Editing, redazione ed impaginazione: a cura dell’autore.
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“Ed eccomi qui. Senza un cazzo da fare.
Tranquillo sulla mia terrazza.
A bere rum nel crepuscolo. (…)
Mi piace così. Niente di eterno.”
Trilogia sporca dell’Avana, Pedro Juan Gutiérrez
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Prologo
Qualcuno di voi forse conoscerà la storia della puttana che, in
un momento di totale sconforto, ricordandosi di quel modo di
dire, “spararsi la merda”, si riempì una siringa con i propri
escrementi e se li pompò in vena, provocandosi degli ascessi
che le furono fatali.
Ecco, questa è quella che si potrebbe tranquillamente
definire una storia di disperazione. Anche quella che vi sto per
raccontare, a suo modo, lo è. Ma non pensate di trovarci
puttane qui sopra. Quella che segue è soltanto la storia di un
ragazzo e del suo male di vivere.
Niente di più noioso, all’apparenza.
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Capitolo I
Sveglio.
Scosse mi penetrano come coltelli nella carne viva.
Nervi tesi, a fior di pelle. Fuoco nelle vene e in bocca uno
sciopero proclamato in massa dalle ghiandole salivari. Nella
testa solamente un gran frastuono.
Giro lo sguardo verso l’altra metà del letto. Vuota,
come sempre. Sono solo. Una verità che alcune volte è
piuttosto difficile da mandar giù. Oggi è uno di quei giorni, mi
sa. Lo capisco ora che in testa torna a farsi vivo un ricordo
sfocato.
Attraverso la fitta nebbia della stanza, riconosco una
bottiglia di vino rosso, un piacevole diversivo alla serata
altrimenti monopolizzata dalle dolci sensazioni offerte da un
grammo o poco più di nero afgano, prelibatezza che, almeno
fino a qualche anno fa, consideravo reperibile più o meno
quanto un doblone antico dentro il registratore di cassa di un
minimarket.
Pouf!
Il breve flashback è interrotto da un improvviso ritorno
alla realtà dei fatti.
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Sollevo la mia carcassa sconquassata. Le ossa mi fanno
un male boia, sembra che il diavolo ci abbia ballato sopra per
tutta la notte.
Finalmente in piedi, mi metto alla ricerca delle ciabatte
di tela, disperse Dio solo sa in chissà quale angolo della stanza.
È l’esperienza affinata negli anni a suggerirmi di setacciare
quell’immonda area di pavimento che si cela sotto il letto.
Faccio dunque perno sulla gamba destra e allungo la sinistra
verso quegli oscuri meandri. La muovo tra strani oggetti dalle
forme più disparate, finché con il piede percepisco qualcosa
che sembra vagamente somigliare a delle calzature. Scoprire si
tratti effettivamente delle ciabatte che vado cercando con tanto
affanno mi gonfia il petto dello stesso orgoglio che
illuminerebbe un vecchio archeologo a tu per tu col più
importante rinvenimento di tutta la sua carriera.
Recuperato il bottino, rimango per una decina di
secondi buoni davanti al led rosso dell’impianto hi-fi, fido
alleato di mille risvegli e di altrettante veglie notturne. Riesco a
svignarmela indirizzando il passo verso lo specchio posto tra le
due ante in legno dell’armadio. Da lì posso analizzare la mia
splendida mise: porto dei pantaloni di un vecchio pigiama di
flanella; sopra, una t-shirt rossa con la serigrafia nera di un toro
stilizzato, souvenir di un memorabile viaggio in terra iberica.
Mi massaggio il viso, sfregando le palpebre semichiuse
quasi a voler raschiare via la ruggine che le ricopre. Devo però
arrendermi all’evidenza.
«Faccio schifo!»
Occhi vitrei, iniettati di sangue. E queste macchie, che
si espandono fin quasi agli zigomi, somigliano più a dei lividi
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che a delle occhiaie. Sono un cadavere in stato di
decomposizione. Mi vedesse George Romero, non ci
penserebbe su due volte prima di scritturarmi per uno dei suoi
film dell’orrore.
Non posso essermi ridotto in questo stato, non ci credo.
Piangersi addosso, però, non risolverà di certo il problema.
Degli esercizi ginnici, ecco cosa ci vuole per rimettermi in
sesto. Inspirare, espirare, dare un ritmo regolare alle flessioni.
E anche alla mia vita. Ho bisogno di disciplina, di una figura
intransigente alla Sergente Hartman in Full Metal Jacket. Ho
bisogno di qualcuno che mi urli nelle orecchie frasi tipo: «Non
mollare, stupido pappamolle!» Una roba così sarebbe in grado
di iniettarmi nelle vene una dose massiccia di umiliazione allo
stato puro, l’ideale per dar vita a un’ennesima giornata di
merda.
Mi faccio coraggio. Butto il corpo in avanti, premo i
palmi a terra e do inizio all’allenamento.
«Uno. Due. Tre. Quat…»
Dopo neanche quattro piegamenti, patetico e afflitto
come un pugile ormai allo strenuo delle forze, dichiaro la resa.
Sto per afferrare il telefono e comporre il numero del Pronto
Soccorso per chiedere aiuto a uno sfortunato interlocutore.
Potrei destabilizzarlo osando paragonare il mio sforzo alla
grande jihad del popolo musulmano. Ma forse è meglio evitare.
Di nuovo in piedi, mi tolgo la maglia e mi metto davanti
allo specchio, a petto nudo. Ogni volta che vedo la mia
immagine riflessa sul vetro, la disperazione assume le
sembianze di un cavatappi, le mie budella quelle di un tappo di
sughero entro cui girare.
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«Cazzo!»
Chissà se in questo catorcio c’è ancora qualcosa da
salvare prima dello sfascio definitivo. Poco. Probabilmente
niente.
Non bado alle apparenze, sia chiaro. Potrei anche
possedere una pancia sporgente e floscia, non cambierebbe
assolutamente nulla. Quindi non fatevi idee sbagliate. Non ho
dichiarato guerra a chi fa sfoggio della propria opulenza
borghese. La mia non è nemmeno una forma di solidarietà nei
confronti di coloro i quali, quotidianamente, elemosinano un
pezzo di pane o anche solo una stilla d’acqua piovana. Sono un
ragazzo senza cuore o forse solamente un idiota che fuma
troppo e beve ancora di più, ma la realtà è che non m’importa
un fico secco di quello che mi accade intorno. Non m’interessa
di oppormi all’avidità collettiva, all’ingordigia che ha infestato
la razza umana, che ha trasformato le persone in tanti stupidi
consumatori. Se spazzassero via l’umanità intera, non sarebbe
un gran danno, almeno dal mio punto di vista. Davvero, non
me ne frega niente della gente. E non m’importa nemmeno di
salvare le balene o le tigri bianche o chissà quale altro sfigato
animale in via d’estinzione. Non sono la persona sensibile che
qualcuno di voi, magari, si sarà immaginato. No, cari miei, mi
spiace deludervi. Di ciò che mi circonda, spero vi arrivi il
concetto, non me ne frega assolutamente niente. Non me ne
importa nemmeno di me stesso, figuratevi quanto me ne può
fregare degli altri. Davvero. Non ho a cuore la mia salute, né il
mio aspetto esteriore, né niente di niente di niente. Ok, lo so,
sono parecchio strano, ma non posso farci nulla. E non cercate
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di capirmi, tantomeno di cambiarmi, vi prego. Sarebbe solo
fatica sprecata.
Meglio riprendere il giro di perlustrazione per la stanza,
con la speranza di riattivare anche i miei meccanismi vitali.
«O Dio, ti ringrazio!»
I miei occhi intercettano un posacenere su cui è
poggiato un conico manufatto di carta velina. Una canna, tanto
per intenderci. L’ultimo purino d’erba che mi è rimasto. L’ho
rollato ieri sera con la sola speranza di dare inizio, quest’oggi,
a una giornata minimamente degna di essere vissuta. Ma non
sarà così, nemmeno stavolta. Anche oggi mi aspetta la solita,
insopportabile solfa. Sapete una cosa però? Me ne frego. Mi
basta il solo tocco di quest’affusolato cigarillo per alleviare le
mie pene e convincermi a liberare, dal ventre del mio fedele
impianto hi-fi, l’onda roboante di un qualche brano di mio
piacimento.
Prima di tutto, però, devo rimediare un accendino.
Guardo sopra il piccolo tavolo al centro della stanza, un
regalo che alcuni miei amici definirono un pezzo d’antiquariato
indiano. (Accolsi la notizia, senza porre ulteriori interrogativi.)
Trovare un accendino in mezzo a ‘sto delirio, però, è
un’autentica impresa. Qui sopra c’è praticamente di tutto. Un
libro di Burroughs, tre palline da giocoliere. E ancora incensi
sfusi, cartine, tabacco e inviti a concerti e party selvaggi a cui
ho raramente preso parte. Spicca infine, proprio dal centro, una
bottiglia da settantacinque centilitri di Nero d’Avola. Vuota,
ovviamente. Il fuoco che mi è divampato dentro stanotte ha
eliminato ogni traccia del suo sapore piacevole e robusto.
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Sterzo lo sguardo su un lato, poi raggrinzisco un po’ gli
occhi mentre cerco di ricordare cosa sia accaduto di preciso la
scorsa notte. Ma per quanto possa frugare tra le viscere più
abissali della mia memoria, devo tuttavia arrendermi
all’evidenza: non ricordo un cazzo. Non so, è come se il
segnale venisse disturbato da qualche fattore ignoto pure al
sottoscritto. Non una novità, intendiamoci. Nella mia mente c’è
sempre un gran bordello. È come questo tavolino: pieno di roba
che non serve a nulla, buona soltanto a prender polvere.
L’ordine non trova spazio nella mia vita. Niente, non ce
la fa proprio. Il mio cervello è un organo a sé stante, anarchico.
E mi starebbe anche bene così, intendiamoci, non fosse altro
che me ne sbatto dell’anarchia e di ogni altra ideologia in
genere. Ve l’ho già detto, non me ne frega niente di quello che
mi succede attorno. Sono un fottuto nichilista, semmai, uno che
se ne frega se il mondo sta andando a rotoli. A me basta solo
fumare e oziare, oziare e fumare. Ma prima di farmi ‘sta
benedetta canna, devo trovare assolutamente un cazzo di
accendino.
Oh! Eccolo qui, finalmente. Ora potrò scegliere la
giusta colonna sonora per questa mattinata e posare le mie
labbra sulla mia adorata canna.
«Vediamo.»
Che musica scelgo? Il dubbio mi assale. Potrei rimanere
davanti a questo porta cd per delle ore. Che lo voglia o no,
però, devo prendere una decisione. E devo farlo in fretta, a
meno che non voglia morirci di vecchiaia in questa posizione.
«Jamiroquai.»
Amen!
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Trovo quasi subito l’album che ho in mente, Travelling
Without Moving. Il primo brano in scaletta è Drifting Along,
proprio quello che mi ci vuole per ridar vigore a questa
carcassa arrugginita.
Col polpastrello del pollice destro, do un colpo secco
alla rondella dentata dell’accendino, cosicché la fiamma bruci
l’estremità della canna. Esagero già dalla prima boccata.
Voglio che il fumo mi arrivi giù nei polmoni. Voglio che me li
fotta.
Premo “Play” lasciando poi che il pezzo si dilegui negli
spazi vuoti della stanza e le note vibrino nell’aria come tanti
aquiloni in balia di una vivace brezza estiva. Strozzata da uno
sbadiglio, intanto, la mia voce fuoriesce roca.
«Che una nuova giornata di merda abbia inizio!»
Ciò che avete appena letto, signore e signori, è la
patetica cronaca di ogni mio fottutissimo risveglio. Ogni
giorno, aperti gli occhi al mondo, assisto impassibile al mio
irrefrenabile declino. Avrei bisogno di qualcosa che desse
nuovamente un senso alla mia vita, ma non so affatto cosa. Ho
smesso di cercare. Ho smesso di vivere, per l’esattezza.
Sopravvivo. Perennemente fuori dal mondo. Completamente
alienato da questo ostile sistema che mi circonda e che qualche
pazzo si ostina ancora a chiamare vita.
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Capitolo II
La mia camera da letto è un posto dove il sole non splende mai,
dove le ombre sembrano persino fuggire da loro stesse. E
purtroppo, per quanto cerchi di convincermi del contrario,
l’erba che ho appena fumato non aiuterà a cambiare le cose.
Anzi, sento già che mi manca l’aria. Devo uscire da qui.
Immediatamente.
Al solo cigolio della maniglia, però, un ammasso di
pelle e ossa coperto da fuseaux neri e una t-shirt bianca mi
assale: Eudora.
«Eccoti qua!», esclama, scagliandosi su di me con la
stessa ferocia di un lupo famelico. «Cosa pensi di fare?», urla,
con quella chioma irregolare in testa, una composizione
impazzita che si combina perfettamente con le parole da lei
stessa pronunciate. «Anche oggi far casino da mattina a sera?
Quando avrai un minimo di rispetto per gli altri, si può
sapere?»
Parla di rispetto e confonde il moralismo stoico con le
banali leggi alla base della più civile convivenza, nonché della
vita in generale. La prima, quella fondamentale: “non
rompermi i coglioni, ché io, stanne certo, non li romperò a te”.
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Imperturbato di fronte a tanto sbraitare, scruto le vene
che le sono apparse lungo il collo e sulle meningi, il rosso
acceso della sua pelle.
La odio.
Odio quel suo modo di atteggiarsi a giudice supremo,
quella sua insopportabile mania di bacchettarmi per ogni gesto
che non rientri nei suoi schemi comportamentali. Odio lei e
tutto ciò che mi parla di lei. Di converso, anche lei odia me, è
evidente.
Fisso i suoi occhi colmi di astio. In attesa che il rossore
della sua fronte e delle sue gote sbiadisca, porto alle labbra la
canna e, con un paio di tiri avidi e lunghi, prosciugo la parte
residua prima del cartone.
«Vaffanculo!», faccio io, senza scompormi più di tanto.
«Sì, già, vaffanculo!», gracchia lei, indispettita. «È tutto
quello che sai dire, vero? Ti si fa un rimprovero e tu
“vaffanculo”! Ti si chiede un favore e tu “vaffanculo”! Ma
vaffanculo tu, brutto stronzo!»
La ragazza continua a sgolarsi anche quando,
concedendole le spalle, mi dirigo con l’agilità di un bradipo
claudicante verso il cesso.
«A proposito», insiste, costringendomi a una nuova
sosta. Il suo clinch asfissiante è il presagio di un’ennesima
giornata di rodimenti che non oso neppure immaginare. «Visto
che stai andando in bagno, vedi di dare una pulita. L’ultima
volta che lo hai fatto, Pertini era ancora Presidente della
Repubblica.»
La battuta non riesce nemmeno a strapparmi un sorriso.
In compenso, una fitta alla testa mi prende alla sprovvista,
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costringendomi a una smorfia di dolore. Così facendo, però,
abbasso la guardia, concedendo a Eudora lo spazio necessario
per infilare la sua lingua biforcuta.
«E sei gentilmente pregato di mettere in ordine anche la
cucina. È un vero porcile. Ma come diavolo fai ogni volta a
ridurla in quel modo? Sembra un campo di battaglia.»
Mi ci vedrei in battaglia, senza elmo, ma con indosso
un’armatura squamata e sfavillante in grado di dar lustro al mio
glorioso passato da vincente condottiero. Faccia a faccia con le
milizie ostili, pazienterei in attesa che Eudora, mio principale
antagonista di sempre, si facesse avanti. Alla vista dell’orrenda
sgorbia nemica, mi avventerei su di lei con inaudita ferocia e,
con un netto colpo trasversale simile a quello di un samurai, le
trancerei di netto la testa, per poi vederla roteare in aria,
precipitare giù e rimbalzare due o tre volte a terra come un
pallone sgonfio. Rimarrei lì ad ammirare gli zampilli di sangue
che sgorgherebbero dalla vena giugulare. E di fronte a quella
ferita mortale, godrei dell’insospettabile erotismo celato in quel
crudele ritratto medievale.
Quando sto con lei, il mio cinismo si trasforma, diventa
in un certo qual senso sadismo. Un giorno di questi, credetemi,
va a finire che l’ammazzo. Vi giuro, prima o poi lo faccio sul
serio.
«E poi cos’è questa musica?», riprende. «Ti pare
normale tenere il volume così alto? E quest’odore d’erba? È
nauseante. Qui rischiamo grosso. Guarda tu se un giorno di
questi non ci ritroviamo la polizia dentro casa.»
«Ti ho già detto di andare a farti fottere?», m’informo.
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«Non permetterti mai più di insultarmi, buzzurro che
non sei altro!»
«Senti», intervengo, tentando un approccio un tantino
più diplomatico, «invece di stracciarmi le palle, perché non dai
una lavata a quel topo puzzolente?»
«Vicious è un chihuahua, non un topo! E non puzza!
Non hai mai puzzato in vita sua, cafone!»
Vicious? Si può dare a un’orribile bestiola un nome del
genere? Vicious, Dio Santo! Una delle perle più rare e
splendenti che il genio di Lou Reed abbia donato all’umanità.
Madre santissima! Questa ragazza non ha il minimo rispetto
per le istituzioni del rock.
«Sì, che puzza!», ribadisco. «Puzza di merda e rompe
anche le scatole, se è per questo. Un giorno di questi, se non se
la pianta di ringhiarmi addosso, gli do un calcio così forte che
gli cambio i connotati.»
«Brutta testa di cazzo, stronzo maledetto! Vedi di
cambiare registro con me o altrimenti…»
Eudora interrompe bruscamente le sue intimidazioni,
come abbagliata dai fari del rimorso o forse perché
semplicemente incapace di immaginare una punizione
esemplare a cui sottopormi.
«O altrimenti?», domando io, invitandola a completare
la frase.
«Mi sono stufata di te, hai capito?»
Senza neppure replicare, riprendo il passo in direzione
del cesso. Una volta date le spalle alla ragazza, alzare il dito
medio della mano destra al cielo mi viene più spontaneo di
qualsiasi altro gesto che quotidianamente riempie la mia
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esistenza. Come uno sbadiglio appena sveglio o quel senso di
inutilità che affiora nella mente e che mi accompagna in questo
faticoso e lento incedere delle mie giornate.
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Capitolo III
Resa abitabile parte della casa (sebbene il termine abitabile
poco si addica alla totale disperazione che ammorba l’intero
appartamento), ciabatte ai piedi, trovo finalmente ristoro in un
angolo della cucina, poggiato sulla credenza di fianco ai
fornelli, cercando nel pacco delle delizie preparate dalla nostra
anziana vicina, la signora Mariotti, un qualche dolcetto che, se
non attraverso la vista, riesca almeno a incuriosire i miei
indiscreti polpastrelli. Raggiunto l’apice della gioia
semplicemente afferrando una ciambella all’anice, mi soffermo
poi a osservare il degrado che mi circonda. E così facendo,
ripercorro la strada che, in picchiata, mi riconduce allo
sconforto.
Questa stanza è un autentico letamaio, come quasi il
resto della casa, del resto. Ma la cucina, più di ogni altra
stanza, custodisce un non so che di sinistro. In parole povere, fa
veramente schifo. E non solo per via delle pareti fuligginose o
per le ragnatele appese agli angoli del soffitto. Cataste di piatti,
posate, padelle, pentole e bicchieri si erigono dal lavandino
fino a lambire lo scolapiatti. E ce n’è ancora. Cartoni di pizza,
fogli di Scottex e lattine di birra accartocciate traboccano da
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una busta in plastica troppo piccola per contenere tutta la
spazzatura accumulata da circa una settimana. Il grosso tanfo
che ne fuoriesce (a cui sono tuttavia assuefatto) richiama
giornalmente cospicui sciami di mosche che ronzano macabri e
indisturbati per la stanza. Sollevare i piedi dal pavimento,
oltretutto, è una vera impresa. Le suole delle ciabatte si
attaccano come delle ventose alle mattonelle. Questo
indefinibile strato di unguenti e detriti viscosi potrebbe
tranquillamente essere il residuo di un devastante raduno di
impasticcati. Ma chi mi conosce sa che l’unico responsabile di
questo scempio sono io. Io insieme a quella stronza di Eudora,
naturalmente.
