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Scuola Ticinese - Repubblica e Cantone Ticino

May 09, 2023

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Khang Minh
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Introduzione

Nell'introduzione alla Cartella precedente, si sottolineava come col 1859, e più ancora col 1861, il Canton Ticino fosse venuto a trovarsi in una ,situazIone affatto nu.0va, e ~i~ersa: e si citav~, ,al proposito, una constderaztone délla Stona dt Ellgzo Pometta e Gtulto RoSSI. Formato­si ormai ai confini del sud lo Stato italiano, veniva a cadere anche per il Ticino un periodo. di forte tensione ideale (che aveva compreso anche una pratica partecip'azione, di varia natura e portata, ai moti del Ri­sorgzmento, e si era latta in certi momenti, nel '48 e nel '5 3, anche forte tensione politica, tale da sembrar compromettere la stabilità del partito al potere, onde s'era poi dovuto proaurre un nuovo colpo di forza, con conseguenze ~l~o~a diffìci~i da giudica!,e. Col 1860 (per rtckiamarsi alla (/ata d'mlzlo derpmodo trattato m questa V Cartella) ti Canto­ne riprendeva con la Lombardia e il Piemonte e anche con altre regioni italIane le tradizionali relazioni economiche e culturali; e peraltro ces­sava di esser dentro una vicenda che ben si poteva dire internazionale, in un gioco comunque che andava ben oltre i suoi confini e i suoi appa­rentemente immediati interessi, quari poi ripiegando su sé stesso, in una dialettica politica ch'era ormai tutta sua, e glt dava modo di affronta­re con ogni sua forza i problemi interni, vecchi e nuovi, ormai giunti presso a maturare. La situazione era d'altra parte diversa, anche per altri aspetti, da quella dei decenni precedenti: lo Stato federativo, nato nel 1848, adesso poteva dirsi ormai più che avviato, sicché d'un tipo nuovo erano i rapporti ticinesi anche col resto della Svizzera, divenuta realtà quotidiana che si farà viePiù presente e viva.

In questa prospettiva st assiste negli anni Sessanta a un certo irrigi­dimento, cui consegue fatalmente un logoramento, di quello che sarà chiamato il «regime liberale», col crescere di un'opposizione che, da pri­ma di difficile contorno, via via si va organizzando, e chiarisce le sue aspirazioni e i suoi obiettivi; giungono dipoi anche nel Ticino gli echi delle grandi controversie europee, politiche e culturali, non tanto forse del conflitto franco-prussiano quanto del bismarckiano «Kultur­kamp(», che ha risvolti acuti e clamorosi anche in molti cantoni della Svizzera; e la polemica ideologica e partitica, ch' era sembrata a un cer­to momento assopirsi per stanchezza o altre cause, riprende verso il187 O e negli anni immedlatamente successivi con una intensità anche mag­giore, attraverso il narcere di un numero cospicuo di giornali politia e talvolta anche attraverso rumori e trarmodanze di piazza, ch' erano un indice dell' esacerbamento degli animi e delle forze che ormai si equili­bravano. Mentre si andava .pegnendo la classe politica che aveva ca­ratterizzato la storia ticinese fJa118 30 innanzi, quella dei Franscini e dei Luvini, si veniva delineando una classe politica nuova e di filosofia diversa e talora avversa, alla quale ormai pareva la maggioranza del paese guardare. Figura esemplare vuole essere a questo punto illugane­se Bernardino Lurati, autore di un «pamphlet » di ottimo livello che molto contribuirà alla vittoria dell' opposiZIone nelle elezioni del21 feb­braio 1875 per il Gran Consiglio, premessa al ribaltamento politico del 1877, quando, sotto l'impulso di Gioachimo Respini, si attuerà il «nuovo indirizzo» e si darà avvio a quello che pure finirà con l'appari­re un nuovo «regime». Quest'ultima (/ata vuoI essere centrale di tutto il periodo: il quale appunto è contrassegnato dall'alternanza del potere, evento di rilievo essenziale, che evita al paese i danni dell'involuzione e, per dir così, dell'arteriosclerosi: sicché toccherà appunto;'i uomini di quel rinnovamento e mutamento attuare certe istanze e ri orme che il re­gime liberale precedente non era parso più in grado di a ontare da so­lo. Non cesseranno certo i contrarti e le violenze, il CUI acme peraltro, rappresentato dai «fatti di Stabio», è da collocare nella fare mterlocu­torza tra il 1875 e il '77, ma resta la realtà degli indirizzi dati all'ordinamento scolartico e in particolare ai rapporti, fino allora diffi­cili, tra lo Stato e la Chiesa, con la legge Pearazzint intorno all'inse­gnamento reli~oso nelle scuole e soprattutto con la soluzione della que­stione, che pmcolosamente si traranava da molt'anni, e pareva un no­do gordiano, della Diocesi, la cui pratica costituzione rappresenta pure una essenziale novità. Ma il paese era nuovo e diverso anche sotto altri aspetti: se verso il 1850, con là costruzione del ponte-diga di Melide,fi­nalmente si era legato il S0P!'aceneri e il Luganese col Mendrisiotto (co­ronando così l'impresastraaale iniziatari gtà ai primi delsecolo), e più

latamente il nord delle Alpi con la Lombardia, ora giungeva nella fare conclusiva ilproblema, a momenti arpramente anche nel Ticino dIbat­tuto, della ferrovia del San Gottardo, che era un fatto di grande im­portanza per tutta l'Europa, e per il Cantone di un'importanza addi­rittura capitale, sia per i rapporti interni sia per quelli esteriori. E non è un caro che negli anni immediatamente successivi a quel 1882 si p'en­sasse seriamente e concretamente, talvolta incontrando gravi ostacoli in un -p~ese !,eale» che mostrava un'ancor t:oPpo Incerta e debole coscien­za unttarta o «cantonale », a opere pubbllché dI portata generale, come l'inalveamento dei fiumi Ticino e Maggia, avviati e già allora in pa,... te attuati. Il Cantone, pur fra le contmue diatribe di parte e il peso di una realtà economico-sociale tutt' altro che lieta (come dimostra per esempio il capitolo sull'emigrazione), mostrava per più segni di avan­zare e crescere. Quanto al momento culturale, certo non si potrà dire che la realtà ticinese fosse allora di splendore, anzi forse segnava un leggero regresso rispetto all' età immediatamente precedente, dei Franscini e dei Lavizzari, quando la presenza di molti esuli italiani, e primamente di Carlo Cattaneo, aveva dato un vivido impulso alla vita intellettuale, ~uari suscitando nobili gare; e tuttavia aveva sue manifestazioni non Ignobili, grazie a una classe politica insomma di buona formazione umanistica e a rapporti intensI, s;.ecie sul piano artistico (VIventi peral­tro ancora, e operanti, il Vela e ti Ciseri), con Milano, ridiventata per molti, o in via di ridiventare, il naturale approdo. Né si può ignorare che con Emilio Motta il Ticino acquisiva una sua coscienza storica, con l'avvio di studi che dovevano dar bei fiori e frutti poi. D'altra parte non è un caro che nel 1871, il5 luglio e il 28 dicembre, narcessero alle due estremità del Cantone Francesco Chiesa e Giuseppe Motta, che ~­prio in questo periodo si formavano, pronti a dare moro contributo de­terminante alla storia del paese già agli inizi del periodo successivo; e per molti decenni ancora poi. Per tutto questo che abbiamo esposto ci sembra giustificato il titolo dato alla cartella: Il Cantone 'ricino negli anni del mutamento.

S'andava intanto a rapidi passi verso ifuel1890 che doveva segnare un' altra decisiva svolta: e i segni del logoramento del regime -liberale­conservatore», che poi si disse «conservatore» senza più, si faranno per cento voci in quegli çstremi anni palesi. Un'altra volta il paese stava mutando. Lo stesso giornalismo politico (che superava in parte le disper­sioni polarizzandosi intorno a due foglifatti con criteri che già potevano dirsi, rispetto agl'immediati antecedenti, alquanto moderni, -La Li­bertà» e «Il povere») parevan denunciare un'atmosfera di vigilia. Ma, ritenendo conchiuso il periodo storico, la presente Cartella si ferma su quella soglia. .

Dovremmo ora ripeter qui cose già dette, e anzi più di una volta ri­petute, intorno agli intenti, ai modi, ai limiti del nostro lavoro: ma non è certo il caro, e però se mai si rimanda alle -introduzioni» precedenti . . Quanto alla già denunciata «saltuarietà» di questa che, PIuttosto che una «storia», vuoi essere una rassegna ragionata di documenti, legati da un filo non sempre ben visibile, avremmo voluto anche stavolta se­gnalare un'opera di tipo annualistico o addirittura diaristico, che ap­punto alla stessa ovviasse: ma nessun titolo ci è venuto alla mente cbe potesse giovare all'uopo. D'altra parte) un tale sussidiario, se può essere sommamente giovevole, non appare strettamente necessario: e il lettore, nella scuola e fuori, potrà surrogare da sé facilmente, con altri libri (sempre indispensabili) di storia generai t europta svizzera e ticinese, o parttcolare. Solo vorremmo ricordare che il gruppo dei collaboratori, che non si può considerare certo chiuso, si è quest'anno ulteriormente alla,... gato, con l'apporto di altri giovani studiosi formati ai metodi della slO­riografia Più aggiornata. Il campo degli interessi e degli argomenti si è così ultmormente ampliato ben oltre !a storia politica e culiurale, ma­gari a scapito (anche per via dei possibili diversi accenti) di una esterio­re unitarzetà: già tr?ppe volte abbiamo tarciato intendere che a una esteriore unÌlarietà queste cartelle non mirano. Come nel parsato, ai no­mi degli autori dei singoli articoli, che risultano nell'«mdice», vanno affiancati quelli dell'archivista cantonale Fernando Bonetti, che ha curato la ricerca e raccolta e disposizione dei documenti delle trentadue tavole, di Sergio Caratti e di Silvio Lafranchi, coordinatori dell'impre­sa, del grafico Emilio Rissone e di GIuseppe Stahii, esperto dell' econo-mato dellO Stato. . 3

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L'alternanza dei «regimi»

Dopo il 1860, lasciati alle spalle i sus­sulti ael «Pronunciamento", poteva dirsi finita, come osserva la Storia di Eligio Po­metta e Giulio Rossi, l'età eroica del regi­me che ormai da liberale s'era fatto libera­le-radicale; ma non era finito il regime in sé, che trovava in un certo senso una op­posizione doppia, 'proveniente dagli anti­chi moderati Che S1 andranno dicendo "li­berali-conservatori», e da elementi che eran all'interno del partito stesso al pote­re, i quali lottavano ora contro veri o sup­posti soprusi di taluni «luogotenenti» o lper dir con parola che certo allora non usava) «gerarchetti», e ora, sulla falsariga di quel che si dava contemporaneamente in altri Cantoni (a Zurigo per esempio, dove fino allora aveva voluto campeggia­re la figura di Alfred Escher) per una maggiore «democratizzazione» dell'ap­parato politico, cioè in particolare per il voto segreto, per la libertà religiosa e di insegnamento, per l'elezione dei deputati al Gran Consiglio in base alla 'popolazio­ne, e non più come finora aJ. Circoli, a ognun de' quali ne venivano destinati tre. I postulati potevan dirsi in buona mi­sura comuni ai «democratici» e ai liberali «conservatori", e solo in piccola parte potevan essere fatti propri dal partito al potere, che comunque osteggiava, per sue ragioni che non palesava, il voto se­greto. E nel punto non si vedeva come si potesse arrivar a un'intesa. (E per dir del­la lotta contro i «luogotenenti,., sarà da citare, nel 1864, il bimensile di piccolo formato «Il Martello», «Eco dene rupi d'Onsernone», redatto, col prof. Gio­vanni Nizzola, da Remigio Chiesa, che già aveva dato alle stampe nel '62 due opuscoli contro quelle che definiva "so­perchierie» ).

Voleva mtanto imporsi, fra contrasti che non eran soltanto di partito, la que­stione, per molti ormai lmprorogaJJile, della capitale stabile, la quale fu fissata nel luglio 1870 dal Gran Consiglio a Bellin­zona: donde l'abbandono irato di quasi tutti i deputati sottocenerini delI'aula parlamentare, e una conseguente vivace agitazione di piazza, specie a Lugano, con proteste gridate e tumulti. Non ci voleva <Ii più perché il Consiglio federale inter­venisse, mandando nel Ticino ben tre · commissari, che non combinarono nulla. Il moto non accennò a spegnersi, e anzi sorse un movimento minacciando la di­visione del Cantone, e una richiesta in tal senso pervenne al Parlamento federale, che la respinse: e fu nel punto quasi salu­tare lo scoppio della guerra franco-prus­siana, che valse a stornar gli animi da quel focolaio che minacciava incendio.

Né si può dir che valesse a rafforzar il Governo radicale l'insorger dene polemi­che a proposito della riforma della Costi-

tuzione federale, nel '72, quando la pro­posta cadde, e nel '74, quando fu accetta­ta: nell'un caso e nell'altro il Canton Tici­no però si espresse in senso nettamente negativo, secondo la scelta del partito li­berale-conservatore, di contro alla posi­zione invece assunta dalla maggioranza degli esponenti radicali. Né era valso il tentativo radicale di avviare, in specie per suggerimento di Carlo Battaglini, una politica di conciliazione, col far entrare in Consiglio di Stato, ch'era allora di sette membri, due ral'presentanti conservato­ri: che peraltro oovevan ridursi nel '73 a uno solo. Né, ancora, giovava la sempre aperta questione diocesana, nella quale si mescolavano rigurgiti di anticlericali­smo, che peraltro trovavano ostile la stes­sa maggioranza del Gran Consiglio. Nel '72 la votazione per il Consiglio naziona­le (che era, giusta la legge federale, a voto segreto) segnava una chiara vittoria dei li­berali-conservatori, che ottenevano 4 seggi su 6. Di qui, da parte dei radicali, una serie di contestazioni e ricorsi, e l'in­vio nel Ticino, da parte del Consiglio fe­derale, di due altri commissari per un'in­chiesta, che porterà alla ripetiz10ne della votazione ne1 '73: la quale però ribadì i ri­sultati della prima. La questione del voto segreto o aperto si faceva primeggiante, e al proposito il Gran Consiglio si mostra­va incerto e diviso; evidentemente si da­vano anche n. spostamenti di tendenza, e il paese mostrava di voler intraprendere una strada nuova, e diversa. Non desiste­va comunque il Governo, che volle raf­forzare, o come si diceva «rinvigorire», 1,,­sua azione, con l'immissione di giovani elementi tra i più accesi: e si dié poi a emanare ordinanze di contenuto netta­mente anticlericale, che ponevano osta­coli alla libertà del culto cattolico, quasi si volesse allineare il Ticino coi cantoni all' avanguardia del contemporaneo " l.VJ1-turkampf». Nel frattempo, peraltro, una commissione composta di Carlo Batta­glini, Carlo Olgiati e Vittore Scazziga ap­prontava il nuovo coruce penale, che ven­ne sottoposto alla revisione del grande giurista Francesco Carrara dell'università di Pisa (significativo il suo giudizio: «lo non posso che tributare elogi al vostro progetto. Vi scorgo unità di concetti; prevalenza di quei princiPi umanitari dei quali ormai non si può più disconoscere la signoria sul giure penafè, vi trovo proclamati tutti quei principt che la mo­derna scienza penale ha riconosciuto ... ») e quindi approvato dal Gran Consiglio il 25 gennaio 1873.

In questa atmosfera ch' era satura di elettriatà, s'arrivò alle elezioni per il Gran Consiglio del 21 febbraio 1875, in vista delle quali illuganese avvocato Ber­nardino Lurati, che già aveva avuto un bel peso nella rinascita della stampa, co­me ormai si diceva, liberal-conservatrice, dava fuori un opuscolo: Ricordi ai Ticine­si, che rifletteva bene la sua mentalità,

schiva degli estremismi e vòlta al ragio­nevole e al concreto: e fu pubblicazione (redatta in termini piani e tuttavia ele­ganti, non privi qua e là di una contenuta enfasi e di moderate citazioni classiche) che certamente importò sull'esito dei co­mizi. Il Lurati, invero, parlava un lin­guaggio moderno e non reazionario: e se, considerando la grave situazione finan­ziaria, osservava che il bilancio passivo del 1830 (onerosissimo a causa dell'in­gente sforzo sostenuto per compiere la rete stradale e in particofare «l'arteria del San Gottardo») era risultato otto anni dopo notevolmente diminuito, mentre da allora s'era moltiplicato, subito ag­giungeva che l'osservazione era fatta uni­camente «per la storia finanziaria» e non per tracciar un' apologia del governo del 1838, «illiberale e ingiusto», e a' suoi oc­chi non immune di «molte p:cche», pri­ma fra tutte quella di «aver v1Olato il dirit­to d'asilo, sacro per gli svizzeri», e insom­ma «origine del presente sgoverno". Per il Lurati il partito dominante, «fattosi chiamare e chiamandosi liberale», aveva compiuto una «usurpazione di nomi,., anzi operando «man bassa sui princip1 più elementari delle pubbliche liJJertà»: e In primis si citava la «libertà elettorale", basata sul voto segreto, già «grid.o di guerra dei riformatori del 1830» , e ora ne­gata dai «nostri signori al Potere», eh «col mezzo del voto aperto intendono perpetuare la loro signoria», in contrasto con gli stessi metodi di votazione federa­le. Il voto aperto, afferma il Lurati, «è il controllo del compratore sul venditore, del corruttore sul corrotto, del Potere sull'impiegato, del creditore sul debitore, del locatore sul conduttore, del ricco sul povero, del partito su quelli che crede a sé devoti».

Altro elemento di libertà elettorale, il «voto per Comune, negato e respinto dal sistema», mentre il vigente voto per Cir­colo era «fomite di liti e di corruzione e di passioni politiche», e causa di confusione e di ingiustizie. Altro punto essenziale, la «libertà d'insegnamento», per la quale il Lurati aveva parole accese: «Quando il Potere pubblico si è fatto padrone della istruzione, essa scadde e l'insegnamento fu un giuoco d'altalena, secondo le viste e la volubilità dei governanti»; donde le re­centi «continue i-iforme e rifusioni di leg­gi scolastiche». In genere, ora si dava «un'atmosfera ristretta ove si muore di soffocazione»: sicché «libri e metodi, cor­si ed esami, premi e censure, tutto è offi­ciale; officiali le letture e gli esempi, il fra­sario, i princip1 e perfino gli errori». Non certo veniva negato l'insegnamento ob­bligatorio, né si domandava che si apris­sero istituti religiosi, ma che «si lasciasse almeno la libertà ai laici»: e il Lurati citava gli esempi dell'Italia, della Francia, della Germarua, dell'Inghilterra, del Belgio, della Grecia, degli Stati Uniti, e di molti

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Stabio, 22 ottobre 1876 (disegno)

Cantoni svizzeri, in cui la libertà d'inse­gnamento era proclamata dalle costitu­zioni, e dalla stessa costituzione federale, la quale, affermando l'obbligatorietà del­la istruzione, non una la parola contene­va che quella libertà restnngesse. Di poi, le libertà pubbliche, concultate da «arre­sti arbitrarii», da "per<J.uisizioni domici­liari», da «precetti» dan ai cittadini «per opinioni politiche», proprio "ad Ìfiuta­zione delfa polizia austriaca».

Altri punti riguardavan le già citate «finanze», e la «giustizia». E quanto alla «libertà religiosa», il Lurati teneva pure un linguaggio misurato ma fermo: «Noi deploriamo il fanatismo religioso; ma de­ploriamo ancor più il fanatismo irreligio­so». Certe restrizioni civili aJ?plicate ai sa­cerdoti erano una patente v101azione dei diritti del cittadino: «La revoca dei parro­ci e la legge che colla vendita dei beni par­rocchiali fa del prete un salariato distrug­gono in gran parte l'apostolato religioso, perché rendono il prete dipendente dal suo elettore»: un sistema già condannato dal conte di Cavour, che solo si attagliava alle chiese cosiddette nazionali, "dove la Chiesa è serva dello Stato». E il Lurati continuava affermando: «Desideriamo il prete morale, istruito, tollerante; ma lo aesideriamo libero». Troppo evidenti le tendenze del sistema, che «oggi ci vuoI regalare la Chiesa nazionale, domani il vecchio cattolicismo, doman l'altro la re­ligione dell'avvenire». All'esempio di un Bismarck, alfiere del Kulturkampf, il Lu-

rati esortava a preferire «la civiltà latina, che ci dà esempio di libertà e tolleranza religiosa»; e soggiungeva: «Guardiamo all'Italia», come dir a uno Stato che s'era appena formato non senza i contrasti, persistenti, de'. clericali più accesi: il che poneva la dissertazione su un piano, per air cos1 e senza pretese di esattezza, catto­lico-liberale. E del resto «riparatore e libe­rale e soprattutto non esclusivista» era definito in chiusa il governo che si spera­v~ ~ veder sorgere dalle prossime ele­Z10nl.

Nel gran tumulto delle polemiche, la voce del Lurati convinse certo molti (ch'eran magari fautori del «giusto mez­zo» e, senza aderir forse in tutto al pro­gramma dei liberali-conservatori, aborri­van i radicalismi ed erano stanchi dei con­trasti che ormai duravano da anni e non accennavano ad affievolirsi) a passar nelle schiere della già organizzata opposizione: la quale il 21 febbraio, in un'atmosfera tuttavia tranquilla, ottenne una vittoria netta, e mandò in Gran Consiglio 66 de­putati, contro 44 governativi e 4 indipen­denti. Ma la situazione non volle farsl per questo chiara, ché, per il meccanismo elettorale, il governo a maggioranza radi­cale restava in carica: donde il profilarsi d'un continuo conflitto. Il nuovo Gran Consiglio, nel quale si affermava come personalità primeggiante Gioachimo Re­spini, valmaggese di Cevio, già maestro elementare e poi emigrato in Australia, e quindi studente nelle università di Siena

e di Pisa (allievo di Francesco Carrara) dove si era laureato in legge, varava un progetto di parziale riforma costituziona­le (la «Riformetta»), per cui si introduce­va (giusta l'auspicio del Lurati) il voto se­greto e per Comune e la libertà d'inse­gnamento privato nei limiti della Costi­tuzione federale: ma la legge di applica­zione, il cosiddetto «Riformino », cIie tra l'altro prevedeva come base per l'elezio­ne la « popolazione di diritto" (com pren­dente cioè anche i ticinesi all'estero), osteggiata dal Governo, che sosteneva invece il principio della «popolazione di fatto», rimaneva in sospeso. In quel mez­zo (17 marzo 1876) veniva accolto un ri­corso al Consiglio federale di Augusto Mordasini contro i modi delle elezioni del 21 febbraio 1875, onde il Governo eil partito liberale sostennero la tesi che il Gran Consiglio eletto fosseincostituzio­nale, e però incompetente ad adottar leg­gi e decreti, e si rendessero quindi neces­sarie nuove elezioni; né cessò da-<Juell'in­terpretazione per quanto il Conslglio fe­derale, in una successiva dichiarazione del 17 giugno, si facesse a respingerla. Il conflitto dai consessi passò nel paese, con urla serie di agitazioni e di violenze di piazza, specie a Lugano e a Locarno, dove sedeva il Governo; sicché non poteron tenersi i comizi, convocati contrastata­mente dal çJran Consiglio per il « Rifor­mino» e dal Consiglio di Stato per le nuove elezioni, domandate dai radicali sulla base della "popolazione di fatto »; e 5

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l'atmosfera da inquieta si fece addirittura tragica il 22 ottobre, quando ai bagni di Stabio si verificò una sparatoria che fece vittime di entrambi i partiti e, suscitando grandissimo scalpore, segnò in un certo senso il culmine di que' sentimenti d'odio politico. Si poté temere che l'agi­tazione si estendesse, anzi si fosse sulla soglia d'una guerra civile: onde il Consi­glio federale inviò nel Ticino un altro commissario, Simon Bavier, che poté ot­tenere almeno una tregua (non di più, ché l'esacerbamentodegli "animi volle continuare, e nello stesso Stabio in Earti­colar modo, dove men di tre anni aopo doveva darsi un altro clamoroso fatto di sangue). Il Consiglio federale, peraltro, poté anche intervenire a dirimer il con­flitto costituzionale che 1?areva un nodo gordiano: e cos1, grazie al buoni uffici di Emil Welti, uomo superiormente mode­rato, e alla buona volontà degli esponenti migliori dei due partiti, dal Battaglini al Mola al Respini aI Pedrazzini, due setti­mane dopo si poté approdare a un accor­do, per cui si sarebbe arrivati a rinnovar anticipatameQte il Gran Consiglio, a vo­to segreto e per Comune, ma sulla base della "PoEolazione di fatto» che il censi­mento federale aveva accertato: e i con­siglieri di Stato davan nel mezzo le lor an­ticipate dimissioni. La votazione che ne segul, il 19 gennaio 1877, riconfermò in Gran Consiglio la maggioranza dei libe­rali-conservatori, anzi la rese più netta, 69 contro 41: e poco dopo poté formarsi il nuovo ~overno (ridotto ora a cinque membri), composto di Gioachimo Re­spini, Martino l>edrazzini, Massimiliano Magatti, Filippo Bonzanigo ed Ermene­gildo Rossi.

Certo il Governo conservatore non doveva trovare ora dinanzi a sé una strada in tutto piana, ché intanto i "fatti di Sta­bio» continuavan a commuovere gli ani­mi, sfociando in un clamoroso 1?rocesso, e i tafferugli continuaron in var1 siti, e si trasformaron 1?iù d'una volta in risse, do­ve agli insuln s'accompagnaron anche percosse e ferimenti, e in un caso, a Sessa, s'ebbelure un morto. Un particolare moto resistenza violenta s'ebbe a Lu­gano, dove a gran voce si gridava all'in­giustizia e alla sopraffazione: sicché il Go­verno, nel mese ai agosto, si vide costret­to a ordinar un'occupazione militare in piena regola. Certo i motivi del malcon­tento non mancavano, da .parte dei soc­combenti. La nuova maggtoranza, come forse era fatale, tendeva ora a imprimere il suo marchio a tutta la vita del Cantone, con le caratteristiche, già verificatesi in senso 01?posto nel periodo precedente, del "regtm~~; e a1?Earivan,? ~ella pratica accantonan 1 monV1 enunC1an da Bernar­dino Lurati nei suoi Ricordi, ché ora inve­ce un Respini e gli uomini che lo seguiva­no erano 10 un certo senso per una politi­ca della forza derivata dal numero, quasi

Il colonnello brigadiere Avv. Pietro Mola di Coldrmo

inclini a una forma di integralismo; e pe­raltro l'influenza del Lurati, che si spe­gnerà nel 1880, sembrava debole viepiù. Così vennero esclusi dai posti di respon­sabilità non pochi funzionari che mostra­vano di non aderire al « nuovo indirizzo», o addirittura di intralàarne il cammino: in particolar~ taluni .profes~ori del Lic~.

E pure" è 10negablle che 11 nuovo regt­me arrivò presto a importanti attuazioni. Già nel '78 veniva risolta defì.nitivamènte e nella pratica la questione della capitale del Cantone, fissata come principio a Bel­linzonagiànel1870: efu questo unimpe­gno particolare del Resp1ni, che trioiifò dell'opposizione tenace aei luganesi, nel-

la questione uniti senza distinzioni d parte, dal radicale Carlo Battaglini al con servatore Massimiliano Magatti.: la vota zione cantonale, svoltasi il 10 marzo, mc strò il popolo ticinese largamente con senziente. Nel 1879 e nell' '82, sotto l'im pulso particolarmente energico di Marti no Pedrazzini,. si poté Erocedere (com vien detto in altra parte di questo fasciee lo) alla generale riforma dell' ordinamer to scolastico. Ancora in quegli anni si di mano a una più generale riforma del s stema elettorale {che chiamò invero g alti lai dei radicali, dipoi pertinaci nell polemica, come vedevano il sopruso: aopo la prova, che insomma era stal

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precaria, del '77: il Gran Consiglio sareb­be stato eletto in base a un deputato so­pra 1200 anime della «popolazione di fat­to"», e i 38 Circoli erano, per quanto ri­guardava le elezioni, sostituiti da 25 nuo­vi Circondari. Veniva introdotto il refe­rendum in materia legislativa; si dié ma­no a una" riforma giudiziaria», per rende­re il sistema più snello e meno costoso; lo Stato assunse, nell' '87, la totale manu­tenzione delle strade, alleggerendo cos1 gli impegni finanziari dei Comuni. E s'ar­rivò in dieci anni a diminuire, giusta un de' postulati da Bernardino Lurati enun­ciatI, di quasi un milione e mezzo il debi­to I.>ubbIico. E notabilissimi furono i la­von pubblici eseguiti, tra i quali primeg­giavan gli avviati (e in parte attuati, pur fra le opposizioni d'una popolazione miope) mdigamenti dei fiumi Ticino (quasi attuando per tal via il sogno ch'era stato di Carlo Cattaneo) e Maggia. E ven­ne risolto, come pure in separata tratta­zione del fascicolo si vede, il problema diocesano, che ormai si trascinava da troppi anni, con conseguenze ch' eran per t~tti n~ga~v:e. Momenti indim~nticabili VIveva 11 TIcmo nel 1882, con l'maugurà­zione della linea ferroviaria del San Got­tardo, e nell' '83 (in particolare Lugano, dove la maggioranza liberale persisteva: ma nel punto, dopo qualche dubbio, si dette fra i due partIti una sorta di «entente cordiale») col Tiro federale, d'esito eccel-lente. .

E tuttavia, col passar degli anni, l' o.p­posizione volle riprender fiato, e farsi VIe­più acerba la sua polemica attraverso i giornali, in specie «Il Dovere». Non mancavano peraltro gli argomenti: il «Ri­formino», votato nell"80, indubitabil­mente tendeva a dare ai conservatori, già favoriti dalla geografia elettorale, premi di maggioranza assai alti, donde le radica­li grida di ingiustizie, che avevan presa su larghi strati dei cittadini. (Qualcosa ten­tava di fare il Consiglio federale, tutto ra­dicale, per «correggere» in senso oppo­sto, stabilendo un «Circondarietto" per le elezioni al Nazionale dell' '81: ma non sortì lo sperato effetto, per giungere al quale si dové procedere, nell' '82, a un ri­corso e a un'inchiesta, che risultò di par­te: donde in quell'anno diatribe a non fi­nire sui giornali).

Il carattere del Respini, che restava il «leader" dei governativi pur essendosi p'resto ritirato dal Governo per conservar il seggio di deputato cantonale e di con­sigliere agli Stati, non era fatto per acqui­sirgli soltanto simpatie: volitivo e autori­tario, il Respini portava innanzi una poli­tica senza compromessi, talvolta lontana dal programma espresso ne' Ricordi dal Lurati, che aveva raccolto, nel '75, l'ade­sione anche.di tanti moderati: una parte dei quali ora si mostrava delusa del «nuo­vo indirizzo". La realtà era che i liberali­radicali registravano continui progressi,

in parte anche determinati dalle natura­lizzazioni, ch' eran favorite nei centri e av­versate dalle conserva,trici campagne, e dall'immigrazione di confederati di lin­gua tedesca e di religione protestante, so­prattutto impiegati della «Gotthard­bahn». E quello che si dice illogoramen­to del potere faceva il resto, ma negativa­mente, ne' confronti dell'altra fazione. U n fatto parimente innegabile era pe~ò che intanto si faceva innanzi una giovane generazione radicale che contava elemen­ti di valore e soprattutto grande eloquen­za, come Romeo Manzoni, Stefano Ga­buzzi, Alfredo Pioda, Achille Borella, Curzio Curti, Brenno Bertoni. Sicché, quando si dettero le elezioni per il rinno­vamento del Gran Consiglio (3 marzo 1889), le posizioni apparvero alquanto ravvicinate: donde un'atmosfera di gran­de tensione alla vigilia, non turbata da particolari violenze, ma contrassegnata da un numero esorbitante di ricorsi. A cose fatte, si ebbe una nuova vittoria con­servatrice, ma con un margine assai ri­stretto, che tuttavia consentl una mag­gioranza grandissima di eletti, 77 deputa­ti contro 31. I liberali non si adagiarono ai risultati: e ne vennero altre violenze, con assembramenti di gruppi armati del­le due parti, minacce di sommosse. Parti­colarmente grave si mostrò la situazione a Lugano, dove qualche conservatore venne aggredito e ferito: e siccome pesa­va sulla città la minaccia di un colpo di mano da parte di conservatori della cam­pagna, il Consiglio federale investì il co­lonnello Eugène Borel, già inviato alla vi­gilia delle elezioni quale delegato, della funzione di commlssario, ponendogli agli ordini un battaglione .zurighese: il che valse forse a evitar il peggio negl'im­mediati frangenti, ma non poté certo ri­solver una situazione politica confusissi­ma e greve di forse inopinabili sviluppi.

Giulio Rossi- Eligio Pometta, Storia del Cantone Ticino , II edizione con prefazione di Giuseppe Martinola, Locarno 1980.

Antonio Galli, Notiziesul Cantone Ticino, Bellin­zona 1937.

Mario Agliati, Storia della Svizzera, voI. II, Lu­gano 1969.

Bernardino Lurati, Rirordi ai Ticinm, ristampa, Lugano-Mendrisio 1901.

Prousso di Stabio sui fatli del22 ottobre 1876, Bel­linzona 1880.

Angelo Tarchini, Nel centenario della nascita di Gioachimo Respini, Bellinzona 1937.

Piero Bianconi, La giovinezza di Gioachimo Re-spini, Locarno 1975. .

Carlo Speziali, I fatti di Stabio del 22 ottobre 1876, Bellinzona 1977.

Der Stabio-Prozess! In zusammenhange ge­schichtlich dargestellt durch Dr. J.A. Scartazzini, Ziirich 1880 [una serie di articoli, notevolmente di parte, dal grande dantista, presente a Stabio come corrisl?ondente, inviati alla «Neue Ziircher Zei­tungoJ.

. Pertinace, Andrea S~rtazzini al processo di Sta­bIO, -Il Cantonetto o , dicembre 1965.

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I giornali

Riprendiamo il discorso dall'altra vol­ta, quando si era parlato, in chiusa, della «Voce del P~OIO», giornale politico di opposizione cioè moderato, o, come si diceva o si . à, liberale-conservatore), apparso a Lugano, presso la tipografia Traversa e Degiorgi, e diretto da Bernar­dino Lurati. Il nuovo foglio coglieva be­ne uno stato di disagio che, negli anni successivi al Pronunciamento, era · pure diffuso: e, accolto bene specialmente a Lugano e nel Luganese, era destinato a non essere, si scriveva ancora l'altra volta, una meteora, e anzi ad addentrarsi ne' successivi decenni: però, fuor che sull'al­ba degli anni Sessanta, con altro nome, anzi con altri due successivi nomi. Anzi­tutto s'ebbe, dal 1862, a continuazione della« Voce del Popolo», «Il Cittadino ti­cinese» ( <<giornale politico» del martedì. e del sabato), sempre stampato dalla Tra­versa e Degiorgi, ormai avviata a diventar la tipografia della parte dichiaratamente cattolica. Scriveva nel primo numero del 22 giugno con ogni probabilità il Lurati: «La discussione sulla cosa pubblica ci par­ve un bisogno sentito dallo universale. Fu questo il movente che ci determinò a mettere in luce un nuovo giornale desti­nato a spiegare al popolo quali siano i principi liberali, a chiamar le reggi, a com­battere gli abusi dell' autorità e a proporre quali nuovi ordinamenti che crooeremo consoni alla posizione politica e materia­le del paese». Quanto ai princlpi, onde -Il Cittadino» si poneva «tra le stampe d'opposizione», si potevan riassumere nella battaglia per "la libertà d'insegna­mento, la riforma giudiziaria, il voto se­greto, la libertà di culto, il veto popolare nelle questioni di somma rilevanza, la ri­forma del sistema amministrativo»; che saranno più o meno i postulati, sarà da dir di passata, contenuti nei Ricordi (1875) dello stesso Lurati.

Passavan non molì' anni, e forse quel titolo parve troppo angusto, o tradizio­nale: al dir di Louis Delcros, alcuni ne do­mandarono un altro, «che potesse garrire al vento come una bandiera»: e si ebbe, che certo in quel senso era scelta felice, «La Libertà". Il «Cittadino» 1'8 dicembre 1865 annunciava di sospendere le sue pubblicazioni il successivo giorno 16; e 10 quello stesso numero si leggeva pure l'<<Avviso di associazione nel 1866 alla "Libertà"», «giornale tutto consacrato al prosperamento morale e materiale del popolo ticinese», annunciato come tri­settimanale, «formato a tre colonne, cOn buona carta e caratteri nuovi». Già il 31 dicembre 1865 appariva il primo nume­ro, che in effetti sarebbe piuttosto da dir, con linguaggio d'oggi, il «numero zero», ché l'apparizione vera e propria e conti­nuata era rimandata al 6 gennaio del '66,

«per le difficoltà del primo impianto dei registri di amministrazione e spedizio­ne»; un numero a'ogni modo che, ponen­do sotto la testata l'indicazione «foglio popolare ticinese» (dove c'era quasi una fievole eco delle due testate precedenti), recava,. come veniva detto, «due parole di programma». Si trattava, dicevan tral'al­tra quelle righe, di un giornale insieme nuovo e non nuovo: nuovo, se veniva ba­dato al titolo, al numero delle pubblica­ziòni e alla distribuzione delle materie; ma per dir così antico, affondante le radi­ci in un passato ormai non tanto più prossimo, se si poneva mente ai princi­pii, «che i gentili associati conoscevano nel redattore-proprietario »: come a dir in Bernardino Lurati, penna cortese, agile e chiara, e nel contempo ardente e circa l'essenziale ferma. «La Libertà» a ogni modo, veniva aggiunto in quelle «due pa­role», voleva essere «giornale svizzero e ticinese per eccellenza»: e in particolare come giornale ticine e era «decisa ad ado­perarsi del suo meglio per regger dal pre- . cipizio le sorti del Cantone, le quali per . mala ventura, a giudicare dagli stessi me­no sospetti, volgevano a miseranda rovi­na». E si soggiungeva: «Il salvare la patria da tanto e sì grave male non è reazi~one o tradimento, non è gioco di partiti. E ope­ra santa, deve essere comune aspirazione di tutti i veri cittadini». S'entrava poi nel­la specificazione di alcuni punti: « Voglia­mo che le religiose credenze della genera­lità del nostro popolo siano rispettate e protette. Epperò bando allo spuito teo­Iogastro e sagrestano che ha penetrato fin al midollo dell'attuale sistema. .. Voglia­mo che la pubblica istruzione riesca di reale beneficio ai giovani, alle famiglie e al paese. E perciò combatteremo le ten­denze pagane dell'odierno monopolio e la febbre di propaganda 'politica che do­mina i sopracciò nell'lOsegnamento ... Propugneremo la riforma costituzionale, che sola può migliorare le libere istituzio­ni, inaugurare il perfezionamento del no­stro stato sociale ed assicurarci dai perico­li morali ed economici dell'avvenire». E altro veniva detto, a proposito di auspica­ti cambiamenti ner campo finanziario, . per "scansare ogni più Forte aumento degli aggravi cantonali e comunali», e nel cam{>O giudiziario. La conclusione, poi: «Il v1gente sistema, che vale il dissimular­lo? troverà in noi avversari aperti e infles­sibili, ma giusti, ragionevoli, leali. Noi fe­riremo di fronte gli avversari, lasciando ai vili la soddisfazione di percuotere a ghia­do e nelle reni». Quanto allo stile, sareb­be stato «famigliare, popolare», ché il giornale voleva esser «per il popolo, non per illosofi e scienziatl». E per dir in ge­nere della «Libertà», basterà che toglia­mo il titolo d'un editoriale, nel numero del 5 marzo: Bisogna mutar sistema! Ac­canto al Lurati, «La Libertà» si avvalse della penna dell' avvocato Carlo Conti

(1836-1900), già redattore del «Creden­te» e futuro consigliere di Stato, e fin al 1875 restò a Lugano, presso la Traversa e Degiorgi, intensificando l'uscita, da tre a quattro volte la settimana; e passò quindi a Locarno, in una tipografia che il Motta definisce «di famiglia», appunto detta «della Libertà» (ma doveva essere una sorta di succursale della «Traversa e De­giorgi»), ed ebbe come redattore allora Martino Pedrazzini; finché, fissata la ca­pitale stabile, combattute varie vittoriose battaglie, e ricca di un bel notiziario sviz­zero e internazionale, si trasferì a Bellin­ZOna: e ormai aveva la sottotestata di «foglio liberale-conservatore ticinese». Nel 1881, 6 agosto, compariva a Lugano «Il Ceresio», «giornale popolare ticine­se», stampato dalla «Traversa e Degior­gi», che intanto, passata «La Libertà» col «Credente Cattolico» a Bellinzona, aveva trasportato il materiale della -Tipografia della Libertà» nell' antica sede di Lugano. Diceva tra l'altro il programma: «Mani valorose ed abili reggono la nave della Repubblica fra le tempeste della vita poli­tica. Ristabilito è il regno di Astrea. Il Ti­cino non è più la stalla di Augia; e le pas­sioni selvagge non governano più lo Sta­to. Sovrana è ora la legge. Ma tuttora spi­rando "venti insidiosi e insidie", occorre­va star alle velette. «Il Ceresio si metteva dunque nettamente sul piano governati­vo, ma si profilavano presto contrasti con «La Libertà»; e la vita del foglio luga­nese, forse ispirato da Massimiliano Ma­gatti, non andò oltre il 1883.

Sull'opposta sponda, - Il Repubblica­no», morto una prima volta nel 1850 e ri­nato nel 1855, e subito morto di una morte «secunda,. (ma non nel senso del Cantico delle creature ... ), rinato nel '61 e ri­morto tosto ancora, tornato a rivivere nel '64, per star vivo ancora quattr'anni, fia­ché nel '68 ne raccoglieva in un certo sen­so l'eredità «La Tribuna», un «foglio ros­so luganese», al dir del Motta, che si defi­niva sotto la testata «liberale», e s'accom­pagnava alle parole: «Libertà, Democra­zia, Progresso». Ispiratore ne era Carlo Battaglini, già anima del «Repubblicano» ne' suoi momenti migliori, e redattore il giovane figlio di lui, Antonio. Il primo numero, col "program.ma», apparve il 14 gennaio, e lasciava intender d'una crisi che ormai s'agitava in quella fazione: «Deplorevoli vicende - si scriveva -hanno, nel giro di un biennio, recato gra­ve scossa all'armonica compagine del si­stema liberale ricinese. La possanza di quelle forze vive che costituivano il gran fascio del partito progressista ha patito detrimento per l'effetto di un' opera siste­matica di disgregazione .. . Gli organi del­la pubblica opinione risentirono gli effet­ti ili questo ' squilibrio e l'uno dietro l'al­tro soggiacquero, lasciando il vuoto e il silenzio d'attorno al glorioso vessillo del liberalismo. Ora la Tribuna viene a riem-

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pire la lacuna aperta dalla scomparsa della stampa liberale». E il suo annuncio vole­va esser già di per sé «un interò Erogram­ma, affermazione dei principii e aelle idee d'un partito ormai storico». Né peraltro si voleva uscire da un «modesto accento» ch'era di «sinceramente promettere al popolo quello soltanto che si confa all' in­aole sua 00 a' veraci interessi suoi». Ma al di là di taluni postulati ormai noti (<<in­cremento della pubblica istruzione», «li­bera dalle pastoie clericali»; incoraggia­mento delle «leggi che tendono a riven­dicar la sovranità dello stato alle viete usur.pazioni di Roma»; "ordinamenti mi­litari necessari a proteggere l'indipenden- . za della patria» eccetera), era interessante quel che nel programma si scriveva, pro­oabilmente per la penna di Carlo Batta­glini, direttamente intorno al problema economico-politico e insomma anche so­ciale: in esso si auspicava una «saggia al­leanza della libertà lOdividuale e della so­lidarietà», e si sosteneva la necessità l?er lo Stato di astenersi, là dove l'iniziatlva individuale bastasse a condurre a buon fi­ne un'intrapresa, ma anche di intervenire nel caso contrario, poiché «lo Stato altro non è, in fatto, che una società cooperati­va". Quanto al "Potere», gli si domanda­va una partecipazione al movimento del­la vita politica, pena altrimenti l'aver «un governo neutro e anfibio»: «Il Governo, dovendo essere l'emanazione, anzi l'e­spressione d'un partito, il rap'presentante d'un sistema, la più ovvia raglOn politica esige ch'esso militi attivamente sotto un'unica bandiera»: il che poteva essere interpretato come un incitamento all'au­t?rità per un'azione più dinamica e inci­SIVa.

. A Bel1inzona, intanto, s'era data una reviviscenza, quella "Democrazia» redat­ta dal canonico Ghiringhelli, ch'era vis­suta tra il 1852 e il '62, e poscia s'era spen­ta, ma ora rinasceva, come «giornale poli­tico popolare», con un primo numero comparso il 29 dicembre 1868, recante il programma, firmato da una triade squisi­tamente bellinzonese, Andrea Molo, Ste­fano Gabuzzi e Filippo Rusconi: dove ve­niva detto che la «Democrazia» era ripor­tata in vita perché si desse un perioruco politico anche nella parte superiore del Cantone, tanto più che Bellinzona era or­mai incamminata a diventar sede gover­nativa. Il giornale si chiamava «Democra­zia» richiamandosi «a un avventuroso passato»; risorgeva adesso, si scrivevaim­maginosamente, «scossa dal suo letargo, girando lo sguardo per vedere che cosa si era fatto nel decennale silenzio [ch'era poi un decennio di soli sei anni]: si era ad­aormentata tra le grida di riforma e di re­visione della Costituzione.. . Aveva so­gnato un idillio; e invece si ridestava fra le stesse grida, fra gli stessi bisogni, gli stes­si anacronismi, senza che si sia progredi­to d'un passo . . . Si levava perciò corruc-

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ciata, rialzava la sua bandiera e scotendo­la sulla fronte dei patrioti assonnati, dei liberali intiepiditi, li chiamava a raccolta, all' opera di edificazione e di continuazio­ne dell'impresa che ci avevan lasciato in eredità i grandi Cittadini sulla cui zolla ancora di fresco scossa piange tutto il Ti­cino». Si concludeva: «La "Democrazia" riprende il suo apostolato». Ma non durò a lungo, alla fine d'ottobre del 1870 anche la seconda «Democrazia» s'ammutoliva in vitam aeternam.

La. volle sostituire in un certo senso «La. Riforma elettorale", che cominciò nel '72 e nel '73 era già bell' e finita, o, per dir col Motta rinnovata nel nome di «Il Gottardo», giornale, come recava la sot­totestata, «delliberalismo ticinese», sem­pre nella stessa stamperia Colombi. Il programma peraltro, pubblicato nel pri­mo numero del 6 gennaio '73, faceva pen­sare a una missione a dir poco doverosa. Il giornale, vi si sosteneva, costituiva un «soccorso sl?ontaneo a un bisogno canto­nale»: «Tra l patrioti illuminati corre un lamento simile a quello di nascosta e mal definita malattia: che illiberalismo tici­nese è caduto in un marasmo, che è scuci­ta ogni organizzazione, che manchiamo di un organo veramente cantonale»: e dunque ecco «Il Gottardo» pronto a bat" tersi per la «difesa delle dottrine liberali conformi agli interessi generali e al pre­sente sviluppo delle idee, sia nelle cose politiche sia nelle sociali». E però forse

da dire che «Il Gottardo», nonostante le sue ambiziòni, non poté essere, nella par­te liberale, un foglio veramente, come si dice, egémone. Qualche diffidenza o ri­sentimento o sorriso amaro par di avver­tire che si desse, nei colleghi di giornali li­

·berali ancor vivi, o da poco defunti. A Lugano scompariva in quel torno di tem­po «La Tribuna», e veniva tosto sostituita da un'altra testata rediviva, più impor­tante della ghiringhelliana "Democra­zia», cioè «Il Repubblicano della Svizzera Italiana», riapparso nel gennaio 1874, re­cante «m exergue» la famosa «triade» battagliniana: «Tre cose siano poste a sal­vare la Repubblica: la costituzione delle leggi; la virtù dei magistrati; le accuse dei vizi». Ancor qui l'ambizione pareva gran­de: di tornar a essere cioè il vero e più im­portante organo del partito liberale: e di­fatto «La Tribuna» aveva già cessato le pubblicazioni, e a Lqcarno stava agoniz­zando «Il Carabiniere Ticinese", nato nel '73 e destinato a morire l'anno appresso, frammezzo a gravi traversie finanziarie; mentre «Il Gottardo», che pur continua­va, dichiarava, per la penna de' suoi gio­vani redattori, di aderire al programma del giornale luganese dalle molte vite. Il 1. gennaio 1874, a ogni modo, questo si annunciava con un messaggio «ruliberali ticinesi»: « Vi annunciamo una buona no­tizia. "Il Repubblicano", quel foglio che preparò e accompagnò le più splendide vittorie e le più disputate conquiste del li- 9

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beralismo, risorge; [ ... ] risorge e ripren­de il suo antico posto nell' agone politico, dicendo a tutti i liberali: contate su di noi». Molte le fume che accompagnava­no il manifesto: tra le altre, quelfe di Gio­vanni J auch, di Pietro Mola, di Gerola­mo Vegezzi, di Filippo Rusconi, di Leone de Stop'pani; e nella s~eteria c?mpariv~ anche il ndme, ancora lOcerto di grafia, di Rinaldo Simen. Magpa pars della redazio­ne voleva essere il ae Stoppani, che nel '54 era stato pure trai più fieri rappresen­tanti dell' opposizione, ond' era accusato dalla «Libertà" di aver operato un «volta­faccia»: al che egli reagiva con un articolo del 29 gennaio, interessante perché veni­va a chiarire una posizione politica che, vent'anni avanti, aveva potuto ingenerar qualche confusione. Su certi princlpi a ogni modo (come la richiesta del voto se­greto e per comune) il de Stoppani affer­mava di non decampare.

A compier la geografia giornalistica li­berale, sarà da dire che nel '70 nasceva a l.ocarno «l'Impaviqo», espressione dei fratelli Paolo e Augusto Mordasini, che durò, bisettimanale, fino al '73; e, che fu più importante, ancora a l.ocarno e sem­pre nella tipografia di Domenico Mariot­ta, il trisettimanale «Il Tempo», fondato da Augusto Mordasini e da. Rinaldo Si­men quasi sulle ceneri del «Carabiniere»: «giornale popolare», come pure si defini­va, apparso il 19 settembre. Ceditore-ti­pografo, rivolgendosi «ai lettori », diceva l e per una volta non era un modo di dire) che l'iniziativa «colmava una lacuna». Voleva essere «Il Tempo" un giornale 10-eale, anzi un «giornale del paese»: «Per circoscritta che sia la vita di l.ocarno, non sono poco frequenti le occasioni che sor­gono di dover desiderare un organo di pubblicità in cui la necessità e gli interessi aelle popolazioni possono venire conve­nientemente discussi e sviluppati»: e si citava l'esasperazione dei prezzJ. «in tutti i generi di prima necessità», derivata dal conflitto franco-prussiano e minacciante «quel giusto equilibrio di proporzioni che dev' essere a garanzia dell' ordine so­ciale". Si trattava anche di battere in brec­cia gli sfruttatori. l.ocarno, è vero, non era venuta a trovarsi in condizioni «più delle altrui sfavorevoli», e questo si dové all'onestà de' suoi esercenti: «ma se si avesse avuto a fare con degli ingordi spe­culatori, qual mezzo sarebbe stato più ef­ficace a limitare le loro pretese di quello di una stampa franca e coraggiosa che li avrebbe denunciati?». Si voleva quindi offrire «al Paese un giornale a comoda portata di tutte le sue necessità». Quanto al programma, era buona cosa non ab­bandonar la prudenza, ché, si soggiunge­va argutamente, «altro è il parlar di mor­te, altro è il morire». Intanto, il nome: «Abbiamo messo a contributo mille re­miniscenze e mille ragionamenti per as­sembrare un nome che non riuscisse co-

me le etichette di que' fabbricanti che poi si vedon· condannare a farne onorevole ammenda sul "Foglio officiale" [ ... ] "Tempo" significa progresso sicuro per­ché ragionato, e siccome noi, a stregua . delle nostre forze, non ristaremo dall' ap­poggiare in qualsiasi campo ogni pro­gresso che possa riescire benefico al po­polo, così ci lusinghiamo che il nostro nome, nel suo migliore significato, e le nostre azioni si troveranno oggi concor­di». E nessuno avesse poi mai da rimpro­verare agli estensori, «liberi come l'aria», di essere «all'attender corti». E per dire infine dello spirito politico che informa­va il giornale, sarà forse sufficiente segna­lare l'evidenza che veniva data all' arrivo a l.ocarno del Consiglio di Stato, pochi . giorni dopo il famoso voto del 21 feb­braio 1875, quando centocinquanta libe­rali onsernonesi fecer «bivacco alla mili­tare sotto il casotto de' Carabinieri», af­figgendovi un cartello ch' era una profes­sione di fede: «I liberali onsernonesi / esultanti per il suo arrivo / dichlaransi sempre pronti / a sostenere la causa del Governo», e al discorso nell' occasione te­nuto dall' avvocato Paolo Mordasini che, dichiarandosi rispettoso della sovranità del popolo, esclamava poi: "Ma se, pre­valendosi dell'acquisita supremazia, si volesse introdurre nel nostro paese prin­cipI monarchici, o seguire istituzioni straniere, vengano poi esse in nome di Napoleone, di don Carlos o di Pio IX, se si volessero manomettere le nostre istitu­zioni per obbedire al codice di l.oyola, a questa maggioranza noi non sottostare­mo giammai! ». E nello stesso numero appariva una poesia di Cesare Mola dal ti­tolo I supremi consigli della Repubblica a Locarno: "Onsernone! e a te sia lode: / dal­le tue selvose prode / qui recasti ai patri gaudii / il vessil d'un fausto di, / / quel vessillo ardito e fiero / che indicea il coz­zo primiero / al reo demone, onde il Po­poro / di tiranno onta patl . . . ». E altro an­cora sarebbe da aggiungere; ma si son or­mai toccati i limiti dello spazio, e convien lasciare molti nomi nella penna, di gior­nali politici e umoristici, e di riviste: mol­ti, che non citiamo partitamente, si ritro­van nelle tavole 4 e 5. All'Archivio canto­nale, per questo periodo, esistono ben cinquantotto testate. .

