conflitto di classe, ma
questo rimanda alla crisi economica.
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Nella sua indagine sullo sviluppo capitalistico M. sostiene che non è possibile separare l’analisi dei fenomeni
economici dai rapporti tra le classi sociali e dalle istituzioni su cui si fondano. Tale prospettiva ha come punti di
forza la capacità di rendere conto degli aspetti dinamici dell’economia (spinta alla meccanizzazione e processo di
concentrazione) e degli effetti di destabilizzazione sociale e di conflittualità che si accompagnavano allo sviluppo
capitalistico (aspetti che non trovavano posto adeguato negli schemi degli economisti classici).
Due erano però i limiti:
1) la sottovalutazione delle capacità di riproduzione dell’economia capitalistica: l’ipotesi marxista della caduta del
saggio di profitto non tiene conto del progresso tecnico che può far aumentare la produttività del lavoro e
quindi i profitti. Tali profitti possono essere reinvestiti in nuovi macchinari che assorbiranno la manodopera
espulsa dalla prima meccanizzazione. Il progresso tecnico può anche comportare un abbassamento dei prezzi
dei nuovi macchinari prodotti, il che, nella stessa prospettiva di Marx, non farebbe aumentare la composizione
organica e non farebbe calare il profitto;
2) la sopravvalutazione del conflitto di classe e delle sue conseguenze rivoluzionarie per l’economia e la società:
gli economisti consideravano le classi come semplici aggregati funzionali che tendevano a massimizzare il
proprio profitto (capitalisti profitto, proprietari rendita e lavoratori salario) mentre per Marx le classi
potevano essere gruppi sociali consapevoli e quindi passare da aggregati funzionali ad attori storici (passaggio
dalla “classe in sé” alla “classe per sé”), questo grazie alla concentrazione nelle grandi fabbriche e nelle
grandi città industriali con conseguente facilità di comunicazione, omogeneizzazione delle condizioni di vita e
di lavoro, organizzazione sindacale e politica e lotta contro i capitalisti. Marx resta convinto che la dinamica
economica dello sviluppo capitalistico avrebbe creato una progressiva polarizzazione tra due classi sociali
fondamentali, capitalisti e lavoratori, una crescita della coscienza e dell’organizzazione della classe operaia e
una conflittualità dirompente. Ma la storia ha smentito Marx: la capacità di riprodursi dell’economia
capitalistica, la sua capacità di creare e distribuire ricchezza, di assicurare mobilità sociale, non hanno portato
alla polarizzazione prevista da Marx. Nello stesso tempo, le specificità culturali e politico-istituzionali dei vari
paesi hanno attenuato il conflitto accogliendo le domande economiche, sociali e politiche formulate dalle sue
organizzazioni di rappresentanza. Vediamo quindi anche la smentita di una sottovalutazione del ruolo dello
Stato il cui intervento viene paradossalmente stimolato proprio dalla crescita del movimento operaio che Marx
aveva ben previsto (esiti rivoluzionari si sono avuti in paesi come la Russia e la Cina dove le forze produttive
erano più arretrate).
La critica marziana conduce ad una teoria troppo rigida in cui si riduce drasticamente il ruolo delle istituzioni non
economiche.
Marx voleva trovare leggi generali della società (simili a quelle naturali) ed era inoltre convinto della necessità
della rivoluzione.
Il tentativo di sviluppare una teoria a elevata generalizzazione che servisse anche a fondare scientificamente
l’azione politica compromette la sociologia economica di Marx. Il suo contributo resta però fondamentale per lo
sviluppo di un’analisi istituzionale dell’economia. Egli ha il merito di aver riconosciuto i condizionamenti sociali
dell’azione economica (come vedremo con Smith ed altri classici) e quello di aver attirato l’attenzione su una
variabile cruciale che collega economia e società: le classi sociali.
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Ma la sociologia economica successiva svilupperò un orientamento più sensibile alla interdipendenza tra fenomeni
economici e sociali, e riconoscerà maggiore autonomia alle istituzioni culturali e politiche nell’influenzare il
conflitto di classe e l’organizzazione economica. Quindi un approccio meno volto alla formulazione di leggi
generali, più induttivo, più sensibile alla variabilità storica dei fenomeni.
