1 UNIVERSITÀ DI PARMA Corso di Laurea in Relazioni Internazionali ed Europee Corso di Laurea in Servizio Sociale Dispense di: SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI E POLITICHE SOCIALI Corso Profssa VINCENZA PELLEGRINO 1 1 Ringrazio il prof Marco Deriu per gli appunti da lui forniti per queste dispense.
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SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI E ... · SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI E POLITICHE SOCIALI Corso Profssa VINCENZA PELLEGRINO1 1 Ringrazio il prof
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UNIVERSITÀ DI PARMA
Corso di Laurea in Relazioni Internazionali ed Europee Corso di Laurea in Servizio Sociale
Dispense di:
SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI E POLITICHE SOCIALI
Corso Profssa VINCENZA PELLEGRINO1
1 Ringrazio il prof Marco Deriu per gli appunti da lui forniti per queste dispense.
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POLITICHE SOCIALI E STATO SOCIALE
Cerchiamo di cogliere gli aspetti più generale di definizione e inquadramento
della definizione di Politiche Sociali (rimando al saggio di MT Bordogna).
Innanzitutto non esistono definizioni indiscusse. Esistono finizioni diverse delle
politiche sociali e molte di queste presuppongono punti di vista e sottolineature
particolari. In realtà le definizioni solitamente accompagnano la stessa evoluzione
degli interventi di politiche sociali e quindi sono soggette a cambiamento sulla base
dell’affermazione di nuove forme di intervento.
Quindi le definizioni che proporremo non sono materia di religione ma un tentativo
di definizione di massima.
Un primo aspetto fondamentale da tenere a mente riguarda la differenza tra
politiche pubbliche e politiche sociali.
Per politiche pubbliche si intende generalmente il prodotto di quelle specifiche
decisioni (azioni ma anche non azioni) intraprese, sotto forma di prassi, leggi e
direttive, dalle autorità pubbliche - fondamentalmente le istituzioni di Governo nelle
sue differenti scale, i partiti, lo Stato, le differenti amministrazioni, gli enti e tutti gli
apparati – che coprono un ampio ventaglio di ambiti di interesse collettivo:
- Politiche generali
- Giustizia e diritti civili
- Politiche economiche
- Politiche dell’educazione
- Politiche sociali e del lavoro
- Politiche sanitarie
- Politiche ambientali
- Politiche urbanistiche
- Politica estera, difesa e sicurezza
- Tassazione e spesa
- Politiche turistiche
- Ecc.
Le “politiche sociali” dunque coprono solamente una parte delle politiche
pubbliche ovvero quelle che svolgono l’obbiettivo di promuovere il benessere e la
protezione sociale della popolazione.
Potremmo anche dire che le politiche sociali rappresentano la garanzia
dell’inclusione sociale e le fondamenta di una reale cittadinanza sociale, ovvero la
possibilità di partecipare alla vita sociale, civile ed economica.
Tradizionalmente come politiche sociali vengono considerate:
- le politiche previdenziali (invalidità, infortuni sul lavoro, vecchiaia, malattie
professionali, assegni per le famiglie, congedi parentali);
- le politiche del lavoro (tutela del lavoro e garanzie contro il rischio di
disoccupazione);
- le politiche sanitarie (protezione verso i bisogni sanitari e i rischi di malattie);
- le politiche socio-assistenziali (servizi alla persona e garanzie contro i rischi di
esclusione sociale).
D’altra parte alla definizione delle politiche sociali concorrono oltre al Governo e allo
Stato anche altri attori. Gli attori delle politiche sociali sono principalmente
quattro: lo Stato, il mercato, il terzo settore e le famiglie.
Con Stato intendiamo tutti gli enti pubblici che hanno una qualche forma di
legittimazione e di potere coercitivo nei differenti livelli: federale, statale, regionale,
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provinciale, comunale. A livello territoriale troviamo anche le associazioni di Comuni,
le Comunità Montane, i Consorzi tra differenti enti pubblici, le Asl, le Aziende
Ospedaliere.
Lo Stato si occupa fondamentalmente di regolamentare le attività delle persone e di
attenuare o bilanciare le spinte del mercato. Inoltre gioca un ruolo fondamentale nella
raccolta di risorse e nella redistribuzione delle opportunità tra cittadini, sia attraverso
dei trasferimenti monetari, sia attraverso l’offerta di servizi gratuiti o a basso costo.
Lo Stato svolge anche una funzione produttiva poiché produce una serie di servizi e
prestazioni dirette che offre ai suoi cittadini. Infine garantisce una copertura
assicurativa attraverso meccanismi pensionistici o l’introduzione dell’obbligo di
assicurazione per proteggere i cittadini da possibili rischi.
Naturalmente nel suo operare lo Stato manifesta anche alcuni limiti. Può avere
alcune difficoltà ad individuare e registrare le richieste e le preferenze da parte della
cittadinanza. Di fatto l’indicazione fondamentale è quella delle elezioni, ovvero
l’orientamento espresso attraverso il voto popolare. Tuttavia come indicazione è
piuttosto grossolana ed approssimativa anche perché le scelte di voto dipendono da
varie elementi e questioni ed è difficile trarne indicazioni chiare in merito alle politiche
sociali. Un secondo problema dell’attività dello Stato è data dalla tendenza a fornire un
insieme di servizi tutto sommato standardizzati, che in parte rispondono ad una
necessità di equità ed uniformazione ma dall’altra si dimostrano incapaci di adattarsi
alle specificità e alle differenti necessità emergenti nei diversi casi. Altri limiti
dell’azione statale nelle politiche sociali possono essere ricondotti alla lentezza e
rigidità delle procedure burocratiche o ai problemi di pianificazione e reperimento delle
risorse.
Con Mercato intendiamo tutte quelle imprese e società private che hanno
principalmente uno scopo di lucro. Il mercato svolge fondamentalmente due funzioni
quella produttiva, di produrre beni e servizi e quella allocativa ovvero di garantire una
certa distribuzione e soddisfazione delle richieste dei consumatori. Anche l’azione del
mercato, in particolare per quello che riguarda la risposta ad alcuni bisogni sociali,
presenta diversi limiti. Intanto anche all’interno di un sistema di mercato ci si muove
generalmente in un regime di informazioni imperfette. In secondo luogo sappiamo che
spesso la presenza di monopoli o oligopoli può distorcere la percezione
dell’orientamento dei consumatori e le possibilità di effettiva corrispondenza alle
necessità delle persone. Di fatto il mercato soddisfa solo alcune domande o bisogni,
per esempio quei bisogni che possono essere trasformati in richieste di merci o servizi.
Inoltre il mercato inevitabilmente risponde alle richieste solamente di quei cittadini
consumatori che possono permettersi di pagare per la soddisfazione delle proprie
necessità. D’altra parte si potrebbe anche notare che, seguendo l’imperativo della
creazione di profitto, prima di ogni altra valutazione, il mercato tende a soddisfare
anche domande non necessariamente positive per la comunità.
Con Terzo Settore intendiamo tutta quella galassia di organizzazioni non profit che
riguardano Associazioni e istituzioni private senza scopo di lucro, gli enti religiosi o
morali, le organizzazioni di volontariato, le Cooperative sociali, le Onlus.
Le funzioni che svolge sono di promozione di diritti, l’ascolto e l’interpretazione delle
domande e dei bisogni, la raccolta e la ridistribuzione di risorse, la produzione e
l’offerta di servizi di interesse collettivo. Spesso le politiche sociali promosse dal terzo
settore implicano forme di partecipazione diretta da parte della cittadinanza e in alcuni
casi producono di per sé forme di legame sociale e di integrazione. I limiti del Terzo
settore possono essere ricondotti al carattere di volontarietà che sta alla base della
sua azione, dunque alla frammentarietà e non continuità della propria azione.
Analogamente si rileva una tendenza verso il particolarismo a causa della diversità
delle risorse e della mobilitazione emergente nei diversi territorio, ovvero alla diversa
presenza di organizzazioni del Terzo settore nei diversi contesti. Per sua natura il
Terzo settore rimane esposto anche a possibili diseguaglianze e distorsioni nell’offerta
di servizi e opportunità. Inoltre sono molto più deboli e in qualche caso inesistenti i
meccanismi e le procedure volte al controllo della qualità delle prestazioni erogate.
Alcuni autori individuano inoltre nell’ascesa del ruolo del Terzo settore nelle politiche
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sociali, una volontà di depubblicizzazione e privatizzazione dei servizi e una
deresponsabilizzazione da parte degli attori pubblici.
Parlando di Famiglia facciamo riferimento nei fatti ad una pluralità di nuclei
famigliari, ovvero a tutte quei gruppi di persone caratterizzati da legami formali o
informali che vivono nello stesso aggregato domestico. La famiglia comprende nel suo
ambito diverse dimensioni: di riproduzione, di redistribuzione, di cura, di produzione e
consumo. I limiti dell’azione della famiglia sono legati al carattere di volontarietà dei
suoi servizi, ai particolarismi derivanti dalle differenze culturali, sociali, economiche e
psicologiche dei diversi aggregati. Il rischio di sovraccarico nelle aspettative a fronte
delle limitate risorse sia economiche che umane costituisce a sua volta un limite,
amplificato dall’esposizione alla precarietà a causa di esperienze quali la malattia o la
morte di uno o più componenti famigliari o le occasioni di separazione e divorzi. La
ridotta divisione del carico di lavoro, tra i suoi membri, ed in particolare nelle diverse
attribuzioni alle donne e agli uomini costituisce un altro ulteriore limite, almeno allo
stato attuale ed in particolare nel contesto italiano.
Se complessivamente le politiche sociali svolgono dunque il ruolo di promuovere dei
diritti, di garantire forme di protezione e tutela, di determinare una distribuzione dei
rischi sociali per prevenire forme di esclusione e marginalità, di fatto, dunque, tutti
questi attori si trovano ad interpretare problemi, bisogni, necessità, domande,
aspirazioni, a partire da specificità e condizioni differenti, producendo, raccogliendo e
gestendo risorse per fornire un ventaglio di opportunità, offerte, aiuti che rispondano
al benessere sociale collettivo.
STORIA E MODELLI DI POLITICHE SOCIALI
Abbiamo visto come gli attori delle politiche sociali sono essenzialmente
quattro: lo Stato, il mercato, il terzo settore e le famiglie. Nei diversi sistemi sociali e
politici questi attori contribuiscono in modi e misure differenti, a volte integrandosi e
completandosi tra loro, altre volte mettendosi in competizione gli uni con gli altri. I
diversi attori infatti possono avere in comune lo scopo di offrire beni e servizi per
soddisfare bisogni e necessità collettive ma le modalità, gli scopi, le priorità e i criteri
di valutazione possono essere differenti. Lo Stato può rispondere a logiche
burocratiche oppure essere influenzato nelle sue attività dal peso di alcuni gruppi di
interesse e di alcune pratiche di lobbing. Gli attori di mercato spesso sono guidati dal
proprio tornaconto piuttosto che dalla realizzazione del bene comune. Le famiglie
possono rispondere all’interesse dei propri membri ma di fatto disinteressarsi o
addirittura ostacolare le possibilità per altre famiglie. E anche le organizzazioni del
terzo settore possono essere sviate da esigenze di autopromozione e auto
rappresentazione piuttosto che da valutazioni ragionate sulle prestazioni offerte.
Insomma ciascuno di questi attori ha meriti e limiti e dunque una loro
compenetrazione può essere importante. Tuttavia la presenza, il ruolo e il peso dei
diversi attori può variare molto da paese a paese, da territorio a territorio, da
momento a momento.
Gli elementi che entrano in gioco nel definire la composizione delle forme di
politiche sociali sono differenti:
- fattori storici
- fattori economici
- fattori culturali
- fattori sociali
- fattori giuridici
- fattori organizzativi
- fattori professionali
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Da un punto di vista dell’evoluzione storica, possiamo riconoscere differenti fasi nel
delinearsi dei sistemi di protezione sociale in Europa che andranno a definire i sistemi
di Welfare. Con il termine Welfare State in effetti si intende un insieme di politiche
pubbliche che si sono andate definendo durante il processo di modernizzazione,
attraverso cui lo Stato garantisce una certa protezione sociale attraverso forme di
assicurazione, di assistenza o di tutela sociale.
GLI ANTECEDENTI
Alla base della nascita delle politiche sociali possiamo rintracciare diversi tipi di
esperienze storiche. In genere si prendono in considerazione tre esperienze:
- il caso delle Gilde e successivamente delle società di mutuo soccorso.
- l’obbligo di tutela da parte dei datori di lavoro .
- le forme di pubblica assistenza ai poveri tra il ‘500 e il ‘700.
Le Gilde erano corporazioni di arti e mestieri (mercanti, tessitori ecc..) fondate su
uno spirito di mutua assistenza tra i suoi membri che si svilupparono attorno all’anno
mille in Inghilterra e Germania. I partecipanti si sostenevano in caso di incendi di
abitazioni, di malattie, di offese subite, e arrivavano anche ad offrire delle forme di
contributi alle famiglie dei membri deceduti.
Per quanto riguarda invece le società di mutuo soccorso esse cominciano a
svilupparsi dalla metà del ‘700 in Gran Bretagna, ma ebbero il loro periodo di
espansione soprattutto dopo la metà dell’’800. Si trattava di associazioni di artigiani o
di operai che si sostenevano grazie ai contributi periodici dei propri membri e che
garantivano in cambio un’assistenza medica e forme di sussidi in caso di malattie o di
incidenti. Nel contesto italiano la prima società di mutuo soccorso fu fondata a Pinerolo
nel 1844. Le organizzazioni operaie si diffusero soprattutto in Piemonte, Lombardia,
Emilia Romagna e Toscana.
In secondo luogo abbiamo l’obbligo di tutela dei lavoratori da parte del datore
di lavoro. Questi tipi di obblighi erano diffusi fin dall’età feudale e si diffusero poi a
partire dal ‘700. Per esempio gli armatori dovevano coprire le spese per le malattie dei
marinai. I commercianti per i loro impiegati e commessi. Le aziende artigianali per i
propri operai. Soprattutto a partire dalla seconda metà dell’800 questo tipo di
regolamenti, con maggiori o minori limitazioni, si diffuse in molti paesi europei.
Infine abbiamo le forme di pubblica assistenza verso i poveri che si sviluppano
tra il 1500 e il 1600, in primo luogo in Gran Bretagna. Qui infatti la regina Elisabetta
introdusse fin dal 1573 una tassa fondiaria per i poveri che permise l’organizzazione di
un sistema di assistenza comunale verso i più poveri. A partire dal ‘600 forme di
assistenza pubblica verso i poveri si diffusero in tutti i paesi europei. Tuttavia occorre
notare che queste forme di intervento avevano solo in parte una funzione di
assistenza, mentre per un altro verso costituivano una forma di controllo e di
repressione. Per un verso chi era assistito era giudicato in parte colpevole del proprio
stato. Poteva perdere alcuni diritti civili, poteva essere obbligato a forme di lavoro
coatto o poteva incorrere nei trattamenti di polizia. Dunque queste interventi non si
fondavano su un diritto degli assistiti ma piuttosto su una loro colpa o mancanza.
Come ha notato Jens Alber
«L’impegno della mano pubblica non si limitava ad assistere i poveri inabili al
lavoro, ma prevedeva che quelli abili al lavoro o comunque caduti in miseria per
propria colpa fossero costretti a è riprendere il lavoro. Il controllo dei poveri era
demandato ad una speciale polizia dei poveri. Gli oziosi e i mendicanti venivano
associati a case di lavoro e di correzione» (Alber, 1986, p. 19)
Esistevano inoltre parallelamente anche forme di assistenza dei poveri fornite da
enti e istituzioni religiose.
È interessante riflettere su questa molteplice origine, poiché ci suggerisce la
compresenza e l’intreccio di motivi e spinte differenti. Da una parte l’auto-mutuo
aiuto, dall’altra le responsabilità dei datori di lavoro e infine le forme di assistenza e di
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controllo da parte di soggetti politici o religiosi. Questa ambivalenza si ritroverà anche
nelle fasi successive.
IL PROCESSO DI MODERNIZZAZIONE E LA MODIFICAZIONE PROFONDA DEL
LEGAME SOCIALE che sta alla base della strutturazione crescente dello STATO
SOCIALE
(Rimando gli studenti allo studio delle mappe concettuali utilizzate a lezione
per comprendere il processo di modernizzazione e ai saggi legati.)
LA NASCITA DELLO STATO SOCIALE PROPRIAMENTE MODERNO:
- LA PRIMA FASE O FASE DI SPERIMENTAZIONE E INSTAURAZIONE (1870-
1920)
Nell’analisi delle spinte che hanno caratterizzato l’avvento e l’espansione dei sistemi di
protezione sociale in Europa si prendono in esame diversi aspetti. Da una parte
l’emergere di una serie di problemi relativi ai processi di industrializzazione e
modernizzazione, e quindi all’affacciarsi di nuove esigenze e necessità sociali, dall’altra
l’emergere di soggetti sociali e politici più consapevoli e organizzati, in particolare i
partiti socialisti e le organizzazioni sindacali, che rilanciano le forme di conflitto sociale
e pongono il problema del consenso alle élites politiche ed economiche. Il movimento
operaio premeva infatti per ottenere una serie di garanzie e di diritti sia sul lavoro sia
di partecipazione politica. Dunque le élites accettarono di promuovere alcune riforme
in funzione contenitiva.
Tra i fattori storici e contestuali Abers ha segnalato:
- L’aggravamento dei problemi di sicurezza a seguito di crescita demografica,
urbanizzazione, industrializzazione;
- La ridefinizione delle situazioni di emergenza come problema sociale a seguito del
processo di laicizzazione e della diffusione dei moderni mezzi di comunicazione;
- La politicizzazione dei problemi sociali con l’affermarsi del ruolo dello Stato
nazionale e con la mobilitazione sindacale ne politica dei lavoratori;
- La crescita dei poteri statali a seguito della razionalizzazione dell’amministrazione
statale attraverso il riordino delle finanze pubbliche e l’istituzionalizzazione delle
statistiche ufficiali;
- L’Assenza di conflitti bellici per un periodo prolungato.
Il primo passo verso i moderni sistemi di Welfare viene rintracciato nell’introduzione
dell’assicurazione obbligatoria.
L’apripista fu la Germania di Bismark che introdusse schemi di assicurazione
sociale obbligatoria prima verso i rischi di malattia (1883) poi di infortunio (1884), di
vecchiaia (1889) e di invalidità (1889).