Comincio ad avvertire un forte senso di nausea. Forse è
il caso di deviare lo sguardo su altre latitudini. Mi soffermo
sulla fiamma glauca del fornello che, come tante minuscole
piume, solletica il fondo della moka, ormai prossima genitrice
(si spera) del mio primissimo caffè di giornata.
Ah, il caffè del risveglio! Un vero portento. È come se,
per usare un’eguaglianza matematica, il caffè stesse alla causa,
come le mie feci all’effetto. Il mio corpo, almeno in questo, è
un meccanismo perfetto. Per il resto è tutto un gran bordello. E
ciò è così da quando, già durante gli anni dell’adolescenza, mia
madre mi concesse il permesso di sorseggiare qualche goccia
di caffè dalla sua tazzina. Così facendo, sebbene
inconsapevolmente, gettò le basi di quella che, in seguito, si
rivelò la mia prima vera forma di dipendenza. Cominciai con
un paio di tazzine al giorno, una al risveglio, l’altra dopo
pranzo. Ben presto considerai il caffè come una sorta di
preambolo alla sigaretta. L’uno divenne direttamente
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proporzionale all’altra: tanti caffè bevevo, altrettante sigarette
fumavo. Il problema fu che, a forza di frequentare i bar del
quartiere, il mio consumo quotidiano di caffè (e
conseguentemente di sigarette) aumentò notevolmente. Lo
sfizio si tramutò in vizio e, senza neppure accorgermene,
raggiunsi una media giornaliera che, son certo, molti di voi non
avrebbero grossi problemi a definire insostenibile.
Mi guardo attorno in attesa del caffè. La casa è
stranamente rapita da uno sconcertante silenzio. Ora che,
sull’orologio appeso alla parete della cucina, le lancette
segnano le nove e trentasette e che quel topo di nome Vicious
se ne sta ancora a oziare dentro la sua cuccetta. Ora che la
musica è terminata e che quella belva di Eudora, già da qualche
minuto, se n’è tornata nella propria stanza, impegnata nella
farsa di uno studio a cui non seguirà mai alcun esame.
È una di quelle mattinate sotto tono, insperabilmente
miti. E già, perché di queste mattinate così tranquille se n’è
persa davvero traccia qui a Perugia. Da un po’ di tempo a
questa parte, tutto mi pare così opprimente, angosciante,
assolutamente insopportabile. Boh! Saranno i miei sbalzi
d’umore, le paranoie, i miei vizi più luridi. Negli ultimi tempi il
mio sistema nervoso se n’è andato in corto circuito tante di
quelle volte che non so se mai riuscirò a riprendermi. La
memoria è una di quelle cose che ha accusato maggiormente il
colpo. Molti ricordi del passato sono finiti nel calderone dei
misteri più bui, un grande recipiente saturo di rimorsi e
rimpianti, gioie e lotte sanguinose, emozioni contrastanti che,
di tanto in tanto, spuntano fuori senza un ordine prestabilito.
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Con la testa poggiata sullo scaffale, intanto, lascio che
la mia mano s’intrufoli di nuovo nello scartoccio dei dolciumi,
destra nel rinvenire, tra i biscotti al cioccolato, un’altra
ciambella all’anice o, in alternativa, un pezzo di crostata farcito
con della marmellata di visciole. Sì, lo confesso, preferisco la
marmellata alla cioccolata. A dire il vero, la cioccolata non la
mangio proprio. Ho infatti un’intolleranza poco frequente, una
curiosissima forma di idiosincrasia che risale a qualche anno
fa. Ancora adolescente, tutte le volte che ne assaggiavo anche
solo un cucchiaino, la mia pelle veniva invasa dalle bolle.
Avevo bolle dappertutto: sugli avambracci, sul petto, sul dorso
delle mani e dei piedi. Per non parlare dei miei continui raptus
d’ira. Nessuno capiva la causa di certe mie reazioni così
violente. Una volta, però, mi capitò di leggere su una rivista le
vicende di un ragazzino inglese, noto ai suoi concittadini per
essere una vera peste. A soli nove anni, il piccolo aveva già
rotto i vetri della parrocchia, divelto le lapidi del cimitero,
rubato una motocicletta e tentato di far deragliare un treno.
Malgrado le dicerie su una sua presunta malattia psichica, si
scoprì che il giovane era soltanto vittima di una rara forma
d’intolleranza alimentare. I medici scoprirono che a provocare
quelle sue irrefrenabili crisi di violenza era proprio una
particolare allergia al cioccolato.
Scavando nel profondo di quella mia insolita
intolleranza, forse già da allora avrei dovuto comprendere quali
anomalie si celassero in me. Imperfezioni che ritrovo ora nello
stesso equivoco individuo, sgarbato e malfattore, disonesto e
manigoldo, che guarda spuntare, dallo scolaposate in plastica,
un lungo coltello dalla punta acuminata con la medesima,
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intensa ingordigia con cui, nel frattempo, divora dei deliziosi
dolci caserecci. Quel coltello, utilizzato indistintamente per
pelare ortaggi e affettare salumi, pane e quant’altro, riflette
sulla lama la luce tersa del lampadario. Una luce su cui
continuo a tener fisso il mio sguardo da maniaco, mentre,
poggiato con la nuca sullo scaffale, attendo con impazienza che
un dannato borbottio annunci la fuoriuscita della miscela
arabica dal comignolo della caffettiera.
Meglio pensare ad altro. Per esempio, a una convivenza
difficile (talvolta quasi impossibile) con una ragazza che non
ha nemmeno un fondoschiena decente su cui fantasticare; a una
stabilità psichica apparentemente troppo lontana dall’essere
raggiunta; ma, soprattutto, a una macchinetta che non mostra
alcun interesse a sputar fuori la benché minima stilla di caffè.
Lo stomaco invia già i primi lamenti, versi che uniscono le
lagne di uno zombie, le urla di un posseduto e le suppliche di
un eroinomane in piena crisi d’astinenza: “Caffeina! Ho
bisogno di caffeina!” E mentre già immagino di ricorrere alla
Bibbia per trovare la preghiera adatta al mio esorcismo (o
quanto meno sufficiente a convincere la caffettiera a terminare
nel più breve lasso di tempo il suo lavoro), la suoneria
monofonica del mio attempato cellulare (una versione quasi
irriconoscibile di Lonely road to Damascus di Milt Rogers)
cancella di colpo il progetto di una morigerata quiete mattutina.
«Pronto!», dico, senza neppure avere il buonsenso di
leggere sul display l’identità del mio interlocutore.
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Capitolo IV
«Pronto!», insisto, in attesa che qualcuno, dall’altra parte,
risponda.
«Mi senti?»
«Sì!», faccio io.
«Sono Franz.» Una scarica di impulsi scuote il mio
cervello ancora sbronzo.
«Ohi, Franz! Sì, ora ti sento. Scusa, ma questo cellulare
del cavolo... è vecchio, non vale niente.»
«Dove sei?»
Per quanto negli ultimi tempi frequentare questo
ragazzo si sia rivelata un’attività abbastanza ricorrente e per
certi versi, non posso negarlo, anche piuttosto sollazzante,
l’idea di dover rendere conto a qualcuno di quello che faccio
mi mette addosso un’angoscia che non sto neppure qui a
spiegarvi.
«A casa», rispondo. «Perché me lo chiedi?»
Detto in assoluta sincerità, infatti, non capisco cosa
gliene importi di dove mi trovo in questo preciso istante.
Cavolo! Avrò il diritto o no di rimanere rinchiuso dentro il mio
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tugurio senza che un rompipalle qualsiasi mi venga a scassare i
beneamati?
«A casa?», fa lui, evidentemente stupito. «E per quale
cazzo di motivo saresti ancora a casa?»
Continuo a non capire. Davvero, non comprendo il
perché della telefonata. Cosa cazzo vuole Franz da me?
«Be’, mi sono svegliato da poco e…»
«No, eh!», interviene lui, senza lasciarmi concludere la
frase.
«Cosa c’è?», gli domando.
«Non vorrai mica farmi credere che non sai che giorno
è oggi.»
«Che giorno è oggi... ma che c’entra!»
«Non sai che giorno è oggi, vero?»
Questa tiritera comincia a darmi sui nervi.
«Senti, ma che cazzo c’hai, si può sapere?» Il mio
sfogo, per qualche istante, lo ammutolisce. «Non c’ho mica
bisogno di una segretaria. Me la so cavare anche da solo, ok?»
«No, non è ok manco per il cazzo!», fa lui. «Se fosse
stato ok, ti saresti ricordato dell’appuntamento di oggi.»
Una scintilla. Una connessione sinaptica avvenuta in
chissà quale profondo serpeggiamento della mia mente obliata.
«Ah!» Ora capisco. Finalmente. «No, Franz.» Vorrei
dare definitivamente un taglio a questa telefonata e tornare a
maledire la mia fottutissima macchinetta del caffè. Solo questo,
non chiedo altro. «Hai preso un abbaglio. L’appuntamento è
per domani.»
«Domani?» La sua domanda lascia dietro di sé una
misteriosa scia. Sbalordimento, o qualcosa del genere.
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«Eh!», rispondo. «Domani!»
«Tu non sai che giorno è oggi, vero?», chiede lui.
«Certo che lo so», rispondo, sempre più irritato. Per chi
diavolo mi ha preso questo qui, si può sapere?
«Dai, allora dimmelo. Che giorno è oggi?»
«Che ansia, Franz! Ma che t’è preso?» Davvero, che
cazzo gli si sarà successo stamattina? Mi sta facendo il terzo
grado. Sembra un ispettore di polizia alle prese con uno dei più
pericolosi criminali che la storia ricordi. Ancora non mi
conoscete, ma so che nessuno di voi mi vedrebbe mai nei panni
di un malvivente. «Comunque, se lo vuoi sapere, è il 31
novembre. Che cavolo di giorno dovrebbe essere, se no?»
«Il trentu… oh, porca puttana!»
«Cosa c’è che non va?»
«Cosa c’è che non va? », ripete lui. «Hai pure il
coraggio di chiedermelo?»
«Cosa c’è di male a chiedere cosa c’è che non va?»
«Lo vuoi sapere?», fa lui. «Lo vuoi proprio sapere,
grandissima testa di cazzo che non sei altro?»
«Be’, sì», rispondo. «Non puoi mica tenermi al telefono
per tutta la mattinata.»
«Tieniti forte, allora. C’è che non esiste alcun cazzo di
31 novembre! Ecco cosa c’è che non va! Novembre ne ha
soltanto trenta di giorni. Trenta! Ma è mai possibile che non ci
sia mai stata una cazzo di maestra che t’abbia insegnato quanti
giorni ha ogni mese dell’anno?»
«Cioè, tu vuoi forse dirmi che oggi è…»
«Dai, che ci sei quasi, bello!»
28
«Porca troia!» Mi colpisco la fronte con il palmo della
mano. E intanto desidero solamente sprofondare per la
vergogna. «Il primo dicembre!»
«Bingo! Allora sei proprio un cazzo di genio! E io che
pensavo di avere a che fare con un ritardato mentale.»
«Puttana Eva!» Mi sento crollare il mondo addosso. «E
adesso? Come cazzo faccio? Non riuscirò mai ad arrivare
puntuale all’appuntamento. È impossibile.»
«Piantala di piagnucolare e stammi a sentire. Il treno
per Roma parte tra poco meno di mezz’ora. Se ti sbrighi, fai
ancora in tempo a prenderlo.»
«Ma...»
«Niente ma!», tuona lui. «Muoviti piuttosto!»
«Ok.»
«Il numero del tizio ce l’hai?», domanda.
«Mi pare di sì.»
«Ti pare di sì o sì?»
«Sì!», esclamo, senza neppure verificare. «Ce l’ho.»
«Bene.» La sua voce, finalmente, si rasserena. «Sappi
comunque che mi devi una birra. Me la sarò meritata, no?»
«Be’, direi proprio di sì.»
«Eh, meno male. Dai, muovi il culo ora! Cia’!»
Click!
Fine della conversazione.
La casa è di nuovo avvolta nello stesso silenzio di
qualche minuto fa. Ma è una condizione destinata a durare non
più di una manciata di secondi, giusto il tempo di abituarsi a un
nuovo ordine di idee.
29
Corre il burrascoso anno duemilaquattro dopo Cristo.
Siamo in un Paese divenuto ormai la roccaforte di una schiera
di ladri e malandrini che ogni giorno minano le fondamenta
della nostra democrazia, visi noti della politica nostrana che
vivono di compromessi e frenano ogni atto di gestione pubblica
che non porti loro un qualche tornaconto personale. L'uomo,
pertanto, si affida a Dio o a qualsiasi altra forza superiore
gestisca l’intero ambaradan. Per chi non ha pazienza, esiste
sempre uno spiraglio chiamato rivoluzione, il sogno di radere
al suolo l’intero sistema e ripartire daccapo.
In questo contesto così avvilente, vive un giovane
ragazzo di ventitré anni, un povero diavolo che ha smesso già
da un po’ di dare un senso alla propria vita. Ora quel ragazzo
ha a disposizione un tempo quasi irrisorio per darsi una lavata,
cambiarsi e filare a tutta birra verso la stazione Fontivegge, con
la speranza di riuscire a salire sul primo treno disponibile per
giungere puntuale a un importante appuntamento di lavoro. E
se non ce la facesse? Già, se non riuscisse ad arrivare in
tempo?
«Cazzo, cazzo, cazzo!»
(Quel ragazzo, per chi ancora non l’avesse ancora
capito, sarei io.)
Scatto a velocità supersonica in direzione del corridoio,
portandomi appresso un insolito interrogativo: se avessi avuto
uno straccio di calendario a portata di mano, mi sarei trovato lo
stesso in questa situazione di merda? Cristo! Sarebbe bastato
che me ne avessero regalato uno per il compleanno, anziché
optare per il solito portafogli o per qualche aggeggio
elettronico ora buttato da qualche parte nell’armadio. E invece
30
no. La gente non pensa mai a comprare cose intelligenti. La
gente compra solo cazzate. Fanculo!
«Concentrati ora! Concentrati!»
Tamburello l’aria con il palmo delle mani, come a voler
zittire il marasma che ho in testa. Superata la porta della
cucina, mi adopero poi in un’assurda pantomima prima di
decidere quale direzione prendere.
«In bagno!»
La mia ombra si perde nell’oscurità del corridoio, un
buio pesto che m’impedisce persino di captare, dinanzi a me, la
presenza di un ostacolo insormontabile: la porta del bagno.
Chiusa, ovviamente.
Uno scoppio cupo e improvviso e, senza capire più un
accidente, mi ritrovo steso sul pavimento, con il grugno
dolorante e in testa un lieve fruscio e pagliuzze dorate che
appaiono e scompaiono a un ritmo intermittente. A un certo
punto, mi pare persino di vedere la Madonna.
«Che tranvata!»
Uno scontro inaudito. Un colpo tanto violento da farmi
capitombolare a terra come in una gag di Stanlio e Ollio. E ora,
sdraiato, dolorante sul pavimento, questa porta chiusa mi
sembra appena più alta e imponente del Muro del Pianto.
Mi rimetto in piedi, anche se a fatica. Una volta in
bagno, verifico davanti allo specchio se nell’impatto il setto
nasale abbia riportato dei danni. Chi può dirlo. Certo è che il
dolore c’è e si fa sentire. Non vedo però uscire sangue dalle
narici. Muovo quindi il naso con le dita per controllare che non
ci sia niente di rotto. Parrebbe di no. Tutto sembra al solito
posto: la bocca, gli occhi, le occhiaie, la stessa espressione
31
spenta di sempre. Naso a parte, in effetti non c’è molto per cui
gioire.
Non perdiamo altro tempo però. Fa’ infatti che non
riesca ad arrivare puntuale all’appuntamento e sarò costretto a
scrivere altre centinaia di mail con la speranza di ottenere uno
straccio di colloquio.
Devo darmi una mossa.
Giro il rubinetto e con le mani raccolgo l’acqua da
gettare sul viso. Neanche questo farà effetto però. Solo un
miracolo mi potrebbe aiutare. Sono stordito e ho un forte senso
di claustrofobia. Mi sembra di esser rinchiuso sul fondo di una
clessidra. Vedo la sabbia cadermi in testa. Non se la smette.
Ancora un po’ e finirà per seppellirmi.
«Che diavolo è successo?», gracchia Eudora, facendo
spuntare dalla porta del bagno quella sua faccia di merda che,
solo a guardarla, mi vien voglia di prendere a sberle fino a
tumefarla.
«Fatti i cazzi tuoi!», le urlo.
«Ma vai a quel paese!», risponde lei per le righe,
tornandosene da dove è venuta.
Per certi versi, questa ragazza mi è utile. È una delle
poche valvole di sfogo a mia disposizione. Per quanto sia
difficile ammetterlo, devo riconoscere il suo inestimabile
valore. È una presenza snervante, ma essenziale.
Imprescindibile più o meno quanto un cancro ai coglioni per un
martire che sogna di essere beatificato.
Ma ora basta pensare a Eudora. C’è una vita da salvare:
la mia.
32
Con un movimento che di leggiadro ha davvero ben
poco, mi dirigo verso la camera da letto, dimenticando di
lavarmi il viso, i piedi, le ascelle e tutto il resto. Se mai dovessi
riuscire ad arrivare in tempo all’appuntamento, chiunque mi
sottoporrà al colloquio dovrà tenersi a debita distanza per non
rimanere stordito dal mio odore nauseante.
Metto una maglia e un paio di jeans ciancicati, i primi
che mi capitano sotto tiro. Cerco poi le scarpe, le uniche
decenti che mi sono rimaste: un paio di Converse color
cioccolato. Ne trovo soltanto una.
«E l’altra? Dove cazzo è finita adesso?»
Scruto ogni angolo della stanza: sotto la scrivania, sotto
il letto, tra le lenzuola, persino tra la rete e il materasso. Apro
l’armadio, spulcio tra i vestiti che sono riposti all’interno.
Continuo imperterrito nelle mie ricerche, ma niente: della
scarpa neanche l’ombra.
«E che cazzo!»
Esco dalla camera per dare un’occhiata anche al resto
della casa. Passo per la cucina, poi per il bagno. Tutto inutile.
Da di là, intanto, sento Vicious ringhiare.
«Ora ci si mette anche lui. Piccolo bastardo!»
Non devo farmi innervosire da quel cane di merda,
altrimenti qui finisce male.
Proprio accanto alla porta è situata, in un angolo, la sua
cuccia. Oddio, più che una cuccia, una vera e propria reggia in
scala ridotta. Vado lì per azzittirlo e, casualità, cosa trovo?
«Brutto figlio di una cagna gravida! Molla subito quella
scarpa!»
33
Il vile sacco di pulci è lì, steso sul suo morbido letto di
cuscini coloratissimi, con in bocca la mia Converse. ‘Sto
rottinculo! Vorrei prenderlo a calci sul muso, ma alla fine opto
per un approccio più delicato.
«Vicious! Vicious caro!», gli faccio, tentando di
distrarlo.
Niente. Non mi si caga di striscio. Questo chihuahua del
cazzo meriterebbe di finire abbrustolito in una cuccia elettrica.
Ne costruirò una appena sarò di ritorno da Roma, promesso.
Ma ora vado di fretta. Devo riavere la mia scarpa. E la riavrò,
costi quel che costi, che questa sottospecie di cane lo voglia
oppure no.
«Cosa c’è, testa di cazzo? Fai lo gnorri?»
Lentamente dirigo la mano verso le sue fauci.
Immagino di infilare le mie dita tra le cosce di una ragazza. Sì,
questa tecnica funzionerà, ne sono certo. Anni e anni di petting
saranno pure serviti a qualcosa, del resto. Alcuni successi e
svariati due di picche alle spalle, ma adesso posso dire di
possedere le abilità necessarie per incunearmi nella merdosa
bocca di un chihuahua e sottrargli la scarpa senza che questi
opponga la benché minima resistenza.
«Non fare il cattivone con me, dai!»
Chiudo gli occhi e immagino di muovere la mia mano
sotto il vestito di una giovane fanciulla, fino ad avventurarsi in
direzione di quella che, in adolescenza, si era soliti definire la
“quintessenza della caverna oscura”, un posto per alcuni
totalmente ignoto ai tempi, ma che con gli anni sarebbe
diventato per tutti (o quasi) la principale ragione di vita.
