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INTRODUZIONE Wilfrid Sellars e Helmuth Plessner, come dire due tradizioni a confronto su di uno stesso tema, due mondi e due modi filosofici che si incontrano e si incrociano apparentemente senza sfiorarsi ma offrendosi in realtà reciproci contributi critici e metodologici; dimensione analitica e approccio “continentale” allineati e convocati per far fronte allo stesso problema, messi dinanzi alla stessa questione in attesa che dal loro contatto possa emergere non tanto una nuova risposta definitivamente risolutiva ma piuttosto un inedito orizzonte di domanda all'interno del quale muoversi forti di una consapevolezza euristica che sia in grado di proporre nuovi scenari speculativi, impreviste latitudini di riflessione e problematizzazione, più o meno rivoluzionarie ipotesi di pensiero grazie a cui impostare la questione “uomo” in tutta la sua ricchezza e contraddittorietà, in tutta la sua mutevolezza e trasversalità, in tutta la sua urgenza e elusività. Wilfrid Sellars e Helmuth Plessner rappresentano allora i due cardini di una specie di dittico problematico e controverso che qui tentiamo di sviluppare ed articolare nella speranza che dalla loro giustapposizione possano maturare proposte di riflessione caratterizzate da una vivace versatilità metodologica e teoretica. Ma perché tentare un confronto così insolito? Perché scegliere due autori così lontani tra di loro, provenienti da tradizioni di pensiero talmente difformi da risultare ad una prima occhiata praticamente inconciliabili e non passibili di collimazione? Perché postulare una possibile convergenza tra due approcci speculativi che sembrano respingersi a vicenda o quantomeno appaiono separati da una incolmabile distanza metodologica? La risposta non è né scontata né intuitiva, ma va detto innanzitutto che l'azzardo tentato in tale dittico è la replica ad un'esigenza ormai sempre più radicata e diffusa nel mondo filosofico, quella cioè di fondere le due linee di pensiero – analitica e continentale – in una prospettiva di ricerca che abbia almeno la vocazione all'unità, o che perlomeno sappia padroneggiare e orchestrare apporti euristici di estrazione diversa, di ascendenza varia, di provenienza multipla. Ma oltre a suddetta esigenza metodologica vi è un'altra e più profonda motivazione che ci esorta a cercare una mediazione tra tradizione analitica e continentale: l'entità della questione a cui esse si propongono di rispondere e soprattutto lo statuto di questa questione, l'oggetto polimorfo e sfuggente, indefinibile ma ineludibile, sfumato ma insopprimibile che occupa senza sosta il centro del loro interesse, ovvero l'uomo, il suo futuro, la sua natura, la sua collocazione nel mondo e nel sapere. Sellars e Plessner rappresentano dunque due modi diversi di porre la questione intorno all'uomo, due attitudini di pensiero caratterizzate da criteri e principi propri, profondamente radicati nel contesto teoretico di appartenenza e pertanto sostanzialmente estranee l'una all'altra. Ciò che si tenterà qui allora non sarà assolutamente una indebita commistione delle due metodologie o una innaturale contrazione sincretica dei due approcci, ma piuttosto ci muoveremo cautamente situando al centro della scena qualche aspetto controverso che la questione uomo offre alla nostra attenzione in modo da far ruotare
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Sellars & Plessner, dittico sull'uomo.

May 15, 2023

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Nadine Levratto
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INTRODUZIONE

Wilfrid Sellars e Helmuth Plessner, come dire due tradizioni a confronto su di uno stesso tema, due mondi e due modi filosofici che si incontrano e si incrociano apparentemente senza sfiorarsi ma offrendosi in realtà reciproci contributi critici e metodologici; dimensione analitica e approccio “continentale” allineati e convocati per far fronte allo stesso problema, messi dinanzi alla stessa questione in attesa che dal loro contatto possa emergere non tanto una nuova risposta definitivamente risolutiva ma piuttosto un inedito orizzonte di domanda all'interno del quale muoversi forti di una consapevolezza euristica che sia in grado di proporre nuovi scenari speculativi, impreviste latitudini di riflessione e problematizzazione, più o meno rivoluzionarie ipotesi di pensiero grazie a cui impostare la questione “uomo” in tutta la sua ricchezza e contraddittorietà, in tutta la sua mutevolezza e trasversalità, in tutta la sua urgenza e elusività. Wilfrid Sellars e Helmuth Plessner rappresentano allora i due cardini di una specie di dittico problematico e controverso che qui tentiamo di sviluppare ed articolare nella speranza che dalla loro giustapposizione possano maturare proposte di riflessione caratterizzate da una vivace versatilità metodologica e teoretica. Ma perché tentare un confronto così insolito? Perché scegliere due autori così lontani tra di loro, provenienti da tradizioni di pensiero talmente difformi da risultare ad una prima occhiata praticamente inconciliabili e non passibili di collimazione? Perché postulare una possibile convergenza tra due approcci speculativi che sembrano respingersi a vicenda o quantomeno appaiono separati da una incolmabile distanza metodologica? La risposta non è né scontata né intuitiva, ma va detto innanzitutto che l'azzardo tentato in tale dittico è la replica ad un'esigenza ormai sempre più radicata e diffusa nel mondo filosofico, quella cioè di fondere le due linee di pensiero – analitica e continentale – in una prospettiva di ricerca che abbia almeno la vocazione all'unità, o che perlomeno sappia padroneggiare e orchestrare apporti euristici di estrazione diversa, di ascendenza varia, di provenienza multipla. Ma oltre a suddetta esigenza metodologica vi è un'altra e più profonda motivazione che ci esorta a cercare una mediazione tra tradizione analitica e continentale: l'entità della questione a cui esse si propongono di rispondere e soprattutto lo statuto di questa questione, l'oggetto polimorfo e sfuggente, indefinibile ma ineludibile, sfumato ma insopprimibile che occupa senza sosta il centro del loro interesse, ovvero l'uomo, il suo futuro, la sua natura, la sua collocazione nel mondo e nel sapere. Sellars e Plessner rappresentano dunque due modi diversi di porre la questione intorno all'uomo, due attitudini di pensiero caratterizzate da criteri e principi propri, profondamente radicati nel contesto teoretico di appartenenza e pertanto sostanzialmente estranee l'una all'altra. Ciò che si tenterà qui allora non sarà assolutamente una indebita commistione delle due metodologie o una innaturale contrazione sincretica dei due approcci, ma piuttosto ci muoveremo cautamente situando al centro della scena qualche aspetto controverso che la questione uomo offre alla nostra attenzione in modo da far ruotare

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intorno ad esso le due diverse matrici di pensiero, facendo emergere con chiarezza di volta in volta gli apporti specifici che le caratterizzano. Scopo del dittico che tentiamo qui è dunque quello di far affiorare le due diverse configurazioni del sapere (e dei saperi) che versante analitico e linea continentale propongono in riferimento ad uno stesso polo di interrogazione; esso non ha assolutamente la pretesa di stabilire un primato filosofico dell'uno o dell'altra, né vuole offrirsi quale spazio astratto di incrocio e incontro per sottolineare in modo occasionale le zone di sovrapponibilità dei due paradigmi in gioco. Tale dittico nasce da una sfida timidamente raccolta dallo scrivente per mostrare che al di là delle profonde divergenze teoretiche e delle radicate difformità di impostazione è possibile postulare un modo di pensare che sappia prendere in considerazione elementi afferenti a dimensioni speculative diverse e lontane, elementi che non sempre devono risultare totalmente conciliabili o assimilabili in un unico modello di riflessione in cui essi risultino assorbiti senza residuo, ma possono concorrere a chiarificare e precisare i termini del problema pur rimanendo essi organicamente dipendenti dalla matrice di derivazione. Sellars e Plessner diventano così ai nostri occhi gli esponenti di due atteggiamenti problematizzanti che pur mirando allo stesso oggetto – l'uomo e la sua posizione nel controverso spazio di ricerca che si muove senza sosta tra la filosofia, le scienze esatte, la tecnologia, le discipline di “indole morale”, la società e la storia – lo inquadrano e lo colgono secondo angolature reciprocamente difformi, suggerendo prospettive d'analisi e strategie di valutazione critica probabilmente irriducibili l'una all'altra. Alla luce di quanto appena esposto possiamo affermare che saremo davvero riusciti nel nostro intento se alla fine di questa breve (e assolutamente non esaustiva) indagine comparativa ad affiorare con una certa nitidezza saranno i punti di forza, gli snodi teoretici portanti, le linee di sviluppo capaci di sopportare l'urto e l'erosione di vari rilievi critici, il nocciolo duro dei rispettivi modelli speculativi da cui poi eventualmente ripartire per postulare le possibilità di strutturare un ponte attraverso cui passare da un paradigma ad un altro, consapevoli del fatto che da questo ipotetico interscambio la filosofia non potrà trarne che fertile giovamento.