L’assicurazione fornita da Bismark non si rivolgeva dunque più solamente ai membri
di qualche corporazione ma a fasce più ampie di popolazione e di fatto istituiva
contemporaneamente un obbligo e un diritto. In altre parole, come è stato notato, se
in precedenza i poveri erano guardati con sospetto e in fin dei conti ritenuti colpevoli
della loro condizione e dunque gli interventi di assistenza erano di fatto una difesa del
bene pubblico contro la minaccia rappresentata dai poveri, nella nuova cornice i poveri
diventavano invece oggetto di garanzie finalizzate alla tutela del loro benessere
individuale.
L’innovazione tedesca ebbe una grande eco in tutta l’Europa e fu di ispirazione a
molti altri governi, fra questi l’Austria, Norvegia, Finlandia, Italia. Di fatto tra il 1880
e il 1915 le forme di assicurazione obbligatoria vennero estese in tutti i paesi
europei. Lo sviluppo delle riforme seguiva spesso una determinata sequenza: prima
contro gli infortuni, quindi verso le malattie, la vecchiaia, ed infine contro la
disoccupazione (iniziò la Gran Bretagna nel 1911, l’Italia segui nel 1919). Con
l’introduzione di quest’ultima si compie una vera e propria rottura con la tradizione
liberale precedente.
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In questa fase possiamo riconoscere alcune caratteristiche di fondo ben delineate
da Abers.
Siamo di fronte a sistemi regolati da ordinamenti nazionali.
Le prestazioni erogate a garanzia del reddito coprono rischi standard quali: infortuni
sul lavoro, malattie, invalidità, vecchiaia, morte o disoccupazione dell’assicurato
Non si applicano a singole categorie professionali, ma dipendono da criteri più
generali di reddito o status occupazionale, che consentono la copertura di più ampie
fasce di popolazione
Sono di natura obbligatoria, cioè impongono l’assicurazione a determinati gruppi,
oppure prevedono l’obbligo per lo Stato di finanziare i programmi volontari
Oltre agli assicurati, partecipano al finanziamento lo Stato e/o i datori di lavoro
Riconoscono un diritto soggettivo individuale alle prestazioni e la loro fruizione non
comporta alcuna discriminazione sociale o politica
- SECONDA FASE O FASE DI CONSOLIDAMENTO (anni ‘30-‘40)
La seconda fase, quella compresa tra le due guerre mondiali, viene considerata di
consolidamento. Gioca un ruolo ovviamente la crisi del 1929 e la grande Depressione
degli anni ’30. Si accetta che lo Stato giochi un ruolo più forte nelle dimensioni
economiche e sociali. Gli interventi riguardano un allargamento dei beneficiari (in
particolare verso la piccola e media impresa e il settore commerciale e terziario),
l’estensione delle prestazioni mediche anche ai congiunti dell’assicurato, e
l’integrazione del catalogo dei rischi coperti dai vari schemi assicurativi tra cui
l’introduzione di pensioni di reversibilità agli eredi, o gli assegni familiari.
L’impulso decisivo per il consolidamento dello stato sociale venne questa volta dalla
Gran Bretagna. Nel 1939 Wiston Churchill commissionò un piano di interventi
sociali che fu predisposto da Sir William Beveridge. Questo piano era fondato su
alcuni principi:
- l’universalità dell’assistenza pubblica
- i servizi sociali concepiti come diritti di tutti
- una copertura sanitaria universale
Si parlò dell’innovazione nei termini di un assistenza che accompagnava le persone
dalla culla alla tomba.
Il piano Beveridge commissionato da un conservatore fu attuato in realtà dopo il
1945 dal partito Laburista.
Tra le riforme introdotte la più importante fu senz’altro l’Istituzione del Servizio
Sanitario Nazionale (1948) con l’introduzione della figura dei medici di famiglia. Gli
ospedali e i presidi medici passarono dunque sotto il controllo statale.
Questi interventi segnano di fatto il passaggio dall’idea di assicurazione dei
lavoratori all’idea di un’assicurazione sociale.
- TERZA FASE O FASE DI ESPANSIONE (anni ’50-‘60)
Negli anni ’50-’60 si entra in una fase di grande crescita economica (il cosiddetto
“boom economico” che permette una crescita anche dei canali di finanziamento degli
interventi pubblici e quindi un incremento del volume delle prestazioni di welfare.
Il contesto politico definito dalla guerra fredda e da una forte competizione
ideologica tra i partiti di ispirazione socialista o comunista e i partiti di ispirazione
cristiana o liberale mette in campo una rinnovata centralità della questione sociale
vista come spazio di creazione di consenso e di elemento di preferibilità per questo o
quel sistema.
La contingenza economica e politica spinge dunque a destinare all’intervento
pubblico e quindi alle politiche sociali una quota sempre più significativa del prodotto
nazionale finanziando dunque nuovi servizi e forme di assistenza.
In questa fase dunque la copertura degli schemi assicurativi venne estesa sempre
di più. Nei paesi anglo-scandinavi si consolidò un modello universalistico detto
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“beveridgeano”, in riferimento al nome dell’autore della riforma inglese, che
comprendeva tutti i cittadini. Mentre nel resto dell’Europa si diffuse il modello
“bismarkiano” o occupazionale fondato invece sulla pluralità di schemi
occupazionali (legati cioè ai diversi ambiti di lavoro) con prestazioni molto
differenziate tra loro.
In questi anni si diffuse tra l’altro il sistema di ripartizione per il finanziamento delle
pensioni, mediante il quale i contributi versati dai lavoratori attivi sono
immediatamente utilizzati per finanziare la previdenza dei pensionati.
- QUARTA FASE O FASE DI ISTITUZIONALIZZAZIONE E CRISI (anni ’70-’80)
Negli anni ’70 e ’80 le politiche sociali sono ancora in una fase di espansione, nel
senso che aumenta ancora la copertura dei programmi di protezione sociale e nascono
nuovi servizi che complessivamente portano all’affermazione di una “cultura pubblica”
del welfare. Di fatto un certo standard di servizi e di assistenza diventa un tratto
“normale” e caratteristico dell’equilibrio dei sistemi politici ed economici europei. In
questo periodo il sistema del welfare gioca sempre più esplicitamente anche una
funzione “redistributiva” ovvero di tamponamento delle disuguaglianze e delle
ingiustizie sociali. Si tenga conto che dal punto di vista politico negli anni ‘80 i partiti
iniziano a trasformarsi. La componente identitaria o di classe progressivamente si va
indebolendo lasciando il posto alla crescente importanza della rappresentazione degli
interessi di categorie o di specifici gruppi di pressione. Si comincia a parlare a questo
proposito di partiti “pigliatutto”, ovvero che pescano in ambiti anche differenti da quelli
che erano tipici della propria base sociale tradizionale.
Tuttavia con la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta si inaugura
parallelamente anche un periodo di crisi che dipende anche dalla difficoltà di
rispondere a nuovi problemi e condizioni in un contesto mutato: crisi dello sviluppo,
passaggio a una società post-industriale, invecchiamento della popolazione, processi di
globalizzazione e integrazione europea, trasformazione nei rapporti tra i generi e nei
modelli familiari. Inizia in particolare ad emergere un problema di deficit spending,
ovvero la realtà di una forte spesa pubblica sempre meno coperta dalle effettive
entrate tributarie che produce un crescente debito pubblico.
- QUINTA FASE O FASE DI RALLENTAMENTO E CONTRAZIONE (anni ’90-‘00)
Negli anni ’90 il problema del contenimento dei costi acquisisce una centralità nel
contesto delle politiche pubbliche. Da una parte diventa infatti sempre più stringente il
problema dello squilibrio tra l’estensione e la copertura del welfare e la riduzione delle
risorse. Dall’altra si fa strada una nuova cultura sociale e politica che vede una
crescente egemonia delle correnti di neoliberismo, ostili per principio alla centralità
dello Stato e all’intervento pubblico.
Le strategie di contenimento dei costi assunte dai diversi governi seguono tuttavia
indirizzi differenti.
Da una parte troviamo delle riforme tutto sommato marginali, che si limitano a
rivedere alcuni parametri (per esempio l’innalzamento dell’età pensionabile, o la
trasformazione delle formule per il computo delle pensioni, o il contenimento dei
consumi sanitari), dall’altra delle riforme più radicali che modificano la struttura dei
sistemi previdenziali, per esempio trasformando i sistemi a ripartizione in sistemi a
capitalizzazione, quindi in direzione di una maggior privatizzazione dei servizi. In
generale l’evoluzione è stata verso modelli cosiddetti di welfare-mix in cui si prevede
un riequilibrio del ruolo dei diversi attori sociali: lo stato, il mercato, le famiglie, il
terzo settore. Si tratterebbe di completare le possibilità degli uni con gli altri e
contemporaneamente di supplire ai limiti di ciascuno ottenendo maggiore
articolazione, decentramento e flessibilità.
Per descrivere queste trasformazioni si sono usati termini differenti – tagli,
Le analisi e le interpretazioni di medio o lungo periodo delle prospettive lavorative
per le future generazioni sono in verità piuttosto diversificate.
Jeremy Rifkin, nel suo celebre testo La fine del lavoro sostiene che stiamo
entrando
«in una nuova fase della storia del mondo: un’epoca nella quale saranno necessari
sempre meno lavoratori per produrre i beni e i servizi richiesti dalla popolazione
mondiale» (Rifkin, 1995, p. 16).
Egli ritiene che in futuro solamente una piccola élite di lavoratori specialisti, analisti
di simboli, potrà controllare tecnologie e forze di produzione, mentre la gran parte
degli altri lavoratori risulteranno sempre più chiaramente in eccesso.
L’analisi di Ulrich Beck sposta un poco l’accento della questione:
«Io non sostengo la fine dell’attività retribuita, ma la fine della società della piena
occupazione. Per “società della piena occupazione” intendo una società le cui principali
istituzioni si fondano sulla piena occupazione, nella forma del lavoro regolare e in cui il
lavoro dipendente retribuito è il modello della biografia normale degli individui» (Beck,
2000b).
E chiarisce ulteriormente che il problema non è quello della fine del lavoro
retribuito, quanto quello della fine di una società basata tendenzialmente sulla piena
occupazione (Beck, 2000c, p. 55).
Esistono anche altre prospettive di analisi. Per esempio Manuel Castells, a partire
dalla sua analisi della nuova economia fondata sull’informazione sostiene che siamo di
fronte piuttosto a una trasformazione del lavoro e ipotizza un futuro in cui sarà
presente una “forza lavoro centrale” costituita da manager informazionali e una “forza
lavoro disponibile”
«che può essere automatizzata e/o assunta/licenziata/trasferita all’estero, a seconda
della domanda del mercato e dei costi del lavoro» (Castells, 2002a, p. 323).
Qualunque sia la predizione sull’impatto complessivo delle nuove tecnologie - chi
ritiene che si vada verso la “fine del lavoro” (Rifkin), o verso la “fine della società della
piena occupazione” (Beck), chi si ritiene che la tecnologia si “limiterà” a trasformare
radicalmente la natura del lavoro, e dell’organizzazione della produzione, in direzione
di un’”individualizzazione del processo lavorativo” che frammenterà la società
(Castells) - la maggior parte degli studiosi comunque concordano su un punto:
«lo straordinario aumento di flessibilità e adattabilità consentite dalle nuove tecnologie
ha contrapposto la rigidità del lavoro alla mobilità del capitale. Ne è seguita
un’inesorabile pressione per rendere l’apporto del lavoro il più flessibile possibile»
(Castells. 2002a, p. 330).
Il lavoro salariato così come lo conosciamo dunque non sarà più il fulcro delle
biografie lavorative per la maggior parte delle nuove generazioni né, probabilmente, il
fulcro della politica. Il futuro del lavoro procede in direzione di una sempre più forte
flessibilità.
Dunque molto dipenderà dai diritti e dalle garanzie che definiscono il contesto,
sociale, economico e politico che si costruisce attorno ai lavoratori ai quali si chiede di
accettare la possibilità di una maggiore fluidità dell’esperienza lavorativa. Questa
trasformazione sarà di segno completamente diverso a seconda che i rischi ricadano
tutti sui lavoratori che vengono lasciati ad affrontare questa drammatica discontinuità
da soli, senza nessun supporto o garanzia, facendosi carico di tutti i problemi come
singoli, oppure se i diritti, le garanzie, le reti sociali e le risorse predisposte
politicamente saranno adeguate a sostenerli e ad accompagnarli serenamente verso
un nuovo approdo occupazionale. In altre parole se si intende costruire un modello
sociale collettivo di distribuzione equa dei rischi e dei benefici.
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Nel momento attuale l’esperienza della precarietà lavorativa si sta estendendo fino
a diventare un dato strutturale nella vita di un sempre maggior numero di persone
soprattutto nelle nuove generazioni.3
Una parte significativa della generazione dei ventenni e dei trentenni sta
già vivendo immersa nell’esperienza della flessibilità, del precariato, del
cosiddetto lavoro “atipico”.
Se si chiede a questi giovani che lavoro fanno, ci si accorge che un numero sempre
maggiore di persone si arrangiano attraverso una messe intricata di lavori precari,
saltuari, intermittenti. Dal punto di vista contrattuale tutte queste occupazioni
fluttuano tra lavori irregolari, prestazioni occasionali, collaborazioni ed incarichi a
tempo determinato, contratti a progetto, "collaborazioni coordinate e continuative",
lavori in affitto, a cui si sommano e si mescolano talvolta gli hobby o gli impegni e le
energie spese con gruppi o realtà sociali.
Il rapporto con il mondo del lavoro, da parte dei giovani, si caratterizza per diversi
aspetti problematici. Tra questi, uno dei più ricorrenti tra le nuove generazioni che si
indirizzano alla ricerca del lavoro è il mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro
nel senso di una netta discordanza tra competenze offerte dai giovani al
termine della propria formazione e tipologie di impiego offerte dal mercato.
In altre parole coerenza tra il proprio percorso formativo (lauree, diplomi universitari
ecc.) e l'offerta di lavoro disponibile.
Ora tenendo conto di questa situazione, per quelle generazioni di giovani che hanno
speso oltre sedici o diciotto anni della propria vita nello studio (elementari, medie,
superiori, università) e si trovano di fronte ad un mercato di lavoro piuttosto chiuso,
l'alternativa spesso è tra l'andare a lavorare in fabbrica sottoponendosi al regime di
salariato più classico, oppure, nella misura in cui si può contare su un appoggio
famigliare o economico, rendersi disponibile a piccoli lavoretti, in attesa di
un'occasione più favorevole ovvero più adeguata ai propri interessi e alla propria
preparazione. Ora se dal punto di vista dell'imprenditore la richiesta è quella di
adeguarsi o di aggiornarsi nella direzione delle professionalità e delle competenze più
richieste dal mercato, dal punto di vista dei giovani laureati ci può essere una
comprensibile resistenza ad abbandonare completamente aspirazioni, interessi,
competenze acquisite per adattarsi al mercato. Pensate che immensa, straordinaria
dissipazione di energie, di risorse, di tempo, di capacità, di conoscenze la nostra
società – che si rappresenta come razionale, efficiente, avanzata – produce nella
realtà. Che senso ha che persone diplomate, laureate, stageizzate, dottorate,
specializzate, masterizzate siano ancora a trenta, trentacinque, quarant’anni ancora
intente ad arrabattarsi o a fare lavoretti che non centrano nulla con le competenze che
si sono costruite?
Quel che è certo è che per molti giovani un accesso sicuro, diretto e stabile al
mondo del lavoro, un’occupazione regolare e retribuita è un’esperienza sconosciuta. Di
fronte alle statistiche che vengono offerte sulla disoccupazione giovanile credo tuttavia
che si ponga un problema oggettivo di ridefinizione del significato delle
categorie di occupazione e disoccupazione di fronte ad una realtà che presenta
molte e complesse sfumature. A fianco della tradizionale disoccupazione la condizione
di molte persone delle nuove generazioni appare piuttosto quella di una
sottoccupazione, e in certi casi anche di una sovraoccupazione, ovvero di
un’occupazione mal retribuita, spesso irregolare o ai limiti della regolarità e
3 Si possono ricordare alcuni dei più importanti passaggi legislativi che hanno trasformato la disciplina del lavoro:
-legge 196/1997 (pacchetto Treu), introduzione del lavoro interinale e delle Agenzie di fornitura di lavoro temporaneo.
-d.lgs 469/1997 (Bassanini). Trasfrimento delle politiche attive del lavoro e collocamento dallo Stato alle Regioni e agli enti locali. Introduzione per soggetti privati di attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. Fine del monopolio del collocamento. -legge 14 febbraio 2003 n. 30 (Legge Biagi). Flessibilizzazione in entrata; Ammodernamento servizi per l’impiego, nuove tipologie contrattuali: somministrazione di lavoro internale, lavoro a progetto, lavoro ripartito (job sharing), lavoro intermittente o a chiamata (job on call), lavoro occasionale accessorio, socio lavoratore di cooperative, apprendistato, contratto di inserimento, part time.
21
scarsamente riconosciuta dal punto di vista sociale e simbolico. Dunque quello che
ufficialmente viene definito disoccupazione o “non lavoro” è spesso in realtà un lavoro
enorme ed esteso, un lavoro semisommerso e in gran parte invisibile, poco retribuito e
per nulla garantito. A questo proposito si parla di working poors, ovvero di persone il
cui reddito di lavoro non gli permette di garantirsi la tranquillità economica e che
inseguono a fatica il proprio sostentamento.
Molti giovani da questo punto di vista cercano di compensare il basso riconoscimento
economico con una crescita della quantità di lavoro. Inoltre l’incertezza sul futuro
spinge queste persone ad accettare tutto quello che gli viene offerto in un dato
momento spesso ben oltre il limite di quello che riusciranno a gestire serenamente. Il
tempo di lavoro diventa assolutamente indefinito. Ogni momento della giornata,
comprese le ore dedicate ai pasti, al riposo, alle ore serali o notturne possono essere
spese per il lavoro. Se ci guardiamo attorno vedremo sempre di più giovani che hanno
intere giornate piene di lavori, lavoretti, occupazioni che lasciano a malapena il tempo
di respirare.
