Introduzione
Nell'introduzione alla Cartella precedente, si sottolineava come col 1859, e più ancora col 1861, il Canton Ticino fosse venuto a trovarsi in una ,situazIone affatto nu.0va, e ~i~ersa: e si citav~, ,al proposito, una constderaztone délla Stona dt Ellgzo Pometta e Gtulto RoSSI. Formatosi ormai ai confini del sud lo Stato italiano, veniva a cadere anche per il Ticino un periodo. di forte tensione ideale (che aveva compreso anche una pratica partecip'azione, di varia natura e portata, ai moti del Risorgzmento, e si era latta in certi momenti, nel '48 e nel '5 3, anche forte tensione politica, tale da sembrar compromettere la stabilità del partito al potere, onde s'era poi dovuto proaurre un nuovo colpo di forza, con conseguenze ~l~o~a diffìci~i da giudica!,e. Col 1860 (per rtckiamarsi alla (/ata d'mlzlo derpmodo trattato m questa V Cartella) ti Cantone riprendeva con la Lombardia e il Piemonte e anche con altre regioni italIane le tradizionali relazioni economiche e culturali; e peraltro cessava di esser dentro una vicenda che ben si poteva dire internazionale, in un gioco comunque che andava ben oltre i suoi confini e i suoi apparentemente immediati interessi, quari poi ripiegando su sé stesso, in una dialettica politica ch'era ormai tutta sua, e glt dava modo di affrontare con ogni sua forza i problemi interni, vecchi e nuovi, ormai giunti presso a maturare. La situazione era d'altra parte diversa, anche per altri aspetti, da quella dei decenni precedenti: lo Stato federativo, nato nel 1848, adesso poteva dirsi ormai più che avviato, sicché d'un tipo nuovo erano i rapporti ticinesi anche col resto della Svizzera, divenuta realtà quotidiana che si farà viePiù presente e viva.
In questa prospettiva st assiste negli anni Sessanta a un certo irrigidimento, cui consegue fatalmente un logoramento, di quello che sarà chiamato il «regime liberale», col crescere di un'opposizione che, da prima di difficile contorno, via via si va organizzando, e chiarisce le sue aspirazioni e i suoi obiettivi; giungono dipoi anche nel Ticino gli echi delle grandi controversie europee, politiche e culturali, non tanto forse del conflitto franco-prussiano quanto del bismarckiano «Kulturkamp(», che ha risvolti acuti e clamorosi anche in molti cantoni della Svizzera; e la polemica ideologica e partitica, ch' era sembrata a un certo momento assopirsi per stanchezza o altre cause, riprende verso il187 O e negli anni immedlatamente successivi con una intensità anche maggiore, attraverso il narcere di un numero cospicuo di giornali politia e talvolta anche attraverso rumori e trarmodanze di piazza, ch' erano un indice dell' esacerbamento degli animi e delle forze che ormai si equilibravano. Mentre si andava .pegnendo la classe politica che aveva caratterizzato la storia ticinese fJa118 30 innanzi, quella dei Franscini e dei Luvini, si veniva delineando una classe politica nuova e di filosofia diversa e talora avversa, alla quale ormai pareva la maggioranza del paese guardare. Figura esemplare vuole essere a questo punto illuganese Bernardino Lurati, autore di un «pamphlet » di ottimo livello che molto contribuirà alla vittoria dell' opposiZIone nelle elezioni del21 febbraio 1875 per il Gran Consiglio, premessa al ribaltamento politico del 1877, quando, sotto l'impulso di Gioachimo Respini, si attuerà il «nuovo indirizzo» e si darà avvio a quello che pure finirà con l'apparire un nuovo «regime». Quest'ultima (/ata vuoI essere centrale di tutto il periodo: il quale appunto è contrassegnato dall'alternanza del potere, evento di rilievo essenziale, che evita al paese i danni dell'involuzione e, per dir così, dell'arteriosclerosi: sicché toccherà appunto;'i uomini di quel rinnovamento e mutamento attuare certe istanze e ri orme che il regime liberale precedente non era parso più in grado di a ontare da solo. Non cesseranno certo i contrarti e le violenze, il CUI acme peraltro, rappresentato dai «fatti di Stabio», è da collocare nella fare mterlocutorza tra il 1875 e il '77, ma resta la realtà degli indirizzi dati all'ordinamento scolartico e in particolare ai rapporti, fino allora difficili, tra lo Stato e la Chiesa, con la legge Pearazzint intorno all'insegnamento reli~oso nelle scuole e soprattutto con la soluzione della questione, che pmcolosamente si traranava da molt'anni, e pareva un nodo gordiano, della Diocesi, la cui pratica costituzione rappresenta pure una essenziale novità. Ma il paese era nuovo e diverso anche sotto altri aspetti: se verso il 1850, con là costruzione del ponte-diga di Melide,finalmente si era legato il S0P!'aceneri e il Luganese col Mendrisiotto (coronando così l'impresastraaale iniziatari gtà ai primi delsecolo), e più
latamente il nord delle Alpi con la Lombardia, ora giungeva nella fare conclusiva ilproblema, a momenti arpramente anche nel Ticino dIbattuto, della ferrovia del San Gottardo, che era un fatto di grande importanza per tutta l'Europa, e per il Cantone di un'importanza addirittura capitale, sia per i rapporti interni sia per quelli esteriori. E non è un caro che negli anni immediatamente successivi a quel 1882 si p'ensasse seriamente e concretamente, talvolta incontrando gravi ostacoli in un -p~ese !,eale» che mostrava un'ancor t:oPpo Incerta e debole coscienza unttarta o «cantonale », a opere pubbllché dI portata generale, come l'inalveamento dei fiumi Ticino e Maggia, avviati e già allora in pa,... te attuati. Il Cantone, pur fra le contmue diatribe di parte e il peso di una realtà economico-sociale tutt' altro che lieta (come dimostra per esempio il capitolo sull'emigrazione), mostrava per più segni di avanzare e crescere. Quanto al momento culturale, certo non si potrà dire che la realtà ticinese fosse allora di splendore, anzi forse segnava un leggero regresso rispetto all' età immediatamente precedente, dei Franscini e dei Lavizzari, quando la presenza di molti esuli italiani, e primamente di Carlo Cattaneo, aveva dato un vivido impulso alla vita intellettuale, ~uari suscitando nobili gare; e tuttavia aveva sue manifestazioni non Ignobili, grazie a una classe politica insomma di buona formazione umanistica e a rapporti intensI, s;.ecie sul piano artistico (VIventi peraltro ancora, e operanti, il Vela e ti Ciseri), con Milano, ridiventata per molti, o in via di ridiventare, il naturale approdo. Né si può ignorare che con Emilio Motta il Ticino acquisiva una sua coscienza storica, con l'avvio di studi che dovevano dar bei fiori e frutti poi. D'altra parte non è un caro che nel 1871, il5 luglio e il 28 dicembre, narcessero alle due estremità del Cantone Francesco Chiesa e Giuseppe Motta, che ~prio in questo periodo si formavano, pronti a dare moro contributo determinante alla storia del paese già agli inizi del periodo successivo; e per molti decenni ancora poi. Per tutto questo che abbiamo esposto ci sembra giustificato il titolo dato alla cartella: Il Cantone 'ricino negli anni del mutamento.
S'andava intanto a rapidi passi verso ifuel1890 che doveva segnare un' altra decisiva svolta: e i segni del logoramento del regime -liberaleconservatore», che poi si disse «conservatore» senza più, si faranno per cento voci in quegli çstremi anni palesi. Un'altra volta il paese stava mutando. Lo stesso giornalismo politico (che superava in parte le dispersioni polarizzandosi intorno a due foglifatti con criteri che già potevano dirsi, rispetto agl'immediati antecedenti, alquanto moderni, -La Libertà» e «Il povere») parevan denunciare un'atmosfera di vigilia. Ma, ritenendo conchiuso il periodo storico, la presente Cartella si ferma su quella soglia. .
Dovremmo ora ripeter qui cose già dette, e anzi più di una volta ripetute, intorno agli intenti, ai modi, ai limiti del nostro lavoro: ma non è certo il caro, e però se mai si rimanda alle -introduzioni» precedenti . . Quanto alla già denunciata «saltuarietà» di questa che, PIuttosto che una «storia», vuoi essere una rassegna ragionata di documenti, legati da un filo non sempre ben visibile, avremmo voluto anche stavolta segnalare un'opera di tipo annualistico o addirittura diaristico, che appunto alla stessa ovviasse: ma nessun titolo ci è venuto alla mente cbe potesse giovare all'uopo. D'altra parte) un tale sussidiario, se può essere sommamente giovevole, non appare strettamente necessario: e il lettore, nella scuola e fuori, potrà surrogare da sé facilmente, con altri libri (sempre indispensabili) di storia generai t europta svizzera e ticinese, o parttcolare. Solo vorremmo ricordare che il gruppo dei collaboratori, che non si può considerare certo chiuso, si è quest'anno ulteriormente alla,... gato, con l'apporto di altri giovani studiosi formati ai metodi della slOriografia Più aggiornata. Il campo degli interessi e degli argomenti si è così ultmormente ampliato ben oltre !a storia politica e culiurale, magari a scapito (anche per via dei possibili diversi accenti) di una esteriore unitarzetà: già tr?ppe volte abbiamo tarciato intendere che a una esteriore unÌlarietà queste cartelle non mirano. Come nel parsato, ai nomi degli autori dei singoli articoli, che risultano nell'«mdice», vanno affiancati quelli dell'archivista cantonale Fernando Bonetti, che ha curato la ricerca e raccolta e disposizione dei documenti delle trentadue tavole, di Sergio Caratti e di Silvio Lafranchi, coordinatori dell'impresa, del grafico Emilio Rissone e di GIuseppe Stahii, esperto dell' econo-mato dellO Stato. . 3
68 4
L'alternanza dei «regimi»
Dopo il 1860, lasciati alle spalle i sussulti ael «Pronunciamento", poteva dirsi finita, come osserva la Storia di Eligio Pometta e Giulio Rossi, l'età eroica del regime che ormai da liberale s'era fatto liberale-radicale; ma non era finito il regime in sé, che trovava in un certo senso una opposizione doppia, 'proveniente dagli antichi moderati Che S1 andranno dicendo "liberali-conservatori», e da elementi che eran all'interno del partito stesso al potere, i quali lottavano ora contro veri o supposti soprusi di taluni «luogotenenti» o lper dir con parola che certo allora non usava) «gerarchetti», e ora, sulla falsariga di quel che si dava contemporaneamente in altri Cantoni (a Zurigo per esempio, dove fino allora aveva voluto campeggiare la figura di Alfred Escher) per una maggiore «democratizzazione» dell'apparato politico, cioè in particolare per il voto segreto, per la libertà religiosa e di insegnamento, per l'elezione dei deputati al Gran Consiglio in base alla 'popolazione, e non più come finora aJ. Circoli, a ognun de' quali ne venivano destinati tre. I postulati potevan dirsi in buona misura comuni ai «democratici» e ai liberali «conservatori", e solo in piccola parte potevan essere fatti propri dal partito al potere, che comunque osteggiava, per sue ragioni che non palesava, il voto segreto. E nel punto non si vedeva come si potesse arrivar a un'intesa. (E per dir della lotta contro i «luogotenenti,., sarà da citare, nel 1864, il bimensile di piccolo formato «Il Martello», «Eco dene rupi d'Onsernone», redatto, col prof. Giovanni Nizzola, da Remigio Chiesa, che già aveva dato alle stampe nel '62 due opuscoli contro quelle che definiva "soperchierie» ).
Voleva mtanto imporsi, fra contrasti che non eran soltanto di partito, la questione, per molti ormai lmprorogaJJile, della capitale stabile, la quale fu fissata nel luglio 1870 dal Gran Consiglio a Bellinzona: donde l'abbandono irato di quasi tutti i deputati sottocenerini delI'aula parlamentare, e una conseguente vivace agitazione di piazza, specie a Lugano, con proteste gridate e tumulti. Non ci voleva <Ii più perché il Consiglio federale intervenisse, mandando nel Ticino ben tre · commissari, che non combinarono nulla. Il moto non accennò a spegnersi, e anzi sorse un movimento minacciando la divisione del Cantone, e una richiesta in tal senso pervenne al Parlamento federale, che la respinse: e fu nel punto quasi salutare lo scoppio della guerra franco-prussiana, che valse a stornar gli animi da quel focolaio che minacciava incendio.
Né si può dir che valesse a rafforzar il Governo radicale l'insorger dene polemiche a proposito della riforma della Costi-
tuzione federale, nel '72, quando la proposta cadde, e nel '74, quando fu accettata: nell'un caso e nell'altro il Canton Ticino però si espresse in senso nettamente negativo, secondo la scelta del partito liberale-conservatore, di contro alla posizione invece assunta dalla maggioranza degli esponenti radicali. Né era valso il tentativo radicale di avviare, in specie per suggerimento di Carlo Battaglini, una politica di conciliazione, col far entrare in Consiglio di Stato, ch'era allora di sette membri, due ral'presentanti conservatori: che peraltro oovevan ridursi nel '73 a uno solo. Né, ancora, giovava la sempre aperta questione diocesana, nella quale si mescolavano rigurgiti di anticlericalismo, che peraltro trovavano ostile la stessa maggioranza del Gran Consiglio. Nel '72 la votazione per il Consiglio nazionale (che era, giusta la legge federale, a voto segreto) segnava una chiara vittoria dei liberali-conservatori, che ottenevano 4 seggi su 6. Di qui, da parte dei radicali, una serie di contestazioni e ricorsi, e l'invio nel Ticino, da parte del Consiglio federale, di due altri commissari per un'inchiesta, che porterà alla ripetiz10ne della votazione ne1 '73: la quale però ribadì i risultati della prima. La questione del voto segreto o aperto si faceva primeggiante, e al proposito il Gran Consiglio si mostrava incerto e diviso; evidentemente si davano anche n. spostamenti di tendenza, e il paese mostrava di voler intraprendere una strada nuova, e diversa. Non desisteva comunque il Governo, che volle rafforzare, o come si diceva «rinvigorire», 1,,sua azione, con l'immissione di giovani elementi tra i più accesi: e si dié poi a emanare ordinanze di contenuto nettamente anticlericale, che ponevano ostacoli alla libertà del culto cattolico, quasi si volesse allineare il Ticino coi cantoni all' avanguardia del contemporaneo " l.VJ1-turkampf». Nel frattempo, peraltro, una commissione composta di Carlo Battaglini, Carlo Olgiati e Vittore Scazziga approntava il nuovo coruce penale, che venne sottoposto alla revisione del grande giurista Francesco Carrara dell'università di Pisa (significativo il suo giudizio: «lo non posso che tributare elogi al vostro progetto. Vi scorgo unità di concetti; prevalenza di quei princiPi umanitari dei quali ormai non si può più disconoscere la signoria sul giure penafè, vi trovo proclamati tutti quei principt che la moderna scienza penale ha riconosciuto ... ») e quindi approvato dal Gran Consiglio il 25 gennaio 1873.
In questa atmosfera ch' era satura di elettriatà, s'arrivò alle elezioni per il Gran Consiglio del 21 febbraio 1875, in vista delle quali illuganese avvocato Bernardino Lurati, che già aveva avuto un bel peso nella rinascita della stampa, come ormai si diceva, liberal-conservatrice, dava fuori un opuscolo: Ricordi ai Ticinesi, che rifletteva bene la sua mentalità,
schiva degli estremismi e vòlta al ragionevole e al concreto: e fu pubblicazione (redatta in termini piani e tuttavia eleganti, non privi qua e là di una contenuta enfasi e di moderate citazioni classiche) che certamente importò sull'esito dei comizi. Il Lurati, invero, parlava un linguaggio moderno e non reazionario: e se, considerando la grave situazione finanziaria, osservava che il bilancio passivo del 1830 (onerosissimo a causa dell'ingente sforzo sostenuto per compiere la rete stradale e in particofare «l'arteria del San Gottardo») era risultato otto anni dopo notevolmente diminuito, mentre da allora s'era moltiplicato, subito aggiungeva che l'osservazione era fatta unicamente «per la storia finanziaria» e non per tracciar un' apologia del governo del 1838, «illiberale e ingiusto», e a' suoi occhi non immune di «molte p:cche», prima fra tutte quella di «aver v1Olato il diritto d'asilo, sacro per gli svizzeri», e insomma «origine del presente sgoverno". Per il Lurati il partito dominante, «fattosi chiamare e chiamandosi liberale», aveva compiuto una «usurpazione di nomi,., anzi operando «man bassa sui princip1 più elementari delle pubbliche liJJertà»: e In primis si citava la «libertà elettorale", basata sul voto segreto, già «grid.o di guerra dei riformatori del 1830» , e ora negata dai «nostri signori al Potere», eh «col mezzo del voto aperto intendono perpetuare la loro signoria», in contrasto con gli stessi metodi di votazione federale. Il voto aperto, afferma il Lurati, «è il controllo del compratore sul venditore, del corruttore sul corrotto, del Potere sull'impiegato, del creditore sul debitore, del locatore sul conduttore, del ricco sul povero, del partito su quelli che crede a sé devoti».
Altro elemento di libertà elettorale, il «voto per Comune, negato e respinto dal sistema», mentre il vigente voto per Circolo era «fomite di liti e di corruzione e di passioni politiche», e causa di confusione e di ingiustizie. Altro punto essenziale, la «libertà d'insegnamento», per la quale il Lurati aveva parole accese: «Quando il Potere pubblico si è fatto padrone della istruzione, essa scadde e l'insegnamento fu un giuoco d'altalena, secondo le viste e la volubilità dei governanti»; donde le recenti «continue i-iforme e rifusioni di leggi scolastiche». In genere, ora si dava «un'atmosfera ristretta ove si muore di soffocazione»: sicché «libri e metodi, corsi ed esami, premi e censure, tutto è officiale; officiali le letture e gli esempi, il frasario, i princip1 e perfino gli errori». Non certo veniva negato l'insegnamento obbligatorio, né si domandava che si aprissero istituti religiosi, ma che «si lasciasse almeno la libertà ai laici»: e il Lurati citava gli esempi dell'Italia, della Francia, della Germarua, dell'Inghilterra, del Belgio, della Grecia, degli Stati Uniti, e di molti
Stabio, 22 ottobre 1876 (disegno)
Cantoni svizzeri, in cui la libertà d'insegnamento era proclamata dalle costituzioni, e dalla stessa costituzione federale, la quale, affermando l'obbligatorietà della istruzione, non una la parola conteneva che quella libertà restnngesse. Di poi, le libertà pubbliche, concultate da «arresti arbitrarii», da "per<J.uisizioni domiciliari», da «precetti» dan ai cittadini «per opinioni politiche», proprio "ad Ìfiutazione delfa polizia austriaca».
Altri punti riguardavan le già citate «finanze», e la «giustizia». E quanto alla «libertà religiosa», il Lurati teneva pure un linguaggio misurato ma fermo: «Noi deploriamo il fanatismo religioso; ma deploriamo ancor più il fanatismo irreligioso». Certe restrizioni civili aJ?plicate ai sacerdoti erano una patente v101azione dei diritti del cittadino: «La revoca dei parroci e la legge che colla vendita dei beni parrocchiali fa del prete un salariato distruggono in gran parte l'apostolato religioso, perché rendono il prete dipendente dal suo elettore»: un sistema già condannato dal conte di Cavour, che solo si attagliava alle chiese cosiddette nazionali, "dove la Chiesa è serva dello Stato». E il Lurati continuava affermando: «Desideriamo il prete morale, istruito, tollerante; ma lo aesideriamo libero». Troppo evidenti le tendenze del sistema, che «oggi ci vuoI regalare la Chiesa nazionale, domani il vecchio cattolicismo, doman l'altro la religione dell'avvenire». All'esempio di un Bismarck, alfiere del Kulturkampf, il Lu-
rati esortava a preferire «la civiltà latina, che ci dà esempio di libertà e tolleranza religiosa»; e soggiungeva: «Guardiamo all'Italia», come dir a uno Stato che s'era appena formato non senza i contrasti, persistenti, de'. clericali più accesi: il che poneva la dissertazione su un piano, per air cos1 e senza pretese di esattezza, cattolico-liberale. E del resto «riparatore e liberale e soprattutto non esclusivista» era definito in chiusa il governo che si sperav~ ~ veder sorgere dalle prossime eleZ10nl.
Nel gran tumulto delle polemiche, la voce del Lurati convinse certo molti (ch'eran magari fautori del «giusto mezzo» e, senza aderir forse in tutto al programma dei liberali-conservatori, aborrivan i radicalismi ed erano stanchi dei contrasti che ormai duravano da anni e non accennavano ad affievolirsi) a passar nelle schiere della già organizzata opposizione: la quale il 21 febbraio, in un'atmosfera tuttavia tranquilla, ottenne una vittoria netta, e mandò in Gran Consiglio 66 deputati, contro 44 governativi e 4 indipendenti. Ma la situazione non volle farsl per questo chiara, ché, per il meccanismo elettorale, il governo a maggioranza radicale restava in carica: donde il profilarsi d'un continuo conflitto. Il nuovo Gran Consiglio, nel quale si affermava come personalità primeggiante Gioachimo Respini, valmaggese di Cevio, già maestro elementare e poi emigrato in Australia, e quindi studente nelle università di Siena
e di Pisa (allievo di Francesco Carrara) dove si era laureato in legge, varava un progetto di parziale riforma costituzionale (la «Riformetta»), per cui si introduceva (giusta l'auspicio del Lurati) il voto segreto e per Comune e la libertà d'insegnamento privato nei limiti della Costituzione federale: ma la legge di applicazione, il cosiddetto «Riformino », cIie tra l'altro prevedeva come base per l'elezione la « popolazione di diritto" (com prendente cioè anche i ticinesi all'estero), osteggiata dal Governo, che sosteneva invece il principio della «popolazione di fatto», rimaneva in sospeso. In quel mezzo (17 marzo 1876) veniva accolto un ricorso al Consiglio federale di Augusto Mordasini contro i modi delle elezioni del 21 febbraio 1875, onde il Governo eil partito liberale sostennero la tesi che il Gran Consiglio eletto fosseincostituzionale, e però incompetente ad adottar leggi e decreti, e si rendessero quindi necessarie nuove elezioni; né cessò da-<Juell'interpretazione per quanto il Conslglio federale, in una successiva dichiarazione del 17 giugno, si facesse a respingerla. Il conflitto dai consessi passò nel paese, con urla serie di agitazioni e di violenze di piazza, specie a Lugano e a Locarno, dove sedeva il Governo; sicché non poteron tenersi i comizi, convocati contrastatamente dal çJran Consiglio per il « Riformino» e dal Consiglio di Stato per le nuove elezioni, domandate dai radicali sulla base della "popolazione di fatto »; e 5
68 6
l'atmosfera da inquieta si fece addirittura tragica il 22 ottobre, quando ai bagni di Stabio si verificò una sparatoria che fece vittime di entrambi i partiti e, suscitando grandissimo scalpore, segnò in un certo senso il culmine di que' sentimenti d'odio politico. Si poté temere che l'agitazione si estendesse, anzi si fosse sulla soglia d'una guerra civile: onde il Consiglio federale inviò nel Ticino un altro commissario, Simon Bavier, che poté ottenere almeno una tregua (non di più, ché l'esacerbamentodegli "animi volle continuare, e nello stesso Stabio in Earticolar modo, dove men di tre anni aopo doveva darsi un altro clamoroso fatto di sangue). Il Consiglio federale, peraltro, poté anche intervenire a dirimer il conflitto costituzionale che 1?areva un nodo gordiano: e cos1, grazie al buoni uffici di Emil Welti, uomo superiormente moderato, e alla buona volontà degli esponenti migliori dei due partiti, dal Battaglini al Mola al Respini aI Pedrazzini, due settimane dopo si poté approdare a un accordo, per cui si sarebbe arrivati a rinnovar anticipatameQte il Gran Consiglio, a voto segreto e per Comune, ma sulla base della "PoEolazione di fatto» che il censimento federale aveva accertato: e i consiglieri di Stato davan nel mezzo le lor anticipate dimissioni. La votazione che ne segul, il 19 gennaio 1877, riconfermò in Gran Consiglio la maggioranza dei liberali-conservatori, anzi la rese più netta, 69 contro 41: e poco dopo poté formarsi il nuovo ~overno (ridotto ora a cinque membri), composto di Gioachimo Respini, Martino l>edrazzini, Massimiliano Magatti, Filippo Bonzanigo ed Ermenegildo Rossi.
Certo il Governo conservatore non doveva trovare ora dinanzi a sé una strada in tutto piana, ché intanto i "fatti di Stabio» continuavan a commuovere gli animi, sfociando in un clamoroso 1?rocesso, e i tafferugli continuaron in var1 siti, e si trasformaron 1?iù d'una volta in risse, dove agli insuln s'accompagnaron anche percosse e ferimenti, e in un caso, a Sessa, s'ebbelure un morto. Un particolare moto resistenza violenta s'ebbe a Lugano, dove a gran voce si gridava all'ingiustizia e alla sopraffazione: sicché il Governo, nel mese ai agosto, si vide costretto a ordinar un'occupazione militare in piena regola. Certo i motivi del malcontento non mancavano, da .parte dei soccombenti. La nuova maggtoranza, come forse era fatale, tendeva ora a imprimere il suo marchio a tutta la vita del Cantone, con le caratteristiche, già verificatesi in senso 01?posto nel periodo precedente, del "regtm~~; e a1?Earivan,? ~ella pratica accantonan 1 monV1 enunC1an da Bernardino Lurati nei suoi Ricordi, ché ora invece un Respini e gli uomini che lo seguivano erano 10 un certo senso per una politica della forza derivata dal numero, quasi
Il colonnello brigadiere Avv. Pietro Mola di Coldrmo
inclini a una forma di integralismo; e peraltro l'influenza del Lurati, che si spegnerà nel 1880, sembrava debole viepiù. Così vennero esclusi dai posti di responsabilità non pochi funzionari che mostravano di non aderire al « nuovo indirizzo», o addirittura di intralàarne il cammino: in particolar~ taluni .profes~ori del Lic~.
E pure" è 10negablle che 11 nuovo regtme arrivò presto a importanti attuazioni. Già nel '78 veniva risolta defì.nitivamènte e nella pratica la questione della capitale del Cantone, fissata come principio a Bellinzonagiànel1870: efu questo unimpegno particolare del Resp1ni, che trioiifò dell'opposizione tenace aei luganesi, nel-
la questione uniti senza distinzioni d parte, dal radicale Carlo Battaglini al con servatore Massimiliano Magatti.: la vota zione cantonale, svoltasi il 10 marzo, mc strò il popolo ticinese largamente con senziente. Nel 1879 e nell' '82, sotto l'im pulso particolarmente energico di Marti no Pedrazzini,. si poté Erocedere (com vien detto in altra parte di questo fasciee lo) alla generale riforma dell' ordinamer to scolastico. Ancora in quegli anni si di mano a una più generale riforma del s stema elettorale {che chiamò invero g alti lai dei radicali, dipoi pertinaci nell polemica, come vedevano il sopruso: aopo la prova, che insomma era stal
precaria, del '77: il Gran Consiglio sarebbe stato eletto in base a un deputato sopra 1200 anime della «popolazione di fatto"», e i 38 Circoli erano, per quanto riguardava le elezioni, sostituiti da 25 nuovi Circondari. Veniva introdotto il referendum in materia legislativa; si dié mano a una" riforma giudiziaria», per rendere il sistema più snello e meno costoso; lo Stato assunse, nell' '87, la totale manutenzione delle strade, alleggerendo cos1 gli impegni finanziari dei Comuni. E s'arrivò in dieci anni a diminuire, giusta un de' postulati da Bernardino Lurati enunciatI, di quasi un milione e mezzo il debito I.>ubbIico. E notabilissimi furono i lavon pubblici eseguiti, tra i quali primeggiavan gli avviati (e in parte attuati, pur fra le opposizioni d'una popolazione miope) mdigamenti dei fiumi Ticino (quasi attuando per tal via il sogno ch'era stato di Carlo Cattaneo) e Maggia. E venne risolto, come pure in separata trattazione del fascicolo si vede, il problema diocesano, che ormai si trascinava da troppi anni, con conseguenze ch' eran per t~tti n~ga~v:e. Momenti indim~nticabili VIveva 11 TIcmo nel 1882, con l'mauguràzione della linea ferroviaria del San Gottardo, e nell' '83 (in particolare Lugano, dove la maggioranza liberale persisteva: ma nel punto, dopo qualche dubbio, si dette fra i due partIti una sorta di «entente cordiale») col Tiro federale, d'esito eccel-lente. .
E tuttavia, col passar degli anni, l' o.pposizione volle riprender fiato, e farsi VIepiù acerba la sua polemica attraverso i giornali, in specie «Il Dovere». Non mancavano peraltro gli argomenti: il «Riformino», votato nell"80, indubitabilmente tendeva a dare ai conservatori, già favoriti dalla geografia elettorale, premi di maggioranza assai alti, donde le radicali grida di ingiustizie, che avevan presa su larghi strati dei cittadini. (Qualcosa tentava di fare il Consiglio federale, tutto radicale, per «correggere» in senso opposto, stabilendo un «Circondarietto" per le elezioni al Nazionale dell' '81: ma non sortì lo sperato effetto, per giungere al quale si dové procedere, nell' '82, a un ricorso e a un'inchiesta, che risultò di parte: donde in quell'anno diatribe a non finire sui giornali).
Il carattere del Respini, che restava il «leader" dei governativi pur essendosi p'resto ritirato dal Governo per conservar il seggio di deputato cantonale e di consigliere agli Stati, non era fatto per acquisirgli soltanto simpatie: volitivo e autoritario, il Respini portava innanzi una politica senza compromessi, talvolta lontana dal programma espresso ne' Ricordi dal Lurati, che aveva raccolto, nel '75, l'adesione anche.di tanti moderati: una parte dei quali ora si mostrava delusa del «nuovo indirizzo". La realtà era che i liberaliradicali registravano continui progressi,
in parte anche determinati dalle naturalizzazioni, ch' eran favorite nei centri e avversate dalle conserva,trici campagne, e dall'immigrazione di confederati di lingua tedesca e di religione protestante, soprattutto impiegati della «Gotthardbahn». E quello che si dice illogoramento del potere faceva il resto, ma negativamente, ne' confronti dell'altra fazione. U n fatto parimente innegabile era pe~ò che intanto si faceva innanzi una giovane generazione radicale che contava elementi di valore e soprattutto grande eloquenza, come Romeo Manzoni, Stefano Gabuzzi, Alfredo Pioda, Achille Borella, Curzio Curti, Brenno Bertoni. Sicché, quando si dettero le elezioni per il rinnovamento del Gran Consiglio (3 marzo 1889), le posizioni apparvero alquanto ravvicinate: donde un'atmosfera di grande tensione alla vigilia, non turbata da particolari violenze, ma contrassegnata da un numero esorbitante di ricorsi. A cose fatte, si ebbe una nuova vittoria conservatrice, ma con un margine assai ristretto, che tuttavia consentl una maggioranza grandissima di eletti, 77 deputati contro 31. I liberali non si adagiarono ai risultati: e ne vennero altre violenze, con assembramenti di gruppi armati delle due parti, minacce di sommosse. Particolarmente grave si mostrò la situazione a Lugano, dove qualche conservatore venne aggredito e ferito: e siccome pesava sulla città la minaccia di un colpo di mano da parte di conservatori della campagna, il Consiglio federale investì il colonnello Eugène Borel, già inviato alla vigilia delle elezioni quale delegato, della funzione di commlssario, ponendogli agli ordini un battaglione .zurighese: il che valse forse a evitar il peggio negl'immediati frangenti, ma non poté certo risolver una situazione politica confusissima e greve di forse inopinabili sviluppi.
Giulio Rossi- Eligio Pometta, Storia del Cantone Ticino , II edizione con prefazione di Giuseppe Martinola, Locarno 1980.
Antonio Galli, Notiziesul Cantone Ticino, Bellinzona 1937.
Mario Agliati, Storia della Svizzera, voI. II, Lugano 1969.
Bernardino Lurati, Rirordi ai Ticinm, ristampa, Lugano-Mendrisio 1901.
Prousso di Stabio sui fatli del22 ottobre 1876, Bellinzona 1880.
Angelo Tarchini, Nel centenario della nascita di Gioachimo Respini, Bellinzona 1937.
Piero Bianconi, La giovinezza di Gioachimo Re-spini, Locarno 1975. .
Carlo Speziali, I fatti di Stabio del 22 ottobre 1876, Bellinzona 1977.
Der Stabio-Prozess! In zusammenhange geschichtlich dargestellt durch Dr. J.A. Scartazzini, Ziirich 1880 [una serie di articoli, notevolmente di parte, dal grande dantista, presente a Stabio come corrisl?ondente, inviati alla «Neue Ziircher ZeitungoJ.
. Pertinace, Andrea S~rtazzini al processo di StabIO, -Il Cantonetto o , dicembre 1965.
25~5
U.I. tw .. ~ _ (lf. ll 1'1" •• ~
u ••
Simon Bavier 7
68 8
I giornali
Riprendiamo il discorso dall'altra volta, quando si era parlato, in chiusa, della «Voce del P~OIO», giornale politico di opposizione cioè moderato, o, come si diceva o si . à, liberale-conservatore), apparso a Lugano, presso la tipografia Traversa e Degiorgi, e diretto da Bernardino Lurati. Il nuovo foglio coglieva bene uno stato di disagio che, negli anni successivi al Pronunciamento, era · pure diffuso: e, accolto bene specialmente a Lugano e nel Luganese, era destinato a non essere, si scriveva ancora l'altra volta, una meteora, e anzi ad addentrarsi ne' successivi decenni: però, fuor che sull'alba degli anni Sessanta, con altro nome, anzi con altri due successivi nomi. Anzitutto s'ebbe, dal 1862, a continuazione della« Voce del Popolo», «Il Cittadino ticinese» ( <<giornale politico» del martedì. e del sabato), sempre stampato dalla Traversa e Degiorgi, ormai avviata a diventar la tipografia della parte dichiaratamente cattolica. Scriveva nel primo numero del 22 giugno con ogni probabilità il Lurati: «La discussione sulla cosa pubblica ci parve un bisogno sentito dallo universale. Fu questo il movente che ci determinò a mettere in luce un nuovo giornale destinato a spiegare al popolo quali siano i principi liberali, a chiamar le reggi, a combattere gli abusi dell' autorità e a proporre quali nuovi ordinamenti che crooeremo consoni alla posizione politica e materiale del paese». Quanto ai princlpi, onde -Il Cittadino» si poneva «tra le stampe d'opposizione», si potevan riassumere nella battaglia per "la libertà d'insegnamento, la riforma giudiziaria, il voto segreto, la libertà di culto, il veto popolare nelle questioni di somma rilevanza, la riforma del sistema amministrativo»; che saranno più o meno i postulati, sarà da dir di passata, contenuti nei Ricordi (1875) dello stesso Lurati.
Passavan non molì' anni, e forse quel titolo parve troppo angusto, o tradizionale: al dir di Louis Delcros, alcuni ne domandarono un altro, «che potesse garrire al vento come una bandiera»: e si ebbe, che certo in quel senso era scelta felice, «La Libertà". Il «Cittadino» 1'8 dicembre 1865 annunciava di sospendere le sue pubblicazioni il successivo giorno 16; e 10 quello stesso numero si leggeva pure l'<<Avviso di associazione nel 1866 alla "Libertà"», «giornale tutto consacrato al prosperamento morale e materiale del popolo ticinese», annunciato come trisettimanale, «formato a tre colonne, cOn buona carta e caratteri nuovi». Già il 31 dicembre 1865 appariva il primo numero, che in effetti sarebbe piuttosto da dir, con linguaggio d'oggi, il «numero zero», ché l'apparizione vera e propria e continuata era rimandata al 6 gennaio del '66,
«per le difficoltà del primo impianto dei registri di amministrazione e spedizione»; un numero a'ogni modo che, ponendo sotto la testata l'indicazione «foglio popolare ticinese» (dove c'era quasi una fievole eco delle due testate precedenti), recava,. come veniva detto, «due parole di programma». Si trattava, dicevan tral'altra quelle righe, di un giornale insieme nuovo e non nuovo: nuovo, se veniva badato al titolo, al numero delle pubblicaziòni e alla distribuzione delle materie; ma per dir così antico, affondante le radici in un passato ormai non tanto più prossimo, se si poneva mente ai principii, «che i gentili associati conoscevano nel redattore-proprietario »: come a dir in Bernardino Lurati, penna cortese, agile e chiara, e nel contempo ardente e circa l'essenziale ferma. «La Libertà» a ogni modo, veniva aggiunto in quelle «due parole», voleva essere «giornale svizzero e ticinese per eccellenza»: e in particolare come giornale ticine e era «decisa ad adoperarsi del suo meglio per regger dal pre- . cipizio le sorti del Cantone, le quali per . mala ventura, a giudicare dagli stessi meno sospetti, volgevano a miseranda rovina». E si soggiungeva: «Il salvare la patria da tanto e sì grave male non è reazi~one o tradimento, non è gioco di partiti. E opera santa, deve essere comune aspirazione di tutti i veri cittadini». S'entrava poi nella specificazione di alcuni punti: « Vogliamo che le religiose credenze della generalità del nostro popolo siano rispettate e protette. Epperò bando allo spuito teoIogastro e sagrestano che ha penetrato fin al midollo dell'attuale sistema. .. Vogliamo che la pubblica istruzione riesca di reale beneficio ai giovani, alle famiglie e al paese. E perciò combatteremo le tendenze pagane dell'odierno monopolio e la febbre di propaganda 'politica che domina i sopracciò nell'lOsegnamento ... Propugneremo la riforma costituzionale, che sola può migliorare le libere istituzioni, inaugurare il perfezionamento del nostro stato sociale ed assicurarci dai pericoli morali ed economici dell'avvenire». E altro veniva detto, a proposito di auspicati cambiamenti ner campo finanziario, . per "scansare ogni più Forte aumento degli aggravi cantonali e comunali», e nel cam{>O giudiziario. La conclusione, poi: «Il v1gente sistema, che vale il dissimularlo? troverà in noi avversari aperti e inflessibili, ma giusti, ragionevoli, leali. Noi feriremo di fronte gli avversari, lasciando ai vili la soddisfazione di percuotere a ghiado e nelle reni». Quanto allo stile, sarebbe stato «famigliare, popolare», ché il giornale voleva esser «per il popolo, non per illosofi e scienziatl». E per dir in genere della «Libertà», basterà che togliamo il titolo d'un editoriale, nel numero del 5 marzo: Bisogna mutar sistema! Accanto al Lurati, «La Libertà» si avvalse della penna dell' avvocato Carlo Conti
(1836-1900), già redattore del «Credente» e futuro consigliere di Stato, e fin al 1875 restò a Lugano, presso la Traversa e Degiorgi, intensificando l'uscita, da tre a quattro volte la settimana; e passò quindi a Locarno, in una tipografia che il Motta definisce «di famiglia», appunto detta «della Libertà» (ma doveva essere una sorta di succursale della «Traversa e Degiorgi»), ed ebbe come redattore allora Martino Pedrazzini; finché, fissata la capitale stabile, combattute varie vittoriose battaglie, e ricca di un bel notiziario svizzero e internazionale, si trasferì a BellinZOna: e ormai aveva la sottotestata di «foglio liberale-conservatore ticinese». Nel 1881, 6 agosto, compariva a Lugano «Il Ceresio», «giornale popolare ticinese», stampato dalla «Traversa e Degiorgi», che intanto, passata «La Libertà» col «Credente Cattolico» a Bellinzona, aveva trasportato il materiale della -Tipografia della Libertà» nell' antica sede di Lugano. Diceva tra l'altro il programma: «Mani valorose ed abili reggono la nave della Repubblica fra le tempeste della vita politica. Ristabilito è il regno di Astrea. Il Ticino non è più la stalla di Augia; e le passioni selvagge non governano più lo Stato. Sovrana è ora la legge. Ma tuttora spirando "venti insidiosi e insidie", occorreva star alle velette. «Il Ceresio si metteva dunque nettamente sul piano governativo, ma si profilavano presto contrasti con «La Libertà»; e la vita del foglio luganese, forse ispirato da Massimiliano Magatti, non andò oltre il 1883.
Sull'opposta sponda, - Il Repubblicano», morto una prima volta nel 1850 e rinato nel 1855, e subito morto di una morte «secunda,. (ma non nel senso del Cantico delle creature ... ), rinato nel '61 e rimorto tosto ancora, tornato a rivivere nel '64, per star vivo ancora quattr'anni, fiaché nel '68 ne raccoglieva in un certo senso l'eredità «La Tribuna», un «foglio rosso luganese», al dir del Motta, che si definiva sotto la testata «liberale», e s'accompagnava alle parole: «Libertà, Democrazia, Progresso». Ispiratore ne era Carlo Battaglini, già anima del «Repubblicano» ne' suoi momenti migliori, e redattore il giovane figlio di lui, Antonio. Il primo numero, col "program.ma», apparve il 14 gennaio, e lasciava intender d'una crisi che ormai s'agitava in quella fazione: «Deplorevoli vicende - si scriveva -hanno, nel giro di un biennio, recato grave scossa all'armonica compagine del sistema liberale ricinese. La possanza di quelle forze vive che costituivano il gran fascio del partito progressista ha patito detrimento per l'effetto di un' opera sistematica di disgregazione .. . Gli organi della pubblica opinione risentirono gli effetti ili questo ' squilibrio e l'uno dietro l'altro soggiacquero, lasciando il vuoto e il silenzio d'attorno al glorioso vessillo del liberalismo. Ora la Tribuna viene a riem-
pire la lacuna aperta dalla scomparsa della stampa liberale». E il suo annuncio voleva esser già di per sé «un interò Erogramma, affermazione dei principii e aelle idee d'un partito ormai storico». Né peraltro si voleva uscire da un «modesto accento» ch'era di «sinceramente promettere al popolo quello soltanto che si confa all' inaole sua 00 a' veraci interessi suoi». Ma al di là di taluni postulati ormai noti (<<incremento della pubblica istruzione», «libera dalle pastoie clericali»; incoraggiamento delle «leggi che tendono a rivendicar la sovranità dello stato alle viete usur.pazioni di Roma»; "ordinamenti militari necessari a proteggere l'indipenden- . za della patria» eccetera), era interessante quel che nel programma si scriveva, prooabilmente per la penna di Carlo Battaglini, direttamente intorno al problema economico-politico e insomma anche sociale: in esso si auspicava una «saggia alleanza della libertà lOdividuale e della solidarietà», e si sosteneva la necessità l?er lo Stato di astenersi, là dove l'iniziatlva individuale bastasse a condurre a buon fine un'intrapresa, ma anche di intervenire nel caso contrario, poiché «lo Stato altro non è, in fatto, che una società cooperativa". Quanto al "Potere», gli si domandava una partecipazione al movimento della vita politica, pena altrimenti l'aver «un governo neutro e anfibio»: «Il Governo, dovendo essere l'emanazione, anzi l'espressione d'un partito, il rap'presentante d'un sistema, la più ovvia raglOn politica esige ch'esso militi attivamente sotto un'unica bandiera»: il che poteva essere interpretato come un incitamento all'aut?rità per un'azione più dinamica e inciSIVa.
. A Bel1inzona, intanto, s'era data una reviviscenza, quella "Democrazia» redatta dal canonico Ghiringhelli, ch'era vissuta tra il 1852 e il '62, e poscia s'era spenta, ma ora rinasceva, come «giornale politico popolare», con un primo numero comparso il 29 dicembre 1868, recante il programma, firmato da una triade squisitamente bellinzonese, Andrea Molo, Stefano Gabuzzi e Filippo Rusconi: dove veniva detto che la «Democrazia» era riportata in vita perché si desse un perioruco politico anche nella parte superiore del Cantone, tanto più che Bellinzona era ormai incamminata a diventar sede governativa. Il giornale si chiamava «Democrazia» richiamandosi «a un avventuroso passato»; risorgeva adesso, si scrivevaimmaginosamente, «scossa dal suo letargo, girando lo sguardo per vedere che cosa si era fatto nel decennale silenzio [ch'era poi un decennio di soli sei anni]: si era adaormentata tra le grida di riforma e di revisione della Costituzione.. . Aveva sognato un idillio; e invece si ridestava fra le stesse grida, fra gli stessi bisogni, gli stessi anacronismi, senza che si sia progredito d'un passo . . . Si levava perciò corruc-
... --.. _ ............ . ~ .,.. ... -.. -- .. --...... __ ...... ro.._ ......... ... .......... _ .......... ...... - ...-................ _-~ .. ..--. ..... ......... "-It_ ............... _ ._._ ............. ... ..... ~-. ... _-_ ........... ::!":::-- - .......... ",--, ........ '--.,....
\1'11'10 I. .LoClkNO. ' -3 Lttslio U18.
IL DOWERE; '. .
GXQEl.N . .&X.m ~ TXOXN:msm l' .•
...... --....... . ........ ................... .. . ......... ...-................ .. ........ . ............... - ............. w. .... - ..... - .. " .......... -- ....... .. .... ~ ...... _ ....... ( •• ~ • , a.
.......... 10r.. ...... ~ ........... .... ......... --- - .......... ............. 6IIitI ... -... -~ ...... . ' ,' c." ...... .,.,....c-. ...
. -:-1/' . 1<. ..
'1 .
, ,- .... . ....... ..... _ ... .. " ...... . . 1 • ........ IL TEMPO "
...... ,..a .. " .. ' •• PIIQIII r __ .. I .... _ ..... G lO R N A L E ' p (} r O L A Il E , F "u.:~r:. ::' .. '"j-~!~I~. Il ......... , u ti ....... ;;;
_·h ... ~;;;·:··~;~-;.;.;;-:.71ii,..o-=t;;;;,;. o . • ..we. _ L ...... .
ciata, rialzava la sua bandiera e scotendola sulla fronte dei patrioti assonnati, dei liberali intiepiditi, li chiamava a raccolta, all' opera di edificazione e di continuazione dell'impresa che ci avevan lasciato in eredità i grandi Cittadini sulla cui zolla ancora di fresco scossa piange tutto il Ticino». Si concludeva: «La "Democrazia" riprende il suo apostolato». Ma non durò a lungo, alla fine d'ottobre del 1870 anche la seconda «Democrazia» s'ammutoliva in vitam aeternam.
La. volle sostituire in un certo senso «La. Riforma elettorale", che cominciò nel '72 e nel '73 era già bell' e finita, o, per dir col Motta rinnovata nel nome di «Il Gottardo», giornale, come recava la sottotestata, «delliberalismo ticinese», sempre nella stessa stamperia Colombi. Il programma peraltro, pubblicato nel primo numero del 6 gennaio '73, faceva pensare a una missione a dir poco doverosa. Il giornale, vi si sosteneva, costituiva un «soccorso sl?ontaneo a un bisogno cantonale»: «Tra l patrioti illuminati corre un lamento simile a quello di nascosta e mal definita malattia: che illiberalismo ticinese è caduto in un marasmo, che è scucita ogni organizzazione, che manchiamo di un organo veramente cantonale»: e dunque ecco «Il Gottardo» pronto a bat" tersi per la «difesa delle dottrine liberali conformi agli interessi generali e al presente sviluppo delle idee, sia nelle cose politiche sia nelle sociali». E però forse
da dire che «Il Gottardo», nonostante le sue ambiziòni, non poté essere, nella parte liberale, un foglio veramente, come si dice, egémone. Qualche diffidenza o risentimento o sorriso amaro par di avvertire che si desse, nei colleghi di giornali li
·berali ancor vivi, o da poco defunti. A Lugano scompariva in quel torno di tempo «La Tribuna», e veniva tosto sostituita da un'altra testata rediviva, più importante della ghiringhelliana "Democrazia», cioè «Il Repubblicano della Svizzera Italiana», riapparso nel gennaio 1874, recante «m exergue» la famosa «triade» battagliniana: «Tre cose siano poste a salvare la Repubblica: la costituzione delle leggi; la virtù dei magistrati; le accuse dei vizi». Ancor qui l'ambizione pareva grande: di tornar a essere cioè il vero e più importante organo del partito liberale: e difatto «La Tribuna» aveva già cessato le pubblicazioni, e a Lqcarno stava agonizzando «Il Carabiniere Ticinese", nato nel '73 e destinato a morire l'anno appresso, frammezzo a gravi traversie finanziarie; mentre «Il Gottardo», che pur continuava, dichiarava, per la penna de' suoi giovani redattori, di aderire al programma del giornale luganese dalle molte vite. Il 1. gennaio 1874, a ogni modo, questo si annunciava con un messaggio «ruliberali ticinesi»: « Vi annunciamo una buona notizia. "Il Repubblicano", quel foglio che preparò e accompagnò le più splendide vittorie e le più disputate conquiste del li- 9
68 10
beralismo, risorge; [ ... ] risorge e riprende il suo antico posto nell' agone politico, dicendo a tutti i liberali: contate su di noi». Molte le fume che accompagnavano il manifesto: tra le altre, quelfe di Giovanni J auch, di Pietro Mola, di Gerolamo Vegezzi, di Filippo Rusconi, di Leone de Stop'pani; e nella s~eteria c?mpariv~ anche il ndme, ancora lOcerto di grafia, di Rinaldo Simen. Magpa pars della redazione voleva essere il ae Stoppani, che nel '54 era stato pure trai più fieri rappresentanti dell' opposizione, ond' era accusato dalla «Libertà" di aver operato un «voltafaccia»: al che egli reagiva con un articolo del 29 gennaio, interessante perché veniva a chiarire una posizione politica che, vent'anni avanti, aveva potuto ingenerar qualche confusione. Su certi princlpi a ogni modo (come la richiesta del voto segreto e per comune) il de Stoppani affermava di non decampare.
A compier la geografia giornalistica liberale, sarà da dire che nel '70 nasceva a l.ocarno «l'Impaviqo», espressione dei fratelli Paolo e Augusto Mordasini, che durò, bisettimanale, fino al '73; e, che fu più importante, ancora a l.ocarno e sempre nella tipografia di Domenico Mariotta, il trisettimanale «Il Tempo», fondato da Augusto Mordasini e da. Rinaldo Simen quasi sulle ceneri del «Carabiniere»: «giornale popolare», come pure si definiva, apparso il 19 settembre. Ceditore-tipografo, rivolgendosi «ai lettori », diceva l e per una volta non era un modo di dire) che l'iniziativa «colmava una lacuna». Voleva essere «Il Tempo" un giornale 10-eale, anzi un «giornale del paese»: «Per circoscritta che sia la vita di l.ocarno, non sono poco frequenti le occasioni che sorgono di dover desiderare un organo di pubblicità in cui la necessità e gli interessi aelle popolazioni possono venire convenientemente discussi e sviluppati»: e si citava l'esasperazione dei prezzJ. «in tutti i generi di prima necessità», derivata dal conflitto franco-prussiano e minacciante «quel giusto equilibrio di proporzioni che dev' essere a garanzia dell' ordine sociale". Si trattava anche di battere in breccia gli sfruttatori. l.ocarno, è vero, non era venuta a trovarsi in condizioni «più delle altrui sfavorevoli», e questo si dové all'onestà de' suoi esercenti: «ma se si avesse avuto a fare con degli ingordi speculatori, qual mezzo sarebbe stato più efficace a limitare le loro pretese di quello di una stampa franca e coraggiosa che li avrebbe denunciati?». Si voleva quindi offrire «al Paese un giornale a comoda portata di tutte le sue necessità». Quanto al programma, era buona cosa non abbandonar la prudenza, ché, si soggiungeva argutamente, «altro è il parlar di morte, altro è il morire». Intanto, il nome: «Abbiamo messo a contributo mille reminiscenze e mille ragionamenti per assembrare un nome che non riuscisse co-
me le etichette di que' fabbricanti che poi si vedon· condannare a farne onorevole ammenda sul "Foglio officiale" [ ... ] "Tempo" significa progresso sicuro perché ragionato, e siccome noi, a stregua . delle nostre forze, non ristaremo dall' appoggiare in qualsiasi campo ogni progresso che possa riescire benefico al popolo, così ci lusinghiamo che il nostro nome, nel suo migliore significato, e le nostre azioni si troveranno oggi concordi». E nessuno avesse poi mai da rimproverare agli estensori, «liberi come l'aria», di essere «all'attender corti». E per dire infine dello spirito politico che informava il giornale, sarà forse sufficiente segnalare l'evidenza che veniva data all' arrivo a l.ocarno del Consiglio di Stato, pochi . giorni dopo il famoso voto del 21 febbraio 1875, quando centocinquanta liberali onsernonesi fecer «bivacco alla militare sotto il casotto de' Carabinieri», affiggendovi un cartello ch' era una professione di fede: «I liberali onsernonesi / esultanti per il suo arrivo / dichlaransi sempre pronti / a sostenere la causa del Governo», e al discorso nell' occasione tenuto dall' avvocato Paolo Mordasini che, dichiarandosi rispettoso della sovranità del popolo, esclamava poi: "Ma se, prevalendosi dell'acquisita supremazia, si volesse introdurre nel nostro paese principI monarchici, o seguire istituzioni straniere, vengano poi esse in nome di Napoleone, di don Carlos o di Pio IX, se si volessero manomettere le nostre istituzioni per obbedire al codice di l.oyola, a questa maggioranza noi non sottostaremo giammai! ». E nello stesso numero appariva una poesia di Cesare Mola dal titolo I supremi consigli della Repubblica a Locarno: "Onsernone! e a te sia lode: / dalle tue selvose prode / qui recasti ai patri gaudii / il vessil d'un fausto di, / / quel vessillo ardito e fiero / che indicea il cozzo primiero / al reo demone, onde il Poporo / di tiranno onta patl . . . ». E altro ancora sarebbe da aggiungere; ma si son ormai toccati i limiti dello spazio, e convien lasciare molti nomi nella penna, di giornali politici e umoristici, e di riviste: molti, che non citiamo partitamente, si ritrovan nelle tavole 4 e 5. All'Archivio cantonale, per questo periodo, esistono ben cinquantotto testate. .
Ma la storia camminava in fretta anche per questo giornale. Dall' altra parte della barricata "La. Libertà» si mostrava viepiù salda e ben determinata, e contro di lei poco potevano i fogli liberali, che parevano far la parte, per dir col Delcros, di franchi tiratori: onde l'occhiuto e concreto Simen, proponeva di surrogar «Il
Nn. t
Tempo" con altro giornale di più generale raggio: e nasceva così, ner luglio del 1878, "Il Dovere», «giornale liberale ticinese», pur redatto da Augusto Mordasini e dallo stesso Simen; e in <Juel mezzo cessava pure le sue pubblicazlOni il bellinzonese «Gottardo»; assorbito in un certo senso esso pure. E nel '79 veniva a cessare, definitivamente, «Il Repubblicano». Già il primo numero, 2 luglio, era esplicito nel manifesto: "Non è un nuovo giornale che viene alla luce: se una trasformazione si presenta sotto l'aspetto del nome nuovo e della estesa redaZione, il nostro programma rimane il programma liberale»; e segnalando che "Il Tempo» aveva "ceduto il campo soddisfatto», si affermava che l'intento primo era di combattere "la dispersione», in una stretta collaborazione tra Sopra e Sottoceneri, tra le valli e le città, per lavorare, costituito "un nucleo d'azione», alla «concordia dei pensieri», fomentando «costantemente l'azione che deve condurci al Risorgimento». E ancora: «Ogni località, ogni persona scompaiano di fronte al nostro programma cantonale: non dimentichiamo mai quanto le gare di campanile e le individuali contestazioni hanno prodotto di male [ ... ]. Il partito che è oggi al Governo ci avrà naturalmente per risoluti avversari: risoluti ma onesti, non sistematici». Nel decennio seguente si può dire che le posizioni giornalistiche erano delineate: di fronte, «La. Libertà» e «Il Dovere», pur con qualche improvviso intervento (come il gtà citato" Ceresio,.), che però doveva esser poco più che una meteora. Nel contempo sarà <la segnalare che continuava la sua azione e la sua battaglia «Il Credente Cattolico», nato nel lontano 1856, e la «Gazzetta Ticinese», nata nell'ancor più lontano 1821, che si avviava ormai, sotto la direzione di Francesco Veladini, a passare sempre più sensibilmente, se pur con una cautela che di· remmo espressione della luganese borghesia, nel campo liberale.
I.ouis Delcros, Piccolo viaggio attraverso la stampA ticinese (1746-1878), Lugano 1958.
Emilio Motta, II giornalismo del Cantone Tici1ll dal 1746 al 1883, I.ocarno 1884.
Avv. Brenno Bertoni - Dr. Luigi Colombi (lllf in realtà quasi tutto è del Bertoni), Cenni storici"stJ la stampa dei giornali della Svizzera Italiana, in Dii Schweizer Presse, Bern 1896.
Eligio Pometta - Giulio Rossi, Storia del Ca,,(q ne Ticino, II edizione, I.ocarno 1980.
Dictionnaire historique et biographique de la SuUr' Neuchatel, a .l?artire dal 1921; voci redarte da Cele stino Trezzim.
Annate (ma non di rado con lacune) de' va.c giornali.
La questione diocesana
Dal censimento federale del 1980 risulta che la popolazione residente nel nostro Cantone comprendeva 265'899 abitanti. Di essi 231'653 si sono dichiarati di religione cattolica apostolica romana, la quale sino alla riforma costituzionale del 1975 era riconosciuta la sola «religione del Cantone".
Tale porzione di popolazione è raggruppata in 251 parroccllle, enti pubblici riconosciuti chiaramente dalla Legge sulla libertà della Chiesa cattolica e sull'amministrazione dei beni ecclesiastici (1886) che si richiamerà più avanti. In precedenza le questioni amministrative e la stessa nomma dei sacerdoti in cura d'anime erano di competenza dei comuni, eccezione fatta in forma, misura e tempi diversi per le chiese collegiate o plebane di Balerna, Riva San Vitale, Lugano, Agno, Locarno, Ascona, Bellinzona, Biasca, la gestione dei cui beni rimaneva prerogativa dell'arciprete e dei suoi sacerdoti coadiutori.
Le parrocchie di rito romano (196) sono nei distretti di Mendrisio, Lugano, Locarno, Valmaggia e Bellinzona; quelle di rito ambrosiano (55), nei distretti di Riviera, Blenio e Leventina, cui sono però da aggiungere quelle della Pieve Capriasca, di Brissago, Preonzo, Moleno e Gnosca 1. Le prime sino al 1884 dipendevano dal vescovo di Como; le seconde, dall'arcivescovo di Milano.
Oggi l'insieme di tutte le nostre parrocchie forma la diocesi di Lugano, i confini della quale coincidono con quelli del Cantone. Lugano ne è la sede; la chiesa di San Lorenzo, la cattedrale. I;attuale vescovo, mons. Ernesto Togni, è il settimo della serie designata dalla Santa Sede a reggere la diocesi intesa però sino al 1971 soltanto come amministrazione apostolica. I suoi antecesssori con carattere vescovile ma con sedi "in partibus infidelium» furono: Eugenio Lachat di Montavon Giura (1885-1886), Vincenzo Molo di Bellinzona (1887-1904), Alfredo PeriMorosini di Lugano (1904-1916), Aurelio Bacciarini di Lavertezzo (1917-1935), Angelo Jelmini di Tenero (1936-1968), Giuseppe Martinoli di Marolta (1968-1978).
La nostra diocesi è l'ultima, in ordine di tempo, creata in Svizzera: un risultato, questo, conseguito dopo lungo e sofferto travaglio di natura religiosa e politica, non limitato al solo nostro Cantone, ma divenuto a vari momenti problema nazionale, per la soluzione de1 quale entrarono in01tre in causa la Santa Sede, il governo austriaco, dalguale sino al 1859 dipendeva la Lombardia, e in seguito il Regno d'Italia.
Fonti cui attingere su questo punto, almeno per quanto possa riguardare le
fasi più cruciali (sec. XIX) sono: gli Atti del Gran Comiguo del Cantone Ticino o i Processi verbali del Gran Comiglio della Repubblica e Cantone Ticino (abbr.: Verbali GC) 1804-1886; il Bullettino Officiale della Repubblica e Cantone Ticino o Bollettino Orfietale delle leggi e degli atti esecutivi della Repubblica e Cantone Ticino (abbr.: Leggi GC) 1855-1888 e 1969.
Gli studiosi di casa nostra nelle loro pubblicazioni già hanno richiamata, trascritta, commentata pressoché tutta la documeritazione conservata negli archivi. Né poteva essere diversamente, l'0iché in passato, quanto a ricerca e stuilio, la preferenza era data quasi unicamente alle vicende politiche del paese. Citiamo almeno: Alfredo Peri - Morosini, La Questione Diocesana Ticinese, ovvero Origine della Diocesi di Lugano (Einsiedeln 1892); Celestino Trezzini, Le Diocèse de Lugano dam son origine historique et sa condition juridique (Fribourg 1948); Franco Zorzi, Le relazioni tra la Chiesa e /o Stato nel Cantone Ticino (Bellinzona 1969). I;argomento è pure trattato in misura frammentaria, non per questo meno interessante, da un autore anonimo: La question du Tessin par un citoyen genevois (Carouge 1863); da Eligio Pometta: La questione diocesana ticinese in «Bollettino Storico della Svizzera Italiana» e da Giusel'pe Martinola nel volume Epistolario Dalberti-Usteri (Bellinzona 1975)2.
1. Durante il Medioevo Le terre che oggi costituiscono il Tici
no sin circa agli inizi del Cinquecento dipendevano tutte politicamente da Milano o da Como. 10 stesso va detto per quanto riguardava gli affari ecclesiastici. Mancava un legame tra le nostre comunità che si mantenevano estranee le une alle altre, addirittura divise perfino quanto al rito religioso. D'altra parte, molte delle loro concezioni di vita, usi e costumi erano naturalmente in consonanza con quelli delle grandi comunità lombarde, delle quali sentivano di far parte. Di conseguenza, impensabile riusciva l'idea che le nostre terre, quanto allo «spirituale», venissero staccate dall'archidiocesi milane-. se e dalla diocesi comasca per formarne una a sé stante.
2. Durante la sudditanza agli Svizzeri, Dal Cinquecento alla fine del Sette
cento le cose vanno invece via via prendendo altra piega: la nuova giurisdizione politica non coincide più con quella ecclesiastica, sicché il nuovo sovrano temporale mal sopporta sui suoi territori una sovranità religlOsa estranea, «forastiera». Donde allora la diffidenza, i malumori, gli attriti non certo sufficientemente velati nemmeno dagli ampollosi discorsi, inneggianti alla reciproca intesa, pronunciati in occasione dell'incontro tra Lanfogri e vescovi, come ad esempio avven-
ne alle falde del Ceneri nel 1741, al momento in cui il vescovo di Como paoio Cernuschi metteva piede per la visita pastorale nel baliaggio di Locarno retto allora dall'untervaldese Peter von Fliie.
Gli Svizzeri - e sono specialmente quelli dei cantoni cattolici che dimostrano particolare avversità nei confronti del vescovo di Como, la cui Mensa possiede non irrilevanti beni entro i loro confini -ritengono che le loro prerogative debbano estendersi anche il dominio dello «spirituale»: diritti, ad esempio, di percepire tasse al momento del conferimento ili benefici ecclesiastici a sacerdoti 3, vigilanza sui beni delle chiese ed altro. Non quindi al popolo, che si mantenne e si mantiene fedele tanto all'arcivescovo di MUano, che dispone tra l'altro di un proprio delegato residente in una delle parrocchie ambrosiane e, dopo il 1622, d'un seminario a Pollegio, quanto al vescovo di Como che possiede residenze a Lugano con diritti sulla semi-cattedrale di San Lorenzo, a Castel San Pietro e più tardi a Balerna, ma al sovrano temporale balena l'idea di staccare da Milano e da Como le nostre terre per formare con esse una diocesi a sé stante presieduta da un vescovo «confederato". Infatti, nel 1595 gli Svizzeri auspicano, come primo passo verso la composizione della vertenza ormai in atto, che alla cattedra episcopale di Como venga chiamato illuganese Camuzzi allora vescovo di Bobbio-Piacenza.
Nulla di fatto; come nessun seguito avranno i vari interventi nel corso dei sec. XVII e XVIII presso la Curia romana, miranti a fare del baliaggi una giurisdizione ecclesiastica autonoma con presule o almeno vicario indipendente.
Violenti sono pure i contrasti durante il quinquennio dell'Elvetica tra le autorità civili e quelle religiose derivanti da disposizioni ostili alla Chiesa, tra l'altro i sequestri di beni appartenenti a enti religiosi.
3. Dal 1803 al 1840 Divenuto il Ticino cantone autono
mo, subito riaffiorò l'aspirazione all'autonomia af!che quanto alla sistemazione diocesana. E però da rilevare che fu indirettamente la Dieta federale a smuovere le acque, preoccupata com'era di provvedere iilla riorganizzazione in materia ecclesiastica soprattutto in altre parti della Svizzera in seguito alla secolarizzazione del vescovado di Costanza che comprendeva pure nostri cantoni di lingua tede-
. sca. Quindi le autorità ticinesi si trovarono in certo qual modo obbligate a far conoscere alla Dieta la loro aspirazione, che nel 1804 e ancora l'anno dopo risultò la seguente: d'accordo di trattare con la Santa Sede la questione diocesana in generale quanto a escludere dalla Svizzera ogni estera giurisdizione spirituale, d'accordo anche per la creazione di un' auto- 11
12
noma diocesi con proprio vescovo e seminario nel Ticino, nettamente contrarie invece ad aggregare le nostre terre a vescovadi d' oltralpe, né a quello di Coira né a quello che andava profilandosi a Lucerna (Verbali G C, 1804, p. 118 e 232).
Nel 1814 la questione tornò di nuovo alla ribalta (Verbali GC, 1814, p. 426) ; le idee nel frattempo andavano sempre meglio delineandosi. Inoltre, i rapporti tra autorità civili e i due presuli lombardi continuavano a deteriorarsi; clero e popolo ne risentivano, donde i motivi di preoccupazioni. Anche il burrascoso periodo napoleonico volgeva al termine, sicché si poteva ritenere che quello fosse il momento propizio per risolvere pure le nostre faccende ecclesiastiche.
Infatti il Governo, così autorizzato dal Gran Consiglio (6 marzo 1815), si rivolse direttamente al Nunzio apostolico a Lucerna e addirittura alla Santa Sede sempre nell'intento di uscire presto da questo incerto stato di cose.
Poco dopo pure avviò il discorso, dato che la Dieta s'era rifiutata di immischiarsi in questa marginale faccenda, con la Corte imperiale di Vienna (la Lombardia era nel frattempo tornata all'Austria) per ottenere il trapasso dei beni" posseduti in Ticino dal vescovado di Como in vista di creare e alimentare il fondo patrimoniale destinato alla futura Mensa vescovile ticinese. Risultati: Il sommo pontefice Pio VII, tramite il prodatario card. Mattei, rispose d'esser disposto «di prendere nella dovuta consideràzione» la domanda del nostro Governo, nella quale,' come osserva il Martinola, veniva tra l'altro presentato un quadro assai accurato sulfa situazione dei Ticino: 90'000 abitanti, paese solcato da valli e altissimi monti che rendevano i viaggi disagevoli e costosi sia ai fedeli sia ai vescovi in occasione delle visite pastorali che di conseguenza riuscivano carenti.
La Corte imperiale oppose invece un secco rifiuto quanto alla cessione dei beni. I rapporti tra il Ticino e Vienna si fecero via via sempre più difficoltosi anche perché il nostro Governo nel 1819 di motuproprio e prima di darne regolare comunicazione a Vienna aveva tentato un vero e proprio colpo di mano, sequestrando i beni in Ticino del vescovo di Como, destinati a alimentare il patrimonio in fieri del futuro nostro vescovado, e affidandone l'amministrazione a persona (l'arciprete di Balerna) a tale scopo designata.
I.:atto fu disapprovato dalla Dieta federale, che d'ora innanzi si disinteresserà maggiormente del nostro problema diocesano, come pure disapprovato fu il modo sbagliato e per nulla affatto diplomatico. con il guale il Consiglio di Stato, traffilte un mesperto nostro conterraneo mercante d'arte in Austria e l'imprudente incaricato degli affari svizzero a Vien-
na, presentò a posteriori le proprie richieste alla Corte imperiale.
Tra tali procedure, ilI. dicembre 1819 giunse almeno una più precisa risposta al Governo ticinese di parte della Santa Sede (card. Ercole Consalvi) : buone possibilità quanto a concordati tra la stessa e le autorità civili svizzere nel senso di staccare le parrocchie nostre da Como e da Milano e di creare con esse una diocesi indipendente, retta da un vescovo proprio e «nazionale», a condizione però che prima si mettesse «in chiaro e segnatamente la conveniente dotazione della Mensa Vescovile, Capitolo e Seminario senza recare troppo forte pregiudizio agli interessi temporali delle diocesi di Como e di Milano".
Nel 1831 si fece sentire buona parte del clero, sottoposto al vescovo di Como, mediante speciali pubblicazioni e petizioni tendenti a indurre le nostre autorità a riprendere con la dovuta fermezza e sollecitudine la questione. Nel 1833 due messi (sacerdoti luganesi) designati dal Governo si recarono persino a Roma per perorare la causa. È da dire che il clero <Ielle parrocchie ambrosiane si mantenne, ne1 complesso, contrario alla separazione da Milano, attaccatissimo com'era alla sua particolare liturgia, ai seminari milanesi, dai quali uscivano sacerdoti culturalmente e religiosamente preparati, a varie istituzioni della metropoli - come qualche ricovero - dalle quali potevano trarre non irrilevanti benefici.
4. Dal 1841 al 1876 Dopo le sommosse del '39 e del '41, si
voltò pagina quanto alle vicende politiche di casa nostra. Al governo, che si dimostrava in precedenza di tendenza moderata, subentrò altro liberale-radicale deciso ad attuare via via i postulati del proprio partito, attenendosi a ideologie tra le più avanzate del radicalismo elvetico vivo e operante in quegli anni.
Riesce quindi inimmaginabile che si potesse tralasciare di prendere in esame anche i rapporti con le autorità religiose in un momento, quale era quello, in cui Governo e Gran Consiglio S1 davano a rivedere, ad aggiornare, completando e più spesso innovando, leggi e dispositiv1 riguardanti si può ben dire ogni settore della vita comunitaria ed economica del paese. .
La Chiesa, da un lato, continuava ad attenersi alla salvaguardia delle sue prerogative acquisite da secoli e confermate almeno in parte dopo il 1815 5 ; dall'altro, lo Stato mirava ad assumere sempre più gravose mansioni e responsabilità, pur dibattendosi t ra non poche difficoltà finanziarie, conformemente ai nuovi principi di sostanziale rinnovamento nelI'ambito di una concezione prettamente liberale e moderna.
Donde il contrasto fra autorità civili e
. autorità ecclesiastiche divenuto ben presto acuto dando luogo a trasmodamenti ostili alla Chiesa - persino quasi di sapore scismatico - aggravati dal fatto che le nostre comunità ecclesiastiche erano soggette a diocesi straniere e per di più con sedi in territorio incluso nell'Impero austriaco che allora si dimostrava il peggio-re nemico del nostro paese. .
I fanatismi erano giunti a tal punto che, per dirla con Brenno Bertoni, si arrivava perfino a dire no anche solamente perché gli altri avevano detto s1. E cos1, nel 1841, si decise l'aggiornamento degli inventari dei beni appartenenti alle corporazioni religiose ma già sotto controllo <Iello Stato in conformità della legge del 19 giugno 1803; tra il' 48 e il '52 parecchi conventi furono secolarizzati o soppressi e i loro beni confiscati dallo Stato come già era avvenuto nel 1812 6•
Infine, il 24 maggio 1855 venne promulgata la Legge ecclesiastico-civile, da parecchi articoli della quale traspare ormai evidente l'intransigente tentativo di assoggettare la Chiesa al potere civile, in conformità «del trovato dei tempi (Chiesa di Stato, intesa cioè come sezione dell' amministrazione statale) in cui detta legge venne promulgata»?
Ma per ~pplicare con minore difficoltà tali e altri dispositivi occorreva dare nuovo assetto alle strutture ecclesiastiche. Dapprima, popolo, parte del clero e autontà civile si attennero all'idea di giungere alla creazione di un autonomo vescovado o vicariato, cos1 come già nel 1841 era stato proclamato per bocca del consigliere Maìifredo Bernasconi (Verbali GC, 1841, p. 497). Ma durante la discussione sulla Legge ecclesiastico-civile ad altro traguardo si volle però mirare: incorporare il Ticino, per ragioni politiche, in una diocesi della Svizzera interna, in quella di Coira o addirittura in quella ancor più lontana di Basilea. Netta illora l'opposizione del clero e dei fedeli a una soluzione del genere ritenuta giustamente contraria alla storia, alla geografia e al caratter~ latino della stirpe. Ma l'autorità civile metteva avanti altre motivazioni: «il POp<?lo e le Magistrature Ticinesi sono per forza d'istinto persuasi che la loro patria non sarà mai indipendente finché non sia spezzato questo vincolo che la lega allo straniero » 8. Pure altri erano o potevano essere i motivi. Uno chiaramente indicato: timore che vescovi (nominati con il consenso del governo di Vienna) e seminari lombardi potessero esercitare un'influenza politica sul clero e sui fedeli; altro sottinteso: cons~imento da parte delle autorità di maggIore libertà d'azione data la lontananza dei vescovi d'oltralpe e il loro carattere «nazionale".
Le trattative ripresero in seguito al mandato che il Gran Consiglio diede il 17 giugno 1855 al Governo: "il Consiglio di Stato è incaricato ad introdurre colla
massima sollecitudine le opportune pratiche tanto presso la Santa Sede, quanto presso il Governo di S.M. l'Imperatore (l'Austria anche per ciò che concerne i beni della Mensa Vescovile di Como nel nostro Cantone, e trattare nello stesso tempo con uno dei Diocesani di Coira o di Soletta (sede del vescovado di Basilea), per aggregare alla loro giurisdizione ecclesiastica le nostre ~arrocchie,. (Verba�i G C, 1855, p. 637 .
Infatti, al Consiglio ooerale fu presentato il già citato Mémorial, datato 19 dicembre 1855, tutt'altro che immune da punte polemiche, nel quale era riassunto l'istoriato della questione e con il quale si chiedeva di riprendere le trattative per giungere a una conclusione. Il Consiglio federale a sua volta, il 19 marzo 1856, sottopose a mons. ] .M. Bovieri incaricato d'iffari apostolico la richiesta del Governo ticinese. Mons. Bovieri interpellò subito la Santa Sede, sicché già 1'11 luglio successivo potè far conoscere al Consiglio federale quanto a Roma era stato risolto nel caso in cui si potessero riprendere le trattative con tutte le parti interessate: separazione ecclesiastica del Ticino da entrambe le diocesi lombarde, erezione di una diocesi autonoma non aggregata però in nessun modo a diocesi d'oltralpe. Inoltre, la Santa Sede chiedeva come ultimo termine di concessione - ostacolo tutt' altro che facile da superare - la soppressione o almeno un adeguato ridimensionamento di tutti quei dispositivi di l~ votati nel 1855 e ritenuti troppo ostili alla Chiesa.
Il Consiglio di Stato, venuto a conoscenza della risposta di mons. Bovieri e nell'intento di tagliare corto e netto ripeté cinque giorni dopo al Consiglio federale la aomanda già ventilata in precedenza: «con legge federale sia stabilito che ogni giurisdizione di vescovo straniero deve cessare d'ora innanzi in tutta l'estensione del territorio della Confederazione Svizzera". Nel frattempo anche il clero ticinese fece conoscere il suo netto dissenso tanto al Governo, quanto a Roma e a Berna. (C. Trezzini, p. 50 e segg.)
le cose si trascinarono per le Cunghe durante un ulteriore trienruo e sempre in un clima di evidente diffidenza; fitto e continuo però si manteneva lo scambio di missive, di memoriali, di documenti segreti q confidenziali tra le l'arti interessate, soprattutto tra l'incancato d'affari pontifiao a Lucerna, l'incaricato d'affari d'Austria a Berna (barone Menshengen) e il ministro degli affari esteri della Corte di Vienna (conte von BuoI Schauenstein) indotta dal Nunzio a sostenere la causa della Santa Sede sia nella faccenda del trapasso dei beni appartenenti alle Mense 10m barde, sia intervenendo J?resso le autorità svizzere affinché si miugassero in Ticino le disposizioni legislative in materia civile-ecclesiastica e si elimi-
Vincenzo Molo
nasse lo «scandalo>! di alcuni sacerdoti in cura d'anime (a Stabio e a wco ad esempio) in aperta lotta con il loro legittimo superiore anche perché imposti alle parrocchie dalla sola autorità civite 9.
le difficoltà per un accordo erano giunte, insomma, a un punto tale che non permetteva ormai più una via d'uscita tramite negoziati. Il Consiglio federale sottopose allora all'assemblea federale il progetto di decreto legislativo che avrebbe «sancito la soppressione di ogni giurisdizione territoriale episcopale estera su tutto il territorio svizzero». E in questo senso la decisione fu presa il 22 luglio 1859. Ai vescovi di Como e di Milano fu cosi impedito di esercitare le loro mansioni pastorali in territorio ticinese.
Soltanto nel 1860 potè essere almeno regolato parzialmente il trapasso dei beni in territorio ticinese delle Mense diocesane lombarde al Cantone; trapasso però avvenuto e completato nel '62 unicamente perché la wmbardia da qualche anno era stata inclusa nel Regno d'Italia, con le autorità del quale fu possibile giungere a una legale convenzione.
La questione diocesana, malgrado sporadici tentativi unilaterali, fu cosi, per dirla con mons. Trezzini, messa dalle autorità federali in secondo piano per ben oltre un decennio.
5. Le due convenzioni del 1884 Nel 1877 si rinnovano i poteri canto
nali; ne esce stavolta vincente il partito liberale-conservatore, sicché il governo risulta poi composto dai suoi esponenti di magglOr rilievo, fra i quali l'avv. Gioachimo Respini, capo autoritario del partito (che però opterà subito per la carica in Gran ConSIglio), l'avv. Massimiliano Magatti, l'avv. Martino Pedrazzini l0,
persona colta, cattolico coerente, abile politico con vivo senso di responsabilità, al quale molto si deve se la spinosa e complessa questione diocesana potè trovare finalmente buona soluzione, frutto di non facili compromessi. .
Il 21 maggio 1878 ha luogo a wcarno un incontro, presenti cinque delegati del clero di rito romano, tre ambrosiani, il delegato del Governo (M. Pedrazzini che già in precedenza s'era occupato di fare qualche prudente personale sondaggio negli ambienti interessati allo scioglimento della questione) e due rappresentanti del Gran Consiglio, allo scopo di trovare il modo adatto per riprendere i negoziati.
La mancanza di una regolare gerarchia ecclesiastica continua ad essere motivo di viva inquietudine e di gravi disagi, quanto allo «spirituale» dei cattolici ticinesi, specialmente nell'area di rito romano. 13
14
Il clero di rito romano si dice consenziente all' autonomia diocesana.
Contrari a staccarsi dall'arcivescovo milanese, cui «rimangono uniti con tutto il cuore», si dichiarano gli ambrosiani, rassegnati ad accettare una separazione da Milano soltanto se decisa dalla Santa Sede. Un rapporto dei primi e quello dissidente dei secondi 11 sono presentati alla Curia romana, la quale affida a una speciale commissione lo studio del pro6lema e incarica pure nel contempo l'arcivescovo Eugenio Lachat, a quel momento bruscamente allontanato dalla sua diocesi (Basilea) per decisione di cinque governi dei cantoni ecclesiasticamente inclusi in quella e in seguito ai burrascosi moti del Kulturkampf (1873), a presentare un suo personale rapporto.
Mons. Lachat iI 29 gennaio 1880, dopo aver preso contatto coi due presuli lombardi, può presentare la sua prima dettagliata relazione; cui poco dopo fa seguito altra sull'atteggiamento benevolo assunto ora dalle autorità ticinesi. Altra commissione cardinalizia le prende in esame e conclude che i negoziati possono essere ripresi a condizione che il Governo ticinese ne faccia esplicita richiesta e naturalmente «con il permesso del "Consiglio federale". Difficoltosa riesce in seguito - come diffusamente ci informa Peri-Moro sini - l'intesa tra il Consiglio di Stato e Governo federale deciso, quest'ultimo, a non deflettere dalla premessa nel senso di aggregare il Ticino a una delle diocesi svizzere.
Gran Consiglio e Consiglio di Stato, dopo ormai tre anni di vana attesa o di risposte negative da parte delle autorità federali, decidono di mandare a Roma nel marzo 1883 una delegazione (Pedrazzini e Magatti) per conseguire dalla Santa Sede almeno un temporaneo vicariato apostolico per il Ticino.
Ma nel frattempo le cose vanno mutando d'aspetto anche negli ambienti federali. In Consiglio federale siedono tre uomini politici di grande spicco: Friedrich E. Welti, l.ouis Ruchonnet e Numa Droz.
Benché opposti per la loro fede politica e religiosa ai politici ticinesi al potere, assumono attitudini di responsabilità e di spirito oltremodo conciliante, anche perChé vivissimo in loro era il desiderio (li riportare la pace religiosa in tutte le parti del paese dove da anni rimaneva profondaIDente turbata. Difatti, il 25 luglio 1883 a Berna finalmente può aver luogo un incontro tra l'autorità fe4erale e il delegato del Governo ticinese. E il nostro Pedrazzini che ufficialmente presenta la proposta che varrà a trovare almeno un temporaneo accordo I.'er lo scioglimento della questione: chiedere al Papa di trasferire nel Ticino mons. E. Lachat, esiliato vescovo di Basilea, come amministratore apostolico.
Il Pedrazzini già aveva ottenuto il consenso di mons. Lachat e pur anche assicurazioni in tal senso dalla Santa Sede. Con questo diplomatico suggerimento, accolto subito dal Governo federale, quanto non s'era concluso in ottant'anni di trattative si risolve ora in pochi mesi. Gli ultimi lavori, iniziati il 12 agosto 1884, presenti i delegati dell' autorità federale e mons. Domenico Ferrata sottosegretario della Congregazione degli affari ecclesiastici 12, si concludono con un progetto di concordato, datato 1. settembre 1884, approvato in seguito dalle autorità federali e cantonali e dal pontefice Leone XIII.
Eccone i primi 4 articoli:
«Art. 1. Le parrocchie del Cantone Ticino saranno stacCate canonicamente dalle diocesi di Milano e di Como e poste sotto l'amministrazione spirituale di un Prelato, che prenderà il titolo di Amministratore apostolico del Cantone Ticino.
Art. 2. La nomina dell'Amministratore apostolico sarà fatta dalla Santa Sede.
Art. 3. Ove il titolare venisse a morire prima dell'assetto definitivo della situazione religiosa delle parrocchie del Cantone Ticino, il Consiglio federale, il Cantone del Ticino e la Santa Sede s'intenderanno circa la prolungazione dell'amministrazione provvisoria istituita dalla presente Convenzione.
Art. 4. Il Cantone del Ticino si obbliga a prendere le misure necessarie per l'esecuzione di questa Convenzione, segnatamente per quanto concerne l'emolumento dell'Amministratore apostolico, la sua residenza, ecc.» (Leggi GC, 1885, p. 39). Le difficoltà, certo, non mancarono né
prima, né durante né dopo gli accordi: non soddisfatti molti radicali entro e fuori del Ticino (<<Vedano i signori del Palazzo federale qual prezioso elemento di concordia cittadina .. . ci hanno regalato col famoso ritrovato di un vescovo camuffato sotto la speciosa parola di Amministratore»: si legge in un foglio radicale anc~r~ tre anni dopo a commento di uria deaslOne vescovile quanto all'uso delle campane a Lottigna) e, in sulle prime, pur anche insoddisfazioni in alcuni ambienti ecclesiastici.
I:articolo 4 della Convenzione di Berna, quanto alla sua pratica applicazione, richiese ulteriori accordi che dovevano essere conclusi e approvati tanto dalle autorità ticinesi quanto dalla Santa Sede. Quindi, altre trattative si ebbero già nel corso del mese di settembre 1884: a Bellinzona questa volta, alla presenza dei delegati cantonali - avv. M. Magatti e P. Regazzi - e di mons. D. Ferrata rappresentante della Santa Sede. Brevi le discussioni, tanto che già il 23 dello stesso mese una seconda convenzione, della quale si fa seguire un riassunto, potrà essere per
esame e per approvazione sottoposta alle autorità cantonali e alla Santa Sede.
I:Amministratore apostolico sarà libero di esercitare la sua spirituale giurisdizione in tutto il territorio del Cantone Ticino. Avrà piena libertà nella scelta dei suoi collaboratori e nella pubblicazione degli atti pastorali. Risiederà a Balerna in attesa che si definisca la sede permanente in una delle città ticinesi. Il Cantone si obbliga a costituire a favore dell'amministratore apostolico dipendente dalla Santa Sede il necessario patrimonio, il cui reddito costituirà l'assegno dell'Amministrazione Apostolica (fr. 12'000. - annui) e quello a favore del seminario maggiore (fr. 5'000. -). Il Governo del Ticino continuerà inoftre a versare al seminario di Pollegio la somma annuale di fr. 6'000. - . Infine, «Il Governo del Cantone Ticino non intende che con questa Convenzione siano pregiudicati in alcun modo i diritti o vantaggi derivanti da fondazioni religiose, o da lasciti e cause pie, che secondo ragione, equità e consuetudine possono competere allo Stato del Cantone Ticino, ai corpi morali ed ai cittadini del Cantone come facente parte fin qui delle diocesi di Milano e di Como» 13.
III. agosto 1885, eletto dalla Santa Sede in conformità della convenzione con la diocesi di Basilea e gli accordi con le autorità ticinesi, mons. Eugenio Lachat a Bellinzona, dopo aver rinunciato alla carica di vescovo di Basil~ prese possesso della nostra futura diocesi con però solo il titolo di primo amministratore apostolico. Breve fu la sua ?,ermanenza in Ticino (morl a Balernail 1. novembre dell'anno dopo), pur tuttavia contraddistinta da alacre attività: acquisto con mezzi propri e donazione alla «diocesi» del palazzo Riva nei pressi della chiesa di Santa Maria degli Angeli (Lugano) da destinare a episcopio, fondazione del seminario maggiore di San Carlo con sede a Casserina. In seguito il seminario sarà poi trasferito nel palazzo in Via Nassa donato nel 1887 da Antonia Vanoni; soltanto nel 1903 troverà nuova sede a Besso: i palazzi Riva e Vanoni saranno allora adi6iti entrambi a residenza vescovile con gli annessi uffici della curia.
A succedere a mons. Lachat la Santa " Sede designò l'allora arciprete di Bellinzona mons. Vincenzo Molo che, preso possesso della nostra amministrazione apostolica il9 ottobre 1887, venne a risieoere a Lugano.
6. La legge sulla libertà della Chiesa cattolica Sistemata almeno in via transitoria la
spinosa guestione diocesana, era inevitaoile che 1 conservatori, a quel momento ancora detentori del potere politico e partitico, riprendessero in esame la Legge ecclesiastico-civile del 1855, che in fondO rispecchiava lo spirito di un progetto di
statuto civile-ecclesiastico presentato al Gran Consiglio già nel 1819 ma subito fatto scomparire. Intento delle riforme, invocate anche da una petizione sottoscritta da 7000 cittadini, era di eliminare quanto poteva essere ritenuto ostile al clero e ai fedeli e di permettere l'esecuzione pratica dei contenuti delle due convenzioni precedentemente citate; inoltre di concedere «alla Chiesa piena libertà d'azione (in materia spirituale e nell'amministrazione dei propri beni) sotto la protezione e con la collaborazione dello Stato". 14
Il progetto di legge, della preparazione del quale era stato primo artefice Martino Pedrazzini che aveva operato in stretta collaborazione con personalità ecclesiastiche, fu sottofosto al Gran Consiglio in sul finire de· 1885, accompagnato dal relativo mess~o nel quale, tra l'altro, si legge: «Noi tGoverno) abbiamo creduto e crediamo che convenga uscire risolutamente da questo stato di cose irregolare e malsano ... Lasciamo una buona volta a Cesare quello che è di Cesare e diamo francamente e generosamente a Dio quello che è di Dio» (Verbali Ge, 1885, p. 276).
Accese e violenti furono le discussioni e le polemiche dentro e fuori l'aula del Gran Consiglio e sulla stampa.
Favorevole alla legge era la maggioranza conservatrice. Contrari su vari punti, pur condividendo l'opportunità ili aggiornare e di rinnovare, si dichiaravano l'altra frazione dei conservatori e alcuni liberali di tendenza moderata; di essi si faceva portavoce l'avv. Agostino Soldati, il quale a mano a mano che s'andavano discutendo i vari articoli metteva avanti sue controproposte. La discussione in Gran Consiglio occupò parecchie sedute della sessione invernale del 1886 (Verbali Ge, 1886, p. 138-271). Dalla destra si ripeteva l'accusa: «si vuole imitare l'imperatore Giuseppe II>> (Felice Gianella, p. 164); da sinistra: «Dove siamo? Dove andiamo? Siamo nelle fitte tenebre del med10 evo; andiamo alla perdita delle franchigie popolari ed alla completa dedizione dello Stato alla Chiesa" (Ernesto Bruni, p. 146); «tAmministratore apostolico aovrebbe essere eletto dal Gran Consiglio e tenuto a prestare giuramento di fedeltà alle leggi aella repubblica nelle mani del Consiglio di Stato" (Stefano Gabutti, p. 194); «Vediamo ora la Chiesa che vuole imperare sullo Stato» (Achille Borella, p. 141) ...
topposizione defili le disposizioni con lo spregiativo «legge ladra», poiché con essa veniva tolta ai comuni l'amministrazione dei beni ecclesistici per essere invece affidata a un ente nuovo, la parrocchia, o ai patroni privati nei casi dì juspatronato. Ed altro: la nomina dei parroci pure diventava competenza dell'assemblea parrocchiale; le spese del culto pote-
Mons. Eugenio Lachat
vano essere addossate al comune nel caso in cui esso già aveva assunto in precedenza tale impegno soprattutto in occasione di incameramento di beni ecclesiastici.
La legge sulla libertà della Chiesa cattolica e sull' amministrazione dei beni ecclesiastici fu votata dal Gran Consiglio il 28 gennaio 1886 15• Risultato dello scrutinio: 52 voti positivi, 20 voti contrari; particolare significativo: ben 38 i deputati assenti al momento del voto! (Verbali Ge, 1886, p. 271). Gli oppositori promossero il referendum, ma il verdetto popolare del 21 marzo successivo si concluse in modo analogo: accettata la legge con 1331 voti di maggioranza.
La parrocchia ticinese, intesa come «circoscrizione territoriale sui fedeli della quale spetta ad un ufficio ecclesiastico la funzione esclusiva della cura delle anime», è tuttora riconosciuta come ente di diritto pubblico ed è strutturata e gestita in conformità della Legge sulla libertà della Chiesa cattolica tuttora vigente a generale soddisfazione e senza aver causato sinora abusi di rilievo. Essa con la sua quarantina di articoli richiama il rapporto tra le parrocchie e l'Ordinario diocesano, desi$na gli organi legislativo ed esecutivo tassen1b~ea parrocchiale e consiglio parrocchiale), fissa le loro competenze, fra le quali la nomina del parroco, infine tratta dei beni ecclesiastici quanto a possesso e gestione.
7. Le bolle papali (1888-1971) . Trascorsi ormai quattro anni dallarati
fica delle convenzioni di Berna e di Bel-
linzona riguardànti la questione diocesana risolta però soltanto in forma temporanea, da più parti si auspicava e si studiava il mOGo dì riprendere le trattative per conseguire il definitivo scioglimento.
Il 27 febbraio 1888 ecco allora riuniti a Berna la delegazione del Consiglio federale (Ruchonnet e Numa Droz), il rappresentante della Santa Sede moos. D. Ferrata allora nunzio a Bruxelles e, a momenti come desiderato ospite, il nostro Pedrazzini.
Atmosfera tl.'allquilla, anche se divergenti riapparivano re tesi dell'autorità federale (aggres-azione del Ticino alla diocesi di Basilea) e della Santa Sede (Ticino amminis.trazione apostolica a sé stante). Ognuno torna a npetere le motivazioni che ormai conosciamo. È allora che mons. D. Ferrata, per finire, riesce a escogitare e a far accettare una singolarissima soluzione conciliante che viene codificata nella seguent~ nuova convenzione datata 16 marzo 1888. "Art. 1. Al momento ch' entrerà in vigo
re la presente convenzione, la Chiesa parrocchiale e collegiale di S. Lorenzo a Lugano sarà eretta a Chiesa catte<lrale per tutto il territorio del Cantone defTicino, e questa Chiesa sarà riunita canonicamente e con eguaglianza di diritti alla Chiesa di Basilea, il cui Or- . dinario porterà d'ora innanzi il titolo di Vescovo di Basilea e di Lugano.
Art. 2. Per l'amministrazione della Chiesa cattedrale riunita, la Santa Sede nominerà, d'intesa col Vescovo diocesano, un Amministratore apostolico, 15
che sarà preso dal numero dei preti appartenenti al Cantone del Ticino. :rAmministratore apostolico avrà il carattere episcopale, risiederà nel Cantone e porterà i[ titolo di Amministratore Apostolico del Ticino.
Art. 3. le disposizioni della convenzione del 26 marzo 1828 sulla nomina del Vescovo di Basilea saranno estese alla Chiesa cattedrale riunita, se vi acconsentono le altre parti cointeressate.
Art. 4. Non è fatta nessuna modificazione all'articolo 4 della convenzione del 1. settembre 1884, né agli accordi che possono derivare. In considerazione che il Cantone del Ticino sopporta le spese della sua amministrazione particolare, questo Cantone e il suo Amministratore Apostolico non contribuiranno né alla Mensa del Vescovo diocesano, né alle altre spese della amministrazione generale aella Diocesi.
Art. 5. :rAmministratore attuale rimane al posto cui fu dalla Santa Sede nominato addì. 20 settembre 1887" 16.
lo scambio delle ratifiche s'è concluso a Roma iJ 15 luglio 1888, presenti per la Svizzera Teodoro Wirz Iandamano di Obwalden membro del Consiglio degli Stati e, per la Santa Sede, il cardinale Mariano Rampolla Segretario di Stato di Sua Santità.
Il 7 settembre 1888, leone XIII promulgò la bolla di fondazione della nostra amministrazione apostolica - «Ad universam» - della quale si ha la versione letterale in italiano nel testo di Peri-Morosini 17. Fu portata a conoscenza dei fedeli ticinesi con solenni funzioni nella cattedrale di San Lorenzo nel dì. di mezz'agosto dell'anno dopo e ne giunse l'eco anche nelle nostre pIÙ remote l'arrocchiette salutata dal suono festoso aelle campane e con tanto di sparo di mortaretti e canore funzioni dentro e fuori delle chiese.
Soltanto 1'8 marzo 1971, consenzienti la Santa Sede, il vescovo di Basilea, le autorità civili federali e cantonali, la nostra diocesi da Paolo VI con la bolla «Paroecialis et collegialis» 18 è stata riconosciuta del tutto autonoma anche nei suoi aspetti esteriori, sciolta cioè dal tenuissimo legame che dal 1888 la teneva unita a una diocesi d'oltralpe.
8. Le prime strutture della diocesi Quando il 1. agosto 1885 mons. La
chat prese possesso della carica, si trovò di fronte a una amministrazione apostolica che non aveva nessunissima struttura.
nore di Pollegio nelle valli ambrosiane; pochi e poveri i conventi e i monasteri rimasti.
Fin dal 1861 alcuni sacerdoti ticinesi e alcuni laici avevano fondato una sezione del «Pius Verein» che negli anni attorno al 1870-80 assunse notevole funzione di incontro. le riunioni della «Società Piana», che culminarono con l'assemblea svizzera tenuta a Locarno nel 1882, ebbero una vasta eco nel paese e contribuirono a creare nuovo e più cosciente sentimento religioso.
Anche la nascita dell'associazione di studenti cattolici «lepontia», collegata alla società degli studenti svizzeri, ebbe funzione analoga di coordinamento.
Con la creazione delle nuove strutture diocesane si svilupparono pure i movimenti di «azione cattolica» sino a comprendere più tardi anche i primi gruppi a' azione «cristiano-sociale".
La scarsità di clero, legato alle tradizionali sedi, parrocchie, vice-parrocchie, juspatronatl e cappellanie, offriva poche possibilità di organizzare nuovi «servizi». Si comprende allora come le prime cure dei responsabili della diocesi fossero quelle ai chiamare congregazioni per creare istituti. Nel 1889 giunsero i S3.lesiani a Mendrisio; già nel 1886 le suore della congregazione di Ingenbohl, legate all'ordine cappuccino, iniziavano l'attività a Locarno ... E siamo alla data terminale della presente cartella.
1) Il rito romano è quello universale della Chiesa cattolica. La liturgia ambrosiana è invece quella stessa che Sant'Ambrogio (sec. IV) ricevette da Roma e che i Lombardi conservarono intatta anche quando i Romani la sottoposero all'evoluzione dei secoli. Le differenze si nscontrano quindi soltanto nelle forme e preci liturgiche. Oggi il rito ambrosiano è seguito nell' archidiocesi milanese e in alcune poche parrocchie delle diocesi di Bergamo, di Novara e di Lugano.
In pratica il capitolo della semi-cattedrale ai Lugano non aveva mai avuto la fu~zione di «caJ?itolo cattedJ:ale», D<;)fi eSIsteva una «cuna» con {>ropna orgaruzzazione, non servizi per il clero. :runico elemento che poteva essere, in qualche modo, comparabile ad un elemento di
16 struttura diocesana era il seminario mi- Minusio, la Baronata
2) Pomefta: anno 1934, p. 1-10,33-48, 65-78,97-114; anno 1935, p. 1-14, 33-44, .65-82. - Martino/a: p. 331-337, 462-470.
3) Cfr. Paolo D'Alessandri, Atti di San Carlo, Locarno 1909, p. 320. Inoltre, Zorzi: dissidi del ~enere negli anni 1620, 1641, 1734, 1774, 1779 lp. 19-20).
4) Sono indicati nel Memoriale citato alla nota 8: Appendice L. p. 44-53.
5) Stefano Franscini, La Svizzera Italiana, II ed., Lugano 1973, p. 477 e segg.: -Cose ecclesiasti, che».
6) Sac. Emilio Cattori, I bmi ealesiastici incamerati dallo Siaio del Cantone Ticino, Lu~ano 1930.
7) La LeW comprende 37 articoli (Leggi G C, 1855, p. 128); cfr. anche la cattella N. 4, p . 27.
8) Mémorial du Comei/ d'Elal du Canton au Tessin au Comeil fédlraltouchanlla séparation du Canton des diocèses de Como el de Milan, 1855 (versione in italiano nel -Foglio Officiale del Cantone Ticino», patte I, 15 marzo 1858, p. 541 e segg.
9) La patte epistolare aell' articolo di E. Pomelta comprende tutto quanto egli potè rintracciare negli archivi statali di Vienna.
lO) Cfr. mons. Celestino Trezzini, Martino Prdrazzmi, ed. d,alla «Società Storica Locarnese», Bellinzona 1967. Nel testo sono pure richiamate cronaca e documentazione relative alla questione diocesana.
11) Di particolare interesse è pure il Riassunto storico sulla separazione diocesana del Cantone Ticino di mons. GlOvan Battista Mattinoli, parroco di Ludiano, in Ambrosiana Trium Va//ium (Milano, 1925). rautore fu l'ultimo, durante il decennio 1875-85, della serie dei rappresentanti «in loco» degli arcivescovi milanesi. Cfr. -Archivio Storico Ticinese» N. 18, 1964, p. 71.
12) Cfr. Dorninique Ferrata, Mémoires, Roma 1920.
13) Verbali G C, 1884, p.l71 eLeggi G C, 1885, p. 171.
14) Antonio Galli, Notizie sul Cantone Ticino, voI. II, Lugano 1937, p. 667.
15) Testo in Leggi G C, 1886, p. 65 e-FoglioOfficiale», 29 gennaio 1886, p. 161; il Regolamento d'applicazione è datato 18 giugno 1886. Vedasi inoltre l'esame teorico-critico in La legge ticinese del 28 gennaio 1886 del sac. Enrico Maspoli, Lugano 1905.
16) Leggi G C, 1888, p. 143. 17) p. 115-125; la pergamena è conservata
nell'archivio della Curia di Lugano. 18) Il documento è conservato presso l'archi
vio della Curia di Lugano e pubblicato con la traduzione italiana nel -Monitore ecclesiastico», 1971, p. 298.
«Nuovi» esuli nel Ticino
Sino al 1859 il governo ticinese s'era trovato nella scomoda posizione di dover praticare un «diritto d'asilo» per gli esuli del Lombardo-Veneto, malgrado le continue insistenze dell' autorità austriaca (e talvolta anche di Berna) perché tale applicazione fosse più rigtda e più poliZiesca. Se ad occidente del Verbano il confine era verso il Piemonte (che pure aveva anch' esso i suoi esuli volontari come ad esempio il Brofferio alla Verbanella di Minusio), da Pino al San]oriov'eral'Austria che, dopo il 1848, era sempre più intransigente e sospettosa. Il blocco di Radetzsky, nel 1853 era stato una prova molto pesante per la popolazioneticinese.
Dopo il 1859 la situazione è mutata: al di là ael confine v'è un solo stato: il Pie-
ciò spesso sarà ospite a Lugano e soprattutto a Londra, venendo in Italia per brevi e furtive dimore in incognito e sempre più deluso dalla politicamonarchica. Nel 1870, sbarcando a Palermo, Maizini è arrestato ed internato nella fortezza di Gaeta. Né vorrà entrare a Roma occupata galle truppe regie, tornerà a Lugano e a Londra finché, con un falso nome, quello del dotto Brown, morirà a Pisa il lO marzo 1872.
Quando era morto Cattaneo a Castagnola, Mazzini era malato a Lugano, alla Tanzina. Fra il 1869 e il 1872 i due grandi scompaiono.
Questi due grandi esuli italiani restano «esuli volontari» anche quando è fatta l'Italia, pur in una situazione diversa da quella fra il 1848 e il 1859.
* * * monte, che ormai, dopo la campagna La situazione economica e eolitica del franco-piemontese del 1859, ha ottenuto nuovo stato italiano non è facde. La con-la Lombardia e che rapidamente, con an- venzione di settembre (1864) e l'alleanza nessioni e plebisciti, s'avvia ad essere con la Prussia, contro l'Austria, nel 1866, l'Italia monarchica e costituzionale. sono solo aspetti evidenti di questo pro-
Ma anche dopo il 1860 non mancano . fondo malessere. gli esuli, anche se di varia natura, e spesso. Per il Canton Ticino i mutamenti al con caratteristiche del tutto diverse da confine hanno delle conseguenze parti-quelli del Risorgimento. Solo seguendo colari. Fino al 1858, entrando nel Lom-gli avvenimenti di questo nuovo periodo bardo-Veneto, i nostri emigranti entrava-si potranno cal?ire certi sviluppi del Tici- no in un «impero» nel quale v'era la Boeno nei decenru successivi. mia, l'Austria, l'Ungheria e parte della
Ricordiamo dapprima gli esuli italiani Polonia. Praga e Budapest non erano, in «repubblicani». fondo, cosllontane. Cemigrazione negli
Carlo Cattaneo, esule a Castagnola da stati italiani era una emigrazione che go-oltre un decennio, nel periodo fra il 1860 deva di vecchie tradizioni e di qualche e il 1869 (morl a Castagnola il5 febbraio privilegio. Le associazioni locali di emi-1869) si d~~a particolarme~te ~ prob!e- granti erano delle «confraternite», cioè ma férrov1ano, ma sempre P1Ù S1 convm- delle «compagnie» con uno sfondo di soce della necessità e del valore d'una politi- lidarietà religiosa. ca mirante a "federazioni» perché, scrive- Dopo il 1859 e soprattutto dopo if va nel 1866, «i nostri amici non pensano che 1870 le difficoltà aumentano. Lo stato ita-mentre in nome dell'unità e delfa carta geo- liano ha problemi gravi e l'unità è più apgrafica si sbancano i Piccoli despoti, si rendono parente che reale. La polemica antl-papapiù onnipresenti i grandi» (26.vII.1866 le è forte e lo stato laico si impone. Le n. 1232 J 1. Malgrado parecchie insistenze vecchie «compagnie» di emigranti divenper accettare un mandato parlamentare gono società dì mutuo soccorso e l'emigraziom Italia, Cattaneo resta «all'estero» e ne in Italia assorbe molto presto l'orienquando accetterà il seggio del I collegio tamento laico della politica italiana, coMilanese, nel 1867 , l'ur recandosi a Firen- me fra il 1830 e il 1848, l'aveva assorbito ze, non metterà mal piede in Parlamento l'emigrazione in Francia. e non giurerà fedeftà alla costituzione Del resto la presa di Roma - che molmonarchica e al re, rientrando poi a Ca- ti cattolici-liberali auspicavano avvenisse stagnola. Egli resterà ancora« espatriato». in forme diverse, più riseettose del dirit-
Le critiche al ministero, al parlamento to e della convivenza civde 2 - aveva sca-ed anche alla sinistra minoritaria, non vato un nuovo fossato fra i cattolici e citmancano, in Cattaneo: questa Italia che tadini «laici» dell'Italia nuova, annullan-s'andava formando non era quella ch'egli do in gran parte la tradizione dei cattoli-aveva sognato: repubblicana e federalista. ci-risorgimentali, eredi di Gioberti.
Ma anche chi, nel 1848 e nel 1859 ave- All'interno del Ticino la frattura ebbe va fatto credito alla monarchia sabauda, le sue·ripercussioni e, dopo il 1870, la «fe-restava «esule» anche se talvolta, «in pa- deltà al Papa» fu uno degli elementi di tria». unità politica fra i cattolici, rafforzata dal-
Giuseppe Mazzini nel 1859 è a Firenze la Piusverein (La società Piana svizzera) in incognito, poi si trasferisce a Lugano e che presto avrebbe assunto anche un caa·Londra. Ritornerà in incognito a Geno- rattere anti-tedesco, contro il Kulturva e a Napoli ma ormai la sua influenza è kampf, e in difesa del federalismo. in declino. Si sente «esule in patria» e per- Tutti questi elementi avranno qualche
Carlo Cafiero
influenza nelle reazioni verso la nuova ondata di esuli che, dopo il 1869, paSsa dal Ticino.
Il militarismo prussiano e quello di Napoleone III avevano già profondamente allarmato molti spiriti che constatavano le ingiustizie economiche e sociali che s'accentuavano. Così nel 1867 s'era tenuto a Ginevra il primo congresso della Lega della Pace e della Libertà che predicava la fine delle guerre, delle ingiustizie, il federalismo europeo, e la pace fra i popoli. V 'avrebbero partecipato, applauditissimi, due «esuli» illustn, Garibaldi (ritirato a Caprera) e Bakunin (fuggito dalla Siberia).
Nei congressi successivi s'era parlato di «democrazia», di «giustizia», di «Stati Uniti d'Europa» e anche s'era discusso se non si dovesse abolire il diritto d'eredità, sorgente di molte ingiustizie.
Alcuni di guesti temi erano pure discussi, in modo più estremo, ai congressi della Alleanza internazionale dei lavoratori, la cosiddetta Prima Internazionale, in particolare al congresso di Basilea nel 1869.
Questo panorama vuole accennare almeno a talune situazioni che devono essere tenute presenti per comprendere la grande differenza della «seconda ondata,. di esuli, attorno al 1870. Essi sono ormai «esuli» per una situazione internazionale europea: esuli russi, fuggiti dalla persecuzione dello zar, esuli francesi, scampati dalle prigioni della Comune annientata, esuli italiani, scampati dalle prigioni o dai processi delle prime agitaztoni sociali o dalle rivolte internazionaliste. E fra i molti, certo il più significativo, anche per la sua forza d'attrazione e per i contatti che aveva, è Bakunin.
* * * Quando, il 1. novembre 1869 Michele
Bakunin giunge da Ginevra a Lugano, lasciando gli esuli russi che s'erano stabiliti 17
18
dal 1860 in poi sulle rive del I.emano (a Ginevra, a Clarens, a Vevey, ecc.) si può dire che inizi uri nuovo tipo di «esuli» nel Ticino.
Molti giovani russi erano venuti in Svizzera, fra il 1850 e il 1860, per studiare nelle nostre università e poi al Politecnico di Zurigo per evitare la sorveglianza della polizia dello zar che, da anni, sperimentava come l'opposizione si formasse negli ambienti uruversitari, in patria e all'estero (soprattutto nelle università germaniche).
Un personaggio notevole di '3.uest' epoca, James Guillaume, scrive nel. suoi ncordi che Bakunin non si fermò a Lugano perché v' era allora Mazzini, e si stabilì vicino a Locarno, a Muralto (allora Orselina inferiore), affittando, verso metà novembre, alcune stanze dalla signora Teresa J auch vedo Pedrazzini 3.
Vi resterà, spesso con la moglie ed i figli, sino al 30 aprile 1872, per quasi due anni e mezzo, quando la moglie decide di tornare in Russia coi figli e Bakunin si trasferirà all'albergo del Gallo, di Giacomo Fanciola, a Locarno, alla Motta, ove soggiornerà, seppur saltuariamente, sino alla primavera del 1873. .
Qui verranno parecchi amici e discepoli, oltre i russi, il geografo Eliseo Reclus, l'italiano Fanelli con un' suo giovane amico, Carlo Cafiero. Bakunin viaggiò molto in guesto periodo per incontrare gli amici dì Ginevra, per visitare gli studenti russi a Zurigo, anche in preparazione del congresso di St. J mier, al quale partecipa con i discepoli italiani Fanelli, Cafiero, Malatesta, Nabruzzi, Pezza e Andrea Costa (15.IX.1872).
Dopo varie peripezie Cafiero, nell'agosto 1873, compra a Mappo - traMinusio e Tenero - una casa Isolata: la Baronata (già del Barone Marcacci), ove vorrebbe assicurare una sede stabile a Bakunin e un punto d'incontro per i rivoluzionari anarchici. Ma l'esperienza è negativa anche per le esigenze finanziarie imprevedibili. A fine luglio del 1874 Bakunin laSciò la Baronata per recarsi a dirigere un' insurrezione a Bologna; fallita, rientra in Svizzera e, dopo un breve periodo ' nel Vallese, si stabilirà a Lugano il 7.X 1874 ove ritrova la moglie, i figli e il suocero. Dopo un periodo in locali d'affitto comprerà il5.III.1875 la villa Fumagalli a Besso, ove vorrebbe creare una coltivazione di fiori da vendere alla futura stazione della ferrovia prevista poco lontano.
Ma anche questo progetto sfuma. Di fronte a nuove difficoltà finanziarie Bakunin decide di vendere la villa all'incanto e trasferirsi, a Napoli con la famiglia, ove aveva già vissuto dal 1865 al 1867 ed aveva trovato un gruppo d'amici e discepoli.
Prima di trasferirsi definitivamente (la moglie è già a Napoli) vuole salutare gli amici Vogt a Berna, approfittando per
Michele Bakunin
farsi visitare, dato lo stato di salute molto malandato. Partirà a metà giugno e non tornerà più. La morte lo coglie, dopo un breve peggioramento, il 1.VII.1876 a Berna.
* * * Attorno a Bakunin si muovono molti
altri personaggi esuli, compaiono pure a visitarlo molti rivoluzionari (di passaggio come turisti), egli stesso poi ha molti contatti con personalità ticinesi e si può dire con certezza che le influenze non sono a senso unico.
Bakunin era considerato, in Svizzera, anche se ciò non era ufficiale. Nell'ottobre 1874, a Berna, oltre degli amici Vogt e Reichel, Bakunin è ospite del cons. fed. Schenk che il 3 ottobre 1874 lo invita a passare la giornata in casa sua a Twann. A Locarno è di casa nella famiglia di Felice Rusca, molto legato a Emilio Bellerio (e al figlio Carlo), frequenta il farmacista Paolo Gavirati, Emilia Franzoni, Remigio Chiesa e, in occasione d'una passeggiata in Onsernone, conosce Paolo Mordasini e Luigi Rusca all'Hotel Pronunciamento ai Bagni di Craveggia. Cercherà anche di ottenere la cittadinanza svizzera 4•
Fra gli amici stranieri che frequentano Bakunin, in realtà esuli anch'essi, ricordiamo almeno Eliseo Reclus, Cafiero, Errico Malatesta, gli Arnould, Benoit Malon, e fra gli svizzeri Schweizgiibel, J ames
Guillaume, Joseph Favre, il giovane Carlo Salvioni e fors'anche Natale Imperatori.
* * * Cidea del federalismo e della lotta al
militarismo era diffusa in questi esuli e non solo fra essi. Un fedele mazziniano luganese, Carlo Battaglini, sarà chiamato a presiedere i lavori del sesto congresso internazionale della Lega della Pace e della Libertà, che si tenne a Lugano dal 23 al 27 settembre 1872 al quale inviarono messaggi Garibaldi. e Victor Hugo .. Il gruppo bakuniano non vi partecipa impegnato nella polemica verso il Consiglio generale di Londra, il congresso dell'Aja e quello di St. Jmier. Ma vi sono alcune personalità che è interessante ricordare, fra la sessantina degli intervenuti. I ticinesi più importanti mi sembrano, col Battaglini, l'avv. Leone De St0l.'pani, l'avv. Emilio Censi, Luigi Colomol (che fungera da segretario del congresso per l'italiano), Francesco Veladini; fra gli stranieri oltre i due vicepresidenti Armand Groegg (comunalista, come si definisce) e Lemonnier (francese) partecipano i giornalisti Teodoro Moneta ed Enrico Bignami. Il Congresso della Lega, tenuto poco dopo la scomparsa di Mazzini, se non ha un successo immediato, mostra però l'interesse che cominciò a nascere attorno al nostro Cantone.
* * *
Esso poteva esser scelto come soggiorno da coloro che, per varie ragioni, non potevano o non volevano restare a vivere nei loro paesi: perseguitati politici, esiliati o assertori di nuove forme politiche. La Svizzera, nella seconda metà dell'Ottocento, è punto d'incontro di esuli, ma v'è un periodo nel quale il Ticino è particolarmente frequentato e specialmente Lugana. Non per nulla Pietro Gori, nel gennaio 1895, espulso dalla Svizzera, lasciando Lugano aveva scritto i versi della canzone che sembrava concludere un'epoca di umana accoglienza «Addio Lugano bella / o dolce terra pia ... ».
Gli anni fra il 1870 e il 1880 sono particolarmente ricchi di presenze.
Dapprima i comunardi. La terza repubblica, schiacciata la Comune, ne aveva condannato alla galera molti capi. Coll'intervento di scienziati di tutto il mondo la prigione del geografo Eliseo Ree/us era stata mutata in esilio. Reclus giunge nel Ticino probabilmente nell'aprile 1872 e subito si reca a visitare Ba.k:unin a Locarno. Si installa con la moglie, la suocera e due bambine alla Levina di Pazzallo, una casa di campagna dei Censi, legge e lavora alla sua grande opera geografica. Reclus doveva essere conosciuto, nel Ticino, 'perché partecipa all'assemblea degli «Amici dell'Educallone del Popolo» del 21-22 settembre 1872 al Liceo cantonale, a Lugano e fr~uenta la biblioteca diretta dal prof. Gabnni.
Persa la moglie, un bambino neonato e la suocera (saranno sepolti nel «cimitero degli stranieri» a Loreto come in quei giorni anche la vedova di Carlo Cattaneo), Reclus, con le due bambine, lascia Lugano per trasferirsi alla fine di luglio 1874 a La Tour de Pelli. Ma Reclus ha certamente due contatti importanti in questo periodo Luganese: coi giovani liceali Carro Salvioni e Mosè Bertoni: nessuno dei due dimenticò la lezione morale e scientifica del grande geografo.
Partito Reclus, alla Levina s'istalla un altro comunardo Arthur Arnould, mentre Paul Guérin si è stabilito anch'esso a Lugana (autunno 1874).
A Lugano c'erano pure i fratelli Ludovico e Giuseppe Nabruzzi con attività di ripiego (l'uno ha una agenzia commerciale, l'altro lavora come segretario all'Hotel du Parc) e Tito Zanardelli che elabora con Ludovico Nabruzzi una guida di Lugano nel 1875 5, e Francesco Pezzi (professore di contabilità e di calligrafia).
Infine, nelle cucine dell'Albergo du Parc, dei Béha, v'èloseph Favre (Bex 1849-1903) un moco <li grande capacità che aveva fatto la campagna del 1871 con Garibaldi, che aveva Frequentato l'Università di Ginevra 6 e che era stato «chef» a Clarens(HòtelKetterer 1875), echenel1876-77 "{ece le stagioni» a Lugano prima di arrivare, nel 1880, al1'Hòtel Central di Berlino, il più importante albergo del tempo.
Favre è legato a Ba.k:unin (e lo ricorda nel Dictionnaire de Cuisine pratique) e ad altri anarchici luganesi.
Il 20 agosto 1875 appare a Lugano il primo numero dell' Agitatore che uscirà, sino al 20 ottobre 1875 con 6 numeri. In seguito si crea la -Sezione del Ceresio » (20 novembre 1875) cui pare si dedichi particolarmente L. N abruzzi, poi appare «L'Almanacco del proletario del 1876». Nel marzo 1876 appare la Lettre adressée au meeting de l'Int.ernationale réuni a Lausanne le 18 mars 1876 di Favre e Malon.
Bénoit Malon aveva girovagato per l'Italia con vari progetti e aveva ideata una «revisione» della linea ba.k:uninista che difenderà soprattutto nella sua rivista -Le socialisme progressi[. pubblicata a Lugano nel 1878 e nel volume «La question sociale' (Lugano 1876).
Nel periodo fra il 1876 ed il 1878 il mondo degli esuli è diviso da parecchie polemiche. Sta nascendo un movimento di revisione della politica passata: da un lato il desiderio di continuare la lotta per il rinnovamento totale, dall'altro il desiderio di ottenere qualcosa, ma subito. Gli esuli ticinesi sono, come al solito, dalle due parti contrapposte: Malon e, più tardi, Andrea Costa sono per una revisione dei metodi, Cafiero e ~alatesta, per continuare, e anzi puntare sulla «propaganda del fatto».
A noi qui interessa ricordare come Cafiero, lasciata la Baronata 7, partecipò nel 1877 ai Moti del Matese, restò in prigione 16 mesi, sino all'agosto del 1878 (in prigione tradurrà il Com pendio del Capitale di Marx). Nel 1880 Cafiero è di nuovo a Lugano ed è perquisito dalla polizia che lo arresta il 5 settembre 1881 8• Rilasciato dopo pochi giorni, Cafiero lasciò la Svizzera e, malato, tornerà a Locarno nel 1882 ormai grave, accolto da Giuseppe Gagliardi a Broglio, in Valle Maggia, e Oa Carlo Bellerio a Locarno.
Anche 1'amico di Cafiero, Errico Malatesta, verrà a Lugano in quegli anni {evi sarà arrestato il 21.11.1981 per poi essere espulso) 9 e cos1 Andrea Cojta che proprio da Lugano, il 27.VII.1879, iniziò quella Lettera agli amici di Romagna che annunzia un nuovo orientamento politico.
Due avvenimenti sottolineano l'importanza che il Ticino ha in quegli anni per gli anarchici: il congresso dì Chiasso il
5-6 dicembre 1880 che avrebbe dovuto riorganizzare la Federazione dell'Alta italia e si risolse in un vivace contraddittorio fra anarchici e socialisti, e il congresso di Capolago dal 4 al6 gennaio 1891, che riorganizzò il movimento «socialista-anarchica-rivoluzionario» 10.
Il decennio fra il 1880 ed il 1890 è caratterizzato, all'inizio, nel mondo socialista, dalla polemica fra Malatesta e Costa, alla fine, dell'apparizione d'una nuova ondata di propagandisti che avranno, più tardi, da Tare direttamente o indirettamente nel Ticino, fra altri Francesco Saverio Merlino, Luigi Galleani, Pietro Gori e Luigi Molinari.
Col 1891 usciamo però dai limiti del periodo che dev' essere qui studiato e pertanto non ci si inoltrerà nei fatti successivi. Ma parecchi ticinesi ormai sono legati al movimento: fra altri Natale Imperatori e Antonio Gagliardi, presto sarà la volta di Luigi Bertoni 11.
1) Per la posizione di Cattaneo si veda l'Episto· lario, a cura di R. Caddeo, 4 volI., Firenze, Barbèra ( 1949-1956).
2). Si vedan? a questo proposito: il trop~o dimennCato saggIO «Le speranze della vera Italia nel trasporto della Capitale ' in la Civiltà cattolica serie V. voI. XII fase. 354 (1. dicembre 1864) p. 41 e ss. e lo studio di Stefano Jacini La Questione Iii Roma al principio del 1863, considerazioni di Sl deputato al Parlamento italiano, Torino (UTE gi~ Pomba) 1863 (pp. 83).
3) J arnes Guillaume: L'Internationale, Dommmts et souvmirs (voI. 1, 1864 - 1872) (nuova edizione) Genève (Grounauer) 1980.
4) Posso attingere le nonzie e le date esatte dal voI. di Arthur I.ehning eMichel Bakounin et les autres-, Paris 1976, e dalla copia del «carnets> (in parte ancora inediti) messarni a disposizione da A. I.ehning.
5) Guida storico-descrirtiva-commerciale delle cirt~ di Lugano-Bellinzona-I.ocarno, 1875 .
6) Su Joseph Favre, la cortesia dell'amico Luigi Bosia m'ha fornito particolari precisi che qui uso.
7) Su Cafiero si veda la bella biografia di Pier Carlo Masini: Cafiero (Milano, Rizzoli 1974).
8) Su questo arresto e!' inchiesta, vedilo studio di Gian Carlo Maffei: DossierCafiero, Bergamo 1972.
9) Vedi l'articolo di G.c. Maffei: «Errico Malatesta in Ticino' in BSSI, 1970, p. 1 ss.
lO) Sui congressi di Chiasso e Capolago v. i contributi di Giuseppe Martinola (1969) e di G.c. Maffei (1970) nel BSSI.
11) Sugli avvenimenti e le l'ersone qui ricordate, m~ori indicazioni e altn particolari (e doctimenti) sono contenuti in miei precedenti studi: Due anniversari (Bellinzona 1971 J «Un gruppo internazionalista dissidente: la sezione del Ceresio' in Anarchismo e socialismo in Italia, Roma 1973, «Appunti sui grupl'i anarchici e Libertari a Bellinzona ' in Pagine Bi/linzonesi, Bellinzona 1978.
ANNO I. 1.II',(Imo. ~n Afut.ln tU1!'. N. I .
~, AGITATORE Condizioni:
AMCCWou..c: kaUA '"' .a... I .. " • • i>" '" _ II .. I • • ptttrt'/M'ti .:1
'''iu.,~..-, ........ . . . . l'r.' l'tr nAI,,. Il .. illA~,.Ie.pnepoIlIU.
"1'-:.",.",. ",Iltl".to.
ACLI UlICI.
GIORNALE SOCIALISTA l.d&ue."~'-.rtat..u4i~ .litftftoe tat.. .. DWtt.ur. IAtI ",l'Ilft
CI . Il)' " I I lu __ .. ., ...... r ..... .
IC SI p" ) ) !Ca, pCI' 01'3, .1 vo le n mesc .. ,~'~..:.!."":::~.:! ....... ". ..,I .. te.
I meno, rilardarnc il corso O ;tecrlltrarlo. t1hnl·I'~I'I'lali. n~ il n~" della eo.~i~'on;. 'ne "i· :trbi: . nuirll~ Cii a.tt~ili e CIO'~"~ d.(!lrbleuo eontrA~ "aIO hllC!'"U~~D~fI. pltc.bi ,11.p t lndill'lIcnl~ 19
Legislazione sociale
Le pubblicazioni filantropiche ticinesi del secolo scorso si chiedevano di tanto in tanto se esisteva una questione sociale nel cantone e ammettevano solitamente che, mancando nel Ticino la grande industria moderna, mancava pure il proletariato asservito brutalmente alle macchine e prigioniero delle fabbriche.
La popolazione, composta di contadini e artigiani emigranti, sembrava ancora al riparo dai nefasti effetti della civiltà industriale e, sebbene nel cantone fosse assai diffusa una certa povertà, essa appariva in generale dignitosa e sopportabile, mostrava in pochi casi i connotati vergognosi della miseria, e solo in circostanze eccezionali, in seguito a <J.ualche calamità, assumeva le preoccupantI dimensioni del pauperismo.
Anche i governanti ticinesi condividevano le opinioni allora dominanti che fosse pericoloso e controproducente per lo stato assumere troppo estese funzioni assistenziali e che non fosse lecito, se non in circostanze eccezionali, promuovere una politica di incisivi interventi sociali. La società andava lasciata nei suoi naturali equilibri e lo stato doveva intervenire solo per ristabilirli, qualora fossero stati profondamente turbati o si presentassero seri pericoli per l'ordine pubblico o 'minacce di degenerazione morale e fisica della popolazione: per il resto bastava provveGere con l'educazione del popolo, la previdenza individuale, la carità privata 1.
Fondata su tali principi, la legislazione sociale ebbe nel cantone Ticino i suoi inizi quale estremo rimedio a mali giudicati estremi, proprio come era avvenuto e avveniva nei grandi stati europei.
L'emigrazione
Il pauperismo si manifestò con punte allarmanti e persistenti al seguito delle crisi agricole e politiche di metà secolo e poi ancora con le devastatrici alluvioni del 1868; ma il terreno gli era stato preparato dalla progressiva decadenza dell' agricoltura. La guestione sociale si pose innanzitutto nel termini dell'emigrazione di massa e specialmente quando, poco oltre la metà del secolo, al tradizionale movimento stagionale di raggio europeo, si aggiunse e in parte sostituì un Busso crescente verso continenti lontani: esso assunse in certe regioni l'ampiezza di un vero e proprio esodo che rapiva gran parte della popolazione attiva e procurava vistosi squilibri demografici.
Già 1'emigrazione stagionale aveva suscitato qualche preoccupazione, poiché erano stati denunciati alcuni casi di sfruttamento e truffa, ma lo stato cantonale si
20 sentiva evidentemente incapace di pro-
teggere i propri lavoratori all' estero o di sollecitare la stipulazione di apposite convenzioni internazionali. Inoltre non intendeva affatto scoraggiare questa forma di emigrazione che appariva come una salutare valvola di sfogo alle difficoltà interne.
Fu quando l'emigrazione transoceanica assunse «delle proporzioni esorbitanti» che il Gran Consiglio si decise a intervenire: la legge del 13 giugno 1855 cercava infatti di scoraggiare l'emigrazione oltremarina, impedendo a comuni e patriziati di facilitare le partenze con prestiti o garanzie, la proioiva ai minori di diciott' anni, e sottoponeva le agenzie di emigrazione a un minimo controllo per prevenire i frequenti casi di imbroglio e truffa nei contratti di trasporto. A quanto sembra, fu applicata fiaccamente ed ebbe ben poco effett0 2•
Anzi, mentre l'esodo raggiungeva il suo apice, la commissione della gestione del Gran Consiglio, pur deplorando la febbre migratoria, riiffermava l'incompetenza dello stato e l'autoregolazione dei fatti sociali: «diciamo però recisamente che il legislatore non può, coi mezzi diretti, fare alcunché per scemarla ... non dobbiamo di troppo impensierirci intorno alla emigrazione oltremarina, che troverà il pronto suo rimedio nella natura stessa della cosa3 ». Così non si fece più nulla. 10 stato si limitò a raccogliere dati statistici sul movimento degli emigranti e lasciò cadere nel 1869 una mozione di Angelo Baroffio per la vigilanza sulle agenzie di emigrazione.
N el187 41a più elementare tutela degli emigranti fu assunta dallo stato federale: la nuova costituzione sottoponeva le agenzie di emigrazione alla vigilanza della Confederazione, che si concretò nella legge federale del 24 dicembre 1880.
Il lavoro infantile
La stagione della legislazione sociale tendente a proteggere gli operai e specialmente i bambini impiegati negli opifici fu inaugurata tardivamente, risultò assai blanda ed ebbe brevissima durata. Per parecchio tempo le autorità ignorarono il problema, negarono la necessità di qualsiasi intervento e perfino l'utilità di qualche inchiesta negli opifici poiché le fabbriche erano poche e le condizioni di lavoro «notorie e facili a controllarsi».
Infatti, quando nel 1869 il Consiglio Federale promosse un'inchiesta sullavo- · ro infantile in Svizzera, il governo ticinese riferì candidamente che il lavoro dei fanciulli sembrava di poca consistenza e non soggetto ad abusi e che «nessuna legge e nessuna disciplina restrittiva o di semplice sorveglianza sull'ammissione de' ragazzi nelle fabbriche, sulla durata del lavoro e sul trattamento de' medesimi è stata finora sancita e nemmeno pro-
gettata». Eppure si contavano allora più di 3000 operai nei vari opifici e per due terzi erano donne e bambine occupate nelle manifatture della seta, e le autorità non potevano certo ignorare quanto fossero Frequenti le assenze per lavoro dalla scuola elementare e con quali danni 4.
Occorse proprio che le denunce si facessero stringenti e drammatiche per smuovere i poteri pubblici dall'inerZIa.
Già da qualche tempo la stampa e le autorità di alcune città italiane avevano segnalato con riprovazione le miserabili condizioni dei garzoni spazzacamini provenienti dal Ticino, costretti all'accattonaggio e talvolta crudelmente maltrattati.
Attorno al 1870 cinquecento o seicento spazzacamini trascorrevano solitamente la stagione invernale nelle città dell' alta Italia e di questi gran parte erano bambini. Nel 1873, quando il governo si occupò infine della faccenda, ammise di avere scoperto «una dolorosa iliade di parimenti, di oppressioni e di miserie ... la piaga dell' accattonaggio forzato e dell' abbrutimento morale e fisico velati sotto la maschera del lavoro e sotto i poveri cenci del piccolo spazzacamino». 5
Alcune voci del Mendrisiotto denunciarono nel frattempo le disumane condizioni di lavoro a cui erano sottoposte le bambine nelle filande, e soprattutto gli interminabili orari ili lavoro.
Due deputati di quella regione chiesero al governo un pronto intervento, ritenendo «sconfortevole che, per non nuocere ai guadagni di alcuni negozianti già ricchi, si permetta che fanciulli di tenera età, obbligati alle scuole, per un fittizio guadagno, vadino a rovinarsi la loro fisica costituzione senza godere dei benefici della scuola, che tanto costano al Comune ed allo Stato». 6
Fu così aperta un'inchiesta seria anche negli stabilimenti serici e il governo scoprì quanto in parte già conosceva dalle 'proprie statistiche, cioè che nel Mendrisiotto da un quarto a un terzo delle ragazze in età scofastica disertava la scuola per lavorare la seta in condizioni molto penose.
Seguirono immediatamente due decreti governativi: il primo, pubblicato il 18 agosto 1873, staoiliva che la giornata lavorativa effettiva nelle fabbriche non poteva superare le dodici ore, che dovevano essere intercalate da pause, e raccomandava inoltre alle direzioni degli stabilimenti «di somministrare giornalmente agli operai delle razioni di pane di frumento di buona qualità e ben cotto, deducendone il prezzo dal salario». Il secondo, del 30 agosto, proibiva l'emigrazione dei ragazzi d'età inferiore ai quattordici anni 'per il mestiere di spazzacamino o altre slIDili attività girovaghe.
Il 28 febbraio 1874 il Gran Consiglio trasformava in legge il decreto sugli spazzacamini, estendendone però l'applica-
zione ai ragazzi di ambo i sessi occupati in mestieri "pregiudizievoli alla salute». Ma a questa utilissima estensione accompagnava una limitazione esiziale: l'età mInima di accesso al lavoro era abbassata da quattordici a dodici anni, poiché, come aveva argomentato a proposito degli spazz~~ini l'~pposita ~ommi~sione, "a 12 anru l ragazZi hanno gtà acqUlstato una certa robustezza che permette loro di sOfPortare con minor pericoli .gli stenti de viaggio, e i patimenti di questa professione; a 12 anni l'educazione primaria di questi ragazzi è quasi compita; a 12 anni i ragazzi sono meglio in grado di resistere alle prepotenze dei loro padroni». 7
Serviva poco, allora, che la legge autorizzasse ulteriormente il governo a vietare l'impiego di" fanciulli in troppo tenera età» in lavori superiori «alle loro forze ».
La legislazione ticinese sul lavoro si esaurì praticamente ai suoi timidi inizi. Conservarono autonoma validità le restrizioni all' emigrazione degli spazzacamini e la vigilanza ebbe qualche efficacia anche perché si badava d'evitare la pubblica riprovazione in Svizzera e all' estero. Ma le 1imitazioni poste al lavoro negli opifici furono immediatamente scavalcate dalla legislazione federale.
Nello stesso 1874, con la revisione della costituzione federale, la Confederazione fu autorizzata a disciplinare il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche e in generale la durata degli orari e l'esercizio di industrie malsane e pericolose. Nel 1877 entrava in vigore la legge sul lavoro nelle fabbriche: essa limitava la giornata a undici ore e stabiliva l'età minima di accesso alle fabbriche a quattordici anni.
A questa legge sfuggivano già, naturalmente, quanti erano occupati nei lavori agricoli, nelle cave, nei servizi, nell'edilizia e gli emigranti stagionali, ma essa non potè applicarsi pienamente neppure alle bamblOe della manifattura serica, poiché, dietro istanza dei fabbricanti che si dicevano minacciati a morte dalla concorrenza comasca non ostacolata da limitazioni d'età nell'impiego della manodopera, il governo cantonale ottenne nel 1880 che fosse abbassata l'età minima di accesso negli opifici serici da 14 a 12 anni. A questa anomalia si aggiunse il ritardo di dieci anni nel promulgare il regolamento d'applicazione alla legge federale sulle fabbriChe: un vuoto prolungato che facilitò l'inosservanza e gli abusi nonostante l'assai stretta sorveglianza federale.
La deroga concessa «,provvisoriamente» all'industria serica ticinese durò diciotto anni, ma non la salvò dal declino.
Quando nel 1898 il Consiglio Federale non fu più disposto a tollerarla ulteriormente, lOcontrò opposizioni, suscitò lamentele, petizioni e minacce. Infatti alcuni industriali chiusero senza indugio gli stabilimenti o li trasferirono oltre confì-
ne, lasciando a casa, assieme alle dodicenni, alcune centinaia di lavoratrici.
L'assistenza pubblica
Nel 1851 il periodico d'utilità pubblica «L'amico del po,polo» presentava un Ptogetto di legge SUl poveri, osservando: «E comune il lamento, che il pauperismo va mostrando anche fra noi in alcune comuni il suo lurido ceffo; e specialmente nei capiluoghi si ha il triste spettacolo di accattoni, che affluendo dai circonvicini paesi, importunano ad ogni passo il cittadino, e danno al forestiere di giudicare molto sinistramente della nostra civiltà e dello stato economico del paese.» B
Il confronto con una miseria ormai appariscente e piuttosto diffusa, imputabile alle critiche circostanze di quegli anni, avrebbe d0V1!to suggerire una riforma incisiva del sistema assistenziale, ma anche in questi frangenti lo stato perseverò nella sua prudente e labile politica. Essa si articolava in questo modo:
il cantone lasciava ai comuni la fondamentale e completa responsabilità per l'assistenza ai loro attinenti poveri;
combatteva la mendicità con interventi repressivi;
utilizzava, per le disgrazie eccezionali, un fondo di beneficenza alimentato da pubbliche collette;
provvedeva alla salute pubblica e cercava di ovviare alle più gravi tare sociali e
di garantire assistenza ai derelitti mediante la legislazione sanitaria.
La repressione della mendicità si fondava sulla convinzione che la carità mal riposta avrebbe accresciuto il male invece di estirparlo e favorito individui socialmente pericolosi, accattoni di «indole viziosa» e simili parassiti propagatori di epidemie, delinquenti potenZIali ed effettIvi. 9
Per quasi tutto il secolo, a intervalli regolari secondo le avverse congiunture, le autorità imperversarono con dure circolari contro la mendicità e organizzarono ogni tanto retate per l'espulsione dei mendicanti stranierI; ma che il successo delle misure di polizia fosse generalmente assai scarso, lo confermava nel 1870 il commissario governativo di Lugano che giudicava la mendicità "una piaga insanabile».
L'istituzione di un fondo di soccorso a favore delle famiglie che "in conseguenza di straordinari infortuni venissero a trovarsi in grave necessità» era stata decisa nel 1841, doro la tragica esperienza delle alluvioni de 1839 che avevano gettato molte persone nell'indigenza. Il fondo doveya costituirsi con il prodotto delle multe e in massima parte con il provento di due collette annue bandite dai parroci ed eseguite con la questua domenicale. Le collette diedero sempre frutti talmente miseri, che il governo minacciò più volte i comuni di multare i municipi e parroci negligenti e si sfogò talvolta con aspre 21
rampogne contro i l'arroci che dimostravano «di non aver VIscere di misericordia se non in relazione ai loro interessi e alla loro gerarchia» e diventavano «operosi fino al fanatismo e all'accattonaggio» solo nelle collette per il culto l0. Tuttavia anche le multe non confluivano regolarmente al fondo di beneficenza, parte del denaro raccolto veniva dirottata verso altri usi e il governo largiva i sussidi con arcigna parsimonia. Così non venne mai accantonata una solida riserva, e quando le calamità colpivano, secondo una prevedibile giustizia distributiva, ora il Sopraceneri con le alluvioni e le valanghe, ora il Sottoceneri con le epidemie di colera e vaiolo, il fondo di soccorso era incapace di far fronte ai bisogni e si doveva ricorrere alla carità privata, a cui la commissione della gestione affidava ancora nel 1866 una funzione in ogni caso preminente: «noi non abbiamo troppa fiducia nei frutti della carità legale, e però ci sembrerebbe molto giovevole l'introduzione di un sistema misto, mediante il quale avesse una gran parte l'azione dei privati». 11 .
I:assistenza corrente ai poveri sembrav~ i?c?mbere per an~ca tradizion~ ai ~atrIZiau, ma eSSI, pur disponendo di bem e rendite a volte precisamente destinati a tale scopo, ne scaricarono di fatto gli oneri sulle finanze comunali. Nel 1855 una legge stabih sen.za più equivoci l'obbligo di ciascun comune «di soccorrere i propri attinenti assolutamente poveri e incapaci di lavoro», e di assistere i poveri altrui (ma ticinesi), qualora, per improvvisa malattia, non potessero essere trasportati "senza perico[o e gravi inconvenienti» al loro comune di attinenza, che era comunque tenuto al risarcimento delle spese.
I:assistenza, abbandonata in termini tanto restrittivi ai municipi, e quasi senza vigilanza cantonale, fu esercitata in genere con tale esosa e umiliante grettezza da respingere o scoraggiare chi non fosse disperatamente miserabile. I:autore di un'inchiesta sul pauperismo in Svizzera notava che la conseguenza del sistema adottato nel Ticino era «que les individus pauvres ont recours le moins possible à l'assistance publique» 12. A quella data (1870) solo 43 comuni su 263 disponevano di un fondo per i poveri.
Benché il governo avesse più volte proibito di far mantenere i poveri a turno dalle famiglie, diversi comuni perseverarono lungamente in tale pratica: nel 1873 il municipio di Someo era stato accusato di aver lasciato mantenere una famiglia povera dalle altre a patate e castagne marce; nel 1888 il municipio di Giumaglio negava a una vecchia carica d'acciacchi un sussidio giornaliero di dieci centesimi, costringendola a elemosinare nelle case a turno, Pianezzo, almeno, assegnava nel 1870 a un povero tre quarti di libbra di
22 pane al giorno. Era capItato che stranieri
- ' , ~.' .
! .
/
poveri ammalati fossero ricoverati in qualche stalla, oppure messi in viaggio verso il comune di attinenza in condizioni pietose. I litigi tra comuni che si palleggiavano l'onere di qualche miseraoile, disputando sull' attinenza, erano frequenti e interminabili.
Nel 1868 il Gran Consiglio volle intraprendere la riforma dell' assistenza. Qualche deputato suggerì di trasferire l'onere dal comune d'attinenza a <I.uello di domicilio, quando un povero VI risiedeva stabilmente da molti anni. Nel 1882 Gioachimo Respini propose che bastasse una permanenza ventennale per obbligare il comune di domicilio all'assistenza e tornò alla carica nel 1890, deplorando la più che ventennale inerzia del Consiglio di Stato. Ma nello stesso Gran Consiglio, di tale legge e delle riforme proposte, si era quasi perduto il ricordo 13.
I:autorità cantonale dimostrò maggiore sollecitudine nei confronti dei più derelitti: i bambini abbandonati e l pazzi. Poco oltre il 1860 fu ripreso l'antico proposito di istituire un brefotrofio cantonale. Anche questa volta non si giunse a realizzaziom concrete, ma parrebbe perlomeno che lo stato si impegnasse poi a vigilare più attentamente sul destino riservato dalle comunità locali agli abbandonati 14.
La tragica sorte dei pazzi, completamente abbandonati, o rinchiusi in porcili, o tenuti incatenati come belve, conse-
.,1', l'i' .. . , ; : i
gnati alle carceri e mescolati a vita agli ergastolani, convinse le autorità a raccogliere fondi, a partire dal 1868, per l'erezione di un manicomio cantonafe a Mendrisio, da annettere all' ospedale della Beata Vergine. Ma, quando il finanziamento sembrava convenientemente assicurato, sorsero difficoltà, contrasti e rinvii, per cui lo stato preferì infine stipulare, nel 1884, una convenzione con il manic0fl:1i~ ~ C?mo per il ricovero ~ei de:menu tlClOesl, e cuca una settantlOa VI trovò accoglienza. Il progetto di manicomio cantonale fu ripreso e realizzato solo alla fine del secolo.
Le condotte mediche
Fu soprattutto con la legislazione sanitaria che lo stato cercò di realizzare i suoi interventi sociali e di rimediare almeno in parte alle numerose evidenti carenze del sistema assistenziale. Il principale strumento di tale politica furono le condotte mediche 15.
Istituite nel 1845, esse miravano a garantire un' assistenza medica regolare, a modico prezzo, anche alle popolazioni più periferiche e isolate, la cura gratuita agli ammalati poveri (cioè dichiarati tali da un attestato municipale di «miserabilità»), il benefico serviZiO della vaccinazione, il controllo dell'igiene pubblica, la prevenzione e la lotta contro le epidemie. I medici condotti ricevevano estesi coro-
piti di vigilanza sanitaria e sociale: sulle derrate, sull'ambiente, sulle attività malsane, sulle scuole, sulle levatrici e sulle nascite illegittime. Nel loro compenso confluivano i contributi dei comuru, proporzionati alla popolazione, un sussidio cantonale e la «modesta retribuzione» fornita dai pazienti.
I:introduzione delle condotte mediche incontrò forti resistenze, e poi i comuni non sapevano intendersi sulla definizione dei arcondari. Nel 185310 stato sussidiava solo due condotte, e unicamente dopo il colera del 1854-55 esse si diffusero a tutto il cantone, così che, nel 1859, il governo si poteva finalmente compiacere della loro completa attivazione. La soddisfazione fu di breve durata, poiché dal 1860 al 1863 si scatenò un vero fuoco di fila contro le condotte mediche: diversi cittadini, 7 comuni del Mendrisiotto, lO della valle di Blenio, 4 dell'Onsernone e Biasca ne chiedevano con petizioni e ricorsi l'abolizione. lo stesso Gran Consiglio, inizialmente perplesso e disorientato, si lasciò poi prendere da questa smania distruttrice, mentre voci insistenti invocavano il diritto alla «libera scelta del medico»: nel 1862 Bernardino Lurati, relatore commissionale su questo spinoso oggetto, attaccò a fondo le condotte mediche in nome della «libera concorrenza» e della «libertà d'industria», accusando lo stato assistenziale di condurre «alla stagnazione e concentramento di ogni movimento sociale e ad una specie di comunismo», imputando alle condotte la fuga delle migliori intelligenze non disposte a tali mal retribuiti sacrifici, e osservando infine «che questa istituzione è generalmente invisa al popolo, non ha potuto saldamente metter radici ... ha presentato insormontabili difficoltà nella sua attuazione».
E pertanto, nel 1863, il Gran Consiglio decideva, contro il parere del governo, l'abolizione delle condotte obbligatorie dovunque fossero presenti medici in esercizio, un servizio medico obbligatorio solamente per i poveri 16.
Il governo, fermamente deciso a non smantellare sul nascere un servizio sociale di grande utilità, prese ten1po e trovò un inatteso alleato nel colera del 1867 che contribuì al ravvedimento di molti. Infatti, quando nel 1869 il Consiglio di Stato presentò un progetto che, anziché abolire, rafforzava l'organizzazione delle condotte, riuscì facilmente a ottenere un completo voltafaccia del Gran Consiglio, ora non più disposto ad assecondare la sacrosanta volontà del popolo sovrano, ma al contrario deciso a contrastare le insane tendenze del popolo ignorante. La commissione incaricata di esaminare il progetto dichiarò che le condotte erano «la più bella istituzione del nostro secolo» e che dovevano essere obbligatorie per il bene della popolazione campagnola e
Casvegno (Mendrisio)
montana, anche se questa «preferisce per l'ordinario di morire a buon mercato, o peggio, a condurre un' esistenza cagionevole, con mali cronici, o con deformità ributtanti.» 17
La legge fu accolta nel 1870 e messa in vigore poco dopo. Oltre a mantenere le condotte obbligatorie, rafforzava decisamente l'assistenza sanitaria e rendeva il servizio medico gratuito per tutti: «La cura dei malati è gratuita, eccettuate le operazioni di alta chirurgia e ostetricia, per le quali, trattandosi di particolari non poven, il medico avrà diritto a un equa retribuzione». Già nel 1873, malgrado «la sistematica opposizione di alcuni comuni», le condotte erano istituite quasi dappertutto, restavano scoperti solo alcuni tra i circondari più disagevoli .. Qualche anno dopo fu migliorato il non entusiasmante onorario dei medici condotti: non avrebbe mai potuto essere inferiore ai 1500 franchi annui: il contributo comunale era fissato da 60 centesimi a un franco per abitante, quello cantonale tra 150 e 350 franchi.
L'apertura sociale di questa legge era evidente, non solo perdié assicurava la generale gratuità dell'assistenza medica, ma anche perché ampliava la facoltà di intervento dei medici per la tutela della sanità fisica e morale della popolazione, proprio come avevano desiderato qualche decennio addietro i fautori della medicina sociale. Fu infatti affidata alla Direzione cantonale della pubblica igiene la vigilanza sul lavoro e in particolare la precisa responsabilità di far rispettare la legge federale sul lavoro nelle fabbriche.
Nel 1888 la dispersa materia attinente alla salute pubblica veniva riunita e ordinata in un codice sanitario cantonale.
1) Per alcùni momenti del dibattito: R. Ceschi, Movimento democratico e sodetà popolari e operaie a Bellinzona, in «Pagine Bellinzonesl», Bellinzona 1978. Per tutte le leggi citate in questo lavoro si veda la N uova raccolta generale deOe leggi e dei decreti, 1803-1886, Bellinzona 1887.
2) G. Cheda, L'emigrazione tidnese in Australia, Locarno 1976, I, p. 194.
3) Conto reso del Consiglio di Stato, 1866, p. 47. 4) Si veda R. Ceschi e altri, Le condizioni de~li
operai nel Tidno agli inizi del nostro secolo, seminariO di storia della Scuola cantonale di commercio, Bellinzona 1971, dattiloscritto. Da p. 13 la cito È in preparazione inoltre un mio lavoro sulla scuola e il Iavoro infantile nel Ticino dell'ottocento.
5) Conto reso, 1873, p. 29. 6) Processi verbali del Gr.an Consiglio (PVGC),
sesso ord. aprile-maggio 1873, p. 14. 7) PVGC, sesso straord. settembre 1873 e ag
giornamento 1874, p. 229. 8) «I:amico del popolo», 11.1.1851. p.s.
Sull'assistenza pubblica in Ticino: B. Bertoni, Della pubblica assistenza nel Cantone Tidno, Bellinzona 1894. G. Niederer, Le paupérisme en Suisse. Législation en matière de secours publics et statistique de l'assistance offidelte et de l'assistance libre, Zurich 1878.
9) P. es. Foglio offidale, 1873, p. 308-309, circolare del Consiglio di Stato: «I:accattone, d'altronde, è per se stesso un uomo pericoloso; imperocché, perduto il pudore e la dignità, è sul limite estremo fra l'onestà e il delitto, e diviene sovente il ladro od il delinquente, destinato ad ultimare i giorni nel fondo del carcere.'
lOl Conto reso, 1873, p. 21. 11 Conto reso, 1866, p. 47. 12 G. Niederer, cit., p. 49. 13 PVGC, sesso ord. aprile-maggio 1882, p.
249; sesso febbraio 1890, p. 102. 14) Si veda V. Gilarcfoni, Creature, trovatelti,
venturini, «Archivio storico ticinese', N. 80, dicembre 1979.
15) Sulle condotte mediche e la legislazione sanitaria: R. Ceschi, Il <mortifero vomito orientale-o Epidemie, condizioni sanitarie, medid e «volgo -nel Tidno dell'ottocento, -Archivio storico ticinese», N. 83, settembre 1980.
16) PVGC, sesso ord. maggio 1860, p. 62, 139, 148; sesso ord. maggio 1861, p. 324; sesso ord. novembre 1861, p. 45, 65; sesso ord. aprile-giugno 1862, p. 313, 347, 393; sesso ord. novembre 1862, p. 13, 261, 275 ('.lui il rapporto di B. Lurati); sesso ord. aprile-maggto 1863, p. 238. 368, 373; sesso novembre, p. 48, 49.
17) PVGC, sesso ord. 1870, p. 336 (il rapporto della commissione) e passim. 23
1882 .. La fine di una tormentata vicenda ferroviaria: la vittoria del San Gottardo
Il bilancio ferroviario che il Cantone Ticino poteva stendere nel 1860 si prestava a mela.nconiche conclusioni: se una rete di oltre centomila chilometri di binari era quell' anno in esercizio nel mondo, non un metro ne vantava ancora il Cantone. Anche l'avvenire s'annunciava assai incerto, . e difficile riusciva immaginare che grandi decisioni stessero invece maturando. Le mutazioni erano in grembo ai rivolgimenti politici europei: in particolare l'unificazlOne italiana avrebbe provocato un benefico sconvolgimento di tutta la vecchia guestione ferroviaria. Gli interessi politio ed economici del Piemonte, che fino a quel momento avevano ispirato l'azione ili Cavour, lasciavano il passo a quelli del regno unito, il discorso non poteva più concentrarsi sulla soluzione del Lucomagno che aveva visto convergere anche le speranze e gli interessi di Ticino, Grigioni e San Gallo, ma allargava a tematiche che aprivano a tutti, Ticino compreso, prospettive un tempo precluse. Entrava in gioco anche la Lombardia che si dichiarava fermamente avversa al Lucomagno, specie in quella strana versione che avrebbe voluto congiungere Milano a Coira., non per la via diretta ma per la lunga deviazione di Bellinzona e Biasca., mentre s'era già ripreso a parlare del tradizionale Spluga e ael Septimer.
Il Lucomagno naturalmente contava ancora fautori, non solo in Svizzera ma pure a Torino, ove però si faceva strada la necessità di disporre di studi sicuri e aggiornati a cui riferirsi in una scelta definitiva. Ma una prima perizia ufficiale predisposta dal mInistro Jacini seppe solo ricalcare vecchie tematiche e riEidi essere il Lucomagno il passaggio da preferire, concedendo qualche riconoscimento allo Spluga e trascurando, al solito, il San Gottardo, messo in cattiva luce da viete diffidenze. Nell'aprile di quel 1861 si profilò anzi l'accordo fra le parti, e la questione della ferrovia alpina parve giunta alla svolta finale. Una delegazione del sangallese Comitato del Lucomagno firmò a Torino un impegnativo compromesso con il ministro italiano Ubaldino Peruzzi: definito percorso e valico, l'Italia avrebbe largamente sussidiato la ferrovia., il Comitato si impegnava a creare la società costruttrice e intanto a depositare una cauzione in contanti. Ma il versamento di questa venne eseguito con qualche giorno di ritardo sui termini imposti, e il governo italiano ne approfittò per denunciare l'intesa e liberarSI da impegni di cui appena in tempo aveva probabilmente scoperto l'incongruenza. I:occasione storica del Lucomagno era
24 passata e non sarebbe più tornata. Da
quel momento cominciò l'inarrestabile decadenza delle fortune del passaggio fra Ticino e Grigioni che per decenni aveva dominato la scena di qua e di là del confine politico.
In quei giorni fra le delegazioni riunite a Torino era sorta pure l'idea di instradare la ferrovia internazionale da Gallarate a Cittiglio, Luino e poi Bellinzona., in un disegno che il Consiglio di Stato ticinese trovava accettabile, certamente nella fretta di concludere il tutto, e sventare in tempo la pericolosa alternativa dello Spluga che s'affacciava all'orizzonte. Ma di opposto parere si mostrò invece il Gran Consiglio, interprete anche dei forti malumori suscitati dal progetto. Il Sottoceneri s'agitava infatti nelle piazze e inviava indirizzi di protesta contro una decisione da esso giuclicata., non a torto, assurda e rovinosa. A Torino si tornò a trattare, e la s?l':lzione S?stitutiva cui ~i gi~nse poté dim so16 di poco meno lOfelice den' altra., prevedendo che la ferrovia varcasse il confine ticinese nei pressi di Agno e passasse alle porte di Lugano senza entrarvi. Di <lui nuove rimostranze del Luganese. Ma fortunatamente mancava il trattato esecutivo in cui inserire clausole così stravaganti. Per mesi ancora., nel Ticino si discusse molto, poco potendo agire.
I non numerosi ma tenaci gottardisti non desistevano. Carlo Cattaneo scrisse allora per un Comitato ferroviario luganese (presidente Battaglini) un vibrante appeÙo indirizzato all'Assemblea federale. Non soltanto vi ribadiva che il territorio svizzero non aveva un' altra linea che potesse paragonarsi a quella del San Gottardo, ma vi esprimeva pure il concetto che la ferrovia alpina non sarebbe sorta per iniziativa delf'imprenditoria privata., le cui forze, per quanto agguerrite, si mostravano impari a quell'immenso compito. Solo sotto un patrocinio pubblico la ferrovia aveva speranze di nascere: «Incumbe ai Consigli Federali - scriveva Cattaneo - d'elevare l'argomento a tutta la sua grandezza internazionale; nessun governo che non fosse neutrale potrebbe parlare nel nome di tutti». Per così concludere: «Signori! I:iniziativa di questa grande impresa delle nazioni appartiene a voi: essa appartiene alla patria elvetica come a simòolo di tre grandi civiltà».
Ma mutare orientamento di fondo e riprendere guasi da capo, non si poteva su due piero, e il 1861 fu ancora anno di intenso lavoro per le magistrature ticinesi chiamate ad esprimersi su varie richieste di concessioni ferroviarie di vecchio stampo. Dopo un animato esame comparativo delle proposte, provenienti quasi tutte dall'estero, la decisione più importante venne presa a favore dell' inglese R.G. Sillar che ottenne la privativa per la costruzione delle linee interne cantonali, e in più il diritto di" futura prelazione per l'uno o anche entrambi i valichi alpini ael
Lucomagno e del San Gottardo. La compagnia inglese, secondo il capitolato, doveva accingersi prontamente all'opera., e qualche piccolo cantiere essa aprì. effettivamente sui percorsi cantonali. Ma perse presto ogni slancio, e probabilmente si sarebbe vista ritirare la concessione per manifesta inadempienza se nel dicembre '64 non avesse ceduto ogni sua prerogativa a una diversa società., pure inglese. Questa assunse il nome amòizioso di European CentraI Railway Co. (Ferrovia Centrale Europea), partì forte di nomi prestigiosi del mondo economico e bancario londinese e annunciò grandiosi progetti che presto tradì. a sua volta. Queno che avvenne in seguito nel Ticino all'insegna della Centrale Europea è difficile da riassumere in poco spazio. Di fronte a scarsi progressi nelle costruzioni si assistette a un intrico di maneggi finanziari, a un grande agitarsi di appaltatori, subappaltatori, prestatori di denaro e speculatori con strascichi giudiziari e intenso lavoro per gli avvocati.
Ma per contro fuori del Cantone le cose prendevano miglior piega., anche per il rafforzarsi degli interventi politici nella ferrovia. Si mosse intanto il Consiglio federale che, uscendo dalla neutralità costituzionale nella quale s'era a lungo rinchiuso, nel luglio 1863 comunicò al governo italiano che la Svizzera non avrebbe potuto accogliere la proposta di una ferrovia internazionale da mezzogiorno che non attraversasse il Cantone Ticino: e fu un colpo duro inferto a Spluga e Septimer, con il contemporaneo rinascere ili qualche speranza per il Lucomagno e il San Gottardo.
Cresceva anche nella Svizzera interna l'interessamento alla ferrovia. Nell'autunno '63 i cantoni "gottardisti" si riunirono, come usavano da tempo, a Lucerna e alla loro conferenza aderirono il Ticino e, per la prima volta., Zurigo: inoltre le due più solide ferrovie svizzere, la Centrale Svizzera e la Nord Est. Presente, per quest'ultima., il suo presidente Alfred Escher, noto e autorevolissimo esponente della politica e della grande finanza zurigana e ·svizzera. Fino a quel momento Escherera stato fautore di Coira e del passaggio grigione: la sua conversione al San Gottardo poté dirs.i di estrema rilevanza., per la parte riservatagli subito nel consesso di Lucerna. Precipuamente grazie a lui, da quel momento il Comitato del San' Gottardo divenne organo molto attivo di studio, di pressione e anche d'iniziativa ferroviaria. Al Comitato del San Gottardo continuò a contrapporsi quello del Lucomagno con sede 10 San Gallo.
È da supporre che i promotori della Ferrovia Centrale Europea non fossero riusciti a convincere gli ambienti della City sulla convenienza economica della loro speculazione fe~roviaria; e per questo,
ridimensionate le ambizioni, badassero ormai a conseguire qualche residuo vantaggio rinegoziando le privative legali di cui ancora disponevano. La compagnia inglese era sempre titolare del dintto di l'relazione per la ferrovia del San Gottarao e nei primi mesi del '64 la cedette all'ingegnere comasco Genazzini cui aveva già conferito l'appalto dei lavori sulle linee interne ticinesi, alle quali non intendeva rinunciare senza peraltro impegnarvisi veramente; e disponeva inoltre della privativa per il Lucomagno, che nellugfio dello stesso anno cedette a un gruppo parigino controllato dal banchiere Hentsch. Questi aveva al suo seguito numerosi finanzieri minori e gravitava egli stesso nell'orbita del potente ]ames Rothschild, dai vastissim1 interessi ferroviari sparsi in mezzo mondo.
Genazzini, che misurava le proprie limitate forze, si alleò al baronetto] ames Hudson, già rappresentante diplomatico della corte inglese a Torino, ed ora esponente della Banca Anglo-Italiana che operava in Toscana. Toccava al Gran Consiglio sanzionare quei trapassi di concessioni. Nell'avanzato autunno 1866 il legislativo ticinese affrontò la questione ch'era complicata dalla presenza di una terza domanda di ferrovia alpina, presentata dal Comitato del San Gottarao. Il Gran Consiglio prese in esame prioritario la richiesta lucernese, ma alla fine dovette scartarla perché non accompagnata dal necessario deposito cauzionale e anche perché non dava alcuna garanzia della temf>estiva costruzione delle linee interne; e adottò invece il capitolato Hudson-Genazzini che offriva un deposito cauzionale di 900 mila franchi e abbondava di clausole cautelative per i tragitti da Biasca a Chiasso e a I.ocarno, e persino per la navigazione a vapore sul Ceresio. Inoltre il Gran Consiglio votò la concessione del Lucomagno assegnandola a Hentsch e C. Cos1 per un istante ci si potè illudere che il Cantone s'avviasse ad avere presto addirittura due ferrovie alpine, se pure esperienze non scordate non consigliassero di moderare le nuove attese.
Nel Ticino il contenzioso ferroviario non scriveva mai la sua ultima pagina, ma al disopra di tutti i contrasti la causa del San Gottardo appariva ormai in sicura ascesa. Le convinzioni che due pionieri, Lucchini e Cattaneo, avevano espresso tanti anni prima trovavano puntuale conferma: il San Gottardo era tecnicamente possibile, al pari almeno di altri valichi; era economicamente vantaggioso, eoliticamente e militarmente insostituibde. Su quei punti occorreva insistere. Il Comitato di Lucerna nel 1864 chiese a tre reputati ingegneri, Koller, Schmidlin e Stoll, un rapporto sul valore del San Gottardo nell' aspetto economico e ne ebbe uno studio serrato che, subito tradotto in ita-
liano da Carlo Cattaneo per i tipi luganesi di Veladini, venne largamente distribuito in Italia, ove qualche resistenza antigottardista era ancora viva. Dal Moncenisio giungevano notizie rassicuranti sulla concreta possibilità di procedere a lunghe e abbastanza rapide perforazioni, ciò che finalmente rendeva superata ogni disputa se convenisse adotta,re un tunnel di oase oppure un tunnel elevato più breve ma di costosa e incerta gestione. A fugare gli ultimi dubbi sulle scelte di fondo, fra '65 e '66 erano giunte da Firenze le conclusioni della grande inchiesta Jacini.
Stefano ]acini, nuovamente msediato al ministero dei lavori pubblici, era partito dal principio, cos1 cattaneano, che l'era dei giudizi di parte, delle immotivate pretese municipali, andasse chiusa, e spettasse a insos~bili esperti affrontare il problema e offrire ai politici i dati certi di giudizio su cui decidere in modo irrevocabile. Per questo,]acini aveva nominato una serie di commissioni che, secondo le competenze, riferirono su ogni aspetto della questione; e poi una specie di supercommissione, a larga e qualificata rappresentanza, che s'era espressa sulla sintesi di quei rapporti, assegnando in conclusione otto vot1 al San Gottardo, tre allo Spluga e nessuno al Lucomagno. I lavori della commissione] acini, subito tradotti in tedesco e in francese, destarono unanime ammirazione in Italia e all'estero, e dai
competenti furono giudicati l'opera definitiva che chiudeva la lunga e travagliata stagione delle incertezze e dei rinvii. forte di quella documentazione e di quei consensi, Jacini non perse tempo. Nel febbraio ' 66 il governo italiano comunicò al Consiglio federale che l'Italia era disposta a finanziare soltanto la ferrovia del San Gottardo; e qualche giorno dopo presehtò al parlamento un progetto di legge chiedente l'autorizzaz1one al suo governo «di prendere parte ad un consorzio internazionale per promuovere l'esecuzione di una ferrovia attraverso il Gottardo».
A quel punto, tenuto conto della sottintesa concordanza di vedute esistente fra Svizzera e Italia, si poteva asserire che la lotta fra i valichi alpini era veramente finita con la vittoria del San Gottardo, e che le residue difficoltà da superare e i problemi che restavano da risolvere, specie nel Ticino (come la salvaguardia della costruzione delle linee interne, da non rimandare all'infinito subotdinandole all'apertura della galleria alpina) erano bens1 importanti, ma non più determinanti.
La direzione da seguire appariva chia-ra, anche con i sacrifici finanziari ch' essa imponeva. Sul fronte interno ticinese la Ferrovia Centrale Europea perse la concessione proprio nel momenro in cui, uscita dall'inerzia colposa, si accingeva a 25
·1 ,
26
rinnovare i quadri e a ridiscendere in campo. Una concessione chiesta forse con scopi unicamente diversivi, quella di Hentsch e c., cadde quasi da sola per l'evidente considerazione che il Lucomagno fosse prer sempre fuori gioco. Infine la convenzione con Hudson-Genazzini venne dichiarata estinta allorché il baronetto, preoccupato degli impegni troppo generosamente assunti, dichiarò di rinunciare all'impresa. Nell'estate '68 il Gran Consiglio aveva accolto con favore due iniziative locali: qudla di Lavizzari e Fraschina per una ferrovia da Chiasso a Lugano e f'altra di un grup.l?0 locarnese, Bacilieri, Franzoni, PedrazZ1ni e c., per una ferrovia da Locarno a Biasca. E aveva promesso a ciascuna di quelle opere un sussidio di un milione di franchi. Le due concessioni vennero presto trasferite al Comitato dd San Gottardo, e con esse anche i due milioni di premio. Il 15 maggio, infine, il Gran Consiglio assegnò al Comitato lucernese anche il privilegio per il tratto da Biasca al confine urano e per una ferrovia da Lugano a Bellinzona attraverso il Monteceneri. Tutte le ferrovie ticinesi erano cosi affidate a un unico concessionario e, a stretti termini di convenzione, andavano considerate come un unico indivisibile.
. Il Comitato dd San Gottardo, impegnato a raccogliere la quota di sussidi svizzeri alla grande ferrovia, chiese al Cantone Ticino un contributo di altri due milioni da aggiungere agli altrettanti già stanziati, ma la somma parve eccessiva, sia al governo sia al Gran Consiglio che nd dicembre ridusse lo stanziamento . a un solo milione, convinto che con qud sacrificio il Cantone avesse dato «tutto quello che poteva dare». In verità, tre mi-
lioni non erano poca cosa per le finanze cantonali dd tempo, anche se va considerato che i versamenti sarebbero stati distribuiti in parecchi futuri esercizi.
Dopo il 1868 la vicenda prese rapido corso, nell'incalzare di eventi fra loro connessi in un quadro globale a grandi dimensioni storiche e geografiche. Qualche scadenza va pure ricordata. Nell'ottobre 1869 venne firmata la convenzione di Berna fra Consiglio federale e Italia, cui aderirono immediatamente gli stati tedeschi. Da essa usci anche l'indicazione dei sussidi governativi da assegnare alla ferrovia: Italia 45 milioni di franchi, Svizzera e Germania ciascuna 20 milioni. In quei giorni, per singolare coincidenza, si festeggiava l'apertura di Suez, cui i pionieri del traforo alpino avevano affidato tante speranze. Nel dicembre dd '71, creazione a Lucerna della Compagnia del Gottardo; e l'anno dopo firma della convenzione con l'impresa Favre per il grande tunnd da Airolo a Goschenen. Nel 1874, apertura al traffico delle linee da Biasca a Chiasso e della Bellinzona-Locarno. Nel 1876, grave crisi finanziaria della Compagnia del Gottardo e apprensioni per la sua sorte, fugate nel marzo 1878 da una nuova convenzione di Berna che risanò la situazione. Infine, giugno 1882 inizio dell'esercizio regolare sulla linea da Basilea a Milano.
Per impegno di brevità si sorvola qui sulla vicenda interna, e non offensivamente minore, della storia della ferrovia: le lunghe trattative diplomatiche, la raccolta dd capitale azionario, la tragica sorte di Louis Favre, l'epopea dolorosa degli operai che lavorarono al traforo; e molt'altro resta negli appunti che si potrebbe aggiungere. Ma un particolare al-
meno, per concludere. Alle manifestazioni sollecitate dall'inaugurazione della ferrovia presero parte, ai capilinea e lungo il percorso, molte folle e centinaia di invitati, parecchi dei quali non vantavano particolari benemerenze gottardiane. Le parole e i brindisi si sprecarono. Ma degli oratori ufficiali non molti parvero ricordarsi degli assenti, i veri grandi protagonisti che avevano, non solo lavorato ma pure combattuto perché la ferrovia nascesse e riuscisse quale effettivamente riusci: Carlo Cattaneo scomparso nel 1869, G .B. Pioda e Alfred Escher che la morte avrebbe colto qualche mese dopo; Louis Favre caduto sul lavoro fra i suoi minatori; Stefano Jacini sdegnosamente lontano. Della vecchia generazione era invece felicemente presente, robusto e chiaro di mente, Pasquale Lucchini che sarebbe sopravvissuto an~ora un decennio per morire ultranovantenne nel 1892.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Fondamentale resta l'esame dei Processi Verbali del Gran Consiglio, alle date. Utili, nelle polemiche, anche i giornali dell'epoca. Sempre da tener presente, per un orientamento generale, H . BAUER, L'histoire des chemins de fer suisses, in OFFICE FEDERAL DES TRANSPORTS, Les chemins de fer suisses apr~ un siècle, 1847-1947, I, NeuGhatel et Paris, 1949.
La ricorrenza del centenario della ferrovia ha promosso l'uscita di diverse p'ubblicazioni celebrative, ora facilmente reperibili. Si veda in particolare il numero sp'eciaIe di -Scuola Ticinese ' (maggio 1862) con 11 lungo, documentato saggio di S. LAFRANCHI e altri contributi.
Prima e dopo il 1882
È stato spesso scritto che il 1882, con l'apertura deJla ferrovia del Gottardo, segna una svolta storica nella vita del Cantone Ticino: e l'affermazione regge in larga misura, pur rispettata la prudenza di dover ragionare in termini non soltanto di frattura ma anche di continuità e integrazione, come sempre del resto conviene fare anche di fronte agli eventi del passato maggiormente dinamici e dotati nella più ricca energia dirompente e innovatrice. In certo senso il 1882 chiude un' epoca e ne inaugura un' altra, che non comlOcia però dal nulla. Solo nel profùo esterno e spettacolare l'età che potè dirsi della ferrovia parve ar.rirsi d'un tratto con i festeggiamenti e il primo treno internazionale del 1882. In realtà essa ebbe una lunga e faticosa gestazione che è parte integrale della vicenda principale poiché, pur nell'incalzare degli insuccessi pratia, delle delusioni e delle frustrazioni, assolse compiti preparatori essenziali, destando nuove attese sociali e pagando il prezzo che andava pagato per poter saldare il passato con l'avvenire. Da questa particolare angolatura il periodo 1840-1880 comincia ora ad essere debitamente esplorato. Fin dall'inizio e negli anni dei pnmi approcci scientifici e imprenditoriali, il mondo nuovo della ferrovia mosse passioni e mobilitò interessi aventi tutti qualche significativo risvolto sociale. Nel piccolo paese ancor dal lento ricambio monetario, l'impresa grandiosa del traforo spalancò per prima l'orizzonte delle iniziative puobliche di grande valore anche finanZ1ario ed economico.
Allorché si trattò di imporre al Cantone un sacrificio di partecipazione al fondo sociale della compagnia del Gottardo, si levarono in parramento molte voci quasi sgomente, risolutamente contrarie a sobbarcare il paese di nuovi ~i fiscali e decise a non andare oltre un hmite ragionevole, commisurato riù alle deboli capacità contributive de cantone che non alle speranze di quanto si poteva attendere dalla ferrovia. Certamente un apporto di due o tre milioni di franchi, di cui si cominciava a parlare, poteva suonare come spropositato agli amministratori di un cantone che conteneva il suo bilancio annuale in poco più di un milione annuo e che, tanto per dare un punto di riferimento, retnbuiva con appena 2'800 franchi annui i suoi più alo magistrati del Consiglio di Stato, notoriamente oberati di lavoro. Memorabile era già rimasta qualche anno prima (gennaio 1862) l'intervento in Gran Consiglio di Michele Pedrazzini contro la proposta di concedere un mutuo di 9 milioni a un'impresa inglese che si dichiarava pronta a costruire la rete ferroviaria interna (da Chiasso a Biasca e da Bellinzona a Locarno) e dava
Mura/to, H~te/ du Pare
soltanto incerte garanzie di portare a compimento l'impegno: .. Se è vero che il Cantone Ticino è una piccola famiglia di centotrentamila fratelli, se è vero che il nostro popolo è già caricato d'imposte dirette e indirette, comunali e cantonali, riflettiamo prima di adottare provvedimenti che aovranno essere la fonte di nuovi e gravissimi balzelli ... ". Pedrazzini, ch'era osservatore acuto e disinteressato, ma assai pessimista, aveva più di qualche buona ragione; e tuttavia, guardando con maggior coraggio un poco più lontano, non si potevano neppure ignorare le prospettive economiche estremamente positive che, non l'esercizio ma già la costruzione della ferrovia alpina apriva al cantone. Al paese che a costo di tanti sacrifici era riusato a darsi una buona rete stradale, si offriva ora l'occasione irripetibile di rimodernare a condizioni favorevolissime il proprio sistema viario. Per convincersene bastava ragionare un momento sulle crude cifre dei preventivi continuamente esibiti. La granae ferrovia era un'impresa d'oltre duecento milioni di franchi, e di questa somma imponente una tangente elevata, forse la metà, era destinata ad essere spesa nel Ticino, il cantone che senza confronto godeva del tratto più lungo di binari fra Basilea e i confiru con l'Italia.
Forse, e si potè riscontrarlo a cose fatte, il Ticino non trasse dalla ferrovia tutti i profitti iniziali che avrebbe potuto averne se le sue strutture produttive avessero corrisposto meglio al bisogni dell' opera, ma fu questo il destino comune a tutte le contrade non ancora industrializzate, nelle quali la ferrovia giunse senza trovare agganci con le fabbriche locali. Naturalmente il raffronto con l'Inghilterra o gli Stati Uniti del tempo non è neppure da proporre. Il Ticino era privo di grandi officine siderurgiche e meccaniche e per questo non potè offrire alla società nel Gottardo le locomotive e i vagoni, i binari e gli strumenti vari di cui essa aveva bisogno (le prime locomotive che percorsero la linea giunsero da MonaCO o Ess-
lingen, le vetture da Neuhausen, Olten Carlsruhe, Norimberga ecc.); né il cantone fu in grado di infittire con nomi propri i quadri degli ingegneri e dei tecnici qualifìcati che a centinaia vennero assunti dalla società, e furono quasi tutti svizzeri tedeschi o germanici. Più modestamente, il Ticino non contava neppure manifatture tessili cui ordinare i panni con i quali confezionare le divise dei nuovi funzionari della ferrovia. Molto venne cosi da via, ma molto fortunatamente non poteva essere materialmente importato; rivo-li monetari per alcune decine di milioni entrarono nel circuito interno, e poiché i _ nuovi investimenti provenivano tutti da economie esterne, ed erano non più di trasferimento ma aggiuntivi del reddito cantonale, il loro effetto moltiplicatorio non potè andare perduto.
~olte somme, non elevate in sé ma globalmente rilevanti, furono destinate agli espropri dei terreni richiesti dalla ferrovia, con un' operazione che valse a ravvivare il mercato fondiario, creando pic-cole rendite di posizione che favorirono la formazione anche dal basso di un tanto necessario capitale mobiliare. In campi affini la ferrovia fece assai di più, imprimendo impulso diretto all' edilizia cantonale, qui intesa come imprenditoria economica. Già per i terrazzamenti e le galle-rie, per i ponti e le stazioni disseminate lungo i tracciati, fu necessario il ricorso a molte imprese, del luogo o immigrate, antiche oppur create dal nulla o soltanto potenziate pér l'occasione. I lavori furo-no quasi tutti assegnati in appalto. Nel 1875 i terrazzamenti della Lugano-Chias-so (5,3 milioni di franchi) furono divisi in 15 lotti per dar modo anche a piccole · ditte di concorrere, e raccolsero 47 offer-te, ticinesi alcune e in numero maggiore italiane. Sul finire dell'opera, quando occorse proceder~ lestamente e v' erano gra-vi difficoltà tecniche e naturali da supera-re, si passò ai grandi capitolati con intervento anche di forti imprese estere. Nel '79 la società Marsaglia, per una ventina circa di milioni si assicurò i lavori di ter- 27
l'
razzamento e le opere d'arte sull'AiroloBiasca, e fu forse iI più grosso appalto assegnato a privati, certamente in Ticino, forse però sull'intera rete; alla Comboni, Feltrinelli e c., per alcuni milioni, andarono le stesse opere da Giubiasco a Lugano, e altri casi unportanti si }>?trebbero citare. La maggiore impresa tlcinese mobilitata fu quella di Pasquale Lucchini, associato a Raimondo Bressi, che apò cantieri a Piotta e Biasca avendo a carico la costruzione della linea da Airolo a Biasca e dell'altra da Cadenazzo a Dirinella. Più tardi la stessa ditta lavorò anche alla stazione di Bellinzona, mentre quella dì Chiasso spettò a una ditta locale, oppure mista, la Lusser e Cavadini. Si rammenti anche che nel 1874 una maestranza di quasi novemila unità era registrata operosa nei cantieri del Ticino, per il reticolato ferroviario che s'andava rapidamente annodando. Quella che, per valore globale di produzione, sarebbe diventata in seguito la prima voce del settore secondario ticinese, l'industria dell'edilizia al>"" punto, non nacque a causa della ferrOVia ma in <I.uegli anni cominciò 'a distanziarsi da antlche tradizionali dimensioni e strutture.
La partecipazione di un nucleo di cittadini tlcinesi alle numerose iniziative ferroviarie di cui il cantone fu testimonio e anche protagonista, a partire dal tentativo sfortunato di Rota VeZoli nel 1845, sino alla raccolta del capitale per la società del Gottardo, costituisce un aspetto finora trascurato degli studiosi dell'Ottocento nostrano: a torto, viene da dire, perché in quegli affari finanziari, nuovi, rischiosi e qualche volta finiti in perdita, esordiva una borghesia che, disertando gli usuali investimenti indulgeva all'attrattiva delle forme affascinanti del mondo industriale emergente, voltava le spalle ai titoli della rendita pubblica e incominciava a occuparsi di filande, di ferrovie, di battelli a vapore, funicolari e grandi alberghi. Il cambiamento degli indirizzi ideali e pratici dei ceti facoltosi e dirigenti, anche in un paese appartato e minuscolo come il TiclOO di allora, offre un tema di grande interesse per lo storico e il sociologo.
Quarant' anni di preparazione della ferrovia furono contrassegnati anche da a)?procci e studi, conobbero progettazioru serie e offerte subdole o utopistiche e lunghe trattative politiche, né rifuggirono da controversie e litigi. La materia era inedita, all'inizio mancavano le strutture tecniche, le certezze giuridiche, e a tutto occorse 'provvedere. Anche nel Ticino gli avvocatl che ebbero nuovo lavoro, diverso da quello d'ogni giorno, minuto e di non grande rendimento, assaporarono il piacere della clientela importante, dei forti interessi in gioco: i più affermati fra loro, luganesi i più, divennero i fiduciari
28 di grandi e piccoli faccendieri venuti da
lontano, e per essi stesero domande e memoriali, contratti d'associazione, trapassi di concessioni, atti di transazione e via di seguito: ci vollero anche gli interpreti e per la lingua inglese, ch' era allora pochissimo studiata, si stentò a reperirne sulla piazza, come prova il fatto cbe il povero Cattaneo, sempre disponibile, si ]?restasse a tradurre per conto del ConSiglio di Stato incartamenti originali provenienti da Londra. Anche per questa via, con le sue lusinghe e le sue insidie, il mondo della moderna civiltà europea bussava alle porte del Cantone.
Grande è, per comune giudizio, l'impatto che la ferravia del Gottardo ebbe sul turismo, e anche qui conviene precisare e distinguere. Il Ticino, coi suoi tre passi alpini maggiori, San Gottardo, San Bernardino e Lucomagno, da tempo immemorabile offrl alcuni itinerari obbligati ai viaggiatori diretti dal settentrione d'Europa al mezzogiorno o viceversa. Valicare uno dei passi impervi, procedendo poi lesti e senza concedersi sosta, fu materialmente im possibile prima che i trasferimenti delle persone divenissero assai, più celeri, praticamente fino all'avvento della ferrovia.
:Cindustria dell' ospitalità in tutta la zona alpina vantava tradizioni antiche quanto i viaggi collettivi o individuali a lung~ percorso, che nep}?ure nell~ epoche piÙ contrastate e pofitlcamente lOéerte del basso medioevo si persero mai del tutto. Sempre aveva continuato a muoversi gente a' ogni condizione sociale e risorsa di mezzi, dal sovrano atteso in altre corti all'ambulante carico della sua merce, dal giovane che andava a coronare i suoi studi sui luoghi della classicità latina, dal prelato diretto a Roma allo spazzacamino che vendeva la sua arte in paesi lontani. Ognuno di questi viandanti sapeva di trovare per strada quanto gli conveniva, fosse l'ospitale convento dotato di foresteria gradita ai pellegrini o una locanda confortevole o un' osteria o una taverna o infine almeno \in alloggio di fortuna. Da Lugano a Bellinzona, a Biasca, da Olivo ne ad Airolo, in ogni tempo la mappa dell'ospitalità potè dirsi la carta stessa delle grandi comunicazioni di transito.
Alcuni alberghi godevano di eccellente reputazione nel mondo dei viaggiatori esigenti che se ne passavano il nome, ostentavano stemmi e testimonianze rilasciate alloro passaggio da personaggi illustri: ma la premurosa accoglienza non era quasi mai bastata a trattenere gli ospiti più del minimo tempo indispensabile. Viaggiare costituiva allora una vera pena, il richiamo dei luoghi attraversati era minimo, tutti mostravano una gran fretta di rimettersi in cammino verso la meta ancoralontana. All'ostello, al più, si chiede- ' va una buona cena e un letto riposante,
fieno ben asciutto per i cavalli, magari un pronto cambio di traini. Gli alberghi più quotati erano stazione per la diligenza o garantivano essi stessi fa disponibilità di vetture per viaggi anche fino a Basilea da una parte e a Milano dall' altra.
Cosl fu per secoli, cosl era ancora pienamente in età di restaurazione, né si può dire che all'inizio del nuovo secolo le cose fossero mutate del tutto poiché il cavallo seppe resistere per decenni prima di arrendersi alla ferrovia e all'automobile.
Anche l'esercizio dell' albergo offriva un'attività largamente integrata in lavori collaterali e conservava struttura domestica anche ~uando i più intraprendenti di quei locali vollero procedere coi tempi, trovarono troppo modesta la vecchia bella denominazione di locanda e presero a chiamarsi Hòtel alla francese e magari addirittura Grand Hòtel, con qualche esagerazione.
Molti locali passarono di padre in figlio per più generazioni, ma nep'pur quelle erano strutture economiche immobili o refrattarie all' evoluzione del costume, O tanto meno chiuse come in un' antica corporazione di mestiere. A scorrere le inserzioni che ricorrono nei giornali dei primi decenni postrivoluzionari si coglie anzi l'impressione cile una certa animazione percorresse il mercato alberghiero poiché erano abbastanza frequenti le compravendite e i trapassi dì licenze; inoltre, accanto alla maggioranza di albergatori in proprio, si registravano già casi di conduzioni in affitto.
A metà secolo poi, mentre il numero di alberghi di vario rango disseminati nel Cantone era cresciuto, molti di essi stavano mutando le loro strutture, chiamate ad esaudire le richieste di una clientela in parte essa stessa di nuovo orientamento. Ai soggiorni brevissimi e obbligati si andavano aggiungendo quelli abbastanza prolungati e non legati a ragioni di stretta necessità. Insomma nasceva allora il turismo modernamente inteso. Il sensibile miglioramento delle comunicazioni stradali con i mezzi tradizionali, invogliante ora ad affrontare più lunghi tragitti, e soprattutto il sorgere e l'estendersi presso ceti più numerosi di una passione nuova per la montagna e per i laghi, per lo svago ael viaggiare, insomma un fatto di civiltà e di costume s'affermò già prima della ferrovia e rafforzò e in parte corresse e deviò il più antico gusto per la casa di campagna e la villeggiatura goduta nelle proprie possessioni, fra la soddisfazione del· la mietitura e il piacere della vendemmia.
Di quel processo articolato di trasformazioni, a volte repentine, più spesso graduali, che durò per vari lustri e lOcise sulle vecchie strutture all:>erghiere, spiDgendole a modifiche interne, selezionafldole e arricchendole di nuove motivazioni decisamente rivolte al turismo moderno, si possono dare alcune semplificazio-
ni, cominciando da Lugano che proprio allora si accinse ad assumere un ruoro di particolare rilievo in quel settore emer-gente. .
Giacomo Ciani che nel 1851 a un'asta di beni ecclesistici incamerati dallo Stato, aveva acquistato l'antico convento dei Minori Riformati, lo demoll per costruire su quel terreno l'Hotel du Parc, inaugurato cinque anni dopo sotto la direzione di Alessandro Béha, capolista degli albergatori di lingua tedesca che scesero in seguito nel Ticino. A Lugano molti viaggiatori continuarono però a frequentare il Washington, nell' attuale Piazza Riforma, che tuttavia, quando il governo si trasferiva a Lugano per il turno sessennale, chiudeva alla clientela e cedeva i locali agli uffici dell' amministrazione cantonale.
La ferrovia era ancora in preparazione allorche fra il '60 e il '75 si aprirono altri alberghi di tipo nuovo anche in centri posti ai margIni del grande transito. Sul San Gottardo nel '66 sorse l'Hotel du Mont Press; nel '72 si misero le prime pietre di un albergo di puro diporto sul San Salvatore, l'anno dopo venne bandito il concorso per la costruzione di un albergo nel più alto dei tre castelli di Bellinzona, che avrebbe potuto rivaleggiare con l'antica Cervia ma non ebbe fortuna. Poi venne la volta dell'Alpe di Piora, di Rovio, di Biasca, di Giorruco, di Magadino con l'Albergo del Vapore, punto d'approdo dei battelli che risalivano il Verbano da Arona. Nel '75, grazie all'iniziativa di un colonnello Dotta, anche Airolo ebbe quello che venne detto il primo vero albergo del villaggio, erede della più semplice Osteria della Croce Bianca. Quasi contemporaneamente - e costitul un piccolo evento per l'ardimento stesso dell' idea - il dottor Pasta inaugurò il suo albergo posto a 1200 metri d'altitudine sulla cresta del Generoso. :CHotel Olivone è del '79, mentre dieci anni dopo, e merita una citazione privilegiata, anche se è già fuori del nostro orizzonte, perché è testimonianza dei tempi mutati, a Lugano le sorelle Borella annunciavano 1'apertura di una pensione per sole signore e signorine. Forse la sola località per la quale la ferrovia operò come maggtore sollecit~one alla n~cita quasi ~m~ata di u~ tunsmo staglOnale fu Faldo: allòmbardi dovette sembrare un sogno poter raggiungere le Alpi in poche ore di treno ininterrotto, e per quasi trent' anni, fino alla prima guerra mondiale, a Faido gli alberghi dei Pedrini, il Milano e il Suisse, raccolsero le loro preferenze. A Locarno il Grand Hotel Palace dei Balli (1875) con la déPendance di Bignasco, si annodò invece alla catena dei grandi alberghi di Stresa e Pallanza che, favoriti dalla navigazione a vapore, negli anni Settanta molto contriDuirono alla scoperta delle bellezze del Verbano.
Nel 1880 si tentò una statistica degli alberghi cantonali giudicati degni della qualifica: e risultò fossero una ventina con circa 1400 letti e un piccolo esercito di dipendenti: pochi o tanti, secondo che nel raffronto si pensi alla situazione di mezzo secolo pnma o a quella di oggi.
Sulle condizioni in cui versava 1'attività manifatturiera del Cantone Ticino dai tempi di Franscini in poi, è stato scritto abbastanza, e qui si vuoI aggiungere soltanto qualche suggerimento interpretativo.
Punto fondamentale di riferimento, almeno per la prima metà del secolo, rimane pur sempre la netta prevalenza del settore primano nel quadro del commercio interno ed esterno, dell'occupazione e della formazione del reddito cantonale. La maggior parte della popolazione nel primo Ottocento viveva dell' agricoltura o dell'allevameto e tutte le strutture sociali erano adeguate a un ciclo economico che traeva linfa dai valori della vita rurale. Le statistiche, obbligate a procedere per compartimenti netti, poco e male riescono a cogliere per quei tempi le numerose situazioni intermedie nelle quali le categorie delle professioni e del. mestieri si compenetravano e confondevano. La divisione del lavoro, con le inerenti specializzazioni, era scarsamente praticata nelle classi inferiori, come del resto in ogni società dominata dalla piccola agricoltura, e larghi fenomeni di autoconsumo e di economia di baratto variegavano la vita
delle campagne. :Coste era anche mercante, a volte cavallante, quasi sempre contadino, il fabbro e il falegname tenevano un piede sulla terra arata, la bottega di paese vendeva un po' di tutto e da sola non bastava ancora ad assicurare un pur ridotto tenore di vita a un nucleo familiare che, specialmente se numeroso, come spesso allora accadeva, doveva ingegnarsi inseguendo ogni occasione di guadagno integrativo. Molti lavori erano precari o stagionali, come la trattura senca o le stesse migrazioni mercantili o di mestiere nei paesi europei. Nei borghi maggiori e nelle cittadine si potevano reperire piccole officine e laboratori di vano genere, ma quasi tutti avevano modesta dimensione e modesta attrezzatura, come se ne incontravano ancora dappertutto in epoca nella quale il lavoro prevaleva sul capitale, la lavorazione in serie non aveva ancora scalzato l' artigianato e 1'approvvigionamento in centri industriali più o meno lontani, più che dai dazi protettivi era frenato dalla lentezza e dall' alto costo dei trasporti.
A metà secolo il numero dei motori installati nelle manifatture ticinesi - in-dice quasi infallibile del grado di industrializzaziohe di un paese - era ancora esiguo e la rivoluzione industriale, con le prospettive dell'opificio accentrato, della razionalizzazione produttiva, del largo impiego delle macchine e dell'inserimen-to 10 mercato allargato di vendita i cui li-miti andavano spesso oltre i confini dello Stato, sembrava del tutto estranea alle di- 29
30
mensioni, alle risorse e soprattutto alla vocazione dd paese. Il cantone era bensì ricchissimo di acque scorrenti che avrebbero potuto forrure la forza alle pale e ai motori dell'industria tessile ordinata con nuove conformazioni tecniche, sull'esempio di quanto era già avvenuto in altri cantoni svizzeri e, a due passi da qui, nella vallata dell'Olona, ma la manifattura nuova ed espansiva del cotonificio non tentò . neppu~e l'~pproc~io; e nemme!l0 quell'lfloustrla slderurgtca e meccaruca che a sua volta tenne a battesimo l'immenso sviluppo economico registrato in mezza Europa nel ventenno della grande crescita, 1880-1900 circa. Chi sperò che la ferrovia rinnovasse J?rofondamente gli indirizzi del sistema lfldustriale ticinese dovette ricredersi. Una ferrovia, è ben noto, da un lato proietta verso altri mercati la produzione interna, dall'altro espone a!la concorrenza il consumo nazionale. E un doppio gioco, e solo caso per caso si può concludere se nel comp~esso l'attivo abbia superato il passivo o vlceversa.
Con il 1882 non s'apre nel TiCino la fase della vera industnalizzazione, bensi una lunga parentesi dominata dalla lenta crescita di una serie abbastanza fitta di piccole e un po' meno piccole imprse a bassa intensità di capitale e scarso valore aggiunto che trovarono spazio in un tessuto economico più propenso al terziario
che al secondario. Quell'anno il cantone aveva 1929 operai di fabbrica e soltanto 316 di essi erano maschi, il resto donne. Tre anni dopo si censivano nel cantone 17 anonime lfl tutto, con un capitale globale di 7,2 milioni di franchi, incluse le banche, le imprese di trasporto, le aziende di servizi pubblici.
La spiegazione di <luel gracile sviluppo venne presto identificata: il doppio confine, si disse, che soffocava il paese: a sud barriera politica ed economica alzata dalle tariffe doganali imposte dall'Italia dopo le revisioni tariffarie del 1878 e del 1887, a nord barriera economica J?er il consistente alto costo dei trasporn e le soprattasse di montagna caricate dalla ferrovia ai prodotti ticinesi pes~ti. Fors~ però v'era anche altro da aggIungere. E un fatto significativo, che in mezzo secolo, dal 1837 al 1888, la popolazione residente nel Ticino passi da 114 a 126 mila abitanti con un miserabile tasso/d'incremento di circa il 2 per mille annuo, e che nello stesso intervallo il numero dei ticinesi registri addirittura un calo di 4.000 unità. Natalità, nuzialità, emigrazioni ed immigrazioni diventavano fattori sempre più importanti di sviluppo sociale: e una buona ricerca di demografia storica, condotta con criteri rigorosi e moderni, aiuterebbe meglio a capire quello che avvenne allora e a correggere certi giudizi un po' troppo perentori.
Anche per questo, si veda la tesi di I. Schneiderfranken con la ricca bibliografia, e si aggiunga magari il,Piacevole saggio di E. Motta, Dei vecchi alberghi ticznesi ed in ispecie dt quello della 'Cervia" di Bellinzona. Alla Biolioteca cantonale di Lugano, molte schede e segnalazioni facilmente reperibili.
Per una storia demografica del XIX secolo
La complessità delle relazioni tra demografia e struttura socio-economica è ormai una acquisizione derivata dalla teoria malthusiana dei limiti demografici imposti dalle risorse alimentari. Del resto la distinzione stabilita dagli studiosi di demografia storica tra vecchio e nuovo regime demografico, fa riferimento rispettivamente ad una società pre-industriale e rurale e ad una industnalizzata e urbanizzata.
I fenomeni caratterizzanti la storia della popolazione del Ticino dell'800 sono ancora molto vicini a quelli riscontrabili nel vecchio modello demografico, le cui caratteristiche salienti sono l'alta mortalità, l'alta natalità e il matrimonio tardivo, condizioni tipiche di una società con limitate risorse, scarso livello tecnico e lenta distribuzione commerciale. Dopo il 1910 si ha il passaggio al nuovo regime con la caduta della mortalità ed una sostenuta crescita naturale. Solo ora il Ticino si allinea con la maggior parte dei Cantoni e con l'Europa, ma questo ritardo non impedisce di raggiungere rapidamente quella che viene definita la fase matura di questo regime e' che corrisponde a quella attuale di bassa mortalità, bassa natalità per effetto della contraccezione, invecchiamento della popolazione e crescita lenta.
Nell'800 il Ticino è ancora condizionato da una situazione economica, sociale e geografica sfavorevole ad una moderna evoluzione della sua popolazione, presentandosi come un smgolare esempio nella varietà dei sistemi demografici dell'Europa pre-industriale.
Prima di affrontare la trattazione delle variabili demografiche ed esaminarle in relazione alle condizioni socio-economiche, è o]?portuno fermare l'attenzione sulle fontI che permettono l'indagine demografica di questa regione, perché hanno condizionato gli studi e i loro risultati, che sono ancora parziali: ci si muove quindi spesso nel campo delle ipotesi che necessitano una verifica più ampia1•
I:età statistica, in demografia, inizia con la regolare e periodica compilazione di censimenti e con l'istituzione dello stato civile; i primi sono delle fonti che permettono dì indagare sulle caratteristIche della popolazione in un preciso momento, ma non tutte le statistiche tratte esclusivamente dai censimenti sono sempre di buona qualità, per gli inevitabili errori ed omissioni nelli. fase di raccolta dei dati; fondamentali perciò, per conosce.t:e i movimenti di una popofazione, sono i registri di stato civtie. Per il Ticino, la difficoltà principale nella compilazione di statisticIie soddisfacenti sul lungo periodo
- le vicende demografiche permettono una lettura solo nella lunga prospettiva, quindi anche questo scritto deve oltrepassare i limiti cronologici della cartella - consiste nella mancanza di dati omogenei.
Già introdotta con ritardo in Svizzera, la statistica ha trovato in Ticino molte difficoltà ad entrare nella mentalità dei funzionari, anche se proprio il Ticino ha avuto in Stefano Franscini uno dei più convinti assertori della sua utilità nell' amministrazione della cosa pubblica. Nei Conto resi del Consiglio dì Stato si trovano spesso recriminazioni per la trascuratezza dei Comuni nella raccolta e trasmissione dei dati sulla popolazione in occasione di censimenti o della pubblicazione di tabelle dei movimenti delle nascite, morti e matrimoni. Ancora nel 1852 si legge: «In un modo o nell'altro è da provvedere che al rimarcato dissesto sia riparato, quanto più presto il meglio, imperocché molto grave, anzi necessario alle Municipalità ed al Governo che sia ben ordinato e tenuto al corrente il Ruolo della Popolazione ... »2.
Un primo passo importante è segnato dal provvedimento federale del 3 febbraio 1860, che stabiliva censimenti generali della popolazione ogni 10 anni, nel mese di dicembre. Qualche stima globale della popolazione del Cantone ebbe luogo anche prima del 1860. Fulvio Bolla nelle sue pubblicazioni elenca le valutazioni che precedono i censimenti federali, ma questi dati sono di scarsa utilità, infatti così conclude: «Manca insomma una precisa definizione che dia senso determinato ai numeri trovati, i quali non esprimono né la popolazione presente a un dato momento, né quella residente, né quella ticinese»3.
Si annoverano anche due censimenti federali prima di quella data: il primo,' del 1837, non è altro che una raccolta di dati forniti dai comuni senza controlli e verifiche da parte della Dieta; in più entrano nel computo anche i Ticinesl momentaneamente o definitivamente assenti. Il secondo è quello del 1850, voluto e preparato da Franscini. Esso è da considerarsi il primo vero censimento effettuato simultaneamente in Svizzera (18-23 marzo) in cui venne censita solo la popolazione residente, che è ancora l'unica conteggiata nel 1860, mentre dal 1870 in poi si procede anche alla stima della popolazione presente.
Il ritardo è sensibile pure per le statistiche dei dati dello stato civile, per cui non siamo in grado di risalire molto addietro. Nel 1837 Franscini nella sua «Svizzera Italiana» lamenta: «La poco o niuna cura che finora si è avuto in quanto a tirare gli opportuni rilievi sul risultato delle anagrafi, ha fatto il non cale tali e tante operazioni che riesce ora im possibile di offerire alcun che di sicuro mtorno
ad importantissimi obbietti concernenti l'economia della popolazione ticinese»4. Si conoscono questi dati solo per il 1838, 1850, 1851, 1852 oltre a quelli raccolti dallo stesso Franscini per il 1837. Il provvedimento cantonale che impone a tutti i comuni la compilazione dei registri delle nascite, morti e matrimoni è solo del 27 giugno 18555. 1.0 Stato avoca a sé un compito lasciato finora ai parroci, che del resto lo avevano assolto in genere con sollecitudine già da due secoli e mezzo (purtroppo l'uso dei registri parrocchiali come fonti per la demografia storica richiede un lungo lavoro di spoglio, dato che erano tenuti per scopi pastorali e non statistici).
Gli sforzi congiunti del Cantone e dell'Ufficio federale di statistica, fondato nel 1860, permettono di avere regolari pubblicazioni di questi dati demografici nell'«Annuario statistico svizzero» dal 1867, anche se non sempre dati federali e cantonali coincidono. Alla maggior parte di tali inconvenienti rimediò la legge federale del 23 luglio 1870 sulle rilevazioni statistiche ufficiali e quella del 24 dicembre 1874 sullo stato civile.
Gli indici più significativi che possiamo trarre dalla serie dei censimenti e che ci permettono di tratteggiare un primo quadro demografico sono: il tasso di crescita annuale, il numero medio di eersone per famiglia, le piramidi d'età, ti rapporto di mascolinità.
Il tasso medio di crescita annuale dedotto dalla tabella I, risulta essere maggiore nella prima metà dell'800 (6,6%0) che non nella seconda metà (3,3%0); quest'ultimo dato è ben inferiore alla media svizzera (6,4%0).
Basso è il numero dei componenti per famiglia: da 4,16 nel 1850, sale a 4,59 nel 1870 per tornare a 4,16 nel 1900, con medie pIÙ alte nelle zone pianeggianti e collinari di Mendrisio e Lugano, più basse nelle zone di montagna di Blenio, Maggia, Leventina, specie intorno al 1888 e 1900.
La ]?iramide d'età è invece una rappresentazlOne grafica da cui è possibile individuare rapidamente la struttura di una popolazione secondo l'età e il sesso. I dati dei censimenti relativi al secondo '800, permettono di costruire vere piramidi con base allargata tipiche di una situazio-ne di alta natalità e mortalità. Dunque l'abbassamento della mortalità non ha, nel periodo considerato, grande inciden-za, cosicché la proporzione della popolazione anziana in rapporto a quella giova-ne è di solo 12,6% nel 1860 e 19,7% nel 1900 (per un confronto si consideri che nel 1970 è pari al 44,2%). La mortalità catastrofica è cessata in Ticino, come nel re-sto dell'Europa, nel XVIII secolo, ma nel XIX molte malattie infettive colpiscono ancora con regolarità la popolazlOne. La 31
GRAFICO I: la popolazione dd Ticino, anni 1860 e 1888: piramide d'età.
Fonte: ROMERIO E, L'é1IolulÌon de la populalÌon et de la populalÌon aclÌve au Tessin, 1850-1970. Comparaison avec la Suisse. Genève 1980 (memoire).
32 Trasporto del grano (tenuta di Vincenzo Tavernctti a Gonza/es)
M
I I
I I
~ I
I I
l
I l
I
85-80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4
85-80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4
~ I
I r
I
I
F
1888 I --
I l
I I
I J
I
persistenza di colera, vaiolo, scarlattina, Oifterite, tifo, tubercolosi, testimoniano l'insufficiente livello alimentare, igienico e sanitario. La povertà e l'ignoranza ag_. gravano poi questo panorama se considerato sOJ?rattutto in rapporto all' infanzia. e materrutà. Purtroppo i dati sono molto scarsi: non è ad esempio possibile calcolare un indice significativo come la speranza di vita alla nascita; i tassi di mortinatalità sono poco indicativi per la cattiva registrazione; stime precise sulla mortalità infantile le abbiamo solo per il 1888 e il 1900. I tassi relativi a questo ultimo indice sono di 183%0 e 187%0 per il Ticino e di 157%0 e 138,8%0 per la Svizzera. Certamente la mortalità infantile mantiene alta quella ordinaria, che si situa sempre su valori superiori alla media svizzera a causa anche ael persistere di crisi alimentari.
Ma il fenomen,9 più macroscopko nelle piramidi d'età è quello della sproporzione tra i sessi, specie nel periodo 1860-1880. Non si tratta però di un effetto dovuto all'età, anche se la mortalità maschile è in alcune fasce d'età più alta di quella femminile, ma lo si deve collegare piuttosto al fenomeno esterno dell'emigrazione. Al momento della nascita i maschi sono in numero superiore rispetto alle femmine, ma nel gruppo d'età di 15-49 anni il rapp'0rto di mascolinità si abbassa incredibilmente intorno a 67 (il valore 100 indica la parità), esso salirà solo dopo il 1888 per effetto dell'immigrazione. Questo squilibrio con le sue inevitabili conseguenze costituisce il nodo della questione demografica del Ticino del-1'800.
Oltre che di una certa situazione. demografica i censimenti sono anche lo specchio di alcuni tratti socio-economici del paese; da essi si deduce infatti che nel 1850 il 65% del totale.della popolazione risiede nelle valli e solo il 16% negli agglomerati urbani e che nel 1870 il 58% della popolazione attiva è occupata nell' agricoltura (il dato corrisponoente per la Svizzera è pari al 42%), il 28% nelfindustria e il 13% nei servizi. Questi dati confermano la realtà di un Ticino rurale che non ha ancora superato le strettoie della spirale: lento sviluppo, scarsa popolazione ed emigrazione. I redditi, comunque sempre poco elevati, di gran parte della popolaZ1one provengono dalf'agricoltura, allevamento e selvicoltura; la famiglia contadina cerca di vivere con le sole risorse dei propri beni ma una lunga serie di ostacoli rende la realtà quotidiana ben difficile. Prima di tutto la terra stessa non è generosa: poche le pianure, pesante il lavoro in collina, non certo aboondanti i pascoli. tuomo e le tradizioni fanno il resto: incredibile il frazionamento della proprietà6 sia dei fondi che dei fabbricati, dei prati e degli alpeggi; la consuetudine del pascolo vago, che apriva al bestiame i
TABELLA I: la popolazione del Ticino.
Anno Popolazione
1808 88.793 1817 90.200 1824 101.567 1833 109.000 1837 113.923 1847 124.659 1850 1852 128.944 1858 130.698 1860 1870 1880 1888 1900
Pop. presente
119.619 130.77 126.946 138.548
Pop. residente
117.759
116.343 121.591 130.394 126.751 138.638
Fonte: BOLLA E, - La popolazione del Cantone Ticino >, estratto dal Bollettino della Società Ticinese di Scienze Naturali, 1926.
campi di solito in autunno e primavera, è un pesante retaggio che, come la presenza dei beni patriziali, impedisce ogni razionalizzazione. Il legis1atore dopo il 1850 cerca di superare questi anacronismi con le leggi sulfa permuta dei fondi, sulla ripartizione dei oeni patriziali, sul riscatto dei diritti di pascolo e sull'abolizione della «trasa", ma solo dopo il 1912 si delinea un successo nelle opere di raggruppamento delle terre.
Forte è perciò il richiamo dei paesi economicamente più attivi. Notoriamente si distinguono all'interno del fenomeno migratorio ticinese dell'800 due situazioni. La prima corrisponde all'emigrazione definitiva che modifica il bilancio naturale, che è pari alla differenza tra le nascite e le morti, nel senso che la popolazione è impoverita dalle partenze che non trovano compenso nell'tmmigrazione e, trattandosi di un fenomeno prevalentemente maschile, incide sulla sproporzione dei sessi. Il secondo tipo di migrazione è una secolare tradizione nelle vicende della popolazione ticinese e, anche se nella seconda parte del secolo aumenta quella definitiva transoceanica, rimane su livelli alti (5-7 mila persone coinvolte ali' anno) quella temporanea stagionale. Essa incide profondamente sulla vita dei villaggi che è organizzata secondo tempi che non possono prescindere dalla presenza di una J?arte degli uomini della comunità. Le V1cende economiche, sociali e religiose sono scandite da questi cicli migratori ed anche le vicende demografiche non si sottraggono alloro influsso, soprattutto per quanto riguarda i fenomeni di nuzialità e di fecondità.
Ma prima di approfondire questi temi demografici conVIene soffermarsi su alcuni aspetti di questo secondo movimento migratorio, per comprendere come
possa incidere cos1 significativamente sul numero e sulla struttura della popolazione. Occorre prima di tutto fare delle distinzioni. La migrazione invernale caratterizza il Sopra Ceneri, regione con uneconomia basata sull'allevamento. Durante l'estate era infatti indispensabile la presenza degli uomini per condurre sull'alpe il bestiame, che 10 inverno era accudito nelle stalle dalle donne. Nella zona agricola del Sotto Ceneri gli uomini si assentavano invece in estate potendo demandare alle donne il J?ur duro lavoro dei campi7• le crisi politiche, alimentari ed economiche unitamente alle calamità naturali come le inondazioni, che hanno colpito il Ticino tra il 1850 e il 1888, incrementano l'emigrazione definitiva ma non eliminano quella stagionale. I due fenomeni continuano a coesistere e i dati delineano due realtà geografiche ben distinte: dove prevale la migrazione definitiva, come nella Valle Maggia e nel Bellinzonese, minima è quella stagionale, contrario è il fenomeno nelle regioni di Blenio, Lugano, Mendrisio e Leventina. Verosimilmente la migrazione definitiva toccava le aree e le persone più povere e incapaci a far fronte ad eventi eccezionali.
I censimenti relativi a questo J?eriodo riflettono eloquentemente una SItuazione alquanto anomala. IlI. dicembre del 1870 1124% della popolazione maschile e il 23% dei mariti delle donne tra i 30-40 anni è assente. Quest'ultima cifra potrebbe essere più alta perché molte donne erano riluttanti ad iscriversi nella categoria delle .. donne sposate che non vivono col marito » per non essere assimilate alle separate o alle divorziate. Dai dati è possibile anche precisare che tra gli scapoli il maggior numero di assenze si situamtorno ai 25 anni, J?er i coniugati intorno ai 35 anni, per CUI si deduce che i celibi ri- 33
tardano l'età del matrimonio e gli sposati il momento dell' emigrazione.
Senza dubbio i dati relativi alla natalità caratterizzano meglio le conseguenze della migrazione sulla struttura demografica del cantone. Soprattutto se l'analisi quantitativa si rifensce alle due componenti che si distinguono a proposito della fecondità: la proporzione delle donne sposate e la fertilità legittima. Occorre anche precisare che, in assenza di contraccezione, due fattori condizionano il fenomeno: l'età media al matrimonio delle donne e la proporzione delle nubili in età feconda. Mancano purtropp? statistiche abbastanza ampie per indivtduare a quale età in media le donne contraggono if matrimonio. I dati tratti dai censimenti della seconda metà dell'800 non sono sufficientemente indicativi. Più eloquenti invece quelli che riguardano la proporzione dene nubili a 45-49 anni: la cifra è pari a una media del 25%, fenomeno molto ampio se si considera che siamo in presenza di una società in cui la donna non ha ancora una indipendenza economica e sociale. Il fenomeno è più marcato nel Sopra· Ceneri, le medie nella Valle di Blenio e I.eventina si aggirano rispettivamente intorno al 35% e 33%. Un dato eccezionale ma sempre eloquente è il 46% riferito al 1888 in Valle Maggia.
In Ticino, a differenza di altri cantoni svizzeri, non esistevano grosse restrizioni religiose e civili in fatto di matrimonio, perciò non resta che ritornare a quelleitmotiv che è l'emigrazione che allontana una forte percentuale di giovani in età da matrimonio. Ma se pur nel Sopra Ceneri vi è un uomo ogni due o tre donne, questa cifra si scontra con l'alta percentuale di non sposati a 50 anni. Il fenomeno, che è comune a tutta l'Europa dell'800, trova una spiegazione nel nuovo atteggiamento davanti al matrimonio e quindi alla vita che impone all'uomo di contare su un minimo di disponibilità economica prima di formare una nuova famiglia; siamo in presenza di un freno preventivo di tipo malthusiano. Il basso tenore di vita di chi rimane nei villaggi montani non incentiva certo il matrimonio.
La debole nuzialità incide in senso negativo sulla fecondità globale e questo indice complessivo non è poi sostanzialmente modificato dalle nascite illegittime che, se pur mal registrate, non dovrebbero toccare gli alti livelli riscontrati in Inghilterra. Se si considera poi la sola fecondità legittimaB ci accorgiamo che addirittura è la più bassa in Svizzera tra i cantoni cattolici e rurali. I cantoni che servono da confronto sono il Vallese e Uri i cui indici rispettivi sono di 0,770 e 0,990 per il 1870, il Ticino riscontra un dato pari a 0,675 vicino alla media svizzera di 0,692. La concordanza con quest'ultimo dato non è significativa perché sulla
34 media nazionale influiscono in maniera
determinante i cantoni urbani e industrializzati assimilatisi ormai al nuovo regime demografico.
La lontananza periodica dei mariti riduce nel nostro cantone la fertilità dei matrimoni, causando un particolare andamento delle nascite. S1 legge chiaramente nel grafico I il rapporto tra la distribuzione dei conceplffienti sull'arco dell' anno e le migrazioni stagionali. Per approfondire questo tema, sarebbe indispensabile poter contare sui dati relativi alla prima maternità, all'intervallo tra le nasCIte e all'ultima maternità; probabilmente dovrebbero essere ancn'essi influenzati dal movimento migratorio. Un altro campo d'indagine ricco di informazioni sarebbe la famiglia, unità base del comportamento demografico e quindi specchio della realtà sociale e ottimo modello per l'analisi di entità più complesse.
Ma al di là dei limiti statistici e delle necessità di approfondimenro, il guadro demografico della seconda metà dell'800 ticinese si delinea con sufficiente chiarezza nelle sue caratteristiche principali e nelle sue interdipendenze con l'ambiente socio-economico, permettendo di arrivare alle radici della società e contribuendo a completare la comprensione di altre fonti storiografiche.
1) Lim,itiamo la bibliografia a tre studi, due di demografia e uno di demografia storica. Ilprimo è quello di BOLLA FULVIO, «La popolaz1One del Canton Ticino », estratto dal: Bollettino della Società Ticinese di Scienze naturali; fascicoli I, II, III, 1926, 1927, 1928, che rappresenta il primo sforzo di sistematizzare i temi e organizzare i dati demografici. Ma i progressi della tecnica demografica negli ultimi decenni lo rendono ormai superato. Invece una fondamentale messa a punto della documentazione statistica basata su dì 'una solida tecnica de-
GRAFICO II:
mografica è il lavoro di licenza di ROMERIO FRANCO, L'ivolution de la population et de la populalion active du Tes.rin, 1850-1970. Comparaison avec la Suisse; Genève 1980.
Carticolo di V AN DE W ALLE FRANCINE, «Migration and fertility in Ticino>, in Population studies, voI. 29, n. 3, London 1975, è da segnalare perché costituisce il solo studio di demografia storica. Infatti l'autrice indaga sulle cause dei fenomeni demografici descritti quantitativamente tenendo presente il contesto economico, istituzionale e antropologico della regione.
2) Conto Reso del Consiglio di Stato della Repubblica del Canton Ticino per l'anno amministrativo 1852, p. 69.
3) BOLLA E, op. cit., fascicolo I, p. 3. 4) FRANSCINI S., La Svizzera Ilallana, 1837,
p.114. 5) Nel Bollettino Ufficiale della Repubblica e
Cantone del Ticino, atti dell'anno 1855, si trova il «Regolamento per gli atti dello Stato Civile>. In seguito alla legge del 17 giugno che regolamentava il matrimonio civile e la sua trascrizione, il 27 dello stesso mese viene emanato il regolamento relativo ai registri delle nascite e delle morti. Essi dovevano essere redatti in duplice copia, una per l'archivio municipale e una per quello notarile, con repertorio alfabetico, con numerazione degli atti convalidati dalle fume del sindaco e del segretario comunale. Dei commissari di governo dovevano controllare la loro regolare compilazione e il rispetto dei termini di denuncia delle nascite (tre giorni) e delle morti (venti giorni).
6) La consuetudine della rìpartizione dei beni familiari tra tutti i figli è una delle cause di frazionamento; tanto più che chi emigrava non intendeva rinunciare alla proprietà anche se ciò comportava il pagamento delle tasse. Nel 1892 il 65% dei residenti all'estero pagava le imposte regolarmente, in alcuni paesi della Valle Maggia poi, gli assenti paganti erano in numero superiore ai presenti.
7) I dati relativi alla popolazione attiva tra il 1870 e il19Q0 dimostrano cne nel settore agricolo la proporzione delle donne è sempre superiore a quella degli uomini. Considerando invece la Svizzera globalmente il fenomeno è chiaramente opposto.
8) Gli indici di fecondità legittima riportati sono stati calcolati dividendo il numero delle nascite legittime annuali per il numero delle donne sposate in età feconda P5-49) presenti in quello stesso anno.
Nascite 1872-75, movimenti stagionali.
Blenio (migrazione invernale) ", I
Mendrisio (migrazione estiva) 180
120
100
80
60
Fonte:
I I
, I
I
I \
I \ \
\ \
G F M A M G L A S O N D
G F M A M G L A S O N D
Nascite
. Concepimenti
VAN DE WALLE E, Migration and Fertìlity in TiciTlf), in «Population Studies., 29,3 (London 1975)
Appunti per una storia dell' emigrazione ticinese oltremare
I
UNA STRAORDINARIA DOCUMENTAZIONE
Una rigorosa sintesi della storia dell'emigrazione ticinese d'oltremare non è ancora possibile allo stadio attuale della ricerca. In questi ultimi anni tuttavia., grazie ad una nuova sensibilità per i problemi della storia sociale che si è diffusa assai capillarmente, si sono recuperati cospicui materiali - anche minimi a volte ~ che permettono di gettare una nuova !uce sull'emigrazione: sicu~amente il1?iù Importante fenomeno soao-economico di questi ultimi due secoli. Il riordino dei materiali dell'Archivio federale relativi all'emigrazione svizzera dopo il 18501
rende ora possibile un nuovo approccio storiografico con l'inserimento della emigrazione ticinese in un contesto molto più ampio di storia politica e sociale della Svizzera e delle implicazioni diplomatiche internazionali.
Inoltre il sistematico recupero di insostituibili testimonianze provenienti dagli «archivi» privati dei diretti protagonisti comincia a dare i suoi frutti. Con le migliaia di lettere ora disponibili non solo si può misurare, con una certa dovizia di particolari, la dimensione umana del problema migratorio, bensì anche studiare i più complessi aspetti legati all'evoluzione della mentalità collettiva., dei cambiamenti della proprietà privata in raP1?0rto agli scombussolamenti demografia, oppure valutare più criticamente la mobilità sociale nei Paesi d'immigrazione dove la ricchezza accumulata in decenni di lavoro ha favorito un rapidissimo inserimento dei contadini in una società sostanzialmente aperta ai valori della democrazia e della libertà individuale2.
Alcuni risultati concreti di questa nuova sensibilità storiografica nei confronti della copiosa documentazione che si sta raccogliendo un po' dovunque si possono fortunatamente constatare anche da noi. Risale appena a gualche mese fa l'acquisizione per l'Archivio di Stato della più importante raccolta di documenti privatI concernenti l'emigrazione ticinese3.
Moltissime famiglie possiedono preziosissimi materiali attraverso i quali possono essere meglio studiati molti aspetti del secolare trend che ha portato decine di migliaia di artigiani e contadini, borghigiani e vallerani di tutte le regioni del paese, a operare al di fuori degli angusti confini politici. La salvaguardia di queste fonti diventa un dovere imprescinOibile per tutti coloro a cui sta a cuore la forma-
zione umana e storica delle future generazioni.
Del resto basta gettare anche un rapido sguardo alla più aggiornata bibliografia dell' emigrazione ticinese per convincersi dell'importanza del tema. Gian Pietro PawlowSki ha recentemente raccolto e ordinato 558 schede riguardanti opere, pubblicazioni varie, articoli di riviste ecc.4• Questa ricchissima e praticissima guida alle future ricerche documenta l'esistenza di testimonianze di natura diversissima: dai rapporti ufficiali alle biografie, dalle opere ili circostanza a quelle statistiche, dai 1?amphlet partitici alle memorie, dai dian e epistorari dei protagonis.ti .ai pri~ e fatalmente provvisori tentatiVI di slOteSI.
L'allargamento del territorio dello storico5, l'applicazione dei più aggiornati metodi di analisi dei documenti6 e la messa in correlazione dei dati riguardanti il Ticino con quelli più ampi acquisiti dalle recenti indagini storiogran.che europee e mondiali7, permetteranno in futuro l'elaborazione di una nuova storia dell' emigrazione ticinese che dovrà necessariamente prendere in considerazione il processo parallelo dell'immigrazione. Solo inserendo la storia della nostra emigrazione in quella molto più complessa (e anche più importante per le implicite problematiche attuali, quindi di p'iù lunga durata!) dell'immigrazione con il conseguente cambiamento radicale del tessuto demografico, potremo pretendere di tracciare alcune coordinate dello sviluppo socio-economico di una regione posta tra l'immobilismo periferico caratteristico delle regioni alpine e il dinamismo dipendente dagli stessi grandi assi di transito delle merci e degli uomini.
D'altra parte sarà solo confrontando il nostro minuscolo ma significativo caso locale con alcuni fenomeni demografici di ben più vasta portata storica quali ad esempio ìl popolamento forzato della Siberia., il più libero accesso alla frontiera statunitense ricca di vitalità e di contraddizioni, o la composita messa a coltura di vaste aree attorno al Rio della Plata., nel Brasile o sui fianchi della Cordigliera andina., potremo evitare di soffocare questo essenziale capitolo della nostra storia nelle secche di una Frovinciale evocazione memorialistica ad uso esclusivamente ticmese.
II
UN RAPIDO QUADRO STATISTICO: AUSTRAUA, CAUFORNIA, ARGENTINA
Il Ticino non ha dato all'America centinaiadi intellettuali come tanti altri paesi d'Europa., fuggiti dopo le fallite rivoluzioni del 1848, o durante il nazismo, e che hanno contribuito a rivitalizzare le scienze e le arti oltre Atlantico. Dalle nostre vallate non sono neppure partite le folle affamate scacciate dilla carestia della patata come dall'Irlanda., dai pogrom dell'Europa orientale o dalla miseria endemica da certe sacche arretrate dell'Europa mediterranea.
Gli emigranti dell'arco alpino si contano in numero assai ridotto rispetto a quelli di altre regioni e, in genere, preferirono gli insediamenti nelle campagne agli slum delle metropoli industrializzate.
Diversamente da quanto era avvenuto in molti altri Cantoni svizzeri dove 1'emigrazione oltremare era già stata assai consistente nel XVIII secolo, in Ticino il fenomeno è sconosciuto praticamente fino alla metà del secolo scorso; a quel momento il Cantone contava 117'000 abitanti.
Durante il decennio 1850-59 emigrarono oltremare 4227 ticinesi. Una ripartizione annuale permetterebbe di meglio articolare il fenomeno, ma è ormai appuratò che le partenze in massa si ebbero fra il 1854 eil1855, con una netta preEonderanza verso l'Australia e la California. Cresciuta a dismisura negli anni critici del blocco austriaco, l'emigrazione subì un duro contraccolpo dovuto non solo alla tremenda esperienza australiana., di cui si ebbe notizia certa solo a partire dal 1855, ma anche perché le regioni locarnesi che maggiormente l'avevano alimentata erano ormai esauste, spremute demograficamente e finanziariamente, e quindi non più in grado, almeno per qualche anno, di sostenere nuove partenze8. Il flusso riprese vigoroso dopo il 1865, specie negli anni immediatamente successivi alle catastrofiche alluvioni della fine di quel decennio.
Ad un periodo di forte emigrazione ne seguì uno relativamente più calmo; per gli anni attorno al 1870-75 esso coincise con il cambiamento di potere politico av-
'":P.
35
36
venuto nel Cantone. Più che della politica interna si dovrà però tener conto delle limitazioni all'emigrazione introdotte dagli Stati Uniti e dello sviluppo delle industrie e del commercio in molti Cantoni svizzeri, dove, in misura sempre maggiore, trovarono lavoro i ticinesi. Ma il periodo 1880-90 registrò il totale parziale più elevato; quasi 9000 emigranti oltremare, mentre durante il decennio successivo lasciarono il Cantone solo poco più di 4000 persone. Le partenze aumentarono di nuovo nei primi anni del nuovo secolo con una media di circa 600 espatri all' anno tra il 1900 e la prima guerra mondiale che, ovviamente, ridusse di molto gli effettivi. Si ebbe ancora qualche vampata consistente nel periodo postbellico, ma l'emigrazione oltremare cessò di essere un fenomeno rilevante per la storia ticinese a partire dalla grande depressione degli anni trenta.
Sotto e Sopraceneri sono decisamente diversificati per quanto riguarda le destinazioni. Gli emigranti dei distretti meridionali preferirono l'Argentina o altri Stati dell'America latina dove si diedero alle professioni più svariate, riuscendo - non pochi - 10 paesi dove i pionieri europei potevano facilmente operare, a farsi una buona posizione9 •
Tra il 1850 e la seconda guerra mondiale partirono verso la California circa 30'000 contadini del SOl?raceneri lO e quasi 12'000 sottoceneriru si recarono in America latina. Molti ticinesi arrivati nei centri europeizzati dell'Argentina, del Cile, del Paraguay o dell'Uruguay, si integrarono assai bene tra le maglie della borghesia imprenditoriale che da secoli, a quelle latitudini, deteneva le leve di comando di tutte le attività industriali e commerciali.
:Cincidenza di questo importante fenomeno fu fondamentalmente positiva per l'economia ticinese proprio perché Oai. numerosissimi ranch che gli emigranti riuscirono ad acquistare e a gestire per generazioni sulle Coste del Pacifico e dalle varie imprese commerciali attive negli Stati attorno al Rio della Plata arrivarono cospicui capitali a migliorare il tenore di vita di chi era rimasto a casa. Anche se un mancato investimento dei risparmi nelle regioni più bisognose di sviluppo economico fu fatale per il futuro di arcune valli alpine, sicuramente molti risparmi degli «zii d'America» poterono essere capitalizzati grazie alla innata perspicacia dei contadini e dei borghigiani.
Come si è visto l'emigrazione ticinese· oltremare raggiunse il suo apice proprio durante il decennio 1880-1890. Nonostante differenze locali e temporali significative, la nostra emigrazione non rappresenta che un caso particolare di quella svizzera che proprio nello stesso decennio conobbe la punta massima di partenze verso gli Statl Uniti. A sua volta l'emi-
grazione svizzera segul i ritmi e le convulsioni di quella dell'Europa nord-occidentale, specialmente tedesca e scandinava.
Quando invece, a partire dalla fine del secolo, si riversarono nelle Americhe le consistenti ondate di emigranti provenienti dal Mediterraneo, dai Balcani e dall'Europa orientale, gli effettivi annuali degli espatri ticinesi erano già ridotti, e di molto, grazie alle t!'asformazioni socioeconomiche che la ferrovia del San Gottardo aveva portato almeno lungo l'asse principale del Cantone. :Cevoluzione del numero e dell'attività delle agenzie di emigrazione documenta assai bene la trasformazione che avvenne nel Ticino tra la metà dell'Ottocento e la prima guerra mondiale. Al momento della prima ondata migratoria, legata da un lato al possente richiamo dell'oro australiano e californiano, e, dall' altro, alla crisi alimentare che colpl cosl duramente le regioni alpine sovrappopolate, le agenzie d'emigrazione furono maggiormente attive proprio allo sbocco geografico delle valli. Il ruolo da loro avuto a Locarno negli anni del blocco austriaco ne è una palese dimostrazione 11 . Dopo l'apertura della galleria del San Gottardo un numero considerevole di agenzie' si installò nei principali centri ferroviari: da Chiasso a Bodio, passando attraverso Lugano, Giubiasco e Bellinzona. Ohre che a stipulare i contratti con gli emigranti locali, esse si diedero da fare per accaparrarsi qualche fetta del sempre più fiorente mercato italiano. Non si spiega diversamente l'interesse di queste agenzie (quasi tutte dipendenti dai grossi centri di potere finanziario d'oltr'alpe, come capiterà più tardi per le banche) nel mantenere un loro rappresentante nelle zone di forte emigrazione della vicina Penisola, e non già solo nelle finitime regioni di frontiera, bensì anche nell'Italia centrale da dove gli emigranti giungevano in Ticino prima di proseguire verso i più attrezzati porti francesi o inglesi per essere imbarcati sui veloci «steamers» diretti a N ew York o a Buenos Aires.
Molte prove di questa partecipazione all'organizzazione aell' emigrazione di massa si possono trovare nelle numerose inchieste amministrative o giudiziarie avviate dall'autorità federale contro diverse agenzie che in Ticino - come altrove in Svizzera - non rispettavano le leggi che la Confederazione aveva emanato in materia di protezione degli emigranti a partire dal 1880 per evitare <J.uelle odiose speculazioni che il «laisser faire» liberistico dei decenni precedenti aveva troppo facilp1ente tollerato in più di un Cantone. E certo che le lunghe discussioni sulla preminenza dell'uno o dell'altro fattore classico determinante l'emigrazione di massa (il famoso push and pull) non potranno che limitarsi a spiegare qualche caso particolare se prima non si sarà appro-
fondito il ruolo avuto da tutti gli operatori interessati al fenomeno migratorio: dalla l?olitica ferroviaria americana, agli investlmenti degli armatori, passando all'interno di quella capillare quanto efficace rete di drenaggio umano organizzata dalle agenzie. Può forse bastare la seguente annotazione. Tra il 1865 e il 1880 il prezzo del biglietto sulle rotte atlantiche dimezzò. Più che ai fattori esclusivamente tecnici (riduzione del consumo di carbone e costruzione di navi più capaci) la ragione è da ricercarsi nella spietata concorrenza fra le compagnie marittime di trasporto che trovarono un accordo solo verso la fi~e del.sec?lo; gr~e ad esso .poterono p01 gestlre 1 traffiCi 10 un regime di assofuto monopolio.
Alla speculazione dei liberi trafficanti di "carne umana» e alle lusinghe delle agenzie interessate si può solo contrapporre - quale magra consolazione - la politica dei regimi totalitari di ogni epoca storica, di ieri come di oggi, che utilizzava la forza più che la seduzione per spostare o trattenere gli uomini. Lo stuOio degli insediamenti in Siberia, prima e dopo la rivoluzione d'Ottobre o anche solo gli spostamenti forzati di milioni di uomiru nell'Europa orientale (senza parlare della tragedia nell'Estremo Oriente) dovrebbero almeno convincerci della politica del «minor male» praticata negli Stati occidentali.
III
«TANTI SI LAMENTANO DELLA CAUFORNIA CHE ASPETIANO SEMPRE CHE ASCIUGA IL MARE PER POTER TRAVERSARE A PIEDI»
Così scriveva il 16 agosto 1893 Pietro Sciaroni di Brione s/Minusio al fratello rimasto a lavorare la terra degli avi 12; e la contorta costruzione sintattica non adombra per nulla la struggente nostalgia per la piccola patria abbandonata. Nostalgia peraltro alimentata dalle conseguenze di una delle crisi congiunturali di fine secolo che periodicamente colpivano la Costa del Pacifico nella sua pur straordinaria corsa al successo economiCO.
Vale forse la pena di seguire la vicenda personale di uno dei tanti -giovani che hanno lasciato il Sopraceneri perché attirati dalla quasi mitica Califorrua: un grande paese che offriva lavoro a tutti e lasciava balenare qualche concreta speranza di rompere il cerchio infernale di una misera sussistenza non più mitigata, nella seconda metà del secolo scorso, dalla tradizionale migrazione periodica verso l'Italia o gli altri Stati europei.
Pietro Sciaroni aveva contratto il solito e quasi indispensabile debito agli inizi del 1889; uno degli anni marcanti per
l'emigrazione oltremare con 1242 espatri. Nella Contea di Sonoma erano già fiorenti molti ranch di ticinesi partiti all'epoca ruggente dell'oro. Parecchi fra coloro che avevano guadagnato qualche dollaro nelle miniere della Mother Lode o del Nevada avevano approfittato della messa a coltura di vastissime zone situate nelle immediate vicinanze di San Francisco per accaparrarsi qualche buon pezzo di terra.
Osservando alcuni vecchi catasti della stupenda regione collinosa attorno a Petaluma e nella parte occidentale della Contea di Marin si rimane impressionati per la foltissima presenza di proprietari ticinesi distribuitt fra qualche ranch italiano, portoghese o americano. La prospettiva per i giovani appena arrivati in California dopo una rapida traversata dell'Atlantico e aver percorso le grandi Pianure sui comodi vagoni della Central Pacific non era delle più allettanti. Appena il tempo per assaporare dal Ticino Hotel i divertimenti della metropoli del Far West e poi via per i ranch isolati oltre il Golden Gate nelle Contee di Marin, di Sonoma e di Napa a mungere le mucche degli altri.
La storia di Pietro Sciaroni «mericano» era iniziata proprio cosl, come tante altre nella speranza di poter rimborsare i denari della «tichetta» 13, e tornare a Brione con un po' di dollari.
Il 18 maggio 1889 in una lettera alla madre si legge:
Vi faccio sapere che ho abbandonato il primo padrone per motivo si po dire che hisognava lavorare giorni e notte che era impossibil-e il far la vita lavoro finora non mi è ancura mai mancato, il mestiere a monger vacche credo che non lo potrò resistere se trovo altro lavoro' tralascio da mongere. Vanno in più cinque mesi da che sono partito dalla Patria a mé pare veramente che sia cinque giorni il tempo mi passa velocemente e credo che passerà ancora più in fretta per l'avvenire. Gli avanzi di quest'anno sarà pochissimo il viaggio non lo potrò nemmeno pagare, però non temete se Dio mi dà la salute si non è quest'anno è unaltranno. Adesso ho pensato di mandarvi 5 O franchi quelli li adoperete per far tagliare il fieno sul piano in steme alla lettera troverete la cambiala di 50 frs. che poi con quella cambiala potrete andare a prendere fuori i denari sulla bancha. Amareggiato per il duro lavoro del
mungitore che non gli permette - come sperato - di far fronte agli impegni del contratto, qualche mese dopo sembra già progettare 11 rimpatrio.
lo lo dico chiaro se la va di questo passo metà tempo di California li ho già latto perché è più le tribulazioni che lt avanzi. (20 ottobre 1891). E al fratello desideroso di raggiunger
lo in California cosl consiglia all'inizio dell'anno successivo:
T,,~MO sP.cs.t.....a
ilA IUI\.EI , Al.I 0111, m:, IU' ......
I~_.~ .... "'- ... _ ... I ~ . ...... ...........a.~ ......... lotn~ __ 1
,o.....,. ju • • J) l«' . ... ,~
~ .. ~ .. ,. .a,."""", 4'~ " . ! - .
• )ti cu. i "-..na · .. ~ .....
0fI!I ..... ~ ....... 1iI ....... "',....,.6.rf ... ~. ................. -. "" ..... _ .. _,._., I l .......
" . .. . , .... w.. IO
--,~ .. ~". ._~ .......... ,..,...,..
Per altro che voi sapere il guada8'l0 di tJ..uesti Paesi io ti dico la verità, mtO caro Jratelw che in questi paesi mi è bisognato a lavorare un po a tutti i prezzi cioè ò già lavorato a 10 scudi al mese a 12V2a 15 a20 a 22112 a 25 a 30, e questa è la giornata che possono più pagare e anche secondo la capacità clell'uomo. Il lavoro fuori nei ranch comincia molto presto per scansarsi un poco di sonno, e ala sera si va a riposare verso le 9 ore o alle lO secondo la sveltezza del'uomo di finire ilsuo proprio lavoro che qui ciascheduno à ilsuo da [are. Non céftste di Natale non ce di far festa il primo dì dell'anno, non ce di far festa nemmeno alla Pasqua, nemmeno le feste corente ma bisogna sempre lavorare fino a tanto che tu termina fa tua stagione poi si sta due o tre mesi o anche di più a prendere un poco di riposo fino a tanto che si svuotano le scarselle di quel poco che si Guadagna, e dopo si torna al lavoro di prtma come asini. Ecco mio fratello, se vuoi sapere il tutto, questa è la California. La nei nostri parti si credono che cosa è la California, oh andiamo a vedere anche noi come fanno tanti degli altrii al momento che si ritrovano rui sono già pentiti, certo che la più parte d,cono che sono contenti della California perché lo vedono anche loro- lo sbaglio che ano fatto . Per chi si ostina a restare mungitore in
queste condizioni, le prospettive di successo sono nulle; bisogna decidersi a mettersi in proprio. La terra è abbondante, ma occorrono soldi per pagare l'affitto
l l''' . • liono
'o • n • • JI
Il. e '" Il 1
e per comperare bestiame e attrezzature. Sciaroni ha coraggio e iniziativa e trova facilmente un po' di terra 14 necessaria per una cinquantina di mucche. Fa un po' di calcoli e espone il suo piano allo zio, rancere da parecchio tempo in un'altra località della California e quindi in grado di aiutarlo nell'impresa:
nel mese di Augusto voglio provare anch'io come fanno tanti dei nostri svizeri a rentare la terra, e comprare le bovine che si chiama deri ranch che ci vedo molto più guadagno siché ho quai poco denaro io,' e per comprare queste bovine vengono a costare $ 30 a 321J2 luna. Di 50 oovine ne avrei abastanza di poter fare qualche guadagno in tempo di 5 anni, di più che lavorare sotto gli altri e per comprare queste bovine e tutti gli utensili deT casaficio mi bisogna ancora Dolari 1.500 mille cinque cento, si renta la terra a 2,5 O due scudi e mezzo all'acra. Sei acra di terra netta senza che ci sia bosco, si calcola la pastura di una bovina sichl ci vole 300 acre di terra per nutrire alla pastura 50' bovine, una bovina da il frutto di 240 libre di bum entro la stagione e quando lo si vende a meno prezzo è di 20 soldi la libra e si alza perfino a 35 e 40 la libra, poi ci resta ancora il late per ingrasare i majali. Siché se io non vi discomoda, vi domando il piacere se potete aiutarmi quel che potete In mille cinque cento scudi che mi btsogna ancora, vi passo d'interesse al 7% scudi per cento e tutto linteresse che pagano qui In questi parti, se po- 37
tete mi farete un grande piacere e non dovete avere paura che li faccia perdere che in poco tempo potrò ristituire ancora il suo debito, questo debito di 1.500 andando anche non tante buone anate potrà eser pagato in tempo di due anni ""ho anche meno. Dunque mio caro zio fate il possibile di aiutarmi se potete e se non potete fatemelo sapere, lo stesso il più presto possibile. le difficoltà da superare per entrare
nell'ambito mondo dei «dairy business» sono però molteplici. La congiuntura non è affatto favorevole e gli affari non vanno .I?er il verso giusto. Gli impegni finanzian per far fronte all'aumento dell'affitto della proprietà diventano sempre più gravosi proprio perché i prezzi Gei prodotti stagnano, la concorrenza è spietata e gli interessi sui debiti diventano esorbitanti. In una lettera del 16 agosto 1893 Sciaroni spiega come mai non può neppure spedire a casa qualche soldo per aiutare i genitori.
Se potessi aiutarvi con· un po di moneta lo farei voluntieri subito, però al presente non posso, perché è andata male anche per noi questanno mè morto 7 vacche e 4 non ano avuto il vitello e di quelli vacche che non ano avuto vitello devo pagare 60 Franchi luna per la pastura di tutto l'anno, sicché là 240 Franchi che devo pagare,' oltre alla perdita delle altre 7. lo mete 100 Franchi luna così fà 700. e 240 che devo pagare in partenza di quei 4 vacche là in tutto 940 Franchi che ò perso entro l'anno senza nessun guadagno. Ora ne abbiamo ancora 41 vacche e quest'anno ho fitato un rancio io che devo pagare all'anno JeI fitto del rancio 3875 all'anno devo fare un debito di 4000, quattro mila Franchi, sempre colla speranza di andare gli affari "bene. Quest'anno è stato un ano gramissimo per tutti abiamo avuto una fl'an sicità però sjJeriamo in meglio, avrò ai trebulare anchio al pare de voialtri però bisogna farsi corawo listesso. La SItuazione peggiora ancora qualche
anno più tardi. La lettera seguente è indirizzata al fratello (1. maggio 1896).
Qui in questa California tuta la marcanzia di qualunque generç, non valle piu nulla, qui in questi paesi hora è peggio che dai vostri parti il burro vale 12 soldi la libra ossia 60 centesimi da voi altri, i porci vallono 3 soldi la libra ossia 30 centestmi il chilo, infine non se ne là abbastanza per le spese, la rendita della terra è carra, che noi altri jJaghiamo vicino a 6.000 sei mila Franchi all'anno, e poi 150 al mese di spese tra vivere e spese del rancio, si faresse qualche cosa di guadagno se la roba fosse un tantino piu carra. E il 15 giugno 1897 decide di vendere
la sua parte di proprietà a Brione per far fronte alle richieste sempre più pressanti dei suoi creditori.
Caro Fratello . mi scuserai se ti disturbo te 38 faccio sapere, tale quale, la mia intenzione
che io in questo afari del rancio ho 3.500 Franchi di debito tre mila cinquecento fr. 2.25 O due mila due cento cinquanta Franchi li devo pagare per il primo di settembre 1897 mi trovo quasi in imbarazzo. 4 anni fà quando il tempo era più buono quel afari che noi comerciamo nel rancio di bestiame solamente per la nostra parte valeva per 10.000 ateci mila franchi e hora siccome che il jJrodutto è venuto a buon mercato hora vale di più a venderlo la mia metà di 7.500 sette mila cinque cento, la moneta è venuta molta scarsa massimamente nei ultimo 4 anni. lo ti voglio domandarti un piacere se puoi trovare tre mila Franchi dà spedirmi per tre anni, e mandare il fitto annualmente per quel che vale e che io li dò tutta la mia sostanza, a casa per sigurtà. per questo tu mi farai un gran piacere fare per me di non aver nessuna paura cbe in tre anni di tempo di poter pagare tale debito. lo venderei voluntieri però al presente non si potrà trovare il compratore e dun altra se si cambia il tempo avrà più valore. varda tu di f(lre il possibile di poter trovarli e spedirli di purefare una carta, un istrumento di ipoteca. I debiti contratti in un periodo di alta
congiuntura sono presto nmborsati; il lavoro produce ri(chezza e gli investimenti fortunati hanno permesso a molti di diventare proprietari di buone pasture o di terreni, trasformatisi più tardi in zone edificabili nel vorticoso sviluppo urbanistico del West. Accanto a parecchi casi di evidente successo economico in California si contarono tuttavia anche molte delusioni.
La lettura di un semplice epistolario ci informa che nel 1897, dopo anni di duri
s~cri?ci per. resistere ~li alti t~s~ ip~t~~Cl e al prezZI sempre pm straCClatl del tIPIci prodotti dell'allevamento, un rancere dovette chiedere l'aiuto finanziario dei parenti in Ticino per evitare il fallimento. Dal seguito delle missive scambiate tra Pietro Sciaroni e il fratello si arguisce che la sostanza immobiliare a Brione venne venduta per assicurare in qualche modo Ili: nuova proprietà acquistata in Califorma.
Caso singolo quello dei Sciaroni? No di certo per chi voglia leggere i copiosi epistolarI raccolti al di qua e al ili là dell'Atlantico prestando un po' d'attenzione anche agli aspetti economici che traspaiono più numerosi di quanto non si creda tra le formule stereotipate di saluto e le annotazioni sulla pioggia e sul bel tempo. Ed è proprio la serie più completa possibile ili tutti questi episodi, che singolarmente presi raccontano nient'altro che una vicenda umana, a permettere di compilare il complesso mosaico dell'avventura californiana, ricco di luci e di ombre, di successi e di delusioni.
Forse non ci rendiamo ancora perfettamente conto che queste testimonianze personali costituiscono veramente un prezioso strumento di osservazione per misurare gli effetti economici dell'emigrazione. Ma la ricchezza e la varietà delle valenze culturali popolari in esse contenute possono aiutarci a scrutare i meccanismI più o meno nascosti delle attitudini e dei comportamenti inruviduali, il flusso e riflusso delle pulsioni, dei pregiudizi, dei calcoli che hanno condizionato la vita quotidiana lungo il passaggio di almeno quattro generazioni di ticinesi legate direttamente o indirettamente all'emigrazione oltremare.
1) Gérald Arlettaz, L'émigration suisse outre-mer de 1815 à 1920, in -Studi e Fonti., pubblicazione dell'Archivio federale svizzero, Berna 1975, no. 1 p. 31-92; Em!g:ation et colonisation suisses en Amlriques 1815-1918, 1bid., no. 5 p. 7-236.
2) Gérald Arlettaz, L'intégration des émigrants suisses aux Etats-Unis 1850-1939, in «Relations Internationales ', 1977, no. 12 p. 307-325.
3) ~archivio messo insieme con grande amore e costanza dal defulito Mario Zanini di Bellinzona è stato recentemente acquistato dal Consiglio di Stato; indubbiamente esso rappresenta una straordinaria miniera di documenti per tutti coloro che vorranno, in futuro, occuparsi di questo tema.
4) Bibliografia dell'emigrazione tirinese (1850-1950), lavoro prc:sentat? al Corso tri~n~ale di formaZIone per bibliotecar1 documentar1stI per l'ottenimento del diploma cantonale (ed. c1clostilata 1982, 140 p.).
5) In due importanti volumi Emmanuel Le Roy Ladurie, Le Jerritoire de l'historien, Paris 1973 e 1978, indica quali sono i nuovi campi aperti in questi ultimi decenni dai ricercatori di punta: la storia demografica, il clima, il corpo, i sistemi sociali, ecc.
6) ] acques Le Goff (e altri) La nouvel/e histoire
Tenuta di Pietro Scattini (California)
Paris 1978 (in trad' italiana Mondadori, Milano 1980);]' Le Goff e P. Nora, Paire de l'histoire, Paris 1974, 3 voI. (anche in trad. parziale italiana, Einaudi, Torino 1981). Nel primo volume sono trattati i nuovi problemi che mteressano il ricercatore (la storia quantitativa, l'acculturazione, la storia dei popoli senza scrittura, ecc.); nel secondo i nuovi metodi storiografici (l'archeolo~a, l'economia, la demografia, l'antropologia religiosa, le scienze ecc.); nel terzo vengono passati in rassegna i nuovi oggetti che interessano lo storico (l'incosciente collettivo, il mito, le mentalità, il clima ecc.).
7) ~opera più recente per una visione d'assieme dei complessi problemi della storia dell'emigrazione è indubbiamente Les migrations internationales de la fin du XVIII s. à nos jours, pubblicata dalla Commissione internazionale di storia dei movimenti e delle strutture sociali con la collaborazione dell'Unesco, Parigi 1980, 703 p.
Per una sintesi aggiornata dell'immigrazione negli Stati Uniti si consiglia la Harvard Encyc/opedia o[ American Ethnic Groups, Cambridge, Massachusetts e London 1980, 1076 p. Il capitolo riguardante l'emigrazione svizzera è stato scritto da Leo Schelbert, autore di una EinftJhrung in die schweizeroche Auswanderungsgeschichte der Neuzeit, Ziirich
1976, 443 p., e docente di storia dell'emigrazione all'Università di Chicago.
8) Ad esempio la Valle Maggia perde agli inizi degli anni cinquanta oltre il 14% della popolazione con 846 partenze verso l'Australia e oltre 200 in California. Al salassa demografico è da aggiungere quello finanziario valutato a oltre un milione di fr. rimborsato, solo parzialmente, dagli emigranti d'Australia.
9) Si vedano i due volumi di A.O. Pedrazzini, L'emigrazione tirinese nel/'America del Sud, Locarno 1962, 440 e 310 p.
10) Rimane validissimo lo studio di M.E. Perret, Les co/onies tessinoises en Califomie, Lausanne 1950,310 p.
11) Cf. G. Cheda, L'emigrazione tirinese in Australia, Locarno 1976, VoI. I p. 151-181.
12) Le lettere di Pietro Sciaroni, provenienti dal Fondo Mario Zanini (no. 103), si trovano all'Archivio Cantonale di Bellinzona.
13) Dall'inglese ticket, biglietto. 14) -Rentare (affittare) la terra, e comprare le
bovine che si chiama deri ranch., cos1 scrive Sciaroni, semplificando la grafia inglese, dairy ranch: fattoria per la produzione di latte e latticini.
39
Gelsi e filande: la grande stagione serica
All'origine più remota di quel grandioso sviluppo della sericoltura che, a partire dal Settecento e si può dire per un paio di secoli almeno, fu if fatto più caratterizzante e incisivo dell' economia rurale di numerose contrade della zona subalpina, pare si debba porre, per i nostri paesi, l'iruziativa governativa e in ('rima linea la determinazione degli ultinu Sforza. Ma, per antecedenti che vanti, al varcare della età moderna, e per un pezzo ancora, il setificio, nei suoi vari momenti agricolo e manifatturiero, conservò dimensioni modeste che crebbero al crescere della società europea, al diffondersi della ricchezza, al rafforzarsi dei gusti e della moda, in termini di mercato, si può dire, all'erompere di una domanda di prodotti serici, non più ristretta agli usi del culto e alle esigenze di un ceto privilegiato e chiuso di nobili ed ecclesiastici.
Per molti sintomi concordanti vien da affermare che dopo la seconda metà del Settecento la diffusione del gelso procede rapidamente nelle campagne a nord del Po, spingendosi fino ai piedi dei contrafforti delle Alpi, con un moto dappertutto impetuoso ma insistente soprattutto nelle zone dell'alta pianura ove il gelso, come la vite, trovava la sua ambientazione 'più felice, lontano dalle acque stagnantl e fuori dalle lunghe stagioni brumose.
La sempre più larga disponibilità di foglia consentl un più intenso allevamento di bachi, e di h un impegno semindustriale di trattura che avrà la sua sede poco lontano dal cascinale e i suoi artefici nelle stesse maestranze contadine.
Nel trentennio precedente la rivoluzione anche nel Ticino meridionale l'industria serica, nelle sue fasi primarie e schiettamente agricole, comincia a dilatarsi, e si sa di bozzoli che già allora passavano il confine lombardo, attirati da filandieri più lesti nell'incetta: e anche di sete gregge prodotte in filandine del Sottoceneri che confluivano poi nel giro del commercio di Milano, la città avviata a diventare il grande centro di raccolta delle sete italiane e loro smistamento verso l'Europa centrale e settentrionale. Ma è dopo la fine delle guerre napoleoniche, nel clima ritrovato della pace, che la seta conquista nuove posizioni in un moto contlnuo e sostenuto di ascesa che coinvolge un volume rapidamente crescente di interessi agricoli, manifatturieri e finanziari, cittadini e campagnoli. Dopo il 1830 anche il villaggio del Mendrisiotto o del Luganese è così investito da un'animazione di lavoro e da un giro di affari economici che rompono il torpore cons~etudinario di una vecchia società agra-
40 na.
La famiglia contadina fu la vera protagonista di quella trasformazione. Sulle sue spalle caddero intanto il lavoro ('reliminare dell'impianto e della cura del gelsi, col minimo possibile sacrificio delle altre colture, quello della raccolta della fo: glia e, particolarmente assorbente, l'altro dell'allevamento dei bachi. Quando il nucleo contadino era legato alla terra da un contratto di mezzadria o comunque di compartecipazione, l'economia serica si svolgeva nelle strette di patti di concorso alle spese e divisione del raccolto fra proprietario e conducente, ch'erano sbilanciati a danno del contadino, come s'ebbe occasione di mostrare (v. cartella precedente). Quando invece il contadino lavorava in proprio, e tra le pieghe di una giornata assorbente riusciva a inserire un allevamento per un'oncia, poco più, poco meno, di semente (era assai raro che potesse andare oltre), in estate, a vendita di bachi effettuata, egli poteva racimolare il beneficio netto di alcune dozzine di franchi, e se tutto era proceduto senza contrarietà egli aveva ragione di reputarsi fortunato.
Distribuita in innumerevoli e sparsi fuochi, la bachicoltura portò ugualmente . nel mondo rurale una quasi rivoluzione, introducendo i primi 'pallidi segni dell'economia monetaria 111 un contesto di lavoratoriJoco usi a vedersi passare fra le mani . denaro contante, costretti com'erano da lungo tempo nelle angustie dell' autoproduzione, del consumo controllato e obbligato.
La raccolta serica risollevò un tenore di vita depresso, consentl qualche approvvigionamento straordinario, rianimò le fiere di campagna, specie quando giunsero a integrarla i proventi della successiva trattura. Il ciclo della trattura durava da sessanta a ottanta giorni, mobilitava schiere di donne e di giovinette, le retribuiva con salari cos1 miseri che, giu- . dicati coi metri di oggi, sembrano addirittura inverosimili. Nel 1865 da un'inchiesta svolta risultò çhe nelle filande si corrispondevano paghe orarie di 2,1 centesimI (con in pIÙ probabilmente una ciotola di minestra), riservate alle ragaz-
ze al disotto dei 14 anni, che non formavano l'eccezione, mentre paghe di 6 centesimi orari stavano già sulla media e andavano a donne esperte. Si trattava certamente di retribuzioni irrisorie, e tuttavia preziose ('er i contadini poiché, specie nelle famIglie numerose del tempo, la goccia s'univa alla goccia e tutte insieme formavano un rivoletto.
Sull' altro versante delle classi sociali, il mondo serico offrì opportunità nuove e mise in evidenza andie un gruppo di imprenditori più intraprendenti, guei proprietari fondiari che, legando CIclo agricolo e ciclo manifatturiero e mettendo insieme bozzoli propri e bozzoli d'altri, non disdegnarono di assumere la trattura e a volte anche la filatura, o torcitura, com'era detta. E fu a suo modo anche questo un sintomo di risveglio, in seno a un ceto abituato a campare del reddito agricolo, al più e in qualche misura integrato dai non lauti proven.ti delle professioni liberali o delle carriere di curia. Ceconomia serica fu più generosa di ('rofitti immediati verso possidenti, marufattori, agenti commercIali e speculatori che non verso le maestranze maggiormente sacrificate nel lavoro. Nelle campagne, s('esso proprio grazie alla seta, prese avVlO l'accumulazione del capitale che si volse poi a rischi diversi e fu strumento anche da noi di più rapida industrializzazione.
Per il Cantone Ticino, quando si 'prescinda da vicende marginali e si badi soprattutto alla localizzazione della crescita, due soltanto degli otto distretti ammini· strativi richiamano l'attenzione, e sono Lugano e Mendrisio. Secondo un dato fornito dal Conto-reso del 1872, quell'annc il valore della bachicoltura era attribuibi· le per oltre 1'83% ai due distretti meridio· nali. Bellinzona e Locarno ins~erne ne as· sorbivano il 14% appena, e il poco che re stava andava ai rimanenti 4 distretti (itl particolare Riviera). La preponderanzl della ('arte meridionale del Cantone no~ era sPlegabile tanto con argomenti di elima poiché si dimostrò che il gelso attec' chiva molto bene anche in I.event:ins. quanto piuttosto con la diversità dd·
le strutture agricole e aziendali e con il richiamo che ai confini meridionali esercitavano le vicine campagne e i mercati del Varesotto e del Comasco nell' epoca della loro piena fioritura serica.
Lo Schinz, una delle fonti ancora oggi più sfruttate per la conoscenza dell'economia ticinese alla vigilia della rivoluzione francese, nel suo viaggio a mezzogiorno reperiva a Lugano e Mendrisio segni di un'industria serica, ma non le attribuiva molta importanza rispetto ad altre attività primarie che davano allora il maggior apporto alla bilancia del commercio esterno cantonale, bestiame, formaggio, legnami, paglia. Ma già ai tempi di Franscini morti progressi erano registrabili, come prova il dato di 600 fino a mille operaie che nei mesi estivi erano dedite alla trattura. Franscini parla poi di 190 ballotti di seta greggia che partivano dal paese, e al tempo dello Schinz sarebbero stati 80 appena. Il ciclo serico «da un certo numero di anni ha ricevuto e riceve notevole sviluppo» affermavano ,fonti ufficiali per l'anno 1842. Le stesse che offrivano anche i dati relativi al 1841 della esportazione del settore, tratti dalle registrazioni daziarie:
foglie di gelso libbre 71.200 bozzoli 27.187 seta greggia 36 .. 179
Ma guai a prendere come definitivo queste cifre: per ogni libbra di seta greggia che sottostava al dazio d'uscita (che
non era J.>Oi proibitivo, trattandosi di un soldo milanese per libbra) ve n'erano chi sa quante che sgaiattolavano indenni in una linea di confine tortuosa, praticamente incustodita e apertissima al contrabbando. Quanto alle notificazioni fatte dagli interessati, sempre sospettosi e timorosi del fisco, non meritano fiducia di sorta. Ma il commercio dei prodotti serici con i cantoni tessili della Svizzera tedesca e ancor più con la Lombardia austriaca, era certamente cospicuo.
I contrabbandieri facevano, su e giù, i loro viaggi, portavano da qua a là o viceversa, secondo l'opportunità del momento, sementi e bachi, sete gregge o panni; gli incettatori al servizio di mercanti maggiori correvano le campagne alla ricerca di bozzoli per le filande che, in un'ampia e popolosa striscia posta a cavallo del coOfine politico, si contendevano la materia prima, sempre insufficiente rispetto alla domanda del mercato e alla capacità di lavorazione degli impianti. ~l commissario distrettuale del Luganese se ne lamentava: «La coltivazione del gelso, soprattutto da alcuni anni, ha preso un incremento il più importante, e lo prenderebbe di più se si nmediasse con qualche efficace provvidenza al monopolio col quale, specialmente nello scorso anno, negozianti èd incettatori di bozzoli hanno tentato di impedire un proporzionato alzamento del loro prezzo di vendita in relazione alle piazze estere" (Conto-reso 1843). Ma la fiducia nell'avvenire della
seta d~veva essere ben diffusa, se nel 1843 si fecero giungere dall'Italia ben 66.089 piante di giovani gelsi (ivi).
I:apogeo della bachicoltura s'ebbe nel Ticino verso metà secolo. Secondo una stima dell'epoca, intorno al 1850 650.000 chilogrammi di bozzoli sarebbero stati prodotti per un valore di 1,7 milioni di franchi. A quel momento la seta costituiva «il t>iù prezioso ramo di ricchezza" dell'agncoltura cantonale (TAMBURINI).
Da poche che erano un tempo, le filande divennero molte. Nel 1842 l'inchiesta federale su industrie e commercio ne aveva registrate 41, cosl distribuite in quattro distretti: Lugano 23, Mendrisio 15, Bellinzona 2, Locarno 1. In tutte, esse contavano 512 fornelli con la povera media di 12-13 bacinelle per azienda. A quella data risultava occupata una maestranza di 1144 unità, intenta a produrre 23.900 chilogrammi di seta, per un valore di un paio di milioni di franchi.
Il decennio successivo com'p1 un lungo passo, con progressi non disgiunti da miglioramenti tecnici e opportune concentrazioni aziendali.
La lunga stagione ascensionale venne bruscamente interrotta dalla serie di ma- ',: lattie che colpirono il baco da seta nella seconda metà degli anni Cinquanta: pri-ma fra tutte l'atrofia, ma si par1ò anche di calcino, di gattina, di flaccidezza. La decimazione dei raccolti arrecò alle campagne un danno monetario solo in parte com- 41
pensato dall' aumento dei prezzi dei bozzoli. li lavoro diminuì anche nelle filande, assillate dalla scarsezza della materia l'rima, i rurali persero una grossa quota dei loro p.roventi collaterali, e se ne disperarono; 1 mercanti ambulanti lamentarono il ristagno del commercio, la decadenza delle fiere.
Anche il Ticino corse alla ricerca dei rimedi. Il problema più assillante era quello della semente che occorreva reperire lontano, in sostituzione di quella infetta. Sorsero allevatori a tentare nuovi procedimenti, si misero in moto importatori. Enti pubblici, consorzi, associazioni, privati presero iniziative, come (ma è solo un esempio) la società che i fratelli Luigi e Paolo Lavizzari di Mendrisio costituirono con altri per l'acquisto di mille cartoni di semente che riuscirono a far giungere dal Giappone, dopo aver messo in moto il console svizzero di Y okohama e banchieri di Zurigo e di Milano per far giungere il denaro laggiù. I giornali dell'epoca abbondarono di disamine, di consigli, di
. avvertimenti e fecero spazio alle numerose inserzioni pubblicitarie ove negozianti vicini e lontani garantivano d'essere in possesso di eccellente semente fatta arrivare dalla Tunisia, dall'Anatolia, dallo estremo o prossimo Oriente.
Nel settore della trattura e della torcitura la crisi assolse la funzione di stimolo al rinnovamento tecnico, eliminando le imprese marginali, favorendo ristrutturazioni e ricambi direzionali. Le vecchie bacinelle a fuoco diretto vennero eliminate, sostituite da quelle ad acqua calda, e queste a loro volta dalle bac10elle a vapore. Le minuscole filande, non volendo o non potendo rinnovarsi, chiusero, e non fu un male. Nacquero imprese aventi conformazioni industriali e migliori impianti.
A Bellinzona la filanda Paganini e Molo (sorta nel 1834) assorbì la Cusa e la Bonzanigo: raggiunse una discreta dimensione, impiegando nel 1875 circa 150 addetti che entravano in opificio alle 5.30 e ne uscivano alle 19, ed erano gli usi del tempo. Chiuse nel 1886 per «mancanza di materie prime e di maestranze". A Lugano, Lucchini che fin dal 1854 gestiva filanda con annesso filatoio, continuò ad estendersi, rilevò la Oppizzi e nel 1883 occupava 500 persone, producendo 125 quintali di greggio.
A Mendrisio resÌsté la Bolzani-Torriani che disponeva anch' essa di filanda e torcitoio, mentre a Melano Salomon Gessner rilevò la vecchia filanda già di Fogliareli e le impresse nuovo impulso. Lo stesso Gessner fu l'iniziatore di un'impresa particolarmente longeva, la torcitura Segoma di Capolago, da lui fondata nel 1873 e l.'0i passata ad altre mani. Ma, si può dire 10 oreve, intorno al 1870 fùande e filature strutturate con criteri
42 mMerni e aventi sul centinaio o più di
personale, sia pure variamente occupato nel corso dell'annata, erano ormai abbastanza frequenti. Invece s'andava perdendo il ricordo delle filande d'un tempo, dotate di pochissime bacinelle, inserite magari in attività d'altro genere, come ad esempio la conduzione di una bottega di telerie, o similmente.
La tormenta della crisi passò infine; e con la buone sementi di bachi brianzoli o bresciani o locali e la ripresa del mercato internazionale, tornarono nelle campagne le fatiche e le attese di sempre. 111871 potè dirsi annata normale. Nell'impegno serico Luganese e Mendrisiotto tenevano seml.'re la testa, ma in altri distretti montuoS1 si guardava con interesse a quel lavoro e si pensav!r di inserirvisi. N efluglio del '71 a Cevio il presidente della Società agricola valmaggese incitava i suoi a «piantare ovunque un numero maggiore
. dì gelsi e a meglio accudire allo sviluppo del baco». La Leventina fra 1841 e 1844 aveva piantato 8.700 gelsi e Angelo Pometta si augurava che la Valmaggia se ne desse almeno altrettanti. La bachicoltura era considerata attività perfettamente compatibile con gli impegni del campo o della stalla e poteva offrire un buon antidoto ai flagello dell' emigrazione. V' era ancora fiducia, v' era in molti fervore. Nel '73 Ambrogio Bertoni allevava seme per bachi e lo vendeva; nell'81 l'albergatore Pasta sul Generoso ospitava cartoni di seme per l'ibernazione, come si legge, sempre in Gazzetta Ticinese.
Ma in realtà si trattò degli ultimi anni fortunati che prelusero alla decadenza. Alla pebrina succedette la diaspis pentagona che distrusse molti gelsi, e sarebbe stato male riparabile se altri fattori non operassero ormai contro la bachicoltura, a cominciare dalla diserzione delle forze rurali e dallo sfavorevole evolvere della congiuntura internazionale. La concorrenza asiatica era alle porte. Nei patti agrari le clausole relative ai bachi S1 tramandavano per stanca consuetudine senza vera passlOne delle parti. Nel 1909 il distretto di Lugano contava ancora 1224 bachiacultori, ma la loro produzione pro capite non raggiungeva in media i 25 chilogrammi di bozzoli freschi, ed era per di più in via di ulteriore contrazione. Le filande del Ticino presero allora a im portare bozzoli dall'Italia, ma era un approvvigionamento difficoltoso e caro. Il fenomeno era complesso e non si può veramente ricostruire la vicenda finale di un settore economico tanto importante, prescindendo dallo sviluppo di altri rami produttivi che di fronte illa bachicoltura ebbero un valore, dapprima integrativo, poi concorrenziale e sostitutivo.
Sul principio degli anni Sessanta si manifestò nel Ticino il proposito di estendere il ciclo serico a quel momento della tessitura che a settentrione, specie nei cantoni tedeschi, e a mezzogiorno,
nella provincia comasca, s'era brillantemente affermato. Nel Cantone mancavano gli apprendisti tessili perché mancava l'industna e le autorità pensarono di formarli nella pubblica scuola. Nel dicembre del '60 il Gran Consiglio stanziò i primi fondi per la creazione di una Scuola modello ili tessitura e dopo laboriose trattative ne sorsero anzi due, una a Locarno patrocinata dalla municipalità e vigilata Oallo Stato, l'altra a Lugano di cui furono presidente il benemerito in~. Beroldingen e segretario Carlo Lurati t in archivio v'è qualche traccia di una posteriore piccola scuola a Mendrisio).
Una decina di allievi era il traguardo cui la scuola di Lugano mirava, e otto-di~ ci furono i telai ch'essa ordinò a una nota fabbrica di Horgen. Il direttore cui affidare la direzione venne trovato, i telai presero a battere e i gros de Naples tessuti dagli apprendisti finivano al mercato zurigano.
Nel 1867 da Lugano Pasquale Veladini e Carlo Lurati lanciarono if manifesto di una Società ticinese di manifattura serica. Partivano da una premessa spesso coltivata in quei tempi da promotori di industrie nuove: -Noi aboiamo feconda produzione di bozzoli; ma ci mancano gli opifici di filatura; ma ci manca la fabbricaZlOne. Dobbiamo mandare altrove la seta per poi riceverla di nuovo ridotta stoffa, e quindi sprecar denaro in trasporti, e pagare un tributo di manifattura all'estero, mentre centinaia di ticinesi o si stanno colle mani alla cintola aspettando occupazione, o devono andar raminghi per il mondo in cerca di che campare la vita». La società invitò il pubblico a sottoscrivere le sue azioni di nominali franchi 200, e trovò consensi nel 'paese. ma il suo proposito di creare un'1Odustria serica a carattere semirurale, portando i telai al domicilio dei contadini o nelle abitazioni di liberi artigiani inurbati (secondo il grande esempio di Lione O quello, minore ma pure importante, di Como) giungeva a air poco tardiva. Il mondo dell'industria cercava ormai nuove strutture. La tessitura, anche del ramo seri co, era avviata verso il lavoro meccanizzato e di opificio, come insegnava l'antesignano cotonificio inglese, e come nell'Europa continentale più avanzata già si poteva avvertire.
Il lavoro diI. SCHNEIDERFRANKEN,Lenr dustrie nel Cantone Ticino, Bellinzona 1937, offre Jl migliore orientamento per abbondanza di riferi' menti e ricca, precisa bil>liografìa. Si vedano, po~ sibilmente, i giornali dell'epoca. Sulle scuole di tessitura, piccolo fondo in Archivio Cantonale, Bellinzona, Industrie ecc., cart. 1.
TI «nuovo indirizzo» e la Legge scolastica Pedrazzini
I liberali-conservatori, conquistata la maggioranza nelle elezioni granconsigliari del 21 febbraio 1875, comfletarono la loro vittoria due anni dopo, i 19 gennaio 1877, nelle anticipate nuove elezioni del Gran Consiglio cui spettava la nomina del nuovo governo. Esso lo elesse composto di consiglieri tutti dello stesso partito.
Obiettivo primario del «nuovo indirizzo» del partito, che il suo leader, Gioacchino Respini, voleva fosse rigidamente e integralmente a base confessionale, fu quello di cancellate dagli ordinamenti e dalle leggi quanto riteneva che i liberali-radicali, al potere nei 35 anni precedenti, avessero promosso e stabilito a danno dei diritti della Chiesa e del suo clero, e a offesa e impedimento di una libera, pubblica manifestazione e incidenza, soprattutto in materia scolastica, del sentimento e dei convincimenti religiosi del popolo: dei contadini e dei piccoli borghesi delle valli e delle campagne, specialmente, che avevano infoltito i suoi ranghi.
Si trattò di un'azione innovatrice e rivendicatrice proposta e imposta in una lotta combattuta, a seconda dell'indole e della statura morale e intellettuale dei contendenti in ambedue i campi, con nobile passione e meno nobile accanimento e anche vendicatrice ira. E anche questa nostra particolare vicenda sarà intesa se vista in relazione con avvenimenti e lotte che contempoaneamente si svolgevano a livello confederale e europeo, perché da essi culturalmente condiiionata. Erano gli anni in Italia del Concilio Vaticano I, della proclamazione dell'infallibilità pontificia, della presa di Roma e soppressione dello Stato pontificio, ultimi ili Pio IX e iniziali del pontificato di Leone XIII, del non expedit per i cattolici, cioè del loro impedimento, da parte dell'autorità ecclesiastica, ad essere eletti o elettori, autoisolati quindi, in una specie di aparthaid, nel giovane stato unitario liberale, respinto come creazione estranea ai valori della religione; erano gli anni nei cantoni confederati e nell' area germanica, del Kulturkampf, della lotta della «cultura» per il progresso scientifico, materiale e sociale contro il retrogrado «oscurantismo" religioso; gli anni in cui in Francia Jules Ferry faceva votare le leggi scolastiche che soppressero l'insegnamento religioso nelle scuole dello Stato.
Nell'ambito scolastico il «nuovo indirizzo" attuò un riordinamento degli studi con la Legge scolastica 14 maggio 1879 -4 maggio 1882. Essa sostituiva la legge scolastica dellO dicembre 1864 e fu chiamata Legge scolastica Pedrazzini dal nome del consigliere di Stato, capo del diparti-
mento della pubblica educazione, che la studiò, difese e fece approvare in parlamento.
Martino Pedrazzini, originario di Campo Valle Maggia, nato a Locarno nel 1843, imparentato con emergenti famiglie borghesi cittadine (la madre era una Franzoni e la moglie una Bacilieri), fu personalità di spicco nella classe dirigente del paese. Compì gli studi ginnasiali e liceali dal 1854 al 1861 nel Regio Collegio Convito S. Maria degli Angeli dei radri Barnabiti di Monza, meritandosi i premio dell'«effigie», cioè del ritratto a olio esposto nella galleria. Gli furono compagni di studi in quel collegio assai frequentato da ticinesi, il fratello Alberto e il cugino Giovanni e i fratelli Francesco e Fe-
. derico Balli. Fu in seguito due anni all'università di Pisa e altri due all'università di Torino dove nel 1865 si addottorò in diritto. Dal 1873 al 1890 fu consigliere nazionale; dal 1890 al 1917 fu docente di diritto pubblico e diritto ecclesiastico all'università di Friburgo.
Nel governo cantonale fu capo della pubblica educazione dal 1877 al 1884 conservandone in seguito la supplenza. Come direttore della giustizia e del culto portò a termine la soluzione della questione diocesana e confezionò la legge sulla libertà della Chiesa. Un notabile della destra moderata che per forma mentis e per qualità d'animo sensibile e conciliante pur nella fermezza dei suoi convincimenti religiosi e politici fu agli antipodi dell' autoritario, intransigente, dottrinario Gioacchino Respini, col quale si trovò perciò più volte in aperto contrasto: sigriificativo quello sulla questione della proporzionale che Pedrazzini auspicò anche con una mozione al Consiglio nazionale, persuaso che andava abbandonato il sistema maggioritario !>er il quale il partito vittorioso per un mlnimo di voti si attribuiva uno strapotere.
In quale situazione socio-scolastica il legislatore dovette intervenire risulta dal Messaggio governativo del 23 settembre
. 1878. La frequenza della scuola elementare non era ancora in tutti i comuni del tutto soddisfacente. Pochi anni prima, nel '72, il rapporto della commlssione della gestione aveva segnalato che" 2994 allievi non avrebbero frequentato scuola alcuna nel cantone, dei quali però solo 905 senza alcuna giustificazione»! Ora, una spiegazione di questa situazione il citato Messaggio la dava scrivendo che« soventi volte il padre e la madre di famiglia trovano un grande aiuto nelle piccole fatiche dei loro teneri figli, le quali fatiche, quando mancano, cagionano non leggero inconveniente nel governo della casa»; e addirittura oltre spiegare, il Messaggio sembra giustificare quando sentenzia che «lo Stato . .. non può né deve dimenticare che se il cibo della scienza è loro necessario per il tempo futuro, il cibo materiale è
loro indispensabile per il presente». La scuola veramente dell'obbhgo era per loro solo quella del duro lavoro nei campi! E stando coslle cose il problema non era di certo risolvibile con mezzi e accorgimenti solo scolastici, ma attraverso una promozione socio economica di quegli «umili»! Il legislatore nel suo Messaggio intravedeva il rimedio a questo stato di cose, «primo, col lasciare che il padre ili famiglia, dove può farlo, scelga egli stesso il maestro del suo figliuolo; secondo, coll'ordinare l'insegnamento primario in guisa, che nulla contenga, oltre ciò che più propriamente si può chiamare necessario nella vita comune».
Con il primo rimedio indirettamente si diceva che oltre il bisogno anche la sfiducia del genitore verso il docente e la qualità del suo insegnamento spiegava le negligenze lamentate, per la qUal. cosa -diceva esplicitamente il Messaggio - bene avevano fatto i consiglieri a «inaugurare nel nostro paese la libertà insegnativa", cioè la libertà di insegnamento che il nuovo governo, senza indugio, in un rovesciamento singolare delle parti, aveva con suo messaggio del 12 aprile 1877 proposto e con nuova legge del 18 marzo 1877 fatto votare in Gran Consiglio: legge aspramente combattuta dai radicali ritenendo che a valerIa non fosse nei prop'onenti un maturato senso di tolleranza, ti concetto che la libertà è indivisi bile e perciò si deve rispettare la libertà di chi la pensa diversamente fino a concedergli, nei limiti generali di determinate necessità della comunità statale, di organizzare
L'!J!/t IlIlIa i,';/ui"", (Ii II/la Sello/a J/ogi",.', CII/llu",,(,.
('29 ••••• i. lilTJ) =
IL GnA~ CO:\S!GUO "':I.U IUl'I'UC.\ .: CA!'tTO~E D~L TtclNO
sullll proposla IH:I. COXSlliLIO DI STATO
• .-eprl.1 Ari. I. \',ene i~l iluil . IIna Scnnla ~1~gi~lr~le canllln.l~
.. II .. scopo di pronttlcre di bnoni mJe$lri le scuole rlcl r .. lIllon~.
-'t'I. ~. A 'l"e~la Acuola sono ammo~i: l' I Dlae~lri e le mae~lre clellienlal'i minori ;ltenu
r"Jui:lHi IC;;3Ii. 2" Cllioro che a$pir~no ali" c~rica ,Ii maeAlru, purd,,;:
a) Abbiano COlllpilO l'ela ,li 15 anni e non ullrepassino i 30, cd abbiano lenula rCRolare condolla;
~) Presenlino un 1l1e$lalo ,Ii aver compilO COli
buon "Iccesso un cllr..o prepar.lnrio Ginnasiale, o 'I"dlo di UII:l 5cuol:l l1)a~~i(lre.
f. ~aranno I,,,rp. lmmcs$i '1,,"'li chu aves:<ero treIluentili' J:òliluli dO i:òlrtlziont! lltJCOllfl:ari:l pri~~i ud Cl"ltri, . VU"ch~ superino l'<·$,,,n. Ili .mllli.sione.
ArI. :I. Gli gllllii .Iella SCllu1.1 )I.,~islr.le ~i CORlI'iolt\l in dUd c\Jui annuali IH no\"t~ Ine:si ciascuno. •
1\ l'l'imo anflO i: ."eci"lmcnle ,·on:l.1cral0 alI' 1lnl' li,,liooc e l'crrezioll,,,nuolo delle clI~nilioni ,Ielle malerie propri.. delle Acuolu l'rim,rie, in ~nisa cho in esse Sii :01-licI'i r"~giung .. no il gradII d' blrllzione corrisilondallle al .\" ~!ll,n ,Ielle scuole ~innasi.1i iruluslri"li.
II Acconolo ~pcci,lImunlu allo sln.lio dclla l'e.lagogia o llel,,~ic.\ General~ ~ Il>eciale. ~d ~II' e!~rcilio l'rM;';').
l'er am~iLlue i co .. i s3r1 illlparlilo un iu~eGnaRlenlo leorico-pralico di agronomia e silvicollura.
Ari. 4. Quando si prc~enla"sero atliuI'i, che dagli ciaGli 43
un' educazione conforme ai suoi ideali specifici, ma solo un calcolo in vista di propri vantaggi sopraffattori. Scriverà Alfiedo Pioda ammettendo e insieme dissentendo: «La libertà di insegnamento è certo una libertà e si deve riconoscere che in teOria segna un progresso; ma i conservatori non ci scapltavano nulla ad accordarla, dacché miravano appunto ad arrire il varco ad alcune corporazioni religIOse insegnanti, le quali mIsero poi salda radice nel Ticino». Comunque fosse, il solo rimedio di poter far capo a un altro docente, praticamente la liDera scelta tra insegnante pubblico e privato, non poteva bastare e poteva anche sapere di abdicazione. E la nuova legge perciò suggeriva con il secondo rimedio di meglio commisurare l'estensione dell' insegnamento primario alle facoltà intellettive dei ragazzi, ciò che era certamente un saggio criterio didattico, e proponeva inoltre di suddividere le materie da apprendere in due categorie: materie obbligatorie e materie facoltative «che dovranno essere svolte, se non allorquando la conoscenza delle prime potrà ilirsi accertata nella intiera scolaresca": un procedimento che poteva anche favorire, pigrizia e inerzia collaborando, un livellamento in basso degli studi, specialmente quando la durata dell'anno scolastico, per circostanze speciali, poteva essere ridotto a « sei mesi intieri» ! Ed era circostanza che non doveva dispiacere ai comuni che mal volentieri si sottoponevano ai sacrifici per l'istruzione. Af punto che, trattando aegli stipendi, il nostro Messaggio pubblicamente denunciava che «alcuni comuni a danno dei rispettivi docenti, al mezzo di contratti subdoli, rei quali, mentre all'ispettore ed al Diparttmento dellaPubblicanducazione, da un contratto ufficiale risulta ossequiata la legge sull' onorario dei maestri, i docenti stessi, jugolati, per cos1 dire, da altra convenzione, le più volte verbale, o loro carpita in forma ili lettera o di simulata donazione, vengono effettivamente a ricevere una mercede che la legge non consente". Perciò provvidamente la legge Pedrazzini stabiliva una più efficace sorveglianza del settore primario e innovatrice fu la nomina di «un ispettore-cal'o generale per tutte le scuore primarie del Cantone" con sede presso ir dipartimento e con mansioni dì direttore tecnico, coadiuvato da 22 ispettori di circondario. Il discorso sul settore primario potrebbe qui agganciarsi a quello sulla formazione dei maestri nelle nuove scuole Normali allora trasferite da Pollegic a 10-carno; ma di ciò si parla in un altro contributo della Cartella.
Con la denominazione di «istruzione secondaria» la nuova legge comprendeva ~ eliminando il grado di «superIore» -le scuole maggiori, di disegno, il ginnasio, le tecniche e il Liceo cantonale. Le inno-
44 vazioni che la legge recava concernevano
innanzi tutto i ginnasi la cui frequenza e livello di studi, secondo la testimonianza di rapporti e circolari, offrivano motivo di preoccupazione e d'allarme; l'iniziale slancio di quelle scuole era evidentemente, a un ventennio di distanza, caduto. Nel 1874 una Commissione speciale composta da Romeo Manzoni, LUIgi Colombi e Giuseppe Curti aveva steso una relazione dalla quale risultava - scrive Giovanni Ferrari nella sua Cronaca del Liceo-Ginnasio di Lugano - «una diversa e generale deficiente preparazione .degli allievi che passavano al Liceo ... si suggeriva di impedire l'ammissione al Ginnasio di ragazzi impreparati e di non permettere di saltare le classi, come pure il passaggio al Liceo di allievi che non avessero compito regolarmente i corsi ginnasiali ... » . Ma ancora, e non par vero, nel 1879 una circolare del Dipartimento della P.E. «ai signori Direttori e Professori dei Ginnasi, Ispettori scolastici, e Docenti delle scuole elementari maggiori» costatava: «Accade soventi che si ricevano alle scuole secondarie allievi, i quali non sono peranco arrivati a quel grado di istruzione che è necessario per poterle freCJ.uentare con profitto. Talvolta sono i gerutori che, male consigliati, fanno istanza per ottenere cotali precoci ammissioru, e non sanno di quanto danno le possono tornare ai loro figli; imperroché, in quella guisa che uno stomaco debole si rIfiuta a ben digerire un cibo troppo sostanzioso, cos1 ad una mente cIie non ha conseguito sviluppo proporzionale riesce difficile trarre vantaggio da un insegnamento che progredisca per salti. Talora sono le Autorità comunali che affine di liberarsi dalla necessità di aprire nuove scuole elementari, favoriscono le dette ammissioni, dopo avere facilitato arbitrariamente il congedo dall'insegnamento primario. Infine i docenti stessi delle scuole secondarie hanno qualche volta la loro parte di colpa, sia pel aesiderio di insegnare a più numeroSI discepoli, sia per ovviare al pericolo di una eventuale soppressione della scuola che dirigono ... ».
Dal Rapporto della Commissione della gestione sull'amministrazione 1875, ramo Educazione Pubblica apprendiamo che il corso letterario era stato frequentato in quell'anno: nel Ginnasio di Lugano da 8 studenti e 4 uditori; nel Ginnasio di Mendrisio da 12 studenti; nel Ginnasio di 1ocarno da 2 soli studenti e 2 uditori; nel Ginnasio di Bellinzona da 1 solo studente. In complesso dunque 23 studenti e 6 uditori in tutto il Cantone; quel rapporto indica anche le spese sproporzionate sopportate dallo Stato! Per il Liceo, il medesimo rapporto, pur costatando buoni risultati, diceva che «riesce però sconfortante prendendo alla mano la tabella officiale, dalla quale risulta che solo 14 furono li studenti del corso filosofico,
con 4 uditori, e 12 studenti del corso di architettura, con 1 uditore»!
In questa situazione, o più giustamente ci sembra dire adeguandosi se non ada· giandosi a una tale situazione, il Messag' gio governativo proponeva inizialmente l'istituzione di un soro Ginnasio con sed( a Lugano «sufficiente ai bisogni del Cantone"; affermazione, quest'ultima, certamente sbagliata se si pensa ai numerosi giovani ticinesi che continuavano a diser' tare la scuola pubblica scaduta nella stio ma, privilegiando gli studi nei collegi pri· vati. Nell'argomentazione che accompa: gnava tale riduttiva proposta, troviamc la chiara indiretta ammtssione che così proponendo si intendeva favorire quelle scuole private; e ci sembra oltre il decoro so per 10 Stato e anche l'utile reciproce delle due scuole, se, come lo stesso Marci no Pedrazzini dichiarerà in Gran Consi glio, «i privati istituti per necessità deb bono avere di fronte istituti pubblici on de sorga la gara e l'emulazione". Ne Messaggio leggiamo: «Deve osservars ancora, come fiorenti istituti privati, il cui si impartisce il detto insegnamento trovandosi anche fuori di Lugano, si pui credere che quei giovanetti, i <J.uali nOI potessero frequentare il GinnasIO canto nale per un qualsiasi motivo, non peri mancneranno di altri facili mezzi per rice vere l'istruzione classica altrove". FaciJ però, nella pratica, solo per i figli delle fa miglie più agiate.
Inizialmente era stata intenzione de governo di istituire pure una sola scuoL tecnica per tutto il Cantone; ora il Mes saggio proponeva di «concentrare alme
no in due sole località» quel tipo di scuola. Nelle commissioni e 10 Gran Consiglio furono vivamente combattute le proposte governative, anche appellandosi alla famosa legge del 28 maggio 1852, per la quale era fatto obbligo allo Stato dì istituire, nelle località in cui erano sorti gli istituti religiosi soppressi, una propria pubblica scuola tecruco ginnasiale. E per una volta non eran solo ragioni di campanilismo, ma di diffusione di cultura che desse più largamente ai più un minimo vitale lOtellettuale. Il consigliere di Stato liberale-conservatore, Ermenegildo Rossi, padre dello storico Giulio, dissentlliberamente dal ragiqnamento dei suoi colleghi di governo, dicendo con efficace immagine che esso era «contradditorio, qualche cosa come se si dicesse: il popolo è travagliato da epidemie: sopprimansi le farmacie e le condotte mediche e se ne mettano due sole, una pel sopra, l'altra pel sotto Ceneri».
Il dibattito portò alla soluzione di istituire a Lugano un Ginnasio e, separata, una Scuola tecnica; a Bellinzona, Locarno e Mendrisio una Scuola Tecnica con aggiunta una sezione letteraria, alla condizione che il numero dei latinisti fosse almeno di sei. La durata del corso era stabilita di quattro anni, ma sarà portata l'anno seguente a cinque, con la riduzione a un anno del corso preparatorio. Per l'ammissione l'allievo doveva aver compiuto i nove anni, assolto la scuola elementare e pagato la tassa annua di venti franchi. La tassa di ammissione al Liceo era di quaranta franchi.
È interessante osservare che l'espressione «scuole tecniche» era nuova e sostituiva quella precedente di «scuole industriali ,.; e anche al Liceo il "corso di architettura e di agrimensura» veniva ora chiamato per la prima volta "corso tecnico»; si passava cosl da una dizione che alludeva chiaramente alla funzione più pratica di quei corsi come preparazione professionale, a un' altra che voleva meglio connotarli come iter scolastico verso ulteriori studi politecnici. E il grado, la «valenza» di questi studi tecnici era pure dalla nuova legge indicato nell'ordine loro stabilito negli elenchi delle materie nei programmi e negli attestati; scriveva tra lo scandalizzato e il mortificato, il direttore Ferri: «si doveva incominciare colla religione poi colle lettere, ultime le scienze».
Nell'ambito dei programmi la legge innovava con l'introduzione nel Ginnasio di Lugano e nel corso filosofico del Liceo dell'insegnamento del greco accanto a un più intensificato studio del latino e dell'italiano. Nelle sezioni letterarie di Bellinzona, Locarno e Mendrisio si insegnava solo il latino, senza per questo precludere agli allievi la contlOuazione degli studi al Liceo. Era con ciò manifesto l'indirizzo classico che si voleva dare ai corsi secondari e, implicitamente, la preferen-
za per una pedagogia dell'umanità rispetto a quella della nazionalità: una pedagogia, la prima, più resistente alle tentazioni innovatrici. Trovava consenso questo indirizzo anche in consiglieri dell' opposto partito; così il consigliere Airoldi faceva retoricamente «eco agli eccitamenti della Commissione perché si cerchi il mezzo di far rifiorire gli studi classici; la decadenza di questi studi è forse una delle non ultime cause J?erché nei tempi nostri non si incontra P1Ù quella vigoria di carattere e nobiltà dei sentimenti che istilla la conoscenza della storia antica e fa apprezzare tanto le gloriose gesta di Atene e di Sparta». Per meglio tendere a quell'ideale educativo, la legge sanciva nel Liceo e nel Ginnasio il principio della separazione dei due corSl; e perché ciò comportava per le fragili finanze dello Stato un onere maggiore, nel Messaggio si affermava «che se il vantaggio della J?Opolazione, in confronto al numero del giovani che profitteranno di codesto sistema, non sarà forse proporzionato al sacrificio, né il lod. Gran Consiglio né il Consiglio di Stato non possono dimenticare che il Cantone Ticino deve alla sua dignità ed al suo onore d'aver un istituto di studi letterari, per quanto è fattibile, perfetto».
Con quell'indirizzo degli studi si voleva anche soddisfare un sentimento e una volontà assai sensibili in quegli uomini conservatori federalisti, che volevano conservata l'individualità etnica latina della nostra gente; un sentimento che dettò il 14 giugno 1882 a Gioacchino Respini il fiero discorso sul «balivo scolastico» al Consiglio degli Stati. Purtroppo, questo culto delle humaniores litterae non lasciava più spazio nel curriculum scolastico del Ginnasio al tedesco, e in quello del corso filosofico del Liceo al francese e al tedesco.
Non era ancora maturato il concetto, né lo poteva ancora, che pure lo studio delle lingue moderne, come del resto anche quello di tutte le materie scientifiche, doveva e deve contribuire alla difesa della nostra etnicità: ne corregge semmai i difetti retorici, le assicura lo spazio vitale nelle attività economiche, professionali, civili e politiche della vita comunitaria cantonafe e federale.
Se senza francese e tedesco i nostri giovani che si recavano negli Atenei italiani potevano ugualmente continuare gli stuai, non lo potevano fare quelli intenzionati a proseguirli oltralpe nelle università e al Politecnico. Al Politec~co appunto l'ammissione e la frequenza era riuscita difficile negli anni precedenti Eer carenze linguistiche e anche scient1fiche; per giunta, proprio nel 1880 era stato soppresso a Zurigo il corso preparatorio dove per un anno gli allievi della Svizzera romanda e italiana ricevevano l'insegnamento della matematica e della fisica nella lingua francese. All' ono ing. Fulgenzio
Bonzanigo che lo interpellava in merito a quella soppressione, nella seduta granconsigliare del 25 aprile 1882, l'ono Martino Pedrazzini rispondeva testualmente con amara stringatezza: «Noi siamo un piccolo Cantone di cui pochi si curano là dentro e quindi quando venne soppresso il corso preparatorio al Politecnico di Zurigo non fummo consultati. Il Consiglio scolastico del Politecnico modificò il regolamento, il Consiglio federale appose la sua approvazione, senza interpeIlarci sull'opportunità del provvedimento; ecco in quali termini sta la cosa». Il Dipartimento curò la soluzione di questo nodo scolastico ampliando con la nuova legge scolastica il programma delle matematiche con la geometria analitica e descrittiva nel corso tecnico. Finalmente, migliorato l'insegnamento del tedesco e della chimica, dopo ripetute visite di delegati del Politecruco, nel18B8 fu stipulata una convenzione tra il Dipartimento della P.E. e il Politecnico federale per l'ammissione degli allievi del corso tecnico del nostro Liceo a quella scuola federale. Gli allievi del corsoletterario mancante della geometria analitica e descrittiva e del tedesco dovevano sostenere in quelle materie un esame integrativo.
La nuova legge, conformemente a quanto avevan fatto o faranno in quel decennio cantoni confederati, sopprimeva l'istituzione dei cadetti, sostituendola con la ginnastica, con la motivazione che «reclute le quali avevano frequentato gli Istituti secondari, e quindi la scuola dei cadetti, di ben poco si mostravano ordinariamente più avanzate nell'arte di fare il soldato, di quello che apparissero giovanetti, i quali non avevano mai frequentato questa scuola»; e il Messaggio Sl permette anche un'osservazione crltica all'indirizzo del militarismo che «nel nostro paese ha anche troppo, a nostro modo di vedere, sorpassato il limite entro il quale nella piccola Re,Pubblica elvetica esso avrebbe dovuto nmanere».
Altra innovazione ancora era l'introduzione nelle scuole secondarie del canto, e allude a una sua singolare applicazione didattica l'osservazione de Messaggio: "Questo insegnamento, oltreché proprio ad ingentilire gli animi, ci è parso 10 qualche modo inseparabile dalla ginnastica»! Nell'elenco delle materie i due insegnamenti figuravano infatti appaiati.
Ma la novità più vistosa del nuovo indirizzo scolastico fu l'insegnamento religioso che la legge precedente del 1864 limitava alle sole scuole elementari, mentre la nuova legge, nell' anno scolastico 1879-80, estendeva, sotto la sorveglianza dell' autorità ecclesiastica, a ogni grado e ordine di scuole: in tutte le scuole secondarie, Liceo compreso. In osservanza della Costituzione federale (art. 27 e art. 49) i genitori·o i tutori per gli scolari al di sot-to dei sedici anni, o gli scolari stessi, rag- 45
giunto il sedicesimo anno, ne potevano chiedere la dispensa. Non c'è dubbio che il paese nella sua stragrande maggioranza, non solo popolare, voleva quell'insegnamento; irifatti, nel 1880 su 1206 allievi di dette scuole 25 soltanto chiesero di essere dispensati dai corsi di religione; nel 1881 su 2222 solo 19. Naturalmente, quel che conta era la motivazione, e noi crediamo che essa era, nei più, quella stessa espressa nel Messaggio: «Noi siamo profondamente convinti, che se ci ha un'età nella quale lo studio della religione è necessario, questa è l'età in cui i giovani sono chiamati a frequentare gli studi secondari. In questa età, più che in altre, le passioni esercitano il loro fascino; in questa età i dubbi più pericolosi cominciano a sorgere, e il pane di una scienza incompleta, appena assaporato, senza la guida della fede può mutarsi in veleno ...
. .. Se fossimo chiamati a diffusamente trattare della opportunità dell'insegnamento religioso nelle Scuole nei p'resenti tempi, lieve compito ci sarebbe 11 dimostrare, come non sia più soltanto dalla Chiesa che lo si propugni, come argine allo irrompere de1le più malvagie e antisociali tendenze; ma e dai miscredenti stessi, inorriditi degli effetti che vien producendo l'educazione che ha fatto divorzio da Dio; e dagli uomini di Stato di Berlino e di Pietroburgo, spaventati dalle rivelazioni degli uomini dell' anarchia e del petrolio». Era, questa, una motivazione che assegnava a quell'insegnamento con troppa sicurezza e parzialità una funzione di remora, di deterrente a salvaguardia della tranquillità di un ordine politico sociale ritenuto situato dalla parte buona della barricata; a sua protezione dall'«irrompere delle più malvagie e antisociali tendenze" che eran }?oi le gravi questioni sociali, i primi mon del socialismo, per cui in quello stesso anno del Messaggio,
il 1878, Bismarck (lui stava dietro l'espressione «gli uomini di Berlino»), attenuando il suo Kulturkampf, vedendo nel socialismo una minaccia maggiore del cattolicesimo, aveva aperto i negoziati con il nuovo Papa, leone XIII, e sollecitato l'aiuto del partito di centro.
Non era forse, dunque, più che un giusto e auspicabile voler coniugare.il v: angelo con le culture umane, un arnschiare com}?romissioni degradanti a ideologia polinea, a strumento dialettico e provvisorio della storia, una Parola metastorica e sopratemporale? Ma a parte questa funzione, quell'insegnamento - e in quella concreta situazione storica e culturale dei cattolici non poteva essere diversamente - era per riuscire un luogo di catechesi parrocchiale, di azione pastorale per il dominio spirituale di «fedeli», ciò che era incompatibile con una visione laica della scuola. Si capisce quindi l'opposizione che quell'ordinamento incontrò in uomini che la loro formazione professionale, il positivismo della loro cultura, nonché il prestigio delle numerosissime scoperte e applicazioni scientifiche e tecniche di quegli anni, avevano fatti orgogliosi e persuasi che all'umanità fossero ormai riservate inarrestabili magnifiche sorti progressive; nell'illusione che bastasse insomma quanto era emblematizzato nel binomio ISCritto sulla bandiera del patrio Liceo.
E tanto più forte e scandalizzata fu l'opposizione quanto troppo spesso con nomine, destituzioni, provvedimenti amministrativi e con il regolamento di applicazione della nuova legge del 4 ottobre 1879, la volontà politica di imporre il proprio indirizzo fu anche più e meglio maiiifesta nei modi e nello spirito esclusivistici. Fu così, per esempio, con la nomina a direttore del Liceo ili don Giovanni Manera (Cadro 1832 - Lugano 1895) del
46 Locarno, cortile interno della Scuola Magistrale
cui modo di istallarvisi, «facendo sgombrare l'aula di fisica e gli annessi gabinetti», Giovanni Ferri nella sua Cronaca ci ha lasciato un l'ungente ritratto; e cos1 pure con la nomma a docente di filosofia e storia nel Liceo del ventisettenne sacerdote Giov. Battista Gianola (Bissone 1850 -Massagno 1914, redattore fino al 1896 del Credente Cattolico, autore di Antonio Rosmini e la Sacra Congregazione dell'Indice, Lugano 1881) la cui prolusione, Dio al cospetto della filosofia, riuscì un discorso apo[ogetico, perentorio e manicheo; più che svolgimento con vero metodo scientifico di domande filosofiche, una lista di errori da una parte e un elenco dall'altra di testimonianze di «sentimenti religiosi» proposti come risposte filosofiche ai giovani ili un'età «la cui caratteristica, noI dissimulerò, è la più cinica e schifosa incredulità». Un male, certo, non credere a nulla, ma' altrettanto lo è un possesso tropp'o anticipato di sicure risposte indiscutiblli, perché allora non rimane più spazio a un costruttivo dubbio filosofico e, quel che più conta, a una convivenza civile nel confronto insieme divergente e convergente com'è nella dialettica di ogni vero progresso.
G. Ferri, Cronaca del Liceo-Ginnasio di Lugano, Arti Grafiche già Veladini, Lugano 1920.
A. Galli, Notizie sul Cantone Ticino, LEI. Lugano-Bellinzona 1937.
G.B. Gianola, Discorso pronunciato il 12 novembre 1877, Tipolitografia cantonale, s.d.
E Rossi, Storia de/la scuola ticinese, Grassi, Bellinzona 1959.
A. Pioda, La Repubblica Ticinese in E Pedrotta, AlfretUi Pioda (con scritti iruditi), Salvioni, Bellinzona 1935.
e Trezzini, Manino Pedrazzini, Società Storica Locarnese, Locarno 1967.
Atti del Gran Consiglio, Conti Resi del es., Fogli Officiali.
L'istituzione della Scuola Magistrale
1) La situazione della scuola elementare all'inizio degli anni settanta
La tempestività con cui il nostro neonato cantone si dota, già il4 giugno 1804, di una prima legge scolastica rivela che gualche politico era pur sensibile al proElema dell' educazione popolare, ma la genericità delle disposizioni tradisce anche una diffusa scarsa volontà di realizzazione concreta.
La legge stabiliva infatti che «In ogni comune vi sarà una scuola. In essa si insegnerà almeno a leggere, scrivere ed i principi d'aritmetica», senza tuttavia prevedere forme di intervento in aiuto almeno delle comunità più piccole e povere, né fissare una durata mInima dell' anno scolastico e della scolarità, né dare qualche indicazione sui requisiti per essere ammessi all'insegnamento.
I;inevitabile conseguenza fu che le tumultuose vicende del periodo napoleonico e la diffidenza del regime quadriano verso la diffusione dell'istruzione popolare resero quasi inoperante la legge fino allarigenerazione def '30, quando l'art. 13 della costituzione riformata introdusse il concetto che «La legge provvederà sollecitamente per la pubblica istruzione".
Legge cIie fu infatti tempestivamente varata dal D'Alberti (nel '31, ed il corrispondente regolamento nel '32); tuttaVIa, benché 0pf>ortunamente artIcolata, essa risultò timiaa nelle esigenze ed evasiva nelle disposizioni riguardanti la qualità dell'insegnamento, forse perché troppo preoccupata di salvaguarClare le posizioni acquisite soprattutto dal personale insegnante ecclesIastico.
E ancor più carente fu la volontà politica di realizzare almeno i suoi moaesti obiettivi, tanto che il Franscini (nel 1837, in La Svizzera italiana) constatava amaramente che "quasi tutto per altro rimane ancora sulla carta senza pur un cominciamento di esecuzione».
li periodo dal '37 al '48, col Franscini ConSIgliere di stato e presidente della Commissione della pubblica istruzione, è il primo nella vita ael cantone contrassegnato da un reale sforzo di realizzazione della scuola elementare: chiare norme (con circolari, decreti ed i regolamenti del 42/43) di impianto, di frequenza, di struttura, di contenuti di insegnamento e di sorveglianza, sorrette da provvedimenti per il miglioramento della preparazione dei maestri (con l'introduzione di corsi di metodo) e per l'adozione di qualche testo didatticamente idoneo.
Ma la partenza del Franscini, eletto nel '48 in Consiglio federale, pur non isterilendo del tutto il buon seme della sua sollecitudine, segna l'inizio di unasostanzia-
.. . ~"
le battuta d'arresto nel potenziamento della scuola elementare, SIa per difficoltà di bilancio sia per la prioritaria attenzione dei politici all'istituzione di una scuola secondaria statale.
Solo la legge del 1864 porta qualche miglioramento nel settore della scuola primaria; ma il Conto-reso del Consiglio di Stato per l'anno 1871 al ramo pubblica educazione traccia tuttavia un quadro, men stringato del solito e molto eloquente, di non superate difficoltà che la realtà del çantone ancora frapponeva ad un ' soddisfacente impianto della scuola elementare "minore».
V al la pena di commentarlo.
a) Frequenza insufficiente
Il citato rapporto quantifica la sensibile diminuzione dei «mancati» (cioè non iscritti) senza giustificazioni. In effetti essi sono solo 328 su un totale di 19'405 «attenuti», cioè meno del 2%. Un miglioramento indiscutibile nei confronti anche solo di dieci anni prima, quando i «mancati,. abusivamente erano stati ancora ben 1'078 su· 19'040 «attenuti»; in buona parte ragazze, che nella proporzione di almeno l su 8 venivano tenute a casa da genitori persuasi che il leggere, lo scrivere e il far di conto fosse un lusso superfluo per le donne.
Miglioramento ancor più radicale, se raffrontato con la situazione della generazione precedente, quando il Franscini (nel 1837, sulla base del primo rilevamento statistico da lui ordinato) doveva amaramente annotare che non più di 1 ra-
gazza su lO in età scolastica frequentava realmente le elementari!
Tuttavia il quadro dell'inizio degli anni settanta è assai men roseo di quel che non sembrino indicare le cifre, se si pon mente che: - la regolarità di frequenza durante l'an
no è molto insoddisfacente, specialmente quella degli allievi più grandicelli nei periodi di inizio e conclusione dei lavori agricoli;
- ogni maestro insegna di regola a 40 e più. allievi ~ tutte le cl~si riunite; i.nfattI anche la dove, per il numero, SI è operato uno sdoppiamento, i comuni preferiscono separare i maschi dalle femmine, piuttosto che le classi inferiori da quelle superiori;
- l'anno scolastico è troppo breve (tanto che, annota il citato rapporto, «le lunghe vacanze, se non cancellano affatto le impressioni ricevute alla scuola, le affievoliscono talmente, da rendere necessario l'impiego d'una metà del nuovo anno scolastico per riapprendere ciò che si è perduto,.); m quasi metà dei comuni la durata della scuola è di soli 6 mesi e solo un terzo del totale delle classi raggiunge la durata ottimale di lO mesi;
- le aule scolastiche, benché di molto migliori di quelle descritte dal Fransci-ni poco più ili 30 anni prima (senza tavola nera, né banchi; con solo un tavoIone a cui trovava posto sì e no un quinto degli allievi e «intanto gli altri aspettavano che finisse l'anno e che quei primi lasciassero vacuo il po- 47
sto»), mancavano ancora di adeguati sussldi didattici e di libri per la lettura individuale. Il Conto-reso non dice poi, forse per
ché sottinteso, che il risultato della situazione testé descritta era l'impressionante dimensione del fenomeno dell' analfabetismo di ritorno (specie nelle donne, come fan fede le numerose croci apposte a mo' di firma sugli atti di matrimonio), cui non rappresentavano efficace rimedio le «scuole di ripetizione» serali e festive, introdotte dalla legge del '64, ma rimaste poche a causa della «indifferenza delle Autorità locali e la deficienza di assegni speciali sull'erario dello stato».
b) Maestri mal preparati e peggio pagati
La legge del 1864 fissa per i maestri uno stipendio annuo da fr. 300 (eccezionalmente, nei piccoli comuni, fr. 200) fino a fr. 600 a dipendenza della durata dell' anno scolastico e del numero degli allievi.
Se pensiamo che questo importo rientra a fatica nell' ordine di granaezza del salario di un manovale, che lo stipendio annuo dei bidelli delle scuole cantonali (con alloggio gratuito) era di fr. 200/400'che la retribuzione - pur assai modesta! - di un docente di liceo raggiungeva fr.
. 1'600/2'000, facilmente intuiamo la scarsa considerazione sociale di cui godevano i maestri di scuola elementare.
Scarsa considerazione e paga di fame, alle quali corrispondevano troppo spesso, in fatale circolo vizioso, docenti impreparati e più attenti a procacciarsi fonti di guadagno complementare che a impegnarsi nel lavoro scolastico.
Sono «infondati o per lo meno esagerati i lamenti di coloro che vogliono palliare la loro grettezza nel retribuire gli insegnanti col solito ritornello: Dateci buoni maestri e li pagheremo bene! Retribuite con equità re fatiche dei docenti e create ~ontemporaneamente una scuola magistrale, rispondiamo noi, e la quistione sarà sciolt~» annota in proposito il Conto-reso del 1871, che lamenta pure la crescente sostituzione di maestri con maestre. Osservazione assai meno maschilista di quanto sembri, in considerazione delle scarsissime possibilità di decente formazione culturale aperte alle donne.
E non si dimentichi che molti comuni preferiscono nominare una maestra semplicemente perché la legge permette di corrisponderle uno stipendio minore (115 in meno del minimo garantito agli uomini), quando poi la soluzione non è obbligata, per mancanza di candidati maschi. Annota infatti ancora il rapporto: «Gli emolumenti possono ancora oastare in qualche modo per una donna; un uomo, ancorché non abbia famiglia, coll'attuale retribuzione non può vivere; ... ,
48 ond'è che il maestro deve necessariamen-
te abbandonare la carriera per darsi ad occupazioni meglio retribuite».
Ma se il trattamento finanziario dei maestri è purtroppo destinato a rimanere ad un livello altrettanto umiliante per tutto il resto del secolo, l'inizio degli anni settanta segna un reale salto di qualità nella preparazione degli insegnanti, col passaggio dai «corsi di metodo» (della durata di due mesi) alla« scuola magistrale» (di due anni a pieno tempo).
2) I corsi di metodo La rimanente parte del nostro discor
so intende appunto delineare la storia degli strumentl, via via introdotti fino a circa tre quarti del secolo, per migliorare la preparazione culturale e didattica dei maestri.
Il quadro tracciato dal Franscini sul finire degli anni trenta è veramente desolante: praticamente nessuna verifica delle conoscenze del candidato prima dell' assunzione e nessun controllo in seguito: «fa il maestro chi vuole (non escluso il primo venuto) e come vuole». Di conseguenza: tro{Jpi maestri semianalfabeti lanche quando si tratta di ecclesiastici) e metodi cervellotici (come l'insegnare il leggere e lo scrivere su testi religiosi in latino) .
Non sorprende dunque che primissima preoccupazione del neo-conslgliere di stato fosse quella di offrire, almeno ai più volonterosi tra i docenti in carica, un mezzo di contatto con i fondamenti della metodologia dell'insegnamento, istituendo in via sperimentale un corso teorico-pratico di sei settimane (già nel '37 a Bellinzona; a Lugano ed a Locarno nei due anni seguenti).
I:esperimento, affidato con scelta op{Jortuna alle cure del comense Alessandro Parravicini, direttore didattico di chiara fama (e autore del fortunatissimo - per buona parte del secolo - libro di lettura «Giannetto»), fu concretamente sostenuto dalla neo-costituita «Società degli amici dell' educazione del popolo -Demopedeutica» ed ebbe esito superiore ad ogni aspettativa, nonostante la malevola ostilità di parecchi ecclesiastici tra i più retrivi (ma altri ne furono per contro attivi difensori) e la modestia del livello culturale dei candidati (bastava per essere ammessi - e per molti era già troppo -saper «convenientemente leggere, scrivere e far conti fino alla regola aurea").
Grande sensazione suscitò tra l'altro il Parravicini, insegnando pubblicamente - a mo' di esempio di quanto si potevaconseguire con un metodo bene applicato - in soli 38 giorni a leggere e a scrivere a due caprai del tutto analfabeti.
Sarà coslpossibile al Franscini ottenere (14 gennalO 1842) dal Gran Consiglio uscito dalla rivoluzione liberale l'introduzione definitiva del corso di metodo,
tenuto da.un direttore-professore per le lezioni teoriche (che sarà per anni i1 progressista canonico Giuseppe Ghiringbelli, attivo demopedeuta), da due aggiunti (per la calligrafìa ed il canto) e da un maestro di esercizi pratici in una «scuola modello».
Il corso constava di un~ ora al giorno di teoria J'edagogica, alcune ore di metodologia 1generale e di materia), esercitazioni di calligrafia e di canto, lezioni nella scuola modello e, quale lavoro individuale, ogni sera il sunto scritto della lezione teorica, che veniva discusso in comune il giorno seguente.
Poco, se si vuole, ma moltissimo di fronte al nulla precedente. E coloro (fatalmente pochi) che conseguivano la patente di «maestro modello» (cioè abilitato a presentare esempi pratici di lezione ad altri colleghi) rappresentarono spesso fonti di concreto rinnovamento non solo della scuola, ma anche del paese. Cosl come lo spirito di autentico apostolato del Ghiringhelli e di molti suoi collaboratori o successori (citiamo soltanto Giuseppe Fransioli, Graziano Bazzi, Giovanni N1Zzola, Ignazio Cantù e Achille Avanzini) suppliva con la totale coerenza personale alle lacune del curricolo ed alla esiguità dei mezzi.
Ciò spiega la fortuna dei corsi: 26 edizioni (dal 183 7 al '72, alla vigilia dell' apertura della scuola magistrale) con 01tre 100 allievi in media ogni anno; e solo ben noti eventi eccezionali riuscirono ad interrompere brevemente la serie (nel' 40 e nel '41; nel '47 e nel '48; nel '50; nel '55).
Ma questo sistema di formazione, geniale in un paese povero di strutture scolastiche come il nostro, presentava tre punti deboli, tali da infìciarne buona parte dell'utilità: - le gravi carenze nella {Jreparazione cul
turale di base dei candidati (cui si tentò, ma solo saltuariamente, <li porre rimedio con «corsi preparatori» decentrati, della durata di alcune settimane);
- la facoltatività dell'iscrizione (che non permetteva di porre rimedio proprio ai casi più gravi!);
- l'incapacità (o impossibilità) politica di imporre la patente come uruco titolo di abilitazione all'insegnamento, per cui essa non riusçl mai a superare il grado di «titolo preferenziale».
3) L'istituzione della scuola magistrale a Pollegio
Non stupisce dunque che molto presto si levassero voci a favore dell'istituzione di una scuola magistrale a pieno tempo ed a formazione mista generaleprofessionale.
Già il Franscini vi aveva fatto un pensiero, stimolato dagli ottimi esempi che aveva avuto modo di conoscere: dalla «capo-normale» di Milano (fondata già
nel 1788 in Brera e di cui Francesco Soave era stato professore di metodo) ai «seminari per maestri» di taluni cantoni confederati; ma i tempi non erano maturi.
Egli era tornato un'ultima volta alla carica nel 1852, da Berna, con proposte concrete; pur sotto l'assillo degli oneri quale consigliere federale, aveva trovato il tempo di stendere un progetto per una magistrale ad Ascona, nell'ambito delle misure di destinazione dei beni ecclesiastici incamerati; ma ancora una volta non venne ascoltato.
Di istituire una scuola magistrale si riprese a parlare con qualche intensità solo an'inizio degli anni sessanta quando, sollecitati da G.B. Pioda (in quel momenro consigliere federale), il can. Ghiringhelli e l'ing. Beroldingen presentarono - ma senza fortuna - al Consiglio di Stato un approfondito progetto; e ancor più nel 1864, in occasione delle discussioni intorno alla nuova legge scolastica. I;iniziativa venne dalla Demopedeutica e l'eco fu buona sia in Consiglio d'educazione (che ne fa cenno nel suo rapporto), sia nella Commissione della gestione del Gran Consiglio, il cui relatore - illeventinese Pattani - propose di istituire la scuola a Pollegio, nella sede del ginnasio; ma il parlamento rimase sordo ad ogni argomentazione.
Tuttavia i politici - benché ancora riluttanti, fors'anche perché distratti dall' accresciuta asprezza del confronto tra i partiti ed all'interno di quello radicale al potere - cominciano ad assuefarsi all'idea della necessità improrogabile di creare una magistrale, grazie anche alla caparbia propaganda da parte della Demopedeutica, con articoli sull'Educatore della Svizzera Italiana, memorie, ordini del giorno assem bleari.
Nel '69 essa bandisce un concorso «per lo studio e compilazione d'una Monografia sui mezzi più acconci e l'ratici per l'istituzione di una Scuola Magistrale ticinese", e nell'ottobre del '70 pubblica il lavoro premiato, opera dell' avv. Pietro Pollini. II progetto prevede la creazione di una scuola bienruile mista, con sede a Locarno o a Lugano, coml'letata con un «gineceo .. (convitto femmmile) e un istituto d'Educazione superiore femminile.
I tempi sono veramente maturi. Il Consiglio d'educazione costituisce,
nel settembre del '71, una commissione incaricata di elaborare un p,rogetto di legge (la compongono lo stesso avv. Pollini, il can. Ghiringhelli, l'avv. Ambrogio Bertoni e il rettore del liceo, Antonio Gabrini) e già il mese successivo ne discute ed avalla il testo finale che, con pochissime modificazioni, otterrà l'approvazione del governo nel novembre ael '72 e quella del Parlamento il 29 gennaio 1873. '
Iter rapido, ma non senza contrasti. La discussione in Gran Consiglio fu
,particolarmente accanita intorno alla
proposta Magatti di sostituire la prevista scuola a Pollegio con un corso 6iennale annesso al liceo di Lugano, cioè in atmosfera più colta.
La scelta governativa fu difesa con dovizia di argomenti di opportunità politica e di risparmio (conseguente alla contemporanea abolizlOne del ginnasio delle Tre valli, relativamente costoso per l'esiguo numero di allievi) dal consigliere di stato Franchini, dal relatore della commissione Carlo Battaglini (che lasciò però intendere di aver lui pure esitato tra Pollegio e Lugano) e da 'Ambrogio Bertoni. Particolarmente insidiosa per la maggioranza liberale risultò u'na variante proposta da Respini: sede della magistraIe a Locarno, con contemporanea soppressione di tutti i ginnasi tranne Polfegio e Mendrisio.
Mossa abile, perché suscettibile di coagulare intorno a sé i deputati della campagna, diffidenti verso Lugano, i molti preoccupati per le difficoltà dell'erario e chi non aveva ancora di~erito l'incameramento dei beni eccleSIastici (perché la soppressione dei ginnasi l'avrebbe parzialmente rimesso in discussione). Ma alla fine prevalse la soluzione governativa, con pochissime correzioni marginali.
Eccone le caratteristiche principali: - La scuola magistrale opera nei locali e
annessi del ginnasio di Pollegio, che viene soppresso, usufruendo degli importi precedentemente a bilancio per quel gmnasio e per il corso di metooo, integrati con i legati La Harpe e Gussoni. .
- Ha la durata di due anni di nove mesi ciascuno; nel primo i candidati devono raggiungere il livello di istruzione generale corrispondente al 4° anno della scuola ginnasiale industriale, il secondo è consacrato alla preparazione professionale.
- I;ammissione (con esami) è aperta a maestri già in funzione, od "aspiranti» tra i 15 e i 30 anni, che abbiano frequentato la scuola maggiore o un corso preparatorio ginnasiale o un istituto secondario privato od estero; è possibile (in via eccezionale e con esame speciale) accedere direttamente al 2° corso.
- Il corpo docente è composto di un professore-direttore, di un maestro e una maestra aggiunti, di docenti speciali per l'agronomia, la ginnas'tica e il canto. '
- Una scuola elementare delle vicinanze funge da scuola di esercitazione pratica.
- Parte dei locali dell'istituto sono riservati al convitto femminile,' diretto dalla maestra aggiunta. Il regolamento (del successivo otto
bre) fissa norme rigorose per la disciplina in scuola, fuori istituto ed in convitto (che deve essere autosufficiente, su prin-
Pietro Pollini
aUla.L.' h5TITl'XlnXJ:
In l'~A
SCUOLA MAGISTRALE TICINESE ClJ\lI'II.AT.'
•• 11' An • • '.IITRO PU .... ..,i. ".o:;TO IlA l.LA MOCIETA nF.)(O,KO&l:TICA 10:
AL ~Rr..IU U'I'EOlO
P.\I. tI.\C. '> .• 'fI":'."." 1147.4'.1
18'70 --"AIiTE • .'
L'Wo 4.11. ' .... 'io •• 4" u •• Seuola lCa,i",.I, M. , .1 C" ..
... " ,,. .... ...,. •• ,,,, "irti ch. h. &I .. &i .. "i •· .. i.'"u "u"li
.. '"" n ... ' ...... 4.1 Ceno di ....... "II. qu.I, ,.,,,,,,"6
.,m_",. Ch. M rim ... IUU'" •• ,U •• " ... Ili dni .. " ..... " • • 4td.ni re'" ch ... I •• ne • lu ... ""IC.,dlrIi ,I .. i " .. ,i. ••• I • • 'IM ... ""i ..m.. .. pie; Ii.I •• ,." ....... ti ....... u\l "", •• , "',pon" 4.114 .li_,. .• 4 i cOfl(o"i tI,U, .,U'iouic~, • .,ocilliowi , I, ti .. ,. ... tko,li "liti" ia'.U"'''" 4 •• ,. .... . CI\t .I.i 4, """,', MI. li","."" ,., .... i .,.,.,i.li" •. cel'lM .1 .... l'. ai. llCO( ri ... "CI&4 • "",r.,.",,,, Il tinti ••• n ..... i impili. ".u .•• 1 _.1'" 49
50
cipio cooperativo per le spese e con obbligo per le allieve di partecipare ai lavori di rassetto, cucina e Ducato) e per la promozione.
Il programma fa largo posto nel primo corso all'italiano (11 ore settimanali), alI'aritmetica ( 5 ore) ed alla storia/ geografia/civica (7 ore); il secondo corso, pur concedendo ancora sei ore settimanali all'italiano, altrettante alla storia/geografia/civica e tre all'aritmetica, poggia sulla ~ogia, la metodologia e le aj?plica.zJ.oni (12 ore settimanali in tutto). le altre materie (disegno, geometria, calligrafia, agronomia, canto e ginnastica) appaiono solo per qualche semestre; l'economia domestica è insegnata per 5 ore settimanali all'interno del convitto.
Come ognun vede, un salto enorme per area e per qualità rispetto ai corsi di metodo; unico neo, l'esclusione dello studio del tedesco (o del francese) caldeggiato da parecchi deputati durante la discussione aella legge, quale strumento di più ampi orizzonti culturali.
Ed ancne i risultati scolastici furono ottimi, nonostante le disagiate condi~oni di lavoro, almeno a dar fede ai Contoresi ed alle relazioni delle commissioni (esterne) d'esame, con una media di 30/ 40 dipfomati all'anno, grazie anche all' impegno del direttore Achille Avanzini e delle direttrici del convitto, Lucietta Molo dapprima, Rosina Borsa in seguito.
Ma l'asprezza del contrasto politico, in questi anni di passaggio dal regime radicile a quello conservatore, non poteva lasciare immune la magistrale. Ogni incidente di percorso (ricorrenti epidemie e pettegolezzi sul comportamento di allievi e allieve) trovava eco smisurata sulla stampa. A darne il tono basti questa citazione da un articolo del luglio '74 con cui l'Educatore rispondeva ad un attacco apparso su La Libertà: "non ci fa meraviglia che quella stampa, la quale aveva preconizzato come un postribolo la futura Scuola Magistrale, cerchi con la 'più nera calunnia di dar colore di profez1a a quel satanico voto».
4) Il trasferimento della Mr· trale a Locarno (1878 e 1881
La burrasca del '77 (è l'anno in cui il nuovo governo conservatore licenzia in blocco direttore e docenti del liceo, tranne uno, il prof. Ferri) non risparmia A vanzini, cui subentra Francesco Gazzetti.
E la stampa (a parti invertite: ora ad accusare sono Il Dovere, Il Gottardo, Il Repubblicano, e a difendere Il Credente cattolico e La Libertà) si scontra ancor più furiosamente a proposito di Magistrale, con toni spesso sbracati, alludendo a «belle tome fatte da qualche professore danzando con le rispettive allieve», a «passeggiate vespertine con parte delle allieve per il
bisogno forse di mostrare loro la stella polare», a «schiamazzi fatti da briachi alIi~vi per le pubbliche vie di Biasca» e cos1 V1a.
Il governo, pur difendendo la nuova conduzione dell'istituto, non fu tuttavia malcontento di profittare delle polemiche per mutare almeno quell'aspetto della struttura della magistrale che più dispiaceva agli ambienti conservaton e cioè i[ suo carattere misto. Dopo una sommaria inchiesta, che era giunta alla conclusione che fosse preferibile, per l'età degli allievi, di separare i sessi, i[ Consiglio di Stl!-to propone la divisione della magistrale in «Normale maschile» e «Normale femminile» e di trasferire la prima a 1.0-carno, nell'ex-convento di S. Francesco (riprendendo dunque in parte la vecchia proposta di Respini).
In Gran Consiglio lo scontro fu violentissimo e coinvolse tanto questioni di principio quanto meschini «regolamenti di conti», volta a volta con chi aveva avuto a che fare con il vecchio oppure con il . nuovo corso, e lasciò largo strascico di polemiche in parlamento e sulla stampa anche nei mesi seguenti. Ma l'esito era scontato: la nuova maggioranza votò compatta per lo smembramento della magtstrale 00 il trasferimento della sezione maschile a 1.ocarno. Era il settembre 1878 ed il successivo 4 novembre (con qualche ritardo, a causa dei lavori di riattazione eseguiti di fretta e furia) si inaugurava il nuovo anno scolastico, sotto la direzione di Pietro De Nardi (sostituito poi, già nell'81, «per considerazioni, le quali qui non accaae di esporre» - come dice il Conto-reso del 1882 - con Francesco Antognini, che era già stato criticatissimo insegnante nell'ultimo anno di Pollegio; ed era il quarto direttore in otto anni di vita della magistrale!). Il programma non era granché mutato (almeno sulla carta, perché l'ottica con cui fu svolto dai nuovi docenti non ci è nota), tranne l'aggiunta - senz'altro opportuna - di un corso di scienze naturali.
Negli anni seguenti la vita dell'istituto trascorse abbastanza tranquilla, ma le Commissioni d'esame - pur lodando lo zelo di docenti ed allievi - segnalarono ripetutamente gravi carenze nel livello gfobale di preparazione raggiunto dai candidati, . nonostante la severità degli esami d'ammissione; insoddisfacente preparazione, cui si sommava la preoccupante diserzione degli studi magistrali t una dozzina scarsa di allievi per corso), a causa degli stipendi tuttora miserrimi.
Né l'introduzione (nel 1885) del terzo corso voluto dalla legge Pedrazzini, per il conseguimento della patente di maestro di scuola maggiore, portò gran giovamento: nei primi anru gli iscritti furono pochissime unità!
le difficoltà di crescita della magistrale cominciarono ad attenuarsi solo più in là
nel tempo, soprattutto grazie all'opera mediatnce del teologo Luigi Imperatori, prima assunto come docente e poi direttore, di Giovanni Anastasi, di Francesco Gianini e del successore dell'Imperatori, Giovanni Censi, naturalista e pooagogista di notevole statura, fautore del metodo attivo, che egli trasfuse nei nuovi programmi del 1903, quando il curricolo magistrale venne prolungato a quattro anni. Cosl come la «Normale femminile», dopo gli anni di assestamento sotto la direzione di Suor Agata Biirgi (chiamata d'urgenza da Menzingen già negli ultimi mesi di Pollegio), troverà una sua chiara identità sotto la guida energica ed illuminata di Martina Martinoni. Miglioramenti che non sottrarrann01a magistrale - anche nel nostro secolo - a ripetute burrasche.
Ma con questi ultimi cenni siamo largamente usciti dai limiti temporali del tema che stiamo trattando.
Non ci resta, per concludere, che accennare al trasferimento da Pollegio a 1.0-carno della Normale femminile, che dopo il '78 aveva continuato una vita stentata, per la continua rotazione del personale docente e per le ricorrenti epidemie, attribuite ora a tosse spasmodica, ora ad acqua inquinata, ora a cedimenti nervosi determmati da un eccesso di rigore disciplinare.
Il governo (che già nel '78 aveva rinunciato a trasferire anche la femminile a l.ocarno unicamente per la difficoltà di trovare a buone condizioni una sede idonea) riprese in esame alcune varianti di soluzione. Parve dapprima prevalere quella di installare la normale femminile in S. Francesco, traslocando la maschile nel Palazzo ~overnativo (l'attuale «Sopracenerina»), che proprio quell' anno si rendeva definitivamente libero con l'ultima «emigrazione» del governo da 1.ocarno (capitale di turno~ a Bellinzona (diventata capitale unica , ma prevalse infine la proposta di uti ·zzare la proprietà Carlo Franzoni detta «Belvedere», opportunamente adattata (1881).
Una scelta che si rivelerà ottima e che ben si è prestata agli infiniti adattamenti che l'evoluzione dell'istituto ha richiesto lungo un intero secolo.
BIBLIOGRAFIA:
Stefano Franscini, La Svizzera italiana, Lugano 1973.
Antonio Galli. Notizie sul Can.tone Ticino, Bellin· zona, 1973, voI. III.
Felice Rossi, Storia dell~ scuola ticinese, Bellinzona 1959.
Processi verbali del Gran Consiglio (anni e sessioni citati).
Conto-reso del Consiglio di Stato - Ramo pubblica educazione (anni presi in considerazione).
L'educatore della Svizzera Italiana (numeri citati). Silvana Fiori, Il trasferimento della Scuola magistrale maschile e femminile da Pollegio a Locamo, Locamo 1980, (lavoro per il conse~imento della patente di scuola maggiore - dattiloscritto - Biblioteca della Scuola magistrale).
Enùlio Motta e la storiografia ticinese
Qui da noi il caso di Emilio Motta resta esclusivo. Uscito dal Politecnico col diploma di ingegnere, quel giorno stesso confinò in soffitta biffe e livelle e si tappò negli archivi.
Gli altri nostri storiografi, di prima e di dopo, erano venuti o vennero da altre scuole. Né risulta che del mestiere imparato restasse al Motta la minima nostalgia. Appena se ne ricordò più in là negli anni irifilando nel mazzo delle sue schede bibliografiche un appuntino di ingegneria: e gli bastò. Bisogna dunque concludere che il Motta venne alla storiografia da autodidatta: il che non significa un bel nulla, anche se <J.ualcuno ha creduto di scorgere nei SUOi scritti la presenza di un'impreparazione accademica scarnbiandola con la modestia con la quale talvolta si presenta, che semmai non è proprio dell'autodidatta rimasto grezzo. Piuttosto un residuo di volontariato che, progredendo, bruciò del tutto, si manifesta all'inizio in certe impennate improvvise, nell' emissione categorica di incauti giudizi negativi: che se poi temperati e quindi riveduti facevano parte deltem peramento dell'uomo, di una cortesia estrema attestatagli dagli studiosi con i quali familiarizzò, di un' apertura collegiale nel far partecipi anche gli altri delle sue scoperte archivistiche, senza gelosie di mestiere, ma anche fermissimo nelle sue convinzioni e in qualche momento suscettibile.
Il suo profilo biografico è quello di tutti gli studiosi che passano la vita con lo stomaco piegato sUlla scrivania, Ser1Za distrazioni salottiere, ambisce il lecito, non rincorre la vanità. Ed è subito tracciato. Nasce ad Airolo nel 1855, a quattro anni è orfano di madre (una Balli di Locarno), a dodici dd padre (Cristoforo, che fu anche consigliere di Stato), lasciato Airolo scende a Muralto presso i l'arenti materni che avevano commerCi a Roveredo in Mesolcina, e fra lago e monti per qualche anno fa la spola, ai monti torna..'1do preferibilmente o'estate da Milano dove passò la maggior parte della sua vita. Quanto agli studi: Rosmini di Stresa, Landriani di Lugano, liceo di Soletta, infine Politecnico di Zurigo. Nel '77 ritorna nel Ticino. Nell'8) il principe Gian Giacomo Trivulzio lo assume come conservatore della sua celebre biblioteca, la Trivulziana. Muore a Roveredo nd 1920.
Il primo libretto del Motta, Effemeridi ticinesi, appare nell' anno stesso 10 cui il suo autore usciva dal Politecnico, nel '76: appropriato titolo di un modesto elenco dì date storiche, tante quanti i giorni dell' anno, ma qua e là con sottolineature di un compiaciuto anticlericalismo, acer-
bamente polemico: che del resto si era già manifestato in una rivistina studentesca ticinese che usciva a Zurigo, insieme con articoli di varia storiografia, frutto dei primi saggi di una ricerca che poi diventerà sistematica. Né di quella sua professione di libero pensatore, cresciuta nel clima arroventato del Kulturkampf, farà mistero anche dopo, suscitando la reazione scontata del partito conservatore e del clero, ma non tutto questo in verità come si vedrà, facendogli, episodio clamoroso, trovar chiuse le porte degli archivi vaticani nell'85, quando si era pure presentato, per incarico del Consiglio federale, a far ricerche di documenti interessanti la storia svizzera, Dipinto prontamente (dal Ticino?) come un esponente del radicalismo svizzero, fu sospettato di andarvi per scovare documenti contro la nunziatura papale nella Confederazione, e, dopo una settimana di lavoro, venne invitato a non più varcare la soglia; e passò allora a Milano dai Trivulzio.
Ma riprendendo dopo il suo ritorno nel Ticino nel '77: ormai vocato agli studi storiografici, già frugatore degli archivi locali, si pose per lui la necessità di disporre di una riVista, un Giornale, cos1 diceva, per evidente suggerimento venutogli <la quello della letteratura italiana che usciva a Torino e stava diventando famoso, mentre fin Il si era dovuto accontentare dì chieder sl'azio ai quotidiani, Il Tempo e Il Dovere; e oeciso a crearsi la rivista, la annunciò in una relazione presentata nd '78 a Ascona all'assemblea della Demopedeutica: che era un grido d'allarme sulle condizioni della cultura nd paese e un appello a riscattarlo dall'ignavia, senza aver peli sulla lingua come costumava.
Denunciava con parole caldissime, anzi accaldatissime, quello che si offriva agli occhi dei non orDi o dei pigri: mercato incontrollato degli oggetti d'arte e dei reperti archeologici che cominciavano a stuzzicare gli appetiti del borsello e la rozza dispersione degli archivi. E sugli archivi, pupilla del suo occhio, insisteva energicamente rilevando quanti ostacoli si alzavano a frequentarli: con rifiuti dettati da chissà quali sospetti (ma anche, va aggiunto, per nascondere il loro completo disordine, esperienza fatta anche di altri), dettati da malumori e intrighi locali, inhne da piccinerie; ma l'esempio veniva dall'alto, dall'archivio cantonale ridotto a un magazzino, del resto quasi esclusivamente amministrativo, che in quel momento non disponeva neppure di un archivista. Perciò sollecitava una legge sugli archivi, che cominciasse a concentrare a Bellinzona le carte dei commissari e dei tribunali, unico modo per salvarle dai caminetti invernali, e quelle private di rilevanza, per quindi procedere ai primi cen
,simenti, ma anche trovar un'intesa per poter accedere a quelli ecclesiastici; invi-
tava la Libreria Patria, assopitasi nelletargo, a colmare le sue raccolte lacunose; invocava l'istituzione di un museoarcheologico cantonale, e più tardi del museo storico; la sorveglianza dei comuni sugli scavi occasionali con obbligo di comunicazione: insomma invocava quei provvedimenti che, già invocati quasi un trentennio prima dal Franscini, erano rimasti
. parole. Ma a renderli effettivi e operanti, occorreva che anche ii Ticino, sull'esempio delle Deputazioni di storia patria che lOcominciavano a proliferare in Italia, provvedesse alla sua, come peraltro accaoeva nei cantoni dell'interno; e benché già il Franscini nel '52 si era illuso di aver finalmente fondata la Società storica ticinese, il Motta la riproponeva con più vigore e con altrettanto successo, tanto vero che essa alitò di quando in quando anche dopo fiocamente coi risuftati che si conoscono. E perché il suo intervento non si spegnesse nel solito applauso obbligato in attesa di mettersi a tavola per il banchetto sociale, annunciava seduta stante l'apparizione del Giornale che con due amici, l'avv. Bartolomeo Varenna di Locarno e l'ispettore Isidoro Rossetti di Biasca, ma «in via privata», era imminente. Annunciava cioè il «Bollettino Storico della Svizzera Italiana», che a nominarlo vuoI dire Motta.
Il Bollettino uscì puntualmente l'anno dopo col programma della nuova scuola storiografica di indirizzo positivistico e rigidamente erudito, quindi tutta volta alla raccolta del materiale documentario giacente negli archivi; e il Motta, attentissimo all'esempio italiano, qui da noi si poneva cos1 all'avanguardia della nuova storiografia ticinese, anzi della storiografia che, a suo giudizio, incominciava solo allora.
Ma a che punto era la storiografia ticinese quando il Motta incominciava? A suo parere essa si presentava come una landa inesplorata, un campo arido, e tenuto conto del suo positivismo il giudizio era anche comprensibile, non più invece accettabile quando fu ripetuto da altri venuti dopo di lui, che cos1 celebravano i meriti davvero grandi del Motta ma si precludevano la vista su quanto era stato fatto, sia pure in minor misura, prima d'allora.
E senza andare a scartabellare libri e libriccini di storia cantonale di prima, a considerar le cose con serena distanza non si può davvero convenire che la storiografu. avesse trovato fino a quel momento «poco favore» o fosse stata "più spesso osteggiata». Era pur apparso fin dal '57 il Compendio, tutt'altro che compendioso, e pur con tutti i suoi difetti, del Pasqualigo; nel '74, con assai meno di difetti e largo impiego delle fon~i, in edizione postuma erano apparsi i Leponti del ' padre Angelico; e prima di loro il Franscini non si era appagato di raccogliticci.
I
Il
51
52
Eppure al Franscini, inspiegabilmente, il Motta riservava un giudizio negativo, quando lo chiamava «statista insigne, storico mediocre»: dove la qualifica restrittiva era appena temperata dal rispetto che si doveva a quell'uomo.
Il giudizio appare anche più inspiegabile, tenuto conto del genere di storiografia cara al Motta, quando si ricordi che gli Annali fransciniani dal 1797 al 1813, largamente documentati anche sulle fonti federali e rimasti inediti, eran<;> stati uti-
lizzati quasi testualmente prima dal Peri che li aveva «raffazzonati», non so fin dove, nella sua Stona dal 1797 al 1802, e la rimanenza, che per l'inconfondibile scritura mette fuon continuamente la testa, dal Baroffio nella sua Stona dal 1803 al '30: bastando qui concludere che tanto il Peri quanto il Baroffio avrebbero reso miglior servizio facendosi editori dell'autografo, anziché usarne interpolandolo perlomeno ecletticamente. Né meno si capisce, tornando al Motta, com'egli po-
tesse scrivere nel '79 che la Stona di Como del Cantù era fin lì «la sola storia completa del Ticino»: nemmeno fosse propno 11 a dichiarare il contrario il serrato capitolo introduttivo della Svizzera Italiana, che si stende fino alla Riforma del ' 30, benché il Motta, per le sue scarse conoscenze d'allora, giudicasse il periodo dell'autonomia, con tutto quel che seguì fino al regime dei Landamani compreso, «povero di salienti avvenimenti».
Ma sorvolando gli effetti, scontati, della neofùia mottiana e riprendendo, che più importa, col Bollettino, certo è che da quel momento la ricerca, fattasi l'0i sistematica, delle fonti apd vastiSSimI orizzonti nella storiografia ticinese, coi risultati ingentissimi che sanno tutti guelli che per un verso o per l'altro per la nvista sono dovuti passare: la quale, risvegliando gli studi come non era mai accaduto, suscitò nuove energie chiamando intorno a sé una collaborazione sempre più folta e auto!evole. Quanto alle presenze locali, basterà ricordare Carlo Salvioni, che il Motta aveva conosciuto ancora studente di medicina, Vittore Pellandini, Gaetano Beretta con le sue ricerche di storia militare, un folto gruppo di sacerdoti come Siro Borrani, Edoardo Torriani e Pio Meneghelli, e poi Mosè e Brenno Bertoni e, per la storia mesolcinese, Emilio Tagliabue. Dei confederati fu assiduissima presenza l'archivista lucernese Teodoro di Liebenau coi suoi densi saggi che di volta in volta traduceva Alfredo Pioda, a tratti anche l'archivista urano Edoardo Wymann, mentre il Bollettino faceva spazio agli scritti d'arte, apparsi altrove, di Rodolfo Rahn che il Motta accompagnò talvolta nelle sue escursioni ticinesi. Stando poi a Milano, dapprima come segretario e poi vicepresidente della Società storica 10m barda nonché presidente della Società storica comense, potè assicurarsi la preziosa collaborazione di numerosi lombardi: don Santo Monti e don Giovanni Baserga e questi erano di Como, Antonio ' Bertolotti direttore dell' archivio di stato di Mantova, Solone Ambrosoli direttore del Gabinetto numismatico di Brera, Antonio Ceruti dottore dell'Ambrosiana, Gerolamo Biscaro, Arturo Farinelli, Luca Beltrami, Ugo Monneret de Villard, e, da Torino, Alessandro Lattes, autori di memorie talvolta con ampio respiro monografico, mentre il Motta, nel Bollettino, continuava a offrire i risultati sempre più inattesi del suo scandaglio documentario ed erudito, con curiosità insaziabili in tutte le direzioni, prediligendo i cataloghi bibliografici dei quali si confessava «umile ma zelante cultore", tanto daradunarne ben 24 stando a chi li ha contati, con l'articolare interesse al giornalismo e alle tlpografie, e, nelle ricerche d'archivio, priVilegiando il Ticino ducale, dopo che re prime esplorazioni a Milano lo avevano npagato abbondantemente sul prima e sul dopo Giornico, tanto da poter ammonire, cbi si era fatto prendere dalla scalmana di monumentarsi, che quel monumento non si doveva fare.
Talvolta le bibliografie gli erano suggerite dall' occasione che afferrava al volo. Per un esempio, e dei più considerevoli anche per i risultati, l'occasione offerta dall'inaugurazione del traforo del San Gottardo, non mancando tuttavia di os-
servare con occhio disincantato: "Passarono le feste del progresso e della fratellanza dei popoli, eppure, caso strano, il primo treno merci del Gottardo conduceva alcuni vagoni d'armi destinati a Torino da una fabbrica di W estfalia». Di commenti, del resto, pungenti e puntualizzanti nutriva la rubrica della Cronaca, che era poi l'attesissimo spoglio di $Ì0rnali, opuscoli e riviste (60 1n cambio) e libri che gli giungevano sul suo tavolino alla Trivulziana: salvando una selva di notizie che sarebbero andate fatalmente disperse, era un esempio e purtroppo dopo di lui non fu più segulto.
Stupisce come il Bollettino, trasvolando quello che vi è versato in migliaia di pagine, statuti e famiglie, stregonerie e antiquaria, artisti e tradizioni, sfragistica e numismatica, pestilenze e parafrenali, castellani e pellegrini, e via a non finire, per l'illuminata volontà de1.suo direttore sapesse nei primi anni resistere a condizioni da far arrendere chiunque altro. Si annunciava appena il Bollettino, che già in un organo cfericale "persona competentissima, autorevole e cultrice degli studi storici,., come veniva presentata dalla redazione, ma chi poi?, reputava l'iniziativa perlomeno inutile perché tutto era già stato detto, coll'invito inoltre a diffidare del direttore che, fra l'aitro, era "un ammiratore delle dottrine di Darwin"; e sarà, anche grazie all'innominato intenditore, che il favore del pubblico si manifestò dapprima tiepidissimo, e non meno delle Autorità. I!autorità, per dire il Governo, tanto 'per venirgli incontro gli negò di servirSI dei torchi della Tipografia Cantonale mettendo il Motta e lo stampatore Colombi di fronte a preoccupazioni finanziarie, e per qualche tempo respinse perfino l'abbonamento.
Come del resto, quasi passandosi la voce, si apprestavano a fare i 263 comuni dei quali soltanto Il nell'83lo rinnovavano ancora, l'anno dopo scendevano a lO, perfino la ~ibliot~a Cantonal~ op~oneva un suo nfiuto, 1n un SUSSegrurSI di malinconie, anche se il Motta, mirabile esempio di costanza in una causa giusta, affrontava le avversità dichiarando: "Continueremo a mantenerci indipendenti e severi quanto occorre", che fu l'impegno rispettato anche quando il Bo/fettino, dopo il Motta, passò in altre mani.
Cosl, infoltendo le sue smilze pagine iniziali, il Bollettino usd regolarmente fino al 1912. In quell'anno ebbe una sospensione, riprese nel '15, stagione assai poco propizia agli studi, e fu un'apparizione ef:fiinera, e benché il Motta avesse intanto radunato il materiale per una ripresa a guerra finita, non fece 1n tempo a passarlo in tipografia perché la morte lo sorprese nel '20 a Roveredo come s'è già detto. Il Bollettino riprese nel '21 con la direzione di Eligio Pometta che utilizzò nel
primo numero il materiale giacente, e continuò e continua superando il secolo di vita, tanto che gli Indici sistematici sono diventati assolutamente indispensabili e urgenti.
Sarebbe lungo e ripetitivo, perché il catalogo è già stato eretto, soffermarsi sulle numerose riviste alle quali il Motta diede larga collaborazione, ma una non si può dimenticare, l'Archivio Storico Lombardo, al quale fu legatissimo e che fu in un certo senso il suo secondo Bollettino, per la naturale filiazione della storia tici~ese da quella italiana e lombarda in speae.
Alcune monografie, apparse però fuori della sede del Bollettino., aanno, contrariamente a quanto è parso a qualcuno, la misura delle possibilità del Motta di sap~r superare l'indirizzo meramente eru(lito.
Ciò che è ben manifesto nelle due monografie I Sanseverino feudatari di Lugano e Guelfi e Ghibellini nel Luganese, uscite nel Periodico storico comense fra 1'81 e 1'84, commentando la Cronaca luganese del Laghi appena apparsa in quella rivista, con cosllarga spaziatura storica sul secondo quattrocento luganese che dovrebbe invogliare un continuatore, con altrettanta chiarezza, a risalire fino all'aprirsi del secolo.
Sempre in quel torno di anni, davvero assai proficuo, con una serrata critica di interpretazione dei testi noti o ritrovati, affrontò l'esame di uno dei momenti chiave della nostra storia, quello dell'indipendenza, nella memoria -Come rimanesse svizzero il Ticino nel1798» apparso nel "Politisches 1ahrbuch der Schweiz. Eidgenossenchaft,., 1888, con la quale riconduceva nei suoi veri canali la portata di una realtà storica, traviata dalle versioni ufficiali, rivendicando ai Patrioti, scambiati sempre per briganti, il merito grande di aver risvegliato democraticamente il paese ancora immerso nelle tenebre: con esemplare franchezza, anche a costo «di non garbare a molti,.. Implicitamente riconosceva, con altrettanta franchezza, di essere stato anch' egli vittima di un anacronistico elvetismo quando una decina di anni prima aveva qualificato di "infame» il famoso proclama lanciato dal Quadri cisalpino il 22 febbraio 1798, senza averlo per niente capito.
Venuto poi nel 1898 il centenario dell'Indipendenza, e stavolta per incarico del Governo che cos1 si mostrava illuminato, riprendeva lo studio dell' '88 in una secondi monografia, sveltendolo o integrandolo in qualche parte, ma senza cedimenti opportunistici o convenienze di comodo. La monografia fu largamente distribuita anche alle scuole alle quali era particolarmente destinata, cominciando dai loro cari maestri.
53
54
Cortile di Brera (incisione di Domenico Aspari)
«Studiò a Brera»
Per tutto l'Ottocento, ma anche un po' prima e continuativamente dopo, le schedine biografiche dei nostri artisti iniziano invariabilmente con la secca informazione: «Studiò a Brera»; tolti quei pochi che prima d'allora, e qualcuno dopo, avevano studiato nelle acCademie di Parma e di Venezia, di Mantova e di Bergamo, e, prevalentemente i luganesi della campagna, all'Albertina di Torino.
Istituita nel 1776, nel periodo stimolante e rinnovante delle riforme teresiane, l'accademia trovò la sua sede, senza più uscirne, nel complesso edilizio di Brera dal quale erano da poco usciti i gesuiti dopo la soppressione dell'Ordine, restandovi ancora allogate scuole e ginnasio nel quale aveva insegnato, e continuò a insegnare, il Parini che, per la nascente accademia, indicò principii e contenuti. Com'era accaduto altrove, anche a Milano l'apertura di Brera finl per chiudere le ultime, antiche scuole di bOttega o di mestiere, salvo essere più tardi rimpiante e ritentate. Le prime cattedre comprendevano l'architettura che primeggiò, la scultura, la figura, l'ornato, e la pittura. Poi vennero via via le altre, specializzandosi.
Fin dall'inizio un ticinese vi trovò spalancata la porta, un altro se la trovò chiusa in faccia. A spalancarla a Giocondo Albertolli di Bedano fu l'architetto folignese Giuseppe Piermarini che, con la sua presenza a Milano, la precluse invece a Simone Cantoni di Muggio.
I:Albertolli, uscito da Parma, nel viàggio tradizionale a Roma per disegnare i marmi antichi e a Napoli, dov'erano in corso gli scavi di Pompei, si era incontrato a Caserta col Piermarini che allora operava nella cerchia del Vanvitelli: e i due si intesero subito. Tanto che il Piermarini, salito poi a Milano, succedendo al Vanvitelli ritornatosene a Caserta, nelle modifiche in corso del palazzo Reale volle accanto l'Albertolli per gli ornati, che fu l' inizio di una lunga collaborazione. Fra il Piermarini e il Cantoni invece nacquero aspri dissapori, anche per la ragione che due galli nel pollaio si beccano, e così il ticinese si vide preclusi Sli incarichi ufficiali assorbiti dai rivale (basti ricordare, col palazzo Reale, la Scala e la villa di Monza), si trovò confinato a un ruolo secondario e contrastato, dovette accontentarsi delle commissioni private subendo in qualche caso i ca'pricci del committente; e se nel '78, quasI a ottenere una rivincita sul Piermanni in una grande opera pubblica, fu chiamato a Genova per il palazzo Ducale, dovette poi circoscrivere la sua attività quasi esclusivamente al comasco.
Chiamato a insegnar l'ornato, tratto dagli antichi ma anche dai Cinquecentisti, l'Albertolli imperò in quel genere diffondendo, con le tavole del suoi PrinciPii, il «gusto" come si diceva allora in assoluto, il gusto cioè neo classico che pareva seppellire per sempre le« licenziosità» del barocco, le sue «deturpazioni»; e le sue tavole furono tenute in conto di Vangelo . infallibile. Il Piermarini sovraccarico di
lavori disertava spesso le lezioni di architettura superiore a Brera, e lo suppliva, coll'altro luganese Pietro Taglioretti, l'amico Albertolli, che trovava anche il modo di progettar in proprio (sua, qui, da noi, l'attuale Banca Nazionale), ,Fur essendo la sua scuola d'ornato affollatIssima, fino a 130 allievi, compresi gli artigiani, distribuiti in gruppi diurni e serali; e tanto durò per 36 anni difilati, fino al 1817, superando indenne i marosi politici che sconvolsero continuamente la Lombardia: austriaca fino al '96, poi cisalpina fino al '99, in quell'anno ritornata austriaca, e con Marengo ridiventata indipendente fino al '14 guando l'Austria la rioccupò. Il Piermariru invece, per la sua fedeltà a Vienna, nel '97 fu epurato e dovette lasciare il posto a un altro Albertolli, Giacomo, di Mugena, che per la sua francofilia aveva dovuto invece uscir da Padova riparando a Milano, dove entrava poco dopo il viennese Leopoldo Pollak che qualche anno più tardi fu pure epurato.
E col vecchio Albertolli, venerato patriarca, mezza campagna luganese si trapiantò a Milano. Già vi stava il fratello Grato che lo collaborava, nel '17 gli succedeva sulla cattedra il nipote Ferdinando, un altro parente, Fedele, sovrintendeva agli ornatI della villa di Monza, ancora un altro, Raffaele, disegnava sotto la sua guida, i Mercali di Mugena erano indaffarati a incider tavole per l'Appiani, per il Piermarini, per il Bianchi di Lugano che operava a Napoli, per il Quarenghi ber-
gamasco maestro di neoclassicismo in Russia, e di Lamone erano Felice Ferri insegnante per qualche tempo di ornato e Andrea de Bernardis.
All' Albertolli, che all' apertura dell' Accademia era stato richiesto dal Governò di suggerire insegnanti, si deve se subito fu chiamato a insegnar il disegno di figura, considerato «il primo latte delle Belle Arti agli alunni», Polivonese Domenico Aspari, uscito pU! da Parma, al quale successe per poco il figlio Carlo, arcinoto allora per la serie delle sue. vedute di Milano che parevano gareggtare, ma parevano, con quelle romane del Piranesi.
I:Aspari tenne la cattedra per me21iZO secolo,lasciandola nel 1825 con l'invidiabile riconoscimento di aver saputo formare allievi «utili», coi quali l'intransigente generazione neoclassica ormai però stava per uscire di scena. Senza dire degli architetti ticinesi che, pur non assumendo cattedra, e quindi non fruendo come· gli accademici delle commissioni ufficiali, furono operosissimi a Milano in quella stagione per noi davvero quasi unica, da paragonar soltanto a quella romana del barocco. Illuganese Carlo Felice Soave, per un esempio: tenuto in gran conto, poi svalutato e dimenticato, e oggi giustamente recuperatò. O l'altro luganese, di Tesserete, Luigi Canonica, che invece insegnò a Brera dov' era stato allievo del Piermarini succedendogli nelle opere pubbliche, cominciando dall'ellissi coronata dell'Arena esaltante la grandezza romana dell'Impero fino ai teatri in cui era peritissimo.
Nel 1803, proclamata la Repubblica italiana, subito dopo divenuta regno, il pittore Giuseppe Bossi di Busto Arsizio riformò l'Accademia cOIjl respiro più largo e con apertura europea, istituendo altre cattedre, com presa quella di anatomia che fu subito affidata al chirurgo Pietro Magistretti di Torricella. La riforma conferì a Brera un tono più aulico e meno popolare, universitario e meno artigianale: che fu nuovamente modificato dall'Austria, rientrata in Lombardia, quando, sull'esempio praticato a Vienna, la rinascita dell' artigianato fu fortemente incrementata con una netta distinzione fra le arti cos1 dette maggiori e le minori, tornando ad affluire a Brera muratori e decoratori, stuccatori e fabbri, i mestieri insomma. E anche stavolta l'insegnamento di Brera diede i suoi frutti da noi, suggerendo l'apertura delle scuole di disegno che affinavano la mano agli artigiani, educando tutta una classe di capomastri le cui prove su.(>erstiti, disegnate e acquarellate con penzia, sono ancora Il a documentare un profitto che oggi parrebbe impensabile.
Intanto, accanto all'Accademia, venivano crescendo le raccolte della Pinacoteca, poi fattasi autonoma, che era servita un tempo all'esercizio delle copie in di-
retta e allo studio del colore; quelle altre, allora nominate del Museo patrio, passate in seguito in Castello; crebbe anche la Libreria, come si preferiva chiamarla allora anziché biblioteca, che diventò la Braidense; e l'esposizione al pubblico delle prove degli allievi premiate avviò quelle mostre poi allargatesi di Brera che consentirono ad allievi e artisti nostri di farsi conoscere, mentre da noi le mostre pubbliche erano ancora di là da venire e solo qualche rara personale trovava ricetta in una sacrestia, nel corridoio di un caffè, come .riferiscono i giornali del tempo quando ne riferivano.
Sotto il regime austriaco qualche manifestazione di indipendenza fu contenuta dalla polizia cominciando col divieto di portar la barba che sapeva di carboneria. Venuto il '48 Brera chiuse il portone e gli allievi, compresi alcuni del nostri, imbracciarono la carabina. Poi tutto rientrò nell'ordine come si sa; e uomo d'ordine fu il conte Ambrogio N ava, successo a chi si era compromesso politicamente, che dedicò molta cura al restauro dei monumenti e fu per questo invitato dal nostro Governo a sovrintendere al distacco di due affreschi luineschi nel convento degli Angioli, prima assistenza lombarda ai nostri monumenti artistici che doveva poi diventare una naturale presenza di collaborazione.
Nel campo della pittura, dopo il fiorentino Sabatelli che lOsegnava l'affresco, e da lui lo imparò Antonio Rinaldi di Tremona che scendéndo dai ponti delle chiese si rintappava nello studio a dipingere per sé e per i pochi amici le scenette paesistiche d'osteria con gran brio, entrava a Brera col veneziano Francesco Hayez il primo romanticismo lombardo che spegneva l'ultimo fiato neoclassico: e nelle aule cominciarono a far la loro apparizione armature e costumi, elmi e stoffe, scudi e alabarde, e gli scolari chinati sui libri di storia che suggerivano la scelta dei temi. Anche più vigore ebbe <tuel genere col milanese Giuseppe Bertim, successo all'Hayez, mentre ancora si storceva il naso sulla pittura di paesaggio, che pareva un genere inferiore. Il Bertini, uomo ancora tutto rivolto al passato e alla com posizione canonica, fu maestro a molti (lei nostri, e quasi incredibilmente, se si pensa a Filippo Franzoni, Edoardo Berta, Spartaco Vela, e prima a Ernesto Fontana di Cureglia, i quali, usciti dall'aula, dovevano poi andate per ben altre strade. Invece alla pittura storica, appresa dal maestro, doveva restar per sempre legato il luganese Antonio Barzaghi, che resta il nostro pittore storico in maniera esclusiva, e, per una parte almeno, anche l'altro luganese Pietro Anastasio. Il Barzaghi, figlio di povera gente, entrò a Brera che non era più di primo pelo, grazie ad alcuni mecenati locali: e i suoi quadroni esposti a Parigi e a Londra, per dire di quelli
Giuseppe Piermarini
Luigi Rossi
Raimondo Pereda
il ., iii '"
Lorenzo Vela 55
andati lontani, gli diedero una fama sulla quale il tempo ha steso un velo. Anche il Barzaghi, come qualche altro, apri una cuoIa privata a Milano, avendo come al
lievo Luigi Monteverde che preferi poi, guidato dal proprio . istinto, narrare la realtà quotidiana del suo tempo, senza più spade sguainate che non fossero quelle di legno dei ragazzini giocanti al soldato.
Quanto alla scultura, basterà ricordare il comasco Pompeo Marchesi che ebbe scolaro Vincenzo Vela, che a Brera non mise mai piede come accademico per divieto dell'Austria, mentre vi entrò il fratello Lorenzo a insegnar la plastica d'ornato. Prima di loro, alla scuola del romano Camillo Pacetti, che aveva preceduto il Marchesi, era cresciuto Francesco Somaini di Maroggia, uno dei nostri ultimi neoclassici.
Coll'unità d'Italia, l'Accademia rinnovò i programmi aggiornandosi conformemente a un piano di studi elaborato da una commissione governativa nella quale anche il Vela ebbe a dir la sua. E se pure non si verificò quello che l'architetto padovano Pietro Selvatico andava gridando, e cioè che era tempo e ora di dar il fuoco alle accademie e ritornare alla bottega, ma finiva per scadere in una nuova accademia con fa sua architettura rigidamente goticizzante, e gli artisti milanesi e lombardi non giunsero a una apet!a ribellione come stava accadendo 10 Toscana coi macchiaioli, il grido di Nino Costa, ma questo era romano, «in arte libertas", passò infine la porta di Brera vincendo convenzionalismi e formalismi, estromettendo la composizione considerata una costrizione aella spontaneità, la scuola dei gessi tratti dalLi statuaria classica fu giudicata avvilente, e recando nell'aula d'ornato una pianta d'alloro, vi entrò la rivoluzione. Per la pittura storica era venuto il momento di chiuder l'anta, l'architettura, messo in un canto il Vignola, apriva le porte all' eclettismo, la scultura affrontava il vero. Il bergamasco Cesare Tallone, successo al Bertini, anziché precettare dalla cattedra spalancò l'aula alla semplicità e . alla naturalezza dell' antica bottega, col progredire della tecnica progredì lo studio dell'arte applicata, gettati i vecchi paludamenti i glOvani allievi erano affascinati dai nuovi problemi della luce e dell' atmosfera, si eliscuteva di divisionismo, si discuteva il simbolismo, la scapigliatura di via Vivaio aveva mandato folate d'aria fresca nelle stanze mal illuminate, un primo serpeggiante socialismo umanitario invitava a interpretare la realtà sociale.
Fra gli architetti avevan voce Luca Beltrami, grande intenditore di restauri, e, come il Nava, consultato anche da noi; e Camillo Baita che invitava gli scolari a non pungersi gli occhi sulle tavole archi-
56 tettoniche ma a spalancarli sui monu-
Adolfo Feragulti Visconti
menti vivi di Milano studiandoli in diretto, e anche questo insegnamento liberatore fu poi praticato da qualche nostro maestro di disegno che osò mandar fuori i ragazzi a disegnare dal vero, sfidando l'opposizione opaca dei direttori didattici che temevano per la disciplina. Come molto. insegnò alfe nostre scuole il ferrarese GiusePl?e Mentessi, successo al Tallone, che, Chiamato nella commissione di vigilanza, introdusse un metodo piano e semplice p'er lo studio della prospettiva, arte difficile, adottato a lungo nel nostri ginnasi. Il pittore Pietro Chiesa, già suo allievo, e poi collaboratore e amico, lo ricordava come "una delle anime più belle e generose» che sapevano prodigarsi per gli scolari "dimenticando anche il proprio lavoro personale, con la passlOne dell' apostolato». .
Col Chiesa, per rispettare i limiti temporali della càrtella, Sl può anche sospenaere questa corsa attraverso Brera cIie si prolunga dentro il nostro secolo e non si è fermata, com'è naturale che sia. Distribuite nel tempo considerato, le presenze ticinesi sono foltissime, e basterà appena menzionare quelle che fin qui hanno una voce ormai riconosciuta. Fra gli architetti: Domenico Gilardi, Pietro Bianchi, Domenico Gilardi, Giuseppe Stabile, Giuseppe Fraschina tutti luganesi del borgo o della campagna, i Fossati di Marcate, Antonio Croci di Mendrisio; fra i pittori, i luganesi Angelo Trezzini, Ambrogio Preda, Adolfo Feragutti-Visconti, Luigi Rossi, e Bernardino Pasta di Mendrisio col bellinzonese Augusto Sartori; e con gli scultori, Grazioso Rusca di Rancate e Raimondo Pereda. Tutte presenze parlanti, con i soci onorari ticinesi dell'Accademia anche se non vi passarono tutti, di un capitolo della nostra storia culturale che, piuttosto ancora inesplorato, aspetta sempre qualcuno che lo restituisca debitamente illa luce.
Ernesto Fontana
Filippo Franzoni
Giocondo Albertolli (statua.in Brera)
Due artisti e il loro paese: Vanoni, Rinaldi
Quando nel maggio-ottobre del 1937 si tenne al Castello di Trevano di Lugano la «Mostra ticinese d'arte dell'800 e contemporanea», in cui si riproposero i «pittori del paese» quali Antonio Rinaldi, mendrisiotto, Giovanni Antonio Vanoni, valmaggese, e Carlo Agostino Meletta, onsernonese, uno storico dell' arte di formazione antiquaria e tradizionale, solerte e benemerito studioso degli artisti e dell'emigrazione artistica ticinese, Ugo Donati, insorse contro «l'ubriacatura, che potrebbe essere contagiosa», che ave-
a preso taluni (e non soltanto studiosi e addetti, ma anche personaggi officiali come Giuseppe Motta, al quale Donati non risparmia le ironie per aver accostato il Vanoni a Giotto). 10 strale col}?iva forse principalmente Piero Biancoru che nel '33, dopo le mostre locarnese e luganese dell'anno precedente, aveva scritto la prima monografia del pittore valmaggese, divenendo da quel momento il maggiore propugnatore i:lella singolare grandezza di quell'istintivo. Il fatto rappresentava una svolta nella cultura artistlca locale e metteva in sostanza di fronte due diverse concezioni e sensibilità. Da una parte la continuazione del concetto classico (i cui canoni al Donati sembravano violati perfino dal Vela, 'p'olemicamente limitato in taluni risult~tl), dall' altra il sorgere di una concezione più ariosa e spregiudicata del documento artistico. In realtà non si trattava soltanto di giudizio estetico, ma di una proposta nuova per indagare la storia stessa del paese. Infatti le implicazioni del panorama figurativo proposto dal Vanoni e da altri operatori di quelle rustiche scuole diventavano specola di osservazione della vita e del costume (la figura e il ritratto, le scene degli ex voto, fisionomie e abiti), porgevano materiale concreto }?er penetrare la vita civile, fenomeni stonci e sociali come l'emigrazione, interni di vita domestica. Si trattava dunque della riappropriazione di una forma di identità, di spintualità semplice e ingenua, immediata, che costituiva testimonianza concreta e prorompente su cui intessere un discorso storico e umano di maggiore aderenza. Insomma da qui poteva partire una microstoria significativa e illuminante, della quale si sarebbe avvantaggiato il quadro più ampio della connessione storica.
Sarebbe forse ingiusto attribuire l'atteggiamento critico del Donati a incomprensione di certe realtà popolari e profonde che si facevano strada. In effetti si tratta,:,a.di due posizioni: se mantenersi entro l .n~orosi confini, per cosi dire, della classlC1ta, o se aprirsi con moderna sens~bilità all'i~tintivo; se per fare arte e raggtungere gli effetti rappresentativi (t di ci-
A. Rinaldi (La polenta)
viltà si dovesse passare tra i tavoli e i calchi delle scuole di disegno e le accademie, o se ci fosse un' altra scuola di osservazione e di vita vissuta nel villaggio, tra la gente in carne ed ossa. Sarebbe inoltre riduttivo dell' atteggiamento tradizionale del Donati, non soltanto tàcciarlo di «insensibilità» storica e artistica, ma tacere che proprio in quell'occasione egli si mostra più incline ad accettare il Rinaldi, con tutti i suoi difetti e limitazioni culturali, e addirittura celebrare il Meletta per i ritratti esposti «di una singolare ingenuità e semplicità, plastici, impostati ottimamente e di gusto aristocratico, che sorprende in questo montanaro che vestì le contadine del suo paese con abiti preziosi». Certo non sfuggirà nel giudizio che la soddisfazione si avvale dell'« aristocratico» che mitiga il «montanaro»: ciò che era irriscontrabile nel Vanoni.
Innegabile merito del Donati è tuttavia suello di mettere in guardia contro le facili amplificazioni citatorie (riferimenti a Holbem, a Goya, a Teniers, a svariati fiamminghi e olandesi), sempre seducenti quanto improbabili. Di conseguenza succede che, andando, su schemi moderni, a cercare d'individuare una categoria generale ( e non soltanto particolare della loro individuale attività) e spiando qualche casella confacente in CUI costringerli senza troppo disagio, si fa l'ipotesi di una pittura «nalve» dalla quale resta escluso ovviamente il Rinaldi e nella quale si può tentare d'incapsulare il Meletta e il Vanoni. I quali due sorgono e operano in terreno propizio a questo genere istintivo, isolato aai contesti accademici e scolastici, che si riscontra« specie nelle valli superiori remote da facili contatti e quindi di più vigoroso carattere». Ma lo stesso Bianconi cheformula in breve nota l'ipotesi si ritrae prudenzialmente, anche per altri casi, come quello di Cherubino Patà,
scrivendo: «Tutti pittori sui quali è lecito nutrire ~ualche dubbio, se proprio siano da includere nella variopinta schiera dei pittori della domenica». Anche perché essi sono professionalmente pittori, e non per intermittenze, «loisirs" illuminati da estrosità temporanee: tanto è vero che sono impegnatl dalla committenza in larghi affreschi di chiese e di case civili.
Tuttavia i riferimenti chiarificatori hanno un loro valore. Se per il Rinaldi è assai facile riconoscere, sulla scorta stessa del suo curriculum professionale, un pittore di formazione accademica che s'indirizza, per sua naturale e schiva elezione, a generi che coincidono con l'atmosfera paesana di scene di vita, mentre la sua ritrattistica privilegia, com'è naturale, la galleria di personaggi borghesi, accanto alla pittura religiosa di chiese e cappelle, e negli affreschi di case civili, la mItologia, l'allegoria e la storia, tutte cose che riflettono l'ambiente e la cultura di formazione, il Meletta e il Vanoni non solo si distaccano da queste preoccu}?azioni per la loro stessa formazione artigtanale e ili autodidatti, e natura, ma si ritrovano a rappresentare un mondo le cui asprezze e il cui isolamento li connota con più profonda ed esclusiva evidenza fisionomica e somatica e con il richiamo di eventi minacciosi più frequenti in loco e nei travagli remoti ma rievocati dell' emigrazione, da cui deriva, nel Vanoni, l'abbondante reEertorio degli ex voto. Le vere radici dei i:lue sopracenerini e vallerani sono la loro gente, la vita della comunità cosi com'è osservata, senza mediazioni accademiche. Nel Rinaldi la mediazione della conoscenZa di scuola e, sia pure forse superficialmente, della pittura colta che SI fa negli ambienti milanesi e lombardi rimane un'impronta costante.