Procederemo quindi con ordine prendendo in esame dapprima l'operetta di Sellars analizzata secondo le sue articolazioni sottili e minute al fine di vedere come questa si situi nel panorama analitico e quanto essa sia debitrice a quest'ultimo per quanto riguarda il modo d'impostare il problema; ma tenteremo anche di mettere in luce i vari punti di rottura che suddetta opera intrattiene con lo sfondo di derivazione, sottolineando quanto la versione sellarsiana dell'approccio propriamente analitico sia piuttosto insolito o comunque non totalmente ascrivibile ad esso. In seconda battuta ci occuperemo invece del contributo dato da Plessner al problema uomo cercando di tratteggiarne un rapido seppur puntuale profilo critico che risulti in grado di mostrare al contempo il rigore metodologico messo in campo dal filosofo tedesco nell'affrontare la questione in gioco, nonché la sua raffinatissima capacità di sviluppare nel tempo un discorso speculativo alquanto mosso e dinamico, in grado quindi di misurarsi col nodo problematico secondo punti di vista diversi e variabili.

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Il dittico che ci proponiamo di mettere in campo affronterà dunque i due autori separatamente e solo in sede di conclusioni cercherà di intercettare dei margini di convergenza e consonanza tematica forse rimasti occulti o quantomeno impliciti bel corso dell'indagine. Non si tratta quindi di un confronto serrato e puntuale tra due metodologie reciprocamente estranee, ma piuttosto siamo intenzionati a evidenziare le peculiarità di ciascun modello d'analisi del problema in vista di una ricognizione finale che si strutturi solo in sede di conclusioni secondo una logica sottilmente comparativa attraverso cui ampliare la nostra conoscenza dei due paesaggi culturali chiamati in causa.

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1. SELLARS: LA SINOSSI e L'ANALISI

Pubblicato per la prima volta nel 1962 all'interno di una silloge di interventi dal titolo emblematico di Frontiers of Science and Philosophy a cura di Colodny e ripubblicato l'anno dopo come sezione introduttiva del più ampio Science, Perception and Reality, il saggio che ci apprestiamo ad analizzare rappresenta senza dubbio uno dei punti più alti raggiunti dalla riflessione sellarsiana. In esso l'autore non solo organizza una serie di considerazioni che fanno il punto sulla sua carriera filosofica così come si era venuta a dispiegare nei decenni immediatamente precedenti ma coglie anche l'occasione per stilare una sorta di manifesto programmatico per una riflessione aperta alle sfide del futuro, disponibile a intrattenere un dialogo fecondo seppur critico con discipline e metodi e provenienti da regioni diverse del campo del sapere. Nonostante la sua densissima brevità Philosophy and the Scientific Image of Man costituisce così uno snodo cruciale sia all'interno del pensiero sellarsiano, di cui - come già detto – fa una sorta di rapido riepilogo, sia nel più vasto panorama analitico all'interno del quale si pone prospettandovi delle soluzioni di natura euristico-teoretica che non possono assolutamente essere tralasciate. Proprio alla luce di tale doppia natura va rilevata la prima caratteristica saliente di questa opera, ovvero la sua compatta sistematicità: a differenza di molti filosofi analitici, Sellars da sempre si è contraddistinto quale pensatore che pur orientandosi di volta in volta su problemi e questioni autonome gli uni dagli altri ha sempre mirato ad una certa coerenza di fondo nel pervenire alle conclusioni, organizzando così un personalissimo quadro speculativo variegato ma coeso. E questa propensione alla sistematicità emerge proprio prendendo in esame il percorso ragionativo che il filosofo mette in piede nel corso del saggio: in esso le due immagini dell'uomo sono le due grandi rubriche all'interno delle quali raccogliere e sistematizzare vari elementi e diverse nozioni che, ad una prima occhiata, sarebbero potute sembrare del tutto slegate e inassimilabili in un discorso più ampio e articolato. Ma come è possibile pervenire a tale organicità interna? In che modo possiamo raggiungere un grado di connessione tra i vari elementi in gioco di un problema tale che la soluzione proposta risulti sistematicamente calibrata e strutturalmente coerente? Sellars non ha dubbi e nel rispondere a questa domanda non può che delineare un folgorante quadro gnoseologico della propria concezione del lavoro filosofico:

“Lo scopo della filosofia, formulato astrattamente, è comprendere come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stiano insieme […]. Avere successo in filosofia vuol dire, per usare un odierno giro di parole, “sapersi orientare” rispetto a tutte queste cose […] in modo riflessivo”1.

Con queste parole siamo già penetrati all'interno di tutta la problematica entro cui si

1 WILFRID SELLARS, La filosofia e l'immagine scientifica dell'uomo, ed it a cura di Alessandro Gatti, Armando Editore, Roma, 2007, pp. 27-28.

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muoverà Sellars nel resto del saggio: sapersi orientare in modo riflessivo significa innanzitutto saper passare, nella migliore tradizione analitica, dal now that al now how, ovvero saper organizzare una dimensione di pensiero capace di orchestrare una serie di verità e cognizioni sostantive le quali vengono tenute insieme da parametri procedurali stabili e flessibili all'interno dei quali esse trovano e svolgono una funzione precisa e circostanziata. Sellars prospetta qui delle linee di metodo che poi saranno fatte proprie da tutta la tradizione analitica a lui posteriore, risalendo egli però a sua volta verso delle matrici speculative proprie dei “padri fondatori” della compagine analitica, primo tra tutti Ayer, il quale fu uno dei primi a proporre la distinzione tra know that e know how. Da ciò consegue che ogni sapere oltre a soffermarsi sull'oggetto che occupa il centro del suo campo deve possedere un arsenale euristico, una strumentazione critica che sappia permettere il vaglio dell'oggetto stesso: ogni sapere pertanto occupa un posto specifico all'interno del vasto paesaggio culturale e tale posto specifico, fuor di metafora, altro non è che lo spazio proprio delle cosiddette discipline speciali:

“E' chiaro che le discipline speciali sanno orientarsi entro i propri domini d'indagine, e ciascuna di esse impara a farlo nel corso del processo che conduce alla scoperta di verità concernenti il loro specifico oggetto”2.

Ma che ne è a questo punto della filosofia?

a) Preliminari di metodo

Rispetto alle discipline speciali, la riflessione filosofica manca di un suo oggetto specifico in quanto il suo vero ed arduo compito è quello di saper cogliere il sistema del sapere (o meglio, dei saperi) nella sua interezza, attraverso cioè uno sguardo al tutto, una sorta di veduta generale ove, pur rimanendo intatte le diverse giurisdizioni, siano evidenti anche le linee di continuità e le zone di interconnessione che saldano i vari territori particolari. Pur rivestendo questo ruolo privilegiato tuttavia la filosofia si trova a dover svolgere un ulteriore compito di particolare responsabilità teoretica: essa non solo è in grado di gettare un'occhiata panoramica sulle varie regioni del sapere, ma deve anche penetrare in esse analizzandone al dettaglio i contenuti. Il risultato di questo insolito stato di cose è che la filosofia al tempo stesso dovrebbe svilupparsi ora con un'attitudine tendente alla sintesi dei vari saperi, ora con un'intenzione ostinatamente analitica rivolta ad essi, così che il suo statuto verrebbe a delinearsi come intrinsecamente controverso e paradossale:

“Se interpretiamo “analisi” sulla scorta dell'analogia con il tracciare mappe con una scala sempre più piccola dello stesso territorio complessivo […] resta pur sempre qualcosa di stridente, poiché dovremmo assimilare la filosofia al tracciare mappe con scala sempre più piccola a partire da una mappa originaria con grande scala”3.