Anche dal punto di vista formale non è facile fare una distinzione. Le forme possono
essere differenti: collaborazioni a tempo determinato, contratti di formazione lavoro,
lavoratori interinali, lavoratori subordinati con prestazioni occasionali, o
parasubordinati con collaborazioni coordinate e continuative, partite iva, tirocinanti,
stagisti, soci di piccole cooperative autogestite, oppure quelle forme di lavoro
autonomo che sono state definite “di seconda generazione” (Bologna,
Fumagalli, 1997). Nella letteratura inglese c’è perfino chi propone come più
corrispondente la categoria di self employment a quella di lavoro indipendente, a
sottolineare che stiamo parlando di strategie di autorganizzazione del lavoro per tirare
avanti in qualche modo. Tuttavia le forme in questo regime di flessibilità e precarietà,
sono spesso fluide e poco indicative. La forma è determinata dall’offerta del momento
e non rappresenta alcuna continuità. Spesso si passa dall’una all’altra, talvolta si
sovrappongono. Ci sono lavoratori che svolgono un part-time da dipendenti la mattina
e che arrotondano o fanno altre esperienze attraverso collaborazioni e prestazioni
occasionali nel resto del tempo. Ci sono lavoratori formalmente autonomi, ma che in
realtà dipendono principalmente da un contratto di collaborazione o subfornitura con lo
stesso cliente e attorno a questo si costruiscono una serie di lavoretti o commissioni.
Nei fatti i giovani sono sballottati da un lavoro all’altro, spesso in occupazioni che non
hanno una coerenza o una connessione e dunque che non permettono facilmente un
accumulo di professionalità né un’identità professionale e sociale definita.
Si comprende dunque come nel vissuto di molti giovani vi sia una profonda
questione che riguarda l’ansia e l’angoscia rispetto al prossimo lavoro e più
profondamente rispetto al proprio posto nella società. La propria condizione li porta
talvolta a ritenersi non predisposti, non adeguati all’inserimento sociale ed
economico. Si domandano se la società in cui vivono è interessata al proprio
contributo, alla propria esistenza oppure no. Si domandano se la comunità fa in
qualche modo affidamento su di loro, se li “mette al lavoro”, nel senso di dargli
un’occasione per farsi valere. E la risposta è tutt’altro che ovvia. Il lavoratore precario
infatti può trovarsi nella condizione di non avere nessuna offerta, come nessuna
risposta alle proprie offerte, oppure può fare esperienza di un impiego, ad esempio
tramite le agenzie di lavoro interinale, in cui il contenuto determinato del lavoro è
quasi del tutto indifferente, così come è assolutamente indifferente chi lo svolge.
L’importante è che si riesca a coprire quel buco di qualche mese, nel ciclo della
produzione. Dunque se l’incertezza sul futuro può creare una tensione e un’angoscia
costante, il messaggio di silenzio, d’indifferenza quando non di cinismo che le
nuove generazioni ricevono dalla società li può portare anche verso la depressione o la
rabbia.
Capita che giovani laureati e preparati perdano così fiducia in se stessi perché si
passano attraverso lavoretti iperprecari, uno dopo l’altro, e anziché andare avanti si
trovano come chiusi in una porta girevole che continua a farli girare in tondo. Si tratta
di una generazione di lavoratori che quotidianamente si trova ad affrontare tensione,
incertezza, angoscia e che deve trovare risorse e conferme in se stessi e nella propria
rete di relazioni più che nel lavoro in sé. La generazione immediatamente precedente a
22
questa non ha affatto un’esperienza sociale, economica e mentale della flessibilità. Per
molti aspetti la condizione dei nuovi lavoratori è inedita e originale.
Senza pretendere di tracciare un profilo completo dei nuovi lavoratori precari, vorrei
prendere in esame alcuni aspetti che segnalano un mutamento di fondo e che a mio
avviso hanno una ricaduta sul senso di appartenenza sociale e civile.
La prima cosa che vorrei notare è che nello scenario postfordista l’ambiente di
lavoro non è preesistente al lavoro e il lavoro non è preesistente al
lavoratore. Nella società fordista il lavoratore veniva inserito in un posto
precostituito, definito e delimitato rigidamente, sia come luogo fisico, sia come
mansioni e competenze, sia infine come organizzazione definita del tempo e della
prestazione. Al contrario oggi il lavoro precario postfordista in tutte le sue forme –
autonoma, subordinata, atipica, di terzo settore - costituisce un terreno in cui il
lavoratore crea, inventa il proprio lavoro, le proprie mansioni e i propri tempi; in gran
parte costruisce o perlomeno delimita conseguentemente il proprio stesso “ambiente
di lavoro” a partire dalle proprie conoscenze, dalle proprie abitudini, dalle tipologie di
relazioni che mette in gioco, da alcune intuizioni di fondo, dalla capacità di reagire agli
imprevisti e ai mutamenti anche contingenti della realtà esterna (del mercato, delle
condizioni sociali, dei partner, dei canali di finanziamento ecc.). Questa attività di
costruzione professionale e sociale contemporaneamente è qualcosa di molto faticoso
e molto esposto al rischio eppure è spesso l’unica possibilità per trovare una
collocazione e anzi per inventarsi un ambiente lavorativo meno costrittivo, meno
dipendente, meno alienato, meno rutinario e ripetitivo.
Lo stesso spazio non è dunque qualcosa di chiaramente definito. Non è più o
non è solo l’ufficio o la fabbrica, intesi come due luoghi chiaramente distinti. Ma è la
casa-ufficio e più ancora la casa-ufficio assieme a gli uffici, e a diversi altri luoghi di
incontro e socializzazione. Nei fatti questi lavoratori si misurano con una pluralità di
spazi, i diversi luoghi che attraversano passando da un lavoro all’altro, o anche
attraverso uno stesso lavoro. Sono luoghi formali e informali, perché sempre di più le
cose si progettano, si decidono, si organizzano anche in luoghi di incontro: bar-tavole
calde, pizzerie, piazze, case private. Dunque virtualmente ogni spazio di incontro e di
scambio diventa spazio di lavoro. Non c’è uno spazio di lavoro a parte. O meglio, come
sottolinea Bologna, il luogo di lavoro – anche quando rimane distinto – viene assorbito
“nel sistema di regole della vita privata”, «la cultura e le abitudini della vita privata si
trasferiscono sul luogo di lavoro» (Bologna, Fumagalli, 1997, p. 16).
Il lavoro spesso è un caratterizzato da una forte presenza di dimensioni
immateriali, relazionali, comunicative, connettive. Al contrario del lavoro
fordista, dove queste dimensioni erano considerate accessori del lavoro centrale di tipo
produttivo e materiale e dunque scarsamente considerate, nel nuovo lavoro invece la
produzione avviene in gran parte attraverso la costruzione di relazioni e di percorsi
comunicativi. Nel nuovo modo di produzione – sostiene Christian Marazzi4 –
comunicazione e produzione sono tutt’uno, c’è un processo produttivo comunicativo e
le tecnologie usate sono fondamentalmente “macchine linguistiche” - che hanno lo
scopo di fluidificare e velocizzare la circolazione di informazioni. Come sottolinea Tiddi:
«La forza lavoro postfordista opera con e nei linguaggi, nella comunicazione, manipola
oggetti di carattere relazionale, intellettuale, affettivo, comunicativo, gestisce saperi
tecnici e scientifici: in questo senso non ha molto a che vedere con la semplice
amministrazione di processi altrui, è produzione di processi non meno di quanto sia
una loro amministrazione» (Tiddi, 2002, p. 45)
Spesso si tratta di un lavoro che ha a che fare direttamente con dimensioni di cura di
persone e di affetti, oppure di cura di contesti relazionali e sociali, attraverso attività
culturali, di organizzazione, di intrattenimento, di divertimento. In senso generale si
può sintetizzare che si tratta in gran parte di attività di “produzione di socialità” e di
“riproduzione sociale”
4 Cit. in Tiddi, 2002, pp. 45-46.
23
Un altro aspetto emergente riguarda il diverso vissuto del tempo dei lavoratori
postfordisti. Prima abbiamo descritto la condizione lavorativa di questi nuovi
lavoratori come una situazione in cui la distinzione tra tempo di lavoro e tempo
personale, di vita, viene messa fortemente in crisi. Non ci sono tempi di ufficio, non ci
sono regole esterne e dunque potenzialmente non ci sono limiti se non quello che ci si
da autonomamente. E tuttavia questa autonomia non è mai pienamente tale. Poiché si
è più soli, più precari, più incerti sul futuro, si tende a utilizzare tutto il tempo
disponibile per assolvere consegne, incarichi, e dunque mantenere attiva una rete più
ampia possibile di “clienti” o “committenti” soddisfatti.
Da una parte il lavoro colonizza gran parte delle ore attive di queste persone ben al di
là dei limiti del vecchio tradizionale lavoro d’ufficio, dall’altra parte la vita del soggetto
lavoratore entra fortemente dentro al lavoro e anche alla prestazione professionale:
carriera, che antepone il lavoro alla famiglia, riguarda anch’essa una minoranza.
Mentre la stragrande maggioranza delle donne cercano di conciliare l’impegno
lavorativo con il progetto famigliare. Nella maggior parte dei casi abbiamo di fatto un
tempo pieno per entrambi i coniugi lavoratori anche se il lavoro femminile è
generalmente più precario.
Il problema è dunque come supportare questo cambiamento per evitare che
l’alternativa si ponga nei termini della scelta tra bassa fecondità e bassa condizione
lavorativa delle donne. Fonte: Eurostat, Labour Force Survey
Ora questa trasformazione ha fatto emergere alcuni bisogni fondamentali legati alla
cura, in particolare dei bambini e anche degli anziani. Questo apre due questioni: la
prima legata alla redistribuzione del lavoro di cura tra madri e padri, tra uomini
e donne; la seconda il passaggio da un modello di Welfare che si appoggiava ad
un sistema familistico tradizionale a una nuova concezione di Welfare che sa
trasformarsi in relazione alla diversa situazione culturale, economica e sociale.
Vediamo per il momento il primo punto.
Come è logico pensare, permettere e rafforzare l’ingresso delle donne nel mondo
del lavoro retribuito significa molto inevitabilmente diminuire la parte di lavoro
salariato di “produzione” riservata agli uomini e ridistribuirla permettendo un maggiore
accesso e una maggiore autonomia alle donne e ai giovani. D’altra parte le
metamorfosi del lavoro dovrebbero essere guidate in modo da consentire agli uomini
abituati al lavoro salariato di produzione di compartecipare in maniera più paritaria
all’impegno domestico di “riproduzione”, ovvero alla cura delle relazioni, degli affetti,
della crescita dei figli, alla cura dello spazio abitativo e conviviale, riequilibrando in
questo modo l’eccessivo carico e la tradizionale delega alle donne. Questo riequilibrio
dovrebbe ridurre la “disoccupazione salariata” femminile e la “disoccupazione
domestica” maschile. Si tratta come hanno detto alcune donne di andare oltre
l’aspirazione all’indipendenza per «aprire lo spazio all’interdipendenza» (Aa.Vv.,
2005, p. 15).
Certamente le trasformazioni sociali e culturali che negli ultimi decenni hanno
trasformato la maggior parte delle famiglie europee da “monoreddito” a
“doppio reddito” ha contribuito a mettere in crisi il modello tradizionale in cui la
divisione dei ruoli ripercorreva rigidamente uno schema complementare tra un padre
responsabile degli introiti familiari e una madre occupata nelle necessità domestiche.
In linea generale certamente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro è
corrisposto anche una maggiore presenza e partecipazione dei padri nelle dimensioni
31
di cura dei figli. Ma in generale questo cambiamento è stato tutt’altro che simmetrico e
proporzionale.
Ma qual è, in effetti, il reale contributo dei padri nelle famiglie attuali e
dunque quali sono le condizioni “normali” di questa presenza sia in relazione allo stato
attuale che in prospettiva?
A questo proposito possiamo cercare di desumere qualche dato e qualche
riferimento dagli studi e dalle ricerche effettuati sulla presenza dei padri nello spazio
domestico nel contesto italiano.
Alcune indicazioni possiamo trarle dall’indagine Multiscopo dell’ISTAT sulle
famiglie “Uso del tempo” che concentra le sue analisi fra l’altro sulle “differenze di
genere nelle attività del tempo libero”. Da questa indagine emerge in generale che
l’Italia è uno dei paesi con meno tempo libero a disposizione dei suoi cittadini in
Europa e per quanto riguarda le donne il tempo libero scende ancora. In Italia:
“la dimensione del tempo libero evidenza un forte e generalizzato gap di genere:
nel corso della giornata le donne dispongono mediamente di meno tempo libero
rispetto agli uomini in tutte le fasi della vita. Questa differenza si presenta durante
l’infanzia, si acuisce con l’ingresso nell’età adulta e l’assunzione di ruoli di
responsabilità familiare, e continua fina alle età più avanzate”.9
Si può capire dunque come una certa disparità rispetto all’uso del tempo per sé e
per gli altri abbia origini piuttosto profonde e remote. Tra l’altro un dato noto ma che
questa indagine conferma è che comparando la condizione delle madri la presenza del
partner lungi da permettere un alleggerimento del carico di lavoro e quindi un
aumento del tempo libero costituisce un ulteriore svantaggio per il proprio tempo
libero. In effetti le madri sole possono contare su circa 3h21’ al giorno contro le 2h57’
delle madri con partner.10
Anche tra gli occupati la differenze nella disponibilità di tempo libero permangono
anche se attenuate: 2h52’ delle donne contro le 3h48’ degli uomini.
L’indagine rivela che le donne rimangono penalizzate perfino nel week end e che a
quasi tutte le ore del giorno le donne impegnate nelle attività del tempo libero sono
meno numerose degli uomini.
In termini generali quello che emerge dalle ricerche11 è che in corrispondenza della
nascita dei figli le donne lavoratrici cercano di conciliare professione e impegno di
cura, dunque affrontano un’autolimitazione delle proprie opportunità lavorative,
rinunciando spesso alla propria carriera e assumendosi un maggior carico di cura nello
spazio domestico. Mentre da parte dei padri non c’è la stessa disponibilità. Il tempo
dedicato ai figli e alla famiglia è comunque residuale rispetto al proprio impegno
lavorativo. Generalmente l’assunzione di responsabilità di fronte alla famiglia e ai figli
non corrisponde ad un’autolimitazione o addirittura ad una rinuncia sul piano delle
opportunità di carriera.12 Nel caso dei padri si può parlare solo di un qualche
aggiustamento ma non di una riorganizzazione reale, di una rivoluzione o di
un’interruzione temporanea di carriera come accade alle madri.
Anzi talvolta si può registrare l’atteggiamento inverso: di fronte alla nascita dei figli
i padri si preoccupano di aumentare le occasioni di lavoro per accrescere le
9 ISTAT, Le differenze di genere nelle attività del tempo libero. Anni 2002-2003, Roma, aprile 2006, p. 2.
10 Ibid., p. 4.
11 Vd. per esempio, Fortuna Procentese, Padri in divenire. Nuove sfide per i legami familiari, Franco Angeli,
Milano, 2005, p. 51, dove si afferma che nella ricerca svolta circa metà delle madri (50,8%) dichiara di aver cambiato orario di lavoro dopo la nascita di un figlio, mentre la maggioranza dei padri padri (63,8%) dichiara di non aver apportato nessun cambiamento nella propria attività lavorativa. 12
Si può sottolineare tuttavia, da questo punto di vista, che l’atteggiamento di delega dei padri è favorito anche dal fatto che, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, la riduzione del tempo di lavoro, nell’ottica di un regime più flessibile atto a rispondere anche alle necessità familiari, il più delle volte corrisponde concretamente e senza differenziazioni possibili, al passaggio ad una condizione di precarietà lavorativa. È possibile immaginare che forme più regolamentate e garantite di flessibilità lavorativa potrebbero risultare più attraenti e accettabili anche da parte dei nuovi padri.
32
disponibilità economiche in vista delle nuove necessità della famiglia. Questo fatto
naturalmente non è una colpa, ma tuttavia evidenzia che di fronte all’allargamento
della famiglia padri e madri reagiscono con modalità in qualche misura determinate dai
ruoli e dai modelli di genere introiettati e suggeriti dalla cultura e dal contesto sociale.
Come ha sottolineato Chiara Saraceno,
“l’avere figli accentua innanzitutto il ruolo di breadwinner del padre,
simmetricamente a quanto avviene per le madri in direzione del ruolo di caregiver”.13
Anche le possibilità14 offerte dalla legge 53, 8 marzo 2000 “Disposizioni per il
sostegno della maternità e della paternità per il diritto alla cura e alla
formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, e dal Decreto
legislativo 26/3/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità) a norma dell’articolo 15 della
legge 53/2000 non sembrano aver apportato grandi cambiamenti.
Certo ci sono anche difficoltà concrete – dall’effettiva conoscenza di questi
strumenti alle difficoltà incontrate nei contesti lavorativi, all’impossibilità per i
lavoratori autonomi di accedere a queste misure – ma il limitato ricorso15 a questa
opportunità segnala quantomeno una scarsa attenzione da parte dei padri ad
assumersi una diretta responsabilità nella cura fin dal momento della nascita dei figli.
Si può sottolineare tuttavia, che l’atteggiamento di delega dei padri sembra favorito
dal fatto che la riduzione del tempo lavorativi o la concessione di permessi viene
spesso osteggiato o mal tollerato da parte delle imprese e degli altri contesti di lavoro.
Il rischio che un regime più flessibile atto a rispondere anche alle necessità familiari,
finisca col corrispondere concretamente ad un declassamento ad una condizione di
precarietà lavorativa può rappresentare un notevole ostacolo non solo culturale. È
possibile immaginare che forme più regolamentate e garantite di flessibilità lavorativa
potrebbero risultare più attraenti e accettabili anche da parte dei nuovi padri. Per ora
quello che si registra è un sentimento molto diffuso di insoddisfazione per la propria
condizione lavorativa e un forte desiderio di cambiamento. Da questo punto di vista
questo tipo di problemi interrogano anche il mondo dell’impresa.
In che misura le aziende, le amministrazioni pubbliche, possono aiutare i padri in
questo dilemma e in queste tensioni? Alcune imprese – questo è l’auspicio -
potrebbero trovare interessante sperimentare nuove condizioni di lavoro favorevoli ad
una conciliazione dei tempi lavorativi e famigliari. Tuttavia il problema non si pone
semplicemente a livello della singola impresa. La tensione verso il massimo impiego
possibile del singolo lavoratore dipende anche dalle logiche competitive vigenti nel
mercato globale.