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CAPITOLO 3
ECONOMIA NEOCLASSICA E SOCIOLOGIA ECONOMICA
Abbiamo visto come per i classici, in particolare per Smith, l’analisi dell’economia fosse ancora poco differenziata
da quella delle istituzioni che ne regolano il funzionamento. In questo capitolo seguiremo il percorso che, con la
“rivoluzione marginalista”, porta l’economia neoclassica ad assumere una prospettiva più generale e astorica. Lo
studio dei rapporti tra istituzioni e attività economica viene così assunto dalla sociologia economica come
disciplina autonoma.
1. LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA
Smith considerava naturale studiare la formazione dei prezzi dei beni sulla base del rapporto tra domanda e offerta
di mercato occupandosi, nello stesso tempo, del ruolo dello stato e di quello dell’organizzazione d’impresa nello
sviluppo economico.
I suoi successori, come Ricardo, avviarono quella che abbiamo definito una svolta economicista (analisi economica
e analisi delle istituzioni si separano più nettamente).
Sia Marx che gli storicisti riportano l’attenzione sul ruolo delle istituzioni e sottolineano l’esigenza di storicizzare
l’indagine economica (ma vanno incontro a problemi e difficoltà non indifferenti dal punto di vista analitico).
Negli ultimi decenni dell’ottocento con la rivoluzione marginalista l’economia neoclassica si separa in modo più
netto e rigoroso dallo studio delle istituzioni assumendo una prospettiva più generale e astorica.
Lo studio dei rapporti tra istituzioni e attività economica si autonomizza e si specializza e diventa il fulcro di una
prospettiva analitica e disciplinare più precisa e definita: quella della sociologia economica.
Tre autori, lavorando in modo indipendente, raggiunsero conclusioni simili, anche se attraverso processi diversi:
- l’inglese Stanley Jevons (1835 – 1882);
- l’austriaco Carl Menger (1840 – 1921);
- il francese Leon Walras (1834 – 1910).
1.1 La nuova spiegazione del valore
Il punto di partenza della critica marginalista riguarda l’insoddisfazione per la teoria del valore.
I classici ancorano la spiegazione del valore alla sfera della produzione. Ricardo e Marx davano poi un peso
essenziale al lavoro come causa del valore.
I marginalisti sostengono che per affrontare correttamente il problema del valore occorre partire dalla domanda e
non dall’offerta dei beni. I prezzi riflettono il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai
diversi prodotti. La soddisfazione (utilità) tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva (marginale)
dello stesso bene. Ciò significa che l’utilità marginale per i consumatori è decrescente. Il prezzo è allora
determinato da ciò che i consumatori saranno disposti a pagare per l’ultima unità aggiuntiva di quel bene stesso. Se
il prezzo fosse superiore all’utilità marginale, una parte del bene in questione non sarebbe venduta e, in una
situazione di concorrenza perfetta, il prezzo offerto dai venditori scenderebbe fino a uguagliare l’utilità marginale.
In letteratura è noto il paradosso dell’acqua e dei diamanti: ci si chiede perché i diamanti costano molto più cari
dell’acqua pur essendo meno utili. Questo dipende dalla loro disponibilità totale che è ridotta rispetto all’acqua (se
siamo in mezzo al deserto un bicchiere d’acqua costerebbe più caro che un diamante).
I marginalisti hanno esteso il calcolo marginale all’intero meccanismo economico (alla produzione dei beni ed alla
distribuzione dei redditi).
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Tali ipotesi sul comportamento economico dei soggetti valgono soltanto in condizioni di mercato concorrenziale
perfetto cioè:
- quando i soggetti conoscono tutte le informazioni necessari ad assumere le decisioni più conformi ai loro
obiettivi (perfetta conoscenza dei mercati);
- quando vi è piena mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro) nella ricerca delle opportunità più
remunerative;
- quando vi sono un grande numero di venditori e di acquirenti per lo stesso tipo di bene (i prodotti devono avere
le stesse caratteristiche qualitativa). In questo modo nessun soggetto è in grado di influire individualmente sui
prezzi (escluse quindi situazioni di monopolio o oligopolio).