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Un lieve movimento e finalmente riesco ad afferrare la
scarpa. Immagino i miei polpastrelli sul solco umidiccio della
ragazza, i primi gemiti che fuoriescono dalla sua bocca. È fatta.
Ce l’ho, è mia. La scarpa è di nuovo tra le mie mani. Persuaso
dall’obiettivo, commetto però un errore fatale. Senza badare
più a sottigliezze, provo a tirar via la scarpa, ma lo faccio con
troppa sfrontatezza. Come un pivello dal sangue troppo caldo,
è l’impazienza a fottermi.
Il cane sbarra di colpo gli occhi, penetrandomi col suo
sguardo al vetriolo. Dai nostri sguardi, gli uni aderenti agli altri
come dei collant sulle gambe sfatte di una vecchia matrona,
percepisco l’atrocità del duello che di qui a poco si andrà a
consumare. Ormai privo di ogni accorgimento, tento allora uno
strattone più deciso, ma il cane è già nel vivo della bagarre. E
ringhia, sempre più forte.
«Shhh!», bisbiglio. «Non ti ci vorrai mettere pure tu
stamattina.»
L'animale non mollerà tanto facilmente la presa. Lo
deduco dal suo insistente e snervante latrato.
«Vicious!», urla nel frattempo Eudora, dalla sua
camera. «Cosa c’è? Perché ti lamenti tanto?»
«Sta’ zitto, cazzo!», lo rimprovero a denti stretti.
«Vicious, che hai?», insiste lei. Oltre la parete della sua
camera da letto, le gambe di una sedia grattano sul pavimento.
Uno di seguito all’altro, avverto poi i passi della stronza
procedere inesorabili verso la porta.
«Lurido cane schifoso!»
35
Un ultimo, brusco strappo e la Converse è fuori dalla
cuccia. Ma con essa, anche la bestia, avvinghiata alla tomaia
coi suoi denti aguzzi.
«Molla l’osso, brutto sacco di pulci!»
Il duello è giunto al suo apice. Io e Vicious ci sfidiamo
in un scontro all’ultimo strattone. Un match che mi auguro di
vincere prima che Eudora esca dalla sua stanza. Questa
insignificante creatura, però, sembra possedere nelle sue
ganasce un punto di forza non previsto.
«Dammi la scarpa!», esclamo, con un volume di voce
decisamente più alto. «È mia, lo capisci?»
La sfida procede in assoluto equilibrio. Il cane, pur
penzoloni, non mostra alcun segno di cedimento. Tento
qualche scossone più deciso, dei cambi di direzione improvvisi,
ma niente, non c’è nulla da fare: la situazione rimane invariata.
Aperta la porta della camera, alla vista di una scena
tanto bizzarra, Eudora mostra un certo, giustificato stupore.
«O madre santissima!»
Caso vuole che proprio in quel preciso istante il cane
molli la presa, finendo violentemente addosso alla parete con in
bocca ancora un brandello della mia scarpa. È sempre nel
medesimo, inglorioso istante che, proveniente dalla cucina,
sento uno scoppio, forte e inatteso.
La caffettiera sul fuoco, Cristo!
«Che cazzo sta succedendo?», domanda Eudora.
«Come si fa ad avere un cane così stronzo?», le urlo,
eludendo abilmente la sua domanda.
Con fare materno, la ragazza si china per prendere in
braccio il chihuahua e stringerlo a sé come un pargolo
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impaurito. Che scena patetica! Se solo poteste vedere Eudora
adesso, mentre si adopera con le sue dita lunghe e affusolate in
delle elastiche carezze. Su e giù lungo la schiena della bestiola.
Sfiora il pelo del cane come lo volesse salvare da un
assideramento ormai quasi certo.
«Cos’era quel botto?», domanda, evidentemente scossa.
«Boh!», esclamo, preparando la menzogna. «Saranno
stati i vicini.»
Infilo la scarpa che ho recuperato, poi vado nella mia
stanza per prendere le chiavi di casa e gli occhiali da sole. Ok,
siamo a dicembre e del sole non c’è praticamente traccia. Senza
occhiali, però, non potrei mai uscire di qui. Sapete com’è, viste
le mie condizioni, preferirei passare inosservato. Anzi, vi dirò
di più, me ne rimarrei volentieri rinchiuso nella mia camera da
letto a fare la muffa, se non fosse che questo lavoro mi serve e
neanche poco.
Afferro dunque la giacca dall’appendiabiti, non prima
però di aver ricevuto i saluti di Eudora, come sempre
educatissimi. «Sei una grandissima testa di cazzo!»
«Mi lusinghi.»
Tra coinquilini è normale che si litighi, ma quando
Eudora vedrà il macello che ho combinato in cucina, ne sono
certo, stavolta ci scapperà il morto. E qualcosa mi suggerisce
che a crepare sarò proprio io. Meglio quindi che scompaia il
prima possibile, aggredendo il pianerottolo con lo stesso piglio
di un rapace predatore, pronto a ghermire ogni malcapitata
preda abbia la sciagura di intralciare la mia precipitosa, quanto
rara discesa in strada.
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Capitolo V
Sarà passata appena mezz’ora da quando sono partito e già mi
sento a pezzi. La colpa è anche di quest’odioso ragazzino che
ho di fronte. È insopportabile, non sputa un attimo. Chiacchiera
come non ci fosse un domani. Provo a ignorarlo
nascondendomi dietro gli occhiali da sole, ringraziando
piuttosto la buona sorte per essere arrivato puntuale alla
stazione Fontivegge. Non che un mio ritardo avrebbe
rappresentato chissà quale evento assurdo. La puntualità non è
mai stato il mio forte. Chiedete a chi, in tutti questi anni, ha
atteso per ore il mio arrivo di fronte a un cinema, a un teatro o
a un bar, sotto il sole cocente o in balia di un acquazzone
apocalittico. Chissà quanti accidenti mi avranno mandato.
Chissà in quanti, nell’attesa che li raggiungessi, hanno sperato
che il mio ritardo potesse esser dipeso da una disgrazia, che ne
so, un incidente che mi avrebbe impedito l’uso di entrambe le
gambe vita natural durante.
Stavolta, però, ce l’ho fatta: sono arrivato alla stazione
pochi minuti prima della partenza del treno. Una volta
ringraziato il Signore (o chiunque fosse quell’impiegato delle
Ferrovie dello Stato in servizio presso la biglietteria), sono poi
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schizzato attraverso il sottopassaggio per raggiungere il binario
indicato su uno dei tanti monitor appesi alle pareti. Preso dalla
foga, durante il percorso ho urtato, in sequenza, un giovane
ramingo con uno zaino da cento litri sulle spalle, un piccolo e
tozzo macchinista ferroviario e, per concludere, un’esile
suorina appartenente forse all’ordine domenicano. «Zotta la
suora!», ho esclamato, ricevendo in cambio gli aspri rimbrotti
della timorata. Attraverso l’altoparlante, ho poi sentito una
voce che annunciava l’ormai imminente partenza del treno.
Scalpitante come un puledro imbizzarrito, era lì ad
attendermi, maestoso ed eccitato, pronto a dispensar scintille
lungo le rotaie ardenti e parallele. «Fermati!», ho gridato,
direzionando l’urlo verso un punto indistinto nello sconfinato
universo circostante. Agli occhi dei più potevo forse essere
affetto dallo stesso dissesto psichico di uno squilibrato mentale.
“Be’, ‘sti cazzi!”, ho pensato. E sebbene ormai allo strenuo
delle forze (fisiche e, per l’appunto, psichiche), mi sono infine
prodigato in un ultimo colpo di reni, pur di salire sul treno,
proprio un attimo prima che la porta scorrevole si chiudesse,
cigolante, dietro le mie spalle.
E adesso eccomi qui, ancora sudato e paonazzo in viso,
stravaccato senza alcun ritegno dinanzi a una donna e al suo
petulante figlioletto, ad elemosinare soltanto un briciolo di
riposo. Me lo merito, cazzo! Un quarto d’ora di silenzio, non
penso di pretendere tanto. Quindici miseri minuti e sarò
nuovamente pronto a riempirvi gli occhi e la mente delle mie
strambe gesta quotidiane. Come potreste, del resto, non
concedere un po’ di relax a un povero cristo catapultato di
colpo nel turbolento inferno cittadino? Chiedetelo a
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quest’impertinente giovinastro che ho di fronte. Domandategli
anche perché continua a scartavetrarmi i coglioni con le sue
storie senza senso.
«Io una volta ero un dinosauro», confessa il piccolo.
«Poi un giorno avevo sete e ho bevuto l’acqua del mare e poi
mi sono reincarnato in un pesce. Poi un giorno, mentre nuotavo
felice, mi hanno pescato. Poi mi hanno portato al mercato del
pesce e una signora mi ha comprato. Poi, quando è arrivata a
casa, mi ha mangiato e poi mi sono reincarnato nella signora.
Poi un giorno…»
Sfido chiunque a non detestarlo. Dietro i miei occhiali
da sole, osservo quel suo corpicino minuto, affogato dentro un
paio di pantaloni di velluto scuro, una camicia bianca e un gilè
bluastro di cashmere. Guardo quegli occhiali da vista che gli
scivolano sul naso, le lenti tonde e la montatura rossa, del
medesimo colore del papillon che tiene legato al collo e che,
Dio mio, vorrei stringere con tutta la forza che ho in corpo.
Odio quel ragazzino. Con quei cazzo di capelli, proiettati
all’indietro alla ricerca, sembrerebbe, di una perfetta forma
aerodinamica. Se non se la smette di rompermi i coglioni, giuro
che lo uccido. Qui, davanti a tutti.
«Leopoldo!», lo interrompe prodigiosamente la madre.
«Smettila di importunare il signore.»
Come mi ha chiamato? Signore? Ho sentito bene?
Nessuno, prima d’ora, si è rivolto a me in una maniera
altrettanto bizzarra. Mai, se si esclude forse qualche rara
occasione in cui la formalità era da considerarsi un rigido
codice comunicativo per tutti gli astanti. Non sono abituato ad
associare il mio nome a questo epiteto: “signore”, un
40
appellativo che in fondo non mi rappresenta. Il mio ciclo di
maturazione s'è infatti come paralizzato nel mezzo di un
deserto del nada, un piatto giallo che il buon vecchio
Hemingway avrebbe preso come esempio per definire quella
perdita di speranza che attanaglia molti uomini, quella totale
inabilità a diventare attivi nel mondo reale. E in effetti, già da
tempo, ho smesso di lottare per accaparrarmi spazi vitali che,
invece, mi spetterebbero di diritto. Sono come ibernato in
questo contesto spazio-temporale, incapace di far ritorno in
quello che, con un pizzico di egocentrismo cosmico, mi sono
permesso di rinominare “mondo di fuori”. È come se
l’immaginario e fantastico universo della mia mente
rappresentasse l’unica dimensione reale. E come fosse un
appiglio, ci rimango aggrappato, pur di non venire risucchiato
dalla vita.
«Non si preoccupi!», esclamo, rivolgendomi alla donna.
«Suo figlio non mi sta dando alcun fastidio.»
Questa bugia ha più o meno la stessa vastità dell’intero
stato cinese, ma lei non pare assolutamente accorgersene,
considerato il sorriso smagliante che vuol mostrarmi, al pari dei
gioielli che porta indosso e che impreziosiscono la sua pelle,
raffinata e pulita, assolutamente degna dell’affascinante donna
qual è. Elegante e faceta alla vista, quanto un diamante dello
Zaire. Nobile e superba, quanto una magnolia. Il suo corpo è
vivo, eccitante, sprizza charme da tutti i pori. Le mie parvenze,
al contrario delle sue, possono invece ricordare quelle di un
profugo appena sbarcato sulla terraferma. (Con tutto il rispetto
per i profughi, s’intende.) È sufficiente infatti sottoporre a
verifica le mie sciatte vesti per sentirmi fuori luogo. Sarei
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disposto a sparire, se questa donna lo ritenesse opportuno.
Potrei gettarmi dal finestrino del treno ancora in corsa, se
soltanto lei lo desiderasse.
Ma guardatemi! Osservate attentamente il mio
abbigliamento, la maglia chiazzata in prossimità delle ascelle, i
calzoni strappati sulla coscia e morsicati su entrambi gli orli, le
scarpe logore, così puzzolenti da sembrare un contenitore di
uova andate a male. Non ricordo l’ultima volta che ho lavato
questi abiti. Ma non è solamente questa la causa del mio
imbarazzo. Se aveste l’opportunità di vedermi, se guardaste
attentamente nei miei occhi, forse capireste il problema alla
base di tutto: sto male, ma male veramente.
La differenza tra me e il resto della gente è lampante.
Prendiamo questa donna e suo figlio, ad esempio. Nelle più
probabili delle ipotesi, ieri sera si saranno entrambi coricati non
più tardi delle dieci, dieci e trenta, per poi risvegliarsi stamane
al carezzevole suono di una sveglia con disegnato sopra
Winnie The Pooh o qualche altro dannato personaggio dei
cartoni animati. Fatta dunque una nutriente colazione, si
saranno infine preparati per il viaggio con la stessa ansiosa
eccitazione di chi si trova in procinto di intraprendere una
piacevole scampagnata parrocchiale.
E io? Io invece? Era ormai quasi l’alba quando mi sono
addormentato. Ubriaco e strafatto, non ho neppure avuto la
forza di fare una tappa in bagno e dedicare almeno un paio di
minuti a una sommaria pulizia dei denti. Il sapore dell’alcol è
invece rimasto con me fino al risveglio. La mattinata è
cominciata poi nei modi che vi ho narrato in precedenza.
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Le differenze tra me e gli altri sono evidenti. Non sto di
certo qui a dire chi sia il migliore o il peggiore. (La risposta mi
pare alquanto ovvia.) Quello che vorrei invece sottolineare è la
mia totale inadeguatezza. Non sto esagerando. Mi sembra di
non avere niente a che fare con il resto dell’umanità, di non
avere nulla in comune con nessuno dei miliardi di individui che
popolano questo pianeta. È come se io e gli altri fossimo delle
entità diametralmente opposte, come il Nord e il Sud, il giorno
e la notte, il caldo e il freddo, il bianco e il nero e via
discorrendo.
Mi trovo sul vagone di un malinconico interregionale di
fronte a due perfetti sconosciuti, ma con la mente sono altrove.
Ho appena schiacciato un pulsante e ora mi ritrovo a sorvolare
le Alpi. Posso riprovare le stesse emozioni del mio primo
decollo, quel senso di vuoto che penetra nello stomaco, il
sangue che s’iberna nelle vene, quell’aria di rassegnazione
leggibile attraverso gli occhi, arresi di fronte alla casualità del
destino: siamo vittime o sopravvissuti, savi o pazzi?
Sono seduto sul vagone di un malinconico
interregionale, di fronte a due perfetti sconosciuti, ma sogno di
essere altrove, di essere lontano anni luce dagli ignari spettri
che popolano il mondo, fantasmi di loro stessi, legati l’un
l’altro da un sogno comune, da una visione ottimistica del
proprio futuro, un futuro che almeno io potrei solamente vivere
attraverso una qualche allucinazione.
Cazzo, se sto svalvolando!
Stavolta devo aver proprio esagerato con l’erba.
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«Le potrei chiedere un favore?», domanda tutt’a un
tratto la donna, con quella grazia che contraddistingue tutte le
donne del suo ceto.
«Mi dica.»
«Le scoccia se le lascio per qualche minuto mio figlio?
Giusto il tempo di rinfrescarmi in bagno.»
Rinfrescarsi? È così che le donne perbene definiscono
l’impudente atto di far pipì?
«Si figuri!», le rispondo, cortese come forse un paio di
volte negli ultimi due o tre anni mi è capitato di essere.
Alzandosi dal sedile, mi dedica ancora uno sguardo, con quel
suo sorriso posticcio, più e più volte riciclato in vita,
probabilmente per far colpo sulla gente, in particolare sugli
uomini.
«E tu, Leopoldo, vedi di non fare il maleducato con il
signore.»
Inizio quasi a prenderci gusto. “Signore”: mi sentissi
un’altra volta chiamare in questo modo e difficilmente potrei
più farne a meno. Adesso comprendo la soddisfazione di quegli
stronzi patentati che tengono ancora a certe convenzioni. Mi
godrei questa strana sensazione che ho in corpo, se quel
diavolo di un Leopoldo, con voce sciocca e sincera, non
riprendesse incautamente la sua solfa, rovinando tutto il mio
progetto di assoluta beatitudine.
«Sai perché gli uccelli volano?»
«Perché hanno le ali?», ipotizzo io, forse con eccessivo
pragmatismo.
«No. Perché ogni mattina li sparo con la mia fionda
fuori dalla finestra.»
44
La sua innocenza lo fa apparire più umano. Ma al di là
di questo, il mio odio per lui è destinato a non diminuire
neppure di un milligrammo.
«E sai perché c’è il buco dell’ozono?», domanda
ancora, dopo un silenzio inebriante, ma, ahimè, fin troppo
breve.
«No. Dimmelo tu.»
«Perché l’ho fatto io coi miei occhi laser.»
Benché la fantasia del fanciullo rappresenti, lo
ammetto, un curioso universo a sé stante, una nottata come
quella appena trascorsa non costituisce una base solida su cui
costruire una conversazione di qualunque tipo. Tantomeno di
questo tipo.
«E sai perché esistono gli uragani?» Non replico
neppure più, scoraggiato dall’inarrestabile vivacità mentale di
questo piccolo moccioso. «Perché, quando mi arrabbio, sbuffo
molto, molto forte.» Oramai la sua bocca è un mitragliatrice di
pensieri, sparati a raffica contro le mie orecchie martoriate. Ma
ora basta, non ne posso più. Se parla ancora, lo uccido. «E sai
perché…»
«Sai perché adesso te la pianterai con questo giochino
del cazzo?», tuono improvvisamente io, estraendo il cellulare
da dentro i calzoni e puntandoglielo sotto il piccolo naso a
patata come fosse una pistola. «Perché, se non te la smetti, sarò
costretto a farti saltare in aria le cervella. Saresti contento di
sapere che, della tua bella testolina, rimarrebbero soltanto tanti
schifosissimi pezzettini di materia grigia, appiccicati su un
sudicio finestrino del treno?»
45
Leopoldo deglutisce, prima di ammutolirsi del tutto. I
miei bulbi oculari, letali come il veleno di un serpente corallo,
devono avergli immobilizzato la lingua, spero in maniera
definitiva. Meglio così. Non m’importunerà più per il resto del
viaggio. Ora posso far cadere la mia nuca sul poggiatesta e
attendere che la donna torni nuovamente a vegliare su suo
figlio.
«Allora?», esordisce lei, finalmente tra noi. «Come si è
comportato il mio ometto?»
«Benissimo!», rispondo, sorridendo al piccolo
Leopoldo che nel frattempo è caduto in uno stato di trance
pietrificante. «Questo bambino è un angelo.»
Sebbene per un attimo la donna sembri cauterizzata
dalle mie rassicurazioni, voltandosi verso il bamboccio, di
colpo si allerta. Suo figlio Leopoldo sembra atrofizzato. È
pallido, non muove neppure più le labbra. Evento, questo,
assolutamente eccezionale. Un evento che però non troverà
altro spazio all’interno della narrazione.
Finalmente mi accingo a ricevere il riposo tanto
desiderato. Eremita coi miei pensieri, rimango ad ammirare,
attraverso il finestrino, l’alternarsi di paesaggi agresti e grigi
capannoni industriali. Tutto il resto sembra ormai solamente un
puntino lontano sullo specchietto retrovisore della mia mente.
Niente più cani ringhianti né ragazzini impertinenti, niente più
coinquiline nevrotiche o corse a perdifiato contro il tempo.
Calma. Solo quella. Quel pizzico di serenità utile a farmi
ricaricare le batterie prima dell’arrivo a Roma. Silenzio.
Quanto di più benefico per un individuo ormai sull’orlo di una
crisi di nervi.
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Capitolo VI
Il viaggio mi ha ridotto uno straccio. Prova ne sono gli sguardi
indiscreti che il popolo della Tiburtina ha deciso di puntarmi
addosso. Ai loro occhi sono una preda indifesa. Forse il
personaggio di un reality, un buffone pronto a mettersi in
ridicolo pur di ottenere qualche frammento di notorietà. Mi
sento come se mi avessero appena scaraventato in un’arena.