Dunque a mio modo di vedere il tema della conciliazione riguarda non solo
un’articolazione del tempo ma un confronto, una conciliazione di senso, di significato,
di logiche tendenzialmente differenti. Oggi è in atto un conflitto simbolico sul senso del
tempo: da una parte il tempo ottimizzato per la produzione, e il consumo concepito
come prioritario, dall’altra il tempo per rigenerarsi, per relazionarsi, per conoscere, per
riprodursi che diventa sempre più oggetto di lusso e di desideri sociali. Il sistema
tradizionale è fondamentalmente orientato al profitto e alla competizione attorno alla
produzione di cose e non è per nulla interessato alle dimensioni della riproduzione che
concepisce come esternalità. La riproduzione delle persone, delle famiglie, della natura
sono pensate solamente come qualcosa di esterno al sistema economico. La
procreazione, la nutrizione, le relazioni, la cura, gli affetti, l’amore, a fatto privato,
assegnato alla responsabilità femminile ed escluso dalla considerazione sociale,
economica e politica. La crisi cui ci troviamo di fronte dunque è allo stesso tempo
politica, economica e sessuale. Ripensare la politica, ripensare il lavoro, ripensare
13
CHIARA SARACENO, “Paternità e maternità. Non solo disuguaglianze di genere”, relazione al convegno “La paternità in italia” del 20 ottobre 2005, disponibile on line: http://www.istat.it/istat/eventi/paternita2005/ 14
I coniugi possono godere di sei mesi a testa e dieci insieme, ma i padri che decidono di usufruire del congedo per un periodo di almeno tre mesi possono avere un mese in più (per un totale di undici mesi di congedo insieme). 15
Per una sintesi di alcune ricerche in merito si veda Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit., pp. 73-83 e 108-112.
l’economia significa creare un nuovo ordine simbolico delle relazioni tra uomini e
donne che vada oltre le logiche di contrapposizione tra pubblico/privato,
competizione/solidarietà, produzione/riproduzione. Le famiglie, da questo punto di
vista, sono uno dei terreni principali dove si sta giocando questa partita. Dalla
possibilità di ritrovare un equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di vita non dipende
solo la realizzazione di una vita famigliare soddisfacente ma dipende il futuro stesso
della nostra società.
Tuttavia restano le difficoltà di mentalità da parte degli stessi padri, in
particolare italiani. Anche per quanto riguarda più specificamente la cura dei figli il
cambiamento non ha finora determinato un sostanziale superamento delle tradizionali
divisioni di genere, e al di là della retorica non si è ancora realizzata una totale
fungibilità dei ruoli materni e paterni.
Come mostra l’indagine dell’ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e
figli secondo un approccio di genere (2006), in termini generali il tempo medio
impiegato nella cura da parte dei padri in quindici anni (1988-2003) è aumentato
mediamente di 18 minuti giornalieri:
“Il confronto con il 1988-89 mette in luce dei mutamenti nella direzione di un
maggiore coinvolgimento dei padri come per le madri, nella cura dei figli: di fatto,
sono aumentati i padri che si prendono cura dei figli (di 17 punti percentuali: dal 41,8
per cento al 58,6 per cento) ed è aumentato di 18 minuti il tempo impiegato nella cura
(da 27’ a 45’). Anche le durate medie specifiche, risultano più elevate di 11’, il che
significa che non aumenta solo il numero di padri coinvolto in tali attività, ma anche il
tempo che effettivamente i padri vi dedicano”.16
Per quanto riguarda le altre attività esse sono aumentate solo lievemente nel caso dei
lavori domestici (da 35’ a 38’ = + 3’) o sono rimasti sostanzialmente stabili nel caso
delle attività di acquisti di beni e servizi (16’).
Si può notare tuttavia che queste medie non fanno emergere né la distribuzione
dell’incremento dell’impegno dei padri in riferimento all’età e al grado di istruzione
(per alcuni l’impegno è aumentato significativamente mentre per altri può essere
rimasto assolutamente invariato), ma anche i diversi investimenti da parte dei padri
nelle differenti attività di cura e di relazione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si può osservare che il cambiamento va
misurato anche focalizzando l’attenzione sui cambiamenti generazionali. In effetti si
può presumere che i cambiamenti nei modelli di paternità si affermino man mano che
di generazione in generazione si modificano mentalità e abitudini.
Nell’indagine ISTAT, La vita di coppia (2006), le donne intervistate dichiarano
che tra le attività più condivise con i propri partner ci sono quelle svolte assieme ai
figli. Complessivamente è aumentata nella graduatoria delle attività svolte insieme il
giocare con i figli che è passato dal 37,4% nel 1998, al 40,2% nel 2003. Mentre
l’uscire assieme con i figli è leggermente diminuito: dal 36,2% al 35,7%. Tra le attività
svolte assieme anche l’andare a fare la spesa assieme è aumentata dal 28,5% del
1998 al 31,2% del 2003. Queste attività diventano ancora più presenti nelle coppie più
giovani. L’85,5% delle donne fino a 44 anni dichiarano di uscire assieme con i loro
partner e con i figli e addirittura l’88,6% dichiarano di giocare con i figli assieme al
proprio partner. Tale propensione decresce drasticamente col crescere dell’anzianità
della coppia.
Questa trasformazione emerge ancora meglio se si prende in esame la frequenza di
queste attività. Tra le donne più giovani, quelle tra i 35 e i 44 anni, il 29,1% dichiara
di andare a far la spesa assieme al proprio compagno “spesso”, e il 37,9% “qualche
volta”, il 56,8% dichiara di giocare “spesso” con il figlio assieme al partner e il 25,8%
“qualche volta”, mentre il 61,7% dichiara di uscire “spesso” con i figli ed il partner e il
25,9% “qualche volta”. Nelle donne ancora più giovani - di età inferiore ai 34 anni – il
dato cresce ulteriormente: il 35,8% dichiara di andare a far la spessa assieme
16
ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, a cura di Alessandro Rosina e Linda Laura Sabbadini, Roma, Edizione provvisoria, 2006, p. 231.
34
“spesso” mentre il 37,1% “qualche volta”, il 71,4% di giocare “spesso” con i figli
assieme e il 73,6% di uscire “spesso” assieme con figli e partner e il 16,8% “qualche
volta”.
Il cambiamento generazionale ha una sua importanza e sottolinea una tendenza
positiva in prospettiva. Non solo, ma si può presumere che da questo punto di vista i
comportamenti trasmessi per imitazione e interiorizzazione potrebbero portare a
modificazioni esponenziali nel giro di breve tempo. I figli di quei padri che oggi
cominciano ad essere presenti nelle relazioni domestiche e nelle attività di cura molto
probabilmente verranno socializzati secondo queste nuove condizioni e apprenderanno
un certo stile di presenza e di impegno relazionale come forma di consuetudine.
Dunque lo rimetteranno in atto con una “naturalezza” ancora maggiore dei propri
padri.
E ancora va sottolineato che nei padri che sperimentano la novità dell’impegno nelle
relazioni di cura non si tratta solamente di un aumento di presenza sul piano
quantitativo ma di una effettiva sperimentazione di nuove dimensioni relazionali. Si
tratta di padri più coinvolti emotivamente ed affettivamente, più disponibili a mettersi
in gioco, più capaci di coinvolgersi anche attraverso modalità nuove per esempio
corporee e non verbali. Non possiamo qui approfondire questi aspetti ma si deve
sottolineare che anche se parliamo di una piccola “avanguardia” di padri, le esperienze
che questi fanno porteranno probabilmente conseguenze molto ampie e profonde.
Contemporaneamente, tuttavia, per comprendere meglio cosa effettivamente sta
cambiando e cosa invece rimane sostanzialmente immodificato occorre analizzare più
nel dettaglio l’impegno da parte dei padri.
In effetti si può osservare con chiarezza come il cambiamento nel
coinvolgimento da parte dei padri sia un processo sostanzialmente selettivo e
ambivalente. Nelle attività di cura dei figli si può distinguere infatti tra attività
routinarie, ripetitive ma essenziali (far da mangiare, lavare e pulire il bambino,
vestirlo, farlo addormentare) e le attività interattive più aperte e relazionali (attività
educative, attività ludiche e di svago).
La già citata indagine ISTAT Diventare padri in Italia prende in esame a questo
proposito cinque diverse attività di cura di routine o “strumentali”:
i) vestire il bambino;
ii) preparargli i pasti;
iii) cambiargli il pannolino;
iv) fargli il bagno;
v) metterlo a letto.
Si nota quindi che una quota più cospicua di padri svolge quotidianamente attività
quali mettere a letto il bambino o dargli da mangiare, mentre ci sono ancora molti
padri che non si occupa mai di far loro il bagno - 37,8% di padri con figli 0-2 anni e il
39% con figli 3-5 anni - o di cambiargli il pannolino - 31% di padri con figli 0-2 anni e
49,3% di padri con figli 3-5 anni (ma a questa età naturalmente l’esigenza
diminuisce).
Sommando i punteggi delle cinque attività in particolare per i figli più piccoli, i
ricercatori dell’ISTAT notano che solo una piccola minoranza dei padri, pari a meno del
5% del campione, svolge quotidianamente tutte le attività essenziali per la cura dei
figli.17 Dunque nel complesso ancora oggi la presenza dei padri nelle attività di
cura riguarda il più delle volte un ruolo di sostegno e di supporto alle madri
cui è ancora in gran parte demandato la continuità delle attività essenziali di
cura. In termini generali il coinvolgimento paterno aumenta quando anche la
donna lavora e nelle coppie con più alto livello di istruzione.
Nei fatti, nonostante il progressivo impegno lavorativo delle donne,
17
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 154.
35
“continuano a ricadere sulla giornata della donna oltre i tre quarti (78,3%) del
tempo complessivamente dedicato dalla coppia al lavoro familiare”.18
Generalmente i padri tendono a giustificare la minor presenza nelle attività di cura
rispetto alle madri sulla base della limitata disponibilità di tempo dovuta all’impegno
lavorativo. Tuttavia l’idea che sia il tempo a spiegare la suddivisione e lo squilibrio
nelle attività di cura dei figli tra uomini e donne si scontra con il fatto che la
disponibilità dei padri è fortemente disomogenea rispetto al tipo di attività.
Attualmente relativamente alle coppie in cui entrambi i genitori sono occupati, si
registra infatti una suddivisione dell’impegno piuttosto equa tra padri e madri
solamente nelle attività più gratificanti quali quelle legate alla comunicazione e al
gioco e al tempo libero ma per tutto il resto (cura del corpo, preparazione dei pasti,
pulizia della casa ecc…) l’asimmetria di presenza e di impegno tra padri e madri
permane molto forte.19
Inoltre al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare il coinvolgimento dei padri
nell’attività di routine non è direttamente proporzionale al tempo libero. La
partecipazione è più alta tra i padri con un orario di lavoro intermedio (36-40 ore
settimanali) mentre è più bassa tra i padri con un orario lavorativo estremamente
breve. Il che significa che con l’aumentare del tempo libero dei padri il proprio
coinvolgimento non va proporzionalmente a tutte le attività di cura dei figli ma si
indirizza comunque alle attività più ricreative e gradevoli.20
Dunque emerge piuttosto chiaramente che il diverso coinvolgimento dei padri non
varia solo in funzione del tempo ma anche della propensione e disponibilità verso
specifiche attività.
Per tentare un’interpretazione, lo stato attuale delle ricerche sulla disponibilità al
coinvolgimento dei padri nei confronti dei figli, suggerisce che il cambiamento si
situa più nella dimensione emotiva e affettiva che in quella educativa; più in
quella educativa che in quella di cura; e più in quella di cura che in quella
della responsabilità e condivisione del lavoro domestico.
Si tratta quindi di registrare il fatto che c’è una selezione e una resistenza da parte
maschile verso alcune pratiche e alcune forme di responsabilità nei rapporti genitoriali
e di cura. Da questo punto di vista si può anzi sottolineare che l’avversione maschile al
lavoro domestico e materiale, confrontando i dati sull’investimento di tempo del
1988/99 con quelli del 2002/03 sembrerebbe addirittura aumentata (-2’).21
Perfino nel cambiamento sembra dunque agire una specie di griglia o di
grammatica di genere. Alcune attività considerate positivamente e ritenute
onorevoli e gratificanti possono lentamente ma progressivamente essere assunte dai
padri, mentre altre ritenute noiose, faticose, gravose continuano ad essere evitate e
delegate alle madri. Indagini condotte in 14 paesi europei danno lo stesso risultato:
“il padre è più coinvolto nelle attività interattive, come giocare o aiutare nel fare i
compiti scolastici, meno in quelle cosiddette di sorveglianza. Praticamente ovunque
l’attività meno condivisa è preparare i pasti, quella più frequentemente condivisa è il
gioco”.22
E nel contesto europeo i padri italiani risultano essere tra i più tradizionalisti.
Che significato dare a tutto questo? La persistenza di abitudini culturali, la
resistenza verso le dimensioni meno gratificanti o la presenza di elementi simbolici
non riconosciuti?
18
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 224. 19
L’indice di asimmetria più bassa tra padri e madri si registra nelle attività di parlare con i bambini (42, 6) o di parlare e giocare con i bambini (53,1) mentre l’indice di asimmetria più alto si registra nella sorveglianza e nelle cure fisiche (85,0) e nell’aiutare i bambini nei compiti (79,4). Vd. Tavola 9.3 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 229. 20
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 189. 21
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 243. 22
PAOLA DI GIULIO, SIMONA CARROZZA, Il nuovo ruolo del padre, in Genere e demografia, a cura di Antonella Pinnelli, Filomena Racioppi, Rosella Rettaroli, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 316.
36
Sul piano simbolico si potrebbe dire per un verso che i padri sono disposti a
sperimentarsi in rapporti emotivi e relazionali con i figli, ma che attuano ancora forme
di resistenza rispetto ad attività ritenute troppo “materiali” o “servili”.
Questo tuttavia significa che c’è ancora in nuce la tendenza da parte di alcuni padri
di farsi servire dalle proprie compagne. Fatto salvo che queste attività più servili
possono essere sempre delegate a figure esterne alla famiglia. Ed è piuttosto
significativo che sempre più spesso queste figure esterne siano donne immigrate. Qui
si rivela un intreccio forte tra relazioni di potere sessuali e relazioni di potere socio-
culturali. Al di là di questo emerge comunque un problema culturale molto forte.
L’idea di cura e di accudimento da parte degli uomini e dei padri è ancora
largamente incompleta e immatura. In generale c’è dunque una sopravvalutazione
dei cambiamenti dei padri. Certamente non è legittimo parlare oggi di “padri assenti”
negli stessi termini con cui se ne parlava in passato, e tuttavia questi dati, confermati
in tutte le ricerche, suggeriscono che ancora oggi siamo di fronte a una situazione
familiare nella quale
“il ruolo di cura si caratterizza per la centralità di una delle due figure parentali
e la perifericità dell’altra”.23
Ora le dimensioni affettive ed educative costituiscono solo una parte del più ampio e
complesso impegno relazionale verso i figli che necessita anche di un
accompagnamento quotidiano, del soddisfacimento dei bisogni essenziali, della cura
del corpo e della salute, dell’attenzione agli ambienti e ai contesti ecc.
Da questo punto di vista si possono riconoscere diversi tipi di cura a seconda
che il coinvolgimento e la responsabilità riguardino:
- cura del gioco: dimensioni ludiche, di svago;
- cura degli affetti: dimensioni emotive e relazionali;
- cura della socializzazione: reti di relazioni, incontri, condivisioni;
- cura della salute: sorveglianza, assistenza nei bisogni corporei e psicologici;
- cura dei contesti: organizzazione degli spazi e dei tempi;
Quello che è in gioco dunque è un cambiamento culturale, psicologico e potremmo
dire anche antropologico. Se è vero che il lavoro è stato uno dei pilastri portanti della
costruzione dell’identità maschile in tutte le generazioni precedenti, attualmente
l’incertezza lavorativa sta creando negli uomini una fortissima insicurezza psicologica e
anche identitaria. Mentre stanno cercando di trovare un equilibrio tra lavoro e vita, tra
lavoro e famiglia, le nuove generazioni di uomini stanno anche costruendo dei percorsi
di trasformazione dell’identità maschile e dei modelli di paternità. Per esempio oggi i
padri si trovano nella condizione di dover trovare un senso di autorevolezza nelle
relazioni famigliari che non dipenda più né dallo status sociale né dal potere.
Il cambiamento che devono affrontare gli uomini per disporsi alla condivisione del
lavoro domestico è una questione piuttosto ampia che coinvolge anche
l’acquisizione di competenze e di una maggior fiducia nelle relazioni. Posto
infatti che dal punto di vista tecnico vengano predisposte anche per gli uomini tutte le
possibilità di prendersi il tempo necessario per il lavoro di cura, la domanda è: ma poi
lo faranno effettivamente?
Evidentemente il fatto non riguarda solamente la soluzione tecnica della
riorganizzazione del tempo di lavoro, ma riguarda soprattutto dimensioni psicologiche
e culturali: l’immagine di sé, la disponibilità a mettersi in gioco, a mettersi a nudo sul
terreno dell’intimità, la confidenza con il linguaggio e la comunicazione relazionale
ecc… Il desiderio di mettersi alla prova in questi ambiti potrebbe dunque esistere, ma
confrontarsi con altri desideri: il desiderio di sicurezza e di tranquillità, o quello di
mantenere un certo controllo, un distacco, un potere. La possibilità di questo
23
Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit, p. 60.
37
cambiamento riposa in gran parte sul desiderio degli uomini di oggi e di domani. E
d’altra parte quei padri che cercano di essere presenti e compartecipi in senso più
profondo devono al contempo riuscire ad far accettare culturalmente la propria nuova
idea di maschilità nella società attuale. L’impegno di cura è un impegno oneroso,
faticoso, e certamente non sempre gratificante ma che forse costituisce veramente un
salto verso una presenza più completa e profonda nelle relazioni familiari che
regala anche una percezione diversa di sé, dei figli e della vita, poiché il lavoro di cura
non è solo fatica “ma anche maggiore costruzione di intelligenza delle cose e delle
persone”.24
Ora la seconda questione riguarda dunque come le politiche sociali possono
supportare questo cambiamento. Le osservazioni che possiamo fare sono diverse.
In generale le innovazioni che hanno introdotto la possibilità di un congedo o
interruzione temporanea dal lavoro nei diversi paesi europei non hanno inciso molto.
L’interruzione è tutt’al più simbolica. Ci sono tuttavia due eccezioni significative Svezia
e Norvegia dove molti padri prendono un congedo prolungato di paternità che non è
trasferibile sull’altro coniuge.
Secondo Gosta Esping-Andersen ci sono essenzialmente tre sistemi per spingere gli
uomini a una maggiore collaborazione:
1) Rafforzare la posizione della donna nella famiglia in termini di capacità
reddituale. La posizione negoziale più forte delle donne che hanno una buona
sistemazione lavorativa e un più alto reddito rappresenta un forte incentivo a una
maggiore redistribuzione dei compiti. Come ha scritto Gosta Esping-Andersen «Il loro
potere di negoziare deriva principalmente dal grado d’indipendenza economica»
(Esping-Andersen, 2010, p. 44). Questo invita anche a pensare l’importanza delle
politiche di supporto ai percorsi lavorativi femminili. L’aumento del contributo maschile
è più forte ai vertici della piramide sociale e con una più alto livello di scolarizzazione.