1.2 Consumo, produzione e distribuzione
Il principio di utilità marginale suggerisce che il consumatore massimizzerà la sua soddisfazione soggettiva (cioè
la sua utilità complessiva) distribuendo il reddito tra i vari beni in modo coerente rispetto alle sue preferenze di
consumo. Le scelte dei consumatori costituiscono per i marginalisti il dato di partenza di tutto il meccanismo
economico. Ciascun produttore cercherà di massimizzare il profitto (rendere massima la differenza tra valore della
produzione venduta e costi totali). Egli cercherà di combinare i fattori produttivi (capitale, lavoro) nel modo più
efficiente che consiste nello stabilire il proprio livello di produzione in modo che il costo marginale (cioè il costo
dell’ultima unità prodotta) sia uguale al prezzo di mercato. In questo modo il complesso delle imprese finisce per
offrire una quantità pari a quella domandata dai consumatori ai prezzi più bassi possibili che sono costituiti dal
costo marginale. Ma come si raggiunge questo risultato?
Il mercato concorrenziale determina il prezzo di equilibrio, cioè il prezzo al quale l’utilità marginale dei
consumatori (quello che essi sono disposti a pagare per l’ultima unità di bene) uguaglia il costo marginale dei
produttori (il costo dell’ultima unità che questi hanno interesse a offrire). Spieghiamo meglio: se il prezzo di un
bene è inferiore ai costi complessivi di produzione, l’offerta di quel bene da parte delle singole imprese diminuirà, e
nel lungo periodo cesserà, fino a quando il prezzo a sua volta non salirà. Le imprese usciranno progressivamente
dalla produzione, a partire da quelle meno efficienti nel combinare i fattori produttivi. Al contrario, se il prezzo di
mercato è superiore ai costi medi, ciò spingerà col tempo nuove imprese a entrare nella produzione dello steso
bene, aumenterà la quantità prodotta e quindi il prezzo scenderà fino al livello pari ai costi di produzione. In questa
situazione, per effetto della concorrenza, le imprese cercheranno di massimizzare il profitto portando la produzione
al livello in cui il costo marginale (dell’ultima unità prodotta) è uguale al prezzo di mercato.
Un ulteriore passo nell’applicazione dell’analisi marginale fu la sua estensione allo studio della distribuzione. Per i
classici la distribuzione del reddito si basava sui prezzi naturali, cioè sui prezzi di produzione (es. i salari sono
agganciati al costo della sussistenza per i lavoratori). Per i marginalisti anche i redditi derivano invece,
indirettamente, dalla domanda dei consumatori. Questa spinge a produrre certi beni che richiedono il contributo
specifico di vari fattori produttivi (capitale, lavoro, terra, imprenditorialità). Il reddito che riceveranno tali fattori
sarà commisurato al contributo che essi danno alla produzione.
1.3 L’equilibrio economico generale
Walras si è dedicato alla dimostrazione dell’equilibrio economico generale cioè del fatto che i diversi mercati
(dei prodotti e dei fattori produttivi) sono interdipendenti tra loro e che condizioni di concorrenza perfetta
determinano il raggiungimento simultaneo di una situazione di equilibrio in tutti i mercati. La dimostrazione,
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effettuata con strumenti matematici, che esistono dei prezzi compatibili con l’equilibrio generale è importante
perché mostra l’efficienza allocativa del mercato in modo più rigoroso di quanto non avessero fatto i classici.
Lo storico Braudel (1977) aveva però sottolineato il fatto che tale risultato si ha soltanto in condizioni ideali molto
restrittive (vedi fine par. 1.1) ed inoltre che l’efficienza allocativa del mercato non significa che esso sia equo (le
persone non sono dotate dello stesso potere di acquisto, alcune sono molto povere e non per colpa loro, altre sono
molto ricche grazie alla fortuna o all’eredità anziché per merito della loro abilità o intelligenza).