Attorno a me vedo spalti gremiti di buzzurri ubriachi che
incitano al combattimento, tutti in piretica attesa di vedermi
compiere una mossa sbagliata, un errore fatale che possa
innescare la furia del mio avversario. Ciascuno dei presenti
sembra provare un morboso eccitamento nei miei confronti, è
sospinto dall’irrefrenabile curiosità di registrare ogni mia
singola azione, di intuire quali siano le mie prossime mosse, i
miei pensieri più reconditi un attimo prima di incassare il
colpo.
Sarà per come è cominciata la giornata, ma non mi
sento dell’umore adatto per tollerare che un mucchio di
depravati mi squadri dalla testa ai piedi, manco fossi una lastra
nelle mani di un radiografo. Che cazzo avranno questi qua da
guardare? Non hanno mai visto un barbone folleggiare sotto i
47
portici della stazione? Stolti perbenisti dei miei coglioni!
Eppure siamo a Roma, mica in una qualche provincia del
cazzo. Bah! Meglio far finta di niente, infilare le mani in tasca
e poggiarsi al muro, conservando le energie in vista dei
momenti a venire. Almeno finché il sole rimarrà nascosto
dietro questo telo bigio e compatto, finché il vento, fresco e
silenzioso, non smetterà di spirare sopra queste strade.
In mezzo a un casino del genere, non sarà facile
riconoscere il mio uomo. Meglio se lo chiamo.
Tiro fuori il cellulare e premo la combinazione di tasti
necessaria per inoltrare la telefonata al destinatario.
Facile la vita delle macchine, destinate a eseguire
ripetutamente le stesse istruzioni sintattiche, a comunicare
attraverso quel linguaggio formalizzato, così privo di slanci e
di significati, asettico come la voce preregistrata di donna che
fuoriesce dal ricevitore: «Attenzione! Il numero da lei
selezionato è inesistente.»
Cazzo! Il numero che mi ha dato Franz non è giusto. O
forse sono stato io a memorizzarlo male. Non è da escluderlo.
Fanculo! E ora che m’invento? Meglio rimanere qui e aspettare
che sia il tizio a farsi vivo.
Il tizio in questione risponde al nome di Samuel
Sogliano. Costui altri non è che il mio nuovo tutor aziendale
(se così si può definire), una specie di supervisor che avrà il
compito di insegnarmi le tecniche di base per una corretta
gestione del recupero crediti. È stato Franz a fornirmi il
contatto. C’è da starsene tranquilli, a sentire quel figlio di
puttana. Da come dice lui, avrò a che fare con gente affidabile,
professionale, puntuale nei pagamenti. L’azienda, tra l’altro, è
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registrata in Svizzera. E gli Svizzeri, si sa, son persone serie.
Ok, non mi faranno un contratto regolare, ma cosa importa? Sì,
insomma, non sarà questo il lavoro della mia vita. Essere
pagato in nero andrà più che bene. Del resto, cosa me ne faccio
di un contratto se non ho neppure la certezza di un domani?
No, vi prego, non cercate di infinocchiarmi coi soliti discorsi
del cazzo, non ci riuscireste. Non m’interessa il futuro. Non
esiste il futuro. Quindi datemi i soldi che è meglio. Pochi,
maledetti e subito. Non voglio altro. A parte muovermi
immediatamente da qui.
Comincio a volteggiare su me stesso come una trottola
impazzita, in attesa di individuare tra la folla un volto maschile
riconducibile a Sogliano. In strada scorgo parecchi taxi e la via
è quasi interamente assediata da una calca di extracomunitari al
riparo dal vento. Uomini di colore espongono su dei teli
sculture in legno, occhiali, borse, portafogli, cd e dvd tarocchi.
Un orientale, forse cinese, sta mostrando a un bambino, tenuto
per mano da suo padre, il funzionamento di un peloso
cagnolino a pile. Ognuno di questi individui è lì, pronto a
piazzare la sua robaccia a qualche allocco di passaggio. Tra
tutti i venditori, però, ce n’è uno che mi incuriosisce più degli
altri. Non so il perché. È un africano, sulla quarantina, alto
all’incirca un metro e ottantacinque, robusto, dalle spalle larghe
e possenti. È un uomo umile, degradato, costretto a raccogliere
in fretta e furia tutta la mercanzia non appena la sirena di una
volante gli suggerisce di alzare i tacchi e volatilizzarsi nel più
breve lasso di tempo possibile. È forse in quei momenti che
rimpiange la sua vecchia vita, alienato com’è nella nostra
società perversa e disgregata, sempre a sperare che i pochi
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guadagni della giornata bastino a comprare il cibo necessario
per sfamare la sua famiglia. È sfortunato a non avere un lavoro
stabile e legale, ma è ancora più sfortunato perché è nero, anzi
negro, come più volte si sarà sentito chiamare. Deve infatti
combattere quotidianamente non soltanto contro la fame, la
sete e le forze dell’ordine agguerrite. Deve fare a pugni anche
contro i pregiudizi razziali, contro l’odio, la segregazione, le
incomprensioni, contro chi lo accusa di puzzare, di far parte di
una stirpe meno evoluta, di una razza inferiore.
Mi avvicino a lui, senza un valido motivo. Sì, insomma,
vi ho fatto tutta ‘sta filippica, ma in fondo non è che me ne
freghi qualcosa. Né di lui né della sua storia.
«Amigo!», esordisce, con una pronuncia ciancicata.
«Vuoi comprare?»
«No», rispondo, accennando un tiepido sorriso. «Do
solo un’occhiata».
Sopra una vecchia coperta mimetica, l’uomo tiene
esposti, custoditi in degli involucri di plastica, cd musicali
masterizzati, roba per lo più pop e latino-americana. Una vera
merda, insomma.
In attesa che mi convinca ad acquistare qualcosa, il tizio
infila le mani in tasca, forse per salvaguardarle dal vento che ha
fastidiosamente ripreso a soffiare. Chissà se è stufo della
propria vita almeno quanto lo sono io della mia. In fondo,
dev’essere davvero dura campare nelle sue condizioni: ogni
fottutissimo giorno con addosso la paura che gli sbirri ti
becchino, ogni fottutissima notte con l’angoscia che i tuoi figli
riescano ad addormentarsi, malgrado i crampi allo stomaco non
glielo permettano.
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Accovacciato dinanzi alla sua mercanzia, fingo
interesse per quei cd, più che certo che, per quanto possa
rovistare in mezzo a quella robaccia, mai riuscirò a scovare il
nome di un artista o di una band meritevoli di essere barattati
con un foglio da cinque euro. Torno allora a fissare gli occhi
dell’uomo. Si muovono in maniera spasmodica, un po’ vigili e
un po’ malinconici. Vorrei domandargli se se l’aspettava
davvero così, la vita. A me l’avevano descritta in maniera del
tutto differente. Dicevano somigliasse a una tranquilla
passeggiata in un frutteto profumato, non di certo a una corsa a
piedi nudi sui carboni ardenti. Dicevano anche che ci sarebbe
stato il sole, al mattino, appena sveglio, la luna piena prima di
addormentarmi. Ma era tutta una montatura, una fiaba
raccontatami perché potessi fare dei sonni tranquilli, perché i
miei incubi non turbassero i sogni di qualcun altro.
Non è così, purtroppo. La verità è diversa. La verità è
che, il più delle volte, al mattino, sento ancora in bocca il
sapore disgustoso della stessa merda ingoiata la sera prima. La
verità è che mi sto devastando anima e corpo. Ogni giorno che
passa è come se perdessi sei mesi della mia esistenza.
Strana invenzione, la vita. Qualcuno ti fionda
sull’avanscena senza nemmeno dirti a cosa andrai incontro. Poi
ti capita di commettere un errore, anche banale, e a pagare le
conseguenze non sei soltanto tu, ovviamente. E no! Sarebbe
troppo bello. Ad andarci di mezzo c’è anche chi ti è più vicino.
E finisci per allontanare tutti e finisce che tutti si allontanino da
te. E rimani da solo. E succede che impazzisci. Tu, solo contro
tutti. Tu, davanti a una platea inferocita che pretende le venga
restituito per intero il prezzo del biglietto.
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«Sei stato un fiasco, amico!», sembrano urlarti dagli
spalti. «Tornatene da dove sei venuto!»
Bella fregatura, la vita. Sarete d’accordo con me.
Investiamo tutti i nostri sforzi su di lei, ma le sole cose che ci
vengono restituite sono rimorsi, rimpianti e rancori. E tutto ciò
che di bello ci è capitato? Già, dove vanno a finire le emozioni
liete, le gioie e i sorrisi più belli? Sepolti dalle macerie del
tempo, ecco qual è la loro encomiabile fine.
Torno a osservare l’uomo. Il suo sguardo è sospeso
nell’aria come un filo invisibile fatto di mille inquietudini. Nei
suoi occhi però arde un fuoco. Quel fuoco è costituito
dall’amore per una donna, per i suoi figli o per entrambi. Un
fuoco che brucia di continuo, che lo scalda. Il fottuto scopo che
giustifica i mezzi, il principio machiavellico capace di tenere
un uomo in vita nonostante tutto, che lo spinge a superare le
difficoltà di ogni giorno, trovando la forza anche quando la
disperazione appare insopportabile. L’avessi anch’io uno
scopo, adesso probabilmente non starei qui a tormentarmi con
certe malsane considerazioni. Ce l’avessi anch’io un cazzo di
scopo, adesso me ne starei comodo sul divano, magari, a
godermi un po’ di relax davanti a un grosso televisore al
plasma, risucchiato nel subdolo palinsesto dei più inutili canali
pay-per-view presenti sul satellite.
E invece no, sono qui a cagarmi sotto dal freddo, in
attesa che uno sconosciuto si faccia vivo per traghettarmi verso
questo nuovo e misterioso incarico. Il mio Caronte. Chissà se
riuscirò a riconoscerlo in mezzo a questo marasma di gente.
Sempre che non sia prima lui a riconoscere me.
«Ehi!»
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Voltandomi di scatto in direzione di quell’urlo, tolgo gli
occhiali da sole per osservare meglio lo strano individuo che
procede verso di me. È un tizio sulla quarantina, con un
cappello da cowboy in testa. Si avvicina con ampie falcate,
pronto ad accogliermi tra le sue lunghe braccia, spiegate come
le ali di un’aquila in volo. Ha degli abiti appariscenti. Sotto una
giacca di pelle bianca, porta una camicia tartan rosa e blu,
sbottonata apposta per mettere in mostra il petto glabro e
rosolato, sul quale penzola un ciondolo d’oro legato a un
cordino in caucciù. Indossa anche dei jeans chiari, con una
cinta in cuoio marrone e, ai piedi, degli stivali pitonati a punta.
Dalla bocca gli penzola una sigaretta divenuta ormai cenere.
«Samuel?», domando, non del tutto certo si tratti della
persona che sto aspettando.
«E tu sei Lou», ribatte lui, stringendomi in un
abbraccio eccessivamente caloroso. «Lou Brown, il nuovo
apprendista.»
«In carne e ossa», rispondo, sacrificando forse l’ultimo
alito di voce che mi rimane in corpo.
53
Capitolo VII
«Hai visto che t’ho riconosciuto subito?», fa Samuel,
rischiando di ciccarmi in testa mentre con le braccia mi stritola
il collo.
«Già», mi pare di rispondere, sebbene non mi stia
arrivando abbastanza sangue al cervello per capirci qualcosa.
Samuel forse intuisce che sta esagerando e mi libera
dalla presa permettendomi così di tornare a respirare. Poi
domanda: «Be’, t’ho fatto aspettare parecchio?»
«No, macché! Sono arrivato giusto qualche minuto fa.»
Sembra appagato dalla mia risposta. Dopo aver
osservato il venditore ambulante, però, vuol togliersi un’altra
curiosità. «E che hai fatto nel frattempo?» Quindi, sempre
tenendo l’uomo sotto controllo: «Un po’ di beneficenza a ‘sto
bingo bongo del cazzo?»
Gli si fa avanti, spavaldo e attaccabrighe come un ras di
quartiere, senza staccargli gli occhi di dosso neppure per un
istante. Poi, lentamente, si piega per prendere il primo cd che
gli capita tra le mani. Solo per un istante distrae lo sguardo
sulla copertina.
54
«Cos’è ‘sta merda?», domanda. In volto gli riconosco la
stessa espressione disgustata di un bambino di fronte a un
piatto di verdure. In effetti, il cd che tiene in mano non è
proprio quello che si definisce un capolavoro. Sì, insomma,
stiamo parlando de La Bomba degli Azul Azul, che cazzo!
«Possibile che lì a Bananolandia non sia ancora arrivata
un po’ di musica decente?»
Una frase del genere farebbe di certo infuriare qualsiasi
essere umano dotato di un minimo d’orgoglio personale, ma
non lui. Lui non accenna la benché minima reazione. Ostenta
anzi un atteggiamento di assoluta indifferenza. Probabilmente,
in vita sua, gli è capitato di affrontarne troppa di gente come
Samuel. Offese del genere non lo scalfiscono più di tanto,
oramai.
«Dai, lascialo perdere!», intervengo io tanto per essere
sicuri che la situazione non degeneri.
«E dai!», esclama Samuel, girandosi verso di me. Sul
viso tiene un sorriso storto, perverso, falsissimo come la merce
venduta dall’africano. «Ci stiamo solo facendo quattro risate.
Mica sono un cazzo di razzista io. Anzi, ti dirò che a me i negri
stanno pure simpatici. Bisogna avere rispetto per certa gente.
Tutto il giorno a correre sotto il sole per scappare dai leoni. Oh,
non è mica facile portare le chiappe in salvo in situazioni come
quelle. Vorrei vedere te al loro posto.» Il suo discorso mi lascia
a bocca aperta. Inizialmente pensavo stesse scherzando, ma ad
ogni parola che aggiunge mi convinco sempre più della sua
serietà. «È ovvio che, una volta arrivati qui, s’accontentino di
lavare i vetri delle macchine o di vendere gli accendini ai
semafori. È normale. Farebbero di tutto per non tornarsene in
55
Africa. Qui hanno trovato la bambagia. L’Italia è il loro
paradiso terrestre. Lo capisci, sì?» Di nuovo vedo Samuel
tornare ad affrontare faccia a faccia il venditore. «Comunque,
per dimostrare quanto in realtà io stimi certa gente, sai che
faccio adesso?» Infilata la mano in tasca, fruga al suo interno
fino a estrarre una monetina. «Gli regalo un euro.» Tenendo la
moneta sul palmo della mano, la avvicina all’uomo per
offrirgliela. «Tie’! Compratici un pacchetto di noccioline.»
L’uomo rimane immobile, mento alto e petto in fuori,
fiero e imponente come il Colosso di Rodi. È imperturbabile.
Chissà se è davvero così indifferente alle provocazioni di
Samuel come vuole dare a vedere, oppure, fiutato il
trabocchetto verso il quale il mio novello tutor tenta invano di
attirarlo, preferisce implodere la propria rabbia come un
recipiente saturo di merda.
«Non lo vuoi?», incalza Samuel, senza tuttavia ottenere
alcuna risposta. «Meglio così», fa lui, sollevando le spalle.
«Vorrà dire che se lo prenderà qualcun altro. Magari qualcuno
che non morirà di AIDS entro la fine del mese.»
Rinfilato in saccoccia l’euro, lancia la sigaretta a terra,
poi si volta, prendendo a muoversi nella direzione opposta da
dove è venuto. Lo seguo. Sembro un pulcino dietro il culo della
propria chioccia. Mi affretto per non perdere la scia disegnata
dalle sue ampie e pesanti falcate. Cammina in modo arrogante.
È borioso, così pieno di sé. Sembra che la sua andatura sia stata
studiata a tavolino, come se ogni impercettibile movimento del
suo corpo sia stato provato dieci, cento, mille volte al giorno
davanti a uno specchio, fino a diventare un perfetto swocker
texano.
56
«Non ti vanno granché a genio quelli con la pelle nera,
eh?», gli faccio dopo averlo raggiunto grazie a qualche passo
più spedito.
«La pelle di quello lì non è mica nera», spiega lui. «Il
carbone è nero, il petrolio è nero, il costume di Batman è nero.
La pelle di quel tizio è marrone. Ma neanche marrone. È...» Ci
riflette su per un attimo. «Negra!» Non posso crederci. Non
posso avere a che fare con un mostro del genere. Ma da dove
cazzo è uscito fuori questo qui? «Ad ogni modo», prosegue,
«hai fatto buon viaggio?»
«Ce ne sono stati di migliori», confesso.
«Oh, mai uno che mi rispondesse: “Certo, Samuel! Il
viaggio è stato una vera pacchia.” Mai! E lo sai perché?» La
mia espressione da ebete vale come una risposta. «Perché è
tutta colpa del Paese di merda in cui viviamo!», esclama. «Non
passa giorno che non senta parlare di treni in ritardo o
soppressi senza alcun motivo, di viaggi di pochi chilometri che
si trasformano in vere e proprie odissee, di vagoni sudici,
affollati all’inverosimile, di personale indisponente e di
coincidenze che non coincidono tra loro. E continuano pure ad
alzare i prezzi del biglietto, ‘sti stronzi! Che gran figli di
puttana! Ci stanno proprio prendendo per il culo!»
Dove diavolo vorrà andare a parare? Boh! Meglio far
finta di niente e lasciare che finisca il suo delirio.
«I guadagni sono privati e i debiti sono pubblici. Questo
per loro significa privatizzare? Ma dai! Qui in Italia si fa tutto
alla cazzo di cane. O peggio ancora, non si fa niente. Non si fa
niente perché tutto rimanga com’è, è ovvio.»
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Ecco, lo sapevo, mi sono perso. Come ci siamo
impelagati in questo discorso? Per fortuna che anche lo stesso
Samuel non sembra particolarmente attento a quel che dice.
«Eccoci alla macchina», esclama, indicando la sua
vettura, una Hyunday Coupé grigio metallizzato. Sprezzante
delle norme stradali, la tiene posteggiata in una zona riservata
ai taxi.
«Dai, monta!», mi fa.
Seguo le sue istruzioni, senza fiatare. Avvicinandomi
allo sportello del passeggero, mi accorgo di alcune
ammaccature sulla carrozzeria. Lungo la fiancata destra, noto
anche dei graffi. Oddio! Più che dei graffi, sembrano delle vere
e proprie artigliate di una fiera. Da lontano, nel frattempo, vedo
un uomo venirci incontro. Ha un’andatura sgraziata e
vacillante. Pare stia inveendo proprio contro di noi. «Ehi!»,
sembra gridare.
«Mi sa che quel tizio ce l’ha con noi», ipotizzo ad alta
voce.
«Ma no!», rassicura Samuel, dopo essersi voltato a
controllare. «Ti sbagli.»
Vorrei tanto che le parole del mio tutor coincidessero
con la realtà, ma guardandomi attorno non posso far altro che
arrendermi all’evidenza: siamo noi le uniche due persone con
cui quell’uomo può avercela.
«Vorrei aver torto, Samuel», insisto, «eppure a me
sembra che quell’uomo si stia dirigendo proprio verso di noi.»
«Secondo me tu guardi troppi film americani.»
Forse Samuel ha ragione. In effetti, perché mai quello
sconosciuto dovrebbe avercela con noi? Un motivo pare in
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realtà esserci, vista l’irruenza con cui si presenta dinanzi a
Samuel. «Ecco de chi cazzo è la macchina!»
«Che c’è?», replica Samuel, dando un leggero colpo
alla cappotta dell’auto. «Ti interessa il bolide?»
«Tu mica ce poi sta’ qua. Lo sai, sì? ‘St’area è riservata
ai taxi.»
Il tizio, un tassista romano, ci rimprovera il fatto di aver
parcheggiato la macchina in uno spazio a noi non consentito.
Nel farlo, però, manovra un vecchio, enorme telefono cellulare
come fosse un machete, intimando di avvertire le forze
dell’ordine qualora non ci togliessimo subito di mezzo.
Samuel, mostratosi finora piuttosto tollerante, sentendo
proferire la parola “polizia”, perde completamente le staffe.
Improvvisamente scaglia un tremendo calcio di punta sui
gioielli di famiglia dell’uomo. Il tizio, dopo aver in pratica
sputato le palle fuori dalla bocca, va ko.