2) Diminuire il carico complessivo di cura che grava sulla famiglia. Infatti le
ricerche dimostrano che la disponibilità di impegnarsi nella cura dei figli da parte dei
padri aumenta in modo significativo quando durante la giornata i figli sono affidati ai
servizi educativi o di custodia.
3) Diminuire complessivamente la durata standard della giornata
lavorativa. I paesi mediterranei come Italia o Spagna che sono anche quelli che
hanno la giornata lavorativa più lunga sono anche quelli con un più basso contributo
maschile. Occorre dunque liberare tempo anche per il lavoro di cura.
24
PIAZZA, MAPELLI, PERUCCI, Maschi e femmine: la cura... cit., p., 140.
38
APPROFONDIMENTO:
CARCERI E POLITICHE REINSERIMENTO SOCIALE
La realtà delle carceri in Italia è un grave problema sociale. C’è intanto un problema
di sovraffollamento. Visto che a gennaio 2010 i detenuti nelle carceri italiani sono
65.067 contro 44.066 posti letto previsti. Vi sono dunque circa 21.000 persone in
eccesso rispetto ai posti letto regolari tanto che nel luglio 2009 l’Italia è stata
condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3
quello contro le pene e i trattamenti umani degradanti.
L’aspetto che ci interessa però è comprendere la connessione tra le politiche sociali
e le politiche carcerarie. Queste connessioni emergono da diversi punti di vista.
Innanzitutto l’aumento progressivo del tasso di carcerazione è il risultato non solo
delle politiche penali (per esempio la legge n. 251/2005 “ex Cirielli” che nega il
riconoscimento delle attenuanti quali il danno lieve ai recidivi) ma anche delle politiche
sociali. Si pensi per esempio all’effetto della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e della
criminalizzazione dell’immigrazione, e all’effetto della Legge Fini-Giovanardi sulle
droghe (il 15,2% dei detenuti sono stati condannati per violazione di questa legge).
In altre parole le carceri oggi vengono utilizzate in modo massiccio anche per
gestire problematiche sociali quali quelle dell’immigrazione o quelle delle
tossicodipendenze, in alcuni paesi, come gli Stati Uniti il sistema penale colpisce in
particolare le fasce di popolazione più povere ed emarginate. Secondo alcuni autori la
crescita del tasso di carcerazione sarebbe connesso anche alla debolezza e allo
smantellamento dello Stato sociale e alla crescente precarizzazione del lavoro.
Il sociologo francese Loïc Wacquant ha parlato a questo proposito dello sviluppo di
quello che ha chiamato lo “Stato Penale” che negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti e
negli ultimi quindici anni in Europa si è tradotto in un incremento sorprendente della
popolazione carceraria. Wacquant fa notare che
«l’inarrestabile ascesa dello Stato penale americano nei tre decenni scorsi
corrisponde non a un aumento della criminalità – che è rimasta complessivamente
costante per poi conoscere una flessione alla fine di tale periodo – ma alle
frammentazioni provocate dal sottrarsi dello Stato al proprio ruolo sociale e urbano e
dall’imposizione del lavoro precario come nuovo criterio di cittadinanza per gli
americani delle classi inferiori» (Wacquant, 2006, p. 8).
Oltre a questo ci sono altri temi molto importanti che riguardano le politiche sociali.
Tra questi sicuramente il tema del reinserimento e della possibilità di riorganizzare la
propria vita su altre basi alla conclusione della pena, costituisce un punto chiave.
L’intervento di Roberto Cavalieri ci aiuterà dunque a far luce non solo sulla realtà del
carcere in Italia e a Parma ma anche sulle reali possibilità e di difficoltà di
reinserimento.
Chi è dietro le sbarre. Il 46% dei detenuti (circa 30 mila persone) è in stato di custodia cautelare, cioè in attesa di giudizio. Di questi il 77,5% sono stranieri, quasi la metà dei quali (il 30%) finisce dietro le sbarre per trasgressioni che hanno a che fare con le leggi sull'immigrazione. Negli istituti di pena sono sempre meno le persone che scontano pene
lunghissime; cresce il numero, al contrario, di coloro i quali scontano sentenze fino a tre anni e potrebbero accedere a misure alternative. Il 55,32 % della popolazione detenuta è in attesa di condanna definitiva. Il tasso medio europeo dei detenuti in attesa di giudizio è invece ben inferiore al 25%. In Italia: si incarcerano i
presunti innocenti in modo più che doppio rispetto agli altri paesi dell’area Ue, dura di più la custodia cautelare, durano molto di più i processi. Il 29,5% dei reati ascritti alla popolazione detenuta consiste in delitti contro il patrimonio. Il 16,5% in reati contro la persona. Il 15,2% in violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Il 3,2% dei reati consiste in crimini di associazione a delinquere di stampo mafioso. 1.357 sono
39
gli ergastolani. 10.800 detenuti devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni. Oltre
10.000 i casi seguiti in misura alternativa.
Donne con e senza prole Le donne sono 2.385 pari al 4,3 del totale. Una percentuale invariata nell’ultimo quindicennio e corrispondente ai tassi di detenzione femminile a livello europeo. Sono 68 le detenute madri e 70 i bambini di età inferiore ai tre anni reclusi con le mamme. 23 sono le donne in stato di gravidanza.
Stranieri I detenuti stranieri sono 23.530 pari al 37,4% del totale della popolazione detenuta. Nel 2000, ossia prima dell’approvazione della legge Bossi-Fini, la percentuale era del 29,31%. Nel 1991 era del 15,13%. Il 21,9% proviene dal Marocco, il 13,6% dalla Romania, il 12,1% dall’Albania, l’11% dalla Tunisia. Il 29,1% ha commesso reati contro il patrimonio. Il 24,3% ha commesso
reati in violazione della legge sugli stupefacenti. Lo 0,3% ha commesso un crimine di associazione a delinquere di stampo mafioso. Sono già 1873 gli stranieri in carcere per violazione della legge Bossi-Fini, ossia per irregolarità nell’ingresso in Italia.
In Europa
Sono circa 600mila i detenuti, definitivi o in attesa di giudizio, ristretti nelle carceri dei paesi dell’Unione Europea. Di questi, circa 131.000 sono in attesa di giudizio. Le donne rappresentano circa il 5% dell’intera popolazione carceraria. Nella UE negli ultimi anni in 23 stati su 27 è aumentata costantemente la popolazione carceraria. 14 stati su 27 hanno superato il limite della capienza regolamentare. I paesi con maggiori problemi di sovraffollamento sono la Grecia (168%), la Spagna (140%), l’Ungheria (137%) e il Belgio (117.9%). Tra i 14 paesi che non superano il limite della capienza regolamentare, il primato spetta alla Slovenia, seguita da
Danimarca, Finlandia, Irlanda e Svezia. I tassi di carcerazione (numero di detenuti ogni 100.000 abitanti) sono elevatissimi. Il primato spetta all’Estonia (321.6), seguita dalla Lettonia (285.3), Lituania (237.0), Polonia (229.9), Repubblica Ceca (185.6). Nell’Europa occidentale il primato spetta al Lussemburgo (163.6), seguito da Spagna (146.1) e Inghilterra (145.1). Il paese con il minore tasso di carcerazione è la Slovenia (65.0) seguita da Danimarca (69.2), Finlandia (70.6), Irlanda (74.3) e Svezia (79.0).
I suicidi. L'anno record del 2009, con 72 detenuti che si sono tolti la vita in carcere, è ormai
alle spalle. Ma il 2010 - per così dire - promette bene: nei primi 15 giorni di gennaio, già sei persone hanno deciso di farla finita con la propria esistenza in cella. Negli ultimi 10 anni ad uccidersi sono stati in 1560.
Attualmente negli Stati Uniti le persone rinchiuse nelle carceri superano i
due milioni, in una condizione di sovraffollamento inimmaginabile.
Più in generale oltre sette
milioni di persone attualmente
negli Usa sono sottoposte a
controllo giudiziario, con un grande
investimento economico proprio
nel periodo in cui al contrario le
spese sociali per i meno abbienti
subiscono grandi tagli.
L’ascesa di questo stato penale
secondo Wacquant corrisponde a
tre funzioni correlate:
1. in fondo alla scala sociale
l’incarcerazione serve da deposito e da neutralizzazione fisica degli esuberi della classe
operaia;
2. il dispiegamento della rete poliziesca, giudiziaria e penitenziaria dello Stato ricopre
una funzione al tempo stesso economica e morale con l’imposizione della disciplina del
40
lavoro salariato desocializzato alle fasce sociali del proletariato e della classe media in
declino;
3. l’attivismo dell’istituzione penale corrisponde ad una missione simbolica: la
riaffermazione dell’autorità statale e il tentativo di far risaltare la suddivisione tra
cittadini meritevoli e categorie devianti, tra poveri buoni e vattivi, tra i recuperabili e i
marginalizzabili.
In altre parole secondo Wacquant questa ascesa dello stato penale corrisponde ad un
vero e proprio progetto politico.
Fonte: Loïc Wacquant, Punire i poveri, Deriveapprodi, Milano, 2006.
41
APPROFONDIMENTO:
POVERTÀ E POLITICHE SOCIALI
Oggi affronteremo il tema della povertà e delle politiche sociali di contrasto. Quando
si affronta questo tema uno dei primi problemi in cui ci si imbatte è la definizione di
povertà e la rilevazione della povertà. Ovviamente le due cose sono connesse. Tra
le istituzioni e nella letteratura prevale storicamente un approccio alla povertà di tipo
economicistico che concentra l’attenzione sulla disponibilità finanziaria e sulla
possibilità di consumo. Questo tipo di approccio spesso sottovaluta altre dimensioni
quali le risorse culturali, psicologiche, relazionali, ambientali che possono influire
fortemente sulla costruzione di un benessere individuale e famigliare. Ma da questo
punto di vista non si è ancora diffuso un approccio più critico e complesso. Su questi
aspetti ritorneremo, ma per ora vediamo come generalmente si valuta la questione
della povertà nel nostro paese e in Europa.
Nell’ambito delle rilevazioni sociali solitamente si fa riferimento a due tipi di
indicatori di povertà: la povertà relativa e la povertà assoluta. Entrambe possono
essere misurate in riferimento ai nuclei famigliari o in riferimento ai singoli individui.
La povertà relativa viene misurata in riferimento allo stile di vita prevalente nella
popolazione, verificando se rimane nella media o se si discosta troppo dalla media del
paese o del territorio di riferimento.
La povertà assoluta invece viene misurata in riferimento ad un costo di uno
specifico paniere di beni e servizi che in uno specifico contesto viene considerato il
minimo di consumi indispensabile, dunque si verifica, indipendentemente dalle
condizioni economiche della popolazione, se si hanno le risorse necessarie e sufficienti
per acquistare quel paniere di beni e servizi.
Di fatto in Italia oggi si usano tre differenti definizioni e misurazioni di
povertà.
La prima riguarda la misura di povertà relativa pubblicata da EUROSTAT
(l’Ufficio statistico dell’Unione Europea). Secondo la metodologia di questa agenzia si
definisce povero chi ha redditi equivalenti inferiori al 60% del reddito mediano
nazionale equivalente.
Una seconda misurazione è quella di povertà relativa storicamente adottata
dall’ISTAT (l’istituto nazionale di statistica) che definisce povero chi ha consumi
equivalenti inferiori al 60% del consumo medio pro capite nazionale.
Una terza metodologia (ISTAT) misura la povertà assoluta, confrontandola come
abbiamo detto in riferimento ad un paniere di beni e servizi.
Ovviamente i tre criteri danno luogo a rilevazioni differenti.
Secondo EUROSTAT in Italia il numero di individui poveri relativi sarebbero il 20%
della popolazione, ovvero 11.800.000 persone (redditi 2006).
Secondo ISTAT in Italia il numero di poveri relativi sarebbero il 13,6% del totale
ovvero 8.078.000 persone (consumi 2008).
Mentre il numero dei poveri assoluti, sempre secondo l’ISTAT, sarebbero il 4,9%
della popolazione, ovvero 2.893.000 persone (consumi 2008).
A questo si aggiunge il fatto che l’ISTAT solitamente insiste sul dato relativo alle
famiglie povere piuttosto che agli individui singoli. Secondo l’ISTAT le famiglie
considerate nella fascia di povertà relativa nel 2008 sarebbero circa l’11.3% del
totale (la condizione di povertà è più diffusa tra le famiglie numerose).
Nel 2007 la soglia di povertà per una famiglia di due componenti era fissata a
986,35 euro (equivalente al 60% del consumo medio) nel 2008 a 999,67 euro. In
altre parole una famiglia che consumava meno di quella cifra poteva essere definita
relativamente povera. La soglia di povertà essendo definita in relazione al consumo
nazionale medio cambia con il modificarsi di quest’ultimo.
Nell’ultimo decennio la povertà in Italia è stata fondamentalmente stabile con
un’oscillazione di pochi punti percentuali da un anno all’altro (max. 12,3% nel 2000,
min. 10.8% nel 2003).
Tuttavia la moderata riduzione di incidenza di povertà relativa è ritenuta un effetto
non di un miglioramento della condizione dei poveri ma di un generale abbassamento
delle condizioni complessive della popolazione.
42
Un altro riferimento importante riguarda invece l’intensità della povertà.
Quest’ultima misura la distanza dalla soglia media di consumo. In Italia l’intensità
della povertà in media nazionale è del 20,5%. Questo significa che le famiglie
relativamente povere consumano circa il 20% in meno rispetto alla soglia di povertà
(equivalente al 60% del consumo medio). Anche l’intensità della povertà in Italia è
sostanzialmente stabile.
Tuttavia il dato più evidente riguarda la forte divaricazione nell’incidenza del
fenomeno tra il nord e il sud del paese e più specificamente da regione a regione.
L’incidenza del fenomeno nelle regioni meridionali è circa quattro volte quello del
resto del paese. Più in dettaglio si passa da un’incidenza di povertà di circa 3% un
Veneto a quasi il 30% in Sicilia.
Tutte le regioni del centro nord sono sotto il 10% (alcune come Toscana, Lombardia
e Veneto sotto il 5%), e quasi tutte quelle del sud sopra il 20% (Sicilia e Basilicata
oltre il 25%).
Per quanto riguarda il calcolo della povertà assoluta, recentemente l’ISTAT ha
aggiornato i propri criteri ricostruendo un paniere molto dettagliato e differenziando la
rilevazione delle famiglie in relazione al numero di componenti, all’età dei componenti,
alla grandezza del comune di residenza, alla collocazione territoriale nel paese.
Attualmente si contano addirittura 342 soglie di povertà assoluta. Questo ci
permette un dettaglio molto più accurato ma rende poi difficile la costruzione di
politiche generali di intervento.
Rispetto alle vecchie soglie c’è stato un forte cambiamento. La vecchia soglia era
inferiore al nuovo minimo solo per i single mentre era superiore per tutti gli altri casi.
In generale la vecchia metodologia sottostimava l’incidenza della povertà assoluta
nelle regioni del Nord e sovrastimava la povertà nel sud. Insomma con la nuova
metodologia è emerso più chiaramente anche un problema di povertà anche nel nord.
Come abbiamo visto la condizione di povertà assoluta in Italia riguarda il
4,1% della popolazione ovvero quasi due milioni e mezzo di persone nel 2007
e il 4,9% della popolazione, ovvero 2 milioni e 893 mila nel 2008.
Esiste inoltre ancora una sottovalutazione soprattutto delle condizioni dei single e
delle coppie. Basta pensare che per i single si prende come riferimento come
accettabile un’abitazione di 28 mq. e per una coppia di 38mq (42mq per 3 persone e
56mq per quattro). Ora in realtà esistono poche abitazioni di questa dimensione in
relazione alla popolazione.
In generale possiamo notare tuttavia altri elementi. In particolare con la crisi del
2008-2009 la situazione è peggiorata sotto molti punti di vista. In particolare è
aumentato notevolmente il numero dei “quasi poveri” cioè delle persone a rischio di
caduta nella povertà. Questo è dovuto soprattutto alla crescente divaricazione tra il
reddito percepito e il reale costo della vita.
Vediamo a questo proposito qualche dato di altro tipo:
-L’Enel ha comunicato che nella prima parte del 2009 gli abbassamenti di potenza e
i distacchi per morosità prolungata sono aumentati del 30% rispetto all’anno
precedente.
-Le famiglie in ritardo con il pagamento delle bollette del gas sono aumentate dle
15% rispetto al 2008.
-Gli sfratti per morosità dei pagamenti sono aumentati del 18% nel 2009.
-Nel 2008 si è registrato un aumento del numero di pignoramenti immobiliari di
oltre il 22,3% rispetto al 2007. Un’ulteriore aumento del 5% si è registrato nella prima
parte del 2009.
-l’80% delle famiglie paga le spese condominiali con ritardi da 3 a 6 mesi.
Proviamo ora a prendere in considerazioni le possibili cause di povertà.
-disoccupazione (8%, 2,138 milioni di persone nel 2009). È povero il 27,5% delle
famiglie con a capo una persona in cerca di lavoro). È molto legata al contesto
territoriale di residenza e alla formazione oltre che ovviamente alla predisposizione
individuale al lavoro.
-occupazione precaria quale contratti a termine, lavoratori a progetto, partite iva
obbligate ecc. (2,8 milioni di atipici nel 2008), che significa sia discontinuità, che
43
scarso reddito, che maggiore difficoltà (o impossibilità) di accesso agli ammortizzatori
sociali.
-crescita dei componenti della famiglia a fronte di redditi stabili.
-diminuzione del reddito reale o della capacità di spesa.
-crescita delle spese, per esempio tassi dei mutui.
-incidenti o malattie invalidanti o richiedenti cure costose.
-invecchiamento e diminuzione dell’autosufficienza.
-cambiamento nella condizione di stato civile (separazione, divorzi, decessi di
parenti).
-mancanza di reti famigliari e sociali di appoggio (per esempio per aiutare
nella cura dei figli o per affrontare imprevisti). Tipico per esempio degli immigrati o
delle persone sole.
-scarsità o diminuzione di servizi o garanzie in base a condizioni regionali o a
riforme politiche o amministrative.
-eventi ambientali e degrado del territorio o delle condizioni di lavoro (per
esempio terremoti, alluvioni, maremoti, cambiamenti climatici).