1.4 Lo spazio analitico dell’economia neoclassica
La domanda fondamentale a cui cercano di rispondere i marginalisti è: “data una popolazione con i propri bisogni e
le proprie capacità di produzione, in possesso di determinate terre e di altre fonti di produzione, trovare il modo di
impiegare il lavoro al fine di massimizzare l’utilità del prodotto”.
Ci si allontana dall’originaria prospettiva dell’economia classica perché:
1) l’analisi statica si afferma a scapito di quella dinamica: la preoccupazione primaria non è più lo sviluppo
economico ma l’allocazione efficiente di risorse. Smith, Malthus e Ricardo volevano tutti indagare la crescita
economica all’interno di un contesto caratterizzato dalle istituzioni economiche capitalistiche (proprietà
privata dei mezzi di produzione e lavoro salariato). Gli storicisti e Marx criticarono con esiti diversi questa
prospettiva, ma solo perché ritenevano che gli economisti non storicizzassero abbastanza nello spazio e nel
tempo la loro analisi. I neoclassici quindi abbandonano la prospettiva dinamica e non si propongono più di
descrivere-interpretare una forma di organizzazione storica determinata, ma vogliono ora esplorare, in generale,
quale sarebbe il modo più efficiente di allocare le risorse, date certe condizioni;
2) l’economia diventa una teoria della scelta con un orientamento analitico-deduttivo. Si postulano determinati
obiettivi da parte degli attori (massimizzazione di utilità) e condizioni che ne vincolano l’azione (mercato di
concorrenza perfetta) e se ne deducono determinati risultati (equilibrio economico;
3) l’economia si svincola dal riferimento a variabili istituzionali: l’unità di analisi è costituita da individui isolati
che sviluppano i propri fini indipendentemente gli uni dagli altri e cercano di massimizzare le risorse di cui
dispongono in condizioni di concorrenza perfetta. Questo implica che i fattori istituzionali (valori condivisi in
una certa società) che possono influenzare l’individuo non vengono presi in considerazione dalla prospettiva
economica che lo considera influenzato esclusivamente dal calcolo razionale.
I neoclassici non prendono in considerazione dunque i fattori di natura istituzionale che influenzano il
comportamento. Menger spiega che introducendo variabili istituzionali non è possibile mantenere quel livello di
regolarità e prevedibilità a priori nel comportamento degli attori che è compatibile con la determinazione dei prezzi
di equilibrio e con la dimostrazione dell’equilibrio economico generale. La rottura con i classici porta l’economia a
ritirarsi dal terreno istituzionale per adeguarsi ai canoni di generalizzazione teorica e precisione analitica delle
scienze più consolidate, quelle della natura.
Ma sappiamo che sul piano storico è difficile incontrare situazioni che soddisfino pienamente queste condizioni; si
determina dunque uno scarto tra validità analitica e applicabilità empirica del modello, sul quale si appunteranno
tradizionalmente le critiche all’economia neoclassica.
Vediamo ora in che modo ad esse viene data risposta.
2. DUE DIFESE DELL’ECONOMIA NEOCLASSICA
Possiamo individuare due risposte tipiche, dal versante dell’economia, alla critica di scarso realismo:
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- la via analitica, percorsa maggiormente da economisti dell’Europa continentale (Menger e Pareto), che difende
le tre caratteristiche già ricordate nel quadro analitico neoclassico (staticità, normatività, esclusione delle
istituzioni);
- la via empirica, predominante nel mondo anglosassone (Marshall) si pone in maggiore continuità con la
tradizione classica mantenendo all’interno del quadro analitico il riferimento a fattori istituzionali.
2.1 La via analitica: Menger e Pareto
L’austriaco Menger (1882) ribatterà alle critiche che le proposizioni della teoria economica sono astrazioni
analitiche, e come tali non possono essere verificate direttamente sul piano empirico.