2 Ivi, p. 29.3 Ivi, p. 32.

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Come uscire allora da questa impasse? Sellars sa bene che entrambe le posizioni, colte da una certa angolatura metodologica, appartengono effettivamente al modus operandi proprio della filosofia, e sa altrettanto bene che la linea di frattura tra analitici e continentali corre proprio lungo il paradosso appena messo in luce. Tuttavia per risolvere la querelle non basta giustapporre semplicemente quelle due modalità d'indagine, ma è necessario un previo lavoro di ripulitura concettuale. Nell'intraprendere quest'ultimo Sellars ricorre ad un'altra analogia, quella della visione stereoscopica:

“nella quale due differenti prospettive su di un territorio vengono fuse in un'esperienza coerente, [così che] il filosofo non è posto di fronte ad un'unica immagine pluri-dimensionale, al cui unità egli deve giungere a riconoscere nei suoi effettivi tratti; egli si trova piuttosto al cospetto di due immagini, che possiedono essenzialmente lo stesso grado di complessità, ciascuna delle quali si comporta come un'immagine completa […] che egli deve fondere in un'unica visione dopo averle esaminate separatamente”4.

Siamo di fronte ad un passaggio logico cardinale, già preannunciato da una scelta lessicale precisa e sintomatica del nuovo modo di prospettare le cose suggerito da Sellars: come visto poco sopra, riferirsi al duplice compito della filosofia in termini di analisi/sintesi è fuorviante; di gran lunga preferibile è affiancare all'operazione propriamente analitica la vocazione a cogliere il reale secondo una visione sinottica. Ma perché questo salto semantico? La sinossi, almeno così come è intesa da Sellars, è quella specifica capacità di coordinazione molteplice e versatile, emendabile e integrativa che la filosofia può permettersi nel momento in cui essa si trova dinanzi alla ricchezza inesauribile del mondo. Ma ancora più importante è parlare di un'immagine sinottica, dal momento che se la sinossi, come visto, ci consente di maneggiare uno strumento particolarmente plastico, la nozione di immagine ci permette di individuare all'interno dell'arsenale euristico proprio della filosofia due operazioni complementari e concordi, seppur nettamente distinte l'una dall'altra:

Il termine “immagine” è utilmente ambiguo. Da un lato esso suggerisce il contrasto tra un oggetto […] e una proiezione dell'oggetto: […] in tal senso, un'immagine è un esistente tanto quanto lo è l'oggetto raffigurato, benché esso abbia, ovviamente, uno statuto dipendente. Nell'altro senso invece una “immagine” è qualcosa che viene immaginato, e ciò che viene immaginato può tranquillamente non esistere, mentre esiste l'atto di immaginarlo – nel qual caso parliamo dell'immagine come qualcosa di meramente immaginario o irreale”5.

Attraverso l'immagine abbiamo dunque una perfetta metafora del concepire, cioè dell'attività precipua svolta dal filosofo ed è proprio tenendo presente tale metafora che, sulle orme di Sellars, possiamo finalmente penetrare nel vivo del saggio in esame.

4 Ivi, p. 34.5 Ivi, p. 35.

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b) L'immagine manifesta.

Una volta assimilato l'impianto euristico messo in piedi da Sellars, è necessario dedicarsi all'oggetto preso in esame, nello specifico l'uomo e in particolare la doppia immagine che ognuno di noi è naturalmente portato a farsi di esso: un'immagine manifesta e un'immagine scientifica. Per il momento ci soffermeremo soltanto sulla prima delineandone caratteri e peculiarità, analizzandone aspetti salienti e nodi problematici al fine di chiarirne con la massima cura la fisionomia. Partiamo pertanto da una definizione piuttosto generica ma operativamente pregnante: per immagine manifesta deve intendersi innanzitutto la cornice concettuale in seno alla quale l'uomo giunge ad essere consapevole di se stesso come uomo-nel-mondo, ovvero è la cornice concettuale secondo i termini della quale l'uomo ha incontrato se stesso. Per cornice concettuale qui bisogna intendere un costrutto teorico particolarmente saldo e robusto, passibile di continuo vaglio critico all'interno del quale sia possibile proiettare la pensabilità di un oggetto secondo parametri di correttezza, pertinenza e evidenza. Che cosa designano questi tre connotati? Per capirlo è doverosa innanzitutto una precisazione: con immagine manifesta non bisogna assolutamente intendere una nozione ingenua, immediatamente intuitiva, pre-riflessiva o pre-categoriale, ma piuttosto con essa Sellars tende già a riferirsi ad una raffinata concettualizzazione critica:

“Ciò che intendo per immagine manifesta è infatti un perfezionamento o elaborazione di quella che si potrebbe chiamare immagine “originale”; un perfezionamento che raggiunge un grado tale da fare sì che questa immagine abbia rilevanza nella scena intellettuale contemporanea. Questo perfezionamento o elaborazione può venire interpretato alla luce di due diverse qualificazioni: a) empirica, b) categoriale”6.

Si tratta di una distinzione importantissima, poiché è sviluppando tale differenziazione che Sellars arriva a tratteggiare in modo congruo e capillare la natura di terminale ermeneutico propria dell'immagine manifesta. Con perfezionamento empirico bisogna intendere quel tipo di elaborazione e raffinamento critico che opera all'interno dell'immagine considerata nella sua massima estensione; esso annovera una varia metodologia d'analisi che va dalle inferenze induttive alle inferenze statistiche, le quali, proprio a causa del lor statuto epistemologico debole, sono in grado di modificare sempre in modo più o meno rilevante l'immagine entro cui si trovano ad intervenire. È proprio in forza di tale puntuale disciplinamento critico che Sellars ha potuto riconoscere i tre parametri esplicitati poco sopra: l'immagine manifesta cioè non potrebbe aspirare alla correttezza e alla pertinenza se non fosse già stata oggetto di un vaglio analiticamente mirato, così che, andando a tirare delle conclusioni provvisorie, possiamo affermare che l'immagine manifesta è già una nozione sulla quale operano elementi scientificamente validi:6 Ivi, p. 38.

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“L'immagine manifesta [può essere concepita] come la mappa su larga scala della realtà [dell'uomo], a cui la scienza apporta una fitta trama di dettagli e un'elaborata tecnica di lettura della mappa stessa”7.

Passando invece al perfezionamento categoriale, il discorso al tempo stesso si precisa e si amplia. Se col perfezionamento empirico avevamo visto che ad essere messa in gioco era l'immagine manifesta globale - la quale era sottoposta ad un continuo lavorìo di rilettura e rimaneggiamento - con questo nuovo tipo di perfezionamento l'analisi è costretta a scendere in profondità andando a toccare gli oggetti base della cornice:

“Domandarsi quali sono gli oggetti base di una (data) cornice non significa richiedere una lista, ma una classificazione. E la classificazione sarà più o meno astratta a seconda dello scopo della ricerca: il filosofo è interessato a una classificazione più o meno astratta da consentire una visione sinottica dei contenuti della cornice”8.

A questo punto il procedimento di indagine sellarsiano muta radicalmente; se fino ad ora esso si era mosso oscillando sempre tra elementi di carattere strettamente scientifico e nozioni di ascendenza teoretico-filosofica, coll'entrata in campo della classificazione assistiamo al debutto di considerazioni di natura propriamente storico-storiografico. Sganciandosi da un modus operandi di impostazione integralmente analitica, Sellars sceglie di virare verso la storia perché sa bene che gli oggetti di base di una data cornice, e in particolare gli oggetti di base di una cornice concettuale che mira a circoscrivere l'uomo, non possono non essere soggetti a variazioni continue e progressive dovute all'evoluzione scientifica, la quale, nel corso del suo procedere, precisa sempre con più chiarezza alcuni caratteri salienti e ineludibili la cui pregnanza teoretica è indispensabile per identificare ciò che scegliamo di far rientrare nello schema concettuale dell'uomo. Forte di questo ulteriore ampliamento metodologico, Sellars prospetta recisamente il suo punto di vista: la sempre più dettagliata ricerca scientifica ha portato ad una prima grande differenziazione, quella tra persone e non persone:

“Il primo punto che voglio sollevare è che c'è un senso importante nel quale gli oggetti primari dell'immagine manifesta sono le persone. […] Da questo punto di vista, il perfezionamento dell'immagine originale che ha dato luogo all'immagine manifesta è la graduale de-personalizzazione degli oggetti diversi dalle persone”9.