Per contrastare le forme di povertà di fatto un governo ha possibilità di intervenire
con tre tipi di meccanismi:
-Attraverso il sistema di tassazione progressivo
-Attraverso dei trasferimenti sociali a favore dei poveri
-Attraverso l’erogazione dei servizi sociali (buoni spesa o buoni pasto,l contributi
per servizi alla persona, contributi per cure, rette per centri diurni, prestiti d’onore,
contributi per l’alloggio, integrazione al reddito famigliare, contributi per associazioni
ecc..).
Fino ad oggi, in particolare per quanto riguarda l’Italia, non c’è stata una chiara
volontà o una capacità di costruire un piano adeguato di lotta contro la povertà. Ci si è
appoggiati molto alla solidarietà spontanea ma poco si è inventato in termini di
solidarietà istituzionale.25
La Commissione Europea ha designato il 2010 l’”Anno europeo della lotta alla
povertà e all’esclusione sociale”, vedremo se questo produrrà qualcosa di concreto.
Per quanto riguarda le forme di assistenza queste sono principalmente di
competenza delle Regioni, mentre ai Comuni spetta l’attuazione di queste
politiche.
Da questo punto di vista però abbiamo delle contraddizioni le Regioni che spendono
di più in spese sociali sono quelle in cui l’incidenza della povertà è più bassa e
viceversa. La regione d’Italia che spende di più è il Trentino Alto Adige con un indice di
povertà basso. Tra coloro che spendono di più c’è il trentino, il Friuli Venezia Giulia, il
Lazio e la Sardegna. Tra coloro che investono di meno Abruzzo, Campania, Basilicata,
Umbria. Nelle regioni meridionali la spesa pro capite è quasi sempre al di sotto della
media nazionale con l’eccezione di Sardegna e Sicilia.
25
Oltre la normale spesa sociale gli interventi del Governo negli ultimi anni hanno riguardato sostegni al costo dei figli, bonus incapienti, aiuti ai pensionati, misure di sostegno alle spese per la casa (es. la Social Card).
44
APPROFONDIMENTO:
LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE
Partiamo da alcuni dati sulla violenza contro le donne. L’indagine Multiscopo
dell’ISTAT “Sicurezza dei cittadini”, diffusa nel dicembre 2004, è stata effettuata
nel 2002 tramite contatti telefonici, selezionando un campione di 60 mila famiglie per
un totale di 22 mila 759 donne di età compresa tra i 14 e i 59 anni. Le informazioni si
riferiscono alle molestie e violenze sessuali subite dalle donne nel corso della vita e nei
tre anni precedenti l’intervista.
- Sono più di mezzo milione (520 mila), le donne dai 14 ai 59 anni che nel
corso della loro vita hanno subito almeno una violenza tentata o consumata;
si tratta del 2,9% del totale delle donne di 14-59 anni.
- Circa la metà (9 milioni 860 mila) delle donne in età 14-59 anni hanno
subito nell’arco della loro vita almeno una molestia a sfondo sessuale; si tratta
del 55,2% del totale delle donne di 14-59 anni.
- Sono 373 mila (il 3,1,%) le donne di 15-59 anni che nel corso della vita lavorativa
sono state sottoposte a ricatti sessuali sul posto di lavoro: in particolare l’1,8%
per essere assunte e l’1,8% per mantenere il posto di lavoro o avanzare di carriera.
- L'estensione del fenomeno più alto al Nord, 3,4%, e specialmente nelle grandi
aree metropolitane, 3,6%.
- Soltanto il 7,4% delle donne che ha subito una violenza tentata o
consumata ha denunciato il fatto (9,3% negli ultimi tre anni). La quota di violenza
che rimane sommersa è dunque altissima.
Quali sono le conseguenze della violenza subita? Quasi la metà delle donne
intervistate è divenuta più diffidente e fredda (48,9%), mentre c'è chi ha difficoltà ad
instaurare relazioni (8,6%) fino ad avere rapporti sessuali (6,8%). Insomma cambia la
vita per una donna violentata: l'11,7% dichiara di non essere più tranquilla quando
esce, il 7,7% di evitare strade isolate quando esce, il 2,7% di non uscire più di sera.
Gli uomini e lo specchio della violenza
Che significa interrogarsi come uomini sulla violenza maschile? Come riconosceva
tempo fa Carmine Ventimiglia significa riconoscere innanzitutto che «l’universo non
è indifferenziato» e che la differenza sessuale è una variabile centrale e non
accidentale nei fenomeni sociali in generale e tanto più nello specifico della violenza.
In secondo luogo significa riconoscere – come uomini e come studiosi - la propria
parzialità e dunque la necessità di un rapporto complesso e non immediato con i due
generi: con il genere della vittima e con il genere del persecutore.
Qualunque maschio che riflette o lavora su queste tematiche sa che non è agevole
rileggersi come uomini in rapporto alla violenza. Tanto più se si ritiene di non aver
commesso simili violenze. Da una parte, viene immediato stabilire delle distanze,
distinguersi in qualche modo dagli “uomini violenti”, ma si comprende presto come
questa reazione rischia di essere un modo di liberarsi dalla propria possibile violenza
per proiettarla all’esterno, sugli altri, su maschi “diversi”. Tutte le ricerche ci dicono
invece che non esiste una categoria “speciale” di maschi violenti. Le violenze contro le
donne provengono da uomini di tutte le categorie sociali e professionali, senza
distinzioni di sorta. In altre parole la violenza non è circoscrivibile ad una
specifica tipologia di maschi. Insomma, come ha notato Ventimiglia,
«il problema della violenza contro le donne non è delegabile, né in quanto a
ricostruzione né in quanto a strategie preventive, alla semplice politica criminale ma
deve essere assunto come problema centrale del genere maschile e delle sue modalità
45
di porsi, di rappresentarsi e di legittimarsi nel rapporto con l’altro genere. È, insomma,
nello scenario del pensare e dell’essere “normale” del genere maschile che si ritrovano
le condizioni potenziali che possono produrre esiti relazionali violenti» (Ventimiglia,
2006, p. 165).
D’altra parte, non è possibile nemmeno “naturalizzare” la violenza maschile,
ovvero attribuirla ad un qualche carattere originario – biologico, etologico o psicologico
- degli uomini in quanto tale, determinando in qualche modo una connessione univoca
tra maschilità e violenza. È altrettanto chiaro infatti che non tutti gli uomini sono
violenti e che la violenza fisica – pur riguardando percentualmente più
maschi che femmine - non è appannaggio unicamente degli uomini.
Interrogarsi come uomini significa dunque scegliere di interrogarsi sui legami non
ovvi, non lineari, non deterministici che avvicinano socialmente e culturalmente gli
uomini alla violenza. Allo stesso tempo significa scegliere di osservare e interrogare i
ruoli e le specifiche posizioni assunte dagli uomini nelle dinamiche relazionali tra i
sessi.
Una questione maschile?
La violenza maschile sulle donne è un fenomeno antico e di ampie
dimensioni. Un fenomeno talmente radicato da permeare gran parte delle nostre
istituzioni e delle nostre produzioni sociali, culturali economiche e politiche. Proprio per
questo è una realtà che non riusciamo a comprendere e ad afferrare fino in fondo, in
tutta la sua portata e il suo significato. È troppo aderente al paesaggio consueto delle
società in cui viviamo.
Certo anche le donne possono commettere violenza: sugli uomini, su altre donne
più spesso sui figli. Ma questi episodi sono infinitamente meno frequenti dell’inverso,
ed in genere non hanno gli stessi esiti letali. Il motivo di questa differenza va
principalmente ricercato nel fatto che per lungo tempo e in parte ancora oggi la
violenza degli uomini sulle donne è stata socialmente accettata e ritenuta normale
mentre il contrario no. Ci sono dunque radici culturali profonde che hanno strutturato,
potremmo dire culturalmente “ordinato” questa violenza.
Allora il lavoro che possiamo fare è quello di comprendere da quali forme di
apprendimento, da quali dinamiche psicologiche, da quali contesti relazionali può
emergere una modalità violenta da parte maschile.
La violenza maschile contro le donne non è un fatto isolato. Come è stato
sostenuto26 il dominio e la violenza maschile si fondano su un dominio e una
gerarchia tra uomini, ovvero su una gerarchizzazione tra i dominanti e in
conclusione su una forma di dominio, di violenza, su se stessi.
Dunque la violenza sulle donne per un verso implica a monte un dominio tra
uomini, ovvero una gerarchia di potere a cui gli uomini sono chiamati a sottomettersi:
una gerarchia di potere e di minacce e un regime di competizione tra maschi.
In generale i rapporti tra maschilità e violenza sono complessi e articolati. Volendo
darne conto in maniera sintetica si potrebbe sottolineare che la violenza è una
modalità che gli uomini usano:
come abitudine, perché è qualcosa a cui sono stati socializzati, che è stato appreso ed
è diventato parte della loro modalità di reazione e comportamento;
come espressione identitaria, in quanto modalità espressiva culturale della propria
maschilità o virilità;
come strumento di controllo e dominio sugli altri ed in particolare sulle persone
importanti.
26
Per esempio da Maurice Godelier in La production des Grands Hommes, Fayard, Paris, 1982.
46
Poi ovviamente ci sono anche altre motivazioni – il sadismo, il risentimento, per
esempio – ma lasciamo questi aspetti particolari da parte.
Come abitudine
Parliamo di abitudine, nel senso di un comportamento appreso in processi di
“socializzazione primaria” o “secondaria”27 per sottolineare che la violenza degli uomini
spesso è qualcosa di visto, sentito, annusato o sperimentato dagli uomini fin da
piccoli.
Per esempio nel Rapporto “Rapporto sulla criminalità in Italia” (2006) del Ministero
dell’Interno nel capitolo V – “Le violenze contro le donne”, si nota che
«La violenza subita e di cui si è stati testimoni da piccoli aumenterebbe il rischio
che il comportamento venga riprodotto da adulti come persecutore o come vittima se
non addirittura entrambi, a seconda del contesto» (p. 138).
Si aggiunge inoltre:
«Considerando, invece, l’autore della violenza, la quota di partner attuali violenti
con la propria partner è pari al 30% fra coloro che hanno assistito a violenze familiari,
al 34,8% fra coloro che l’hanno subita dal padre, al 42% tra chi l’ha subita dalla madre
e al 6% circa tra coloro che non hanno subito o assistito a violenze nella famiglia
d’origine» (p. 138).
Dunque nel 94% dei casi gli autori hanno assistito o direttamente subito violenze
nella famiglia di origine.
In alcuni casi la violenza è l’unica modalità di comportamento appresa e
riproducibile automaticamente in certe circostanze a meno che non intervengano
risorse, strumenti differenti.
Come espressione identitaria
Il fatto concreto della violenza maschile sulle donne è infatti espressione di un
immaginario culturale specifico - quello patriarcale - che in misura minore o maggiore
ci riguarda tutti. Naturalmente anche nella nostra tradizione esistono subculture o
ambienti familiari o soggetti più sani ed equilibrati, ma in termini generali si deve
riconoscere che l’immagine del dominio maschile sul corpo femminile impregna a più
livelli la nostra cultura e la nostra società. In questi termini i fantasmi di queste
violenze fisiche o sessuali ci riguardano tutti e condizionano comunque le nostre
relazioni con le donne. Molti uomini in un momento o in un altro, sono stati
attraversati da questo fantasma, molti hanno sentito che la possibilità della violenza
era iscritta nel nostro immaginario, nella nostra cultura, nella nostra storia.
A me pare che la questione fondamentale sia riconoscere che la violenza nelle sue
diverse forme è un tratto ricorrente e per molti aspetti fondante delle esperienze di
identificazione e socializzazione maschile. La violenza cioè è un elemento
importante nella costruzione dell’identità maschile e mantiene un ruolo
importante nelle forme di apprendimento e di costruzione di legami sociali.
27
La socializzazione primaria, avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa fase si apprende a vedere la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime. In altre parole si interiorizza la visione delle cose che ci viene trasmessa dai genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le rappresentazioni, le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. Questa percezione della realtà diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile. La socializzazione secondaria invece interviene in una fase successiva della vita della persona. Ha a che fare con l’ingresso in altri contesti sociali non primari, ovvero non connotati in maniera così forte dal punto di vista affettivo. Pensiamo alla scuola, al gruppo di amici, alla parrocchia, al partito, al mondo del lavoro. Confrontandosi con questi nuovi contesti via via si impara che il mondo appreso e interiorizzato dai genitori non è l’unico esistente, è solo una percezione della realtà tra le tante possibili.
47
Fin da piccoli gli uomini imparano che la propria identità sessuale non è scontata,
non è certa. È invece qualcosa di dubbio, di precario, di instabile. La propria identità
deve essere costruita, affermata, testimoniata continuamente.
La possibilità di conformarsi ad un certo ordine maschile o di sottrarsi ad esso
comincia molto presto. Fin da piccolo al giovane maschio sono richieste prove di forza,
di coraggio, di affermazione di sé nel confronto con altri. Fin dalle scuole medie
inferiori i ragazzi danno luogo a delle piccole bande e vanno ad esibire in giro la
propria presunta virilità. Vanno a cercare lo scontro con altri ragazzi per mostrare
forza e coraggio. Anche quando non accade nulla ad ogni modo lo scontro è
continuamente evocato e simbolizzato nel linguaggio, nel comportamento, persino nel
modo di vestire.
Tutto questo ci dice appunto che l’identità maschile è qualcosa di molto incerto, e
che molti comportamenti maschili avvengono non per spinte semplicemente individuali
ma anche nella cornice dello sguardo e della relazione sociale anzitutto con altri
maschi.
In molte culture e in molte subculture esistono e vengono ricreati dei rituali per
simbolizzare il passaggio del giovane nel mondo degli adulti, il diventare uomo. Molti
di questi rituali sono connessi ad esperienze di violenza e di dolore. Ad esempio alcuni
rituali di guerra avrebbero svolto e ancora svolgerebbero la funzione di far rinascere il
giovane guerriero nel mondo maschile, in contrapposizione alla nascita biologica
avvenuta dal corpo femminile. Anche il simbolismo della prova del sangue - che molte
culture tradizionali per esempio richiedevano ai giovani maschi come condizione per
potersi sposare - funzionerebbe quindi come rito di passaggio al mondo degli uomini
adulti. In altri contesti – per esempio nelle organizzazioni mafiose, in quelle criminali
talvolta in alcune gang di strada - gli atti di violenza rappresentano dei testi da
affrontare e superare per essere ammessi nella comunità maschile.
È come se i giovani uomini dovessero dunque procurare e procurarsi artificialmente
le ferite e dunque le rotture simboliche che segnerebbero la discontinuità evolutiva
nello sviluppo del sé maschile.
Anche nelle società contemporanee e in contesti molto comuni vengono
continuamente inventati e ridefiniti riti e rituali di maschilità. Le stesse modalità
continuano nei gruppi di adolescenti, nei quartieri, nelle manifestazioni sportive, nel
tifo negli stadi.
Sia in alcune manifestazioni di tifo, sia in alcune manifestazioni politiche, voi potete
trovare gruppi di giovani maschi provocatori che ricercano esplicitamente lo scontro
con la polizia e con le forze dell’ordine. Il motivo molto spesso non va ricercato in un
obiettivo politico o in un episodio concreto, ma nel fatto che questo scontro
rappresenta un terreno di manifestazione della propria maschilità.
Come dicono due psicologi francesi Miguel Benasayag e Gérard Schmit, a
proposito delle problematiche dei quartieri difficili in Francia,
«ci troviamo spesso ad affrontare delle situazioni tragiche (e comiche allo stesso
tempo), dovute alla mancanza di un contesto familiare strutturante, che porta
l’adolescente a tentare, come diciamo in gergo, di “farsi il suo Edipo con la polizia”: il
giovane che deve esplorare la sua potenza, sperimentare i limiti della società, che
deve insomma affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza
occidentale, non trovando un quadro famigliare sufficientemente stabile, sposta la
scena nella città, nel quartiere» (Benasayag, Schmit, 2005, pp. 36-37).
In questi casi il carattere espressivo e identitario della violenza prevale su qualsiasi
obiettivo o motivazione esterna o dichiarata. Ci si mostra aggressivi e violenti per
mostrarsi “maschi”, per sentirsi forti, coraggiosi, indifferenti alla paura e al dolore.
Questo aspetto teatrale della violenza, la sua rappresentazione è rivolta sia al mondo
maschile per stabilire dei meriti, degli onori, delle gerarchie, sia al mondo femminile
poiché si ritiene che la forza e l’audacia siano caratteristiche vincenti.28
28
Per questo stesso motivo alcune donne apprezzano un certo tipo di immagine maschile ma poi incappano nelle conseguenze di questo genere di mentalità una volta che questa idea di virilità viene rivolta da questi uomini contro loro
48
Anche la violenza maschile sulle donne presenta caratteristiche di questo tipo.
Certamente quando viene esercitata in gruppo, ma spesso anche nei contesti
famigliari. Per non parlare di contesti particolari dal punto di vista simbolico. Non so se
ricordate per esempio la dichiarazione nell’ottobre del 2006 del presidente
Russo Vladimr Putin nel corso di un incontro con il premier israeliano Ehud
Olmert al Cremlino. Pensando che i microfoni dei giornalisti fossero spenti fa una
battuta con Olmert a proposito del presidente israeliano Katsav sotto accusa per
diversi episodi di violenza sessuale. Putin avrebbe detto “Katsav si è rivelato un uomo
forte, ha struprato ben dieci donne! Non me lo sarei mai aspettato da lui. Ci ha
sorpreso tutti, lo invidiamo”.29
Pensate il presidente della Russia, che ragiona in questi termini. La violenza
maschile diventa un vanto, un prestigio perfino per i più potenti.
La violenza sessuale dunque lega un piacere sessuale ad un piacere dettato dal
senso di potenza e di superiorità del maschio e contemporaneamente ad una
sottomissione e degradazione imposta alla donna.
Come strumento di controllo e di potere
In molti casi inoltre la violenza serve per imporre un certo ordine alla donna e nella
relazione. La violenza serve per “farla cedere…” per “insegnarle come deve
comportarsi…”. Serve per mantenere un certo equilibrio e non mettere in discussione
l’uomo. In altre parole come strumento di potere nella relazione.
Quello che si può notare a questo proposito è che la violenza sulle donne ordina
le relazioni non solo nel privato ma anche nello spazio pubblico, trasforma non
solo le relazioni interpersonali ma quelle sociali. La violenza infatti non colpisce solo le
vittime reali ma anche tutte quelle potenziali. Attraverso la paura, il terrore, il trauma
contribuisce a modificare le possibilità e le forme delle relazioni tra uomini e donne per
tutta la società.