Menger distingue l’ambito dell’economia politica tra:
- approccio storico: volto alla spiegazione dei fenomeni individuali;
- approccio dell’economia teorica: che ha l’obiettivo di individuare e spiegare le regolarità del comportamento
economico che può avere due orientamenti:
- orientamento alla ricerca esatta (o economia pura): per Menger utilizzare il metodo empirico per
determinare la validità delle proposizioni dell’economia esatta è un’incongruenza metodologica in quanto
le leggi economiche sono valide per un mondo economico concepito in astratto che esclude gli elementi
non economici;
- orientamento empirico-realistico: esso deve tener conto di come i vari motivi si combinino tra loro dando
luogo a forme specifiche di comportamento economico che variano nello spazio e nel tempo.
Per Menger entrambi gli orientamenti sono importanti e contribuiscono alla spiegazione e al controllo dei fenomeni
economici (così come è importante affiancare la chimica e la fisica alla fisiologia).
Considerazioni simili sono sviluppare dall’italiano Vilfredo Pareto (1848 – 1923) che era stato attratto
dall’applicazione dell’analisi matematica allo studio dell’equilibrio economico. egli è stato ancor più noto per il
successivo lavoro sociologico, sfociato nel Trattato di sociologia generale (1916).
In effetti, Pareto, avendo lavorato nel campo dell’economia, si era convinto che questa disciplina poteva offrire un
contributo molto limitato alla comprensione del comportamento umano concreto (es. nonostante dimostrasse i
vantaggi delle politiche non protezionistiche, queste venivano molto spesso perseguite). Per trovare risposte
soddisfacenti a questi interrogativi bisognava ricorrere alla sociologia. Nello stesso tempo, però, da questo non se
ne poteva affatto dedurre l’inutilità dell’economia pura (cioè dell’approccio neoclassico) che difese sostanzialmente
come fece Menger.
L’economia pura dà conoscenze estremamente importanti purché non si confondano con la spiegazione dei
fenomeni concreti. Questo obiettivo richiede invece l’integrazione della teoria economica con quella sociologica.
L’economia studia quella parte dei fenomeni concreti che è determinata dalla massimizzazione dell’utilità (le
cosiddette azioni logiche, cioè quelle in cui non vi è divergenza tra il comportamento effettivo del soggetto e quelle
norme di comportamento efficiente illustrate dall’economia pura).
Nella realtà però i fenomeni concreti sono molto influenzati dalle azioni non-logiche, cioè quelle influenzate da
fattori di natura psicologica e istituzionale che sono il campo di studio della sociologia.
Fin qui dunque Pareto presenta una difesa dell’economia dall’accusa di scarso realismo sostanzialmente analoga a
quella di Menger: l’economia pura è una disciplina analitica astratta le cui proposizioni hanno un valore normativo.
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Entrambi rimandano al contributo di altre discipline per lo studio dei fenomeni concreti, nei quali il comportamento
economico è variamente influenzato da fattori di natura istituzionale.
Mentre Menger guarda ad uno studio di orientamento empirico-realistico per Pareto lo studio dei fenomeni
concreti richiede lo sviluppo preliminare di una sociologia generale che abbia lo stesso carattere analitico
dell’economia. Pareto stesso si impegna su questo terreno, e non a caso il suo contributo specifico alla sociologia
economia è molto limitato. Per l’italiano il modo migliore di procedere della conoscenza scientifica è infatti quello
di individuare e separare analiticamente i diversi elementi (che influiscono sull’azione) e di studiarli isolatamente.
Soltanto in un secondo tempo si possono mettere insieme le diverse parti per “aver la teoria del fenomeno
complesso”. In questa prospettiva, l’economia è già molto avanti nello studio delle componenti logiche dell’azione,
mentre parecchia strada resta ancora da fare per la teoria delle componenti non-logiche che è l’oggetto della
sociologia.
2.2 La via empirica: Marshall
Alfred Marshall (1842 – 1924) è l’economista che ha forse maggiormente influito sulla pratica effettiva della
disciplina nel contesto anglosassone, tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento.
Nonostante abbia contribuito direttamente allo sviluppo dell’analisi marginalista, la sua posizione teorica mantiene
legami stretti con la tradizione dell’economia classica filtrata attraverso la sistematizzazione fattane da Mill (1806-
1873).