Quel tanto di «idiotismo» - nel senso di accentuazione di lingua terriera e dia- 57
Iettale - che è in loro, che è del resto la loro originalità e forza, non importa, del resto, sforzarlo in quella direzione, quanto riconoscerlo per un elemento costituzionale di una cUltura di autosufficienza espressiva e rappresentativa. t incontamlOazione, soprattutto nel ritratto e nell' ex voto, è garanzia di autenticità del documento, per cui possiamo riferirci alle loro tele e tavolette come a documenti iconografici di lettura storica, sicuri che la tentazione di abbellire, di aggiungere anche nel particolare ornativo, allusivo, non altera la sostanza del documento: certa abbondanza di libri e libroni a sfondo del personaggio, per esempio, allude alla condizione civile e in fin dei conti la rappresenta fedelmente proprio perché presumibilmente la rende oggettualmente abbondante. La stessa cosa si 'può dire degli apparati di ornamenti e giOie (si veda speci3lmente il Meletta) che rivestono il personaggio femlfi~~e, quasi una rassegna della volontà di «lhZOlare» traendo da cassapanche e rustici fortieri il meglio per l'occasione irripetibile: ingenua vanità che, da una parte in quel momentaneo sfavillio - "una sorta di magia primitiva che ammanta di beltà le fatiche dei popolani dell'Onsernone», osserva Angelo Casé per il Meletta - c'induce a gettare uno sguardo sulle poche sudate ricchezze del magro campo famigliare o sulle poche gioie del risparmio dell' emigrante, magari dei frutti dell'industria locale, e dall'altra sembra tenda tirata sulla condizione di fatica e di povertà del quotidiano i~ rapporto all'eccezionalità della parata pittonca.
Temporalmente siamo alla concorrenza del ritratto fotografico che sentirà le stesse esigenze dello scenario, della posa con l'abito di gala. Ma quale che sia r esecuzione e lo spirito del singolo artista, la galleria che si salda dal ritratto borghese della regione aperta, affacciata su un' economia agraria più agevole sollecitata da un padronato terriero di ascendenze aristocratiche, a quello di valle e di monte che riflette le asprezze di una condizione di occupazione e di vita notevolmente diverse, ci permette, oltre ad affaciarci su un capit010 alterato da poche mediazioni, e di conseguenza specchio di una cultura autentica, di singolari esiti, di ricostruire una condizione di vita e sociale con strumenti reali.
La scena, in cui il paesaggio, la fatica quotidiana, il mestiere offrono squarci illuminanti di condizioni esistenziali, parla da sé nella sua realtà di atteggiamenti, persone e oggetti: il documento iconografico resta dunque attendibile. Nei ritratti invece si affaccia un'ulteriore possibilità: quella di studiare nei volti, nelle fisionomie, nel realismo rappresentativo del pittore (esi direbbe rerfino di conoscenza consanguinea de soggetto), una
58 realtà umana, un carattere, e finalmente
una storia che si legano al tempo e che in qualche modo la rappresentano. Per cui non soltanto la caratterizzazione ambientale, del vestire, ma il gesto, la guardatura, i segni incisi nei volti stanno in una storia precisa di uomini in un determinato paese. In questo, forse, sta la ragione più profonda dell'essere «pittori di paese» di questi artisti che operano paghi di stare chiusi in quella comunità di cui conoscevano a fondo l'umanità, la ragione di essere cos1 com'era.
* * * I nomi del Meletta, del Vanoni, del
Rinaldi sono i più significativi e ricorrenti nella ricostruzione della compagine ticinese dei «pittori di paese». Premessa la non necessaria cifra dell'istintività o dell'attivazione anedottica della vocazione del ragazzetto di paese che si scopre dentro illustratore deIla realtà circostante (gente e avvenimenti), per cui l'artista educato e formato tradizionalmente e poi, magari alla lontana, informato delle mode che prevalgono nella I;'rovincia italiana, può recare documenti dlustrativi di uguale seppur diversa evidenza, la schiera può ragionevolmente infoltirsi. Ma il fatto nuovo è che si tende, a ragione, a moltiplicare le aggiunte nella direzione del non accademico.
È il caso di Cherubino Patà, verzaschese, nato a Sonogno nel 1827 e morto a Gordola nel '99: prima pastorello, poi arrotino, calato temporaneamente a Firenze con qualche contatto con il celebre conterraneo Ciseri, ritornato al paese a partecipe dei moti del Pronunciamento nel '55 e perciò "esiliato» a Parigi, dove lavora con il grande Courbet, mettendo, pare, la firma del maestro dove sarebbe andata legittimamente la sua; e malgrado questo inopinato sodalizio, segnato dalla «nativa inclinazione di pittore analfabeta» che sa conservare fa sua «rupestre energia». Ma se appena cerchiamo altrove, verso la «Bassa» cantonale, ricaschiamo nella scuola e nell' accademia, nell' epigonismo della tradizione ritrattistica illustre, per esempio con un Bernardino Pasta, mendrisiotto, vissuto tra il 1828 e il '75.
Più di qualche parola suppletiva meriterebbe il pittore onsernonese a cui abbiamo fatto già riferimento, tanto ammirato quanto poco studiato, fino però alla recente monografia di Angelo Casé, biografo-interprete che ha saputo dare un singolare e seducente tagho di vita-racconto su cui innestare la descrizione e la caratterizzazione della produzione I>ittorica inserita nella realtà e nelle vicenoe sia pur minime della valle e del paese e nelle peregrinazioni intermittenti e fatte controvoglia: il paese racchiude il Meletta, per una scelta spontanea degli esemplari della sua arte, cos1 come isola il Rinaldi pe~ una scelta personale e del carattere, di
modo che la domanda che lo storico si rivolge circa gli esiti e i risultati che si sarebbero avuti se fossero usciti dal loro guscio paesano non deve avere sapore di rimpianto per un'esperienza inconclusa, incontrollabile, ma un omaggio alla loro qualità, seppur diversissima. Il giusto e il bello è proprio accettarli per quello che sono, anzi cne fortunatamente sono stati nella naturalezza delle loro inclinazioni.
Carlo Agostino Meletta era nato a 10-co nel 1800; morì nel '75 cadendo dall'impalcatura sulla quale lavorava ad affreschi nella Parroccbiale di San Nicolò di Bormio, ultimo viaggio nella terra valtellinese nella quale aveva già operato anche come ornatista e aggregato a lavori collettivi. tapprofondito studio recente conferma l'esattezza delle conclusioni qua e là già avanzate: il ritrattista esce in tutta l'evidenza della sua nativa disposizione di osservatore acuto, di scrutatore del modello, ma anche di attento connotatore della varietà umana nella sua storia collettiva: «Il sacerdote - enumera Casé - il commerciante, il soldato, l'uomo di legge, il contadino: una variata gamma di tipi, con i loro tic interiori svelati da una smorfia, da una strizzatina d'occhio, dalla semplice curva delle spalle. Ma su tutta l'adunata dei modelli, sono le donne, a nostro avviso, ad avere la palma: la sensibilità del pittore avendole cantate nelle loro oscilfanti espressioni, ora incise da tristezze nervose, ora espanse in dolcissime meditazioni». Ma è vero anche quello che nota Bianconi e cioé che nei ntratti melettiani vi è « una singolare accensione fantastica nel colore ardente, nel tono vagamente allucinato e nella minerale fissità dello sguardo: tale che insieme incantano e quasi inquietano».
Altro campione, forse il più scrutato e largamente 'proposto tra questi nostri "'paesani», GlOvanni Antonio Vanoni. Il pIttore valmaggese nacque ad Aurigeno nel 1810. La sua forma2Ìone è incerta, ma è invece quasi certo che abbia fatto qualche soggiorno in Italia, a Milano e forse a Roma. Nella sua produzione si distinguono i ritratti, gli affreschi di capI>elle e di chiese (si ricordi la Parrocchiale di Aurigeno, poiché gli toccò «l'ambitissimo incarico di decorare da cima a fondo la chiesa del suo villaggio»), la decorazione di case civili, e la ricca e interessantissima serie di ex voto. Questi documenti della religiosità e della vita di lavoro e di fatica, ma anche di ambiente a volte partecipe nell'essenzialità del paesaggio ([a rupe, il fiume impetuosQ, la balza stretta di cui rotolano sassi e vittima), a volte accompagnato negli interni da un accumulo esornativo che rientra nella «fastosità vanoniana» prendono un particolare rilievo storico e umano. La frequente proposta del Vanoni come illustratore esemplare di una certa vita alpestre e di valle è del tutto legittima e certamente il valmagge-
se la vince per aderenza dei temi alla vita, per immediatezza di assunti, per autenticità di notazioni che vanno dirette dal modello o dalla vicenda al pittore: ciò che non accade, se non raramente, nel Rinaldi. Se qualche accostamento è certo possibile, rimane proprio questo fondamentale clistacco, che appare perfino più importante della fattualità ambientate. Vanoni è un cronista nel quale passa la storia individuale per quella che è stata (nei ritratti naturalmente) e passa il destino dell'individuo e della comunità nel suo realistico e intero significato (negli ex voto). Di conseguenza, per <:ontinuare a chiamargli accanto il Rinaldi, egli non è pittore di «genere» nel senso di bozzetto e scenetta, semmai di un genere che mescola il religioso alla vita reale come riflesso di un appiglio disperato quanto più ingenuamente raffigurato; e naturalriiente non si sogna neppure di concedere allo «scherzo», perché se vi è notazione curiosa nasce dall' osservazione rigorosa del reale.
Anche dove le invenzioni suggerirebbero qualche evasione dalla realtà conosciuta (come nel Presepio valmaggese, ora nel Museo di Cevio, o nelle decorazioni profane, nelle quali la malavoglia evidente ad andare al di là nel mondo delle allegorie e delle mitologie è un'altra riprova, o perfino nelle religiose «che egli deduceva con ingenua libertà da devote oleografie o dalla "Galleria biblica" o dal "Leggendario dei santi", da credere che fosse sincero quando dichiarava al sussiegoso Ciseri cIle gli faceva del bene») è ben vero che non c'è soltanto il riscatto G.A. Vanoni (Alberico Dellagana) dovuto alla fresca virtù del colore, ma il fondamento popolaresco fuori del quale non vive più la sua arte: si veda come il porto di Iiverpool e la scena d'aratura, nella villa di Muralto, riducano il motivo remoto e fantastico al realismo dell' osservazione e dell' esecuzione.
Il Vanoni morì nel febbraio del 1886. Il giudizio che Piero Bianconi espresse quasi come ovvia conclusione nel suo primo importante intervento sul pittore nel '33 rimane sostanziale al suo significato di "pittore di paese» appunto: «:Copera di GiOvanni Antonio Vanoni resta una eloquente e nobile testimonianza della fede, della gente e della dura vita delle nostre valli nel secolo scorso. I suoi vigorosi affreschi, le sue cappelle e le sue madonne ricordano l'umile sicura fede vallerana. I suoi potenti ritratti fissano le fattezZe e la fisionomia spirituale, l'anima della gente nostrana; e insieme riproducono fedelmente le pittoresche e gentili fogge del vestire di un tem.e0' I suoi ex voto narrano l'aspra diffiClle esistenza della po,!era gente delle nostre vallate e dicono lOSleme la serena fede che l'addolciva ... Far rivivere le. opere di questo pittore mi pare segno di fedeltà aI Ticino umile e povero: che è poi il solo vero Ticino». G. Antonio Vanoni 59
All'altro capo del paese Antonio Rinaldi: altro ambiente? altra educazione? altro spirito. Nato a Tremona nel 1816, vi mod nel '75. Il Rinaldi è un allievo di Brera, del Sabatelli, toscano e «disciplinatissimo disegnatore». Pedaggio obbligato, nelle prime 0l'ere, le scene storiche. Del restol'educazlOne letteraria non è affatto assente se si possono accertare frequentazioni di Dante, del Tasso e di Milton, del Manzoni; e non sarà da sottovalutare questa fonte letteraria, almeno nello spirito, per taluni «scherzi .. pitto ici, il Berni; e la presenza dei ritratti di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, da lui dipinti, che ornano la sua casa di Tremona, perché anche questo-un dato di cultura piuttosto che un qualsiasi aggancio di figliazione (un atteggiamento simile a quello del V da, conterraneo e coetaneo). Se guardiamo ai ritratti, anche al suo -casquette di studentello teutonico o di una sorta di precineasta, camicia candida e cravattino annodato a farfalla - , a quello della moglie con la figlia, al gruppo delle signorine Spinelli, ai ritratti degli amici Chiesa di Sagno, un gradevole vento di buona borghesia e di tranquilla campagna ci tocca discreto e rassicurante. Gente che percorre, come avrà fatto chissà quante volte l'arguto professor Simonim, poi ragioniere in proprio e contabile, da lui ritratto, le polverose e quiete strade tra l'uno e l'altro dei luoghi di collina, o se ne sta nei giardinetti e nelle salette delle abitazioni borghesi e borghigiane; gente che avrà avuto i suoi crucci, le sue disgrazie, ma che sembra acquietarsi nell'idea della conciliabilità delli vita. È certo che non tutti sono lontani dai rischi: tra i cavatori di marmo della Montagna la disgrazia è in agguato, ed ecco esplodere il c;lramma del faticare; la vita stessa sorprende con la subdola malattia, e il marito ancora con il cappello in testa si ritrova presso il talamo doloroso dove si spargono le lunghe chiome muliebri dell'inferma; e un piacevole viaggio in carrozza volgersi in dramma tra imbizzarcimenti di cavalli, impotenza di ~stiglioni nerboruti, ribaltamenti miodiali; siamo insomma all' ex voto, discretamente praticato dal Rinaldi (nel quale è curioso notare l'assenza di Madonne e Santi soccorritori solleciti, altrove sempre ben individuati, perché si deve pur sapere a chi dire grazie). Il paese lo teneva e fo persuadeva. Anche per affrescare chiese non andava lontano. Nella prossima Brianza, e magari una puntata tra le montagne che gli devono essere sembrate im~ie, fino a Cavergno. Quando si deade ad andare fino a Ginevra e nel paese di Vaud, se ne torna in tutta fretta giurando tra sé di non più allontanarsi; e gli amici che lo conoscono e sanno di che pasta sia l>uomo, casalingo,. radicato al paese, appassionato della moglie e della famiglia, scri-
60 vono a coloro che, lontani, sollecitano la
sua opera: «È un benedetto uomo troppo attaccato ai suoi paesi e alla sua famiglia, specialmente adesso che la sua signora moglie trovasi in stato interessante ... », circostanza non infrequente, si è già passata la mezza dozzina. Uomo di carattere talvolta più che malinconico, cupo, spesso lo prendono le paturnie e allora si rintana, è preso da profondo sconforto, al punto che gli amici si muovono a confortarlo, come capita al suo collaboratore decoratore e ornatista Innocenzo Chiesa, padre di Francesco, che prende su da Sagno e si mette la strada tra le gambe fino a Tremona'per tentare di rinsavirlo. Eppure Antoruo è anche socievole, ama le feste nella sua casa, ha amici. Forse la sua aspirazione è la quiete, la domesticità, il silenzio del villaggio, dello studio, e stare a disegnare, a dipirwere le scenette di osteria, di bozzetti di scene rustiche (la polenta, i bevitori, il grotto, gli scherzi alla servente) o fantastiche (aggressioni e liti notturne, chiaro di luna e case diroccate). Da questa quiete escono innumerevoli quadretti di genere che faranno pensare ai fiamminghi, e poi, ripreso dopo <J.ualche dimenticanza, si sentiranno nOffil improbabili al confronto: Magnasco, e Goya nientemeno, ma sarebbe più saggio rovistare tra certa pittura 10m Darda del tempo, pensare all'Induno . . .
Del resto, senza concedere alla fantasia, non è che qualche fatterello clamoroso della cronaca di villaggio non possa ispirare; anzi è quello il momento 10 cui si può essere chiamati a fissare il fatto memorabile. Come quando un ladruncolo, nottetempo, cerca di penetrare sacrilegamente nella chiesa di S. Silvestro a Meride, ma è intrappolato nell'inferriata e trattenuto nella tagliola fino al mattino, spettacolo per un altro spettacolo di gente che, nel <luadro del Rinaldi, accorre da tutte le partI: i preti curiosi e dominanti, le signore nelle 10r fogge festevoli, i notabili del paese e i magistrati del borgo, la forza pUbblica con i suoi ~endarmi marziali, Pincessante parapiglia dei monelli. Occasione ghiotta, squarcio vivissimo di vita paesana e di tipi adunati dal curioso caso, spunto quasi Testoso e insieme non privo ili un suo risvolto educativo ed esemplare, aneddoto che i buoni parroci sapranno inserire nelle lor prediche di sagra e di feste patronali.
Il Rinaldi ha avuto la fortuna di trovare un collezionista che «andando per case e solai, frugando fin nelle cantine e uscendo sulle logge dove appesi a un chiodo dondolavano al vento telette e cartoni rinaldiani» ha radunato nella sua villa, e poi nella Pinacoteca Ziist di Rancate, «gran parte del tanto che il pittore, sereno nume indigete di queste terre - commenta Giuseppe Martinola - aveva operato: e che a considerarlo come si deve, comunica, come ogni artista autentico, un diffuso senso di pace che nutre
Antonio Rinaldi
l'anima, come un canto che viene dal cuore".
Mostra ticinest d'arte dell'800 e contemporanea, Lugano 1937.
Ugo Donati, Vagabondaggio Contributi alla storiografia artistica ticinese, Bellinzona 1939.
La donna ticine.rt nel ritratto. Catalogo a cura di Giuseppe Martinola, Lugano 1946.
L'ex votri nel Ticino. Introduzione di Piero BianC?ni. Catalogo ragionato di Giuseppe Martinola, Lòcarno 1950.
Virgilio Gilardoni, Vita e costumi nell' arie delle valli e terre ticinesi, Bellinzona 1969.
I naift. Mostra internazionale, Lugano 1969. Piero Bianconi, Ex voto del Ticino, Locarno
1977.
Per il Rinaldi: Società ticinm per le Belle arti. Catalogo officiale
della Esposizione annuale, Lugano 1926; William Ritter, Antrinio Rinaldi, nel-Corriere del Ticino», 20 agosto 1926; Mostra del pittore Antrinio Rinaldi, Mendrisio 1945; Il Mendrisiotto. Te,sto e illustrazioni di Piero Bianconi, voI. I e Il, Zurigo 1945/47; Pietro Gini, AnkJnio Rinaldi di Tremona (1816-1875) in -Rivista archeologica dell'antica provincia e diocesi di Como., a. 1950/51 ; Pinacottca cankJnaie Ziist Rancate. Catalogo a cura di Giuseppe Martinola, Bellinzona 1967; Giuseppe Martinola, Inventario d'arie del Mendrisiotto, 2 voli., Bellinzona 1975.
Per il Vanoni: Piero Bianconi, Giovanni Antonio Vanoni fittort,
1810-1886, Bellinzona 1933; idem, Giovanm Antrinio Vanoni pittore 1810-1886, Locarno 1977; idem, Vanoni che lui, Locarno 1968 (Estratto).
Per il Meletta: Angelo Casé, Carlo Agostino Melella (1800-
1875), Losone 1982.
Concezioni mitiche attorno alla figura del prete
Il dibattito sul folclore sviluppatosi in ~uesti ultimi anni con notevole vigore a livello sia scientifico sia di pubblica opinione comporta anche un riSveglio di ln
teresse per la religiosità popolare studiata dalle diverse scienze umane con un approccio interdi_sciplinare. In prospettiva antropologica gli atti religiosi vengono esanunati quali componenti della cultura di un gruppo, quale parte del sistema di valori di una determinata formazione sociale. Si esplora il ruolo della religione in rapporto lI.l vissuto delle classi subalterne, l a si considera in relazione a contesti societari diversi, da quelli contadini a quelli nati con la rivoluzione industrale. La religione popolare presenta molteplici modi che vanno dalla ricezione, adittamento e reinterpretazione delle forme rituali della chiesa, a quelli, quantitativamente assai più ridotti, di specificità popolare autonoma: essa si pone cos1 in termini di rapporto (assunto, respinto e modificato) con la religione prescritta e normativa. Essa si esplica in una quantità di modi: devozioni, specificità geografiche e sociali del culto dei santi, preghiere popolari, canti, ricezione di modelli e di testi di edificazione, oggetti della vita religiosa popolare (<<abitini» con contenuti benedetti, ex-voto, panni e mazzi rituali), pratiche diverse, dai riti funebri a quelli della suscitazione della pioggia.
Tutto un discorso che è necessario affrontare anche per le nostre zone. Qui esso può essere solo indicato. Al più qui ora è possibile avviarlo adducendone a mo' d'esempio una microcomponente, un tassello.
Cesempio potrebbe essere quello delle credenze legate in passato, neJle nostre terre, alla figura del prete: un aspetto poco trattato nel pur ormai già in più punti esplorato campo della religiosità popolare italiana 1 •
Come era visto il prete dal popolo? I dati che seguono provengono da rilievi personali relativi al periodo a cavallo del secol0 2• Per la gente nostra il prete era
. una figura di rispetto, di prestigio, un punto di riferimento 3: interessanti in proj>osito certi passaggi del Questionario preliminare per la visita pastorale ai MM.RR. signori Pamri, Vtce-Pamri ed Economi Spirituali che, voluto da mons. Molo, esce a Lugano nel 1890: le pp. 10-1~ ad esempio rivelano le attese dara Cuna dal curato nelle sue funzioni e nei suoi rapporti cop.ia comunità di cui era parroc~. Ma accanto a questi atteggiamenti noo affiorano anche altre concezioni assai , meno note.
Colpisce innanzi tutto per radicatezza e diffusione l'idea del prete che «faceva la
,
Preti (schizzo di F. Franzoni)
fisica» 4: il prete cioè .come colui che, fornito di poteri particolari, poteva eseguire operazioni di tipo magico. Alcune delle molteplici testimonianze - che, superfluo avvertirlo, presentavano sempre i fatti come realmente accad~ti - possono chiarire la cosa. Vedi il racconto (di un' anziana, 80 anni nel 1968 ) della donna di Prugiasco che agli inizi del secolo, per quanto ammonita dal curato a non uscir di casa prima dell' avemaria si ostina a lasciare la casa per governare le bestie ancora nella notie, finché un giorno all' alba scopre con orrore in un prato una moltitudine di animali aggrovIgliati in una violenta lotta: ha un bel lanciargli contro forche, falci, vecchi ferri, bastoni, ma invano~ a giorno fatto, sul prato non vi è traccia di nulla: l'apparizione era stata suscitata ad arte dal prete.
Un' altra volta, ai beoni dell' osteria che avevano accolto sghignazzanti il suo invito a frequentare la messa, il prete «fa la fisica» suscitando la visione di un funerale, seguito dalla gente del paese; tornati precipitosamente a casa, gli irriverenti non trovano le mogli e credono spaventati d'aver assistito al loro funerale.
Sempre agli inizi del secolo, una donna, «su a monte», rer quanto si affanni non riesce a fare i burro; finché, insospettita, scopre una volpe che la spia: la prende a legnate, mettendola in ruga azzoppata. Cindomani, scesa in paese, incontra il prete che si trascina in giro malconcio ed azzoppato: era lui che, trasformatosi in volpe, batteva la fisica! Cos1 sempre l'anziana di Prugiasco.
I suoi racconti non sono per nulla isolati. A Olivone il prete faceva la fisica mostrando un'automobile su a Pian d'Usceit. A Ghirone l'istituzione della decima ecclesiastica veniva connessa con la temuta possibilità del prete di giiigd la ftsica: fatte scomparire le bestie daI mon-
te di Magordino e trasferitele in tutt' altro luogo, a Sur Pareit, aveva preteso dai contadini, per la restituzione, una decima di grano. Cultimo parroco di Pontirone «giocava la fisica», moltiplicando tra l'altro -il vino e le luganighe della cantina.
Anche a Comologno ci narrano nel 1968 di un prete che «batteva la fisica» tra l'altro chiamando a tavola un cane im balsamato e facendolo mangiare, guaire, scodinzolare e facendo uscire dai quadri Raffaello e Michelangelo, che scendevano a conversare con lui di pittura e di arte.
Un accenno di spiegazione compare a Bigogno: gh'eva un prevat che l fama fisicai tanti i (iis che anca i pret i stildia la fisi-ca ... 5•
Alla base sta l'idea popolare del parroco come detentore deI libro, del sapere, ma anche la concezione del prete come colui che disponendo di forze particolari può usarle a proprio arbitrio, a scopi buoni ma anche a fini cattivi 6, interpretazione questa che compare anche in rapporto alla benedizione del prete cui rispondeva la paura delle sue maledizioni. Come è efficace nel benedire può esserlo nel maledire: i prèvet i po' benedì e maledì (!sone). Abbondanti i (lati in proposito. A un tale di Menzonio che sottoponeva il parroco a continui dispetti (gUstoso il racconto popolare che lo mostra intento a far piovere dal camino ossa e terriccio nella minestra del curato), il prete lanciò la maledizione di rimanere a consumarsi e putrefare nel letto per sette anni, cosa che inesorabilmente si verificò. A Sonogno, il prete, derubato di una capra, maledl alla calvizie i membri della famiglia responsabile, che oggi ancora ne soffrirebbero 7.
Si giungeva a pregare il prete di «toglier la maledizione». Rispetto per la persona consacrata, ma certo anche timore della maledizione erano all' origine di certi detti, del tipo: a prevet e frati l'auzagh el capell 61
e lasagl andd, a preti e frati alzare il cappello e lasciarli andare, cioè non bisogna parlarne male (Soazza), pret, Papa e Re, o parld ben o tasi, prete, Papa e Re, o parlarne bene o tacere (Comasco) e quello citato in lingua: la veste nera tinge B•
A certi preti 9 era poi attribuita la facoltà della Idromanzia, con il noto procedimento della caraffa magica, e della catoptromanzia, della divinazione cioè con specchi e superfici brillanti 10. Qui le attestazioni sono più sporadiche che non per il «far la fisica», ma tanto più preziose per la componente di continuità, se si pensa che la pratica era esercitata tale e qu3.1e nel Seicento per esempio da certi preti valtellinesi per identincare i responsabili di stregherie e malefici 11.
il discorso deve svilupparsi da un lato .sul come era visto il prete, dall'altro su <J.uanto egli faceva. E qui vanno almeno atati lo «scongiurare i morti,., il «segnare" 12 malattie intese come dovute a malocchio, interventi operati in passato da parecchi preti e oggi svolto dafaici 13. Pure da segnalare la preparazione, da parte di certi nostri preti agli inizi del secolo, degli stoma~hitt o stomaghiriJiJ, minuscoli sacchetti di tela contenenti di regola tre grani di sale, tre foglie di ulivo, mollica di pane e tre frammenti di cera benedetta, che certe persone portavano al collo per proteggersi dal male.
Testimonianze come queste mostrano all'inizio del nostro secolo la presenza, attorno alla figura del prete, di una fascia insospettata di credenze di tipo magico e denunciano l'esistenza, «fino all'altro ieri», in certi strati della nostra popolazione, di stravolte concezioni sulfa funzione sacerdotale, impoverita in larga misura dei suoi contenuti religiosi e spesso fraintesa nel senso di una forza meramente magica.
1) Vedi V. Lanternari, Religioni primitive e religiofU popolare, Roma 1975; FolkJore e dinamica culturale, Napoli 1976; La grande festa, Bari 1976. A.M. Di Nola, Gli aspetti magiro-sociali di una cultura subaltema italiana, Torino 1976. S. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari 1978; AA.VV., Religione e politica. Il caso italiano, Roma 1976, parte prima: Re7igione e cultura rontadina; AA.VV., La re-7igiosità popolare nella valle padana, Firenze 1966; AA.W, R.eligiosità popolare in Friuli, Udine 1980.
2) Cfr. anche SChweizeroches Archiv fur VolkskunJe 68-{)9 (1972-73) 399-406.
3) li prete, d'estrazione popolare, era d'altronde s{>esso assai vicino ~ popo!o, non ~ ne ~ifferenZJ.ava gran che. Vedi ancne il caso di prett che, ancora <ill'inizio del nostro secolo, per integrare l'inadeguata congrua, tengono bottega. Cosl ad esempio a Pontirone, a Lodano ecc. cfr. VSI 2. 830-831 e C. Magginetti - O. Lurati, Biasca e Pontirone, Basilea 1975, p. 236. ruso era in rappotto di continuità con i secoli precedent;i. Vedi aa esempio, per la Val Verzasca: 1606 .Per li Curati di Verzasca l:i Curati della Val Verzasca non faccino più hostina, dan~o d~ mangiar in casa, et allogiando altri, come SI trovò in visita, et questo sotto pena di quattro scudi per 0B:ni volta, et ditta sospensione aI nostro arbitrio > l Visite Vescovo Archin ti, Pieve ~carno f. 9 v.). Analogamente nel 1612: -Prete Giovanni Jelmina presente curato di Brione [Verzasca] no ardisca fare più Hostaria sotto la pe-
na fattali in visita della quale costa nelli atti di d. visita» SVisite Vescovo Archinti, Pieve Locarno f. 180 v .. . 4) Nel nome entra l'idea deformata della fisica come scienza del fenomeno. Vedi il passo dal volumetto N . 28 della Biblioteca del Popolo (che negli anni Settanta l'ed. Sonzogno di Milano metteva in commercio a 15 cento l'uno) dedicato agli Errori e pregiudizi popolari, Milano 1876, p . 21: -Fisica>. Si attribuisce talvolta a questa parola, specialmente nelle campagne un sigD.i.ficato falso. Molti che non credono agli sttegoni, suppongono nei fisici una potenza soprannaturale, perché videro l?restigiatori che usurpavano tale tttolo, eseguire gtuochi di destrezza che non seppero spiegare; essi credono che i dotti che si occupano di fisica abbiano la facoltà di fare miracoli. La fisica è invece scienza assai positiva . .. '. Vedi anche quanto, per la Liguria, scriveva nel 1901 Parodi in AGI 15.61: «Oggifìsica ha nel popolo un senso molto vicino a queflo di magia, e per esso è fisica il magnetismo, lo spiritismo, l'ipnotismo e anche ciò che gli appare di più straordmario nei giuochi de' prestigiatori>. respressione era anche del Piemonte: lavorar di fisica equivaleva a far opere di magia, gettare il malocchio; cfr. N. Revelli, Il mondo dei vinti, Torino 1977, volI, p. XCv.
5) Interessante l'attestazione di Minusio, dove, ancora verso il 1930, a difesa delle arti magiche del prete che 'provocava nottetempo nelle case degli anticlericali misteriosi fenomeni come far ballare pentole, veniva messa una lama con la punta verso la porta e anche un sacchetto di sale, le protezioni magiche usate contro il folletto e la strega. A Cavagnago (1967) la cosa viene connessa con poteri divinaton: i prlvat a giugavan la fisica e così se ad uno ad es. ammazzavano una pecora, andava dal prete che «indovinava> chi fosse il colpevole. Tenendo presenti q'feste attribuzioni, si spIega forse il diffuso modo di dire lombardo e ttc. schm da pr~at.
6) Significativa l'osservazione (1969) di un contadino di Broglio cui nel 1930 una vacca nel pieno del suo rendimento ester/ava> improvvisamente, cessando di dare latte: si rivolse al prete che gli chiese un bicchiere di latte della bestia e un ciuffo di peli e gliela guad; il gIorno successivo la produzione riprendeva regolarmente: -se può fare questo, il prete può fare anche l'opposto',
7) DiffUsissime le affermazioni di questo tipo in Valtellina. Vedi il caso di una famiglia che en trata in conflitto con un prete ebbe quattro morti in un anno, uno in mamera singolare, pe,\" la caduta nella tina del vino. Sempre in Valtellina, a Pianazzo, più di cento anni dopo (1967), perdura l'eco delle -gesta» del DrOch, una strana figura di prete, malvisto dal clero locale geloso dei - miracoli > che operava. Ricercato per motivi politici dalla polizia, celebrava messa a tutte le ore, anche la sera. Per impedirglielo i confratelli gli sbarravano le chiese: ma esse si aprivano a un suo leggero tocco. Giunto di nascosto a Pianazzo ed essendogli rifiutato il ri-
covero per una notte, maledl il paese, che da quel giorno non ebbe più vocazioni feligiose; la donna inosl?itale poi vide la propria casa in fiamme.
8) Siano citate qui anche altre credenze: incontrare un prete con tricorno porta sfortuna, bisogna subito correre a toccar legno (Locatno); cur ch'al va inturn tanci preved, seghee poch, quando vanno in giro molti preti sfalciate poco: è segno di cattivo tempo (Poschiavo); incontrare un prete di venerdl sera era segno pessimo (Bellinzonese); invece a Balerna: pret in capèla, nuvitd b~la, vedere un prete in cappeno da viaggio porta fortuna. Per la connessione del prete con il tempo oltre allo scongiurare le grandinate ecc. ricorda l a pratica lombarda del sec. 16.mo: -per far piovere bagnar i preti et frati, bagnar li Piedi di Santo Christoforo> (Vox Romanica 27. 234 e cfr. Folklore Svizzero 61.70).
9) Uno di questi preti ancor citati dilla tradizione popolare, un v3J.maggese, è ricordato anche da A. J anner, Uomini e aspetti del Ticino, Bellinzona, 1938,"p' 252.
lO) Cfr. l'espressione biaschese: a m r'b vidùda in um spècc, l'avevo prevista e vedi il manuale di magia venduto a Bellinzona nel secolo scorso dal titolo: -Il Drago Rosso, ossia l'arte di comandare agli Spiriti ed ottenere tutto quello che si vuole per fare la Verga misteriosa, per parlare coi morti, per fare lo Specchio di Re Salomone, nel quale SI vede quanto si desidera >.
n) Cfr., nel 1612, da un processo poschiavino di stregheria: «era andato a medigo per sua moglie, stante era maleficiata; et doppo che fu giò cl pregò tanto il Religioso che ge la facesse vedere in un seggio di acqua, cioè quella Anna decapitata una strega>. Da altro processo, sempre del 1612: « ••• Et ge domandò se haveva a caro a sapere la persona lo haveva offeso, ge lo haveria detto. Et così ge lo fece vedere in un amola (ampolla) et fece esser lei>. Nel 1675: -esso Rev.o disse con mio padre: se haveva a caro farli veder la persona? Così ge la fece veder in un bicchier de vin ... >. (G. Olgiati, Lo sterminio delle streghe nella Valle Poschiavina, Poschiavo 1955, p. 92, 210-213). Analoghe notizie sulle magie esercitate da preti friulani in V. Ostermann, Vita in Friuli, Udine 1894, p. 514 e M. Romanello, Culti magici e strl$0neria ael clero friulano (1670-1700), in Lam 36 l1970), 341-371.
12~ Maggiori indicazioni in Folclore Svizzero 63 (1973 1-13.
13 Non pochi guaritori laici affermano che la «forza> gli è stata trasmessa da un prete, preoccupato di avere una continuit~. Il Nbnu, ad esempio, un anziano guaritore del Comasco, attivo ancora verso il 1950, ci confidava che un vecchio prete del suo paese, noto per le particolari doti di aominare tempeste e fulnuni, prima di morire aveva trasmesso a lui, ventenne, un libro necessario a queste pratiche, libro che egli ha poi a sua volta passato alla figlia, che nel 1960 continuava a segnare. Per un parallelo cfr. la notizia in M. Bouteiller, M/decine populaire d'hier et d'aujourd'hui, Paris 1966, p. 62-{)3.
63
Vita f.uniliare
Accanto alla riproduzione di iconografie richiamanti il nostro particolare paesaggio ottocentesco sembra opportuno far posto nella cartella anche ad altra significativa documentazione del genere che ritrae autentiche scene della vita paesana di quegli .anni.
Nelle tavole sono riprodotti due dipinti dell' artista Luigi Rossi, uno di Luigi Monteverde e altro di Michele Carmine.
Molto ricca e varia è stata la produzione del Rossi (1853-1923) luganese di nascita ma italiano di formazione. Troviamo la biografia e s~ critici nel volume illustrato con partlcolare dovizia Luigi Rossi di Rossana Bossaglia e Matteo Bianchi (Bramante Busto Arsizio, 1979, p. 342). Di particolare rilievo sono le opere che testimoniano dell'artista «le sue aelicate interpretazioni dell' animo infantile e materno, del mondo contadino e le sicure visioni di paesaggio» eseguite anche fuori del nostro paese.
n pittore Luigi Monteverde (1841-1923) nativo di Lugano apprese a familiarizzarsi con colori e pennelli in Argentina, ove era emigrato a due riprese. Tornato in patria, 'potè frequentare, come i due pittori citat1 precedentemente, l'accademia di Brera. Chi vuole saper di più su questo artista, che con puntigliosa e non comune sensibilità seppe darci piacevolissimi bozzetti anche (fi autentica vita di paese, non ha che da consultare la pubblicazione ben illustrata Luigi Monteverde di Giuseppe Martinola (Lugano 1978).
Meno note sono la vita e l'attività dell'abilissimo pittore Michele Carmine di Bellinzona (1854-1894), autore tra l'altro di lavori per le chiese di Airolo, di Gorduno e d'altrove. Trascorse gli ultimi anni a Buenos Aires, ove pure lasciò pregevoli dipinti. Notizie SI hanno ne1libretto Gli Artisti Ticinesi, dizionario biografiC() di Giuseppe Bianchi (Lugano 1909, p. 43-46).
- «n fratellino» o, meglio, «Amor fraterno» è il titolo del quadro (olio su tela, cm 27X35, 1878) del Rossi, nel quale sono ritratti un ragazzetto e due sorelline che, in assenza della mamma forse lontana da casa per attendere ai lavori campestri o ad altre faccende, hanno assunto l'incarico di badare al piccolino. Si compiacciono di osservarne il volto e si tengono pronti a dondolare la culla nel caso in cui egli desse segni di malessere. Era un modo, quello, ritenuto utile per distrarre o adaormentare la creatura purtroppo spesso insofferente nel sentirsi immobilizzata entro la fasciatura intesa, a torto, come mezzo per impedire deformazioni.
- n pittore Monteverde soggiornò tempo parecchio a Davesco e, secondo il
64 Martinola, per sedici o diciassette volte
Luigi Rossi (Amor fraterno)
ritrasse la fontana e il pubblico lavatoio sotto il rustico pòrtico. «Confidenze» è la denominazione dell' olio su tela riprodotto (cm 74X58), eseguito nel 1909.
Alla fontana le massaie venivano con il secchio di rame a pigliare l'acqua, dato che rare erano ancora le case che Oisponevano di rubinetti di quella potabile.
Al lavatoio, anche nelle giornate fredde, trascorrevano ore e ore a lavorare di gomito, insaponando, strofinando, battendo e torcendo i panni. Alleviava la fatica lo scambio di quattro chiacchiere e magari di qualche confidenza, come qui, portando a conoscenza della comare il contenuto della lettera appena ricevuta dal postino.
- Vita dura era quella di molte donne paesane: meriterebbe un capitolo a sé. Dovevano spesso occuparsi contemporaneamente di più faccende. Ricordo, ad esempio, d'aver una volta incontrato lungo una delle straducole di valle una donna che dava evidenti segni di prossima maternità; aveva sulle spalle la gerla con entro qualche poco di legna e continuava a sferruzzare; per scambiare il saluto, interruppe la preghiera che stava mormo-
rando a sollievo delle anime dei poveri morti. E... aveva fretta di arrivare a casa ove altro lavoro l'attendeva!
Il paesetto che fa da sfondo al quadro del Rossi (<<La culla», olio su tela, cm 83X61, anno 1883) dev'essere probabilmente su dalle parti della Capriasca. La giovane mamma, uscita sul balcone, imprime aiutandosi col piede il dondolio alla culla, mentre continua a portare innanzi il suo lavoro a maglia.
- Nell'olio su tela (<< La macchina per cucire», cm 37X30) del Carmine è ritratta la cognata Silvia intenta a cucire biancheria di casa.
La macchina 'per cucire è stata certo il primo o uno del primi strumenti escogitati dalle nuove tecnologie (insieme con i fornelli a gas nelle cucine signorili di Lugano nel 1867 e di Locarno nel 1875) entrato in parecchie delle nostre case nel tardo Ottocento. La macchina era messa in moto dal movimento del pedale. Ma con le prime del genere la cuatrice doveva con la mano destra far girare la ruota e aiutarsi con la sola sinistra a far scorrere il tessuto sotto la punta dell'ago.
Vita sociale
Dopo l'arrivo della ferrovia anche nel Ticino, per facilitare la conoscenza del paese ai forestieri qui giunti a soggiornare per qualche lasso di tempo, andarono diffondendosi le guide turistiche: libretti tascabili con testo nelle lingue nazionali e soprattutto anche in inglese, corredati in adeguata misura di illustrazioni.
Degne di particolare rilievo erano le guide edite da Orell-Fussli di Zurigo. Non ancora molto usata per l'illustrazione la fotografia; era invece data la preferenza alla silografia eseguita con puntigliosa precisione e virtuosismi ottici da raggiungere una resa estrema. Autore di queste guide: Jakob Hardrneyer di Zurigo (182H917); delle illustrazioni, Johannes Weber residente a Castagnola negli ultimi anni della sua esistenza (1846-1912).
Dai libretti della collana «Europiiische W anderbilder» Lugano und die Verbindungslinie zwischen den drei oberitalienischen See'n e Locarno and itr valleys sono riprodotte sette illustrazioni (1884).
- Del primo è tolta la veduta della riva di Lugano (sullo sfondo ben si scorge la facciata della chiesa degli Angioli) in momenti in cui la gente, mercanteggiando, è occupata nello scarico e nel carico di mercanzie trasportate dalle barche, dai carri ancora trainati dai buoi e naturalmente entro le gerle dei popolani.
- Dalla stessa fonte proviene pure il sec.ondo bozzetto nel quale è raffigurato un particolare del mercato tenuto in una delfe vie del centro storico di Lugano.
- Dalla seconda guida sono tolti gli altri due che si riferiscono a Locarno: uno con la bancarella eretta tra parecchie altre in Piazza Grande pure nei giorni di mercato che si teneva quindicinalmente il giovedl; l'altro ci ricorda gli alti portici del «Caffè delle colonne", sotto i quali si ritrovavano i primi forestieri per assaporare il tiepido sole primaverile o autunnale specialmente alPora del tè. Sullo sfondo si scorgono l portici del «Great Crown Hòtel .. o «Hòtel de la Couronne" (Métropole).
* * * Luoghi d'incontro per qualche poco
di svago erano nei villaggi campagnoli la piazza, il grotto (o crollO come usano dire nel S.ottoceneri) e la trattoria. Durante le lunghe serate invernali su per le valli due o più famiglie si riunivano assieme nella stuva (tinello ben riscaldato) d'una di esse, ove le donne filavano, sferruzzavano o, come in Onsernone, intrecciavano la paglia, mentre gli uomini e i ragazzotti si davano a commentare notizie e fole.
- In tutte le regioni ove prosperano i vigneti - dalla bassa Valle di ~lenio giù
':'~<'r~, flV .. M--, . "..' - -,.~
Losone, ai grotti
giù sino all'estremo lembo del Mendrisiotto - là dove il gioco delle correnti d'aria prorompenti dal piede della montagna può essere inteso come sorgente di gradita frescura, numerosi erano (e in parte lo sono ancora benché ormai non più nel loro primitivo aspetto) i grotti. La cantina è in parte scavata nella roccia e in essa si conservano le bevande e le pietanze che possono tornare particolarmente gradite al palato degli avventori. Sul molto spazio, che di regola si ha attorno alla casupola, e sotto il verde cupolone del fitto fogliame trovano posto il gioco delle bocce e la corona di tavole e panche di sasso. E lì ci si trovava volentieri nei pomeriggi delle domeniche, quando cioè gli estenuanti lavori campestri . concedevano una sosta.
li Weber ha ritratto uno dei vari grotti di Losone che, come quelli di Ponte Brolla, almeno nel Locarnese erano ritenuti i più accoglienti.
- Numerose - troppe! - erano poi anche le trattorie e le osterie del tipo di quella riprodotta (verso Orselina), nella quale ci si imbatteva all'imbocco della strada che mena alla Madonna del Sasso. li suono della viola collocata sulla tavola del cortile richiamava l'attenzione anche di qualche forestiero desideroso di scoprire persino povere minuzie del nostro rustico mondo.
- In alcuni villaggi, come a Grancia, era praticato sulla piazzetta il gioco dei birilli introdotto forse dagli operai (maestran) che andavano a far stagtone, come s'usa dire, nella Svizzera interna. 65
Vita contadina
Molto accidentata è la configurazione fisica del nostro paese; donde, anche per altre ragioni, la carenza nelle regioru di montagna di strade percorribili con buoni mezzi di trasporto. D'altra parte, specialmente nel Sopraceneri, rilevante era la distanza tra i vari posti di lavoro del contadino e del pastore: coltivi molto frazionati sul foncfovalle, maggenghi e pasture sino a 1000-2000 metri di altitudine. Ne sono esempi le forme di transumanza in Verzasca, nella Val Bavona e altrove già richiamate in precedenti cartelle.
Il trasr.0rto delle mercanzie era fatto con l'ausilio delle bestie da soma (muli e asini); più spesso sulle spalle degli uomini e pur anche delle povere donne.
Quattro erano gli attrezzi più usati per il trasporto a spalla o in altro modo: la gerla, la càdola {cadra in dialetto; sta sulle spalle delle due donne ritratte in Val Bavana), il barç.héi o cargansc (gerla a stecche rade) e 11 grande cesto (cavagn).
- Bosco Gurin non ebbe la strada carrozzabile che lo collegasse a Cerentino se non verso il 1926; quindi faticoso riusciva il trasporto di mercanzie anche per recarsi ai villaggi vicini e al grosso borgo, ave pure per una ragione o per l'altra"occorreva andarci.
- La vignetta delle due donne in Val Bavona ci può dare un' idea degli abiti che indossavano le contadine di montagna. N elI' altra del comasco Mazola (catalogo della mostra" Vivere e sopravvivere delIa Lombardia dell'Ottocento») è ripresa la
. campagnola attiva in regioni ovela colti· vazione della terra era certo meno faticosa e più redditizia. I suoi capelli ravvolti in cerchio dietro la nuca sono trapassati da spilli disposti a raggiera (i spadin): acconciatura, questa, molto in uso ancora alla fine delfOttocento anche dalle nostre parti. La figlia reca in mano la falce messoria (mèdra, seghézz) usata per il taglio delle messi o d'una manciata d'erba.
- Quando c'era da condurre bestiame al mercato di Locarno o riportarne a casa il valligiano doveva percorrere la lunga strada a piecti.
Il mercato delle bestie non era tenuto in Piazza Grande (eccezion fatta per gli animali da cortile), bensi nei prati attigui all'attuale Piazza Castello. Nel bozzetto "di J. Weber infatti anche le mura del castello fanno da sfondo.
Frequentatissimi erano i mercati di maggio e di settembre perché qui erano anche condotte le mucche, da poco discese dall'alpe, concesse a sverno ai contadini del Locarnese e del Luganese e poi riprese a primavera avanzata.
le capre erano perlopiù vendute in au-66 tunno èQ erano poi oggetto della mazza
.. . ., .. ..
casalinga soprattutto in quelle case ave non s'era potuto allevare il porcello.
Si contrattava alla buona, ili regola indicando in marenghi il valore della bestia: mezzo marengo o più per una capra, cinque o dieci marenghi per un capo Dovino. Niente carta e lat>is per il contratto anche per lo sverno; a si 1imitava a concludere con una cordiale e onesta stretta di mano.
Chiassoso riusciva l'assembramento: al cicaleggio mercantesco facevano eco l'iroso grugnito dei porcellini, il raglio degli asini e soprattutto l'ininterrotto
Contadine della Val Bavona
Locarno, mercato del bestiame
l . ' " ~~ ...
mugghio delle vacche. - Alimento baSilare in Verzasca e un
po' meno altrove era la polenta che quotidianamente era portata sul desco.
Accurata ne era la preparazione come si può intuire anche dal dipinto (<<La polenta», olio su tela del quale è andata perduta ogni traccia) di Luigi Rossi. Egli ritrae con acume descrittivo il sicuro gesto della nonna intenta a rimestare nel paiolo sopra la fiamma del focolare, che veniva in Verzasca a trovarsi in un incavo nel bel mezzo della nera cucina, e sotto gli sguardi compiaciuti di tutta la famigliola.
Borghi e paesi
Quattro vedute del pittore luganese Ambrogio Preda (1839-1906) e una del pittore Luigi Monteverde (1841-1923), pure luganese, documentano qualche aspetto del paesaggio ticinese negli anni dell' ottocento che la nostra cartella storica rievoca.
Al primo dei due pittori, proprio quest' anno e colmando la lacuna di una oibliografia pressoché inesistente, Giuseppe Martinola ha da par suo dedicato un saggio critico, corredato di un catalogo delle opere e ricco di tavole, tra cui quelle che qui si riEroducono (G. MartinoIa, Ambrogio Preaa, Fondazione Ticino Nostro 1982); e al secondo pittore, all'uomo Monteverde, alle sue opere e all'ambiente che fu suo, il Martinola ha pure dedicato un attento studio con catalogo e tavole, tra le quali quella da noi riprodotta (G. Martinola, Luigi Montever(le, edito dal Credito Svizzero, Lugano 1978).
Di Ambrogio Preda sono le tele raffiguranti: Capolago (olio su tela, 24X42, firmatq inf.a.d. A. Preda, prop. Sig. Felice Piona, Viganello), Morcote (olio su tela, 27X44, firmato inf.a.d. A. Preda, prop. avv. Ugo Primavesi, Gentilino), Bissone (olio su tela, 26x43, prop. Signora Ornella Riva-Primavesi, Lugano), La Madonna del Sasso (olio su tela, 26X 39, firmato inf. al centro A. Preda, prop. Signora Augusta Lombardi-Albrizzi, Lugano).
N elle Sl,le tele, l'occhio del Preda cerca soprattutto e fissa, a distanza e nel loro
preciso profùo, lo scenario ampio dei monti sorgenti dall'acque; e ci sembra che invero la precisione di quel profilo e insieme quella lontananza, conferente al paesaggio un elemento di «vaghezza», oovettero essere le ragioni che resero le sue vedute riconoscibili, belle e gradite al naturale, immediato gusto di numerosi acquirenti della borghesia luganese e d'altrove.
In quei vasti paesaggi, i villaggi di Bissone e Capolago sono poco più che accennati con un paio di case: quelle di Bissone sembrano essere volutamente orientate in modo da non vedere la diga di Melide che con un taglio stridente toglie alla vista la riva del lago lungo i piedi del San Salvatore; nella tela di Capolago, affiora appena sulla pendice del monte la breve linea orizzontale delle case di Rovio con in capo ad essa la verticale del suo campanile; nessuna dispersione individualistica di case e edifia fuor del nucleo comunitario nel Ticino rurale dei nostri ~on~ ott~centesc~, e il .{>aese con qu~ liben Sp3.Z1 naturali appar1va allora asSai più vasto che non fosse. Morcote invece ha voluto essere tutto ritratto a specchio del lago increspato e a ridosso dell'Arbostora ammantata di dorato seccume autunnale: certo una delle tele più delicatamente ispirate del Preda.
Pure il Preda accenna sulle sue tele la vita della gente: genericamente, con le barche dei pescatori che si avviano allargo o calan le reti, come nella veduta di Morcote, o che recano a di porto le signore, come in quella di Bissone; meno genericamente, nella veduta di Capolago dove la gente si affolla all' approdo capolinea
Campo Blenio (olio su tela di Luigi Monteverde) (Lugano Palo Civiro)
del battello per Lugano, da pensare che la tela, non datata, come le altre del Preda, sia stata dipinta prima dell'apertura della linea ferroviaria che tra poco assorbirà il più lento traffico lacuale. Un'altra scena di vita qualificante quei tempi è la processione votiva che si vede avanzare sulla tela che riproduce il santuario della Madonna del Sasso sopra Locarno con l'antico convento come apparivano prima di essere restaurati con troppa pretensione alla fine dell'ottocento. Negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, in coincidenza con il quarto centenario della sua fondazione, l'assetto della nuova diocesi e anche il cambio politico in governo, il santuario locarnese assume per la prima volta funzioni e importanza diocesane (cfr. La Madonna del Sasso fra storia e leggenda, a cura di Giovanni Pozzi, editore Dadò, Locarno 1980).
Di Luigi Monteverde è l'olio su tela (50X 72, firmato Luigi Monteverde, prop. Palazzo Civico, Lugano) riproducente il villaggio alpestre di Campo Blenio.
Erano amici il Preda e il Monteverde e assiduamente si frequeìltarono, ma non potevano avere temperamento e occhi più diversi. Quelli di Monteverde guardano qui le case con i comignoli fumanti sui grevi tetti di piode, le stalle di legno e la chiesuola con il campaniletto a vela, i campicelli, i ciottoli e i sassi del greto, con una tale facoltà di «miniaturizzazione», scrive il Martinola mutuando il termine dalle scienze esatte, che "la pennellata si raggruma in granuli minutissimi che paiono una sfida alla pazienza».
67