La violenza sessuale secondo alcune studiose – come per esempio Susan
Brownmiller – fa parte di un sistema di intimidazione maschile che tiene tutte le
donne in uno stato di paura.
Non è difficile fare degli esempi per capire di cosa sto parlando. La possibilità della
violenza infatti impedisce o condiziona molte possibilità o esperienze delle donne:
- uscire da sole di notte
- accettare un passaggio in macchina
- andare a casa di amici
- consentire un intimità corporea
Tutto questo viene vissuto come esperienze pericolose. Tale pericolosità del
comportamento maschile è talmente “naturalizzata” che si arriva al
paradosso che se una donna viene violentata di notte per strada il giudizio
sociale colpisce anche lei: “Una donna che esce di notte da sola se le va a cercare”
Questa condizione e questa mentalità dunque modificano le condizioni di tutti.
Poi dobbiamo chiederci quante fra le persone che abbiamo attorno a noi hanno
vissuto di queste esperienze. Difficilmente le donne ne parlano. Ma difficilmente noi
uomini ci mostriamo attenti a questa possibilità. Non ci pensiamo assolutamente. A
me è capitato che man mano che cominciavo a occuparmi di queste cose a parlare di
questi problemi molte persone a me vicine, donne e uomini mi hanno parlato di
esperienze di questo tipo. Ho iniziato a guardare il mondo attorno a me con altri occhi.
A saper osservare difficoltà, paure, blocchi. Senza andare tanto lontano, nelle mie
amicizie, nelle mie relazioni, tra i miei conoscenti.
L’ordinarietà della violenza maschile
stesse. In qualche modo bisogna comprendere queste associazioni e diminuire il prestigio sociale che questo immaginario virile ha in generale non solo quando si fa esplicitamente violento. 29
Si veda La repubblica del 20 ottobre 2006, «Gaffe di Putin: “Che uomo forte Katsav ha stuprato 10 donne, lo invidiamo”.
49
Prima di approfondire questo aspetto è bene tener presente alcuni dati di fondo che
riguardano la violenza maschile sulle donne.
L’indagine multiscopo dell’Istat “Sicurezza dei cittadini” del 2002, per
esempio sottolinea che il 43,8% delle donne che ha subito uno stupro o un tentativo di
stupro, lo ha subito in luoghi familiari e, negli ultimi tre anni, il 25,8% delle violenze
subite si è verificato a casa della vittima o di amici e parenti, l'11,8% in automobile, il
9,9% a lavoro o negli spazi attinenti. Il 28,8%, invece, è avvenuto in strada, il 4,3%
in un parco pubblico, o in un giardino o al mare e il 5,9% in un locale pubblico.
Inoltre l’indagine Istat del 2006 “La violenza e i maltrattamenti contro le
donne dentro e fuori la famiglia” ha messo in luce che i partner sono autori di:
- violenze fisiche nel 62,4% dei casi.
- violenze sessuali senza contare le molestie nel 68,3% dei casi.
- stupri nel 69,7% dei casi.
In concreto 2 milioni 938 mila donne hanno subito violenza fisica o sessuale dal
partner attuale o dall’ex partner.
A questo si aggiunge il fatto che solo il 18,2% delle donne che hanno subito
violenza fisica o sessuale in famiglia considera la violenza subita un reato. Il 44% la
considera qualcosa di sbagliato, il 36% solo qualcosa che è accaduto. Solo il 7,2%
della violenza in famiglia è stata denunciata.
La questione dell’ordinarietà della violenza non interroga solamente gli uomini, o
la posizione maschile, ma va al cuore stesso delle relazioni affettive, della loro natura
e delle loro caratteristiche. La violenza è talmente intrecciata alle nostre relazioni che
è difficile riconoscerla. È questo che ci è difficile riconoscere, il fatto che dobbiamo
prima di tutto interrogare la normalità: interrogare la famiglia, i nostri rapporti
affettivi, ciò che chiamiamo amore; ciò che ci sembra luminoso e trasparente e che
invece è oscuro e ambivalente.
Questo rapporto con la quotidianità delle relazioni ci permette di comprendere al
tempo stesso quanto facilmente la violenza possa nascere da un retaggio condiviso e
quanto, per lo stesso motivo, molto spesso si faccia fatica a riconoscerne e a criticarne
le premesse. Se l’atto violento può essere in sé condannato dall’opinione
comune, non altrettanto si può dire delle premesse culturali e psicologiche
che lo precedono e lo rendono possibile. Su quelle non è difficile accorgersi che vi
è un’ampia condivisione: il senso di possesso, la gelosia, l’incapacità di accettare il
conflitto, il rifiuto delle comunicazioni negative, il bisogno di controllo della relazione,
la mancanza di libertà e di autonomia, la riduzione della partner a sostegno e
appendice dei nostri bisogni ecc… La difficoltà sta dunque nell’interrogare non tanto
l’atto violento in sé, ma le premesse che sono stabilmente insediate nella “normalità”
della coppia, della famiglia ovvero nella cultura diffusa delle relazioni e degli affetti.
Per comprendere quello che sta succedendo dobbiamo avere presente la storia e le
strutture storiche in cui si inseriscono le relazioni tra i sessi in occidente, ma anche i
cambiamenti che queste stanno attraversando. La violenza maschile è una forma di
regolazione delle relazioni affettive, un modo per stabilire un controllo – o l’illusione di
un controllo – su una relazione importante per il proprio equilibrio. L’atto di violenza
dunque non è casuale, ma si ripresenta ogni volta che viene soggettivamente
percepita l’autonomia della partner (e inconsciamente la propria fragilità e
dipendenza). Come rilevava Carmine Ventimiglia già una dozzina d’anni fa,
«il comportamento violento si attiva sempre a fronte di una minaccia che l’uomo vive
rispetto all’esercizio del proprio dominio relazionale, anche come conseguenza dei
segnali o delle rivendicazioni di autonomia esplicitamente prodotte dalla donna, e
rispetto alla smentita di una autostima in precedenza garantita solo dalla dipendenza e
dalla sottomissione femminile» (Ventimiglia, 1996, p. 110).
Se c’è dunque un rapporto tra la violenza e la questione della libertà
femminile, questo diventa un tema su cui come uomini dobbiamo soffermarci a
riflettere. Che cosa ha significato per noi uomini l’avvento della libertà femminile?
L’avvento del libero desiderio delle donne?
50
Io credo abbia significato anzitutto la necessità di confrontarsi per la prima volta
con un desiderio femminile autonomo che in passato restava invece sullo sfondo.
Ritengo che il cambiamento avvenuto possa essere spiegato nei termini di un
passaggio da una struttura relazionale costruita su un unico desiderio (o quantomeno
su un desiderio dominante), quello maschile, ad una struttura relazionale rispondente
al confronto tra due desideri più o meno liberi.
Ora una parte degli uomini ha accolto questo passaggio, l’avvenire della libertà
femminile e la crisi dell’ordine patriarcale, come un’occasione di libertà anche per sé.
La libertà femminile ha aperto anche per gli uomini una possibilità diversa di stare in
relazione con gli altri e con sé, al di fuori dei vincoli di ruoli e identità prestabilite e in
fin dei conti avvilenti.
Altri uomini stanno invece vivendo questo passaggio con un senso di paura, se non
di minaccia. Comprendono che è cambiato qualcosa. Vedono le donne più libere e
autonome nelle relazioni, nei sentimenti, nella sessualità, nel lavoro, nella politica.
Capiscono che esse non sono più lì a supporto dei loro bisogni e delle loro necessità,
ma che sono soggetti autonomi che mettono avanti anche le proprie attese e le
proprie aspirazioni e che richiedono a loro volta un tipo di presenza nuovo nelle
relazioni. E ritengono che tutto questo rappresenti un ostacolo al proprio benessere e
alla propria tranquillità.
Infine ci sono molti uomini che non ostili a questo cambiamento, ma che si sentono
comunque spaesati. Semplicemente non hanno strumenti per leggere o interpretare
questo mutamento o per condividere un percorso di cambiamento, magari assieme ad
altri uomini.
Molto dipenderà da come si racconterà questa condizione e questo cambiamento.
Quello che voglio dire è che raccontare questo confronto o conflitto tra uomini e donne
come un gioco a somma zero, in cui il guadagno delle donne sia uno svantaggio per gli
uomini, o come una battaglia in cui ciò che hanno perso gli uomini sia stato sottratto
dalle donne, è non solo sbagliato ma gravemente controproducente.
Il punto dunque è questo: per noi uomini oggi si tratta per un verso di riflettere
sulla capacità di confrontarsi con il desiderio e l’autonomia delle donne e la paura che
questo può evocare in termini psicologici e, in secondo luogo, di pensare alle relazioni
come un terreno di maturazione umana e personale.
L’ordine della fiducia e l’ordine del potere
Molti uomini oggi sono in difficoltà di fronte all'autonomia e alla libertà femminile
non per ragioni di principio, ma perché un desiderio autonomo di una donna fa paura.
Da un certo punto di vista si può dire che oggi si manifesta esplicitamente e
apertamente quello che è sempre stato il problema di fondo della storia fra i sessi,
ovvero una paura “storica” del desiderio femminile da parte degli uomini. La paura di
un desiderio che fuoriesce da regole e cornici. La paura di un desiderio che mette in
discussione la retorica dell’indipendenza e dell’autocontrollo. Di un desiderio che ci
porta fuori e che travolge l’illusione di dominarci razionalmente e di amministrare le
nostre vite. Più avvertiamo l’importanza di quella figura, più temiamo di scoprirci
dipendenti e più cerchiamo di controllare il nostro e l’altrui desiderio.
Tutto sommato credo che nella costruzione di relazioni si possano seguire due
direzioni: una punta sulla fiducia, l’altra sul potere. Nella prima si cerca di raggiungere
una forma di riconoscimento reciproco nella differenza, nella seconda si cerca di
ottenere un determinato ordine ed una certa stabilità attraverso il controllo e il
dominio. In quest’ultimo caso la violenza diventa un modo per cercare di controllare e
vincolare a sé le persone da cui si dipende affettivamente e psicologicamente. Poiché
quella persona è importante, si cerca di mantenerla docile e legata, si prova a
rinchiuderla in uno stato di terrore e di remissività.
Se questo è vero, ne emerge una condizione di fragilità e debolezza più profonda
ancora negli uomini che nelle donne. La violenza copre un’insicurezza e una mancanza
di presenza anzitutto a se stessi.
Se si vuole, si può osservare in filigrana una doppia paura:
51
- la paura della propria insignificanza, ovvero il senso di precarietà del proprio ruolo
affettivo; dunque un sentimento di impotenza, di inutilità, se non di disprezzo di sé.
- la paura di una relazione libera, come se la propria presenza e il proprio contributo
non possano essere valorizzati e nutriti da una relazione fondata su un desiderio e una
scelta reciproca.
Le due paure si intrecciano in modo tale che una riconduce continuamente all’altra.
Si rispecchiano, si nutrono e si confermano, rafforzandosi.
D’altra parte non dobbiamo perdere di vista che queste violenze nascono dentro a
specifici pattern relazionali. Le situazioni di violenza sono difficili da risolvere o da
curare proprio perché nascono in contesti relazionali, e come tutte le relazioni
presentano dei vincoli bilaterali.
La violenza si fonda su relazioni di potere che spesso incatenano in ruoli diversi ed
opposti entrambi i soggetti. Come scrisse lo psicologo Arno Gruen,
«coloro che dominano e coloro che si fanno dominare, oppressori ed oppressi, sono
intrappolati in uno scambio di potere» (Gruen, 1992, p. 29).
È chiaro allora che per liberarci dalla violenza, o quantomeno per diminuirla, occorre
lavorare sia con uomini che con donne, sia con i persecutori che con le vittime.
Da questo punto di vista va sottolineato che in realtà soffriamo tutti di un certo
analfabetismo relazionale. Non c’è un’attenzione verso l’educazione alle relazioni. Anzi
in pochi ritengono che la conoscenza delle nostre dinamiche relazionali e affettive sia
un apprendimento importante, forse il più importante, e che occorre dare a questo
fatto lo spazio sociale che gli spetta.
Eppure le radici di questa violenza sono legate proprio all’analfabetismo relazionale
e alla mancanza di autonomia nelle relazioni affettive. Più precisamente c’è un nodo
autonomia-dipendenza nelle nostre relazioni su cui culturalmente non abbiamo
ragionato e lavorato in profondità. L’autonomia per come propongo di intenderla, non
è il contrario di dipendenza né un sinonimo di indipendenza. A mio avviso qualsiasi
relazione sana è un intreccio di dipendenza e autonomia. Si tratta di rispettare ed
equilibrare entrambe. C’è infatti una condizione di chiusura difensiva o di paura
dell’altro da sé che è fondamentalmente sfavorevole alle relazioni affettive e d’altra
parte uno stato di simbiosi patologica che è sfavorevole sia al riconoscimento della
propria dipendenza sia allo sviluppo dell’autonomia.
Arno Gruen definisce l’esperienza dell’autonomia come «capacità di vivere
liberamente le proprie percezioni, i propri sentimenti e i propri bisogni» (Gruen, 1992,
p. 13). Sarebbe questo accesso, questo contatto vivente con le proprie percezioni e
sentimenti che permetterebbe attraverso le proprie esperienze la nascita di un senso
del sé autonomo. «L’autonomia comporta un sé che abbia accesso ai propri sentimenti
e ai propri bisogni» (Gruen, 1992, p. 16)
Viceversa la maggior parte degli uomini vive una specie di distacco e di separazione
dalle proprie emozioni e sentimenti e dalle proprie sensazioni fisiche. Fin da
piccoli gli uomini sono educati a disconoscere le proprie fragilità, la propria sofferenza,
la propria vulnerabilità. Finché si era all’interno di un sistema simbolico patriarcale, il
sistema sociale e culturale permetteva all’uomo di rimuovere questi vissuti. Le
sicurezze, i supporti, i riconoscimenti erano tali da sottrarre all’uomo la necessità di
fare realmente i conti con queste esperienze. Oggi invece per la prima volta gli uomini
iniziano a fare un’esperienza conflittuale con se stessi e con l’altro sesso.
«Qual è la natura della realtà da cui l’uomo fugge? – si domanda Arno Gruen - Un
mondo pieno di emozioni, permeato dell’esperienza dell’inadeguatezza, dell’impotenza,
del dolore, della disperazione e della paura del fallimento; un mondo in cui i
sentimenti di impotenza e rabbia sono presenti, ma devono costantemente essere
tradotti in un senso di invulnerabilità e inattaccabilità» (Gruen, 1992, p. 65).
La ricerca maschile del potere non è altro che un modo per fuggire da queste
esperienze di dipendenza, di sofferenza e soprattutto di impotenza. Più si vivrà
l’angoscia dell’impotenza e più si costruiranno relazioni di potere.
52
Ora possiamo notare che se siamo sordi e anestetizzati rispetto al nostro corpo, al
nostro dolore, alle nostre emozioni, tantomeno riusciremo a immedesimarci e a sentire
il vissuto altrui. Questa impossibilità di un movimento empatico è uno degli elementi
che rende possibile la violenza maschile verso le donne.
Una doppia dipendenza
Se proviamo ad osservare la problematica in termini di dinamiche relazionali
vediamo che spesso è all’opera uno schema complementare, tale per cui l’analisi del
ruolo e delle modalità maschili, pur fondamentale, coglie solo un aspetto del problema.
Da una parte possiamo evidenziare che alcuni uomini si sentono al sicuro nella
misura in cui la partner si cura costantemente e silenziosamente di soddisfare i loro
bisogni, nella misura in cui le proprie fragilità sono coperte e riempite dalla presenza
dell’altra. In questo senso una semplice mancanza da parte della partner è percepita
come grave non solo per l’insoddisfazione in sé ma anche perché svela la condizione
sottostante di bisogno e totale dipendenza del maschio.
Da un'altra parte si può notare che alcune donne si sentono sicure quando vedono
che il proprio partner non ce la fa da solo e ha bisogno di loro per andare avanti. È
come se pensassero “più ha bisogno di me e più posso tenerlo legato a me e
condizionarlo” oppure “più ha bisogno di me e più sono al sicuro”.
Nei fatti agisce uno schema dinamico di tipo complementare che rafforza i
convincimenti e i comportamenti di ciascuno e finisce con rendere il legame ancora più
stretto e vincolante anche in presenza di un malessere e di un pericolo. Quello che
occorre capire è che una simile condizione di dipendenza reciproca, simbiotica e
patologica si crea sia tramite un comportamento basato su modalità di violenza e di
dominio (in genere da parte maschile), sia tramite comportamenti basati su premura,
gentilezza e sollecitudine (in genere da parte femminile). La sollecitudine e la
condiscendenza possono essere interpretate dall’uomo come una forma di
sottomissione e di conferma del proprio controllo sulla relazione, mentre l’instabilità e
la incalzante violenza può essere interpretata dalla donna come il risultato di un
bisogno insoddisfatto e quindi di una propria mancanza o inadeguatezza.
In questo senso, dunque, la convinzione protratta per anni di poter cambiare il
proprio partner violento, di soddisfarlo e di redimerlo, è anch’essa basata
contemporaneamente su una negazione dei propri bisogni individuali (di
riconoscimento, di valorizzazione, di serenità e di rispetto) e sul disconoscimento
dell’alterità che si ha di fronte, che viene disconosciuta nella sua manifestazione
concreta in ragione di una proiezione delle proprie fantasie. Da un certo punto di vista
entrambi i comportamenti – quello violento e quello premuroso – rappresentano una
fuga dal conflitto.
Dunque c’è un doppio disconoscimento dell’alterità nella forma della
violenza manipolatoria e della sollecitudine manipolatoria. In realtà non
possiamo cambiare e modellare l’altro attraverso la nostra volontà, sia che utilizziamo
la violenza, sia che utilizziamo la premura. Questo non vuol dire che le relazioni non ci
cambino o che lo scambio e la condivisione non generino anche forme di adattamento
reciproco, ma piuttosto che una relazione sana comincia con il riconoscimento della
discontinuità tra sé e l’altro, ovvero col riconoscimento di una pluralità di bisogni,
emozioni, desideri che non vanno negati o sottaciuti.
Quello che voglio sottolineare è che spesso uomini e donne sono vincolati in
meccanismi che si rafforzano mutualmente.30 Anche l’uomo violento agisce con dei
30
Si tratta di quei processi di «differenziazione nelle norme del comportamento individuali risultante da interazione cumulative tra individui» che Gregory Bateson chiamava “schismogenesi”. Bateson parlava di “schismogenesi simmetrica” quando un comportamento da parte di un individuo viene assunto da un altro come uno stimolo a rispondere con un comportamento eguale e simmetrico. Viceversa Bateson parlava di “schismogenesi complementare” quando un comportamento di un certo tipo – per esempio autoritario – veniva assunto da un altro individuo come stimolo per un comportamento opposto e complementare – per esempio di sottomissione – che a sua volta richiamava un movimento successivo opposto in una progressione continua. Per un approfondimento si veda Bateson, 1988, p 166 e ss.