La risposta di Marshall si articola a due livelli:
- il primo si muove all’interno dell’approccio basato sull’utilità marginale (si muove nello schema neoclassico
ponendo l’enfasi non sul problema dell’equilibrio economico generale ma sullo studio degli equilibri parziali:
es. il comportamento dell’impresa concorrenziale in condizioni di mercato date, nell’ambito di un singolo
settore);
- nel secondo mette in discussione i presupposti dello schema neoclassico reintroducendo i fattori istituzionali.
Per Marshall, come per Parsons, la scelta dei fini e dei mezzi è influenzata da valori condivisi. I fini che gli
uomini vogliono perseguire (in termini di consumi da soddisfare) non sono determinati biologicamente come
per gli animali. Solo nella fase primitiva il condizionamento biologico gioca un ruolo essenziale ma
successivamente sono le nuove attività (forme di organizzazione economica costituite dallo sviluppo della
libera attività produttiva e della libera iniziativa) che determinano l’emergenza di nuovi bisogni, e non
viceversa. I bisogni variano nel tempo e sono socialmente condizionati.
Un punto di contrasto essenziale con l’impostazione neoclassica più radicale è la prospettiva dinamica con cui
Marshall torna a parlare di sviluppo economico. la legge di sostituzione è per Marshall il motore dello sviluppo
economico: consiste nella continua combinazione dei fattori produttivi operata dagli imprenditori alla ricerca di
maggiore efficienza. Il principio di sostituzione si può considerare niente altro che un’applicazione speciale e
limitata della legge di sopravvivenza dei più adatti. Tale visione è fortemente influenzata dalla biologia (Herbert
Spencer). Marshall è convinto che lo sviluppo economico favorirà la razionalizzazione dei comportamenti e
accrescerà le possibilità di cooperazione collettiva. Marshall traccia con decisione una via empirica di difesa
dell’economia neoclassica che lo porta a incorporare le istituzioni nel quadro analitico e ad avvicinarsi a una
sociologia di tipo evoluzionistico. In questa prospettiva l’economia diventa uno strumento per la comprensione
complessiva della società.
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A differenza di quel che avviene con la via analitica, la posizione di Marshall lascia dunque meno spazio autonomo
alla sociologia. Egli è sospinto verso una sociologia evoluzionistica sul modello di quella di Spencer, ma la sua
economia si pone come diretta concorrente con tale prospettiva. In lui, come nei classici, la sociologia economica
resta dunque ancora all’interno dell’economia.
3. LA SOCIOLOGIA PRIMA DELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo, la sociologia economica si emancipa dall’economia e
acquista un suo profilo specifico nell’ambito della sociologia (avviene soprattutto in Germania con Sombart e
Weber).
E’ importante capire le origini della tradizione economica e quelle della tradizione sociologica.
Raymond Aron (1965) ha proposto di distinguere tra:
- un modo di pensare sociologico: riflessioni sul comportamento dell’uomo in relazione agli altri uomini, e sulle
forme di organizzazione della società che ne risultano, fanno naturalmente parte di tutta la storia del pensiero,
ma una specifica prospettiva sociologica si fa strada solo tra il XVIII e il XIX secolo. ciò significa che il
comportamento dell’uomo in società, e le strutture stabili cui dà luogo, non siano più spiegabili con fattori
religiosi o politici ma sociali (istituzioni, norme di comportamento, che derivano dall’azione umana e che una
volta affermatesi contribuiscono a orientare il comportamento fino a quando non ne vengono modificate). Aron
considera Montesquieu un precursore di questo modo di pensare (1750). Perché si possa affermare il modo di
pensare sociologico è necessario che la società appaia governata da leggi impersonali che si impongono ai
singoli individui (e non dal governo religioso e politico); questo si verifica con lo sviluppo del capitalismo e
l’estendersi del mercato come meccanismo di regolazione delle attività economiche. In questo senso si può dire
che l’economia apra la strada alla sociologia. Importante è anche il rapido cambiamento della società