Ma la storia camminava in fretta anche per questo giornale. Dall' altra parte della barricata "La. Libertà» si mostrava viepiù salda e ben determinata, e contro di lei poco potevano i fogli liberali, che pareva­no far la parte, per dir col Delcros, di franchi tiratori: onde l'occhiuto e concre­to Simen, proponeva di surrogar «Il

Nn. t

Tempo" con altro giornale di più genera­le raggio: e nasceva così, ner luglio del 1878, "Il Dovere», «giornale liberale tici­nese», pur redatto da Augusto Mordasini e dallo stesso Simen; e in <Juel mezzo ces­sava pure le sue pubblicazlOni il bellinzo­nese «Gottardo»; assorbito in un certo senso esso pure. E nel '79 veniva a cessa­re, definitivamente, «Il Repubblicano». Già il primo numero, 2 luglio, era esplici­to nel manifesto: "Non è un nuovo gior­nale che viene alla luce: se una trasforma­zione si presenta sotto l'aspetto del nome nuovo e della estesa redaZione, il nostro programma rimane il programma libera­le»; e segnalando che "Il Tempo» aveva "ceduto il campo soddisfatto», si affer­mava che l'intento primo era di combat­tere "la dispersione», in una stretta colla­borazione tra Sopra e Sottoceneri, tra le valli e le città, per lavorare, costituito "un nucleo d'azione», alla «concordia dei pensieri», fomentando «costantemente l'azione che deve condurci al Risorgi­mento». E ancora: «Ogni località, ogni persona scompaiano di fronte al nostro programma cantonale: non dimentichia­mo mai quanto le gare di campanile e le individuali contestazioni hanno prodot­to di male [ ... ]. Il partito che è oggi al Governo ci avrà naturalmente per risolu­ti avversari: risoluti ma onesti, non siste­matici». Nel decennio seguente si può di­re che le posizioni giornalistiche erano delineate: di fronte, «La. Libertà» e «Il Dovere», pur con qualche improvviso intervento (come il gtà citato" Ceresio,.), che però doveva esser poco più che una meteora. Nel contempo sarà <la segnalare che continuava la sua azione e la sua bat­taglia «Il Credente Cattolico», nato nel lontano 1856, e la «Gazzetta Ticinese», nata nell'ancor più lontano 1821, che si avviava ormai, sotto la direzione di Fran­cesco Veladini, a passare sempre più sen­sibilmente, se pur con una cautela che di· remmo espressione della luganese bor­ghesia, nel campo liberale.

I.ouis Delcros, Piccolo viaggio attraverso la stampA ticinese (1746-1878), Lugano 1958.

Emilio Motta, II giornalismo del Cantone Tici1ll dal 1746 al 1883, I.ocarno 1884.

Avv. Brenno Bertoni - Dr. Luigi Colombi (lllf in realtà quasi tutto è del Bertoni), Cenni storici"stJ la stampa dei giornali della Svizzera Italiana, in Dii Schweizer Presse, Bern 1896.

Eligio Pometta - Giulio Rossi, Storia del Ca,,(q ne Ticino, II edizione, I.ocarno 1980.

Dictionnaire historique et biographique de la SuUr' Neuchatel, a .l?artire dal 1921; voci redarte da Cele stino Trezzim.

Annate (ma non di rado con lacune) de' va.c giornali.

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La questione diocesana

Dal censimento federale del 1980 ri­sulta che la popolazione residente nel no­stro Cantone comprendeva 265'899 abi­tanti. Di essi 231'653 si sono dichiarati di religione cattolica apostolica romana, la quale sino alla riforma costituzionale del 1975 era riconosciuta la sola «religione del Cantone".

Tale porzione di popolazione è rag­gruppata in 251 parroccllle, enti pubblici riconosciuti chiaramente dalla Legge sul­la libertà della Chiesa cattolica e sull'am­ministrazione dei beni ecclesiastici (1886) che si richiamerà più avanti. In precedenza le questioni amministrative e la stessa nomma dei sacerdoti in cura d'anime erano di competenza dei comu­ni, eccezione fatta in forma, misura e tempi diversi per le chiese collegiate o plebane di Balerna, Riva San Vitale, Lu­gano, Agno, Locarno, Ascona, Bellinzo­na, Biasca, la gestione dei cui beni rima­neva prerogativa dell'arciprete e dei suoi sacerdoti coadiutori.

Le parrocchie di rito romano (196) so­no nei distretti di Mendrisio, Lugano, Locarno, Valmaggia e Bellinzona; quelle di rito ambrosiano (55), nei distretti di Riviera, Blenio e Leventina, cui sono pe­rò da aggiungere quelle della Pieve Ca­priasca, di Brissago, Preonzo, Moleno e Gnosca 1. Le prime sino al 1884 dipende­vano dal vescovo di Como; le seconde, dall'arcivescovo di Milano.

Oggi l'insieme di tutte le nostre par­rocchie forma la diocesi di Lugano, i con­fini della quale coincidono con quelli del Cantone. Lugano ne è la sede; la chiesa di San Lorenzo, la cattedrale. I;attuale ve­scovo, mons. Ernesto Togni, è il settimo della serie designata dalla Santa Sede a reggere la diocesi intesa però sino al 1971 soltanto come amministrazione apostoli­ca. I suoi antecesssori con carattere vesco­vile ma con sedi "in partibus infidelium» furono: Eugenio Lachat di Montavon Giura (1885-1886), Vincenzo Molo di Bellinzona (1887-1904), Alfredo Peri­Morosini di Lugano (1904-1916), Aure­lio Bacciarini di Lavertezzo (1917-1935), Angelo Jelmini di Tenero (1936-1968), Giuseppe Martinoli di Marolta (1968-1978).

La nostra diocesi è l'ultima, in ordine di tempo, creata in Svizzera: un risultato, questo, conseguito dopo lungo e sofferto travaglio di natura religiosa e politica, non limitato al solo nostro Cantone, ma divenuto a vari momenti problema na­zionale, per la soluzione de1 quale entra­rono in01tre in causa la Santa Sede, il go­verno austriaco, dalguale sino al 1859 di­pendeva la Lombardia, e in seguito il Re­gno d'Italia.

Fonti cui attingere su questo punto, almeno per quanto possa riguardare le

fasi più cruciali (sec. XIX) sono: gli Atti del Gran Comiguo del Cantone Ticino o i Processi verbali del Gran Comiglio della Repubblica e Cantone Ticino (abbr.: Verbali GC) 1804-1886; il Bullettino Officiale della Repubblica e Cantone Ticino o Bollettino Or­fietale delle leggi e degli atti esecutivi della Repubblica e Cantone Ticino (abbr.: Leggi GC) 1855-1888 e 1969.

Gli studiosi di casa nostra nelle loro pubblicazioni già hanno richiamata, tra­scritta, commentata pressoché tutta la documeritazione conservata negli archi­vi. Né poteva essere diversamente, l'0i­ché in passato, quanto a ricerca e stuilio, la preferenza era data quasi unicamente alle vicende politiche del paese. Citiamo almeno: Alfredo Peri - Morosini, La Que­stione Diocesana Ticinese, ovvero Origine del­la Diocesi di Lugano (Einsiedeln 1892); Celestino Trezzini, Le Diocèse de Lugano dam son origine historique et sa condition ju­ridique (Fribourg 1948); Franco Zorzi, Le relazioni tra la Chiesa e /o Stato nel Cantone Ticino (Bellinzona 1969). I;argomento è pure trattato in misura frammentaria, non per questo meno interessante, da un autore anonimo: La question du Tessin par un citoyen genevois (Carouge 1863); da Eli­gio Pometta: La questione diocesana ticinese in «Bollettino Storico della Svizzera Ita­liana» e da Giusel'pe Martinola nel volu­me Epistolario Dalberti-Usteri (Bellinzona 1975)2.

1. Durante il Medioevo Le terre che oggi costituiscono il Tici­

no sin circa agli inizi del Cinquecento di­pendevano tutte politicamente da Mila­no o da Como. 10 stesso va detto per quanto riguardava gli affari ecclesiastici. Mancava un legame tra le nostre comuni­tà che si mantenevano estranee le une alle altre, addirittura divise perfino quanto al rito religioso. D'altra parte, molte delle loro concezioni di vita, usi e costumi era­no naturalmente in consonanza con quel­li delle grandi comunità lombarde, delle quali sentivano di far parte. Di conse­guenza, impensabile riusciva l'idea che le nostre terre, quanto allo «spirituale», ve­nissero staccate dall'archidiocesi milane-. se e dalla diocesi comasca per formarne una a sé stante.

2. Durante la sudditanza agli Svizzeri, Dal Cinquecento alla fine del Sette­

cento le cose vanno invece via via pren­dendo altra piega: la nuova giurisdizione politica non coincide più con quella ec­clesiastica, sicché il nuovo sovrano tem­porale mal sopporta sui suoi territori una sovranità religlOsa estranea, «forastiera». Donde allora la diffidenza, i malumori, gli attriti non certo sufficientemente ve­lati nemmeno dagli ampollosi discorsi, inneggianti alla reciproca intesa, pronun­ciati in occasione dell'incontro tra Lan­fogri e vescovi, come ad esempio avven-

ne alle falde del Ceneri nel 1741, al mo­mento in cui il vescovo di Como paoio Cernuschi metteva piede per la visita pa­storale nel baliaggio di Locarno retto al­lora dall'untervaldese Peter von Fliie.

Gli Svizzeri - e sono specialmente quelli dei cantoni cattolici che dimostra­no particolare avversità nei confronti del vescovo di Como, la cui Mensa possiede non irrilevanti beni entro i loro confini -ritengono che le loro prerogative deb­bano estendersi anche il dominio dello «spirituale»: diritti, ad esempio, di perce­pire tasse al momento del conferimento ili benefici ecclesiastici a sacerdoti 3, vigi­lanza sui beni delle chiese ed altro. Non quindi al popolo, che si mantenne e si mantiene fedele tanto all'arcivescovo di MUano, che dispone tra l'altro di un pro­prio delegato residente in una delle par­rocchie ambrosiane e, dopo il 1622, d'un seminario a Pollegio, quanto al vescovo di Como che possiede residenze a Luga­no con diritti sulla semi-cattedrale di San Lorenzo, a Castel San Pietro e più tardi a Balerna, ma al sovrano temporale balena l'idea di staccare da Milano e da Como le nostre terre per formare con esse una dio­cesi a sé stante presieduta da un vescovo «confederato". Infatti, nel 1595 gli Sviz­zeri auspicano, come primo passo verso la composizione della vertenza ormai in atto, che alla cattedra episcopale di Como venga chiamato illuganese Camuzzi allo­ra vescovo di Bobbio-Piacenza.

Nulla di fatto; come nessun seguito avranno i vari interventi nel corso dei sec. XVII e XVIII presso la Curia romana, miranti a fare del baliaggi una giurisdizio­ne ecclesiastica autonoma con presule o almeno vicario indipendente.

Violenti sono pure i contrasti durante il quinquennio dell'Elvetica tra le autori­tà civili e quelle religiose derivanti da di­sposizioni ostili alla Chiesa, tra l'altro i sequestri di beni appartenenti a enti reli­giosi.

3. Dal 1803 al 1840 Divenuto il Ticino cantone autono­

mo, subito riaffiorò l'aspirazione all'au­tonomia af!che quanto alla sistemazione diocesana. E però da rilevare che fu indi­rettamente la Dieta federale a smuovere le acque, preoccupata com'era di provve­dere iilla riorganizzazione in materia ec­clesiastica soprattutto in altre parti della Svizzera in seguito alla secolarizzazione del vescovado di Costanza che compren­deva pure nostri cantoni di lingua tede-

. sca. Quindi le autorità ticinesi si trovaro­no in certo qual modo obbligate a far co­noscere alla Dieta la loro aspirazione, che nel 1804 e ancora l'anno dopo risultò la seguente: d'accordo di trattare con la Santa Sede la questione diocesana in ge­nerale quanto a escludere dalla Svizzera ogni estera giurisdizione spirituale, d'ac­cordo anche per la creazione di un' auto- 11

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noma diocesi con proprio vescovo e se­minario nel Ticino, nettamente contrarie invece ad aggregare le nostre terre a ve­scovadi d' oltralpe, né a quello di Coira né a quello che andava profilandosi a Lucer­na (Verbali G C, 1804, p. 118 e 232).

Nel 1814 la questione tornò di nuovo alla ribalta (Verbali GC, 1814, p. 426) ; le idee nel frattempo andavano sempre meglio delineandosi. Inoltre, i rapporti tra autorità civili e i due presuli lombardi continuavano a deteriorarsi; clero e po­polo ne risentivano, donde i motivi di preoccupazioni. Anche il burrascoso pe­riodo napoleonico volgeva al termine, sicché si poteva ritenere che quello fosse il momento propizio per risolvere pure le nostre faccende ecclesiastiche.

Infatti il Governo, così autorizzato dal Gran Consiglio (6 marzo 1815), si rivol­se direttamente al Nunzio apostolico a Lucerna e addirittura alla Santa Sede sem­pre nell'intento di uscire presto da que­sto incerto stato di cose.

Poco dopo pure avviò il discorso, dato che la Dieta s'era rifiutata di immischiarsi in questa marginale faccenda, con la Cor­te imperiale di Vienna (la Lombardia era nel frattempo tornata all'Austria) per ot­tenere il trapasso dei beni" posseduti in Ticino dal vescovado di Como in vista di creare e alimentare il fondo patrimoniale destinato alla futura Mensa vescovile tici­nese. Risultati: Il sommo pontefice Pio VII, tramite il prodatario card. Mattei, ri­spose d'esser disposto «di prendere nella dovuta consideràzione» la domanda del nostro Governo, nella quale,' come osser­va il Martinola, veniva tra l'altro presen­tato un quadro assai accurato sulfa situa­zione dei Ticino: 90'000 abitanti, paese solcato da valli e altissimi monti che ren­devano i viaggi disagevoli e costosi sia ai fedeli sia ai vescovi in occasione delle vi­site pastorali che di conseguenza riusciva­no carenti.

La Corte imperiale oppose invece un secco rifiuto quanto alla cessione dei be­ni. I rapporti tra il Ticino e Vienna si fe­cero via via sempre più difficoltosi anche perché il nostro Governo nel 1819 di mo­tuproprio e prima di darne regolare co­municazione a Vienna aveva tentato un vero e proprio colpo di mano, seque­strando i beni in Ticino del vescovo di Como, destinati a alimentare il patrimo­nio in fieri del futuro nostro vescovado, e affidandone l'amministrazione a persona (l'arciprete di Balerna) a tale scopo desi­gnata.

I.:atto fu disapprovato dalla Dieta fe­derale, che d'ora innanzi si disinteresserà maggiormente del nostro problema dio­cesano, come pure disapprovato fu il mo­do sbagliato e per nulla affatto diplomati­co. con il guale il Consiglio di Stato, tra­ffilte un mesperto nostro conterraneo mercante d'arte in Austria e l'impruden­te incaricato degli affari svizzero a Vien-

na, presentò a posteriori le proprie ri­chieste alla Corte imperiale.

Tra tali procedure, ilI. dicembre 1819 giunse almeno una più precisa risposta al Governo ticinese di parte della Santa Se­de (card. Ercole Consalvi) : buone pos­sibilità quanto a concordati tra la stessa e le autorità civili svizzere nel senso di stac­care le parrocchie nostre da Como e da Milano e di creare con esse una diocesi in­dipendente, retta da un vescovo proprio e «nazionale», a condizione però che pri­ma si mettesse «in chiaro e segnatamente la conveniente dotazione della Mensa Vescovile, Capitolo e Seminario senza re­care troppo forte pregiudizio agli interes­si temporali delle diocesi di Como e di Milano".

Nel 1831 si fece sentire buona parte del clero, sottoposto al vescovo di Co­mo, mediante speciali pubblicazioni e pe­tizioni tendenti a indurre le nostre auto­rità a riprendere con la dovuta fermezza e sollecitudine la questione. Nel 1833 due messi (sacerdoti luganesi) designati dal Governo si recarono persino a Roma per perorare la causa. È da dire che il clero <Ielle parrocchie ambrosiane si manten­ne, ne1 complesso, contrario alla separa­zione da Milano, attaccatissimo com'era alla sua particolare liturgia, ai seminari milanesi, dai quali uscivano sacerdoti cul­turalmente e religiosamente preparati, a varie istituzioni della metropoli - come qualche ricovero - dalle quali potevano trarre non irrilevanti benefici.

4. Dal 1841 al 1876 Dopo le sommosse del '39 e del '41, si

voltò pagina quanto alle vicende politi­che di casa nostra. Al governo, che si di­mostrava in precedenza di tendenza mo­derata, subentrò altro liberale-radicale de­ciso ad attuare via via i postulati del pro­prio partito, attenendosi a ideologie tra le più avanzate del radicalismo elvetico vivo e operante in quegli anni.

Riesce quindi inimmaginabile che si potesse tralasciare di prendere in esame anche i rapporti con le autorità religiose in un momento, quale era quello, in cui Governo e Gran Consiglio S1 davano a ri­vedere, ad aggiornare, completando e più spesso innovando, leggi e dispositiv1 ri­guardanti si può ben dire ogni settore della vita comunitaria ed economica del paese. .

La Chiesa, da un lato, continuava ad attenersi alla salvaguardia delle sue prero­gative acquisite da secoli e confermate al­meno in parte dopo il 1815 5 ; dall'altro, lo Stato mirava ad assumere sempre più gravose mansioni e responsabilità, pur dibattendosi t ra non poche difficoltà fi­nanziarie, conformemente ai nuovi prin­cipi di sostanziale rinnovamento nelI'am­bito di una concezione prettamente libe­rale e moderna.

Donde il contrasto fra autorità civili e

. autorità ecclesiastiche divenuto ben pre­sto acuto dando luogo a trasmodamenti ostili alla Chiesa - persino quasi di sapo­re scismatico - aggravati dal fatto che le nostre comunità ecclesiastiche erano sog­gette a diocesi straniere e per di più con sedi in territorio incluso nell'Impero au­striaco che allora si dimostrava il peggio-re nemico del nostro paese. .

I fanatismi erano giunti a tal punto che, per dirla con Brenno Bertoni, si arri­vava perfino a dire no anche solamente perché gli altri avevano detto s1. E cos1, nel 1841, si decise l'aggiornamento degli inventari dei beni appartenenti alle cor­porazioni religiose ma già sotto controllo <Iello Stato in conformità della legge del 19 giugno 1803; tra il' 48 e il '52 parecchi conventi furono secolarizzati o soppressi e i loro beni confiscati dallo Stato come già era avvenuto nel 1812 6•

Infine, il 24 maggio 1855 venne pro­mulgata la Legge ecclesiastico-civile, da parecchi articoli della quale traspare or­mai evidente l'intransigente tentativo di assoggettare la Chiesa al potere civile, in conformità «del trovato dei tempi (Chie­sa di Stato, intesa cioè come sezione dell' amministrazione statale) in cui detta legge venne promulgata»?

Ma per ~pplicare con minore difficoltà tali e altri dispositivi occorreva dare nuo­vo assetto alle strutture ecclesiastiche. Dapprima, popolo, parte del clero e au­tontà civile si attennero all'idea di giun­gere alla creazione di un autonomo ve­scovado o vicariato, cos1 come già nel 1841 era stato proclamato per bocca del consigliere Maìifredo Bernasconi (Verba­li GC, 1841, p. 497). Ma durante la di­scussione sulla Legge ecclesiastico-civile ad altro traguardo si volle però mirare: incorporare il Ticino, per ragioni politi­che, in una diocesi della Svizzera interna, in quella di Coira o addirittura in quella ancor più lontana di Basilea. Netta illora l'opposizione del clero e dei fedeli a una soluzione del genere ritenuta giustamen­te contraria alla storia, alla geografia e al caratter~ latino della stirpe. Ma l'autorità civile metteva avanti altre motivazioni: «il POp<?lo e le Magistrature Ticinesi so­no per forza d'istinto persuasi che la loro patria non sarà mai indipendente finché non sia spezzato questo vincolo che la le­ga allo straniero » 8. Pure altri erano o po­tevano essere i motivi. Uno chiaramente indicato: timore che vescovi (nominati con il consenso del governo di Vienna) e seminari lombardi potessero esercitare un'influenza politica sul clero e sui fedeli; altro sottinteso: cons~imento da parte delle autorità di maggIore libertà d'azio­ne data la lontananza dei vescovi d'oltral­pe e il loro carattere «nazionale".

Le trattative ripresero in seguito al mandato che il Gran Consiglio diede il 17 giugno 1855 al Governo: "il Consiglio di Stato è incaricato ad introdurre colla

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massima sollecitudine le opportune pra­tiche tanto presso la Santa Sede, quanto presso il Governo di S.M. l'Imperatore (l'Austria anche per ciò che concerne i be­ni della Mensa Vescovile di Como nel nostro Cantone, e trattare nello stesso tempo con uno dei Diocesani di Coira o di Soletta (sede del vescovado di Basi­lea), per aggregare alla loro giurisdizione ecclesiastica le nostre ~arrocchie,. (Ver­ba�i G C, 1855, p. 637 .

Infatti, al Consiglio ooerale fu presen­tato il già citato Mémorial, datato 19 di­cembre 1855, tutt'altro che immune da punte polemiche, nel quale era riassunto l'istoriato della questione e con il quale si chiedeva di riprendere le trattative per giungere a una conclusione. Il Consiglio federale a sua volta, il 19 marzo 1856, sot­topose a mons. ] .M. Bovieri incaricato d'iffari apostolico la richiesta del Gover­no ticinese. Mons. Bovieri interpellò su­bito la Santa Sede, sicché già 1'11 luglio successivo potè far conoscere al Consi­glio federale quanto a Roma era stato ri­solto nel caso in cui si potessero ripren­dere le trattative con tutte le parti interes­sate: separazione ecclesiastica del Ticino da entrambe le diocesi lombarde, erezio­ne di una diocesi autonoma non aggrega­ta però in nessun modo a diocesi d'oltral­pe. Inoltre, la Santa Sede chiedeva come ultimo termine di concessione - ostaco­lo tutt' altro che facile da superare - la soppressione o almeno un adeguato ridi­mensionamento di tutti quei dispositivi di l~ votati nel 1855 e ritenuti troppo ostili alla Chiesa.

Il Consiglio di Stato, venuto a cono­scenza della risposta di mons. Bovieri e nell'intento di tagliare corto e netto ripe­té cinque giorni dopo al Consiglio fede­rale la aomanda già ventilata in preceden­za: «con legge federale sia stabilito che ogni giurisdizione di vescovo straniero deve cessare d'ora innanzi in tutta l'esten­sione del territorio della Confederazione Svizzera". Nel frattempo anche il clero ti­cinese fece conoscere il suo netto dissen­so tanto al Governo, quanto a Roma e a Berna. (C. Trezzini, p. 50 e segg.)

le cose si trascinarono per le Cunghe durante un ulteriore trienruo e sempre in un clima di evidente diffidenza; fitto e continuo però si manteneva lo scambio di missive, di memoriali, di documenti segreti q confidenziali tra le l'arti interes­sate, soprattutto tra l'incancato d'affari pontifiao a Lucerna, l'incaricato d'affari d'Austria a Berna (barone Menshengen) e il ministro degli affari esteri della Corte di Vienna (conte von BuoI Schauen­stein) indotta dal Nunzio a sostenere la causa della Santa Sede sia nella faccenda del trapasso dei beni appartenenti alle Mense 10m barde, sia intervenendo J?res­so le autorità svizzere affinché si miugas­sero in Ticino le disposizioni legislative in materia civile-ecclesiastica e si elimi-

Vincenzo Molo

nasse lo «scandalo>! di alcuni sacerdoti in cura d'anime (a Stabio e a wco ad esem­pio) in aperta lotta con il loro legittimo superiore anche perché imposti alle par­rocchie dalla sola autorità civite 9.

le difficoltà per un accordo erano giunte, insomma, a un punto tale che non permetteva ormai più una via d'usci­ta tramite negoziati. Il Consiglio federale sottopose allora all'assemblea federale il progetto di decreto legislativo che avreb­be «sancito la soppressione di ogni giu­risdizione territoriale episcopale estera su tutto il territorio svizzero». E in questo senso la decisione fu presa il 22 luglio 1859. Ai vescovi di Como e di Milano fu cosi impedito di esercitare le loro man­sioni pastorali in territorio ticinese.

Soltanto nel 1860 potè essere almeno regolato parzialmente il trapasso dei beni in territorio ticinese delle Mense dioce­sane lombarde al Cantone; trapasso però avvenuto e completato nel '62 unicamen­te perché la wmbardia da qualche anno era stata inclusa nel Regno d'Italia, con le autorità del quale fu possibile giungere a una legale convenzione.

La questione diocesana, malgrado sporadici tentativi unilaterali, fu cosi, per dirla con mons. Trezzini, messa dalle au­torità federali in secondo piano per ben oltre un decennio.

5. Le due convenzioni del 1884 Nel 1877 si rinnovano i poteri canto­

nali; ne esce stavolta vincente il partito li­berale-conservatore, sicché il governo ri­sulta poi composto dai suoi esponenti di magglOr rilievo, fra i quali l'avv. Gioachi­mo Respini, capo autoritario del partito (che però opterà subito per la carica in Gran ConSIglio), l'avv. Massimiliano Magatti, l'avv. Martino Pedrazzini l0,

persona colta, cattolico coerente, abile politico con vivo senso di responsabilità, al quale molto si deve se la spinosa e com­plessa questione diocesana potè trovare finalmente buona soluzione, frutto di non facili compromessi. .

Il 21 maggio 1878 ha luogo a wcarno un incontro, presenti cinque delegati del clero di rito romano, tre ambrosiani, il delegato del Governo (M. Pedrazzini che già in precedenza s'era occupato di fare qualche prudente personale sondaggio negli ambienti interessati allo sciogli­mento della questione) e due rappresen­tanti del Gran Consiglio, allo scopo di trovare il modo adatto per riprendere i negoziati.

La mancanza di una regolare gerarchia ecclesiastica continua ad essere motivo di viva inquietudine e di gravi disagi, quan­to allo «spirituale» dei cattolici ticinesi, specialmente nell'area di rito romano. 13

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Il clero di rito romano si dice consen­ziente all' autonomia diocesana.

Contrari a staccarsi dall'arcivescovo milanese, cui «rimangono uniti con tutto il cuore», si dichiarano gli ambrosiani, rassegnati ad accettare una separazione da Milano soltanto se decisa dalla Santa Se­de. Un rapporto dei primi e quello dissi­dente dei secondi 11 sono presentati alla Curia romana, la quale affida a una spe­ciale commissione lo studio del pro6le­ma e incarica pure nel contempo l'arcive­scovo Eugenio Lachat, a quel momento bruscamente allontanato dalla sua dioce­si (Basilea) per decisione di cinque gover­ni dei cantoni ecclesiasticamente inclusi in quella e in seguito ai burrascosi moti del Kulturkampf (1873), a presentare un suo personale rapporto.

Mons. Lachat iI 29 gennaio 1880, do­po aver preso contatto coi due presuli lombardi, può presentare la sua prima dettagliata relazione; cui poco dopo fa se­guito altra sull'atteggiamento benevolo assunto ora dalle autorità ticinesi. Altra commissione cardinalizia le prende in esame e conclude che i negoziati possono essere ripresi a condizione che il Gover­no ticinese ne faccia esplicita richiesta e naturalmente «con il permesso del "Con­siglio federale". Difficoltosa riesce in se­guito - come diffusamente ci informa Peri-Moro sini - l'intesa tra il Consiglio di Stato e Governo federale deciso, quest'ultimo, a non deflettere dalla pre­messa nel senso di aggregare il Ticino a una delle diocesi svizzere.

Gran Consiglio e Consiglio di Stato, dopo ormai tre anni di vana attesa o di ri­sposte negative da parte delle autorità fe­derali, decidono di mandare a Roma nel marzo 1883 una delegazione (Pedrazzini e Magatti) per conseguire dalla Santa Se­de almeno un temporaneo vicariato apo­stolico per il Ticino.

Ma nel frattempo le cose vanno mu­tando d'aspetto anche negli ambienti fe­derali. In Consiglio federale siedono tre uomini politici di grande spicco: Frie­drich E. Welti, l.ouis Ruchonnet e Nu­ma Droz.

Benché opposti per la loro fede politi­ca e religiosa ai politici ticinesi al potere, assumono attitudini di responsabilità e di spirito oltremodo conciliante, anche perChé vivissimo in loro era il desiderio (li riportare la pace religiosa in tutte le parti del paese dove da anni rimaneva profondaIDente turbata. Difatti, il 25 lu­glio 1883 a Berna finalmente può aver luogo un incontro tra l'autorità fe4erale e il delegato del Governo ticinese. E il no­stro Pedrazzini che ufficialmente presen­ta la proposta che varrà a trovare almeno un temporaneo accordo I.'er lo sciogli­mento della questione: chiedere al Papa di trasferire nel Ticino mons. E. Lachat, esiliato vescovo di Basilea, come ammi­nistratore apostolico.

Il Pedrazzini già aveva ottenuto il con­senso di mons. Lachat e pur anche assicu­razioni in tal senso dalla Santa Sede. Con questo diplomatico suggerimento, accol­to subito dal Governo federale, quanto non s'era concluso in ottant'anni di trat­tative si risolve ora in pochi mesi. Gli ul­timi lavori, iniziati il 12 agosto 1884, pre­senti i delegati dell' autorità federale e mons. Domenico Ferrata sottosegretario della Congregazione degli affari ecclesia­stici 12, si concludono con un progetto di concordato, datato 1. settembre 1884, ap­provato in seguito dalle autorità federali e cantonali e dal pontefice Leone XIII.

Eccone i primi 4 articoli:

«Art. 1. Le parrocchie del Cantone Tici­no saranno stacCate canonicamente dalle diocesi di Milano e di Como e poste sotto l'amministrazione spiri­tuale di un Prelato, che prenderà il ti­tolo di Amministratore apostolico del Cantone Ticino.

Art. 2. La nomina dell'Amministratore apostolico sarà fatta dalla Santa Sede.

Art. 3. Ove il titolare venisse a morire prima dell'assetto definitivo della si­tuazione religiosa delle parrocchie del Cantone Ticino, il Consiglio federale, il Cantone del Ticino e la Santa Sede s'intenderanno circa la prolungazione dell'amministrazione provvisoria isti­tuita dalla presente Convenzione.

Art. 4. Il Cantone del Ticino si obbliga a prendere le misure necessarie per l'ese­cuzione di questa Convenzione, se­gnatamente per quanto concerne l'e­molumento dell'Amministratore apo­stolico, la sua residenza, ecc.» (Leggi GC, 1885, p. 39). Le difficoltà, certo, non mancarono né

prima, né durante né dopo gli accordi: non soddisfatti molti radicali entro e fuo­ri del Ticino (<<Vedano i signori del Palaz­zo federale qual prezioso elemento di concordia cittadina .. . ci hanno regalato col famoso ritrovato di un vescovo ca­muffato sotto la speciosa parola di Am­ministratore»: si legge in un foglio radi­cale anc~r~ tre anni dopo a commento di uria deaslOne vescovile quanto all'uso delle campane a Lottigna) e, in sulle pri­me, pur anche insoddisfazioni in alcuni ambienti ecclesiastici.

I:articolo 4 della Convenzione di Ber­na, quanto alla sua pratica applicazione, richiese ulteriori accordi che dovevano essere conclusi e approvati tanto dalle au­torità ticinesi quanto dalla Santa Sede. Quindi, altre trattative si ebbero già nel corso del mese di settembre 1884: a Bel­linzona questa volta, alla presenza dei de­legati cantonali - avv. M. Magatti e P. Regazzi - e di mons. D. Ferrata rappre­sentante della Santa Sede. Brevi le discus­sioni, tanto che già il 23 dello stesso mese una seconda convenzione, della quale si fa seguire un riassunto, potrà essere per

esame e per approvazione sottoposta alle autorità cantonali e alla Santa Sede.

I:Amministratore apostolico sarà libe­ro di esercitare la sua spirituale giurisdi­zione in tutto il territorio del Cantone Ticino. Avrà piena libertà nella scelta dei suoi collaboratori e nella pubblicazione degli atti pastorali. Risiederà a Balerna in attesa che si definisca la sede permanente in una delle città ticinesi. Il Cantone si obbliga a costituire a favore dell'ammini­stratore apostolico dipendente dalla San­ta Sede il necessario patrimonio, il cui reddito costituirà l'assegno dell'Ammini­strazione Apostolica (fr. 12'000. - annui) e quello a favore del seminario maggiore (fr. 5'000. -). Il Governo del Ticino con­tinuerà inoftre a versare al seminario di Pollegio la somma annuale di fr. 6'000. - . Infine, «Il Governo del Cantone Ticino non intende che con questa Convenzio­ne siano pregiudicati in alcun modo i di­ritti o vantaggi derivanti da fondazioni religiose, o da lasciti e cause pie, che se­condo ragione, equità e consuetudine possono competere allo Stato del Canto­ne Ticino, ai corpi morali ed ai cittadini del Cantone come facente parte fin qui delle diocesi di Milano e di Como» 13.

III. agosto 1885, eletto dalla Santa Se­de in conformità della convenzione con la diocesi di Basilea e gli accordi con le au­torità ticinesi, mons. Eugenio Lachat a Bellinzona, dopo aver rinunciato alla ca­rica di vescovo di Basil~ prese possesso della nostra futura diocesi con però solo il titolo di primo amministratore aposto­lico. Breve fu la sua ?,ermanenza in Tici­no (morl a Balernail 1. novembre del­l'anno dopo), pur tuttavia contraddistin­ta da alacre attività: acquisto con mezzi propri e donazione alla «diocesi» del pa­lazzo Riva nei pressi della chiesa di Santa Maria degli Angeli (Lugano) da destinare a episcopio, fondazione del seminario maggiore di San Carlo con sede a Casseri­na. In seguito il seminario sarà poi trasfe­rito nel palazzo in Via Nassa donato nel 1887 da Antonia Vanoni; soltanto nel 1903 troverà nuova sede a Besso: i palazzi Riva e Vanoni saranno allora adi6iti en­trambi a residenza vescovile con gli an­nessi uffici della curia.

A succedere a mons. Lachat la Santa " Sede designò l'allora arciprete di Bellin­zona mons. Vincenzo Molo che, preso possesso della nostra amministrazione apostolica il9 ottobre 1887, venne a risie­oere a Lugano.

6. La legge sulla libertà della Chiesa cattolica Sistemata almeno in via transitoria la

spinosa guestione diocesana, era inevita­oile che 1 conservatori, a quel momento ancora detentori del potere politico e partitico, riprendessero in esame la Legge ecclesiastico-civile del 1855, che in fondO rispecchiava lo spirito di un progetto di

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statuto civile-ecclesiastico presentato al Gran Consiglio già nel 1819 ma subito fatto scomparire. Intento delle riforme, invocate anche da una petizione sotto­scritta da 7000 cittadini, era di eliminare quanto poteva essere ritenuto ostile al clero e ai fedeli e di permettere l'esecuzio­ne pratica dei contenuti delle due con­venzioni precedentemente citate; inoltre di concedere «alla Chiesa piena libertà d'azione (in materia spirituale e nell'am­ministrazione dei propri beni) sotto la protezione e con la collaborazione dello Stato". 14

Il progetto di legge, della preparazio­ne del quale era stato primo artefice Mar­tino Pedrazzini che aveva operato in stretta collaborazione con personalità ec­clesiastiche, fu sottofosto al Gran Con­siglio in sul finire de· 1885, accompagna­to dal relativo mess~o nel quale, tra l'altro, si legge: «Noi tGoverno) abbia­mo creduto e crediamo che convenga uscire risolutamente da questo stato di cose irregolare e malsano ... Lasciamo una buona volta a Cesare quello che è di Cesare e diamo francamente e generosa­mente a Dio quello che è di Dio» (Verba­li Ge, 1885, p. 276).

Accese e violenti furono le discussioni e le polemiche dentro e fuori l'aula del Gran Consiglio e sulla stampa.

Favorevole alla legge era la maggioran­za conservatrice. Contrari su vari punti, pur condividendo l'opportunità ili ag­giornare e di rinnovare, si dichiaravano l'altra frazione dei conservatori e alcuni liberali di tendenza moderata; di essi si fa­ceva portavoce l'avv. Agostino Soldati, il quale a mano a mano che s'andavano di­scutendo i vari articoli metteva avanti sue controproposte. La discussione in Gran Consiglio occupò parecchie sedute della sessione invernale del 1886 (Verbali Ge, 1886, p. 138-271). Dalla destra si ripeteva l'accusa: «si vuole imitare l'imperatore Giuseppe II>> (Felice Gianella, p. 164); da sinistra: «Dove siamo? Dove andiamo? Siamo nelle fitte tenebre del med10 evo; andiamo alla perdita delle franchigie po­polari ed alla completa dedizione dello Stato alla Chiesa" (Ernesto Bruni, p. 146); «tAmministratore apostolico aovrebbe essere eletto dal Gran Consi­glio e tenuto a prestare giuramento di fe­deltà alle leggi aella repubblica nelle ma­ni del Consiglio di Stato" (Stefano Ga­butti, p. 194); «Vediamo ora la Chiesa che vuole imperare sullo Stato» (Achille Borella, p. 141) ...

topposizione defili le disposizioni con lo spregiativo «legge ladra», poiché con essa veniva tolta ai comuni l'ammini­strazione dei beni ecclesistici per essere invece affidata a un ente nuovo, la parroc­chia, o ai patroni privati nei casi dì juspa­tronato. Ed altro: la nomina dei parroci pure diventava competenza dell'assem­blea parrocchiale; le spese del culto pote-

Mons. Eugenio Lachat

vano essere addossate al comune nel caso in cui esso già aveva assunto in preceden­za tale impegno soprattutto in occasione di incameramento di beni ecclesiastici.

La legge sulla libertà della Chiesa cat­tolica e sull' amministrazione dei beni ec­clesiastici fu votata dal Gran Consiglio il 28 gennaio 1886 15• Risultato dello scruti­nio: 52 voti positivi, 20 voti contrari; par­ticolare significativo: ben 38 i deputati assenti al momento del voto! (Verbali Ge, 1886, p. 271). Gli oppositori pro­mossero il referendum, ma il verdetto popolare del 21 marzo successivo si con­cluse in modo analogo: accettata la legge con 1331 voti di maggioranza.

La parrocchia ticinese, intesa come «circoscrizione territoriale sui fedeli della quale spetta ad un ufficio ecclesiastico la funzione esclusiva della cura delle ani­me», è tuttora riconosciuta come ente di diritto pubblico ed è strutturata e gestita in conformità della Legge sulla libertà della Chiesa cattolica tuttora vigente a generale soddisfazione e senza aver causa­to sinora abusi di rilievo. Essa con la sua quarantina di articoli richiama il rappor­to tra le parrocchie e l'Ordinario diocesa­no, desi$na gli organi legislativo ed ese­cutivo tassen1b~ea parrocchiale e consi­glio parrocchiale), fissa le loro competen­ze, fra le quali la nomina del parroco, infi­ne tratta dei beni ecclesiastici quanto a possesso e gestione.

7. Le bolle papali (1888-1971) . Trascorsi ormai quattro anni dallarati­

fica delle convenzioni di Berna e di Bel-

linzona riguardànti la questione diocesa­na risolta però soltanto in forma tempo­ranea, da più parti si auspicava e si studia­va il mOGo dì riprendere le trattative per conseguire il definitivo scioglimento.

Il 27 febbraio 1888 ecco allora riuniti a Berna la delegazione del Consiglio fede­rale (Ruchonnet e Numa Droz), il rap­presentante della Santa Sede moos. D. Ferrata allora nunzio a Bruxelles e, a mo­menti come desiderato ospite, il nostro Pedrazzini.

Atmosfera tl.'allquilla, anche se diver­genti riapparivano re tesi dell'autorità fe­derale (aggres-azione del Ticino alla dio­cesi di Basilea) e della Santa Sede (Ticino amminis.trazione apostolica a sé stante). Ognuno torna a npetere le motivazioni che ormai conosciamo. È allora che mons. D. Ferrata, per finire, riesce a esco­gitare e a far accettare una singolarissima soluzione conciliante che viene codificata nella seguent~ nuova convenzione datata 16 marzo 1888. "Art. 1. Al momento ch' entrerà in vigo­

re la presente convenzione, la Chiesa parrocchiale e collegiale di S. Lorenzo a Lugano sarà eretta a Chiesa catte<lra­le per tutto il territorio del Cantone defTicino, e questa Chiesa sarà riunita canonicamente e con eguaglianza di diritti alla Chiesa di Basilea, il cui Or- . dinario porterà d'ora innanzi il titolo di Vescovo di Basilea e di Lugano.

Art. 2. Per l'amministrazione della Chie­sa cattedrale riunita, la Santa Sede no­minerà, d'intesa col Vescovo diocesa­no, un Amministratore apostolico, 15

Page 16: Scuola Ticinese - Repubblica e Cantone Ticino

che sarà preso dal numero dei preti appartenenti al Cantone del Ticino. :rAmministratore apostolico avrà il carattere episcopale, risiederà nel Can­tone e porterà i[ titolo di Amministra­tore Apostolico del Ticino.

Art. 3. le disposizioni della convenzio­ne del 26 marzo 1828 sulla nomina del Vescovo di Basilea saranno estese alla Chiesa cattedrale riunita, se vi accon­sentono le altre parti cointeressate.

Art. 4. Non è fatta nessuna modificazio­ne all'articolo 4 della convenzione del 1. settembre 1884, né agli accordi che possono derivare. In considerazione che il Cantone del Ticino sopporta le spese della sua amministrazione parti­colare, questo Cantone e il suo Ammi­nistratore Apostolico non contribui­ranno né alla Mensa del Vescovo dio­cesano, né alle altre spese della ammi­nistrazione generale aella Diocesi.

Art. 5. :rAmministratore attuale rimane al posto cui fu dalla Santa Sede nomi­nato addì. 20 settembre 1887" 16.

lo scambio delle ratifiche s'è concluso a Roma iJ 15 luglio 1888, presenti per la Svizzera Teodoro Wirz Iandamano di Obwalden membro del Consiglio degli Stati e, per la Santa Sede, il cardinale Ma­riano Rampolla Segretario di Stato di Sua Santità.

Il 7 settembre 1888, leone XIII pro­mulgò la bolla di fondazione della nostra amministrazione apostolica - «Ad uni­versam» - della quale si ha la versione letterale in italiano nel testo di Peri-Mo­rosini 17. Fu portata a conoscenza dei fe­deli ticinesi con solenni funzioni nella cattedrale di San Lorenzo nel dì. di mezz'agosto dell'anno dopo e ne giunse l'eco anche nelle nostre pIÙ remote l'ar­rocchiette salutata dal suono festoso ael­le campane e con tanto di sparo di morta­retti e canore funzioni dentro e fuori del­le chiese.

Soltanto 1'8 marzo 1971, consenzienti la Santa Sede, il vescovo di Basilea, le au­torità civili federali e cantonali, la nostra diocesi da Paolo VI con la bolla «Paroe­cialis et collegialis» 18 è stata riconosciuta del tutto autonoma anche nei suoi aspet­ti esteriori, sciolta cioè dal tenuissimo le­game che dal 1888 la teneva unita a una diocesi d'oltralpe.

8. Le prime strutture della diocesi Quando il 1. agosto 1885 mons. La­

chat prese possesso della carica, si trovò di fronte a una amministrazione apostoli­ca che non aveva nessunissima struttura.

nore di Pollegio nelle valli ambrosiane; pochi e poveri i conventi e i monasteri ri­masti.

Fin dal 1861 alcuni sacerdoti ticinesi e alcuni laici avevano fondato una sezione del «Pius Verein» che negli anni attorno al 1870-80 assunse notevole funzione di incontro. le riunioni della «Società Pia­na», che culminarono con l'assemblea svizzera tenuta a Locarno nel 1882, ebbe­ro una vasta eco nel paese e contribuiro­no a creare nuovo e più cosciente senti­mento religioso.

Anche la nascita dell'associazione di studenti cattolici «lepontia», collegata alla società degli studenti svizzeri, ebbe funzione analoga di coordinamento.

Con la creazione delle nuove strutture diocesane si svilupparono pure i movi­menti di «azione cattolica» sino a com­prendere più tardi anche i primi gruppi a' azione «cristiano-sociale".

La scarsità di clero, legato alle tradizio­nali sedi, parrocchie, vice-parrocchie, ju­spatronatl e cappellanie, offriva poche possibilità di organizzare nuovi «servizi». Si comprende allora come le prime cure dei responsabili della diocesi fossero quelle ai chiamare congregazioni per creare istituti. Nel 1889 giunsero i S3.le­siani a Mendrisio; già nel 1886 le suore della congregazione di Ingenbohl, legate all'ordine cappuccino, iniziavano l'attivi­tà a Locarno ... E siamo alla data termina­le della presente cartella.

1) Il rito romano è quello universale della Chiesa cattolica. La liturgia ambrosiana è invece quella stessa che Sant'Ambrogio (sec. IV) ricevet­te da Roma e che i Lombardi conservarono intatta anche quando i Romani la sottoposero all'evolu­zione dei secoli. Le differenze si nscontrano quin­di soltanto nelle forme e preci liturgiche. Oggi il rito ambrosiano è seguito nell' archidiocesi mila­nese e in alcune poche parrocchie delle diocesi di Bergamo, di Novara e di Lugano.

In pratica il capitolo della semi-catte­drale ai Lugano non aveva mai avuto la fu~zione di «caJ?itolo cattedJ:ale», D<;)fi eSIsteva una «cuna» con {>ropna orgaruz­zazione, non servizi per il clero. :runico elemento che poteva essere, in qualche modo, comparabile ad un elemento di

16 struttura diocesana era il seminario mi- Minusio, la Baronata

2) Pomefta: anno 1934, p. 1-10,33-48, 65-78,97-114; anno 1935, p. 1-14, 33-44, .65-82. - Martino/a: p. 331-337, 462-470.

3) Cfr. Paolo D'Alessandri, Atti di San Carlo, Locarno 1909, p. 320. Inoltre, Zorzi: dissidi del ~enere negli anni 1620, 1641, 1734, 1774, 1779 lp. 19-20).

4) Sono indicati nel Memoriale citato alla nota 8: Appendice L. p. 44-53.

5) Stefano Franscini, La Svizzera Italiana, II ed., Lugano 1973, p. 477 e segg.: -Cose ecclesiasti, che».

6) Sac. Emilio Cattori, I bmi ealesiastici incame­rati dallo Siaio del Cantone Ticino, Lu~ano 1930.

7) La LeW comprende 37 articoli (Leggi G C, 1855, p. 128); cfr. anche la cattella N. 4, p . 27.

8) Mémorial du Comei/ d'Elal du Canton au Tes­sin au Comeil fédlraltouchanlla séparation du Canton des diocèses de Como el de Milan, 1855 (versione in italiano nel -Foglio Officiale del Cantone Ticino», patte I, 15 marzo 1858, p. 541 e segg.

9) La patte epistolare aell' articolo di E. Pomelta comprende tutto quanto egli potè rintracciare negli archivi statali di Vienna.

lO) Cfr. mons. Celestino Trezzini, Martino Pr­drazzmi, ed. d,alla «Società Storica Locarnese», Bel­linzona 1967. Nel testo sono pure richiamate cro­naca e documentazione relative alla questione dio­cesana.

11) Di particolare interesse è pure il Riassunto storico sulla separazione diocesana del Cantone Ticino di mons. GlOvan Battista Mattinoli, parroco di Ludiano, in Ambrosiana Trium Va//ium (Milano, 1925). rautore fu l'ultimo, durante il decennio 1875-85, della serie dei rappresentanti «in loco» degli arcivescovi milanesi. Cfr. -Archivio Storico Ticinese» N. 18, 1964, p. 71.

12) Cfr. Dorninique Ferrata, Mémoires, Roma 1920.

13) Verbali G C, 1884, p.l71 eLeggi G C, 1885, p. 171.

14) Antonio Galli, Notizie sul Cantone Ticino, voI. II, Lugano 1937, p. 667.

15) Testo in Leggi G C, 1886, p. 65 e-FoglioOf­ficiale», 29 gennaio 1886, p. 161; il Regolamento d'applicazione è datato 18 giugno 1886. Vedasi inoltre l'esame teorico-critico in La legge ticinese del 28 gennaio 1886 del sac. Enrico Maspoli, Lugano 1905.

16) Leggi G C, 1888, p. 143. 17) p. 115-125; la pergamena è conservata

nell'archivio della Curia di Lugano. 18) Il documento è conservato presso l'archi­

vio della Curia di Lugano e pubblicato con la tra­duzione italiana nel -Monitore ecclesiastico», 1971, p. 298.

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«Nuovi» esuli nel Ticino

Sino al 1859 il governo ticinese s'era trovato nella scomoda posizione di dover praticare un «diritto d'asilo» per gli esuli del Lombardo-Veneto, malgrado le con­tinue insistenze dell' autorità austriaca (e talvolta anche di Berna) perché tale ap­plicazione fosse più rigtda e più poliZie­sca. Se ad occidente del Verbano il confi­ne era verso il Piemonte (che pure aveva anch' esso i suoi esuli volontari come ad esempio il Brofferio alla Verbanella di Minusio), da Pino al San]oriov'eral'Au­stria che, dopo il 1848, era sempre più in­transigente e sospettosa. Il blocco di Ra­detzsky, nel 1853 era stato una prova molto pesante per la popolazioneticinese.

Dopo il 1859 la situazione è mutata: al di là ael confine v'è un solo stato: il Pie-

ciò spesso sarà ospite a Lugano e soprat­tutto a Londra, venendo in Italia per bre­vi e furtive dimore in incognito e sempre più deluso dalla politicamonarchica. Nel 1870, sbarcando a Palermo, Maizini è ar­restato ed internato nella fortezza di Gae­ta. Né vorrà entrare a Roma occupata gal­le truppe regie, tornerà a Lugano e a Lon­dra finché, con un falso nome, quello del dotto Brown, morirà a Pisa il lO marzo 1872.

Quando era morto Cattaneo a Casta­gnola, Mazzini era malato a Lugano, alla Tanzina. Fra il 1869 e il 1872 i due grandi scompaiono.

Questi due grandi esuli italiani resta­no «esuli volontari» anche quando è fatta l'Italia, pur in una situazione diversa da quella fra il 1848 e il 1859.

* * * monte, che ormai, dopo la campagna La situazione economica e eolitica del franco-piemontese del 1859, ha ottenuto nuovo stato italiano non è facde. La con-la Lombardia e che rapidamente, con an- venzione di settembre (1864) e l'alleanza nessioni e plebisciti, s'avvia ad essere con la Prussia, contro l'Austria, nel 1866, l'Italia monarchica e costituzionale. sono solo aspetti evidenti di questo pro-

Ma anche dopo il 1860 non mancano . fondo malessere. gli esuli, anche se di varia natura, e spesso. Per il Canton Ticino i mutamenti al con caratteristiche del tutto diverse da confine hanno delle conseguenze parti-quelli del Risorgimento. Solo seguendo colari. Fino al 1858, entrando nel Lom-gli avvenimenti di questo nuovo periodo bardo-Veneto, i nostri emigranti entrava-si potranno cal?ire certi sviluppi del Tici- no in un «impero» nel quale v'era la Boe­no nei decenru successivi. mia, l'Austria, l'Ungheria e parte della

Ricordiamo dapprima gli esuli italiani Polonia. Praga e Budapest non erano, in «repubblicani». fondo, cosllontane. Cemigrazione negli

Carlo Cattaneo, esule a Castagnola da stati italiani era una emigrazione che go-oltre un decennio, nel periodo fra il 1860 deva di vecchie tradizioni e di qualche e il 1869 (morl a Castagnola il5 febbraio privilegio. Le associazioni locali di emi-1869) si d~~a particolarme~te ~ prob!e- granti erano delle «confraternite», cioè ma férrov1ano, ma sempre P1Ù S1 convm- delle «compagnie» con uno sfondo di so­ce della necessità e del valore d'una politi- lidarietà religiosa. ca mirante a "federazioni» perché, scrive- Dopo il 1859 e soprattutto dopo if va nel 1866, «i nostri amici non pensano che 1870 le difficoltà aumentano. Lo stato ita-mentre in nome dell'unità e delfa carta geo- liano ha problemi gravi e l'unità è più ap­grafica si sbancano i Piccoli despoti, si rendono parente che reale. La polemica antl-papa­più onnipresenti i grandi» (26.vII.1866 le è forte e lo stato laico si impone. Le n. 1232 J 1. Malgrado parecchie insistenze vecchie «compagnie» di emigranti diven­per accettare un mandato parlamentare gono società dì mutuo soccorso e l'emigrazio­m Italia, Cattaneo resta «all'estero» e ne in Italia assorbe molto presto l'orien­quando accetterà il seggio del I collegio tamento laico della politica italiana, co­Milanese, nel 1867 , l'ur recandosi a Firen- me fra il 1830 e il 1848, l'aveva assorbito ze, non metterà mal piede in Parlamento l'emigrazione in Francia. e non giurerà fedeftà alla costituzione Del resto la presa di Roma - che mol­monarchica e al re, rientrando poi a Ca- ti cattolici-liberali auspicavano avvenisse stagnola. Egli resterà ancora« espatriato». in forme diverse, più riseettose del dirit-

Le critiche al ministero, al parlamento to e della convivenza civde 2 - aveva sca-ed anche alla sinistra minoritaria, non vato un nuovo fossato fra i cattolici e cit­mancano, in Cattaneo: questa Italia che tadini «laici» dell'Italia nuova, annullan-s'andava formando non era quella ch'egli do in gran parte la tradizione dei cattoli-aveva sognato: repubblicana e federalista. ci-risorgimentali, eredi di Gioberti.

Ma anche chi, nel 1848 e nel 1859 ave- All'interno del Ticino la frattura ebbe va fatto credito alla monarchia sabauda, le sue·ripercussioni e, dopo il 1870, la «fe-restava «esule» anche se talvolta, «in pa- deltà al Papa» fu uno degli elementi di tria». unità politica fra i cattolici, rafforzata dal-

Giuseppe Mazzini nel 1859 è a Firenze la Piusverein (La società Piana svizzera) in incognito, poi si trasferisce a Lugano e che presto avrebbe assunto anche un ca­a·Londra. Ritornerà in incognito a Geno- rattere anti-tedesco, contro il Kultur­va e a Napoli ma ormai la sua influenza è kampf, e in difesa del federalismo. in declino. Si sente «esule in patria» e per- Tutti questi elementi avranno qualche

Carlo Cafiero

influenza nelle reazioni verso la nuova ondata di esuli che, dopo il 1869, paSsa dal Ticino.

Il militarismo prussiano e quello di Napoleone III avevano già profonda­mente allarmato molti spiriti che consta­tavano le ingiustizie economiche e sociali che s'accentuavano. Così nel 1867 s'era tenuto a Ginevra il primo congresso del­la Lega della Pace e della Libertà che predi­cava la fine delle guerre, delle ingiustizie, il federalismo europeo, e la pace fra i po­poli. V 'avrebbero partecipato, applaudi­tissimi, due «esuli» illustn, Garibaldi (ri­tirato a Caprera) e Bakunin (fuggito dalla Siberia).

Nei congressi successivi s'era parlato di «democrazia», di «giustizia», di «Stati Uniti d'Europa» e anche s'era discusso se non si dovesse abolire il diritto d'eredità, sorgente di molte ingiustizie.

Alcuni di guesti temi erano pure di­scussi, in modo più estremo, ai congressi della Alleanza internazionale dei lavoratori, la cosiddetta Prima Internazionale, in par­ticolare al congresso di Basilea nel 1869.

Questo panorama vuole accennare al­meno a talune situazioni che devono es­sere tenute presenti per comprendere la grande differenza della «seconda ondata,. di esuli, attorno al 1870. Essi sono ormai «esuli» per una situazione internazionale europea: esuli russi, fuggiti dalla persecu­zione dello zar, esuli francesi, scampati dalle prigioni della Comune annientata, esuli italiani, scampati dalle prigioni o dai processi delle prime agitaztoni sociali o dalle rivolte internazionaliste. E fra i mol­ti, certo il più significativo, anche per la sua forza d'attrazione e per i contatti che aveva, è Bakunin.

* * * Quando, il 1. novembre 1869 Michele

Bakunin giunge da Ginevra a Lugano, la­sciando gli esuli russi che s'erano stabiliti 17

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18

dal 1860 in poi sulle rive del I.emano (a Ginevra, a Clarens, a Vevey, ecc.) si può dire che inizi uri nuovo tipo di «esuli» nel Ticino.

Molti giovani russi erano venuti in Svizzera, fra il 1850 e il 1860, per studiare nelle nostre università e poi al Politecni­co di Zurigo per evitare la sorveglianza della polizia dello zar che, da anni, speri­mentava come l'opposizione si formasse negli ambienti uruversitari, in patria e all'estero (soprattutto nelle università germaniche).

Un personaggio notevole di '3.uest' epoca, James Guillaume, scrive nel. suoi ncordi che Bakunin non si fermò a Luga­no perché v' era allora Mazzini, e si stabilì vicino a Locarno, a Muralto (allora Orse­lina inferiore), affittando, verso metà no­vembre, alcune stanze dalla signora Tere­sa J auch vedo Pedrazzini 3.

Vi resterà, spesso con la moglie ed i figli, sino al 30 aprile 1872, per quasi due anni e mezzo, quando la moglie decide di tornare in Russia coi figli e Bakunin si trasferirà all'albergo del Gallo, di Giaco­mo Fanciola, a Locarno, alla Motta, ove soggiornerà, seppur saltuariamente, sino alla primavera del 1873. .

Qui verranno parecchi amici e disce­poli, oltre i russi, il geografo Eliseo Re­clus, l'italiano Fanelli con un' suo giovane amico, Carlo Cafiero. Bakunin viaggiò molto in guesto periodo per incontrare gli amici dì Ginevra, per visitare gli stu­denti russi a Zurigo, anche in preparazio­ne del congresso di St. J mier, al quale par­tecipa con i discepoli italiani Fanelli, Ca­fiero, Malatesta, Nabruzzi, Pezza e An­drea Costa (15.IX.1872).

Dopo varie peripezie Cafiero, nel­l'agosto 1873, compra a Mappo - traMi­nusio e Tenero - una casa Isolata: la Ba­ronata (già del Barone Marcacci), ove vorrebbe assicurare una sede stabile a Ba­kunin e un punto d'incontro per i rivolu­zionari anarchici. Ma l'esperienza è nega­tiva anche per le esigenze finanziarie im­prevedibili. A fine luglio del 1874 Baku­nin laSciò la Baronata per recarsi a dirige­re un' insurrezione a Bologna; fallita, rien­tra in Svizzera e, dopo un breve periodo ' nel Vallese, si stabilirà a Lugano il 7.X 1874 ove ritrova la moglie, i figli e il suo­cero. Dopo un periodo in locali d'affitto comprerà il5.III.1875 la villa Fumagalli a Besso, ove vorrebbe creare una coltiva­zione di fiori da vendere alla futura stazio­ne della ferrovia prevista poco lontano.

Ma anche questo progetto sfuma. Di fronte a nuove difficoltà finanziarie Ba­kunin decide di vendere la villa all'incan­to e trasferirsi, a Napoli con la famiglia, ove aveva già vissuto dal 1865 al 1867 ed aveva trovato un gruppo d'amici e disce­poli.

Prima di trasferirsi definitivamente (la moglie è già a Napoli) vuole salutare gli amici Vogt a Berna, approfittando per

Michele Bakunin

farsi visitare, dato lo stato di salute molto malandato. Partirà a metà giugno e non tornerà più. La morte lo coglie, dopo un breve peggioramento, il 1.VII.1876 a Berna.

* * * Attorno a Bakunin si muovono molti

altri personaggi esuli, compaiono pure a visitarlo molti rivoluzionari (di passag­gio come turisti), egli stesso poi ha molti contatti con personalità ticinesi e si può dire con certezza che le influenze non so­no a senso unico.

Bakunin era considerato, in Svizzera, anche se ciò non era ufficiale. Nell'otto­bre 1874, a Berna, oltre degli amici Vogt e Reichel, Bakunin è ospite del cons. fed. Schenk che il 3 ottobre 1874 lo invita a passare la giornata in casa sua a Twann. A Locarno è di casa nella famiglia di Felice Rusca, molto legato a Emilio Bellerio (e al figlio Carlo), frequenta il farmacista Paolo Gavirati, Emilia Franzoni, Remi­gio Chiesa e, in occasione d'una passeg­giata in Onsernone, conosce Paolo Mor­dasini e Luigi Rusca all'Hotel Pronuncia­mento ai Bagni di Craveggia. Cercherà anche di ottenere la cittadinanza svizze­ra 4•

Fra gli amici stranieri che frequentano Bakunin, in realtà esuli anch'essi, ricor­diamo almeno Eliseo Reclus, Cafiero, Er­rico Malatesta, gli Arnould, Benoit Ma­lon, e fra gli svizzeri Schweizgiibel, J ames

Guillaume, Joseph Favre, il giovane Carlo Salvioni e fors'anche Natale Impe­ratori.

* * * Cidea del federalismo e della lotta al

militarismo era diffusa in questi esuli e non solo fra essi. Un fedele mazziniano luganese, Carlo Battaglini, sarà chiamato a presiedere i lavori del sesto congresso inter­nazionale della Lega della Pace e della Li­bertà, che si tenne a Lugano dal 23 al 27 settembre 1872 al quale inviarono mes­saggi Garibaldi. e Victor Hugo .. Il gruppo bakuniano non vi partecipa impegnato nella polemica verso il Consiglio genera­le di Londra, il congresso dell'Aja e quel­lo di St. Jmier. Ma vi sono alcune perso­nalità che è interessante ricordare, fra la sessantina degli intervenuti. I ticinesi più importanti mi sembrano, col Battaglini, l'avv. Leone De St0l.'pani, l'avv. Emilio Censi, Luigi Colomol (che fungera da se­gretario del congresso per l'italiano), Francesco Veladini; fra gli stranieri oltre i due vicepresidenti Armand Groegg (co­munalista, come si definisce) e Lemon­nier (francese) partecipano i giornalisti Teodoro Moneta ed Enrico Bignami. Il Congresso della Lega, tenuto poco dopo la scomparsa di Mazzini, se non ha un successo immediato, mostra però l'inte­resse che cominciò a nascere attorno al nostro Cantone.

* * *

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Esso poteva esser scelto come soggior­no da coloro che, per varie ragioni, non potevano o non volevano restare a vivere nei loro paesi: perseguitati politici, esilia­ti o assertori di nuove forme politiche. La Svizzera, nella seconda metà dell'Otto­cento, è punto d'incontro di esuli, ma v'è un periodo nel quale il Ticino è partico­larmente frequentato e specialmente Lu­gana. Non per nulla Pietro Gori, nel gen­naio 1895, espulso dalla Svizzera, lascian­do Lugano aveva scritto i versi della can­zone che sembrava concludere un'epoca di umana accoglienza «Addio Lugano bella / o dolce terra pia ... ».

Gli anni fra il 1870 e il 1880 sono parti­colarmente ricchi di presenze.

Dapprima i comunardi. La terza repub­blica, schiacciata la Comune, ne aveva condannato alla galera molti capi. Col­l'intervento di scienziati di tutto il mon­do la prigione del geografo Eliseo Ree/us era stata mutata in esilio. Reclus giunge nel Ticino probabilmente nell'aprile 1872 e subito si reca a visitare Ba.k:unin a Locarno. Si installa con la moglie, la suo­cera e due bambine alla Levina di Pazzal­lo, una casa di campagna dei Censi, legge e lavora alla sua grande opera geografica. Reclus doveva essere conosciuto, nel Ti­cino, 'perché partecipa all'assemblea degli «Amici dell'Educallone del Popolo» del 21-22 settembre 1872 al Liceo cantonale, a Lugano e fr~uenta la biblioteca diretta dal prof. Gabnni.

Persa la moglie, un bambino neonato e la suocera (saranno sepolti nel «cimite­ro degli stranieri» a Loreto come in quei giorni anche la vedova di Carlo Catta­neo), Reclus, con le due bambine, lascia Lugano per trasferirsi alla fine di luglio 1874 a La Tour de Pelli. Ma Reclus ha cer­tamente due contatti importanti in que­sto periodo Luganese: coi giovani liceali Carro Salvioni e Mosè Bertoni: nessuno dei due dimenticò la lezione morale e scientifica del grande geografo.

Partito Reclus, alla Levina s'istalla un altro comunardo Arthur Arnould, mentre Paul Guérin si è stabilito anch'esso a Lu­gana (autunno 1874).

A Lugano c'erano pure i fratelli Ludo­vico e Giuseppe Nabruzzi con attività di ri­piego (l'uno ha una agenzia commercia­le, l'altro lavora come segretario all'Hotel du Parc) e Tito Zanardelli che elabora con Ludovico Nabruzzi una guida di Lugano nel 1875 5, e Francesco Pezzi (professore di contabilità e di calligrafia).

Infine, nelle cucine dell'Albergo du Parc, dei Béha, v'èloseph Favre (Bex 1849-1903) un moco <li grande capacità che aveva fatto la campagna del 1871 con Ga­ribaldi, che aveva Frequentato l'Universi­tà di Ginevra 6 e che era stato «chef» a Cla­rens(HòtelKetterer 1875), echenel1876-77 "{ece le stagioni» a Lugano prima di arrivare, nel 1880, al1'Hòtel Central di Ber­lino, il più importante albergo del tempo.

Favre è legato a Ba.k:unin (e lo ricorda nel Dictionnaire de Cuisine pratique) e ad altri anarchici luganesi.

Il 20 agosto 1875 appare a Lugano il primo numero dell' Agitatore che uscirà, sino al 20 ottobre 1875 con 6 numeri. In seguito si crea la -Sezione del Ceresio » (20 novembre 1875) cui pare si dedichi parti­colarmente L. N abruzzi, poi appare «L'Almanacco del proletario del 1876». Nel marzo 1876 appare la Lettre adressée au meeting de l'Int.ernationale réuni a Lausanne le 18 mars 1876 di Favre e Malon.

Bénoit Malon aveva girovagato per l'Italia con vari progetti e aveva ideata una «revisione» della linea ba.k:uninista che difenderà soprattutto nella sua rivista -Le socialisme progressi[. pubblicata a Luga­no nel 1878 e nel volume «La question so­ciale' (Lugano 1876).

Nel periodo fra il 1876 ed il 1878 il mondo degli esuli è diviso da parecchie polemiche. Sta nascendo un movimento di revisione della politica passata: da un lato il desiderio di continuare la lotta per il rinnovamento totale, dall'altro il desi­derio di ottenere qualcosa, ma subito. Gli esuli ticinesi sono, come al solito, dalle due parti contrapposte: Malon e, più tardi, Andrea Costa sono per una re­visione dei metodi, Cafiero e ~alatesta, per continuare, e anzi puntare sulla «pro­paganda del fatto».

A noi qui interessa ricordare come Ca­fiero, lasciata la Baronata 7, partecipò nel 1877 ai Moti del Matese, restò in prigio­ne 16 mesi, sino all'agosto del 1878 (in prigione tradurrà il Com pendio del Capi­tale di Marx). Nel 1880 Cafiero è di nuo­vo a Lugano ed è perquisito dalla polizia che lo arresta il 5 settembre 1881 8• Rila­sciato dopo pochi giorni, Cafiero lasciò la Svizzera e, malato, tornerà a Locarno nel 1882 ormai grave, accolto da Giuseppe Gagliardi a Broglio, in Valle Maggia, e Oa Carlo Bellerio a Locarno.

Anche 1'amico di Cafiero, Errico Mala­testa, verrà a Lugano in quegli anni {evi sarà arrestato il 21.11.1981 per poi essere espulso) 9 e cos1 Andrea Cojta che proprio da Lugano, il 27.VII.1879, iniziò quella Lettera agli amici di Romagna che annun­zia un nuovo orientamento politico.

Due avvenimenti sottolineano l'im­portanza che il Ticino ha in quegli anni per gli anarchici: il congresso dì Chiasso il

5-6 dicembre 1880 che avrebbe dovuto riorganizzare la Federazione dell'Alta ita­lia e si risolse in un vivace contradditto­rio fra anarchici e socialisti, e il congresso di Capolago dal 4 al6 gennaio 1891, che rior­ganizzò il movimento «socialista-anar­chica-rivoluzionario» 10.

Il decennio fra il 1880 ed il 1890 è ca­ratterizzato, all'inizio, nel mondo sociali­sta, dalla polemica fra Malatesta e Costa, alla fine, dell'apparizione d'una nuova ondata di propagandisti che avranno, più tardi, da Tare direttamente o indiretta­mente nel Ticino, fra altri Francesco Sa­verio Merlino, Luigi Galleani, Pietro Go­ri e Luigi Molinari.

Col 1891 usciamo però dai limiti del periodo che dev' essere qui studiato e per­tanto non ci si inoltrerà nei fatti successi­vi. Ma parecchi ticinesi ormai sono legati al movimento: fra altri Natale Imperatori e Antonio Gagliardi, presto sarà la volta di Luigi Bertoni 11.

1) Per la posizione di Cattaneo si veda l'Episto· lario, a cura di R. Caddeo, 4 volI., Firenze, Barbèra ( 1949-1956).

2). Si vedan? a questo proposito: il trop~o di­mennCato saggIO «Le speranze della vera Italia nel trasporto della Capitale ' in la Civiltà cattolica serie V. voI. XII fase. 354 (1. dicembre 1864) p. 41 e ss. e lo studio di Stefano Jacini La Questione Iii Roma al principio del 1863, considerazioni di Sl deputato al Parlamento italiano, Torino (UTE gi~ Pomba) 1863 (pp. 83).

3) J arnes Guillaume: L'Internationale, Dom­mmts et souvmirs (voI. 1, 1864 - 1872) (nuova edi­zione) Genève (Grounauer) 1980.

4) Posso attingere le nonzie e le date esatte dal voI. di Arthur I.ehning eMichel Bakounin et les au­tres-, Paris 1976, e dalla copia del «carnets> (in par­te ancora inediti) messarni a disposizione da A. I.ehning.

5) Guida storico-descrirtiva-commerciale delle cirt~ di Lugano-Bellinzona-I.ocarno, 1875 .

6) Su Joseph Favre, la cortesia dell'amico Luigi Bosia m'ha fornito particolari precisi che qui uso.

7) Su Cafiero si veda la bella biografia di Pier Carlo Masini: Cafiero (Milano, Rizzoli 1974).

8) Su questo arresto e!' inchiesta, vedilo studio di Gian Carlo Maffei: DossierCafiero, Bergamo 1972.

9) Vedi l'articolo di G.c. Maffei: «Errico Mala­testa in Ticino' in BSSI, 1970, p. 1 ss.

lO) Sui congressi di Chiasso e Capolago v. i contributi di Giuseppe Martinola (1969) e di G.c. Maffei (1970) nel BSSI.

11) Sugli avvenimenti e le l'ersone qui ricor­date, m~ori indicazioni e altn particolari (e do­ctimenti) sono contenuti in miei precedenti studi: Due anniversari (Bellinzona 1971 J «Un gruppo in­ternazionalista dissidente: la sezione del Ceresio' in Anarchismo e socialismo in Italia, Roma 1973, «Appunti sui grupl'i anarchici e Libertari a Bellin­zona ' in Pagine Bi/linzonesi, Bellinzona 1978.

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Legislazione sociale

Le pubblicazioni filantropiche ticinesi del secolo scorso si chiedevano di tanto in tanto se esisteva una questione sociale nel cantone e ammettevano solitamente che, mancando nel Ticino la grande indu­stria moderna, mancava pure il proleta­riato asservito brutalmente alle macchine e prigioniero delle fabbriche.

La popolazione, composta di contadi­ni e artigiani emigranti, sembrava ancora al riparo dai nefasti effetti della civiltà in­dustriale e, sebbene nel cantone fosse as­sai diffusa una certa povertà, essa appari­va in generale dignitosa e sopportabile, mostrava in pochi casi i connotati vergo­gnosi della miseria, e solo in circostanze eccezionali, in seguito a <J.ualche calamità, assumeva le preoccupantI dimensioni del pauperismo.

Anche i governanti ticinesi condivide­vano le opinioni allora dominanti che fosse pericoloso e controproducente per lo stato assumere troppo estese funzioni assistenziali e che non fosse lecito, se non in circostanze eccezionali, promuovere una politica di incisivi interventi sociali. La società andava lasciata nei suoi natura­li equilibri e lo stato doveva intervenire solo per ristabilirli, qualora fossero stati profondamente turbati o si presentassero seri pericoli per l'ordine pubblico o 'mi­nacce di degenerazione morale e fisica del­la popolazione: per il resto bastava prov­veGere con l'educazione del popolo, la previdenza individuale, la carità privata 1.

Fondata su tali principi, la legislazione sociale ebbe nel cantone Ticino i suoi ini­zi quale estremo rimedio a mali giudicati estremi, proprio come era avvenuto e av­veniva nei grandi stati europei.

L'emigrazione

Il pauperismo si manifestò con punte allarmanti e persistenti al seguito delle crisi agricole e politiche di metà secolo e poi ancora con le devastatrici alluvioni del 1868; ma il terreno gli era stato prepa­rato dalla progressiva decadenza dell' agricoltura. La guestione sociale si pose innanzitutto nel termini dell'emigrazio­ne di massa e specialmente quando, poco oltre la metà del secolo, al tradizionale movimento stagionale di raggio euro­peo, si aggiunse e in parte sostituì un Busso crescente verso continenti lontani: esso assunse in certe regioni l'ampiezza di un vero e proprio esodo che rapiva gran parte della popolazione attiva e pro­curava vistosi squilibri demografici.

Già 1'emigrazione stagionale aveva su­scitato qualche preoccupazione, poiché erano stati denunciati alcuni casi di sfrut­tamento e truffa, ma lo stato cantonale si

20 sentiva evidentemente incapace di pro-

teggere i propri lavoratori all' estero o di sollecitare la stipulazione di apposite convenzioni internazionali. Inoltre non intendeva affatto scoraggiare questa for­ma di emigrazione che appariva come una salutare valvola di sfogo alle difficol­tà interne.

Fu quando l'emigrazione transoceani­ca assunse «delle proporzioni esorbitan­ti» che il Gran Consiglio si decise a inter­venire: la legge del 13 giugno 1855 cerca­va infatti di scoraggiare l'emigrazione ol­tremarina, impedendo a comuni e patri­ziati di facilitare le partenze con prestiti o garanzie, la proioiva ai minori di di­ciott' anni, e sottoponeva le agenzie di emigrazione a un minimo controllo per prevenire i frequenti casi di imbroglio e truffa nei contratti di trasporto. A quan­to sembra, fu applicata fiaccamente ed ebbe ben poco effett0 2•

Anzi, mentre l'esodo raggiungeva il suo apice, la commissione della gestione del Gran Consiglio, pur deplorando la febbre migratoria, riiffermava l'incom­petenza dello stato e l'autoregolazione dei fatti sociali: «diciamo però recisamen­te che il legislatore non può, coi mezzi di­retti, fare alcunché per scemarla ... non dobbiamo di troppo impensierirci intor­no alla emigrazione oltremarina, che tro­verà il pronto suo rimedio nella natura stessa della cosa3 ». Così non si fece più nulla. 10 stato si limitò a raccogliere dati statistici sul movimento degli emigranti e lasciò cadere nel 1869 una mozione di Angelo Baroffio per la vigilanza sulle agenzie di emigrazione.

N el187 41a più elementare tutela degli emigranti fu assunta dallo stato federale: la nuova costituzione sottoponeva le agenzie di emigrazione alla vigilanza della Confederazione, che si concretò nella legge federale del 24 dicembre 1880.

Il lavoro infantile

La stagione della legislazione sociale tendente a proteggere gli operai e special­mente i bambini impiegati negli opifici fu inaugurata tardivamente, risultò assai blanda ed ebbe brevissima durata. Per pa­recchio tempo le autorità ignorarono il problema, negarono la necessità di qual­siasi intervento e perfino l'utilità di qual­che inchiesta negli opifici poiché le fab­briche erano poche e le condizioni di la­voro «notorie e facili a controllarsi».

Infatti, quando nel 1869 il Consiglio Federale promosse un'inchiesta sullavo- · ro infantile in Svizzera, il governo ticine­se riferì candidamente che il lavoro dei fanciulli sembrava di poca consistenza e non soggetto ad abusi e che «nessuna leg­ge e nessuna disciplina restrittiva o di semplice sorveglianza sull'ammissione de' ragazzi nelle fabbriche, sulla durata del lavoro e sul trattamento de' medesi­mi è stata finora sancita e nemmeno pro-

gettata». Eppure si contavano allora più di 3000 operai nei vari opifici e per due terzi erano donne e bambine occupate nelle manifatture della seta, e le autorità non potevano certo ignorare quanto fos­sero Frequenti le assenze per lavoro dalla scuola elementare e con quali danni 4.

Occorse proprio che le denunce si fa­cessero stringenti e drammatiche per smuovere i poteri pubblici dall'inerZIa.

Già da qualche tempo la stampa e le autorità di alcune città italiane avevano segnalato con riprovazione le miserabili condizioni dei garzoni spazzacamini pro­venienti dal Ticino, costretti all'accatto­naggio e talvolta crudelmente maltrattati.

Attorno al 1870 cinquecento o seicen­to spazzacamini trascorrevano solita­mente la stagione invernale nelle città dell' alta Italia e di questi gran parte erano bambini. Nel 1873, quando il governo si occupò infine della faccenda, ammise di avere scoperto «una dolorosa iliade di pa­rimenti, di oppressioni e di miserie ... la piaga dell' accattonaggio forzato e dell' ab­brutimento morale e fisico velati sotto la maschera del lavoro e sotto i poveri cenci del piccolo spazzacamino». 5

Alcune voci del Mendrisiotto denun­ciarono nel frattempo le disumane condi­zioni di lavoro a cui erano sottoposte le bambine nelle filande, e soprattutto gli interminabili orari ili lavoro.

Due deputati di quella regione chiese­ro al governo un pronto intervento, rite­nendo «sconfortevole che, per non nuo­cere ai guadagni di alcuni negozianti già ricchi, si permetta che fanciulli di tenera età, obbligati alle scuole, per un fittizio guadagno, vadino a rovinarsi la loro fisica costituzione senza godere dei benefici della scuola, che tanto costano al Comu­ne ed allo Stato». 6

Fu così aperta un'inchiesta seria anche negli stabilimenti serici e il governo scoprì quanto in parte già conosceva dal­le 'proprie statistiche, cioè che nel Men­drisiotto da un quarto a un terzo delle ra­gazze in età scofastica disertava la scuola per lavorare la seta in condizioni molto penose.

Seguirono immediatamente due de­creti governativi: il primo, pubblicato il 18 agosto 1873, staoiliva che la giornata lavorativa effettiva nelle fabbriche non poteva superare le dodici ore, che dove­vano essere intercalate da pause, e racco­mandava inoltre alle direzioni degli stabi­limenti «di somministrare giornalmente agli operai delle razioni di pane di fru­mento di buona qualità e ben cotto, de­ducendone il prezzo dal salario». Il secon­do, del 30 agosto, proibiva l'emigrazione dei ragazzi d'età inferiore ai quattordici anni 'per il mestiere di spazzacamino o al­tre slIDili attività girovaghe.

Il 28 febbraio 1874 il Gran Consiglio trasformava in legge il decreto sugli spaz­zacamini, estendendone però l'applica-

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zione ai ragazzi di ambo i sessi occupati in mestieri "pregiudizievoli alla salute». Ma a questa utilissima estensione accompa­gnava una limitazione esiziale: l'età mIni­ma di accesso al lavoro era abbassata da quattordici a dodici anni, poiché, come aveva argomentato a proposito degli spazz~~ini l'~pposita ~ommi~sione, "a 12 anru l ragazZi hanno gtà acqUlstato una certa robustezza che permette loro di sOfPortare con minor pericoli .gli stenti de viaggio, e i patimenti di questa pro­fessione; a 12 anni l'educazione primaria di questi ragazzi è quasi compita; a 12 an­ni i ragazzi sono meglio in grado di resi­stere alle prepotenze dei loro padroni». 7

Serviva poco, allora, che la legge auto­rizzasse ulteriormente il governo a vieta­re l'impiego di" fanciulli in troppo tenera età» in lavori superiori «alle loro forze ».

La legislazione ticinese sul lavoro si esaurì praticamente ai suoi timidi inizi. Conservarono autonoma validità le re­strizioni all' emigrazione degli spazzaca­mini e la vigilanza ebbe qualche efficacia anche perché si badava d'evitare la pub­blica riprovazione in Svizzera e all' estero. Ma le 1imitazioni poste al lavoro negli opifici furono immediatamente scavalca­te dalla legislazione federale.

Nello stesso 1874, con la revisione del­la costituzione federale, la Confederazio­ne fu autorizzata a disciplinare il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche e in generale la durata degli orari e l'esercizio di indu­strie malsane e pericolose. Nel 1877 en­trava in vigore la legge sul lavoro nelle fabbriche: essa limitava la giornata a un­dici ore e stabiliva l'età minima di accesso alle fabbriche a quattordici anni.

A questa legge sfuggivano già, natu­ralmente, quanti erano occupati nei lavo­ri agricoli, nelle cave, nei servizi, nell'edi­lizia e gli emigranti stagionali, ma essa non potè applicarsi pienamente neppure alle bamblOe della manifattura serica, poiché, dietro istanza dei fabbricanti che si dicevano minacciati a morte dalla con­correnza comasca non ostacolata da limi­tazioni d'età nell'impiego della manodo­pera, il governo cantonale ottenne nel 1880 che fosse abbassata l'età minima di accesso negli opifici serici da 14 a 12 anni. A questa anomalia si aggiunse il ritardo di dieci anni nel promulgare il regola­mento d'applicazione alla legge federale sulle fabbriChe: un vuoto prolungato che facilitò l'inosservanza e gli abusi nono­stante l'assai stretta sorveglianza fede­rale.

La deroga concessa «,provvisoriamen­te» all'industria serica ticinese durò di­ciotto anni, ma non la salvò dal declino.

Quando nel 1898 il Consiglio Federale non fu più disposto a tollerarla ulterior­mente, lOcontrò opposizioni, suscitò la­mentele, petizioni e minacce. Infatti alcu­ni industriali chiusero senza indugio gli stabilimenti o li trasferirono oltre confì-

ne, lasciando a casa, assieme alle dodicen­ni, alcune centinaia di lavoratrici.

L'assistenza pubblica

Nel 1851 il periodico d'utilità pubbli­ca «L'amico del po,polo» presentava un Ptogetto di legge SUl poveri, osservando: «E comune il lamento, che il pauperismo va mostrando anche fra noi in alcune co­muni il suo lurido ceffo; e specialmente nei capiluoghi si ha il triste spettacolo di accattoni, che affluendo dai circonvicini paesi, importunano ad ogni passo il citta­dino, e danno al forestiere di giudicare molto sinistramente della nostra civiltà e dello stato economico del paese.» B

Il confronto con una miseria ormai ap­pariscente e piuttosto diffusa, imputabile alle critiche circostanze di quegli anni, avrebbe d0V1!to suggerire una riforma in­cisiva del sistema assistenziale, ma anche in questi frangenti lo stato perseverò nel­la sua prudente e labile politica. Essa si ar­ticolava in questo modo:

il cantone lasciava ai comuni la fonda­mentale e completa responsabilità per l'assistenza ai loro attinenti poveri;

combatteva la mendicità con interven­ti repressivi;

utilizzava, per le disgrazie eccezionali, un fondo di beneficenza alimentato da pubbliche collette;

provvedeva alla salute pubblica e cer­cava di ovviare alle più gravi tare sociali e

di garantire assistenza ai derelitti median­te la legislazione sanitaria.

La repressione della mendicità si fon­dava sulla convinzione che la carità mal riposta avrebbe accresciuto il male invece di estirparlo e favorito individui social­mente pericolosi, accattoni di «indole vi­ziosa» e simili parassiti propagatori di epidemie, delinquenti potenZIali ed effet­tIvi. 9

Per quasi tutto il secolo, a intervalli re­golari secondo le avverse congiunture, le autorità imperversarono con dure circo­lari contro la mendicità e organizzarono ogni tanto retate per l'espulsione dei mendicanti stranierI; ma che il successo delle misure di polizia fosse generalmen­te assai scarso, lo confermava nel 1870 il commissario governativo di Lugano che giudicava la mendicità "una piaga insa­nabile».

L'istituzione di un fondo di soccorso a favore delle famiglie che "in conseguenza di straordinari infortuni venissero a tro­varsi in grave necessità» era stata decisa nel 1841, doro la tragica esperienza delle alluvioni de 1839 che avevano gettato molte persone nell'indigenza. Il fondo doveya costituirsi con il prodotto delle multe e in massima parte con il provento di due collette annue bandite dai parroci ed eseguite con la questua domenicale. Le collette diedero sempre frutti talmente miseri, che il governo minacciò più volte i comuni di multare i municipi e parroci negligenti e si sfogò talvolta con aspre 21

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rampogne contro i l'arroci che dimostra­vano «di non aver VIscere di misericordia se non in relazione ai loro interessi e alla loro gerarchia» e diventavano «operosi fi­no al fanatismo e all'accattonaggio» solo nelle collette per il culto l0. Tuttavia an­che le multe non confluivano regolar­mente al fondo di beneficenza, parte del denaro raccolto veniva dirottata verso al­tri usi e il governo largiva i sussidi con ar­cigna parsimonia. Così non venne mai accantonata una solida riserva, e quando le calamità colpivano, secondo una pre­vedibile giustizia distributiva, ora il So­praceneri con le alluvioni e le valanghe, ora il Sottoceneri con le epidemie di cole­ra e vaiolo, il fondo di soccorso era inca­pace di far fronte ai bisogni e si doveva ri­correre alla carità privata, a cui la com­missione della gestione affidava ancora nel 1866 una funzione in ogni caso pre­minente: «noi non abbiamo troppa fidu­cia nei frutti della carità legale, e però ci sembrerebbe molto giovevole l'introdu­zione di un sistema misto, mediante il quale avesse una gran parte l'azione dei privati». 11 .

I:assistenza corrente ai poveri sembra­v~ i?c?mbere per an~ca tradizion~ ai ~a­trIZiau, ma eSSI, pur disponendo di bem e rendite a volte precisamente destinati a tale scopo, ne scaricarono di fatto gli one­ri sulle finanze comunali. Nel 1855 una legge stabih sen.za più equivoci l'obbligo di ciascun comune «di soccorrere i propri attinenti assolutamente poveri e incapaci di lavoro», e di assistere i poveri altrui (ma ticinesi), qualora, per improvvisa malattia, non potessero essere trasportati "senza perico[o e gravi inconvenienti» al loro comune di attinenza, che era comun­que tenuto al risarcimento delle spese.

I:assistenza, abbandonata in termini tanto restrittivi ai municipi, e quasi senza vigilanza cantonale, fu esercitata in gene­re con tale esosa e umiliante grettezza da respingere o scoraggiare chi non fosse di­speratamente miserabile. I:autore di un'inchiesta sul pauperismo in Svizzera notava che la conseguenza del sistema adottato nel Ticino era «que les individus pauvres ont recours le moins possible à l'assistance publique» 12. A quella data (1870) solo 43 comuni su 263 disponeva­no di un fondo per i poveri.

Benché il governo avesse più volte proibito di far mantenere i poveri a turno dalle famiglie, diversi comuni persevera­rono lungamente in tale pratica: nel 1873 il municipio di Someo era stato accusato di aver lasciato mantenere una famiglia povera dalle altre a patate e castagne mar­ce; nel 1888 il municipio di Giumaglio negava a una vecchia carica d'acciacchi un sussidio giornaliero di dieci centesimi, costringendola a elemosinare nelle case a turno, Pianezzo, almeno, assegnava nel 1870 a un povero tre quarti di libbra di

22 pane al giorno. Era capItato che stranieri

- ' , ~.' .

! .

/

poveri ammalati fossero ricoverati in qualche stalla, oppure messi in viaggio verso il comune di attinenza in condizio­ni pietose. I litigi tra comuni che si pal­leggiavano l'onere di qualche miseraoile, disputando sull' attinenza, erano frequen­ti e interminabili.

Nel 1868 il Gran Consiglio volle intra­prendere la riforma dell' assistenza. Qual­che deputato suggerì di trasferire l'onere dal comune d'attinenza a <I.uello di domi­cilio, quando un povero VI risiedeva sta­bilmente da molti anni. Nel 1882 Gioa­chimo Respini propose che bastasse una permanenza ventennale per obbligare il comune di domicilio all'assistenza e tor­nò alla carica nel 1890, deplorando la più che ventennale inerzia del Consiglio di Stato. Ma nello stesso Gran Consiglio, di tale legge e delle riforme proposte, si era quasi perduto il ricordo 13.

I:autorità cantonale dimostrò maggio­re sollecitudine nei confronti dei più de­relitti: i bambini abbandonati e l pazzi. Poco oltre il 1860 fu ripreso l'antico pro­posito di istituire un brefotrofio cantona­le. Anche questa volta non si giunse a realizzaziom concrete, ma parrebbe per­lomeno che lo stato si impegnasse poi a vigilare più attentamente sul destino ri­servato dalle comunità locali agli abban­donati 14.

La tragica sorte dei pazzi, completa­mente abbandonati, o rinchiusi in porci­li, o tenuti incatenati come belve, conse-

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gnati alle carceri e mescolati a vita agli er­gastolani, convinse le autorità a racco­gliere fondi, a partire dal 1868, per l'ere­zione di un manicomio cantonafe a Men­drisio, da annettere all' ospedale della Beata Vergine. Ma, quando il finanzia­mento sembrava convenientemente assi­curato, sorsero difficoltà, contrasti e rin­vii, per cui lo stato preferì infine stipula­re, nel 1884, una convenzione con il ma­nic0fl:1i~ ~ C?mo per il ricovero ~ei de:­menu tlClOesl, e cuca una settantlOa VI trovò accoglienza. Il progetto di manico­mio cantonale fu ripreso e realizzato solo alla fine del secolo.

Le condotte mediche

Fu soprattutto con la legislazione sani­taria che lo stato cercò di realizzare i suoi interventi sociali e di rimediare almeno in parte alle numerose evidenti carenze del sistema assistenziale. Il principale strumento di tale politica furono le con­dotte mediche 15.

Istituite nel 1845, esse miravano a ga­rantire un' assistenza medica regolare, a modico prezzo, anche alle popolazioni più periferiche e isolate, la cura gratuita agli ammalati poveri (cioè dichiarati tali da un attestato municipale di «miserabili­tà»), il benefico serviZiO della vaccinazio­ne, il controllo dell'igiene pubblica, la prevenzione e la lotta contro le epidemie. I medici condotti ricevevano estesi coro-

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piti di vigilanza sanitaria e sociale: sulle derrate, sull'ambiente, sulle attività mal­sane, sulle scuole, sulle levatrici e sulle nascite illegittime. Nel loro compenso confluivano i contributi dei comuru, pro­porzionati alla popolazione, un sussidio cantonale e la «modesta retribuzione» fornita dai pazienti.

I:introduzione delle condotte medi­che incontrò forti resistenze, e poi i co­muni non sapevano intendersi sulla defi­nizione dei arcondari. Nel 185310 stato sussidiava solo due condotte, e unica­mente dopo il colera del 1854-55 esse si diffusero a tutto il cantone, così che, nel 1859, il governo si poteva finalmente compiacere della loro completa attivazio­ne. La soddisfazione fu di breve durata, poiché dal 1860 al 1863 si scatenò un vero fuoco di fila contro le condotte mediche: diversi cittadini, 7 comuni del Mendri­siotto, lO della valle di Blenio, 4 dell'On­sernone e Biasca ne chiedevano con peti­zioni e ricorsi l'abolizione. lo stesso Gran Consiglio, inizialmente perplesso e disorientato, si lasciò poi prendere da questa smania distruttrice, mentre voci insistenti invocavano il diritto alla «libe­ra scelta del medico»: nel 1862 Bernardi­no Lurati, relatore commissionale su questo spinoso oggetto, attaccò a fondo le condotte mediche in nome della «libe­ra concorrenza» e della «libertà d'indu­stria», accusando lo stato assistenziale di condurre «alla stagnazione e concentra­mento di ogni movimento sociale e ad una specie di comunismo», imputando alle condotte la fuga delle migliori intelli­genze non disposte a tali mal retribuiti sacrifici, e osservando infine «che questa istituzione è generalmente invisa al po­polo, non ha potuto saldamente metter radici ... ha presentato insormontabili difficoltà nella sua attuazione».

E pertanto, nel 1863, il Gran Consi­glio decideva, contro il parere del gover­no, l'abolizione delle condotte obbliga­torie dovunque fossero presenti medici in esercizio, un servizio medico obbliga­torio solamente per i poveri 16.

Il governo, fermamente deciso a non smantellare sul nascere un servizio socia­le di grande utilità, prese ten1po e trovò un inatteso alleato nel colera del 1867 che contribuì al ravvedimento di molti. In­fatti, quando nel 1869 il Consiglio di Sta­to presentò un progetto che, anziché abolire, rafforzava l'organizzazione delle condotte, riuscì facilmente a ottenere un completo voltafaccia del Gran Consiglio, ora non più disposto ad assecondare la sa­crosanta volontà del popolo sovrano, ma al contrario deciso a contrastare le insane tendenze del popolo ignorante. La com­missione incaricata di esaminare il pro­getto dichiarò che le condotte erano «la più bella istituzione del nostro secolo» e che dovevano essere obbligatorie per il bene della popolazione campagnola e

Casvegno (Mendrisio)

montana, anche se questa «preferisce per l'ordinario di morire a buon mercato, o peggio, a condurre un' esistenza cagione­vole, con mali cronici, o con deformità ri­buttanti.» 17

La legge fu accolta nel 1870 e messa in vigore poco dopo. Oltre a mantenere le condotte obbligatorie, rafforzava decisa­mente l'assistenza sanitaria e rendeva il servizio medico gratuito per tutti: «La cura dei malati è gratuita, eccettuate le opera­zioni di alta chirurgia e ostetricia, per le quali, trattandosi di particolari non pove­n, il medico avrà diritto a un equa retri­buzione». Già nel 1873, malgrado «la si­stematica opposizione di alcuni comu­ni», le condotte erano istituite quasi dap­pertutto, restavano scoperti solo alcuni tra i circondari più disagevoli .. Qualche anno dopo fu migliorato il non entusia­smante onorario dei medici condotti: non avrebbe mai potuto essere inferiore ai 1500 franchi annui: il contributo co­munale era fissato da 60 centesimi a un franco per abitante, quello cantonale tra 150 e 350 franchi.

L'apertura sociale di questa legge era evidente, non solo perdié assicurava la generale gratuità dell'assistenza medica, ma anche perché ampliava la facoltà di in­tervento dei medici per la tutela della sa­nità fisica e morale della popolazione, proprio come avevano desiderato qual­che decennio addietro i fautori della me­dicina sociale. Fu infatti affidata alla Dire­zione cantonale della pubblica igiene la vigilanza sul lavoro e in particolare la pre­cisa responsabilità di far rispettare la leg­ge federale sul lavoro nelle fabbriche.

Nel 1888 la dispersa materia attinente alla salute pubblica veniva riunita e ordi­nata in un codice sanitario cantonale.

1) Per alcùni momenti del dibattito: R. Ce­schi, Movimento democratico e sodetà popolari e operaie a Bellinzona, in «Pagine Bellinzonesl», Bellinzona 1978. Per tutte le leggi citate in questo lavoro si ve­da la N uova raccolta generale deOe leggi e dei decreti, 1803-1886, Bellinzona 1887.

2) G. Cheda, L'emigrazione tidnese in Australia, Locarno 1976, I, p. 194.

3) Conto reso del Consiglio di Stato, 1866, p. 47. 4) Si veda R. Ceschi e altri, Le condizioni de~li

operai nel Tidno agli inizi del nostro secolo, seminariO di storia della Scuola cantonale di commercio, Bel­linzona 1971, dattiloscritto. Da p. 13 la cito È in preparazione inoltre un mio lavoro sulla scuola e il Iavoro infantile nel Ticino dell'ottocento.

5) Conto reso, 1873, p. 29. 6) Processi verbali del Gr.an Consiglio (PVGC),

sesso ord. aprile-maggio 1873, p. 14. 7) PVGC, sesso straord. settembre 1873 e ag­

giornamento 1874, p. 229. 8) «I:amico del popolo», 11.1.1851. p.s.

Sull'assistenza pubblica in Ticino: B. Bertoni, Del­la pubblica assistenza nel Cantone Tidno, Bellinzona 1894. G. Niederer, Le paupérisme en Suisse. Législa­tion en matière de secours publics et statistique de l'assi­stance offidelte et de l'assistance libre, Zurich 1878.

9) P. es. Foglio offidale, 1873, p. 308-309, circola­re del Consiglio di Stato: «I:accattone, d'altronde, è per se stesso un uomo pericoloso; imperocché, perduto il pudore e la dignità, è sul limite estremo fra l'onestà e il delitto, e diviene sovente il ladro od il delinquente, destinato ad ultimare i giorni nel fondo del carcere.'

lOl Conto reso, 1873, p. 21. 11 Conto reso, 1866, p. 47. 12 G. Niederer, cit., p. 49. 13 PVGC, sesso ord. aprile-maggio 1882, p.

249; sesso febbraio 1890, p. 102. 14) Si veda V. Gilarcfoni, Creature, trovatelti,

venturini, «Archivio storico ticinese', N. 80, di­cembre 1979.

15) Sulle condotte mediche e la legislazione sanitaria: R. Ceschi, Il <mortifero vomito orientale-o Epidemie, condizioni sanitarie, medid e «volgo -nel Tid­no dell'ottocento, -Archivio storico ticinese», N. 83, settembre 1980.

16) PVGC, sesso ord. maggio 1860, p. 62, 139, 148; sesso ord. maggio 1861, p. 324; sesso ord. no­vembre 1861, p. 45, 65; sesso ord. aprile-giugno 1862, p. 313, 347, 393; sesso ord. novembre 1862, p. 13, 261, 275 ('.lui il rapporto di B. Lurati); sesso ord. aprile-maggto 1863, p. 238. 368, 373; sesso no­vembre, p. 48, 49.

17) PVGC, sesso ord. 1870, p. 336 (il rapporto della commissione) e passim. 23

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1882 .. La fine di una tormentata vicenda ferroviaria: la vittoria del San Gottardo

Il bilancio ferroviario che il Cantone Ticino poteva stendere nel 1860 si presta­va a mela.nconiche conclusioni: se una re­te di oltre centomila chilometri di binari era quell' anno in esercizio nel mondo, non un metro ne vantava ancora il Can­tone. Anche l'avvenire s'annunciava assai incerto, . e difficile riusciva immaginare che grandi decisioni stessero invece ma­turando. Le mutazioni erano in grembo ai rivolgimenti politici europei: in parti­colare l'unificazlOne italiana avrebbe pro­vocato un benefico sconvolgimento di tutta la vecchia guestione ferroviaria. Gli interessi politio ed economici del Pie­monte, che fino a quel momento aveva­no ispirato l'azione ili Cavour, lasciavano il passo a quelli del regno unito, il discor­so non poteva più concentrarsi sulla so­luzione del Lucomagno che aveva visto convergere anche le speranze e gli inte­ressi di Ticino, Grigioni e San Gallo, ma allargava a tematiche che aprivano a tutti, Ticino compreso, prospettive un tempo precluse. Entrava in gioco anche la Lom­bardia che si dichiarava fermamente av­versa al Lucomagno, specie in quella stra­na versione che avrebbe voluto congiun­gere Milano a Coira., non per la via diretta ma per la lunga deviazione di Bellinzona e Biasca., mentre s'era già ripreso a parlare del tradizionale Spluga e ael Septimer.

Il Lucomagno naturalmente contava ancora fautori, non solo in Svizzera ma pure a Torino, ove però si faceva strada la necessità di disporre di studi sicuri e ag­giornati a cui riferirsi in una scelta defini­tiva. Ma una prima perizia ufficiale predi­sposta dal mInistro Jacini seppe solo ri­calcare vecchie tematiche e riEidi essere il Lucomagno il passaggio da preferire, concedendo qualche riconoscimento allo Spluga e trascurando, al solito, il San Gottardo, messo in cattiva luce da viete diffidenze. Nell'aprile di quel 1861 si pro­filò anzi l'accordo fra le parti, e la questio­ne della ferrovia alpina parve giunta alla svolta finale. Una delegazione del sangal­lese Comitato del Lucomagno firmò a Torino un impegnativo compromesso con il ministro italiano Ubaldino Peruz­zi: definito percorso e valico, l'Italia avrebbe largamente sussidiato la ferrovia., il Comitato si impegnava a creare la so­cietà costruttrice e intanto a depositare una cauzione in contanti. Ma il versa­mento di questa venne eseguito con qualche giorno di ritardo sui termini im­posti, e il governo italiano ne approfittò per denunciare l'intesa e liberarSI da im­pegni di cui appena in tempo aveva probabilmente scoperto l'incongruenza. I:occasione storica del Lucomagno era

24 passata e non sarebbe più tornata. Da

quel momento cominciò l'inarrestabile decadenza delle fortune del passaggio fra Ticino e Grigioni che per decenni aveva dominato la scena di qua e di là del confi­ne politico.

In quei giorni fra le delegazioni riunite a Torino era sorta pure l'idea di instradare la ferrovia internazionale da Gallarate a Cittiglio, Luino e poi Bellinzona., in un disegno che il Consiglio di Stato ticinese trovava accettabile, certamente nella fret­ta di concludere il tutto, e sventare in tempo la pericolosa alternativa dello Spluga che s'affacciava all'orizzonte. Ma di opposto parere si mostrò invece il Gran Consiglio, interprete anche dei for­ti malumori suscitati dal progetto. Il Sot­toceneri s'agitava infatti nelle piazze e in­viava indirizzi di protesta contro una de­cisione da esso giuclicata., non a torto, as­surda e rovinosa. A Torino si tornò a trat­tare, e la s?l':lzione S?stitutiva cui ~i gi~n­se poté dim so16 di poco meno lOfelice den' altra., prevedendo che la ferrovia var­casse il confine ticinese nei pressi di Agno e passasse alle porte di Lugano sen­za entrarvi. Di <lui nuove rimostranze del Luganese. Ma fortunatamente mancava il trattato esecutivo in cui inserire clausole così stravaganti. Per mesi ancora., nel Tici­no si discusse molto, poco potendo agire.

I non numerosi ma tenaci gottardisti non desistevano. Carlo Cattaneo scrisse allora per un Comitato ferroviario luga­nese (presidente Battaglini) un vibrante appeÙo indirizzato all'Assemblea federa­le. Non soltanto vi ribadiva che il territo­rio svizzero non aveva un' altra linea che potesse paragonarsi a quella del San Got­tardo, ma vi esprimeva pure il concetto che la ferrovia alpina non sarebbe sorta per iniziativa delf'imprenditoria privata., le cui forze, per quanto agguerrite, si mo­stravano impari a quell'immenso compi­to. Solo sotto un patrocinio pubblico la ferrovia aveva speranze di nascere: «In­cumbe ai Consigli Federali - scriveva Cattaneo - d'elevare l'argomento a tutta la sua grandezza internazionale; nessun governo che non fosse neutrale potrebbe parlare nel nome di tutti». Per così con­cludere: «Signori! I:iniziativa di questa grande impresa delle nazioni appartiene a voi: essa appartiene alla patria elvetica co­me a simòolo di tre grandi civiltà».

Ma mutare orientamento di fondo e riprendere guasi da capo, non si poteva su due piero, e il 1861 fu ancora anno di intenso lavoro per le magistrature ticine­si chiamate ad esprimersi su varie richie­ste di concessioni ferroviarie di vecchio stampo. Dopo un animato esame com­parativo delle proposte, provenienti qua­si tutte dall'estero, la decisione più im­portante venne presa a favore dell' inglese R.G. Sillar che ottenne la privativa per la costruzione delle linee interne cantonali, e in più il diritto di" futura prelazione per l'uno o anche entrambi i valichi alpini ael

Lucomagno e del San Gottardo. La com­pagnia inglese, secondo il capitolato, do­veva accingersi prontamente all'opera., e qualche piccolo cantiere essa aprì. effetti­vamente sui percorsi cantonali. Ma perse presto ogni slancio, e probabilmente si sarebbe vista ritirare la concessione per manifesta inadempienza se nel dicembre '64 non avesse ceduto ogni sua prerogati­va a una diversa società., pure inglese. Questa assunse il nome amòizioso di Eu­ropean CentraI Railway Co. (Ferrovia Cen­trale Europea), partì forte di nomi presti­giosi del mondo economico e bancario londinese e annunciò grandiosi progetti che presto tradì. a sua volta. Queno che avvenne in seguito nel Ticino all'insegna della Centrale Europea è difficile da rias­sumere in poco spazio. Di fronte a scarsi progressi nelle costruzioni si assistette a un intrico di maneggi finanziari, a un grande agitarsi di appaltatori, subappal­tatori, prestatori di denaro e speculatori con strascichi giudiziari e intenso lavoro per gli avvocati.

Ma per contro fuori del Cantone le co­se prendevano miglior piega., anche per il rafforzarsi degli interventi politici nella ferrovia. Si mosse intanto il Consiglio fe­derale che, uscendo dalla neutralità costi­tuzionale nella quale s'era a lungo rin­chiuso, nel luglio 1863 comunicò al go­verno italiano che la Svizzera non avreb­be potuto accogliere la proposta di una ferrovia internazionale da mezzogiorno che non attraversasse il Cantone Ticino: e fu un colpo duro inferto a Spluga e Sep­timer, con il contemporaneo rinascere ili qualche speranza per il Lucomagno e il San Gottardo.

Cresceva anche nella Svizzera interna l'interessamento alla ferrovia. Nell'au­tunno '63 i cantoni "gottardisti" si riuni­rono, come usavano da tempo, a Lucerna e alla loro conferenza aderirono il Ticino e, per la prima volta., Zurigo: inoltre le due più solide ferrovie svizzere, la Cen­trale Svizzera e la Nord Est. Presente, per quest'ultima., il suo presidente Alfred Escher, noto e autorevolissimo esponen­te della politica e della grande finanza zu­rigana e ·svizzera. Fino a quel momento Escherera stato fautore di Coira e del passaggio grigione: la sua conversione al San Gottardo poté dirs.i di estrema rile­vanza., per la parte riservatagli subito nel consesso di Lucerna. Precipuamente gra­zie a lui, da quel momento il Comitato del San' Gottardo divenne organo molto attivo di studio, di pressione e anche d'iniziativa ferroviaria. Al Comitato del San Gottardo continuò a contrapporsi quello del Lucomagno con sede 10 San Gallo.

È da supporre che i promotori della Ferrovia Centrale Europea non fossero riusciti a convincere gli ambienti della Ci­ty sulla convenienza economica della lo­ro speculazione fe~roviaria; e per questo,

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ridimensionate le ambizioni, badassero ormai a conseguire qualche residuo van­taggio rinegoziando le privative legali di cui ancora disponevano. La compagnia inglese era sempre titolare del dintto di l'relazione per la ferrovia del San Gottar­ao e nei primi mesi del '64 la cedette all'ingegnere comasco Genazzini cui ave­va già conferito l'appalto dei lavori sulle linee interne ticinesi, alle quali non inten­deva rinunciare senza peraltro impegnar­visi veramente; e disponeva inoltre della privativa per il Lucomagno, che nellug­fio dello stesso anno cedette a un grup­po parigino controllato dal banchiere Hentsch. Questi aveva al suo seguito nu­merosi finanzieri minori e gravitava egli stesso nell'orbita del potente ]ames Rothschild, dai vastissim1 interessi ferro­viari sparsi in mezzo mondo.

Genazzini, che misurava le proprie li­mitate forze, si alleò al baronetto] ames Hudson, già rappresentante diplomatico della corte inglese a Torino, ed ora espo­nente della Banca Anglo-Italiana che operava in Toscana. Toccava al Gran Consiglio sanzionare quei trapassi di concessioni. Nell'avanzato autunno 1866 il legislativo ticinese affrontò la questio­ne ch'era complicata dalla presenza di una terza domanda di ferrovia alpina, presentata dal Comitato del San Gottar­ao. Il Gran Consiglio prese in esame prioritario la richiesta lucernese, ma alla fine dovette scartarla perché non accom­pagnata dal necessario deposito cauzio­nale e anche perché non dava alcuna ga­ranzia della temf>estiva costruzione delle linee interne; e adottò invece il capitolato Hudson-Genazzini che offriva un depo­sito cauzionale di 900 mila franchi e ab­bondava di clausole cautelative per i tra­gitti da Biasca a Chiasso e a I.ocarno, e persino per la navigazione a vapore sul Ceresio. Inoltre il Gran Consiglio votò la concessione del Lucomagno assegnando­la a Hentsch e C. Cos1 per un istante ci si potè illudere che il Cantone s'avviasse ad avere presto addirittura due ferrovie alpi­ne, se pure esperienze non scordate non consigliassero di moderare le nuove at­tese.

Nel Ticino il contenzioso ferroviario non scriveva mai la sua ultima pagina, ma al disopra di tutti i contrasti la causa del San Gottardo appariva ormai in sicura ascesa. Le convinzioni che due pionieri, Lucchini e Cattaneo, avevano espresso tanti anni prima trovavano puntuale con­ferma: il San Gottardo era tecnicamente possibile, al pari almeno di altri valichi; era economicamente vantaggioso, eoliti­camente e militarmente insostituibde. Su quei punti occorreva insistere. Il Comita­to di Lucerna nel 1864 chiese a tre reputa­ti ingegneri, Koller, Schmidlin e Stoll, un rapporto sul valore del San Gottardo nell' aspetto economico e ne ebbe uno studio serrato che, subito tradotto in ita-

liano da Carlo Cattaneo per i tipi lugane­si di Veladini, venne largamente distri­buito in Italia, ove qualche resistenza an­tigottardista era ancora viva. Dal Monce­nisio giungevano notizie rassicuranti sul­la concreta possibilità di procedere a lun­ghe e abbastanza rapide perforazioni, ciò che finalmente rendeva superata ogni di­sputa se convenisse adotta,re un tunnel di oase oppure un tunnel elevato più breve ma di costosa e incerta gestione. A fugare gli ultimi dubbi sulle scelte di fondo, fra '65 e '66 erano giunte da Firenze le con­clusioni della grande inchiesta Jacini.

Stefano ]acini, nuovamente msediato al ministero dei lavori pubblici, era parti­to dal principio, cos1 cattaneano, che l'era dei giudizi di parte, delle immotivate pre­tese municipali, andasse chiusa, e spettas­se a insos~bili esperti affrontare il problema e offrire ai politici i dati certi di giudizio su cui decidere in modo irrevo­cabile. Per questo,]acini aveva nominato una serie di commissioni che, secondo le competenze, riferirono su ogni aspetto della questione; e poi una specie di super­commissione, a larga e qualificata rappre­sentanza, che s'era espressa sulla sintesi di quei rapporti, assegnando in conclusione otto vot1 al San Gottardo, tre allo Spluga e nessuno al Lucomagno. I lavori della commissione] acini, subito tradotti in te­desco e in francese, destarono unanime ammirazione in Italia e all'estero, e dai

competenti furono giudicati l'opera defi­nitiva che chiudeva la lunga e travagliata stagione delle incertezze e dei rinvii. for­te di quella documentazione e di quei consensi, Jacini non perse tempo. Nel febbraio ' 66 il governo italiano comunicò al Consiglio federale che l'Italia era di­sposta a finanziare soltanto la ferrovia del San Gottardo; e qualche giorno dopo presehtò al parlamento un progetto di legge chiedente l'autorizzaz1one al suo governo «di prendere parte ad un consor­zio internazionale per promuovere l'ese­cuzione di una ferrovia attraverso il Got­tardo».

A quel punto, tenuto conto della sot­tintesa concordanza di vedute esistente fra Svizzera e Italia, si poteva asserire che la lotta fra i valichi alpini era veramente finita con la vittoria del San Gottardo, e che le residue difficoltà da superare e i problemi che restavano da risolvere, spe­cie nel Ticino (come la salvaguardia della costruzione delle linee interne, da non ri­mandare all'infinito subotdinandole al­l'apertura della galleria alpina) erano bens1 importanti, ma non più determi­nanti.

La direzione da seguire appariva chia-ra, anche con i sacrifici finanziari ch' essa imponeva. Sul fronte interno ticinese la Ferrovia Centrale Europea perse la con­cessione proprio nel momenro in cui, uscita dall'inerzia colposa, si accingeva a 25

·1 ,

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rinnovare i quadri e a ridiscendere in campo. Una concessione chiesta forse con scopi unicamente diversivi, quella di Hentsch e c., cadde quasi da sola per l'evidente considerazione che il Lucoma­gno fosse prer sempre fuori gioco. Infine la convenzione con Hudson-Genazzini venne dichiarata estinta allorché il baro­netto, preoccupato degli impegni troppo generosamente assunti, dichiarò di ri­nunciare all'impresa. Nell'estate '68 il Gran Consiglio aveva accolto con favore due iniziative locali: qudla di Lavizzari e Fraschina per una ferrovia da Chiasso a Lugano e f'altra di un grup.l?0 locarnese, Bacilieri, Franzoni, PedrazZ1ni e c., per una ferrovia da Locarno a Biasca. E aveva promesso a ciascuna di quelle opere un sussidio di un milione di franchi. Le due concessioni vennero presto trasferite al Comitato dd San Gottardo, e con esse anche i due milioni di premio. Il 15 mag­gio, infine, il Gran Consiglio assegnò al Comitato lucernese anche il privilegio per il tratto da Biasca al confine urano e per una ferrovia da Lugano a Bellinzona attraverso il Monteceneri. Tutte le ferro­vie ticinesi erano cosi affidate a un unico concessionario e, a stretti termini di con­venzione, andavano considerate come un unico indivisibile.

. Il Comitato dd San Gottardo, impe­gnato a raccogliere la quota di sussidi svizzeri alla grande ferrovia, chiese al Cantone Ticino un contributo di altri due milioni da aggiungere agli altrettanti già stanziati, ma la somma parve eccessi­va, sia al governo sia al Gran Consiglio che nd dicembre ridusse lo stanziamento . a un solo milione, convinto che con qud sacrificio il Cantone avesse dato «tutto quello che poteva dare». In verità, tre mi-

lioni non erano poca cosa per le finanze cantonali dd tempo, anche se va conside­rato che i versamenti sarebbero stati di­stribuiti in parecchi futuri esercizi.

Dopo il 1868 la vicenda prese rapido corso, nell'incalzare di eventi fra loro connessi in un quadro globale a grandi dimensioni storiche e geografiche. Qual­che scadenza va pure ricordata. Nell'otto­bre 1869 venne firmata la convenzione di Berna fra Consiglio federale e Italia, cui aderirono immediatamente gli stati tede­schi. Da essa usci anche l'indicazione dei sussidi governativi da assegnare alla fer­rovia: Italia 45 milioni di franchi, Svizze­ra e Germania ciascuna 20 milioni. In quei giorni, per singolare coincidenza, si festeggiava l'apertura di Suez, cui i pio­nieri del traforo alpino avevano affidato tante speranze. Nel dicembre dd '71, creazione a Lucerna della Compagnia del Gottardo; e l'anno dopo firma della con­venzione con l'impresa Favre per il gran­de tunnd da Airolo a Goschenen. Nel 1874, apertura al traffico delle linee da Biasca a Chiasso e della Bellinzona-Locar­no. Nel 1876, grave crisi finanziaria della Compagnia del Gottardo e apprensioni per la sua sorte, fugate nel marzo 1878 da una nuova convenzione di Berna che risa­nò la situazione. Infine, giugno 1882 ini­zio dell'esercizio regolare sulla linea da Basilea a Milano.

Per impegno di brevità si sorvola qui sulla vicenda interna, e non offensiva­mente minore, della storia della ferrovia: le lunghe trattative diplomatiche, la rac­colta dd capitale azionario, la tragica sor­te di Louis Favre, l'epopea dolorosa degli operai che lavorarono al traforo; e molt'altro resta negli appunti che si po­trebbe aggiungere. Ma un particolare al-

meno, per concludere. Alle manifestazio­ni sollecitate dall'inaugurazione della fer­rovia presero parte, ai capilinea e lungo il percorso, molte folle e centinaia di invita­ti, parecchi dei quali non vantavano par­ticolari benemerenze gottardiane. Le pa­role e i brindisi si sprecarono. Ma degli oratori ufficiali non molti parvero ricor­darsi degli assenti, i veri grandi protago­nisti che avevano, non solo lavorato ma pure combattuto perché la ferrovia na­scesse e riuscisse quale effettivamente riusci: Carlo Cattaneo scomparso nel 1869, G .B. Pioda e Alfred Escher che la morte avrebbe colto qualche mese dopo; Louis Favre caduto sul lavoro fra i suoi minatori; Stefano Jacini sdegnosamente lontano. Della vecchia generazione era invece felicemente presente, robusto e chiaro di mente, Pasquale Lucchini che sarebbe sopravvissuto an~ora un decen­nio per morire ultranovantenne nel 1892.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Fondamentale resta l'esame dei Processi Ver­bali del Gran Consiglio, alle date. Utili, nelle pole­miche, anche i giornali dell'epoca. Sempre da te­ner presente, per un orientamento generale, H . BAUER, L'histoire des chemins de fer suisses, in OFFI­CE FEDERAL DES TRANSPORTS, Les chemins de fer suisses apr~ un siècle, 1847-1947, I, NeuGhatel et Paris, 1949.

La ricorrenza del centenario della ferrovia ha promosso l'uscita di diverse p'ubblicazioni cele­brative, ora facilmente reperibili. Si veda in parti­colare il numero sp'eciaIe di -Scuola Ticinese ' (maggio 1862) con 11 lungo, documentato saggio di S. LAFRANCHI e altri contributi.

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Prima e dopo il 1882

È stato spesso scritto che il 1882, con l'apertura deJla ferrovia del Gottardo, se­gna una svolta storica nella vita del Can­tone Ticino: e l'affermazione regge in lar­ga misura, pur rispettata la prudenza di dover ragionare in termini non soltanto di frattura ma anche di continuità e inte­grazione, come sempre del resto convie­ne fare anche di fronte agli eventi del pas­sato maggiormente dinamici e dotati nel­la più ricca energia dirompente e innova­trice. In certo senso il 1882 chiude un' epoca e ne inaugura un' altra, che non comlOcia però dal nulla. Solo nel profùo esterno e spettacolare l'età che potè dirsi della ferrovia parve ar.rirsi d'un tratto con i festeggiamenti e il primo treno in­ternazionale del 1882. In realtà essa ebbe una lunga e faticosa gestazione che è par­te integrale della vicenda principale poi­ché, pur nell'incalzare degli insuccessi pratia, delle delusioni e delle frustrazio­ni, assolse compiti preparatori essenziali, destando nuove attese sociali e pagando il prezzo che andava pagato per poter sal­dare il passato con l'avvenire. Da questa particolare angolatura il periodo 1840-1880 comincia ora ad essere debitamente esplorato. Fin dall'inizio e negli anni dei pnmi approcci scientifici e imprendito­riali, il mondo nuovo della ferrovia mos­se passioni e mobilitò interessi aventi tutti qualche significativo risvolto socia­le. Nel piccolo paese ancor dal lento ri­cambio monetario, l'impresa grandiosa del traforo spalancò per prima l'orizzon­te delle iniziative puobliche di grande va­lore anche finanZ1ario ed economico.

Allorché si trattò di imporre al Canto­ne un sacrificio di partecipazione al fon­do sociale della compagnia del Gottardo, si levarono in parramento molte voci quasi sgomente, risolutamente contrarie a sobbarcare il paese di nuovi ~i fiscali e decise a non andare oltre un hmite ragio­nevole, commisurato riù alle deboli ca­pacità contributive de cantone che non alle speranze di quanto si poteva attende­re dalla ferrovia. Certamente un apporto di due o tre milioni di franchi, di cui si co­minciava a parlare, poteva suonare come spropositato agli amministratori di un cantone che conteneva il suo bilancio an­nuale in poco più di un milione annuo e che, tanto per dare un punto di riferi­mento, retnbuiva con appena 2'800 fran­chi annui i suoi più alo magistrati del Consiglio di Stato, notoriamente oberati di lavoro. Memorabile era già rimasta qualche anno prima (gennaio 1862) l'in­tervento in Gran Consiglio di Michele Pedrazzini contro la proposta di concede­re un mutuo di 9 milioni a un'impresa inglese che si dichiarava pronta a costrui­re la rete ferroviaria interna (da Chiasso a Biasca e da Bellinzona a Locarno) e dava

Mura/to, H~te/ du Pare

soltanto incerte garanzie di portare a compimento l'impegno: .. Se è vero che il Cantone Ticino è una piccola famiglia di centotrentamila fratelli, se è vero che il nostro popolo è già caricato d'imposte dirette e indirette, comunali e cantonali, riflettiamo prima di adottare provvedi­menti che aovranno essere la fonte di nuovi e gravissimi balzelli ... ". Pedrazzi­ni, ch'era osservatore acuto e disinteres­sato, ma assai pessimista, aveva più di qualche buona ragione; e tuttavia, guar­dando con maggior coraggio un poco più lontano, non si potevano neppure igno­rare le prospettive economiche estrema­mente positive che, non l'esercizio ma già la costruzione della ferrovia alpina apriva al cantone. Al paese che a costo di tanti sacrifici era riusato a darsi una buo­na rete stradale, si offriva ora l'occasione irripetibile di rimodernare a condizioni favorevolissime il proprio sistema viario. Per convincersene bastava ragionare un momento sulle crude cifre dei preventivi continuamente esibiti. La granae ferrovia era un'impresa d'oltre duecento milioni di franchi, e di questa somma imponente una tangente elevata, forse la metà, era destinata ad essere spesa nel Ticino, il cantone che senza confronto godeva del tratto più lungo di binari fra Basilea e i confiru con l'Italia.

Forse, e si potè riscontrarlo a cose fat­te, il Ticino non trasse dalla ferrovia tutti i profitti iniziali che avrebbe potuto aver­ne se le sue strutture produttive avessero corrisposto meglio al bisogni dell' opera, ma fu questo il destino comune a tutte le contrade non ancora industrializzate, nel­le quali la ferrovia giunse senza trovare agganci con le fabbriche locali. Natural­mente il raffronto con l'Inghilterra o gli Stati Uniti del tempo non è neppure da proporre. Il Ticino era privo di grandi of­ficine siderurgiche e meccaniche e per questo non potè offrire alla società nel Gottardo le locomotive e i vagoni, i bina­ri e gli strumenti vari di cui essa aveva bi­sogno (le prime locomotive che percor­sero la linea giunsero da MonaCO o Ess-

lingen, le vetture da Neuhausen, Olten Carlsruhe, Norimberga ecc.); né il canto­ne fu in grado di infittire con nomi pro­pri i quadri degli ingegneri e dei tecnici qualifìcati che a centinaia vennero assunti dalla società, e furono quasi tutti svizzeri tedeschi o germanici. Più modestamente, il Ticino non contava neppure manifat­ture tessili cui ordinare i panni con i quali confezionare le divise dei nuovi funzio­nari della ferrovia. Molto venne cosi da via, ma molto fortunatamente non pote­va essere materialmente importato; rivo-li monetari per alcune decine di milioni entrarono nel circuito interno, e poiché i _ nuovi investimenti provenivano tutti da economie esterne, ed erano non più di trasferimento ma aggiuntivi del reddito cantonale, il loro effetto moltiplicatorio non potè andare perduto.

~olte somme, non elevate in sé ma globalmente rilevanti, furono destinate agli espropri dei terreni richiesti dalla fer­rovia, con un' operazione che valse a rav­vivare il mercato fondiario, creando pic-cole rendite di posizione che favorirono la formazione anche dal basso di un tanto necessario capitale mobiliare. In campi affini la ferrovia fece assai di più, impri­mendo impulso diretto all' edilizia canto­nale, qui intesa come imprenditoria eco­nomica. Già per i terrazzamenti e le galle-rie, per i ponti e le stazioni disseminate lungo i tracciati, fu necessario il ricorso a molte imprese, del luogo o immigrate, antiche oppur create dal nulla o soltanto potenziate pér l'occasione. I lavori furo-no quasi tutti assegnati in appalto. Nel 1875 i terrazzamenti della Lugano-Chias-so (5,3 milioni di franchi) furono divisi in 15 lotti per dar modo anche a piccole · ditte di concorrere, e raccolsero 47 offer-te, ticinesi alcune e in numero maggiore italiane. Sul finire dell'opera, quando oc­corse proceder~ lestamente e v' erano gra-vi difficoltà tecniche e naturali da supera-re, si passò ai grandi capitolati con inter­vento anche di forti imprese estere. Nel '79 la società Marsaglia, per una ventina circa di milioni si assicurò i lavori di ter- 27

l'

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razzamento e le opere d'arte sull'Airolo­Biasca, e fu forse iI più grosso appalto as­segnato a privati, certamente in Ticino, forse però sull'intera rete; alla Comboni, Feltrinelli e c., per alcuni milioni, anda­rono le stesse opere da Giubiasco a Luga­no, e altri casi unportanti si }>?trebbero citare. La maggiore impresa tlcinese mo­bilitata fu quella di Pasquale Lucchini, as­sociato a Raimondo Bressi, che apò can­tieri a Piotta e Biasca avendo a carico la costruzione della linea da Airolo a Biasca e dell'altra da Cadenazzo a Dirinella. Più tardi la stessa ditta lavorò anche alla sta­zione di Bellinzona, mentre quella dì Chiasso spettò a una ditta locale, oppure mista, la Lusser e Cavadini. Si rammenti anche che nel 1874 una maestranza di quasi novemila unità era registrata ope­rosa nei cantieri del Ticino, per il reticola­to ferroviario che s'andava rapidamente annodando. Quella che, per valore globa­le di produzione, sarebbe diventata in se­guito la prima voce del settore seconda­rio ticinese, l'industria dell'edilizia al>"" punto, non nacque a causa della ferrOVia ma in <I.uegli anni cominciò 'a distanziarsi da antlche tradizionali dimensioni e strutture.

La partecipazione di un nucleo di citta­dini tlcinesi alle numerose iniziative fer­roviarie di cui il cantone fu testimonio e anche protagonista, a partire dal tentati­vo sfortunato di Rota VeZoli nel 1845, si­no alla raccolta del capitale per la società del Gottardo, costituisce un aspetto fino­ra trascurato degli studiosi dell'Ottocen­to nostrano: a torto, viene da dire, perché in quegli affari finanziari, nuovi, rischiosi e qualche volta finiti in perdita, esordiva una borghesia che, disertando gli usuali investimenti indulgeva all'attrattiva delle forme affascinanti del mondo industriale emergente, voltava le spalle ai titoli della rendita pubblica e incominciava a occu­parsi di filande, di ferrovie, di battelli a vapore, funicolari e grandi alberghi. Il cambiamento degli indirizzi ideali e pra­tici dei ceti facoltosi e dirigenti, anche in un paese appartato e minuscolo come il TiclOO di allora, offre un tema di grande interesse per lo storico e il sociologo.

Quarant' anni di preparazione della ferrovia furono contrassegnati anche da a)?procci e studi, conobbero progettazio­ru serie e offerte subdole o utopistiche e lunghe trattative politiche, né rifuggiro­no da controversie e litigi. La materia era inedita, all'inizio mancavano le strutture tecniche, le certezze giuridiche, e a tutto occorse 'provvedere. Anche nel Ticino gli avvocatl che ebbero nuovo lavoro, diver­so da quello d'ogni giorno, minuto e di non grande rendimento, assaporarono il piacere della clientela importante, dei forti interessi in gioco: i più affermati fra loro, luganesi i più, divennero i fiduciari

28 di grandi e piccoli faccendieri venuti da

lontano, e per essi stesero domande e me­moriali, contratti d'associazione, trapassi di concessioni, atti di transazione e via di seguito: ci vollero anche gli interpreti e per la lingua inglese, ch' era allora pochis­simo studiata, si stentò a reperirne sulla piazza, come prova il fatto cbe il povero Cattaneo, sempre disponibile, si ]?restas­se a tradurre per conto del ConSiglio di Stato incartamenti originali provenienti da Londra. Anche per questa via, con le sue lusinghe e le sue insidie, il mondo della moderna civiltà europea bussava al­le porte del Cantone.

Grande è, per comune giudizio, l'im­patto che la ferravia del Gottardo ebbe sul turismo, e anche qui conviene preci­sare e distinguere. Il Ticino, coi suoi tre passi alpini maggiori, San Gottardo, San Bernardino e Lucomagno, da tempo im­memorabile offrl alcuni itinerari obbliga­ti ai viaggiatori diretti dal settentrione d'Europa al mezzogiorno o viceversa. Valicare uno dei passi impervi, proceden­do poi lesti e senza concedersi sosta, fu materialmente im possibile prima che i trasferimenti delle persone divenissero assai, più celeri, praticamente fino all'av­vento della ferrovia.

:Cindustria dell' ospitalità in tutta la zo­na alpina vantava tradizioni antiche quanto i viaggi collettivi o individuali a lung~ percorso, che nep}?ure nell~ epo­che piÙ contrastate e pofitlcamente lOéer­te del basso medioevo si persero mai del tutto. Sempre aveva continuato a muo­versi gente a' ogni condizione sociale e ri­sorsa di mezzi, dal sovrano atteso in altre corti all'ambulante carico della sua mer­ce, dal giovane che andava a coronare i suoi studi sui luoghi della classicità lati­na, dal prelato diretto a Roma allo spaz­zacamino che vendeva la sua arte in paesi lontani. Ognuno di questi viandanti sa­peva di trovare per strada quanto gli con­veniva, fosse l'ospitale convento dotato di foresteria gradita ai pellegrini o una lo­canda confortevole o un' osteria o una ta­verna o infine almeno \in alloggio di for­tuna. Da Lugano a Bellinzona, a Biasca, da Olivo ne ad Airolo, in ogni tempo la mappa dell'ospitalità potè dirsi la carta stessa delle grandi comunicazioni di tran­sito.

Alcuni alberghi godevano di eccellen­te reputazione nel mondo dei viaggiatori esigenti che se ne passavano il nome, ostentavano stemmi e testimonianze rila­sciate alloro passaggio da personaggi il­lustri: ma la premurosa accoglienza non era quasi mai bastata a trattenere gli ospi­ti più del minimo tempo indispensabile. Viaggiare costituiva allora una vera pena, il richiamo dei luoghi attraversati era mi­nimo, tutti mostravano una gran fretta di rimettersi in cammino verso la meta an­coralontana. All'ostello, al più, si chiede- ' va una buona cena e un letto riposante,

fieno ben asciutto per i cavalli, magari un pronto cambio di traini. Gli alberghi più quotati erano stazione per la diligenza o garantivano essi stessi fa disponibilità di vetture per viaggi anche fino a Basilea da una parte e a Milano dall' altra.

Cosl fu per secoli, cosl era ancora pie­namente in età di restaurazione, né si può dire che all'inizio del nuovo secolo le co­se fossero mutate del tutto poiché il ca­vallo seppe resistere per decenni prima di arrendersi alla ferrovia e all'automobile.

Anche l'esercizio dell' albergo offriva un'attività largamente integrata in lavori collaterali e conservava struttura dome­stica anche ~uando i più intraprendenti di quei locali vollero procedere coi tem­pi, trovarono troppo modesta la vecchia bella denominazione di locanda e presero a chiamarsi Hòtel alla francese e magari addirittura Grand Hòtel, con qualche esagerazione.

Molti locali passarono di padre in fi­glio per più generazioni, ma nep'pur quel­le erano strutture economiche immobili o refrattarie all' evoluzione del costume, O tanto meno chiuse come in un' antica cor­porazione di mestiere. A scorrere le in­serzioni che ricorrono nei giornali dei primi decenni postrivoluzionari si coglie anzi l'impressione cile una certa anima­zione percorresse il mercato alberghiero poiché erano abbastanza frequenti le compravendite e i trapassi dì licenze; inoltre, accanto alla maggioranza di al­bergatori in proprio, si registravano già casi di conduzioni in affitto.

A metà secolo poi, mentre il numero di alberghi di vario rango disseminati nel Cantone era cresciuto, molti di essi stava­no mutando le loro strutture, chiamate ad esaudire le richieste di una clientela in parte essa stessa di nuovo orientamento. Ai soggiorni brevissimi e obbligati si an­davano aggiungendo quelli abbastanza prolungati e non legati a ragioni di stretta necessità. Insomma nasceva allora il turi­smo modernamente inteso. Il sensibile miglioramento delle comunicazioni stra­dali con i mezzi tradizionali, invogliante ora ad affrontare più lunghi tragitti, e so­prattutto il sorgere e l'estendersi presso ceti più numerosi di una passione nuova per la montagna e per i laghi, per lo svago ael viaggiare, insomma un fatto di civiltà e di costume s'affermò già prima della ferrovia e rafforzò e in parte corresse e de­viò il più antico gusto per la casa di cam­pagna e la villeggiatura goduta nelle pro­prie possessioni, fra la soddisfazione del· la mietitura e il piacere della vendemmia.

Di quel processo articolato di trasfor­mazioni, a volte repentine, più spesso graduali, che durò per vari lustri e lOcise sulle vecchie strutture all:>erghiere, spiD­gendole a modifiche interne, selezionafl­dole e arricchendole di nuove motivazio­ni decisamente rivolte al turismo moder­no, si possono dare alcune semplificazio-

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ni, cominciando da Lugano che proprio allora si accinse ad assumere un ruoro di particolare rilievo in quel settore emer-gente. .

Giacomo Ciani che nel 1851 a un'asta di beni ecclesistici incamerati dallo Stato, aveva acquistato l'antico convento dei Minori Riformati, lo demoll per costrui­re su quel terreno l'Hotel du Parc, inau­gurato cinque anni dopo sotto la direzio­ne di Alessandro Béha, capolista degli al­bergatori di lingua tedesca che scesero in seguito nel Ticino. A Lugano molti viag­giatori continuarono però a frequentare il Washington, nell' attuale Piazza Rifor­ma, che tuttavia, quando il governo si trasferiva a Lugano per il turno sessenna­le, chiudeva alla clientela e cedeva i locali agli uffici dell' amministrazione cantona­le.

La ferrovia era ancora in preparazione allorche fra il '60 e il '75 si aprirono altri alberghi di tipo nuovo anche in centri posti ai margIni del grande transito. Sul San Gottardo nel '66 sorse l'Hotel du Mont Press; nel '72 si misero le prime pietre di un albergo di puro diporto sul San Salvatore, l'anno dopo venne bandi­to il concorso per la costruzione di un al­bergo nel più alto dei tre castelli di Bellin­zona, che avrebbe potuto rivaleggiare con l'antica Cervia ma non ebbe fortuna. Poi venne la volta dell'Alpe di Piora, di Rovio, di Biasca, di Giorruco, di Magadi­no con l'Albergo del Vapore, punto d'ap­prodo dei battelli che risalivano il Verba­no da Arona. Nel '75, grazie all'iniziativa di un colonnello Dotta, anche Airolo eb­be quello che venne detto il primo vero albergo del villaggio, erede della più sem­plice Osteria della Croce Bianca. Quasi contemporaneamente - e costitul un piccolo evento per l'ardimento stesso dell' idea - il dottor Pasta inaugurò il suo albergo posto a 1200 metri d'altitudine sulla cresta del Generoso. :CHotel Olivo­ne è del '79, mentre dieci anni dopo, e merita una citazione privilegiata, anche se è già fuori del nostro orizzonte, perché è testimonianza dei tempi mutati, a Luga­no le sorelle Borella annunciavano 1'aper­tura di una pensione per sole signore e si­gnorine. Forse la sola località per la quale la ferrovia operò come maggtore solleci­t~one alla n~cita quasi ~m~ata di u~ tunsmo staglOnale fu Faldo: allòmbardi dovette sembrare un sogno poter rag­giungere le Alpi in poche ore di treno ininterrotto, e per quasi trent' anni, fino alla prima guerra mondiale, a Faido gli al­berghi dei Pedrini, il Milano e il Suisse, raccolsero le loro preferenze. A Locarno il Grand Hotel Palace dei Balli (1875) con la déPendance di Bignasco, si annodò invece alla catena dei grandi alberghi di Stresa e Pallanza che, favoriti dalla navi­gazione a vapore, negli anni Settanta molto contriDuirono alla scoperta delle bellezze del Verbano.

Nel 1880 si tentò una statistica degli alberghi cantonali giudicati degni della qualifica: e risultò fossero una ventina con circa 1400 letti e un piccolo esercito di dipendenti: pochi o tanti, secondo che nel raffronto si pensi alla situazione di mezzo secolo pnma o a quella di oggi.

Sulle condizioni in cui versava 1'attivi­tà manifatturiera del Cantone Ticino dai tempi di Franscini in poi, è stato scritto abbastanza, e qui si vuoI aggiungere sol­tanto qualche suggerimento interpretati­vo.

Punto fondamentale di riferimento, almeno per la prima metà del secolo, ri­mane pur sempre la netta prevalenza del settore primano nel quadro del commer­cio interno ed esterno, dell'occupazione e della formazione del reddito cantonale. La maggior parte della popolazione nel primo Ottocento viveva dell' agricoltura o dell'allevameto e tutte le strutture so­ciali erano adeguate a un ciclo economico che traeva linfa dai valori della vita rurale. Le statistiche, obbligate a procedere per compartimenti netti, poco e male riesco­no a cogliere per quei tempi le numerose situazioni intermedie nelle quali le cate­gorie delle professioni e del. mestieri si compenetravano e confondevano. La di­visione del lavoro, con le inerenti specia­lizzazioni, era scarsamente praticata nelle classi inferiori, come del resto in ogni so­cietà dominata dalla piccola agricoltura, e larghi fenomeni di autoconsumo e di economia di baratto variegavano la vita

delle campagne. :Coste era anche mercan­te, a volte cavallante, quasi sempre conta­dino, il fabbro e il falegname tenevano un piede sulla terra arata, la bottega di paese vendeva un po' di tutto e da sola non ba­stava ancora ad assicurare un pur ridotto tenore di vita a un nucleo familiare che, specialmente se numeroso, come spesso allora accadeva, doveva ingegnarsi inse­guendo ogni occasione di guadagno inte­grativo. Molti lavori erano precari o sta­gionali, come la trattura senca o le stesse migrazioni mercantili o di mestiere nei paesi europei. Nei borghi maggiori e nel­le cittadine si potevano reperire piccole officine e laboratori di vano genere, ma quasi tutti avevano modesta dimensione e modesta attrezzatura, come se ne incon­travano ancora dappertutto in epoca nel­la quale il lavoro prevaleva sul capitale, la lavorazione in serie non aveva ancora scalzato l' artigianato e 1'approvvigiona­mento in centri industriali più o meno lontani, più che dai dazi protettivi era fre­nato dalla lentezza e dall' alto costo dei trasporti.

A metà secolo il numero dei motori installati nelle manifatture ticinesi - in-dice quasi infallibile del grado di indu­strializzaziohe di un paese - era ancora esiguo e la rivoluzione industriale, con le prospettive dell'opificio accentrato, della razionalizzazione produttiva, del largo impiego delle macchine e dell'inserimen-to 10 mercato allargato di vendita i cui li-miti andavano spesso oltre i confini dello Stato, sembrava del tutto estranea alle di- 29

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mensioni, alle risorse e soprattutto alla vocazione dd paese. Il cantone era bensì ricchissimo di acque scorrenti che avreb­bero potuto forrure la forza alle pale e ai motori dell'industria tessile ordinata con nuove conformazioni tecniche, sul­l'esempio di quanto era già avvenuto in altri cantoni svizzeri e, a due passi da qui, nella vallata dell'Olona, ma la manifattu­ra nuova ed espansiva del cotonificio non tentò . neppu~e l'~pproc~io; e nemme!l0 quell'lfloustrla slderurgtca e meccaruca che a sua volta tenne a battesimo l'im­menso sviluppo economico registrato in mezza Europa nel ventenno della grande crescita, 1880-1900 circa. Chi sperò che la ferrovia rinnovasse J?rofondamente gli indirizzi del sistema lfldustriale ticinese dovette ricredersi. Una ferrovia, è ben noto, da un lato proietta verso altri mer­cati la produzione interna, dall'altro espone a!la concorrenza il consumo na­zionale. E un doppio gioco, e solo caso per caso si può concludere se nel com­p~esso l'attivo abbia superato il passivo o vlceversa.

Con il 1882 non s'apre nel TiCino la fa­se della vera industnalizzazione, bensi una lunga parentesi dominata dalla lenta crescita di una serie abbastanza fitta di piccole e un po' meno piccole imprse a bassa intensità di capitale e scarso valore aggiunto che trovarono spazio in un tes­suto economico più propenso al terziario

che al secondario. Quell'anno il cantone aveva 1929 operai di fabbrica e soltanto 316 di essi erano maschi, il resto donne. Tre anni dopo si censivano nel cantone 17 anonime lfl tutto, con un capitale glo­bale di 7,2 milioni di franchi, incluse le banche, le imprese di trasporto, le azien­de di servizi pubblici.

La spiegazione di <luel gracile sviluppo venne presto identificata: il doppio con­fine, si disse, che soffocava il paese: a sud barriera politica ed economica alzata dal­le tariffe doganali imposte dall'Italia do­po le revisioni tariffarie del 1878 e del 1887, a nord barriera economica J?er il consistente alto costo dei trasporn e le soprattasse di montagna caricate dalla ferrovia ai prodotti ticinesi pes~ti. Fors~ però v'era anche altro da aggIungere. E un fatto significativo, che in mezzo seco­lo, dal 1837 al 1888, la popolazione resi­dente nel Ticino passi da 114 a 126 mila abitanti con un miserabile tasso/d'incre­mento di circa il 2 per mille annuo, e che nello stesso intervallo il numero dei tici­nesi registri addirittura un calo di 4.000 unità. Natalità, nuzialità, emigrazioni ed immigrazioni diventavano fattori sem­pre più importanti di sviluppo sociale: e una buona ricerca di demografia storica, condotta con criteri rigorosi e moderni, aiuterebbe meglio a capire quello che av­venne allora e a correggere certi giudizi un po' troppo perentori.

Anche per questo, si veda la tesi di I. Schnei­derfranken con la ricca bibliografia, e si aggiunga magari il,Piacevole saggio di E. Motta, Dei vecchi al­berghi ticznesi ed in ispecie dt quello della 'Cervia" di Bellinzona. Alla Biolioteca cantonale di Lugano, molte schede e segnalazioni facilmente reperibili.

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Per una storia demografica del XIX secolo

La complessità delle relazioni tra de­mografia e struttura socio-economica è ormai una acquisizione derivata dalla teo­ria malthusiana dei limiti demografici imposti dalle risorse alimentari. Del re­sto la distinzione stabilita dagli studiosi di demografia storica tra vecchio e nuovo regime demografico, fa riferimento ri­spettivamente ad una società pre-indu­striale e rurale e ad una industnalizzata e urbanizzata.

I fenomeni caratterizzanti la storia del­la popolazione del Ticino dell'800 sono ancora molto vicini a quelli riscontrabili nel vecchio modello demografico, le cui caratteristiche salienti sono l'alta mortali­tà, l'alta natalità e il matrimonio tardivo, condizioni tipiche di una società con li­mitate risorse, scarso livello tecnico e len­ta distribuzione commerciale. Dopo il 1910 si ha il passaggio al nuovo regime con la caduta della mortalità ed una soste­nuta crescita naturale. Solo ora il Ticino si allinea con la maggior parte dei Canto­ni e con l'Europa, ma questo ritardo non impedisce di raggiungere rapidamente quella che viene definita la fase matura di questo regime e' che corrisponde a quella attuale di bassa mortalità, bassa natalità per effetto della contraccezione, invec­chiamento della popolazione e crescita lenta.

Nell'800 il Ticino è ancora condizio­nato da una situazione economica, socia­le e geografica sfavorevole ad una moder­na evoluzione della sua popolazione, pre­sentandosi come un smgolare esempio nella varietà dei sistemi demografici dell'Europa pre-industriale.

Prima di affrontare la trattazione delle variabili demografiche ed esaminarle in relazione alle condizioni socio-economi­che, è o]?portuno fermare l'attenzione sulle fontI che permettono l'indagine de­mografica di questa regione, perché han­no condizionato gli studi e i loro risulta­ti, che sono ancora parziali: ci si muove quindi spesso nel campo delle ipotesi che necessitano una verifica più ampia1•

I:età statistica, in demografia, inizia con la regolare e periodica compilazione di censimenti e con l'istituzione dello sta­to civile; i primi sono delle fonti che per­mettono dì indagare sulle caratteristIche della popolazione in un preciso momen­to, ma non tutte le statistiche tratte esclu­sivamente dai censimenti sono sempre di buona qualità, per gli inevitabili errori ed omissioni nelli. fase di raccolta dei dati; fondamentali perciò, per conosce.t:e i mo­vimenti di una popofazione, sono i regi­stri di stato civtie. Per il Ticino, la diffi­coltà principale nella compilazione di sta­tisticIie soddisfacenti sul lungo periodo

- le vicende demografiche permettono una lettura solo nella lunga prospettiva, quindi anche questo scritto deve oltre­passare i limiti cronologici della cartella - consiste nella mancanza di dati omoge­nei.

Già introdotta con ritardo in Svizzera, la statistica ha trovato in Ticino molte difficoltà ad entrare nella mentalità dei funzionari, anche se proprio il Ticino ha avuto in Stefano Franscini uno dei più convinti assertori della sua utilità nell' amministrazione della cosa pubblica. Nei Conto resi del Consiglio dì Stato si trovano spesso recriminazioni per la tra­scuratezza dei Comuni nella raccolta e trasmissione dei dati sulla popolazione in occasione di censimenti o della pubblica­zione di tabelle dei movimenti delle na­scite, morti e matrimoni. Ancora nel 1852 si legge: «In un modo o nell'altro è da provvedere che al rimarcato dissesto sia riparato, quanto più presto il meglio, imperocché molto grave, anzi necessario alle Municipalità ed al Governo che sia ben ordinato e tenuto al corrente il Ruo­lo della Popolazione ... »2.

Un primo passo importante è segnato dal provvedimento federale del 3 feb­braio 1860, che stabiliva censimenti ge­nerali della popolazione ogni 10 anni, nel mese di dicembre. Qualche stima globale della popolazione del Cantone ebbe luo­go anche prima del 1860. Fulvio Bolla nelle sue pubblicazioni elenca le valuta­zioni che precedono i censimenti federa­li, ma questi dati sono di scarsa utilità, in­fatti così conclude: «Manca insomma una precisa definizione che dia senso de­terminato ai numeri trovati, i quali non esprimono né la popolazione presente a un dato momento, né quella residente, né quella ticinese»3.

Si annoverano anche due censimenti federali prima di quella data: il primo,' del 1837, non è altro che una raccolta di dati forniti dai comuni senza controlli e veri­fiche da parte della Dieta; in più entrano nel computo anche i Ticinesl momenta­neamente o definitivamente assenti. Il se­condo è quello del 1850, voluto e prepa­rato da Franscini. Esso è da considerarsi il primo vero censimento effettuato simul­taneamente in Svizzera (18-23 marzo) in cui venne censita solo la popolazione re­sidente, che è ancora l'unica conteggiata nel 1860, mentre dal 1870 in poi si proce­de anche alla stima della popolazione pre­sente.

Il ritardo è sensibile pure per le stati­stiche dei dati dello stato civile, per cui non siamo in grado di risalire molto ad­dietro. Nel 1837 Franscini nella sua «Svizzera Italiana» lamenta: «La poco o niuna cura che finora si è avuto in quanto a tirare gli opportuni rilievi sul risultato delle anagrafi, ha fatto il non cale tali e tante operazioni che riesce ora im possibi­le di offerire alcun che di sicuro mtorno

ad importantissimi obbietti concernenti l'economia della popolazione ticinese»4. Si conoscono questi dati solo per il 1838, 1850, 1851, 1852 oltre a quelli raccolti dallo stesso Franscini per il 1837. Il prov­vedimento cantonale che impone a tutti i comuni la compilazione dei registri delle nascite, morti e matrimoni è solo del 27 giugno 18555. 1.0 Stato avoca a sé un compito lasciato finora ai parroci, che del resto lo avevano assolto in genere con sollecitudine già da due secoli e mezzo (purtroppo l'uso dei registri parrocchiali come fonti per la demografia storica ri­chiede un lungo lavoro di spoglio, dato che erano tenuti per scopi pastorali e non statistici).

Gli sforzi congiunti del Cantone e dell'Ufficio federale di statistica, fondato nel 1860, permettono di avere regolari pubblicazioni di questi dati demografici nell'«Annuario statistico svizzero» dal 1867, anche se non sempre dati federali e cantonali coincidono. Alla maggior parte di tali inconvenienti rimediò la legge fe­derale del 23 luglio 1870 sulle rilevazioni statistiche ufficiali e quella del 24 dicem­bre 1874 sullo stato civile.

Gli indici più significativi che possia­mo trarre dalla serie dei censimenti e che ci permettono di tratteggiare un primo quadro demografico sono: il tasso di cre­scita annuale, il numero medio di eerso­ne per famiglia, le piramidi d'età, ti rap­porto di mascolinità.

Il tasso medio di crescita annuale de­dotto dalla tabella I, risulta essere mag­giore nella prima metà dell'800 (6,6%0) che non nella seconda metà (3,3%0); quest'ultimo dato è ben inferiore alla me­dia svizzera (6,4%0).

Basso è il numero dei componenti per famiglia: da 4,16 nel 1850, sale a 4,59 nel 1870 per tornare a 4,16 nel 1900, con me­die pIÙ alte nelle zone pianeggianti e col­linari di Mendrisio e Lugano, più basse nelle zone di montagna di Blenio, Mag­gia, Leventina, specie intorno al 1888 e 1900.

La ]?iramide d'età è invece una rappre­sentazlOne grafica da cui è possibile indi­viduare rapidamente la struttura di una popolazione secondo l'età e il sesso. I dati dei censimenti relativi al secondo '800, permettono di costruire vere piramidi con base allargata tipiche di una situazio-ne di alta natalità e mortalità. Dunque l'abbassamento della mortalità non ha, nel periodo considerato, grande inciden-za, cosicché la proporzione della popola­zione anziana in rapporto a quella giova-ne è di solo 12,6% nel 1860 e 19,7% nel 1900 (per un confronto si consideri che nel 1970 è pari al 44,2%). La mortalità ca­tastrofica è cessata in Ticino, come nel re-sto dell'Europa, nel XVIII secolo, ma nel XIX molte malattie infettive colpiscono ancora con regolarità la popolazlOne. La 31

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GRAFICO I: la popolazione dd Ticino, anni 1860 e 1888: piramide d'età.

Fonte: ROMERIO E, L'é1IolulÌon de la populalÌon et de la populalÌon aclÌve au Tessin, 1850-1970. Comparaison avec la Suisse. Genève 1980 (memoire).

32 Trasporto del grano (tenuta di Vincenzo Tavernctti a Gonza/es)

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85-80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4

85-80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4

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1888 I --

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persistenza di colera, vaiolo, scarlattina, Oifterite, tifo, tubercolosi, testimoniano l'insufficiente livello alimentare, igienico e sanitario. La povertà e l'ignoranza ag_. gravano poi questo panorama se conside­rato sOJ?rattutto in rapporto all' infanzia. e materrutà. Purtroppo i dati sono molto scarsi: non è ad esempio possibile calco­lare un indice significativo come la spe­ranza di vita alla nascita; i tassi di morti­natalità sono poco indicativi per la catti­va registrazione; stime precise sulla mor­talità infantile le abbiamo solo per il 1888 e il 1900. I tassi relativi a questo ultimo indice sono di 183%0 e 187%0 per il Tici­no e di 157%0 e 138,8%0 per la Svizzera. Certamente la mortalità infantile mantie­ne alta quella ordinaria, che si situa sem­pre su valori superiori alla media svizzera a causa anche ael persistere di crisi ali­mentari.

Ma il fenomen,9 più macroscopko nelle piramidi d'età è quello della spro­porzione tra i sessi, specie nel periodo 1860-1880. Non si tratta però di un effet­to dovuto all'età, anche se la mortalità maschile è in alcune fasce d'età più alta di quella femminile, ma lo si deve collegare piuttosto al fenomeno esterno dell'emi­grazione. Al momento della nascita i ma­schi sono in numero superiore rispetto alle femmine, ma nel gruppo d'età di 15-49 anni il rapp'0rto di mascolinità si ab­bassa incredibilmente intorno a 67 (il va­lore 100 indica la parità), esso salirà solo dopo il 1888 per effetto dell'immigrazio­ne. Questo squilibrio con le sue inevita­bili conseguenze costituisce il nodo della questione demografica del Ticino del-1'800.

Oltre che di una certa situazione. de­mografica i censimenti sono anche lo specchio di alcuni tratti socio-economici del paese; da essi si deduce infatti che nel 1850 il 65% del totale.della popolazione risiede nelle valli e solo il 16% negli agg­lomerati urbani e che nel 1870 il 58% del­la popolazione attiva è occupata nell' agri­coltura (il dato corrisponoente per la Svizzera è pari al 42%), il 28% nelfindu­stria e il 13% nei servizi. Questi dati con­fermano la realtà di un Ticino rurale che non ha ancora superato le strettoie della spirale: lento sviluppo, scarsa popolazio­ne ed emigrazione. I redditi, comunque sempre poco elevati, di gran parte della popolaZ1one provengono dalf'agricoltu­ra, allevamento e selvicoltura; la famiglia contadina cerca di vivere con le sole risor­se dei propri beni ma una lunga serie di ostacoli rende la realtà quotidiana ben difficile. Prima di tutto la terra stessa non è generosa: poche le pianure, pesante il lavoro in collina, non certo aboondanti i pascoli. tuomo e le tradizioni fanno il re­sto: incredibile il frazionamento della proprietà6 sia dei fondi che dei fabbricati, dei prati e degli alpeggi; la consuetudine del pascolo vago, che apriva al bestiame i

TABELLA I: la popolazione del Ticino.

Anno Popolazione

1808 88.793 1817 90.200 1824 101.567 1833 109.000 1837 113.923 1847 124.659 1850 1852 128.944 1858 130.698 1860 1870 1880 1888 1900

Pop. presente

119.619 130.77 126.946 138.548

Pop. residente

117.759

116.343 121.591 130.394 126.751 138.638

Fonte: BOLLA E, - La popolazione del Cantone Ticino >, estratto dal Bollettino della Società Ticinese di Scienze Naturali, 1926.

campi di solito in autunno e primavera, è un pesante retaggio che, come la presen­za dei beni patriziali, impedisce ogni ra­zionalizzazione. Il legis1atore dopo il 1850 cerca di superare questi anacronismi con le leggi sulfa permuta dei fondi, sulla ripartizione dei oeni patriziali, sul riscat­to dei diritti di pascolo e sull'abolizione della «trasa", ma solo dopo il 1912 si deli­nea un successo nelle opere di raggruppa­mento delle terre.

Forte è perciò il richiamo dei paesi economicamente più attivi. Notoria­mente si distinguono all'interno del fe­nomeno migratorio ticinese dell'800 due situazioni. La prima corrisponde all'emi­grazione definitiva che modifica il bilan­cio naturale, che è pari alla differenza tra le nascite e le morti, nel senso che la po­polazione è impoverita dalle partenze che non trovano compenso nell'tmmigrazio­ne e, trattandosi di un fenomeno preva­lentemente maschile, incide sulla spro­porzione dei sessi. Il secondo tipo di mi­grazione è una secolare tradizione nelle vicende della popolazione ticinese e, an­che se nella seconda parte del secolo au­menta quella definitiva transoceanica, ri­mane su livelli alti (5-7 mila persone coinvolte ali' anno) quella temporanea stagionale. Essa incide profondamente sulla vita dei villaggi che è organizzata se­condo tempi che non possono prescinde­re dalla presenza di una J?arte degli uomi­ni della comunità. Le V1cende economi­che, sociali e religiose sono scandite da questi cicli migratori ed anche le vicende demografiche non si sottraggono alloro influsso, soprattutto per quanto riguarda i fenomeni di nuzialità e di fecondità.

Ma prima di approfondire questi temi demografici conVIene soffermarsi su al­cuni aspetti di questo secondo movimen­to migratorio, per comprendere come

possa incidere cos1 significativamente sul numero e sulla struttura della popolazio­ne. Occorre prima di tutto fare delle di­stinzioni. La migrazione invernale carat­terizza il Sopra Ceneri, regione con un­economia basata sull'allevamento. Du­rante l'estate era infatti indispensabile la presenza degli uomini per condurre sull'alpe il bestiame, che 10 inverno era accudito nelle stalle dalle donne. Nella zona agricola del Sotto Ceneri gli uomini si assentavano invece in estate potendo demandare alle donne il J?ur duro lavoro dei campi7• le crisi politiche, alimentari ed economiche unitamente alle calamità naturali come le inondazioni, che hanno colpito il Ticino tra il 1850 e il 1888, in­crementano l'emigrazione definitiva ma non eliminano quella stagionale. I due fe­nomeni continuano a coesistere e i dati delineano due realtà geografiche ben di­stinte: dove prevale la migrazione defini­tiva, come nella Valle Maggia e nel Bel­linzonese, minima è quella stagionale, contrario è il fenomeno nelle regioni di Blenio, Lugano, Mendrisio e Leventina. Verosimilmente la migrazione definitiva toccava le aree e le persone più povere e incapaci a far fronte ad eventi eccezionali.

I censimenti relativi a questo J?eriodo riflettono eloquentemente una SItuazio­ne alquanto anomala. IlI. dicembre del 1870 1124% della popolazione maschile e il 23% dei mariti delle donne tra i 30-40 anni è assente. Quest'ultima cifra potreb­be essere più alta perché molte donne erano riluttanti ad iscriversi nella catego­ria delle .. donne sposate che non vivono col marito » per non essere assimilate alle separate o alle divorziate. Dai dati è pos­sibile anche precisare che tra gli scapoli il maggior numero di assenze si situamtor­no ai 25 anni, J?er i coniugati intorno ai 35 anni, per CUI si deduce che i celibi ri- 33

Page 34: Scuola Ticinese - Repubblica e Cantone Ticino

tardano l'età del matrimonio e gli sposati il momento dell' emigrazione.

Senza dubbio i dati relativi alla natalità caratterizzano meglio le conseguenze del­la migrazione sulla struttura demografi­ca del cantone. Soprattutto se l'analisi quantitativa si rifensce alle due compo­nenti che si distinguono a proposito del­la fecondità: la proporzione delle donne sposate e la fertilità legittima. Occorre anche precisare che, in assenza di contrac­cezione, due fattori condizionano il feno­meno: l'età media al matrimonio delle donne e la proporzione delle nubili in età feconda. Mancano purtropp? statistiche abbastanza ampie per indivtduare a quale età in media le donne contraggono if ma­trimonio. I dati tratti dai censimenti della seconda metà dell'800 non sono suffi­cientemente indicativi. Più eloquenti in­vece quelli che riguardano la proporzio­ne dene nubili a 45-49 anni: la cifra è pari a una media del 25%, fenomeno molto ampio se si considera che siamo in pre­senza di una società in cui la donna non ha ancora una indipendenza economica e sociale. Il fenomeno è più marcato nel Sopra· Ceneri, le medie nella Valle di Ble­nio e I.eventina si aggirano rispettiva­mente intorno al 35% e 33%. Un dato ec­cezionale ma sempre eloquente è il 46% riferito al 1888 in Valle Maggia.

In Ticino, a differenza di altri cantoni svizzeri, non esistevano grosse restrizioni religiose e civili in fatto di matrimonio, perciò non resta che ritornare a quelleit­motiv che è l'emigrazione che allontana una forte percentuale di giovani in età da matrimonio. Ma se pur nel Sopra Ceneri vi è un uomo ogni due o tre donne, que­sta cifra si scontra con l'alta percentuale di non sposati a 50 anni. Il fenomeno, che è comune a tutta l'Europa dell'800, trova una spiegazione nel nuovo atteg­giamento davanti al matrimonio e quindi alla vita che impone all'uomo di contare su un minimo di disponibilità economica prima di formare una nuova famiglia; sia­mo in presenza di un freno preventivo di tipo malthusiano. Il basso tenore di vita di chi rimane nei villaggi montani non incentiva certo il matrimonio.

La debole nuzialità incide in senso ne­gativo sulla fecondità globale e questo in­dice complessivo non è poi sostanzial­mente modificato dalle nascite illegitti­me che, se pur mal registrate, non do­vrebbero toccare gli alti livelli riscontrati in Inghilterra. Se si considera poi la sola fecondità legittimaB ci accorgiamo che addirittura è la più bassa in Svizzera tra i cantoni cattolici e rurali. I cantoni che servono da confronto sono il Vallese e Uri i cui indici rispettivi sono di 0,770 e 0,990 per il 1870, il Ticino riscontra un dato pari a 0,675 vicino alla media svizze­ra di 0,692. La concordanza con quest'ul­timo dato non è significativa perché sulla

34 media nazionale influiscono in maniera

determinante i cantoni urbani e indu­strializzati assimilatisi ormai al nuovo re­gime demografico.

La lontananza periodica dei mariti ri­duce nel nostro cantone la fertilità dei matrimoni, causando un particolare an­damento delle nascite. S1 legge chiara­mente nel grafico I il rapporto tra la di­stribuzione dei conceplffienti sull'arco dell' anno e le migrazioni stagionali. Per approfondire questo tema, sarebbe indi­spensabile poter contare sui dati relativi alla prima maternità, all'intervallo tra le nasCIte e all'ultima maternità; probabil­mente dovrebbero essere ancn'essi in­fluenzati dal movimento migratorio. Un altro campo d'indagine ricco di informa­zioni sarebbe la famiglia, unità base del comportamento demografico e quindi specchio della realtà sociale e ottimo mo­dello per l'analisi di entità più complesse.

Ma al di là dei limiti statistici e delle necessità di approfondimenro, il guadro demografico della seconda metà dell'800 ticinese si delinea con sufficiente chiarez­za nelle sue caratteristiche principali e nelle sue interdipendenze con l'ambiente socio-economico, permettendo di arriva­re alle radici della società e contribuendo a completare la comprensione di altre fonti storiografiche.

1) Lim,itiamo la bibliografia a tre studi, due di demografia e uno di demografia storica. Ilprimo è quello di BOLLA FULVIO, «La popolaz1One del Canton Ticino », estratto dal: Bollettino della Società Ticinese di Scienze naturali; fascicoli I, II, III, 1926, 1927, 1928, che rappresenta il primo sforzo di si­stematizzare i temi e organizzare i dati demografi­ci. Ma i progressi della tecnica demografica negli ultimi decenni lo rendono ormai superato. Invece una fondamentale messa a punto della documen­tazione statistica basata su dì 'una solida tecnica de-

GRAFICO II:

mografica è il lavoro di licenza di ROMERIO FRANCO, L'ivolution de la population et de la popu­lalion active du Tes.rin, 1850-1970. Comparaison avec la Suisse; Genève 1980.

Carticolo di V AN DE W ALLE FRANCINE, «Migration and fertility in Ticino>, in Population studies, voI. 29, n. 3, London 1975, è da segnalare perché costituisce il solo studio di demografia sto­rica. Infatti l'autrice indaga sulle cause dei fenome­ni demografici descritti quantitativamente tenen­do presente il contesto economico, istituzionale e antropologico della regione.

2) Conto Reso del Consiglio di Stato della Re­pubblica del Canton Ticino per l'anno ammini­strativo 1852, p. 69.

3) BOLLA E, op. cit., fascicolo I, p. 3. 4) FRANSCINI S., La Svizzera Ilallana, 1837,

p.114. 5) Nel Bollettino Ufficiale della Repubblica e

Cantone del Ticino, atti dell'anno 1855, si trova il «Regolamento per gli atti dello Stato Civile>. In seguito alla legge del 17 giugno che regolamentava il matrimonio civile e la sua trascrizione, il 27 dello stesso mese viene emanato il regolamento relativo ai registri delle nascite e delle morti. Essi dovevano essere redatti in duplice copia, una per l'archivio municipale e una per quello notarile, con reperto­rio alfabetico, con numerazione degli atti convali­dati dalle fume del sindaco e del segretario comu­nale. Dei commissari di governo dovevano con­trollare la loro regolare compilazione e il rispetto dei termini di denuncia delle nascite (tre giorni) e delle morti (venti giorni).

6) La consuetudine della rìpartizione dei beni familiari tra tutti i figli è una delle cause di frazio­namento; tanto più che chi emigrava non intende­va rinunciare alla proprietà anche se ciò comporta­va il pagamento delle tasse. Nel 1892 il 65% dei re­sidenti all'estero pagava le imposte regolarmente, in alcuni paesi della Valle Maggia poi, gli assenti paganti erano in numero superiore ai presenti.

7) I dati relativi alla popolazione attiva tra il 1870 e il19Q0 dimostrano cne nel settore agricolo la proporzione delle donne è sempre superiore a quella degli uomini. Considerando invece la Sviz­zera globalmente il fenomeno è chiaramente op­posto.

8) Gli indici di fecondità legittima riportati so­no stati calcolati dividendo il numero delle nascite legittime annuali per il numero delle donne sposa­te in età feconda P5-49) presenti in quello stesso anno.

Nascite 1872-75, movimenti stagionali.

Blenio (migrazione invernale) ", I

Mendrisio (migrazione estiva) 180

120

100

80

60

Fonte:

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G F M A M G L A S O N D

G F M A M G L A S O N D

Nascite

. Concepimenti

VAN DE WALLE E, Migration and Fertìlity in TiciTlf), in «Population Studies., 29,3 (London 1975)

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Appunti per una storia dell' emigrazione ticinese oltremare

I

UNA STRAORDINARIA DOCUMENTAZIONE

Una rigorosa sintesi della storia del­l'emigrazione ticinese d'oltremare non è ancora possibile allo stadio attuale della ricerca. In questi ultimi anni tuttavia., grazie ad una nuova sensibilità per i pro­blemi della storia sociale che si è diffusa assai capillarmente, si sono recuperati co­spicui materiali - anche minimi a volte ~ che permettono di gettare una nuova !uce sull'emigrazione: sicu~amente il1?iù Importante fenomeno soao-economico di questi ultimi due secoli. Il riordino dei materiali dell'Archivio federale relativi all'emigrazione svizzera dopo il 18501

rende ora possibile un nuovo approccio storiografico con l'inserimento della emigrazione ticinese in un contesto mol­to più ampio di storia politica e sociale della Svizzera e delle implicazioni diplo­matiche internazionali.

Inoltre il sistematico recupero di inso­stituibili testimonianze provenienti dagli «archivi» privati dei diretti protagonisti comincia a dare i suoi frutti. Con le mig­liaia di lettere ora disponibili non solo si può misurare, con una certa dovizia di particolari, la dimensione umana del pro­blema migratorio, bensì anche studiare i più complessi aspetti legati all'evoluzio­ne della mentalità collettiva., dei cambia­menti della proprietà privata in raP1?0rto agli scombussolamenti demografia, op­pure valutare più criticamente la mobilità sociale nei Paesi d'immigrazione dove la ricchezza accumulata in decenni di lavoro ha favorito un rapidissimo inserimento dei contadini in una società sostanzial­mente aperta ai valori della democrazia e della libertà individuale2.

Alcuni risultati concreti di questa nuova sensibilità storiografica nei con­fronti della copiosa documentazione che si sta raccogliendo un po' dovunque si possono fortunatamente constatare an­che da noi. Risale appena a gualche mese fa l'acquisizione per l'Archivio di Stato della più importante raccolta di docu­menti privatI concernenti l'emigrazione ticinese3.

Moltissime famiglie possiedono pre­ziosissimi materiali attraverso i quali pos­sono essere meglio studiati molti aspetti del secolare trend che ha portato decine di migliaia di artigiani e contadini, bor­ghigiani e vallerani di tutte le regioni del paese, a operare al di fuori degli angusti confini politici. La salvaguardia di queste fonti diventa un dovere imprescinOibile per tutti coloro a cui sta a cuore la forma-

zione umana e storica delle future genera­zioni.

Del resto basta gettare anche un rapi­do sguardo alla più aggiornata bibliogra­fia dell' emigrazione ticinese per convin­cersi dell'importanza del tema. Gian Pie­tro PawlowSki ha recentemente raccolto e ordinato 558 schede riguardanti opere, pubblicazioni varie, articoli di riviste ecc.4• Questa ricchissima e praticissima guida alle future ricerche documenta l'esistenza di testimonianze di natura di­versissima: dai rapporti ufficiali alle bio­grafie, dalle opere ili circostanza a quelle statistiche, dai 1?amphlet partitici alle me­morie, dai dian e epistorari dei protago­nis.ti .ai pri~ e fatalmente provvisori ten­tatiVI di slOteSI.

L'allargamento del territorio dello sto­rico5, l'applicazione dei più aggiornati metodi di analisi dei documenti6 e la messa in correlazione dei dati riguardanti il Ticino con quelli più ampi acquisiti dalle recenti indagini storiogran.che euro­pee e mondiali7, permetteranno in futu­ro l'elaborazione di una nuova storia dell' emigrazione ticinese che dovrà ne­cessariamente prendere in considerazio­ne il processo parallelo dell'immigrazio­ne. Solo inserendo la storia della nostra emigrazione in quella molto più com­plessa (e anche più importante per le im­plicite problematiche attuali, quindi di p'iù lunga durata!) dell'immigrazione con il conseguente cambiamento radicale del tessuto demografico, potremo pretende­re di tracciare alcune coordinate dello svi­luppo socio-economico di una regione posta tra l'immobilismo periferico carat­teristico delle regioni alpine e il dinami­smo dipendente dagli stessi grandi assi di transito delle merci e degli uomini.

D'altra parte sarà solo confrontando il nostro minuscolo ma significativo caso locale con alcuni fenomeni demografici di ben più vasta portata storica quali ad esempio ìl popolamento forzato della Si­beria., il più libero accesso alla frontiera statunitense ricca di vitalità e di contrad­dizioni, o la composita messa a coltura di vaste aree attorno al Rio della Plata., nel Brasile o sui fianchi della Cordigliera an­dina., potremo evitare di soffocare questo essenziale capitolo della nostra storia nel­le secche di una Frovinciale evocazione memorialistica ad uso esclusivamente ti­cmese.

II

UN RAPIDO QUADRO STATISTICO: AUSTRAUA, CAUFORNIA, ARGENTINA

Il Ticino non ha dato all'America cen­tinaiadi intellettuali come tanti altri pae­si d'Europa., fuggiti dopo le fallite rivolu­zioni del 1848, o durante il nazismo, e che hanno contribuito a rivitalizzare le scien­ze e le arti oltre Atlantico. Dalle nostre vallate non sono neppure partite le folle affamate scacciate dilla carestia della pa­tata come dall'Irlanda., dai pogrom dell'Europa orientale o dalla miseria en­demica da certe sacche arretrate dell'Eu­ropa mediterranea.

Gli emigranti dell'arco alpino si conta­no in numero assai ridotto rispetto a quelli di altre regioni e, in genere, preferi­rono gli insediamenti nelle campagne ag­li slum delle metropoli industrializzate.

Diversamente da quanto era avvenuto in molti altri Cantoni svizzeri dove 1'emi­grazione oltremare era già stata assai con­sistente nel XVIII secolo, in Ticino il fe­nomeno è sconosciuto praticamente fino alla metà del secolo scorso; a quel mo­mento il Cantone contava 117'000 abi­tanti.

Durante il decennio 1850-59 emigra­rono oltremare 4227 ticinesi. Una riparti­zione annuale permetterebbe di meglio articolare il fenomeno, ma è ormai appu­ratò che le partenze in massa si ebbero fra il 1854 eil1855, con una netta preEonde­ranza verso l'Australia e la California. Cresciuta a dismisura negli anni critici del blocco austriaco, l'emigrazione subì un duro contraccolpo dovuto non solo alla tremenda esperienza australiana., di cui si ebbe notizia certa solo a partire dal 1855, ma anche perché le regioni locarne­si che maggiormente l'avevano alimenta­ta erano ormai esauste, spremute demo­graficamente e finanziariamente, e quindi non più in grado, almeno per qualche an­no, di sostenere nuove partenze8. Il flus­so riprese vigoroso dopo il 1865, specie negli anni immediatamente successivi al­le catastrofiche alluvioni della fine di quel decennio.

Ad un periodo di forte emigrazione ne seguì uno relativamente più calmo; per gli anni attorno al 1870-75 esso coincise con il cambiamento di potere politico av-

'":P.

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36

venuto nel Cantone. Più che della politi­ca interna si dovrà però tener conto delle limitazioni all'emigrazione introdotte dagli Stati Uniti e dello sviluppo delle in­dustrie e del commercio in molti Canto­ni svizzeri, dove, in misura sempre mag­giore, trovarono lavoro i ticinesi. Ma il periodo 1880-90 registrò il totale parziale più elevato; quasi 9000 emigranti oltre­mare, mentre durante il decennio succes­sivo lasciarono il Cantone solo poco più di 4000 persone. Le partenze aumentaro­no di nuovo nei primi anni del nuovo se­colo con una media di circa 600 espatri all' anno tra il 1900 e la prima guerra mon­diale che, ovviamente, ridusse di molto gli effettivi. Si ebbe ancora qualche vam­pata consistente nel periodo postbellico, ma l'emigrazione oltremare cessò di esse­re un fenomeno rilevante per la storia ti­cinese a partire dalla grande depressione degli anni trenta.

Sotto e Sopraceneri sono decisamente diversificati per quanto riguarda le desti­nazioni. Gli emigranti dei distretti meri­dionali preferirono l'Argentina o altri Stati dell'America latina dove si diedero alle professioni più svariate, riuscendo - non pochi - 10 paesi dove i pionieri europei potevano facilmente operare, a farsi una buona posizione9 •

Tra il 1850 e la seconda guerra mondia­le partirono verso la California circa 30'000 contadini del SOl?raceneri lO e qua­si 12'000 sottoceneriru si recarono in America latina. Molti ticinesi arrivati nei centri europeizzati dell'Argentina, del Cile, del Paraguay o dell'Uruguay, si inte­grarono assai bene tra le maglie della bor­ghesia imprenditoriale che da secoli, a quelle latitudini, deteneva le leve di co­mando di tutte le attività industriali e commerciali.

:Cincidenza di questo importante fe­nomeno fu fondamentalmente positiva per l'economia ticinese proprio perché Oai. numerosissimi ranch che gli emigran­ti riuscirono ad acquistare e a gestire per generazioni sulle Coste del Pacifico e dal­le varie imprese commerciali attive negli Stati attorno al Rio della Plata arrivarono cospicui capitali a migliorare il tenore di vita di chi era rimasto a casa. Anche se un mancato investimento dei risparmi nelle regioni più bisognose di sviluppo econo­mico fu fatale per il futuro di arcune valli alpine, sicuramente molti risparmi degli «zii d'America» poterono essere capita­lizzati grazie alla innata perspicacia dei contadini e dei borghigiani.

Come si è visto l'emigrazione ticinese· oltremare raggiunse il suo apice proprio durante il decennio 1880-1890. Nono­stante differenze locali e temporali signi­ficative, la nostra emigrazione non rap­presenta che un caso particolare di quella svizzera che proprio nello stesso decen­nio conobbe la punta massima di parten­ze verso gli Statl Uniti. A sua volta l'emi-

grazione svizzera segul i ritmi e le convul­sioni di quella dell'Europa nord-occiden­tale, specialmente tedesca e scandinava.

Quando invece, a partire dalla fine del secolo, si riversarono nelle Americhe le consistenti ondate di emigranti prove­nienti dal Mediterraneo, dai Balcani e dall'Europa orientale, gli effettivi annuali degli espatri ticinesi erano già ridotti, e di molto, grazie alle t!'asformazioni socio­economiche che la ferrovia del San Got­tardo aveva portato almeno lungo l'asse principale del Cantone. :Cevoluzione del numero e dell'attività delle agenzie di emigrazione documenta assai bene la tra­sformazione che avvenne nel Ticino tra la metà dell'Ottocento e la prima guerra mondiale. Al momento della prima on­data migratoria, legata da un lato al pos­sente richiamo dell'oro australiano e cali­forniano, e, dall' altro, alla crisi alimentare che colpl cosl duramente le regioni alpi­ne sovrappopolate, le agenzie d'emigra­zione furono maggiormente attive pro­prio allo sbocco geografico delle valli. Il ruolo da loro avuto a Locarno negli anni del blocco austriaco ne è una palese di­mostrazione 11 . Dopo l'apertura della galleria del San Gottardo un numero considerevole di agenzie' si installò nei principali centri ferroviari: da Chiasso a Bodio, passando attraverso Lugano, Giu­biasco e Bellinzona. Ohre che a stipulare i contratti con gli emigranti locali, esse si diedero da fare per accaparrarsi qualche fetta del sempre più fiorente mercato ita­liano. Non si spiega diversamente l'inte­resse di queste agenzie (quasi tutte di­pendenti dai grossi centri di potere finan­ziario d'oltr'alpe, come capiterà più tardi per le banche) nel mantenere un loro rap­presentante nelle zone di forte emigra­zione della vicina Penisola, e non già solo nelle finitime regioni di frontiera, bensì anche nell'Italia centrale da dove gli emi­granti giungevano in Ticino prima di proseguire verso i più attrezzati porti francesi o inglesi per essere imbarcati sui veloci «steamers» diretti a N ew York o a Buenos Aires.

Molte prove di questa partecipazione all'organizzazione aell' emigrazione di massa si possono trovare nelle numerose inchieste amministrative o giudiziarie av­viate dall'autorità federale contro diverse agenzie che in Ticino - come altrove in Svizzera - non rispettavano le leggi che la Confederazione aveva emanato in ma­teria di protezione degli emigranti a par­tire dal 1880 per evitare <J.uelle odiose speculazioni che il «laisser faire» liberisti­co dei decenni precedenti aveva troppo facilp1ente tollerato in più di un Canto­ne. E certo che le lunghe discussioni sulla preminenza dell'uno o dell'altro fattore classico determinante l'emigrazione di massa (il famoso push and pull) non po­tranno che limitarsi a spiegare qualche ca­so particolare se prima non si sarà appro-

fondito il ruolo avuto da tutti gli opera­tori interessati al fenomeno migratorio: dalla l?olitica ferroviaria americana, agli investlmenti degli armatori, passando all'interno di quella capillare quanto effi­cace rete di drenaggio umano organizzata dalle agenzie. Può forse bastare la seguen­te annotazione. Tra il 1865 e il 1880 il prezzo del biglietto sulle rotte atlantiche dimezzò. Più che ai fattori esclusivamen­te tecnici (riduzione del consumo di car­bone e costruzione di navi più capaci) la ragione è da ricercarsi nella spietata con­correnza fra le compagnie marittime di trasporto che trovarono un accordo solo verso la fi~e del.sec?lo; gr~e ad esso .po­terono p01 gestlre 1 traffiCi 10 un regime di assofuto monopolio.

Alla speculazione dei liberi trafficanti di "carne umana» e alle lusinghe delle agenzie interessate si può solo contrap­porre - quale magra consolazione - la politica dei regimi totalitari di ogni epoca storica, di ieri come di oggi, che utilizza­va la forza più che la seduzione per spo­stare o trattenere gli uomini. Lo stuOio degli insediamenti in Siberia, prima e do­po la rivoluzione d'Ottobre o anche solo gli spostamenti forzati di milioni di uo­miru nell'Europa orientale (senza parlare della tragedia nell'Estremo Oriente) do­vrebbero almeno convincerci della politi­ca del «minor male» praticata negli Stati occidentali.

III

«TANTI SI LAMENTANO DELLA CAUFORNIA CHE ASPETIANO SEMPRE CHE ASCIUGA IL MARE PER POTER TRAVERSARE A PIEDI»

Così scriveva il 16 agosto 1893 Pietro Sciaroni di Brione s/Minusio al fratello rimasto a lavorare la terra degli avi 12; e la contorta costruzione sintattica non adombra per nulla la struggente nostal­gia per la piccola patria abbandonata. Nostalgia peraltro alimentata dalle con­seguenze di una delle crisi congiunturali di fine secolo che periodicamente colpi­vano la Costa del Pacifico nella sua pur straordinaria corsa al successo econo­miCO.

Vale forse la pena di seguire la vicenda personale di uno dei tanti -giovani che hanno lasciato il Sopraceneri perché atti­rati dalla quasi mitica Califorrua: un gran­de paese che offriva lavoro a tutti e lascia­va balenare qualche concreta speranza di rompere il cerchio infernale di una mise­ra sussistenza non più mitigata, nella se­conda metà del secolo scorso, dalla tradi­zionale migrazione periodica verso l'Ita­lia o gli altri Stati europei.

Pietro Sciaroni aveva contratto il soli­to e quasi indispensabile debito agli inizi del 1889; uno degli anni marcanti per

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l'emigrazione oltremare con 1242 espa­tri. Nella Contea di Sonoma erano già fiorenti molti ranch di ticinesi partiti all'epoca ruggente dell'oro. Parecchi fra coloro che avevano guadagnato qualche dollaro nelle miniere della Mother Lode o del Nevada avevano approfittato della messa a coltura di vastissime zone situate nelle immediate vicinanze di San Franci­sco per accaparrarsi qualche buon pezzo di terra.

Osservando alcuni vecchi catasti della stupenda regione collinosa attorno a Pe­taluma e nella parte occidentale della Contea di Marin si rimane impressionati per la foltissima presenza di proprietari ticinesi distribuitt fra qualche ranch ita­liano, portoghese o americano. La pro­spettiva per i giovani appena arrivati in California dopo una rapida traversata dell'Atlantico e aver percorso le grandi Pianure sui comodi vagoni della Central Pacific non era delle più allettanti. Appe­na il tempo per assaporare dal Ticino Ho­tel i divertimenti della metropoli del Far West e poi via per i ranch isolati oltre il Golden Gate nelle Contee di Marin, di Sonoma e di Napa a mungere le mucche degli altri.

La storia di Pietro Sciaroni «merica­no» era iniziata proprio cosl, come tante altre nella speranza di poter rimborsare i denari della «tichetta» 13, e tornare a Brione con un po' di dollari.

Il 18 maggio 1889 in una lettera alla madre si legge:

Vi faccio sapere che ho abbandonato il pri­mo padrone per motivo si po dire che hiso­gnava lavorare giorni e notte che era im­possibil-e il far la vita lavoro finora non mi è ancura mai mancato, il mestiere a mon­ger vacche credo che non lo potrò resistere se trovo altro lavoro' tralascio da mongere. Vanno in più cinque mesi da che sono par­tito dalla Patria a mé pare veramente che sia cinque giorni il tempo mi passa veloce­mente e credo che passerà ancora più in fretta per l'avvenire. Gli avanzi di quest'anno sarà pochissimo il viaggio non lo potrò nemmeno pagare, però non temete se Dio mi dà la salute si non è quest'anno è unaltranno. Adesso ho pensato di man­darvi 5 O franchi quelli li adoperete per far tagliare il fieno sul piano in steme alla let­tera troverete la cambiala di 50 frs. che poi con quella cambiala potrete andare a prendere fuori i denari sulla bancha. Amareggiato per il duro lavoro del

mungitore che non gli permette - come sperato - di far fronte agli impegni del contratto, qualche mese dopo sembra già progettare 11 rimpatrio.

lo lo dico chiaro se la va di questo passo me­tà tempo di California li ho già latto per­ché è più le tribulazioni che lt avanzi. (20 ottobre 1891). E al fratello desideroso di raggiunger­

lo in California cosl consiglia all'inizio dell'anno successivo:

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Per altro che voi sapere il guada8'l0 di tJ..uesti Paesi io ti dico la verità, mtO caro Jratelw che in questi paesi mi è bisognato a lavorare un po a tutti i prezzi cioè ò già la­vorato a 10 scudi al mese a 12V2a 15 a20 a 22112 a 25 a 30, e questa è la giornata che possono più pagare e anche secondo la capacità clell'uomo. Il lavoro fuori nei ranch comincia molto presto per scansarsi un poco di sonno, e ala sera si va a riposare verso le 9 ore o alle lO secondo la sveltezza del'uomo di finire ilsuo proprio lavoro che qui ciascheduno à ilsuo da [are. Non céft­ste di Natale non ce di far festa il primo dì dell'anno, non ce di far festa nemmeno al­la Pasqua, nemmeno le feste corente ma bi­sogna sempre lavorare fino a tanto che tu termina fa tua stagione poi si sta due o tre mesi o anche di più a prendere un poco di riposo fino a tanto che si svuotano le scarsel­le di quel poco che si Guadagna, e dopo si torna al lavoro di prtma come asini. Ecco mio fratello, se vuoi sapere il tutto, questa è la California. La nei nostri parti si credo­no che cosa è la California, oh andiamo a vedere anche noi come fanno tanti degli al­trii al momento che si ritrovano rui sono già pentiti, certo che la più parte d,cono che sono contenti della California perché lo ve­dono anche loro- lo sbaglio che ano fatto . Per chi si ostina a restare mungitore in

queste condizioni, le prospettive di suc­cesso sono nulle; bisogna decidersi a mettersi in proprio. La terra è abbondan­te, ma occorrono soldi per pagare l'affitto

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e per comperare bestiame e attrezzature. Sciaroni ha coraggio e iniziativa e trova facilmente un po' di terra 14 necessaria per una cinquantina di mucche. Fa un po' di calcoli e espone il suo piano allo zio, rancere da parecchio tempo in un'altra località della California e quindi in grado di aiutarlo nell'impresa:

nel mese di Augusto voglio provare anch'io come fanno tanti dei nostri svizeri a renta­re la terra, e comprare le bovine che si chia­ma deri ranch che ci vedo molto più gua­dagno siché ho quai poco denaro io,' e per comprare queste bovine vengono a costare $ 30 a 321J2 luna. Di 50 oovine ne avrei abastanza di poter fare qualche guadagno in tempo di 5 anni, di più che lavorare sot­to gli altri e per comprare queste bovine e tutti gli utensili deT casaficio mi bisogna ancora Dolari 1.500 mille cinque cento, si renta la terra a 2,5 O due scudi e mezzo all'acra. Sei acra di terra netta senza che ci sia bosco, si calcola la pastura di una bo­vina sichl ci vole 300 acre di terra per nu­trire alla pastura 50' bovine, una bovina da il frutto di 240 libre di bum entro la stagione e quando lo si vende a meno prez­zo è di 20 soldi la libra e si alza perfino a 35 e 40 la libra, poi ci resta ancora il late per ingrasare i majali. Siché se io non vi discomoda, vi domando il piacere se potete aiutarmi quel che potete In mille cinque cento scudi che mi btsogna ancora, vi passo d'interesse al 7% scudi per cento e tutto lin­teresse che pagano qui In questi parti, se po- 37

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tete mi farete un grande piacere e non dove­te avere paura che li faccia perdere che in poco tempo potrò ristituire ancora il suo de­bito, questo debito di 1.500 andando an­che non tante buone anate potrà eser paga­to in tempo di due anni ""ho anche meno. Dunque mio caro zio fate il possibile di aiutarmi se potete e se non potete fatemelo sapere, lo stesso il più presto possibile. le difficoltà da superare per entrare

nell'ambito mondo dei «dairy business» sono però molteplici. La congiuntura non è affatto favorevole e gli affari non vanno .I?er il verso giusto. Gli impegni fi­nanzian per far fronte all'aumento del­l'affitto della proprietà diventano sempre più gravosi proprio perché i prezzi Gei prodotti stagnano, la concorrenza è spie­tata e gli interessi sui debiti diventano esorbitanti. In una lettera del 16 agosto 1893 Sciaroni spiega come mai non può neppure spedire a casa qualche soldo per aiutare i genitori.

Se potessi aiutarvi con· un po di moneta lo farei voluntieri subito, però al presente non posso, perché è andata male anche per noi questanno mè morto 7 vacche e 4 non ano avuto il vitello e di quelli vacche che non ano avuto vitello devo pagare 60 Franchi luna per la pastura di tutto l'anno, sicché là 240 Franchi che devo pagare,' oltre alla perdita delle altre 7. lo mete 100 Franchi luna così fà 700. e 240 che devo pagare in partenza di quei 4 vacche là in tutto 940 Franchi che ò perso entro l'anno senza nes­sun guadagno. Ora ne abbiamo ancora 41 vacche e quest'anno ho fitato un rancio io che devo pagare all'anno JeI fitto del rancio 3875 all'anno devo fare un debito di 4000, quattro mila Franchi, sempre colla speran­za di andare gli affari "bene. Quest'anno è stato un ano gramissimo per tutti abiamo avuto una fl'an sicità però sjJeriamo in meglio, avrò ai trebulare an­chio al pare de voialtri però bisogna farsi corawo listesso. La SItuazione peggiora ancora qualche

anno più tardi. La lettera seguente è indi­rizzata al fratello (1. maggio 1896).

Qui in questa California tuta la marcan­zia di qualunque generç, non valle piu nulla, qui in questi paesi hora è peggio che dai vostri parti il burro vale 12 soldi la li­bra ossia 60 centesimi da voi altri, i porci vallono 3 soldi la libra ossia 30 centestmi il chilo, infine non se ne là abbastanza per le spese, la rendita della terra è carra, che noi altri jJaghiamo vicino a 6.000 sei mila Franchi all'anno, e poi 150 al mese di spe­se tra vivere e spese del rancio, si faresse qualche cosa di guadagno se la roba fosse un tantino piu carra. E il 15 giugno 1897 decide di vendere

la sua parte di proprietà a Brione per far fronte alle richieste sempre più pressanti dei suoi creditori.

Caro Fratello . mi scuserai se ti disturbo te 38 faccio sapere, tale quale, la mia intenzione

che io in questo afari del rancio ho 3.500 Franchi di debito tre mila cinquecento fr. 2.25 O due mila due cento cinquanta Fran­chi li devo pagare per il primo di settembre 1897 mi trovo quasi in imbarazzo. 4 anni fà quando il tempo era più buono quel afari che noi comerciamo nel rancio di be­stiame solamente per la nostra parte vale­va per 10.000 ateci mila franchi e hora siccome che il jJrodutto è venuto a buon mer­cato hora vale di più a venderlo la mia metà di 7.500 sette mila cinque cento, la moneta è venuta molta scarsa massima­mente nei ultimo 4 anni. lo ti voglio domandarti un piacere se puoi trovare tre mila Franchi dà spedirmi per tre anni, e mandare il fitto annualmente per quel che vale e che io li dò tutta la mia sostanza, a casa per sigurtà. per questo tu mi farai un gran piacere fare per me di non aver nessuna paura cbe in tre anni di tempo di poter pagare tale debito. lo venderei voluntieri però al presente non si potrà trovare il compratore e dun altra se si cambia il tempo avrà più valore. varda tu di f(lre il possibile di poter trovarli e spe­dirli di purefare una carta, un istrumento di ipoteca. I debiti contratti in un periodo di alta

congiuntura sono presto nmborsati; il la­voro produce ri(chezza e gli investimenti fortunati hanno permesso a molti di di­ventare proprietari di buone pasture o di terreni, trasformatisi più tardi in zone edificabili nel vorticoso sviluppo urbani­stico del West. Accanto a parecchi casi di evidente successo economico in Califor­nia si contarono tuttavia anche molte de­lusioni.

La lettura di un semplice epistolario ci informa che nel 1897, dopo anni di duri

s~cri?ci per. resistere ~li alti t~s~ ip~t~~­Cl e al prezZI sempre pm straCClatl del tIPI­ci prodotti dell'allevamento, un rancere dovette chiedere l'aiuto finanziario dei parenti in Ticino per evitare il fallimento. Dal seguito delle missive scambiate tra Pietro Sciaroni e il fratello si arguisce che la sostanza immobiliare a Brione venne venduta per assicurare in qualche modo Ili: nuova proprietà acquistata in Califor­ma.

Caso singolo quello dei Sciaroni? No di certo per chi voglia leggere i copiosi epistolarI raccolti al di qua e al ili là dell'Atlantico prestando un po' d'atten­zione anche agli aspetti economici che traspaiono più numerosi di quanto non si creda tra le formule stereotipate di salu­to e le annotazioni sulla pioggia e sul bel tempo. Ed è proprio la serie più comple­ta possibile ili tutti questi episodi, che singolarmente presi raccontano nient'al­tro che una vicenda umana, a permettere di compilare il complesso mosaico dell'avventura californiana, ricco di luci e di ombre, di successi e di delusioni.

Forse non ci rendiamo ancora perfetta­mente conto che queste testimonianze personali costituiscono veramente un prezioso strumento di osservazione per misurare gli effetti economici dell'emi­grazione. Ma la ricchezza e la varietà delle valenze culturali popolari in esse conte­nute possono aiutarci a scrutare i mecca­nismI più o meno nascosti delle attitudi­ni e dei comportamenti inruviduali, il flusso e riflusso delle pulsioni, dei pre­giudizi, dei calcoli che hanno condiziona­to la vita quotidiana lungo il passaggio di almeno quattro generazioni di ticinesi le­gate direttamente o indirettamente al­l'emigrazione oltremare.

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1) Gérald Arlettaz, L'émigration suisse outre-mer de 1815 à 1920, in -Studi e Fonti., pubblicazione dell'Archivio federale svizzero, Berna 1975, no. 1 p. 31-92; Em!g:ation et colonisation suisses en Amlriques 1815-1918, 1bid., no. 5 p. 7-236.

2) Gérald Arlettaz, L'intégration des émigrants suisses aux Etats-Unis 1850-1939, in «Relations In­ternationales ', 1977, no. 12 p. 307-325.

3) ~archivio messo insieme con grande amore e costanza dal defulito Mario Zanini di Bellinzona è stato recentemente acquistato dal Consiglio di Stato; indubbiamente esso rappresenta una straor­dinaria miniera di documenti per tutti coloro che vorranno, in futuro, occuparsi di questo tema.

4) Bibliografia dell'emigrazione tirinese (1850-1950), lavoro prc:sentat? al Corso tri~n~ale di for­maZIone per bibliotecar1 documentar1stI per l'otte­nimento del diploma cantonale (ed. c1clostilata 1982, 140 p.).

5) In due importanti volumi Emmanuel Le Roy Ladurie, Le Jerritoire de l'historien, Paris 1973 e 1978, indica quali sono i nuovi campi aperti in questi ultimi decenni dai ricercatori di punta: la storia demografica, il clima, il corpo, i sistemi so­ciali, ecc.

6) ] acques Le Goff (e altri) La nouvel/e histoire

Tenuta di Pietro Scattini (California)

Paris 1978 (in trad' italiana Mondadori, Milano 1980);]' Le Goff e P. Nora, Paire de l'histoire, Paris 1974, 3 voI. (anche in trad. parziale italiana, Einau­di, Torino 1981). Nel primo volume sono trattati i nuovi problemi che mteressano il ricercatore (la storia quantitativa, l'acculturazione, la storia dei popoli senza scrittura, ecc.); nel secondo i nuovi metodi storiografici (l'archeolo~a, l'economia, la demografia, l'antropologia religiosa, le scienze ecc.); nel terzo vengono passati in rassegna i nuovi oggetti che interessano lo storico (l'incosciente collettivo, il mito, le mentalità, il clima ecc.).

7) ~opera più recente per una visione d'assie­me dei complessi problemi della storia dell'emi­grazione è indubbiamente Les migrations internatio­nales de la fin du XVIII s. à nos jours, pubblicata dal­la Commissione internazionale di storia dei movi­menti e delle strutture sociali con la collaborazio­ne dell'Unesco, Parigi 1980, 703 p.

Per una sintesi aggiornata dell'immigrazione negli Stati Uniti si consiglia la Harvard Encyc/ope­dia o[ American Ethnic Groups, Cambridge, Massa­chusetts e London 1980, 1076 p. Il capitolo riguar­dante l'emigrazione svizzera è stato scritto da Leo Schelbert, autore di una EinftJhrung in die schweize­roche Auswanderungsgeschichte der Neuzeit, Ziirich

1976, 443 p., e docente di storia dell'emigrazione all'Università di Chicago.

8) Ad esempio la Valle Maggia perde agli inizi degli anni cinquanta oltre il 14% della popolazione con 846 partenze verso l'Australia e oltre 200 in California. Al salassa demografico è da aggiungere quello finanziario valutato a oltre un milione di fr. rimborsato, solo parzialmente, dagli emigranti d'Australia.

9) Si vedano i due volumi di A.O. Pedrazzini, L'emigrazione tirinese nel/'America del Sud, Locarno 1962, 440 e 310 p.

10) Rimane validissimo lo studio di M.E. Per­ret, Les co/onies tessinoises en Califomie, Lausanne 1950,310 p.

11) Cf. G. Cheda, L'emigrazione tirinese in Au­stralia, Locarno 1976, VoI. I p. 151-181.

12) Le lettere di Pietro Sciaroni, provenienti dal Fondo Mario Zanini (no. 103), si trovano all'Archivio Cantonale di Bellinzona.

13) Dall'inglese ticket, biglietto. 14) -Rentare (affittare) la terra, e comprare le

bovine che si chiama deri ranch., cos1 scrive Scia­roni, semplificando la grafia inglese, dairy ranch: fattoria per la produzione di latte e latticini.

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Gelsi e filande: la grande stagione serica

All'origine più remota di quel gran­dioso sviluppo della sericoltura che, a partire dal Settecento e si può dire per un paio di secoli almeno, fu if fatto più carat­terizzante e incisivo dell' economia rurale di numerose contrade della zona subalpi­na, pare si debba porre, per i nostri paesi, l'iruziativa governativa e in ('rima linea la determinazione degli ultinu Sforza. Ma, per antecedenti che vanti, al varcare della età moderna, e per un pezzo ancora, il se­tificio, nei suoi vari momenti agricolo e manifatturiero, conservò dimensioni mo­deste che crebbero al crescere della socie­tà europea, al diffondersi della ricchezza, al rafforzarsi dei gusti e della moda, in ter­mini di mercato, si può dire, all'erompe­re di una domanda di prodotti serici, non più ristretta agli usi del culto e alle esigen­ze di un ceto privilegiato e chiuso di no­bili ed ecclesiastici.

Per molti sintomi concordanti vien da affermare che dopo la seconda metà del Settecento la diffusione del gelso proce­de rapidamente nelle campagne a nord del Po, spingendosi fino ai piedi dei con­trafforti delle Alpi, con un moto dapper­tutto impetuoso ma insistente soprattut­to nelle zone dell'alta pianura ove il gel­so, come la vite, trovava la sua ambienta­zione 'più felice, lontano dalle acque sta­gnantl e fuori dalle lunghe stagioni bru­mose.

La sempre più larga disponibilità di foglia consentl un più intenso allevamen­to di bachi, e di h un impegno semindu­striale di trattura che avrà la sua sede po­co lontano dal cascinale e i suoi artefici nelle stesse maestranze contadine.

Nel trentennio precedente la rivolu­zione anche nel Ticino meridionale l'in­dustria serica, nelle sue fasi primarie e schiettamente agricole, comincia a dila­tarsi, e si sa di bozzoli che già allora passa­vano il confine lombardo, attirati da fi­landieri più lesti nell'incetta: e anche di sete gregge prodotte in filandine del Sot­toceneri che confluivano poi nel giro del commercio di Milano, la città avviata a diventare il grande centro di raccolta del­le sete italiane e loro smistamento verso l'Europa centrale e settentrionale. Ma è dopo la fine delle guerre napoleoniche, nel clima ritrovato della pace, che la seta conquista nuove posizioni in un moto contlnuo e sostenuto di ascesa che coin­volge un volume rapidamente crescente di interessi agricoli, manifatturieri e fi­nanziari, cittadini e campagnoli. Dopo il 1830 anche il villaggio del Mendrisiotto o del Luganese è così investito da un'ani­mazione di lavoro e da un giro di affari economici che rompono il torpore con­s~etudinario di una vecchia società agra-

40 na.

La famiglia contadina fu la vera prota­gonista di quella trasformazione. Sulle sue spalle caddero intanto il lavoro ('reli­minare dell'impianto e della cura del gel­si, col minimo possibile sacrificio delle al­tre colture, quello della raccolta della fo: glia e, particolarmente assorbente, l'altro dell'allevamento dei bachi. Quando il nu­cleo contadino era legato alla terra da un contratto di mezzadria o comunque di compartecipazione, l'economia serica si svolgeva nelle strette di patti di concorso alle spese e divisione del raccolto fra pro­prietario e conducente, ch'erano sbilan­ciati a danno del contadino, come s'ebbe occasione di mostrare (v. cartella prece­dente). Quando invece il contadino lavo­rava in proprio, e tra le pieghe di una giornata assorbente riusciva a inserire un allevamento per un'oncia, poco più, po­co meno, di semente (era assai raro che potesse andare oltre), in estate, a vendita di bachi effettuata, egli poteva racimolare il beneficio netto di alcune dozzine di franchi, e se tutto era proceduto senza contrarietà egli aveva ragione di reputarsi fortunato.

Distribuita in innumerevoli e sparsi fuochi, la bachicoltura portò ugualmente . nel mondo rurale una quasi rivoluzione, introducendo i primi 'pallidi segni del­l'economia monetaria 111 un contesto di lavoratoriJoco usi a vedersi passare fra le mani . denaro contante, costretti com'erano da lungo tempo nelle angu­stie dell' autoproduzione, del consumo controllato e obbligato.

La raccolta serica risollevò un tenore di vita depresso, consentl qualche ap­provvigionamento straordinario, riani­mò le fiere di campagna, specie quando giunsero a integrarla i proventi della suc­cessiva trattura. Il ciclo della trattura du­rava da sessanta a ottanta giorni, mobili­tava schiere di donne e di giovinette, le retribuiva con salari cos1 miseri che, giu- . dicati coi metri di oggi, sembrano addi­rittura inverosimili. Nel 1865 da un'in­chiesta svolta risultò çhe nelle filande si corrispondevano paghe orarie di 2,1 cen­tesimI (con in pIÙ probabilmente una ciotola di minestra), riservate alle ragaz-

ze al disotto dei 14 anni, che non forma­vano l'eccezione, mentre paghe di 6 cen­tesimi orari stavano già sulla media e an­davano a donne esperte. Si trattava certa­mente di retribuzioni irrisorie, e tuttavia preziose ('er i contadini poiché, specie nelle famIglie numerose del tempo, la goccia s'univa alla goccia e tutte insieme formavano un rivoletto.

Sull' altro versante delle classi sociali, il mondo serico offrì opportunità nuove e mise in evidenza andie un gruppo di im­prenditori più intraprendenti, guei pro­prietari fondiari che, legando CIclo agri­colo e ciclo manifatturiero e mettendo insieme bozzoli propri e bozzoli d'altri, non disdegnarono di assumere la trattura e a volte anche la filatura, o torcitura, com'era detta. E fu a suo modo anche questo un sintomo di risveglio, in seno a un ceto abituato a campare del reddito agricolo, al più e in qualche misura inte­grato dai non lauti proven.ti delle profes­sioni liberali o delle carriere di curia. Ceconomia serica fu più generosa di ('ro­fitti immediati verso possidenti, marufat­tori, agenti commercIali e speculatori che non verso le maestranze maggiormente sacrificate nel lavoro. Nelle campagne, s('esso proprio grazie alla seta, prese av­VlO l'accumulazione del capitale che si volse poi a rischi diversi e fu strumento anche da noi di più rapida industrializza­zione.

Per il Cantone Ticino, quando si 'pre­scinda da vicende marginali e si badi so­prattutto alla localizzazione della crescita, due soltanto degli otto distretti ammini· strativi richiamano l'attenzione, e sono Lugano e Mendrisio. Secondo un dato fornito dal Conto-reso del 1872, quell'annc il valore della bachicoltura era attribuibi· le per oltre 1'83% ai due distretti meridio· nali. Bellinzona e Locarno ins~erne ne as· sorbivano il 14% appena, e il poco che re stava andava ai rimanenti 4 distretti (itl particolare Riviera). La preponderanzl della ('arte meridionale del Cantone no~ era sPlegabile tanto con argomenti di eli­ma poiché si dimostrò che il gelso attec' chiva molto bene anche in I.event:ins. quanto piuttosto con la diversità dd·

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le strutture agricole e aziendali e con il ri­chiamo che ai confini meridionali eserci­tavano le vicine campagne e i mercati del Varesotto e del Comasco nell' epoca della loro piena fioritura serica.

Lo Schinz, una delle fonti ancora oggi più sfruttate per la conoscenza dell'eco­nomia ticinese alla vigilia della rivoluzio­ne francese, nel suo viaggio a mezzogior­no reperiva a Lugano e Mendrisio segni di un'industria serica, ma non le attribui­va molta importanza rispetto ad altre at­tività primarie che davano allora il mag­gior apporto alla bilancia del commercio esterno cantonale, bestiame, formaggio, legnami, paglia. Ma già ai tempi di Fran­scini morti progressi erano registrabili, come prova il dato di 600 fino a mille operaie che nei mesi estivi erano dedite alla trattura. Franscini parla poi di 190 ballotti di seta greggia che partivano dal paese, e al tempo dello Schinz sarebbero stati 80 appena. Il ciclo serico «da un cer­to numero di anni ha ricevuto e riceve notevole sviluppo» affermavano ,fonti uf­ficiali per l'anno 1842. Le stesse che offri­vano anche i dati relativi al 1841 della esportazione del settore, tratti dalle regi­strazioni daziarie:

foglie di gelso libbre 71.200 bozzoli 27.187 seta greggia 36 .. 179

Ma guai a prendere come definitivo queste cifre: per ogni libbra di seta greg­gia che sottostava al dazio d'uscita (che

non era J.>Oi proibitivo, trattandosi di un soldo milanese per libbra) ve n'erano chi sa quante che sgaiattolavano indenni in una linea di confine tortuosa, pratica­mente incustodita e apertissima al con­trabbando. Quanto alle notificazioni fat­te dagli interessati, sempre sospettosi e timorosi del fisco, non meritano fiducia di sorta. Ma il commercio dei prodotti serici con i cantoni tessili della Svizzera tedesca e ancor più con la Lombardia au­striaca, era certamente cospicuo.

I contrabbandieri facevano, su e giù, i loro viaggi, portavano da qua a là o vice­versa, secondo l'opportunità del mo­mento, sementi e bachi, sete gregge o panni; gli incettatori al servizio di mer­canti maggiori correvano le campagne al­la ricerca di bozzoli per le filande che, in un'ampia e popolosa striscia posta a ca­vallo del coOfine politico, si contendeva­no la materia prima, sempre insufficiente rispetto alla domanda del mercato e alla capacità di lavorazione degli impianti. ~l commissario distrettuale del Luganese se ne lamentava: «La coltivazione del gelso, soprattutto da alcuni anni, ha preso un incremento il più importante, e lo pren­derebbe di più se si nmediasse con qual­che efficace provvidenza al monopolio col quale, specialmente nello scorso an­no, negozianti èd incettatori di bozzoli hanno tentato di impedire un proporzio­nato alzamento del loro prezzo di vendita in relazione alle piazze estere" (Conto-reso 1843). Ma la fiducia nell'avvenire della

seta d~veva essere ben diffusa, se nel 1843 si fecero giungere dall'Italia ben 66.089 piante di giovani gelsi (ivi).

I:apogeo della bachicoltura s'ebbe nel Ticino verso metà secolo. Secondo una stima dell'epoca, intorno al 1850 650.000 chilogrammi di bozzoli sarebbero stati prodotti per un valore di 1,7 milioni di franchi. A quel momento la seta costitui­va «il t>iù prezioso ramo di ricchezza" dell'agncoltura cantonale (TAMBURI­NI).

Da poche che erano un tempo, le fi­lande divennero molte. Nel 1842 l'in­chiesta federale su industrie e commercio ne aveva registrate 41, cosl distribuite in quattro distretti: Lugano 23, Mendrisio 15, Bellinzona 2, Locarno 1. In tutte, esse contavano 512 fornelli con la povera me­dia di 12-13 bacinelle per azienda. A quel­la data risultava occupata una maestran­za di 1144 unità, intenta a produrre 23.900 chilogrammi di seta, per un valore di un paio di milioni di franchi.

Il decennio successivo com'p1 un lun­go passo, con progressi non disgiunti da miglioramenti tecnici e opportune con­centrazioni aziendali.

La lunga stagione ascensionale venne bruscamente interrotta dalla serie di ma- ',: lattie che colpirono il baco da seta nella seconda metà degli anni Cinquanta: pri-ma fra tutte l'atrofia, ma si par1ò anche di calcino, di gattina, di flaccidezza. La deci­mazione dei raccolti arrecò alle campagne un danno monetario solo in parte com- 41

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pensato dall' aumento dei prezzi dei boz­zoli. li lavoro diminuì anche nelle filan­de, assillate dalla scarsezza della materia l'rima, i rurali persero una grossa quota dei loro p.roventi collaterali, e se ne dispe­rarono; 1 mercanti ambulanti lamentaro­no il ristagno del commercio, la decaden­za delle fiere.

Anche il Ticino corse alla ricerca dei ri­medi. Il problema più assillante era quel­lo della semente che occorreva reperire lontano, in sostituzione di quella infetta. Sorsero allevatori a tentare nuovi proce­dimenti, si misero in moto importatori. Enti pubblici, consorzi, associazioni, pri­vati presero iniziative, come (ma è solo un esempio) la società che i fratelli Luigi e Paolo Lavizzari di Mendrisio costituiro­no con altri per l'acquisto di mille cartoni di semente che riuscirono a far giungere dal Giappone, dopo aver messo in moto il console svizzero di Y okohama e ban­chieri di Zurigo e di Milano per far giun­gere il denaro laggiù. I giornali dell'epoca abbondarono di disamine, di consigli, di

. avvertimenti e fecero spazio alle numero­se inserzioni pubblicitarie ove negozianti vicini e lontani garantivano d'essere in possesso di eccellente semente fatta arri­vare dalla Tunisia, dall'Anatolia, dallo estremo o prossimo Oriente.

Nel settore della trattura e della torci­tura la crisi assolse la funzione di stimolo al rinnovamento tecnico, eliminando le imprese marginali, favorendo ristruttura­zioni e ricambi direzionali. Le vecchie ba­cinelle a fuoco diretto vennero eliminate, sostituite da quelle ad acqua calda, e que­ste a loro volta dalle bac10elle a vapore. Le minuscole filande, non volendo o non potendo rinnovarsi, chiusero, e non fu un male. Nacquero imprese aventi con­formazioni industriali e migliori im­pianti.

A Bellinzona la filanda Paganini e Mo­lo (sorta nel 1834) assorbì la Cusa e la Bonzanigo: raggiunse una discreta di­mensione, impiegando nel 1875 circa 150 addetti che entravano in opificio alle 5.30 e ne uscivano alle 19, ed erano gli usi del tempo. Chiuse nel 1886 per «mancanza di materie prime e di maestranze". A Lu­gano, Lucchini che fin dal 1854 gestiva fi­landa con annesso filatoio, continuò ad estendersi, rilevò la Oppizzi e nel 1883 occupava 500 persone, producendo 125 quintali di greggio.

A Mendrisio resÌsté la Bolzani-Torria­ni che disponeva anch' essa di filanda e torcitoio, mentre a Melano Salomon Gessner rilevò la vecchia filanda già di Fogliareli e le impresse nuovo impulso. Lo stesso Gessner fu l'iniziatore di un'impresa particolarmente longeva, la torcitura Segoma di Capolago, da lui fon­data nel 1873 e l.'0i passata ad altre mani. Ma, si può dire 10 oreve, intorno al 1870 fùande e filature strutturate con criteri

42 mMerni e aventi sul centinaio o più di

personale, sia pure variamente occupato nel corso dell'annata, erano ormai abba­stanza frequenti. Invece s'andava perden­do il ricordo delle filande d'un tempo, dotate di pochissime bacinelle, inserite magari in attività d'altro genere, come ad esempio la conduzione di una bottega di telerie, o similmente.

La tormenta della crisi passò infine; e con la buone sementi di bachi brianzoli o bresciani o locali e la ripresa del mercato internazionale, tornarono nelle campa­gne le fatiche e le attese di sempre. 111871 potè dirsi annata normale. Nell'impegno serico Luganese e Mendrisiotto tenevano seml.'re la testa, ma in altri distretti mon­tuoS1 si guardava con interesse a quel la­voro e si pensav!r di inserirvisi. N efluglio del '71 a Cevio il presidente della Società agricola valmaggese incitava i suoi a «piantare ovunque un numero maggiore

. dì gelsi e a meglio accudire allo sviluppo del baco». La Leventina fra 1841 e 1844 aveva piantato 8.700 gelsi e Angelo Po­metta si augurava che la Valmaggia se ne desse almeno altrettanti. La bachicoltura era considerata attività perfettamente compatibile con gli impegni del campo o della stalla e poteva offrire un buon anti­doto ai flagello dell' emigrazione. V' era ancora fiducia, v' era in molti fervore. Nel '73 Ambrogio Bertoni allevava seme per bachi e lo vendeva; nell'81 l'albergatore Pasta sul Generoso ospitava cartoni di se­me per l'ibernazione, come si legge, sem­pre in Gazzetta Ticinese.

Ma in realtà si trattò degli ultimi anni fortunati che prelusero alla decadenza. Alla pebrina succedette la diaspis pentago­na che distrusse molti gelsi, e sarebbe sta­to male riparabile se altri fattori non ope­rassero ormai contro la bachicoltura, a cominciare dalla diserzione delle forze ru­rali e dallo sfavorevole evolvere della congiuntura internazionale. La concor­renza asiatica era alle porte. Nei patti agrari le clausole relative ai bachi S1 tra­mandavano per stanca consuetudine sen­za vera passlOne delle parti. Nel 1909 il distretto di Lugano contava ancora 1224 bachiacultori, ma la loro produzione pro capite non raggiungeva in media i 25 chi­logrammi di bozzoli freschi, ed era per di più in via di ulteriore contrazione. Le fi­lande del Ticino presero allora a im porta­re bozzoli dall'Italia, ma era un approvvi­gionamento difficoltoso e caro. Il feno­meno era complesso e non si può vera­mente ricostruire la vicenda finale di un settore economico tanto importante, prescindendo dallo sviluppo di altri rami produttivi che di fronte illa bachicoltura ebbero un valore, dapprima integrativo, poi concorrenziale e sostitutivo.

Sul principio degli anni Sessanta si manifestò nel Ticino il proposito di estendere il ciclo serico a quel momento della tessitura che a settentrione, specie nei cantoni tedeschi, e a mezzogiorno,

nella provincia comasca, s'era brillante­mente affermato. Nel Cantone mancava­no gli apprendisti tessili perché mancava l'industna e le autorità pensarono di for­marli nella pubblica scuola. Nel dicem­bre del '60 il Gran Consiglio stanziò i pri­mi fondi per la creazione di una Scuola modello ili tessitura e dopo laboriose trattative ne sorsero anzi due, una a Lo­carno patrocinata dalla municipalità e vi­gilata Oallo Stato, l'altra a Lugano di cui furono presidente il benemerito in~. Be­roldingen e segretario Carlo Lurati t in ar­chivio v'è qualche traccia di una posterio­re piccola scuola a Mendrisio).

Una decina di allievi era il traguardo cui la scuola di Lugano mirava, e otto-di~ ci furono i telai ch'essa ordinò a una nota fabbrica di Horgen. Il direttore cui affida­re la direzione venne trovato, i telai pre­sero a battere e i gros de Naples tessuti dagli apprendisti finivano al mercato zu­rigano.

Nel 1867 da Lugano Pasquale Veladini e Carlo Lurati lanciarono if manifesto di una Società ticinese di manifattura serica. Partivano da una premessa spesso colti­vata in quei tempi da promotori di indu­strie nuove: -Noi aboiamo feconda pro­duzione di bozzoli; ma ci mancano gli opifici di filatura; ma ci manca la fabbrica­ZlOne. Dobbiamo mandare altrove la seta per poi riceverla di nuovo ridotta stoffa, e quindi sprecar denaro in trasporti, e pa­gare un tributo di manifattura all'estero, mentre centinaia di ticinesi o si stanno colle mani alla cintola aspettando occu­pazione, o devono andar raminghi per il mondo in cerca di che campare la vita». La società invitò il pubblico a sottoscri­vere le sue azioni di nominali franchi 200, e trovò consensi nel 'paese. ma il suo pro­posito di creare un'1Odustria serica a ca­rattere semirurale, portando i telai al do­micilio dei contadini o nelle abitazioni di liberi artigiani inurbati (secondo il gran­de esempio di Lione O quello, minore ma pure importante, di Como) giungeva a air poco tardiva. Il mondo dell'industria cercava ormai nuove strutture. La tessitu­ra, anche del ramo seri co, era avviata ver­so il lavoro meccanizzato e di opificio, co­me insegnava l'antesignano cotonificio inglese, e come nell'Europa continentale più avanzata già si poteva avvertire.

Il lavoro diI. SCHNEIDERFRANKEN,Lenr dustrie nel Cantone Ticino, Bellinzona 1937, offre Jl migliore orientamento per abbondanza di riferi' menti e ricca, precisa bil>liografìa. Si vedano, po~ sibilmente, i giornali dell'epoca. Sulle scuole di tessitura, piccolo fondo in Archivio Cantonale, Bellinzona, Industrie ecc., cart. 1.

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TI «nuovo indirizzo» e la Legge scolastica Pedrazzini

I liberali-conservatori, conquistata la maggioranza nelle elezioni granconsiglia­ri del 21 febbraio 1875, comfletarono la loro vittoria due anni dopo, i 19 gennaio 1877, nelle anticipate nuove elezioni del Gran Consiglio cui spettava la nomina del nuovo governo. Esso lo elesse com­posto di consiglieri tutti dello stesso par­tito.

Obiettivo primario del «nuovo indi­rizzo» del partito, che il suo leader, Gioacchino Respini, voleva fosse rigida­mente e integralmente a base confessio­nale, fu quello di cancellate dagli ordina­menti e dalle leggi quanto riteneva che i liberali-radicali, al potere nei 35 anni pre­cedenti, avessero promosso e stabilito a danno dei diritti della Chiesa e del suo clero, e a offesa e impedimento di una li­bera, pubblica manifestazione e inciden­za, soprattutto in materia scolastica, del sentimento e dei convincimenti religiosi del popolo: dei contadini e dei piccoli borghesi delle valli e delle campagne, specialmente, che avevano infoltito i suoi ranghi.

Si trattò di un'azione innovatrice e ri­vendicatrice proposta e imposta in una lotta combattuta, a seconda dell'indole e della statura morale e intellettuale dei contendenti in ambedue i campi, con no­bile passione e meno nobile accanimento e anche vendicatrice ira. E anche questa nostra particolare vicenda sarà intesa se vista in relazione con avvenimenti e lotte che contempoaneamente si svolgevano a livello confederale e europeo, perché da essi culturalmente condiiionata. Erano gli anni in Italia del Concilio Vaticano I, della proclamazione dell'infallibilità pon­tificia, della presa di Roma e soppressio­ne dello Stato pontificio, ultimi ili Pio IX e iniziali del pontificato di Leone XIII, del non expedit per i cattolici, cioè del loro impedimento, da parte dell'autorità ec­clesiastica, ad essere eletti o elettori, au­toisolati quindi, in una specie di apart­haid, nel giovane stato unitario liberale, respinto come creazione estranea ai valo­ri della religione; erano gli anni nei canto­ni confederati e nell' area germanica, del Kulturkampf, della lotta della «cultura» per il progresso scientifico, materiale e sociale contro il retrogrado «oscuranti­smo" religioso; gli anni in cui in Francia Jules Ferry faceva votare le leggi scolasti­che che soppressero l'insegnamento reli­gioso nelle scuole dello Stato.

Nell'ambito scolastico il «nuovo indi­rizzo" attuò un riordinamento degli stu­di con la Legge scolastica 14 maggio 1879 -4 maggio 1882. Essa sostituiva la legge scolastica dellO dicembre 1864 e fu chia­mata Legge scolastica Pedrazzini dal nome del consigliere di Stato, capo del diparti-

mento della pubblica educazione, che la studiò, difese e fece approvare in parla­mento.

Martino Pedrazzini, originario di Campo Valle Maggia, nato a Locarno nel 1843, imparentato con emergenti fami­glie borghesi cittadine (la madre era una Franzoni e la moglie una Bacilieri), fu personalità di spicco nella classe dirigen­te del paese. Compì gli studi ginnasiali e liceali dal 1854 al 1861 nel Regio Collegio Convito S. Maria degli Angeli dei radri Barnabiti di Monza, meritandosi i pre­mio dell'«effigie», cioè del ritratto a olio esposto nella galleria. Gli furono compa­gni di studi in quel collegio assai frequen­tato da ticinesi, il fratello Alberto e il cu­gino Giovanni e i fratelli Francesco e Fe-

. derico Balli. Fu in seguito due anni all'università di Pisa e altri due all'univer­sità di Torino dove nel 1865 si addottorò in diritto. Dal 1873 al 1890 fu consigliere nazionale; dal 1890 al 1917 fu docente di diritto pubblico e diritto ecclesiastico all'università di Friburgo.

Nel governo cantonale fu capo della pubblica educazione dal 1877 al 1884 conservandone in seguito la supplenza. Come direttore della giustizia e del culto portò a termine la soluzione della que­stione diocesana e confezionò la legge sulla libertà della Chiesa. Un notabile della destra moderata che per forma men­tis e per qualità d'animo sensibile e conci­liante pur nella fermezza dei suoi convin­cimenti religiosi e politici fu agli antipodi dell' autoritario, intransigente, dottrina­rio Gioacchino Respini, col quale si tro­vò perciò più volte in aperto contrasto: sigriificativo quello sulla questione della proporzionale che Pedrazzini auspicò an­che con una mozione al Consiglio nazio­nale, persuaso che andava abbandonato il sistema maggioritario !>er il quale il parti­to vittorioso per un mlnimo di voti si at­tribuiva uno strapotere.

In quale situazione socio-scolastica il legislatore dovette intervenire risulta dal Messaggio governativo del 23 settembre

. 1878. La frequenza della scuola elementa­re non era ancora in tutti i comuni del tutto soddisfacente. Pochi anni prima, nel '72, il rapporto della commlssione della gestione aveva segnalato che" 2994 allievi non avrebbero frequentato scuola alcuna nel cantone, dei quali però solo 905 senza alcuna giustificazione»! Ora, una spiegazione di questa situazione il ci­tato Messaggio la dava scrivendo che« so­venti volte il padre e la madre di famiglia trovano un grande aiuto nelle piccole fa­tiche dei loro teneri figli, le quali fatiche, quando mancano, cagionano non legge­ro inconveniente nel governo della casa»; e addirittura oltre spiegare, il Messaggio sembra giustificare quando sentenzia che «lo Stato . .. non può né deve dimenticare che se il cibo della scienza è loro necessa­rio per il tempo futuro, il cibo materiale è

loro indispensabile per il presente». La scuola veramente dell'obbhgo era per lo­ro solo quella del duro lavoro nei campi! E stando coslle cose il problema non era di certo risolvibile con mezzi e accorgi­menti solo scolastici, ma attraverso una promozione socio economica di quegli «umili»! Il legislatore nel suo Messaggio intravedeva il rimedio a questo stato di cose, «primo, col lasciare che il padre ili famiglia, dove può farlo, scelga egli stes­so il maestro del suo figliuolo; secondo, coll'ordinare l'insegnamento primario in guisa, che nulla contenga, oltre ciò che più propriamente si può chiamare neces­sario nella vita comune».

Con il primo rimedio indirettamente si diceva che oltre il bisogno anche la sfi­ducia del genitore verso il docente e la qualità del suo insegnamento spiegava le negligenze lamentate, per la qUal. cosa -diceva esplicitamente il Messaggio - be­ne avevano fatto i consiglieri a «inaugura­re nel nostro paese la libertà insegnati­va", cioè la libertà di insegnamento che il nuovo governo, senza indugio, in un ro­vesciamento singolare delle parti, aveva con suo messaggio del 12 aprile 1877 pro­posto e con nuova legge del 18 marzo 1877 fatto votare in Gran Consiglio: leg­ge aspramente combattuta dai radicali ri­tenendo che a valerIa non fosse nei pro­p'onenti un maturato senso di tolleranza, ti concetto che la libertà è indivisi bile e perciò si deve rispettare la libertà di chi la pensa diversamente fino a concedergli, nei limiti generali di determinate necessi­tà della comunità statale, di organizzare

L'!J!/t IlIlIa i,';/ui"", (Ii II/la Sello/a J/ogi",.', CII/llu",,(,.

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IL GnA~ CO:\S!GUO "':I.U IUl'I'UC.\ .: CA!'tTO~E D~L TtclNO

sullll proposla IH:I. COXSlliLIO DI STATO

• .-eprl.1 Ari. I. \',ene i~l iluil . IIna Scnnla ~1~gi~lr~le canllln.l~

.. II .. scopo di pronttlcre di bnoni mJe$lri le scuole rlcl r .. lIllon~.

-'t'I. ~. A 'l"e~la Acuola sono ammo~i: l' I Dlae~lri e le mae~lre clellienlal'i minori ;ltenu

r"Jui:lHi IC;;3Ii. 2" Cllioro che a$pir~no ali" c~rica ,Ii maeAlru, purd,,;:

a) Abbiano COlllpilO l'ela ,li 15 anni e non ullre­passino i 30, cd abbiano lenula rCRolare condolla;

~) Presenlino un 1l1e$lalo ,Ii aver compilO COli

buon "Iccesso un cllr..o prepar.lnrio Ginnasiale, o 'I"dlo di UII:l 5cuol:l l1)a~~i(lre.

f. ~aranno I,,,rp. lmmcs$i '1,,"'li chu aves:<ero tre­Iluentili' J:òliluli dO i:òlrtlziont! lltJCOllfl:ari:l pri~~i ud Cl"ltri, . VU"ch~ superino l'<·$,,,n. Ili .mllli.sione.

ArI. :I. Gli gllllii .Iella SCllu1.1 )I.,~islr.le ~i CORlI'iolt\l in dUd c\Jui annuali IH no\"t~ Ine:si ciascuno. •

1\ l'l'imo anflO i: ."eci"lmcnle ,·on:l.1cral0 alI' 1lnl' li,,­liooc e l'crrezioll,,,nuolo delle clI~nilioni ,Ielle malerie propri.. delle Acuolu l'rim,rie, in ~nisa cho in esse Sii :01-licI'i r"~giung .. no il gradII d' blrllzione corrisilondallle al .\" ~!ll,n ,Ielle scuole ~innasi.1i iruluslri"li.

II Acconolo ~pcci,lImunlu allo sln.lio dclla l'e.lagogia o llel,,~ic.\ General~ ~ Il>eciale. ~d ~II' e!~rcilio l'rM;';').

l'er am~iLlue i co .. i s3r1 illlparlilo un iu~eGnaRlenlo leorico-pralico di agronomia e silvicollura.

Ari. 4. Quando si prc~enla"sero atliuI'i, che dagli ciaGli 43

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un' educazione conforme ai suoi ideali specifici, ma solo un calcolo in vista di propri vantaggi sopraffattori. Scriverà Alfiedo Pioda ammettendo e insieme dissentendo: «La libertà di insegnamento è certo una libertà e si deve riconoscere che in teOria segna un progresso; ma i conservatori non ci scapltavano nulla ad accordarla, dacché miravano appunto ad arrire il varco ad alcune corporazioni reli­gIOse insegnanti, le quali mIsero poi salda radice nel Ticino». Comunque fosse, il solo rimedio di poter far capo a un altro docente, praticamente la liDera scelta tra insegnante pubblico e privato, non pote­va bastare e poteva anche sapere di abdi­cazione. E la nuova legge perciò suggeri­va con il secondo rimedio di meglio com­misurare l'estensione dell' insegnamento primario alle facoltà intellettive dei ragaz­zi, ciò che era certamente un saggio crite­rio didattico, e proponeva inoltre di sud­dividere le materie da apprendere in due categorie: materie obbligatorie e materie facoltative «che dovranno essere svolte, se non allorquando la conoscenza delle prime potrà ilirsi accertata nella intiera scolaresca": un procedimento che poteva anche favorire, pigrizia e inerzia collabo­rando, un livellamento in basso degli stu­di, specialmente quando la durata del­l'anno scolastico, per circostanze speciali, poteva essere ridotto a « sei mesi intieri» ! Ed era circostanza che non doveva dispia­cere ai comuni che mal volentieri si sot­toponevano ai sacrifici per l'istruzione. Af punto che, trattando aegli stipendi, il nostro Messaggio pubblicamente denun­ciava che «alcuni comuni a danno dei ri­spettivi docenti, al mezzo di contratti subdoli, rei quali, mentre all'ispettore ed al Diparttmento dellaPubblicanducazio­ne, da un contratto ufficiale risulta osse­quiata la legge sull' onorario dei maestri, i docenti stessi, jugolati, per cos1 dire, da altra convenzione, le più volte verbale, o loro carpita in forma ili lettera o di simu­lata donazione, vengono effettivamente a ricevere una mercede che la legge non consente". Perciò provvidamente la leg­ge Pedrazzini stabiliva una più efficace sorveglianza del settore primario e inno­vatrice fu la nomina di «un ispettore-ca­l'o generale per tutte le scuore primarie del Cantone" con sede presso ir diparti­mento e con mansioni dì direttore tecni­co, coadiuvato da 22 ispettori di circon­dario. Il discorso sul settore primario po­trebbe qui agganciarsi a quello sulla for­mazione dei maestri nelle nuove scuole Normali allora trasferite da Pollegic a 10-carno; ma di ciò si parla in un altro con­tributo della Cartella.

Con la denominazione di «istruzione secondaria» la nuova legge comprendeva ~ eliminando il grado di «superIore» -le scuole maggiori, di disegno, il ginnasio, le tecniche e il Liceo cantonale. Le inno-

44 vazioni che la legge recava concernevano

innanzi tutto i ginnasi la cui frequenza e livello di studi, secondo la testimonianza di rapporti e circolari, offrivano motivo di preoccupazione e d'allarme; l'iniziale slancio di quelle scuole era evidentemen­te, a un ventennio di distanza, caduto. Nel 1874 una Commissione speciale composta da Romeo Manzoni, LUIgi Co­lombi e Giuseppe Curti aveva steso una relazione dalla quale risultava - scrive Giovanni Ferrari nella sua Cronaca del Li­ceo-Ginnasio di Lugano - «una diversa e generale deficiente preparazione .degli al­lievi che passavano al Liceo ... si suggeri­va di impedire l'ammissione al Ginnasio di ragazzi impreparati e di non permette­re di saltare le classi, come pure il passag­gio al Liceo di allievi che non avessero compito regolarmente i corsi ginnasia­li ... » . Ma ancora, e non par vero, nel 1879 una circolare del Dipartimento del­la P.E. «ai signori Direttori e Professori dei Ginnasi, Ispettori scolastici, e Docen­ti delle scuole elementari maggiori» co­statava: «Accade soventi che si ricevano alle scuole secondarie allievi, i quali non sono peranco arrivati a quel grado di istruzione che è necessario per poterle freCJ.uentare con profitto. Talvolta sono i gerutori che, male consigliati, fanno istanza per ottenere cotali precoci am­missioru, e non sanno di quanto danno le possono tornare ai loro figli; imperro­ché, in quella guisa che uno stomaco de­bole si rIfiuta a ben digerire un cibo trop­po sostanzioso, cos1 ad una mente cIie non ha conseguito sviluppo proporzio­nale riesce difficile trarre vantaggio da un insegnamento che progredisca per salti. Talora sono le Autorità comunali che af­fine di liberarsi dalla necessità di aprire nuove scuole elementari, favoriscono le dette ammissioni, dopo avere facilitato arbitrariamente il congedo dall'insegna­mento primario. Infine i docenti stessi delle scuole secondarie hanno qualche volta la loro parte di colpa, sia pel aeside­rio di insegnare a più numeroSI discepoli, sia per ovviare al pericolo di una eventua­le soppressione della scuola che dirigo­no ... ».

Dal Rapporto della Commissione della ge­stione sull'amministrazione 1875, ramo Edu­cazione Pubblica apprendiamo che il corso letterario era stato frequentato in quell'anno: nel Ginnasio di Lugano da 8 studenti e 4 uditori; nel Ginnasio di Mendrisio da 12 studenti; nel Ginnasio di 1ocarno da 2 soli studenti e 2 uditori; nel Ginnasio di Bellinzona da 1 solo stu­dente. In complesso dunque 23 studenti e 6 uditori in tutto il Cantone; quel rap­porto indica anche le spese sproporzio­nate sopportate dallo Stato! Per il Liceo, il medesimo rapporto, pur costatando buoni risultati, diceva che «riesce però sconfortante prendendo alla mano la ta­bella officiale, dalla quale risulta che solo 14 furono li studenti del corso filosofico,

con 4 uditori, e 12 studenti del corso di architettura, con 1 uditore»!

In questa situazione, o più giustamen­te ci sembra dire adeguandosi se non ada· giandosi a una tale situazione, il Messag' gio governativo proponeva inizialmente l'istituzione di un soro Ginnasio con sed( a Lugano «sufficiente ai bisogni del Can­tone"; affermazione, quest'ultima, certa­mente sbagliata se si pensa ai numerosi giovani ticinesi che continuavano a diser' tare la scuola pubblica scaduta nella stio ma, privilegiando gli studi nei collegi pri· vati. Nell'argomentazione che accompa: gnava tale riduttiva proposta, troviamc la chiara indiretta ammtssione che così proponendo si intendeva favorire quelle scuole private; e ci sembra oltre il decoro so per 10 Stato e anche l'utile reciproce delle due scuole, se, come lo stesso Marci no Pedrazzini dichiarerà in Gran Consi glio, «i privati istituti per necessità deb bono avere di fronte istituti pubblici on de sorga la gara e l'emulazione". Ne Messaggio leggiamo: «Deve osservars ancora, come fiorenti istituti privati, il cui si impartisce il detto insegnamento trovandosi anche fuori di Lugano, si pui credere che quei giovanetti, i <J.uali nOI potessero frequentare il GinnasIO canto nale per un qualsiasi motivo, non peri mancneranno di altri facili mezzi per rice vere l'istruzione classica altrove". FaciJ però, nella pratica, solo per i figli delle fa miglie più agiate.

Inizialmente era stata intenzione de governo di istituire pure una sola scuoL tecnica per tutto il Cantone; ora il Mes saggio proponeva di «concentrare alme

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no in due sole località» quel tipo di scuo­la. Nelle commissioni e 10 Gran Consig­lio furono vivamente combattute le pro­poste governative, anche appellandosi al­la famosa legge del 28 maggio 1852, per la quale era fatto obbligo allo Stato dì isti­tuire, nelle località in cui erano sorti gli istituti religiosi soppressi, una propria pubblica scuola tecruco ginnasiale. E per una volta non eran solo ragioni di campa­nilismo, ma di diffusione di cultura che desse più largamente ai più un minimo vitale lOtellettuale. Il consigliere di Stato liberale-conservatore, Ermenegildo Ros­si, padre dello storico Giulio, dissentlli­beramente dal ragiqnamento dei suoi colleghi di governo, dicendo con efficace immagine che esso era «contradditorio, qualche cosa come se si dicesse: il popolo è travagliato da epidemie: sopprimansi le farmacie e le condotte mediche e se ne mettano due sole, una pel sopra, l'altra pel sotto Ceneri».

Il dibattito portò alla soluzione di isti­tuire a Lugano un Ginnasio e, separata, una Scuola tecnica; a Bellinzona, Locarno e Mendrisio una Scuola Tecnica con ag­giunta una sezione letteraria, alla condi­zione che il numero dei latinisti fosse al­meno di sei. La durata del corso era stabi­lita di quattro anni, ma sarà portata l'an­no seguente a cinque, con la riduzione a un anno del corso preparatorio. Per l'am­missione l'allievo doveva aver compiuto i nove anni, assolto la scuola elementare e pagato la tassa annua di venti franchi. La tassa di ammissione al Liceo era di qua­ranta franchi.

È interessante osservare che l'espres­sione «scuole tecniche» era nuova e sosti­tuiva quella precedente di «scuole indu­striali ,.; e anche al Liceo il "corso di archi­tettura e di agrimensura» veniva ora chia­mato per la prima volta "corso tecnico»; si passava cosl da una dizione che allude­va chiaramente alla funzione più pratica di quei corsi come preparazione profes­sionale, a un' altra che voleva meglio con­notarli come iter scolastico verso ulterio­ri studi politecnici. E il grado, la «valen­za» di questi studi tecnici era pure dalla nuova legge indicato nell'ordine loro sta­bilito negli elenchi delle materie nei pro­grammi e negli attestati; scriveva tra lo scandalizzato e il mortificato, il direttore Ferri: «si doveva incominciare colla reli­gione poi colle lettere, ultime le scienze».

Nell'ambito dei programmi la legge innovava con l'introduzione nel Ginna­sio di Lugano e nel corso filosofico del Li­ceo dell'insegnamento del greco accanto a un più intensificato studio del latino e dell'italiano. Nelle sezioni letterarie di Bellinzona, Locarno e Mendrisio si inse­gnava solo il latino, senza per questo pre­cludere agli allievi la contlOuazione degli studi al Liceo. Era con ciò manifesto l'in­dirizzo classico che si voleva dare ai corsi secondari e, implicitamente, la preferen-

za per una pedagogia dell'umanità rispet­to a quella della nazionalità: una pedago­gia, la prima, più resistente alle tentazio­ni innovatrici. Trovava consenso questo indirizzo anche in consiglieri dell' oppo­sto partito; così il consigliere Airoldi fa­ceva retoricamente «eco agli eccitamenti della Commissione perché si cerchi il mezzo di far rifiorire gli studi classici; la decadenza di questi studi è forse una delle non ultime cause J?erché nei tempi nostri non si incontra P1Ù quella vigoria di ca­rattere e nobiltà dei sentimenti che istilla la conoscenza della storia antica e fa ap­prezzare tanto le gloriose gesta di Atene e di Sparta». Per meglio tendere a quel­l'ideale educativo, la legge sanciva nel Li­ceo e nel Ginnasio il principio della sepa­razione dei due corSl; e perché ciò com­portava per le fragili finanze dello Stato un onere maggiore, nel Messaggio si af­fermava «che se il vantaggio della J?Opola­zione, in confronto al numero del giova­ni che profitteranno di codesto sistema, non sarà forse proporzionato al sacrificio, né il lod. Gran Consiglio né il Consiglio di Stato non possono dimenticare che il Cantone Ticino deve alla sua dignità ed al suo onore d'aver un istituto di studi let­terari, per quanto è fattibile, perfetto».

Con quell'indirizzo degli studi si vole­va anche soddisfare un sentimento e una volontà assai sensibili in quegli uomini conservatori federalisti, che volevano conservata l'individualità etnica latina della nostra gente; un sentimento che dettò il 14 giugno 1882 a Gioacchino Re­spini il fiero discorso sul «balivo scolasti­co» al Consiglio degli Stati. Purtroppo, questo culto delle humaniores litterae non lasciava più spazio nel curriculum scolastico del Ginnasio al tedesco, e in quello del corso filosofico del Liceo al francese e al tedesco.

Non era ancora maturato il concetto, né lo poteva ancora, che pure lo studio delle lingue moderne, come del resto an­che quello di tutte le materie scientifiche, doveva e deve contribuire alla difesa della nostra etnicità: ne corregge semmai i di­fetti retorici, le assicura lo spazio vitale nelle attività economiche, professionali, civili e politiche della vita comunitaria cantonafe e federale.

Se senza francese e tedesco i nostri gio­vani che si recavano negli Atenei italiani potevano ugualmente continuare gli stu­ai, non lo potevano fare quelli intenzio­nati a proseguirli oltralpe nelle università e al Politecnico. Al Politec~co appunto l'ammissione e la frequenza era riuscita difficile negli anni precedenti Eer carenze linguistiche e anche scient1fiche; per giunta, proprio nel 1880 era stato sop­presso a Zurigo il corso preparatorio do­ve per un anno gli allievi della Svizzera romanda e italiana ricevevano l'insegna­mento della matematica e della fisica nel­la lingua francese. All' ono ing. Fulgenzio

Bonzanigo che lo interpellava in merito a quella soppressione, nella seduta gran­consigliare del 25 aprile 1882, l'ono Marti­no Pedrazzini rispondeva testualmente con amara stringatezza: «Noi siamo un piccolo Cantone di cui pochi si curano là dentro e quindi quando venne soppresso il corso preparatorio al Politecnico di Zu­rigo non fummo consultati. Il Consiglio scolastico del Politecnico modificò il re­golamento, il Consiglio federale appose la sua approvazione, senza interpeIlarci sull'opportunità del provvedimento; ec­co in quali termini sta la cosa». Il Diparti­mento curò la soluzione di questo nodo scolastico ampliando con la nuova legge scolastica il programma delle matemati­che con la geometria analitica e descritti­va nel corso tecnico. Finalmente, miglio­rato l'insegnamento del tedesco e della chimica, dopo ripetute visite di delegati del Politecruco, nel18B8 fu stipulata una convenzione tra il Dipartimento della P.E. e il Politecnico federale per l'ammis­sione degli allievi del corso tecnico del nostro Liceo a quella scuola federale. Gli allievi del corsoletterario mancante della geometria analitica e descrittiva e del te­desco dovevano sostenere in quelle mate­rie un esame integrativo.

La nuova legge, conformemente a quanto avevan fatto o faranno in quel decennio cantoni confederati, sopprime­va l'istituzione dei cadetti, sostituendola con la ginnastica, con la motivazione che «reclute le quali avevano frequentato gli Istituti secondari, e quindi la scuola dei cadetti, di ben poco si mostravano ordi­nariamente più avanzate nell'arte di fare il soldato, di quello che apparissero gio­vanetti, i quali non avevano mai frequen­tato questa scuola»; e il Messaggio Sl per­mette anche un'osservazione crltica all'indirizzo del militarismo che «nel no­stro paese ha anche troppo, a nostro mo­do di vedere, sorpassato il limite entro il quale nella piccola Re,Pubblica elvetica esso avrebbe dovuto nmanere».

Altra innovazione ancora era l'intro­duzione nelle scuole secondarie del can­to, e allude a una sua singolare applicazio­ne didattica l'osservazione de Messag­gio: "Questo insegnamento, oltreché proprio ad ingentilire gli animi, ci è parso 10 qualche modo inseparabile dalla gin­nastica»! Nell'elenco delle materie i due insegnamenti figuravano infatti appaiati.

Ma la novità più vistosa del nuovo in­dirizzo scolastico fu l'insegnamento reli­gioso che la legge precedente del 1864 li­mitava alle sole scuole elementari, men­tre la nuova legge, nell' anno scolastico 1879-80, estendeva, sotto la sorveglianza dell' autorità ecclesiastica, a ogni grado e ordine di scuole: in tutte le scuole secon­darie, Liceo compreso. In osservanza del­la Costituzione federale (art. 27 e art. 49) i genitori·o i tutori per gli scolari al di sot-to dei sedici anni, o gli scolari stessi, rag- 45

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giunto il sedicesimo anno, ne potevano chiedere la dispensa. Non c'è dubbio che il paese nella sua stragrande maggioran­za, non solo popolare, voleva quell'inse­gnamento; irifatti, nel 1880 su 1206 allie­vi di dette scuole 25 soltanto chiesero di essere dispensati dai corsi di religione; nel 1881 su 2222 solo 19. Naturalmente, quel che conta era la motivazione, e noi crediamo che essa era, nei più, quella stes­sa espressa nel Messaggio: «Noi siamo profondamente convinti, che se ci ha un'età nella quale lo studio della religio­ne è necessario, questa è l'età in cui i gio­vani sono chiamati a frequentare gli studi secondari. In questa età, più che in altre, le passioni esercitano il loro fascino; in questa età i dubbi più pericolosi comin­ciano a sorgere, e il pane di una scienza incompleta, appena assaporato, senza la guida della fede può mutarsi in veleno ...

. .. Se fossimo chiamati a diffusamente trattare della opportunità dell'insegna­mento religioso nelle Scuole nei p'resenti tempi, lieve compito ci sarebbe 11 dimo­strare, come non sia più soltanto dalla Chiesa che lo si propugni, come argine allo irrompere de1le più malvagie e anti­sociali tendenze; ma e dai miscredenti stessi, inorriditi degli effetti che vien pro­ducendo l'educazione che ha fatto divor­zio da Dio; e dagli uomini di Stato di Ber­lino e di Pietroburgo, spaventati dalle ri­velazioni degli uomini dell' anarchia e del petrolio». Era, questa, una motivazione che assegnava a quell'insegnamento con troppa sicurezza e parzialità una funzione di remora, di deterrente a salvaguardia della tranquillità di un ordine politico so­ciale ritenuto situato dalla parte buona della barricata; a sua protezione dall'«ir­rompere delle più malvagie e antisociali tendenze" che eran }?oi le gravi questioni sociali, i primi mon del socialismo, per cui in quello stesso anno del Messaggio,

il 1878, Bismarck (lui stava dietro l'e­spressione «gli uomini di Berlino»), atte­nuando il suo Kulturkampf, vedendo nel socialismo una minaccia maggiore del cattolicesimo, aveva aperto i negoziati con il nuovo Papa, leone XIII, e solleci­tato l'aiuto del partito di centro.

Non era forse, dunque, più che un giu­sto e auspicabile voler coniugare.il v: an­gelo con le culture umane, un arnschiare com}?romissioni degradanti a ideologia polinea, a strumento dialettico e provvi­sorio della storia, una Parola metastorica e sopratemporale? Ma a parte questa fun­zione, quell'insegnamento - e in quella concreta situazione storica e culturale dei cattolici non poteva essere diversamente - era per riuscire un luogo di catechesi parrocchiale, di azione pastorale per il dominio spirituale di «fedeli», ciò che era incompatibile con una visione laica della scuola. Si capisce quindi l'opposizione che quell'ordinamento incontrò in uomi­ni che la loro formazione professionale, il positivismo della loro cultura, nonché il prestigio delle numerosissime scoperte e applicazioni scientifiche e tecniche di quegli anni, avevano fatti orgogliosi e persuasi che all'umanità fossero ormai ri­servate inarrestabili magnifiche sorti pro­gressive; nell'illusione che bastasse in­somma quanto era emblematizzato nel binomio ISCritto sulla bandiera del patrio Liceo.

E tanto più forte e scandalizzata fu l'opposizione quanto troppo spesso con nomine, destituzioni, provvedimenti am­ministrativi e con il regolamento di ap­plicazione della nuova legge del 4 ottobre 1879, la volontà politica di imporre il proprio indirizzo fu anche più e meglio maiiifesta nei modi e nello spirito esclusi­vistici. Fu così, per esempio, con la nomi­na a direttore del Liceo ili don Giovanni Manera (Cadro 1832 - Lugano 1895) del

46 Locarno, cortile interno della Scuola Magistrale

cui modo di istallarvisi, «facendo sgom­brare l'aula di fisica e gli annessi gabinet­ti», Giovanni Ferri nella sua Cronaca ci ha lasciato un l'ungente ritratto; e cos1 pure con la nomma a docente di filosofia e sto­ria nel Liceo del ventisettenne sacerdote Giov. Battista Gianola (Bissone 1850 -Massagno 1914, redattore fino al 1896 del Credente Cattolico, autore di Antonio Rosmi­ni e la Sacra Congregazione dell'Indice, Lu­gano 1881) la cui prolusione, Dio al co­spetto della filosofia, riuscì un discorso apo­[ogetico, perentorio e manicheo; più che svolgimento con vero metodo scientifico di domande filosofiche, una lista di errori da una parte e un elenco dall'altra di testi­monianze di «sentimenti religiosi» pro­posti come risposte filosofiche ai giovani ili un'età «la cui caratteristica, noI dissi­mulerò, è la più cinica e schifosa incredu­lità». Un male, certo, non credere a nulla, ma' altrettanto lo è un possesso tropp'o anticipato di sicure risposte indiscutiblli, perché allora non rimane più spazio a un costruttivo dubbio filosofico e, quel che più conta, a una convivenza civile nel confronto insieme divergente e conver­gente com'è nella dialettica di ogni vero progresso.

G. Ferri, Cronaca del Liceo-Ginnasio di Lugano, Arti Grafiche già Veladini, Lugano 1920.

A. Galli, Notizie sul Cantone Ticino, LEI. Luga­no-Bellinzona 1937.

G.B. Gianola, Discorso pronunciato il 12 novembre 1877, Tipolitografia cantonale, s.d.

E Rossi, Storia de/la scuola ticinese, Grassi, Bellin­zona 1959.

A. Pioda, La Repubblica Ticinese in E Pedrotta, AlfretUi Pioda (con scritti iruditi), Salvioni, Bellinzo­na 1935.

e Trezzini, Manino Pedrazzini, Società Storica Locarnese, Locarno 1967.

Atti del Gran Consiglio, Conti Resi del es., Fogli Officiali.

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L'istituzione della Scuola Magistrale

1) La situazione della scuola elementare all'inizio degli anni settanta

La tempestività con cui il nostro neo­nato cantone si dota, già il4 giugno 1804, di una prima legge scolastica rivela che gualche politico era pur sensibile al pro­Elema dell' educazione popolare, ma la genericità delle disposizioni tradisce an­che una diffusa scarsa volontà di realizza­zione concreta.

La legge stabiliva infatti che «In ogni comune vi sarà una scuola. In essa si inse­gnerà almeno a leggere, scrivere ed i prin­cipi d'aritmetica», senza tuttavia prevede­re forme di intervento in aiuto almeno delle comunità più piccole e povere, né fissare una durata mInima dell' anno sco­lastico e della scolarità, né dare qualche indicazione sui requisiti per essere am­messi all'insegnamento.

I;inevitabile conseguenza fu che le tu­multuose vicende del periodo napoleoni­co e la diffidenza del regime quadriano verso la diffusione dell'istruzione popo­lare resero quasi inoperante la legge fino allarigenerazione def '30, quando l'art. 13 della costituzione riformata introdusse il concetto che «La legge provvederà solle­citamente per la pubblica istruzione".

Legge cIie fu infatti tempestivamente varata dal D'Alberti (nel '31, ed il corri­spondente regolamento nel '32); tutta­VIa, benché 0pf>ortunamente artIcolata, essa risultò timiaa nelle esigenze ed evasi­va nelle disposizioni riguardanti la quali­tà dell'insegnamento, forse perché trop­po preoccupata di salvaguarClare le posi­zioni acquisite soprattutto dal personale insegnante ecclesIastico.

E ancor più carente fu la volontà poli­tica di realizzare almeno i suoi moaesti obiettivi, tanto che il Franscini (nel 1837, in La Svizzera italiana) constatava amara­mente che "quasi tutto per altro rimane ancora sulla carta senza pur un comincia­mento di esecuzione».

li periodo dal '37 al '48, col Franscini ConSIgliere di stato e presidente della Commissione della pubblica istruzione, è il primo nella vita ael cantone contras­segnato da un reale sforzo di realizzazio­ne della scuola elementare: chiare norme (con circolari, decreti ed i regolamenti del 42/43) di impianto, di frequenza, di struttura, di contenuti di insegnamento e di sorveglianza, sorrette da provvedi­menti per il miglioramento della prepa­razione dei maestri (con l'introduzione di corsi di metodo) e per l'adozione di qualche testo didatticamente idoneo.

Ma la partenza del Franscini, eletto nel '48 in Consiglio federale, pur non isteri­lendo del tutto il buon seme della sua sol­lecitudine, segna l'inizio di unasostanzia-

.. . ~"

le battuta d'arresto nel potenziamento della scuola elementare, SIa per difficoltà di bilancio sia per la prioritaria attenzio­ne dei politici all'istituzione di una scuola secondaria statale.

Solo la legge del 1864 porta qualche miglioramento nel settore della scuola primaria; ma il Conto-reso del Consiglio di Stato per l'anno 1871 al ramo pubblica educazione traccia tuttavia un quadro, men stringato del solito e molto elo­quente, di non superate difficoltà che la realtà del çantone ancora frapponeva ad un ' soddisfacente impianto della scuola elementare "minore».

V al la pena di commentarlo.

a) Frequenza insufficiente

Il citato rapporto quantifica la sensibi­le diminuzione dei «mancati» (cioè non iscritti) senza giustificazioni. In effetti es­si sono solo 328 su un totale di 19'405 «attenuti», cioè meno del 2%. Un miglio­ramento indiscutibile nei confronti an­che solo di dieci anni prima, quando i «mancati,. abusivamente erano stati anco­ra ben 1'078 su· 19'040 «attenuti»; in buo­na parte ragazze, che nella proporzione di almeno l su 8 venivano tenute a casa da genitori persuasi che il leggere, lo scrive­re e il far di conto fosse un lusso super­fluo per le donne.

Miglioramento ancor più radicale, se raffrontato con la situazione della genera­zione precedente, quando il Franscini (nel 1837, sulla base del primo rileva­mento statistico da lui ordinato) doveva amaramente annotare che non più di 1 ra-

gazza su lO in età scolastica frequentava realmente le elementari!

Tuttavia il quadro dell'inizio degli an­ni settanta è assai men roseo di quel che non sembrino indicare le cifre, se si pon mente che: - la regolarità di frequenza durante l'an­

no è molto insoddisfacente, special­mente quella degli allievi più grandi­celli nei periodi di inizio e conclusione dei lavori agricoli;

- ogni maestro insegna di regola a 40 e più. allievi ~ tutte le cl~si riunite; i.n­fattI anche la dove, per il numero, SI è operato uno sdoppiamento, i comuni preferiscono separare i maschi dalle femmine, piuttosto che le classi infe­riori da quelle superiori;

- l'anno scolastico è troppo breve (tan­to che, annota il citato rapporto, «le lunghe vacanze, se non cancellano af­fatto le impressioni ricevute alla scuo­la, le affievoliscono talmente, da ren­dere necessario l'impiego d'una metà del nuovo anno scolastico per riap­prendere ciò che si è perduto,.); m quasi metà dei comuni la durata della scuola è di soli 6 mesi e solo un terzo del totale delle classi raggiunge la du­rata ottimale di lO mesi;

- le aule scolastiche, benché di molto migliori di quelle descritte dal Fransci-ni poco più ili 30 anni prima (senza ta­vola nera, né banchi; con solo un tavo­Ione a cui trovava posto sì e no un quinto degli allievi e «intanto gli altri aspettavano che finisse l'anno e che quei primi lasciassero vacuo il po- 47

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sto»), mancavano ancora di adeguati sussldi didattici e di libri per la lettura individuale. Il Conto-reso non dice poi, forse per­

ché sottinteso, che il risultato della situa­zione testé descritta era l'impressionante dimensione del fenomeno dell' analfabe­tismo di ritorno (specie nelle donne, co­me fan fede le numerose croci apposte a mo' di firma sugli atti di matrimonio), cui non rappresentavano efficace rimedio le «scuole di ripetizione» serali e festive, introdotte dalla legge del '64, ma rimaste poche a causa della «indifferenza delle Autorità locali e la deficienza di assegni speciali sull'erario dello stato».

b) Maestri mal preparati e peggio pagati

La legge del 1864 fissa per i maestri uno stipendio annuo da fr. 300 (eccezio­nalmente, nei piccoli comuni, fr. 200) fi­no a fr. 600 a dipendenza della durata dell' anno scolastico e del numero degli allievi.

Se pensiamo che questo importo rien­tra a fatica nell' ordine di granaezza del sa­lario di un manovale, che lo stipendio an­nuo dei bidelli delle scuole cantonali (con alloggio gratuito) era di fr. 200/400'­che la retribuzione - pur assai modesta! - di un docente di liceo raggiungeva fr.

. 1'600/2'000, facilmente intuiamo la scar­sa considerazione sociale di cui godevano i maestri di scuola elementare.

Scarsa considerazione e paga di fame, alle quali corrispondevano troppo spes­so, in fatale circolo vizioso, docenti im­preparati e più attenti a procacciarsi fonti di guadagno complementare che a impe­gnarsi nel lavoro scolastico.

Sono «infondati o per lo meno esage­rati i lamenti di coloro che vogliono pal­liare la loro grettezza nel retribuire gli in­segnanti col solito ritornello: Dateci buoni maestri e li pagheremo bene! Re­tribuite con equità re fatiche dei docenti e create ~ontemporaneamente una scuola magistrale, rispondiamo noi, e la quistio­ne sarà sciolt~» annota in proposito il Conto-reso del 1871, che lamenta pure la crescente sostituzione di maestri con maestre. Osservazione assai meno ma­schilista di quanto sembri, in considera­zione delle scarsissime possibilità di de­cente formazione culturale aperte alle donne.

E non si dimentichi che molti comuni preferiscono nominare una maestra sem­plicemente perché la legge permette di corrisponderle uno stipendio minore (115 in meno del minimo garantito agli uomini), quando poi la soluzione non è obbligata, per mancanza di candidati ma­schi. Annota infatti ancora il rapporto: «Gli emolumenti possono ancora oastare in qualche modo per una donna; un uo­mo, ancorché non abbia famiglia, coll'at­tuale retribuzione non può vivere; ... ,

48 ond'è che il maestro deve necessariamen-

te abbandonare la carriera per darsi ad oc­cupazioni meglio retribuite».

Ma se il trattamento finanziario dei maestri è purtroppo destinato a rimanere ad un livello altrettanto umiliante per tutto il resto del secolo, l'inizio degli anni settanta segna un reale salto di qualità nella preparazione degli insegnanti, col passaggio dai «corsi di metodo» (della durata di due mesi) alla« scuola magistra­le» (di due anni a pieno tempo).

2) I corsi di metodo La rimanente parte del nostro discor­

so intende appunto delineare la storia degli strumentl, via via introdotti fino a circa tre quarti del secolo, per migliorare la preparazione culturale e didattica dei maestri.

Il quadro tracciato dal Franscini sul fi­nire degli anni trenta è veramente deso­lante: praticamente nessuna verifica delle conoscenze del candidato prima dell' as­sunzione e nessun controllo in seguito: «fa il maestro chi vuole (non escluso il primo venuto) e come vuole». Di conse­guenza: tro{Jpi maestri semianalfabeti lanche quando si tratta di ecclesiastici) e metodi cervellotici (come l'insegnare il leggere e lo scrivere su testi religiosi in la­tino) .

Non sorprende dunque che primissi­ma preoccupazione del neo-conslgliere di stato fosse quella di offrire, almeno ai più volonterosi tra i docenti in carica, un mezzo di contatto con i fondamenti della metodologia dell'insegnamento, isti­tuendo in via sperimentale un corso teo­rico-pratico di sei settimane (già nel '37 a Bellinzona; a Lugano ed a Locarno nei due anni seguenti).

I:esperimento, affidato con scelta op­{Jortuna alle cure del comense Alessan­dro Parravicini, direttore didattico di chiara fama (e autore del fortunatissimo - per buona parte del secolo - libro di lettura «Giannetto»), fu concretamente sostenuto dalla neo-costituita «Società degli amici dell' educazione del popolo -Demopedeutica» ed ebbe esito superiore ad ogni aspettativa, nonostante la male­vola ostilità di parecchi ecclesiastici tra i più retrivi (ma altri ne furono per contro attivi difensori) e la modestia del livello culturale dei candidati (bastava per essere ammessi - e per molti era già troppo -saper «convenientemente leggere, scrive­re e far conti fino alla regola aurea").

Grande sensazione suscitò tra l'altro il Parravicini, insegnando pubblicamente - a mo' di esempio di quanto si poteva­conseguire con un metodo bene applica­to - in soli 38 giorni a leggere e a scrivere a due caprai del tutto analfabeti.

Sarà coslpossibile al Franscini ottene­re (14 gennalO 1842) dal Gran Consiglio uscito dalla rivoluzione liberale l'intro­duzione definitiva del corso di metodo,

tenuto da.un direttore-professore per le lezioni teoriche (che sarà per anni i1 pro­gressista canonico Giuseppe Ghiringbel­li, attivo demopedeuta), da due aggiunti (per la calligrafìa ed il canto) e da un mae­stro di esercizi pratici in una «scuola mo­dello».

Il corso constava di un~ ora al giorno di teoria J'edagogica, alcune ore di metodo­logia 1generale e di materia), esercitazio­ni di calligrafia e di canto, lezioni nella scuola modello e, quale lavoro individu­ale, ogni sera il sunto scritto della lezione teorica, che veniva discusso in comune il giorno seguente.

Poco, se si vuole, ma moltissimo di fronte al nulla precedente. E coloro (fa­talmente pochi) che conseguivano la pa­tente di «maestro modello» (cioè abilita­to a presentare esempi pratici di lezione ad altri colleghi) rappresentarono spesso fonti di concreto rinnovamento non solo della scuola, ma anche del paese. Cosl co­me lo spirito di autentico apostolato del Ghiringhelli e di molti suoi collaboratori o successori (citiamo soltanto Giuseppe Fransioli, Graziano Bazzi, Giovanni N1Z­zola, Ignazio Cantù e Achille Avanzini) suppliva con la totale coerenza personale alle lacune del curricolo ed alla esiguità dei mezzi.

Ciò spiega la fortuna dei corsi: 26 edi­zioni (dal 183 7 al '72, alla vigilia dell' aper­tura della scuola magistrale) con 01tre 100 allievi in media ogni anno; e solo ben noti eventi eccezionali riuscirono ad in­terrompere brevemente la serie (nel' 40 e nel '41; nel '47 e nel '48; nel '50; nel '55).

Ma questo sistema di formazione, ge­niale in un paese povero di strutture sco­lastiche come il nostro, presentava tre punti deboli, tali da infìciarne buona par­te dell'utilità: - le gravi carenze nella {Jreparazione cul­

turale di base dei candidati (cui si ten­tò, ma solo saltuariamente, <li porre ri­medio con «corsi preparatori» decen­trati, della durata di alcune settimane);

- la facoltatività dell'iscrizione (che non permetteva di porre rimedio proprio ai casi più gravi!);

- l'incapacità (o impossibilità) politica di imporre la patente come uruco tito­lo di abilitazione all'insegnamento, per cui essa non riusçl mai a superare il grado di «titolo preferenziale».

3) L'istituzione della scuola magistrale a Pollegio

Non stupisce dunque che molto pre­sto si levassero voci a favore dell'istitu­zione di una scuola magistrale a pieno tempo ed a formazione mista generale­professionale.

Già il Franscini vi aveva fatto un pen­siero, stimolato dagli ottimi esempi che aveva avuto modo di conoscere: dalla «capo-normale» di Milano (fondata già

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nel 1788 in Brera e di cui Francesco Soave era stato professore di metodo) ai «semi­nari per maestri» di taluni cantoni confe­derati; ma i tempi non erano maturi.

Egli era tornato un'ultima volta alla carica nel 1852, da Berna, con proposte concrete; pur sotto l'assillo degli oneri quale consigliere federale, aveva trovato il tempo di stendere un progetto per una magistrale ad Ascona, nell'ambito delle misure di destinazione dei beni ecclesia­stici incamerati; ma ancora una volta non venne ascoltato.

Di istituire una scuola magistrale si ri­prese a parlare con qualche intensità solo an'inizio degli anni sessanta quando, sol­lecitati da G.B. Pioda (in quel momenro consigliere federale), il can. Ghiringhelli e l'ing. Beroldingen presentarono - ma senza fortuna - al Consiglio di Stato un approfondito progetto; e ancor più nel 1864, in occasione delle discussioni intor­no alla nuova legge scolastica. I;iniziativa venne dalla Demopedeutica e l'eco fu buona sia in Consiglio d'educazione (che ne fa cenno nel suo rapporto), sia nella Commissione della gestione del Gran Consiglio, il cui relatore - illeventinese Pattani - propose di istituire la scuola a Pollegio, nella sede del ginnasio; ma il parlamento rimase sordo ad ogni argo­mentazione.

Tuttavia i politici - benché ancora ri­luttanti, fors'anche perché distratti dall' accresciuta asprezza del confronto tra i partiti ed all'interno di quello radica­le al potere - cominciano ad assuefarsi all'idea della necessità improrogabile di creare una magistrale, grazie anche alla caparbia propaganda da parte della De­mopedeutica, con articoli sull'Educatore della Svizzera Italiana, memorie, ordini del giorno assem bleari.

Nel '69 essa bandisce un concorso «per lo studio e compilazione d'una Mo­nografia sui mezzi più acconci e l'ratici per l'istituzione di una Scuola Magistrale ticinese", e nell'ottobre del '70 pubblica il lavoro premiato, opera dell' avv. Pietro Pollini. II progetto prevede la creazione di una scuola bienruile mista, con sede a Locarno o a Lugano, coml'letata con un «gineceo .. (convitto femmmile) e un isti­tuto d'Educazione superiore femminile.

I tempi sono veramente maturi. Il Consiglio d'educazione costituisce,

nel settembre del '71, una commissione incaricata di elaborare un p,rogetto di leg­ge (la compongono lo stesso avv. Pollini, il can. Ghiringhelli, l'avv. Ambrogio Ber­toni e il rettore del liceo, Antonio Gabri­ni) e già il mese successivo ne discute ed avalla il testo finale che, con pochissime modificazioni, otterrà l'approvazione del governo nel novembre ael '72 e quella del Parlamento il 29 gennaio 1873. '

Iter rapido, ma non senza contrasti. La discussione in Gran Consiglio fu

,particolarmente accanita intorno alla

proposta Magatti di sostituire la prevista scuola a Pollegio con un corso 6iennale annesso al liceo di Lugano, cioè in atmo­sfera più colta.

La scelta governativa fu difesa con do­vizia di argomenti di opportunità politi­ca e di risparmio (conseguente alla con­temporanea abolizlOne del ginnasio delle Tre valli, relativamente costoso per l'esi­guo numero di allievi) dal consigliere di stato Franchini, dal relatore della com­missione Carlo Battaglini (che lasciò pe­rò intendere di aver lui pure esitato tra Pollegio e Lugano) e da 'Ambrogio Ber­toni. Particolarmente insidiosa per la maggioranza liberale risultò u'na variante proposta da Respini: sede della magistra­Ie a Locarno, con contemporanea sop­pressione di tutti i ginnasi tranne Polfe­gio e Mendrisio.

Mossa abile, perché suscettibile di coa­gulare intorno a sé i deputati della cam­pagna, diffidenti verso Lugano, i molti preoccupati per le difficoltà dell'erario e chi non aveva ancora di~erito l'incamera­mento dei beni eccleSIastici (perché la soppressione dei ginnasi l'avrebbe par­zialmente rimesso in discussione). Ma al­la fine prevalse la soluzione governativa, con pochissime correzioni marginali.

Eccone le caratteristiche principali: - La scuola magistrale opera nei locali e

annessi del ginnasio di Pollegio, che viene soppresso, usufruendo degli im­porti precedentemente a bilancio per quel gmnasio e per il corso di metooo, integrati con i legati La Harpe e Gus­soni. .

- Ha la durata di due anni di nove mesi ciascuno; nel primo i candidati devo­no raggiungere il livello di istruzione generale corrispondente al 4° anno della scuola ginnasiale industriale, il secondo è consacrato alla preparazio­ne professionale.

- I;ammissione (con esami) è aperta a maestri già in funzione, od "aspiranti» tra i 15 e i 30 anni, che abbiano fre­quentato la scuola maggiore o un cor­so preparatorio ginnasiale o un istitu­to secondario privato od estero; è pos­sibile (in via eccezionale e con esame speciale) accedere direttamente al 2° corso.

- Il corpo docente è composto di un professore-direttore, di un maestro e una maestra aggiunti, di docenti spe­ciali per l'agronomia, la ginnas'tica e il canto. '

- Una scuola elementare delle vicinanze funge da scuola di esercitazione prati­ca.

- Parte dei locali dell'istituto sono riser­vati al convitto femminile,' diretto dal­la maestra aggiunta. Il regolamento (del successivo otto­

bre) fissa norme rigorose per la disciplina in scuola, fuori istituto ed in convitto (che deve essere autosufficiente, su prin-

Pietro Pollini

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SCUOLA MAGISTRALE TICINESE ClJ\lI'II.AT.'

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cipio cooperativo per le spese e con ob­bligo per le allieve di partecipare ai lavori di rassetto, cucina e Ducato) e per la pro­mozione.

Il programma fa largo posto nel primo corso all'italiano (11 ore settimanali), alI'aritmetica ( 5 ore) ed alla storia/ geo­grafia/civica (7 ore); il secondo corso, pur concedendo ancora sei ore settimana­li all'italiano, altrettante alla storia/geo­grafia/civica e tre all'aritmetica, poggia sulla ~ogia, la metodologia e le aj?­plica.zJ.oni (12 ore settimanali in tutto). le altre materie (disegno, geometria, cal­ligrafia, agronomia, canto e ginnastica) appaiono solo per qualche semestre; l'economia domestica è insegnata per 5 ore settimanali all'interno del convitto.

Come ognun vede, un salto enorme per area e per qualità rispetto ai corsi di metodo; unico neo, l'esclusione dello studio del tedesco (o del francese) cal­deggiato da parecchi deputati durante la discussione aella legge, quale strumento di più ampi orizzonti culturali.

Ed ancne i risultati scolastici furono ottimi, nonostante le disagiate condi~o­ni di lavoro, almeno a dar fede ai Conto­resi ed alle relazioni delle commissioni (esterne) d'esame, con una media di 30/ 40 dipfomati all'anno, grazie anche all' impegno del direttore Achille Avanzi­ni e delle direttrici del convitto, Lucietta Molo dapprima, Rosina Borsa in seguito.

Ma l'asprezza del contrasto politico, in questi anni di passaggio dal regime ra­dicile a quello conservatore, non poteva lasciare immune la magistrale. Ogni inci­dente di percorso (ricorrenti epidemie e pettegolezzi sul comportamento di allie­vi e allieve) trovava eco smisurata sulla stampa. A darne il tono basti questa cita­zione da un articolo del luglio '74 con cui l'Educatore rispondeva ad un attacco ap­parso su La Libertà: "non ci fa meraviglia che quella stampa, la quale aveva preco­nizzato come un postribolo la futura Scuola Magistrale, cerchi con la 'più nera calunnia di dar colore di profez1a a quel satanico voto».

4) Il trasferimento della Mr· trale a Locarno (1878 e 1881

La burrasca del '77 (è l'anno in cui il nuovo governo conservatore licenzia in blocco direttore e docenti del liceo, tran­ne uno, il prof. Ferri) non risparmia A vanzini, cui subentra Francesco Gaz­zetti.

E la stampa (a parti invertite: ora ad accusare sono Il Dovere, Il Gottardo, Il Re­pubblicano, e a difendere Il Credente cattoli­co e La Libertà) si scontra ancor più furio­samente a proposito di Magistrale, con toni spesso sbracati, alludendo a «belle tome fatte da qualche professore danzan­do con le rispettive allieve», a «passeggia­te vespertine con parte delle allieve per il

bisogno forse di mostrare loro la stella polare», a «schiamazzi fatti da briachi al­Ii~vi per le pubbliche vie di Biasca» e cos1 V1a.

Il governo, pur difendendo la nuova conduzione dell'istituto, non fu tuttavia malcontento di profittare delle polemi­che per mutare almeno quell'aspetto del­la struttura della magistrale che più di­spiaceva agli ambienti conservaton e cioè i[ suo carattere misto. Dopo una somma­ria inchiesta, che era giunta alla conclu­sione che fosse preferibile, per l'età degli allievi, di separare i sessi, i[ Consiglio di Stl!-to propone la divisione della magi­strale in «Normale maschile» e «Norma­le femminile» e di trasferire la prima a 1.0-carno, nell'ex-convento di S. Francesco (riprendendo dunque in parte la vecchia proposta di Respini).

In Gran Consiglio lo scontro fu vio­lentissimo e coinvolse tanto questioni di principio quanto meschini «regolamenti di conti», volta a volta con chi aveva avu­to a che fare con il vecchio oppure con il . nuovo corso, e lasciò largo strascico di polemiche in parlamento e sulla stampa anche nei mesi seguenti. Ma l'esito era scontato: la nuova maggioranza votò compatta per lo smembramento della magtstrale 00 il trasferimento della sezio­ne maschile a 1.ocarno. Era il settembre 1878 ed il successivo 4 novembre (con qualche ritardo, a causa dei lavori di riat­tazione eseguiti di fretta e furia) si inau­gurava il nuovo anno scolastico, sotto la direzione di Pietro De Nardi (sostituito poi, già nell'81, «per considerazioni, le quali qui non accaae di esporre» - come dice il Conto-reso del 1882 - con France­sco Antognini, che era già stato criticatis­simo insegnante nell'ultimo anno di Pol­legio; ed era il quarto direttore in otto an­ni di vita della magistrale!). Il program­ma non era granché mutato (almeno sul­la carta, perché l'ottica con cui fu svolto dai nuovi docenti non ci è nota), tranne l'aggiunta - senz'altro opportuna - di un corso di scienze naturali.

Negli anni seguenti la vita dell'istituto trascorse abbastanza tranquilla, ma le Commissioni d'esame - pur lodando lo zelo di docenti ed allievi - segnalarono ripetutamente gravi carenze nel livello gfobale di preparazione raggiunto dai candidati, . nonostante la severità degli esami d'ammissione; insoddisfacente preparazione, cui si sommava la preoccu­pante diserzione degli studi magistrali t una dozzina scarsa di allievi per corso), a causa degli stipendi tuttora miserrimi.

Né l'introduzione (nel 1885) del terzo corso voluto dalla legge Pedrazzini, per il conseguimento della patente di maestro di scuola maggiore, portò gran giova­mento: nei primi anru gli iscritti furono pochissime unità!

le difficoltà di crescita della magistrale cominciarono ad attenuarsi solo più in là

nel tempo, soprattutto grazie all'opera mediatnce del teologo Luigi Imperatori, prima assunto come docente e poi diret­tore, di Giovanni Anastasi, di Francesco Gianini e del successore dell'Imperatori, Giovanni Censi, naturalista e pooagogi­sta di notevole statura, fautore del meto­do attivo, che egli trasfuse nei nuovi pro­grammi del 1903, quando il curricolo ma­gistrale venne prolungato a quattro anni. Cosl come la «Normale femminile», do­po gli anni di assestamento sotto la dire­zione di Suor Agata Biirgi (chiamata d'urgenza da Menzingen già negli ultimi mesi di Pollegio), troverà una sua chiara identità sotto la guida energica ed illumi­nata di Martina Martinoni. Migliora­menti che non sottrarrann01a magistrale - anche nel nostro secolo - a ripetute burrasche.

Ma con questi ultimi cenni siamo lar­gamente usciti dai limiti temporali del te­ma che stiamo trattando.

Non ci resta, per concludere, che ac­cennare al trasferimento da Pollegio a 1.0-carno della Normale femminile, che do­po il '78 aveva continuato una vita stenta­ta, per la continua rotazione del persona­le docente e per le ricorrenti epidemie, at­tribuite ora a tosse spasmodica, ora ad ac­qua inquinata, ora a cedimenti nervosi determmati da un eccesso di rigore disci­plinare.

Il governo (che già nel '78 aveva ri­nunciato a trasferire anche la femminile a l.ocarno unicamente per la difficoltà di trovare a buone condizioni una sede ido­nea) riprese in esame alcune varianti di soluzione. Parve dapprima prevalere quella di installare la normale femminile in S. Francesco, traslocando la maschile nel Palazzo ~overnativo (l'attuale «So­pracenerina»), che proprio quell' anno si rendeva definitivamente libero con l'ulti­ma «emigrazione» del governo da 1.ocar­no (capitale di turno~ a Bellinzona (di­ventata capitale unica , ma prevalse infi­ne la proposta di uti ·zzare la proprietà Carlo Franzoni detta «Belvedere», op­portunamente adattata (1881).

Una scelta che si rivelerà ottima e che ben si è prestata agli infiniti adattamenti che l'evoluzione dell'istituto ha richiesto lungo un intero secolo.

BIBLIOGRAFIA:

Stefano Franscini, La Svizzera italiana, Lugano 1973.

Antonio Galli. Notizie sul Can.tone Ticino, Bellin· zona, 1973, voI. III.

Felice Rossi, Storia dell~ scuola ticinese, Bellinzo­na 1959.

Processi verbali del Gran Consiglio (anni e sessioni citati).

Conto-reso del Consiglio di Stato - Ramo pubblica educazione (anni presi in considerazione).

L'educatore della Svizzera Italiana (numeri cita­ti). Silvana Fiori, Il trasferimento della Scuola magi­strale maschile e femminile da Pollegio a Locamo, Lo­camo 1980, (lavoro per il conse~imento della pa­tente di scuola maggiore - dattiloscritto - Biblio­teca della Scuola magistrale).

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Enùlio Motta e la storiografia ticinese

Qui da noi il caso di Emilio Motta re­sta esclusivo. Uscito dal Politecnico col diploma di ingegnere, quel giorno stesso confinò in soffitta biffe e livelle e si tappò negli archivi.

Gli altri nostri storiografi, di prima e di dopo, erano venuti o vennero da altre scuole. Né risulta che del mestiere impa­rato restasse al Motta la minima nostal­gia. Appena se ne ricordò più in là negli anni irifilando nel mazzo delle sue schede bibliografiche un appuntino di ingegne­ria: e gli bastò. Bisogna dunque conclu­dere che il Motta venne alla storiografia da autodidatta: il che non significa un bel nulla, anche se <J.ualcuno ha creduto di scorgere nei SUOi scritti la presenza di un'impreparazione accademica scarn­biandola con la modestia con la quale tal­volta si presenta, che semmai non è pro­prio dell'autodidatta rimasto grezzo. Piuttosto un residuo di volontariato che, progredendo, bruciò del tutto, si manife­sta all'inizio in certe impennate improv­vise, nell' emissione categorica di incauti giudizi negativi: che se poi temperati e quindi riveduti facevano parte deltem pe­ramento dell'uomo, di una cortesia estre­ma attestatagli dagli studiosi con i quali familiarizzò, di un' apertura collegiale nel far partecipi anche gli altri delle sue sco­perte archivistiche, senza gelosie di me­stiere, ma anche fermissimo nelle sue convinzioni e in qualche momento su­scettibile.

Il suo profilo biografico è quello di tutti gli studiosi che passano la vita con lo stomaco piegato sUlla scrivania, Ser1Za distrazioni salottiere, ambisce il lecito, non rincorre la vanità. Ed è subito trac­ciato. Nasce ad Airolo nel 1855, a quattro anni è orfano di madre (una Balli di Lo­carno), a dodici dd padre (Cristoforo, che fu anche consigliere di Stato), lascia­to Airolo scende a Muralto presso i l'a­renti materni che avevano commerCi a Roveredo in Mesolcina, e fra lago e mon­ti per qualche anno fa la spola, ai monti torna..'1do preferibilmente o'estate da Mi­lano dove passò la maggior parte della sua vita. Quanto agli studi: Rosmini di Stresa, Landriani di Lugano, liceo di So­letta, infine Politecnico di Zurigo. Nel '77 ritorna nel Ticino. Nell'8) il principe Gian Giacomo Trivulzio lo assume come conservatore della sua celebre biblioteca, la Trivulziana. Muore a Roveredo nd 1920.

Il primo libretto del Motta, Effemeridi ticinesi, appare nell' anno stesso 10 cui il suo autore usciva dal Politecnico, nel '76: appropriato titolo di un modesto elenco dì date storiche, tante quanti i giorni dell' anno, ma qua e là con sottolineature di un compiaciuto anticlericalismo, acer-

bamente polemico: che del resto si era già manifestato in una rivistina studente­sca ticinese che usciva a Zurigo, insieme con articoli di varia storiografia, frutto dei primi saggi di una ricerca che poi di­venterà sistematica. Né di quella sua pro­fessione di libero pensatore, cresciuta nel clima arroventato del Kulturkampf, farà mistero anche dopo, suscitando la reazio­ne scontata del partito conservatore e del clero, ma non tutto questo in verità come si vedrà, facendogli, episodio clamoroso, trovar chiuse le porte degli archivi vatica­ni nell'85, quando si era pure presentato, per incarico del Consiglio federale, a far ricerche di documenti interessanti la sto­ria svizzera, Dipinto prontamente (dal Ticino?) come un esponente del radicali­smo svizzero, fu sospettato di andarvi per scovare documenti contro la nunzia­tura papale nella Confederazione, e, do­po una settimana di lavoro, venne invita­to a non più varcare la soglia; e passò allo­ra a Milano dai Trivulzio.

Ma riprendendo dopo il suo ritorno nel Ticino nel '77: ormai vocato agli stu­di storiografici, già frugatore degli archi­vi locali, si pose per lui la necessità di di­sporre di una riVista, un Giornale, cos1 di­ceva, per evidente suggerimento venu­togli <la quello della letteratura italiana che usciva a Torino e stava diventando fa­moso, mentre fin Il si era dovuto accon­tentare dì chieder sl'azio ai quotidiani, Il Tempo e Il Dovere; e oeciso a crearsi la rivi­sta, la annunciò in una relazione presen­tata nd '78 a Ascona all'assemblea della Demopedeutica: che era un grido d'allar­me sulle condizioni della cultura nd pae­se e un appello a riscattarlo dall'ignavia, senza aver peli sulla lingua come costu­mava.

Denunciava con parole caldissime, an­zi accaldatissime, quello che si offriva agli occhi dei non orDi o dei pigri: mercato incontrollato degli oggetti d'arte e dei re­perti archeologici che cominciavano a stuzzicare gli appetiti del borsello e la rozza dispersione degli archivi. E sugli ar­chivi, pupilla del suo occhio, insisteva energicamente rilevando quanti ostacoli si alzavano a frequentarli: con rifiuti det­tati da chissà quali sospetti (ma anche, va aggiunto, per nascondere il loro comple­to disordine, esperienza fatta anche di al­tri), dettati da malumori e intrighi locali, inhne da piccinerie; ma l'esempio veniva dall'alto, dall'archivio cantonale ridotto a un magazzino, del resto quasi esclusiva­mente amministrativo, che in quel mo­mento non disponeva neppure di un ar­chivista. Perciò sollecitava una legge sug­li archivi, che cominciasse a concentrare a Bellinzona le carte dei commissari e dei tribunali, unico modo per salvarle dai ca­minetti invernali, e quelle private di rile­vanza, per quindi procedere ai primi cen­

,simenti, ma anche trovar un'intesa per poter accedere a quelli ecclesiastici; invi-

tava la Libreria Patria, assopitasi nelletar­go, a colmare le sue raccolte lacunose; in­vocava l'istituzione di un museoarcheo­logico cantonale, e più tardi del museo storico; la sorveglianza dei comuni sugli scavi occasionali con obbligo di comuni­cazione: insomma invocava quei provve­dimenti che, già invocati quasi un tren­tennio prima dal Franscini, erano rimasti

. parole. Ma a renderli effettivi e operanti, occorreva che anche ii Ticino, sull'esem­pio delle Deputazioni di storia patria che lOcominciavano a proliferare in Italia, provvedesse alla sua, come peraltro acca­oeva nei cantoni dell'interno; e benché già il Franscini nel '52 si era illuso di aver finalmente fondata la Società storica tici­nese, il Motta la riproponeva con più vi­gore e con altrettanto successo, tanto ve­ro che essa alitò di quando in quando an­che dopo fiocamente coi risuftati che si conoscono. E perché il suo intervento non si spegnesse nel solito applauso ob­bligato in attesa di mettersi a tavola per il banchetto sociale, annunciava seduta stante l'apparizione del Giornale che con due amici, l'avv. Bartolomeo Varenna di Locarno e l'ispettore Isidoro Rossetti di Biasca, ma «in via privata», era imminen­te. Annunciava cioè il «Bollettino Stori­co della Svizzera Italiana», che a nominar­lo vuoI dire Motta.

Il Bollettino uscì puntualmente l'anno dopo col programma della nuova scuola storiografica di indirizzo positivistico e rigidamente erudito, quindi tutta volta alla raccolta del materiale documentario giacente negli archivi; e il Motta, attentis­simo all'esempio italiano, qui da noi si poneva cos1 all'avanguardia della nuova storiografia ticinese, anzi della storiogra­fia che, a suo giudizio, incominciava solo allora.

Ma a che punto era la storiografia tici­nese quando il Motta incominciava? A suo parere essa si presentava come una landa inesplorata, un campo arido, e te­nuto conto del suo positivismo il giudi­zio era anche comprensibile, non più in­vece accettabile quando fu ripetuto da al­tri venuti dopo di lui, che cos1 celebrava­no i meriti davvero grandi del Motta ma si precludevano la vista su quanto era sta­to fatto, sia pure in minor misura, prima d'allora.

E senza andare a scartabellare libri e li­briccini di storia cantonale di prima, a considerar le cose con serena distanza non si può davvero convenire che la sto­riografu. avesse trovato fino a quel mo­mento «poco favore» o fosse stata "più spesso osteggiata». Era pur apparso fin dal '57 il Compendio, tutt'altro che com­pendioso, e pur con tutti i suoi difetti, del Pasqualigo; nel '74, con assai meno di difetti e largo impiego delle fon~i, in edi­zione postuma erano apparsi i Leponti del ' padre Angelico; e prima di loro il Fran­scini non si era appagato di raccogliticci.

I

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Eppure al Franscini, inspiegabilmente, il Motta riservava un giudizio negativo, quando lo chiamava «statista insigne, storico mediocre»: dove la qualifica re­strittiva era appena temperata dal rispet­to che si doveva a quell'uomo.

Il giudizio appare anche più inspiega­bile, tenuto conto del genere di storio­grafia cara al Motta, quando si ricordi che gli Annali fransciniani dal 1797 al 1813, largamente documentati anche sulle fon­ti federali e rimasti inediti, eran<;> stati uti-

lizzati quasi testualmente prima dal Peri che li aveva «raffazzonati», non so fin do­ve, nella sua Stona dal 1797 al 1802, e la rimanenza, che per l'inconfondibile scri­tura mette fuon continuamente la testa, dal Baroffio nella sua Stona dal 1803 al '30: bastando qui concludere che tanto il Peri quanto il Baroffio avrebbero reso miglior servizio facendosi editori dell'au­tografo, anziché usarne interpolandolo perlomeno ecletticamente. Né meno si capisce, tornando al Motta, com'egli po-

tesse scrivere nel '79 che la Stona di Como del Cantù era fin lì «la sola storia comple­ta del Ticino»: nemmeno fosse propno 11 a dichiarare il contrario il serrato capitolo introduttivo della Svizzera Italiana, che si stende fino alla Riforma del ' 30, benché il Motta, per le sue scarse conoscenze d'al­lora, giudicasse il periodo dell'autono­mia, con tutto quel che seguì fino al regi­me dei Landamani compreso, «povero di salienti avvenimenti».

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Ma sorvolando gli effetti, scontati, della neofùia mottiana e riprendendo, che più importa, col Bollettino, certo è che da quel momento la ricerca, fattasi l'0i si­stematica, delle fonti apd vastiSSimI oriz­zonti nella storiografia ticinese, coi risul­tati ingentissimi che sanno tutti guelli che per un verso o per l'altro per la nvista sono dovuti passare: la quale, risveglian­do gli studi come non era mai accaduto, suscitò nuove energie chiamando intor­no a sé una collaborazione sempre più folta e auto!evole. Quanto alle presenze locali, basterà ricordare Carlo Salvioni, che il Motta aveva conosciuto ancora stu­dente di medicina, Vittore Pellandini, Gaetano Beretta con le sue ricerche di storia militare, un folto gruppo di sacer­doti come Siro Borrani, Edoardo Torria­ni e Pio Meneghelli, e poi Mosè e Brenno Bertoni e, per la storia mesolcinese, Emi­lio Tagliabue. Dei confederati fu assiduis­sima presenza l'archivista lucernese Teo­doro di Liebenau coi suoi densi saggi che di volta in volta traduceva Alfredo Pioda, a tratti anche l'archivista urano Edoardo Wymann, mentre il Bollettino faceva spa­zio agli scritti d'arte, apparsi altrove, di Rodolfo Rahn che il Motta accompagnò talvolta nelle sue escursioni ticinesi. Stando poi a Milano, dapprima come se­gretario e poi vicepresidente della Società storica 10m barda nonché presidente della Società storica comense, potè assicurarsi la preziosa collaborazione di numerosi lombardi: don Santo Monti e don Gio­vanni Baserga e questi erano di Como, Antonio ' Bertolotti direttore dell' archi­vio di stato di Mantova, Solone Ambro­soli direttore del Gabinetto numismati­co di Brera, Antonio Ceruti dottore dell'Ambrosiana, Gerolamo Biscaro, Ar­turo Farinelli, Luca Beltrami, Ugo Mon­neret de Villard, e, da Torino, Alessandro Lattes, autori di memorie talvolta con ampio respiro monografico, mentre il Motta, nel Bollettino, continuava a offrire i risultati sempre più inattesi del suo scandaglio documentario ed erudito, con curiosità insaziabili in tutte le direzioni, prediligendo i cataloghi bibliografici dei quali si confessava «umile ma zelante cul­tore", tanto daradunarne ben 24 stando a chi li ha contati, con l'articolare interesse al giornalismo e alle tlpografie, e, nelle ri­cerche d'archivio, priVilegiando il Ticino ducale, dopo che re prime esplorazioni a Milano lo avevano npagato abbondante­mente sul prima e sul dopo Giornico, tanto da poter ammonire, cbi si era fatto prendere dalla scalmana di monumentar­si, che quel monumento non si doveva fare.

Talvolta le bibliografie gli erano sug­gerite dall' occasione che afferrava al volo. Per un esempio, e dei più considerevoli anche per i risultati, l'occasione offerta dall'inaugurazione del traforo del San Gottardo, non mancando tuttavia di os-

servare con occhio disincantato: "Passa­rono le feste del progresso e della fratel­lanza dei popoli, eppure, caso strano, il primo treno merci del Gottardo condu­ceva alcuni vagoni d'armi destinati a To­rino da una fabbrica di W estfalia». Di commenti, del resto, pungenti e puntua­lizzanti nutriva la rubrica della Cronaca, che era poi l'attesissimo spoglio di $Ì0r­nali, opuscoli e riviste (60 1n cambio) e li­bri che gli giungevano sul suo tavolino alla Trivulziana: salvando una selva di no­tizie che sarebbero andate fatalmente di­sperse, era un esempio e purtroppo dopo di lui non fu più segulto.

Stupisce come il Bollettino, trasvolan­do quello che vi è versato in migliaia di pagine, statuti e famiglie, stregonerie e antiquaria, artisti e tradizioni, sfragistica e numismatica, pestilenze e parafrenali, castellani e pellegrini, e via a non finire, per l'illuminata volontà de1.suo direttore sapesse nei primi anni resistere a condi­zioni da far arrendere chiunque altro. Si annunciava appena il Bollettino, che già in un organo cfericale "persona competen­tissima, autorevole e cultrice degli studi storici,., come veniva presentata dalla re­dazione, ma chi poi?, reputava l'iniziati­va perlomeno inutile perché tutto era già stato detto, coll'invito inoltre a diffidare del direttore che, fra l'aitro, era "un am­miratore delle dottrine di Darwin"; e sa­rà, anche grazie all'innominato intendi­tore, che il favore del pubblico si manife­stò dapprima tiepidissimo, e non meno delle Autorità. I!autorità, per dire il Go­verno, tanto 'per venirgli incontro gli ne­gò di servirSI dei torchi della Tipografia Cantonale mettendo il Motta e lo stam­patore Colombi di fronte a preoccupa­zioni finanziarie, e per qualche tempo re­spinse perfino l'abbonamento.

Come del resto, quasi passandosi la voce, si apprestavano a fare i 263 comuni dei quali soltanto Il nell'83lo rinnovava­no ancora, l'anno dopo scendevano a lO, perfino la ~ibliot~a Cantonal~ op~one­va un suo nfiuto, 1n un SUSSegrurSI di ma­linconie, anche se il Motta, mirabile esempio di costanza in una causa giusta, affrontava le avversità dichiarando: "Continueremo a mantenerci indipen­denti e severi quanto occorre", che fu l'impegno rispettato anche quando il Bo/fettino, dopo il Motta, passò in altre mani.

Cosl, infoltendo le sue smilze pagine iniziali, il Bollettino usd regolarmente fi­no al 1912. In quell'anno ebbe una so­spensione, riprese nel '15, stagione assai poco propizia agli studi, e fu un'appari­zione ef:fiinera, e benché il Motta avesse intanto radunato il materiale per una ri­presa a guerra finita, non fece 1n tempo a passarlo in tipografia perché la morte lo sorprese nel '20 a Roveredo come s'è già detto. Il Bollettino riprese nel '21 con la di­rezione di Eligio Pometta che utilizzò nel

primo numero il materiale giacente, e continuò e continua superando il secolo di vita, tanto che gli Indici sistematici so­no diventati assolutamente indispensabi­li e urgenti.

Sarebbe lungo e ripetitivo, perché il catalogo è già stato eretto, soffermarsi sulle numerose riviste alle quali il Motta diede larga collaborazione, ma una non si può dimenticare, l'Archivio Storico Lom­bardo, al quale fu legatissimo e che fu in un certo senso il suo secondo Bollettino, per la naturale filiazione della storia tici­~ese da quella italiana e lombarda in spe­ae.

Alcune monografie, apparse però fuo­ri della sede del Bollettino., aanno, contra­riamente a quanto è parso a qualcuno, la misura delle possibilità del Motta di sa­p~r superare l'indirizzo meramente eru­(lito.

Ciò che è ben manifesto nelle due mo­nografie I Sanseverino feudatari di Lugano e Guelfi e Ghibellini nel Luganese, uscite nel Periodico storico comense fra 1'81 e 1'84, commentando la Cronaca luganese del Laghi appena apparsa in quella rivista, con cosllarga spaziatura storica sul se­condo quattrocento luganese che do­vrebbe invogliare un continuatore, con altrettanta chiarezza, a risalire fino all'aprirsi del secolo.

Sempre in quel torno di anni, davvero assai proficuo, con una serrata critica di interpretazione dei testi noti o ritrovati, affrontò l'esame di uno dei momenti chiave della nostra storia, quello dell'in­dipendenza, nella memoria -Come rima­nesse svizzero il Ticino nel1798» apparso nel "Politisches 1ahrbuch der Schweiz. Eid­genossenchaft,., 1888, con la quale ricon­duceva nei suoi veri canali la portata di una realtà storica, traviata dalle versioni ufficiali, rivendicando ai Patrioti, scam­biati sempre per briganti, il merito gran­de di aver risvegliato democraticamente il paese ancora immerso nelle tenebre: con esemplare franchezza, anche a costo «di non garbare a molti,.. Implicitamente riconosceva, con altrettanta franchezza, di essere stato anch' egli vittima di un ana­cronistico elvetismo quando una decina di anni prima aveva qualificato di "infa­me» il famoso proclama lanciato dal Qua­dri cisalpino il 22 febbraio 1798, senza averlo per niente capito.

Venuto poi nel 1898 il centenario dell'Indipendenza, e stavolta per incarico del Governo che cos1 si mostrava illumi­nato, riprendeva lo studio dell' '88 in una secondi monografia, sveltendolo o inte­grandolo in qualche parte, ma senza cedi­menti opportunistici o convenienze di comodo. La monografia fu largamente distribuita anche alle scuole alle quali era particolarmente destinata, cominciando dai loro cari maestri.

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Cortile di Brera (incisione di Domenico Aspari)

«Studiò a Brera»

Per tutto l'Ottocento, ma anche un po' prima e continuativamente dopo, le schedine biografiche dei nostri artisti ini­ziano invariabilmente con la secca infor­mazione: «Studiò a Brera»; tolti quei po­chi che prima d'allora, e qualcuno dopo, avevano studiato nelle acCademie di Par­ma e di Venezia, di Mantova e di Berga­mo, e, prevalentemente i luganesi della campagna, all'Albertina di Torino.

Istituita nel 1776, nel periodo stimo­lante e rinnovante delle riforme teresia­ne, l'accademia trovò la sua sede, senza più uscirne, nel complesso edilizio di Brera dal quale erano da poco usciti i ge­suiti dopo la soppressione dell'Ordine, restandovi ancora allogate scuole e ginna­sio nel quale aveva insegnato, e continuò a insegnare, il Parini che, per la nascente accademia, indicò principii e contenuti. Com'era accaduto altrove, anche a Mila­no l'apertura di Brera finl per chiudere le ultime, antiche scuole di bOttega o di me­stiere, salvo essere più tardi rimpiante e ritentate. Le prime cattedre comprende­vano l'architettura che primeggiò, la scul­tura, la figura, l'ornato, e la pittura. Poi vennero via via le altre, specializzandosi.

Fin dall'inizio un ticinese vi trovò spa­lancata la porta, un altro se la trovò chiu­sa in faccia. A spalancarla a Giocondo Al­bertolli di Bedano fu l'architetto foligne­se Giuseppe Piermarini che, con la sua presenza a Milano, la precluse invece a Si­mone Cantoni di Muggio.

I:Albertolli, uscito da Parma, nel viàg­gio tradizionale a Roma per disegnare i marmi antichi e a Napoli, dov'erano in corso gli scavi di Pompei, si era incontra­to a Caserta col Piermarini che allora ope­rava nella cerchia del Vanvitelli: e i due si intesero subito. Tanto che il Piermarini, salito poi a Milano, succedendo al Vanvi­telli ritornatosene a Caserta, nelle modi­fiche in corso del palazzo Reale volle ac­canto l'Albertolli per gli ornati, che fu l' inizio di una lunga collaborazione. Fra il Piermarini e il Cantoni invece nacquero aspri dissapori, anche per la ragione che due galli nel pollaio si beccano, e così il ti­cinese si vide preclusi Sli incarichi ufficia­li assorbiti dai rivale (basti ricordare, col palazzo Reale, la Scala e la villa di Mon­za), si trovò confinato a un ruolo secon­dario e contrastato, dovette accontentar­si delle commissioni private subendo in qualche caso i ca'pricci del committente; e se nel '78, quasI a ottenere una rivincita sul Piermanni in una grande opera pub­blica, fu chiamato a Genova per il palazzo Ducale, dovette poi circoscrivere la sua attività quasi esclusivamente al comasco.

Chiamato a insegnar l'ornato, tratto dagli antichi ma anche dai Cinquecenti­sti, l'Albertolli imperò in quel genere dif­fondendo, con le tavole del suoi PrinciPii, il «gusto" come si diceva allora in assolu­to, il gusto cioè neo classico che pareva seppellire per sempre le« licenziosità» del barocco, le sue «deturpazioni»; e le sue tavole furono tenute in conto di Vangelo . infallibile. Il Piermarini sovraccarico di

lavori disertava spesso le lezioni di archi­tettura superiore a Brera, e lo suppliva, coll'altro luganese Pietro Taglioretti, l'amico Albertolli, che trovava anche il modo di progettar in proprio (sua, qui, da noi, l'attuale Banca Nazionale), ,Fur essendo la sua scuola d'ornato affollatIssi­ma, fino a 130 allievi, compresi gli artigia­ni, distribuiti in gruppi diurni e serali; e tanto durò per 36 anni difilati, fino al 1817, superando indenne i marosi politi­ci che sconvolsero continuamente la Lombardia: austriaca fino al '96, poi cisal­pina fino al '99, in quell'anno ritornata austriaca, e con Marengo ridiventata in­dipendente fino al '14 guando l'Austria la rioccupò. Il Piermariru invece, per la sua fedeltà a Vienna, nel '97 fu epurato e do­vette lasciare il posto a un altro Albertol­li, Giacomo, di Mugena, che per la sua francofilia aveva dovuto invece uscir da Padova riparando a Milano, dove entrava poco dopo il viennese Leopoldo Pollak che qualche anno più tardi fu pure epu­rato.

E col vecchio Albertolli, venerato pa­triarca, mezza campagna luganese si tra­piantò a Milano. Già vi stava il fratello Grato che lo collaborava, nel '17 gli suc­cedeva sulla cattedra il nipote Ferdinan­do, un altro parente, Fedele, sovrintende­va agli ornatI della villa di Monza, ancora un altro, Raffaele, disegnava sotto la sua guida, i Mercali di Mugena erano indaffa­rati a incider tavole per l'Appiani, per il Piermarini, per il Bianchi di Lugano che operava a Napoli, per il Quarenghi ber-

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gamasco maestro di neoclassicismo in Russia, e di Lamone erano Felice Ferri in­segnante per qualche tempo di ornato e Andrea de Bernardis.

All' Albertolli, che all' apertura dell' Ac­cademia era stato richiesto dal Governò di suggerire insegnanti, si deve se subito fu chiamato a insegnar il disegno di figu­ra, considerato «il primo latte delle Belle Arti agli alunni», Polivonese Domenico Aspari, uscito pU! da Parma, al quale suc­cesse per poco il figlio Carlo, arcinoto al­lora per la serie delle sue. vedute di Mila­no che parevano gareggtare, ma pareva­no, con quelle romane del Piranesi.

I:Aspari tenne la cattedra per me21iZO secolo,lasciandola nel 1825 con l'invidia­bile riconoscimento di aver saputo for­mare allievi «utili», coi quali l'intransi­gente generazione neoclassica ormai però stava per uscire di scena. Senza dire degli architetti ticinesi che, pur non assumen­do cattedra, e quindi non fruendo come· gli accademici delle commissioni ufficia­li, furono operosissimi a Milano in quella stagione per noi davvero quasi unica, da paragonar soltanto a quella romana del barocco. Illuganese Carlo Felice Soave, per un esempio: tenuto in gran conto, poi svalutato e dimenticato, e oggi giu­stamente recuperatò. O l'altro luganese, di Tesserete, Luigi Canonica, che invece insegnò a Brera dov' era stato allievo del Piermarini succedendogli nelle opere pubbliche, cominciando dall'ellissi coro­nata dell'Arena esaltante la grandezza ro­mana dell'Impero fino ai teatri in cui era peritissimo.

Nel 1803, proclamata la Repubblica italiana, subito dopo divenuta regno, il pittore Giuseppe Bossi di Busto Arsizio riformò l'Accademia cOIjl respiro più lar­go e con apertura europea, istituendo al­tre cattedre, com presa quella di anatomia che fu subito affidata al chirurgo Pietro Magistretti di Torricella. La riforma con­ferì a Brera un tono più aulico e meno po­polare, universitario e meno artigianale: che fu nuovamente modificato dall'Au­stria, rientrata in Lombardia, quando, sull'esempio praticato a Vienna, la rina­scita dell' artigianato fu fortemente incre­mentata con una netta distinzione fra le arti cos1 dette maggiori e le minori, tor­nando ad affluire a Brera muratori e deco­ratori, stuccatori e fabbri, i mestieri in­somma. E anche stavolta l'insegnamento di Brera diede i suoi frutti da noi, sugge­rendo l'apertura delle scuole di disegno che affinavano la mano agli artigiani, edu­cando tutta una classe di capomastri le cui prove su.(>erstiti, disegnate e acquarel­late con penzia, sono ancora Il a docu­mentare un profitto che oggi parrebbe impensabile.

Intanto, accanto all'Accademia, veni­vano crescendo le raccolte della Pinacote­ca, poi fattasi autonoma, che era servita un tempo all'esercizio delle copie in di-

retta e allo studio del colore; quelle altre, allora nominate del Museo patrio, passa­te in seguito in Castello; crebbe anche la Libreria, come si preferiva chiamarla allo­ra anziché biblioteca, che diventò la Brai­dense; e l'esposizione al pubblico delle prove degli allievi premiate avviò quelle mostre poi allargatesi di Brera che con­sentirono ad allievi e artisti nostri di farsi conoscere, mentre da noi le mostre pub­bliche erano ancora di là da venire e solo qualche rara personale trovava ricetta in una sacrestia, nel corridoio di un caffè, come .riferiscono i giornali del tempo quando ne riferivano.

Sotto il regime austriaco qualche ma­nifestazione di indipendenza fu contenu­ta dalla polizia cominciando col divieto di portar la barba che sapeva di carbone­ria. Venuto il '48 Brera chiuse il portone e gli allievi, compresi alcuni del nostri, imbracciarono la carabina. Poi tutto rien­trò nell'ordine come si sa; e uomo d'ordi­ne fu il conte Ambrogio N ava, successo a chi si era compromesso politicamente, che dedicò molta cura al restauro dei mo­numenti e fu per questo invitato dal no­stro Governo a sovrintendere al distacco di due affreschi luineschi nel convento degli Angioli, prima assistenza lombarda ai nostri monumenti artistici che doveva poi diventare una naturale presenza di collaborazione.

Nel campo della pittura, dopo il fio­rentino Sabatelli che lOsegnava l'affresco, e da lui lo imparò Antonio Rinaldi di Tremona che scendéndo dai ponti delle chiese si rintappava nello studio a dipin­gere per sé e per i pochi amici le scenette paesistiche d'osteria con gran brio, entra­va a Brera col veneziano Francesco Hayez il primo romanticismo lombardo che spegneva l'ultimo fiato neoclassico: e nelle aule cominciarono a far la loro appa­rizione armature e costumi, elmi e stoffe, scudi e alabarde, e gli scolari chinati sui li­bri di storia che suggerivano la scelta dei temi. Anche più vigore ebbe <tuel genere col milanese Giuseppe Bertim, successo all'Hayez, mentre ancora si storceva il na­so sulla pittura di paesaggio, che pareva un genere inferiore. Il Bertini, uomo an­cora tutto rivolto al passato e alla com po­sizione canonica, fu maestro a molti (lei nostri, e quasi incredibilmente, se si pen­sa a Filippo Franzoni, Edoardo Berta, Spartaco Vela, e prima a Ernesto Fontana di Cureglia, i quali, usciti dall'aula, dove­vano poi andate per ben altre strade. In­vece alla pittura storica, appresa dal mae­stro, doveva restar per sempre legato il luganese Antonio Barzaghi, che resta il nostro pittore storico in maniera esclusi­va, e, per una parte almeno, anche l'altro luganese Pietro Anastasio. Il Barzaghi, figlio di povera gente, entrò a Brera che non era più di primo pelo, grazie ad alcu­ni mecenati locali: e i suoi quadroni espo­sti a Parigi e a Londra, per dire di quelli

Giuseppe Piermarini

Luigi Rossi

Raimondo Pereda

il ., iii '"

Lorenzo Vela 55

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andati lontani, gli diedero una fama sulla quale il tempo ha steso un velo. Anche il Barzaghi, come qualche altro, apri una cuoIa privata a Milano, avendo come al­

lievo Luigi Monteverde che preferi poi, guidato dal proprio . istinto, narrare la realtà quotidiana del suo tempo, senza più spade sguainate che non fossero quelle di legno dei ragazzini giocanti al soldato.

Quanto alla scultura, basterà ricordare il comasco Pompeo Marchesi che ebbe scolaro Vincenzo Vela, che a Brera non mise mai piede come accademico per di­vieto dell'Austria, mentre vi entrò il fra­tello Lorenzo a insegnar la plastica d'or­nato. Prima di loro, alla scuola del roma­no Camillo Pacetti, che aveva preceduto il Marchesi, era cresciuto Francesco So­maini di Maroggia, uno dei nostri ultimi neoclassici.

Coll'unità d'Italia, l'Accademia rinno­vò i programmi aggiornandosi confor­memente a un piano di studi elaborato da una commissione governativa nella quale anche il Vela ebbe a dir la sua. E se pure non si verificò quello che l'architetto pa­dovano Pietro Selvatico andava gridan­do, e cioè che era tempo e ora di dar il fuoco alle accademie e ritornare alla bot­tega, ma finiva per scadere in una nuova accademia con fa sua architettura rigida­mente goticizzante, e gli artisti milanesi e lombardi non giunsero a una apet!a ribel­lione come stava accadendo 10 Toscana coi macchiaioli, il grido di Nino Costa, ma questo era romano, «in arte libertas", passò infine la porta di Brera vincendo convenzionalismi e formalismi, estro­mettendo la composizione considerata una costrizione aella spontaneità, la scuola dei gessi tratti dalLi statuaria clas­sica fu giudicata avvilente, e recando nell'aula d'ornato una pianta d'alloro, vi entrò la rivoluzione. Per la pittura storica era venuto il momento di chiuder l'anta, l'architettura, messo in un canto il Vi­gnola, apriva le porte all' eclettismo, la scultura affrontava il vero. Il bergamasco Cesare Tallone, successo al Bertini, anzi­ché precettare dalla cattedra spalancò l'aula alla semplicità e . alla naturalezza dell' antica bottega, col progredire della tecnica progredì lo studio dell'arte appli­cata, gettati i vecchi paludamenti i glOva­ni allievi erano affascinati dai nuovi pro­blemi della luce e dell' atmosfera, si eliscu­teva di divisionismo, si discuteva il sim­bolismo, la scapigliatura di via Vivaio aveva mandato folate d'aria fresca nelle stanze mal illuminate, un primo serpeg­giante socialismo umanitario invitava a interpretare la realtà sociale.

Fra gli architetti avevan voce Luca Bel­trami, grande intenditore di restauri, e, come il Nava, consultato anche da noi; e Camillo Baita che invitava gli scolari a non pungersi gli occhi sulle tavole archi-

56 tettoniche ma a spalancarli sui monu-

Adolfo Feragulti Visconti

menti vivi di Milano studiandoli in diret­to, e anche questo insegnamento libera­tore fu poi praticato da qualche nostro maestro di disegno che osò mandar fuori i ragazzi a disegnare dal vero, sfidando l'opposizione opaca dei direttori didatti­ci che temevano per la disciplina. Come molto. insegnò alfe nostre scuole il ferra­rese GiusePl?e Mentessi, successo al Tal­lone, che, Chiamato nella commissione di vigilanza, introdusse un metodo piano e semplice p'er lo studio della prospettiva, arte difficile, adottato a lungo nel nostri ginnasi. Il pittore Pietro Chiesa, già suo allievo, e poi collaboratore e amico, lo ri­cordava come "una delle anime più belle e generose» che sapevano prodigarsi per gli scolari "dimenticando anche il pro­prio lavoro personale, con la passlOne dell' apostolato». .

Col Chiesa, per rispettare i limiti tem­porali della càrtella, Sl può anche sospen­aere questa corsa attraverso Brera cIie si prolunga dentro il nostro secolo e non si è fermata, com'è naturale che sia. Distri­buite nel tempo considerato, le presenze ticinesi sono foltissime, e basterà appena menzionare quelle che fin qui hanno una voce ormai riconosciuta. Fra gli architetti: Domenico Gilardi, Pietro Bianchi, Do­menico Gilardi, Giuseppe Stabile, Giu­seppe Fraschina tutti luganesi del borgo o della campagna, i Fossati di Marcate, Antonio Croci di Mendrisio; fra i pittori, i luganesi Angelo Trezzini, Ambrogio Preda, Adolfo Feragutti-Visconti, Luigi Rossi, e Bernardino Pasta di Mendrisio col bellinzonese Augusto Sartori; e con gli scultori, Grazioso Rusca di Rancate e Raimondo Pereda. Tutte presenze par­lanti, con i soci onorari ticinesi dell'Acca­demia anche se non vi passarono tutti, di un capitolo della nostra storia culturale che, piuttosto ancora inesplorato, aspet­ta sempre qualcuno che lo restituisca de­bitamente illa luce.

Ernesto Fontana

Filippo Franzoni

Giocondo Albertolli (statua.in Brera)

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Due artisti e il loro paese: Vanoni, Rinaldi

Quando nel maggio-ottobre del 1937 si tenne al Castello di Trevano di Lugano la «Mostra ticinese d'arte dell'800 e con­temporanea», in cui si riproposero i «pit­tori del paese» quali Antonio Rinaldi, mendrisiotto, Giovanni Antonio Vano­ni, valmaggese, e Carlo Agostino Melet­ta, onsernonese, uno storico dell' arte di formazione antiquaria e tradizionale, so­lerte e benemerito studioso degli artisti e dell'emigrazione artistica ticinese, Ugo Donati, insorse contro «l'ubriacatura, che potrebbe essere contagiosa», che ave-

a preso taluni (e non soltanto studiosi e addetti, ma anche personaggi officiali co­me Giuseppe Motta, al quale Donati non risparmia le ironie per aver accostato il Vanoni a Giotto). 10 strale col}?iva forse principalmente Piero Biancoru che nel '33, dopo le mostre locarnese e luganese dell'anno precedente, aveva scritto la pri­ma monografia del pittore valmaggese, divenendo da quel momento il maggiore propugnatore i:lella singolare grandezza di quell'istintivo. Il fatto rappresentava una svolta nella cultura artistlca locale e metteva in sostanza di fronte due diverse concezioni e sensibilità. Da una parte la continuazione del concetto classico (i cui canoni al Donati sembravano violati per­fino dal Vela, 'p'olemicamente limitato in taluni risult~tl), dall' altra il sorgere di una concezione più ariosa e spregiudicata del documento artistico. In realtà non si trattava soltanto di giudizio estetico, ma di una proposta nuova per indagare la storia stessa del paese. Infatti le implica­zioni del panorama figurativo proposto dal Vanoni e da altri operatori di quelle rustiche scuole diventavano specola di osservazione della vita e del costume (la figura e il ritratto, le scene degli ex voto, fisionomie e abiti), porgevano materiale concreto }?er penetrare la vita civile, feno­meni stonci e sociali come l'emigrazione, interni di vita domestica. Si trattava dun­que della riappropriazione di una forma di identità, di spintualità semplice e inge­nua, immediata, che costituiva testimo­nianza concreta e prorompente su cui in­tessere un discorso storico e umano di maggiore aderenza. Insomma da qui po­teva partire una microstoria significativa e illuminante, della quale si sarebbe av­vantaggiato il quadro più ampio della connessione storica.

Sarebbe forse ingiusto attribuire l'at­teggiamento critico del Donati a incom­prensione di certe realtà popolari e pro­fonde che si facevano strada. In effetti si tratta,:,a.di due posizioni: se mantenersi entro l .n~orosi confini, per cosi dire, del­la classlC1ta, o se aprirsi con moderna sen­s~bilità all'i~tintivo; se per fare arte e rag­gtungere gli effetti rappresentativi (t di ci-

A. Rinaldi (La polenta)

viltà si dovesse passare tra i tavoli e i cal­chi delle scuole di disegno e le accademie, o se ci fosse un' altra scuola di osservazio­ne e di vita vissuta nel villaggio, tra la gente in carne ed ossa. Sarebbe inoltre ri­duttivo dell' atteggiamento tradizionale del Donati, non soltanto tàcciarlo di «in­sensibilità» storica e artistica, ma tacere che proprio in quell'occasione egli si mo­stra più incline ad accettare il Rinaldi, con tutti i suoi difetti e limitazioni cultu­rali, e addirittura celebrare il Meletta per i ritratti esposti «di una singolare ingenui­tà e semplicità, plastici, impostati ottima­mente e di gusto aristocratico, che sor­prende in questo montanaro che vestì le contadine del suo paese con abiti prezio­si». Certo non sfuggirà nel giudizio che la soddisfazione si avvale dell'« aristocrati­co» che mitiga il «montanaro»: ciò che era irriscontrabile nel Vanoni.

Innegabile merito del Donati è tutta­via suello di mettere in guardia contro le facili amplificazioni citatorie (riferimenti a Holbem, a Goya, a Teniers, a svariati fiamminghi e olandesi), sempre seducen­ti quanto improbabili. Di conseguenza succede che, andando, su schemi moder­ni, a cercare d'individuare una categoria generale ( e non soltanto particolare della loro individuale attività) e spiando qual­che casella confacente in CUI costringerli senza troppo disagio, si fa l'ipotesi di una pittura «nalve» dalla quale resta escluso ovviamente il Rinaldi e nella quale si può tentare d'incapsulare il Meletta e il Vano­ni. I quali due sorgono e operano in terre­no propizio a questo genere istintivo, isolato aai contesti accademici e scolasti­ci, che si riscontra« specie nelle valli supe­riori remote da facili contatti e quindi di più vigoroso carattere». Ma lo stesso Bianconi cheformula in breve nota l'ipo­tesi si ritrae prudenzialmente, anche per altri casi, come quello di Cherubino Patà,

scrivendo: «Tutti pittori sui quali è lecito nutrire ~ualche dubbio, se proprio siano da includere nella variopinta schiera dei pittori della domenica». Anche perché essi sono professionalmente pittori, e non per intermittenze, «loisirs" illumina­ti da estrosità temporanee: tanto è vero che sono impegnatl dalla committenza in larghi affreschi di chiese e di case civili.

Tuttavia i riferimenti chiarificatori hanno un loro valore. Se per il Rinaldi è assai facile riconoscere, sulla scorta stessa del suo curriculum professionale, un pit­tore di formazione accademica che s'indi­rizza, per sua naturale e schiva elezione, a generi che coincidono con l'atmosfera paesana di scene di vita, mentre la sua ri­trattistica privilegia, com'è naturale, la galleria di personaggi borghesi, accanto alla pittura religiosa di chiese e cappelle, e negli affreschi di case civili, la mItologia, l'allegoria e la storia, tutte cose che riflet­tono l'ambiente e la cultura di formazio­ne, il Meletta e il Vanoni non solo si di­staccano da queste preoccu}?azioni per la loro stessa formazione artigtanale e ili au­todidatti, e natura, ma si ritrovano a rap­presentare un mondo le cui asprezze e il cui isolamento li connota con più pro­fonda ed esclusiva evidenza fisionomica e somatica e con il richiamo di eventi mi­nacciosi più frequenti in loco e nei tra­vagli remoti ma rievocati dell' emigrazio­ne, da cui deriva, nel Vanoni, l'abbon­dante reEertorio degli ex voto. Le vere ra­dici dei i:lue sopracenerini e vallerani so­no la loro gente, la vita della comunità cosi com'è osservata, senza mediazioni accademiche. Nel Rinaldi la mediazione della conoscenZa di scuola e, sia pure for­se superficialmente, della pittura colta che SI fa negli ambienti milanesi e lom­bardi rimane un'impronta costante.

Quel tanto di «idiotismo» - nel senso di accentuazione di lingua terriera e dia- 57

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Iettale - che è in loro, che è del resto la loro originalità e forza, non importa, del resto, sforzarlo in quella direzione, quan­to riconoscerlo per un elemento costitu­zionale di una cUltura di autosufficienza espressiva e rappresentativa. t inconta­mlOazione, soprattutto nel ritratto e nell' ex voto, è garanzia di autenticità del documento, per cui possiamo riferirci al­le loro tele e tavolette come a documenti iconografici di lettura storica, sicuri che la tentazione di abbellire, di aggiungere anche nel particolare ornativo, allusivo, non altera la sostanza del documento: certa abbondanza di libri e libroni a sfon­do del personaggio, per esempio, allude alla condizione civile e in fin dei conti la rappresenta fedelmente proprio perché presumibilmente la rende oggettualmen­te abbondante. La stessa cosa si 'può dire degli apparati di ornamenti e giOie (si ve­da speci3lmente il Meletta) che rivestono il personaggio femlfi~~e, quasi una ras­segna della volontà di «lhZOlare» traendo da cassapanche e rustici fortieri il meglio per l'occasione irripetibile: ingenua vani­tà che, da una parte in quel momentaneo sfavillio - "una sorta di magia primitiva che ammanta di beltà le fatiche dei popo­lani dell'Onsernone», osserva Angelo Casé per il Meletta - c'induce a gettare uno sguardo sulle poche sudate ricchezze del magro campo famigliare o sulle po­che gioie del risparmio dell' emigrante, magari dei frutti dell'industria locale, e dall'altra sembra tenda tirata sulla condi­zione di fatica e di povertà del quotidiano i~ rapporto all'eccezionalità della parata pittonca.

Temporalmente siamo alla concorren­za del ritratto fotografico che sentirà le stesse esigenze dello scenario, della posa con l'abito di gala. Ma quale che sia r ese­cuzione e lo spirito del singolo artista, la galleria che si salda dal ritratto borghese della regione aperta, affacciata su un' eco­nomia agraria più agevole sollecitata da un padronato terriero di ascendenze ari­stocratiche, a quello di valle e di monte che riflette le asprezze di una condizione di occupazione e di vita notevolmente di­verse, ci permette, oltre ad affaciarci su un capit010 alterato da poche mediazio­ni, e di conseguenza specchio di una cul­tura autentica, di singolari esiti, di rico­struire una condizione di vita e sociale con strumenti reali.

La scena, in cui il paesaggio, la fatica quotidiana, il mestiere offrono squarci il­luminanti di condizioni esistenziali, parla da sé nella sua realtà di atteggiamenti, persone e oggetti: il documento icono­grafico resta dunque attendibile. Nei ri­tratti invece si affaccia un'ulteriore possi­bilità: quella di studiare nei volti, nelle fi­sionomie, nel realismo rappresentativo del pittore (esi direbbe rerfino di cono­scenza consanguinea de soggetto), una

58 realtà umana, un carattere, e finalmente

una storia che si legano al tempo e che in qualche modo la rappresentano. Per cui non soltanto la caratterizzazione ambien­tale, del vestire, ma il gesto, la guardatu­ra, i segni incisi nei volti stanno in una storia precisa di uomini in un determina­to paese. In questo, forse, sta la ragione più profonda dell'essere «pittori di pae­se» di questi artisti che operano paghi di stare chiusi in quella comunità di cui co­noscevano a fondo l'umanità, la ragione di essere cos1 com'era.

* * * I nomi del Meletta, del Vanoni, del

Rinaldi sono i più significativi e ricorren­ti nella ricostruzione della compagine ti­cinese dei «pittori di paese». Premessa la non necessaria cifra dell'istintività o dell'attivazione anedottica della vocazio­ne del ragazzetto di paese che si scopre dentro illustratore deIla realtà circostante (gente e avvenimenti), per cui l'artista educato e formato tradizionalmente e poi, magari alla lontana, informato delle mode che prevalgono nella I;'rovincia ita­liana, può recare documenti dlustrativi di uguale seppur diversa evidenza, la schiera può ragionevolmente infoltirsi. Ma il fat­to nuovo è che si tende, a ragione, a mol­tiplicare le aggiunte nella direzione del non accademico.

È il caso di Cherubino Patà, verzasche­se, nato a Sonogno nel 1827 e morto a Gordola nel '99: prima pastorello, poi ar­rotino, calato temporaneamente a Firen­ze con qualche contatto con il celebre conterraneo Ciseri, ritornato al paese a partecipe dei moti del Pronunciamento nel '55 e perciò "esiliato» a Parigi, dove lavora con il grande Courbet, mettendo, pare, la firma del maestro dove sarebbe andata legittimamente la sua; e malgrado questo inopinato sodalizio, segnato dalla «nativa inclinazione di pittore analfabe­ta» che sa conservare fa sua «rupestre energia». Ma se appena cerchiamo altro­ve, verso la «Bassa» cantonale, ricaschia­mo nella scuola e nell' accademia, nell' epi­gonismo della tradizione ritrattistica illu­stre, per esempio con un Bernardino Pa­sta, mendrisiotto, vissuto tra il 1828 e il '75.

Più di qualche parola suppletiva meri­terebbe il pittore onsernonese a cui ab­biamo fatto già riferimento, tanto ammi­rato quanto poco studiato, fino però alla recente monografia di Angelo Casé, bio­grafo-interprete che ha saputo dare un singolare e seducente tagho di vita-rac­conto su cui innestare la descrizione e la caratterizzazione della produzione I>itto­rica inserita nella realtà e nelle vicenoe sia pur minime della valle e del paese e nelle peregrinazioni intermittenti e fatte con­trovoglia: il paese racchiude il Meletta, per una scelta spontanea degli esemplari della sua arte, cos1 come isola il Rinaldi pe~ una scelta personale e del carattere, di

modo che la domanda che lo storico si ri­volge circa gli esiti e i risultati che si sa­rebbero avuti se fossero usciti dal loro guscio paesano non deve avere sapore di rimpianto per un'esperienza inconclusa, incontrollabile, ma un omaggio alla loro qualità, seppur diversissima. Il giusto e il bello è proprio accettarli per quello che sono, anzi cne fortunatamente sono stati nella naturalezza delle loro inclinazioni.

Carlo Agostino Meletta era nato a 10-co nel 1800; morì nel '75 cadendo dal­l'impalcatura sulla quale lavorava ad af­freschi nella Parroccbiale di San Nicolò di Bormio, ultimo viaggio nella terra val­tellinese nella quale aveva già operato an­che come ornatista e aggregato a lavori collettivi. tapprofondito studio recente conferma l'esattezza delle conclusioni qua e là già avanzate: il ritrattista esce in tutta l'evidenza della sua nativa disposi­zione di osservatore acuto, di scrutatore del modello, ma anche di attento conno­tatore della varietà umana nella sua storia collettiva: «Il sacerdote - enumera Casé - il commerciante, il soldato, l'uomo di legge, il contadino: una variata gamma di tipi, con i loro tic interiori svelati da una smorfia, da una strizzatina d'occhio, dalla semplice curva delle spalle. Ma su tutta l'adunata dei modelli, sono le donne, a nostro avviso, ad avere la palma: la sensi­bilità del pittore avendole cantate nelle loro oscilfanti espressioni, ora incise da tristezze nervose, ora espanse in dolcissi­me meditazioni». Ma è vero anche quello che nota Bianconi e cioé che nei ntratti melettiani vi è « una singolare accensione fantastica nel colore ardente, nel tono va­gamente allucinato e nella minerale fissi­tà dello sguardo: tale che insieme incan­tano e quasi inquietano».

Altro campione, forse il più scrutato e largamente 'proposto tra questi nostri "'paesani», GlOvanni Antonio Vanoni. Il pIttore valmaggese nacque ad Aurigeno nel 1810. La sua forma2Ìone è incerta, ma è invece quasi certo che abbia fatto qual­che soggiorno in Italia, a Milano e forse a Roma. Nella sua produzione si distin­guono i ritratti, gli affreschi di capI>elle e di chiese (si ricordi la Parrocchiale di Au­rigeno, poiché gli toccò «l'ambitissimo incarico di decorare da cima a fondo la chiesa del suo villaggio»), la decorazione di case civili, e la ricca e interessantissima serie di ex voto. Questi documenti della religiosità e della vita di lavoro e di fatica, ma anche di ambiente a volte partecipe nell'essenzialità del paesaggio ([a rupe, il fiume impetuosQ, la balza stretta di cui rotolano sassi e vittima), a volte accom­pagnato negli interni da un accumulo esornativo che rientra nella «fastosità va­noniana» prendono un particolare rilievo storico e umano. La frequente proposta del Vanoni come illustratore esemplare di una certa vita alpestre e di valle è del tutto legittima e certamente il valmagge-

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se la vince per aderenza dei temi alla vita, per immediatezza di assunti, per autenti­cità di notazioni che vanno dirette dal modello o dalla vicenda al pittore: ciò che non accade, se non raramente, nel Ri­naldi. Se qualche accostamento è certo possibile, rimane proprio questo fonda­mentale clistacco, che appare perfino più importante della fattualità ambientate. Vanoni è un cronista nel quale passa la storia individuale per quella che è stata (nei ritratti naturalmente) e passa il desti­no dell'individuo e della comunità nel suo realistico e intero significato (negli ex voto). Di conseguenza, per <:ontinua­re a chiamargli accanto il Rinaldi, egli non è pittore di «genere» nel senso di bozzetto e scenetta, semmai di un genere che mescola il religioso alla vita reale co­me riflesso di un appiglio disperato quanto più ingenuamente raffigurato; e naturalriiente non si sogna neppure di concedere allo «scherzo», perché se vi è notazione curiosa nasce dall' osservazione rigorosa del reale.

Anche dove le invenzioni suggerireb­bero qualche evasione dalla realtà cono­sciuta (come nel Presepio valmaggese, ora nel Museo di Cevio, o nelle decora­zioni profane, nelle quali la malavoglia evidente ad andare al di là nel mondo del­le allegorie e delle mitologie è un'altra ri­prova, o perfino nelle religiose «che egli deduceva con ingenua libertà da devote oleografie o dalla "Galleria biblica" o dal "Leggendario dei santi", da credere che fosse sincero quando dichiarava al sussie­goso Ciseri cIle gli faceva del bene») è ben vero che non c'è soltanto il riscatto G.A. Vanoni (Alberico Dellagana) dovuto alla fresca virtù del colore, ma il fondamento popolaresco fuori del quale non vive più la sua arte: si veda come il porto di Iiverpool e la scena d'aratura, nella villa di Muralto, riducano il motivo remoto e fantastico al realismo dell' osser­vazione e dell' esecuzione.

Il Vanoni morì nel febbraio del 1886. Il giudizio che Piero Bianconi espresse quasi come ovvia conclusione nel suo primo importante intervento sul pittore nel '33 rimane sostanziale al suo significa­to di "pittore di paese» appunto: «:Cope­ra di GiOvanni Antonio Vanoni resta una eloquente e nobile testimonianza della fede, della gente e della dura vita delle no­stre valli nel secolo scorso. I suoi vigorosi affreschi, le sue cappelle e le sue madon­ne ricordano l'umile sicura fede vallera­na. I suoi potenti ritratti fissano le fattez­Ze e la fisionomia spirituale, l'anima della gente nostrana; e insieme riproducono fedelmente le pittoresche e gentili fogge del vestire di un tem.e0' I suoi ex voto narrano l'aspra diffiClle esistenza della po,!era gente delle nostre vallate e dicono lOSleme la serena fede che l'addolciva ... Far rivivere le. opere di questo pittore mi pare segno di fedeltà aI Ticino umile e povero: che è poi il solo vero Ticino». G. Antonio Vanoni 59

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All'altro capo del paese Antonio Ri­naldi: altro ambiente? altra educazione? altro spirito. Nato a Tremona nel 1816, vi mod nel '75. Il Rinaldi è un allievo di Brera, del Sabatelli, toscano e «disciplina­tissimo disegnatore». Pedaggio obbliga­to, nelle prime 0l'ere, le scene storiche. Del restol'educazlOne letteraria non è af­fatto assente se si possono accertare fre­quentazioni di Dante, del Tasso e di Mil­ton, del Manzoni; e non sarà da sottova­lutare questa fonte letteraria, almeno nel­lo spirito, per taluni «scherzi .. pitto ici, il Berni; e la presenza dei ritratti di Leonar­do, Raffaello e Michelangelo, da lui di­pinti, che ornano la sua casa di Tremona, perché anche questo-un dato di cultura piuttosto che un qualsiasi aggancio di fi­gliazione (un atteggiamento simile a quello del V da, conterraneo e coetaneo). Se guardiamo ai ritratti, anche al suo -casquette di studentello teutonico o di una sorta di precineasta, camicia candida e cravattino annodato a farfalla - , a quel­lo della moglie con la figlia, al gruppo delle signorine Spinelli, ai ritratti degli amici Chiesa di Sagno, un gradevole ven­to di buona borghesia e di tranquilla cam­pagna ci tocca discreto e rassicurante. Gente che percorre, come avrà fatto chis­sà quante volte l'arguto professor Simo­nim, poi ragioniere in proprio e contabi­le, da lui ritratto, le polverose e quiete strade tra l'uno e l'altro dei luoghi di col­lina, o se ne sta nei giardinetti e nelle sa­lette delle abitazioni borghesi e borghi­giane; gente che avrà avuto i suoi crucci, le sue disgrazie, ma che sembra acquie­tarsi nell'idea della conciliabilità delli vi­ta. È certo che non tutti sono lontani dai rischi: tra i cavatori di marmo della Mon­tagna la disgrazia è in agguato, ed ecco esplodere il c;lramma del faticare; la vita stessa sorprende con la subdola malattia, e il marito ancora con il cappello in testa si ritrova presso il talamo doloroso dove si spargono le lunghe chiome muliebri dell'inferma; e un piacevole viaggio in carrozza volgersi in dramma tra imbizzar­cimenti di cavalli, impotenza di ~sti­glioni nerboruti, ribaltamenti miodiali; siamo insomma all' ex voto, discretamen­te praticato dal Rinaldi (nel quale è curio­so notare l'assenza di Madonne e Santi soccorritori solleciti, altrove sempre ben individuati, perché si deve pur sapere a chi dire grazie). Il paese lo teneva e fo per­suadeva. Anche per affrescare chiese non andava lontano. Nella prossima Brianza, e magari una puntata tra le montagne che gli devono essere sembrate im~ie, fi­no a Cavergno. Quando si deade ad an­dare fino a Ginevra e nel paese di Vaud, se ne torna in tutta fretta giurando tra sé di non più allontanarsi; e gli amici che lo conoscono e sanno di che pasta sia l>uo­mo, casalingo,. radicato al paese, appas­sionato della moglie e della famiglia, scri-

60 vono a coloro che, lontani, sollecitano la

sua opera: «È un benedetto uomo troppo attaccato ai suoi paesi e alla sua famiglia, specialmente adesso che la sua signora moglie trovasi in stato interessante ... », circostanza non infrequente, si è già pas­sata la mezza dozzina. Uomo di carattere talvolta più che malinconico, cupo, spes­so lo prendono le paturnie e allora si rin­tana, è preso da profondo sconforto, al punto che gli amici si muovono a confor­tarlo, come capita al suo collaboratore decoratore e ornatista Innocenzo Chiesa, padre di Francesco, che prende su da Sa­gno e si mette la strada tra le gambe fino a Tremona'per tentare di rinsavirlo. Eppu­re Antoruo è anche socievole, ama le fe­ste nella sua casa, ha amici. Forse la sua aspirazione è la quiete, la domesticità, il silenzio del villaggio, dello studio, e stare a disegnare, a dipirwere le scenette di osteria, di bozzetti di scene rustiche (la polenta, i bevitori, il grotto, gli scherzi al­la servente) o fantastiche (aggressioni e liti notturne, chiaro di luna e case diroc­cate). Da questa quiete escono innume­revoli quadretti di genere che faranno pensare ai fiamminghi, e poi, ripreso do­po <J.ualche dimenticanza, si sentiranno nOffil improbabili al confronto: Magna­sco, e Goya nientemeno, ma sarebbe più saggio rovistare tra certa pittura 10m Dar­da del tempo, pensare all'Induno . . .

Del resto, senza concedere alla fanta­sia, non è che qualche fatterello clamoro­so della cronaca di villaggio non possa ispirare; anzi è quello il momento 10 cui si può essere chiamati a fissare il fatto me­morabile. Come quando un ladruncolo, nottetempo, cerca di penetrare sacrilega­mente nella chiesa di S. Silvestro a Meri­de, ma è intrappolato nell'inferriata e trattenuto nella tagliola fino al mattino, spettacolo per un altro spettacolo di gen­te che, nel <luadro del Rinaldi, accorre da tutte le partI: i preti curiosi e dominanti, le signore nelle 10r fogge festevoli, i nota­bili del paese e i magistrati del borgo, la forza pUbblica con i suoi ~endarmi mar­ziali, Pincessante parapiglia dei monelli. Occasione ghiotta, squarcio vivissimo di vita paesana e di tipi adunati dal curioso caso, spunto quasi Testoso e insieme non privo ili un suo risvolto educativo ed esemplare, aneddoto che i buoni parroci sapranno inserire nelle lor prediche di sa­gra e di feste patronali.

Il Rinaldi ha avuto la fortuna di trova­re un collezionista che «andando per case e solai, frugando fin nelle cantine e uscen­do sulle logge dove appesi a un chiodo dondolavano al vento telette e cartoni ri­naldiani» ha radunato nella sua villa, e poi nella Pinacoteca Ziist di Rancate, «gran parte del tanto che il pittore, sere­no nume indigete di queste terre - com­menta Giuseppe Martinola - aveva ope­rato: e che a considerarlo come si deve, comunica, come ogni artista autentico, un diffuso senso di pace che nutre

Antonio Rinaldi

l'anima, come un canto che viene dal cuore".

Mostra ticinest d'arte dell'800 e contemporanea, Lugano 1937.

Ugo Donati, Vagabondaggio Contributi alla storiografia artistica ticinese, Bellinzona 1939.

La donna ticine.rt nel ritratto. Catalogo a cura di Giuseppe Martinola, Lugano 1946.

L'ex votri nel Ticino. Introduzione di Piero Bian­C?ni. Catalogo ragionato di Giuseppe Martinola, Lòcarno 1950.

Virgilio Gilardoni, Vita e costumi nell' arie delle valli e terre ticinesi, Bellinzona 1969.

I naift. Mostra internazionale, Lugano 1969. Piero Bianconi, Ex voto del Ticino, Locarno

1977.

Per il Rinaldi: Società ticinm per le Belle arti. Catalogo officiale

della Esposizione annuale, Lugano 1926; William Ritter, Antrinio Rinaldi, nel-Corriere del Ticino», 20 agosto 1926; Mostra del pittore Antrinio Rinaldi, Mendrisio 1945; Il Mendrisiotto. Te,sto e illustrazio­ni di Piero Bianconi, voI. I e Il, Zurigo 1945/47; Pietro Gini, AnkJnio Rinaldi di Tremona (1816-1875) in -Rivista archeologica dell'antica provin­cia e diocesi di Como., a. 1950/51 ; Pinacottca cankJ­naie Ziist Rancate. Catalogo a cura di Giuseppe Martinola, Bellinzona 1967; Giuseppe Martinola, Inventario d'arie del Mendrisiotto, 2 voli., Bellinzona 1975.

Per il Vanoni: Piero Bianconi, Giovanni Antonio Vanoni fittort,

1810-1886, Bellinzona 1933; idem, Giovanm Antri­nio Vanoni pittore 1810-1886, Locarno 1977; idem, Vanoni che lui, Locarno 1968 (Estratto).

Per il Meletta: Angelo Casé, Carlo Agostino Melella (1800-

1875), Losone 1982.

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Concezioni mitiche attorno alla figura del prete

Il dibattito sul folclore sviluppatosi in ~uesti ultimi anni con notevole vigore a livello sia scientifico sia di pubblica opi­nione comporta anche un riSveglio di ln­

teresse per la religiosità popolare studiata dalle diverse scienze umane con un ap­proccio interdi_sciplinare. In prospettiva antropologica gli atti religiosi vengono esanunati quali componenti della cultura di un gruppo, quale parte del sistema di valori di una determinata formazione so­ciale. Si esplora il ruolo della religione in rapporto lI.l vissuto delle classi subalter­ne, l a si considera in relazione a contesti societari diversi, da quelli contadini a quelli nati con la rivoluzione industrale. La religione popolare presenta molteplici modi che vanno dalla ricezione, aditta­mento e reinterpretazione delle forme ri­tuali della chiesa, a quelli, quantitativa­mente assai più ridotti, di specificità po­polare autonoma: essa si pone cos1 in ter­mini di rapporto (assunto, respinto e modificato) con la religione prescritta e normativa. Essa si esplica in una quantità di modi: devozioni, specificità geografi­che e sociali del culto dei santi, preghiere popolari, canti, ricezione di modelli e di testi di edificazione, oggetti della vita re­ligiosa popolare (<<abitini» con contenuti benedetti, ex-voto, panni e mazzi rituali), pratiche diverse, dai riti funebri a quelli della suscitazione della pioggia.

Tutto un discorso che è necessario af­frontare anche per le nostre zone. Qui es­so può essere solo indicato. Al più qui ora è possibile avviarlo adducendone a mo' d'esempio una microcomponente, un tassello.

Cesempio potrebbe essere quello delle credenze legate in passato, neJle nostre terre, alla figura del prete: un aspetto po­co trattato nel pur ormai già in più punti esplorato campo della religiosità popola­re italiana 1 •

Come era visto il prete dal popolo? I dati che seguono provengono da rilievi personali relativi al periodo a cavallo del secol0 2• Per la gente nostra il prete era

. una figura di rispetto, di prestigio, un punto di riferimento 3: interessanti in proj>osito certi passaggi del Questionario preliminare per la visita pastorale ai MM.RR. signori Pamri, Vtce-Pamri ed Economi Spirituali che, voluto da mons. Molo, esce a Lugano nel 1890: le pp. 10-1~ ad esempio rivelano le attese dara Cu­na dal curato nelle sue funzioni e nei suoi rapporti cop.ia comunità di cui era parro­c~. Ma accanto a questi atteggiamenti no­o affiorano anche altre concezioni assai , meno note.

Colpisce innanzi tutto per radicatezza e diffusione l'idea del prete che «faceva la

,

Preti (schizzo di F. Franzoni)

fisica» 4: il prete cioè .come colui che, for­nito di poteri particolari, poteva eseguire operazioni di tipo magico. Alcune delle molteplici testimonianze - che, super­fluo avvertirlo, presentavano sempre i fatti come realmente accad~ti - possono chiarire la cosa. Vedi il racconto (di un' anziana, 80 anni nel 1968 ) della donna di Prugiasco che agli inizi del secolo, per quanto ammonita dal curato a non uscir di casa prima dell' avemaria si ostina a la­sciare la casa per governare le bestie anco­ra nella notie, finché un giorno all' alba scopre con orrore in un prato una molti­tudine di animali aggrovIgliati in una vio­lenta lotta: ha un bel lanciargli contro forche, falci, vecchi ferri, bastoni, ma in­vano~ a giorno fatto, sul prato non vi è traccia di nulla: l'apparizione era stata su­scitata ad arte dal prete.

Un' altra volta, ai beoni dell' osteria che avevano accolto sghignazzanti il suo invi­to a frequentare la messa, il prete «fa la fi­sica» suscitando la visione di un funerale, seguito dalla gente del paese; tornati pre­cipitosamente a casa, gli irriverenti non trovano le mogli e credono spaventati d'aver assistito al loro funerale.

Sempre agli inizi del secolo, una don­na, «su a monte», rer quanto si affanni non riesce a fare i burro; finché, inso­spettita, scopre una volpe che la spia: la prende a legnate, mettendola in ruga az­zoppata. Cindomani, scesa in paese, in­contra il prete che si trascina in giro mal­concio ed azzoppato: era lui che, trasfor­matosi in volpe, batteva la fisica! Cos1 sempre l'anziana di Prugiasco.

I suoi racconti non sono per nulla iso­lati. A Olivone il prete faceva la fisica mostrando un'automobile su a Pian d'Usceit. A Ghirone l'istituzione della decima ecclesiastica veniva connessa con la temuta possibilità del prete di giiigd la ftsica: fatte scomparire le bestie daI mon-

te di Magordino e trasferitele in tutt' altro luogo, a Sur Pareit, aveva preteso dai contadini, per la restituzione, una decima di grano. Cultimo parroco di Pontirone «giocava la fisica», moltiplicando tra l'al­tro -il vino e le luganighe della cantina.

Anche a Comologno ci narrano nel 1968 di un prete che «batteva la fisica» tra l'altro chiamando a tavola un cane im bal­samato e facendolo mangiare, guaire, sco­dinzolare e facendo uscire dai quadri Raf­faello e Michelangelo, che scendevano a conversare con lui di pittura e di arte.

Un accenno di spiegazione compare a Bigogno: gh'eva un prevat che l fama fisi­cai tanti i (iis che anca i pret i stildia la fisi-ca ... 5•

Alla base sta l'idea popolare del parro­co come detentore deI libro, del sapere, ma anche la concezione del prete come colui che disponendo di forze particolari può usarle a proprio arbitrio, a scopi buo­ni ma anche a fini cattivi 6, interpretazio­ne questa che compare anche in rapporto alla benedizione del prete cui rispondeva la paura delle sue maledizioni. Come è ef­ficace nel benedire può esserlo nel male­dire: i prèvet i po' benedì e maledì (!sone). Abbondanti i (lati in proposito. A un tale di Menzonio che sottoponeva il parroco a continui dispetti (gUstoso il racconto popolare che lo mostra intento a far pio­vere dal camino ossa e terriccio nella mi­nestra del curato), il prete lanciò la male­dizione di rimanere a consumarsi e putre­fare nel letto per sette anni, cosa che ine­sorabilmente si verificò. A Sonogno, il prete, derubato di una capra, maledl alla calvizie i membri della famiglia responsa­bile, che oggi ancora ne soffrirebbero 7.

Si giungeva a pregare il prete di «toglier la maledizione». Rispetto per la persona consacrata, ma certo anche timore della maledizione erano all' origine di certi det­ti, del tipo: a prevet e frati l'auzagh el capell 61

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e lasagl andd, a preti e frati alzare il cap­pello e lasciarli andare, cioè non bisogna parlarne male (Soazza), pret, Papa e Re, o parld ben o tasi, prete, Papa e Re, o parlar­ne bene o tacere (Comasco) e quello cita­to in lingua: la veste nera tinge B•

A certi preti 9 era poi attribuita la fa­coltà della Idromanzia, con il noto proce­dimento della caraffa magica, e della ca­toptromanzia, della divinazione cioè con specchi e superfici brillanti 10. Qui le atte­stazioni sono più sporadiche che non per il «far la fisica», ma tanto più preziose per la componente di continuità, se si pensa che la pratica era esercitata tale e qu3.1e nel Seicento per esempio da certi preti valtel­linesi per identincare i responsabili di stregherie e malefici 11.

il discorso deve svilupparsi da un lato .sul come era visto il prete, dall'altro su <J.uanto egli faceva. E qui vanno almeno atati lo «scongiurare i morti,., il «segna­re" 12 malattie intese come dovute a ma­locchio, interventi operati in passato da parecchi preti e oggi svolto dafaici 13. Pu­re da segnalare la preparazione, da parte di certi nostri preti agli inizi del secolo, degli stoma~hitt o stomaghiriJiJ, minuscoli sacchetti di tela contenenti di regola tre grani di sale, tre foglie di ulivo, mollica di pane e tre frammenti di cera benedetta, che certe persone portavano al collo per proteggersi dal male.

Testimonianze come queste mostrano all'inizio del nostro secolo la presenza, at­torno alla figura del prete, di una fascia insospettata di credenze di tipo magico e denunciano l'esistenza, «fino all'altro ie­ri», in certi strati della nostra popolazio­ne, di stravolte concezioni sulfa funzione sacerdotale, impoverita in larga misura dei suoi contenuti religiosi e spesso frain­tesa nel senso di una forza meramente magica.

1) Vedi V. Lanternari, Religioni primitive e religio­fU popolare, Roma 1975; FolkJore e dinamica cultura­le, Napoli 1976; La grande festa, Bari 1976. A.M. Di Nola, Gli aspetti magiro-sociali di una cultura subal­tema italiana, Torino 1976. S. De Rosa, Chiesa e re­ligione popolare nel Mezzogiorno, Bari 1978; AA.VV., Religione e politica. Il caso italiano, Roma 1976, parte prima: Re7igione e cultura rontadina; AA.VV., La re-7igiosità popolare nella valle padana, Firenze 1966; AA.W, R.eligiosità popolare in Friuli, Udine 1980.

2) Cfr. anche SChweizeroches Archiv fur Volks­kunJe 68-{)9 (1972-73) 399-406.

3) li prete, d'estrazione popolare, era d'altron­de s{>esso assai vicino ~ popo!o, non ~ ne ~iffe­renZJ.ava gran che. Vedi ancne il caso di prett che, ancora <ill'inizio del nostro secolo, per integrare l'inadeguata congrua, tengono bottega. Cosl ad esempio a Pontirone, a Lodano ecc. cfr. VSI 2. 830-831 e C. Magginetti - O. Lurati, Biasca e Pontirone, Basilea 1975, p. 236. ruso era in rappotto di conti­nuità con i secoli precedent;i. Vedi aa esempio, per la Val Verzasca: 1606 .Per li Curati di Verzasca l:i Curati della Val Verzasca non faccino più hosti­na, dan~o d~ mangiar in casa, et allogiando altri, come SI trovò in visita, et questo sotto pena di quattro scudi per 0B:ni volta, et ditta sospensione aI nostro arbitrio > l Visite Vescovo Archin ti, Pie­ve ~carno f. 9 v.). Analogamente nel 1612: -Pre­te Giovanni Jelmina presente curato di Brione [Verzasca] no ardisca fare più Hostaria sotto la pe-

na fattali in visita della quale costa nelli atti di d. vi­sita» SVisite Vescovo Archinti, Pieve Locarno f. 180 v .. . 4) Nel nome entra l'idea deformata della fisica come scienza del fenomeno. Vedi il passo dal vo­lumetto N . 28 della Biblioteca del Popolo (che negli anni Settanta l'ed. Sonzogno di Milano metteva in commercio a 15 cento l'uno) dedicato agli Errori e pregiudizi popolari, Milano 1876, p . 21: -Fisica>. Si attribuisce talvolta a questa parola, specialmente nelle campagne un sigD.i.ficato falso. Molti che non credono agli sttegoni, suppongono nei fisici una potenza soprannaturale, perché videro l?restigia­tori che usurpavano tale tttolo, eseguire gtuochi di destrezza che non seppero spiegare; essi credono che i dotti che si occupano di fisica abbiano la fa­coltà di fare miracoli. La fisica è invece scienza assai positiva . .. '. Vedi anche quanto, per la Liguria, scriveva nel 1901 Parodi in AGI 15.61: «Oggifìsica ha nel popolo un senso molto vicino a queflo di magia, e per esso è fisica il magnetismo, lo spiriti­smo, l'ipnotismo e anche ciò che gli appare di più straordmario nei giuochi de' prestigiatori>. re­spressione era anche del Piemonte: lavorar di fisica equivaleva a far opere di magia, gettare il maloc­chio; cfr. N. Revelli, Il mondo dei vinti, Torino 1977, volI, p. XCv.

5) Interessante l'attestazione di Minusio, dove, ancora verso il 1930, a difesa delle arti magiche del prete che 'provocava nottetempo nelle case degli anticlericali misteriosi fenomeni come far ballare pentole, veniva messa una lama con la punta verso la porta e anche un sacchetto di sale, le protezioni magiche usate contro il folletto e la strega. A Cava­gnago (1967) la cosa viene connessa con poteri di­vinaton: i prlvat a giugavan la fisica e così se ad uno ad es. ammazzavano una pecora, andava dal prete che «indovinava> chi fosse il colpevole. Tenendo presenti q'feste attribuzioni, si spIega forse il diffu­so modo di dire lombardo e ttc. schm da pr~at.

6) Significativa l'osservazione (1969) di un contadino di Broglio cui nel 1930 una vacca nel pieno del suo rendimento ester/ava> improvvisa­mente, cessando di dare latte: si rivolse al prete che gli chiese un bicchiere di latte della bestia e un ciuf­fo di peli e gliela guad; il gIorno successivo la pro­duzione riprendeva regolarmente: -se può fare questo, il prete può fare anche l'opposto',

7) DiffUsissime le affermazioni di questo tipo in Valtellina. Vedi il caso di una famiglia che en tra­ta in conflitto con un prete ebbe quattro morti in un anno, uno in mamera singolare, pe,\" la caduta nella tina del vino. Sempre in Valtellina, a Pianaz­zo, più di cento anni dopo (1967), perdura l'eco delle -gesta» del DrOch, una strana figura di prete, malvisto dal clero locale geloso dei - miracoli > che operava. Ricercato per motivi politici dalla polizia, celebrava messa a tutte le ore, anche la sera. Per im­pedirglielo i confratelli gli sbarravano le chiese: ma esse si aprivano a un suo leggero tocco. Giunto di nascosto a Pianazzo ed essendogli rifiutato il ri-

covero per una notte, maledl il paese, che da quel giorno non ebbe più vocazioni feligiose; la donna inosl?itale poi vide la propria casa in fiamme.

8) Siano citate qui anche altre credenze: incon­trare un prete con tricorno porta sfortuna, biso­gna subito correre a toccar legno (Locatno); cur ch'al va inturn tanci preved, seghee poch, quando van­no in giro molti preti sfalciate poco: è segno di cat­tivo tempo (Poschiavo); incontrare un prete di venerdl sera era segno pessimo (Bellinzonese); in­vece a Balerna: pret in capèla, nuvitd b~la, vedere un prete in cappeno da viaggio porta fortuna. Per la connessione del prete con il tempo oltre allo scon­giurare le grandinate ecc. ricorda l a pratica lombar­da del sec. 16.mo: -per far piovere bagnar i preti et fra­ti, bagnar li Piedi di Santo Christoforo> (Vox Romani­ca 27. 234 e cfr. Folklore Svizzero 61.70).

9) Uno di questi preti ancor citati dilla tradi­zione popolare, un v3J.maggese, è ricordato anche da A. J anner, Uomini e aspetti del Ticino, Bellinzona, 1938,"p' 252.

lO) Cfr. l'espressione biaschese: a m r'b vidùda in um spècc, l'avevo prevista e vedi il manuale di ma­gia venduto a Bellinzona nel secolo scorso dal tito­lo: -Il Drago Rosso, ossia l'arte di comandare agli Spiriti ed ottenere tutto quello che si vuole per fa­re la Verga misteriosa, per parlare coi morti, per fa­re lo Specchio di Re Salomone, nel quale SI vede quanto si desidera >.

n) Cfr., nel 1612, da un processo poschiavino di stregheria: «era andato a medigo per sua mo­glie, stante era maleficiata; et doppo che fu giò cl pregò tanto il Religioso che ge la facesse vedere in un seggio di acqua, cioè quella Anna decapitata una strega>. Da altro processo, sempre del 1612: « ••• Et ge domandò se haveva a caro a sapere la persona lo haveva offeso, ge lo haveria detto. Et così ge lo fece vedere in un amola (ampolla) et fece esser lei>. Nel 1675: -esso Rev.o disse con mio pa­dre: se haveva a caro farli veder la persona? Così ge la fece veder in un bicchier de vin ... >. (G. Olgiati, Lo sterminio delle streghe nella Valle Poschiavina, Po­schiavo 1955, p. 92, 210-213). Analoghe notizie sulle magie esercitate da preti friulani in V. Oster­mann, Vita in Friuli, Udine 1894, p. 514 e M. Ro­manello, Culti magici e strl$0neria ael clero friulano (1670-1700), in Lam 36 l1970), 341-371.

12~ Maggiori indicazioni in Folclore Svizzero 63 (1973 1-13.

13 Non pochi guaritori laici affermano che la «forza> gli è stata trasmessa da un prete, preoccu­pato di avere una continuit~. Il Nbnu, ad esempio, un anziano guaritore del Comasco, attivo ancora verso il 1950, ci confidava che un vecchio prete del suo paese, noto per le particolari doti di aominare tempeste e fulnuni, prima di morire aveva trasmes­so a lui, ventenne, un libro necessario a queste pra­tiche, libro che egli ha poi a sua volta passato alla figlia, che nel 1960 continuava a segnare. Per un parallelo cfr. la notizia in M. Bouteiller, M/decine populaire d'hier et d'aujourd'hui, Paris 1966, p. 62-{)3.

63

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Vita f.uniliare

Accanto alla riproduzione di icono­grafie richiamanti il nostro particolare paesaggio ottocentesco sembra opportu­no far posto nella cartella anche ad altra significativa documentazione del genere che ritrae autentiche scene della vita pae­sana di quegli .anni.

Nelle tavole sono riprodotti due di­pinti dell' artista Luigi Rossi, uno di Luigi Monteverde e altro di Michele Carmine.

Molto ricca e varia è stata la produzio­ne del Rossi (1853-1923) luganese di na­scita ma italiano di formazione. Trovia­mo la biografia e s~ critici nel volume illustrato con partlcolare dovizia Luigi Rossi di Rossana Bossaglia e Matteo Bian­chi (Bramante Busto Arsizio, 1979, p. 342). Di particolare rilievo sono le opere che testimoniano dell'artista «le sue aeli­cate interpretazioni dell' animo infantile e materno, del mondo contadino e le sicu­re visioni di paesaggio» eseguite anche fuori del nostro paese.

n pittore Luigi Monteverde (1841-1923) nativo di Lugano apprese a familia­rizzarsi con colori e pennelli in Argenti­na, ove era emigrato a due riprese. Torna­to in patria, 'potè frequentare, come i due pittori citat1 precedentemente, l'accade­mia di Brera. Chi vuole saper di più su questo artista, che con puntigliosa e non comune sensibilità seppe darci piacevo­lissimi bozzetti anche (fi autentica vita di paese, non ha che da consultare la pubbli­cazione ben illustrata Luigi Monteverde di Giuseppe Martinola (Lugano 1978).

Meno note sono la vita e l'attività dell'abilissimo pittore Michele Carmine di Bellinzona (1854-1894), autore tra l'al­tro di lavori per le chiese di Airolo, di Gorduno e d'altrove. Trascorse gli ultimi anni a Buenos Aires, ove pure lasciò pre­gevoli dipinti. Notizie SI hanno ne1li­bretto Gli Artisti Ticinesi, dizionario bio­grafiC() di Giuseppe Bianchi (Lugano 1909, p. 43-46).

- «n fratellino» o, meglio, «Amor fra­terno» è il titolo del quadro (olio su tela, cm 27X35, 1878) del Rossi, nel quale so­no ritratti un ragazzetto e due sorelline che, in assenza della mamma forse lonta­na da casa per attendere ai lavori campe­stri o ad altre faccende, hanno assunto l'incarico di badare al piccolino. Si com­piacciono di osservarne il volto e si ten­gono pronti a dondolare la culla nel caso in cui egli desse segni di malessere. Era un modo, quello, ritenuto utile per di­strarre o adaormentare la creatura pur­troppo spesso insofferente nel sentirsi immobilizzata entro la fasciatura intesa, a torto, come mezzo per impedire defor­mazioni.

- n pittore Monteverde soggiornò tempo parecchio a Davesco e, secondo il

64 Martinola, per sedici o diciassette volte

Luigi Rossi (Amor fraterno)

ritrasse la fontana e il pubblico lavatoio sotto il rustico pòrtico. «Confidenze» è la denominazione dell' olio su tela riprodot­to (cm 74X58), eseguito nel 1909.

Alla fontana le massaie venivano con il secchio di rame a pigliare l'acqua, dato che rare erano ancora le case che Oispone­vano di rubinetti di quella potabile.

Al lavatoio, anche nelle giornate fred­de, trascorrevano ore e ore a lavorare di gomito, insaponando, strofinando, bat­tendo e torcendo i panni. Alleviava la fa­tica lo scambio di quattro chiacchiere e magari di qualche confidenza, come qui, portando a conoscenza della comare il contenuto della lettera appena ricevuta dal postino.

- Vita dura era quella di molte donne paesane: meriterebbe un capitolo a sé. Dovevano spesso occuparsi contempora­neamente di più faccende. Ricordo, ad esempio, d'aver una volta incontrato lun­go una delle straducole di valle una don­na che dava evidenti segni di prossima maternità; aveva sulle spalle la gerla con entro qualche poco di legna e continuava a sferruzzare; per scambiare il saluto, in­terruppe la preghiera che stava mormo-

rando a sollievo delle anime dei poveri morti. E... aveva fretta di arrivare a casa ove altro lavoro l'attendeva!

Il paesetto che fa da sfondo al quadro del Rossi (<<La culla», olio su tela, cm 83X61, anno 1883) dev'essere probabil­mente su dalle parti della Capriasca. La giovane mamma, uscita sul balcone, im­prime aiutandosi col piede il dondolio al­la culla, mentre continua a portare innan­zi il suo lavoro a maglia.

- Nell'olio su tela (<< La macchina per cucire», cm 37X30) del Carmine è ritratta la cognata Silvia intenta a cucire bianche­ria di casa.

La macchina 'per cucire è stata certo il primo o uno del primi strumenti escogi­tati dalle nuove tecnologie (insieme con i fornelli a gas nelle cucine signorili di Lu­gano nel 1867 e di Locarno nel 1875) en­trato in parecchie delle nostre case nel tardo Ottocento. La macchina era messa in moto dal movimento del pedale. Ma con le prime del genere la cuatrice dove­va con la mano destra far girare la ruota e aiutarsi con la sola sinistra a far scorrere il tessuto sotto la punta dell'ago.

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Vita sociale

Dopo l'arrivo della ferrovia anche nel Ticino, per facilitare la conoscenza del paese ai forestieri qui giunti a soggiorna­re per qualche lasso di tempo, andarono diffondendosi le guide turistiche: libretti tascabili con testo nelle lingue nazionali e soprattutto anche in inglese, corredati in adeguata misura di illustrazioni.

Degne di particolare rilievo erano le guide edite da Orell-Fussli di Zurigo. Non ancora molto usata per l'illustrazio­ne la fotografia; era invece data la prefe­renza alla silografia eseguita con punti­gliosa precisione e virtuosismi ottici da raggiungere una resa estrema. Autore di queste guide: Jakob Hardrneyer di Zuri­go (182H917); delle illustrazioni, Jo­hannes Weber residente a Castagnola negli ultimi anni della sua esistenza (1846-1912).

Dai libretti della collana «Europiiische W anderbilder» Lugano und die Verbin­dungslinie zwischen den drei oberitalieni­schen See'n e Locarno and itr valleys sono ri­prodotte sette illustrazioni (1884).

- Del primo è tolta la veduta della ri­va di Lugano (sullo sfondo ben si scorge la facciata della chiesa degli Angioli) in momenti in cui la gente, mercanteggian­do, è occupata nello scarico e nel carico di mercanzie trasportate dalle barche, dai carri ancora trainati dai buoi e natural­mente entro le gerle dei popolani.

- Dalla stessa fonte proviene pure il sec.ondo bozzetto nel quale è raffigurato un particolare del mercato tenuto in una delfe vie del centro storico di Lugano.

- Dalla seconda guida sono tolti gli al­tri due che si riferiscono a Locarno: uno con la bancarella eretta tra parecchie altre in Piazza Grande pure nei giorni di mer­cato che si teneva quindicinalmente il giovedl; l'altro ci ricorda gli alti portici del «Caffè delle colonne", sotto i quali si ritrovavano i primi forestieri per assapo­rare il tiepido sole primaverile o autunna­le specialmente alPora del tè. Sullo sfon­do si scorgono l portici del «Great Crown Hòtel .. o «Hòtel de la Couronne" (Métropole).

* * * Luoghi d'incontro per qualche poco

di svago erano nei villaggi campagnoli la piazza, il grotto (o crollO come usano dire nel S.ottoceneri) e la trattoria. Durante le lunghe serate invernali su per le valli due o più famiglie si riunivano assieme nella stuva (tinello ben riscaldato) d'una di es­se, ove le donne filavano, sferruzzavano o, come in Onsernone, intrecciavano la paglia, mentre gli uomini e i ragazzotti si davano a commentare notizie e fole.

- In tutte le regioni ove prosperano i vigneti - dalla bassa Valle di ~lenio giù

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Losone, ai grotti

giù sino all'estremo lembo del Mendri­siotto - là dove il gioco delle correnti d'aria prorompenti dal piede della mon­tagna può essere inteso come sorgente di gradita frescura, numerosi erano (e in parte lo sono ancora benché ormai non più nel loro primitivo aspetto) i grotti. La cantina è in parte scavata nella roccia e in essa si conservano le bevande e le pie­tanze che possono tornare particolar­mente gradite al palato degli avventori. Sul molto spazio, che di regola si ha at­torno alla casupola, e sotto il verde cupo­lone del fitto fogliame trovano posto il gioco delle bocce e la corona di tavole e panche di sasso. E lì ci si trovava volentie­ri nei pomeriggi delle domeniche, quan­do cioè gli estenuanti lavori campestri . concedevano una sosta.

li Weber ha ritratto uno dei vari grotti di Losone che, come quelli di Ponte Brol­la, almeno nel Locarnese erano ritenuti i più accoglienti.

- Numerose - troppe! - erano poi anche le trattorie e le osterie del tipo di quella riprodotta (verso Orselina), nella quale ci si imbatteva all'imbocco della strada che mena alla Madonna del Sasso. li suono della viola collocata sulla tavola del cortile richiamava l'attenzione anche di qualche forestiero desideroso di sco­prire persino povere minuzie del nostro rustico mondo.

- In alcuni villaggi, come a Grancia, era praticato sulla piazzetta il gioco dei birilli introdotto forse dagli operai (mae­stran) che andavano a far stagtone, come s'usa dire, nella Svizzera interna. 65

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Vita contadina

Molto accidentata è la configurazione fisica del nostro paese; donde, anche per altre ragioni, la carenza nelle regioru di montagna di strade percorribili con buo­ni mezzi di trasporto. D'altra parte, spe­cialmente nel Sopraceneri, rilevante era la distanza tra i vari posti di lavoro del contadino e del pastore: coltivi molto fra­zionati sul foncfovalle, maggenghi e pa­sture sino a 1000-2000 metri di altitudi­ne. Ne sono esempi le forme di transu­manza in Verzasca, nella Val Bavona e al­trove già richiamate in precedenti car­telle.

Il trasr.0rto delle mercanzie era fatto con l'ausilio delle bestie da soma (muli e asini); più spesso sulle spalle degli uomi­ni e pur anche delle povere donne.

Quattro erano gli attrezzi più usati per il trasporto a spalla o in altro modo: la gerla, la càdola {cadra in dialetto; sta sulle spalle delle due donne ritratte in Val Ba­vana), il barç.héi o cargansc (gerla a stec­che rade) e 11 grande cesto (cavagn).

- Bosco Gurin non ebbe la strada car­rozzabile che lo collegasse a Cerentino se non verso il 1926; quindi faticoso riusci­va il trasporto di mercanzie anche per re­carsi ai villaggi vicini e al grosso borgo, ave pure per una ragione o per l'altra"oc­correva andarci.

- La vignetta delle due donne in Val Bavona ci può dare un' idea degli abiti che indossavano le contadine di montagna. N elI' altra del comasco Mazola (catalogo della mostra" Vivere e sopravvivere delIa Lombardia dell'Ottocento») è ripresa la

. campagnola attiva in regioni ovela colti· vazione della terra era certo meno fatico­sa e più redditizia. I suoi capelli ravvolti in cerchio dietro la nuca sono trapassati da spilli disposti a raggiera (i spadin): ac­conciatura, questa, molto in uso ancora alla fine delfOttocento anche dalle no­stre parti. La figlia reca in mano la falce messoria (mèdra, seghézz) usata per il ta­glio delle messi o d'una manciata d'erba.

- Quando c'era da condurre bestiame al mercato di Locarno o riportarne a casa il valligiano doveva percorrere la lunga strada a piecti.

Il mercato delle bestie non era tenuto in Piazza Grande (eccezion fatta per gli animali da cortile), bensi nei prati attigui all'attuale Piazza Castello. Nel bozzetto "di J. Weber infatti anche le mura del ca­stello fanno da sfondo.

Frequentatissimi erano i mercati di maggio e di settembre perché qui erano anche condotte le mucche, da poco disce­se dall'alpe, concesse a sverno ai contadi­ni del Locarnese e del Luganese e poi ri­prese a primavera avanzata.

le capre erano perlopiù vendute in au-66 tunno èQ erano poi oggetto della mazza

.. . ., .. ..

casalinga soprattutto in quelle case ave non s'era potuto allevare il porcello.

Si contrattava alla buona, ili regola in­dicando in marenghi il valore della be­stia: mezzo marengo o più per una capra, cinque o dieci marenghi per un capo Do­vino. Niente carta e lat>is per il contratto anche per lo sverno; a si 1imitava a con­cludere con una cordiale e onesta stretta di mano.

Chiassoso riusciva l'assembramento: al cicaleggio mercantesco facevano eco l'iroso grugnito dei porcellini, il raglio degli asini e soprattutto l'ininterrotto

Contadine della Val Bavona

Locarno, mercato del bestiame

l . ' " ~~ ...

mugghio delle vacche. - Alimento baSilare in Verzasca e un

po' meno altrove era la polenta che quo­tidianamente era portata sul desco.

Accurata ne era la preparazione come si può intuire anche dal dipinto (<<La po­lenta», olio su tela del quale è andata per­duta ogni traccia) di Luigi Rossi. Egli ri­trae con acume descrittivo il sicuro gesto della nonna intenta a rimestare nel paiolo sopra la fiamma del focolare, che veniva in Verzasca a trovarsi in un incavo nel bel mezzo della nera cucina, e sotto gli sguar­di compiaciuti di tutta la famigliola.

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Borghi e paesi

Quattro vedute del pittore luganese Ambrogio Preda (1839-1906) e una del pittore Luigi Monteverde (1841-1923), pure luganese, documentano qualche aspetto del paesaggio ticinese negli anni dell' ottocento che la nostra cartella stori­ca rievoca.

Al primo dei due pittori, proprio quest' anno e colmando la lacuna di una oibliografia pressoché inesistente, Giu­seppe Martinola ha da par suo dedicato un saggio critico, corredato di un catalo­go delle opere e ricco di tavole, tra cui quelle che qui si riEroducono (G. Marti­noIa, Ambrogio Preaa, Fondazione Ticino Nostro 1982); e al secondo pittore, all'uomo Monteverde, alle sue opere e all'ambiente che fu suo, il Martinola ha pure dedicato un attento studio con cata­logo e tavole, tra le quali quella da noi ri­prodotta (G. Martinola, Luigi Montever­(le, edito dal Credito Svizzero, Lugano 1978).

Di Ambrogio Preda sono le tele raffi­guranti: Capolago (olio su tela, 24X42, firmatq inf.a.d. A. Preda, prop. Sig. Feli­ce Piona, Viganello), Morcote (olio su tela, 27X44, firmato inf.a.d. A. Preda, prop. avv. Ugo Primavesi, Gentilino), Bissone (olio su tela, 26x43, prop. Si­gnora Ornella Riva-Primavesi, Lugano), La Madonna del Sasso (olio su tela, 26X 39, firmato inf. al centro A. Preda, prop. Signora Augusta Lombardi-Albriz­zi, Lugano).

N elle Sl,le tele, l'occhio del Preda cerca soprattutto e fissa, a distanza e nel loro

preciso profùo, lo scenario ampio dei monti sorgenti dall'acque; e ci sembra che invero la precisione di quel profilo e insieme quella lontananza, conferente al paesaggio un elemento di «vaghezza», oovettero essere le ragioni che resero le sue vedute riconoscibili, belle e gradite al naturale, immediato gusto di numerosi acquirenti della borghesia luganese e d'al­trove.

In quei vasti paesaggi, i villaggi di Bis­sone e Capolago sono poco più che ac­cennati con un paio di case: quelle di Bis­sone sembrano essere volutamente orientate in modo da non vedere la diga di Melide che con un taglio stridente to­glie alla vista la riva del lago lungo i piedi del San Salvatore; nella tela di Capolago, affiora appena sulla pendice del monte la breve linea orizzontale delle case di Ro­vio con in capo ad essa la verticale del suo campanile; nessuna dispersione indivi­dualistica di case e edifia fuor del nucleo comunitario nel Ticino rurale dei nostri ~on~ ott~centesc~, e il .{>aese con qu~ liben Sp3.Z1 naturali appar1va allora asSai più vasto che non fosse. Morcote invece ha voluto essere tutto ritratto a specchio del lago increspato e a ridosso dell'Arbo­stora ammantata di dorato seccume au­tunnale: certo una delle tele più delicata­mente ispirate del Preda.

Pure il Preda accenna sulle sue tele la vita della gente: genericamente, con le barche dei pescatori che si avviano allar­go o calan le reti, come nella veduta di Morcote, o che recano a di porto le signo­re, come in quella di Bissone; meno gene­ricamente, nella veduta di Capolago dove la gente si affolla all' approdo capolinea

Campo Blenio (olio su tela di Luigi Monteverde) (Lugano Palo Civiro)

del battello per Lugano, da pensare che la tela, non datata, come le altre del Preda, sia stata dipinta prima dell'apertura della linea ferroviaria che tra poco assorbirà il più lento traffico lacuale. Un'altra scena di vita qualificante quei tempi è la proces­sione votiva che si vede avanzare sulla te­la che riproduce il santuario della Ma­donna del Sasso sopra Locarno con l'anti­co convento come apparivano prima di essere restaurati con troppa pretensione alla fine dell'ottocento. Negli anni Set­tanta e Ottanta dello scorso secolo, in coincidenza con il quarto centenario del­la sua fondazione, l'assetto della nuova diocesi e anche il cambio politico in go­verno, il santuario locarnese assume per la prima volta funzioni e importanza dio­cesane (cfr. La Madonna del Sasso fra sto­ria e leggenda, a cura di Giovanni Pozzi, editore Dadò, Locarno 1980).

Di Luigi Monteverde è l'olio su tela (50X 72, firmato Luigi Monteverde, prop. Palazzo Civico, Lugano) riprodu­cente il villaggio alpestre di Campo Ble­nio.

Erano amici il Preda e il Monteverde e assiduamente si frequeìltarono, ma non potevano avere temperamento e occhi più diversi. Quelli di Monteverde guar­dano qui le case con i comignoli fumanti sui grevi tetti di piode, le stalle di legno e la chiesuola con il campaniletto a vela, i campicelli, i ciottoli e i sassi del greto, con una tale facoltà di «miniaturizzazio­ne», scrive il Martinola mutuando il ter­mine dalle scienze esatte, che "la pennel­lata si raggruma in granuli minutissimi che paiono una sfida alla pazienza».

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Mercato di Locarno

68 Lungolago di Lugano da Piazza Bandoria