«Coglione!», esclama poi Samuel che, come se niente
fosse, si infila dentro la propria vettura. Io, invece, me ne
rimango fuori, pietrificato. Non credo ai miei occhi. Cioè, lo ha
fatto davvero? Non è che mi sono inventato tutto? Cercando
invano una risposta diversa da quella che in realtà è, ripercorro
con la mente tutte le principali tappe della giornata: il risveglio,
il viaggio in treno, l’accoglienza che questo pazzo mi ha
riservato. E un attimo dopo mi sale lo sconforto.
«Ma chi cazzo me l’ha fatto fare di alzarmi
stamattina?», borbotto a voce bassa, per evitare che Samuel, da
dentro l’auto, mi senta.
Già, Samuel. Non affiderei mai le mie sorti nelle mani
di un folle picchiatore, razzista e bellimbusto come lui. Eppure
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sono costretto a farlo. Ovvio, potrei anche rifiutarmi di salire su
quest’auto, ma ho bisogno di soldi. Ecco perché sono obbligato
a sottostare alle sue regole. Non ho alternative. Se non
rimpiangere di non essere nato in un’altra parte del mondo o
magari in un’altra epoca.
Apro lo sportello e mi siedo sul sedile del passeggero.
Uno sgradevole tanfo di nicotina impregna la tappezzeria. Nel
posacenere scopro un mucchio di mozziconi di sigaretta e filtri
artigianali. E bravo Samuel! A quarant’anni si fa ancora le
canne. Uno più raccomandabile di lui non poteva capitarmi.
Cristo santo!
Acceso il motore e innescata la retromarcia, il pazzo
lascia che l’auto schizzi all’indietro, schivando di un nonnulla
il povero tassista rimasto dolorante a terra. Inserita la prima,
forse per ottenere l’attenzione di quei pochi che, per
sbadataggine, non si sono ancora accorti di noi, con una
plateale sgommata lancia la propria Hyunday lontano dal
piazzale della stazione, per disperderla poi tra le congestionate
corsie di un ampio viale cittadino.
Qualcosa di brutto, posso scommetterci, sta per
capitarmi.
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Capitolo VIII
Imbottigliati nel traffico, Samuel ne approfitta per estrarre un
pacchetto morbido di Marlboro rosse da un taschino interno
della giacca. Ne sfila una e se la porta alla bocca, poi, con un
gesto cortese (a ben rifletterci, il primo che gli vedo compiere
da quando l’ho conosciuto), mi porge il pacchetto, mosso dalla
sincera quanto vana intenzione di offrirmene una.
«No, grazie», gli dico, inibendo per pochi istanti ogni
suo gesto o parola.
«Fai sul serio?», domanda, allibito. «Cioè, mi stai forse
dicendo che non fumi?» Tiene il pacchetto in mano, come se si
aspettasse qualche improvviso colpo di scena. Ma dal
sottoscritto riceve solo dei versi un po’ imbarazzati. Stizzito,
rinfila in tasca il pacchetto, poi ingrana la prima e riparte
spedito. «Cristo! Proprio un cazzo di salutista doveva
capitarmi.» Mentre lo dice, utilizza uno Zippo per ardere la
punta della sigaretta. Rimesso l’accendino a posto, torna a
stringere il volante con la mano destra, mentre con il gomito
sinistro rimane poggiato allo sportello.
Fuma Samuel, fuma come una ciminiera, ma perlomeno
ha il buonsenso di lasciare il finestrino abbassato per
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permettere a entrambi di barattare del fumo con un po’ d’aria
fresca o con qualsiasi altra cosa la città abbia da offrirci. Il
pazzo continua a esibirsi in rapide e intense boccate,
adoperandosi però a tener viva la conversazione, prima che tra
di noi scenda quel silenzio capace di mettere irrimediabilmente
fine a questa stramba messinscena.
«E dimmi un po’, ti fai di qualcosa?»
«Cosa?», faccio io, incredulo per la domanda che mi è
stata appena rivolta.
«Sì, insomma, ti droghi?», insiste lui, come se si
trattasse di una normalissima curiosità.
«No. Cioè, sì», ammetto, semplicemente per onestà,
perché congenitamente incapace di inventar balle. Non sono
bravo a dire bugie, forse perché nessuno in vita mia me ne ha
mai raccontate. Nessun cavolo, ape o cicogna è stato
protagonista delle mie storielle da bambino. Ben presto
conobbi la verità di quell’unico spermatozoo capace di
incunearsi all’interno dell’ovulo materno. Ma non furono i miei
genitori a parlarmene, ovviamente. No, sarebbe stato troppo
imbarazzante per loro affrontare un argomento del genere. Le
mie fonti furono altre. Ai tempi ero abbastanza scaltro da
trovare da solo tutte le informazioni che mi servivano. Ero
curioso. Dote che ho perso con il passare degli anni.
Scoprii molte altre cose, oltre al sesso, quand’ero
ancora un ragazzino, ad esempio la verità su Babbo Natale e la
Befana. Sapevo benissimo che quell’uomo grassoccio, vestito
di abiti rossi e con in volto una folta barba bianca, e quella
vecchina a cavallo di una scopa, brutta come la peste, altro non
erano che delle vere e proprie apologie del consumismo. Tutti i
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bambini che conoscevo ci credevano. Tutti tranne me. Del
resto, non volevo sentirmi un illuso. Oltre al fatto che non avrei
mai desiderato ricevere una visita da parte di due vecchi
squinternati come loro. E anche se in cuor mio lo avessi voluto,
avevo un padre che non avrebbe mai interpretato la parte. Lui
non si sarebbe mai sognato di mascherarsi da Babbo Natale. Se
glielo avessi chiesto, probabilmente avrebbe replicato con
qualche scappellotto ben assestato. Quello, secondo il suo
modo di vedere le cose, era il più bel dono che potessi ricevere,
la lezione più efficace per comprendere quanto dura fosse la
vita. Col trascorrere delle stagioni, mi sono via via convinto
che i suoi intenti fossero più lodevoli di quanto allora potessi
immaginare. Per lui era il metodo più giusto per insegnarmi a
vivere. Sì, c’era qualcosa di molto educativo dietro quel suo
comportamento. Solo che a quei tempi non potevo
comprenderlo, non riuscivo proprio a capire quali fossero le
sue ragioni. Ero solo un bambino. Come può un bambino
giustificare la violenza?
«Tipo? Di che ti fai?», riprende Samuel, ottenendo di
nuovo la mia attenzione. «Bamba, paste… roba del genere?»
«Niente di tutto questo», preciso. «Fumo per lo più
hashish. Ed erba, se mi capita di rimediarla.»
«Niente coca insomma?»
«No.»
«Eroina e compagnia bella?», insiste, come a volersi
accertare di non aver frainteso.
«No, niente», assicuro, aiutandomi con un chiaro cenno
della mano.
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Guardando attraverso il parabrezza la fila immobile di
auto che ci precede, Samuel brontola tra sé e sé qualcosa del
tipo: «Caro mio, si prevede una convivenza difficile». Io faccio
finta di non sentire. Anzi, mi adagio sul sedile, stendendo le
gambe fino a che la macchina me lo permette.
«Senti, ti dispiace se mi faccio una botta?», domanda
ancora, proprio mentre sto acquisendo consapevolezza di
quanto la comodità non sia affatto uno dei fiori all’occhiello di
questa vettura.
«No, figurati!», lo tranquillizzo. «Fai pure.»
Ghignante come lo può essere un ragazzino a cui è stato
appena concesso il permesso di raggiungere i propri amichetti
sotto casa, Samuel allunga il braccio dalla mia parte per aprire
il portaoggetti. Ritratte le gambe per lasciargli spazio, lo vedo
rovistare con la mano all’interno del cruscotto fino a rinvenire,
tra le custodie in plastica sparpagliate al suo interno, un cd.
«Pitchshifter», fa lui. «Conosci?»
Nonostante mi reputi un discreto conoscitore di musica,
devo ammettere non mi sia mai capitato di sentire anche solo di
sfuggita il nome di quel gruppo.
«Mi pare di no», rispondo. «Che genere fanno?»
«Nu metal, la rumorosa arte di far andare d’accordo
chitarre temprate al titanio e high-tech sonico», spiega lui.
«Nelle dovute proporzioni, ricordano un po’ i Ministry, se hai
presente.»
Ho presente? Facciamo finta di sì.
«I Ministry!», ripeto, celebrando con un sorriso
falsissimo la sua domanda. «Come no! Certo che ce li ho
presenti. Davvero forti!»
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«Oh! Iniziamo a ragionare», fa lui, come per incanto,
finalmente bendisposto nei miei confronti. Se solo sapesse che,
in vita mia, avrò ascoltato sì e no un paio dei loro brani, tra
l’altro di sfuggita… «Ma non pensare che adesso mi stai
diventando simpatico.»
«No. Sono solo contento che tu li abbia citati.
Veramente. Non è facile conoscere qualcuno che apprezza una
band come i Ministry. E comunque credo anch’io che una
passione in comune, da sola, non basti a far…»
«Va bene, dai! Ora però chiudi il becco e sentiti ‘sto
pezzo.»
«Ok.»
Infilato il cd nello stereo, Samuel sceglie di farlo partire
dalla sesta traccia. Solo pochi istanti e l’auto viene riempita da
una serie sincopata di suoni che provocano una vera e propria
scossa al mio sistema nervoso. Faith No More, Nine Inch
Nails, Helmet, Prodigy, Alice in Chains: tutta la loro musica
raccolta in un unico brano che mozza il fiato e accelera il
battito del cuore. Sono già in trepidazione.
«È la mia preferita», confessa Samuel. «Dabliu, uai, as,
ai, dabliu, uai, gi. What You See Is What You Get.» Questa
specie di biscotto abbrustolito ha un’altra passione oltre alla
droga. Non lo avrei mai immaginato.
«Però!», esclamo, sollevando il pollice della mano
destra, come un perfetto yankee. Un gesto che viene
contraccambiato con un sorriso gonfio d’orgoglio.
«Questa sì che è musica», ribadisce lui, scuotendo la
testa a ritmo, prima di fermarsi dietro una vettura in sosta
davanti al semaforo. Ne approfitta per spegnere la sigaretta nel
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posacenere e pescare dal taschino della giacca un pacchetto di
velina opaca. Ne rovescia parte del contenuto sulla custodia
vuota del cd. È una polvere bianca finissima, simile a del gesso
tritato: cocaina, indubbiamente. Da una tasca dei pantaloni
estrae quindi una scheda telefonica e un pezzo da cinquanta
euro. Con la tessera sbriciola la polvere già di per sé
sottilissima, dopodiché la dispone fino a formare una striscia.
Leccata la parte di scheda usata per la triturazione, arrotola la
banconota e ne infila un breve tratto all’interno della narice
destra. Poi, una volta chinatosi sulla custodia, l’avvicina a
un’estremità e con un secco fendente inala la razione.
Sollevandosi con un rapido guizzo, si pizzica ripetutamente le
narici. Sembra sia stato morso da una vipera.
«Cristo di un Dio svaccato! Quanta cazzo d’anfetamina
c’è qua dentro!» Srotolando il biglietto da cinquanta euro, un
ghigno amaro gli disegna il volto. «Uno più fortunato di me lo
avrebbe fatto con un pezzo da cinquecento.» Scrolla le spalle,
ma non sembra comunque darsi per vinto. «Ah, ma c’è ancora
tempo per fare il colpaccio. Vedrai se prima o poi non ci
riesco.»
Annuisce con la testa, poi storce le labbra quando un
automobilista dietro di noi suona il clacson per avvisarci sia
appena scattato il semaforo verde. Torna dunque a mettere a
fuoco la strada. Gli basta un attimo per notare un varco
venutosi a creare sulla corsia di sinistra. Non uno spazio
particolarmente ampio, ma sufficiente per convincere Samuel a
occuparlo attraverso una manovra da immediato ritiro della
patente. Il brusco spostamento dell’auto mi disarciona dal
sedile.
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«Oh, cazzo!», esclamo, mentre le cinture di sicurezza
tentano di avvinghiarmi come fossero spire di un serpente.
Non riesco a vedere altro oltre alla morte. Se si esclude
Samuel, ovviamente. Osservo spaurito il suo modo smanioso di
sbattere le ciglia, di cambiare marcia senza criterio, di alternare
ghigni perversi a fugaci sguardi in direzione del sottoscritto. Ai
suoi occhi sembro forse un cucciolo spaventato. Sto per avere
un infarto. E credetemi, non è affatto una bella sensazione.
«Tu sei tutto matto!», esclamo, impegnato nel frattempo
a ritrovare una corretta posizione sul sedile.
«Lo so!», esclama, inchiodando di fronte a un altro
semaforo rosso. Il suo sguardo comincia a vagare con
inquietudine tra i pedoni che attraversano le strisce pedonali,
fino a posarsi su un seno compresso in un push-up e su delle
cosce sinuose che piovono da una gonna a dir poco succinta.
Appena il semaforo ridiventa verde, però, spinge il pedale
dell’acceleratore, facendo nuovamente schizzare l’auto
sull’asfalto.
«Ah! Dimenticavo!», irrompe di nuovo, senza
nemmeno degnarmi di uno sguardo, troppo impegnato com’è a
fulminare con gli occhi gli altri automobilisti. «Più tardi devo
sbrigare un lavoretto», spiega, accendendosi l’ennesima
sigaretta. Accodatosi a un’altra vettura in sosta, gioca poi con
la leva del cambio, mettendo ora il motore a folle, ora
inserendo la prima. «Il tizio che devo incontrare non abita
molto lontano da qui. Però prima andiamo a farci un
bicchierino.» Si volta verso di me, con un ghigno perverso.
«Ok?» Il mio sguardo da pesce lesso vale più di qualunque
altra risposta. «Dai, che ci divertiamo!»
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«Ok», rispondo senza troppa convinzione.
Sensazioni indecifrabili. Di certo negative. C’è da
rabbrividire vedendo tutti questi palazzoni che ci spuntano
attorno. Se alzo gli occhi, non scovo neanche un uccello che
possa intenerire la scena. Il cielo è insipido e spoglio, o forse
soltanto coperto da un innaturale telo di tonalità radioattive.
No, quella che vedo non è affatto Roma. Sembra una città
presa in prestito da un futuro apocalittico.
«Che c’è?», fa Samuel, colpendo dritto nel segno.
«Sembri preoccupato.»
«Be’», rispondo in tutta franchezza, «in effetti un po’
d’ansia m’è venuta.»
Se ho accettato questo lavoro, è perché spero che le
cose cambino. Magari do una bella raddrizzata alla mia vita,
magari riesco pure a rimpinguare il mio conto corrente
perennemente in rosso. Fondamentalmente è per questo che ho
deciso di accettare il consiglio di Franz e di continuare a dar
retta a questo scapestrato. Ho bisogno di soldi, non posso farci
nulla.
«Tu devi stare tranquillo, però!», esclama Samuel. «Sei
troppo agitato. E quando uno è agitato, rischia di non fare bene
il proprio mestiere.»
«Sarà!», faccio io, accennando un sorriso. «Diciamo
che mi voglio fidare.»
«Ti devi fidare!», ribatte Samuel. «Non ammetto che la
gente abbia dei dubbi su ciò che dico. E sai perché? Perché ciò
che dico è la fottuta e sacrosanta verità. Non parlo mica a
sproposito, io. Ogni cazzo di frase, parola o sillaba che esce
dalla mia bocca è una verità insindacabile. Quindi ora sta’ zitto
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e apri bene quelle cazzo di protuberanze che tieni attaccate alla
testa e che ti ostini a chiamare orecchie.» Convincente, come
sempre. «Ora io e te ce ne andiamo a fare una bella bevuta, così
ci rilassiamo a puntino prima di catapultarci seriamente nel
lavoro. Ok?»
Sigaretta incollata alle labbra, l’abominevole Samuel
Sogliano ha la stessa aria vissuta di un cowboy metropolitano,
uno che non sa suonare l’armonica, ma beve whisky a fiumi e
bestemmia sempre e comunque, anche in presenza di donne e
bambini.
«Ok», approvo, senza fare salti di gioia. «Sei tu il
capo.»
69
Capitolo IX
Mettete in moto la fantasia e cercate d’immaginarvi la scena.
Io, bevuto da far schifo, in un bar traboccante di gente. Una
biglia impazzita dentro un flipper allucinante, con un tumbler
di Campari e gin tenuto a stento tra le dita della mano destra, in
totale soggezione di fronte a certe facce losche che sembrano
appena uscite da Rebibbia o Regina Coeli.
Ah! Ma che ne so! Come sempre, forse il problema non
sono loro, il problema sono io. Sono malato. A stare in mezzo
alla gente, mi viene l’ansia. Ho spesso questo genere di attacchi
di panico in situazioni simili. Ed è per questo che, quando
posso, evito persino di uscire di casa. Dico sul serio, non vi sto
raccontando frottole. A volte penso sia meglio rinchiudersi in
camera e fumare dalla mattina alla sera, piuttosto che uscire e
avere a che fare con altre persone. Che poi star da soli non è
così male. Col tempo uno impara anche a conoscersi meglio. Io
ho capito che sono un impostore, proprio come tutti gli altri.
Ma, a differenza degli altri, sono consapevole di esserlo. È
quando uno rimane da solo, infatti, che riesce a mettersi
realmente a nudo, che straccia quel velo dietro cui è nascosta la
verità. Quando l’uomo è in gruppo (come ogni altro animale,
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del resto) tende invece a trasformarsi in qualcos’altro, ad
emulare il vicino, a creare maschere da indossare. Si fa forte
pure chi di natura è debole. Diventa coraggioso anche il più
docile agnellino. L’uomo mente per convincere se stesso e gli
altri di essere quello che non è. È rimanendo da soli, però, che
le nostre menzogne tendono a sgretolarsi. Mentire a se stessi
non ha più alcun senso perciò si è costretti a vuotare il sacco. È
questo quello che è successo e continua a succedere ogni
giorno anche a me. Isolandomi, ho imparato a capire come
sono fatto, come funziona la macchina che da più di vent’anni
mi porta a spasso per il mondo. È un autentico catorcio, a
quanto pare, ma è pur sempre il mezzo che mi supporta da
quando sono nato.
L’alcol mi fa un brutto effetto.
Meglio cercare Samuel.
Chissà che fine avrà fatto quel pazzo Caronte, forse in
giro a traghettare qualche frescone nel prodigioso lordume
delle droghe sintetiche. L’ennesimo o forse il primo di una
lunga serie di viaggi low cost su per il culo della miseria
contemporanea. Roba da devastazione neuronale, da mettere il
cervello direttamente in quarantena, lobotomizzarlo con
turbinii di colori fulgidi e parole sgocciolate.
Eccolo lì, invece, seduto al bancone del bar, impegnato
ad attaccar bottone, con la confidente simpatia di un aficionado
di quartiere, col primo tizio che ha avuto la disgrazia di
capitargli sotto tiro.
«Devi sapere che, negli Stati Uniti, i Prodigy li ha
lanciati Madonna, la quale, a sua volta, è stata costretta a
censurare i testi delle loro canzoni perché ritenuti troppo
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violenti. Cioè, non so se hai capito bene la questione. I testi dei
Prodigy troppo violenti per il pubblico yankee. Che cazzo di
ipocrisia è? Quei mangiacheeseburger sono abituati al peggio
del peggio, a gente che per far successo è disposta anche a
infilarsi una macchinina giocattolo su per il culo, e tu che cazzo
fai? Mi censuri i Prodigy? Ma vaffanculo! Vaffanculo, dico io!
Quella lì è una delle migliori band degli ultimi vent’anni e c’è
ancora qualcuno che parla dei loro pezzi come delle
accozzaglie di rumori. Gente come quella non sa un cazzo di
cosa significhi lavorare su delle campionature o utilizzare il
sequencer. Gente così non capisce un cazzo di musica!»
Un incavato quattrocchi dalla faccia non propriamente
sveglia è lì che ascolta senza tuttavia comprendere una sola
parola di quello che Samuel gli sta riferendo con una passione
a dir poco smisurata.
«In Italia, non è che le cose siano tanto diverse»,
prosegue imperterrito il mio amico, se mio amico si può
definire. «Hanno considerato il videotape di Smack My Bitch
Up scandaloso, tant’è che l’hanno trasmesso in tv solo dopo la
mezzanotte. Capisci, sì, in che cazzo di mondo viviamo?»
Ma per quanto Samuel s’impegni nella propria arringa,
l’espressione del suo vicino confessa tutta la sua estraneità
riguardo basi scratchate e mix musicali d’oltremanica.
«Ah! Ma che cazzo ne può sapere un coglione come te
di ‘sta roba!»
Non c’è verso, Samuel è così. Dai suoi occhi lo si
capisce benissimo lo sforzo titanico a cui quotidianamente deve
far fronte per non arrendersi all’idea che la maggior parte degli
eventi segua il proprio naturale corso e che lui, malgrado tutto,
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continui a remare controcorrente, sognando che il resto del
mondo si comporti nella sua stessa maniera, rimanendo cioè
indifferente a qualunque strategia di vita possibile. In effetti,
mi somiglia molto in questo senso.
«Sembra che a nessuno gliene freghi un cazzo dello
schifo di mondo in cui viviamo», mi fa, prima di rovesciare in
gola l’ennesimo sorso di whisky. «Siamo degli idioti. Ci
accontentiamo di quello che ci fanno vedere, senza cercare di
capire cosa cazzo c’è dietro.»
Comincia a svalvolare. Più che comprensibile, del resto.
Anche un uomo dall’organismo rodato come il suo, quando
esagera, rischia di ritrovarsi in una valle tremendamente buia e
sconsolata.
«Buttiamo giù tutto quello che ci mettono sotto il naso»,
prosegue, replicando con una smorfia all’ennesima sorsata di
whisky. «Non ce ne frega un cazzo se ci danno da mangiare la
merda, purché ce la vendano come cioccolato. Questo è lo
schifo di mondo in cui viviamo, lo capisci? E questo è il
motivo per cui tanta gente è costretta a farsi di brutto. È
normale, cazzo! Bisogna evadere da questa cazzo di realtà.
Siamo costretti a farlo. Sempre, ogni santissimo giorno, ogni
volta che capita l’occasione.»
Samuel, così mentalmente instabile, con quella sua
balda fierezza da sbattere in faccia alla gente, senza alcun
timore reverenziale verso niente o nessuno, con quel suo
portamento e quelle sue vesti da ultimo cowboy urbano rimasto
sulla Terra. No, non dovete commettere l’errore di pensare a lui
come a un rifiuto della società. Sforzatevi di vederlo sotto
un’altra luce. Perché lui, in fondo, i suoi ideali ce li ha, magari
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accartocciati da qualche parte, forse dentro le sue stesse
viscere. E forse sono scritti pure in aramaico antico. Per cui
capirete quanto sia difficile, per uno come lui, comprendere in
che direzione muoversi e come fare a farsi capire dalla gente. È
per questo che, incasinato com’è, preferisce scegliere una via
più congeniale: la fuga. Ogni mezzo per ottenerla va bene. Le
droghe, l’alcol, qualsiasi cosa, purché quel qualcosa riesca a
farlo estraniare da questa realtà con lui così meschina. La sua
scelta è forse da biasimare? Non lo so e sinceramente non me
ne frega un cazzo di saperlo. Soprattutto adesso, che mi scappa
da pisciare.
Meglio trovare un bagno. E in fretta.
Mi alzo dallo sgabello, senza dire nulla. La testa mi gira
a una velocità inaudita. Potrei crollare a terra da un momento
all’altro, ma è un rischio che devo correre a meno che non
voglia farmela addosso.
Eccolo lì, il bagno. Mi ci fiondo, senza esitare un solo
attimo.
«Oh, Sant’Iddio!», esclamo, una volta dentro.
Un tizio sta vomitando l’anima dentro il lavandino.
Forse si è anche cagato addosso, considerando la puzza di
merda che arriva dai pantaloni. È semplicemente al collasso.
Un foglio di carta igienica pregno di alcol e merda che aspetta
soltanto di essere inghiottito dal tubo di scarico di un’anonima
tazza del cesso. Buona notte, fratello! Che almeno i tuoi sogni
possano esser d’oro, poiché il risveglio, stanne certo, sarà un
vero schifo.
Spalanco la patta dei pantaloni davanti al primo dei tre
orinali a muro. Per un attimo desidero che si trasformi in una
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bella donna. Ma è solo un attimo. Sono troppo smostrato per
avere anche solo un’erezione. Finisco quindi di pisciare, per
poi rinfilarmi il pisello nei boxer. Prima di tornare da Samuel,
però, concedo un ultimo saluto al tizio accasciato davanti al
lavandino.
«Stammi bene, giovine! Ci si ribecca in un’altra vita!»
Il cadavere non risponde. Forse è morto per davvero.
Poco male. L’umanità saprà farsene una ragione.
Torno a sedermi al bancone, ma di Samuel non c’è
traccia. E nemmeno del mio Campari e Gin. Se lo sarà bevuto
quella grandissima testa di cazzo, potrei scommetterci. Razza
di ingrato! Dove cazzo si sarà ficcato adesso? Mi guardo
intorno. Eccolo là, in mezzo alla sala, appiccicato a una tipa,
una trucida coi capelli ossigenati. Ciucco e infoiato, è lì che se
la sbaciucchia. Le sta palpando anche l’intestino, infilando la
mano sotto il vestito celeste a bretelle che mette in mostra una
serie di tatuaggi fatti forse con un taglierino.
«Samuel!», esclamo, andandogli incontro. La tizia mi
fissa. L’idea che voglia sperimentare un ménage à trois non mi
eccita per niente. Anzi, mi rivolta le budella. «Noto con piacere
che hai fatto amicizia.»
«Lo conosci?», fa la donna. Una domanda che lì per lì
mi spiazza.
«Be', sì», ribatto, prima di chiedere conferma a Samuel.
«Possiamo dire di conoscerci io e te, no?»
«Be’, direi di sì, cazzo!», risponde Samuel.
«Ecco, sì, appunto», concludo io, impacchettando la
risposta ben bene prima di consegnarla alla tipa.
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«Be’», fa lei, smorzando di colpo ogni entusiasmo.
«Allora je diresti gentilmente de toglieme la mano dar culo? A
me non me vole popo da’ retta.»
«Samuel?», domando, senza aggiungere altro.
«Ma sì, vattene!», fa lui, liberando la donna dalle sue
grinfie. «E vedi di non farti più vedere in giro!»
È ubriaco, chiaro come il sole. Io pure, lo ammetto. Ma
quando sono sbronzo, non mi metto di certo a far cazzate in
giro. Almeno, non di proposito. Va be’, non sempre.
«Andiamo!», ordina Samuel, come al solito senza darmi
altra scelta.
«Dove?», gli domando con aria rassegnata.
«Abbiamo un lavoro che ci aspetta. Te ne sei già
dimenticato?»
Non serve replicare. Devo soltanto obbedire e seguire il
mio Caronte. Mi porterà all’inferno, già lo so. Ma è lì, in
fondo, che uno come me merita di stare.
76
Capitolo X
«Cioè, sei davvero convinto che ti basterà suonare il citofono
per imboccargli a casa e farti ridare i soldi?», domando, ancora
un po’ brillo dopo la recente sosta al bar. «Ma figurati se quello
lì ti fa entrare. Non c’ha una lira. Guarda in che razza di posto
vive.»
Siamo in un quartiere malfamato, in effetti, un covo di
disperati. Cristo! Siamo in culo al mondo. Tra l’altro faccio
ancora fatica a capire se tutta questa faccenda della caccia ai
debitori sia una cosa legale oppure no. Sì, insomma, che
Samuel non sia un tipo particolarmente raccomandabile l’ho
capito sin dal primo istante in cui l’ho visto venirmi incontro
alla Stazione Tiburtina. Eppure lui vorrebbe convincermi del
contrario. Dice di non essere uno strozzino, ma di operare per
una società seria. Dando per buona la sua versione dei fatti,
allora perché sono stato scelto proprio io per svolgere un lavoro
del genere al suo fianco? Dai, guardiamo in faccia la realtà:
non sono assolutamente credibile come agente di recupero
crediti. Non otterrei rispetto nemmeno da un pupazzo di neve,
figuriamoci da un disperato con l’acqua alla gola. Non che
serva usare il pugno duro in casi come questi. Sì, insomma, non
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dovrò mica minacciare di morte qualcuno. Se il debitore non è
in grado di restituire il denaro che gli è stato prestato, bisognerà
semplicemente fargli capire che è meglio che quel denaro lo
trovi. Fine della storia. Almeno spero.
Ah! È inutile pensarci troppo. Scoprirò presto la verità.
Giusto il tempo di assistere al primo recupero crediti della mia
vita. Certo, sempre che il soggetto in questione (a detta di
Samuel, nella merda fino al collo) sia così sciocco da farci
varcare l’uscio della sua dimora. Un’eventualità alquanto
remota, secondo me, ma che il mio tutor non vuole affatto
escludere.
«Le vie del Signore non sono forse infinite?», mi
domanda.
«Be’, sì, ma…»
«Senti un po’», mi interrompe. «Da quand’è che sei in
questo giro?»
«Quale giro?»
«Ecco, appunto. Io ho quarantatré anni e faccio questo
mestiere da una vita, più precisamente da quando mi sono
messo in affari con spacciatori, drogati, papponi e mignotte.
Dunque, fidati di me e, soprattutto, non scassare le palle con le
tue teorie del cazzo, ci siamo intesi?»
«Papponi, mignotte... ma non avevi detto di fare un
lavoro serio?»
«Allora!», esclama Samuel. «Ci siamo intesi, sì o no?»
«Sì, sì», replico io, alzando le mani. «Non insisto.»
«Bene», fa lui, prima di premere con sicurezza uno dei
tanti interruttori che affollano il citofono. Pazienta alcuni
secondi senza che accada nulla, poi sposta l’indice su una
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diversa fila di pulsanti, pigiandone un altro a casaccio e
attendendo di nuovo a braccia conserte.
«Chi è?», domanda una voce stridula, forse quella di
un’anziana signora, attraverso l’apparecchio.
«Io», risponde Samuel. Dice semplicemente questo: io,
due lettere, due vocali che sembrano attaccate con la saliva, la
parola magica che permette alla serratura del portone di
ricevere l’impulso elettrico che la fa spalancare dinanzi ai
nostri occhi.
«Visto?», fa lui, varcando il portone. «Semplice come
far innamorare una donna.»
«Be’, non è così semplice far innamorare una donna»,
ribatto io, seguendolo oltre il portone.
«Sì che lo è», insiste Samuel, proseguendo spedito,
senza neppure degnarmi di uno sguardo. «Basta farle qualche
complimento e, cosa più importante, bisogna scoparla come
Cristo comanda.»
È insopportabile. Non che abbia torto, intendiamoci. Il
problema di quelli come Samuel, però, è che pensano di
conoscerla come le proprie tasche, la vita. È impossibile avere
a che fare con certa gente. I tipi come lui sono convinti di avere
una risposta valida a tutto, da come abbia avuto origine
l’universo a come si cambi una lampadina, dal perché la
benzina costi così tanto al perché il cibo si trasformi
inevitabilmente in merda.
«Ti devi fidare delle persone più grandi di te. E devi
anche portargli rispetto», fa Samuel, prima di affrontare un
vecchio in pantofole, mummificato nel solo angolo illuminato
dell’atrio, intento a scrutinare, sulle pagine del Corriere dello
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Sport, file e file di inchiostro nero che presentano il prossimo
turno di Serie A. Questa settimana, per i giallorossi della
Capitale, è prevista una trasferta in Sicilia, contro il Messina,
per quello che si prospetta essere un match non particolarmente
ostico.
«Sarà una bella partita, nonnetto», esclama Samuel.
«Sempre se arriverai a domenica per vederla.»
L’ironia di Samuel non pare far breccia nell’animo
dell’uomo, che anzi comincia a sbraitare come una vecchia
bertuccia dilaniata dalle emorroidi. (Vi prego, non chiedetemi
se le bertucce possano davvero soffrire di emorroidi.) Samuel
ghigna. Non gliene frega di sembrare antipatico o maleducato.
Non gliene frega di essere irrispettoso agli occhi di una persona
molto più anziana di lui. Fondamentalmente non gliene frega
un cazzo di niente. Su questo, devo ammetterlo, siamo molto
simili. Al diavolo le puttanate sul politicamente corretto.
Fanculo alla censura, ai limiti, alla decenza. Lui fa tutto quel
che gli pare e piace. Lui può tutto. Lui è Samuel Sogliano.
«Se vuoi che tutto vada liscio lì dentro, lascia fare a
me», spiega. «Il tuo compito per oggi è startene buono e non
mandare tutto a puttane. Pensi di farcela?» Faccio tante di
quelle volte sì con la testa che ora Samuel penserà abbia un tic.
«Non dire o fare niente, oltre a respirare. E anche per quello,
limitati all’essenziale. Coi debitori ci si comporta così. Si entra
e si esce. Basta un rapido scambio di battute. Tu chiedi se
hanno i soldi, se ti dicono di sì e te li danno, è fatta. Te li
prendi, ringrazi e ti togli dalle palle.»
«E se ti dicono di no?», domando. «Se i soldi non ce
l’hanno?»
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«Sei troppo curioso, cazzo! La curiosità non paga in
quest’ambiente. Comincia a farti i cazzi tuoi, ok?» Poi, senza
darmi il tempo di rispondere, chiarisce: «Comunque, se il
debitore non ha soldi, gli devi far capire che è meglio se li
trova. E in fretta.»
«Altrimenti?»
«Altrimenti il nostro capo potrebbe rimanere deluso. E
noi non vogliamo che rimanga deluso, vero?»
Mi sta fissando, mostra un ghigno malefico che auguro
non veda mai nessuno. La sua espressione da psicopatico mi fa
rabbrividire.
«Questa è la procedura standard», prosegue, spostando
lo sguardo altrove. «Nulla di particolarmente complesso, mi
pare. Non c’è bisogno che ti tenga per mano per tutto il tempo,
no?»
«No», rispondo, solerte.
«Bene. Ah! E un’altra cosa», conclude. «Se ti dovessi
cagare addosso, scordati che ti cambi il pannolino, ok?»
«Ok!» Sorrido, mentre gli cammino a fianco come un
fedele gregario. È lui il protagonista della scena, il solo tra i
due capace di calamitare a sé l’occhio di bue che illumina
l’ombroso corridoio di questo decrepito edificio.
«Ti piace il calcio?», domanda a bruciapelo, una volta
lontani dal vecchio.
«Sì», rispondo. «A te?»
«A me no. Odio il calcio e odio anche i calciatori. Ma
non lo vedi come se ne vanno in giro quei frocetti del cazzo?
Coi loro abiti firmati, le acconciature all’ultima moda, le
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macchinine di lusso. Nessuno li considera più per ciò che
dovrebbero fare, ovvero tirare dei calci a un cazzo di pallone.»
Si sta per infervorare, me lo sento. Ora ricomincerà a
dare i numeri.
«Ogni anno stanno lì, tirati a lucido come delle belle
statuine, pronti a firmare contratti esorbitanti davanti a
centinaia di fotografi. Che farabutti! Li strangolerei con le mie
stesse mani, se potessi.»
Come previsto, è già partito per la tangente.
«E poi odio pure i tifosi, quegli idioti patentati.
Spendono un patrimonio per vedere giocare dei mercenari e poi
si lamentano se non ci mettono il cuore. Ma che cuore! Quelli,
al posto del cuore, c’hanno il portafogli. Tifosi… puff! Illusi
del cazzo! Invece di rimangiarsi il fegato davanti alla tv o allo
stadio, farebbero meglio a pensare alla fica.»
Arriviamo davanti all’ascensore. Come sempre, è
Samuel a guidare le operazioni. Preme con decisione il
pulsante, prima di proseguire imperterrito il suo monologo.
«E invece no! Preferiscono guardare una manica di
froci che corrono appresso a un pallone. Ventidue mezze seghe
che non sanno fare un cazzo oltre a incularsi a vicenda sotto le
docce.»
«Dai!», lo interrompo. «Ora stai esagerando.»
«No, non esagero manco per il cazzo! Quelle là sono
delle pippe clamorose. E non venirmi a dire che non è vero,
perché fare una papera o sbagliare un passaggio a mezzo metro
da un compagno, fino a prova contraria, vuol dire fare una
cazzata madornale per quello che è il loro mestiere. Immagina
se un ingegnere sbagliasse un calcolo o se un medico, che ne
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so, operasse un organo sano. Il risultato sarebbe una casa in
macerie e un paziente morto. O sbaglio?»
Il cinismo delle sue osservazioni non lascia spazio a
repliche, sebbene almeno io sia convinto che il pallone in senso
stretto (inteso cioè come una camera d’aria racchiusa in una
sfera di cuoio) rappresenti semplicemente un gioco, un
passatempo, un deterrente per liberarsi dalla frustrazione, dal
trantràn, dalla noia, talvolta anche dalla disperazione. E poi
perdere una partita non è come far crollare un palazzo, tanto
meno come uccidere un uomo. È calcio, perdio! Nulla di più. È
soltanto divertimento.
Ok, magari non per tutti è così. Sì, insomma, per alcuni
il calcio è più importante di qualsiasi altra cosa nella vita. Anzi,
più importante della vita stessa. Il fatto è che viviamo in un
mondo di cartapesta, dove gli esempi, così come le ideologie o
i valori o migliaia di altre cose che esistevano un tempo, oggi si
sono estinte o si stanno estinguendo. Ed è proprio per questo
che la gente è costretta a seguire quelle poche linee guida a sua
disposizione per andare avanti. La fede calcistica, al pari di
quella politica o religiosa, costituisce quindi una sorta di ancora
di salvezza, una dolce e consapevole utopia a cui in molti non
saprebbero rinunciare. Se non l’avessero, in fondo, si
sentirebbero persi.
Blin!
Il suono squillante di un campanello ci segnala l’arrivo
dell’ascensore, un marchingegno elettrico piuttosto obsoleto, di
quelli in cui le porticine scorrevoli si staccano e poi si
riattaccano, scontrandosi rumorosamente, così angusto da farti
mancare l’aria.
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«Lascialo perdere il calcio», fa Samuel, varcata la
soglia del trabiccolo. «È una merda.»
Davvero, non me ne frega niente del calcio, ma penso
che, quando si ama qualcosa o qualcuno, è impossibile non
essergli fedeli. Si comincia a essere fedeli a un ideale, a una
persona, a qualsiasi cosa, quando si fa meno fatica a credere
nelle sue qualità, a prescindere dalle reali qualità possedute.
Credere è ciò di cui la gente ha bisogno. Le persone devono
assolutamente affidarsi a qualcosa. Dobbiamo credere per non
sentirci disorientati. A una squadra di calcio, a un’ideologia, a
un Dio, a un partner, a un sogno. A qualunque cosa, purché sia
qualcosa che ci sappia ingannare. Poiché delle bugie, cortesi o
pietose che siano, la gente si nutre. Tutti, me compreso. E forse
anche Samuel. O forse no. Certe cose, probabilmente, neppure
lo sfiorano. Lui va dritto per la sua strada. È uno schiacciasassi.
Gli basta premere il pulsante numero sette e aspettare che
l’ascensore lo porti a destinazione. Non gli importa altro.
Nessun pensiero lo turba al momento. Nessuno, oltre il suo
lavoro.
Delle dita pallide e affusolate, con un rapido guizzo,
s’infilano improvvisamente tra le due porte dell’ascensore,
evitandone la chiusura. Dietro, si svela la figura di una giovane
ragazza, già donna nei suoi squisiti lineamenti. Porta dei jeans
attillati e un piumino bianco aderente in vita. I capelli platinati
sono raccolti a cipolla sulla nuca, il rossetto vermiglio accende
la sua carnagione bianchissima, una pelle che sembra
confessare delle origini balcaniche, slave o forse sovietiche.
Non riesco a capire bene. Entrando, ci delizia con un sorriso
fugace e circostanziale, prima di voltarsi e premere il tasto
84
cinque un paio di volte. Un gesto che confessa una certa
agitazione, malgrado quella che sta ora compiendo sia
un’operazione che ripete probabilmente ogni giorno.
Samuel, nel frattempo, non fa nulla per apparire
discreto. Approfittando di questa fortuita coincidenza, senza
alcun pudore, si piega per rimirare il posteriore della ragazza da
differenti angolazioni, scrutandone gli aggraziati contorni, le
rotondità evidenziate dai jeans strettissimi. La ragazza è messa
davvero bene, ma ora mi pare che Samuel stia esagerando.
Devo riuscire a distrarlo in qualche modo.
«Speriamo che l’ascensore regga il peso di tutti.»
L’ho detto veramente? Oddio! Si può essere più idioti
di così? Meno male che questa mia uscita del cazzo sia servita
a qualcosa. Samuel, infatti, fa appena in tempo a staccare gli
occhi di dosso dalla ragazza, prima che lei si volti verso di noi
per capire cosa stia accadendo alle sue spalle.
Una volta ricompostosi, dal taschino interno della
giacca Samuel estrae il pacchetto morbido di Marlboro rosse
che porge alla fanciulla, come già fatto in precedenza col
sottoscritto, inducendola con un cenno della testa a favorire.
«No, grazie», fa lei, rifiutando la garbata offerta
dell’uomo.
«Come non detto», replica lui, sconsolato. Sembra un
diavolo che ha appena scoperto di aver perso tutto il proprio
carisma. “Cavolo!”, starà pensando. “Non sono più in grado di
far cadere in tentazione un paio di giovani senza un briciolo di
personalità”. Avvilito, dal pacchetto estrae una sigaretta un po’
sgualcita. Visto che non riesce a farci fumare, non gli rimane
dunque che intossicarci con del fumo passivo. Ma quand’è
85
ormai sul punto di far combaciare la fiamma dello Zippo con la
punta della sigaretta, la ragazza, con una pronuncia forse
imperfetta, ma con un tono assai deciso, domanda: «Potrebbe
evitare, per favore?»
Samuel è allibito. Guarda la tipa come se avesse subito
da lei il peggiore degli affronti. Ora, con quegli occhi satanici
che si ritrova, le sta inviando dei chiari messaggi di morte. O di
sesso. O di morte e di sesso assieme. Lei ha appena osato dirgli
di no. E ora si prende anche la libertà di dirgli cosa deve o non
deve fare? La ragazza merita di essere trattata come carne da
macello.
Ignorando in maniera zotica la sua richiesta, Samuel
abbassa lo sguardo verso la sigaretta e arrogantemente va ad
arderne la punta con lo Zippo, come se nulla fosse. Compiuta
quindi la sua prima, intensa boccata, soffia via una nuvola di
fumo proprio in direzione della ragazza. Che l’abbia fatto
apposta per provocarla?
«Tesoro bello», esordisce Samuel, «devi sapere che io
sono un classico fumatore d’ascensore. Tradotto, fumo solo in
luoghi chiusi e angusti. Se lo faccio in spazi aperti, va a finire
che mi sento male.» Fa una breve pausa, giusto il tempo di
concedersi un altro tiro di sigaretta. «Credimi, da quando
fumare nei locali pubblici è proibito dalla legge, la mia vita è
diventata un incubo. Ormai non vado quasi più nei locali. Ma
quando ci vado, non vedo l’ora di tornarmene a casa per
fumarmi tremila sigarette in santa pace. Sarò malato, che vuoi
che ti dica. Ma sarei anche capace di uccidere, se qualcuno mi
impedisse di fumare. Non si può privare un uomo dell’unica
cosa che gli permette di sopravvivere, non credi?»
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Vorrei sparire. Dico sul serio. Poi guardo la ragazza.
Analizzo ogni singolo dettaglio del suo volto: le pupille
dilatate, le palpebre che si spalancano, le labbra che tremano
per il terrore. Studio quella maschera di stupore, il brivido che
la rende impotente. Una catena dalla quale lo stesso Samuel,
graziandola, vuol finalmente liberarla non appena l’ascensore
si spalanca di fronte al quinto piano.
«Be’, cara, ti auguro una buona giornata», fa lui, felice
di togliersela finalmente dalle scatole. Ma alla tipa non sembra
più arrivare il sangue al cervello. Anche le sue gambe si sono
improvvisamente paralizzate. Si muove a scatti. Non ce la fa
proprio a nascondere la paura. A maggior ragione dopo aver
sentito Samuel rivolgerle queste ultime parole. «E fa’
attenzione in giro. Questa città è piena di psicopatici.»
La ragazza non parla più. Insieme alle gambe, anche la
sua lingua deve aver momentaneamente cessato le proprie
regolari funzioni. Le riacquisterà, prima o poi. Quando,
tuttavia, non ci è dato saperlo. Il nostro obiettivo, al momento,
risiede al settimo piano. E nessuno dei due ha più molta voglia
di farlo aspettare.
87
Capitolo XI
Settimo piano.
Samuel mi precede fuori dall’ascensore. Lo seguo lungo
un corridoio buio e dalle pareti scalcinate. Sui lati si
intervallano delle porte di legno, ai piedi di una delle quali,
sulla sporca moquette rosso carminio, giace un uomo cencioso,
pallido in volto e con le guance coperte da uno strato di barba
irregolare.
«Bucatino!», esclama Samuel.
Stabile nella sua posa, l’uomo si mostra indegnamente
all’apice della sua devastazione.
«È morto?», domando.
«Non credo», risponde Samuel, dopo averlo scosso con
la punta dello stivale. «Sarà fatto d’eroina.»
«Ah, be’! Possiamo stare tranquilli, insomma.»
«Dai, smettila di fare il coglione!», esclama Samuel,
chinandosi sull’uomo. «Piuttosto, dammi una mano a
sollevarlo da terra.»
«Che cosa?», domando sbigottito, mentre Samuel l’ha
già afferrato per le ascelle. «Tu stai fuori. Non ci tengo proprio
ad avvicinarmi a quel tossico del cazzo. Mi fa schifo.»
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«Dammi una mano, ti ho detto.»
«Scordatelo!»
Mollato il tizio, Samuel decide sia giunta l’ora di
mostrarmi il suo lato più ostile puntandomi l’indice destro a un
centimetro dal naso.
«La vuoi sapere una cosa? Ora mi hai veramente rotto i
coglioni. Vuoi lavorare con me? Allora fai esattamente quello
che ti dico io, ok?»
A Samuel piace aizzare il duello, ne ha un’impellente
necessità, si vede. È uno stimolo che deve necessariamente
soddisfare. È un bisogno animalesco. È troppo più forte di lui.
«Non sta scritto da nessuna parte che debba raccogliere
i tossici da terra per farti piacere.»
«Guarda che, se non ti sta bene questo lavoro, te ne
puoi anche andare a fanculo!»
«Ma insomma! Che è tutto ‘sto casino?»
Io e Samuel ci voltiamo quasi in perfetta sincronia. La
voce appartiene a Bucatino, come per incanto, tornato di colpo
sul pianeta Terra. Lo vediamo boccheggiare, mentre cerca di
arrampicarsi sulla porta, aggrappandosi alla maniglia per
mantenere l’equilibrio. Tiene gli occhi chiusi e probabilmente
non comprende cosa o chi lo circonda.
«Bucatino!», esclama Samuel, aiutando nel frattempo
l’uomo a mettersi in piedi. «Buongiorno!»
«Buongiorno un cazzo!», sbotta lui, divincolandosi
dalla presa.
«E invece dovresti essere felice per questo nuovo
giorno», fa Samuel, ritrovando un sorriso smagliante. «C’è qui
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una persona che, fino a qualche secondo fa, pensava non ti
saresti mai più risvegliato.»
Bucatino vuol dunque esprimere tutto il suo disappunto
a colpi di unghie sul cavallo dei pantaloni di fustagno fradici di
urina.
«Uccellacci del malaugurio! Tanto lo so che me volete
vede’ morto pe’ pijavve tutta l’eredità.»
«Ma quale eredità, Bucatino!», fa Samuel. «Tu non hai
un cazzo. Sei una mezza sega piena di debiti.»
«Mezza sega a chi?», domanda, ciondolando in maniera
imbarazzante. «‘Sto figlio de ‘na mignotta! Non so chi cazzo
sei, ma giuro che te faccio ingoia’ tutti li denti se non te
rimagni subito quello che hai detto.»
«Ma che vuoi fare, che non hai nemmeno la forza per
reggerti in piedi», replica Samuel, facendosi beffa dell’uomo.
«Piuttosto, prima di uscirtene con certe stronzate, controlla
sempre chi hai davanti.»
Bucatino muove mollemente il capo, strizzando gli
occhi per mettere a fuoco il volto del suo interlocutore. Per un
attimo guarda anche me, fissandomi col suo sguardo rintronato,
poi torna su Samuel.
«Signor Sogliano!», trasale. «Ma siete voi!» Dico sul
serio, gli sta proprio dando del voi.
«E già», conferma Samuel.
«Scusatemi!», esclama l’uomo, improvvisamente più
mansueto. «Non lo potevo sape’.»
«Non ti preoccupare. Farò finta che non sia successo
niente», lo rasserena lui. «Sai piuttosto perché sono qui?»
«Be’, no, non saprei.»
90
«Come no? Dai, prova a fare uno sforzo.»
«Per i soldi?», chiede Bucatino, dopo una leggera
esitazione.
«Bravo Bucatino! Vedi che quando t’impegni sei più
sveglio di quello che sembri?»
«Lo so che v’ho fatto aspetta’ un po'…»
«Un bel po’!», corregge Samuel.
«Già, un bel po’. Ma non ve dovete più preoccupa’», fa
l’uomo, di nuovo barcollando, poi ridendo e piangendo
assieme, in un miscuglio isterico di commozione ed
eccitamento, un cocktail di emozioni causato probabilmente dai
rimasugli di droga che gli galleggiano ancora nelle vene. «So
che v’ho fatto pena’, ma adesso ce l’ho.»
«Ahi ahi ahi, Bucatino! Non è che mi stai di nuovo
prendendo in giro? Perché sai stavolta che ti capita se non mi
ridai tutti i soldi che mi devi?»
«Ce l’ho, v’ho detto. Stavolta ce l’ho sul serio»,
assicura Bucatino. «Non fate come San Tommaso.»
«Ma quale San Tommaso!», esclama Samuel. «Io di
santo non ho proprio un cazzo.»
Ride, Bucatino. Ride sguaiatamente. «Siete troppo
spiritoso voi! Su, venite dentro!», esclama, invitando Samuel
nel suo appartamento, «Così ve convincete che non dico
stronzate.»
Bucatino punta la porta, dalla traversa fino allo zoccolo
interamente ricoperta di firme e vignette. Dalla tasca dei
pantaloni, poi, tira fuori una chiave. Assolutamente
incompatibile col buco della serratura. Come previsto, infatti,
ogni suo tentativo di infilarla nella toppa ha un esito negativo.
91
«Serve una mano?», chiedo, preoccupato più per il
tempo che passa, che per altro.
Ma Bucatino, battendo il palmo della mano sinistra
nell’aria, risponde: «Nun rompe’ li coglioni te! Faccio da solo.
Devo solo trova’ la chiave giusta.»
Magari non merito mi sia dato del voi ma, cavolo,
essere trattato con un briciolo di rispetto in più non mi
dispiacerebbe.
«Bucatino!», ammonisce Samuel, intervenendo in mia
difesa. «Comportati bene.»
«Scusate!», esclama, prima di tornare ad armeggiare
con la serratura. «Ma è stato lui a provocarmi.»
«Io?», domando, allibito.
Samuel mi guarda scocciato. Si vede lontano un miglio
che non ha voglia di sentirmi battibeccare con un cazzo di
eroinomane. Per tranquillizzarsi, allora, prende il solito
pacchetto di Marlboro e dalla parte tranciata estrae una
sigaretta che, sbuffando, porta alla bocca. Di fronte a quel
gesto, Bucatino non si cura affatto di celare la propria invidia.
«Non è che me ne offrireste una?»
«Bucatino, tu non sei un uomo», fa Samuel, esaudendo
la richiesta del suo debitore. «Sei una tassa vivente!»
Non è poi così cattivo il mio collega. Malgrado i suoi
atteggiamenti da duro, è un buono. Probabilmente non gli sarà
neppure mai capitato di far del male a una persona. Va be’, se
si esclude quello che è successo qualche ora fa con quel
tassista. Ad ogni modo, sono convinto che Samuel ostenti
quell’aria così burbera soltanto per immedesimarsi meglio col
personaggio che si è cucito addosso. Quelli che veste sono
92
soltanto i panni che ha deciso di indossare nell’avanscena
quotidiano. E per meglio calarsi nella parte, ha bisogno di farsi
forza e sentirsi invincibile. Spietato, se serve. Ciò a discapito di
coloro che gli sono attorno, inconsapevoli di far parte dello
sfortunato cast del suo personalissimo lungometraggio. Samuel
sa perfettamente di vivere in un contesto ipercompetitivo.
Ciascuno vuole primeggiare nel proprio campo. Sarebbe
disposto a tutto pur di ottenere la gloria. Perché, come i più
bravi strateghi insegnano, in uno scenario concorrenziale come
il nostro, l’etica può tranquillamente andare a farsi benedire.
Bucatino, intanto, ha appena fatto cadere la chiave sulla
moquette. Quest’uomo avrà pure le mani di pasta frolla, eppure
gli riesce benissimo di afferrare una paglia scivolata fuori dal
pacchetto di Samuel, per poi farsela accendere.
«E tu?», mi domanda. «Non ce fai compagnia?»
«Non fumo», ribatto.
Licenziosi sghignazzamenti seguono la mia risposta,
come se il fatto di non fumare sia ora da considerarsi un motivo
di scherno.
«Signor Sogliano, ma chi ve sete scelto come collega?»,
domanda quel tossico del cazzo, una volta riuscito a imbrigliare
le risa. «Proprio un bravo ragazzo!»
«Non sono affari che ti riguardano», lo rimprovera
Samuel, dopo aver catturato i miei occhi solo per un istante.
Sembra voglia consigliarmi di restare dalla sua parte. Finché ci
sarò, potrò contare sulla sua protezione. «Piuttosto, vedi di
darmi i soldi se non vuoi ritrovarti nei guai.»
«Oh, sì! Scusatemi!», fa Bucatino, chinando il capo,
quasi a volersi prostrare dinanzi al suo creditore. «Non me
93
sarei dovuto impiccia’, me ne rendo conto. Finisco la sigaretta
e li vado a prende’, promesso.»
Di quanto sia magnanime Samuel ne ho ulteriore prova
ora che, senza spazientirsi più di tanto, rimane a guardare
Bucatino fumare la sua Marlboro a velocità rallentata.
Irrispettoso della libertà concessagli, quell’ammasso di merda
si diverte a creare degli anelli di fumo, per poi osservarli
galleggiare nell’aria prima che svaniscano del tutto.
Un silenzio ambiguo, nel frattempo, avvolge il
corridoio, stranamente deserto. Come tre brutte statuine siamo
lì in attesa di una svolta. L’uno tiene sotto mira gli altri, in una
scena che ricorda molto il mexican standoff finale de Il Buono,
Il Brutto e Il Cattivo. L’equilibrio del triello pare però
spezzarsi quando, con una schicchera, Samuel getta a terra il
filtro della sigaretta, contribuendo al deterioramento della già
lurida moquette.
«Bucatino, sbrigati!», esclama. Dal suo tono di voce,
capisco che ha già pazientato abbastanza. Ora vuole i soldi.
«Sì, sì! Un altro tiro e la spengo.»
Come promesso, dopo un’ultima succhiata al filtro
ormai completamente pregno della sua saliva, anche Bucatino
lancia via quel che rimane della sigaretta. Dalla tasca destra dei
calzoni sfila quindi altre due chiavi. Ne mette una sul palmo
della mano sinistra, l’altra sulla mano destra. Così ad occhio
nudo, quella di sinistra potrebbe forse mettere in moto un’auto
(con ogni probabilità rubata). Quella di destra, invece,
sembrerebbe avere tutte le carte in regola per essere la chiave
giusta. Dello stesso avviso, però, non sembra essere Bucatino
che anzi, incerto sulla decisione da prendere, rimane ad
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analizzarle entrambe per altri sette od otto secondi,
soppesandole con cura, come se realmente potesse distinguere
il peso specifico di ciascuna delle due.
D’improvviso, poi, opta per la chiave di sinistra. (Da un
fattone come lui c’era da aspettarselo.) Il conseguente tentativo
di infilare la chiave nella serratura è l’assurdo finale di uno
spettacolo a dir poco imbarazzante.
«E che cazzo!», sbraita Bucatino. «Avevo il cinquanta
per cento di possibilità d’azzeccacce e invece ho sbagliato!»
Puntando gli occhi verso il soffitto, pare quindi imprecare
verso l’Onnipotente: «Perché tutta ‘sta sfiga? Perché, se pò
sape’?». Schianta la chiave sbagliata a terra, prima di
continuare a inveire contro chissà chi. «Nun me lo merito!»
«Bucatino…», prova a intervenire Samuel. Il suo
tentativo, però, viene surclassato dalle urla isteriche dell’uomo
che, disperato, posa ora il suo sguardo su di noi.
«Voi nun capite! Qui c’avete di fronte un caso clinico.
C’avete davanti la iella fatta persona.» Rivolgendosi a un
pubblico immaginario, urla: «Ammirate, gente! Questa qui non
è una persona qualsiasi, è la prova concreta che la sfortuna
esiste. Esiste e come! ‘Sto povero cristo non ha mai vinto un
cazzo in vita sua. ‘Sto sfigato non ricorda una sola volta in cui
ha potuto gridare: “Sì! Stavolta ce l’ho fatta!” Mai! È una
maledizione.»
«Bucatino…» Samuel prova nuovamente a intervenire,
ma rinuncia un istante dopo sentendo l’uomo riprendere la
solfa.
«In quanto a donne, poi, non è che vada meglio. Anzi.
‘Sto poraccio non se fa ‘na scopata da così tanto tempo che
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ormai ha dimenticato pure come se fa. Anzi, se la volete sape’
tutta, non je se drizza manco più.» Il suo pisello sarà pure
moscio, ma almeno la lingua ce l’ha ancora bella arzilla. E
pensare che fino a qualche minuto fa sembrava morto. Adesso,
per ammazzarlo, ci servirebbero le cannonate. «Ha perso la
voglia de scopa’. Fatejela riveni’! Fatejela riveni’, per Dio!»
«Bucatino!», esclama Samuel, stavolta con più
decisione, riuscendo finalmente a richiamare l’attenzione
dell’uomo. «E mò basta, però, co’ ‘sto teatrino! Va’ a prendere
i soldi!»
«Sì! I soldi!», fa Bucatino, avvicinando l’unica chiave
rimastagli alla serratura. «Me dovete scusa’, signor Sogliano,
ma oggi non ce sto molto con la testa.»
«Eh! L’avevamo notato», appunta Samuel.
Mi pare sia trascorsa un’eternità da quando abbiamo
messo piede qui dentro. E forse è davvero così. Forse siamo
solamente vittime di un incantesimo, inconsapevoli del tempo
che ci scorre attorno. Ma quando ormai ogni speranza sembra
essere perduta, finalmente sento la serratura scattare.
«Sia lodato Gesù Cristo!», esclama Samuel.
Tirando un lungo sospiro di sollievo, rispondo solerte
all’esclamazione del mio collega. «Sempre sia lodato!»
96
Capitolo XII
«Spero che non facciate caso al disordine» biascica Bucatino,
facendoci strada nel suo appartamento.
«Macché!», rispondo spavaldo. «Siamo dei maschietti.
Ci sguazziamo, noi, nel disordine.»
Si sa, azzardare una qualunque affermazione è un
rischio che talvolta porta a essere clamorosamente smentiti
dagli eventi. Le ultime parole famose, così le chiamano, no? E
difatti, neanche a farlo apposta, entrato nell’appartamento in
coda al terzetto, mi rimangio subito quanto detto.
«Mamma mia! Ma che è ‘sta puzza?» Nell’aria c’è un
odore nauseante.
Nella penombra, vedo Bucatino dirigersi dall’altra parte
della stanza e sollevare le tapparelle. Basta un attimo perché un
violento fascio di luce illumini le pareti vuote e ammuffite
della casa, marchiate da simboli satanici disegnati con delle
bombolette spray. Il pavimento sconnesso, fatto di mattonelle
scheggiate e sporche, è ricoperto da pezzi di vetro, cartacce e
rifiuti di vario genere. A fungere da letto, un materasso putrido,
bruciacchiato, ricoperto da liquidi seminali ed escrementi di
ogni tipo. Sopra, giace il cadavere di un cane con il ventre
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squarciato e le budella di fuori, un bastardo di media taglia,
stecchito ormai da un bel po’ di giorni.
Un attimo dopo mi vien da vomitare.
Come intuito, forse anche a causa di quei Campari e gin
bevuti al bar, sento un inarrestabile rigurgito risalire intestino e
trachea fino a spruzzare a fiotti fuori dalla bocca. Ora anch’io
posso dire di aver contribuito al luridume della stanza. Samuel,
invece, è a dir poco commovente. Si vede che ha accusato il
colpo ma, non si sa come, riesce a trattenere il vomito. Strano,
considerando tutto quello che ha bevuto.
«Madre Santissima!», impreca, appoggiando una mano
allo stipite della porta. «Bucatino! Brutto figlio di una troia!
Vieni subito qui!»
«Che c’è?», domanda l’uomo, avvicinandosi a Samuel.
«Come che c’è?», echeggia burbero quest’ultimo. «E
hai pure il coraggio di chiedermelo? Cristo Santo, ci stavi per
ammazzare!»
«Signor Sogliano!», fa Bucatino, intimorito dall’aspro
rimprovero di Samuel. «Ma che ve passa pe’ la testa?»
Un filo di sincerità pare legare l’una all’altra le parole
dell’uomo, il quale, spaurito, china il capo in attesa di ricevere
una severa punizione.
«Dai! Va’ a prendere immediatamente i soldi, sbrigati!»
Bucatino è stato appena graziato. Ma l’ordine imposto
da Samuel somiglia in tutto e per tutto a un ultimatum. Al
tossico è rimasta una sola chance. Che non può né deve
sprecare, a meno che non voglia fare una brutta fine. Bucatino
sembra aver afferrato il concetto e ora vaga in questa specie di
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cloaca in cerca del denaro. Lo osservo, mentre provo ad inalare
ossigeno per riprendermi.
«Eccoli!», esclama Bucatino, correndo verso Samuel
con un rotolo di banconote in mano.
Samuel glielo strappa via, poi ne calcola l’ammontare,
sfogliando uno a uno tutti i fogli filigranati.
«Mi stai prendendo per il culo?», fa, una volta
terminato il conteggio.
«Eh?», domanda esterrefatto Bucatino.
«T’ho chiesto se mi stai prendendo per il culo!», ringhia
Samuel.
«No, signor Sogliano», fa Bucatino, scuotendo
nervosamente la testa. «Ma che state a di’?» Abbozza un
sorriso, ma è chiaro che se la sta facendo sotto.
«E allora che cazzo sono questi?», domanda Samuel,
sventolandogli le banconote sotto il naso.
«È un acconto iniziale dei soldi che ve devo», risponde
Bucatino, estremamente convinto delle sue ragioni.
«È un acconto… Bucati’, non mi sembra d’averti
chiesto un acconto!», fa Samuel, ora nuovamente dell’idea che
essere comprensivi non sia la miglior moneta con cui ottenere
rispetto dagli altri. «Con questi trecento euro mi ci pulisco il
culo, al massimo. Tu me ne devi mille e ottocento, di euro. Il
che significa che ho fatto stramaledettamente bene a dubitare di
te, perché tu sei un fottutissimo bastardo che non ha nemmeno
un briciolo di riconoscenza verso chi tenta d’aiutarlo!»
«Ma no, non dite così», ribatte Bucatino, al solo
pensiero che le parole appena ascoltate possano essere la
premessa di qualcosa di ben più atroce.
99
E in effetti, estratta una pistola da sotto la giacca,
Samuel la punta verso Bucatino, facendolo letteralmente cagare
addosso dalla paura.
«Ah, non dovrei dire così? E che cazzo dovrei dire
allora? Sentiamo!»
Bucatino trema come una foglia di fronte alla canna
della pistola, tesa a pochi centimetri dalla sua testa. Piagnucola,
mentre congiunge le mani in una sorta di preghiera.
«Ve supplico, Soglia’! Ascoltateme!»
Samuel tiene saldamente la pistola. I lamenti di
Bucatino non lo scalfiscono neanche un po’. Comincio anch’io
ad avere paura per quello che sta avvenendo. E se qualcuno ci
avesse visto, se ci avesse anche solo sentito? Un altro al mio
posto se la sarebbe già data a gambe. Ma io no, sono un vero
coglione, non ce la faccio neppure a muovermi.
«E no, Bucatino! Ora m’hai veramente stufato.» Samuel
sembra davvero offeso. La sua fiducia è stata tradita nella
maniera più becera possibile. «Per me le parole hanno un certo
peso. E io ho creduto ciecamente alle tue. Ma cos’ho ottenuto
in cambio? Un bel cazzo su per il culo, a quanto pare.»
«Perdonateme!», fa Bucatino, con un’aria da derelitto.
La sua dignità è ormai pronta a essere calpestata da chiunque
desideri farlo. Per gente come lui, del resto, vivere una vita da
pecora piuttosto che morire in fretta da leone sembra una cosa
già scritta a caratteri cubitali nel proprio firmamento.
«Fateme una proroga», prosegue, con le lacrime agli
occhi, mentre un odore acre di pipì si sprigiona dai suoi
pantaloni. «Me basta ‘na settimana. Una settimana e ve ridò
tutto.»
100
«Certo, come no!», fa Samuel. Dalla mia postazione
riesco ad ammirare la sua postura statuaria. L’arma che tiene in
pugno sembra una naturale protesi del suo arto superiore, un
tutt’uno col suo corpo marmoreo. «Una settimana ancora, è
vero? Come m’hai già promesso la settimana scorsa e quella
prima ancora. Te ne sei approfittato troppo, Bucati’. E ora non
sono più disposto a farmi fregare da uno sfigato come te.»
Mentre il pollice della mano destra toglie la sicura, la
mia mente sembra preannunciare la scena. Vedo Samuel, lo
spietato braccio destro della morte, sparare un colpo. E poi
Bucatino, sprofondato in una pozza di sangue, diventare il
pasto nudo di corvi e sciacalli.
«Ehi!», intervengo, tentando di far cambiare idea al mio
compagno. Le sue non sono più delle intimidazioni fini a se
stesse, ma le reali smanie di un assassino perverso. «Non
dobbiamo mica adottare una soluzione così drastica, no?»
«Tu non t’impicciare!», fa Samuel, non variando di un
solo millimetro la sua posa perfetta. «So io come ci si comporta
con dei fetenti come lui.»
«Se lo uccidi, chi ci ridarà i soldi?», insisto,
intenzionato a boicottare in ogni modo il suo piano.
La mia intuizione regala un barlume di speranza nel
volto sfiduciato di Bucatino. «Già, è vero!», esclama. «Voi
mica me potete uccide’ così.»
«Sta’ zitto!» L’espressione fiduciosa di Bucatino viene
immediatamente cancellata dal rimbrotto di Samuel. «Nessuno
t’ha dato il permesso di parlare. E comunque, se proprio lo
vuoi sapere, non ho nessuna intenzione d’ammazzarti», spiega,
101
riaccendendo una luce negli occhi del povero drogato. «Ti
sparo solo alle palle.»
«Cosa?», domandiamo sia io che Bucatino, in perfetta
sincronia, disgustati, allibiti, pietrificati (anche se, è naturale,
per motivi molto diversi) da questa sconcertante affermazione.
«Tanto a che ti servono?», chiede Samuel, rivolgendosi
al suo bersaglio. «L’hai detto tu che non scopi da una vita. Che
ti cambia se rimani senza?»
Una lacrima sgorga dagli occhi increduli di Bucatino.
«No, ve prego, non lo fate!»
Le sue preghiere lasciano totalmente indifferente
Samuel, che anzi sta covando un irrefrenabile desiderio di
violenza. L’amore cristiano, se mai è esistito in lui, ora ha
lasciato il posto a un inequivocabile sadismo. Mi fa paura il suo
sguardo, puntato assieme alla canna della pistola sui gioielli di
famiglia di Bucatino.
«Conto fino a tre e poi sparo.»
Sono in una di quelle situazioni a cui mai avrei
immaginato di assistere. Ritrovarmi davanti a un pazzo che
vuole imbottire di piombo lo scroto di un tossicodipendente,
zoofilo, necrofilo e chissà cos’altro: capirete da soli il mio
totale sbigottimento.
«Uno...»
Il volto paralizzato di Bucatino nasconde il terrore per
l’imminente atrocità a cui è destinato. La sua identità sarà ben
presto sconvolta da una pallottola che gli perforerà i testicoli,
causandogli una sterilità permanente.
«Due...»
102
Di fronte a quest’uomo si sta spalancando una porta che
lo condurrà verso sentieri inesplorati. Uno strano silenzio,
intanto, avvolge lo spazio che ci circonda. Non sento né urla né
pianti, solo un rantolo straziato, intrappolato in un odore che mi
ricorda qualcosa: merda.
«E tre!»
103
Capitolo XIII
In onda su un’emittente nazionale, uno di fianco all’altro sulla
propria poltrona rossa, con quelle pance da pettirosso da cui
spuntano delle ridicole zampette, uno stormo di giurassici
mentecatti ciangotta insensatamente di tematiche giovanili.
Almeno, questo è quello che credono loro. In realtà, è già un
miracolo riuscire a non perdere il filo del discorso. Parlano di
Internet, di bullismo, di stupri di massa, di stragi del sabato
sera, di alcol e di droghe, creando un guazzabuglio di interventi
a dir poco imbarazzante.
«Che merde!»
La serata, come una vecchia ramazza stanca, prosegue il
suo pesante incedere, trascinando con sé polveri di noia e
malessere allo stato puro. È quasi l’una di notte, oramai, qui a
Perugia. Ma un orario vale l’altro per chi, come me, ha quasi
terminato un grammo di fumo, due bottiglie di Syrah e un
pacco pieno di dolci fatti a mano. Me li ha dati la signora
Mariotti mentre rientravo a casa. Mi ha tenuto sulla porta per
quasi mezz’ora, raccontandomi di quel suo unico figlio che non
fa altro che darle preoccupazioni. Una pugnetta infinita,
credetemi. Almeno i dolci che mi ha regalato sono buoni, ma
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non a tal punto da cancellare il ricordo di quanto avvenuto al
povero Bucatino. Sento ancora il cuore che mi palpita dentro
come il motore di un catorcio in salita. Faccio fumo da tutte le
parti. Prima o poi salterò in aria, ci scommetto.
Per rimettermi in sesto, erba, dolci e vino, da soli, non
basteranno. Dormire, ecco cosa mi ci vorrebbe. Le ombre della
notte mi terrebbero alla larga dai miei mostri quotidiani,
saprebbero gettarmi una corda per tirarmi fuori da questo
inferno. Solo dormendo, supererei il trauma dei miei ultimi
mesi, cancellerei ogni lato del loro perimetro, ogni centimetro
quadrato della loro schifosissima area. Vorrei risvegliarmi
domattina e aver rimosso tutto quanto. Potrei raccomandarmi a
qualcuno, forse. Già, ma a chi? Vi prego, non parlatemi
dell’Onnipotente. Vedete, sono piuttosto scettico sulla sua
esistenza. Del resto, qualcuno di voi lo ha per caso visto dove
ci sono guerre, stragi, carestie, pestilenze? No, eh? Ma dai, che
strano!
Ok, è vero. Il male è ovunque e dilaga come un virus
pandemico. Ma la responsabilità non può essere soltanto la
nostra, no? Un bambino può sbagliare, ma un genitore non può
mica lasciarlo solo nell’errore. Così Dio con noi. Perché non so
cosa ne pensiate, ma a me sembra che siamo stati tutti
abbandonati al nostro destino.
E quindi… sì, insomma... se noi…
Oh, merda! Ho bevuto troppo vino. Oltre al fegato, ‘sta
roba mi fotterà anche il cervello, già lo so.
Sdraiato su un fianco sopra al letto, torno allora a far da
spettatore al biasimevole talk-show televisivo attualmente in
onda, intrappolato nei contorti labirinti elaborati dall’alcol e dal
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thc, inquieto e confuso come forse qualche migliaio di volte mi
è capitato di ritrovarmi in passato. Passa il tempo, ma certe
cose rimangono uguali. Sono io, in realtà, che non cambio mai.
Sempre qui a vivere le mie solite serate autodistruttive, con le
droghe o l’alcol a far la parte dell’arrosto e tutto il resto, poco
importa cosa, come contorno. Quasi sempre è la musica ad
accompagnare il tutto. Stavolta (come raramente accade, a dire
il vero) spetta alla televisione tenermi compagnia. Stretto tra i
seni dell’ozio, torno dunque a imprigionare lo sguardo
nell’asfissiante cornice del piccolo schermo.
Il conduttore del programma tiene la scena con
impeccabile maestria. Guida i marchingegni della trasmissione
meccanicamente, riducendo all’osso le improvvisazioni e la
spontaneità degli interventi. È accondiscendente e rassicurante
con ciascuno dei suoi ospiti. Schiva slogan elettorali,
nonostante gli piovano addosso da tutte le parti. Li elude,
evitando così di prendere qualunque posizione. È
indifferentemente conciliante con tutti e nel farlo risulta
abilissimo. Non comprendo appieno se il suo neutrale
atteggiamento sia davvero un modo per imporre obiettività e
correttezza deontologica al programma o piuttosto serva ad
accontentare tutti indistintamente, forse perché timoroso di
togliere i panni del presunto mediatore super partes e di
schierarsi seguendo soltanto la sua coscienza. Proprio non
capisco come un uomo possa non avvertire la necessità di
esprimere il proprio giudizio. È come se preferisse rimanere in
eterno su una mezzeria, anziché scegliere di attraversare una
delle due corsie. Così, per paura di essere investito, se ne sta
fermo, impotente e frigido su un’ipocrita striscia di mezzo.
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Uno che non sa scegliere, secondo me, non può ritenersi un
uomo libero.
«Tolleranza zero!», sbraita uno degli ospiti da dentro il
suo doppiopetto gessato.
«La storia ci insegna che tutte le politiche
proibizionistiche si sono rivelate delle armi a doppio taglio»,
ribatte un altro, sistemandosi gli occhiali da vista sul naso. I
due paiono riscuotere, in eque proporzioni, mugugni e applausi
da parte del pubblico in studio, comparse ubriache di retorica,
impegnate soltanto a pensare a come spendere al meglio il
compenso già pattuito prima della trasmissione.
«Razza di burattini!»
I soldi infettano ogni millimetro cubo della nostra vita.
È questo il male della società di oggi. Nessuno fa più le cose
per passione. Prendete gli ospiti di questo talk show. Nessuno
vuole affrontare la questione nella sua interezza. Ci girano
attorno, come furbi compassi a debita distanza dal punto
focale, pavidi a uscire dal cerchio da loro stessi calcato. Le loro
dichiarazioni non aggiungono nulla di nuovo alle altre migliaia
rilasciate in passato dai propri colleghi. Da anni si dicono
sempre le stesse cose, ci si pongono sempre le solite, inutili
domande. Il fatto è che nessuno vuole puntare il dito laddove
invece andrebbe fatto. Non si fa chiarezza, perché nessuno ha
veramente intenzione di farla. Esiste infatti una losca e
spropositata faccenda di interessi che dovremmo conoscere, ma
che nessuno ci racconta o che in alcuni casi non abbiamo
nemmeno voglia di stare a sentire. La verità è come la nicotina
dentro una sigaretta: ci arriva, ma attraverso un filtro. Troppe
sono le verità che nessuno avrebbe mai il buon senso di lasciar
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trapelare. Del resto, il popolo è succube delle menzogne dei
potenti, assuefatto a una droga ben più pericolosa: la
televisione.
Smettiamola allora di porci ripetutamente la domanda
sbagliata. Non è importante chiederci se il Paese può avere
un’opinione pubblica colta e addestrata. Ciò su cui dobbiamo
interrogarci è se i nostri governanti vogliono davvero
un’opinione pubblica informata. Perché, diciamo come stanno
veramente le cose: persino in un regime democratico come
apparentemente lo è il nostro, non c’è alcun interesse affinché
tutti condividano le stesse, corrette informazioni. La libertà
costituisce il principale accesso alla conoscenza. E nessuno (né
lo Stato, né le lobby, né le multinazionali, né i criminali) vuole
vederci liberi. Per questo ci hanno narcotizzato attraverso il più
efficace mezzo a disposizione dei potenti: la televisione,
appunto, il più diabolico strumento mai realizzato.
Porca troia, Lou! Ora stai svalvolando sul serio. Lascia
perdere quel vino e vattene immediatamente a letto.
E invece no, resisto. Voglio vedere fino a che punto
posso arrivare. Stasera voglio toccare il fondo.
Verso quello che rimane dello Syrah nel bicchiere e lo
butto giù tutto d’un sorso, prima di tornare a fissare il monitor
come un vero rincoglionito, cercando di non pensare troppo a
domani e a tutto quello che verrà.
“Dio provvede!”, diceva sempre mia madre, ancora me
lo ricordo. Secondo lei, la fede è sempre stata la soluzione a
tutto. In fin dei conti, si vive proprio così, a pezzetti,
incastrando tra loro i minuti, le ore, i giorni. La vita è tutto un
incastro di momenti, bisogna accettarlo. È solo che gran parte
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dei momenti che ho vissuto io sono impregnati di così tanto
odio e rancore che non potete nemmeno immaginare. Era
facilmente prevedibile che finissi così: sprofondato nel caos più
totale.
È da un bel pezzo che mi va tutto storto. E la rabbia
infuria. Tanta, troppa rabbia dentro di me. Ho perso la rotta, sto
andando alla deriva. Navigo con un carico di rabbia verso non
so dove. Una cosa orribile. A volte ho un paio di giorni di
buonumore. Potrei continuare così anche dopo. E invece no. Mi
sento sempre più arrabbiato. E così do di matto.
Intanto, omertoso nella sua finzione, imbalsamato nella
sua mimica sempre uguale e compassata, il conduttore
televisivo sta proseguendo imperterrito il suo ammiccamento
nei confronti degli ospiti con perfetta eleganza e straordinario
automatismo. Non traspare alcunché dal suo volto, una
maschera di lattice creata in qualche sala operatoria e
perfezionata di volta in volta in camerino. Le navigate
espressioni da star del piccolo schermo e le smaglianti pose da
copertina risulteranno assai utili ad accrescere il proprio
divismo mediatico. Verrebbe del tutto naturale dilettarsi a
edificare degli insulti colossali nei suoi riguardi e in quelli
degli altri partecipanti alla trasmissione. Ma sinceramente mi
son rotto di tutta questa farsa.
Afferrato il telecomando, comincio uno zapping
nevrotico, tra colluttazioni visive e coliche intestinali, nella
flebile speranza di rinvenire qualcosa di minimamente
interessante, ormai in corsa sulla desolata strada che conduce al
vuoto cosmico. Repliche di programmi diurni, vecchi telefilm,
televendite di tappeti, sport acquatici, linee hot a pagamento,
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backstage di chissà quale spettacolo teatrale, sceneggiate
napoletane. D’improvviso, senza nemmeno accorgermene,
metto fine a questa mostra delle atrocità, restituendo così alla
stanza il dignitoso silenzio che merita.
Spenta la televisione, riscopro finalmente quello stato
neutro delle cose dove tutto sembra diverso, ora che
l’incantesimo della piazza è di colpo spezzato e la mente si è
liberata da tutta quell’irrilevante massa di simboli che
incessantemente ci sopraffanno e ci confondono, che ci
impediscono di filtrare quel misero rigagnolo di percezioni
realmente considerevoli.
Sono alla frutta. Senza una famiglia, senza amici, senza
lavoro, senza una donna, senza un cazzo di niente da fare.
Solo.
Non mi rimane altro che morire.
Sarebbe come cadere in un sonno alcolico.
Sarebbe meraviglioso.
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Indice
Prologo…………………………………………………... 7
Capitolo I………………………………………………... 8
Capitolo II……………………………………………….. 15
Capitolo III………………………………………………. 20
Capitolo IV……………………………………………… 25
Capitolo V………………………………………………. 37
Capitolo VI……………………………………………… 46
Capitolo VII……………………………………………... 53
Capitolo VIII……………………………………………. 60
Capitolo IX……………………………………………… 69
Capitolo X………………………………………………. 76
Capitolo XI……………………………………………… 87
Capitolo XII……………………………………………... 96
Capitolo XIII……………………………………………. 103