Sviluppando un rapidissimo excursus storico - che ricorda per molti versi le analisi di Cassirer nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche, dedicato al pensiero mitico – Sellars mostra come la categoria di persona si è andata definendo restringendosi sempre più fino ad includere solo determinate entità che possedessero specifiche attitudini.

7 Ivi, p. 41.8 Ivi, p. 44.9 Ibid.

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Afferma infatti l'autore:

“Per comprendere l'immagine manifesta come un perfezionamento o una de-personalizzazione […] dobbiamo tenere bene a mente lo spettro di attività che sono caratteristiche di una persona. Dal momento che, quando dico che gli oggetti dell'immagine manifesta sono primariamente le persone, sto suggerendo che quello che gli oggetti di questa cornice primariamente sono e fanno è il tipo di cose che le persone sono e fanno”10.

Naturalmente Sellars non elenca nello specifico tutte le caratteristiche portanti della persona, ma si limita ad evidenziarne alcune, le più evidenti, tra cui la capacità di deliberazione occupa senza dubbio un posto centrale. Indipendentemente dai caratteri distintivi però ciò che è importante ai fini delle analisi sellarsiane è il procedimento che queste attuano per arrivare a definire l'immagine manifesta. Facendo un piccolo riepilogo possiamo quindi notare come a Sellars prema innanzitutto mostrare che tra i due tipi di immagine la discriminante non sia la presenza o meno di apporti genuinamente scientifici in esse, ma piuttosto il diverso modo di ottenere e far funzionare questi apporti. Correttezza, pertinenza ed evidenza, declinate all'interno di perfezionamento empirico e categoriale, tratteggiano un'immagine manifesta già dotata di un altissimo tasso di scientificità, ma del tutto dissimile da quella operante nella immagine propriamente scientifica. L'immagine manifesta quindi è una cornice complessa e mutevole che si modifica in modo metodologicamente sorvegliato e criticamente orientato. b) L'immagine scientifica.

Stabilire la fisionomia speculativa dell'immagine scientifica è tutt'altro che semplice. Ecco come Sellars la introduce:

“la concezione dell'immagine scientifica o postulazionale è un'idealizzazione nel senso che in essa si concepisce un'integrazione di una molteplicità di immagini, ognuna delle quali è l'applicazione all'uomo di una cornice di concetti dotata di una certa autonomia. Dal punto di vista metodologico, ciascuna teoria scientifica è una struttura che viene costruita in un diverso luogo e sulla base di differenti procedure. […] L'immagine scientifica è pertanto un costrutto teorico a partire da una varietà di immagini, ognuna delle quali ha il suo supporto nell'immagine manifesta”11.

Da questo estratto emergono molti aspetti rilevanti della nuova immagine di cui ci stiamo occupando:

innanzitutto essa è postulazionale, in quanto la sua esistenza deriva da assunti e presupposti, entità ed elementi che solo su di un piano ipotetico si suppone concorrano a formare uno schema concettuale unitario e omogeneo.

Con l'immagine scientifica accediamo ad un universo di riflessioni particolarmente

10 Ivi, p. 48.11 Ivi, p. 65.

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rarefatto, dal momento che non solo molte volte i costituenti specifici che entrano in gioco esistono ad un livello di realtà microscopico e non facilmente accertabile, ma spesso anche l'insieme organico di interconnessioni e correlazioni che tali entità intrattengono tra di loro vale solo come mera ipotesi di lavoro.

Da quanto detto discende direttamente un altro aspetto specifico dell'immagine scientifica: essa deriva dall'integrazione di una molteplicità di immagini non sempre del tutto armonizzate o armonizzabili, così che suddetta immagine non ha mai un'identità teorica definita o definitiva ma è costretta a continue ristrutturazioni e ampliamenti, integrazioni e sviluppi, configurandosi come una matrice aperta e plurale di trasformazioni più o meno programmabili.

Come visto poco sopra, anche l'immagine manifesta è intrinsecamente esposta a continue variazioni, tuttavia in essa i procedimenti di osmosi e organizzazione raggiungono livelli più elevati, mentre per quanto riguarda l'immagine scientifica le trasformazioni di cui essa passibile tendono a darle una compattezza e un'unitarietà alquanto precarie, poiché i livelli di complessità e il numero di prospettive in gioco in essa aumentano in modo rilevante.

È interessante notare ciò che Sellars afferma verso la fine della citazione riportata, ovvero il fatto che l'immagine scientifica ha come supporto l'immagine manifesta.

Nel sostenere questo l'autore struttura una sorta di gioco ad inscatolamenti tale per cui se “l'immagine originaria” funge da sfondo per l'immagine manifesta, quest'ultima rappresenta la base teorica per quella scientifica la quale si muove su di un piano di problematizzazione e complessità di gran lunga superiore rispetto a quello delle precedenti. Ma se è così da cosa deriva il contrasto tra le due? Perchè, se vi è questo rapporto di continuità analitica e contiguità epistemologica, immagine manifesta e immagine scientifica spesso collidono o comunque risultano non concordabili l'una all'altra? Senza addentrarci troppo nei meandri argomentativi di Sellars, possiamo rispondere affermando innanzitutto che nel passaggio dall'immagine “originaria” a quella scientifica la realtà inizia a perdere la propria coesione, la propria serrata organizzazione, la propria fisionomia globale per guadagnare in precisione di dettagli e ricchezza di elementi non immediatamente percepibili. Come messo in luce poco sopra, l'immagine manifesta nel suo delinearsi riceve sempre apporti eterogenei da vari ambiti disciplinari, tuttavia essa riesce sempre a conservare una certa configurazione definita e coerente, stabile e disciplinata, duratura e attendibile, grazie alla quale l'uomo è in grado di riconoscersi come tale. Con l'immagine scientifica ciò non accade più: in essa si tenta una orchestrazione talmente articolata di aspetti variabili e reciprocamente disomogenei che la sua esistenza è soltanto postulazionale, non ha una dimensione d'impiego immediata, non possiede un'evidenza euristica e critica ampia e maneggevole, non permette di prospettare uno schema concettuale uniforme – come ad esempio quello di persona, in cui culmina l'immagine manifesta – ma anzi tende a dissaldare gli elementi che strutturano e dovrebbero garantire tale uniformità. Andando a chiudere questa prima sezione dedicata alla messa in luce di alcuni tratti salienti della posizione sellarsiana vorremmo tornare al titolo e spiegare meglio quale

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è, a nostro parere, la relazione intrattenuta dai due termini in gioco. La sinossi a cui si è più volta fatto riferimento all'inizio di questo primo capitolo assume una identità teoretica sempre più precisa man mano che Sellars approfondisce la sua indagine. In un territorio instabile e multiforme, pluri-dimensionale e obliquo quale è quello descritto dalla fitta trama di discipline, teorie, assunti, prospettive, cognizioni e argomentazioni riferiti al problema uomo la coppia ordinata analisi/sintesi sembra aver fatto il suo tempo. Come messo in luce, la loro relazione non è di tipo oppositivo, tra di loro non vi è una frattura metodologica, non sono assegnate in modo fisso e definitivo a zone di ricerca rispettivamente specifiche, ma piuttosto tra di esse intercorre una relazione di implicazione circolare e costante, di continuo rimando dell'una all'altra, di sostanziale complicità e collaborazione, proprio perché ogni penetrazione analitica, sezionando ulteriormente il campo di indagine, aumenta la necessità di una nuova e sempre più attenta presa sintetica delle varie scoperte e delle varie entità chiamate ad intervenire all'interno del sapere (o, per meglio dire, dei saperi). Pertanto se da una parte l'analisi dissocia riflessivamente ciò che concorre a strutturare e a definire un preciso spazio di cognizioni, mettendo in luce la possibilità di evidenziare in esso una più minuta e capillare segmentazione delle variabili in gioco, dall'altra parte la sintesi raccorda e coordina altrettanto riflessivamente suddette variabili secondo nuove e forse inedite articolazioni, proponendo una mappatura dei saperi sempre più ricca di differenziazioni interne ma al tempo stesso sempre più estesa per quanto riguarda la loro portata conoscitiva. La sinossi - cioè la συν-οψις, il vedere assieme, il molteplice apparire delle cose colte da una visione d'insieme che non è assolutamente chiamata ad unificare in modo incongruo e illegittimo, ma a rispettarle nella loro polifonica varietà pur cercando in esse una linea di saldatura e collimazione mai definitiva – è ciò che Sellars, superando l'impostazione prettamente analitica, trova quale raffinatissimo strumento d'indagine per spostarsi all'interno di una dimensione problematica e polimorfa come quella in cui si è chiamati a pronunciarsi sull'uomo. La sinossi permette un movimento continuo di approssimazione ad un territorio sfumato e instabile, permette di postulare ipotesi di lavoro sempre rivedibili e plasticamente adattabili, è flessibile dinanzi all'emersione di dati incongrui rispetto agli assunti di partenza, tende ad una globalità infinita, integrativa ma mai integrale, al tempo stesso opera tenendo presente sia la grana fine della ricerca sia le strutture portanti del sapere. Solo operando attraverso la sinossi, immagine manifesta e immagine scientifica possono trovare un luogo di incontro e interscambio sul quale far convergere le rispettive proposte d'indagine, le rispettive prospettive di ricerca, le quali tendono a proporre una idea di uomo felicemente aperta a possibilità di definizione e caratterizzazione sempre più articolate e precise.

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2. PLESSNER: PENSARE SUL CONFINE INFINITO DELL'UOMO.

A fronte delle numerose filosofie che nel corso del Novecento hanno postulato la fine dell'uomo, prospettato la ormai prossima dissoluzione del soggetto (cartesiano e non), ipotizzato l'ingresso in una fase di post-umanità, ha ancora senso senso parlare di una Antropologia filosofica? E se sì, in che termini è legittimo riproporre un dibattito, o quanto meno un ponderato confronto di posizioni, intorno ad essa? Ma che cos'è innanzitutto l'Antropologia filosofica? Certo, una risposta precisa a questa domanda risulta a nostro giudizio pressoché impossibile. Delimitare con una definizione l'Antropologia filosofica oltre ad essere un'impresa improponibile rischia anche di diventare una sorta di gioco d'azzardo il cui risultato non potrebbe che risolversi in una vaga fumisterie aridamente accademica. In compenso però analizzare alcuni assunti propri dell'opera e del pensiero di Helmuth Plessner potrebbe offrire non pochi spunti di riflessione da cui muovere per un eventuale considerazione più ampia sul ruolo e la posizione della filosofia tutta sullo scacchiere dei saperi in questa nostra situazione post-moderna. Salutato in occasione della pubblicazione della sua opera principale – Die Stufen des Organischen und der Mensch – nel 1928 come una sorta di anti-Heidegger, Helmuth Plessner è a tutt'oggi ritenuto a buon diritto come uno dei padri fondatori della Antropologia filosofica, insieme a Max Scheler e Arnold Gehlen. Per ovvi motivi noi tralasceremo l'opera principale soffermandoci su una serie di saggi brevi che in un arco di circa trent'anni - dal 1937 al 1963 - Plessner ha scritto, mosso dalla volontà di ridefinire sempre di nuovo ed aggiornare in modo sempre più puntuale la sua idea di Antropologia filosofica. Già da queste poche informazioni emerge inoltre un primo aspetto fondamentale della disciplina in questione, ovvero la sua natura schiettamente anti-dogmatica, profondamente e dichiaratamente problematizzante, felicemente aperta a prospettive e questioni che lo stesso sviluppo del pensiero e l'incontro con altri campi del sapere non possono non sottoporre alla sua attenzione. Lasciamo allora per un attimo la parola a Plessner e sentiamo in che modo egli, dopo aver sottolineato come solitamente l'Antropologia filosofica venga indicata come una disciplina particolare della filosofia, ne tratteggia il profilo:

“Il suo campo non è un ambito delimitabile obiettivamente e secondo determinate categorie generali che si dovrebbero inventariare fin dall'inizio, bensì è “l'uomo” nel mondo, mondo che è un'irruzione verso orizzonti aperti e la cui polivocità e insondabilità […] hanno dato all'uomo, per esperienza storica, nel richiamo e nella minaccia, la coscienza di essere uomo”12. […] Nell'Antropologia filosofica ci si rivolge all'uomo in quanto uomo, e in questa aggiunta

12 HELMUTH PLESSNER, L'uomo: una questione aperta, ed it a cura di H-P Krüger, Armando Editore, Roma, 2007, p. 40.

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“in quanto uomo” si effettua una delimitazione dell'ambito che occupa un centro non fissabile con precisione tra gli estremi opposti della massima individualizzazione possibile e della massima generalizzazione possibile”13.

Insondabilità, non fissabilità, polivocità, indeterminatezza dell'oggetto, assenza di limiti del campo d'indagine sono i concetti che ordinatamente e con insistenza sembrano rincorrersi all'interno di questi due estratti provenienti dalla lezione inaugurale all'Università di Groningen che Plessner tenne nel 1936, dal titolo Die Aufgabe der Philosophische Anthropologie. Se queste sono le peculiarità dell'Antropologia filosofica come è possibile stabilirne finalità e metodi, compiti e prospettive, natura e fisionomia? Siamo dunque di fronte ad una disciplina dal nocciolo molle, dichiaratamente ma, come vedremo, proficuamente problematica, caratterizzata da un centro tematico mobile e fluido in forza del quale essa riesce a presentarsi come una zona di ricerca priva di collocazione precisa all'interno del sapere, anzi, situata in seno ad esso in modo da sommuovere ogni volta le configurazioni e gli assetti che questo assume col rischio di sclerotizzarsi in essi sfociando in irrigidimenti dogmatici. Da subito pertanto l'Antropologia filosofica plessneriana palesa la sua destinazione e funzione critica, essa è una sorta di philosophia prima caratterizzata innanzitutto da una fortunata pluralizzazione metodologica capace di integrare l'approccio fenomenologico con quello propriamente ermeneutico-estistenziale, affiancati inoltre dalla dialettica e da elementi di derivazione propriamente scientifico come nozioni del campo della fisica nonché di pertinenza biomedica. Ma perché Plessner opta per una così ricca confluenza di ascendenze eterogenee e difformi? Egli sa bene che una filosofia che voglia proporsi come “organo” di pensiero capace di portare una interrogazione profonda e incondizionata sull'uomo deve innanzitutto evitare di rinchiudersi su se stessa, su una circoscritta compagine di strumenti e soluzioni divenendo così inabile a cogliere l'evoluzione e le trasformazioni del proprio oggetto di studio. Proprio alla luce di ciò Plessner, oltre a suggerire e ad attuare concretamente quella vorticosa pluralizzazione metodologica vista poco sopra, sostiene che con l'Antropologia filosofica è possibile superare un'altra distinzione teorica e teoretica che, sulla scorta di Dilthey, era diventata un caposaldo della speculazione del primo Novecento; egli infatti, come nessun altro filosofo del XX secolo, amplia sia le possibilità della spiegazione (erklären) dell'uomo, sia le possibilità della sua comprensione (verstehen) ritenendo profondamente fallace se non errata la netta separazione tra Naturwissenschaften (solo esplicative) e Geisteswissenschaften (solo comprendenti). Plessner cerca qiondi di impostare una indefessa ricerca filosofica animata e e retta da una doppia strategia incrociata consistente nello svelamento di premesse di carattere comprendente nella spiegazione e di postulati di natura esplicativa in seno alla comprensione. Soltanto procedendo in questa direzione e partendo da questi presupposti è possibile far emergere l'uomo con la sua natura di unità

13 Ivi, p. 41.

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pluridimensionale. Per attuare questo programma però sono necessarie, a detta di Plessner, tre assunzioni di metodo ineludibili:

Innanzitutto nessuno dei due modi di trattazione - Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften - deve essere sovraordinato all'altro:

“In termini generali: ad ogni aspetto per il quale può essere avanzata la pretesa che in esso appaia l'essenza umana – sia esso un aspetto fisico, psichico, etico-spirituale o religioso – va riconosciuto lo stesso valore per lo svelamento dell'intero essere umano”14.

L'unità e la coerenza rivendicate dai rispettivi e specifici campi di indagine e che permettono transizioni continue da un aspetto all'altro – dalla giurisdizione biologica a quella propriamente storica, dall'ambito psico-sociale a quello latamente esistenziale, per esempio – non possono fornire una semplice cornice esteriore agli asserti della filosofia o delle scienze:

“Questa unità deve essere della stessa originarietà che l'uomo dimostra nella propria esistenza che diviene storia, originarietà che l'uomo si guadagna faticosamente nel corso dell'esistenza”15.

L'interconnessione fitta e complessa che l'Antropologia filosofica sviluppa tra comprensione e spiegazione vieta di formulare o definire l'uomo riguardo a ciò che egli deve essere autenticamente:

“Le formule strutturali non possono pretendere di avere alcun valore teoretico-conclusivo, ma solo un valore aprente-espositivo: costituisce sì la sua categoria di orientamento, ma non al fine di una mera classificazione, bensì allo scopo di garantire un'insondabilità che costituisce la serietà della responsabilità di fronte a “tutte” le possibilità in cui egli può comprendersi e quindi essere”16.

Si tratta di un progetto filosofico che non può non stupire per vastità e ricchezza, profondità e precisione, lucidità e onestà intellettuale; quest'ultima in particolare sembra essere la vera matrice essenziale da cui muovere per interrogare l'uomo cogliendolo nella sua proteiforme identità dai tratti sfumati e controversi, sfuggenti e vorticosamente dispersi lungo traiettorie di (auto)plasmabilità imprevedibili. Onestà intellettuale allora in questo contesto indica una strutturale e inelimianbile attitudine del pensiero e della riflessione alla instancabile ma sorvegliatissima messa in questione di ciò che di volta in volta è dato per acquisito e consolidato, un indirizzo speculativo mirato a perpetrare una continua e puntiforme “autodestabilizzazione della filosofia”17, la quale non può e non deve assolutamente lasciare che le sue conclusioni e le sue modalità di pervenire a queste si sgancino dal mosso ambito di studi astraendosi in una corpus di soluzioni e proiezioni prive di presa reale.

14 Ivi, p. 44.15 Ivi, p. 45.16 Ibid.17 Ivi, p. 55.

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Sulla base di queste posizioni l'Antropologia filosofica nasce come una sorta critico punto prospettico interno alle proprie articolazioni e strutturazioni, sule quali è chiamata ad intervenire per conferire loro una particolare dinamicità esegetica, una costitutiva propulsione all'espansione dei propri orizzonti tematici, un'imprescindibile disposizione al dialogo con linee di ricerca provenienti da ambiti non necessariamente in diretto contatto con la filosofia. Ma soprattutto l'onestà intellettuale dell'Antropologia filosofica si dispiega assimilando e metabolizzando all'interno della sua mobile e multiforme trama operativa la sfida lanciata dalle filosofie della crisi coeve a Plessner. Le vecchie architetture speculative non hanno retto all'urto a cui sono state sottoposte nel confrontarsi con le nuove frontiere che la scienza apriva dinanzi all'uomo: le varie teologie, i vari trascendentalismi e dogmatismi sono ormai destinati ad una rapidissimo tramonto lasciando l'uomo nudo e orfano di “coperture” teoretiche valide e ascendenze storiche-antropologiche nobili. Se Nietzsche aveva potuto scrivere che “da Copernico in poi l'uomo rotola dal centro verso la x”18, Plessner può ora dire che l'uomo non sola ha definitivamente raggiunto quella x ma si identifica senza residuo con essa, ponendo un interrogativo epocale e sconfinato non solo a se stesso ma al mondo e al sapere incaricato di meditare in merito a quella x. L'Antropologia filosofica sorge quindi con l'intenzione palese e consapevole di dover far fronte all'eredità di una distruzione che è stata spesso avversata, ma non ancora completamente risolta, non portata a complimento, non esaminata e ponderata in modo dettagliato e scevro da pregiudizi blandamente nichilistici. Per Plessner è arrivato il momento di costruire uno spazio di riflessione che sappia attraversare la contrade dissestate dal naufragio della tradizione per concentrarsi anche e soprattutto sui “lati notturni dell'esistenza”19, portando avanti senza timore il disegno preciso e deliberato di destabilizzare il fondamento stesso dell'essere umano in primis in modo tale che la dissoluzione di di una sua essenza propria presuntivamente indubbia produca il capovolgimento di una decisione a favore dell'umanità. Si tratta quindi elaborare una strategia d'approccio al problema che sia in grado di oggettivare analiticamente la fondamentale dubitabilità di ciò che pertiene più o meno strettamente alla galassia uomo, in modo tale che

“la comprensione dei suoi limiti apra la via al loro superamento. […] Si tratta della questione: cosa significa e come è possibile essere uomo, […] dal momento che il suo essere “uomo” come dato di fatto e come compito è ora diventato per lui un problema. […] Per amore della umanità occidentale, per amore della conservazione della tradizione europea, l'uomo deve capire sino a che limite egli può mettersi in discussione in quanto uomo”20.

Tra il 1956 e il 1963 Plessner continua ad interrogarsi intorno a questa sorta di mandato filosofico consegnando di volta in volta le conclusioni provvisorie a cui perveniva non solo all'interno delle grandi opere che contraddistinguono questa 18 FRIEDERICH W. NIETZSCHE, La volontà di potenza, ed it a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani,

Milano, 2008, p. 8. 19 H. PLESSNER, Op. cit, p. 47.20 Ivi, pp. 48-54.

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seconda fase della sua riflessione – occupata in parte anche da scritti di indole propriamente storico-sociologica, fra tutti Die verspätete Nation – ma anche in occasione di brevi saggi, articoli e conferenze, tra cui due in particolare: Über einige Motive der Philosophischen Anthropologie (1956) e Immer noch Philosophische Anthropologie? (1963). Sono trascorsi quasi vent'anni dalla conferenza del '36, lo scenario è quello drammaticamente contrastato e disastrato del secondo dopo guerra e molte delle intuizioni di Plessner hanno trovato una tragica conferma in attuazioni storiche che hanno violentato la dignità dell'uomo forse perché del tutto incapaci di interrogarsi in modo lucido e rigoroso sulla sua essenza e destinazione. Plessner però, al di là dei resoconti storici, è profondamente preoccupato da un altro aspetto della questione, e cioè l'incontrollato farsi avanti di due nuove branche della scienza, la microfisica e la biologia, in particolare la genetica. Ma perché questa attenzione così mirata ad esse? Dimostrando ancora una volta un'insolita lungimiranza nel prevedere effetti più che nefasti da premesse apparentemente positive, si rende conto che l'uomo si è trasformato in maniera sempre più anodina e controversa in una polo di assoluta inintellegibilità, capace al tempo di stesso si autodeterminazione consapevole e calibrata ma tendente anche a eccessi di arbitraria autodeificazione che non possono non sfociare in cortocircuiti autoritari. Calato all'interno del nuovo assetto sociale, svincolato da ogni tipo di autorità gerarchicamente ordinata, il soggetto non cerca più di cogliere se stesso e il mondo a partire da Dio – o comunque da un centro d'ordine sovraordinato ad esso – ma piuttosto sembra deciso a derivare Dio e il mondo dalla sua infranta figura. La dimensione socio-culturale in seno a cui l'uomo è chiamato a operare si presenta aperta e pluralistica, democratica e antropocentrica, ma anche sfocata e indefinibile, senza margini reperibili e solcata da contraddizioni manifeste e latenti; a questa corrisponde la stessa scienza moderna, dallo statuto vago e controverso, intenta a cercare e ricercare nell'ignoto, parcellizzata in discipline autonome che vigilano gelosamente sui loro confini ma sembrano incapaci di perseguire un progetto condiviso, espressione di una comunità di ricerca non legata a scopi prefissati, non obbligata ad alcuna immagine chiusa del mondo, ma anzi dischiusa su di un mondo non più conforme ad alcuna immagine. All'interno di questo scenario che posto occupa l'Antropologia filosofica? In che misura essa può dare un contributo consistente se proprio il suo oggetto si configura come un volume in fuga, una totalità aperta, una domanda situata al di là di ogni risposta definitiva? Senza alcuna esitazione Plessner affronta questo nuovo contesto ricollocandovi la sua Antropologia filosofica ancora una volta quale portatrice una metodologia critica centrale ed efficace in rapporto alle questioni che circondano l'uomo, assegnandole così scopi specifici e delineandone articolazioni interne in quanto identificata con ciò che egli battezza col nome di ricerca di confine:

“La ricerca [perlopiù scientifica] viene portata a intuizioni che forzano i confini disciplinari esistenti e conducono a unità che li superano: ai cosiddetti ambiti della ricerca di confine. Alla

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ricerca di confine riescono sconfinamenti tra ambiti che sono considerati essere così disparati che non si sospetta alcuna dipendenza reciproca e si ritengono impossibili passaggi dall'uno all'altro. […] Tra matematica e fisica, fisica e chimica, chimica inorganica e organica, di nuovo tra questi e la biologia, tra biologia e psicologia, tra psicologia e sociologia stanno le misteriose zone intermedie dell'interconnessione del reale, alle quali la scienza speciale limitata alle varie zone principali, anche solo per motivi metodici non osa avvicinarsi”21.

Per Plessner è proprio la realtà dell'uomo a rappresentare il caso più eclatante per una ricerca di confine, dal momento che egli è al tempo stesso l'oggetto più ricco di dimensioni e aspetti, abilità e difetti, contraddizioni e potenzialità col quale ogni scienza si trova a dover fare i conti, ma è anche il soggetto attivo che dirige e orienta tale scienza, trovandosi dunque simultaneamente dinanzi e dietro di essa. L'uomo è cioè sia quello strano ente che sul puro piano dell'essere presenta il maggior numero di sfaccettature e passaggi da uno strato all'altro – da materia a vita, a intelletto, a anima, a spirito – sia quella insolita entità complessa denominata persona che è nucleo e supporto di quella ricchezza di strati e in forza della quale l'uomo è al tempo stesso superiore ad essi e ad essi sottratto. L'uomo diventa così un punto mobile e inarrestabile lanciato su di un piano di spostamento praticamente infinito: la sua posizione non solo è mutevole ma pressoché indeterminabile, così che egli può eludere ogni sistema di coordinate, anzi sintetizza in sé tutti i vari sistemi di coordinate che la tradizione ha messo a punto per conferirgli un posto determinato nel cosmo. L'uomo sembra trascendersi senza sosta in una lontananza interminabile o sfumarsi in una serrata prossimità a sé priva di riferimenti attendibili; al tempo stesso egli occupa il centro e la periferia del sapere, ne attraversa tutta l'estensione pur scivolando sempre lungo i suoi margini imprecisi. Quasi per sommo paradosso la specificità dell'uomo è quella di essere privo di una specificità determinata o determinabile, di sfuggire ad ogni classificazione, di non coincidere più ad alcuna immagine definita perché in grado di assimilarle e interiorizzarle tutte in una magmatica totalizzazione. Ma allora, alla luce di ciò, quale è il compito proprio della Antropologia filosofica? Per Plessner il suo compito è tutelare tale intrinseca e inarrestabile dinamicità, proteggere la natura esplosiva e nomadica del soggetto, evitare che una determinata scienza, un campo specifico del sapere, una disciplina particolare, una prospettiva isolata pretendano di ridurre la pluridimensionalità del soggetto, irrigidendone arbitrariamente un aspetto, privilegiandone surrettiziamente solo alcuni tratti, esaltandone e esasperandone in modo pregiudiziale e utilitaristico delle possibilità che deformerebbero e altererebbero il tutto. Pertanto se l'uomo è l'inoggettivabile e l'Antropologia filosofica è una modalità di portare avanti una ricerca di confine, allora suo scopo prioritario è difendere proprio questa inoggettivabilità dell'uomo, ricordando ogni volta alle discipline specifiche che pretendono di assolutizzarne solo alcuni connotati che egli non è semplicemente un oggetto a loro disposizione, ma anche un soggetto che non ammette strumentalizzazioni e utilizzazioni “di parte”. Plessner sa benissimo che dietro le scienze non vi è più un amore disinteressato per il 21 Ivi, p. 68.

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sapere e la conoscenza, per l'indagine e la scoperta, ma piuttosto, dietro di esse pulsa il cuore oscuro delle ideologie, di un potere immenso e invisibile, pervasivo, tentacolare, insidioso e sottile; l'inoggetivabilità dell'uomo dunque, la sua costitutiva e irriducibile indefinibilità, la sua strutturale ineffabilità assurgono a vero valore assoluto. In sostanza, agli occhi di Plessner, ciò che dal punto di vista di un ordine del mondo e di una costituzione della società vincolati ad autorità e tradizione poteva apparire come debolezza, indecisione, perplessità e angoscia, nella prospettiva di una società pluralistica ma affetta da vari squilibri, aperta ma minacciata da forze reazionarie se non del tutto oscurantiste, in continuo divenire ma sottoposta al rischio di improvvise involuzioni liberticide, acquisisce il valore della forza e del coraggio per la libertà, da cui discende la necessità, come visto finora, di mettere a punto un preciso strumento di critica e analisi che sia in grado di porre dei limiti alle oggettivazioni perpetrate dalle varie scienze speciali e circoscritte:

“la scienza non può oggettivare l'uomo al di là di [un certo limite]. Egli rimane per se stesso, anche con la psicologia più raffinata, un enigma insolubile. Questo è il limite che gli è tracciato, ma solo per mezzo della sua stessa ragione e solo nella misura in cui egli sa della determinazione sostanzialmente pratica di essa. […] Una conoscenza che seppellisce le possibilità aperte nell'essere e per l'essere dell'uomo, nel grosso come nel piccolo di ogni singola vita, non solo è falsa, ma distrugge anche il respiro del suo oggetto: la sua dignità umana. L'homo absconditus, l'uomo insondabile, è il potere della sua libertà che continuamente si sottrae ad ogni fissazione teoretica, che spezza tutte le catene, le unilateralità della scienza speciale come le unilateralità della società. […] L'Antropologia filosofica non è una scienza che viene ad aggiungersi alle altre, bensì è una continua riflessione critica sui loro fondamenti e sulle loro delimitazioni. Esercitando una simile riflessione sull'essenza dell'uomo, essa lo sottrae all'oggettivazione e con ciò al processo che lo rende disponibile per le astrazione delle scienze e della società22.

Nata nel movimentato crocevia di prospettive e angolature filosofico-scientifiche quasi per circostanze fortuite e senza alcuna pretesa di disciplinare il territorio in cui andava a prendere posto, l'Antropologia filosofica nel giro di qualche decennio assurge a categoria critica dei saperi e dei poteri che circondano e corteggiano l'uomo, col mandato plenipotenziario di fluidificarne le indebite ipostatizzazioni, di scioglierne le astratte assolutizzazioni, di infrangerne le sclerotizzanti discriminazioni, di smascherane le sospette reificazioni, e con il dovere di ricordare sempre che pensare l'uomo significa impegnarsi in una riflessione costretta a muoversi sui confini infiniti di una concetto che non ammette e non sopporta oggettivazioni di sorta.

22 Ivi, pp. 84-88.

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CONCLUSIONI

Pervenuti al termine di questa nostra lettura sdoppiata, “bifocale” oseremmo dire, del problema uomo, è forse bene ora tracciare delle linee di raffronto tra la versione analitico-sellarsiana e quella continentale-plessneriana. Ad una prima occhiata vi è un dato lampante che si impone con una certa chiarezza: entrambi gli autori presi in esame convengono sulla necessità di doversi riferire all'uomo parlandone in termini di immagine complessa:

“I concetti attraverso cui pensiamo al “carattere” di una persona […] compaiono nella ricostruzione come concetti definiti straordinariamente complessi, che non devono essere confusi con i concetti attraverso i quali pensiamo alla natura del cloruro di sodio ecc...”23.

“[L'uomo] è un essere vivente di singolare complicatezza, che gli dà il diritto di definirsi un essere razionale, spirituale, che obbedisce ad altri interessi rispetto a quelli che gli impongono le sue pulsioni e i suoi bisogni vitali”24.

Ma che cosa indica qui la nozione di complessità? Innanzitutto essa fa riferimento al fatto che l'uomo è una totalità aperta, la quale, pur essendo sorta dalla intersezione plurale e feconda di piani e strati, confluenze e convergenze, concretizzazioni e commistioni di varia natura, non può né essere totalizzata unilateralmente da alcuno di quei fattori chiamati a sostanziarla, né essere stolidamente appiattita su considerazioni mirate a scomporre analiticamente e innaturalmente quella totalità per pervenire ai costituenti ultimi con cui identificare l'essenza dell'uomo. Come abbiamo avuto modo di veder più sopra, per Sellars il perfezionamento categoriale pur essendo orientato a reperire gli oggetti base dell'immagine manifesta, non opera in modo riduttivistico, ma anzi sfocia nel concetto più articolato e multiforme che possa immaginarsi in un discorso filosofico dedicato all'uomo, cioè nel concetto di persona. In egual modo, Plessner è consapevole che lungo le desolate linee di frattura tra le varie scienze deve scorrere instancabilmente una disciplina particolare – l'Antropologia filosofica, appunto – il cui ruolo è proprio quello di interdire ogni appropriazione assolutizzante dell'uomo da parte di un solo ramo del sapere, il quale è pertanto tenuto a coglierlo e inquadrarlo sempre secondo la sua sfumata e variegata problematicità ermeneutica. L'uomo è pertanto una presenza eccentrica all'interno delle configurazioni dei saperi, la sua figura si sottrae ad ogni tentativo definitorio, anzi la sua figura è chiamata a ridisegnare di volta in volta il perimetro e le aree di pertinenza delle varie discipline che si occupano di essa.

23 W. SELLARS, Op. cit., p. 102.24 H. PLESSNER, Op. cit., p. 70.

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L'uomo è una specie di polo deterritorializzante, un fattore di sconfinamenti reciproci e continui tra scienze e metodi, conoscenze e ipotesi, prospettive e soluzioni, convergenze e contraddizioni, refrattario pertanto ad ogni tipo oggettivazione scientifica che rischi di alienarne questa mobile polivocità. Oltre alla complessità, ma strettamente connesso ad essa, vi è poi un altro elemento di consonanza tra le due matrici di ricerca: l'esigenza insopprimibile di architettare un pensiero filosofico che sia in grado non solo di fare i conti con questa complessità – dallo statuto pertanto fluido e sfumato, sempre rivedibile e in costante processo di ridefinizione critica – ma anche e soprattutto di intrattenere un dialogo aperto e fecondo con le varie discipline che si contendono l'uomo, un dialogo cioè che sia simultaneamente un'interrogazione sull'assetto epistemologico che regge, orienta, innerva suddette discipline, ma anche una puntuale messa in luce dei propri postulati e delle proprie finalità di ricerca. Tale progetto per Sellars si concretizza in quella dinamicissima implicazione reciproca tra immagine manifesta e immagine scientifica, ovvero tra quelle due modalità di sezionare il campo del sapere per derivarne una mappatura al tempo stesso sempre più dettagliata ma anche sempre più ampia che abbiamo chiamato, sempre sulla corta delle riflessioni del filosofo statunitense, analisi e sinossi.

“Ci sono tante immagini scientifiche dell'uomo, quante sono le scienze che hanno qualcosa da dire a proposito dell'uomo. C'è dunque l'uomo così come appare al fisico teorico […], c'è l'uomo così come appare al biochimico, al fisiologo, al comportamentista, allo scienziato sociale; e tutte queste immagini sono da contrapporre al modo in cui l'uomo appare a se stesso nel senso comune elaborato, l'immagine manifesta che ancora oggi contiene gran parte di ciò che egli conosce di sé, ad un livello propriamente umano”.25

In egual modo per Plessner l'Antropologia filosofica si snoda secondo i flessibili parametri metodologici di ciò che abbiamo designato col nome di ricerca di confine, chiamata cioè ad intervenire lungo i punti di contatto di diverse aree di indagine col fine non tanto di raccordarle armonicamente tra di loro, ma piuttosto di soppesarne e valutarne lucidamente la capacità e la volontà di rispettare la natura sostanzialmente inoggettivabile dell'oggetto a cui si rivolgono, spronandole così a considerarlo s' secondo la loro particolare angolazione ma sempre tenendo presente sullo sfondo l'organica complicità dia aspetti e moventi che contraddistingue l'uomo in quanto tale:

“Non c'è alcun principio a lui inerente, un vinculum substantiale, come pensava la Scolastica, e non c'è alcuna facoltà specifica attraverso cui si possa determinare l'essenza umana. L'unica peculiarità è la sua prestazione: linguaggio, mito, religione, arte, scienza, storia. Una filosofia dell'uomo ha il compito di produrre una visione della struttura fondamentale di ciascuna di queste attività umane e di comprenderle come un tutto organico. Così si può cogliere il vinculum functionale che sussiste [tra di esse] e che, così come li isola l'uno dall'altro, allo stesso modo li rende reciprocamente dipendenti”26.

Vi è infine un ultimo dato comune ad entrambi, un dato che sia Sellars sia Plessner

25 W. SELLARS, Op. cit., p. 65.26 H. PLESSNER, Op. cit., pp. 100-101.

Page 21: Sellars & Plessner, dittico sull'uomo.

introducono verso le conclusioni della loro analisi, un dato che non può essere assolutamente trascurato o marginalizzato, sminuito o escluso se non proditoriamente, un dato che permette davvero di porre l'interrogazione riguardante il problema uomo in tutta la sua complessità e urgenza: il recupero della dimensione sociale. Entrambi riservano ad esso giusto un accenno fugace ma significativo verso la fine del loro discorso, consapevoli del fatto che esso meriterebbe una trattazione ben più ampia e articolata. Entrambi però sanno che parlare dell'uomo senza calarlo nel suo ambiente più proprio – la vita in una comunità di soggetti liberi e consapevoli - significa già snaturarlo, privarlo di una coordinata imprescindibile della sua polifonica identità. Solo in seno ad una collettività la complessità di cui si diceva poco sopra può trovare non solo piena attuazione ma anche i giusti limiti per evitare derive nefaste e catastrofiche e così solo ricollocando l'uomo all'interno di un contesto civile caratterizzato da pariteticità e eguaglianza di tutti gli individui che ne fanno parte la filosofia – sellarsianamente intesa – e l'Antropologia filosofica di Plessner possono vedere riconosciute i loro diritti di discipline proficuamente (auto)critiche perché pienamente autonome. Complessità dell'oggetto di studio, capacità di (auto)critica del metodo di studio, socialità quale insopprimibile sfondo di queste ultime ci sembrano essere i tre portanti e importanti centri di raccordo e contiguità tra i due paradigmi presi in esame. Naturalmente non va dimenticato che ciascuno di essi tematizza e sviluppa il discorso intorno a quelle tre coordinate in modo diverso ed autonomo, ma ugualmente non va dimenticato quanto le convergenze e le assonanze di interessi e scopi, progetti e prospettive siano rilevanti all'interno di un pensiero filosofico che voglia superare tutte le distinzioni che solcano e tramano l'immenso territorio del sapere al fine di suggerire una visione sempre più ampia ma al tempo stesso articolata di esso. Non è forse proprio questo un ultimo insegnamento che ci arriva parallelamente dalle pagine di Sellars e Plessner?