53
vincoli, ovvero si muove in uno schema chiuso di possibilità da cui lui stesso non riesce
a uscire. A questo proposito val la pena riflettere su quanto suggeriva Simone Weil in
un suo celebre testo:
«Tale la natura della forza. Il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in
cose, è duplice e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma
ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano» (Weil, 1984,
p. 31).
Diversamente ma ugualmente, nota Simone Weil. Gli uomini che con la violenza
riducono al silenzio la propria partner, rinchiudono nel silenzio anche se stessi. Non
solo non sono più capaci di empatia, di uscire da sé e approssimarsi all’altra, ma
divengono anche incapaci di uscire dai propri schemi di comportamento per essere
assorbiti nella coazione cieca della violenza. Incapaci di mettersi in discussione non
possono più aprirsi al cambiamento di sé, della relazione e della propria vita. Si può
anche osservare che gli uomini che ricorrono alla violenza difettano di una visione
dinamica della propria condizione e non riescono a concepire l’idea di un cambiamento
più ampio attraverso altre modalità di comportamento e di relazione. Nei fatti
rimanendo dentro a un meccanismo rigido perdono la possibilità gestire la propria
esistenza con libertà e creatività.
Dunque personalmente ritengo che come uomini dobbiamo lavorare
contemporaneamente sul piano del rapporto con noi stessi e sul piano delle relazioni
tra i sessi. Sul primo aspetto il lavoro che possono fare gli uomini è quello di arrivare a
disconoscere le forme di potere e di controllo maschili. Ma la questione ovviamente è a
quali condizioni questo è possibile? Con quale forza interiore e sociale possiamo come
uomini deciderci ogni giorno a questa rinuncia?
Liberarsi via via dell’ossessione del potere e del controllo è possibile infatti solo se
contemporaneamente si intraprende un percorso di ritrovamento di un senso di sé
differente che permetta ad ogni uomo di uscire da un’immagine monolitica e
degradante di se stesso. Il rispetto di sé e il rispetto dell’altro - soprattutto in presenza
del negativo, nell’esperienza del dolore, del rifiuto, dell’abbandono - non possono
infatti che procedere insieme. Poiché come ricordava ancora Simone Weil:
«quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in se stessi, per rispettare in
altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore» (Weil, 1984, p.
31).
Soltanto chi ha sviluppato un minimo di autonomia può accettare lo sviluppo
autonomo delle capacità della partner senza farsi prendere dalla paura e dall’angoscia
di essere abbandonato o di essere inadeguato. Dunque si tratta di lavorare sulla
costruzione positiva di un senso di sé differente che faccia uscire il maschile da
un’immagine in realtà abbastanza miserabile di sé stesso. Anche per questo le forme
ideologiche di stereotipizzazione e svalorizzazione del maschile – assunte in termini
acritici da alcune donne - non solo non hanno senso ma si pongono come ostacolo alla
concreta possibilità di un cambiamento nelle relazioni tra i sessi. Gli uomini devono
trovare in se stessi e nelle proprie relazioni con altri uomini e con le donne la fiducia
nella possibilità di vivere la propria maschilità in modo ricco e più aperto, al di fuori dei
codici del potere e della legge.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello del lavoro sulle relazioni, mi sono
sempre più convinto negli anni che il punto di partenza più forte (ma certamente se ne
danno altri) è quello dell’attraversamento dell’esperienza del “negativo”.
Attualmente stiamo andando sempre di più verso una situazione caratterizzata da
quelle che il sociologo inglese Anthony Giddens ha chiamato “relazioni pure”31
ovvero relazioni non dettate da obblighi sociali, religiosi o economici ma basate
principalmente sulla comunicazione, sull’intesa emozionale, sulla soddisfazione diretta.
31
Si veda Giddens, 1995 e Giddens, 2000.
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In altre parole le relazioni per un verso dipendono da una maggiore intesa, intimità
e soddisfazione, ma per lo stesso motivo sono più fragili e più esposte alla precarietà e
alla dissoluzione. Zygmunt Bauman rincara la dose e parla di “relazioni liquide”, di
“amore liquido” (Bauman, 2005).
In termini concreti possiamo ricordare che oggi le separazioni, le discontinuità nelle
relazioni affettive e famigliari non sono più l’eccezione, sono la normalità. Attualmente
in Italia, secondo i dati ISTAT, la durata media di un matrimonio è tredici anni. Circa il
25% delle separazioni avviene tuttavia durante i primi sei anni. Le nostre vicende
affettive sono sempre più fatte di numerose esperienze di incontri e separazioni.
Quello che voglio dire è che anche le separazioni parlano anche di noi. Ci stimolano
a rileggere anche i nostri rapporti. A portare dentro di noi l’esperienza dell’abbandono,
del tradimento, della perdita. Certo, queste esperienze possono renderci più duri, più
difesi, più diffidenti, più superficiali. Ma possono anche, se accettate e fatte proprie,
permetterci di pronunciare parole più umane, più umane perché dolenti e riconoscenti
insieme. Noi siamo fatti di relazioni e queste stabiliscono assieme la nostra
dipendenza, la nostra identità e la nostra vulnerabilità. Dunque oggi dobbiamo trovare
un modo per pronunciare un “noi”, un “io e te”, in un modo diverso da quel “noi” di un
tempo. Perché oggi è tutto diverso.
Come notava Carmine Ventimiglia:
«occorre anche attraversare i luoghi dei “no”, nella relazione riconoscendo la piena
legittimità dei “no” dell’altra in quanto segnalazione, appunto, di confini identitari
necessari per il pieno riconoscimento e per il rispetto integrale delle differenze: dal
“no” in amore, al “no” della relazione sessuale, al “no” nella reciproca determinazione
di soggettività che pure nella interdipendenza non risultano annullate nelle loro
rispettive specificità e prerogative soggettive. Imparare ad accogliere i “no” e a dire i
“no” nella loro valenza positiva è un esercizio inedito per gli uomini perché estraneo
alle proprie memorie» (Ventimiglia, 2006, p. 167).
Si tratta dunque di riuscire a rielaborare e integrare nella propria esperienza di
umanità la dimensione della fragilità e dell’impotenza. Impotenza di fronte al rifiuto,
all’abbandono, al tradimento, al dolore, alla morte. Le esperienze di negazione e di
perdita non sono al di sotto della nostra umanità. Al contrario l’accettazione di queste
esperienze ci aprono ad una comprensione della vita e delle persone più ampia e
profonda. Imparare ad amare significa incorporare in sé tutte le esperienze che si sono
vissute. Portare sempre con sé il sapore dolce e dolente, fragile e potente della propria
vita emotiva e affettiva e saperne trarne un modo nuovo per stare al mondo, per stare
in relazione, un modo intenso e coraggioso sia nel rapporto con l’altro che nel rapporto
con sé. Contrariamente al senso comune, a quello che tutti siamo abituati a pensare,
contrariamente all’idea romantica dell’amore, in verità si può amare veramente solo
ciò che si è disposti a perdere. Amare è anzitutto acconsentire all’esistenza e al
desiderio dell’altro, affinché qualcosa possa accadere ma anche non accadere. Come
uomini, se vogliamo davvero incontrare il desiderio femminile dobbiamo rinunciare a
controllarlo. Questa è la scommessa.
Due tipi di violenze: patriarcale e post-patriarcale
Tuttavia oggi abbiamo di fronte un cambiamento anche qualitativo e non solo
quantitativo della violenza. Penso in particolare al femminicidio.
Negli ultimi anni si è registrata una catena di omicidi maschili contro donne. In
alcuni casi sono semplicemente uomini che uccidono mogli e compagne per liti di
qualsiasi genere. Ma in numerosi casi si tratta di omicidi che riguardano ex mogli, ex,
compagni.
In molti casi dietro questi omicidi contro donne c’è di mezzo anche l’esperienza
della separazione, del rifiuto, della scelta della ex compagna di costruirsi un’altra vita.
Possiamo a questo proposito prendere in considerazione le poche indagini
sistematiche compiute a questo riguardo per avere qualche elemento in più.
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Nella ricerca svolta qualche anno fa dal Centro documentazione dell’Eurispes in
collaborazione con l’Associazione Ex sono stati proposti una seri di dati relativi ad
omicidi familiari/parentali e “di coppia” (compagni o ex compagni), accaduti tra
gennaio e dicembre 2003. I dati del 2003 registrano 157 omicidi di cui 101 omicidi di
coppia (111 secondo i dati EURES). Fra questi ultimi gli autori erano in 87 casi uomini
e in 14 casi donne. Un particolare che si può cogliere è che mentre gli omicidi da parte
di donne riguardavano solo relazioni in corso (7 tra coniugi, 4 tra conviventi, 3 tra
amanti o fidanzati) e nessun ex compagno o rivale, viceversa gli omicidi da parte di
uomini oltre a relazioni in corso (59 casi) riguardavano in ben 24 casi ex compagne
(mogli, conviventi o amanti) e in 4 casi rivali. In 37 episodi si tratta di situazioni in cui
gli uomini non accettano la separazione attuata o imminente.
Nella ricerca “L’omicidio volontario in Italia. Rapporto 2005” curata
dall’EURES in collaborazione con l’ANSA i dati diversamente aggregati (dunque non
completamente paragonabili) registravano nel 2004 187 delitti maturati in “ambito
domestico” ovvero di coppia o tra familiari. In sostanza in Italia c’è un omicidio “in
famiglia” ogni due giorni. Gli omicidi “di coppia” sono invece 100. Fra questi gli uomini
sono in 85 casi autori e in 17 casi vittime mentre le donne sono in 15 casi autrici e in
83 casi vittime. Si può notare inoltre che gli uomini hanno ucciso 17 ex partner (contro
i 3 casi di donne) e in 1 caso la donna desiderata. Uomini sono anche gli autori dei 12
episodi (in questa ricerca sono conteggiati fuori dai 100 omicidi di coppia) in cui le
vittime sono stati i rivali (maschi). Secondo questa ricerca gli episodi in cui il partner
uccide chi lo sta abbandonando sono addirittura 59 (il dato è aggregato e non
distingue tra uomini e donne).
I casi in cui il fattore scatenante del delitto sarebbe dovuto alla decisione di
separazione da parte della vittima coprirebbero nel 2004 circa il 31,6% degli omicidi in
ambiente domestico. Questo problema riguarda soprattutto gli uomini e suggerisce
così abbastanza chiaramente la realtà di una maggiore fragilità e dipendenza
psicologica e di una minore autonomia da parte maschile.
La novità che abbiamo di fronte agli occhi e che dobbiamo riconoscere è che, a
fianco della violenza che colpisce donne in situazione di marginalità sociale, oggi
registriamo una violenza che sembra nascere dall’incapacità soprattutto da parte degli
uomini di accettare e accogliere un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di
molte donne. Le donne non si mettono più nel ruolo di ancelle dell’identità maschile, di
rassicurazione e conferma del senso di sé. Non confermano, criticano, discutono e
perfino fanno delle scelte di autonomia: chiudono una relazione, cercano nuove
possibilità per se, investono su altri aspetti della loro vita, cercano di ricostruire le loro
vite in altre condizioni: si riinnamorano, si risposano, allevano i loro figli. Oggi si
registra una violenza che colpisce donne che hanno già manifestato la loro libertà, la
loro autonomia, il loro desiderio.
La violenza oggi comincia a colpire la donna che non accetta più di costituire il
supporto permanente dei bisogni dell’uomo dentro e fuori la coppia, si riversa sulla
donna che – a torto o a ragione - apre conflitti e pone in questione l’uomo. In qualche
caso – ma su questo bisognerebbe aprire un ragionamento a parte perché la questione
è più complessa e contraddittoria - anche l’affidamento e la relazione coi figli
diventano un ulteriore elemento di conflitto e di risentimento (i dati registrano 4
situazioni di questo genere nel 2004 e 5 nel 2003)
Credo che il tipo di violenza che abbiamo di fronte agli occhi non sia una semplice
riproposizione della cultura e del potere patriarcali. Questa violenza non implica
alcun rifiuto dell’uguaglianza tra i sessi e tanto meno un pregiudizio di
inferiorità verso la donna. Al contrario, si può ipotizzare, segnala
l’involontaria l’ammissione della compiuta autonomia femminile con un senso
di inadeguatezza e difficoltà da parte degli uomini. Questa violenza ci racconta di
un affanno e di una mancata rielaborazione maschile di fronte ad una libertà e
un’autonomia femminile piuttosto che un potere maschile e una sottomissione
femminile. Il delitto segnala semmai l’impossibilità, l’impraticabilità della sottomissione
femminile. Da questo punto di vista i termini della violenza sulle donne sono dunque
cambiati, stanno cambiando.
56
È facile naturalmente riconoscere una certa continuità di questa violenza con la
violenza tradizionale maschile di tipo patriarcale, ma quello che voglio sottolineare è
che al contempo si sta manifestando una discontinuità importante: questa violenza
parla sempre più di una mancata rielaborazione e di un affanno maschile di fronte ad
una libertà femminile piuttosto che non di un potere maschile e di una sottomissione
femminile. I termini di questa violenza sono cambiati. E forse proprio per questo
assume forme sempre più efferate e incontrollate.
Riportando questo ragionamento alla sfera delle relazioni credo che oggi come oggi
gli uomini commettano violenza soprattutto perché non accettano la differenza, ovvero
non accettano l’alterità della propria compagna. Non accettano che la donna che
hanno di fronte non sia semplicemente una continuazione, un riflesso del proprio
desiderio o dei propri bisogni. Non accettano che essa possa scegliere in base al
proprio desiderio e che questo non coincida con il loro o con la loro idea di relazione.
In questo scacco – e nel conseguente senso di “impotenza” verso l’autonomia e la
libertà femminile - emerge tutta la dipendenza, la fragilità e l’insicurezza nascosta
degli uomini.
Quando questa esperienza si produce, quando la donna da spazio al suo desiderio e
alla sua libertà, quando la relazione finisce, l’uomo perde contemporaneamente
l’oggetto d’amore, un senso di relazione simbiotica e un senso di sé che era
supportato dall’altra.
Poiché tutti questi aspetti sono ancora intollerabili per molti uomini, li si nega
ancora una volta tramite la violenza. Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono
cancellare l’alterità piuttosto che riconoscerla e accettare così la propria
parzialità, la propria vulnerabilità, la propria impotenza. In questo senso la violenza
maschile sulle donne è un tentativo di cancellare la differenza e non l’uguaglianza.
Ciò che è difficile per gli uomini oggi non è riconoscere che le donne hanno pari
dignità o valore degli uomini. Ciò che è difficile è stare di fronte ad una donna ed
accettare che essa è altro da noi. Ebbene io credo che la relazione vera e propria può
nascere solo nel momento in cui ogni uomo riconosce che la donna che ha di fronte
non è una sua proiezione o un suo oggetto e che essa può differire da lui in tante
cose, nel bene e nel male. Solo a quel punto può cominciare una relazione ed uno
scambio reale e nonviolento. Dunque accettare la libertà di differire della donna,
accettare la propria parzialità e limitatezza e accettare una relazione reale sono tre
aspetti intimamente connessi.
Da questo punto di vista, questa violenza, in un modo o nell’altro, ci interroga tutti.
Non si tratta di prendere le distanze da una violenza che sta fuori di noi, che
appartiene “agli altri”, agli “uomini violenti”, ma piuttosto di fare realmente i conti con
una possibilità che è inscritta nella cultura comune. La violenza, il delitto sono soltanto
una delle possibili conclusioni. Il dato comune a tutti, non è l’episodio conclusivo della
violenza, ma ciò che la precede: la concezione della coppia, dell’amore, della
relazione. Ciò che ci sembra normale perché non si manifesta nella forma della
violenza esplicita e del crimine, ma che probabilmente è invece all’origine del
problema.
Quello che noi uomini possiamo fare è cominciare a parlare delle nostre modalità
relazionali, di come siamo nelle relazioni, di come costruiamo le relazioni, di come le
neghiamo, di come ne abbiamo paura. Dobbiamo chiederci in che misura siamo riusciti
ad accogliere la libertà e il libero desiderio delle donne nelle nostre relazioni e nel
nostro modo di amare.
Dunque non si tratta di difendere le donne o di dare sostegno alla loro condizione di
persone svantaggiate o minacciate. Si tratta di reinventare uno spazio di relazioni più
soddisfacenti, intense e libere. Dove la libertà, il desiderio, la percezione a
l’accoglienza della differenza sono la precondizione dell’intensità e della soddisfazione
e della nonviolenza.
Il problema è la capacità di tenere insieme relazione e autonomia, amore e
riconoscimento dell’alterità, passione e conflitto.
Il cambiamento del quadro normativo
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Il quadro normativo però sta cambiando.
Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119 e pubblicato
in Gazzetta Ufficiale 15 ottobre 2013, n. 242.
Sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta
ad Istanbul l’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza contro le donne e
in ambito domestico di Istanbul, recentemente ratificata dal Parlamento, il decreto
mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di
maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking).
Vengono quindi inasprite le pene quando:
•il delitto di maltrattamenti in famiglia è perpetrato in presenza di minore degli anni
diciotto;
•il delitto di violenza sessuale è consumato ai danni di donne in stato di gravidanza;
•il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner.
Un secondo gruppo di interventi riguarda il delitto di stalking:
•viene ampliato il raggio d’azione delle situazioni aggravanti che vengono estese
anche ai fatti commessi dal coniuge pure in costanza del vincolo matrimoniale, nonché
a quelli perpetrati da chiunque con strumenti informatici o telematici;
•viene prevista l’irrevocabilità della querela per il delitto di atti persecutori nei casi di
gravi minacce ripetute (ad esempio con armi).
Sono previste poi una serie di norme riguardanti i maltrattamenti in famiglia:
•viene assicurata una costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento
dei relativi procedimenti penali;
•viene estesa la possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette
allorquando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne che versa in uno
stato di particolare vulnerabilità;
•viene esteso ai delitti di maltrattamenti contro famigliari e conviventi il ventaglio delle
ipotesi di arresto in flagranza;
•si prevede che in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle persone o
minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione di tali condotte con gravi rischi per le
persone, il Pubblico Ministero – su informazione della polizia giudiziaria - può
richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio urgente, vietando
all’indiziato la presenza nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente