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In copertina Giovanni Antonio Canal (Canaletto), Harbor of San Marco, prima del 1745, Museum of Fine Arts (Boston), 125 x 204 cm, olio su tela. 28,00 euro ARACNE ISBN 978-88-255-1136-9 OGGETTI E SOGGETTI / 60 Collana diretta da Bartolo Anglani OES 60 | OGGETTI E SOGGETTI / 60 Salvemini Linguaggi del mercato Linguaggi del mercato C entrato su un’Europa mediterranea che, nella age of com- merce, è tutt’altro che emarginata dal sistema dei traffi- ci, questo libro indaga, attraverso studi di caso, l’interagire fra la materialità complessa e straordinariamente variegata de- gli scambi mercantili e la congerie di produzioni discorsive che gli scambi stessi suscitano. I linguaggi del mercato non vi sono letti come rispecchiamento passivo dei giochi dello scambio, né, viceversa, come prodotto di una repubblica del- le lettere lontana dai rumori del mondo. Anche quando assu- mono livelli alti di formalizzazione, i costrutti discorsivi ven- gono messi in relazione con l’universo delle pratiche mercan- tili. Il presupposto è che nella concreta materialità dei circuiti commerciali abbiano un ruolo determinante memorie, riflessi- vità, progettualità; che essi si presentino come un insieme di- namico di azioni e pensieri in reciproca tensione. B iagio Salvemini insegna Storia moderna presso il Dipartimento di Stu- di Umanistici dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Biagio Salvemini LINGUAGGI DEL MERCATO DENOMINAZIONI SOCIALI, MORALITÀ MERCANTILI E STILI DI PENSIERO DELLA AGE OF COMMERCE (SECOLI XVIIXIX)
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Salvemini Linguaggi del mercato - UniBa

May 06, 2023

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Page 1: Salvemini Linguaggi del mercato - UniBa

In copertina

Giovanni Antonio Canal (Canaletto), Harbor of San Marco, prima del 1745, Museum of Fine Arts (Boston), 125 x 204 cm, olio su tela.

28,00 euro

ArAcne

ISBN 978-88-255-1136-9

oGGetti e soGGetti / 60Collana diretta da Bartolo Anglani

oes 60

| oGGetti e soGGetti / 60

Salvemini

Linguaggi del mercato

Linguaggi del mercato

Centrato su un’Europa mediterranea che, nella age of com-merce, è tutt’altro che emarginata dal sistema dei traffi-

ci, questo libro indaga, attraverso studi di caso, l’interagire fra la materialità complessa e straordinariamente variegata de-gli scambi mercantili e la congerie di produzioni discorsive che gli scambi stessi suscitano. I linguaggi del mercato non vi sono letti come rispecchiamento passivo dei giochi dello scambio, né, viceversa, come prodotto di una repubblica del-le lettere lontana dai rumori del mondo. Anche quando assu-mono livelli alti di formalizzazione, i costrutti discorsivi ven-gono messi in relazione con l’universo delle pratiche mercan-tili. Il presupposto è che nella concreta materialità dei circuiti commerciali abbiano un ruolo determinante memorie, riflessi-vità, progettualità; che essi si presentino come un insieme di-namico di azioni e pensieri in reciproca tensione.

Biagio Salvemini insegna Storia moderna presso il Dipartimento di Stu-di Umanistici dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.

Biagio Salvemini

Linguaggi deL mercato

denominazioni sociali, moralità mercantili e stili di pensiero della age of commerce

(secoli xvii–xix)

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OGGETTI E SOGGETTI

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Direttore

Bartolo AUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Comitato scientifico

Ferdinando PUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Mario SUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Bruno BUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Maddalena Alessandra SUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Ida PUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Rudolf BRuhr Universität–Bochum

Stefania BUniversity of Wisconsin–Madison

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OGGETTI E SOGGETTI

L’oggetto e il soggetto sono i due poli che strutturano la relazionecritica secondo Starobinski. Il critico individua l’oggetto da interpre-tare e in qualche modo lo costruisce, ma lo rispetta nella sua storicitàe non può farne un pretesto per creare un altro discorso in cui lavoce dell’interprete copre la voce dell’opera. Ma d’altro canto eglinon si limita a parafrasare l’opera né ad identificarsi con essa, matiene l’oggetto alla distanza giusta perché la lettura critica producauna conoscenza nuova. In questa collana si pubblicheranno contri-buti articolati sulla distinzione e sulla relazione tra gli « oggetti » e i« soggetti », ossia fra il testo dell’opera o delle opere e la soggettivitàdegli studiosi.

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Biagio Salvemini

Linguaggi del mercato

Denominazioni sociali, moralità mercantili e stili di pensierodella age of commerce (secoli XVII–XIX)

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Aracne editrice

[email protected]

Copyright © MMXVIIIGioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale

[email protected]

via Vittorio Veneto,

Canterano (RM)()

----

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo

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Indice

Premessa

Parte ISullo spazio semantico

della figura del mercante

Capitolo ILe impossibili “tavole dei ranghi”. Note su semantiche del mer-cante e classificazioni sociali nella costruzione degli Stati mo-derni (Italia, Francia ed Inghilterra, XV–XVIII secolo)

.. Definire e classificare in antico regime, – .. L’imbarazzo dellastoria sociale, – .. Le classificazioni del « dispotismo », – .. Unaimpossibile tavola dei ranghi, – .. Le classificazioni dell’assoluti-smo, – .. Immagini di società, – .. « Popolo » e « plebe » sullascena urbana, – .. Inquietudini e conflitti della denominazionesociale, .

Capitolo IICommerçant honorable, noble marchand, parfait négo-ciant. Giochi di memorie e classificazioni sociali in una bonneville della Francia assolutistica: Marsiglia fra la Fronda e laRivoluzione

.. Premessa, – .. Come leggere il passato? Una querelle nella Mar-siglia di metà Settecento, – .. : uno statuto urbano scritto dalre, – .. Lo statuto del da prodotto delle “cose” a ordinamentodelle “cose”, – .. Commerce honorable o noblesse commerçante ?, – .. Verso il nuovo statuto, – .. La frammentazione della scenaurbana, .

Capitolo IIIStoria e semantica di una professione. Appunti su negozio enegozianti a Bari fra Cinquecento e Ottocento

.. Il più grande dei « piccoli negozianti » dell’età della Restaurazione,

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Indice

– .. Negozio, negoziante: lemmi in bilico fra permanenze ed instabili-tà, – .. Ai margini del Golfo di Venezia fra Cinque e Seicento:il negozio delle « nazioni », – .. Ai margini del Golfo di Veneziafra Sei e Settecento: il negozio dei marinai, – .. L’impresa diffusadel secondo Settecento, – .. Conseguenze semantiche della in-congruenza di status: come troppi marinai divennero negozianti, – .. Conseguenze semantiche della incongruenza di status: comealcuni negozianti arricchiti dovettero abbandonare la professione o lacittà, – .. Conseguenze semantiche della incongruenza di status:come l’innovazione sociale permise ad alcuni negozianti arricchiti direstare a Bari, – .. Conseguenze semantiche della incongruenza distatus: come molti negozianti tornarono marinai (o divennero commer-cianti), – .. Come molti figli di negozianti si fecero dottori senzalasciare il negozio, – .. La « città del negozio »: la storia urbanacome idioma della nuova stratificazione, – .. Nella città nuova:come il negozio barese si fece « grande », – .. Un apologo delletre generazioni: come il nipote di un marinaio, figlio e fratello di nego-zianti « traricchiti », divenne banchiere marchese e senatore, ma finì isuoi giorni fra la galera e la miseria, – .. La fine del negozio e lasua eredità: come la città non divenne mafiosa ma solo levantina, .

Capitolo IVLe intermittenze dell’onore mercantile. Narrazioni giuridichee narrazioni diffuse intorno al “fallimento” di Pierre Ravanas(–)

.. Fra il tribunale e la piazza: le allegazioni a stampa, – .. Virtùprivate, pubbliche virtù: la prosperità prodotta da un uomo solo, –.. Le metamorfosi del contratto: dalla fiducia allo jus, – .. Pa-rola giudiziaria, parola pubblica: l’onore del « negoziante » e l’onoredel « proprietario », – .. Da una narrazione federativa ad unanarrazione oppositiva, – .. Epilogo, .

Parte IIMoralità mercantili, pratiche dello scambio e bene pubblico

Capitolo INegli spazi mediterranei della “decadenza”. Note su istituzioni,etiche e pratiche mercantili della tarda età moderna

.. Il Mediterraneo dei grandi racconti, – .. I racconti pluralidegli scambi banali: luoghi e spazi dei traffici, – .. Bene pubblico,bene privato, bene degli apparati: i mercantilismi in idea e in atto, –.. Etiche, attori, pratiche, .

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Indice

Capitolo IIEtiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo oc-cidentale ». Un commento a Settimo non rubare di PaoloProdi

.. Alle radici dell’Occidente, – .. Per una storiografia utile, – .. « La storia d’Europa come rivoluzione permanente », – .. Laminaccia del monopolio dello Stato, – .. Bonum commune ed etichemercantili, .

Capitolo IIIAlla ricerca del “negoziante patriota”. Mercantilismi e culturedel commercio nel XVIII secolo

.. L’attore economico come “soggetto morale”, – .. L’età delcommercio: una teleologia del self–interest?, – .. Alla ricerca delnégociant patriote, – .. Legge positiva e moralità mercantili, – .. La « cultura del commercio »: per una moralità nazionale nonstatalista, .

Parte IIIPropaggini dell’economia politica: pensare il mercato

dai suoi margini

Capitolo IPropaggini illuministiche. Intellettuali “nuovi” e sviluppo di-pendente in Puglia nel Settecento e nel primo Ottocento

.. Premessa, – .. La costruzione di un terminale provinciale delmovimento riformatore, – .. Generi vecchi, coscienze nuove, – .. Empirismo, solidarismo, speculazione: la sconfitta di Genovesi, – .. Una biografia intellettuale pugliese: Giuseppe Maria Giovene, .

Capitolo IISull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Otto-cento. Note su Francesco Fuoco e Giuseppe De Weltz

.. Premessa: classicismo economico e Mezzogiorno, – .. Laquestione delle “opere dewelziane”: qualche nota filologica sulla produ-zione e circolazione della pubblicistica economica meridionale, –.. Due opposte visioni dei circuiti economici: i Saggi e la Magia, –.. Le opere “dewelziane” e il dibattito economico meridionale, –.. Il radicalismo di Francesco Fuoco fra teoria ricardiana e moralismopedagogico, – .. Appendice, – ... Lettera di Giuseppe Danieleal Medici datata Napoli agosto , – ... Memoria di Giuseppe

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Indice

Daniele sul Saggio sui mezzi da moltiplicare prontamente le ricchezze del-la Sicilia, – ... Lettera di Giuseppe De Welz al tesoriere generaledella Reverenda Camera Apostolica datata Napoli, dicembre , –... Lettera del Tesoriere generale della R.C.A. al De Welz datata dicembre, – ... Lettera di Francesco Fuoco al Barone Poerio in Firenze,datata Pisa, luglio , – ... Lettera di Andrea Lombardi a Giu-seppe Maria Giovene datata Potenza, ottobre , – ... Letteradi Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, ottobre , – ... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, ottobre , – ... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardidatata Napoli, novembre , – ... Lettera di Francesco Fuoco adAndrea Lombardi datata Napoli, dicembre , – ... Lettera diFrancesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, gennaio , .

Capitolo IIIGenealogie intellettuali e stili di pensiero. Il mercato e i suoi“fallimenti” fra formalizzazione e valori

.. Immagini dello scambio mercantile: due genealogie di pensiero, – .. La repubblica delle competenze: una storia in procinto di fini-re?, – .. Povertà, migrazioni, conflitti: ciò che hanno da dirci i“chierici”, – .. Per uno stile di pensiero tâtonnant, .

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Premessa

Prodotti nell’arco di quaranta anni, e quindi appartenenti a stagionicivili, storiografiche e personali del tutto diverse, gli saggi quipubblicati mostrano alcuni fra i caratteri precipui dei loro tempi, equindi si diversificano significativamente nel tono, nel linguaggio,nell’apparato concettuale. D’altronde temi ed episodi vi ricorronocon insistenza, vengono ripresi più volte e presentati con variazionipiù o meno importanti. Essi documentano l’ossessione di una vita;e, raccolti ora in questo libro, segnalano un’occasione mancata: ladefinitiva rinuncia a scrivere l’opus organico progettato e riprogettatopiù volte.

Tutti i saggi ruotano attorno ad una questione: al rapporto fra lamaterialità complessa e straordinariamente variegata degli scambimercantili, che, a differenza degli storici delle economie del dono,palaziali o morali, vedo insinuarsi in ogni angolo delle società eu-ropee preindustriali, e la congerie di produzioni discorsive che gliscambi stessi suscitano. Il presupposto analitico è che questo rappor-to assume il carattere della interazione. I linguaggi del mercato nonsono un rispecchiamento più o meno pallido dei giochi del mercato,ma a loro modo vi partecipano. Anche se altamente formalizzati,possono essere proficuamente letti come segmenti del mondo dellepratiche; a condizione, ovviamente, che questo mondo non vengapensato come un universo organico, ma come un insieme dinami-co di elementi in reciproca tensione. L’arco di tempo osservato èquello designato dagli storici come age of commerce — una locuzioneche orecchia, credo non casualmente, la definizione dell’ultimo deiquattro stadi delle filosofie della storia di Turgot e Smith. Gli spazinei quali indago sono quelli di un’Europa mediterranea tutt’altro cheemarginata dal sistema dei traffici grandi e piccoli.

L’ambito di problemi in cui si situano i frammenti di risultati quiraccolti si è man mano disegnato sulla base di una mia lettura dellaparte di storiografia che conosco e del confronto con la documenta-zione raccolta. Lo presento qui di seguito nelle forme grossolane edellittiche confacenti a questa premessa.

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Premessa

Nel quadro della crescita impetuosa e della mondializzazione delcommercio europeo fra Seicento e Ottocento, si disfa la straordinariacostruzione teologico–giuridica che, nei secoli a cavallo fra medioe-vo e prima età moderna, aveva cercato di promuovere e difenderel’ordine sociale “domando” l’attività pacifica ad esso al tempo stessopiù utile e più potenzialmente pericolosa: quella mercantile. I com-portamenti orientati dall’interesse personale e da modalità relazionaliimprontate al contratto andavano controllati e validati sulla base dicriteri etici e politici a fondamento sacrale. Nell’età del commercio ilinguaggi del mercato si laicizzano in due opposte direzioni: da unlato essi si disorganizzano, si frammentano, si localizzano; dall’altrosi vanno ricomponendo su fondamenta, per cosi dire, autocefale.Lungo questa seconda direzione la manutenzione dell’ordine socia-le, sulla quale si erano affaticate le menti per millenni, è questioneinsensata. Esso semplicemente si autorealizza; e non nonostante lacrescita delle interazioni mercantili, ma grazie al mercato stesso. Diconseguenza la sua validazione esterna non promuove, ma perturbal’ordine sociale.

Per penetrare il mistero della funzione ordinatrice del merca-to diventano inutilizzabili non solo le costruzioni discorsive tardo–medievali, ma anche i saperi organizzati nella struttura arborescentebaconiana. La nuova scienza capace di estendere il campo di applica-zione del calcolo anche alle confuse interazioni mercantili producecataloghi scarni di figure ed atti stereotipici, di leggi ed enunciati,di tassonomie di pratiche, azioni ed attori, configurando erculeeoperazioni di riduzione della complessità e consegnando le plateali“imperfezioni” dei soggetti e dei meccanismi economici alle scienzeminori della descrizione ideografica – la storiografia in primo luogo.In questo processo si costituisce un canone di linguaggi e formediscorsive, e di autori in grado di manipolarne gli strumenti linguisti-ci e concettuali, che si legittima attraverso la definizione di confiniprecisi nei confronti di altri linguaggi ed autori di testi sui mercati.

Inutile dire come le resistenze a questi processi siano state forti ediffuse, e come la questione del controllo sociale dei mercati si siariproposta di continuo. Il punto che mi pare vada sottolineato è chevincolismi ed interventismi di antico regime, saldamente istallati nei

. Il riferimento è al Tableau général de la science qui a pour objet l’application du calcul auxsciences politiques et morales di Cordoncet, in “Journal d’instruction sociale”, juin e juillet.

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Premessa

luoghi del potere delle nuove monarchie commerciali, e poi quelliotto–novecenteschi, non riescono in alcun modo ad opporre a que-ste visioni costrutti concettuali organici, un fondamento valoriale eteorico della forza di quello dei secoli a cavallo fra medioevo ed etàmoderna. Smarrito l’ancoraggio teologico–giuridico, essi finisconoper adottare figure discorsive e linguaggi del campo, apparentemen-te avverso, quelli della scienza economica così come ridisegnato econfinato fra Sette e Ottocento, assumendo connotazioni intimamen-te contraddittorie. I dilemmi della regolazione politica dei mercati,ancora oggi sotto i nostri occhi, mi sembra che abbiano a che fareanche con questa vicenda cruciale della storia europea.

Gli scritti qui pubblicati si avventurano in questo intrico di que-stioni in forme, per così dire, oblique ed in ordine sparso, ma adottanoun gesto interpretativo comune: quello di non stare al gioco dellaautorappresentazione del segmento degli economisti politici risultatoin Europa vincente, secondo la quale la condizione per penetrare imeccanismi del mercato è la formalizzazione, e dunque la rottura delmagma linguistico delle scienze della società. Pur tenendo d’occhioalcuni fra gli innumerevoli libri che postillano le opere del canone,dal quale escono solo per cercarne nei secoli ed a volta dei millenniprecedenti i “precorritori” e per frugare fra i contemporanei “mino-ri” alla ricerca di qualcuno degno di entrarvi, questi saggi si aggiranonell’universo testuale della pubblicistica minuta, degli apparati isti-tuzionali, degli atti normativi, dei contratti mercantili. La linea ed ilsenso del mutamento si ingarbugliano, ma suggeriscono piste utiliforse anche a leggere gli stessi autori del canone.

Nella prima parte, dopo un saggio di inquadramento che denun-cia la sua originaria destinazione manualistica, sono presentate trericerche puntuali sulla semantica e la classificazione degli attori edegli atti del commercio definitesi nella quotidianità densa di pratichemercantili ed istituzionali e di dinamiche sociali localizzate. La secon-da parte, di tono più storiografico, mette al centro dell’attenzionel’emergere a tentoni, in particolare nelle nuove monarchie commer-ciali, della questione cruciale della definizione di un bene comunecongruente con gli spazi “nazionali”, e della regolazione di pratichemercantili il cui carattere privatistico è ormai pienamente legittimato;in particolare si guarda ai tentativi di promozione di forme di mora-lità che, mettendo un freno al dispiegarsi dell’interesse individuale,fondino la capacità di obbligazione del diritto proprio del principee la sua pretesa di ricollocare l’intera vita dell’economia in una di-

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Premessa

mensione di diritto pubblico. La terza parte studia contraddizioni,resistenze, involuzioni del processo di costruzione dell’economiapolitica nel contesto “marginale” del Regno di Napoli. Un brevescritto finale prova a guardare, in una prospettiva lunga, a qualcheaspetto dei problemi acutissimi posti dalla regolazione dell’economiaodierna.

I saggi sono stati significativamente manipolati rispetto alla reda-zione originale, anche nei titoli e nella lingua. Per evitare di riscriverliin toto, ho d’altronde rinunciato ad eliminare del tutto incongruenzee ripetizioni e, soprattutto, a metterli al passo con una produzionestoriografica in espansione esponenziale. Nel loro complesso, que-sti studi di caso esprimono un tâtonnement interpretativo adeguatoalla forma dispersa assunta da questo libro. In fondo l’opus sogna-to e mai concretizzatosi, con le sue retoriche più o meno implicitedella organicità e della autorevolezza propositiva, sarebbe risultatoincongruente con il modo in cui, dopo tutti questi anni di riflessionee di ricerca e di più o meno attiva partecipazione alle vicende delpresente, continuo a dispormi nei confronti di questi temi.

Gli undici saggi sono apparsi originariamente in queste colloca-zioni:

I. in AA.VV., Storia Moderna, Roma , pp. –

I. in Il Mediterraneo delle città, a cura di E. Iachello e P. Militello, Milano, pp. –

I. in “Meridiana”, , n. , pp. –

I. in Territori, poteri, rappresentazioni. Studi in onore di Angelo Massafra, acura di B. Salvemini e A. Spagnoletti, Bari , pp. – (in collabo-razione con A. Carrino)

II. in “Storica”, , n. , pp. –

II. in “Storica”, , n. ––, pp. –

II. in “Rives méditerranéennes”, , n. , pp. – (in collaborazionecon Ch. Denis Delacour)

III. in “Lavoro critico. Rivista di analisi sociale della letteratura”, , n., pp. –

III. in AAVV., Sul classicismo economico in Italia: il “caso” Francesco Fuoco,Firenze , pp. –

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Premessa

III. in De la richesse et de la pauvreté entre Europe et Méditerranée, a cura diTh. Fabre, Marseille , pp. –

Le abbreviazioni archivistiche adoperate sono le seguenti:

ABMC = Archivio–Biblioteca–Museo Civico, Altamura

AG = Archivio Storico dell’Accademia Economico–agraria dei Georgofili,Firenze

APdG = Archivio Provinciale de Gemmis, Bari

APR = Archivio Privato Ravanas, Tolone

ASB = Archivio di Stato, Bari

ASN = Archivio di Stato, Napoli

BSSP = Biblioteca della Società di Storia Patria, Napoli

BCM = Biblioteca Comunale, Molfetta

BNB = Biblioteca Nazionale, Bari

BNN = Biblioteca Nazionale, Napoli

Il libro è per mio figlio adolescente e per sua madre: un piccolo segno digratitudine per tutto ciò che mi hanno dato senza ricevere (quasi) nulla aldi là del mio affetto.

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P I

SULLO SPAZIO SEMANTICODELLA FIGURA DEL MERCANTE

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Capitolo I

Le impossibili “tavole dei ranghi”

Note su semantiche del mercante e classificazioni socialinella costruzione degli Stati moderni

(Italia, Francia ed Inghilterra, XV–XVIII secolo)

« Mais selon le monde, Sire. . . Le plus grandroi de la terre épouser la veuve de monsieurScarron ! »« Ah, vous parlez comme Monsieur de Louvois,me dit il, je vous répondrai comme à lui : selonle monde, c’est moi qui fais et défais les nobles-ses. On est toujours assez bien né quand on estdistingué par moi ».

F. C, L’Allée du Roi. Souvenirs deFrançoise d’Aubigné Marquise de Maintenon épousedu Roi de France, Parigi , p.

.. Definire e classificare in antico regime

« A nobleman, a gentleman, a yeoman; the distinction of these: thatis a good interest of the nation, and a great one ». Le famose parole diOliver Cromwell al parlamento rivolte contro i livellatori individuanouna via obbligata per « risanare e sistemare » la società sconvoltadalla rivoluzione: quella di restituire ad essa una articolazione, direnderla di nuovo oggetto di una descrizione possibile. Una societàbuona è in primo luogo una società che offre partizioni leggibili agliosservatori ed ai protagonisti degli eventi. Qualche secolo dopo inpolemica con i rivoluzionari dell’altra sponda, contenti di collocarsiin « a monstrous meddley of all conditions, tongues, and nations »,Edmund Burke non aveva dubbi che la linea di Cromwell fossepassata: con lui al potere « all the prizes of honour and virtue, all the

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Linguaggi del mercato

rewards, all the distinctions remained », e rimasero ben solide le basisu cui l’Inghilterra si sarebbe proposta come un esempio di buonasocietà.

L’uso che delle parole di Cromwell fa Burke è ovviamente fuoricontesto, ma non mi pare dubbio che la questione riguarda l’interoOccidente europeo di antico regime. Anzi, visto da questo lato, essosi presenta come un oggetto storiografico non del tutto artificioso.In questi secoli ed in questi spazi si concentra una produzione forsesenza eguali, in particolare da parte di soggetti, gruppi ed apparatiriferibili al nuovo organismo che chiamiamo Stato moderno, di atti diclassificazione del corpo sociale riferibile al suo spazio di sovranità, ilterritorio regio, a cui fa riscontro una immensa produzione di rappre-sentazioni e riflessioni sulla conformazione che esso va assumendoo deve assumere, sulle sue articolazioni, sulle sue gerarchie. Qualesenso dare a questi fenomeni? Quali rapporti essi intrattengono conla configurazione e la dinamica dei poteri, con le identità e le strategiedegli attori, con le tensioni ed i conflitti sociali? Come interferisconoqueste immagini e classificazioni con quelle prodotte dallo storico?

.. L’imbarazzo della storia sociale

L’imbarazzo evidente con cui lo storico di oggi affronta il compitodi descrivere la società del passato rende queste domande particolar-mente pressanti.

I tempi in cui era possibile immaginare codici socio–professionali,fasce di reddito, nicchie giuridiche dentro cui incasellare ordinata-mente ciascuno dei nostri antenati distano da noi non più di unagenerazione. Impegnato, in polemica con Ernest Labrousse, a cer-care criteri di stratificazione intrinseci ai linguaggi ed alle logiche diantico regime, Roland Mousnier costruisce alla fine degli anni Set-tanta, per i parigini dell’età di Richelieu e Mazzarino, una imponente

. E. Burke, Reflections on the Revolution in France and on the Proceedings in Certain Societiesin London relative to that Event, a cura di C. Cruise O’Brien, Harmondsworth , pp. e .

. Nei secondi anni Sessanta si celebrano, a Parigi () ed a Saint–Cloud (), i duefamosi congressi rivali sulla stratificazione sociale, diretti, rispettivamente, dal “contestualizzan-te” Mousnier e dal “modernizzante” Labrousse. Cfr. Problèmes de stratification sociale, a cura diR. Mousnier, Parigi , e Ordres et classes, a cura di D. Roche, presentazione di E. Labrousse,Parigi–L’Aia . Mousnier affida la sua visione generale delle storia delle gerarchie sociali alsuo Les hiérarchies sociales de à nos jours, Parigi .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

macchina classificatoria costituita da « ordini o strati » suddivisi aloro volta ciascuno in vari « stati ». Lo storico sociale è colui che sa« constatare », adoperando una strumentazione appropriata, le arti-colazioni di primo e secondo grado iscritte nel corpo sociale e nellacoscienza degli attori; e, quando l’operazione non gli riesce — comecapita a Mousnier stesso al riguardo degli « stati » nei quali si dividel’« ordine » numero (« fascia superiore del commercio ») — la cosa èavvertita come una sconfitta: fra quegli « stati » « la gente del tempo. . .poneva delle sfumature che oggi ci sfuggono ».

A vent’anni di distanza l’esercizio appare improponibile. Nel cli-ma culturale dell’Occidente odierno le dimensioni soggettive dell’e-sperienza tendono a sovrastare le dimensioni cooperative, solidari-stiche, associative, segnando, al di là dei mutamenti congiunturali,l’agenda politica; e, al tempo stesso, quella delle scienze della società.« La società non esiste », ha proclamato la Signora Thatcher fra flebiliproteste e sottili distinguo, nel mentre nuovi e vecchi fondamentali-smi culturali, « incubi identitari » a base etnica o religiosa, assedianole aree dello sviluppo. Sulla scena rimangono soggetti che resistonoalla classificazione, che danno vita ad insiemi effimeri, molteplici,strumentali; soggetti, d’altronde, a loro volta minacciati nella lorointerezza, federazioni instabili di funzioni ed identità. Le scienzesociali sembrano così, in questa parte del mondo, inseguire invano ilproprio oggetto di sempre. La loro procedura standardizzata, quellache descrive la società accorpando individui in gruppi variamentecaratterizzati e denominati, smarrisce la sua legittimità. I fili delledescrizioni di società si aggrovigliano, l’analisi “scientifica” delle ta-vole a doppia entrata e dei grafici lascia il posto all’immagine edalla metafora, alla interrogazione diretta degli attori sociali, alla ri-costruzione di identità molteplici e sovrapposte. La complessità delreale appare irriducibile. La sociologia dello Steven Dedalus di Joycesembra più adeguata ai tempi di quanto non lo siano le tradizionalisociologie professionali: suo padre, spiega all’amico Cranly, « erastudente in medicina, rematore, tenore, filodrammatico, politicantesempre pronto ad alzare la voce, piccolo proprietario terriero, bevito-re, un cordialone che si divertiva a raccontare barzellette, segretariodi non so chi, interessato ad una distilleria, piccolo risparmiatore,esattore delle tasse. Infine andò in bancarotta e attualmente vanta il

. R. Mousnier, Parigi capitale nell’età di Richelieu e di Mazzarino, Bologna , pp. ss.

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Linguaggi del mercato

proprio passato ». Ad un personaggio di questa fatta non c’è versodi trovare una casella classificatoria e di dotarla della giusta etichetta,dal momento che non ce n’è un altro simile con cui egli possa far“gruppo”.

Condotte dall’interno di questo clima, le sole descrizioni plausibilidelle società del passato rischiano di somigliare alla mappa a scalauno a uno che vanno disegnando i cartografi imperiali di Borges.Chiedere soccorso ai soggetti ed alle istituzioni studiate, alla loroattività di ricomposizione del corpo sociale, alle categorie con le qualivi si orientano e lo interpretano, sembra un modo per ritrovare i filidi una descrizione che non rinunci a priori alla ricerca di logiche ecostanti; e che renda possibile, anche dal lato della storia sociale, unmanuale.

Tutto questo non riesce a fondare nuove ortodossie storiografi-che. Su un punto l’accordo sembra generale: la critica di quel latodella grande tradizione dello studio delle società che riguarda diret-tamente il mestiere dello storico, ossia la visione del mutamento.Nelle teorie della modernizzazione costruite dalla sociologia in viadi professionalizzazione fra Ottocento e Novecento, sotto l’influenzaanche della storiografia giuridica romantica, il passaggio dalla societàpremoderna alla società moderna è segnato dal mutare graduale deiprincipi, espressi in norme ed in visioni della società, che regolano leinterazioni e la coordinazione fra gli individui. Le formule — notissi-me — sono varie e nascondono diversità ed accentuazioni analiticheimportanti che qui non è il caso di ricordare, ma tutte si prestano adessere banalizzate in una sorta di teleologia dell’innovazione: quandolo status cede al contratto (Sumner Maine), la solidarietà meccanica al-la solidarietà organica (Durkheim), la comunità alla società (Tönnies),il noi all’io (Elias), la collocazione di ciascuno nello spazio sociale ces-sa di essere determinata in forme variamente costrittive e diventa ilrisultato di strategie e scelte individuali. La trasposizione storiograficadi maggior successo di questa linea — quella riproposta da Mousniere dai suoi allievi fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta — raccontal’emergere del mondo nuovo, a partire dal secondo Seicento, comegraduale venir meno della « società di ordini », classificata per gruppiirrigiditi da una gabbia giuridica ed istituzionale, e lo strutturarsi diuna « società di classi » fatta di gruppi fluidi e volontari e percorsa dauna intensa mobilità sociale.

. J. Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista in gioventù, Milano , p. .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

Il rifiuto del racconto condotto sul filo di un tempo lineare eretto dalla tradizionale risorsa storiografica del senno di poi metted’accordo — come si è detto — la gran parte degli storici di oggi. Maper il resto gli atteggiamenti interpretativi divergono. Raggruppereigrossolanamente quelli che mi sembra più efficacemente indaghinoclassificazioni ed immagini delle società di antico regime, in duecampi tendenzialmente opposti.

Da un lato si rovesciano sul passato, in forme più o meno dirette,gli umori, le domande, le proposte analitiche elaborate per dar contodell’« individuo danneggiato » novecentesco. Guardate da vicino, colcorredo di una documentazione spesso trascurata e di una interro-gazione sofisticata, azioni ed interazioni di nobili e preti, cittadini econtadini di antico regime manipolano norme sociali di ogni tipo, in-teragiscono attivamente con le istituzioni che dovrebbero inchiodarliin un punto preciso dello spazio sociale. La gabbia classificatoria delmondo che abbiamo perduto diventa fragile; gli apparati costrittivi,culturali e di potere, che dovrebbero governare e ridurre la comples-sità sociale, possono essere analizzati come « vincoli » e « risorse »,specifiche del contesto storico studiato ma coinvolte in un gioco con-dotto, in ultima analisi, da individui. Raffigurare questi ultimi comeun prodotto della modernizzazione sarebbe dunque errato. I corpi,gli ordini, le personae fictae che affollano città e campagne di anticoregime, lo stesso Stato che li comprende nel suo territorio, una voltariportati alle pratiche sociali nelle quali assumono vita reale, rivelanola loro natura di insiemi incoerenti di volontà e scelte individuali, chesi compongono e ricompongono in reti di relazione variamente ecomunque instabilmente istituzionalizzate. Le immagini di società,normative o intellettuali, sono più un risultato delle pratiche socialiche un mezzo per dare ad esse un ordine riconoscibile.

In tutt’altra direzione sembra andare il recente recupero dellagrande storiografia giuridica tedesca otto–novecentesca dall’internodi una antropologia culturale che pone l’accento sulla vischiosità ela cogenza dei tessuti comunicativi a fondamento delle compaginisociali premoderne. Il rifiuto di accostarsi alle società del passatoarmati delle categorie della legalità moderna, già elemento centraledella polemica controrivoluzionaria che fonda l’imponente Storia deldiritto romano nel Medio Evo di F. C. von Savigny ( volumi, –),si traduce in von Gierke, Hintze, Brunner, e poi in alcuni studiosi diprimo piano che ad essi oggi si rifanno (ad esempio B. Clavero), inuna ricostruzione serrata di contesti culturali rimasti, all’incirca fino

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al Settecento, irrimediabilmente estranei al mondo di oggi. Primocompito dello storico che voglia cercare di individuarne le logicheprofonde, e non limitarsi a sorvegliare storicisticamente i precorri-menti della società futura, è quello di spogliarsi delle categorie cheinteriorizza assumendole dal mondo in cui vive — in particolare ledicotomie pubblico/privato, Stato/società civile, politica/economia.Le vie di accesso all’universo di senso che regge quelle società sono,per noi moderni, strette ma, in una qualche misura, percorribili: inparticolare quelle che attraversano l’immensa produzione teologicae giuridica fra Trecento e Seicento. Lì è possibile cogliere per indiziil funzionamento di una società retta da forme istituzionali plurali,disperse, che nulla hanno a che fare con il concetto centralistico delloStato ottocentesco; ma, al tempo stesso, straordinariamente efficacisul piano del coordinamento, della regolazione e dell’integrazionesociale. Il « pulviscolo. . . periferico ed inneffabile » degli « elementiordinatori », dei « meccanismi di disciplina e strutturazione socia-le », della « dolce violenza » di « un progetto patriarcale. . . di ordinesociale » costruisce un universo denso, coeso, uno spazio socialetendenzialmente senza incrinature. Gli episodi rivoluzionari non pro-vocano lacerazioni dell’ordine sociale ma risarciscono quelle che sicreano, riassegnando a ciascuno la sua collocazione « rigorosamentetipizzata ». Tutto questo fino a quando non emerge il nuovo uni-verso di senso della modernità, che ha al suo centro la RivoluzioneFrancese.

Le annotazioni sulle classificazioni ed immagini di società propo-ste nelle pagine seguenti, riferite soprattutto al mondo mercantiledell’età moderna italiana, inglese e francese, raccontano una storiaassai diversa: una storia di incrinature, scompensi comunicativi, vuotied incertezze dei meccanismi della classificazione, del coordinamen-to e dell’integrazione. D’altro canto la produzione classificatoria nonsembra costituire un esercizio senza costrutto; Essa definisce, peri soggetti sociali, orizzonti di opportunità, ambiti e costi delle scel-te, forme di obbligazione per l’interagire, l’identificarsi in gruppi,il confliggere. Il vario interferire di cogenza e incongruenza dellepartizioni e delle stratificazioni sociali — è questa l’ipotesi intornoalla quale raccolgo questi appunti — può rappresentare una cifra

. A.M. Hespanha, La gracia del derecho. Economia de la cultura en la edad moderna, Madrid, pp. –.

. Ivi, p. .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

distintiva delle società di antico regime: società non chiuse in unaalterità assoluta rispetto alle nostre, né, all’inverso, accomunate allenostre dal protagonismo di un individuo eterno che si intravvededietro le maschere che di volta in volta indossa.

.. Le classificazioni del « dispotismo »

Per chi guarda alla società, una definizione operativa di antico regimenon può non ruotare attorno allo strutturarsi di spazi sociali pacificati.Il nesso semantico fra pace e territorio è del resto ben radicato nellatradizione giuridica dell’Europa premoderna, e nella prassi, riferi-bile a tempi e modi vari, del costituirsi di territori coperti da retidi relazioni giuridiche e di potere, le quali delegittimano e limitanocoercitivamente l’uso della violenza nelle interrelazioni fra i soggettiindividuali e collettivi. Gerarchie ed articolazioni sociali, che possonosempre meno esprimersi con la diretta efficacia e l’immediata visibili-tà dell’esercizio ritualizzato, minacciato o effettivo della forza, devonodefinirsi in forme diverse. Di conseguenza si fa acuto il problemadella elaborazione di criteri in qualche misura condivisi, che rendanoleggibile e praticabile la compagine sociale a coloro che ne fannoparte; che ridimensionino la fantasmagoria delle posizioni socialipossibili riducendo gli spazi inclassificabili, mal classificati, ambigui;che rendano prevedibili le interazioni e coordinino le soggettività.

In antico regime, come si sa, tutto questo ha assai poco a che farecon il dispiegarsi del libero funzionamento della « società civile », indi-rizzata verso il benessere collettivo da una qualche « mano invisibile ».Viceversa, società e poteri legittimati, pubblico e privato, appaionoper molti versi intrecciarsi inestricabilmente. Uno strumento ampia-mente adoperato per tentare di definire posizioni e coordinamentofra soggetti “privati” è quel particolare tipo di norme sociali che sidefiniscono giuridiche, e che fanno capo a poteri e saperi in grado dielaborarle e dare ad esse valenze di obbligo sostenuto da sanzioni pergli ambiti sociali di loro pertinenza. « La legge — scrive un giuristainglese di primo Seicento — giudica e stima tutti secondo la loro na-tura. . . Essa guarda all’eccellenza di alcuni e dà loro singolari privilegie preminenze ». I « singolari privilegi » — lo vedremo — investonocampi assai diversi, e sono assegnati a seconda delle « preminenze »

. H. Finch, Law, or, A Discourse Thereof, Londra , p. .

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pubblicamente riconosciute a ciascuno. Basterà, per ora, un soloesempio, tratto dalla Francia già alla vigilia della Rivoluzione. Lasanzione legale delle ingiurie personali — ci ricorda un trattato inmerito — è differenziata secondo una lunga scala gerarchica che ha incima la « Divinité » ed in fondo la « gens du peuple »: chi ingiuria unsoggetto collocato più in alto nella scala gerarchica viene punito daitribunali con una sanzione più pesante, spesso minutamente definita,di quella che riceverebbe insultando chi sta più in basso.

Poggiare sulle innumerevoli norme di questa natura, e sulle siste-mazioni dottrinali che ne danno i giuristi, affermazioni sul carattereascrittivo ed univocamente determinato delle appartenenze e dellegerarchie sociali in antico regime è un passo apparentemente ovvio,e del resto, lo abbiamo ricordato, non di rado proposto nei libri distoria; ma, a guardar meglio, le sue fondamenta sono assai incerte.Sistemi giuridici diversi (diritto comune, diritto consuetudinario, di-ritto canonico, diritto mercantile, diritto feudale, diritto delle città)gestiti da magistrati e tribunali diversi coesistono e competono rivol-gendosi spesso agli stessi ambiti sociali; le norme si stratificano e sicontraddicono in assenza di ogni codificazione in senso napoleonico,e rendono il concetto di legge assai diverso da quello statalistico anoi familiare. Gli stessi settori della cultura alta, che nel Settecentopromuovono una razionalizzazione degli intrecci fra poteri e gruppisociali, e quindi cercano di definire criteri generali a tutti evidentidi classificazione ed ordinamento della società (un esempio ovvioè il Dei difetti della giurisprudenza di Ludovico Antonio Muratori,), hanno, sull’argomento, posizioni ambigue. In generale il censorromano che, con la forza della lex, definisce categorie sociali e viincasella il popolo, stabilendo corrispondenze precise fra privilegi epreminenze, diventa nell’immaginario dotto settecentesco una figuradel « dispotismo orientale », che nulla ha o deve avere a che fare conle società complesse impiantate nel cuore dell’Europa.

Proviamo a verificare questa immagine sulle vicende della Russia,per cercarvi elementi comparativi utili ai nostri fini: una proceduralegittimata da quelle dell’“orientalismo” diffuso nella repubblica dellelettere europea di età moderna.

. F. Dareau, Traité des injures dans l’ordre judiciaire. . . , Parigi .

. Cfr. R. Minuti, Oriente barbarico e storiografia settecentesca: rappresentazioni della storiadei Tartari nella cultura francese del ° secolo, Venezia ; M.T. Poe, A People Born to Slavery.Russia in Early Modern European Ethnography, –, Ithaca–Londra .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

Qui il processo di pacificazione passa attraverso conflitti acutissimie giunge a soluzioni radicali. La sconfitta cinquecentesca dei boiarida parte di Ivan il Terribile immette nell’ordinamento dei poteri unprincipio, soggetto nelle congiunture politiche a varie limitazioni manella sostanza non più rimesso in discussione: quello del servizio allozar come fondamento unico delle distinzioni sociali. Nella famosa« Tavola dei ranghi », promulgata da Pietro il Grande nel , ilprincipio si dispiega pienamente. I ranghi, raggiungibili lungo trecarriere (militare, civile e di corte), individuano le posizioni di quantifuoriescono dal cono d’ombra delle condizioni servili ed infime dellasocietà, in una scala graduata sulla vicinanza allo zar come fonteunica di distinzione simbolica e sulla qualità del servizio che gli sirende. Le carriere si iniziano dal basso e le ascese vengono marcatedal modificarsi dei segni di distinzione (i colori degli abiti indossati,le precedenze nelle occasioni cerimoniali, gli appellativi personali).Le posizioni sociali conseguite lungo questa via diventano ereditarie,e quindi configurano una condizione nobiliare in qualche misuraparagonabile a quella occidentale, solo a partire dall’ottavo rango.

La applicazione del principio del servizio prima e dopo la defini-zione della tavola dei ranghi, lo ripeto, è soggetta ad aggiustamentiche gli storici non mancano di sottolineare; ma altrettanto chiaramen-te delineato appare nei loro scritti il modo peculiare di costruzionedelle gerarchie e delle dinamiche sociali che quel principio finisce perprovocare. Il « social change through law » (per riprendere il titolo diun libro importante di Marc Raeff) fonda privilegi e preminenze, ela definizione del profilo e dei caratteri della stratificazione sociale,su un solo tipo di norme giuridiche: quelle emananti direttamentedal vertice della rete di poteri e saperi che fanno di uno spazio fisicoun territorio politicamente individuabile.

Tavole di ranghi e tentativi di fissazione delle gerarchie socialitramite i meccanismi della legge sovrana non mancano in Europa.Il patto del fra il principe elettore di Brandeburgo ed i ceti terri-

. Cfr. L. Sestan, Nobiltà di sangue e nobiltà di servizio nella Russia del ’, Napoli . Unaanalisi accurata del corpo sociale manipolato da Pietro il Grande in M.T. Poe, The Russian Elitein the Seventeenth Century, Vol. I, The Consular and Ceremonial Ranks of the Russian “Sovereign’sCourt” –; Vol. II, A Quantitative Analysis of the “Duma Ranks” –, Helsinki .Sulla nobiltà russa del XVI e XVII secolo cfr. il grande libro di A. Berelowitch, La hiérarchie deségaux. La noblesse russe d’Ancien Régime (XVIe–XVIIe siècles), Parigi .

. M. Raeff, The Well Ordered Police State. Social and Institutional Change through Law in theGermanies and Russia, –, Yale .

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toriali che subordina al sovrano la nobiltà in cambio della fissazionealla terra dei loro contadini, le nove classi del ducato di Württenberg,l’ordre du tableau di Luigi XIV del che regola le precedenze fragli ufficiali dell’esercito regio, la bolla Urbem Romam di BenedettoXIV del , la legge toscana del e quella napoletana del ,sono esempi di una tendenza, diffusa in particolare nel Settecento, ariferire i criteri di distinzione alla esclusiva volontà del principe. Matutto questo non riesce a rifondare i linguaggi della stratificazione eda produrre, attorno ad essi, un consenso più o meno consapevole daparte degli attori sociali. Agli occhi dell’intellighentzia filoccidentaledella Russia di primo Ottocento, che pure è pienamente investitadagli effetti dirompenti della Rivoluzione, l’arretratezza sociale russarispetto all’Europa è attribuita all’assenza di « esprit de corps » e di« libertà »: nella nobiltà russa — scrive il conte Paul Stroganov nel — « niente è capace di risvegliare. . . una minima idea di resistenza »,una volontà di difesa contro « misure. . . in contrasto con gli interessie la dignità della sua classe ». E così, aggiunge un altro esponentedegli stessi ambienti, « invece di tutte le splendide divisioni di un li-bero popolo russo in liberissime classi. . . io vedo in Russia due classi:gli schiavi del sovrano e gli schiavi dei proprietari. . . In Russia nonesistono persone veramente libere eccetto i mendicanti e i filosofi ».La Pietroburgo della sovranità autocratica ha ormai prevalso sullaMosca della anarchia aristocratica, ma questo non ha significato unavvicinamento all’Europa.

Carattere unitario e centralistico della attività di classificazionesociale dei mondi “orientali”, radicamento della tipizzazione socialenei ceti preminenti della società stessa in Europa: quanto meno sulpiano del modo di esprimersi delle articolazioni sociali, l’Occidenteguardato dalla Russia sembra rimanere un miraggio.

. La storiografia, in particolare italiana, è assai abbondante in merito: cfr., fra i librirecenti, quelli di A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento, Napoli ; M. Verga, Da “cittadini”a “nobili”. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano ;M. Aglietti, Le tre nobiltà. La legislazione nobiliare del Granducato di Toscana () tra magistratureciviche, Ordine di Santo Stefano e diplomi del Principe, Pisa ; A. Merlotti, L’enigma della nobiltà.Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Firenze .

. Cit. in L. Sestan, Nobiltà di sangue cit., pp. e .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

.. Una impossibile tavola dei ranghi

In effetti nell’Occidente europeo, in alcune zone della compaginesociale, sopravvivono ancora alla vigilia della Rivoluzione uno spiritodi corpo, una volontà testarda di difesa delle « libertà », una attenzionevigile alla caratterizzazione ed alla salvaguardia delle innumerevolidistinzioni fra gli uomini. L’opposizione del capitolo quarto del Prin-cipe fra « el Turco et il re di Francia » continua a vivere in posizioni eprogetti politici anche assai distanti fra loro: « e’ principati, de’ qualisi ha memoria — scriveva Machiavelli — si trovano governati in duamodi diversi: o per uno principe e tutti li altri servi, e’ quali, come mi-nistri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno; oper uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, maper antiquità di sangue, tengano quel grado. . . Li esempi di questedua diversità di governi sono, ne’ nostri tempi, el Turco et il re diFrancia. Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore;gli altri sono sua servi. . . Ma el re di Francia è posto in mezzo diuna moltitudine antiquata di signori, in quello stato riconosciuti da’loro sudditi e amati da quelli: hanno le loro preeminenzie; non lepuò il re torre sanza suo pericolo ». Quasi tre secoli dopo, in attesadell’avvento del comunismo, l’abate Mably considera la difesa ed ilrafforzamento dei mille centri di autonomia e di distinzione istituzio-nalizzata, che rendono la società francese del tutto diversa da quelladel dispotismo egualitario russo o ottomano, un mezzo per conse-guire l’obbiettivo intermedio di indebolire la monarchia. E qualchedecennio più tardi, da tutt’altra prospettiva, Tocqueville scriverà inmerito pagine non prive di accensioni liriche che contrastano con iltono cupo del suo implacabile resoconto della avanzata secolare deldispotismo regio. A suo avviso, più che il Terzo Stato, è la nobiltàfrancese, destinata a cadere col re, ad essere capace, nei confronti delre stesso e soprattutto dei suoi agenti, di un atteggiamento alto, diun linguaggio libero: il « lungo ed incontestato uso della grandezza »,la « fierezza d’animo », la « naturale confidenza nelle sue forze », nefanno « il punto più resistente del corpo sociale ». E, insieme allanobiltà, attuano quella « resistenza » che manca del tutto in Russia ilclero e gli uomini di legge: Tocqueville non conosce « nulla di piùgrande nella storia dei popoli liberi » della lotta ingaggiata da magi-

. Cit. in F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Bari , p. .

. A. de Tocqueville, L’Ancien Régime et la Révolution, Parigi , p. .

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strati ed avvocati in occasione del colpo di mano di Maupeau controi parlamenti del .

Questa capacità di lungo periodo di alcuni gruppi di sorvegliare edifendere spazi di autonomia giurisdizionale e simbolica nei confron-ti del principe e della sua legge — lo sottolinea lo stesso Tocqueville —è iscritta nel riconfigurarsi dell’articolazione e della gerarchia socialeall’uscita dalla « anarchia feudale ». I processi conflittuali che fra Tre-cento e Seicento disciplinano la violenza magnatizia, delegittimano lafaida e la vendetta, riducono progressivamente il ruolo autonomo del-l’apparato militare nobiliare, includono corpi e comunità dentro spazia sovranità definita; insomma i processi di definizione dello Statomoderno raccontati innumerevoli volte dagli storici non annullano lamiriade di poteri iscritti nel suo territorio né delegittimano del tuttoil loro diritto a “resistere” contro le derive dispotiche, ma tendonoa disporli in una sorta di gerarchia federativa. Le gerarchie socialied i criteri di selezione e distinzione su cui si poggiano, risultanoscombinati; ma non vi sarà una sovranità detentrice del monopoliodel potere simbolico e normativo capace di ricombinarli in formeunivoche ed ascrittive.

Guardiamo, per ora, il problema da un lato delimitato: quello delridefinirsi, di contro all’emergere delle corti principesche e dei nuovilinguaggi della stratificazione da esse prodotti, dei modelli culturali ecomportamentali di ambito nobiliare.

L’Italia centro–settentrionale, dove il processo è anticipato, con-tiene i luoghi di elaborazione ed irradiazione dei linguaggi cortigiani.Castiglione e Della Casa, Girolamo Muzio e Stefano Guazzo, e poii loro traduttori e rifacitori francesi ed inglesi, spagnoli e tedeschi,costruiscono un’immagine della gerarchia sociale misurata su un

. Ivi, p. .

. A. Jouanna, Le devoir de révolte. La noblesse française et la gestation de l’état moderne, –, Parigi ; Resistenza e diritto di resistenza, a cura di A. De Benedictis e V. Marchetti,Bologna .

. Fra l’immensa letteratura in merito, si veda la sintesi di S. Clark, State and Status. TheRise of the State and Aristocratic Power in Western Europe, Cardiff , e le raccolta di saggi DerEuropäische Adel im Ancien Regime. Von der Krise der ständischen Monarchien bis zur Revolution (ca.–), a cura di R.G. Asch, Colonia , e European Nobilities in the th and th Centuries,vol. I: Western Europe, vol. II: Northern, Central and Eastern Europe, a cura di H.M. Scott, Londra. Per l’Italia centro–meridionale cfr., ad esempio, Signori, patrizi e cavalieri nell’età moderna,a cura di M.A. Visceglia, Roma–Bari . Per la storiografia sulla corte rimando, per tutti, a“Famiglia” del principe e famiglia aristocratica, a cura di C. Mozzarelli, voll., Roma .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

nuovo concetto di virtù. Al suo centro non c’è più il valore militare,che procurava al signore territoriale o ai “cittadini in armi” al tempostesso preminenza sociale ed esercizio di pezzi di potere autonomo,ma una scienza ed una pratica del convivere dentro i luoghi di un po-tere che non è nelle mani di chi li frequenta. La declinazione urbanadi questi mutamenti è ovviamente preminente nella vicenda italiana.Genova e Venezia diventano i poli di una duplice opposta eccezione:l’una, la repubblica di San Giorgio, quello di una potestas che nonriesce ad esprimersi pienamente per il persistere del disordine ma-gnatizio; l’altra, la repubblica di San Marco, quella di una potestas cheriesce ad esprimersi nonostante essa rimanga presso la nobilitas.Altrove potestas e nobilitas tendono a divergere. Tutta la vicenda delleélites urbane e dei patriziati poggia sul tentativo di riaggiornare l’i-deale repubblicano (o neoromano, per dirla con Pocock e Skinner)al nuovo quadro in cui il “momento urbano” sembra tramontare difronte all’emergere dello spazio monarchico. Di fronte al confusoma incisivo espandersi degli apparati statali, l’obbiettivo è quello dinon smarrire del tutto la dimensione della partecipazione alla sferapubblica come elemento costitutivo delle “libertà” civiche.

. Per limitarsi al Cortegiano, si vedano C. Ossola, Dal “Cortegiano” all’“Uomo di mondo”.Storia di un libro e di un modello sociale, Torino ; P. Burke, Le fortune del Cortegiano, Roma; A. Quondam, “Questo povero Cortegiano”. Castiglione, il libro, la storia, Roma .

. Cfr., sul modello ed il mito veneziano, G. Pedullà, “Concedere la civiltà a’ forestieri”.Roma, Venezia e la crisi del modello municipale di res publica nei Discorsi di Machiavelli, in“Storica”, , nn. –, pp. –, e le bibliografia ivi fornita. Un breve ed efficace sguardogenerale in M. Viroli, Repubblicanesimo, Roma–Bari .

. Naturalmente il “modello” delle repubbliche urbane ha articolazioni concrete e pro-paggini assai variegate. Qualche libro importante (e qualche altro che mi è stato utile): M.Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino ; B. Chevalier, Les bonnes villesde France du XIVe au XVIe siècle, Parigi ; A.F. Cowan, The Urban Patriciate. Lübeck and Venice–, Colonia–Vienna ; R.A. Schneider, Public Life in Toulouse, –. From MunicipalRepublic to Cosmopolitan City, Ithaca–Londra ; W. Kaiser, Marseille au temps des troubles–. Morphologie sociale et luttes de factions, Parigi ; Villes, bonnes villes, cités et capitales.Etudes d’histoire urbaine (XIIe–XVIIIe siècles) offertes à Bernard Chevalier, a cura di M. Bourin,Parigi ; P. Burke, Venice and Amsterdam. A Study in Seventeenth Century Elites, Cambridge; G. Saupin, Nantes au XVIIe siècle: vie politique et société urbaine, Rennes ; F.–J. Ruggiu,Les élites et les villes moyennes en France et en Angleterre (XVIIe–XVIIIe siècles), Parigi ; Ph.Guinet, Vivre à Lille sous l’Ancien Régime, Parigi ; R. Sweet, The English Town, –.Government, Society and Culture, Londra ; The Cambridge Urban History of Britain, vol. ,–, a cura di P. Clark, Cambridge ; S. Mouysset, Le pouvoir dans la bonne ville. Lesconsuls de Rodez sous l’Ancien Régime, Rodez–Tolosa ; L. Bourquin, Les nobles, la ville et leroi. L’autorité nobiliaire en Anjou pendant les guerres de Religion, Parigi ; G. Saupin, Les villes

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Ma le cose, non solo nell’immaginario dei trattatisti, vanno inun’altra direzione. La profonda riarticolazione fra “gerarchia” e “ser-vizio” fa sì che la distinzione sociale, per agire con efficacia, debbaesprimersi e farsi riconoscere dentro i luoghi di esercizio praticoe simbolico di questa nuova forma di potere in qualche misura se-parata dal corpo sociale. La vecchia cruciale domanda posta giàdue secoli prima da Bartolo da Sassoferrato — che cosa può renderedistinguibile dai « plebei » anche la persona « separata ab officio vel ad-ministratione »? — riceve una risposta efficace: è capace di provocaredistinzione quell’insieme di saperi non specialistici e di atteggiamentidi adesione disincantata alla nuova realtà effettuale, che i trattatististessi vanno minutamente catalogando e propagandando. Chiunque,attraverso l’opportuno apprendistato, è potenzialmente in grado diacquisirli; e quindi chiunque può potenzialmente proporsi al principecome candidato alla distinzione. L’inflazione per via “politica” dellepresenze ai vertici della gerarchia sociale diventa un pericolo incom-bente. Sottrazione di potestas militare, simbolica e giurisdizionale edemergenza degli uomini del principe minacciano anche l’autonomiadei sistemi di distinzione sociale di castelli, città e corpi.

Ma — ed è questo che rende qui impossibili le tavole dei ranghidi tipo “orientale” — dai castelli e dalle città emergono risposte cheriescono in qualche misura a tenere il campo. Dal secondo Cinque-cento si fanno avanti spinte insistite per una identificazione giurisdicadel concetto di nobiltà, fino allora caratterizzato in forme incerte econfuse, e per un complessivo irrigidimento delle distinzioni sociali,che non fanno riferimento alla legge regia. Le pratiche della distin-

en France à l’époque moderne (XVIe–XVIIIe siècles), Parigi ; Provincial Towns in Early ModernEngland and Ireland. Change, Convergence and Divergence, a cura di P. Borsay, Oxford ; Y.Lignereux, Lyon et le roi. De la bonne ville à l’absolutisme municipal (–), Seyssel . Lasumma di Marino Berengo L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevoed Età moderna, Torino , consente uno sguardo panoramico sulle dialettiche sociali urbanefra medioevo ed età moderna.

. Faccio riferimento a Hiérarchie et services au Moyen Age, a cura di C. Carozzi e H.Taviani–Carozzi, Aix–en–Provence .

. Si tratta comunque di una configurazione ben presente nel tardo medioevo: cfr. E.I.Mineo, Nobiltà di stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo medioevo. La Sicilia, Roma .

. Cfr. A. Jouanna, Ordre social. Mythes et hiérarchies dans la France du XVIe siècle, Parigi; J.A. Maravall, Potere, onore, élites nella Spagna del secolo d’oro, Bologna ; E. Schalk, FromValor to Pedigree. Ideas of Nobility in France in the Sixteenth and Seventeenth Century, Princeton; C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV–XVIII, Roma–Bari ; C. Chauchadis,Honneur morale et société dans l’Espagne di Philippe II, Parigi ; E. Schalk, L’épée et le sang.

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

zione e la trattatistica tardo–medievale, dal Convivio di Dante al Denobilitate di Poggio Bracciolini, prevedono un modo alternativo aquello cortigiano per rispondere alla domanda di Bartolo: la nascita èun altro possibile fondamento di una nobiltà senza ufficio; cioè di unanobiltà che, anche quando non riesce a trattenere la potestas presso disé e a riattualizzare l’ideale feudale di una sovranità distribuita fra ilprincipe ed i componenti dell’ordine cavalleresco, non si spoglia, afavore del principe stesso, della facoltà di determinare confini e carat-teri del proprio gruppo. Ed attorno alla nascita come marcatore diuna distinzione non manipolabile dal principe, nobili vecchi e nuovidi secondo Cinquecento cominciano ad investire massicciamente sulpiano ideale come su quello delle pratiche parentali, e ad utilizzarele risorse di un senso comune e dotto, sostenuto da un non recenteradicamento.

Benefici e titoli nobiliari ormai da secoli sfuggono in buona parteai processi, insiti nella logica delle fedeltà, di distribuzione, riappro-priazione e ridistribuzione da parte del soggetto che infeuda: nelladisputa giuridica che oppone i sostenitori della natura pubblicistica delfeudo a chi assegna ad esso una natura patrimoniale, i fatti tendonoa dar ragione a questi ultimi. L’ereditarietà delle condizioni socialielevate costruisce nel tempo un elemento di continuità nella defini-zione dei linguaggi della stratificazione, che neanche la repressioneantimagnatizia attuata dai comuni di popolo era riuscita a spezzare deltutto, e che viene nella sostanza riconosciuta nelle nuove formazionipolitiche cinquecentesche. Ma, una volta messa al riparo dall’arbitriodel principe tramite la sua trasmissibilità ai discendenti, la preminenzasociale mette in contraddizione con sé stessi quanti vogliono connetter-la alla virtù individuale misurata dal principe. Benefici e titoli ereditarinon possono essere il corrispettivo di un servigio reso, di una fedeltàprestata, ma — scrive ad esempio Scipione Ammirato — individuanoil grado di « chiarezza » di una nobiltà che ha come sua condizioneprima l’« antichità ». Di conseguenza la nobiltà costituisce una « razza »a parte, come ben sanno fin gli abitanti della Città del sole: costoro,scrive Campanella, sul presupposto che « la purità della complessione,

Une histoire du concept de noblesse (vers –vers ), Seyssel . Molto ricco il libro di M.Domenichelli, Cavaliere e gentiluomo. Saggio sulla cultura aristocratica in Europa, Roma .

. Cfr., in riferimento al Regno di Napoli, G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli,Torino .

. S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Firenze , passim.

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onde le virtù fruttano, non si può acquistare con arte », riescono a pre-servare la loro nobiltà dai difetti di quella « fallace » diffusasi in Europa,ponendo « lo studio principale. . . nella generazione ».

Ed anche in Europa « lo studio della generazione » diventa il ba-luardo, certo a lungo inefficace nei confronti dell’assalto delle uomininuovi in cerca di distinzione sociale ma presidiato con tenacia dallanobiltà « generosa », contro le nobiltà recenti e quindi « fallaci »; nonsolo quelle prodotte dal principe, ma anche quelle, particolarmenteminacciose, che possono emergere dalla deriva dell’« honore » come« opinione », provocata dallo stesso successo dei modelli nobiliari e dalloro diffondersi nei ceti inferiori. Sono i liquidi generativi — il sanguemaschile e femminile, il seme maschile, in qualche misura il latte —che occorre attentamente sorvegliare: « il y a dans les semences je nesais quelle force, et je ne sais quel principe, qui transmet et qui continueles inclinations des pères à leurs descendants », scrive G.A. de La Roquein pieno regno del re sole. Può finanche accadere che un gentiluomodi quel torno di tempo, per evitare che i suoi liquidi di nobiltà « gotica »vengano contaminati dalla roture dei chirurghi e dei barbieri, si rada dasé e si curi da sé le ferite che si procura sul campo di battaglia.

In particolare la simbologia distintiva del sangue, il « liquore mi-stico » che legittimava la famiglia e la dinastia regale, fuoriesce da

. T. Campanella, La città del sole, Bussolengo , p. .

. Cfr. A. Domínguez Ortiz, Las clases privilegiadas en el antiguo regimen, Madrid . Nelcaso inglese un ruolo di primo piano nella continuità secolare dei gruppi nobiliari è determinatodalla restrittività delle norme di trasmissione dei titoli: cfr. L. Stone e J. Fawtier–Stone, Una éliteaperta? L’Inghilterra fra e , Bologna .

. « L’honore, per mantenimento del quale sino i plebei di bassissima condizione spargono ilsangue, et spesso perdono la vita. . . non è che un’opinione d’esser degno della società”, scriveLorenzo Ducci, nel suo Trattato della nobiltà. . . dell’infamia. . . della precedenza, Ferrara (cit. inO. Niccoli, Anticlericalismo italiano e rituali dell’infamia da Alessandro VI a Pio V, in “Studi storici”,, n. , p. ). Un « carefully calculated display of violence » è, secondo Alexandra Shepard,un elemento fondamentale di uno status onorevole per il giovane maschio dei ceti popolari: A.Shepard, Manhood, Credit and Patriarchy in Early Modern England c. –, in “Past and present”,, n. , pp. –. Una rassegna interessante di casi e forme della ricerca di considerazionesociale a cavallo fra opinione e certificazione in A la recherche de la considération sociale, a cura di J.Pontet, Bordeaux .

. G. A. de la Roque, Traité de la noblesse, Parigi , citato in A. De Baecque, La culturearistocratique du rire, in “Annales ESS”, , n. , pp. –.

. L. Febvre, La voix du sang. Fin d’une mistique ?, in “Annales E.S.C.”, , n. , p. ;A. Devyver, Le sang épuré. Les préjugés de race chez les gentilshommes français de l’ancien régime(–), Bruxelles .

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quegli ambiti apicali e va assumendo un insediamento amplissimonell’Europa nobiliare, accompagnando l’impressionante mutamen-to delle pratiche matrimoniali e successorie a partire dai decenni acavallo fra Cinque e Seicento. In quei decenni la nobiltà che vuolapparire « di sangue » va attivamente riconvertendo la famiglia or-ganizzata per rami molteplici, nella famiglia patrilineare finalmenterappresentabile nell’albero genealogico che spinge le sue radici finnei tempi degli dei e degli eroi; un istituto dotato di una capacità diprodurre norme in deroga al diritto comune che assumono a volte —come per l’alta nobiltà tedesca — un valore propriamente giuridico,e permettono comunque un controllo efficace dei confini del gruppoimpedendo matrimoni fra condizioni diseguali. Non più frantumati edispersi fra i rami né contaminati da mani plebee, palazzi, terre avite,tombe, cappelle, benefici ecclesiastici, quadri, memorie consegnatenei libri di famiglia diventano le forme concrete di un « bisogno dieternità » che si realizza sul filo delle generazioni, trascinando consé ed incrementando, di padre in figlio primogenito, virtù utili adistinguere ma inutili sulla scala dei valori del principe: l’onore inprimo luogo, ossia la consapevolezza non negoziabile della propriaposizione nello spazio sociale. Una posizione da preservare e difen-dere con simboli, gesti, modi del vivere, ed in particolare con unuso manovrato e graduato della violenza: da quella dispiegata neiconfronti degli inferiori, a quella, ritualizzata nel duello, nei confrontidi chi, essendo lui pure nobile, ha la capacità di « dare soddisfazione ».È in questo clima che si collocano i tentativi di “rifeudalizzare la guer-ra”, di “rimilitarizzare” le carriere aristocratiche, e di rifondare la

. Cfr. M.A. Visceglia, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in etàmoderna, Napoli .

. Cfr. La espada y la pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca, acura di M. Rizzo e G. Mazzocchi, Viareggio–Lucca . I nobili chiedevano ampiamente allacongregazione dell’Indice licenze di lettura di libri di duello, che, come nota Vittorio Frajese,« possiamo considerare il genere “professionale” del ceto »: V. Frajese, Le licenze di lettura travescovi ed inquisitori. Aspetti della politica dell’Indice dopo il , in “Società e storia”, , n. ,p. . Sulla violenza nobiliare e l’esercizio delle armi si vedano fra gli altri F. Billaçois, Le duel.Essai de psychosociologie sociale, Parigi ; V.G. Kiernan, Il duello. Onore e aristocrazia nella storiaeuropea, Venezia ; G. Hanlon, The Twilight of a Military Tradition. Italian Aristocrats andEuropean Conflicts, –, Londra ; Eserciti e carriere militari nell’Italia moderna, a curadi C. Donati, Milano ; Il perfetto capitano. Immagini e realtà (secoli XV–XVIII), a cura di M.Fantoni, Roma ; P. Brioist, H. Drévillon, P. Serna, Croiser le fer. Violence et culture de l’épée dansla France moderne (XVIe–XVIIIe siècle), ; G. Angelozzi e C. Casanova, La nobiltà disciplinata.Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a Bologna nel XVII secolo, Bologna

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legittimità della condizione aristocratica, secondo la linea dei circoliantiassolutistici attorno a Boulainvilliers, sulla conquista franca diterre e contadini realizzata dai nobili guerrieri raccolti attorno ad unloro pari, il re Clodoveo.

Ma altri saperi e capacità, del tutto al di fuori della memoria edella riproposizione e simbolizzazione della antica funzione mili-tare, si possono acquisire adeguandosi con souplesse al mutare deitempi; e, sotto la sorveglianza della famiglia di lignaggio, possonotrasformarsi in virtù inutili al principe ma utili a distinguere. Leuniversità inglesi, i collegia nobilium, le reti di relazioni internazio-nali su cui si poggia il grand tour, i precettori privati e gli autoridegli innumerevoli conduct–books lavorano alla costruzione di for-me curtesy e di politeness che non necessariamente definisconouna dipendenza dalla corte. Nella stessa Parigi dei tempi d’oro diVersailles, la « civile conversazione » sistemata dai trattatisti italianicinquecenteschi soprattutto nella sua dimensione pubblica, cioècome arte dell’interagire con un potere superiore, trova modo disvilupparsi in autonomia dalla corte, nei salons dei grandi hotelsparticuliers, fondandovi progetti di honneteté, di estetizzazione delvivere e del morire che definiscono nuove ed efficaci frontiere

; S. Carrol, The Peace in the Feud in Sixteenth– and Seventeenth–Century France, in “Past andpresent”, , pp. –; M. Cavina, Il duello giudiziario per punto d’onore. Genesi, apogeo e crisinell’elaborazione dottrinale italiana (secoli XIV–XVI), Torino ; The Chivalric Ethos and theDevelopment of Military Professionalism, a cura di D.J.B. Trim, Leida ; A. Quondam, Cavallo ecavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, Roma ; R.B. Manning, TheMartial Ethos in the Three Kingdoms, Oxford ; M. Peltonen, The Duel in Early Modern England.Civility, Politeness and Honour, Cambridge .

. A. Burguière, L’historiographie des origines de la France. Genèse d’un imaginaire national,in “Annales HSS”, , n. , in particolare p. .

. Cfr. D.C. Stanton, The Aristocrat as an Art. A Study of the Honnête Homme and theDandy in Seventeenth and Nineteenth Century French Literature, New York ; The Crisis ofCurtesy. Studies in the Conduct–Books in Britain, –, a cura di J. Carre, Leida ; A.Goldgar, Impolite Learning. Conduct and Community in the Republic of Letters –, NewHaven–Londra ; J. Arditi, A Genealogy of Manners. Transformations of Social Relations inFrance and England from the Fourteenth to the Eighteenth Century, Chicago–Londra ; e lasezione monografica dedicata alla English Politeness: Conduct, Social Rank and Moral Virtue, c.–c. , delle “Transactions of the Royal Historical Society”, , vol. . Il riferimentod’obbligo sono le famose lettere di Lord Chesterfield al figlio, edite nel : cfr. LordChesterfield, L’educazione del gentiluomo. Lettere al figlio, Milano .

. M. Magendie, La politesse mondaine et les théories de l’honnêteté en France au XVIIe siècle,de à , voll., Parigi ; M. Motley, Becoming a French Aristocrat. The Education of theCourt Nobility, –, Princeton ; R. Muchembled, La société policée. Politique et politesse

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

sociali. Anche lo studio della « storia naturale », il collezionismo evarie forme di « dispendio onorato » possono diventare strumenti didistinzione. La polemica del marchese Scipione Maffei contro la« scienza cavalleresca » dei duelli e dell’onore (Della scienza chiamatacavalleresca, ) trova orecchie ben disposte anche in ambientinobiliari gelosissimi delle prerogative del loro rango.

Il disegno delle zone superiori della gerarchia sociale può per que-sta via rimanere, nell’età dell’ascesa del principe, ancora un ambitoconteso. Nelle parole ironiche di uno fra i trattatisti seicenteschi piùfamosi e letti, questi ha la « podestà di dar forza del vero al finto »;ma, applicata al profilo del corpo sociale, la taumaturgia principescaha efficacia non risolutiva. Il nobile « creato » dal principe confessa,per ciò stesso, di non esserlo stato fino al momento prima della crea-zione, e dunque di non avere i requisiti essenziali della « perfettanobiltà »: « antichità e splendore ». E così l’hidalgo de privilegio o ilciutadan de nomina reial barcellonese non si insediano nello stesso

en France du XVIe au XXe siècle, Parigi ; B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano; H. Germa–Romann, Du “bel mourir” au “bien mourir”. Le sentiment de la mort chez lesgentilhommes français (–), Ginevra . Si vedano anche gli importanti strumentiprocurati da A. Montandon: Bibliographie des traités de savoir–vivre en Europe du Moyen Age à nosjours, a cura di A. Montandon, Clermont Ferrand ; Dictionnaire raisonné de la politesse etdu savoir–vivre du Moyen Age à nos jours, a cura di A. Montandon, Parigi . Sulla trattatisticaitaliana cfr. N. Panichi, La virtù eloquente: la “civil conversazione” nel Rinascimento, Urbino ,e I. Botteri, Galateo e galatei. La creanza e l’instituzione della società nella trattatistica italiana traantico regime e stato liberale, Roma .

. Cfr., oltre allo studio famoso di Otto Brunner Vita nobiliare e cultura europea, Bologna (ed. or. ), D. Roche, La culture des apparences: histoire du vêtement (XVIIe–XVIIIe siècle),Parigi ; P. Findlen, Possessing Nature. Museums, Collecting, and Scientific Culture in EarlyModern Italy, Berkeley–Los Angeles–Londra ; C.B. Estabrook, Urbane and Rustic England.Cultural Ties and Social Sphere in the Provinces, –, Manchester ; N. Coquery, L’hôtelaristocratique: le marché du luxe à Paris au XVIIIe siècle, Parigi ; Consumers and Luxury.Consumer Culture in Europe –, a cura di M. Berg e H. Clifford, Manchester ; O.Raggio, Storia di una passione. Cultura aristocratica e collezionismo alla fine dell’ancien régime,Venezia ; K. Boyd McBride, Country House Discourse in Early Modern England. A CulturalStudy of Landscape and Legitimacy, Aldershot ; W. Smith, Consumption and the Makingof Respectability, –, New York–Londra ; Consumi culturali nell’Italia moderna,fascicolo monografico di “Quaderni storici”, , n. , a cura di R. Ago e O. Raggio; R.Ago, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Roma .

. G.B. De Luca, Il dottor volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale emunicipale nelle cose più ricevute in pratica, Firenze , p. .

. F. Campanile, L’armi ovvero insegne de’ nobili ove sono i discorsi d’alcune famiglie nobili cosìspente come vive nel Regno di Napoli, Napoli , non numerato.

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rango dell’hidalgo di nascita e del ciutadan de matricula; la nobilitascodicillaris concessa generosamente da Carlo V nei territori tedeschinon riesce a farsi pienamente riconoscere neanche dalla bassa nobiltàdei cavalieri liberi; i titoli di baronetto messi in vendita da GiacomoI hanno difficoltà a trovare acquirenti per il discredito che presto licirconda; lettres patentes ed uffici nobilitanti non riusciranno mai aprodurre noblesse d’épee, né a scardinarne la preminenza nella gerar-chia sociale. « Le Deità terrene — recita una proposta riassuntivadi classificazione al riguardo — crear nobili ma non gentilhuominipossono ».

La capacità del sovrano in questo campo può al più essere de-gradata a semplice certificazione di una nobiltà già esistente, o alsuo ornamento con dignità, uffici, titoli onorifici che le aggiungo-no « chiarezza » e la elevano ulteriormente: ad esempio, nel casofrancese, fino al gruppo separato dei duchi e pari. Ma neanche inquesto ambito gli si può riconoscere un monopolio pieno. Il papa,l’imperatore, il re di Spagna, gli ordini cavallereschi sovranazionali cu-stodiscono a lungo risorse simboliche — in particolare quelle legatealla costruzione ideologica del « soldato cristiano »; essi le incorpo-rano in titoli e segni di nobiltà che valgono ai due lati dei confini fragli Stati e vengono spesso tenacemente inseguite, da aspiranti nobilie nobili di ogni rango, lungo i canali dell’“internazionale nobiliare”,attraverso le catene di relazioni matrimoniali, culturali, clientelari,che tendono esse pure a valicare i confini.

I modi di essere dell’ideologia nobiliare e del vivere nobilmenteinseriscono, nelle nuove formazioni politiche, un difetto di sovranitàe di territorialità, e, al contempo, un difetto di efficacia classificatoria,che i principi non riusciranno ad emendare del tutto.

. J.S. Amelang, Honored Citizens of Barcelona. Patrician Culture and Class Relations, –,Princeton .

. G. Campanile, Notizie di nobiltà, Napoli , p. .

. J.–P. Labatut, Les ducs et paires de France au XVIIe siècle, Parigi .

. Riprende questo tema in riferimento alla Stato della Chiesa l’importante lavoro di G.Brunelli, Soldati del papa. Politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa, Roma .

. Cfr., per tutti, A. Spagnoletti, Principi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

.. Le classificazioni dell’assolutismo

È, quello proposto per la nobiltà, un esercizio che si potrebbe util-mente proseguire assumendo i punti di vista di altri soggetti collettividel panorama sociale di antico regime. Vi troveremmo confermead un’immagine della dialettica sociale e dei poteri che, credo, ri-sulta già delineata: città, corporazioni, gruppi privilegiati di ognitipo e dimensione costituiscono una rete diffusa di punti di “resi-stenza”, alimentati da principi di coordinamento e dominio socialesostanzialmente inconciliabili con quelli del principe. Di conseguenzagli equilibri raggiungibili sono instabili, conflittuali, intrinsecamentedinamici: l’immagine statica, in voga in settori importanti della storio-grafia odierna, di una società immersa in una comune cultura, dotatadi un ordinamento di natura pattizia in cui il principe sovrintendeall’ordinato convivere di persone giuridiche che si vanno aggregandoin Stato, funge da giudice delle inevitabili controversie ed esprimeil proprio potere con procedure di natura giudiziaria, mi pare inef-ficace a dar conto delle cose. Né, d’altro canto, mi pare del tuttosoddisfacente la nuova ortodossia che tende a considerare l’asso-lutismo come un mito, inapplicabile ad una società fondata su ungran mercato di privilegi e di scambi clientelari e fazioni. Il sovranoassoluto non è il tutore delle regole del gioco “tradizionale”: le infran-ge lui per primo, producendo valanghe di atti di incerta legittimitàformale, di immediata esecutività, lungo procedure extragiudiziarieche vanno definendo la nuova figura dell’amministrazione come« imposizione. . . ad un soggetto di una misura che lo riguarda senzache a costui sia consentito di difendere il suo punto di vista ». A suavolta, l’intervento del principe suscita risposte e resistenze di variatemperatura conflittuale, che adoperano il linguaggio delle autono-mie, delle giurisdizioni, delle libertà. La deriva verso il “dispotismo”viene bloccata, ma il corpo sociale è sottoposto di continuo all’espe-rienza della “tirannia”, intesa, alla maniera di Pascal, come debordaredelle singole legittimità dai loro campi, come sovrapposizione edintersezione di giurisdizioni e poteri che inceppano reciprocamente

. Si veda, in particolare, R. Mettam, Power and Faction in Louis XIV’s France, Oxford ;N. Henshall, The Myth of Absolutism: Change and Continuity in Early Modern European Monarchy,Londra .

. R. Descimon, J.–F. Schaub, B. Vincent, Avant–propos a Les figures de l’administrateur, acura degli stessi, Parigi , p.

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il loro funzionamento e competono per la redistribuzione di risorsesimboliche e materiali.

Su un altro fattore di incertezza e dinamismo occorre richiamarel’attenzione: sul fatto che i principi di coordinamento che si confron-tano e confliggono non prendono corpo in organismi coesi, dotatidi volontà unitariamente elaborate ed espresse. L’attività classifica-toria del monarca assoluto non è costituita da un insieme coerentedi operazioni autoritarie, da un progetto di immobilizzazione primadefinito e poi promosso dall’alto nei confronti di una società recal-citrante. La macchina statuale, strettamente connessa ad un systèmede la cour percorso da cabale, è straordinariamente complessa etrasmette ulteriore complessità al corpo sociale.

Proviamo ad avvicinare ad essa lo sguardo, mantenendo il nostropunto di osservazione. Gli atti di classificazione regia si traduconoin una miriade di decisioni di varia qualità giuridica, riguardanti laposizione nello spazio sociale di soggetti individuali o collettivi manmano inclusi nel suo spazio di sovranità, ossia nelle reti ed apparatifiscali, militari, amministrativi, giudiziari, che il sovrano stesso vaestendendo sul territorio. Di conseguenza, quegli atti hanno incomune un elemento di fondo: tendono a “nazionalizzare”, comeabbiamo visto con incerto successo, i sistemi di distinzione e recipro-co riconoscimento sociale, a proiettare in ambiti più ampi quelli chesi realizzano in circuiti locali, e ad interrompere le catene di quelliche fanno riferimento alla cristianità intera. Man mano che le retiprincipesche si estendono, più individui e gruppi sono indotti ridefi-nire le loro preminenze ed i loro privilegi su questo nuovo scenario:una imposta valida sull’intero territorio statale pone il problema dichi ne è esente e di chi e come deve esigerla ed incanalarla nel tesororegio; una aggiunta all’apparato amministrativo richiede la definizio-

. Cfr. E. Le Roy Ladurie (con la collaborazione di J.–F. Fitou), Saint–Simon, ou le systèmede la cour, Parigi , che, indagando la corte intorno all’anno , vi trova una pluralità disoggetti passati sotto silenzio nel libro classico di N. Elias La società di corte, Bologna .

. Di grande utilità, di F. Cosandey e R. Descimon, L’absolutisme en France. Histoire ethistoriographie, Parigi .

. Materiali importanti in proposito, oltre ad atteggiamenti interpretativi ai quali mi sentoin varia misura vicino, in J.M. Smith, The Culture of Merit. Nobility, Royal Service, and the Makingof Absolute Monarchy in France, –, Ann Arbor ; J.A. Lynn, Giant of the Grand Siècle.The French Army –, Cambridge ; M. Kwass, Privilege and the Politics of Taxation, inEighteenth–Century France, Cambridge ; J.J. Hunt, Louis XIV and the Parlements. The Assertionof Royal Authority, Manchester–New York .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

ne dei limiti e delle caratteristiche della sua autorità a seconda delle« qualità » dei soggetti che incontra; la costruzione della giustizia re-gia comporta una sottile ricerca di nuove equivalenze fra le qualitàe prerogative di ciascuno ed i « fori » vecchi e nuovi adeguati al suorango. E, ovviamente, chiunque entra al diretto servizio del re sisitua in un sistema degli onori alla dimensione territoriale dello Stato.In questi ambiti man mano più ampi il principe è la fonte di atti diclassificazione di diverso livello di intenzionalità, incisività e formaliz-zazione giuridica, che producono risorse identitarie tendenzialmenteutilizzabili sull’intero territorio e che rendono in una qualche misuraconfrontabili le posizioni di quanti vi sono compresi. Li raggruppereiin questo ordine di crescente potenza classificatoria:

a) atti di riconoscimento, che trasferiscono, nei meccanismi deinuovi apparati, privilegi e preminenze godute rispetto a vec-chi apparati di simile natura (ad esempio l’esenzione da vec-chie forme di prelievo fiscale estesa all’esenzione da nuoveimposte);

b) atti di certificazione, che sostengono con l’autorità del princi-pe posizioni di incerta legittimità e riconoscimento sociale,e mettono chi viene certificato in grado di godere « senzaessere disturbato » — per usare l’italiano del tempo — deicorrispondenti privilegi;

c) atti di denominazione, che disarticolano, accorpano, individua-no pratiche e forme di vita presenti nella società e ne fannoelementi caratterizzanti di nuove partizioni sociali;

d) atti di creazione, che producono nuove figure sociali assegnan-do loro ranghi e privilegi.

In tutti i casi di questa tipologia, per tornare alla terminologia diMarc Raeff a proposito della Russia, la legge viene in vario modomobilitata, ma il mutamento sociale non ne consegue automatica-mente. Identificato con atti del potere regio che sembrerebbero diparticolare efficacia — ad esempio le recherches de noblesse nella Fran-cia del secondo Seicento o l’operazione di collocazione di ciascunindividuo nelle classi della imposta universale della capitazionedel — il corpo sociale è contemporaneamente sottoposto ad

. F. Buche e J.F. Solnon, La véritable hiérarchie sociale de l’ancienne France. Le tarif de lapremière capitation (), Ginevra .

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altre operazioni classificatorie incongrue fra loro, che impedisconodi giungere alla definizione di una « véritable hiérarchie sociale ». Inparticolare l’aggiustamento fra privilegi e preminenze, centrale neilinguaggi della stratificazione di antico regime, presenta problemi avolte irresolubili, che finiscono per essere lasciati alla negoziazione,alla manipolazione, alla determinazione conflittuale dei corpi sociali.

Esempi significativi in merito li offrono i tentativi di manipo-lazione da parte dello stato monarchico degli insiemi sociali chesi raccolgono attorno all’intermediazione mercantile e finanziaria:un’area in cui le sensibilità ideologiche sono assai vivaci, e alla inin-terrotta tradizione di ostilità che dall’ambito ecclesiastico e teologico(il « quamdam turpitudinem habet » di San Tommaso) si riversa inogni genere letterario dotto e popolare di età moderna, si opponel’intreccio prestigioso fra mercatura e civilizzazione che si realizzanelle grandi città mercantili europee fra tardo medioevo e prima etàmoderna.

Il quadro da tener presente è, ancora una volta, l’irrigidimentodelle gerarchie sociali fra Cinque e Seicento, che rende fra l’altroacutissimo il conflitto sulla denominazione delle pratiche mercantilie sul loro rapporto legittimo con i ranghi. La questione di fondo èil potenziale divergere fra i due marcatori fondamentali dell’identitànobiliare: la nascita da un lato, che si vuole certificata una volta pertutte in forme sempre più rigidamente giuridiche, il vivere nobil-mente dall’altro, che resta affidato alla « fortuna » ed all’« opinione ».Soprattutto nelle fasi di crisi della rendita feudale ed immobiliare ingenerale, il problema della produzione di un reddito sufficiente a« tenir son rang » diventa centrale. Si affacciano sulla scena sociale esu quella dell’immaginario collettivo, da un lato, la figura del « povero

. Ma cfr. le qualificazioni importanti in proposito degli studi di G. Todeschini: cfr., fragli altri, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma ; I mercanti e iltempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra medioevo ed età moderna, Bologna; Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna .

. Cfr. V. Branca, “Con amore volere”. Narrar di mercatanti fra Boccaccio e Machavelli,Venezia .

. Notazioni generali interessanti su questo tema in F. Migliorino, Mysteria concursus.Itinerari premoderni del diritto commerciale, Milano , pp. –. Sulle “culture mercantili”si vedano Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, a cura di F. Angiolini e D.Roche, Parigi ; J. Aurell, La cultura del mercader en la Barcelona del siglo XV, Barcellona ;C. Secretan, Le Marchand philosophe de Caspar Barlaeus. Ou éloge du commerce dans la Hollandedu siècle d’or. Etude, texte et traduction du « Mercator sapiens », Parigi .

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vergognoso », afflitto, diremmo col linguaggio dei sociologi, da incon-gruenza di status: personaggio dannoso a sé stesso ed alla macchinasociale in quanto segnale di disordine, di una gerarchia incerta, alegittimazione scarsa, sorretta dalla certificazione ma smentita dallainconsistenza dei « segni d’honore »; dall’altro la figura altrettantodannosa del mercante arricchito, produttore potenziale di segni a so-stegno di un onore senza fondamento nella nascita e nella gerarchialegittima. L’ingigantirsi della produzione di segni d’onore, ovunqueevidente, si intreccia con la questione ingarbugliata dei modi legit-timi di acquisizione delle risorse necessarie, della ridefinizione delrapporto fra pratiche mercantili e condizione sociale, della distin-zione fra le pratiche mercantili ignobili e quelle compatibili con unacondizione elevata, attuale o potenziale. Si tratta, nella sostanza, ditrovare il modo di impedire — per usare la formula ironica correntenella Francia di Luigi XIII — che « tutti i mezzi per spender monetasiano nobili, cioè gloriosi, e pressoché tutti i mezzi per guadagnarlasiano ignobili ».

Far confluire questa tensione, come spesso si fa nella storiogra-fia recente, nell’eterna opposizione fra norma e prassi, è una sceltache può trovare sostegno amplissimo nella documentazione e nellacoscienza degli stessi attori. Per non fare che un esempio, un autoreprimo–settecentesco che si batte per liberare la nobiltà napoletanadal pregiudizio antimercantile deve poi riconoscere che, nel mentre« pure egli è vero, che schifano qui i Nobili lo esercitar la marittimanegoziazione. . . poi si veggon francamente tutto il giorno essercitarmercatanzie di robbe succide, e vili, che sotto al vano nome d’indu-strie le coprono ». Ma non credo che il « nome » sotto cui l’eserciziodella mercanzia viene « coperto » sia sempre del tutto « vano ». Laprassi viene manipolata e ridisegnata dal lavorio simbolico di riade-guamento alle forme nuove assunte dalla gerarchia sociale. Il puntodi partenza più frequente di questa manipolazione è il modello defini-to, impropriamente e anacronisticamente, « italiano », in riferimento

. G. Ricci, Povertà, vergogna, superbia. I declassati tra Medioevo ed età moderna, Bologna.

. G. Zeller, Une notion de caractère historico–social : la dérogeance, in “Cahiers internationauxde sociologie”, , n. , p. .

. G. Grimaldi, Considerazioni intorno al commercio del Regno di Napoli, a cura di R. Pilati,in “Frontiera d’Europa”, , n. –, p. . Renata Pilati ha premesso alle Considerazioni diGrimaldi un saggio intitolato Del commercio: Gregorio Grimaldi e il riformismo napoletano nellaprima età borbonica, pp. –.

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a quell’ambiente urbano che, contaminando arti meccaniche ed eser-cizio delle armi, aveva disgustato da secoli “tedeschi” come Ottonedi Frisinga, vescovo e trattatista illustre del XII secolo, oltre che zio diFederico Barbarossa. Il mercante « italiano » da un lato è parte dellanobiltà, dall’altro pratica tutte le forme della mercatura, dalla bancaalla finanza, alla manifattura, all’armamento, all’assicurazione, alcommercio per terra e per mare, alla vendita, per fiere e mercati edin bottega, di merci di ogni tipo. Essendo improponibile il nesso franuova concezione del vivere nobilmente e questa mercatura aper-ta alle pratiche “meccaniche” ed ignobili, si tratta di trovare formedi compatibilità che, senza urtare i connotati simbolici della nobiltàposseduta o voluta, forniscano redditi da convertire in segni d’onore.

A volte la lunga via che porta il commerce honorable ad assumerenel Settecento la denominazione del tutto distinta di négoce passa at-traverso una sua caratterizzazione che punta non alla “passione dolce”per il denaro, ma alle tradizionali passioni non negoziabili, addi-rittura ad una accezione arcaica dell’onore, cioè quella militare: nelcommercio per mare occorre « hardiesse », « force », « générosité »,indispensabili nella lotta quotidiana con pirati e corsari e con i quat-tro elementi della natura. Ma il percorso discorsivo più frequentepassa attraverso la riduzione della capacità di connotazione socialedella pratica mercantile. Anche nell’ambiente spagnolo, in cui i valorinobiliari percolano “puri” fin nei ranghi della nobiltà minore e dif-fusa, questo lavorio è ben visibile. La « condizione di mercante » —afferma Bartolomé Frias de Albornoz — non si acquisisce « ex unicoactu », ma tramite una catena di atti che configurano la « maniera divivere » indirizzata al guadagno. E tutta una casuistica di gesuiticasottigliezza delimita la nozione di pratica mercantile sottraendoleaspetti che essa precedentemente inglobava — la compartecipazionesocietaria, i contratti di capitale e lavoro, l’intermediazione finanzia-ria, l’armamento, l’assicurazione: di conseguenza, anche se ripetuti

. Faccio riferimento a A.O. Hirschman, The Passions and[ the Interest. Political Argumentsfor Capitalism before its Triumph, Princeton .

. [J. Eon], Le commerce honorable ou considérations politiques. Contenant les motifs denécessité, d’honneur, et de profit, qui se treuvent à former des compagnies de personnes de toutesconditions pour l’entretien du négoce de mer en France, composé par un habitant de la ville de Nantes,Nantes , p. .

. Cfr., per esempio, I.A.A. Thompson, Neo–noble Nobility: Concepts of Hidalguia in EarlyModern Castile, in “European History Quaterly”, , n. , pp. –.

. B.F. de Albornoz, Arte de los contratos, Valencia , p. .

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e continuativi, essi non hanno più la forza di definire una condizionené quella di contaminare la nobiltà.

A sua volta la pratica, così delimitata, viene disarticolata secondouna gerarchia dell’onore. Il primo obbiettivo delle prefazioni, del-le dediche, delle conclusioni, dei capitoli sulla dimensione moraledei libri di ars mercatoria è quello di dividere ciò che la tradizioneconsegnava unito. Al più autorevole scrittore di araldica del periodoelisabettiano, John Ferne, secondo il quale la pratica del commercio« consisteth of most ungentle parts », prima fra tutte la menzogna,non si può più rispondere, come fanno ancora Humphrey Baker oJohn Browne, ancorando la figura del mercante ad una « honesty »a fondamento religioso; occorre viceversa, per riscattarlo dalla suacollocazione nella « middling sort », gerarchizzare quelle « parts »secondo una « honesty » che ha risonanze semantiche con l’azioneonorifica e la conversazione cortigiana. Per legittimare la parteci-pazione dei rampolli della gentry alla mercatura, si definisce unamerceologia dignitosa, alla testa della quale ci sono le derrate prodot-te nei propri feudi e possedimenti, e poi l’oro e l’argento, le spezie, laseta, per scendere verso merci man mano più ignobili; e si definisceuna scala di prossimità delle pratiche al vivere nobilmente, che siesprime nella lotta per nuove denominazioni sociali. Il « compleatecitizen », recita il sottotitolo dell’Essay on Drapery di William Scott,è colui che sa commerciare « justly, pleasingly, profitably ». Il che nonè da tutti. « So bene — scrive l’anonimo autore del Character and

. J. Ferne, The Blazon of Gentrie, Londra , p. .

. H. Baker, The Wellspring of Science. . . , Londra ; J. Browne The Merchant Avizo,Londra .

. Faccio riferimento a The Middling Sort of People. Culture, Society and Politics in England–, a cura di J. Barry e Ch. Brooks, Londra , e a M.R. Hunt, The Middling Sort.Commerce, Gender and the Family in England, –, Berkeley .

. Riprende con una ampia documentazione questo vecchio tema R. Grassby, The EnglishGentleman in Trade: the Life and Works of Sir Dudley North, –, Oxford ; Id., The BusinessCommunity of the Seventeenth–Century England, Cambridge . Sempre indispensabile L. Stone,La crisi dell’aristocrazia. L’Inghilterra da Elisabetta a Cromwell, Torino . Sul lungo periodocfr. G.E. Mingay, The Gentry. The Rise and Fall of a Ruling Class, Londra . Uno strumentodi grande importanza per studi di questa natura è Ars Mercatoria. Handbücher und Traktätefür den Gebrauch des Kauftmanns, –, a cura di J. Hoock e P. Jeannin, vol. I, –,Paderborn–Monaco–Vienna–Zurigo ; vol. II, –, ivi ; vol. III, Analysen (–),con la collaborazione anche di W. Kaiser, ivi .

. Londra .

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Qualifications of an Honest Loyal Merchant — the il titolo di merchantin alcune parti del mondo è usurpato da quasi ogni tipo di piccolagente il cui mestiere è comprare e vendere; ma in senso proprio. . .esso appartiene solo a chi conduce un commercio estero, che lodifferenzia enormemente dall’ordinario bottegaio e dettagliante ».D’altronde il mercante può ornarsi di « qualifications »: ad esempiouna educazione liberale, o una grafia — si badi al vocabolario assuntodai manuali del saper vivere — che « scorra con una sorta di artificialnegligence »; o, addirittura, un atteggiamento di « disinteresse » neiconfronti della sua stessa pratica economica. Nel lungo scontropolitico successivo alla “gloriosa rivoluzione” fra monied interest eland interest, nella polemica sugli scandali finanziari e la corruptionprodotta dall’irruzione di in interesse privato senza più freni, neldibattito sul profilo di colui che può concorrere a limitare il potereregio senza perseguire fini personali o di parte, gli avversari delmercante faranno comunque sentire con forza la loro voce. Ancoranel Dictionary di Samuel Johnson (), uno dei fondamenti dellalingua inglese, lo stockjobber è definito come « a low wretch who getsmoney by buying and selling shares ».

Tutto questo si intreccia con le politiche di potenza e mercantili-stiche dei principi, dai due lati del reperimento diretto delle risorse,tramite il fisco ed il debito pubblico, e dell’allargamento della baseimponibile, tramite la realizzazione di un commercio “attivo”.

Nel caso francese, paradigmatico della configurazione assolutisti-ca dei poteri, il reperimento delle risorse statali, appaltato a privati edarticolato in una molteplicità di affaires, “ordinari” e “straordinari”,costituisce, dal nostro punto di osservazione, un esempio di impres-sionante potenza creatrice di figure sociali, a cui corrisponde a lungouna altrettanto impressionante debolezza della attività di denominazio-ne di quelle stesse figure sociali. Il virulento affarismo che si sviluppaa ridosso del denaro incanalato verso le casse pubbliche produce

. Londra , p. .

. Sul commerciante internazionale e la sua posizione sociale cfr. in particolare P. Gauci,The Politics of Trade. The Overseas Merchant in State and Society, –, Oxford .

. Ivi, p. .

. Cfr. l’opposizione fra “interested” e “disinterested commerce” discussa in P. Force,Self–interest before Adam Smith. A Genealogy of Economic Science, Cambridge .

. Cfr., per tutti, J.L. Cardoso, Confusion de Confusiones: Ethic and Option on Seventeenth–century Stock Exchange Market, in “Financial History Review”, , n. , pp. –.

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profili e comportamenti nuovi, che strappano i grandi ai mitici ozinobiliari e riempiono le loro casse, consentendo loro gli splendori delvivere nobilmente senza avere nulla più a che fare con la circolazionedelle merci e senza i pericoli della traduzione della pratica del denaroin “condizione” mercantile. La regina ed principi del sangue, i primiministri e gli stessi ministri delle finanze compreso il razionalizzatoreColbert, i vertici della robe, le grandi dame della conversazione pre-cieuse ed i marescialli di Francia, « per la gran parte molto più temibilinegli affari che sui campi di battaglia », si circondano di una folla dipersonaggi utilizzati per vendere al re immaginazione fiscale e pertrafficare in influenze, investire nelle forniture alla flotta ed all’eser-cito, esigere la taille, finanziare le fermes générales. Enormi masse dirisorse circolano e vengono appropriate, saperi specialistici vengonosviluppati e trasmessi, conflitti fiscali scoppiano, raggruppamenti eclan clientelari ed affaristici si formano sotto gli occhi e per l’impulsodel principe, senza che il principe stesso sappia chiamare questo pezzodi società che ha evocato.

Gli unici che, secondo la giurisprudenza del tempo, possono ve-dersi classificati come financiers sono gli aggiudicatari ufficiali degliappalti, coloro che compaiono di persona davanti al Conseil des finan-ces : ma si tratta di personaggi spesso del tutto marginali nella praticadei denari del re. Sono i La Rapinière, Rapinau, Griffet, Griffard dellacommedia seicentesca — che diventano, al di là della Manica, gliAldermen Gripe, Choledrick e Nincompoop, Sir Thrifty Gripe, SirWorldly Fox, Sir Simon Scrape–All, Sir Antony Thinwit, Sir AntonyAddlepate, Sir Testy Dolt: gente la cui denominazione professiona-le ufficiale non riesce a penetrare nella comunicazione quotidiana,sostituita da denominazioni, meno pompose e più congruenti coni cognomi loro attribuiti, come partisan, maltotier, intéressé dans lesaffaires de sa Majesté, manieur d’argent. Raccolta e rilanciata in unadelle opere più famose ed influenti del teatro francese di antico re-gime, il Tucaret di Lesage (), l’immagine del professionista deidenari del re assume il profilo del lacquai–financier, della canaglia che

. D. Dessert, Argent, pouvoir et société au Grand Siècle, Parigi , p. . Si vedano ancheF. Bayard, Le monde des financiers au XVIIe siècle, Parigi , e C. Dulong, Mazarin et l’argent.Banquiers et prête–noms, Parigi . Per il secolo precedente cfr. Ph. Hamon, L’argent et le roi.Les finances sous François Ier, Parigi ; Id., « Messieurs des finances ». Les grands officiers de financedans la France de la Renaissance, Parigi .

. L. Stone e J. Fawtier–Stone, Una elite aperta? cit., p. .

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si arricchisce smodatamente sfruttando la canaglia, in attesa che ilsuo stesso servo lo scalzi dalla cima del suo fragile castello di cartee raggiri. « Le corps des lacquais — scrive in una delle sue lettere il“persiano” Usbek — est plus respectable en France qu’ailleurs ; c’estun séminaire de grands seigneurs : il remplit le vide des autres états.Ceux qui le composent prennent la place des grands malheureux,des magistrats ruinés, des gentilshommes tués dans les fureurs de laguerre ; et, quand ils ne peuvent suppléer par eux–mêmes, ils relè-vent toutes les grandes maisons par le moyen de leurs filles, qui sontcomme une espèce de fumier qui engraisse les terres montagneuseset arides ».

La figura non solo è totalmente inadeguata alle pratiche ed agliambienti a cui vuole riferirsi, ma produce contaminazione, confusio-ne dei ranghi, disordine. Dal punto di vista dei protagonisti veri delcircuito finanziario, che si sentono al riparo da questi rivolgimentidelle fortune e degli onori, essa ha comunque il merito di lasciarenell’ombra i modi di produzione dei redditi che sostengono i lorosegni d’onore ma che potrebbero danneggiarli nell’opinione, intesa,come si è giù detto, come uno dei fondamenti datati di intonazionianche giuridiche della lodo distinzione.

Solo con il tramonto dell’età degli « affari straordinari » e la rior-ganizzazione delle finanze regie, in particolare a partire dagli anniVenti del Settecento, emergono in questo circuito figure le cui de-nominazioni professionali ufficiali hanno una certa efficacia nellacomunicazione diffusa. Ormai, lamenta Boisguilbert, le cose sonocambiate al punto che persone « dei più alti sentimenti religiosi non sifanno nessuno scrupolo, non solo a prender parte a questo mestiere,ma financo a confessarlo pubblicamente ». La carriera di fermiergénéral financier riceve pieno riconoscimento dal principe, è resa deltutto compatibile con la nobiltà, e prende posto fra i quattro « pointsconstitutifs du gouvernement » insieme alla giustizia, alla polizia,alle armi. E, stando al Rica delle Lettere persiane, produce un granlavoro ai genealogisti per ripulire il nome di chi si fregia di quei titoli.Ma il tradizionale clima di ostilità che lo circonda continua ad essere

. Ch.–L. de Secondat, baron de Montesquieu, Lettres persanes, Parigi , lettera del «

de la lune de Maharran, », pp. –.

. Y. Durand, Les fermiers généraux au XVIIIe siècle, Parigi .

. Cit. in D. Dessert, Argent, pouvoir et société cit., p. .

. Cfr., ad esempio, C. Dupin, Oeconomiques, Parigi .

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alimentato dagli ambienti giansenisti, dagli ambienti dei parlamentiche vi vedono un’espressione del ministero centralistico e quindi unaminaccia alle loro prerogative, dai fisiocrati, da quanti propongono ladiretta gestione statale delle imposte. L’eco dell’Anti–financier di Dari-grand () e delle polemiche da lui suscitate sui danni economicie morali inferti al corpo sociale dalla figura del finanziere, risuonaampiamente. Ed anche per un uomo che sembrerebbe proiettarsinel futuro come Cordoncet, essa resta pienamente integrata nella« canaille qui remue de l’argent » schierata contro Turgot e strettaattorno a Necker.

Così quella di chi maneggia denaro non riesce ad essere unacondizione che va conquistata al fine di essere trasmessa, non prendeposto stabilmente nella gerarchia sociale; i suoi orizzonti si chiudonosolitamente dentro una vita. La generazione successiva va messa alsicuro indirizzandola verso i ranghi riconosciuti della nobiltà di togao di spada.

Dall’altro lato del modello “italiano” — quello delle praticheconnesse alla movimentazione e allo scambio di merci — l’attivitàclassificatoria del principe è, al contrario che nel caso precedente,debole sotto il profilo della creazione, ed intensa sotto quelli delriconoscimento, della certificazione, della denominazione. Ma i suoi esitinon sono meno ambigui di quelli che abbiamo visto per gli uominidella finanza.

La normativa cinquecentesca è ancorata a due principi fonda-mentali: . la pratica della mercatura, intesa nel senso ristretto dimovimentazione di merci, connota una condizione; . fra le formedel servizio da rendere al sovrano hanno un ruolo centrale, per lacondizione mercantile come per la roture in generale, l’auxilium invalori monetari o merceologici, per la condizione nobiliare l’auxiliumin armi e armati. Di conseguenza l’esercizio della mercatura da partedi chi ha una condizione nobiliare, e quindi il privilegio di imposta,configura al tempo stesso un ingiusto danno al principe ed un in-giusto vantaggio nei confronti di chi, esercitando la mercatura nellacondizione di mercante, le imposte è costretto a pagarle.

In applicazione di questi principi, il concetto giuridico di dérogean-ce, già vigente da metà Quattrocento nel ducato di Bretagna, vieneesteso all’intero territorio dei Valois con l’editto di Aumale del ,

. Cit. in E. Badinter e R. Badinter, Cordoncet (–). Un intellectuel en politique, Parigi, p. .

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confermato con l’ordinanza di Orléans del ed in seguito non piùformalmente abolito: esso statuisce che la pratica mercantile annullala condizione nobiliare ed i connessi privilegi. Ovviamente con lemille eccezioni che determinano atti di riconoscimento e certifica-zione regia, e quindi riproducono la complessità sociale sul pianoufficiale delle nuove istituzioni e del nuovo territorio: ad esempioquella dei « gentilhommes–verriers de Lorraine », resi nobili, cioèprivilegiati fiscalmente, dall’esercizio dell’arte del vetro sia comemaestri che come lavoranti. Altre eccezioni evitano una contrapposi-zione altrettanto frontale come quella fra la classificazione regia digentilhomme e l’opinione infima attribuita al lavorante vetraio. L’in-corporazione nel diritto regio di quello bretone, secondo il quale lanobiltà è « imprescrittibile », ossia non può essere cancellata da alcunatto sovrano o volontario, determina la figura giuridica della noblessedormante, all’ombra della quale si accumulano le fortune dei negrieridi Nantes e dei corsari di Saint–Malo. Qui la mercatura non lasciauna macchia permanente ed ereditaria, ma connota la condizionesociale, e comporta quindi cessazione del privilegio fiscale, solo peril tempo del suo effettivo esercizio; inoltre solo i beni acquisiti conquella pratica sono sottoposti alla successione roturière, cioè paritariaper tutti gli eredi, invece che alla successione nobile che assegna dueterzi dei beni al primogenito. La qualità di nobile è riacquistata conuna semplice dichiarazione di cessazione della attività mercantile.

In generale, comunque, il principio della dérogeance dà luogo aduna intensa e secolare attività, da parte dello Stato, di recupero dellaevasione fiscale e di classificazione di soggetti sociali. Ne emerge ilconcetto giuridico di « usurpation de noblesse ». Come recita unFormulaire des esleuz destinato agli ufficiali ripartitori dell’imposta di-retta, « nobili ed ecclesiastici devono vivere delle loro rendite, nondella loro pena e del loro lavoro ». La « grande recherche » degli anni– e – sulla usurpazione dei titoli scova ovunque, edegrada a roturiers, nobili che vivono nobilmente ma non riesconoad esibire prove di nobiltà “naturale” o per privilegio, ed altri chehanno prove riconosciute della condizione nobile ma derogano ad

. Cfr. J. Meyer, La noblesse bretonne au XVIIIe siècle, voll., Parigi ; J.B. Collins, Classes,Estates, and Order in Early Modern Brittany, Cambridge .

. Cfr., ad esempio, M. Cubells, A propos des usurpations de noblesse en Provence, sous l’AncienRégime, in “Provence historique”, , n. , pp. –.

. Parigi .

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essa vivendo « della loro pena e del loro lavoro », in primo luogo prati-cando la mercatura. L’estendersi dell’apparato fiscale regio comportauna massiccia azione di riconoscimento e certificazione della condi-zione nobile e della condizione mercantile. E la stessa logica precisa eufficializza, distinguendoli dalla figura del mercante, profili sociali diampio uso ma di incerta carica semantica. Quello di bourgeois andavaperdendo nell’uso diffuso l’ancoraggio al concetto di cittadinanzaed ai suoi privilegi, e poteva essere adoperato, dal basso della scalasociale, come appellativo di rispetto, dall’alto come appellativo didileggio (cfr. il Bourgeois gentilhomme di Molière) o di disprezzo (cfr.l’accusa di roi–bourgeois rivolta dal duca di Saint–Simon a Luigi XIV).Ma i meccanismi della tassa della capitation ristabilita ai primi delSettecento gli danno una configurazione precisa, che resisterà a lun-go prima della sua manipolazione in senso ideologico e classista (la“borghesia” ottocentesca): il bourgeois settecentesco è colui che vivein città senza esercitare commercio o professione, e quindi non pagala capitazione secondo i ruoli redatti dalla sua corporazione, ma siiscrive ai ruoli redatti dalla sua città.

Ma, contemporaneamente ed in contraddizione aperta con que-ste logiche della classificazione a fondamento fiscale, agiscono altriapparati dello Stato assoluto.

Nel Cinquecento, ed ancora negli Stati Generali del , la dé-rogeance è sostenuta da quanti hanno la condizione di mercanti edè combattuta dai nobili: come si è visto, i primi vogliono evitare laconcorrenza di chi non paga imposte, i secondi vogliono approfittaredelle opportunità che si annidano negli scompensi fra privilegi epreminenze, nelle incompletezze e nelle ambiguità della definizionedelle condizioni sociali a cui attribuire le corrispondenti prerogativegiuridiche. Col mutare del clima culturale e l’irrigidirsi della nozionedi nobiltà, le ragioni di questo conflitto vengono meno: per chi puòlecitamente attribuirsi una condizione nobiliare o vi aspira, la merca-tura in senso stretto e connotante non è più una opzione consentita;egli deve dunque regolarsi su una diversa struttura delle convenienze.Il sovrano sembra impegnare le proprie risorse di manipolazionedella società nella stessa direzione del mutamento che in essa si va

. Per il caso di Parigi si vedano due saggi di grande qualità: J. Di Corcia, Bourg, Bourgeois,Bourgeois de Paris from the Eleventh to the Eighteenth Century, in “Journal of Modern History”,, n. , pp. –; R. Descimon, Corpo cittadino, corpi di mestiere e borghesia a Parigi nelXVI eXVII secolo. Le libertà dei borghesi, in “Quaderni storici”, , n. , pp. –.

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affermando: egli colpisce i nobili che fanno commercio ed apre loro,al tempo stesso, l’immenso campo di opportunità del maneggio deldenaro del re, posto al riparo da ogni dérogeance. Ma, contradditto-riamente, si dà l’obbiettivo mercantilistico, già elaborato da Sully epoi incorporato in una serie di ordinanze, editti, progetti di legge,dichiarazioni reali, risoluzioni del consiglio del re o del consiglio dicommercio distese per tutto il Seicento ed il Settecento, di trattenerei capitali nobiliari nel commercio.

Gli uomini e gli apparati del re che si impegnano su questa lineaagiscono su vari piani: allargano le aree di privilegio in cui la déro-geance non si applica (i grandi centri mercantili di Marsiglia, Lione, lecompagnie commerciali privilegiate); nobilitano mercanti di successoe tentano, invano, di far passare norme che rendano automatica, dopoalcune generazioni di commercio onorevole, la nobilitazione; parte-cipano, a loro modo e con i mezzi normativi che sono loro propri, allavorio simbolico che va disarticolando la mercatura e ne ricolloca leparti lungo una gerarchia di compatibilità con l’onore nobiliare. Lepratiche mercantili vengono distinte secondo una tipologia giuridi-camente definita e man mano escluse dalla dérogeance : diventano perlegge compatibili con la condizione nobile il commercio in grandeper mare (, ), le costruzioni navali e l’armamento (), leassicurazioni marittime (), infine il commercio in grande perterra (). Altre partizioni, ovvie per noi ma evidentemente non percommercianti e legislatori del tempo — ad esempio la manifatturao la banca, intesa come maneggio di segni monetari, al contrariodella finanza che maneggia specie monetarie —, vengono lasciatenell’ombra e nella sostanza incluse nelle pratiche mercantili nonderoganti.

Ad accompagnare questo lavoro di definizione del commercio ono-revole, c’è una martellante azione di elaborazione e rilancio dei motivicon cui l’“umanesimo commerciale” sei–settecentesco, nei trattati dimercatura o nel teatro, nei salotti e nella stampa periodica, cerca diresistere all’ostilità, sempre violenta e sostenuta da sempre nuovi al-leati ideologici, nei confronti delle vecchie e nuove avidità mercantili:tutte le occasioni ed i livelli in cui il potere regio si esprime in questocampo — dai preamboli a qualunque tipo di atto normativo alle letteredi nobilitazione di mercanti — vengono utilizzati per esaltare l’azionecivilizzatrice e pacificatrice del commercio in grande, la sua capacitàdi onorare gli uomini le città ed i regni, di offrire al re i mezzi perrealizzare programmi di gloria i cui effetti ricadono sui sudditi.

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Questa attività intensa di denominazione per via normativa eriqualificazione delle pratiche, al contrario che nella linea di classi-ficazione a base fiscale su richiamata, non si riversa in una attivitàintensa di denominazione delle corrispondenti condizioni sociali.Uno degli articoli preparati dal Consiglio di commercio per l’edittodel vuole trovare, nel vocabolario in uso, un termine a cui affi-dare il compito di distinguere chi pratica esclusivamente gli aspettinon deroganti della mercatura: essendo « il termine di marchand trop-po generico e troppo esteso », si propone di usarlo per designare ilbottegaio, e di riservare il termine di négociant a chi fa commercioonorevole. Ma l’articolo non viene incluso nell’editto, che si limita aprecisare che « saranno reputati mercanti e negozianti all’ingrossoquanti eserciteranno il commercio attraverso magazzini, trattandomerci racchiuse in balle, casse o parti intere, e che non apriranno bot-teghe o applicheranno indicazioni o insegne alla porta della propriacasa ». La distinzione fra négociant e marchand avrà successo nell’u-so comune settecentesco, ma, diversamente dal caso del terminebourgeois, non sarà il risultato di una riforma autoritaria del vocabola-rio. Non a caso, del resto. Nel quadro delle politiche e delle pratichemercantiliste adottate dalle monarchie commerciali, che vanno preva-lendo nel commercio internazionale sulle repubbliche commercialiall’“italiana”, la linea che prevale tende a ridefinire per via normativala società non per costituire il nuovo rango dei commercianti onorati,ma per includere alcune pratiche della mercatura nella nozione delvivere nobilmente.

Ma, lungo questa strada, non sono poche le trappole che lo Statoassoluto prepara a se stesso. Una volta che gli sia riuscito a mettereal riparo i nobili commercianti dai suoi stessi ufficiali fiscali, c’è inparticolare il problema di tenerli al riparo delle strutture corporativee para–corporative, comprese quelle di diretta e recente emanazionesovrana come le Camere di commercio, a cui leggi, regolamenti,consuetudini locali e giurisprudenziali affidano il controllo di aspettiessenziali della pratica mercantile: nel mentre si tenta di elevare ilcommercio attirandovi capitali e personale nobiliare, si colpisconoaspetti essenziali del vivere nobilmente imponendo a quanti pra-

. Per la couche mercantile di Marsiglia, si veda il grande lavoro di Ch. Carrière, Négociantsmarseillais au XVIIIe siècle. Contribution à l’étude des économies maritimes, voll., Marsiglia .Cfr. anche il numero monografico su Acteurs et pratiques du commerce dans l’Europe modernedella “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, , n. .

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ticano il mercato l’apprendistato, la partecipazione alla vita dellecorporazioni, l’assunzione di cariche consolari, l’immersione in uncerimoniale urbano minutamente regolamentato e poco rispettosodei titoli altisonanti. Le risposte normative a questi problemi, quandoci sono, sono rese deboli e confuse dalla vivacità e dalla reattività dellestrutture corporative di fronte agli attentati alle loro giurisdizioni:un tentativo di mettere finalmente ordine in questa materia naufra-ga nel di fronte alla opposizione frontale dei potenti Six corpsdi Parigi. Così consigli e magistrature vengono intasati da processisulle precedenze fra nobili senza cariche consolari e mercanti concariche consolari, sulla inclusione negli organismi corporativi anchedei nobili che si limitano ad investire in società di commercio, sullaquantità di pratica mercantile che fa di un nobile un negoziante.

I risultati di queste forme di manipolazione autoritaria della socie-tà, animate da apparati, uomini ed obbiettivi incongruenti fra loro,non sono certo inconsistenti, ma nel complesso appaiono modestirispetto alla stessa enorme documentazione che producono. Un ven-taglio di comportamenti economici e culturali assai diversi, a volteall’apparenza contraddittori, riceve legittimazione anche in formanormativa, ed i nobili possono impegnarsi nella mercatura senzaconseguenze vistose, utilizzando le incongruenze prodottesi nellacultura del vivere nobilmente. Nel ritratto delle Mémoires d’outre tom-be, il padre di Chateaubriand, pure dominato da « une seule passion. . .celle de son nom » tanto da vedere nella « renommée littéraire » diRené « une dégénération », non sembra che abbia dovuto far ricor-so all’espediente della « noblesse dormante » bretone per ristabilire,tramite la mercatura da lui praticata nelle acque dell’Atlantico, lesorti economiche della sua famiglia. Ed del resto il rumore provocatodalla pubblicazione della Noblesse commerçante dell’abate Coyer ()è assordante per almeno tre anni. D’altro canto essa è ben lungi dalfare l’unanimità dell’opinione dotta, e non solo di quella di parte no-biliare: gli stessi ambienti mercantili guardano a volte con diffidenzaalle ideologie ad alle pratiche della classificazione sociale che accom-pagnano il dispiegarsi delle politiche mercantiliste delle monarchiecommerciali. Nei luoghi di maggior vivacità imprenditoriale e di più

. Pagine e , vol. , dell’edizione a cura J.–P. Clément, Parigi .

. L. Adams, Coyer and the Enlightenment, Oxford ; U. Adam, Nobility and ModernMonarchy. J.H.G. Justi and the French Debate on Commercial Nobility at the Beginning of the SevenYears War, in “History of European Ideas”, , n. , pp. –.

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forte mobilità sociale, è visibile una esigenza di mantenere lunga eben scandita la parte superiore della gerarchia sociale, in modo che ilsuccesso negli affari possa essere coronato da un mutamento di statusdi visibilità certa. L’acquisto di un ufficio nobilitante o la conquista diuna lettera di nobilitazione possono sembrare insufficienti a distin-guere l’esito felice di una carriera mercantile, se non accompagnati daun netto mutamento in senso immobiliare della allocazione degli in-vestimenti, cioè dall’esibizione, aggiornata e rivista, dei segni d’onore.In testi canonici della cultura filomercantile — dal Parfait négociantdi Jacques Savary () al Philosophe sans le savoir di Sedaine ()— il fondamento dell’eccellenza del commercio sta nel fatto che « sivedono tutti i giorni mercanti e negozianti fare fortune considerevolie collocare i loro figli nelle prime cariche della robe ».

Una illustrazione di questi atteggiamenti ambigui può essere lavicenda di una grande città portuale come Marsiglia. Spazio conpretese vivacissime di autonomia nei confronti della monarchiafrancese, la città sperimenta nel marzo del un atto simbolica-mente sconvolgente del governo diretto e della territorializzazioneassolutistica. Presentatosi davanti alle mura della città ribelle, il gio-vane Luigi XIV, rompendo con una prassi di mediazione socialecentrata sui nessi fra monarchia e noblesse seconde, e con precet-ti di legittimità dell’agire monarchico al quale si erano attenuti iBorbone precedenti, rifiuta l’entrée solenne offertagli dalle autorità

. J. Savary, Le Parfait négociant ou instructions générales pour ce qui regarde le commerce desmarchandises de France et des pays étrangers, Parigi , p. . Sulle varie edizioni di Savary cfr.C.M. Cipolla, Tre storie extra vaganti, Bologna . Sulla figura del mercante nella letteraturacfr., ad esempio, Commerce et commerçants dans la literature, a cura di J.–M. Thomasseau,Bordeaux .

. Il concetto di “noblesse seconde”, proposto da J.–M. Constant, è stato sviluppato daLaurent Bourquin, che lo ritiene un gruppo sociale ben individuato: L. Bourquin, Noblesseseconde et pouvoir en Champagne aux XVIe et XVIIe siècles, Parigi . Cfr. anche S. Kettering,Patrons, Brokers and Clients in Seventeenth–Century France, Oxford . Su questa e molta altrastoriografia su mediazioni e conflitti F. Benigno, Specchi della rivoluzione. Conflitto e identitàpolitica nell’Europa moderna, Roma .

. Cfr. S.A. Finley–Croswhite, Henry IV and the Towns. The Pursuit of Legitimacy in FrenchUrban Society, –, Cambridge . Cfr. anche Y. Bercé, La naissance dramatique del’absolutisme, –, Parigi , e G. Ruocco, Lo stato sono io. Luigi XIV e la “rivoluzionemonarchica” del marzo , Bologna . Nettamente continuista, e centrato sulla linea delcompromesso e della mediazione fra monarchia e ceti privilegiati, lo studio importante di W.Beik, Absolutism and Society in Seventeenth–Century France. State Power and Provincial Aristocracyin Languedoc, Cambridge .

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cittadine connessa alla tradizionale riformulazione di patti e fedeltàdi tipo “federativo”, ed entra da un varco nelle mura creato acolpi di cannone che segnalano un rapporto con la città definitodal “diritto di conquista”. Sulla base di questo atto giuridicamentedefinito di sottomissione, egli fa giustiziare o esiliare gli esponentipiù in vista del governo urbano, ne abbatte le case costruendo alloro posto piramidi dell’infamia, fa edificare due forti regi all’im-boccatura del porto per controllare traffici e città; e, soprattutto,annulla lo statuto cittadino, percepito ovunque come la carta fon-dante delle autonomie urbane, e ne impone d’autorità uno nuovoda lui concepito. L’elemento di fondo nello statuto imposto è la de-capitazione delle gerarchie sociali riferite allo spazio urbano, ossial’esclusione della nobiltà dal governo cittadino a favore dei nego-zianti. Nel corso del Settecento segnato da un vigoroso sviluppomercantile, ci si immaginerebbe che la preminenza dei negoziantistessi sulla scena politica urbana imposta dallo statuto regio vadanel senso delle cose. Viceversa gruppi importanti delle élites mar-sigliesi, che comprendono anche protagonisti di primo piano deitraffici, combattono vigorosamente per riconquistare autonomiasoprattutto allungando nuovamente la scala delle gerarchie urbane,e negli anni Sessanta riescono a conquistare un nuovo statuto cheriapre il vertice del governo municipale alla nobiltà. Le dinastiemercantili possono così mantenersi corte, ed il successo negli affaripuò essere riconosciuto e celebrato ritualmente con la fuoriuscitadalla condizione mercantile per ascendere ad una condizione nobileche mette nuovamente in rapporto, anche se nel quadro vincolantedella territorialità monarchica, preminenza sociale e potestas urbana.

. Cfr. L.M. Bryant, The King and the City in the Parisian Royal Entry Ceremony. Politics,Ritual and Art in the Renaissance, Ginevra ; E. Muir, Ritual in Early Modern Europe, Cam-bridge , in particolare pp. –; Les entrées : gloire et déclin d’un cérémonial, a cura di C.Desplat e P. Miranneau, Biarritz .

. Cfr. J.J. Ruiz Ibánez, Théories et pratiques de la souveraineté dans la monarchie hispanique:un conflit de juridictions à Cambrai, in “Annales HSS”, , n. , pp. –; Prendre une ville auXVIe siècle. Approches pluridisciplinaires, a cura di G. Audisio, Aix–en–Provence . Più ingenerale cfr. J. Cornette, Le roi de guerre : essai sur la souveraineté dans la France du Grand Siècle,Parigi .

. P. Fontan, Le voyage de Louis XIV en Provence en , in “Bulletin de la société des amisdu vieux Toulon”, , pp. –; R. Pillorget, Les mouvements insurrectionnels de Provenceentre et , Parigi , pp. –; F.–X. Emmanuelli, Les pèlerinages royaux de enProvence, in Sociétés et idéologies des temps modernes : hommage a Arlette Jouanna, a cura di J.Fouilleron, G. Le Thiec, H. Michel, voll., Montpellier .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

È un esempio, fra i tanti possibili, delle difficoltà che incontra lamanipolazione autoritaria delle classificazioni sociali anche nelle manidi un principe paradigmaticamente “assoluto”. « I nostri re — recitaun documento del — si sforzino pure di invitare, di spingere lanobiltà a commerciare; essa agisce conseguentemente ai suoi senti-menti, rifiutando di accogliere esortazioni generali che non obbliganonessuno ». Strette fra la complessità della macchina assolutistica e lacomplessità del corpo sociale, le leggi che dovrebbero immobilizza-re e classificare la società degli ordini risultano formalmente redatteed ufficialmente promulgate, in qualche caso imposte con la forza;ma, agli occhi degli stessi classificandi, assumono l’aspetto dimesso di« esortazioni generali che non obbligano nessuno ».

.. Immagini di società

Sottoposto a classificazioni normative incoerenti, molteplici, che sisovrappongono a quelle già operanti senza dissolverle, lo spaziosociale e geografico si presenta, più che come una mappa dotata dicoordinate geometriche, come un palinsesto di continuo riscritto e didifficile lettura dato che la scrittura precedente resiste tenacementealla raschiatura.

Su di esso schiere di trattatisti si chinano per decifrarlo, ado-perando spesso retoriche della sistematicità e della organicità chea volte gli storici ripropongono come forme di descrizione realisti-che, o come le uniche possibili. In particolare il Traité sur les ordreset simples dignitez di Charles Loyseau () è stato numerose volteusato per cogliere, sotto il disordine apparente, le regole rigorosedi una società « altamente differenziata e complessa », ma, al tempostesso, « estremamente logica ed ordinata »: « la maggior parte dellaconfusione è nella nostra mente », non nella realtà, ha scritto unostudioso americano, rovesciando ciò che aveva scritto qualche annoprima George Huppert in un libro a larga circolazione. Nella suaricostruzione, il vocabolario sociale di antico regime, fatto di termini

. Cit. in G. Richard, Noblesse d’affaires au XVIIIe siècle, Parigi , p. .

. Molte indicazioni importanti in G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delledifferenze individuali, Roma–Bari . Uno strumento assai utile è ora, per la Francia, Dire etvivre l’ordre social en France sous l’Ancien Régime, a cura di F. Cosandey, Parigi .

. W.H. Sewell, Etat, Corps, and Ordre: Some Notes on the Social Vocabulary of the FrenchOld Regime, in Sozialgeschichte Heute, a cura di H.–U. Wehler, Göttingen , pp. e ; G.

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che imbarazzano lo storico come corpi, stati, ordini, non presentaambiguità. Cose, norme e parole sono connesse da rapporti necessarie scolpite su tavole di bronzo: si tratta di trovare la grammatica checi permetta di leggerle.

A guardare meglio, la riconduzione della società di antico regimea testo presenta trappole ed incongruenze non meno rilevanti dellariconduzione di quella stessa società a norme giuridiche. Tradizionidiscorsive, categorie ricevute, urgenze politiche moltiplicano gliatteggiamenti interpretativi adoperati dagli autori del tempo, dif-ferenziano gli esiti delle loro analisi e lo stesso vocabolario usato.Scritture elaborate dentro contesti precisi agiscono su altri conte-sti. E, nella misura in cui queste scritture hanno una loro densitàsociale ed un uso anche negli apparati di potere e di orientamentodell’opinione, esse partecipano ai processi di ricostruzione ed ap-propriazione della realtà, di definizione dell’obbligazione sociale,di elaborazione di repertori di identità possibili e della strutturadelle convenienze per gli attori, in modi non dissimili da quelli delleattività classificatorie degli apparati statali. Esse rappresentano ed ali-mentano un’ansia diffusa di posizionamento certo, di equivalenzestabili, di riduzione del magma sociale ad oggetto dotato di rapportinecessari e delle stesse « gradazioni, priorità e posizioni » (Shake-speare, Troilo e Cressida, I.) che tengono insieme i corpi celesti;ma finiscono a volte per aggiungere complessità al corpo sociale,agli occhi di quelli che ci vivono e per noi stessi che li studiamo.Giuristi e teologi non interpretano ad uso dei posteri la realtà; essisovrappongono la loro scrittura alle molte che si stratificano sulpalinsesto della loro società.

Varrà la pena seguire rapidamente, e rinunziando in questa occa-sione a guardarne i contesti di produzione ed utilizzazione, le vicendedi un tipo di testi di analisi sociale straordinariamente diffuso in anti-co regime: quelli che sostanzialmente si esauriscono o sfociano inelenchi di tipi sociali.

Lo strumento concettuale fondamentale che la tradizione dottaconsegna agli scrittori di prima età moderna in questo campo è latripartizione indoeuropea, rimessa in circolo nei secoli centrali del

Huppert, Les Bourgeois Gentilshommes, Chicago , p. : « Nel Seicento non esisteva nulla chesomigliasse ad una teoria generalmente accettata sulla natura della società francese. . . Ma glistorici ed i polemisti di solito scoprono un ordine laddove i contemporanei non ne vedevano ».

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

Medio Evo, fra sacerdoti, guerrieri e lavoratori. Soprattutto nellearee di religione riformata, il principio di fondo di questo modo didescrivere la società, quello della individuazione di funzioni distintema reciprocamente indispensabili e cooperanti, viene riproposto conforza. Il concetto di Amt, che pervade in Germania il genere di scrit-ture dello Ständebuch, è definito da Lutero come pubblico servizioreso da ciascun gruppo non ad una autorità esterna al corpo sociale,ma agli altri due gruppi. Il criterio di assegnazione del cristiano aduno degli Stände è il Beruf, la vocazione divinamente ispirata. Tra-dotto in ambito puritano come calling, il concetto si riferisce ad « untipo di vita ordinato ed imposto all’uomo da Dio per il bene comu-ne ». La caratterizzazione gerarchica di questo tipo di descrizioneè secondaria: la « subjection », afferma un teologo presbiteriano, è« of reverence » in un sistema gerarchico, « of service » nel sistema direciprocità che vale fra cristiani. Di conseguenza, secondo formuleche si ripetono in centinaia di opuscoli, trattati, sermoni, non esisteragione perché si aspiri ad uscire dal sentiero a ciascuno assegnato: lacomparazione, prima di essere una procedura altamente lodata nellescienze della società, è stata un vizio capitale, una forma di conoscen-za mossa dall’invidia, premessa ed espressione di turbamenti gravidell’ordine sociale divinamente costituito.

Elementi di questa visione delle cose sono presenti ovunque: inprimo luogo nell’ostilità, diffusa anche in ambienti lontani da quellipuritani, nei confronti delle figure mobili, sia nello spettro socialeche sul territorio. Ma il carattere fortemente prescrittivo e debol-mente descrittivo di questa reinterpretazione del modello dei treordini la tiene confinata negli ambienti in cui si era sviluppata e nellecircostanze politiche che la attivano, in particolare quelle dei decennirivoluzionari –. E del resto gli stessi teologi che la predicanoavvertono le incongruità della descrizione tripartita rispetto alle stes-se loro premesse e rispetto alla piega che prendono le cose. In primoluogo, ad assegnare la condizione di ordine autonomo a coloro che

. Cfr. G. Dumézil, Mythe et épopée, voll., Parigi –; G. Duby, Les trois ordres oul’imaginaire du féodalisme, Parigi ; O. Niccoli, I sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia diun’immagine della società, Torino .

. Un’utile e stringata rassegna di problemi e studi in R. Endres, Adel in der Frühen Neuzeit,Monaco di Baviera .

. W. Perkins, A Treatise of the Vocations or Callings of Men, in Id., The Works, Londra ,p. .

. W. Gouge, Of Domesticall Duties. Eight Treatises, Londra , p. .

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sovrintendono al lato spirituale della società, si rischia di riproporreper essi forme di separatezza dalla universitas cristiana simili a quelleche hanno portato alle degenerazioni papiste. Inoltre il processo diautonomizzazione dello Stato va configurando un servizio, quelloreso dalla società al principe, di natura verticale, rivolto dal bassoverso l’alto, che entra in tensione con il servizio fra cristiani su cui èpoggiato il concetto di calling. Infine, l’emergere di una nobiltà senzafunzione e potestas che trae la propria distinzione dalla sua naturaimmemoriale rischia di lasciare vuota anche la casella dei bellatores:quattro tipi di persone — afferma il su citato William Perkins — in-frangono la regola secondo cui ciascuno, « di qualunque grado, stato,sesso o condizione senza eccezione, deve avere un qualche personalee particolare calling »: i mendicanti e vagabondi, i monaci, i gentlemened i servi. Dall’essere titolari di una delle tre funzioni, i nobili ri-schiano di cadere fuori dell’ordine cristiano, nell’area dell’indistinto,del minaccioso, dell’indescrivibile.

Alla ricerca di tipi sociali dotati di vocazioni e funzioni, gli Ständebü-cher allungano in maniera inconcludente i loro elenchi; i principi delladescrizione si sfilacciano, e rischiano di somigliare a quelli della dansemacabre richiamata da Huizinga, che livella di fronte alla morte mestieri e dignità. La ripartizione in tre gruppi dei tipi sociali vienein qualche modo mantenuta, ma smarrisce il suo fondamento. La suagiustificazione rischia di essere simile a quella di sapore vagamente ari-stotelico e svuotata di efficacia, addotta, sull’altra sponda della Manica,da Loyseau: « la più perfetta divisione è quella in tre specie ».

Altri principi della tipizzazione sociale, meno ambiziosi e strut-turanti, sembrano meglio interloquire con le configurazioni dellasocietà che gli storici sono in grado di ricostruire per altre vie. Ancorasul lato inglese della Manica, nel periodo elisabettiano e nel primoSeicento, molte di quelle descrizioni socio–geografiche che fannoparte del processo di costruzione della coscienza nazionale denomi-nato da W.G. Hoskins « the discovery of England », adottano unaclassificazione sociale fondata su differenti livelli di capacità dell’agirepolitico. Il criterio non è necessariamente restrittivo. L’immagine

. W. Perkins, A Treatise cit. pp. –.

. J. Huizinga, L’autunno del Medio Evo, Firenze , p. ss.

. W. G. Hoskins, The Making of the English Landscape, Londra .

. Cfr. In particolare il primo capitolo (« Degrees of people ») del fortunato libro di K.Wrightson, English Society –, Londra (varie edizioni dal al ). Si veda anche,

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di società che esso produce è, certo, fortemente gerarchica, ma nonnecessariamente dualistica. In Inghilterra, afferma la Anglia Noti-tia di Edward Chamberlayne, ci sono meno persone che altrovedotate di « privilegi », ma più persone dotate di « libertà e proprietà ».Lavorando a definire, per queste seconde, varie caselle tipologiche, icostruttori di elenchi possono infoltirne la zona inferiore. Ovviamen-te vi si distinguono coloro che sono dotati di diritti di cittadinanza.Ma, soprattutto, vi assumono nuova visibilità le campagne: mentrenegli ambienti urbani d’Italia o di Francia prevale, nei confronti delmondo rurale, uno sguardo etnografico totalizzante e dispregiativo,incapace di distinguere fra i selvaggi che lo popolano, gli elenchiinglesi orientati da questo criterio sono in grado di individuarvi,fra i generici laboratores della tradizione tripartita, figure sociali chehanno a che fare con i concetti di « libertà e proprietà ». In partico-lare i soggetti che presentano titoli di proprietà della terra o titoli dipossesso legalmente riconosciuti assumono denominazioni (yeomen,freeholders) che li distinguono dai titolari di forme di appropriazionemeno forti e più condizionate (copyholders, husbandmen) o da quantisi collocano sull’orlo della mobilità (cottagers, labourers). Essi possonocosì accedere a pieno titolo al commonwealth, cioè alla comunità deglihomines legales, degli « inglesi nati liberi ». Essi vi si situano, scriveThomas Fuller, « nella zona temperata fra grandezza e bisogno »;un’area verso la quale gli apparati della monarchia assoluta, assairigidi nel classificare i vertici della gerarchia sociale (i « pari d’Inghil-terra », membri ereditari della Camera dei Lord) e gli esclusi, dasottoporre ai rigori della poor law e delle severissime leggi contro lamobilità, esercitano una parsimonia classificatoria notevole, una ritro-sia verso la istituzionalizzazione dei gruppi e delle relazioni socialiche contrasta con l’accanimento classificatorio generalizzato del con-tinente. Ne consegue, per gli yeomen, una riduzione degli ostacoli allainterrelazione con le figure a loro vicine nelle classificazioni. Quella

dello stesso autore, The Social Order of Early Modern England: Three Approaches, in The World weHave Gained: Histories of Population and Social Structure. Essays Prresented to Peter Laslett on hisSeventieth Birthday, a cura di L. Bonfield, R. Smith, K. Wrightson, Oxford , pp. –.

. D. Cressy, Describing the Social Order of Elizabethan and Stuart England, in “Literatureand history”, , n. , pp. –.

. Londra , p. e .

. Cfr., fra l’altro, H.R. French, Social Status, Localism and the ‘Middle Sort of People’ inEngland –, in “Past and present”, , n. , pp. –.

. T. Fuller, The Holy State and the Profane State, Cambridge , p. .

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segnata negli elenchi immediatamente al di sopra degli stessi yeomen,il country gentleman, assume le sue risorse identitarie dal repertoriodelle culture nobiliari europee, ma non trova, nella legge, i privilegie le preminenze a cui si aggrappa il piccolo nobile della provinciacontinentale. Le istituzioni non garantiscono né favoriscono la suaseparatezza; al contrario la combattono lasciando il coordinamento ela gestione della società locale ad uffici di carattere volontario, apertidi fatto sia ad esponenti della yeomanry che della gentry — quelli adesempio di responsabile dell’ordine pubblico, di « guardiano dellachiesa », di sovrintendente di coloro che ricadono sotto l’assistenzaed i rigori della « legge dei poveri », di collettore fiscale, di membrodelle giurie dei tribunali.

Questi innaturali contatti al di sopra della barriera del sanguerendono la zona intermedia degli elenchi ambigua, imbarazzante,e mettono le figure che la popolano sotto l’osservazione divertita opreoccupata o ironica dell’opinione che conta. « Uno yeoman è ungentiluomo in potenza, che alla prossima generazione può diventareun gentiluomo rifinito », e per questo diventa l’obbiettivo delleaggressioni canoniche contro i disfacitori delle armonie fra i ranghi.E in questa stessa direzione agisce il « gentiluomo di campagna », chenei Caratteri di Thomas Overbury () come in quelli di RichardFlecknoe () si avventura a Londra di tanto in tanto, facendovirisaltare la sua familiarità con la società dei rustici e la sua ignoranzaassoluta delle regole della socialità urbana.

Ma, più in generale, in Inghilterra il gioco secolare dello sguardocittadino che si posa soddisfatto di sé sulla rozzezza rurale trova spa-zi relativamente ridotti. « La malattia epidemica » della « imitazionedelle peggiori vanità francesi » (William Wycherley, The GentlemanDancing–master, ) è passeggera, e la campagna in idea diventapresto il luogo in cui, con la repressione della violenza plebea e l’edu-cazione alla deferenza verso la « zona temperata » dello spettro sociale,

. Cfr. C. Patterson, Urban Patronage in Early Modern England. Corporate Boroughs, theLanded Elite and the Crown, –, Stanford .

. T. Fuller, The Holy State cit., p. .

. Cfr. su questi temi L.C. Stevenson, Praise und Paradox. Merchants and Craftsmen onElisabethan Popular Literature, Cambridge ; J. Raven, Judging New Wealth. Popular Publishingand Responses to Commerce in England, –, Oxford ; D.A. Rabuzzi, Eighteenth–CenturyCommercial Mentalities as Reflected and Projected in Business Handbooks, in “Eighteenth CenturyStudies”, –, n. , pp. –; D. Cressy, Society and Culture in Early Modern England,Aldershot–Burlington .

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il gentiluomo può cercare di riconquistare una preminenza poggiatasulla funzione. Nelle immagini che ci rimandano ad esempio i ro-manzi di Henry Fielding, così come in quella della anglofilia francesesette–ottocentesca, da Montesquieu a Le Play, la sua funzione è benindividuata: egli non si chiude nel suo “castello della miseria”, comei Capitan Fracassa che popolano le campagne francesi, ma costruiscedimore di campagna prive di ogni struttura o memoria di naturamilitare, e collocate al centro di una rete di rapporti informali, eco-nomici e clientelari. Il gentiluomo di campagna è il pilastro di unordine sociale che lo Stato si rifiuta di organizzare direttamente conuna macchina amministrativa alla francese, e che viceversa sostienetramite una parziale riconsegna della potestas a pezzi del corpo socia-le. Su queste basi la distinzione, anche se scarsamente sostenuta dallalegge, può tornare ad assumere fondamenta solide.

Il criterio della capacità dell’agire politico come base per l’elen-cazione di tipi sociali è assai più debole di quello delle funzioni, manon lo esclude. Altri linguaggi della descrizione sociale, invece deltutto alieni dai principi della tripartizione indoeuropea, si sviluppanocontemporaneamente e a volte si intrecciano con gli altri due, siinsinuano nelle stesse opere, non di rado nelle stesse pagine. Sonoi languages of sorts, ossia quelli che chiamano le partizioni elencate,appunto, sorts. Come tradurrebbe Sewell il termine per restituirlo alvocabolario sociale rigoroso delle società degli ordini? Credo che larisposta vada cercata accettando, come un dato con cui fare i conti,la molteplicità e le incertezze delle percezioni dotte e diffuse dellasocietà. La scelta lessicale, apparentemente di poco conto, alludealla pluralità delle forme legittime della classificazione impiantatenella comunicazione sociale, da quelle dualistiche della contrappo-sizione violenta fra patrizi e plebei delle campagne studiate da E.P.Thompson, a quelle più piattamente e prolissamente descrittive. E,soprattutto, una possibilità di banalizzare l’esercizio della descrizionedella società. Per la via del linguaggio delle sorts, si fanno strada lettu-re del corpo sociale che non sono orientate dalla ricerca dell’armonianascosta o da promuovere, che scontano in un certo senso l’irridu-cibilità della società alla tradizione ordinatrice del testo giuridico oteologico, e riconducono le molte facce del concetto di gerarchia alledifferenze fra classi di reddito e ricchezza che è possibile costruiresui ruoli delle imposte. La classificazione famosa di Gregory King in

. In particolare in Whigs and Hunters. The Origins of the Black Act, Londra .

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gruppi è ancora incerta fra il criterio della stima sociale e quellodella ricchezza, ma è sostanzialmente al di fuori della tradizionalericerca delle armonie, delle corrispondenze, degli obblighi reciprocifra i membri del corpo sociale. E a questa tradizione rivolgerà prestoil suo sorriso beffardo Bernard De Mandeville, accogliendo, nellaFavola delle api, la sfida della complessità sociale e rovesciandola pro-vocatoriamente in fondamento della felicità pubblica: una società chenon si fa decifrare e non consente tipizzazioni ed individuazione dirapporti necessari fra le parti, può essere una società progressiva.

Ma è difficile poggiare o fondare società sull’assenza di un qua-lunque ordine percepibile. L’atto di nascita della società nuova sarà,ancora una volta, una tripartizione funzionale: « i tre ordini, grandioriginari e costitutivi, di ogni società civilizzata », scrive nientedime-no che Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni, sono « coloro chevivono di rendita, coloro che vivono di salari e coloro che vivonodi profitti ». Camuffati in vario modo, gli Indoeuropei di GeorgeDumézil continuano ad abitare nella loro Europa.

.. « Popolo » e « plebe » sulla scena urbana

L’operazione di mettere tutto questo sul filo del tempo, di situare leletture di società più organicistiche all’indietro e quelle più econo-micistiche in avanti, con tutti i soliti giochi di individuazione dellearretratezze e dei precorrimenti per quelle situazioni che non rispon-dono ad una cronologia semplice, è stata proposta innumerevoli voltedagli storici. Ma, per questa via, i conti non tornano. Le rinunce, piùo meno ansiose e preoccupate, a ricondurre ad ordine la società sonodiffuse lungo tutto l’arco temporale e lo spazio politico dell’anticoregime europeo. E riguardano a volte gli ambienti più pesantementesottoposti a normazione giuridica.

A Richard Devize, monaco di Winchester, la Londra dell’XI se-colo proprio non piace. Essa « riunisce persone di ogni specie, chevengono da tutti i paesi possibili; ogni razza vi porta i propri vizi e ipropri usi. Nessuno può viverci senza macchiarsi di qualche delit-

. Su questa letteratura si veda, in particolare, J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologianell’Inghilterra del XVII secolo, Bologna .

. Cit. in M.–F. Piguet, Classe. Histoire du mot et genèse du concept des phisiocrates auxhistoriens de la Restauration, Lione , p. .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

to. . . Attori, buffoni, giovanotti effeminati, mori, adulatori, efebi,pederasti, ragazze che cantano e ballano, ciarlatani, ballerine specia-lizzate nella danza del ventre, stregoni, gente dedita all’estorsione,nottambuli, maghi, mimi, mendicanti: ecco il genere di persone cheriempiono le case. Così, se non volete frequentare i malfattori, nonandate a vivere a Londra. Non dico nulla contro la gente istruita,contro i religiosi o gli ebrei. Tuttavia ritengo che, vivendo in mezzoai furfanti, anche loro siano meno perfetti che in qualunque altroluogo ». Anche nelle aree in cui, a differenza che in Inghilterra,gli elenchi di tipi sociali sono cortissimi verso la campagna, essi siallungano a dismisura verso l’ambiente urbano. Nel De vita solitariaPetrarca esorta a lasciare la città « ai mercanti, agli avvocati, ai sen-sali, agli usurai, agli appaltatori, ai notai, ai medici, ai profumieri,ai macellai, ai cuochi, ai pasticcieri e ai salsicciai, agli alchimisti, ailavapanni, ai fabbri, ai tessitori, agli architetti, agli scultori, ai pittori,agli attori, ai ballerini, ai suonatori, ai ciarlatani, ai ruffiani, ai ladri,agli albergatori, agli imbroglioni, ai maghi, agli adulteri, ai parassitie ai voraci perdigiorno con le narici sempre tese a catturare gliodori del mercato ». E il Pantalone della Zeim re de’ Geni di CarloGozzi dissuade la figlia dal visitare Venezia presentandole questacomposizione sociale della città: « Siemile femene de cargadura.Vintimile paregini adulatori, che le fa deventar cattive, e più mat-te de quel, che le xe. Cinquecento marcanti, che pianze per nonpoder scoder el so sangue. Quarantamile persone, che se basa, eche se tradisce. Tremile ladri, che te ruberia la camisa. Ottomila,che maledisce le forche, per no poder sassinar, conforme saria la sofilosofica volontà. Cento poveri vecchi soli, che per esser savi, se faridicoli a predicar il timor del cielo, el giudizio, la verità, e a pianzerla desolazion delle sostanze, della reputazion delle famigie, de tutto.Questa xe una città, fia mia ». L’immenso elenco di mestieri eprofessioni della Piazza universale di tutte le professioni del mondo diTommaso Garzoni (), destinato a un grande successo, si collocanella sostanza lungo il filone di questo genere letterario: è struttu-rato sostanzialmente nella stessa maniera paratattica e presenta lastessa rinuncia alle ambizioni ordinatrici dello Ständebuch.

. Cit. in J. Rossiand, Il cittadino e la vita di città, in L’uomo medievale, a cura di Le Goff,Roma–Bari , p. .

. F. Petrarca, De vita solitaria, a cura di A. Altamura, Napoli , p. .

. C. Gozzi, Opere, a cura di G. Petronio, Milano , p. .

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La città è certo luogo nobile e capace di attribuire nobiltà a chi laabita a pieno titolo, ma essa produce anche impotenza classificato-ria e difficoltà acute nella distinzione sociale. Qui meno che altrovel’istituzionalizzazione si traduce in identificazione di principi efficacidi classificazione. La densità delle istituzioni, delle giurisdizioni, deilinguaggi legittimi e giuridicamente scanditi della inclusione nellasfera politica e della stratificazione (la cittadinanza) è altissima. Ilconcetto di “popolo”, che sin dall’età classica identifica un insiemesociale segnato dal nesso con culture e poteri vigenti in uno spaziodato, è fortemente formalizzato e ritualizzato in contrapposizione aquello di “moltitudine”, e nelle città italiane identifica spesso unodei ceti del governo urbano aristocratizzato. Lo stesso linguaggiocorporativo in particolare permane, a volte si rafforza, nel Settecento.Ma la trasparenza di tutto questo rispetto alle pratiche di mestieri eprofessioni ed alla gerarchia dei poteri e dei gruppi può essere parti-colarmente problematica. In questo contesto la dimensione ritualeassume spesso un’importanza enorme, ma non è interpretabile comefunzionale alla pacificazione ed alla costruzione di immagini condi-vise di società. Il rituale è usato per “fare corpo” e, al tempo stesso,per riposizionare il corpo nello spazio urbano. Gli stessi momentiin cui l’ordine sociale si celebra, si dota di una dimensione sacra esi mostra al popolo, cioè quelli dell’esibizione simbolica dei poteri

. Cfr., per tutti, il famoso Della istituzione di tutta la vita dell’huomo nato nobile e in cittàlibera di Alessandro Piccolomini (), citato da C. Donati, L’idea di nobiltà cit., in particolarepp. –.

. Un riferimento classico è quello a D. Roche, Il popolo di Parigi. Cultura popolare e civiltàmateriale alla vigilia della Rivoluzione, Bologna . Si vedano anche i lavori di N. Zemon Davis:ad esempio i saggi raccolti in Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia delCinquecento, Torino .

. Cfr., il fascicolo monografico di “Quaderni storici”, , n. , su Cittadinanze, a curadi S. Cerutti, R. Descimon, M. Prak; A. Bellavitis, Identité, mariage, mobilité sociale. Citoyennes etcitoyens à Venise au XVIe siècle, Roma .

. Cfr. il numero –, , di “Ricerche storiche” dedicato a Essere popolo. Prerogative erituali d’appartenenza nelle città italiane d’antico regime, a cura di G. Delille e A. Savelli.

. Cfr. M. Sonenscher, Work and Wages. Natural Law, Politics and the Eighteenth–CenturyFrench Trades, Cambridge ; S. Cerutti, La ville et les métiers. Naissance d’un langage corporatif(Turin, XVIIe–XVIIIe siècle), Parigi ; Statuts individuels, statuts corporatifs et statuts judiciairesdans les villes européennes (moyen âge et temps modernes), a cura di M. Boone et alii, Lovanio ;S.L. Kaplan, La fin des corporations, Parigi . Una rassegna da tener presente è quella di S.Laudani, Le corporazioni di età moderna: reti associative o principi di identità?, in “Storica”, , n., pp. –.

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

disposti nello spazio pubblico secondo minute priorità e corrispon-denze, possono essere, per la Napoli o la Parigi seicentesca, occasionidi conflitti acuti.

La dimensione giuridico–istituzionale appare in affanno in par-ticolare per le zone sociali inferiori delle città più pesantementeinvestite dai flussi migratori provenienti dalle campagne. La defini-zione delle gerarchie presuppone la figura ideale e materiale dellemura urbane, la definizione preventiva di chi è dentro o fuori; maun carattere fondamentale di parti significative dell’universo a cuipretendono di applicarsi è la problematicità del confine, l’incertadefinizione dell’appartenenza locale. Soprattutto per i lavoranti deimestieri “infami”, vaganti e non, è problematica la premessa stessadi ogni procedura di classificazione, ossia l’identificazione personale,che non ha il supporto di un domicilio certo e stabile, e non sem-pre ha completato l’itinerario che porta alla forma duplice di nomee cognome: il soprannome ha ancora una straordinaria vitalità, econ la sua carica egualitaria ed il frequente riferimento a mestieri,condizioni, provenienze, identità, disturba l’inquadramento ufficiale.Non a caso nella Venezia del Seicento gli “artefici” vengono registratinelle numerazioni col solo nome ed « esercitio », diventando in unaqualche misura dei “minori”, anche se, come i “putti” delle bandeviolente, hanno una piena responsabilità penale.

C’è qui, nella percezione diffusa, un difetto permanente di inqua-dramento, leggibilità, classificabilità, ingigantito dalla dimensionestessa del fenomeno (fra Cinquecento e Seicento esso costituisce il–% della popolazione urbana), dalla sua esibizione nelle piazze,nei mercati, sui sagrati delle chiese: i miserabili sono un elemento

. Cfr. R. Descimon, Le corps de ville et le système cérémonial parisien au début de l’âge modernein Statuts individuels cit., in particolare pp. ss.; Cérémonial et rituel à Rome (XVIe–XIXe siècle),a cura di M.A. Visceglia e C. Brice, Roma ; M.A. Visceglia, La città rituale. Roma e le suecerimonie in età moderna, Roma ; M. Fantoni, Il potere dello spazio. Principi e città nell’Italiadei secoli XV–XVIII, Roma .

. A. Blok, Mestieri infami, in “Ricerche storiche”, , n. , pp. –.

. A. Schiaffino, Contributo allo studio delle rilevazioni della popolazione nella Repubblica diVenezia: finalità, organi, tecniche, classificazioni, in AA.VV., Le fonti della demografia storica in Italia,vol. I, Roma , p. . Sul significato della privazione del nome, cfr. le osservazioni, che misembrano pertinenti anche per un contesto urbano, di F. Zonabend, Perché dar nomi? I nomi dipersona in un villaggio francese: Minet–en–Châtillonnais, in L’identità, seminario diretto da ClaudeLévi–Strauss, Palermo , pp. –.

. O. Niccoli, Il seme della violenza. Putti, fanciulli e mammoli nell’Italia fra Cinque e Seicento,Roma–Bari .

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della scena barocca familiare ed al tempo stesso minaccioso, e fini-scono per essere demonizzati, attingendo a risorse concettuali reserobuste dalla loro antichità e ripetitività, anche nelle aree cattoliche,in cui la tradizione della carità cristiana, del sollievo delle sofferenzeindipendentemente dal merito personale di chi soffre, non subiscel’attacco violento della Riforma.

Ma la retorica antiplebea è sempre aperta a variazioni ed innovazio-ni. A Roma, la elencazione dei mestieri sulla base delle corporazioni,incapace di descrivere la società ufficiale, è adoperata per le forme di or-ganizzazione autonoma e occulta, dotata della giuridicità di un mondoalla rovescia ma non per questo inefficace, dei mestieri della mendicità,della mobilità, del vizio: in questo caso lo sforzo classificatorio attingei suoi materiali, più che dall’osservazione e dall’interazione sociale, daun lunga tradizione letteraria. Né mancano tentativi di includerequesto mondo plebeo nella sfera pubblica, e quindi di costruire deno-minazioni che ne legittimino i ruoli che si intende assegnargli. La fasedi preparazione della rivolta di Masaniello a Napoli è segnata dal ten-tativo di esponenti del Popolo, uno dei sei seggi del governo politicodella città, di costruire una definizione politica della plebe adeguata aduna inclusione subalterna della società “marginale” nel fronte politicoda essi diretto. La plebe, dice un memoriale dell’Eletto del Popolodel , « per la bassezza delli esercitii suoi, è inhabile al governo etalle dignità »; inoltre essa non è “corpo”, cioè non ha giurisdizione,né può averla, in quanto già parte di un corpo giurisdizionalmentedefinito, quello del Popolo. Di conseguenza, se la sua collocazioneautonoma nello scontro politico in atto non può essere oggetto didiscussioni, la sua partecipazione è legittima.

Si tratta di un atteggiamento infrequente al di fuori delle fasiconflittuali acute. Prevale viceversa un atteggiamento simile a quelloche nelle campagne prende la forma dei settlements acts, della lottaai “vaganti”, cioè a quanti non sono titolari di forme di cittadinanzadi villaggio: l’allargamento del concetto di “moltitudine” — reinter-pretato dagli storici, sulla scorta della scuola sociologica di Chicago,come “marginalità” — fino a comprendervi una parte consistente

. D. Rosselli, “Tamquam bruta animalia”. L’immagine dei vagabondi a Roma tra Cinque eSeicento, in “Quaderni storici”, , n. , pp. –.

. Citato da A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Napoli , p. ss.

. Cfr., in particolare, gli studi di B. Geremek; ad es. La stirpe di Caino. L’immagine deivagabondi e dei poveri nelle letterature europee dal XV al XVII secolo, Milano .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

di quanti esercitano mestieri “bassi”, l’esclusione di zone crescen-ti della società urbana dal mondo delle classificazioni già di per séincerte e complicate della società normale, e la costruzione delleclassificazioni “assolute” poggiate sulle “istituzioni totali”. Le grandistrutture per marginali, folli, malati, delinquenti costituiscono unaforma vistosa e, dopo Foucault, ampiamente studiata della nuovaterritorialità. La categoria residuale dei “poveri” è pensata in rap-porto a quelle istituzioni: fatta oggetto di riflessione amplissima, essamobilita grandi risorse materiali e umane.

Ma nei secoli compresi fra « el gran debate del siglo XVI », inparticolare il De subventione pauperum di Juan Luis Vives () chelucidamente individua le ragioni teoriche e politiche della esclusione,e la Memoria sulla mendicità di Pompeo Neri, ministro del Granducadi Toscana (), che prende altrettanto lucidamente atto della suainadeguatezza, questo progetto di fissare e dar forma anche a questolato “informe” della società non riesce a prendere corpo. Nonostantela sua dotazione scarsa di istituti di autogoverno, organizzazione,espressione, esso sa costruire resistenze tenaci alle manipolazioni diprincipi e sacerdoti, alla sua riconduzione all’ordine discorsivo deiteologi e dei giuristi, e finisce per occupare non più solo i “margini”o i luoghi deputati della pietà barocca urbana, ma anche segmentidello spazio politico non irrilevanti. La partecipazione, sia pure su-balterna e spesso non ufficiale, degli inclassificati o mal classificatialla costruzione delle egemonie sociali ed ai giochi politici, la loroinclusione nei legami verticali dei giochi fazionari, è ben evidentenello spazio urbano di età moderna, e dà vita a costituzioni materialiben riconoscibili, e ben più mosse di quelle scritte negli statuti del-l’aristocratizzazione. Nella genealogia della modernizzazione, forsenon si tratta di materiali sprecati.

. Fra la bibliografia inglese che conosco cfr. J.F. Handler e E.J. Hollingsworth, The ‘Deser-ving Poor’, Chicago ; S.Cohen, Visions of Social Control. Crime, Punishment and Classification,Oxford .

. Cfr. Domingo de Soto, Juan de Robles, El gran debate sobre los pobres en el siglo XVI, acura di F. Santolaría Sierra, Barcellona .

. Cfr. A. Carrino, La città aristocratica. Linguaggi e pratiche della politica a Monopoli fraCinque e Seicento, Bari ; G. Delille, Le maire et le prieur : pouvoir central et pouvoir local enMéditerranée occidentale, XVe–XVIIIe siècle, Parigi .

. Cfr. P. Farina, Come il poor divenne un labourer : la costruzione di una identità sociale traLocke e Smith, in Classe operaia? Le identità: storia e prospettiva, a cura di P. Favilli e M. Tronti,Milano .

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.. Inquietudini e conflitti della denominazione sociale

Nella configurazione della società di antico regime suggerita in que-sto scritto, la deriva della classificazione sociale verso la pura elenca-zione non è una anomalia che può insorgere in un mondo ordinato e« rigorosamente tipizzato », ma una possibilità incombente. La formadello spazio sociale e le regole che permettono di collocarvi chi loabita rimangono un problema aperto, che produce conflitti e discus-sioni lunghe e non conclusive. D’altro canto lo smarrirsi dei principiordinatori delle percezioni sociali è avvertito come anomia, incom-pletezza, rischio: un punto fra i non molti sui quali il consenso èelevato è l’immagine della buona società come società con una scalagerarchica solida e ripida, ben capace di esprimersi nel linguaggiodello spazio verticale che colloca ciascuno più giù o più su di qualchealtro. Cromwell — lo abbiamo visto all’inizio — aveva su questopunto idee non molto distanti da quelle dei suoi nemici papisti. Diconseguenza la competizione ed il conflitto tra gruppi non riguardasolo la posizione da assumere nello spazio sociale, ma anche la defi-nizione di criteri che permettano di giudicare quella posizione, e diun’idea di giustizia che permetta di valutare come legittimi i modi incui essa è stata conquistata. Situarsi ai vertici di una gerarchia non per-cepita come tale, ed in modi non percepiti come giusti dalle cerchiesociali rispetto alle quali ci si situa idealmente, è cosa insensata.

Conflitti che intrecciano i due piani sono stati presentati, in ma-niera più o meno allusiva, nelle pagine precedenti. Dato il caratterecentrale della questione nell’ottica qui adottata, chiuderei questoscritto tornando esplicitamente su questo punto, con qualche cennoancora una volta alla Francia sei–settecentesca.

Qui, forse più che altrove data la presenza particolarmente ingom-brante degli apparati dell’assolutismo, la deriva della classificazioneverso la elencazione viene attivamente promossa dallo Stato. La vo-lontà di conoscenza delle risorse nella disponibilità pubblica, che sisviluppa dentro ed attorno ad alcuni pezzi degli apparati del potere,dà origine ad istituzioni nuove, a inchieste, a raccolte di dati, allaricerca di di metodi di elaborazione ed esposizione di quegli stessidati; e tende a conferire sistematicità e nuova legittimità alla banaliz-zazione dell’elenco di tipi sociali. Aspetti formali, strumentazioneper l’esposizione dei risultati, metodi di indagine, una volta ripresi esviluppati dalla statistica pubblica ottocentesca e sostenuti dallo Statonapoleonico, avranno un impatto sulle identità sociali e le classifica-

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

zioni diffuse incomparabilmente maggiore. Ma i significati politici diqueste operazioni, e le connesse immagini di società che esse presup-pongono e trasmettono, appaiono, già in antico regime, trasparentiad occhi esercitati o interessati. Le inchieste pubbliche e gli elenchiormai quantitativi di luoghi e tipi sociali che cominciano a circolare,ad essere pubblicati, ad essere utilizzati nelle opere sistematiche edenciclopediche a partire dal secondo Seicento, fanno riferimento alsovrano come promotore della felicità di una nazione di sudditi.

La forza di questo language of sorts, a fondamento statale a diffe-renza di quello inglese, è l’altro verso della debolezza, nel contestofrancese, degli altri linguaggi che abbiamo visto attivi in Gran Breta-gna. È soprattutto nella parte alta degli elenchi di tipi sociali che siannidano i problemi più rilevanti. Una nobiltà che si distingue soloper la nascita ed i segni d’onore non può essere giustificata né collinguaggio delle funzioni reciproche fra le partizioni sociali, né conquello della capacità dell’agire politico. La certificazione giuridicadel loro status può essere un argine fragile allo spettacolo offertodai piccoli feudatari affamati della provincia e dai duchi che cercanodistinzioni contando il numero e la lunghezza degli sguardi che ilre rivolge loro. Ed i segni d’onore troppo esibiti possono far risalta-re l’assenza di un elemento di valutazione della condizione nobileche nessun decreto e nessun trattato giuridico era stato in grado diabrogare: quello della virtù. La letteratura ed il teatro dei “caratteri”,che analizzano tipi umani indipendentemente dalla loro condizionesociale, più che la letteratura ed il teatro delle “condizioni”, chepongono sotto osservazione identità e gruppi già dati, raccolgono ereimmettono nelle cerchie dell’opinione spunti e motivi di dileggioed aggressione aperta nei confronti dei vertici della società. « Tisbagli, Filemone — scrive La Bruyère — se pensi che per quellacarrozza brillante, per il gran numero di furfanti che ti seguonoe per i sei cavalli che ti trainano, tu venga stimato di più: la gentetoglie di mezzo tutto questo armamentario che ti è estraneo perpenetrare fino a te, che non sei che un vanesio » (Du mérit personnel,in Les caractères, ).

Collocando questa nobiltà in cima ai loro elenchi di tipi sociali,gli autori di questo genere di scritture si condannano a rinunziare aitradizionali principi di organicità, coordinamento e gerarchizzazionefra le componenti autonome del corpo sociale. Questi scritti conti-nuano ad essere pubblicati in gran numero, ma smarriscono il lorosenso. Le inchieste regie sembrano destinate a tenere il campo.

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Ma alcune novità importanti si fanno largo fra i nostri elenchi.Il Droit public di Jean Domat () ne presenta uno assai comples-so, in qualche misura contraddittorio. Un elemento che appare digrande importanza viene comunque fuori con chiarezza: l’ordineespositivo della divisione triadica, che prima individua insiemi socialie poi attribuisce a ciascuno di essi una funzione, appare rovesciato.Qui il punto di partenza è l’individuazione dei « bisogni » del corposociale (la pace, l’ordine, la giustizia, le comunicazioni, le finanze);gli « ordini » sono costituiti da coloro che sono in grado di soddisfarei bisogni. Il numero degli ordini, le loro caratteristiche, i requisitirichiesti agli individui che vogliano farne parte dipendono dai bisognida soddisfare. Per realizzare il bisogno della pace occorrono uominicapaci nella professione delle armi, non i nobili in quanto tali; costoronon costituiscono un ordine, ma un gruppo privo di rilevanza peril corpo sociale e quindi privo di collocazione nella stratificazione.Possono conquistarne una acquisendo competenze e distribuendosifra gli ordini corrispondenti alle competenze acquisite.

Il contesto ideologico che ci permette di cogliere la portata dellaproposta di Domat è l’ormai secolare tradizione giusnaturalistica,che contrappone i diritti naturali, posseduti da tutti e connessi agliattributi universali della ragione e del libero arbitrio, ai diritti civili,che limitano, condizionano, indirizzano i diritti naturali, e, così facen-do, costituiscono ambiti di privilegio, di particolarismo, di eccezione.Ovunque tace il diritto civile, vige il diritto naturale. Il problema chequi ci riguarda direttamente, quello delle differenze sociali, si poneesclusivamente nell’ambito del diritto civile, il quale — scrive Henry–François d’Aguesseau, il futuro cancelliere, in uno scritto giovanilepure di fine Seicento — aggiunge alle qualità fisiche degli individui« distinzioni puramente civili ed arbitrarie, unicamente fondate suicostumi di ciascun popolo o sulla volontà assoluta del legislatore ».Dunque le distinzioni esistenti hanno fondamento negli acciden-ti della storia, ed in quell’ambito devono trovare giustificazione. Ifondamenti naturali delle distinzioni non esistono.

Proiettandosi nell’ordine razionale da costruire sulla base di pre-messe di questo tipo, gli elenchi di Domat incontrano nuovamente ilprincipio della funzione come unica giustificazione della distinzione;una funzione non fissata divinamente ma espressa dai modi concreti

. Cit. in R. Mounier, D’Aguesseau et le tournant des ordres aux classes sociales, in “Revued’histoire économique et sociale”, , n. , p. .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

di organizzarsi della vita sociale, e identificata in quel concetto dilavoro che nella ideologia nobiliare si connette immediatamente allecondizioni inferiori. Qui il giansenista Domat incontra il linguaggioche abbiamo sentito adoperare dai puritani inglesi: « Non c’è con-dizione, senza eccezione neanche per le più elevate, che non abbiaper suo carattere essenziale e suo dovere capitale ed indispensabile illavoro per il quale essa è stata costituita. Colui che pretende di nonavere lavoro ignora la sua natura e l’uso del suo spirito e del suo cor-po; egli rovescia il fondamento dell’ordine del mondo, viola la leggenaturale e divina, ed è un mostro nella natura più di colui che essendoprivo di capacità o di qualche membro, si trova nell’impossibilità dilavorare ».

Al di là delle differenze evidenti di accento, elenchi e scritti pro-pongono un linguaggio della stratificazione che ha pretese di sistema-re l’intero corpo sociale; e, al tempo stesso, l’effetto più limitato dicancellare ogni ruolo per la nobiltà costruitasi nella Francia dei primidue secoli dell’età moderna L’aristocrazia è rivendicata per il tramitedell’esperienza attiva della professione, in particolare quella deglioperatori del diritto che in vario modo interloquiscono con i poteri.La polemica fra spada e roba si fa violenta, e prende varie forme;fra le altre quella della contrapposizione fra quanti legittimano lanobiltà attribuendone le origini alla conquista dei Franchi (i “germa-nisti”), e quanti la delegittimano individuandone la nascita in un attodi ribellione di conti e duchi, funzionari di un potere franco profon-damente imbevuto di civiltà romana, contro il legittimo potere delsovrano (i “romanisti”). L’altra polemica coeva sul posizionamentosociale, quella già riferita fra spada e negozio, si presenta al confrontocontorta e timida.

Ma c’è anche una polemica fra robe e sovrano, che cova ed èdestinata ad esplodere, e che in una qualche misura interrompe ilprocesso di costruzione dei una aristocrazie d’état. Il lavoro chefonda la preminenza della robe ha poco a che fare col servizio del“dispotismo”. C’è un difetto di origine nei rapporti fra robe e principe:

. Cit. in M. Sonenscher, Work and Wages cit., p. .

. Cfr. in particolare R.M. Andrews, Law, Magistracy and Crime in old Regime Paris, –,Cambridge (Mass.) .

. R. Descimon, La haute noblesse parlementaire parisienne : la production d’une aristocrazied’état aux XVIe et XVIIe siècle, in L’état et les aristocraties. XIIe–XVIIe siècles. France, Angleterre,Écosse, a cura di Ph. Contamine, Parigi , pp. –.

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quello della venalità degli uffici. Dal suo punto di vista di seguacedi Jean Bodin, Loyseau aveva per tempo sottolineato come lo spo-gliare il principe di pezzi di sovranità e metterli sul mercato comebeni patrimoniali fosse « una specie di pazzia ». Ma anche dentro glispazi aperti da quella “pazzia”, dentro la pratica ambigua di un uffi-cio che rimane in bilico fra onore potere e mercato, e quindi assaipoco integrato dentro la macchina assolutistica, era cresciuta unavisione delle cose che incontra la tradizione delle autonomie socialie che, anche dopo la Fronda ed il consolidarsi dello Stato assoluto,si riproduce e viene proposta all’intero corpo sociale. Nel discorsosull’Indipendenza dell’avvocato () del già citato d’Aguesseau, uomodestinato a posizioni di assoluta preminenza nello Stato francese, leparole d’ordine di questo conflitto sono tutte ben in vista: il profilodell’uomo di legge si fonda sull’« indipendenza », difesa strenuamentenell’« assoggettamento pressoché generale di tutte le condizioni », suuna « libertà » che non significa « inutilità alla patria », sul « merito » ela « virtù » quale segni di una distinzione che non ha bisogno di esserecertificata dallo Stato, sul riferimento al « pubblico » come garante diquella distinzione. Insieme al terreno del contendere, il documen-to suggerisce il profilo di un soggetto sociale e politico collettivo chenel Settecento avrà ruoli non secondari, e che gli storici oggi vedo-no ben delineato anche sul piano degli scambi matrimoniali e delleidentità: quello degli operatori del diritto a cavallo tra parlamenti,amministrazione ed avvocatura indipendente, che ne fa personaggidel tutto diversi dai “ministeriali”, da quegli uomini del principe chevogliono promuovere la pubblica felicità ma rischiano di realizzaresolo il “dispotismo”.

Al centro dell’immagine di società che essi producono c’è ladifesa di quelle autonomie, resistenze, articolazioni che non possono

. Cfr. F. Di Donato, L’ideologia dei robins nella Francia dei Lumi. Costituzionalismo e assolu-tismo nell’esperienza politico–costituzionale della magistratura di antico regime (–), Napoli. La storiografia sulle professioni di antico regime — uno dei molti temi che in questoscritto ho deciso solo di sfiorare o di ignorare — è assai vasta. Per il contesto inglese cfr. G.Holmes, Augustan England. Professions, State and Society, –, Londra ; P.J. Corfield,Power and the Professions in Britain, –, Londra ; R. O’Day, The Professions in EarlyModern England, –. Servants of the Commonwealth, Londra . Per quello francesecfr. D.A. Bell, Lawyers and Citizens. The Making of a Political Elite in Old Regime France, Oxford. Per quello italiano decisivi gli studi di Raffaele Ajello ed Elena Brambilla. Cfr. ora, dellaBrambilla, Genealogie del sapere. Università, professioni giuridiche e nobiltà togata in Italia (XIII–XVIIsecolo). Con un saggio sull’arte della memoria, Milano .

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. Le impossibili “tavole dei ranghi”

ordinarsi attorno all’ideologia ed alla prassi di una nobiltà senzafunzione. La vera nobiltà è ancora quella che riesce a trattenerepresso di sé una parte della potestas, di quel potere diffuso che si eraandato concentrando nelle mani del principe: un vecchio attrezzodella memoria culturale dell’Europa occidentale viene ripropostocome garanzia più sicura di preminenza sociale e di resistenza controla deriva dispotica della sovranità. Il conflitto con la monarchia sulruolo dei parlamenti nel Settecento fa emergere la vitalità di questevisioni di società e di queste pretese di preminenza.

Il re sa leggerle con chiarezza: la magistratura non può ergersia corpo separato al di là dei tre ordini del regno, affermerà nel “di-scorso della flagellazione” al Parlamento di Parigi. La vittoria perora è sua, ma neanche le visioni di società che lui stesso promuovecostituiscono una “cultura”, un linguaggio in cui il corpo sociale siriconosce e dentro il quale situa le sue strategie.

La Rivoluzione alle porte rende questa affermazione banale. Manon sono solo gli eventi di dimensione catastrofica l’unico segnalepossibile della ricchezza, della molteplicità, della contradditorietà diuna compagine sociale. L’Europa di antico regime non è un universototalitario. Gruppi ed individui convivono con le forme particolaridi disordine del loro mondo, e per far questo si impegnano in unacontinua attività di interpretazione e manipolazione del contestonormativo e culturale, producono tentativi molteplici di metterlo informa che si intrecciano con le loro strategie vitali e diventano unadelle poste in gioco dei conflitti che li coinvolgono. La natura socialedello spazio della sovranità di antico regime è fatta di materiali comequesti: collocati in bilico, essi non aspettano la pienezza dei tempi pertrovare una nuova configurazione, ma vivono l’innovazione socialecome una dimensione intrinseca, connaturata al loro modo di essere.

. J. Rogister, Louis XV and the Parliament of Paris –, Cambridge .

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Capitolo II

Commerçant honorable, noble marchand, parfaitnégociant∗

Giochi di memorie e classificazioni sociali in una bonne villedella Francia assolutistica: Marsiglia fra la Fronda e la Rivoluzione

.. Premessa

I decenni centrali del Settecento sono a Marsiglia difficili ed entusia-smanti al tempo stesso: la crisi provocata dalla guerra dei sette anni sisitua all’interno di uno sviluppo vigorosissimo dei traffici, non solodi quelli oceanici ma anche di quelli delle tradizionali rotte mediter-ranee. In questo quadro, nel mentre da ogni lato della società urbanasi alzano lodi altissime del commercio come motore di civilizzazionee promotore della pubblica felicità, si scatena un’ampia discussionesu privilegi e preminenze da assegnare ai protagonisti della nuovaprosperità commerciale: i négociants. La questione è, in fin dei conti,se e come essi debbano essere emancipati dalla tradizionale colloca-zione in un « mestiere », e classificati in una delle « qualità » delle zonealte dello spettro sociale.

Nulla di sorprendente, a prima vista: sono questi i temi forti nel-l’arena savant della Francia intera, che risuonano nelle discussionifra romanisti e germanisti sulla preminenza da accordare alla nobiltàdi roba o a quella di spada, o in quelle suscitate dall’Anti–financier diDarigrand () e, in particolare, da la Noblesse commerçante dell’AbbéCoyer (). In questione, come si sa, è l’organicismo teologico–giuridico delle descrizioni sociali, la cui crisi si esprime nella classifi-cazioni sempre più banalizzate dello spazio su cui vige la sovranità(in particolare nelle elencazioni dei dizionari, nelle tavole a doppiaentrata e nelle statistiche prodotte dalle amministrazioni, nelle carte

∗ Presento qui alcuni temi di uno scritto da molto tempo in lavorazione. Rimando, per ladocumentazione e la bibliografia, ad una versione più ampia di prossima pubblicazione.

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Linguaggi del mercato

geografiche zenitali del territorio regio); nell’emergere del volere delprincipe come fondamento della gerarchizzazione sociale; nell’attri-buzione ai gruppi sociali di compiti e funzioni non più riferite ad unasocietà cristiana in astratto, ma a concreti bisogni sociali (qui il nomed’obbligo mi sembra quello di Jean Domat). Insomma si potrebbeguardare alla discussione marsigliese come specificazione locale deisegnali di mutamento che attraversano la Francia e l’Europa, e chemagari in un centro come Marsiglia, città proiettata sul mare deitraffici, sono più evidenti.

Ma le cose non si presentano in questi termini. Anche lo spaziodella monarchia assolutista francese — come continua a ripetere unastoriografia ormai sovrabbondante — non è certo “liscio”, presentadifetti evidenti di territorializzazione; cosicché non necessariamentenelle articolazioni di quello spazio si riproducono in piccolo, con lenuances del caso, temi, problemi e conflitti parigini.

.. Come leggere il passato? Una querelle nella Marsiglia di metàSettecento

In realtà, a prima vista, formule e temi presenti a Marsiglia sembra-no quelli dei libri ed opuscoli parigini. E del resto non mancano icontributi diretti a quelle discussioni: ad esempio quello di Vento dePennes (La noblesse ramenée à ses vrais principes, « Amsterdam » ),favorevole alla posizione “reazionaria” assunta dallo Chevalier d’Arccontro l’Abbé Coyer.

Ma, a guardar meglio, la querelle marsigliese alla quale convieneprestare attenzione ha caratteristiche del tutto particolari:

a) il mezzo di comunicazione adottato è quello dei mémoires, ma-noscritti o a stampa, con circolazione mirata non alla “pubblicaopinione”, ma a potenti e poteri ben specificati;

b) essa ruota intorno all’accesso ed al controllo del potere urba-no;

c) è promossa da soggetti non individuali — come nelle rego-le del campo savant — ma collettivi: da insiemi a incertaincorporazione, da corpi, da istituzioni urbane.

Elenchiamo questi soggetti denominandoli così come appaiononelle firme o nei frontespizi dei mémoires: noblesse; noblesse non comme-

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. Commerçant honorable, noble marchand, parfait négociant

rçante; corps de ville et communauté; Chambre de Commerce; négociants;corps des marchands; avocats; bourgeois.

Ad accendere gli animi, come dicevo, è la questione dell’accessoalle cariche più elevate del corpo municipale — l’échevinat. A partiredal , esso è riservato, con le ambiguità che vedremo, a quanti sipossono fregiare della qualifica di négociants. Dunque, oltre a tuttigli altri, ne sono esclusi i nobili: situazione in generale scandalosae che non è dato riscontrare in altre città mercantili come Lione,Rouen, Bordeaux, La Rochelle. Controllato dal corpo municipale, edi esclusiva pertinenza dei negozianti, è l’altro grande corpo urbano:la Chambre de Commerce, la prima istituzione del genere in Francia(fondata in una forma embrionale già nel ), titolare di prerogativeimportantissime spesso esercitate in nome e per conto del re: inparticolare la gestione delle échelles du Levant e del porto franco dellacittà.

Il catalogo dei poteri istallati in città è ovviamente assai lungo, ednobili sono saldamente collocati in uffici controllati dal corps de ville(il bureau du vin o quello de l’abondance), negli uffici di emanazioneregia, nella grande istituzione mista della Santé, nelle fermes, nelleaccademie, negli ospedali e opere pie, e in particolare nel vasto mon-do ecclesiastico. E, d’altro canto, i nobili in particolare giocano leproprie partite di riconoscimento e ascesa sociale anche su spazi di-versi da quello della città: sullo spazio provinciale, che ha un punto diriferimento forte nel parlamento di Aix, sullo spazio della monarchiaborbonica, in una qualche misura su quello europeo. Ma la dimensio-ne urbana marsigliese è fortemente rimarcata da identità memoriee risorse anche materiali, in particolari mercantili, che coinvolgonopienamente anche la noblesse : insomma, anche per i gruppi nobiliari,la città costituisce l’ambito preminente di investimento simbolico,politico, economico. Di conseguenza i nobili sono intrappolati inuna sorta di strutturale incoerenza di status: essi vivono nella con-traddizione fra la collocazione elevata nella gerarchia a fondamentoregio, fissata con le due recherches de noblesse nel secondo Seicento,e quella mediocre nella gerarchia a fondamento urbano che vienerappresentata e sottolineata vistosamente nell’elaborato e fittissimocalendario cerimoniale della città. Anche lì i nobili precedono, « àmoins que — cito dalla voce noblesse dell’Encyclopédie — les roturiersn’ayent quelque autre qualité ou fonction qui leur donne la préséan-ce ». Nel nostro caso, la « qualité ou fonction » che dà la precedenza airoturiers sui nobili deriva, appunto, dall’échevinat, a cui questi ultimi

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non possono accedere. D’altronde il controllo del corps de ville dàaccesso diretto a risorse importanti e permette di mettere le manisu affaires colossali, come quello del riutilizzo, negli anni precedentila Rivoluzione, dell’area dell’arsenale regio smantellato da tempoa favore di Tolone, che contribuirà a modificare profondamente lascena urbana.

Insomma si tratta di una questione spinosa, che si trascina datempo e crea tensioni acutissime. La città è sorvegliata attentamentedal re per la sua straordinaria importanza mercantile ed istituzionale,per la sua lunga storia di mauvaise ville alla continua ricerca di spazi diautonomia dal potere del principe, per il continuo dissesto delle suefinanze. E gli anni difficili della guerra dei sette anni costituiscono,per la noblesse non commerçante, un momento propizio per rigiocare,col la sponda del re, la partita della ridefinizione dell’accesso ai poteriurbani ed alle risorse ad essi connesse.

Al centro della folla di mémoires già citati è lo statuto urbano vi-gente. Ricorrendo il centenario della sua promulgazione, esso è fattooggetto di un gioco di ricostruzioni contrapposte della memoriaurbana. Il è data fausta per gli uni, inizio di una nuova storiaurbana all’insegna della fedeltà al re e della prosperità mercantile;del tutto infausta per gli altri, dal momento che segna il degradodella città. La noblesse, che è di quest’ultimo avviso, propone unalettura dello statuto, per così dire, storicizzante: esso è un insiemedi norme prodotto dalla “natura delle cose”, quelle che premevanonel momento della sua redazione, e reso inefficiente dal mutare delle“cose”. È dunque alle circostanze di fatto ed alla loro evoluzione, nonalla lettera delle norme, che bisogna fare attenzione. I négociants, ilcorps de ville e la Chambre oppongono viceversa una lettura giuridica,lo considerano un insieme di norme positive che ordinano formal-mente — e felicemente — le “cose”, e che, di conseguenza, vannoanalizzate alla lettera.

Anticipo che la posizione dei négociants si presenta estremamentedebole: nella Marsiglia del trionfo del negozio, essi risulterannoperdenti.

.. : uno statuto urbano scritto dal re

Lo statuto vigente risale, come dicevo, al , momento crucialee di svolta anche per Marsiglia, che aveva per secoli vissuto il suo

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rapporto, prima con lo spazio della Contea di Provenza poi con lospazio monarchico, in modi tesi, rischiosi, brandendo la retoricadella città hors du royaume, che trae le ragioni della sua autonomiadalla stessa conformazione del suo ambiente naturale, dalla difficol-tà delle comunicazioni con l’entroterra regio e dalla sua proiezionesul mare libero. Il gioco sulla connotazione federativa del territoriomonarchico, insita nel concetto di bonne ville, qui viene spesso por-tato fino ai limiti della rottura: in particolare a fine Cinquecento,con la Ligue filocattolica che domina la scena urbana e le sue ambi-zioni a condurre la città sulla strada avventuristica di una politicaestera autonoma, e poi durante le Fronde e la difficile fase finaledella guerra con la Spagna. Ma la rottura era stata sempre evitata,ed una forma di autonomia politica dello spazio urbano preservata.Di fronte alla città, il principe aveva continuato a prendere la formadel roi de justice, il re che fonda la sua sovranità promuovendo e ga-rantendo la pace fra le mille giurisdizioni presenti sul suo territorio.È una figura — quella del roi de justice — ben disegnata nel riccocerimoniale delle entrées : macchine e rituali per accogliere potentidi ogni qualità, ed in particolare un re o un suo delegato che, primadi far ingresso in città, deve giurare «volontairemente» di osservarele convenzioni, capitoli di pace, statuti e privilegi inseriti, nel ca-so di Marsiglia, in un libro verde. Le entrées a volte concludevanofasi di désobeissance e si coniugavano alla erogazione di punizioninon nei confronti della communauté in quanto tale, ma di soggettiben definiti: ad esempio, l’entrée del duca di Guisa dopo i troublessuccessivi alla benedizione di Enrico IV da parte di Clemente VIIInel , fa tutt’uno con la punizione dei capi della Ligue, Louysd’Aix, Charles de Casaulx « et leurs adherans ». Entrée e punizionia singoli sancivano il ritorno della città nel seno accogliente dellebonnes villes.

Il rituale secolare delle entrées prevede in realtà un’altra figura, ro-vesciata rispetto a quella classica, ed applicata quando la désobeissanceè attribuita dal sovrano alla communauté del suo complesso. In questocaso il sovrano si presenta come roi de guerre, ed il suo ingresso èregolato dal droit de conquête : è cioè un atto straordinario ma espressoall’interno di un linguaggio cerimoniale preciso che ne sottolinea lalegittimità.

Fra la fine del ed i primi mesi del , Mazzarino, comesanzione della pace dei Pirenei, organizza e dirige un viaggio regale— l’ultimo dei grandi viaggi regi — segnato da un protagonismo

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significativo del giovane re e da un intreccio di atti cerimoniali edatti di potenza sbilanciato verso questi ultimi. È il viaggio nel qualeil sovrano prende possesso del Rossiglione, sottomette il ducato diOrange, riceve ad Aix la sottomissione del Condé. E, infine, puni-sce, in quanto comunità, Marsiglia, che aveva continuato a produrregesti di ribellione aperta nel quadro di una guerra difficile e di unindebitamento gravissimo del fisco regio.

È un evento simbolico di grande risonanza, che richiamo persommi capi. Giunto ad Aix il re invia a Marsiglia il governatore diProvenza, duca di Mercoeur. Questi si presenta sotto le mura con uomini in ordine di battaglia, impone ai consoli di consegnarglile chiavi della città, vi entra trombe squillanti, tamburo battente emicce accese « comme dans une ville ennemie et prise d’assault »,risuscita il famoso droit de gîte (regolamentato dalla grande ordonnancedel ) alloggiando le truppe nelle case dei cittadini a dispetto deiprivilegi di Marsiglia, impone alla città il pagamento di livresper le spese della corte dimorante a Aix, si fa consegnare le armi —compresi i cannoni delle mura e dei bastioni della città, inviati poi aTolone per essere fusi, riducendo le mura ad un mero recinto fisico,ad un segno sul suolo privo di sostanza militare e giurisdizionale.A questo punto il governatore mette mano a due atti edilizi per iquali i marsigliesi stessi sono chiamati a pagare: uno di costruzione— la citadelle regia di Saint–Nicolas all’ingresso del porto, a controllodella città e dei suoi traffici; l’altro di distruzione, l’abbattimentodella porta principale della città, quella delle entrées canoniche (sullaquale era incisa la scritta sub cuius imperio libertas) e del tratto di muravicino.

Il marzo il re con la corte, che in questo caso comprende fragli altri Anna d’Austria ed il fratello del re stesso, entra nella cittàoccupata manu militari, solennemente ma attraverso la breccia nellemura aperta per l’occasione; rifiuta le chiavi d’oro della città che iconsoli avevano fatto fabbricare con gran dispendio di denaro; nonrende la visita d’obbligo all’hotel de ville né si mostra al popolo; emanauna ordinanza che dichiara i vertici della città colpevoli di lesa maestà;fa distruggere le loro case e costruire al loro posto — qui ancora illinguaggio simbolico è ben preciso — le « piramidi della vergogna »;fa battere due medaglie che rappresentano il forte Sant Nicolas invia di costruzione all’imboccatura del porto e portano l’iscrizioneMassilia munita: Marsiglia difesa cioè dallo stesso re che la ha privatadi difese proprie.

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E, soprattutto, straccia lo statuto vigente, quello del , ema-nazione del complicato gioco dei ceti e delle istituzioni locali, e neriscrive uno del tutto nuovo: un gesto il cui impatto devastante puòessere misurato richiamando il cerimoniale civico elaboratissimo —ne abbiamo una descrizione puntuale — col quale era stato elaboratoil règlement abolito. Anche il nuovo statuto, che è nella sostanza quellovigente a Marsiglia ancora negli anni Sessanta del Settecento, nasceall’interno di un complesso rituale; ma è un rituale tutto volto arovesciarne il significato: il documento non è l’espressione più altadell’autonomia cittadina, ma il prodotto di una volizione sovrana, edunque è un atto che disconosce la soggettività corporata e politicadella città stessa. La condizione di bonne ville è persa. E, lo vedremo,lo stesso rango di città viene revocato in dubbio.

Si può forse dire che nel quadro dell’assolutismo regio non c’èpiù spazio per le bonnes villes, che le autonomie vengono schiacciatesistematicamente, che l’episodio di Marsiglia si inserisce in una seriedi atti sovrani risalenti ad Enrico IV se non a Francesco I: atti straor-dinari secondo gli ordinamenti ricevuti, ma che si rovesciano manmano in una nuova normalità. L’evento marsigliese, nonostante illinguaggio cerimoniale ben codificato in cui si esprime, sarebbe daattribuire non alla persistenza di un passato lungo, ma all’emergeregraduale di una forma nuova di sovranità; in particolare all’emergeredi quell’“assolutismo municipale” che tenderebbe a trasformare il go-verno delle città in un ramo dell’amministrazione regia. Lungo il filodi episodi di questa natura, bonnes villes e monarchia, poli tradizionalidi una prassi di negoziazione costitutiva delle formazioni politichetardo–medievali e di prima età moderna, diventerebbero man manoun ossimoro. Fatto sta che non sembra che i gruppi attivi nell’arenapolitica marsigliese fossero di questo avviso: la elaborazione dellememorie civiche e la connessa conflittualità vivacissima che segnanola città fino alla Rivoluzione sono in buona parte centrata su come echi può riconquistare, nel nuovo contesto, spazi di quell’autonomiaperduta nel .

Varrà forse la pena gettare uno sguardo a questa scena urbanache continua ad agitarsi nonostante la pressione del disciplinamentoregio.

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.. Lo statuto del da prodotto delle “cose” a ordinamentodelle “cose”

La contesa non si accende immediatamente. Per una lunga fase, checoincide sostanzialmente col regno di Luigi XIV, l’elaborazione dellaperdita e l’individuazione dei rimedi sono condotti in forme, per cosìdire, implicite. La documentazione tace.

Qualche suggestione la troviamo nella produzione dotta, in par-ticolare nei due libri sulla città forse più importanti del secondoSeicento. In entrambi il tema di fondo è la minaccia che le circo-stanze portano al mantenimento di Marsiglia non solo nel noverodelle bonnes villes ma nella condizione stessa di città. Nel Discours surle négoce des gentilshommes de la ville de Marseille et sur la qualité desnobles marchands qu’ils prenoient il y a cent ans di François Marchetti(Marsiglia ), ciò che rischia di portare Marsiglia al di sotto dei piùumili villaggi è l’indebolirsi, a causa degli effetti incrociati delle re-cherches de noblesse e dello statuto del , di quelle distinzioni socialiistituzionalizzate che costituiscono un segno fondamentale della con-dizione urbana. Da un lato le recherches vanno togliendo la qualifica dinobile a chi è stato o è mercante; dall’altro, chi nobile rimane, di fattonon può esserlo nello spazio urbano marsigliese a causa del nuovostatuto che gli preclude l’accesso ai vertici delle istituzioni cittadine.Recuperare le distinzioni diventa una questione assolutamente vitalese non si vuole chiudere ingloriosamente la vicenda millenaria dellacittà.

Le glorie di questa vicenda erano state efficacemente presentatenella prima storia di Marsiglia, quella di Antoine de Ruffi, pubbli-cata nel . Qualche decennio dopo la catastrofe del il figliodi Antoine, Louis–Antoine de Ruffi, mette mano ad una secondaedizione, pubblicata nel . Come si sa, produrre storia urbana èassai spesso di per sé un atto rivendicativo, autonomistico. In questocaso esso deve farsi largo in una retorica della dissimulazione resanecessaria dalle circostanze: la riedizione è finanziata dal corps de villedecapitato dal re, ed al re stesso è dedicata. Di qui la presentazionedi un passato urbano segnato dalla « fidélité que les sujets doivent àleur souverain », la quale non deve d’altronde cancellare « l’amourque les citoiens doivent conserver pour leur patrie », intesa quest’ul-tima come spazio politico dotato di libertà, ossia di autonomia. Lostatuto del , riletto a qualche decennio di distanza, comincia anon apparire più solo un atto liberticida. « Priviléges, franchises &

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immunités » sono ancora in vita, e sono affidati agli attuali vertici delcorps de ville, « échevins & assesseur », che fungono da « protecteurset défenseurs » della libertà urbana. Il punto è che costoro non sonoi veri titolari di queste funzioni, dal momento che « dans tous lesEtats bien reglés, l’administration des affaires publiques & l’autoritépolitique est le vrai partage des nobles et des personnes de qualité » : inegozianti nominati « échevins » hanno le « fonctions de gouverneursen absence », sostituiscono quei « gouverneurs » aboliti di fatto daLuigi nel con l’esclusione dei nobili. Le libertà che connotanola condizione urbana sono così nelle mani di personaggi di incertalegittimità, di sostituti, che trasmettono alle stesse libertà loro affidateil proprio difetto di legittimità. Il riferimento, si badi bene, è a queglistessi échevins che hanno finanziato il libro. Su questo punto torneròpiù avanti, limitandomi per ora a sottolineare come, per una stradadiversa, la storia dei Ruffo giunge allo stesso risultato di Marchetti:alle minacce che incombono su Marsiglia in quanto luogo collocatodalla sua storia millenaria nel rango onorato delle città.

Non sono questioni che è qui possibile approfondire. Basterà direche, per ora, non c’è conflitto sulle norme: lo statuto non sembra leg-gerlo nessuno. La lettura puntuale delle norme, del resto, è solo unodei modi possibili per interpretare atti autoritativi. Scrive la noblessein uno dei mémoires del –: è vero, come dice la Chambre, che inobili rimangono in silenzio fra il e il . « Les gentilshommess’étoient imposés la loi de le garder (il silenzio) jusqu’à la mort deceux qui avoient eu le malheur de déplaire à leur maitre ». Il silenzioriguarda lo statuto, percepito come un prodotto delle “cose”, comeespressione diretta di una configurazione dei poteri: è figlio dellaprepotenza dei “fatti”, e la sua legittimità sta nella sua aderenza adessi, non nella sua capacità di ordinarli. Il testo da consultare è dunquequello delle “cose”, non quello del règlement.

Del resto, si potrebbe aggiungere, la scrittura dello statuto daparte del re è un gesto avvolto in una serie di atti di costruzione auto-ritaria della memoria urbana, cioè di definizione dell’interpretazioneautentica delle “cose”. Anche qui è il caso di ricorrere ai precedenti.L’editto di riduzione della città di Marsiglia del , connesso allaentrée del Duca di Guisa, reinterpreta i troubles che hanno laceratola città del secondo Cinquecento come désobeissance che — lo si ègià accennato — « doit etre attribueé au dict Louis d’Aix, Charles deCasaulx, et leurs adhérans, et non en général à la communauté »; e,perché questa attribuzione sia possibile, l’editto la lega ad un atto di

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abolizione autoritaria della memoria: « Nous voulons, entendons etordonnons que la mémoire de tout ce qu’il c’est passé en la dicte villeet territoire d’icelle despuis le commencement des présens troublesjusqu’à maintenant demeure estainte et abolie » (il corsivo è mio). Nel, viceversa, la memoria è promossa, coltivata, pietrificata in attiedilizi e socializzata con atti di promozione ed esclusione che coinvol-gono un intero ceto composto di soggetti ben noti. A lungo non sene potrà dare una versione “cittadina”: la stessa riedizione della storiadi Marsiglia dei Ruffi deve fermarsi dove si è fermata l’edizione del, cioè a prima delle Fronde e dell’attacco sovrano all’autonomiadella città.

Ma i protagonisti degli eventi man mano muoiono, ed anchegli atti pietrificati si disfano: ad esempio la piramide della vergognacostruita dove sorgevano le case dei Niozelles, protagonisti principalidella désobeissance degli ultimi anni Cinquanta del Seicento, vienedistrutta nel . E man mano che la memoria costruita d’autorità sioffusca, lo statuto del tende a perdere contatto con gli eventi, lasua lettera comincia a presentarsi nuda nella sua violenza classificato-ria che distingue inclusi ed esclusi. Gli articoli che lo compongonocominciano ad essere attentamente letti e soppesati, e diventanooggetto di conflitti sempre più acuti.

A questo punto occorrerà che noi stessi li si legga, ovviamentesolo riguardo a qualche punto cruciale.

Lo statuto abolisce il consolato, ben definito almeno a partiredal règlement del detto di Jean de Cossa: consoli suddivisi inuna gerarchia. Essi vengono ora sostituiti da échevins (prima poi), che lasciano vuota la posizione più elevata (quella del primoconsole) ed occupano la seconda e la terza. Le parole dello statutosono queste: il premier échevin deve provenire dalla « gens de logetenant banque ou négociants, de la qualité de ceux qui entraient audeuxième chaperon »; il secondo « de la bourgeoisie ou marchand,de la qualité de ceux qui entraient au troisième chaperon ». Dunquelo statuto del , come fonte di diritto scritto, funziona sulla basedi un gioco di corrispondenze con le norme che, nei regolamentiprecedenti, creano una gerarchia di tre livelli ai quali si accede sullabase del possesso di tre distinte « qualità » della persona. Il punto èche, in particolare su questa questione, i regolamenti su cui poggiarsiaiutano poco, e le consuetudini che regolano le elezioni consolaricinquecentesche non si occupano di classificazioni sociali legate alfar mercanzia. Le distinzioni che vi si trovano, o meglio, quelle

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che vengono adoperate nelle elezioni, sono le seguenti: il primoconsole deve essere un nobilis vir; il secondo honorabilis vir; il terzoprobus vir; o, più tardi: I gentilhomme ou réputé comme tel (sic); II écuyer;III honorable homme. Il règlement detto du sort del è molto piùesplicito, ma non nella direzione che servirebbe: tutti e tre i consolidevono essere a. gentilshommes ; b. nativi ed originari di Marsiglia; c.agé di anni; d. bien famé ; e. riche. La distinzione in questo caso stasolo nel livello di ricchezza, non nelle qualità: I chaperon . livres ;II chaperon. livres ; III chaperon . livres.

Insomma, lo statuto colloca gli esclusi dal corps de ville inuna categoria denominata « quelli che erano soliti entrare nel premierchaperon », efficace nell’imminenza degli eventi e nella vigenza dellamemoria collettiva, quando tutti sanno bene a chi lo statuto si rife-risce; ma del tutto inefficiente in quanto formula di diritto scritto,astratto dalla “natura delle cose” ed adoperabile quando la forza deifatti non preme più e lo jus non è più traduzione immediata deirapporti di forza, ma uno fra gli strumenti ordinatori di una società.Il linguaggio delle qualità, che pure è presente nello statuto (gens deloge tenant banque, négociant, bourgeois, marchand), esclude i nobili noncitandoli in quanto tali, e promuove un intreccio inestricabile fracorps de ville e Chambre de Commerce, con un ripetersi impressionantedi soggetti e famiglie alla testa delle due istituzioni. Al tempo stes-so, esso presenta margini di ambiguità tali da rendere indecidibili ledispute sull’accesso ai vertici urbani.

Per ridurre, ciascuno a suo modo, questa ambiguità, i mémoiresai quali accennavo all’inizio propongono letture dei sistemi di deno-minazione dei gruppi sociali dediti al commercio, che richiamanopiù o meno esplicitamente discussioni presenti nello spazio politicofrancese ma le dotano di significati coglibili sono in riferimento allespecificità del nostro spazio urbano. Qualche cenno in proposito saràutile a leggere le loro argomentazioni.

.. Commerce honorable o noblesse commerçante ?

Nell’ambito del linguaggio delle qualità riferito all’esercizio dellamercatura fra Sei e Settecento, distinguerei nello spazio francesedue linee principali, che possiamo denominare attraverso il titolo didue opere: quella del Chavalier d’Eon, Le commerce honorable, ,e quella di Jacques Savary, Le parfait négociant, (e poi della No-

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blesse commerçante dell’abbé Coyer, ). La contrapposizione vertesulla capacità o meno della pratica mercantile di individuare una“condizione”, intesa come nesso fra individui, pratiche e diritti.

È una vecchia questione, che possiamo ripercorrere tenendo benpresente la lunga produzione di norme sovrane sulla dérogéance, lequali hanno in Francia un vigoroso carattere performativo sul tessutolinguistico diffuso e tendono a ridurre il ventaglio larghissimo dellevariabili locali: in particolare l’editto del , che permette ai nobilidi esercitare il commercio all’ingrosso senza essere sottoposti al siste-ma corporativo (il parlamento di Parigi ne rifiuterà la registrazionefino a metà ’); gli editti di Aumal del e l’articolo dellaordonnance d’Orléans del , che vietano ai nobili di commerciare;il cosiddetto code Michau del , che considera non derogante allacondizione nobile l’investimento nelle compagnies royales de commer-ce ; gli editti del e del , che escludono dalla dérogéance ilcommercio per mare ed all’ingrosso in generale.

Il mutamento, in forma scolastica ed approssimativa, può esseredescritto così. Prima della svolta seicentesca nobili e mercanti veni-vano dalle norme regie collocati in due condizioni distinte: la nobiltàè concepita come insieme di soggetti che praticano la guerra e nonpagano imposte, con appartenenze formalizzate per via cerimonia-le e certificate dall’opinione; i mercanti sono coloro che praticanola mercanzia e pagano le imposte, con appartenenze formalizzateattraverso l’apprendistato, la partecipazione ai corpi di mestiere, l’i-scrizione nelle liste consolari. Le prese di posizione dei nobili sonoin generale favorevoli al commercio che non deroga, quelle dei mer-canti contrarie per timore della concorrenza sleale di chi non pagale imposte. Varie sono le deroghe parziali o locali: nel , per fareun esempio che ci riguarda da vicino, lettere patenti del re permet-tono ai nobili di Marsiglia di commerciare senza tenere boutiqueouverte, dato che la città è « sur un bord de mer » ed ha un terroirsterile e piccolo. Nel Seicento le cose cambiano, ma la normativaregia nel suo complesso si avvolge in una contraddizione di fondo.Una serie di atti sovrani contribuiscono attivamente ad irrigidire ladisposizione gerarchica delle condizioni, ad edificare nuove barrierefra gli états : in particolare le recherches de noblesse, lo abbiamo giàricordato, degradano soprattutto la nobiltà di origine mercantile. Leposizioni rispettive di nobili e mercanti sulla dérogéance, così comeespresse in una pubblicistica abbondante e ripetitiva, si rovesciano:ora sono i nobili ad adoperare la dérogéance come un marcatore forte

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di distinzione nei riguardi dei mercanti e delle loro ascese socialisostenute dalla ricchezza derivante dai traffici. Al tempo stesso, però,comincia a prendere corpo un insieme sempre più ricco di misuremercantilistiche di promozione del commercio. Il problema centralediventa così quello di conciliare mercantilismo da un lato, e dall’altroil profilo ignobile di chi fa mercatura; e, su un altro piano, di impedireche la ricchezza sia condizione indispensabile al fasto nobiliare ma leforme conosciute per conseguire la ricchezza stessa siano tutte igno-bili. Le due linee a cui mi riferivo propongono soluzioni alternativedi questa contraddizione, producendo son solo opinione e prese diposizione di corpi, ceti ed individui, ma anche insinuandosi negliapparati decisionali locali e centrali.

La linea del commerce honorable, fatta propria in una qualche mi-sura dallo stesso Richelieu, è riassumibile nella parola d’ordine dihonorer le commerce. Chi fa mercatura per ciò stesso si inserisce in unacondizione, come secondo tradizione; ma si tratta di una condizionealta, simile a quella prodotta dalla pratica militare. Di qui tutta unasemantica che lo Chevalier d’Eon trae dall’ambito bellico ed appli-ca a chi fa commercio per mare: coraggio, disprezzo del pericolo,disinteresse, passione. Il commercio non è passione fredda, dolce (ilriferimento è a Le passioni e gli interessi di Albert Hirschman) e per-ciò stesso pacificatrice, come lo sarà per Montesquieu, ma passionecalda che produce onore a chi lo esercita ed al suo re, e prosperitàal popolo. Si tratta di una linea perdente, ma che riemerge fino allaRivoluzione in atti normativi, proposte, atteggiamenti che non possoqui richiamare.

La linea che prevale è l’altra. Tutto un lavoro di aggiustamenti aimargini smonta la figura, spesso richiamata nei dibattiti, del mercan-te italiano classico (Genova e Venezia sono ovviamente gli esempiricorrenti), impegnato su tutti i fronti e a tutti i livelli della praticamercantile. Le forme e gesti del far commercio vengono segmentatie gerarchizzati, si definisce una merceologia onorifica, si individuanomodi di coinvolgimento nei traffici che tengano a distanza il venderein bottega e l’andar per mare, sciolgono l’obbligo di apprendistato,di iscrizione alle corporazioni ed alle liste consolari. Il concetto dinégociant viene distinto da quello di marchand — riprendendo l’op-posizione negociator/mercator attiva già nel latino classico dei secolia cavallo fra repubblica e principato — e la figura del negoziante,oltre a riferirsi a soggetti collocati ad un livello elevato della gerar-chia sociale, comincia a definire una prassi che ha una caratteristica

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assai particolare: quella di non connotare, cioè di non fondare unacondizione. Il negoziante diventa parfait man mano che si spogliadei lati più materiali e perciò degradanti del negozio, e man manoche il suo lemma perde la funzione di sostantivo, assumendo quelladi aggettivo da attribuire ai sostantivi riferiti alle condizioni vere cherestano in campo nella zona alta della società: quelle di bourgeois enoble. Nel frattempo il termine marchand definisce esso pure unacondizione, ma riferita ormai ad una posizione centrale, mediocre,dello spettro sociale.

.. Verso il nuovo statuto

Questo lavorìo di definizione della figura del negoziante è ben vi-sibile anche a Marsiglia, già a partire da proposte di mediazionecome quelle del già citato François Marchetti, che, alla ricerca di unavia per risanare le ferite aperte dai troubles e dall’atto straordinariodi Luigi XIV, identifica nella double qualité di nobles et marchands uncarattere originario delle élites urbane marsigliesi ed il fondamento diuna memoria condivisa da ricostruire. E man mano questo processocoinvolge i protagonisti del grande slancio commerciale settecente-sco della città, che possono ascendere nella gerarchia sociale e fardimenticare le loro umili e recenti origini distinguendo la qualifica dinégociant da quella di marchand. Coloro che non possono liberarsi diquest’ultima denominazione, a loro volta, tentano in un certo sensodi distinguersi da se stessi, vogliono essi pure farsi parfaits : suddivisiin corpi (drapiers, merciers, toiliers, denteliers, joualliers, quincaillers),nel i marchands si unificano in un corpo solo, tendono ad abban-donare le vecchie qualifiche professionali, pretendono l’indistinzionerispetto ai négociants sulla base solita dell’indebolimento del nesso fraqualità e condizione.

Tutto questo è però contraddetto da uno statuto che, letto fuoricontesto, tende a legare pratica mercantile e accesso a diritti cospi-cui, rendendo il far mercatura, anche e soprattutto quella parfait,profondamente connotante.

È una situazione scivolosa, instabile, che diventa conflitto apertonella congiuntura successiva alla morte di Luigi, negli anni dellaprima reggenza e della ripresa nobiliare. Intorno alla modifica dellenorme dello statuto, si succedono proposte, si accendono querelles,si ottengono decisioni sovrane. Nel un nuovo statuto sembra

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essere all’ordine del giorno. Deputazioni a corte partono dalla città,e, significativamente, la communauté, dotata ovviamente di un suocorpo specifico, vi si fa rappresentare da un altro corpo, quello dellaChambre de Commerce : una confusione di ruoli che sottolinea l’esclu-sione dal gioco dei nobili e suscita le proteste vibrate di questi ultimi.Ne sortisce l’editto del marzo , che sana il vulnus vistoso inflittoalla condizione urbana di Marsiglia dalla abolizione del premier chape-ron : questa posizione viene finalmente restaurata, ma resta chiusa ainobili, dal momento che è assegnata alla gens de loge ou négocians, nelmentre il II chaperon va ai bourgeois ou marchands. La déclaration duroi del luglio sembra offrire alle rivendicazioni nobiliari unaqualche soddisfazione: contraddicendo la lettera dello statuto vigenteessa permette l’accesso all’échévinat ai nobili, d’origine o per uffici,che pratichino il negozio: cosa che i nobili rifiutano, dal momentoche pretendono l’accesso alle cariche urbane sulla base della lorocondizione nobiliare, non sulla base di pratiche che considerano nonconnotanti, e quindi incapaci di produrre diritti.

Si accumulano così modificazioni puntuali allo statuto che non netoccano il punto divenuto cruciale: l’esclusione dal potere urbano deititolari della condizione nobiliare, la cui preminenza nel territorioregio è ufficializzata ormai dal re stesso. Le tensioni crescono, edesplodono in un’altra congiuntura politica favorevole, quella dellaguerra dei sette anni, producendo, fra l’altro, la pioggia di mémoiresmenzionati all’inizio di questo scritto.

Non è possibile darne conto qui se non per cenni. Il tema ricor-rente, agitato dalla noblesse e dalla bourgeoisie e che mette in difficoltànegociants, corps de ville e Chambre de Commerce, è quello che abbiamovisto maturare fra Sei e Settecento: l’incongruenza di uno statuto cheassegna diritti di accesso ai vertici urbani ad un insieme definibilesolo in negativo, a coloro che fanno negozio senza essere bourgeoiso nobles, cioè senza avere una condizione. Il commercio è orizzontecomune alle élites marsigliesi. Se ci sono coloro che commercianosenza essere bourgeois o nobles, costoro sono i meno adatti a governarela città in quanto non vi hanno radicamento alcuno, non hanno beni« sous la main du roi » ma capitali che si muovono per le terre edi mari del mondo alla continua ricerca congiunturale del luogo edel settore giusto in cui essere investiti. Il negozio che pretende didiventare sostantivo, cioè che non si poggia su una condizione verama pretende autonomia, è una « plaque tournante » dove si scendee si sale di continuo; è « semblable à ces tableaux mouvans où les

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personnages se succedent avec rapidité. . . Il faut tenir à une sociétépar des liens moins nouveaux et moins fragiles, pour s’interesser à saprosperità & à sa gloire ». Vista da questa prospettiva, la gloriosa cittàdi Marsiglia è in una situazione mostruosa: individui privi di condi-zione e di radicamento — i negozianti — hanno il controllo dei duecorpi che dominano la città, quello della communauté e della Chambrede Commerce. Due corpi senza contenuto prevaricano, sotto il pro-filo onorifico e decisionale, le condizioni che reggono l’organismourbano.

I mémoires, in particolare quelli della nobiltà che chiede il ri-pristino del consolato e delle sue prerogative, inaugurano ed ac-compagnano eventi affannosi. Il ministro chiede che la comunitàrisponda alla noblesse, ma, come al solito, al suo posto risponde laChambre de Commerce ; e questa volta, indotto dalle proteste dellanoblesse stessa, il governo ordina che sia corps de ville a rispondereimponendo alla Chambre di intervenire solo dopo averne ottenutoil permesso. Contestualmente si susseguano consigli municipalitumultuosi, elezioni annullate, interventi del parlamento di Aix,appelli al re come il « seul qui peut distinguer les qualités ». Il restesso interviene con le lettere patenti dell’ luglio , cercandodi mettere ordine nella « confusion des rangs » con un’opera di me-diazione semantica di straordinario interesse, che mette fuori giocoi marchands, impegnati essi pure ad indebolire il nesso fra le loropratiche e la loro condizione al fine di aprirsi l’ingresso all’échevinat.È una fase di troubles a bassa intensità, non certo paragonabili a quel-li precedenti alla messa sotto tutela della città da parte del sovrano,ma che fanno emergere con chiarezza il venir meno di ogni residuaefficacia pacificatrice dell’atto autoritario del . Il gioco dellareinterpretazione e dell’aggiornamento del vecchio statuto non èpiù in grado di sciogliere le tensioni: occorre mettere mano ad unnuovo règlement. Il quale non può certo risultare, come gli statutidella vecchia Marsiglia « libera », da un gioco di conflitti e rapportidi forza tutto interno alla città: l’intervento dall’alto è ora esplicito epenetrante. D’altronde l’intervento regio non ha più nulla dell’attostraordinario di scrittura dello statuto di Luigi XIV, e si concretizzaattivando una negoziazione fitta con i protagonisti dei nuovi troublesurbani.

Di questa negoziazione porta i segni evidenti il règlement del. Alla testa dei membri del nuovo consiglio municipale — nobili, che pratichino o no il negozio, negozianti non nobili,

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. Commerçant honorable, noble marchand, parfait négociant

bourgeois ou médecins, détaillant, avocats — siede ora un mairenobile (negoziante o no) con almeno . « livres de bien fonds aMarseille »; un assesseur, avocat con almeno . livres ; échevinsnegozianti non nobili; échevins « bourgeois ou détaillants ayantcessé toute activité depuis ans ». In questa maniera il corps de ville sisepara finalmente dal commercio, e fa emergere il problema dellariconduzione della Chambre de Commerce, diventata dal una sortadi duplicato mostruoso della communauté, al suo ruolo di organismosettoriale: una questione risolta, almeno formalmente, con il nuovoregolamento della Chambre imposto con l’ordonnance del , che,pur lasciando qualche residuo del passato — il presidente è uno degliéchevins negozianti — fa prevalere il principio della cooptazione deimembri degli organismi dirigenti all’interno dell’ambito mercantile,su quello, precedentemente seguito, della designazione da parte dellacommunauté.

Nell’immagine che prevale, che dà senso agli eventi e memoriaai suoi protagonisti, tutto questo chiude una parentesi buia nellagloriosa storia millenaria della città. Al contrario di quello che siera letto nei mémoires firmati dai négociants e dai loro corpi, il non aveva liberato la città dall’oppressione nobiliare, ma avevapunito una « ville coupable ». « L’édit de mars est un tristemonument des égarements de nos pères » perché aveva tradotto lavocazione marittima della città in semplificazione brutale, sul pianodegli organi di governo, della complessità intrinseca alla nozionestessa di città. Ora che le colpe sono state lavate, la città del negozio,nella misura in cui vuole essere città, non può rimanere consegnatanelle mani dei soli negozianti. La retorica ricorrente della cittàhors du royaume ritrova ora il suo sostegno nei segni e delle normeche la ricostruiscono come giurisdizione riconoscibile, come bonneville dotata di una gerarchia sociale ed istituzionale completa e diuna sua aristocrazia non schiacciata sul commercio. Senza tuttoquesto, a dispetto dei suoi traffici in esplosiva espansione, Marsigliaavrebbe rischiato di ridursi ad un pezzo qualunque del plat pays,ad un frammento del territorio sempre più giuridicamente “liscio”del regno; ad un village, secondo un’immagine che ricorre nellapubblicistica. Sia pure un villaggio di . abitanti proiettato sulMediterraneo e sugli oceani.

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Linguaggi del mercato

.. La frammentazione della scena urbana

Con quale sociologia si può leggere tutto ciò? Proviamo a collocare,dietro le denominazioni collettive che i protagonisti stessi dei conflittisi danno, soggetti concreti, individui o nuclei coabitanti, cercandolifra gli abitanti della Marsiglia degli ultimi decenni del Settecento.In particolare alla noblesse potremmo assegnare alcune decine di fa-miglie, più o meno quelle dei individui presenti all’assembleadella nobiltà per la redazione dei cahiers de doléance ; i négociants po-trebbero essere costituiti da alcune centinaia di famiglie di grandiimprenditori mercantili, quelli analizzati nella thèse di Charles Car-rière ; i marchands da alcune migliaia di famiglie di commerciantipiccoli e medi. E poi ci sarebbe da individuare i bourgois e gli avocats,su cui abbiamo meno elementi. L’esercizio, assai faticoso, avrebbeovviamente una sua utilità; ma, per i problemi che interessano inquesta sede, la sua capacità esplicativa non sembra gran che. Chi vo-lesse costruire un nesso stretto fra posizione nei conflitti attorno allegerarchie politiche urbane da un lato, e profili professionali dall’altro,sarebbe smentito da una semplice analisi nominativa dei protagonistidegli eventi: in particolare negozianti tipici per l’adozione di pratiche,simbologie e frequentazione di Chambre e Loge assumono posizionifilonobiliari. E, per quello che mi è parso di vedere, falliscono, in-sieme alla sociologia più banale, quella delle parentele, quella dellefazioni, quella delle reti.

Il fatto è che lo slancio mercantile settecentesco imprime unmovimento vorticoso alla zona alta del panorama apparentementecompatto della città del negozio ed impedisce di sostantivizzare socio-logicamente le posizioni degli attori. Il gioco si svolge all’interno diun gruppo relativamente ampio di famiglie che hanno una base mer-cantile tutte quante, ma hanno storie dignitose quasi sempre tropporecenti, che provengono dalle file di marinai spesso provinciali ostraniere, e che collocano i loro membri in posizioni professionali,onorifiche ed istituzionali a volte assai differenziate. Assumere inun momento dato la posizione di chi fa commercio senza esserenobile significa situarsi — come sottolineano con forza i mémoiresdella noblesse — nello spazio urbano in forme particolarmente flui-de, indefinite. La cancellazione della condizione nobiliare dalla scaladella gerarchia interna alla città aveva chiuso i negozianti in un seg-mento dal quale chi ha successo vorrebbe uscire. Non deve dunquesorprendere che gli échevins negozianti di fine Seicento finanzino una

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. Commerçant honorable, noble marchand, parfait négociant

storia della città che mette in discussione la loro legittimazione inquanto vertice della comunità urbana. E tanto meno deve sorpren-dere che, negli anni del trionfo della città del negozio, molti fra isuoi protagonisti si battano per allungare quella scala delle gerarchiesociali che sanziona l’ascesa mercantile, e che a Marsiglia, a causadella sua posizione di città conquistata, si era presentata per oltre unsecolo drammaticamente corta.

Ma questa relativa indefinizione delle posizioni degli individuiche il nuovo statuto riesce in una qualche misura ad esprimere, lafluidità che segna le posizioni alte della compagine sociale, la diffi-coltà di tradurre situazioni sociologiche in collocazioni politiche efronti conflittuali, non spengono i conflitti: tutt’altro. Gli individuisi aggregano in corpi che non esprimono condizioni, ma sono inun rapporto difettoso con condizioni a loro volta in affannosa ricer-ca di una definizione stabile: concetti da stabilizzare ricorrendo allerisorse espressive di un contesto iperistituzionalizzato, segnato dal-l’ingorgo di corpi e poteri tipico del tramonto dell’antico regime. Larestituzione alla città di una parte della simbologia e delle risorse dicorpo autonomo nello spazio regio non addolcisce gli animi. Anchee soprattutto dopo il la scena urbana è un tripudio di scontrisul cerimoniale civico e sulle posizioni onorifiche dei molti corpilocali, che fanno risuonare le aule della politica e della giurisdizionee riempiono gli archivi. Qui come altrove, istituzioni e riti non sonovelo trasparente di un’essenza socioeconomica, espressione passivadi posizioni ed interessi, ma fonte autonoma di conflitto e di storia.Le istituzioni, per riprendere il titolo del libro di Mary Douglas piùcitato dagli storici, pensano. Anche le istituzioni di una città collocatasotto tutela regia ed impregnata di traffici, denari, etiche mercantili.

Su questo punto, lo si sarà ben capito, ho ancora molto da cercaree pensare. Anche perché il grande evento, la Rivoluzione, incombe,e, per quanto ci si possa essere liberati dall’ossessione delle origini esi voglia restituire autonomia all’evento stesso, non lo si può ridurre— continuo a credere — ad una sorta di grande « atto gratuito »collettivo.

Alla ricerca di appigli in ogni direzione, anche nei classici, ne trovoqualcuno in colui che più vigorosamente ha immerso la Rivoluzionenei suoi precedenti: Tocqueville. Leggiamo, per concludere, qualchepasso del capitolo VIII di L’ancien régime et la Révolution, intitolato« Que la France était le pays où les hommes étaient devenus le plussemblables entre eux ».

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Linguaggi del mercato

Il semble que tous les hommes qui y vivent [in Francia], particulièrementceux qui y occupent les régions moyennes et hautes de la société, les seulesqui se fassent voir, soient tous exactement semblables les uns aux autres.Cependant, au milieu de cette foule uniforme s’élèvent encore une multitu-de prodigieuse de petites barrières qui la divisent en un grand nombre departies, et dans chacune de ces petites enceintes apparaît comme une sociétéparticulière, qui ne s’occupe que de ses intérêts propres. . . Il semble que lepeuple français soit comme ces prétendus corps élémentaires dans lesquelsla chimie moderne rencontre de nouvelles particules séparables à mesurequ’elle les regardes de plus près. Je n’ai pas trouvé moins de trente–six corpsdifférents parmi les notables d’une petite ville. Ces différents corps, quoiquefort menus, travaillent sans cesse à s’amincir encore. . . Tous sont séparésles uns des autres par quelques petits privilèges, les moins honnêtes étantencore signe d’honneur. Entre eux, ce sont des luttes éternelles de préséan-ce. L’intendant et les tribunaux sont étourdis du bruit de leurs querelles. . .La vanité naturelle aux Français se fortifie et s’aiguise dans le frottementincessant de l’amour–propre de ces petits corps. . . Nos pères n’avaient pasle mot d’individualisme, que nous avons forgé pour notre usage, parce que,de leur temps, il n’y avait pas en effet d’individu qui n’appartînt à un groupeet qui pût se considérer absolument seul ; mais chacun des mille petitsgroupes dont la société française se composait ne songeait qu’à lui–même.C’était, si je puis m’exprimer ainsi, une sorte d’individualisme collectif, quipréparait les âmes au véritable individualisme que nous connaissons.

Individualisme collectif : un’immagine assai lontana dalle visionidell’antico regime come società corporata ed organicistica mandatain frantumi dalla Rivoluzione, che circolavano nel romanticismotedesco del tempo di Tocqueville e che tornano a volte nella storio-grafia odierna. Un’immagine che certo non risolve i nostri problemidi interpretazione dello spazio urbano marsigliese, ma propone sug-gestioni che andrebbero inseguite anche su sentieri diversi da quellidel grande pensatore francese. Che è poi il modo in cui un classicocontinua ad agire anche al di fuori dei suoi propositi e del suo tempo.

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Capitolo III

Storia e semantica di una professione∗

Appunti su negozio e negozianti a Bari fra Cinquecento e Ottocento

.. Il più grande dei « piccoli negozianti » dell’età della Restau-razione

Il febbraio muore a Bari, dove era nato anni prima, DonVito Diana, probabilmente il più ricco fra gli abitanti di un centroprovinciale che, nel contesto europeo della “rivoluzione commercia-le”, va crescendo assai incisivamente in ricchezza e popolazione e vaemancipandosi dalla sua condizione secolare di agrotown fra le altreinserite nella rete dei grandi borghi rurali pugliesi.

∗ Questo scritto presenta alcuni risultati provvisori di un lavoro che ha ancora bisognodi ricerca e riflessione. La documentazione principale usata per ricostruire le vicende raccon-tate in queste pagine è la seguente: i registri dei battesimi, matrimoni e sepolture custoditinell’Archivio del Capitolo Cattedrale di Bari e poi, a partire dal , i registri dello Stato Civilenella sezione di Trani dell’ASB; gli atti dei notai roganti a Bari schedati un anno su dieci e, perindividui e famiglie di secondo Settecento, con cadenze più ravvicinate; gli apprezzi del –, , , il catasto onciario, i catastini che lo aggiornano fino ai primi dell’Ottocento, ilcatasto territoriale del ed i suoi aggiornamenti, i registri dell’imposta personale del , iregistri delle patenti redatti per gli anni –; i registri delle deliberazioni del Decurionato( ss.); gli atti del Comune di Bari, il fondo Intendenza e le carte relative ai primi decennidi vita dalla Camera di Commercio, tutti in ASB; l’archivio della famiglia Tanzi che contienemateriali dal tardo Medio Evo all’Ottocento, custodito nel Museo Storico della città di Bari; ilfondo D’Addosio e quello Allegazioni della BNB; le successioni degli anni – nell’Ufficiodel Registro di Bari; gli Atti di società per gli anni – nella cancelleria del Tribunale di Bari.Ho anche condotto esplorazioni non sistematiche nel giudiziario ed ho utilizzato in formanominativa i registri portuali usati e citati per fini diversi in altri miei scritti. Particolarmenteutili i registri contabili del « negozio dei quattro nobili » negli anni – e compresinell’archivio Tanzi (vacuo II di sotto, IX, X e XIII), e gli spezzoni delle carte private Dianacontenuti ancora nell’archivio Tanzi, X.G.XII (polizze di carico, ordini di derrate ed altro) enell’APdG, /– (in particolare la corrispondenza ). Il percorso della ricerca incrociain alcuni punti in particolare lavori di E. Di Ciommo e A. Spagnoletti. Per brevità ho ridottol’apparato critico alla sola indicazione delle fonti delle citazioni contenute nel testo.

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Gli atti redatti negli ultimi anni della sua vita nello studio nota-rile dell’amico Teodoro Verzilli, al numero di via degli Orefici,lo avevano definito « gentiluomo »; ma una connotazione professio-nale precisa aveva continuato ad attribuirgliela di fatto la modesta« bottega di negozio » nella quale si era affaticato fino all’ultimo adorganizzare spedizioni per mare di olio, mandorle e carrube: quellabottega situata a due passi dallo studio di Verzilli e a pianoterra delpalazzo di Luigi Tanzi, nella quale quest’ultimo, patrizio di progenieillustre e già sindaco della città, aveva dovuto più volte mendicaresoccorso per evitare la prigione per debiti. D’altronde, lungo l’interoarco della vita adulta di Don Vito e fino ai tardi anni Trenta, docu-menti fiscali, fascicoli giudiziari, carte amministrative, stato civile,atti notarili lo avevano definito « negoziante », compreso il testamen-to dettato solennemente al Verzilli il agosto nella cappellagentilizia del suo palazzo all’arco di San Nicola, la dimora in cui siera trasferito dalla modesta casa paterna sempre in via degli Orefici, enella quale viveva da vedovo insieme al figlio Giuseppe, pure vedovoe « negoziante », ed alle due figlie di quest’ultimo.

A toglierci ogni dubbio sulla pregnanza per il nostro personag-gio di questa denominazione professionale provvede Giulio Petroni,professore nel locale liceo e futuro storico della città, nell’orazionefunebre letta « alla presenza d’ogni ragion di persone, e massimedi mercatanti », nella chiesa della congrega di « persone civili » a cuiDiana era « affratellato ». Le virtù di Don Vito, sottolinea l’oratore,non sono quelle illustri e clamorose della nobiltà del sangue e del-l’ingegno, ma quelle modeste della operosità, della beneficienza nonformalizzata e ritualizzata, della scioltezza nei rapporti con individuicollocati in ogni punto dello spettro sociale: « . . . sapeva [. . . ] che ilvero pregio d’un negoziante dopo la lealtà e la fede non è punto ilfasto importuno, ma la gentilezza delle maniere, il parlar corretto ebreve, l’erudirsi l’intelletto di quelle scienze che sono aiutatrici delcommercio ». Sono annotazioni stereotipiche riproposte innume-revoli volte, interessanti perché continuano a sembrare pertinentiad un personaggio asceso ai livelli più alti della ricchezza. D’altrocanto, sottolinea Petroni, per queste vie tortuose, così diverse daquelle tradizionalmente percorse da chi aveva voluto fin allora por-si obbiettivi di questo tipo, egli era giunto alla visibilità simbolica

. G. Petroni, Poche parole di lode alla memoria di Vito Diana mercatante barese, Bari ,p. .

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. Storia e semantica di una professione

nello spazio sociale urbano: « senza uscire dalla condizione sua si resedegno della riverenza di tutti ». La stessa cerimonia funebre solenne ela stampa della necrologia, che non avevano precedenti per quantierano rimasti nella condizione di negoziante, appaiono giustificabiliagli occhi di Petroni per quella generale « riverenza », per il prestigiosociale conquistato da Diana dall’interno della sua bottega.

Su questa questione, centrale per l’argomentazione qui proposta,dovremo tornare. Insisterei per ora sul fatto che pratiche e atteg-giamenti, nella misura in cui è possibile ricostruirli data l’assolutascarsezza di carte private del nostro come di qualunque altro im-prenditore barese, sembrano confermare il permanere di Diana nella« condizione sua » lungo l’arco della sua esistenza e nonostante ilmoltiplicarsi dei suoi averi. Degli figli di Don Vito, maschi e femmine, vengono avviati alla carriera ecclesiastica Don Nicola,morto a Roma nell’epidemia colerica del quando già si andavafacendo brillantemente largo nella gerarchia, Don Luigi, e poi Flaviae Generosa, monache di clausura a Fasano. Degli altri, Michele, Pie-tro e Giuseppe sono in affari da tempo, i minori Giovanni e Filippostudiano nel collegio dei Tolomei di Siena e sono anch’essi destinatiagli affari, Domenica e Lucrezia sono sposate rispettivamente conproprietari di Fasano e Mola. Fatta eccezione per le due monache,Don Vito trasmette ai sopravvissuti in forma rigorosamente egualita-ria il suo ingente patrimonio, valutato nell’inventario post mortem acirca . ducati oltre a . ducati di crediti inesigibili. Di essila parte mobiliare rappresenta oltre il %: più di . ducati dicrediti (mutui, cambiali, crediti commerciali verbali, crediti minuti);. in attrezzature e merci in viaggio o immagazzinate a Bari,Mola, Fasano, Conversano, Pontelagoscuro, Trieste; oltre . indenaro contante e fedi di credito, . in quote di proprietà di im-barcazioni, solo ducati in rendita del debito pubblico. Ed anchefra i . ducati investiti in immobili occorre discriminare. Magaz-zini, posture d’olio, altri edifici al servizio dell’impresa mercantile nerappresentano una quota consistente anche se difficilmente quantifi-cabile dato che sono spesso parte integrante di immobili per uso diabitazione; ed un’ulteriore quota, senza dubbio assai ampia, è inci-dentalmente presente nell’inventario perché prodotta da insolvenzedi effetti commerciali e creditizi risolte, fino alla fine degli anni Venti,con le procedure giudiziarie dell’esproprio, poi, quando la normativa

. Ivi, p. .

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le rende meno agevoli, con forme contrattuali che lo mascherano econtinuano a provocare acquisizioni di terre e case spesso immedia-tamente rivendute per ricavarne capitali da reinvestire. Non a casola distribuzione geografica delle proprietà immobiliari al momentodella sua morte ricalca con precisione la sua presenza affaristica sulterritorio: Bari naturalmente, e poi i suoi casali (Montrone, Capur-so, Casamassima), e la costa marittima meridionale della provincia(Mola, Polignano, Monopoli), dove i mercanti baresi trovano il terre-no sgombro dall’unica altra concentrazione agguerrita di mercantioleari della provincia, quella di Molfetta collocata sulla costa setten-trionale. Infine occorre tener presente il ruolo degli immobili qualigaranzie indispensabili dei crediti ottenibili in dogana e nelle normalitransazioni mercantili, e quindi la loro funzione nelle strategie diimpresa.

Insomma, non sembra che i famigerati atteggiamenti proprietaritrovino conferma nel nostro caso, al di là dell’accanimento con cuiDon Vito aveva conservato ed ampliato i « fondi antichi di famiglia »(alcuni terreni in contrada Ferrucciolo che avevano segnato fra glianni Sessanta e gli anni Novanta del Settecento le tappe dell’emanci-pazione del padre Michele, marinaio, dalle sue umilissime origini),o dell’acquisto del palazzo all’arco di San Nicola, assegnato al figlioPietro in conto della sua quota di disponibile con la clausola che nean-che « in minima parte si smembri [. . . ] restando compresa in questadisposizione anche la cappella gentilizia ». Il patrimonio lasciato daDiana appare assolutamente ingestibile in una logica da rentier sianella sua parte mobiliare che in quella immobiliare, tanto da indurrenon solo il sacerdote Don Luigi, ma anche le due figlie sposate aliquidare la loro parte alla ragione di . ducati per quota, dai qualisottrarre i ducati ricevuti in dote, in favore dei fratelli negoziantiMichele, Giuseppe e Pietro. Le motivazioni addotte da Domenica eLucrezia e dai rispettivi consorti sono da questo punto di vista assaisignificative: per essi è « oneroso di prendere le loro quote ereditarieparte in fondi siti in varj comuni, e Provincie del Regno, porzionein generi, crediti e capitali esistenti in negozio, o pure a mutuo incambiali ed altrimenti, di cui una ingente parte si rende di difficileesazione o inesigibile, o decotta, o pure litigiosa, ed altra parte scadi-bile in tempi diversi »; tutte cose che richiedono « gravose spese diprocuratori, avvocati e patrocinatori per amministrare li beni siti in

. ASB, notaio T. Verzilli, Bari, atto ...

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diversi punti del Regno e dell’Estero », ed implicano il « rischio edeventualità della esazione, o perdita di capitali che trovansi esposti incommercio, o in viaggio marittimo di gran valore ».

Questo imponente ma difficile patrimonio era cresciuto su unaattività di impresa che aveva avuto a che fare solo marginalmentecon le grandi novità introdotte da Pietro Ravanas, e poi dalle casedi commercio straniere giunte al suo seguito, nella produzione ecommercializzazione dell’olio di Terra di Bari a partire dagli anniTrenta. Agli occhi di quanti erano direttamente coinvolti in questarivoluzione, personaggi come Diana si presentavano come gli ultimidi quei « piccoli negozianti » locali che avevano da sempre avuto il« monopolio » sull’economia olearia della provincia a causa della suaarretratezza strutturale e gestionale. In effetti a prima vista le pratichemercantili di Don Vito sembrano reinterpretare un copione recitatoper secoli nella vicenda economica della città: l’acquisto nell’entro-terra agricolo di olio soprattutto, e poi mandorle ed altre « saccarie »,rivendute nei porti dell’alto Adriatico in cambio di effetti o di altremerci — tessuti, ferramenta, coloniali, cristalleria, legname — im-barcate nelle stesse navi olearie sulle rotte discendenti ed immessenei circuiti delle fiere, dei mercati, dei punti di vendita a posto fissodella provincia. L’olio commercializzato da Diana, prodotto normal-mente in microfondi contadini ed in trappeti rudimentali, continuaad essere, come in passato, di cattiva qualità, basso prezzo e colloca-zione resa incerta dalla concorrenza di altri produttori mediterranei:tutti vincoli con i quali l’intermediazione mercantile pugliese avevaimparato a convivere sfruttando le difficoltà di autofinanziamentodell’azienda olivicola, subordinandola con le anticipazioni creditiziein cambio della derrata futura e scaricando su di essa una parte rile-vante dei costi dell’incertezza. Ma a queste difficoltà secolari, l’etàdella Restaurazione ne aveva aggiunto altre. La fine delle guerrenapoleoniche aveva ripristinato l’agibilità dei mari, ma non avevarisolto la crisi olivicola causata dalla ostruzione degli sbocchi: il molti-plicarsi dei concorrenti nel quadro della “rivoluzione commerciale”ed il progressivo inaridirsi delle principali fonti di domanda dell’olio

. Ivi, atto ...

. Lettera del sindaco di Bitonto all’Intendente dell’ dicembre , riportata in appendicea R. De Stefano, Il contributo di Pietro Ravanas all’agricoltura meridionale dell’Ottocento, in Attidel convegno nazionale di studi sul rilancio dell’agricoltura italiana nel III centenario della nascita diSallustio Bandini, Siena , p. .

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d’oliva (l’illuminazione delle città, con l’introduzione del gas, e lafabbricazione del petrolio, che comincia ad utilizzare l’olio di semi)esasperano l’incertezza tradizionale del mercato oleario, collocano iprezzi su un trend discendente, comprimono ulteriormente i redditidell’azienda contadina. Vito Diana, insieme ad altri « piccoli nego-zianti » baresi, riesce a costruire il suo successo di imprenditore inquesto clima, districandosi nella struttura delle convenienze assaidifficile per l’olio da lui trafficato e concentrando sulle banchine enei magazzini di Bari una quota crescente di quelle derrate che persecoli erano defluite dall’entroterra, per la via più breve, verso i portiallineati sulla costa della provincia. Varrà dunque la pena di osservarepiù da vicino le sue pratiche imprenditoriali prima di collocarle nelfilo delle permanenze dell’economia provinciale.

Un carattere dell’impresa di Don Vito che balza subito agli occhiè il suo funzionamento, per così dire, “corale”. L’impegno di Diananon si concentra sulla gestione dei traffici, ma sulla costruzione e lacura delle connessioni fra una varietà di attori sociali dotati ciascu-no di una certa quota di indipendenza e capacità decisionale, e diconseguenza destinatari di forme di reddito complesse, nelle quali laretribuzione del lavoro subordinato si mescola con frammenti di pro-fitto da intermediazione. La flessibilità del negozio è massimizzatadalla inconsistenza dei costi fissi: in risposta ai segnali di mercato, leconnessioni sulle quali scorrono le merci vengono rafforzate o inde-bolite soprattutto attraverso forme varie di anticipazione creditizia,di rischiosità limitata perché comunque frantumate.

Lo scopo primo dei crediti è quello di procurarsi le derrate dacommercializzare: Diana, come si è visto, ha proprietà terriere consi-stenti, ma le cede in fitto a contadini, massari, proprietari. D’altrondenon sempre il suo rapporto con i produttori è diretto: i vaticali siritagliano un ruolo non solo nel trasporto delle merci ma anchenella contrattazione e nella fase di prima concentrazione, ed anche ifacchini baresi hanno da giocare un ruolo non del tutto subordinato,in particolare nei riguardi di quei produttori che sono in grado ditrasportare le proprie merci in città e che si vedono offrire da essiservizi di senseria ben organizzati ed in una qualche misura istitu-zionalizzati. A sua volta, il momento dell’imbarco e del trasportoper mare è tutt’altro che uno snodo tecnico. È in primo luogo infre-quente che la nave sia interamente di proprietà del negoziante; piùspesso costui possiede quote insieme al comandante (il « padrone »),che è in questo modo cointeressato al nolo. Al « padrone » ed al suo

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equipaggio, da lui scelto in buona parte fra figli, fratelli, cugini, vienericonosciuto un compenso miserrimo al quale si aggiunge però ilguadagno derivante dalla « paccottiglia » (prodotti da commerciarein proprio franchi di nolo e dogana) e da una sostanziale licenza dicontrabbando vigorosamente difesa dagli stessi negozianti e dalleautorità locali. Inoltre, dato che assai spesso le merci vengono im-barcate prima che il negoziante se ne sia assicurato la vendita, spettaal « padrone » provvedervi, scegliendo in qualche caso addirittura ilporto in cui sbarcare, decidendo insieme ai « corrispondenti » delnegoziante sulla congruità del prezzo, bilanciando i costi della per-manenza nel porto di destinazione in attesa di compratori disposti adacquistare a prezzo migliore con la speranza di ricavi futuri più elevatima incerti. Ed un ruolo ancora più ampio gli è riservato per i carichidi ritorno, in parte commercializzati da lui stesso, in parte consegnatial negoziante che li ridistribuisce fra una miriade di rivenditori alminuto spesso a lui legati da vincoli societari o creditizi.

Ai crediti connessi direttamente alla logica di impresa se ne ag-giungono altri apparentemente autonomi, minuti o di grossa entità,concessi ad individui collocati in ogni angolo dello spettro sociale:contadini, muratori impegnati nell’edificazione del borgo, bottarie calefati di cui Diana è cliente, protagonisti dei piccoli circuiti ur-bani del vino e del grano relativamente indipendenti dal negozioin grande, professionisti ed impiegati, appaltatori di lavori pubblici,fino alle élites aristocratiche che continuano a collocarsi alla testadelle nuove istituzioni politiche della monarchia amministrativa mache poggiano la pesante simbologia ed i modelli di consumo con-nessi al loro status su patrimoni spesso traballanti. Non è sempredocumentabile un fine di lucro immediato, non è automatica la re-gistrazione notarile né il ricorso alla legge in caso di insolvenza: letestimonianze insistono anzi sulla informalità di questi rapporti, sullaelasticità della loro gestione. L’andirivieni nella bottega di via degliOrefici disegna una rete vasta di rapporti in larga parte asimmetriciche non sembra inefficace rispetto al successo dello stesso negoziodelle merci, che predispone per queste ultime percorsi possibili nonsperimentati e può far emergere occasioni di lucro non previste benpiù consistenti dell’interesse pattuito. In ogni caso, la preponderanzadei titoli creditizi, verbali e scritti, nel patrimonio del nostro non mipare riconducibile ad una logica puramente usuraia.

Su tutto questo occorre decidere. L’attività decisionale di Dianasi articola in poche scelte di grande rilevanza e vincolanti la vita

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Linguaggi del mercato

dell’impresa per tempi medi e lunghi, ed in una miriade di micro-scelte quotidiane orientate da un flusso quotidiano di informazionisulle tendenze del mercato e sull’esito delle iniziative assunte inprecedenza.

Da questo lato l’impresa si presenta più strutturata e rivela me-glio la collocazione particolare, fecondamente ambigua, del negoziobarese. Un lato di questa rete informativa è costituito dalla borsanapoletana, con la quale Diana intreccia una fitta corrispondenzacommerciale attraverso le ditte Pennese prima e Di Pompeo poi.Come tanti mercanti provinciali, Diana partecipa ai deprecati « giochidi carta » fondati sulla commercializzazione di « ordini di derrata »emessi dalle « firme di piazza » napoletane, figurando spesso nellaposizione subordinata di « accettante », ossia di destinatario di capitaliche vanno convertiti in derrate da consegnare all’ultimo giratariodell’ordine, quasi sempre un’altra ditta napoletana. Ma, oltre che adaprirgli saltuariamente quegli sbocchi tirrenici dominati dall’olio diGallipoli e di Gioia, il nesso con Napoli serve ad incanalare verso viadegli Orefici un flusso di informazioni sull’andamento dei mercatieuropei indispensabile a determinare l’intensità e la velocità dei flussidi merci del circuito da lui direttamente controllato, e gli permetteinoltre di sporgersi da protagonista al di fuori di esso, verso l’oliocalabrese o su merci insolite per lui, come quel grano di Barletta cosìvicino ed abbondante ma tanto rischioso ed imprevedibile.

Lo spazio privilegiato dell’impresa Diana rimane comunque quel-lo che connette l’entroterra barese ai porti nord–adriatici, ed all’inter-no di questo spazio il nostro struttura una rete di presenze autonomada Napoli. I suoi capisaldi sono occupati da individui che realizzanocol Diana rapporti non solo mercantili, che sbrigano faccende anchepersonali, che possono bene informarlo o assumere decisioni urgentiper suo conto in quanto hanno la sua fiducia. La quale, non sorpren-dentemente, è meglio riposta se poggia su nessi parentali quanto piùstretti possibili. Sotto questo profilo la famiglia di Don Vito, benedet-ta da tanti figli giunti alla maggiore età, si presenta come una risorsapreziosa. Accanto a lui, nella sua bottega, lavora il figlio Giuseppe,ospitato nella sua stessa casa; il magazzino di Conversano è affidatoad un estraneo, ma quelli di Fasano e Mola sono nelle mani dei duegeneri proprietari, gli stessi che avrebbero poi preferito monetizzare

. BNB, fondo D’Addosio, /, lettera a Giuseppe M. Giovene di Carmine Sylos del

agosto .

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. Storia e semantica di una professione

le loro quote di eredità; il corrispondente di Venezia è il negozian-te veneziano Samuele Della Vida, ma quello di Pontelagoscuro èil fratello maggiore Giuseppe, trasferito in giovane età e sposato aCento, col quale Don Vito era stato in società dalla morte del padrenel fino al e che continua in seguito a badare ai carichi delNostro insieme a suo figlio Vito; ed a Trieste, il porto di sbocco piùimportante, sono dagli anni Venti insediati i figli Michele e Pietro.

L’organizzazione non è piramidale ma reticolare. Molti fra coloroche vi sono inseriti sono in affari per conto proprio: Pennese e DiPompeo a Napoli, Della Vida a Venezia sono titolari di importanticase di negozio; i generi di Don Vito trafficano in provincia ancheindipendentemente dal suocero, il fratello Giuseppe ed il nipote Vi-to commerciano a Cento, i figli Michele e Pietro hanno messo inpiedi grosse case di negozio a Trieste; e ciascuno assume la veste di« commissionante » o « commissionato » a seconda che l’iniziativa im-prenditoriale sia sua o altrui. Tutto questo non rende irriconoscibilel’ordine gerarchico informale esistente tra i capisaldi della rete, ilquale si fonda non tanto sull’ammontare del giro d’affari di ciascunodei membri, quanto su un sistema di centralità all’interno dello spa-zio di riferimento assunto, sull’annodarsi dei flussi informativi che inalcuni punti, ed in particolare in via degli Orefici a Bari, è più intensoche altrove.

Di conseguenza la trasmissione egualitaria del patrimonio nonazzera la situazione, non frantuma l’impresa; la redistribuzione dellerisorse accumulate da Don Vito fra i figli dislocati in vari punti dellospazio praticato in prevalenza riconosce l’autonomia affaristica diciascuno, la potenziale equivalenza funzionale delle loro attività diimpresa: il figlio maggiore, Michele, che si vede assegnare la tuteladei fratelli minori, occupa significativamente la posizione decentratadi Trieste. Il problema che la morte di Don Vito propone è piuttostoquello della ricostruzione del sistema di centralità, e nel nostro casoviene affrontato e risolto in breve tempo. Michele, Pietro e Giuseppesi uniscono immediatamente nella società in nome collettivo « VitoDiana e figli », che riconquista subito la posizione centrale nel sistemaricollocandosi nettamente, per giro d’affari e affidabilità, alla testadella classifica delle imprese baresi; Michele e Pietro continuano anegoziare autonomamente a Trieste, e lo stesso Giuseppe, a cui èaffidata la direzione della nuova società, costituisce a Bari un’altraditta assai rilevante a proprio nome gestita separatamente dalla prima.I cognati, una volta liquidati, vengono ricompresi in una rete provin-

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ciale più larga, ed uno di essi, Vito Alberotanza di Mola, si riaffacceràprepotentemente negli anni Cinquanta a Bari come socio di uno deiminori dei fratelli Diana, quel Giovanni destinato nel bene e nel malea far molto parlare di sé nel secondo Ottocento.

In queste pratiche dell’impresa, della costruzione e della gestionedel patrimonio e della sua trasmissione, l’accento cade evidentemen-te su reti di dimensione prevalentemente familiare. Stentano invecea disegnarsi fronti parentali e tanto meno fronti professionali: le retiaffaristiche di Diana, come si è visto larghe e penetranti verso l’altoe verso il basso dello spettro sociale, si fanno più modeste nella di-rezione degli altri protagonisti del negozio. Ed anche i rapporti cheDon Vito intreccia nei momenti non frequenti della sua giornata incui esce dalla sua bottega sembrano riproporre la debolezza dei nessiorizzontali: la confraternita a cui è iscritto non ha identità professiona-le riconoscibile, ampio è il ventaglio delle condizioni sociali di quantistringono con lui rapporti di padrinaggio e comparaggio, gli elenchidella carboneria barese vedono il suo nome confuso fra quelli diproprietari, artigiani, professionisti; nelle istituzioni pubbliche dellostato amministrativo, in cui non assume mai cariche più elevate diquella di semplice decurione, svolge un ruolo mediatorio rispettoall’insieme degli interessi rappresentati. Quella « condizione sua »dalla quale si rifiuta ostinatamente di uscire identifica un insieme dipratiche, comportamenti, valori che costruiscono la particolare in-flessione del termine negoziante legato per una vita al suo nome, piùche un ambiente dentro cui egli intreccia le sue relazioni prevalenti.

.. Negozio, negoziante: lemmi in bilico fra permanenze ed insta-bilità

Questo profilo per cenni del più grosso imprenditore barese dell’etàdella Restaurazione non vuole alludere alla inconsistenza in quantogruppo sociale di coloro che organizzano e controllano il negoziodella città. Come si sa, lo spessore e la qualità delle reti relazionali nonè la sola via per cercare di individuare le articolazioni di una società:nel nostro caso un gruppo sociale del negozio sembra delimitabilein maniera relativamente netta in forma diversa, identificando cioèl’area di diffusione di atteggiamenti e comportamenti simili. E suquesto terreno il linguaggio professionale rivela una forza particolare.La qualifica di negoziante connota tutti coloro che hanno funzioni

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direzionali nelle pratiche mercantili: il « negozio dei quattro nobi-li », operante a Bari fra negli anni a cavallo fra Sette e Ottocento echiusosi in maniera fallimentare, era stato l’ultimo episodio di in-gerenza consistente nel commercio oleario di figure socialmenteindividuate in riferimento a linguaggi non professionali. Al tempostesso l’essere riconosciuto come negoziante riassume ruoli socialipiù ampi di quelli legati ai modi di produzione del reddito. L’insiemecostruito per via di classificazione monotetica isolando gli individuicosì definiti — ossia quelle poche decine di imprenditori protagonistidella straordinaria espansione delle quantità di olio imbarcato a Bariin questi anni — finisce per coincidere grosso modo con l’insiemesociale per il quale la figura di Don Vito Diana assume valore paradig-matico, dal lato della gestione degli affari come da quello dei valoriadottati, dei nessi parentali, della collocazione nel contesto urbano.

Cerchiamo di descriverlo in via del tutto provvisoria e per schemi,adoperando alcuni fra gli elementi fin qui acquisiti ed anticipandonealtri. I « piccoli negozianti » baresi dell’età della Restaurazione ap-partengono a famiglie imparentate fra loro da scambi matrimonialiintensissimi fino alla generazione precedente quella qui considerata,e tendenti ora ad una significativa esogamia professionale; hannoorigini sociali basse ma sono ora dotati di risorse finanziarie in gene-re consistenti; sono apparentemente poco interessati ad iniziative astruttura stabile presenti in altre città portuali ottocentesche — dal-le società armatoriali a quelle assicurative a quelle bancarie; sonosegnati da un’identità sociale forte fondata sulla professione e sullaconsapevolezza del loro ruolo decisivo negli equilibri sociali e nellosviluppo della città, ma non sostenuta da istituti di autoorganizzazio-ne e di autogoverno di ceto; rimangono relativamente defilati rispettoall’esercizio formale del potere; si dispongono su una gerarchia in-terna alla propria area sociale del tutto informale, ma riconosciuta enon minacciata da livelli elevati di conflittualità; hanno nessi robusti,affaristici ed in una certa misura anche consensuali, con altre areesociali coinvolte in maniera subalterna nel negozio. Una configura-zione sociale dotata di elementi di organicità ma in qualche misuraenigmatica, di fronte alla quale il giudizio degli osservatori esternisi fa incerto, a volte ostile, ed il riconoscimento della sua efficaciasul piano dell’accumulazione e del controllo sociale si accompagnaa notazioni insistite sulla limitatezza degli orizzonti imprenditoriali,sull’assenza di « spirito di associazione », sul tradizionalismo dellepratiche.

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Un’analisi meno schematica di questa coucheaffaristica della peri-feria europea e dei suoi nessi col contesto sociale potrebbe assorbireun intero programma di ricerca, ma rischierebbe, come spesso acca-de adottando strategie di indagine e di argomentazione sincroniche,di indurre all’insistenza sulle coerenze sistemiche, alla sottovaluta-zione delle articolazioni, degli scarti, delle tensioni dinamiche chefinirebbero per renderne confusa la rappresentazione storiografica. Ilrischio sarebbe in questo caso particolarmente grosso, dal momentoche un carattere di fondo del mondo di Vito Diana, evidente a spo-stare lo sguardo anche solo di qualche decennio verso il passato o ilfuturo, è proprio il convivere di elementi di organicità e di strutturaleinstabilità; il suo essere popolato di personaggi nati in un ambientemercantile radicalmente diverso che sono, al tempo stesso, i padridei protagonisti della violenta accelerazione dei ritmi della vita diBari nei decenni centrali dell’Ottocento, di quella trasformazionedell’antica agrotown in città moderna dalla quale riusciranno scompa-ginati equilibri sociali economici e politici. Visto da questo angolodel Mediterraneo, il XIX secolo non ufficializza e consolida, comesembra sia avvenuto in altre parti d’Europa, élites sociali ed econo-miche già strutturatesi nel Settecento ma ostacolate dagli istituti diantico regime. Nell’età della Restaurazione il nostro centro provincia-le continua a fungere, come per secoli era accaduto, da « scolatoio »di olio, ma attorno a questo elemento di permanenza si raccolgonopratiche dello scambio, identità collettive, modi di costruzione deigruppi sociali, linguaggi professionali senza passato e senza futuro.

Tutto questo pone al centro il problema del mutamento; inducea percorrere un giro lungo sul filo del tempo fra le figure socialiche nei secoli precedenti si erano raccolte negli stessi luoghi e lungoi percorsi delle stesse merci, per studiare il vario configurarsi dipratiche ed identità professionali dentro il quadro delle permanenzestrutturali che connettono la città portuale al suo entroterra. Si potràcosì provare a riattraversare il mondo di Vito Diana in forma menodescrittiva di quella fin qui adottata.

.. Ai margini del Golfo di Venezia fra Cinque e Seicento: ilnegozio delle « nazioni »

Una procedura di buon senso per cominciare a frugare nell’ambientesociale di questi traffici potrebbe essere quella che per l’ambiente di

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Vito Diana sembra funzionare egregiamente: la selezione degli indi-vidui da mettere sotto osservazione tramite la qualifica professionaleche fa riferimento diretto all’attività mercantile, quella di negoziante,appunto. Ma ci si accorge ben presto che lungo questa via si finiscein un vicolo cieco. Il termine « negoziante » si rivela un “designantecomplesso” non solo perché il suo significato muta nel lungo arcotemporale in cui viene usato, ma anche perché muta la sua funzionenei vari contesti linguistici anche sincronici. Il nesso fra definizioneprofessionale e pratiche, fra negoziante e negozio, che nella Baridella Restaurazione si presenta diretto ed univoco, appare nella Baricinque–seicentesca profondamente disturbato e confuso.

Quando, nei decenni a cavallo fra Cinquecento e Seicento, il ter-mine negoziante comincia ad essere comunemente adoperato neidocumenti, a Bari e sulla costa pugliese il negozio di olio era giàvecchio di secoli. In quegli anni, comunque, la città è ad un altropunto alto della sua lunga e varia vicenda mercantile. Nel circuitodell’Adriatico, una via di traffico ancora illustre sulla quale Veneziacontinua ad avanzare pretese monopolistiche, l’olio barese gioca unruolo di primo piano, sopravanzando quello di ogni altro porto pro-vinciale e sostituendosi man mano a quello di Terra d’Otranto checomincia ad incanalarsi, attraverso Gallipoli, verso le rotte oceaniche.

Una procedura di buon senso per cominciare a frugare nell’am-biente sociale di questi traffici potrebbe essere quella che per l’am-biente di Vito Diana sembra funzionare egregiamente: la selezionedegli individui da mettere sotto osservazione tramite la qualificaprofessionale che fa riferimento diretto all’attività mercantile, quelladi negoziante, appunto. Ma ci si accorge ben presto che lungo questavia si finisce in un vicolo cieco. Il termine « negoziante » si rivela un“designante complesso” non solo perché il suo significato muta nellungo arco temporale in cui viene usato, ma anche perché muta lasua funzione nei vari contesti linguistici anche sincronici. Il nesso fradefinizione professionale e pratiche, fra negoziante e negozio, chenella Bari della Restaurazione si presenta diretto ed univoco, apparenella Bari cinque–seicentesca profondamente disturbato e confuso.

Qui la qualifica di negoziante si colloca nel contesto di una no-menclatura delle attività lavorative le cui funzioni connotative e sim-boliche, come in tutte le società di antico regime, si costruisconoin un rapporto con l’ambiente istituzionale diverso e comunquepiù intenso che nell’Ottocento riformato dalla Francia napoleonica.Nel nostro caso quelle funzioni appaiono relativamente deboli per

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ragioni che rimandano direttamente alle forme ed alla natura deipoteri insediati in città. La vecchia struttura di governo dell’univer-sità, confermata e irrigidita nei decenni centrali del Cinquecento,presenta una articolazione assai povera delle appartenenze socialiche consentono l’accesso al potere, quelle della nobiltà e del « popoloprimario ». Per di più questa articolazione, lungi dall’essere riferita,sia pure in maniera complicata e contorta, alle diverse attività profes-sionali, come nelle città a struttura corporativa, tende ad escluderedai diritti di accesso e controllo del potere quanti si attribuiscono lagran parte delle definizioni professionali correnti, spesso designaticollettivamente come « popolo ». Le occasioni di presenza del popo-lo stesso sulla scena pubblica (le proteste ritualizzate, le cerimonielaiche e religiose, la costituzione delle « squadre » che controllano lemura) non sono certo irrilevanti e vengono qui pure incanalate inpartizioni di mestiere; queste ultime sono però spesso assai ampie (i« foresi », gli « arteggiani », i « marinari ») e comunque non cristalliz-zate e debolmente istituzionalizzate. Le stesse confraternite, anchequando sono costituite all’origine su base professionale, tendono asmarrire identità di questa natura. Il rapporto fra pratica lavorativaprevalente e inquadramento professionale in quanto forma di auto-governo e di partecipazione sistematica alla vita politica, che tende amantenere vivissime le identità ed il linguaggio delle professioni neicentri a governo corporativo, è qui assente, e questo riduce la forza,la diffusione, la capacità di connotare socialmente individui e gruppidel linguaggio professionale stesso.

Soprattutto nelle aree sociali superiori, quelle che possono aspira-re ad inserirsi nel sistema di cariche ed onori prodotto dall’università,il vocabolario delle professioni si presenta, per chi lo adopera perdefinirsi socialmente, complicato, rischioso, ricco di implicazioni dasorvegliare attentamente: alla esibizione sistematica di ogni titolazio-ne di status, fa riscontro un uso delle definizioni professionali parco,selettivo. Chi non può dichiarare di vivere « dalle proprie entrate »si vede precluso l’accesso alla piazza nobile, e la stessa collocazionenella piazza del « popolo primario » richiede l’adeguamento della pro-pria identità professionale ad una merceologia dignitosa limitata — lavendita di beni immateriali acquisiti con lo studio o di beni materialinon ignobili come oro e argento, cristalleria, tessuti di qualità, spe-zie e medicinali. L’idioma della stratificazione sociale connesso allestrutture di governo dell’università finisce così per colpire propriol’identità professionale che allude all’attività economica decisiva per

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le sorti della città, quella di negoziante, protagonista dello scambio dibeni immateriali e materiali, di merci vili e dignitose a seconda delleopportunità e delle convenienze del momento.

Gli effetti perversi di tutto questo sul piano della limitazione dellapropensione all’investimento commerciale in settori decisivi comequello dell’olio sono intuitivi, ma vengono contenuti dal fatto chel’università è in questa fase solo uno fra i poteri insediati nello spaziourbano. I due grandi enti ecclesiastici rivali della cattedrale arcive-scovile e della basilica di San Nicola, titolari di diritti feudali su pezziimportanti della conca barese e, l’ultimo, anche della grande fiera didicembre; il castello regio, la stessa università, le « nazioni » estereinsediate in città, creano circuiti sociali, valori, interessi non sem-pre coincidenti, spesso in conflitto fra loro, ma riescono ancora aconvivere nello spazio urbano complicandone il clima culturale, mol-tiplicando le scale della gerarchia sociale e politica in qualche misurariconosciute. Di conseguenza diventa possibile costruire percorsi diascesa sociale misurati su idiomi della stratificazione diversi fra loroma ritenuti non esclusivi l’uno nei confronti dell’altro.

Dal nostro punto di vista sono naturalmente le « nazioni », ori-ginariamente insediatesi per ragioni mercantili, ad avere un ruolodecisivo, a produrre criteri di valutazione dell’attività di negozio nonpunitivi sul piano dell’ascesa sociale, e di conseguenza a stimolarel’esibizione di identità professionali che ad essa esplicitamente ri-mandino. Collocati dentro spazi istituzionali definiti e ridefiniti nelgioco politico a tutto campo della Spagna imperiale, milanesi, veneti,fiorentini, genovesi si muovono ambiguamente fra i sistemi deglionori e del prestigio baresi e quelli delle madrepatrie. Dato che aMilano come a Bari la mercatura a fine Cinquecento ormai derogaalla nobiltà, è rarissimo trovare milanesi o baresi che si definiscanonegozianti; viceversa, è assai frequente questa definizione profes-sionale per quanti possono far riferimento ad una madrepatria checontinua a collocare l’attività mercantile su un gradino elevato dellascala sociale. Tanto più se riescono a coniugare prestigio sociale elucri differenziali determinati da privilegi ed immunità cumulati esovrapposti contraddittoriamente nel tempo, e difesi vigorosamentecontro le esigenze finanziarie dell’università e le gelosie dei gruppiavversi.

Non sempre le strategie individuali e di gruppo sono precostitui-te, determinate da appartenenze nette; a volte esse si dipanano dentroquesto intrico di valori e norme, e finiscono per rendere confuse

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le identità, per reinventare appartenenze professionali e nazionali.Famiglie insediatesi a Bari da generazioni continuano a vivere « daforestiere », al contrario di altre che cercano subito la condizione di« cives » per aver carte da giocare nella sfera dei poteri dell’università;forestieri e locali « facevansi passare per milanesi alla dogana, e perveneziani ai dazi » (Petroni) per usufruire al meglio dei privilegi o perfarsi giudicare nelle controversie da un console amico. Di conseguen-za la registrazione documentaria perde di referenzialità. Locuzionicome Bari mercantiliter morans, Bari civis et habitator, Bari negotiator,Civis neapolitanus, le stesse indicazioni di provenienza, spesso nonfanno riferimento a null’altro che alla sfera speciale di diritto in cuici si vuol collocare, ai poteri ai quali si rivendica l’accesso ed ai pri-vilegi e immunità dei quali si pretende di usufruire. Soprattutto iregistri fiscali, innumerevoli volte adoperati per descrivere le “vere”articolazioni sociali, appaiono costruiti su una pratica pattizia: gliindividui registrati come negozianti sono pochissimi rispetto a quelliche gli atti notarili vedono fare atti di commercio a Bari, e fannospesso fuoco fiscale per gruppi che eleggono comune domicilio edenunciano un certo ammontare di capitale impiegato nei trafficilocali al fine di non essere molestati su altri piani.

In questo contesto l’area sociale di quanti si definiscono nego-zianti è ben lungi dall’esaurire l’area sociale del negozio. Non pochifra quanti adottano formalmente l’idioma della stratificazione pro-dotto dall’università aristocratizzata trovano modo di partecipare aigiochi del mercato. Lo spazio urbano si fa così ambiguo e le diversegerarchie sociali vi si contaminano: negli elenchi della confraternitaelitaria del Santissimo Sacramento, come in quelli del Sacro Monte diPietà, la preclusione per quanti non siano « persone di conto » lasciaconvivere « gentilhuomini, mercadanti e altre somiglianti persone »,e non sono infrequenti alleanze matrimoniali in cui la parità di rangodei contraenti è attestabile solo in riferimento a sistemi gerarchicidiversi. La stessa simbologia fisica del potere urbano ne risente. Do-po l’incendio rovinoso del che distrugge in parte la piazza delmercato, i sindaci vi costruiscono « un seggio nobilissimo, da poter-visi ritirare a diporto, e a negotiare, così quei del governo, comel’altra gente buona della città »; e qualche anno dopo vi aggiungonoun piccolo campanile con « un’horologio venuto fin da Germania,

. A. Beatillo, Historia di Bari principal città della Puglia nel Regno di Napoli, Napoli ,p. .

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che, con grande utilità de’ negotianti, suona l’hore, e i quarti (cosa inPuglia non mai più vista) ».

Con tutto questo il gioco delle identità e degli idiomi della stra-tificazione riferiti ai diversi poteri non rimane confinato nella sferadelle scelte individuali: esso disegna grosso modo la trama largadelle alleanze e delle solidarietà presenti nello spazio urbano, per-mette di individuare i gruppi agenti nella zona alta dello spettrosociale e di leggere lo scontro politico non solo come costituirsi ericostituirsi di fazioni, ma anche sullo sfondo di una articolazionein qualche misura definita degli interessi e dei riferimenti simbo-lici. Anche perché quel gioco incide pesantemente sulle praticheprofessionali, le differenzia, ne fa un elemento di identità di grup-pi distinguibili su basi “nazionali”. Non esiste un ambito tecnico“oggettivo” del negozio, procedure e saperi che devono appren-dere tutti coloro che vogliono negoziare. A seconda dei poteri edegli idiomi della stratificazione assunti a riferimento principale,si reinterpreta la pratica mercantile in forme diverse, rendendolacompatibile con le pratiche dello spazio adottate, con la scelta dellivello di inserimento matrimoniale, insediativo, proprietario nelcontesto urbano. Nella Bari fra Cinque e Seicento, a differenza,come vedremo, della Bari settecentesca, non c’è un negoziantetipico né un modo tipico di far negozio. «Baresi» e «Milanesi», im-pegnati ad ascendere nella scala dei ceti, insieme a quanti tentanodi acquisire feudi nell’entroterra della città, sono attivi soprattuttonelle fasi di concentrazione delle merci dai produttori, nell’attivitàcreditizia nei confronti di contadini e proprietari e nell’immagaz-zinamento: in questo modo essi ricavano risorse per l’apparatosimbolico e le politiche di alleanza matrimoniale con i vertici dellasocietà cetuale locale senza esibire un coinvolgimento diretto nelloscambio che cozzerebbe con i valori di riferimento adottati e livedrebbe sfavoriti rispetto ai forestieri titolari di privilegi daziari edoganali. Fra questi ultimi, « Fiorentini » e « Genovesi » inserisco-no il commercio oleario nel contesto di giochi a vasto raggio del« livello superiore dello scambio », mostrano una scarsa specia-lizzazione merceologica, finanziano massicciamente le università,manovrano capitali speculativi. Di conseguenza appaiono insediati

. Ivi, p. .

. Faccio riferimento a F. Braudel, I giochi dello scambio, Torino .

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nella « repubblica internazionale del denaro » più che in un con-testo spaziale riconoscibile, li si può ritrovare definiti « di Bari » o« di Lecce » a seconda delle convenienze dell’approvvigionamento,si fregiano spesso — i Genovesi soprattutto — della qualifica di« Napoletano », sono inseriti in reti ampie i cui centri sono collocatilontano. Il rapporto con la città dei « Veneziani » presenta caratteriintermedi fra l’immersione totale dei primi e l’insediamento leg-gero dei secondi. Costoro interpretano la pratica mercantile nellaforma più concreta di maneggio di merci, carri, navi, magazzini,botteghe per la redistribuzione al minuto dei carichi di ritorno;vivono insomma attivamente l’ambiente fisico e sociale della città.Al tempo stesso devono cercare di mantenere una propria identitàseparata, fondata sull’appartenenza alla madrepatria veneziana, perdifendere i privilegi che determinano in buona parte la convenienzadi quella pratica del negoziare e per preservare una scala di valoridi riferimento in cui un nesso così esplicito col negozio non risulti,come in quella cetuale cittadina, socialmente degradante.

Nella varietà delle pratiche, degli idiomi, delle identità, delle retiche il negozio barese genera in questa fase, un elemento generaleche segnalerei è il protagonismo relativamente limitato della societàurbana. I processi direzionali sui flussi di merci ed una parte consi-stente dei profitti sembrano sfuggire alla città; le barriere di accessoal negozio sono alte, le risorse indispensabili per entrare nel gioco,non solo quelle finanziarie ma anche relazionali, assai consistenti,cosicché possono prendervi parte solo gruppi ristretti; una parte largadell”indotto non è nelle mani della società urbana media e bassa: nonvi mancano certo agenti, vaticali, facchini, sensali, ma la redistribu-zione al minuto delle merci importate sembra controllata in buonaparte dagli stessi negozianti, e, soprattutto, il trasporto per mare vededel tutto emarginati navi e marinai Baresi a vantaggio di Ferraresi eVeneti. L’atmosfera cosmopolita, la presenza di poteri ed etnie illustri,l’integrazione nel lato nobile del mercato europeo non sembranoprodurre effetti positivi importanti sulla crescita della città.

. A. De Maddalena e H. Kellembenz (a cura di), La repubblica internazionale del denarotra XV e XVII secolo, Bologna .

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.. Ai margini del Golfo di Venezia fra Sei e Settecento: il nego-zio dei marinai

La crisi seicentesca, l’emarginazione di Venezia e del suo mare dallegrandi correnti di traffico, la riduzione vistosa dell’olio meridionaleche risale l’Adriatico e del ruolo di Bari fra i porti di esportazioneassottigliano gli spazi per le pratiche del negozio. Nel contempo leidentità connesse a quelle pratiche diventano sempre meno spendi-bili proficuamente nel nuovo clima che va affermandosi nella città.La molteplicità cinquecentesca dei poteri e degli idiomi della stra-tificazione va riducendosi a favore di quelli prodotti dall’universitàaristocratizzata, nella quale va perdendo di consistenza, sul pianodei valori sociali proposti, anche la dialettica già asfittica fra i dueceti di governo. Il nesso fra « gentilhuomini » e « mecadanti », cheaveva segnato aspetti consistenti della scena sociale barese a caval-lo fra Cinquecento e Seicento, si va sciogliendo, nel mentre si vastringendo quello fra « negozianti e forestieri », che identificano unambiente marginale e destinato a disfarsi sotto l’attacco ai privilegi edimmunità delle nazioni insediate in città e con la crisi delle istituzioniconsolari custodi e simboli delle separatezze nazionali. Man manoche i forestieri tornano nelle loro patrie o si integrano nello spaziourbano semplificato, il termine stesso di negoziante diventa raris-simo nei documenti. Nel secondo Seicento la carriera della nostraprofessione sembra già giungere a termine.

Tuttavia, intorno a quel poco olio che continua a scolare dall’en-troterra barese verso le spiagge ed i moli della città, comincia inquesto clima cupo a giocarsi una partita decisiva dal nostro puntodi vista. Non più collocato dentro uno spazio ingombro di presenzeeconomicamente e politicamente pesanti, il commercio oleario habarriere all’accesso più basse, offre occasioni di lucro, assai preziosein un ambiente impoverito, anche a chi era stato tagliato fuori dalnegozio delle nazioni; insomma tende ad aprirsi al tessuto socialeurbano nel mentre questo assume sempre più dall’ideologia patriziavalori di riferimento antimercantili. Per quanti hanno le risorse suffi-cienti per occupare le posizioni liberate dai forestieri, il problema diconciliare l’avere a che fare con cose di commercio e le ambizionidi ascesa nella scala degli status diventa a questo punto acutissimo, eviene risolto in qualche modo reinterpretando la pratica mercantilein forme che riducano al minimo la sua capacità di produrre identitàspecifiche. Coloro che aspirano ad entrare nel patriziato urbano o

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che vi sono già collocati si tengono a grande distanza da merci, navi,botteghe, insomma dal lato più materiale del negozio per non offrireil fianco all’accusa, assai pericolosa nelle violente polemiche chesi scatenano periodicamente sulle aggregazioni alle due piazze, diessere negozianti; ma cercano di controllarlo utilizzando le risorsedi potere che la collocazione cetuale affida direttamente a loro o ailoro clienti. Manovrando gabelle, dogane, annone, diritti portuali,controlli vincolistici amministrativi di ogni tipo, patteggiando sull’in-terpretazione delle norme e sull’entità ed i tempi delle esazioni, essisono in grado di manomettere la geografia delle gravitazioni dellemerci dell’entroterra sui porti, ricattano grandi e piccoli produttori emercanti, si alleano coi feudatari provinciali che movimentano gros-se partite di merci per l’esportazione, costruiscono cointeressenzesocietarie più o meno palesi e legali in cui agiscono da controllori econtrollati. E, dato che il valore di queste risorse sta nella loro scarsità,la lotta politica si concentra, da un lato, sull’opposizione di quantihanno già diritti di accesso al governo cittadino a reintegrare con nuo-ve aggregazioni i loro ranghi man mano depauperati dall’adozionesistematica del nuovo modello di famiglia aristocratica con primo-genitura e largo celibato; dall’altro, sul controllo effettivo di quellestesse risorse da parte di coloro che possono legalmente aspirarvi,deciso volta a volta in scontri fazionari contorti. Nella zona alta dellospettro sociale urbano, ormai ricucita dai valori aristocratici condivisie dall’infittirsi della trama delle alleanze matrimoniali determinatodalla endogamia di ceto, individui e famiglie si scontrano dentroun quadro istituzionale strenuamente difeso, definendo insiemi daiconfini sfrangiati ed instabili. Alle nazioni, aggregazioni politiche delnegozio cinquecentesco, sono subentrate le fazioni.

Il presupposto di tutto questo è, naturalmente, che ci sia qualcunoche occupi i livelli inferiori dello scambio, che tenga in vita quellepratiche concrete disprezzate dalla logica cetuale ma da cui dipendela possibilità stessa dei lucri patrizi.

Ed anche da questo lato il degrado dello spazio adriatico chiudemolte opportunità e, al contempo, ne apre altre più alla portata dellerisorse modeste della società locale. Man mano che la marineriaveneziana abbandona posizioni, man mano che l’idea di un Golfodi Venezia monopolizzato dalla Dominante si rivela impraticabile,altre popolazioni possono affacciarsi al mare. Sulla costa della Pugliacentrale assumono un ruolo importante Marchigiani, Romagnoli,Veneti non inquadrati in nazione; ma anche i locali cercano e spes-

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so trovano collocazioni non del tutto marginali. Mentre l’olio datrasportare diminuisce, soprattutto a Molfetta ed a Mola si comincia-no ad acquistare piccole imbarcazioni veneziane — in particolare le« marciliane », si attivizzano i calafati, il numero dei marinai aumenta,l’ambiguità lessicale e operativa che confondeva queste figure conquelle dei pescatori si va sciogliendo, e fra gli stessi marinai cominciaa formarsi una embrionale gerarchia il cui vertice è occupato dai« padroni ». A Bari, ormai degradata a porto oleario di rango simileagli altri che si allineano sulla costa vicina, questi processi appaionolenti, ma non sono inconsistenti. Qui pure gli individui impegnatinel trasporto per mare aumentano, definiscono questa attività comesettore lavorativo autonomo, non stagionale e non del tutto inter-scambiabile con quello peschereccio. Comincia così a configurarsiun gruppo sociale identificabile che pratica una sua endogamia dimestiere tanto più efficace in quanto qui, a differenza che nella so-cietà alta, il mercato matrimoniale è vigorosamente alimentato dalpersistere della famiglia nucleare e del matrimonio generalizzato. Èun gruppo che si autoperpetua consegnando ai figli le competenzee le risorse materiali dei padri, e si presenta sulla scena urbana conelementi riconoscibili di identità: già negli anni Trenta del Seicento siindividuano cognomi — Cuccovillo, de Tullio, Caricola, Belhomo, deMola, Capriati, Introna, Mongelli, de Giosa. . . — che continueremoa trovare nello stesso ambiente per secoli.

Il ruolo di costoro è comunque assai diverso da quello dei marinaicinquecenteschi dei grandi porti adriatici, inquadrati all’interno diuna organizzazione strutturata dello scambio fondata sulla divisionedei ruoli e su gerarchie definite, e quindi confinati alla funzione diagenti del trasporto delle merci e venditori di noli. La distanza dallepratiche concrete che caratterizza il far negozio aristocratico lasciascoperti spazi di imprenditoria mercantile che vengono consegnati aimarinai baresi insieme al controllo del trasporto. Si va così configu-rando, insieme al negozio alto, un inedito negozio marinaro di segnoopposto a quello della civiltà dello scambio in cui era inserita la Baricinquecentesca, e legato al primo in reti verticali. Oppressi dalle ma-novre dei patrizi e dei loro alleati, ma da essi finanziati con contratti dicambio marittimo e in generale inseriti in quelle trame affaristichearistocratiche da cui solo possono ricavare occasioni di lucro inattin-gibili con le proprie limitate risorse, anche i marinai baresi imparano,sull’esempio dei molfettesi, a collocare le merci negli interstizi lasciatiliberi dal rattrappirsi delle reti mercantili delle nazioni senza disporre

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di forme efficaci di controllo dell’incertezza, di corrispondenti stabili,di fonti di informazione affidabili. L’olio e le « saccarie » loro conse-gnate da feudatari, proprietari ed incettatori, insieme a quel poco cheriescono ad acquistare per proprio conto, vengono portate di porto inporto alla ricerca di acquirenti, nella speranza dell’occasione buona,del colpo fortunato, del contrabbando lucroso che soprattutto neicanali e nei bracci di fiume di Ferrara è possibile organizzare a dannodi Venezia; e poi c’è sempre qualche occasione per aggiungere, alcarico di ritorno loro commissionato, merci povere su cui reinvestirenolo e profitto del viaggio di andata, nella speranza di rivenderlebene ai vaticali o direttamente da loro stessi in fiere e mercati pugliesi.Un commercio inteso come scommessa e prova di destrezza, spessoin bilico fra lecito ed illecito, che alimenta il degrado del mercatoadriatico e ne è a sua volta alimentato, ma proprio per questo riescea cogliere opportunità non più alla portata di forme più strutturatedi organizzazione mercantile. I fallimenti sono frequenti ma nonmanca quasi mai una chiesa in cui rifugiarsi; e d’altro canto è anchepossibile che qualcuno particolarmente abile o fortunato ne emergaarricchito.

Stretta fra negozio alto e negozio marinaro, la carriera della no-stra professione stenta a fare passi in avanti; e, al tempo stesso, siimpantana la carriera della città. Nei decenni bui a cavallo fra Seicen-to e Settecento, insieme ad alcuni fra i nuovi forestieri (i Baruchelli,i Pedrinelli, i Ficarella, i Fabri, i Farchi, i Ferri), riescono a mettereinsieme fortune cospicue personaggi come i d’Amelj, gli Introna, iMola, i Mele, i Quattrorecchi. A costoro il maneggio materiale dinavi e merci aveva impedito di sostituire alla qualifica professionale dimarinaio quella di negoziante, connessa nella memoria collettiva alcommercio rispettabile delle nazioni; ora, una volta arricchitisi, essistessi la rifiutano perché nell’universo cetuale, ormai unico produtto-re di idiomi condivisi della stratificazione, una identità così definitabloccherebbe ogni tentativo di tradurre la nuova ricchezza in asce-sa nella scala degli status. In un clima mentale che non consenteun contatto dignitoso con la pratica concreta del negozio, i marinaipiù intraprendenti e fortunati non tendono a reinterpretarla in for-me direzionali, a definire uno spazio specifico dell’impresa comeelaborazione di decisioni, ma ad allontanarsene il più rapidamentepossibile; il che non comporta di necessità rischi di nuova pauperiz-zazione, dal momento che c’è la possibilità di entrare nelle fazionie nei giochi lucrosi del negozio aristocratico non più nel ruolo del

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tutto subordinato riservato ai marinai, ma da comprimari. Chi siarricchisce dal mare persegue modelli di consumo, patrimoni, formedi famiglia prestigiose, lacera la rete fitta della endogamia di ceto perimparentarsi, con costi finanziari spesso notevoli, con famiglie di sta-tus elevato, cerca di nascondere le proprie radici dietro titoli di statuscome « civile », « vive del suo », « nobile vivente », che gli consentonodi avere carte da giocare nelle aggregazioni alle piazze: traguardo,quest’ultimo, ambito sia sul piano del riconoscimento sociale sia suquello dell’accesso ai poteri che permettono il controllo speculativodel mercato. E quando il nesso col negozio rimane troppo evidente,si cercano qualificazioni all’identità professionale che alludano aduna distanza netta dalle pratiche materiali, ad una partecipazione algioco mercantile dal lato nobile dei cambi fra valute, dei crediti, dellecambiali, degli acquisti di tratte: nascono così i « pubblici negozianti »,i « negozianti di ragione », che non vogliono far gruppo con i semplicinegozianti.

La città aristocratizzata lascia strutturare linguaggi, identità, di-nastie professionali connesse agli scambi, nelle aree sociali inferioritagliate del tutto fuori dal gioco asfittico del potere a due ceti, mascompagina quelle delle aree intermedie. Il successo eventuale delnegozio marinaro non induce alla iterazione della pratica premiatadal buon esito, non prelude ad un maggiore investimento mercantilee quindi all’incremento ed alla riqualificazione del negozio oleario,ma all’immobilizzo dei capitali o alla speculazione; e, contestualmen-te, al disfarsi dei presupposti dell’autonomia e identità del gruppo deimarinai di successo. I cognomi marinari che si perdono per ascesasociale risultano perduti ai traffici. La più intensa partecipazione dellasocietà urbana alla vita mercantile compensa solo in parte la crisidegli sbocchi adriatici.

.. L’impresa diffusa del secondo Settecento

A metà Settecento l’area superiore della società urbana presenta pro-fili profondamente segnati da questi processi. Fra la ventina di fuochiiscritti nel catasto onciario per più di . once, alle poche famigliedell’antico patriziato sopravvissute ai pericoli dell’estinzione insiti neimodelli matrimoniali aristocratici si affiancano quelle dei nuovi ricchidi ascendenza marinara e mercantile, che lottando strenuamente han-no ottenuto in tempi più o meno recenti l’aggregazione al primo o al

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secondo ceto. E nei patrimoni e nei comportamenti degli uni quantoin quelli degli altri non c’è quasi più traccia della inflessione mercan-tile che segnava incisivamente i vertici della società cinquecentesca.Le manovre speculative del negozio aristocratico non hanno biso-gno del possesso diretto di magazzini e navi, e chi si è arricchitopraticando il negozio basso va rapidamente assumendo profili socialidignitosi. Fra quanti avevano conquistato l’aggregazione al patrizia-to nel , Nicola Introna, figlio di un marinaio dell’Adriatico difine Seicento, aveva con successo fatto negozio negli anni Venti eTrenta fra Bari e Monopoli, imbarcando per suo conto centinaia disalme di olio l’anno; ma ora preferisce investire nella gestione difeudi piuttosto che nei traffici per mare, ed orna la sua « civiltà e vivernobile moderno », oltre che con il « lustro dell’oro » che lo collocaal secondo posto della classifica delle ricchezze familiari della città,con un fratello dottore, con una moglie di Andria figlia di un Dottorein legge e nipote di un Arcidiacono, con una zia sposata in una casa« che pretende ora la nobiltà in Monopoli », con un genero patrizio diBrindisi, con carrozza e servitù, ed una famiglia che si va adeguan-do al modello aristocratico avviando al celibato sacro figli e figlie.Giacinto Quattrorecchie, che ancora nel troviamo al comandodella sua nave impegnato ad esportare per suo conto salme d’olio,aveva nel mandato a monte il suo primo tentativo « d’innalzaresua famiglia » con il « far parentesco con qualche nobile e speziosocasato ». Era riuscito a dare in moglie al figlio Niccol’Antonio la Si-gnora Agnese Leopardi di Trani, sottoscrivendo capitoli matrimonialiassai onerosi per compensare « il divario che vi era tra il suo stato,e quello della sposa », ed aveva accolto l’ingresso di quest’ultimain città « buttando non picciol somma di danajo al popolo raccoltoa veder la novità innanzi la sua casa »; ma poi l’« affetto al denajo,indivisibil compagno del suo esercizio di ricco negoziante », avevaripreso il sopravvento inducendolo, a quanto pare, a contraffare icapitoli matrimoniali in combutta col notaio che li aveva redatti, « suoamico, confidente e compadre », rogante sulla piazza di Giovinazzodove i Quattrorecchi avevano avuto fondaci e traffici. Man mano

. Condegna e ragionevole risposta per parte delli nobilisimi signori zelanti cittadini di Baricontro un livido, ed irragionevole sfogo pien di menzogne, imposture, e favolose invenzioni sparso da untale Giuseppe Vulpis sotto nome della Generosa Nobiltà della detta città di Bari, s.a.i. (Napoli ),non numerato.

. Per Agnese Leopardi [. . . ], Bari, novembre .

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Giacinto aveva imparato a controllare il suo « affetto al denajo », ave-va realizzato altre buone alleanze matrimoniali e convertito i suoicapitali in terre, con le cui rendite può ora vivere comodamente lasua nuova condizione di patrizio. Al contrario nel fuoco di NiccolòSaverio Petroni rimangono segni evidenti del passato mercantile dellafamiglia, dal momento che il padre Arcangelo, che convive con luiinsieme alla moglie, tiene in fitto un magazzino ed ha investito in« negozio d’oglio e mandorle » . ducati. Ma il catasto sorprende lafamiglia in una fase di rapidissimo adeguamento alla dignità patrizia.Originario di Solofra, Arcangelo aveva preparato il mutamento di sta-tus avviando a carriere ecclesiastiche prestigiose tre dei quattro figlimaschi e facendo addottorare a Napoli il maggiore. Quest’ultimo,a partire dal , comincia ad esercitare l’ufficio di governatore difeudi e poi, sposatosi degnamente a Bari, può pretendere l’aggrega-zione al patriziato presentandosi come capofamiglia in luogo di unpadre reso ignobile dagli stessi traffici che avevano consentito la suaascesa sociale. Arcangelo muore nel ’, nel mentre Niccolò Saveriocontinua la sua carriera (nel portolano di terra della città, nel cassiere, nel ’ regio proadiutore del portolano, nel ’ auditoredelle seconde cause di Sannicandro, nel ’ auditore delle secondecause di Montrone. . . ) e, alla sua morte, nel , consegna le sortidella famiglia al figlio Giovanni Domenico, che nel sposerà unaQuattrorecchi e proseguirà sulla via paterna. Nel libro di famigliainiziato da Niccolò Saverio e proseguito da Giovanni Domenico, sisottolineano le glorie letterarie dell’abate Prospero Petroni, fratellodel primo, o le lontane e nebulose ascendenze della famiglia nellanobiltà senese, ma non vi è cenno alcuno dei magazzini e degli oli diArcangelo, da cui tutto era cominciato.

In media nettamente meno cospicui, ma di struttura assai similea quelli patrizi, sono i patrimoni dei membri del secondo ceto. Edanche in questo caso i neoaggregati adeguano rapidamente i loro pro-fili sociali ai modelli prestigiosi. A differenza che per il primo ceto, ilfar negozio non impedisce drasticamente l’aggregazione al popoloprimario: la distinzione necessaria a questo scopo la si può conse-guire « sia per nobiltà legale, come i Dottori, sia per civiltà politica,come i negozianti, e mercadanti civili ». Il punto è, allora, di « non

. Vedilo in APdG, cartella /.

. BNB, fondo D’Addosio, I/, cc. –, minuta della relazione della Regia Corte di Barialla Camera di Santa Chiara, giugno .

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discostarsi dai gradi della civiltà », ossia di avere comportamenti chenon facciano « grave scorno, e poco onore » agli « antichi decurionigalantuomini, Patrizi, e Cavallieri » insieme ai quali essi devono condi-videre le cariche pubbliche; e, al tempo stesso, di non avere corposiinteressi da difendere che li indurrebbero a « defraudare il pubblicointeresse ». Ed ecco che i tre aggregati del , Giuseppe Vanese,Domenico Farchi e Girolamo Barucchelli, « lasciarono intieramentela negoziazione dacché assunsero le cariche ». Ma rimane loro ilcampo aperto del negozio aristocratico, con cui si può « defraudareil pubblico interesse » senza creare « grave scorno » a nessuno. Dopol’aggregazione Giuseppe Vanese preferisce concedere in locazione lesue piscine per l’olio, ed impegnarsi per suo conto in fitto di feudi e« cambiali traiettizie », fino a diventare una figura di spicco: « il suonegozio — scrive un patrizio locale — era sempre pieno di postulan-ti, molti nobili lo corteggiavano aiutandolo anche a vestirsi ». Maanche il campo del negozio civile può presentare rischi, ed il Vanesedovrà fuggire nel da Bari per uno scoperto di . ducati didepositi. Più cauti i comportamenti di Gerolamo Barucchelli, unodei nuovi forestieri senza nazione protagonisti dei traffici oleari dellaprima metà del Settecento. Il suo impegno imprenditoriale è a metàsecolo ancora vivissimo ma è diretto a movimentare capitali più chemerci: il suo patrimonio è costituito per il per cento dai . ducatida lui impiegati in « negozio di ragione », il più grosso investimentodi rischio registrato in catasto, cosicché non gli è possibile evitare diaggiungere alla qualifica di « nobile vivente » quella professionale di« pubblico negoziante ». I suoi figli Nicola e Giuseppe parteciperannoal maneggio di cariche ed intrighi amministrativi connessi ai trafficiper mare di fine secolo fra proteste popolari e inchieste giudiziarie, masvilupperanno un senso acutissimo del decoro della loro posizione ecollocazione sociale che avrebbe impedito loro di attribuirsi la qualificaprofessionale paterna, allusiva ad una qualche vicinanza al disprezzatoambiente marinaro.

In realtà, proprio a guardare al mondo marinaro, le vicende sudelineate del lungo Seicento barese non appaiono più inutili rispetto

. Ivi, cc. –, minuta di relazione al Re sulle aggregazioni del .

. Ivi, cc. –, protesta di D. Giuseppe Graziosi sulle aggregazioni del , maggio .

. Ivi, minuta della relazione al Re cit.

. Cit. in A. Spagnoletti, « L’incostanza delle umane cose ». Il patriziato di Terra di Bari traegemonia e crisi (XVI–XVIII secolo), Bari , pp. –.

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al filo che qui si tenta di seguire. I capifuoco definiti marinai nell’on-ciario sono su una popolazione complessiva di . abitanticirca, ai quali vanno aggiunti i pescatori, non sempre nettamentedistinguibili dai primi, ed i minori o i membri dei fuochi a cui siriesce ad evitare l’assegnazione di qualifica professionale e quindiil pagamento della tassa per l’« industria ». Il confronto con i capifuoco registrati nell’apprezzo del , quando la popolazionedella città si aggirava sui . abitanti ed il negozio oleario nonera ancora del tutto sfuggito alle nazioni ed alle navi venete, diventasignificativo in particolare se si legge dentro le poste fiscali. I marinaidel primo Seicento presentano redditi bassissimi — solo il percento superava le once lorde, uno solo, e di poco, le once —e solo in un caso è rintracciabile un possesso che abbia a che farecon i traffici: i due « magazzeni con quattro piscine da tener oglio »attribuiti a Cola di Geronimo Colajanni, marito di Antonia d’Introno.D’altronde la presenza pressoché sistematica di microfondi alludead una specializzazione non ancora compiuta. Straordinariamentemossa appare invece la situazione di metà Settecento. Ora il ventagliodei redditi si presenta ampio: va da un % di famiglie nullatenenticon capifuoco appartenenti ad ogni classe di età, ad un gruppo difamiglie che controllano capitali in negozio, navi, magazzini, fino apresentare profili equivoci, mal riassunti dalla qualifica di marinaio.Michele, Vito ed Ignazio Cuccovillo del fu Giuseppe, i cui antenatiavevano cominciato a navigare l’Adriatico già all’inizio del Seicento,posseggono case e terre in parte trasmesse loro dal padre, un trabac-colo e mezzo, . ducati investiti in negozio marittimo, ed altri ducati sono impiegati in negozio di olio e mandorle dal loro cuginoGiuseppe, divenuto cieco. Nicola Vito Signorile è registrato nell’on-ciario solo per due case e per tre « barchette per uso di pesca », mauna decina di anni dopo il catastino ritiene che queste ultime vadanotassate come « barche da negozio », e gli carica una « casa palaziata »alla strada della Sinagoga e ben . ducati impiegati in negozio; ed ilPadron Silvestro Signorile, già accatastato per cinque case, due aratridi terra, due « barche pescarecce » e ducati in negozio marittimo,si vede rivalutare dal catastino le due barche come « da negozio » eattribuire . ducati investiti nei traffici. Il Padron Donat’AntonioFanelli, ormai cieco, oltre ad una « barchetta da pescare, e negoziarequando non v’è pesca », ed un’altra « piccola che va sempre alla pe-

. Gli individui non capifuoco con la qualifica dichiarata di marinaio sono comunque .

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sca », gestisce in società col fratello Giuseppe, a sua volta proprietariodi una barca definita da pesca, un’altra « barchetta pescareggia » e ducati investiti in negozio marittimo, che nelle mani di Giuseppe siaccresceranno rapidamente. Giuseppe Caricola alias Caffé possiede,oltre a vari immobili, due « trabbacoli di trafico » e . ducati « invarj negozj », presto rivalutati dal catastino a .. In particolare inquest’ultimo caso la qualifica di marinaio appare inappropriata, e ladefinizione professionale oscilla fra quella, come si è visto divenu-ta ormai di uso assai raro, di negoziante, nell’onciario, a quella di« marinaro e negoziante » attribuita a Caricola dal catastino.

Il sospetto che si tratti di famiglie colte dai documenti fiscali inuna fase in cui si accingono ad usare la loro nuova ricchezza perascendere nella scala data degli status, abbandonando, così come ave-vano fatto i marinai arricchitisi fino allora, insieme al mare anche itraffici, è legittimo e, come vedremo, in qualche misura suffragatodai fatti. Ma basta guardare nell’ambiente in cui vivono queste fami-glie emergenti per accorgersi che le cose sono in movimento, chel’ambiente marinaro barese va assumendo connotati qualitativamen-te diversi da quelli definitisi nella crisi seicentesca. Fra i marinai piùricchi ed i nullatenenti si colloca una fascia assai consistente di inve-stitori nel mercato oleario di – ducati, di possessori per quote oper intero di quelle imbarcazioni registrate nel catasto in massimaparte — si è visto con quanta attendibilità — come barche da pesca,che ricollocano Bari in testa all’armamento pugliese: quegli stessipersonaggi di cui catastini, atti notarili, carte dell’amministrazionemarittima ci fanno vedere il confuso agitarsi in giochi dello scambionon sempre privi di costrutto, nel quadro di uno spazio adriatico che,proprio a partire dai decenni centrali del Settecento, si rivitalizza.L’emergere in quel torno di tempo a spese di Venezia e Ferrara delnuovo emporio di Trieste, che funge da mercato di sbocco per l’oliomeridionale senza riprodurre le egemonie forti cinquecentesche cheVenezia esercitava sull’armamento e sul negozio, costruisce oppor-tunità nuove in cui diventano spendibili efficacemente l’accumulo dicompetenze consegnate di padre in figlio e le risorse relazionali pro-dotte dall’endogamia ormai secolare dell’ambiente marinaro barese.Ne risulta mutata la qualità delle pratiche e degli atteggiamenti di unaparte crescente degli attori sociali.

A prima vista questi marinai del nuovo Adriatico non sembranodiversi dai loro padri: loro pure fanno negozio da analfabeti, senzaspecializzazione, senza gli istituti e le procedure specifiche dell’im-

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prenditoria mercantile elaborati nell’Italia medievale. Per usare leparole di un intenditore ottocentesco di queste cose, continuano a« gettare all’estero a vil prezzo la derrata [. . . ] prima della domanda »,il che costituirebbe « la peggiore delle condizioni di un paese agri-colo ». Ma, a guardar meglio, non mancano novità significative. Inprimo luogo, dietro quel « gettare all’estero la derrata » si va allargan-do il ruolo nel finanziamento e nell’incetta della produzione oleariacontadina giocato dai marinai in prima persona tramite i contrattialla voce realizzati a gennaio. Certo i capitali marinari sono insuffi-cienti ai bisogni dei produttori, in particolare per le annate di raccoltapiena, cosicché essi solo in parte comprano olio per conto proprio,e per « maggior parte per conto di negozianti veneziani, ferraresi,napoletani, e d’altri luoghi »; ed inoltre, « sogliono, ancora subito chehanno ammassato qualche quantità d’ogli, con pochissimo loro utilevenderli a’ negozianti forastieri per poter di nuovo impiegare il lorodenaro in compra d’ogli ». La stessa collocazione mercantile deglioli incettati per conto proprio o altrui continua ad avere esiti tutt’altroche scontati, dato che il vivacizzarsi della domanda richiama l’offertadei concorrenti diffusi nel Mediterraneo. Il punto è, però, che il ne-gozio marinaro settecentesco non vive passivamente la situazione dimarginalità, di limitatezza delle risorse disponibili, di incertezza in cuiesso è collocato, ma va elaborando comportamenti adattivi diversida quelli seicenteschi e non privi di incisività. Accanto ed a sostegnodell’estro e dell’abilità individuali esercitati sul crinale fra lecito edillecito, si va costruendo un tessuto sempre più fitto di rapporti coo-perativi interni al gruppo, che sembrano giocare un ruolo decisivonella realizzazione dei risicati margini di profitto consentiti dalle cir-costanze. L’aspetto che la documentazione rende più evidente è ildiffondersi di società non sempre formalizzate fra marinai, di duratadi solito assai limitata, a volte sul un solo affare. Ma emergono ancherapporti non contrattuali, prestazioni senza corrispettivo immediato,che suggeriscono l’esistenza di un intreccio di reciprocità che va benal di là della cerchia parentale immediata: il marinaio arrivato in unporto di sbocco a volte vi rimane per badare, prima di reimbarcarsi,a qualcuno dei carichi in arrivo per conto di altri marinai; chi giun-

. Considerazioni commerciali del sig. Ravanas, in G. Bursotti, Biblioteca di commercio, vol.III, Napoli , p. .

. Cit. in V. Ricchioni, Studi storici di economia dell’agricoltura meridionale, Firenze ,p. , nota.

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ge all’età adulta dopo aver navigato fin da bambino non sostituiscenecessariamente il padre, ma entra nel gioco variegato dei rapportimercantili che di volta in volta si costruiscono e si disfano fra marinai.E, soprattutto, si intravede l’esistenza di una rete informativa nonformalizzata e disorganica, ma fitta e tendenzialmente ampia quantol’insieme professionale, che sopperisce alla carenza di comunicazioniscritte e sistematiche poggiando sulla contemporanea presenza dimarinai nei porti di sbocco e nelle piazze di approvvigionamento,sulla loro diretta partecipazione alle contrattazioni, a volte alla venditaal minuto delle derrate esportate e di quelle importate.

L’intreccio affaristico confuso, l’interscambiabilità di ruoli, la retedi scambi e reciprocità in cui si svolge la pratica quotidiana del nego-zio ricalcano il tessuto delle alleanze costruito dall’endogamia seicen-tesca, e a loro volta lo infittiscono fino a rendere irriconoscibili singoligruppi parentali. Le famiglie marinare, quasi sempre rigorosamentenucleari e neolocali, con il celibato sacro riservato normalmente aduno solo dei figli, l’età bassa al matrimonio e la vedovanza comecondizione transitoria, alimentano vigorosamente un mercato matri-moniale dai confini ben segnati, che finisce per costituire un’unicaparentela delle dimensioni stesse del gruppo marinaro.

Si prenda un qualunque marinaio attivo alla metà del Settecento,e, facendo astrazione dalle alleanze in cui è già immerso, si segual’aggrovigliarsi di parentele marinare nei suoi discendenti, che impo-ne il ricorso frequentissimo alle dispense per consanguineità e rendele genealogie graficamente irrapresentabili. Nato nel , PadronGiovan Pietro Milella di Padron Giuseppe sposa nel Pasqua Man-zaro, di anni più giovane, anch’essa di famiglia marinara. Nel vive in una casa in fitto, ma possiede a sua volta una casa che con-cede in fitto a vari locatari e tre aratri di « terre sciolte », oltre agli aratri di « giardino » assegnati per patrimonio sacro al figlio maggioreDon Giuseppe; tiene impiegati ducati in « negozio marittimo » epossiede un trabaccolo in società col marinaio Vito Caricola. Le suediscrete condizioni economiche ed i figli marinari che potrebberosubentrargli non gli impediscono di continuare a navigare fino a tardaetà: quando, nel , si risposa, deve affidarsi ad un procuratore, edancora nel lo ritroviamo a scaricare a Manfredonia merci del-l’alto Adriatico destinate alla grande fiera di Foggia, e ad immettereper suo conto legname e merci varie in casse e colli a Trani e Bari.A parte Don Giuseppe, gli altri sei figli avuti dalla Manzaro e giuntiall’età adulta si sposano tutti nella cerchia marinara. Caterina, nata

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nel ’, andrà in sposa con un quarto della casa registrata in catastoa Martino Traversa, di anni più grande, figlio di Lorenzo titolaredi ducati in negozio e di un trabbaccolo in società col cognatoMichele Scanna e con Pietro Introna; ed un altro quarto della casapaterna riceverà Rosa, nata nel ’, andando in sposa a Donat’Anto-nio di Paolo Cassano. Fra i figli maschi, tutti marinai, Giovanni (n.) sposa nel una figlia di Nicolantonio Rossino, definito nelcatasto « sensale d’oglio » con ducati investiti in « negozi diversi »,e, in seconde nozze, nel , la vedova del marinaio Saverio Alfon-zo; Michele (n. ) sposa nello stesso anno Porzia Sforza, figlia dimarinaio pressoché nullatenente ma sorella della Angela che sposacontemporaneamente quel Donatantonio Fanelli fu Nicola destinatoa grandi fortune nel mondo del negozio, che era rimasto vedovodella cugina del Martino Traversa marito di Caterina Milella. InfineDonato (n. ) sposa nel Pasqua Rosa Trizio, e, rimasto nel vedovo, si risposa nel ancora con una Traversa, vedova diMichele Cassano e quindi già cognata della sorella Rosa. Per di più,questa nuova moglie di Donato è madre di Giovanna, andata nel in sposa al nipote di Donato stesso, Pietro figlio di Michele Milella; diAntonia, sposatasi nel col figlio di Donato, Pietro; infine è madredi Martino, che sposerà nel ancora una figlia di Donato, MariaCherubina. Donato rimane subito nuovamente vedovo, e si risposal’anno seguente con la vedova di Giuseppe de Giosa, marinaio cometutti i personaggi menzionati.

I nipoti di Giovan Pietro sono troppi perché li si possa seguiretutti; e del resto il copione è sempre uguale. Segnaliamo solo qualchecaso. Dei figli di Donato non ancora citati, Domenico e Pasqua Mariarealizzano il primo novembre un matrimonio doppio incrociatocon due cugini del proprio padre, Angela e Lorenzo figli di MarinoMilella. Rimasto vedovo, nel Lorenzo sposa un’altra PasquaMaria della famiglia, cugina della prima, la figlia di Giovanni Milellae Anna Teresa Rossino. Fra i figli di quest’ultima coppia, a parte ilNicolantonio destinato, come spesso accade in questo ambiente, alsacerdozio, acquisterà spicco particolare Pietro, nato nel e sposa-to a vent’anni con Domenica Introna, sorella di quella Caterina chenel andrà in moglie ad un altro personaggio illustre della Barimarinara fra Settecento e Ottocento, Giuseppe Milella di Lorenzo,procugino di Pietro e due anni più giovane di quest’ultimo. Anchequesto ramo dei Milella è destinato ad intrecciarsi con i Traversa, dalmomento che sia la sorella di Giuseppe, Girolama, sia le nipoti Maria

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e Porzia, figlie del fratello maggiore Michele (n. ), si sposanocon figli di Filippo Traversa, fratello del Lorenzo che già abbiamoincontrato, marinaio attivissimo nella redistribuzione dei carichi diritorno lungo la costa pugliese degli anni Sessanta. D’altronde ledue Introna sono cugine della moglie di Michele Milella di Lorenzo,Caterina de Tullio, figlia di uno dei più grossi mercanti oleari diprimo Ottocento, Nicola, e di Porzia Diana, sorella di Lucrezia chenel aveva sposato il Nicola Vito Introna padre di Domenica eCaterina. Le due Diana, figlie del marinaio Michele, padre del DonVito che abbiamo descritto come il massimo negoziante barese del-l’età della Restaurazione, non cesseranno di reiterare nessi parentali:i figli rispettivi, Giuseppe Introna e Michele de Tullio, sposerannonel due sorelle nipoti dello Scanni che a metà Settecento avevaun trabaccolo in comproprietà col cognato Lorenzo Traversa e conPietro Introna.

Si potrebbe continuare all’infinito lungo le linee laterali e si incon-trerebbero gli stessi cognomi, le stesse navi, le stesse merci. Ciò chesottolineerei è l’improponibilità, in questo contesto, di una ricerca dirapporti regolari fra alleanze matrimoniali ed alleanze affaristiche,sia per l’inconsistenza, l’instabilità, la nebulosità dei confini delle strut-ture d’impresa, sia per l’indistinguibilità di ambiti parentali precisidentro l’ambiente marinaro imparentato. L’endogamia conseguenteall’emergere nel corso del Seicento di un settore marinaro consisten-te è diventata una risorsa strategica indispensabile al superamentodelle forme di negozio seicentesche ancora, per così dire, individuali,e fonda una configurazione affaristica ben diversa da quella dell’etàdi Don Vito Diana, segnata da un rapporto forte fra impresa e fami-glia. Ora, in un certo senso, il centro di imputazione delle decisionistrategiche è questa parentela onnivora: i comportamenti innovativisul piano degli sbocchi mercantili, sui tipi di imbarcazioni più adattea quelle rotte, le forme societarie, la penetrazione delle merci impor-tate, non sembrano risalire a soggetti riconoscibili, ma ad un provaree riprovare molecolare che coinvolge tutti i marinai e che elaborasoluzioni note a tutti e da tutti utilizzabili.

Tutto questo, come si è visto, non impedisce arricchimenti e im-poverimenti di singoli individui e famiglie. Le innumerevoli cointe-ressenze fra marinai non sono stabili ed esclusive: il singolo marinaiopuò essere impegnato contemporaneamente in vari affari con varisoci e con una esposizione diversificata caso per caso, e modificarerapidamente natura e composizione del suo impegno mercantile.

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C’è dunque modo di esercitarvi discernimento a fini di lucro perso-nale, senza doversi di necessità sottrarre a quei rapporti cooperativiche rendono in ultima analisi possibile al gruppo nel suo insieme diaccettare la sfida del mercato; anzi il controllo di una quantità mag-giore di risorse permette di meglio utilizzare quei nessi e solidarietàdistribuendo la propria iniziativa fra le opportunità che essi rendonodisponibili, di avere un ventaglio più ampio di scelte, di frazionaredi più il rischio. Di converso, chi non è abile o fortunato può pagareduramente. Naufragi, debiti, dissesti colpiscono individualmente.Pietro Introna viene registrato nell’onciario come un marinaio relati-vamente fortunato: a anni abita in casa propria, possiede are diterra con cui può costituire, al solito, il patrimonio sacro del figliomaggiore, ha investito ducati in « negozio marittimo » e possiedeun trabaccolo in società con i cognati Lorenzo Traversa e MicheleScanna che abbiamo già incontrato, due marinai destinati a progre-dire nel nuovo negozio; ma dopo qualche anno deve rifugiarsi inchiesa per debiti. Ugualmente si rifugia in chiesa « per la multiplicitàdei debiti » un fratello della prima moglie di Donato Milella, VitoNicola Trizio, che alla fine degli anni Settanta impiegava in negozio ducati; poco più tardi il naufragio della sua feluca riesce fataleal negozio in cui Vito Carrassi, membro di una famiglia di mari-nai di successo, aveva investito ducati, e Nicol’Antonio Scorcia,che riesce ad acquistare nel una « barca da viaggio » ed a farvinegozio investendovi ducati, nel perde barca e capitali. Pur-tuttavia, quando la documentazione ci permette di vederle meglio,non sempre queste situazioni si rivelano senza rimedio: la rete diconnivenze e reciprocità che avvolge individui e famiglie sembraefficace soprattutto in condizioni di difficoltà, mobilita vicini e cono-scenti, fa emergere ruoli femminili tenuti sempre ufficialmente fuoridalla condizione professionale ma forse non del tutto marginali, inparticolare nella elaborazione delle decisioni minute del negozio enella gestione dei capitali e delle merci a terra. Nel novembre Nicola Santo Sciacoviello non paga un debito di ducati contrattocon suor Maria Teresa Ventrelli, figlia di un Dottor Fisico, e si rifugiacon buona parte dei mobili di casa nel convento di San Pietro del-le Fosse, dove i marinai custodiscono le loro immagini sacre. Altrimobili ed oggetti di valore di Sciacoviello (« quadri, specchi, lumieri,ed altro ») vengono trafugati in casa della madre Prudenza Magrino,figlia e vedova di marinai, che vive con la figlia ed il genero VitoNicola Diana, cugino di Don Vito e figlio del Francesco a cui l’on-

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ciario assegna una « barchetta pescareccia » ed il catastino ducatiin negozio, e destinato a sua volta ad una vivace carriera di negozio« di terra » e « di mare ». Dal suo rifugio, in un andirivieni di parenti eamici, Sciacoviello invia qualcuno « ad avvisare la filluca che dovevavenir carica dalla marina di Lecce d’alcune robe mercantili, che nonfosse qui venuta stante l’esecutorio », e manda un altro messaggeroa Vieste con due lettere, una per Stefano Sciacoviello, « garzone delfondaco » lì situato, l’altra per il reverendo Don Carlo dell’Erba, suocompare, in cui chiede di nascondere in casa del sacerdote le mercidepositate nel fondaco: cosa che viene fatta di notte con l’aiuto dellostesso latore delle lettere.

Questo equilibrio, mutevole ma a suo modo robusto e funzio-nante, fra comportamenti cooperativi fra marinai imparentati e attri-buzione individuale di profitti e perdite, è il segno distintivo fonda-mentale del negozio barese del secondo Settecento. Ma il negoziomateriale esercitato fra barche, oli e magazzini non rappresenta piùun luogo appartato dello spazio sociale urbano, ed il suo modo difunzionare finisce per influire in profondità sugli equilibri politicie mentali della città nel suo complesso. Le nuove pratiche mercan-tili definiscono finalmente una autonomia del negozio marinaro,rompono l’integrazione/subordinazione seicentesca al negozio ari-stocratico. In particolare il finanziamento dell’impresa può ormaiessere interno al gruppo o fluirvi direttamente dai mercati di sboccodelle merci invece che dalle élites locali, e le manovre dei potenti in-sediati negli apparati amministrativi non appaiono più ai protagonistidel negozio materiale come suscitatrici di opportunità di lucro, masempre più come « vessazioni » che provocano proteste fragorose. Sicreano così le condizioni per sostituire le reti verticali seicenteschecon reti orizzontali che fuoriescono dall’ambito delle relazioni diaffari e modificano, insieme alla pratica del negozio, le proceduredella costruzione di identità connesse al negozio stesso.

I marinai si affacciano sulla scena politica contribuendo a mutarnei connotati e, al contempo, a ridisegnare i criteri di costruzione dellegerarchie sociali, i percorsi della mobilità ed il vocabolario che puòapplicarvisi. Il sistema cetuale non si configura più come un universodi valori condivisi, ma come strumento di organizzazione e salva-guardia di interessi di parte. Le iniziative che partono dal suo internoal fine di mutare la distribuzione del carico fiscale sancita nel catasto

. ASB, notaio G. Lapegna, Bari, atto ...

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a danno del commercio, e poi di svuotare il catasto stesso a favore deltradizionale prelievo fiscale tramite gabelle a sollievo della proprietàimmobiliare, costruiscono nella città cleavages che hanno sempremeno l’andamento contorto degli scontri fazionari così frequentinell’ambiente affaristico seicentesco e primo–settecentesco, e sem-pre più separano fronti nettamente individuati da interessi corposi.Il disconoscimento del valore statuale degli istituti dei ceti legitti-ma forme di autogoverno degli interessi che alimentano le tensionidiffuse nel corpo sociale: a partire dagli anni Settanta le risorse perla manutenzione ed il miglioramento del porto vengono ricavatedalla autotassazione sulle merci esportate e poi sulle imbarcazioni cheescono ed entrano nel porto, e vengono autoamministrate dagli stessimarinai con autorizzazione regia ma fra le proteste di quanti, annidatinei pubblici apparati per collocazione cetuale e quindi custodi gelosidel decoro connesso alle cariche, si considerano disonorati dall’averea che fare con individui che invadono spazi pubblici del tutto privi direquisiti onorifici.

Il conflitto va a lungo alla ricerca di un linguaggio capace diesprimerne la novità e usa sovente quello della dialettica fra i ce-ti. Al riconoscimento sociale fondato sul sangue e sulla progeniecontinua ad essere contrapposto l’altro fondato su virtù personaliinconfutabili perché provate e riprovate dallo scrutinio collettivo: lacapacità, la ricchezza, l’onestà. Ma il clima nuovo finisce per caricaredi significati diversi la vecchia terminologia, per accrescere la caricasemantica delle formule per la concessione dei permessi d’espatrio aimarinai (« molto dabbene e probbi », « gente onesta ed applicati alipropri interessi e al commercio »); in particolare, finisce per mette-re in discussione il criterio fondamentale di distinzione fra popoloe gentiluomini universalmente accettato a partire dalla crisi del ne-gozio delle nazioni: quello che misura il prestigio sulla base delladistanza dal lavoro produttivo di reddito e costruisce la merceologiadignitosa come delimitazione del numero delle eccezioni accettabili.Nell’abortito progetto di riforma dell’università di fine secolo, i treceti, disposti gerarchicamente, sono denominati in forma mista sullabase della « condizione » e delle attività lavorative, e queste ultimeabilitano tutte all’esercizio del potere. Ed in quello stesso torno ditempo quattro nobili danno vita, non più con manovre occulte edintermediari, ma apertamente e direttamente, ad un loro negoziodestinato ad esiti infausti ma non per questo meno significativo. In-somma, chi si arricchisce e vuole ascendere nel prestigio sociale non

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deve più necessariamente, come nella Bari sei–settecentesca, usciredalla condizione professionale.

Parallelamente, e significativamente, i documenti si fanno menoreticenti sul piano delle indicazioni professionali. Il catasto onciario,come i precedenti, aveva attribuito a tutti coloro che lavoravano unaqualifica per commisurarvi la tassa sull’« industria », ma i catastini,che registrano le volture della proprietà, spesso le conservano senzanecessità fiscali; i registri dei matrimoni, a partire dagli anni Cin-quanta del Settecento, qualificano professionalmente i soli marinaiper segnalarne le assenze frequenti e quindi l’impossibilità per leautorità ecclesiastiche di certificarne senza ombra di dubbio lo statolibero, ma negli anni a cavallo fra Settecento e Ottocento è possibileestrarne ulteriori interessanti indicazioni in merito; gli atti notarili,per secoli quasi del tutto indifferenti alle professioni dei comparenti,cominciano nello stesso periodo a registrarle.

La casella professionale dei negozianti, a metà Settecento presso-ché vuota, va in questo clima rapidamente riempiendosi.

.. Conseguenze semantiche della incongruenza di status: co-me troppi marinai divennero negozianti

Nel linguaggio del secondo Settecento il termine negoziante gal-leggia equivoco alla ricerca di un ruolo semantico netto e stabile.Sopravvissuto faticosamente ai tempi della città aristocratizzata, manmano che i valori della società dei ceti si indeboliscono nella co-scienza collettiva esso torna a rimandare echi illustri discesi lungo lamemoria storica o assunti dal suo uso contemporaneo in altre piazzedi negozio. Al contempo esso deve fare i conti con la pratica delnegozio prevalente a Bari, con le sue figure sociali e le sue identità,che, come sempre, non sono intercambiabili e riclassificabili senzaproblemi e conseguenze.

Per seguire gli eventi, cerchiamo di richiamare le figure principalidel nuovo negozio. Alla figura centrale, quella del marinaro, sono affi-dati, come si è già accennato, ruoli molteplici: in primo luogo la praticadel mare condotta a vari livelli di responsabilità spesso regolati suicicli di vita, a cui sono connessi i ruoli di mercante e di armatore, nelmentre quello di sensale e procacciatore d’affari, tipico del « pubbliconegoziante » e del « negoziante di ragione », viene ricondotto dentroil gruppo e svuotato di specificità dai comportamenti cooperativi su

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descritti. Al marinaro è affidata anche la distribuzione al minuto deicarichi di ritorno: carta, colla, ferramenta, fil di ferro e piombo, efinanche, in alcuni casi, di voci tradizionali della merceologia dignitosacome droghe e tessuti. Ma può anche accadere che questo compitovenga assunto in forma stabile da uno dei membri di una famiglia oda una famiglia intera che, come nel caso degli Abbottalico, trasmet-te la mansione specializzata nelle nuove famiglie neolocali costituiteman mano dai figli maschi: ne consegue l’introduzione nell’ambien-te del negozio di qualifiche professionali assai deboli sul piano dellacostruzione di identità di gruppo, e perciò stesso di denominazio-ne varia ed intercambiabile, come « merciajuolo », « mercantuolo »,« bazzariota », « bottegaro ». Rimangono al di fuori della cerchia deimarinari alcuni altri ruoli connessi in qualche modo al negozio. Quellodella movimentazione delle merci a terra è affidato ad un pugno digruppi parentali (i Lorusso, i Romito, i Genchi) di profilo incerto sulpiano delle pratiche lavorative — monopolizzano anche il commercioal minuto dei cereali — ma dotati di identità professionale fortissima,di una propria confraternita, di capi riconosciuti: i « facchini ». Scarsisono gli scambi col mondo marinaro anche dei fornitori di funi e vele,dei fabbricanti di botti, dei costruttori di imbarcazioni. Questi ultimi,i « calefati », rimangono di numero assai ridotto dal momento che imarinai continuano a comprare le loro navi dall’estero o da porti vicinicome Trani e Molfetta; d’altro canto, quando commissionano loro unanuova imbarcazione, sono spesso gli stessi marinai a fornire il legna-me, altra voce fondamentale dei carichi di ritorno dall’alto Adriatico,tenendoli perciò al di fuori del circuito del negozio. Ne fanno inveceparte alcuni fra i « bottari », che pure tendono a scambiare alleanzematrimoniali ed a vivere porta a porta con gli altri lavoratori del legno(falegnami e carrozzieri): i Favia ed i Barbone, in particolare, impor-tano direttamente, e non adoperando l’intermediazione dei marinai,il legname con cui fabbricano botti olearie e lo rivendono, inserendonell’identità di « artieri » elementi estranei, di natura propriamentemercantile, con la prima difficilmente componibili.

Questo insieme di ruoli e di identità si confronta col termine nego-ziante in questa particolare fase della sua storia, con esiti diversificatie condizionati da alcune variabili fondamentali:

— il livello di centralità, nel circuito mercantile oleario, dei ruolie dei soggetti che li ricoprono, che induce a denominazioniprofessionali più direttamente allusive al negozio;

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— la consonanza delle pratiche con l’ambito semantico in cui laparola negoziante si muove;

— l’ampiezza della divaricazione della ricchezza raggiunta frasoggetti di uguale denominazione professionale, e quindi laspinta a diversificare le identità;

— all’inverso, la forza dell’identità professionale che quei ruo-li e soggetti già hanno, e quindi la capacità di resistenza al-l’introduzione di identità nuove, sia pure socialmente piùadeguate.

« Funari » e « calefati » vengono tagliati fuori dalla loro marginalitàmercantile e dalla scarsa capacità di accumulazione che quei ruoliconsentono. Maggiore la vivacità ed intraprendenza dei « facchini »,ma, fra loro pure, la capacità di accumulazione individuale è scarsa,nel mentre il forte senso di identità li spinge a continuare a denomi-narsi come tali anche quando si troveranno iscritti sui registri dellepatenti come « negozianti di grano ». L’insieme sociale in cui ci siaspetterebbe un ingresso agevole della qualifica di negoziante è quel-lo dei marinai, sia per la centralità dei loro ruoli nel negozio che perla capacità di produrre arricchimenti; ma neanche in questo ambitoil processo di riqualificazione è senza problemi. I comportamenticooperativi e l’aggancio forte alla pratica del mare, che costituisconouna delle ragioni del relativo successo del negozio barese e segna-no, direttamente o per il tramite di congiunti e soci, anche i verticidel nuovo negozio, sono elementi di identità forte e cozzano conl’accezione ricevuta del termine negoziante. Fra i Cuccovillo, i Ca-ricola, i Fanelli, i Signorile, che a metà Settecento legano la praticadel mare con investimenti da ricchi mercanti, viene denominato ne-goziante invece che marinaio il solo Giuseppe Caricola alias Caffé;ma neanche per lui il mutamento professionale è netto ed inequi-vocabile, dal momento che più tardi viene qualificato dai catastinicome « marinaro e negoziante » a dispetto dei grossi investimentimercantili a lui attribuiti.

Questa endiade continua così per qualche decennio a qualifica-re i personaggi di spicco di questo ambiente, lasciando al terminenegoziante la sua tradizionale connotazione elevata e ricordandoche esso viene applicato ad individui segnati contemporaneamentedall’« interesse [. . . ] nelle di loro proprie barche ». Ma si tratta di una

. BNB, fondo D’Addosio, I/, protesta di G. Graziosi cit., c. .

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condizione semantica instabile, che finisce per provocare la reciprocacontaminazione dei due termini, la loro tendenziale interscambia-bilità quando adoperati per i detentori dei ruoli centrali nel nuovonegozio. Così Vito Michele de Tullio, che riceve il permesso perl’espatrio nel come negoziante, è definito nel « marinaio »,anche se « onesto » ed « applicato al commercio »; Martino Cassa-no quondam Michele, sposatosi nel come « marinaio », diventanegoziante quando si risposa quattro anni più tardi; il MagnificoPasquale Caricola, figlio di negoziante, è definito « marinaio » dal re-gistro matrimoniale del e « negoziante » dal catastino di qualcheanno più avanti; Nicola Fanelli, che abita col padre « marinaio », èdefinito lui pure « marinaio » dal registro della personale del , maè chiamato qualche anno dopo a pagare la patente come « negoziantedi olio per mare ». E così via.

La instabilità connotativa del nostro termine viene accresciuta dalfatto che esso trova modo di reintrodursi nell’uso locale lungo unaltro percorso parallelo al primo, attraverso i rivenditori dei carichidi ritorno. In questo caso la relativa marginalità rispetto al negoziooleario e la minore capacità di accumulazione rispetto ai ruoli centralivengono compensate dalla debole identità professionale e da unapratica centrata su funzioni tradizionalmente mercantili, anche se dilivello e qualità incomparabili con quelle delle botteghe delle nazionicinquecentesche. Non impediti dal maneggio diretto delle navi, gliAbbottalico cominciano ad essere definiti negozianti fin dagli anniSessanta; e poi man mano gli Ancona, i Bellomo, i Lopez, e poi imastri bottari importatori di legname.

Questo indebolimento della capacità della qualifica di negoziantedi individuare con nettezza ruoli e soggetti sociali viene esaltata dallacrisi a tratti drammatica degli sbocchi oleari negli anni a cavallo fraSettecento e Ottocento, che spinge alla ricerca di nuove possibilità dilucro negli interstizi della tradizionale economia, che fa emergerenuovi effimeri circuiti mercantili e soggetti in cui nuovi e vecchiruoli si accavallano in mix inediti. Per tutti costoro il nostro termine,proprio perché in parte consunto nei decenni precedenti e portatoredi una carica semantica debole e oscillante, sembra una soluzioneadatta. La quale viene amplificata nella sua efficacia e nelle sue con-seguenze dall’istaurarsi nel Regno della monarchia amministrativafrancese.

Le riforme del periodo francese, dal nostro punto di vista, noncolgono la città del tutto impreparata; comunque la radicalità e l’or-

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ganicità delle misure adottate provocano un’accelerazione violentadei processi in atto. Quella sorta di ossessione della monarchia ammi-nistrativa a « contare gli individui e ripartirli spazialmente, classificarli[. . . ], mantenerli in una visibilità senza lacune, formare attorno ad es-si tutto un apparato di osservazione, di registrazioni e di annotazioni,costruire attorno ad essi tutto un sapere che si accumula e si centra-lizza », ha uno dei suoi fuochi — per ragioni che varrebbe la penadi rintracciare, dato che si tratta di uno dei luoghi di fondazione delleforme di coscienza e dell’analisi sociale otto–novecentesca — nellacollocazione di ciascuno in una casella professionale. Con l’afferma-zione tramite lo stato civile della tutela pubblica sui riti di passaggio,con i censimenti, le nuove imposte, i permessi e le dichiarazioni rila-sciate dall’amministrazione, si chiede agli individui, nella loro qualitàdi attori, testimoni, congiunti, di riassumere di fronte ai pubblici uffi-ciali la molteplicità dei propri ruoli sociali dentro una definizione, daestrarre dal vocabolario delle professioni: in generale, dal momentoche è quasi sempre allo stesso comparente che si chiede di definirsi,da quel vocabolario professionale locale che negli ultimi decenni delSettecento aveva a Bari faticosamente conquistato spazi di uso sociale;in qualche caso, come per i registri delle patenti, un lessico ibridoprodotto dall’incontro compromissorio delle definizioni locali conquelle fissate centralmente dallo Stato. E, dai luoghi di incontro fracittadino e Stato, l’uso si riversa in quelli semipubblici dei contrattinotarili e nella normale vita di relazione, fino a determinare unasorta di cognominalizzazione della professione, a trasformarla in unsupporto per le procedure di identificazione, e quindi ad accrescereenormemente l’impatto sociale delle stesse qualifiche professionali.

Per quel che riguarda la nostra professione, nel mentre le paten-ti, con le loro definizioni professionali agganciate a categorie fiscalifissate per legge, continuano in qualche maniera a distinguere e agerarchizzare, nei documenti che registrano più direttamente il farsidel vocabolario locale gli individui definiti negozianti, in coincidenzacon la gravissima crisi del negozio adriatico e mondiale, si moltiplica-no rispetto ai tempi del negozio fiorente. E, di conseguenza, fannoprecipitare il processo, iniziato in qualche misura già da quando, ametà Settecento, si era cominciato a ricreare un qualche rapporto frala pratica del negozio e la qualifica di negoziante, di scivolamentosemantico del nostro termine verso il basso della gerarchia delle

. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino , p. .

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professioni. Invece di sanzionare ascese sociali, esso finisce in uncerto senso per scendere ad incontrare individui e gruppi incapaci diricostruire un negozio dignitoso. Nell’ormai « portentoso numero »

di quanti ora si definiscono negozianti sono assai pochi coloro chepossono premettere al proprio nome un « don » o un « signor », gene-rosamente attribuiti a orefici e cristallari, scrivani e speziali manuali;moltissimi sono gli analfabeti e quanti non raggiungono il limitecensitario per l’accesso all’elettorato attivo; mentre la qualifica di« giovine di negozio » può essere attribuita a ultrasessantenni, nonpochi si chiamano negozianti da giovanissimi, non ancora ventenni.In particolare per quella parte maggioritaria di diretta ascendenzamarinara, il trascinamento delle vecchia identità è fortissimo. Molticontinuano a navigare il mare, spesso non nei trabbaccoli con cui i lo-ro genitori avevano riconquistato le rotte adriatiche ma in paranzelli,camuffati da pescatori per evitare le proibizioni ed i controlli bellici, ecomunque hanno figli, fratelli, cognati che lo fanno, e si riconosconomembri « della classe dei negozianti e marinai di questo Comunedi Bari », « divoti » delle immagini sacre depositate nella Chiesa di S.Pietro delle Fosse.

A questo punto della sua carriera, la professione di negoziante rag-giunge al contempo la massima diffusione ed il minimo di prestigiosociale. Dal nesso cinquecentesco fra « gentilhuomini, mercadantie altre somiglianti persone », a quello seicentesco fra « negozianti eforestieri », a quello tardo–settecentesco e primo ottocentesco fra« negozianti e marinai », la nostra vicenda sembra disporsi su unachina secolare.

.. Conseguenze semantiche della incongruenza di status: co-me alcuni negozianti arricchiti dovettero abbandonare laprofessione o la città

Si tratta di una congiuntura delicatissima e decisiva, oltre che per inomi, per le cose, per le sorti del negozio e della città. La mancataelaborazione di forme di negozio autonome dalla pratica del mare,

. Relazione del consigliere d’Intendenza Sagarriga Visconti del , cit. in S. La Sorsa,La vita di Bari durante il secolo XIX, I, Bari , p. .

. G. Rotondo, Serie dei Gran Priori della Basilica di S. Nicola (continuazione), in « S. Nicoladi Bari. Bollettino semestrale del Santuario », dicembre , p. .

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determinata anche dal relativo successo del negozio marinaro, impe-disce la costruzione di una definizione professionale e di una identitàmercantile dignitosa; a sua volta, l’identità bassa di chi fa negozioriduce la spinta alla elaborazione di pratiche più dignitose. Le inno-vazioni del negozio marinaro del secondo Settecento, che avevanoconsentito alla città di stare sul mercato del nuovo Adriatico, mostra-no il loro lato debole nella incapacità di definire percorsi di ascesasociale interni al negozio stesso. L’identità mercantile dei negoziantiarricchitisi diventa una trappola: essa genera una vistosa situazionedi incongruenza di status fra ampia disponibilità di risorse e bassaconsiderazione sociale. Nonostante le novità del clima politico ementale affermatesi anche grazie ai marinai, il modo più efficienteper tradurre successo mercantile in riconoscimento sociale rischiadi rimanere ancora, come nel negozio seicentesco, la fuoriuscita dalmondo dei traffici.

Tornano così a riproporsi vecchie trame. Resi professionalmenteinnominabili nonostante il rilancio del linguaggio delle professioni,molti fra gli emergenti del nuovo negozio marinaro tornano a cerca-re affannosamente identità e gruppi di riferimento esterni al negozio.Nel sei di essi, fra cui si distinguono alcuni dei figli dei marinaipiù in vista nell’onciario, tentano di conquistare il mediocre e ormaicontestato prestigio di membri del secondo ceto, e nonostante la stre-nua opposizione anche di alcuni fra gli ultimi arrivati alle pubblichecariche, come Giambattista Barucchelli figlio del Girolamo « pubbliconegoziante » di metà Settecento, quattro fra loro riescono a conqui-stare l’aggregazione dando a vedere quanta distanza ormai li separida quella « condizione » di « negoziante e marinaio » per loro tantolucrosa quanto inespressiva sul piano dell’ascesa sociale. In due casisi tratta del coronamento di strategie già avviate nella generazioneprecedente. A differenza del padre del suo illustre procugino letteratoEmmanuele Mola, che aveva preferito all’attivissimo negozio primo–settecentesco della famiglia la professione forense, il padre di LuigiMola, Giambattista, ancora a metà Settecento aveva a che fare con un« negozio di sapone » ed aveva sposato in seconde nozze una Diana,che, come è sua natura, divenuta vedova si sostituisce al marito nellagestione dei traffici; ma il fatto che ben sei dei sette figli della primamoglie iscritti al suo fuoco fossero stati avviati da Giambattista acarriere ecclesiastiche indica una volontà di allontanamento dall’am-biente marinaro, che Luigi traduce in atto « dismettendo il negozio ».Un altro dei neoaggregati, Michelangelo Signorile, figlio del Silvestro

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che abbiamo già incontrato come ricco e intraprendente marinaio,oltre al solito fratello Canonico, ha una sorella sposata ad un riccoproprietario; a sua volta egli sposa nel una Quattrorecchie e poi,rimasto vedovo, Donna Brigida Pirris, di antica famiglia del secondoceto. Nel –, come sindaco della piazza del popolo, contrasteràvivacemente le prepotenze aristocratiche, ma non avrà più nulla ache fare con le pratiche e l’ambiente del negozio: due dei tre figli ma-schi saranno canonici ed il terzo, Don Domenico, vivrà da appartatogentiluomo della vivace Bari primo–ottocentesca. E « gentiluomini »saranno i mariti delle figlie, una delle quali, Francesca, sposerà nel Don Riccardo Quattrorecchi, cognato di Giandomenico Petroni.

Assai intenso rimane invece il rapporto col negozio di un altro deineoaggregati, Emmanuele Fanelli, e degli altri due « negozianti e ma-rinai » che devono rinunziare all’aggregazione, Vitantonio Caricolaed Emmanuele Signorile; anzi, insieme all’altro Fanelli, Donatanto-nio, cugino di Emmanuele, costoro dominano con le loro iniziative itraffici baresi del tardo Settecento. Ma anche in questi casi il nessofra nomi e cose, fra ridefinizione delle identità e pratiche, finisce peremergere nettamente in modi che richiamano fasi precedenti dellastoria della professione. Il rifiuto della qualifica sempre più degradatadi negoziante, anche quando non induce all’abbandono del negozio,tende a piegarne le pratiche in maniera che risultino meno allusiveall’identità rifiutata e meno estranee a quella del nuovo gruppo diriferimento adottato. I Fanelli, Caricola e Signorile danno vita adiniziative imprenditoriali di qualità e dimensioni unitarie sempre piùimportanti, allargano fino all’Abruzzo e Terra d’Otranto la distribu-zione dei carichi di ritorno da essi controllati, muovono merci permigliaia di ducati; e nel far questo tendono a districarsi dai rapporticooperativi con parenti e soci marinai su cui era cresciuta la ricchezzadei propri padri, li ricompongono in forme asimmetriche, in societàcon apporti di capitale del tutto squilibrati o costituite insieme a socinominali che vi contribuiscono col solo lavoro, danno vita a nuovesocietà fra arricchiti. Ed in tutto questo si fa largo una propensionead investimenti dignitosi come la gestione di feudi, il recupero diaspetti del vecchio negozio « di ragione » con l’occupazione degli sno-di finanziari e della intermediazione con le grandi piazze di negozio,che prefigurano non una volontà di riqualificazione del negozio mari-naro, ma una ben sperimentata strategia di fuoriuscita dall’ambientee dalle pratiche del commercio barese, che cade spesso in anticiporispetto alla regola delle tre generazioni.

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I tempi ed i modi di questi processi si intrecciano a quelli dellaricomposizione di parentele e identità. I nuovi ricchi del negozioescono rapidamente dalle reti matrimoniali marinare da cui proven-gono, si chiudono nell’area ristretta del grande negozio da loro stessidisegnata o cercano di entrare in un circuito parentale più prestigio-so, in primo luogo quello dei discendenti dei marinai di successodel Seicento e del primo Settecento da tempo inseriti nel sistemacetuale. Vitantonio Caricola, figlio di Giuseppe detto Caffé, viaggiavaper mare quando, nel , aveva sposato Camilla Signorile, figlia diun altro ricco marinaio, Nicola Vito, e sorella di Emmanuele. Nonavendo fratelli, tranne il solito sacerdote dieci anni maggiore di lui,alla morte del padre se ne assume tutti gli investimenti e le partecipa-zioni mercantili, entra in società col cognato Emmanuele Signorile epoi, alla maggiore età del secondogenito Nicola, lo « dota » di .ducati investiti nel suo « negozio di ragione », mentre destina tuttii suoi beni stabili per ben . once al figlio maggiore Giuseppe,rimasto estraneo ai traffici e marito della figlia di un proprietario.Con la sua cospicua « dote », nel Nicola può sposare Donna LiviaIntrona, nipote del negoziante Nicola Introna aggregato nel al patriziato, sollevando le sorti della famiglia pesantemente inde-bitata, oltre che con gli stessi Caricola, anche con i Fanelli. Non acaso, dunque, Nicola di Donatantonio Fanelli, una volta associatosial negozio paterno e dotato di . ducati, sposa due anni dopoElisabetta Introna sorella di Livia, e poi, rimasto vedovo, una nipotedella stessa Elisabetta, Giacinta Laghezza, figlia di un gentiluomotranese e della sorella di Elisabetta, Teresa. Intanto, nel , l’al-tro figlio di Donatantonio, Giuseppe, sposa Grazia Fanelli, figlia delcugino Emmanuele aggregato nel . Degli altri figli di quest’ul-timo, Vito Santo sposa nel Teresa Farchi, nipote di uno fra inegozianti aggregati al popolo primario nel , nello stesso annoGrazia sposa il gentiluomo Saverio Simi, infine Onofrio sposa lanipote di un altro aggregato al patriziato nel , Giuseppa Rinaldi.E tutti costoro, con la riforma del e l’istituzione dei tre ceti,si ritrovano, insieme al vecchio patriziato ed a quello recente degliIntrona e dei Quattrorecchi, ad assumere la gestione della città neglianni tormentati a cavallo fra i due secoli nel primo ceto, col quale essiavrebbero ben poco a che fare essendo riservato ai « nobili di origineo di privilegio nell’intelligenza ». Le manovre che consentono loro diraggiungere questa collocazione meriterebbero di essere raccontate.Quello che interessa in questa sede è, d’altronde, il fatto che in questa

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. Storia e semantica di una professione

maniera essi riescono a rimarcare inconfutabilmente la distanza daloro conquistata nei confronti dell’identità sempre più degradata dinegoziante, ossia la loro estraneità all’impresa marinara diffusa deiDiana, Trizio, Capriati, Cassano, degli Introna non nobilitati, tutticollocati nel secondo ceto, quello dei « mercanti, medici, chirurgi,notaj, speziali ».

Riadeguate le pratiche mercantili, ricomposta radicalmente nelgiro di una generazione la cerchia parentale, definita anche pervia politico–istituzionale una nuova identità, i nuovi ricchi tardo–settecenteschi si avviano verso esiti non coincidenti, ma dal nostropunto di vista convergenti. Nel caso dei Caricola la fuoriuscita dalnegozio è presto realizzata con la morte prematura di Nicola, il figlioche Vitantonio aveva avviato al negozio. Vitantonio, al quale sonoaffidate le figlie di Nicola e di Livia Introna, destinata a risposarsi algentiluomo di Rutigliano Nicola Guarnieri, è da sempre vissuto da« negoziante e marinaio », ma respira il nuovo clima mentale e prati-co della generazione successiva alla sua: dei . ducati collocatinella società con Emmanuele Signorile lasciati da Nicola in ereditàalle figlie, egli riaffida solo . ducati all’alea mercantile, e distri-buisce gli altri in investimenti di rendimento basso ma sicuri, cheproducono rendite, secondo il catasto del , per . ducati. Eglistesso, ormai anziano, abbandona il negozio nel , e fa a tempo avedere coronate le sue strategie di gestione del patrimonio proprioe di quello delle nipoti con matrimoni con rampolli del patriziatourbano non macchiato da recenti ascendenze mercantili: Camillasposa nel Luigi Sararriga Visconti, Anna Maria, due anni dopo,il cugino di Luigi, Giorgio. Qualche anno dopo la morte di Nicola,muore precocemente anche il figlio maggiore di Vitantonio, Giusep-pe, lui pure senza figli maschi, e, quando anche la cognata muore, ilvecchio Vitantonio deve avviare anche le cinque figlie di Giuseppea matrimoni dignitosi, facilitati del resto da una eredità immobiliareche produce una rendita complessiva di . ducati annui: primadi morire colloca Marianna con un gentiluomo di Terlizzi, ma poiMariantonia sposerà il fratello di quest’ultimo, Barbara un proprieta-rio di Turi, Angelica un discendente dei Didelli entrati nel patriziatonel . A differenza di Vitantonio, il procugino Nicola Lionardo,unico altro discendente dei Caricola marinari, riesce a trasmettere

. G. Mangini, Memoria a pro del ceto popolare di Bari contro il ceto de’ nobili di quella città,Napoli , pp. –.

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Linguaggi del mercato

il cognome alla generazione seguente, ma, continuando egli a fa-re negozio marinaro, lo lascia nella rete inestricabile delle alleanzeparentali solite: il figlio maggiore sposa una Capriati, Luigia il ne-goziante Donato Trizio, Maria il negoziante Onofrio Piccinni, Vitosposa Rosa Ancona, figlia e sorella di negozianti, Maria Maddalena ilnegoziante diciassettenne Innocente di Tullio. Al cambio di secolo idue rami della discendenza, indistinguibili per pratiche e valori unagenerazione prima, si divaricano irrimediabilmente.

Nel caso dei Signorile, invece, anche la discendenza di Nicola Vitoè destinata a calcare le orme di quella di Silvestro, a fine secolo, comesi è visto, ormai estranea al negozio. Due dei figli di Nicola Vitointraprendono la carriera ecclesiastica, e un terzo, Marino, lascia nel il negozio per intraprendere la carriera militare. Emmanuele,che col cognato Vitantonio Caricola aveva condotto traffici in grandeed era « pieno di attività naturale », ancora nel periodo francese nonsi è scrollato di dosso la qualifica di negoziante, ma in realtà trae lagran parte dei suoi redditi da immobili, arrotondandoli con l’attivitàdi « mezzano di cambio »: nel giro di qualche anno, consumati inessi residui col negozio, potrà fregiarsi della definizione moderna,postcetuale, che marca la distanza dal lavoro, quella di « possidente »e poi di « proprietario ». E ben più in alto potranno mirare i suoifigli, liberi dalle rozzezze del negozio marinaro che Emmanueleaveva comunque praticato in gioventù: il maggiore diventa canonico,Antonia sposa nel un legale di Trani, Giuseppe vivrà da agiato« gentiluomo », Paolo sarà uno dei massimi acquirenti di beni delloStato della zona, ricevitore generale della provincia, membro « civile »della Società Economica di Terra di Bari, membro del ConsiglioDistrettuale prima e del Consiglio Provinciale dopo.

Più complicata la fuoriuscita dal negozio dei Fanelli. Essi nonabbandonano i traffici, ma spostano gradualmente residenza negozioe relazioni a Napoli, dove le loro strategie di ascesa sociale riesconoa conciliarsi, a differenza che nell’ambiente barese, con l’identitàdi negozianti. La cosa può apparire sorprendente a chi continua anon accorgersi che le definizioni professionali vanno comprese nelcontesto, nel loro tempo e nel loro spazio. Nel nostro caso il lemma,uguale a quello che gli stessi Fanelli avevano voluto scrollarsi di dossoa Bari, è dotato nella capitale di una carica semantica assai diversa.

. Giudizio dell’Intendente nell’elenco degli elettori per il collegio dei commercianti diBarletta del in ASB, Gabinetto del Prefetto, I versamento, f. .

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. Storia e semantica di una professione

Qui pratiche e identità del negozio non si erano mai contaminate conl’ambiente marinaro, hanno orizzonti vasti, si servono di professioni-sti dell’informazione, vivono in rapporto stretto con i poteri non solodi livello cittadino ma statuale, si nutrono di iniziative speculative che,in una dimensione assai più larga, richiamano il vecchio « negozio diragione » barese; insomma, non provocano contraddizioni forti fracapacità di produrre ricchezza e capacità di produrre riconoscimentosociale.

A Napoli si trasferisce per primo Vito Santo, dopo aver ereditatodal padre un capitale di . ducati, adoperando come corrispon-dente per gli affari baresi il cognato e procugino Giuseppe Fanelli.Nel Vito Santo, anche se non più residente in città, possiede nelterritorio di Bari più immobili di chiunque altro, compresi i grandipatrizi, ed alla sua morte, negli ultimi anni Venti, i figli Emmanuele,Filippo e Rosina, ormai napoletani, dovranno affidarsi ad un ammi-nistratore per gestire immobili baresi; ma, con il trasferimento, i suoiinteressi si vanno sempre più concentrando nella capitale. TranneOnofrio di Emmanuele, che continuerà a far negozio a Bari e vimorirà nel , gli altri Fanelli implicati nel grande negozio di fineSettecento lo seguiranno man mano. Nicola e Giuseppe di Dona-tantonio, che negli anni Dieci sostituiscono Vito Santo alla testa diogni classifica realistica della ricchezza cittadina, non possono evitaredi assumere un alto profilo politico: Giuseppe, in particolare, è nel sindaco del primo ceto, e poi, dopo la riforma, sarà sindaconel triennio –. Ma tutto questo non li distoglie dal miraggiodella capitale, dove finiscono per trasferirsi dando vita ad un gioco diidentità che meriterebbe di essere analizzato. Nicola è probabilmen-te nei primi decenni dell’Ottocento il mercante più importante diBari, possiede fra gli immobili anche due trappeti ed una saponeriache lo riconducono alla sua identità mercantile, è uno degli ottobaresi compresi nel collegio elettorale dei commercianti di Barlet-ta del ; ma nello stato di popolazione del , che distingue il« mestiere » o « professione » dalla « condizione », non gli viene asse-gnata, come a tutti gli altri negozianti, la stessa « condizione » dellasua « professione », ma quella di « nobile vivente »: esempio chiarodi quel voler « uscire dalla condizione sua » allo scopo di conquistarela « riverenza di tutti » che — vedremo come — a Bari Don VitoDiana insegnerà ad evitare ai mercanti baresi della sua generazione,

. In Archivio del Capitolo Cattedrale, Bari.

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ma che già ora è ben possibile nel contesto napoletano. Qui Nicolariassumerà identità professionale e condizione di negoziante e daràvita, insieme al fratello Giuseppe, ad una delle più importanti casedi negozio della capitale, che rimane in stretto contatto con le tramesocietarie e le occasioni di lucro del mercato oleario barese tramitela procura generale affidata a Giacomo Macario, « negoziante e gen-tiluomo », marito della sorella Anna, ed ancora nel può essereconsiderata di gran lunga la più importante ditta mercantile dellacittà. A fratelli e procugini sopravvive a lungo Giuseppe, il quale,identificato sistematicamente a Bari come « possidente », si risposeràa Napoli con Donna Maria Sanseverino, ma non darà ombra all’il-lustre casato della moglie finendo i suoi giorni nel , nella suacasa di vico Tre Re a Toledo, da « negoziante [. . . ] assai ricco ». Nonavendo avuto figli né Nicola né Giuseppe, il negozio dei Fanelli finiràcon quest’ultimo, in un groviglio di liti giudiziarie sull’eredità fra lavedova, la sorella nubile ottuagenaria che dopo aver contribuito acurare le sue proprietà a Bari lo aveva raggiunto a Napoli, figli generie nuore baresi della sorella Anna e di Giacomo Macario.

La fuoriuscita dal negozio barese, o verso una condizione proprie-taria da vivere nella città stessa, o verso un ambiente di negozio piùprestigioso come quello di Napoli, segue percorsi diversi con radicinella stessa realtà: quella un centro nel quale le pratiche mercantilie le identità professionali sono diventate inadeguate ad esprimere ledinamiche sociali ascensionali che esse stesse stimolano producendoarricchimenti individuali. Così, nonostante il disfarsi delle gerarchieprofessionali rigide costruite sui diritti di accesso ai poteri ed aglionori cetuali, l’esito rischia di essere analogo a quello del negozioseicentesco soffocato dalle logiche della città aristocratizzata: la di-versione dell’investimento mercantile, la perdita per il negozio dellerisorse umane e materiali migliori, la mancata fondazione di dinastieimprenditoriali; in ultima analisi la riconferma del ruolo economi-camente e demograficamente mediocre in cui la città si è da secoliadagiata.

. G. Marini Serra, M. Palomba, G. de Falco, Eccezioni per difetto di azione penale a pro diD. Caterina Fanelli, ed altri accusati di furto a danno dell’eredità di D. Giuseppe Fanelli, Napoli .

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. Storia e semantica di una professione

.. Conseguenze semantiche della incongruenza di status: co-me l’innovazione sociale permise ad alcuni negozianti arric-chiti di restare a Bari

Quella dei Caricola, dei Signorile, dei Fanelli non è l’unica soluzionepossibile del dilemma.

I fuoriusciti dal negozio barese fondano le loro strategie su unalettura per così dire debole del mutamento in atto e di quello pos-sibile. I loro comportamenti sembrano orientati da alcuni elementiimpliciti di analisi del presente, spesso assunti nella storiografia an-che recente, che possono essere delineati nel modo seguente. Letrasformazioni degli idiomi della stratificazione nei decenni a cavallofra Settecento e Ottocento mettono rapidamente capo ad una nuo-va gerarchizzazione dello spazio sociale, relativamente rigida e nondel tutto dissimile da quella settecentesca, in cui le figure legate alnegozio barese, già sfavorite dai rischi crescenti del nuovo mercato,continuano ad occupare un posto assai basso. Il gioco delle sceltedegli attori si svolge in conseguenza dentro una gerarchia socialeche, anche in questa fase di rivolgimenti, sulla scala dei singoli conti-nua ad apparire immodificabile: l’ascesa sociale passa attraverso lefasi canoniche dell’adozione di un gruppo di riferimento collocatopiù in alto, della critica al gruppo di appartenenza, l’elaborazione el’attuazione di strategie per ricollocarsi.

Ma gli stessi eventi permettono anche letture forti, che alcunidegli attori fanno proprie e traducono in atti. La disorganizzazio-ne del mercato per le guerre rivoluzionarie e napoleoniche e poi la“rivoluzione commerciale” del Mediterraneo post–napoleonico mo-dificano il quadro delle opportunità e delle convenienze e spingonoalla definizione di nuove pratiche non necessariamente inchiodatealla materialità ed alle reti cooperative del negozio marinaro sette-centesco. Al contempo la distanza dal lavoro marcata dalla nuovaqualifica di « proprietario » non è un valore indiscusso, e la nuovadelimitazione censitaria dei diritti di accesso al potere introdottadai Francesi libera definitivamente il linguaggio professionale da ge-rarchie interne rigide, costruite in stretto riferimento ad un altrolinguaggio, quello cetuale. Mestieri e professioni acquisiscono ora ungrado inedito di libertà dalla stratificazione sociale comunementericonosciuta, possono perseguire collocazioni prestigiose non piùcercando di farsi includere nella merceologia dignitosa che aprivale porte a poteri ed onori, ma facendo conto sulle proprie risorse

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umane e simboliche, inseguendo l’opinione collettiva, costruendoe ricostruendo ragioni ideali e materiali non tutte istituzionalizza-bili del proprio prestigio. Così le costrizioni del “testo” si fannomeno stringenti ed il gioco delle scelte degli attori può mettere indiscussione le sue stesse regole. La gerarchia delle professioni e lecaratteristiche dei gruppi professionali non sono più, agli occhi deisingoli, dati di un contesto solo marginalmente malleabile, e quindidiventa possibile concepire strategie individuali di ascesa sociale nonpiù come passaggio da un gruppo all’altro, ma come modificazionedella collocazione del proprio gruppo professionale nella scala delprestigio. L’“individualismo metodologico” trova qui verifiche chein altri contesti non avrebbe.

Naturalmente, non si tratta di promuovere il gruppo così com’è,ma di adattarlo ad una tavola di valori che, per quanto in rapida tra-sformazione, non è certo vuota. Nell’ambiente del negozio marinarofra Settecento ed Ottocento un gruppo ristretto di personaggi co-mincia a perseguire status adeguati alla propria ricchezza senza usciredalla propria « condizione », ma cercando di riqualificare pratiche edidentità connesse al negozio. Fra di essi emerge la figura appartata emodesta del nostro Don Vito Diana, come si è visto il più grande dei« piccoli negozianti » dell’età della Restaurazione secondo una visioneelaborata nella generazione successiva alla sua, ma protagonista diuna rivoluzione sociale pacifica e al tempo stesso dirompente perchi ha memoria per sporgersi verso l’ambiente in cui era nato edaveva cominciato a far negozio. « Fu lungo tempo fra noi — scrivenel l’autore della seconda necrologia barese di negoziante do-po quella dedicata da Petroni a Diana — la ricca e numerosa classedei Commercianti, che rozzi nei modi, aspri negli atti, duri nelleparole, poveri di sapere, quanto ricchi di argento, altro non poteanoa lor laude vantare, che integrità di animo e lealtà di costumi. Manon abbiam poi veduto col volger di meno di un secolo questa cittàcangiar sembianze, e dalla piazza di gretti speculatori, come queidi oltremonti per dileggio l’appellavano, levarsi di tratto a posto diflorida gentile e colta Capitale delle Puglie [. . . ]? E a chi in gran partetanto si debbe, se non ai Mercatanti, che ingentilitisi, e conosciuta lafalsità del vieto sistema, vollero i loro figli e dotti e colti, e in lontanecontrade menaronli chi ad appararvi le scienze e le maniere dellavita, chi a nobilitarne i modi colle cognizioni e le pratiche di benatteso viaggiare? E, sia lode alla sua memoria, il Diana primo ne daval’esempio, cui non fu tardo a seguire il Giuseppe Milella, e quanti

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altri erano, e sono oggi cospicui sostenitori del patrio fioritissimocommercio ».

Diana era nato nel da genitori di cui anche Giulio Petronialtro non saprà lodare se non l’« onestà ». Il padre Michele, di fami-glia marinara assai povera, era riuscito a non farsi travolgere dalleperdite subite per un naufragio a Venezia negli anni Sessanta, e, in-trecciando alleanze parentali ed alleanze affaristiche, era riuscitoad acquistare della terra man mano accresciuta con appezzamenticontigui, una casa, e a far negozio in società con un giro d’affaridi qualche migliaio di ducati: una carriera pienamente integrata nelnegozio marinaro, dignitosa ma senza spicco particolare, e menobrillante di quella di alcuni fra i suoi congiunti più stretti. Ma uninsieme di circostanze, che nel racconto di Petroni si intravedonoconfusamente, lo costringono a condurre al negozio Vito, il figlio piùgiovane, lungo una strada particolarmente lunga e tortuosa, assai di-versa da quella usuale dell’apprendistato da mozzo sulle navi olearie.Fra i figli di Michele, Vito era quello destinato a percorrere, secondoil modello di famiglia marinara già visto, la carriera ecclesiastica:viene collocato in seminario ed avviato al sacerdozio con suo pienoconsenso. Ma quando il fratello maggiore, Giuseppe, nei suoi viaggida marinaro trova moglie a Cento di Ferrara e vi stabilisce residenzae negozio, i piani del padre già anziano cambiano. Privo di chi lopossa aiutare in famiglia, egli ora vede avvicinarsi il tempo in cui glisarà indispensabile l’aiuto di Vito per continuare a fan commercionell’ambiente marinaro, e, « a cavargli di mente » il proposito ormaiin lui maturato di diventare sacerdote « e fargli acquistar conoscenzee relazioni necessarie » al negozio, lo manda a Padova a studiare pertre anni lettere e scienze, e poi gli « impone » di « discorrere le piùnobili città commercianti d’Italia ». Tornato in patria, Vito viene fattosposare rapidamente a anni con una donna scelta dai genitori manon di estrazione marinara, gli viene fatto spazio nella casa paterna divia degli Orefici, che comincia così ad ospitare una assai infrequentefamiglia multipla, ed immesso nella pratica dei traffici.

C’è molto che ci sfugge in tutto questo. È comunque evidenteche Vito si trova a vivere l’ambiente del negozio marinaro senza avernavigato e « col petto pieno di non prosuntuosa dottrina »; ossia inuna condizione di relativa disomogeneità rispetto al gruppo; e questogli permette utilizzarne le pratiche ma anche di guardarle da una

. L. Traversa, Brevi cenni sulla vita di Raffaele di Giuseppe Milella [. . . ], Bari , pp. –.

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distanza critica, e lo predispone, ben più di chi giungeva al negoziodopo un apprendistato canonico, a sperimentare nuove soluzioni aiproblemi proposti dai mutamenti del contesto urbano e dalle difficol-tà del mercato. Le prime innovazioni nel negozio del padre Michelein cui si intravede un ruolo decisionale di Vito tendono ad allentare imille nessi cooperativi orizzontali che lo situavano nel suo ambiente:lo scioglimento della società con Onofrio Capriati e di quella conNicola Vito Introna, cognato di Vito ma appartenente alla genera-zione precedente e semianalfabeta; la riduzione della centralità nellaconduzione degli affari della forma contrattuale instabile tipica delnegozio marinaro, la « società particolare di negozio »; lo stringersidei rapporti col negozio del fratello Giuseppe a Cento; l’inserimentonei giochi a vasto raggio della borsa napoletana. E poi i figli di Vitoche entrano man mano nel mondo del lavoro non più prigionieridell’impresa diffusa della parentela marinara, ma collocandosi nel-l’azienda paterna ormai separata dal tessuto cooperativo e parentale,e possono essere perciò molti ed istruiti senza che questo configuriuno spreco di risorse. Man mano che i maschi crescono, la formadi apprendistato che lo stesso Don Vito aveva casualmente avutoviene sistematizzata. I primi studi vengono condotti nel seminario diBari senza che questo alluda in alcun modo all’avvio ad una carrieraecclesiastica; e poi l’allontanamento precoce dalla casa paterna tra-mite il viaggio, inteso non più come esperienza concreta di mare emerci, andirivieni sulle navi inframmezzato dalle soste brevi nei portidi sbocco per collocare carichi propri o altrui, ma come istruzionetecnica, acquisizione di contatti potenzialmente utili, pratica di merci“astratte”. Infine, nel mentre si cercano collocazioni matrimoniali perle figlie femmine con proprietari di provincia, si lavora vigorosamen-te ed in forme più o meno lecite per evitare ai maschi gli obblighimilitari, per collocarli su un mercato matrimoniale esogamico checontribuisca ad interrompere il tradizionale inseguirsi di parentelegeneralizzate ed impresa diffusa, per situarne casa e bottega nellospazio mercantile adriatico in maniera funzionale alla costruzioneed al mantenimento delle linee di traffico che fanno capo alla casamercantile barese. L’esito di tutto questo, nel caso dei Diana, è l’or-ganizzazione di un’impresa a base familiare, costituita da una rete dicorrispondenti legati da parentele di primo grado con il vertice cheresta ben saldo in via degli Orefici. E, al tempo stesso, la costruzionedi una forma di famiglia ben diversa da quella marinara, che nelSettecento aveva intrecciato la forma nucleare con la proiezione ver-

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so la parentela marinara. Quella realizzata dai Diana e rapidamenteimitata dai nuovi negozianti è ora una sorta di famiglia–ceppo chesi costituisce in impresa: almeno uno dei figli si sposa nella casa diorigine, i ruoli economici femminili vengono ridotti, il ruolo paternoesaltato, il perseguimento dell’interesse individuale è moralmentegiustificato dal lavoro probo, dalla mancanza di ostentazione, dall’ob-biettivo di consegnare il patrimonio alla discendenza: tutti temi suiquali le necrologie torneranno in maniera ossessiva.

Una volta compiutamente strutturata secondo il modello deli-neato all’inizio di questo scritto, la casa–impresa Diana vede le suefortune « moltiplicarsi in immenso »; ma il suo successo aveva comin-ciato a delinearsi — in anni, non dimentichiamolo, di crisi pesantedell’olivicoltura e del commercio oleario meridionale — man manoche la strategia di fuoriuscita dal negozio marinaro adottata da DonVito si dispiegava. Assunto a suo nome il patrimonio ed il negoziopaterno, Don Vito è nel uno degli « negozianti d’eccezione »iscritti nel registro delle patenti, nello stesso anno è uno dei be-nestanti scelti a scrutinio segreto dal decurionato per pagare i .ducati pretesi dal Re in conto delle contribuzioni arretrate della città,l’anno seguente è al terzo posto nella lista dei ricchi fra i quali si« ratizza » l’acquisto di venti giorni di grano di cui c’è urgente biso-gno in città; e quando i Fanelli si trasferiscono a Napoli, egli diventaagli occhi di tutti il massimo negoziante della città. La sua visibilitànell’ambiente è esaltata da una precisa strategia di presenza negliapparati pubblici che evita decisamente i ruoli simbolici e prestigiosi,ma tende a controllare l’elaborazione e l’attuazione delle decisioniche pesano sulla vita economica della città.

Tutto questo non può non scatenare processi imitativi nella so-cietà densa del negozio barese, fra cognati, nipoti, cugini e parentimarinari di Don Vito. Tanto più che le sue pratiche nuove indicanola via per sciogliere la secolare contraddizione fra la dignità conferitadalla ricchezza e l’ignobilità della sua fonte, la possibilità di conqui-stare « la riverenza di tutti » senza « uscire dalla condizione » propria,cioè senza dover sterilizzare le ricchezze provenienti dal negozio ininvestimenti immobiliari prestigiosi e sicuri ma assai meno redditizi.Un gruppo di suoi parenti dentro il negozio marinaro comincia adarsi corrispondenti stabili, a praticare la borsa napoletana, a istruirei figli in città prestigiose, ad arricchirsi senza mutare la struttura delpatrimonio, a destinare per contratto le doti in denaro concesse allefiglie non alla conversione in terre e case, come si usava generalmen-

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te qui ed altrove, ma all’investimento nel negozio proprio o altrui perun numero minimo di anni. E, al tempo stesso, essi rimangono nellapropria « condizione » praticando sobriamente le nuove istituzioni,pensandole non come sistema degli onori, come continuano a farein una certa misura i discendenti dei vecchi patrizi, ma come fonte diopportunità non trascurabili. Massicciamente presenti nel decurio-nato, i nuovi negozianti cominciano a diffondersi nella zona grigiadel potere a più diretto contatto con la società: la commissione per larevisione del catasto e la deputazione del borgo in rapida espansioneoltre le mura, le commissioni annonarie e quelle per la rilevazione edeterminazione dei prezzi amministrati, le cariche di « primo eletto »e quelle dei suoi due « aggiunti ». E poi pressoché generalizzata è laloro presenza nelle logge carbonare, che sembrano qui pure funzio-nare anche come centri di decisioni sulla attribuzione di appalti e suquestioni di simile natura non dibattibili in consessi pubblici.

.. Conseguenze semantiche della incongruenza di status: co-me molti negozianti tornarono marinai (o divennero com-mercianti)

Il risultato più immediatamente visibile di tutto questo è lo straordi-nario incremento relativo dei traffici che si intrecciano sui moli, neimagazzini, nelle botteghe di negozio della città. Ma questo sviluppomateriale del negozio produce effetti quantitativi e qualitativi pro-fondamente disomogenei sulle varie figure sociali che vi prendonoparte. La via indicata da Diana è un sentiero assai stretto, e la sele-zione che impone fra i negozianti–marinari è durissima. Non sonomolti coloro che hanno risorse sufficienti ad avviare il processo diformazione del negozio dignitoso; e d’altro canto diventa semprepiù difficile continuare a far negozio nel vecchio modo, non soloper le bizzarrie del mercato della “rivoluzione commerciale”, maanche perché chi riesce a seguire i Diana contribuisce a sua volta amutare il quadro delle convenienze. Il negozio marinaro aveva potutoorganizzarsi, nel Sei–Settecento, in una situazione in cui lo spaziodei traffici concreti era stato lasciato scoperto dal ritrarsi di patrizi edarricchiti nel « negozio di ragione » e nella speculazione; ora il nuovonegozio alto gestisce direttamente merci e navi, con metodi e risorseche aprono occasioni di lucro e consentono profitti inattingibili dainegozianti–marinari imparentati e solidali. Di conseguenza l’ambien-

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te del negozio assume una forma piramidale, con una base che siallarga ed un vertice sempre più acuto. E, al tempo stesso, mutano iprofili sociali della base della piramide oltre del vertice, e si disfano lereti orizzontali tardo–settecentesche, sostituite da reti verticali natu-ralmente assai diverse da quelle seicentesche, in cui tutti hanno spazidi imprenditorialità ma dentro una gerarchia relativamente rigida.

Al i marinai iscritti nei registri del porto di Bari sono :circa tre volte in più rispetto alla metà del Settecento, di controad un aumento della popolazione della città del % all’incirca. Ipescatori fra di essi sono ancora un numero consistente, ma il pro-cesso di concentrazione sulla costa olearia del personale e delleimbarcazioni da pesca a Molfetta, e dei marinai e delle imbarcazionida commercio a Bari, è ormai avviato; e, nel contempo, si va consu-mando la separazione definitiva fra l’ambiente della pesca e quellodella marineria mercantile, stimolato anche dalla nuova normativache lascia di fatto i pescatori analfabeti ed impone che il « padrone »da commercio sia alfabetizzato, e che ci sia fra l’equipaggio uno« scrivano di bordo » a tenere il « giornale della navigazione », asottoscrivere le « polizze di carico », a sbrigare le pratiche di unaormai complessa burocrazia del mare. Il profilo sociale del mari-naio, se si fa astrazione dal contesto del negozio, sembra dunquemigliorato; ma, a guardare il contesto, emerge con nettezza il suodegrado relativo e la riduzione delle sue possibilità di ascesa sociale.La rete dei corrispondenti stabili dei nuovi negozianti sottrae al« padrone » gli spazi decisionali su dove approdare e come ed a chivendere, che avevano fondato la sua strutturale contiguità con lefunzioni propriamente imprenditoriali; mentre la proprietà dellenavi era esclusivo monopolio dei marinai di metà Settecento, fra lasessantina di proprietari individuali e collettivi di navi da commercioche si possono contare alla vigilia dell’Unità i marinai sono una mi-noranza, ed i numerosi contratti di compravendita di imbarcazionisi intrecciano all’accensione o all’estinzione di debiti nei confrontidi negozianti che preferiscono lasciar loro quote di proprietà — ma-gari « un quarto del bottame contenuto nella stiva » di un pielago

— per cointeressarli all’impresa e legarli ad essa per lunghi periodi; icarichi di ritorno continuano ad essere spesso intestati ai « padroni »,ma questi devono sempre più consegnarli a strutture di redistri-buzione stabile fuori dal controllo loro e dei loro soci e congiunti,

. ASB, notaio T. Verzilli, Bari, atto ...

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che crescono con decrescere del ruolo degli istituti tradizionali delcommercio interno, le fiere ed i mercati. Al tempo stesso si defini-scono circuiti specificamente marinari di alleanze matrimoniali, dipadrinaggio e comparaggio, di affarismo povero, estranei a quellidel negozio alto e contigui a quelli di quanti cominciano a chiamarsicol termine di « commerciante », qualifica nuova che appare a Bariper la prima volta in questi anni e rimarrà a lungo semanticamentenon sistemata, e che si riferisce ora ad una serie di ruoli mercantilimarginali e subalterni da svolgersi a terra. Negli elenchi delle im-prese affidabili per il pagamento posticipato dei dazi, redatti a partiredal , gli ultimi posti sono spesso occupati da società instabili framarinai e « commercianti » che ripropongono modelli di impresatardo–settecenteschi; ma la loro capacità di scalare quegli elenchisembra pressoché nulla.

L’affermazione del nuovo negozio coincide dunque col bloccodi quella promozione di gruppo dal mare all’impresa mercantileche aveva segnato gli anni a cavallo fra Settecento e Ottocento, eanche col degrado relativo diffuso di ruoli ed identità del negoziomarinaro. Nel negozio dell’età della Restaurazione, le ascese si fannoindividuali e sporadiche, le discese assai frequenti. Per un GiuseppeMilella di Nicola Vito, che, dopo aver navigato da « padrone » finoa tutti gli anni Venti, riesce insieme ai tre fratelli a costituire unadelle maggiori imprese di negozio ottocentesche della città, sonodecine i percorsi in senso inverso. Prendiamone uno tipico. GiuseppeLaraspata aveva navigato l’Adriatico degli anni a cavallo fra Settecentoed Ottocento commerciando all’ingrosso ed « alla minuta » con socie parenti, cosicché aveva meritato nel registro della Personale del la qualifica di negoziante e poi, essendosi alfabetizzato, quelladi « sensale di dogana »; ma non riesce più a pagare una cambiale di ducati scaduta nel , e nel viene arrestato per debiti. Escedi prigione solo nel , dopo che « si sono interposti varj parentied amici », transigendo col creditore su un debito di ducati ches’impegnano a pagare, oltre allo stesso Giuseppe, il fratello Nicola edil figlio Vitantonio ipotecando beni futuri in assenza di quelli presenti.

. In una lettera del .. l’Intendente propone che si attribuisca « il titolo di com-mercianti » a coloro che non hanno « altro capitale di quello dell’opera che prestano con leloro persone nelle società mercantili » (ASB, Archivio storico del Comune di Bari, III versamento,categoria XI, pacco , fs. « fido a’ negozianti »). Ma l’uso del termine deborda ampiamente daquesta definizione.

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. Storia e semantica di una professione

Nicola, « molto esperto nell’arte pescatoria », continuerà a fare ilcomandante di paranze da pesca non sue; Vitantonio continuerà a na-vigare da marinaio e poi, per anni, da « padrone » della « Madonnadelle Grazie », un pielago di Don Vito Diana passato poi in proprietàdella ditta costituita dai figli alla sua morte, e consegnerà il comandodella nave, ormai sessantenne, al figlio Giuseppe.

Nei frequenti casi di questo tipo l’assenza di congiunti benestantiha probabilmente un peso rilevante nel determinare il definitivoallontanamento dal negozio; ma l’allentarsi delle reti orizzontali fasì che cadute ben più rovinose possano capitare anche a negozianti–marinai stretti congiunti di altri che sono riusciti a diventare negozian-ti di tipo nuovo, ricchi e dignitosi. Nella discendenza di GiovanpietroMilella, la terza generazione, quella che naviga e traffica nei primidecenni dell’Ottocento ed è ormai imparentata, oltre che per consan-guineità, per i mille intrecci delle alleanze matrimoniali, vede unadivaricazione violenta degli itinerari individuali. I figli di Donato diGiovanpietro non solo non riescono ad emanciparsi dal negozio ma-rinaro, ma non riescono ad evitare un degradarsi relativo delle loroidentità professionali reso più acuto dalla contiguità con chi procedein senso opposto. Giovanni, sposatosi nel con la figlia di un Bot-talico bottegaio, è ancora definito marinaio nel , in un momentoin cui i requisiti necessari per definirsi negoziante sono assai modesti.Questo, come si sa, non significa che non faccia negozio, ma gli esitisono disastrosi e le solidarietà non sembrano più funzionare comeuna volta, cosicché egli finisce per uccidersi « col veleno per lo guastoin cui si trovavano i suoi affari commerciali, lasciando la famiglia inuna perfetta desolazione, e mancante di tutt’i bisogni della vita ».

Giuseppe è assai più fortunato del fratello, ma lui pure non riesce astare al passo della riqualificazione dell’impresa mercantile barese. Adifferenza di Giovanni, egli appartiene al folto gruppo dei marinaidiventati negozianti ai primi dell’Ottocento. Intuendo che il negoziomarinaro non regge di fronte al nuovo mercato, investe i suoi ducati nel nuovo grande negozio dei procugini Giuseppe e MicheleMilella e vi presta la sua opera in funzioni subalterne. Ne esce nel, quando, a fronte dei titolari del negozio — Don Giuseppe eDon Lorenzo figlio di Don Michele, negozianti — egli può premettereal proprio nome un signor e attribuirsi la qualifica, che si inserisce

. ASB, notaio G. Milella, Bari, atto ...

. ASB, Deliberazioni decurionali del comune di Bari, ottobre .

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Linguaggi del mercato

nello spazio semantico ormai dilatatosi fra negozianti e marinari,quella di commerciante. Il modesto capitale ed il lavoro di Giuseppehanno dato frutti incerti: egli ha potuto comprarsi una casa nel e gli viene ora liquidato un capitale di . ducati, ma ha anchecontratto debiti pesanti, che accresce acquistando per . ducati,dallo stesso negozio di Don Giuseppe e Don Michele, un grossopielago, l’« Ercole ». Essendo il suo unico figlio adulto, Vincenzo,lui pure « commerciante », egli affida l’« Ercole » al marito di unadelle figlie, il « padrone » Pietro Milella, figlio di un suo zio rimastofino alla morte non più che un « navigante ». Comandata da Pietro,la nave dà buoni frutti anche dopo la morte di Giuseppe, ma nonconsente alla seconda moglie di ripianare i suoi debiti, cosicché, alladivisione dell’eredità di Giuseppe, nel , la metà della nave deveessere venduta ai fratelli Traversa, creditori di . ducati. Neglianni Cinquanta l’« Ercole » non è ancora sfuggito al controllo dellafamiglia, ma la discesa di quest’ultima verso la condizione marinaraè orami completata: al comando della nave è il maggiore dei figli disecondo letto di Giuseppe, e degli altri due maschi uno vi è imbarcatoda « pilota », l’altro da « alunno » di bordo.

Al lato opposto, anche chi riesce a fare negozio dignitoso vivespesso la sua nuova condizione in un clima di precarietà. La minacciadella mossa falsa, dell’esposizione eccessiva su un solo affare cheva a male, dell’indebitamento che si ingigantisce anno per anno, èsempre incombente e difficilmente sanabile nel nuovo ambiente.Don Saverio Introna, ad esempio, uno dei nipoti–coetanei di donVito Diana che cerca di imitarlo, investe grosse somme nell’acquistodi olio fra gli anni Dieci e gli anni Venti ma fallisce rovinosamenteper un debito con i Fanelli napoletani, e Don Vito, marginalmen-te coinvolto, lungi dall’aiutarlo, ipoteca « per sua sicurezza » i benidell’anziana sorella, madre di Don Saverio.

.. Come molti figli di negozianti si fecero dottori senza lascia-re il negozio

Il percorso ascensionale tracciato dai Diana non è, d’altro canto, ildestino manifesto di chi gestisce bene i suoi affari. Non è dettoche il meccanismo delicato della famiglia–impresa, quella circolaritàvirtuosa fra legami familiari, scelte individuali e strategie del negozio,resista sempre alle variabili accidentali ed incontrollabili; né è scontato

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. Storia e semantica di una professione

che, quando la casa viene benedetta da molti figli maschi giunti all’etàadulta, si riesca a consegnare loro la « condizione » di negoziantedignitoso, a fondare dinastie di imprenditori.

L’allontanarsi della famiglia dal mare, dai suoi profili comporta-mentali, dal suo circuito matrimoniale, lo stesso irrinunciabile viag-gio d’istruzione, allargano il ventaglio degli itinerari aperti agli indivi-dui che vi nascono. Non è sempre possibile o opportuno, nonostantela forza della figura paterna, costringere le scelte di ciascuno dentro lalogica della famiglia–azienda. Nella cerchia parentale più immediatadei Milella tornati marinai, Michele e Giuseppe Milella, figli del solito« marinaro di barchette » diventato ai primi dell’Ottocento negozian-te, e mariti di due nipoti di Don Vito, costituiscono una società dinegozio di grande successo, che può contare anche sull’altro fratello,Raffaele, collocato a Venezia come corrispondente fisso. Michele haun solo figlio maschio da avviare al negozio, e tre femmine, di cuidue sposano negozianti non integrabili nel negozio paterno e la terzaun giudice originario di Caserta. Più fortunato sembra Giuseppe,che prima di rimanere precocemente vedovo ha quattro figli maschie due femmine. Ma anche per lui le cose non gireranno al meglio.Delle figlie, la maggiore sposa un Capriati, lui pure negoziante inproprio in una famiglia di negozianti di successo, e l’altra rimanezitella. Il figlio maggiore, Nicola, viene inviato ad istruirsi a Romae vi si laurea in entrambi i diritti; ma il suo concittadino e parenteDon Nicola Diana, figlio di Don Vito, già avviatosi in quella città aduna carriera ecclesiastica destinata ad essere stroncata da una morteprecoce, lo induce a farsi lui pure sacerdote. Nicola Milella vieneassegnato alla segreteria di Stato, assume posizioni filoborbonicheche il padre — come pressoché tutti i negozianti baresi carbonaroe poi coinvolto nel , anche se in posizione assai cauta ed atten-dista — non avrà apprezzato; e, dopo alterne vicende, finisce perscrivere studi sull’agricoltura nei domini della Santa Sede di notevolespessore e penetrazione. Non sembra che Giuseppe abbia avuto daobbiettare alle scelte di questo figlio; ma assoluta è la sua opposi-zione a che anche un altro dei figli, Michele, sottragga energie alnegozio intraprendendo lui pure la carriera ecclesiastica, e si rafforzaquando il fratello Raffaele residente a Venezia, rimasto vedovo conun’unica figlia sposata ad un impiegato dell’Intendenza di Bari, fa nel professione monastica nel convento dei cappuccini di Bassano,ed il fratello maggiore Michele, rimasto invalido l’anno seguenteper un colpo apoplettico, deve farsi sostituire nel negozio dal suo

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unico figlio maschio. L’opposizione di Giuseppe al proposito delfiglio sarà vana: anche Michele finisce per abbracciare, nonostante ilpadre gli rifiuti il consenso, lo stato ecclesiastico dando inizio ad unacarriera prestigiosa e tormentata, intransigentemente condotta sulfronte filoborbonico; e quando nel muore il più giovane dei duefigli che era riuscito ad avviare al negozio, le forze residue dentrola famiglia–azienda diventano assai scarse. Giuseppe continuerà afar negozio con successo insieme all’unico figlio negoziante ed alfiglio del fratello Michele, fino alla morte, avvenuta alla soglia degli anni nel , ma le potenzialità di sviluppo della società avviatanel periodo francese rimarranno in buona parte irrealizzate.

Non sempre l’allontanamento dal negozio che trae occasione estimolo dal viaggio di apprendistato inteso come istruzione generaleè così assoluto materialmente ed ideologicamente. Non sono pochigli ecclesiastici che rimangono in qualche misura all’interno dell’am-biente dei traffici baresi, come quel Don Lorenzo Traversa dotato dalpadre Don Martino di un magazzino e sottano con piscine d’olio edautore della necrologia del cugino Raffaele Milella che esalta il nego-zio ed i suoi valori; o il Don Luigi Diana figlio di Don Vito, che conl’esercizio del credito riesce ad accumulare un patrimonio enorme,valutato alla sua morte, nel , . lire di cui più di metà in benimobili; o il Don Pietro Milella nipote di Giovanpietro, attivissimonegli anni Trenta nella compravendita di quote di imbarcazioni daviaggio e da pesca.

I casi di altri nipoti di Giovanpietro Milella, e poi di alcuni fra iFavia, Introna, Carrassi, Fanelli, Trizio, Diana collaterali, configuranoun’altra via di allontanamento non drastico dal negozio ricco: quelladelle professioni liberali, che esplode improvvisa fra i figli dei priminegozianti dignitosi dell’Ottocento e provoca il non infrequentecoabitare di tre generazioni di cui la prima analfabeta e la terzaaddottorata. Si guardi a questa genealogia familiare che raffiguraun percorso felice dal negozio dei marinai di barchette di primoSettecento alla dignità borghese di secondo Ottocento.

Qui l’assunzione, da parte dei pronipoti dei marinai, delle denomi-nazioni delle professioni si coniuga con la persistenza delle pratichedel negozio. Così uno dei figli di Rosa Milella si addottora a Napoli inmedicina ma sposa nel la figlia di un grosso negoziante, e chiedecinque anni dopo con successo di essere ammesso al fido doganaledal momento che fa « speculazioni tanto solo che di unito al suocero

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negozio ed i suoi valori; o il Don Luigi Diana figlio di Don Vito, che con l’esercizio del credito riesce ad accumulare un patrimonio enorme, valutato alla sua morte, nel 1885, 868.549 lire di cui più di metà in beni mobili; o il Don Pietro Milella nipote di Giovanpietro, attivissimo negli anni Trenta nella compravendita di quote di imbarcazioni da viaggio e da pesca. I casi di altri nipoti di Giovanpietro Milella, e poi di alcuni fra i Favia, Introna, Carrassi, Fanelli, Trizio, Diana collaterali, configurano un’altra via di allontanamento non drastico dal negozio ricco: quella delle professioni liberali, che esplode improvvisa fra i figli dei primi negozianti dignitosi dell’Ottocento e provoca il non infrequente coabitare di tre generazioni di cui la prima analfabeta e la terza addottorata. Si guardi a questa genealogia familiare che raffigura un percorso felice dal negozio dei marinai di barchette di primo Settecento alla dignità borghese di secondo Ottocento.

Giovanpietro Milella (n. 1705) marinaio

Giovanni (n. 1735) marinaio-negoziante

Pietro (n. 1775) Pasqua Maria (n. 1780 Rosa (n. 1782) negoziante = negoziante = negoziante legale Ȯ = Ȯ = negoziante negoziante notaio sacerdote legale dottor fisico negoziante proprietario a Napoli a Napoli legale legale dottor fisico Qui l’assunzione, da parte dei pronipoti dei marinai, delle denominazioni delle professioni si coniuga con la persistenza delle pratiche del negozio. Così uno dei figli di Rosa Milella si addottora a Napoli in medicina ma sposa nel 1834 la figlia di un grosso negoziante, e chiede cinque anni dopo con successo di essere ammesso al fido doganale dal momento che fa «speculazioni tanto solo che di unito al suocero D. Nicola de Cagno»173; e nello studio notarile del figlio di Pasqua Maria, Giuseppe Milella, si organizza gran parte delle transazioni mercantili che coinvolgono i Milella arricchitisi e quelli impoveritisi. Sul ruolo di queste figure dovremo tornare più avanti. Per ora possiamo considerare la loro emergenza come uno dei meccanismi di contenimento del numero dei negozianti di professione al primo passaggio generazionale dopo l’affermarsi del negozio dignitoso: per rimanere all’esempio più volte richiamato in queste pagine, della enorme parentela dei Milella marinari-negozianti dei

173 ASB, Archivio storico del comune di Bari, III versamento, categoria XI, pacco 1, fs «Fido a’ negozianti», lettera dell’Intendente del 23.8.1839 e risposta positiva del Sindaco del 31.8.1839.

D. Nicola de Cagno »; e nello studio notarile del figlio di PasquaMaria, Giuseppe Milella, si organizza gran parte delle transazionimercantili che coinvolgono i Milella arricchitisi e quelli impoveritisi.

Sul ruolo di queste figure dovremo tornare più avanti. Per orapossiamo considerare la loro emergenza come uno dei meccanismidi contenimento del numero dei negozianti di professione al primopassaggio generazionale dopo l’affermarsi del negozio dignitoso: perrimanere all’esempio più volte richiamato in queste pagine, dellaenorme parentela dei Milella marinari–negozianti dei primi dell’Ot-tocento, solo due linee — quella dei figli di Nicolavito e quella diGiuseppe e Michele di Lorenzo — consegnano negozianti importantiall’Italia unita.

Così all’altezza degli anni Quaranta, quando il passaggio genera-zionale si va man mano completando e gli effetti della rivoluzionedei Diana sul volto della città si fanno evidenti, nel mondo pullu-lante di bottegai, marinai, commercianti, vaticali, facchini, « giovanidi bottega », si distingue nettamente un pugno di personaggi chepure hanno gli stessi cognomi degli altri e fra costoro trascorronola propria giornata lavorativa, ma che esibiscono pomposamentel’antica qualifica di negoziante facendola precedere sistematicamen-

. ASB, Archivio storico del comune di Bari, III versamento, categoria XI, pacco , fs « Fido a’negozianti », lettera dell’Intendente del .. e risposta positiva del Sindaco del ...

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te dal Don e rendendola espressiva di stili di vita domestica, livellidi ricchezza, circuiti parentali ormai separati. Li ritroviamo, comerappresentanti di famiglie–aziende o di società in nome collettivo,alla testa degli « stati dei fidi » sulla base dei tre parametri del girod’affari, della solvibilità, della « opinione », per tutti loro « ottima » dicontro a quella « buona » ed in qualche caso « mediocre » attribuitaagli altri: la ditta Don Vito Diana e figli in primo luogo (solvibilità. ducati, giro d’affari . ducati), e poi, a distanza, quelle diGiuseppe Milella fu Nicola Vito e dei suoi fratelli, del figlio baresedi Don Vito, dei fratelli de Tullio fu Nicola, dei fratelli Troccoli, diGiuseppe Milella fu Lorenzo di suo figlio e di suo nipote, di NicolaDonato Capriati, di Vito Sante Carrassi, di Vincenzo Damiani e figli,di Nicola Dellino e compagni, e qualche altro.

Non sembra che il recentissimo incivilimento della pratica delnegozio susciti in loro deferenza nei confronti di altri abitatori dellezone alte dello spettro sociale della città. L’allentarsi della loro endo-gamia di ceto e della riproduzione nei figli del mestiere paterno licolloca man mano al centro di nuove reti parentali fatte, oltre che dialtri negozianti, di « proprietari », di « impiegati », di « dottori ». D’al-tronde molti fra i discendenti di quei negozianti di primo Settecentoche, collocatisi nel sistema cetuale, avevano profondamente disprez-zato il mondo dei negozianti–marinari in cui i negozianti dignitosiottocenteschi erano nati — gli Introna, i Quattrorecchi, i Barucchel-li, i Belindelli — son dovuti scendere a patti con quei negozianti econducono ora vita oscura e mediocre: fra i Barucchelli, ad esempio,alcuni hanno dovuto vendere nel ad un negoziante la casa avitae si sono trasferiti a Gravina, mentre i figli del Don Giuseppe che erastato orgoglioso e contestato appaltatore della gabella del sale del sono ora « impiegati », ed un suo nipote chiede ed ottiene nel di sostituire il nonno defunto quale « gabellota a’ forni »; ed i Belin-delli, che continuano ad intrecciare ossessivamente coi Barucchellialleanze matrimoniali, sono anch’essi « impiegati » o « proprietari »di patrimoni ormai svuotati dalle « dazioni in paga » per debiti nononorati, ancora una volta nei confronti di negozianti.

I patrizi di fine Settecento continuano invece a presentarsi sullascena urbana con profili alti: mantengono una loro endogamia diceto, pratiche successorie nobiliari ed alcuni elementi di una tra-dizionale simbologia dell’identità, ed occupano i ruoli politici piùprestigiosi ed importanti — da quelli cerimoniali o di rappresentanzadella città a Napoli, alla carica di sindaco, di consigliere d’Intendenza,

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di consigliere distrettuale e provinciale. Ma anche da questo lato èdifficile trovare elementi per disegnare gerarchie sociali nette. Il con-fronto fra i livelli di ricchezza è ormai sfavorevole ai nobili e semprepiù spesso essi devono ricorrere ad un massiccio ed a volte rovinosoindebitamento nei confronti dei negozianti per reggere i simboli e lepratiche che fondano la loro identità e la loro distanza da quelli. E delresto simboli e pratiche prestigiose devono spesso essere sacrificatealla necessità. Cessato col fallimento del « negozio dei quattro nobi-li » ogni tentativo di imprenditoria mercantile nobiliare, personaggicome i Casamassima, i Sagarriga Visconti, i Didelli, i Lamberti, iTresca Carducci devono cercare proventi in iniziative marginali comela società per la gestione della linea di « omnibus » fra Bari e Trani,o scendere a patti con gli stessi negozianti per aggiudicarsi la caricadi cassiere comunale o qualche appalto pubblico, con esiti spessonegativi che portano alla richiesta di « escomputi », a nuovi patteggia-menti, a ulteriori indebitamenti. La stessa delega ai gruppi nobiliariad occupare le istituzioni che hanno competenza sulla conformazio-ne del territorio provinciale e regionale viene concessa nel quadrodella prepotente scomposizione delle tradizionali coerenze territo-riali e della loro ricomposizione disordinata attorno a Bari come polomercantile, che la nuova impresa di negozio contribuisce in manieradecisiva a produrre: molte delle grandi infrastrutture decise, avviateo realizzate in questa fase non fanno che riconoscere, sanzionare edulteriormente rafforzare processi in atto che rimandano alla iniziativadi personaggi come Don Vito Diana.

.. La « città del negozio »: la storia urbana come idioma dellanuova stratificazione

Ma tutti questi tratti della società alta barese, e molti altri che oc-correrebbe riferire, rimarrebbero in qualche misura autoreferenziali,non componibili in una immagine della gerarchia sociale urbana, senon letti attraverso idiomi della stratificazione adottati dagli attori perpensare se stessi ed orientare le proprie scelte.

Su questo piano, come si è già detto, le nuove istituzioni appaionoassai più reticenti di quelle di antico regime, attorno alle quali, inparticolare ai diritti di accesso alle risorse del governo locale ed alconnesso sistema degli onori, questa partita si era sostanzialmentegiocata fra Cinquecento e Settecento. È però possibile trovarne trac-

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ce nei verbali dei consessi politici e soprattutto negli scritti occasionalied in quelli più impegnati degli addottorati di origine marinara, deifunzionari del nuovo Stato concentratisi a Bari in quanto capoluogodella provincia, degli insegnanti del liceo locale, dei notai, dei preticolti: documenti che suggeriscono i contenuti del tessuto di informa-zioni e valori trasmessi nelle prediche, nelle lezioni scolastiche, neisalotti e nelle piazze.

Su un punto sembra crearsi una convergenza significativa: i let-terati della Bari primo–ottocentesca pensano sia proprio compitoprecipuo definire l’identità del luogo che abitano, attribuire senso allospazio urbano per fondare la comunanza dell’abitare su una comu-nanza del sentire collettivo, cogliere le vocazioni naturali e descriverelo stratificarsi del passato della città; insomma costruire una sua storia.Ma questa diventa possibile quando se ne trova il bandolo, un’idea–guida: quella che per lungo tempo non si era riusciti ad identificare. Ilbilancio di secoli di produzione intellettuale barese appare da questolato del tutto fallimentare: i « dottori » avevano profuso impegno neldisquisire su privilegi ed identità cetuali che traevano legittimità eprestigio da appartenenze e sanzioni sovralocali, piuttosto che riflet-tere sul loro luogo. La città — afferma un erudito di metà Settecento— ha « tali memorie, che ben possono destarci l’idea della grandezza,che ne’ trasandati tempi la rese adorna », ma essa non ha « avuto finoad ora chi degnamente ne avesse rischiarata l’istoria ». Né sarebbevenuto a capo di questo compito il maggiore intellettuale barese delsecondo Settecento, quell’Emmanuele Mola nipote di negoziantegià ricordato, immerso in una congerie di ricerche che restituisconoframmenti di passato non componibili in un’immagine complessiva.

Il fallimento della promozione storiografica della città era proba-bilmente nelle cose: nella difficoltà di costruire l’identità di un luogoin cui, come si è visto, non riuscivano a comporsi forme dell’econo-mia, affidata a microimprenditori analfabeti, e forme della culturae della politica. Il negozio forniva le risorse fondamentali della cittàma non i suoi valori di riferimento. Le cose cambiano quando il ne-gozio dignitoso ottocentesco comincia a produrre, da un lato, valoried identità, dall’altro una sociologia capace di sostenerli, fatta sia dipotenziali produttori che di potenziali fruitori di beni culturali. Ilnegozio marinaro aveva potuto trovare, nell’area delle professioni,

. G.D. Rogadei, Per li creditori della città di Bari contro della Università di Modugno dadecidersi nella Regia Camera, Napoli, , non paginato.

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solo interlocutori sporadici ed emarginati dal loro stesso gruppo diprovenienza, come Andrea Miolli e Angelantonio de Pascale, pro-tagonisti degli scontri sulla struttura di governo dell’università difine Settecento; viceversa il nuovo negozio, istruito ed a sua voltaproduttore diretto di letterati, fornisce a questi ultimi non solo oc-casioni di lavoro, ma anche ruolo sociale, una organicità ai processiin atto smarritasi con la crisi della società dei ceti, il sentimento dipartecipare a loro modo ad un processo di rinnovamento che sta sulfilo del progresso civile e morale.

Il motivo della città « centrale di sito, e centrale di commercio »,sul quale era stata condotta nel periodo francese la rivendicazione e ladifesa del suo nuovo ruolo di capoluogo della provincia e la richiestainsistita di istituzioni ed investimenti pubblici, comincia ad essereriscattato dalla contingenza e ad essere presentato, in circuiti a cavallofra società politica e società civile, come l’elemento di identità checonnota il luogo. È lì la ragione del suo essere città « floridissima,popolosa, procacciante », « piena di uomini spigliati e ingegnosi[. . . ] doviziosissima di capitali » e destinata ad una « immensa prospe-rità ». D’altronde l’assunzione di una dimensione più propriamenteurbana proietta Bari sul territorio circostanze, ne fa un nodo di fun-zioni territoriali benefiche. Attraverso la sua capacità di collocare suidifficili mercati della “rivoluzione commerciale” della Restaurazionela produzione del suo entroterra, la prosperità si riversa dalla città neicampi, rende l’agricoltura « abbondevolissima di frutti di straordina-ria grandezza » e non suscettibile di ulteriormente « immegliare »,fa della provincia intera un esempio di « incivilimento ». È il motivodi Bari « città del negozio » che dalle sedute della Società Economicarimbalza in quelle del Decurionato, dai necrologi ai discorsi delleautorità, facendosi senso comune e fornendo finalmente il bandoloper la ricostruzione del suo passato.

Ora la storia di Bari si può scrivere. Il Decurionato la sovven-ziona e ne affida il compito nel al notaio Giuseppe D’Addosio,più volte schierato in consiglio comunale a favore dei negoziantied appassionato raccoglitore di memorie patrie; e poi, non avendo

. L. Attolini, Memoria per la città di Bari metropoli e primate di Puglia, Napoli , p. .

. Dal discorso di Carlo D’Addosio in Atti della Società Economica della provincia di Terra diBari [. . . ], Bari , p.

. G. Chiaia ivi, , p. .

. ASB, Deliberazioni decurionali del comune di Bari, ...

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D’Addosio portato a termine l’impresa, a Giulio Petroni, il professoredi lettere al locale liceo discendente di negozianti ed estensore dellanecrologia di Don Vito Diana, collega e parente tramite l’eruditosettecentesco Emmanuele Mola del figlio di Giuseppe D’Addosio,Carlo, altro intellettuale entusiasta della prosperità commerciale dellacittà. La prima vera storia di Bari può così vedere la luce, raccoltaattorno ad un mito di grandezza originaria ben più forte di quelliche avevano circolato nella erudizione e nella agiografia dei secoliprecedenti: l’idea di una originaria e naturale prosperità commercialedella città, smarritasi nei tempi bui ma che ora si va riguadagnandograzie al negozio incivilito.

La costruzione dell’identità del luogo si intreccia alla costruzionedi un’immagine della gerarchia fra i gruppi sociali fondata su giu-dizi di pubblica utilità, di conformità alla linea di progresso su cuile sue vocazioni spingono la città. Il commercio si riscatta da suoruolo di anello della catena sociale per diventare « spirito motoredell’ingegno umano, dell’industria, delle arti e sorgente inesauribi-le di ricchezza di ogni civil comunanza »; e chi lo promuove « inparagone dell’agricoltore e dell’artefice [. . . ] è collocato in una condi-zione più alta e civile; talché stando egli di mezzo tra il produttoree il consumatore le sue attinenze lo legano a tutti gli ordini della so-cietà ». D’altro canto, essendo questa una gerarchia fondata non suprivilegi o ricchezze immeritate e godute nell’ozio, ma sulla naturadei luoghi e sull’utilità sociale, finisce per trovare adesioni ampie,per fondarsi su valori diffusi in ogni angolo della società; per essereinsomma aderente all’« indole » dei Baresi. È questo il tema sul qualesi chiude la storia di Petroni. Il commercio è, nella pagine di Petroni,la dimensione psicologica, il terreno dei rapporti interpersonali diogni qualità di abitanti della città, costituisce il clima dentro cui siamalgamano vecchi residenti e nuovi arrivati, l’alto ed il basso dellospazio sociale. I Baresi hanno in generale « pronto giudizio e scaltroaccorgimento » che applicano di rado alle scienze ed alle lettere, tra-scinati dalle lusinghe dei traffici. « L’ingegno speculativo si dimostra[. . . ] fin ne’ fanciulli da trivio, che, raggranellate poche monete, sidanno incontanente a comprare e rivendere cosette », li accompagnada adulti e continua a possederli se e quando riesce loro di arricchirsi.L’itinerario tipico non è più dall’impresa alla proprietà, ma, se mai,

. Carlo D’Addosio, Atti cit., , p. .

. Giovanni Chiaia, in Atti cit., , p. .

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. Storia e semantica di una professione

quello inverso: « nelle ragioni della mercatura volentieri si mette chiprima vivea di sole sue entrate, e fors’anche chi di nobil vita eravago ». Fra coloro che « non hanno avita fortuna, molti in brevese la sanno formare da sé »; gli altri vivono con fierezza e lealtà laloro condizione di subalterni del mondo del commercio, lavoranoindefessamente, borbottano molto ma « ad ogni nuova istituzioneagevolmente si piegano ». In generale « trovi [. . . ] un certo fare diconfidente uguaglianza fra tutte le classi, un poco curarsi di titoli sen-z’autorità; effetto questo di vita commerciale: il che può dispiacere aiteneri delle prerogative di nobiltà, agli altri non dispiace ».

Non è questo il solo idioma della stratificazione proposto dagli in-tellettuali della città. Negli stessi luoghi che risuonano dell’ottimismocommercialista, Francesco Santoliquido, carbonaro « effervescentissi-mo », professore di medicina nello stesso liceo in cui insegna Petronie segretario perpetuo della Società Economica, per anni, denun-cia instancabilmente i nuovi rapporti città–campagna che si vannodefinendo con l’emergere della dimensione territoriale dell’urbanitàbarese. La prosperità urbana, lungi dal riversarsi nei campi, rompevalori ed equilibri millenari senza apprestarne di nuovi, produce facili erapidi arricchimenti di pochi a costo dell’instabilità e della miseria deimolti; « seduce » i contadini, con le « prospettive lusinghevoli dell’agio »e col « falso calcolo di migliorare la propria condizione », inducendolia disertare le campagne per vivere di espedienti in città: « l’odierno co-siddetto incivilimento lungi dall’immeliar le sorti della provincia, le hafatte indietreggiare ». Così i negozianti scendono dalla « condizionepiù alta e civile » in cui li avevano collocati gli entusiasti del nuovocommercio; essi diventano « gli speculatori, gli uomini del dolce farniente, avvezzi a traricchire coi negozi della Borsa e con le usure: gen-te avversa all’agricoltura, ignorante e superba, la quale si consideravacome sacrificata dai debitori coll’esser diventata possidente, coll’averdovuto prendere suo malincuore in cambio del denaro mutuato le più

. G. Petroni, Della storia di Bari dagli antichi tempi sino all’anno libri tre, II, Napoli ,p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. G. De Ninno, Dei gran maestri e dignitari delle “vendite” dei carbonari della provincia di Terradi Bari nel –, Bari , p..

. F. Santoliquido in Atti cit., , pp. –.

. Ivi, , p. .

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Linguaggi del mercato

belle possessioni di Puglia » sottraendole agli antichi proprietari che,all’ombra dei « residui ordinamenti feudali », avevano un « operaresuperiore al semplice calcolo di commercio ». La nuova gerarchiasociale si fonda dunque sul denaro ma non sui valori, sui traffici manon su uno sviluppo equilibrato della produzione agricola. La città sisviluppa, ma in forme ostili alla campagna di cui funge da polo.

Sono temi diffusissimi nei centri provinciali, che segnalano i limitidell’« incivilimento » prodotto dai negozianti baresi. Essi propongo-no però un’ideologia proprietaria dotata di una scarsissima capacitàegemonica in un tessuto sociale urbano sempre meno contadino esempre più occupato da marinai e vaticali, facchini e commercianti,funari e calefati, bottegai e faccendieri: quell’area ormai subalternanel meccanismo del negozio, ma in possesso di frammenti di im-prenditorialità affaristica nobilitati nella prospettiva “commercialista”ed al contrario disprezzati dagli “agriculturisti”.

Nel l’Intendente chiede al direttore del Ministero dell’Inter-no a Napoli il permesso di sostituire, come segretario perpetuo dellaSocietà Economica, Francesco Santoliquido, il quale, « se in età mensenile nulla operò di buono, molto meno è adatto a farlo oggi cheè travagliato dagli anni », ed invoca la testimonianza in merito del-l’avversario più deciso del vecchio professore, il Carlo D’Addosio giàpresidente della stessa Società Economica ed ora a Napoli in qualitàdi segretario della Commissione Generale degli Ospizi. Il risultato,nonostante la presa di posizione del presidente dell’Istituto d’Incorag-giamento napoletano a favore di Santoliquido, è la sua sostituzionecon Giulio Petroni. Nel frattempo il figlio di Santoliquido, l’avvocatoGiuseppe, è lui pure conquistato alla causa “commercialista”: è diven-tato segretario della nuova Camera Consultiva di Commercio, nellaquale siedono gli avversari più in vista dell’« incivilimento » arcadicoche il padre aveva disperatamente tentato di difendere.

Qualche decennio dopo aver raggiunto la massima diffusione ed ilminimo prestigio della sua lunga storia, la professione di negozianteidentifica il vertice ristretto e prestigioso dello spazio sociale urbano.

. C. De Cesare, Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre province diPuglia, Napoli , p. .

. G. Romanazzi, Note e considerazioni sull’affrancazione de’ canoni e sul libero coltivamento delTavoliere di Puglia, Napoli , p. .

. ASB, Agricoltura industria commercio, b. , fs. « Segretario perpetuo », letteradell’...

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.. Nella città nuova: come il negozio barese si fece « grande »

Questa configurazione delle rappresentazioni dello spazio urbano edella semantica sociale non è destinata a resistere a lungo. Mentre laBari del negozio si va dispiegando, sono già all’opera dinamiche che,dall’interno e dall’esterno, agiscono per produrne il rapido disfaci-mento. E, questa volta, travolgono definitivamente le permanenzedentro le quali la nostra vicenda aveva potuto svolgersi, cioè la collo-cazione della città nel suo spazio in funzione di « scolatoio » di oliodai campi verso il mare.

A queste questioni, sulle quali si sofferma il capitolo seguente diquesto libro, dedico qui un cenno rapido. Il trappeto introdotto daRavanas alla fine degli anni Venti, che permette la produzione di olida tavola, risolve l’eterno problema dell’olio della Puglia barese, resoacutissimo dalla “rivoluzione commerciale”: quello di trovare unanicchia del mercato internazionale relativamente stabile e protetta daconcorrenti e succedanei. Con le opportunità che questa innovazionetecnica offre, i negozianti dignitosi imparano presto a fare i conti: ilnuovo olio permette loro di conquistare nuovi mercati, di spuntareprezzi alti e profitti più elevati. D’altronde la sua introduzione portacon sé innovazioni del contesto che non sono più controllabili nelquadro delle procedure, delle competenze, delle risorse dell’azienda–famiglia barese. Il circuito oleario tende immediatamente a debor-dare dalla poche acque dell’Adriatico in cui sempre si era contenuto,ed esplora per la prima volta le vie di terra diventate praticabili per lacrescita del valore unitario della merce e per il miglioramento dellarete stradale. La forza contrattuale dei produttori cresce, ed i piùgrandi ed i più intraprendenti cominciano ad affrontare il mercatosenza intermediazioni. Al tempo stesso si spargono per la provincia,a ridosso dei luoghi di produzione, i « commessi » di grandi casefrancesi e napoletane che installano e gestiscono i nuovi trappetie ne ricavano grandi quantità di merce da affidare ad una rete di« corrispondenti » ben più larga di quelle parentali baresi.

In questo rivolgimento Bari riesce a non perdere la sua centralità;anzi, essa finisce per accrescerla ulteriormente, mutando la qualitàdel proprio inserimento nel territorio. A partire in particolare daglianni Quaranta, definitivamente vinte le resistenze all’innovazione,le grandi case cominciano a lasciare ai proprietari provinciali la fasedella trasformazione e tendono a concentrarsi nel capoluogo. Ma,a questo punto, la forma dello spazio attorno alla città non è più

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l’imbuto tracciato dai beni concreti che materialmente vi si spostano,dalle merci che arrivano e partono dai suoi moli e magazzini. Il di-segno del territorio si allarga e si complica: a tracciarlo sono anchei flussi direzionali ed informativi che incidono sulla produzione edistribuzione di beni collocati lontano e immessi in percorsi che nonattraversano la città stessa. Parallelamente muta lo spazio sociale den-tro la città. Gli elenchi dei fidi cominciano a popolarsi di nomi esoticicon giri d’affari imponenti, che portano disordine nel gruppo ristret-to dei figli e nipoti fortunati dei negozianti–marinai settecenteschi, econtribuiscono a complicare gli altri lati del panorama sociale. Catenemigratorie, processi imitativi e opportunità di un mercato in espansio-ne richiamano iniziative manifatturiere anche al di là di quelle voltealla trasformazione del prodotto agricolo, irrobustiscono il settoredella distribuzione al minuto ed all’ingrosso, fanno di Bari una « fierapermanente » che finisce per svuotare ed infine distruggere la grandeantica fiera di San Nicola. Le reti verticali che fanno capo al gruppoattorno ai Diana cominciano a subire lacerazioni e ad occupare unaparte via via minore della produzione e dello scambio. Sensali regi edagenti di cambio, in larga parte negozianti falliti della stessa cerchiaparentale di quelli di successo, si scontrano coi facchini sul controllodell’intermediazione in piazza; la bottega, l’ambulantato a breve emedio raggio, la distribuzione nelle fiere e nei mercati tendono adautonomizzarsi dal circuito dell’olio; e poi, con l’Unità, la ferroviae la crisi della navigazione a vela provocata dal vapore colpisconoduramente il vasto settore marittimo, scompaginano l’alleanza franegozianti, « padroni » e marinai su cui poggiavano in buona parte gliequilibri complessivi della « città del negozio », propongono problemiacuti di marginalità e controllo sociale.

In questo quadro il negozio viene posto di fronte ai problemidella sua istituzionalizzazione. L’intensità e la forma dello sviluppoeconomico della città dà un peso, che nel primo Ottocento non pos-sedevano, alle rivendicazioni di istituti di autogoverno dell’economia.Il « piccolo negozio » aveva vissuto la sua breve fase di indiscussaegemonia sulla compagine urbana mantenendo, come si è detto,un profilo politico basso, costruendo nessi sociali non ufficializzati,strutturandosi al suo stesso interno in una gerarchia non dichiaratama evidente. I primi stati dei fidi degli anni Trenta erano documentiriservati costruiti sulla base di indicazioni fornite privatamente alsindaco da Don Vito Diana; negli anni Quaranta essi cominciano adessere affissi alla porta del comune e ad essere firmati, oltre che dal

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Sindaco, da due negozianti, fra i quali non può mancare il figlio diDon Vito rimasto a Bari, Don Giuseppe. E, a partire dalla fine deglianni Quaranta, la « benevolenza » regia nei confronti dei protagonistidi uno sviluppo urbano che sembra in grado di sanare le lacerazionidel concede alla città la Camera Consultiva di Commercio, ilTribunale di Commercio, la sede locale del Banco di Napoli, la Borsamerci: istituti di incisività e successo assai vario, ma tutti subito conse-gnati dallo Stato borbonico al gruppo più riconoscibile, più insediato,più affidabile: quello dei « piccoli negozianti », con Don GiuseppeDiana in prima fila. Parallelamente, se Don Giuseppe continua, co-me aveva fatto il padre, a rifiutare decisamente le cariche pubblichepiù prestigiose, il gruppo nel suo insieme non può più evitare unaassunzione di responsabilità anche su questo piano: un personaggiocome Antonio Carrassi, che « una naturale avversione nelli affari dipubblica economia » aveva indotto a declinare ogni incarico pubbli-co, finisce per accettare la carica di Sindaco e la tiene dal al firmando gli stati dei fidi due volte, come rappresentante della città ecome espressione del gruppo dei negozianti. Dopo di lui sarà sindacofra il ed il , fra il ed il ed ancora nel GiuseppeCapriati, figlio di Nicola Donato, che segna con la sua linea e colpersonale collocato nei posti di comando, rimasti sostanzialmenteimmutati prima e dopo l’Unità, il momento di più massiccia e piùdiretta occupazione delle istituzioni pubbliche da parte degli uominidel negozio nel corso dell’intera storia della professione.

Come spesso capita, l’istituzionalizzazione del gruppo dei ne-gozianti e della sua collocazione alla testa della gerarchia sociale epolitica della città non sanzionano e non rafforzano la configurazionepreesistente, ma giungono quando il cambiamento è in atto e finisco-no per intensificare le tensioni e contraddizioni da esso prodotto. ABari istituti di autogoverno economico e poteri pubblici offrono tribu-ne e linguaggi alla diversità ed al disordine che comincia a diffondersifra gli interessi in campo. Dentro ed intorno ad essi si accendono,già prima dell’Unità, scontri fra individui e sottogruppi interni edesterni all’ambiente dei « piccoli negozianti », che l’inserimento nelquadro politico dell’Italia unita fa esplodere. I « piccoli negozianti »,ex carbonari assai accomodanti col potere borbonico ed insediati neisuoi gangli, si scoprono liberali, si risituano alla testa dei nuovi istitutilocali come esponenti della Destra e di lì perseguono con determina-

. ASB, Deliberazioni decurionali del comune di Bari, ...

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zione la promozione di una ulteriore proiezione mercantile sul maredella città. Ma questa non è più una linea unanimistica, riesce sempremeno ad unificare i gruppi di comando dell’economia man manoche « le mutate condizioni del commercio, le ferrovie, l’allargamentodella classe degli speculatori e trafficanti, rendono di uguale impor-tanza il commercio per via di terra e quello per mezzo del mare, eciò sia per l’interno del Regno, che per l’esterno »: infrastruttureda sempre invocate — in primo luogo il nuovo grande porto giàavviato prima dell’Unità — cominciano ad apparire « opere colossali »pensate per inseguire l’obbiettivo megalomane di « voler [. . . ] di Baricreare d’improvviso una città di primo ordine ».

La cosa è del resto poco sorprendente, dal momento che il de-cisionismo a favore del commercio per mare comincia a smarrire isuoi referenti nell’ambito del gruppo stesso che lo aveva promosso.La figura del « piccolo negoziante », con il suo profilo totalizzantenei confronti dell’economia e le sue reti verticali che tendono adinglobare parti amplissime della società urbana, non regge di fronteal mutamento, va perdendo il controllo del commercio oleario che,diventato ormai un settore specializzato di una economia complessa,è negli anni Settanta largamente nelle mani di grosse ditte francesi etedesche, e deve riconvertirsi per non essere del tutto emarginata.

L’itinerario più efficace fra i tanti percorsi, che più si fonda supratiche e competenze già presenti e conserva in una qualche misurala posizione totalizzante nei confronti dell’economia che era statadel negoziante dell’età della Restaurazione, è quello che porta il mer-cante a farsi intermediario finanziario, banchiere non specializzatointeressato alle occasioni di lucro prodotte dalla pubblica amministra-zione, alla partecipazione dispersa alle società specializzate; e, in par-ticolare, alla trasformazione produttiva travolgente delle campagneinserite nel mercato internazionale e private sempre più di secolariammortizzatori produttivi e sociali. Per coloro fra i figli dei « piccolinegozianti » che percorrono questa strada, la famiglia–azienda e lesue reti verticali diventano inutilizzabili e vengono sostituite da retiorizzontali estese nella direzione di altri operatori economici. Lacommistione fra affari e politica si fa intensa, la trasversalità e la lotta

. Camera di Commercio ed Arti di Bari, Relazione della Commissione incaricata dello studiodel progetto preliminare del codice di commercio, Bari , p. .

. Cit. in E. Di Ciommo, Bari –. Evoluzione del territorio e sviluppo urbanistico,Milano , p. .

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per fazioni sostituiscono il decisionismo filocommerciale. Il climadella Sinistra storica sembra aderire efficacemente a questa forma diespansione economica non più fondata sul negozio oleario né conse-gnata all’industria, e conduce rapidamente alla fine la breve fase dioccupazione del potere locale da parte dei negozianti.

.. Un apologo delle tre generazioni: come il nipote di un ma-rinaio, figlio e fratello di negozianti « traricchiti », divennebanchiere marchese e senatore, ma finì i suoi giorni fra lagalera e la miseria

L’atteggiamento diffuso nella nuova Bari nei confronti del negozioconsiderato tradizionale, proiettato su una cronologia indefinita mariferito in realtà alla breve vicenda del mondo di Don Vito Diana, èprofondamente ambiguo, tipico di una età dell’incertezza: un atteg-giamento di sufficienza ma al tempo stesso di nostalgia nei confrontidi immagini mitiche di organicità perdute, dei reciprocità travoltedal trionfo del freddo calcolo contrattuale, del bilanciarsi di subal-ternità ed autonomia che avrebbe coagulato il corpo sociale attornoalle virtù austere dei capi delle famiglie–aziende capaci di suscitaredeferenza in ogni ceto.

Man mano che i figli di Don Vito muoiono — Don Pietro eDon Michele a Trieste nel e nel , Don Giuseppe a Bari nel — le necrologie continuano a preferire, fra le qualifiche concui si erano fregiati negli ultimi anni di vita (gentiluomo, banchiere,proprietario), quella originaria di negoziante, che consente meglio dicaratterizzarli come rappresentanti residui di un mondo di antichevirtù. « Laggiù alla strada dei mercanti — afferma davanti alla baradi Giuseppe Diana un personaggio tipico della Bari nuova, AngeloSaverio Positano —

ove cinquant’anni fa brulicava il commercio di Bari [. . . ] noi lo vedevamoin un modesto studio senza apparati o pretese uguali alla sua alta posizionecommerciale, calmo, sorridente, tutto dedito al suo lavoro [. . . ]. Era latrattazione di affari considerevoli, di milioni; ma egli non se ne commoveva[. . . ]. Le tradizioni del padre suo — il benemerito Vito Diana — che eranostate un tipo pel vecchio commercio fra noi, egli le riassunse e ne feceil suo ideale, il suo dovere. Ed oggi (. . . ) ci sia grato ricordare: com’eglicircoscritto nei soli mezzi del tardo movimento commerciale di quell’epoca,cioè deposito e consegna dei prodotti delle nostre Puglie, abbia saputo

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trovare in quell’angusto sistema una larga fonte di ricchezze [. . . ]. Ed allorai padri nostri, i reduci dalla lunga vita del mare, vivendo di lavoro e dibuonafede [. . . ] trasformavano il lavoro e la buonafede in fiducia piena [. . . ]nel modesto studio di Giuseppe Diana [. . . ]. E codesto era quel mondo,meschino, se lo si guarda attraverso agli splendori del nuovo ordine di cose,ma che innalzava piramidi di onestà e di ricchezze! Sì o Signori, piramidid’onestà e di buona fede: per tutta la lunga vita di Giuseppe Diana, intanto movimento di ori e di argenti, e quando la parola nel linguaggiocommerciale di quell’epoca equivaleva ad obbligo sacrosanto, non un soloprocedimento giudiziario, a sua iniziativa.

Un personaggio cosiffatto, sottolinea un altro oratore, non poténon rimanere « fuori dalle cittadine discordie ». « Quando ancorail rappresentare degnamente una classe, era premio dovuto dallapubblica coscienza agli ottimati, Giuseppe Diana fu il vero e legittimorappresentante del commercio barese. Ora, forse, non è più comeuna volta: ora che la rappresentanza legale del commercio è fidata aicapricci o alle libidini nascoste nel cavo di un’urna elettorale ».

Chi meglio rappresenta gli « splendori del nuovo ordine di cose »,o, secondo rappresentazioni meno ottimiste presentate esse pure sullabara di Don Giuseppe, l’affarismo che convive coi « capricci » e le« libidini nascoste nel cavo di un’urna elettorale », è il fratello minoredello stesso Don Giuseppe, Don Giovanni: un tipo per i comportamen-ti della nuova società alta quanto il nonno lo era stato per il poveronegozio settecentesco dei marinai ed il padre per quello dignitosoma « piccolo » dell’età della Restaurazione. Più giovane di vent’annidi Don Giuseppe, egli ne aveva sposato nel una delle due figlie —un caso non infrequente delle politiche matrimoniali dell’Ottocentoborghese europeo, volte a tenere il patrimonio in un ambito familiareristretto — ed era rimasto nell’azienda–famiglia esportatrice di olioin una posizione defilata ma non certo passiva. Interpretando e pro-muovendo i tempi nuovi, egli preferiva impegnarsi in affari a cavallofra dimensione pubblica e mondo dell’impresa, come l’appalto dellaricevitoria delle imposte provinciali, ed indirizzava in generale versoinvestimenti finanziari le grandi risorse della famiglia man mano cheil suocero–fratello procedeva nel suo « dileguarsi a gradi regolato dallasua previdenza », e gli lasciava le leve del comando. La banca dalui fondata nel , che finanzia massicciamente la travolgente ed

. In morte del Cav. Giuseppe Diana, Bari , pp. –.

. Ivi, p. .

. “La Gazzetta di Bari”, ...

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effimera espansione viticola delle campagne pugliesi sotto l’impulsodella domanda francese di vini da taglio, col « togliere settimanalmenteal Banco di Napoli — secondo la rappresentazione di uno fra i suoimolti nemici — ingenti somme al % e nel reimpiegarle al , congrande discapito di questa città e provincia »; i magazzini generalidi prestito su deposito; le partecipazioni azionarie diffuse; e poi la suaabilità nel controllare la vita politica locale manovrando fra Destra eSinistra, l’elezione a senatore ed il « manto di marchese » acquistatocon denaro per « coprire le sue spalle plebee »: tutto questo fa diGiovanni Diana il personaggio centrale della Bari degli anni Settanta eOttanta, capace di suscitare odi e consensi in egual misura. Il grandiosofunerale di Giuseppe, onorato dalle società operaie, dalla stampa, daogni settore economico e da un imponente schieramento di autoritàche marciano accanto alla bara, e la sontuosa pubblicazione in memo-ria, costituiscono, più che una celebrazione del vecchio negozio, unatto di omaggio a Giovanni, che aveva saputo riproporre, in formeradicalmente diverse da quelle del padre e del fratello, una figura ingrado di simbolizzare le potenzialità e le debolezze del nuovo spaziourbano e delle sue relazioni col territorio pugliese.

La terribile crisi agraria dei tardi anni Ottanta, determinata dalblocco delle esportazioni di vino da taglio sul mercato francese epreannunziata dagli agriculturisti presenti anche nell’ambiente ur-bano, sconvolge questo mondo mettendo sotto gli occhi di tutti lecontraddizioni della grande trasformazione barese dell’Ottocentobreve: gli intrecci inestricabili con un’agricoltura supinamente conse-gnata a mercati incontrollabili da banchieri accecati dai loro guadagnispeculativi immediati, la dissoluzione di antichi ammortizzatori eco-nomici e sociali, i limiti dello sviluppo manifatturiero, la perdurantepovertà delle funzioni di organizzazione direzionale del territorio,il bluff di una espansione urbanistica incentrata sul decoro, come seBari fosse una tranquilla Residenzstadt in lenta crescita demograficaed economica, invece che una realtà in tumultuosa trasformazione. Ifallimenti a catena ed i susseguenti processi civili e penali cancellanodall’orizzonte urbano la terza generazione del negozio barese. E,insieme ad essa, mettono fine alla storia secolare dei nostri lemmi.

Le sorti del nuovo personaggio–faro della città, ultimo rappre-sentante di una dinastia di innovatori sociali e di figure simboliche,

. “La Nuova Gazzetta”, .., cit. in Di Ciommo, Bari cit., p. .

. “Spartaco”, ...

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diventano paradigmatiche, come dello « splendore », anche della cata-strofe urbana. Il banchiere, senatore e marchese Giovanni Diana deveassaporare il carcere e muore dimenticato nel . Le dimensioniminuscole del necrologio a stampa di Giovanni, redatto da un di-scendente diretto di quei Milella che, nel mutare dei tempi, avevanopreferito dirottarsi verso le professioni, paragonate all’imponentepubblicazione in morte del fratello Giuseppe, possono in qualchemodo misurare il mutamento intervenuto in vent’anni di storia dellacittà e dei suoi ceti dirigenti.

.. La fine del negozio e la sua eredità: come la città non diven-ne mafiosa ma solo levantina

Come sempre in queste fasi di accelerazione improvvisa del mu-tamento, la questione sul tappeto diventa la selezione dei soggettiche devono governare il mutamento stesso e cercare una nuova nor-malizzazione. Da questo punto di vista, la semantica e la prassi delnegozio, per secoli ambito privilegiato di inventiva sociale, avevanoormai da offrire materiali scarsi e inadeguati. « Per me sta che unmale assai vecchio della nostra provincia è l’abitudine invalsa neiproprietari di volerla fare insieme da negozianti e da esportatori »,scrive un operatore del settore, lamentandosi del più evidente ele-mento di permanenza secolare del negozio, che aveva resistito almutare delle pratiche mercantili e dell’identità dei mercanti. « Percarità; ad ognuno il suo mestiere. [. . . ] Il lavoro di esportazione èuno dei rami più delicati del nostro commercio, perché si estendelargamente sull’universo ». Una volta scomposto il commercio in« rami », ciascuno dotato di una propria denominazione e incapacedi fondare di per sé un immaginario urbano e di caratterizzare l’e-conomia della città, Bari non può più essere pensata come la « cittàdel negozio ». Parallelamente, i lemmi negozio e negoziante, rimastispaesati nel vocabolario della comunicazione diffusa, acquisisconoun inedito grado di libertà, e vagano alla ricerca di una prassi e di unprofilo sociale a cui aggrapparsi.

La soluzione semantica che, anche sotto la spinta all’unificazionelinguistica prodotta dall’Unità, rapidamente prevale nei due decenni acavallo della crisi agraria è quella che attribuisce la qualifica di nego-

. E. Fizzarotti, Credito e movimento commerciale, Bari s.d. (), p. .

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ziante ai bottegai: un « ramo » certo ben presente nella prassi e nellasimbologia secolare del negozio, ma che, rimasto solo detentore dellemma, ne degrada la carica simbolica ed onorifica facendola scendereverso il livello basso del negozio dei marinai settecenteschi. Ma nonsi tratta di un degrado non contrastato. Nella sua nuova accezione, illemma va ad incontrare altri elementi della lingua delle professioniriferibili a frammenti della prassi e dell’identità del glorioso negozioottocentesco: a profili sociali che, perso il proprio centro di gravita-zione costituito pur sempre dall’affarismo mercantile, cercano unasistemazione, nuova e quanto più possibile dignitosa, nell’immaginariourbano e nelle classificazioni sociali sconvolte dalla crisi.

La prospettiva in cui si situa questa operazione di ricomposizionee di riclassificazione di frantumi di negozio non è priva di ambizioni.Negli anni Novanta dell’Ottocento sembra prendere corpo un ten-tativo di collocare in una posizione preminente della scena urbanaquella « piccola borghesia » della distribuzione mercantile al minuto,dei « piccoli impieghi » e delle « magre rendite » che si era andataformando al margine dei traffici ma si era situata nel cuore dellediscordie amministrative e nei luoghi di formazione dell’opinionediffusa. I successi del negozio avevano al tempo stesso generato que-sti gruppi e alimentato le loro frustrazioni ed il loro risentimento inparticolare nei confronti delle poche dinastie mercantili giunte allaterza generazione, e delle loro capacità di non perdere il controllo sul-le risorse materiali e simboliche della città nel mutare dei tempi. Lacrisi drammatica che travolge questo pugno di famiglie si ripercuotepesantemente sull’intera società urbana, ma apre al tempo stessopossibilità di accesso alle risorse del potere locale che appaiono allaportata anche di soggetti di per sé incapaci di costruire un’idea eduna prassi alternativa di città.

Per costoro si tratta di un’occasione imperdibile. Organi di stampa,associazioni ed organizzazioni politiche variamente connesse alla« piccola borghesia » cercano di sfruttarla mettendo in piedi un’opera-zione di grande momento, che mette in relazione stretta riti e prassigiudiziaria con riti e prassi della pubblica opinione. Il cuore di questaoperazione è l’attacco frontale alla robusta costruzione ideologicadella « città del negozio », fondamento di una identità urbana ricalcatasull’identità dell’odiato gruppo dei negozianti. Seppellendone gli

. S. Fiorese, Introduzione a La Terra di Bari sotto l’aspetto storico, economico e naturale, vol.I, Trani , p. XXXV.

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uomini e le memorie nell’ignominia, si cerca di promuovere unacatarsi che proietti finalmente in posizioni di protagonisti della scenaurbana uomini liberi dall’ingombro del passato. L’apparato semanticoe concettuale adoperato per forzare questo passaggio riprende, da unlato, quello degli agriculturisti che avevano gettato sguardi sinistri sulprepotente sviluppo mercantile della città, dall’altro quello elaboratonei decenni precedenti, nel quadro più vasto dell’Italia unita, intornoal nesso fra arretratezza meridionale e criminalità organizzata. Nelleaule dei processi civili e penali che, con la crisi ed i fallimenti a cate-na, coinvolgono tutti gli esponenti di spicco della terza generazionedel negozio barese, e nelle piazze che li seguono con un interessespasmodico, i crimini dei negozianti vengono analizzati in particolarenelle loro connessioni, « ambientali » se non dirette, con una presunta« malavita organizzata », alla ricerca di una declinazione barese, cen-trata sulla consorteria chiusa del negozio, della mafia siciliana e dellacamorra napoletana.

Si tratta di una fase pericolosissima della storia della città, avvertitacome tale soprattutto dai vertici di un’economia che in quegli anniterribili viene giudicata nei tribunali invece che sui mercati vicini elontani, ma riesce a tenere in qualche modo il filo della sua storiaed a proiettarlo nel futuro. La reazione del milieu imprenditorialeè decisa, ed intreccia la polemica violentissima contro la « piccolaborghesia » che prospera sulle disgrazie della società, alla rivendica-zione orgogliosa della sanità morale secolare delle proprie dinastie edell’affarismo che caratterizzerebbe ogni angolo e livello del popolobarese. L’episodio più clamoroso ed emblematico di questo scontro,che attende ancora una ricostruzione a tutto tondo, è il processonedetto « della mala vita ». Nel piccoli delinquenti, in gran partedi giovane età e nullafacenti, vengono arrestati ed accusati, in unprocesso altamente scenografico che assorbe per mesi l’attenzioneeccitata della città intera, di appartenere ad una associazione crimino-sa in vario modo connessa all’economia urbana. Due fra gli avvocatipiù illustri di Bari, di diretta discendenza da famiglie di negozianti,difendono strenuamente gli arrestati esposti al pubblico in una gran-de gabbia di ferro fatta costruire appositamente. Non riescono adevitare a molti di loro condanne pesanti, ma dimostrano l’assenzadel « nesso di criminalità ».

. Ma cfr. L. Capasso, Il « processone » alla malavita, in “Bari economica”, , n. .

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. Storia e semantica di una professione

La sentenza che dà loro ragione farà epoca. Nell’immaginariocollettivo, l’accostamento di Bari a Palermo non passa: la mafia ba-rese, secondo la parola giuridica che finisce per diventare anche laparola della piazza, non esiste. Non è dunque in questa chiave chepuò essere letta la storia della città, le drammatiche vicende recentidella sua economia, le sue prospettive. Le pratiche affaristiche, lapropensione ad eludere i vincoli normativi che avevano caratterizza-to il successo economico del commercio barese non sono certo ingrado di scongiurare le crisi, e possono a volte tradursi in azioni cri-minose in vario modo connesse alle crisi stesse; ma si tratta di azionisingole, prive di « nessi di criminalità ». L’ethos affaristico urbano varicollocato fuori dal campo di pertinenza sia del giudizio etico chedel giudizio penale, e dentro il campo, di per sé elastico, delle scelteimprenditoriali e delle interrelazioni personali socialmente lecite inun ambiente di millenaria mercantilizzazione. Su quelle pratiche ementalità, che dall’ambiente del negozio si erano riversate sull’interacompagine sociale e si erano solidificate in una mentalità collettivaassai radicata e diffusa, si può ancora costruire.

Per definirle, se si vuole, si può attingere al repertorio dell’orien-talismo europeo, adattando al caso, con intonazioni più etnografichee meno eurocentriche, la categoria di levantinismo.

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Capitolo IV

Le intermittenze dell’onore mercantile

Narrazioni giuridiche e narrazioni diffuse intorno al “fallimento”di Pierre Ravanas (–)

.. Fra il tribunale e la piazza: le allegazioni a stampa

La storia dei concreti processi di costruzione delle narrazioni presentinegli spazi pubblici e del loro ruolo sociale è, come si sa, in buonaparte da scrivere. Una fra le questioni che mi sembra da tener presen-te a questo proposito è il vario livello di segmentazione delle sferecostitutive dell’“opinione pubblica”, dal lato delle configurazioni so-ciali ed istituzionali. L’episodio qui narrato riguarda in particolare laproduzione discorsiva sulla figura del buon negoziante dell’apparatogiudiziario di una provincia dell’Ottocento borbonico del Regnomeridionale, profondamente ristrutturato dalle riforme del decenniofrancese, e le sue interazioni con altre sfere al tempo stesso separatee contigue. Fra la documentazione adoperata, ho guardato da vicinoquella a stampa, chiedendomi per quale ragione essa è stata stampata;in particolare le allegazioni giuridiche, che costituiscono una sorta diletteratura “grigia” abbondantissima in età moderna, a quanto parein declino a partire dai decenni a cavallo fra Sette e Ottocento, chealimenta per secoli l’industria tipografica locale ma è assai spessomal conservata e mal classificata negli archivi e nelle biblioteche,mescolata a necrologi, opuscoli cerimoniali e celebrativi, antiquariaed erudizione locale.

In tutti questi casi, e nelle allegazioni giuridiche più che mai,occorrerebbe tenersi a distanza dal concetto vago di “pubblicazio-ne”, che evoca la presenza di una “opinione pubblica” fuori dellastoria. L’azione di mettere a stampa materiali da usare in giudizio

. Cfr. H. Leuwers, Defence in writing. The end of the printed legal brief (France, –)?,in “Quaderni storici”, , n. , pp. –. Questa tendenza sembra confermata, anche nelcaso del Mezzogiorno d’Italia, dalle indagini nelle biblioteche meridionali da me condotte.

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dipende essenzialmente da una valutazione del livello di permea-bilità dei riti giudiziari alla influenze di soggetti e poteri esterni, edello scarto nella capacità di giungere ai destinatari potenziali cheintercorre fra manoscritto e stampato. Nel caso presentato in questosaggio, soggetti collettivi e soggetti individuali interagiscono e con-fliggono costruendo argomentazioni adoperate in sfere istituzionalie sociali diverse con vario successo, e ricorrendo alla stampa attraver-so un processo decisionale non banale in qualche caso ricostruibile.È anche lungo percorsi minuti di questo genere che le narrazionicollettive presenti in ambiti sociali determinati in tempi determinatisi costruiscono, funzionano, si esauriscono.

.. Virtù private, pubbliche virtù: la prosperità prodotta da unuomo solo

Nel corso degli anni Trenta dell’Ottocento la Puglia olivicola bareseesce da un periodo di crisi profonda costruendo una narrazione dif-fusa ben definita, che ha lasciato tracce documentarie eloquenti nellacorrispondenza di soggetti appartenenti ai gruppi dominanti provin-ciali, negli atti del potere amministrativo, nella pubblicistica. Essa sicompone, da un lato, di un giudizio entusiastico delle trasformazioniin atto, che andrebbero producendo una « incivilita, doviziosa, ferti-lissima Puglia »; dall’altro di una precisa ricostruzione eziologica diquelle stesse trasformazioni. I meriti dell’incivilimento in corso ven-gono attribuiti alle innovazioni tecniche e organizzative introdotteda un solo imprenditore, per giunta straniero: il provenzale PierreRavanas, giunto nel Regno di Napoli a metà degli anni Venti per poiistallarsi in Terra di Bari con i suoi trappeti ed i suoi commerci.

Il titanismo imprenditoriale di Ravanas si fa evidente, agli occhidei suoi contemporanei, principalmente perché sconvolge, con effettibenefici per tutti, radicate gerarchie economiche locali; in particolareil controllo monopolistico sulla produzione esercitato dai « piccolinegozianti » baresi. L’economia di Terra di Bari travolta dalle inno-vazioni di Ravanas poggiava su un copione recitato per secoli: laproduzione, lungo una striscia costiera profonda qualche decina dichilometri, di olio soprattutto, e poi mandorle ed altre « saccarie »,veniva rivenduta nei porti dell’alto Adriatico in cambio di effetti mo-

. F. Durelli, Del banco istituito in Bari, s.a.i., p. .

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netari o di altre merci — tessuti, ferramenta, coloniali, cristalleria,legname — imbarcate nelle stesse navi olearie sulle rotte discendentied immesse nei circuiti delle fiere, dei mercati, dei punti di venditaa posto fisso della provincia. L’olio commercializzato, prodotto nor-malmente in microfondi contadini ed in trappeti rudimentali, era dicattiva qualità e basso prezzo, e la sua collocazione mercantile eraresa incerta dalla concorrenza di altri produttori mediterranei. Dopoaver navigato fino al primo Seicento lungo rotte dominate dalle navi edai capitali veneziani, esso era finito, con l’emarginazione dell’Adria-tico dai grandi traffici, nelle mani di marinai–negozianti analfabetiche supplivano alla mancanza di mezzi con le risorse informative esolidaristiche di vaste alleanze parentali, e che si avventuravano, supiccole imbarcazioni e con vario successo, lungo le coste dell’Adriati-co settentrionale prima di aver ricevuto ordini. Era una collocazionesul crinale fra lecito e illecito, fra negozio e contrabbando, che uti-lizzava e alimentava le difficoltà di autofinanziamento dell’aziendaolivicola: la subordinava con anticipazioni creditizie sostenute daicapitali napoletani e veneti in cambio della derrata futura, e scaricavasu di essa una parte rilevante dei costi dell’incertezza.

Fra Sette e Ottocento, su questo tessuto produttivo e mercanti-le la crisi si era abbattuta con particolare forza. L’ostruzione deglisbocchi causata dalle guerre finisce quando la Restaurazione ripristinal’agibilità dei mari. D’altro canto il ripetersi delle cattive annate deter-minato anche dall’andamento climatico negativo di questi decenni,il moltiplicarsi dei concorrenti nel quadro della “rivoluzione com-merciale” ed il progressivo inaridirsi delle principali fonti di domandadell’olio d’oliva (l’illuminazione delle città, con l’introduzione delgas, e la fabbricazione del sapone, che comincia ad utilizzare l’olio disemi) esasperano l’incertezza tradizionale del mercato oleario, collo-cano i prezzi su un trend discendente, comprimono ulteriormentei redditi dell’azienda contadina. In seguito al raccolto disastroso del–, che induce il governo a proibire l’esportazione di olio, iprezzi schizzano verso l’alto, ma poi, caduto il divieto, essi tornanoa situarsi su un livello di gran lunga inferiore a quelli di secondoSettecento, nonostante il prodotto immesso sul mercato rimangarelativamente scarso. Gli effetti di questo intreccio di crisi produttiva

. Cfr. E. Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno Mille,Torino . Sulla produzione e il mercato olivicolo della Puglia centrale cfr. L. Palumbo,Prezzi e salari in Terra di Bari (–), Bari , in particolare pp. –.

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e crisi commerciale si ripercuotono sul tono complessivo della vitaeconomica, e in antichi centri olivicoli si levano accenti di autenticadisperazione.

In realtà la crisi non era rimasta del tutto priva di risposte. Questenon riguardavano la produzione olearia, ma la commercializzazionedi un prodotto che restava di qualità bassa. In alcuni porti si erano an-date definendo forme più organizzate di impresa mercantile, capacidi praticare questo mercato difficile in modi più evoluti ma anche dimantenere un forte radicamento locale e margini consistenti di auto-nomia rispetto alle grandi iniziative mercantili napoletane ed estere.In particolare a Bari, nell’ambito delle parentele settecentesche deimarinai–negozianti emerge un gruppo di famiglie che lacera i rap-porti orizzontali in cui era immersa la pratica della mercanzia, separale funzioni del trasporto per mare da quelle commerciali, costruiscereti di corrispondenti piazzati nei porti di sbocco e un rapporto conla Borsa napoletana. In questo modo diventa loro possibile coglierele occasioni che si aprono improvvisamente in un mercato stanco,per collocare una derrata come l’olio comune che, da sempre desti-nato al commercio a lunga distanza e risultato di impianti agricolinon convertibili se non con gravi perdite, non può trovare sbocchialternativi consistenti nell’autoconsumo e nel mercato locale. L’am-biente del negozio si gerarchizza: un vertice ristretto di negoziantidignitosi e ricchi realizza rapporti asimmetrici con una base largadi commissionari, sensali, usurai, intermediari, padroni di barche,marinai, facchini; e, al tempo stesso, gerarchizza il territorio. Barisi arricchisce di risorse e popolazione a spese di settori di quellarete di agrotowns che da secoli segna il paesaggio dell’insediamentodella Puglia centro–settentrionale, e alimenta le sue funzioni urbaneconcentrando dentro di sé una forma di profitto mercantile che è, altempo stesso, condizione indispensabile alla sopravvivenza dell’olivi-coltura in questa fase difficile, e sottrazione di reddito ai produttoriagricoli.

È una configurazione conflittuale e irrisolta, nella quale, non acaso, non emergono memorie condivise, immagini coinvolgenti delterritorio, una narrazione collettiva egemone. Lo stesso capoluogodeve poggiare i riferimenti al suo passato su un’unica storia della città:quella risalente di due secoli di Beatillo, che non può in alcun modosupportare i progetti ed i conflitti presenti sulla scena della provincia.

. A. Beatillo, Historia di Bari principal città della Puglia, Napoli

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Pierre Ravanas dispiega la sua iniziativa in questo ambiente tesoe complesso, segnato da inerzie secolari ma anche da potenzialitàinespresse. Il suo obbiettivo è cercare profitti trasformando, tramitel’introduzione in regime di monopolio di trappeti « alla francese »,la produzione olivicola che gli riuscisse di acquisire in olio comme-stibile, capace come tale di sfuggire alla trappola dei bassi prezzi edegli sbocchi incerti in cui si era cacciato il tradizionale « olio fetido »barese. Sui tempi ed i modi della carriera meridionale di Ravanas misono soffermato in altra sede. Qui insisto su un punto cruciale: ilnesso strettissimo fra il suo agire e la produzione discorsiva sui risul-tati delle sue azioni che lo stesso Ravanas alimenta. Non si tratta di unelemento estrinseco e per così dire ornamentale della sua attività, madi un aspetto necessario ed essenziale della sua strategia d’impresa.« Homme à projets par excellence », come lo definirà suo fratello,Pierre per arricchirsi « sans usure, sans fraude, sans contrebande »,vuole « s’écarter de la voie battue et créer une nouvelle branche decommerce ». D’altro canto, egli non ha intenzione di confrontarsicon il mercato contando sui soli margini di competitività che la suaimpresa riuscisse a conquistare. I capitali della società costituita conil fratello devono essere messi a repentaglio secondo la formula del« laissez–nous faire et protégez–nous beaucoup »: la riduzione pervia istituzionale dell’incertezza sugli esiti dell’investimento è con-siderata strumento essenziale del successo imprenditoriale. Di qui,continue richieste di privilegi, esenzioni, donativi — dalla esclusivasulle macchine per la produzione di oli commestibili alle agevolazio-ni tariffarie e fiscali, ai crediti agevolati erogati da istituzioni bancariesotto il controllo pubblico, all’acquisizione a prezzi di favore degli

. A. Carrino, B. Salvemini, Trasferimento tecnologico e innovazione sociale: Pierre Ravanas el’olio del Mezzogiorno d’Italia fra Sette e Ottocento, in « Quaderni storici », , n. , pp. –.

. Copia della lettera di Jean–Baptiste a Pierre del aprile in possesso di BernardRavanas, Tolone. L’archivio di Jean–Baptiste, che non è stato possibile vedere, è conservatopresso i suoi eredi nello Château di Malespine nella campagna di Sénas, dipartimento delleBouches–du–Rhône. Viceversa, abbiamo consultato le copie di numerosi documenti messecia disposizione da Bernard Ravanas, che citiamo come APR. Ringraziamo i cugini Bernard eLouis Ravanas per la loro straordinaria gentilezza e disponibilità, e per le numerose indicazioniforniteci.

. ASN, Ministero degli Interni, II inventario, b. , P. Ravanas, Précis des motifs qui m’ontamené dans le Royaume, , p.

. Cfr. J.–P. Hirsch et Ph. Minard, Laissez–nous faire et protégez–nous beaucoup : pour unehistoire des pratiques institutionnelles dans l’industrie française, XVIIIe–XIXe siècles, in La Franceest–elle douée pour l’industrie ?, a cura di L. Bergeron e P. Bourdelais, Parigi , pp. –.

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edifici industriali — che egli rivolge alle autorità centrali e locali delRegno, giustificandole con la costruzione di un’immagine che con-nette il suo arricchimento privato con la pubblica felicità, il vantaggioindividuale con quello sociale.

A rendere possibile l’operazione è certo la dotazione di capitaleculturale che lo distingue nettamente dai « piccoli negozianti » locali,evidente nella sua corrispondenza con il fratello minore rimasto adAix–en–Provence e nei suoi stessi scritti: la tradizionale « culturadei negozianti », fatta di formazione specifica, esperienze dirette eviaggi di istruzione, vi si intreccia con quella classica e generalista,che aveva accompagnato e facilitato la piena integrazione della fa-miglia Ravanas, anche sul piano delle reti parentali, con un mondonotabiliare di pubblici funzionari e giuristi provenzali. Sul piano deicontenuti, l’immagine poggia, da un lato, sulla drammatizzazionedell’innovazione tecnologica del frantoio da lui proposto — unasorta di “invenzione di invenzione” intorno a macchine e proce-dimenti nella sostanza ben conosciuti; dall’altra sull’uso insistentedel lemma « honnêteté » — una qualità che la famiglia d’origineavrebbe trasmesso in eredità a lui ed al suo intraprendere anchequando questo deve misurarsi con un ambiente quale quello barese,descritto come un intreccio compatto di ignoranza crassa, meschiniinteressi, malafede. Contro ignoranza ed interessi combatterebbeun individuo isolato, armato di un self–interest illuminato dal saperee moderato dall’ansia filantropica, la quale, sul piano dei rappor-ti economici, si traduce in una facilità e deformalizzazione delloscambio, nel trionfo di forme contrattuali in cui la fiducia recipro-ca prevale sulla minaccia del ricorso alla giustizia. Per quel cheriguarda infine i modi di circolazione di questa immagine, Ravanasè ben lontano dall’adoperare il mémoire a stampa da far circolarenella repubblica delle lettere e fra i “filosofi di campagna”, come, adesempio, nel caso di Domenico Grimaldi, che nel tardo Settecentoaveva cercato di diffondere nella Calabria impoverita dal terremotodel macchine simili per la produzione di olio di qualità. La suavuole essere una filantropia indiretta, che non ha da vergognarsidell’interesse privato ben inteso, e che riversa benefici sulla societànon consegnandole immediatamente e immeritatamente la chiavedel benessere, ma premiando chi riesce a innovare con sovraprofittidestinati solo in un secondo tempo a produrre progresso generale.A differenza degli scritti pubblicati da Grimaldi, volti ad indurre l’imi-tazione dei nuovi frantoi, quelli di Ravanas percorrono manoscritti

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le vie traverse ed oscure della amministrazione, perché quest’ultimaimpedisca l’imitazione stessa delle nuove macchine. Ravanas inten-de costruire la sua immagine di eroe della innovazione beneficanon di fronte alla “pubblica opinione”, ma in rapporto a soggetti epoteri ben definiti, in vista di vantaggi puntuali contabilizzabili nelsuo calcolo d’impresa.

Questa strategia di acquisizione di vantaggi concorrenziali pervia istituzionale ha un successo modesto: i privilegi concessigli sonoscarsi, e, soprattutto, non gli riesce di controllare in regime di mono-polio il processo di trasformazione delle olive in olio commestibile.D’altro canto l’immagine si sé che egli stesso, con incerti risultati, vacostruendo dentro i meandri amministrativi si riversa, nel giro di po-chi anni, al di fuori degli spazi ufficiali, investe l’opinione diffusa. E’un processo che non è mosso da una strategia comunicativa esplicita;esso è piuttosto uno dei risultati del travolgente processo imitativo,del tutto imprevisto dallo stesso Ravanas, che nel giro di alcuni annidiffonde il suo modo di far impresa olearia in segmenti significatividell’ambiente economico provinciale.

Il trappeto di Ravanas indica un modo per risolvere un problemadi lungo periodo dell’olio della Puglia barese, diventato acutissi-mo nei decenni a cavallo fra Sette e Ottocento: quello di trovareuna nicchia del mercato internazionale relativamente protetta daconcorrenti e succedanei. Le conseguenze di questa stabilizzazionerelativa degli sbocchi, attraverso l’innalzamento della qualità delprodotto e la sua collocazione in un circuito diverso, diventanoben presto percepibili nella cerchia di quanti possono osservaredirettamente l’impresa Ravanas: il prezzo del suo olio molito “allafrancese” supera il “bon prix” settecentesco e fra questo ed i prez-zi degli altri oli meridionali si apre una forbice evidente. D’altrocanto il negozio di Ravanas sperimenta e propone novità essen-ziali in un punto delicatissimo dell’economia pugliese: il rapportoproduzione–commercializzazione. Non potendo di fatto contaresul monopolio della sua innovazione tecnica, egli cerca vantaggisui suoi concorrenti facendosi attivamente incontro ai produttoriinvece di attenderli, come fanno i « piccoli negozianti » locali, nelle« botteghe di negozio » e nei magazzini dei centri portuali, quan-do, disperati per le scadenze contrattuali, non hanno più poterenei confronti dei mercanti. Egli cerca di acquisire materia primalegandosi ai produttori non solo con ampie concessioni di credito

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« alla voce », ma anche offrendo loro la « manifatturazione gratisdegli olii, a condizione che i proprietari diano a lui gli oli a prezzodi piazza colla perdita del nocciolo, che rimane a pro’ dello stabili-mento, e di tre pignatelli di olio per ciascuna salma ». Si inseriscein questa strategia di avvicinamento del mercante al produttore lascelta assai onerosa e rischiosa, anche agli occhi del fratello–socio,di distribuire trappeti in giro per la Puglia: essa non solo gli con-sente di frantumare il rischio connesso alle vicende del raccoltoe di avere un impianto a ridosso di zone in cui la produzione, adandamento biennale, non è cattiva, ma gli permette anche di offrireai produttori sbocchi vicini e controllabili, per raggiungere i quali icosti di trasporto, di sorveglianza e di intermediazione si riduconoin maniera significativa.

Il più agevole accesso al mercato del loro prodotto principale,paradossalmente, ridimensiona la necessità degli agricoltori che con-trattano con Ravanas di frequentare ossessivamente il mercato stessoa caccia di redditi monetari per far fronte agli obblighi contrattuali:un aspetto dell’economia pugliese che colpisce l’imprenditore fran-cese, familiare con modelli di società agricola segnati da un ruolosignificativo dell’autoconsumo. « J’ai procuré au pauvre propriétairecomme au riche — può affermare orgogliosamente Ravanas davantiall’amministrazione borbonica — la facilité de réaliser son huile, lavendre et avec le produit cultiver son champ, le semer, payer ses im-positions et au mois de juin suivant recueillir sur son propre champ leblé qu’il achetait ordinairement pour la provision de sa famille ». Difatto, gruppi di piccoli agricoltori cominciano a trovare chi moliscele proprie olive appena raccolte e acquista il loro olio in cambio dimoneta con cui pagare fitti e imposte. Essi possono così evitare dicontrarre prestiti a tassi usurai sulla garanzia delle olive depositatenei « camini », e di considerare il sequestro dei propri beni ad operadei pubblici ufficiali per mancato pagamento delle imposte comeun mezzo normale per dilazionarlo o negoziarne una riduzione.

. Una tipica obbligazione alla consegna di olio in cambio di una anticipazione da partedi Ravanas è quella sottoscritta da un grande proprietario bitontino, il Cav. Domenico deIldaris, il marzo : APdG, /–.

. Relazione sul trappeto istallato a Giovinazzo da Ravanas cit. in R. De Stefano, Il contri-buto di Pietro Ravanas all’agricoltura meridionale dell’Ottocento, in Atti del convegno nazionale distudi sul rilancio dell’agricoltura italiana nel III centenario della nascita di Sallustio Bandini, Siena, pp. –.

. Ravanas, Précis, p.

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D’altronde, alcuni produttori più grossi e intraprendenti trovanooccasioni per farsi protagonisti, e non più solo rifornitori, dei circuitimercantili. Con in mano una merce di valore unitario relativamentealto rispetto al peso, essi possono inviare piccole partite per via diterra, rispondendo direttamente ad una domanda interna tradizio-nalmente trascurata, e conquistano un potere contrattuale maggiorenei confronti dei mercanti per mare, compresi gli stessi Francesi.E, soprattutto, possono affrontare il mercato in forme per così direcordiali, fiduciarie, che tengono separati gli spazi dell’economia daglispazi della giustizia. Il ricorso all’esproprio giudiziario ed in gene-rale alla giustizia, assolutamente consueto dell’attività dei « piccolinegozianti », è presentato come uno dei tratti odiosi di un mondo dalquale sembra ormai possibile emanciparsi.

Ravanas, come si è detto, non ha modo di porre freno ai pro-cessi imitativi dei suoi modi di trasformare e commercializzareprodotti agricoli. La sua strategia monopolistica fallisce mentre lasua impresa acquista rinomanza e adepti, con risultati sull’econo-mia provinciale che finiscono per riversarsi positivamente anchesui bilanci della « Ravanas et cie ». Le piazze si popolano di nomiesotici che attivano catene migratorie e nuove opportunità, richia-mano iniziative manifatturiere che fuoriescono dall’ambito dellatrasformazione dei prodotti agricoli, allargano i consumi, irrobusti-scono la distribuzione al minuto e all’ingrosso fino a mettere in crisile tradizionali istituzioni della distribuzione, le fiere ed i mercatisettimanali. La forma stessa del territorio ne risente. La gerarchiz-zazione dell’età della Restaurazione provocata dal concentrarsi aBari di risorse in diminuzione per il tramite della intermediazionemercantile, cede il passo ad egemonie spaziali meno violente. Lacrisi dei centri vicini non è più la condizione dello sviluppo delcapoluogo: Bari può crescere concentrando soprattutto funzioniterziarie e direzionali e cominciare ad assumere connotazioni piùspecificamente urbane. Nel contempo emerge una gerarchizzazio-ne che emargina le aree che persistono nei metodi e nei mercatitradizionali e premia quelle dell’olivicoltura trasformata. Qui lamercantilizzazione non costituisce più una intercapedine opaca traprezzi e agricoltura, ma promuove una inedita elasticità della pro-duzione rispetto ai prezzi: l’oliveto esce dalle aree costiere in cuida secoli era rimasto insediato per espandersi verso la costa setten-trionale e l’interno. L’« emancipazione » promossa da Ravanas, allaquale del resto più insistentemente egli stesso si riferisce, non è

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dunque quella nei confronti della « servitù forestiera », ma dellaservitù locale, e coincide con il ridimensionamento del controllosull’azienda agricola da parte di quella intermediazione mercantile“dignitosa” emersa nei tempi difficili, che era apparsa il tramite indi-spensabile agli olivicoltori per inserirsi negli interstizi di un mercatointernazionale per essi inconoscibile e impraticabile, e che ora vadiventando ai loro stessi occhi una intercapedine onerosa e inutile.

I processi innestati da Ravanas si svolgono in primo luogo sottogli occhi dei protagonisti dell’economia provinciale; ma non è dettoche i circuiti dell’economia debbano immediatamente coincidere conquelli in cui si elabora il racconto su di essa. A proporlo precocementesono osservatori “lontani”. Alcuni fra gli intellettuali che danno vitaall’intensa stagione del dibattito economico dei primi anni del regnodi Ferdinando II riescono ad individuare le potenzialità del modellodi impresa realizzato da Ravanas proponendolo come esempio alRegno intero. Scrive ad esempio J. Millenet già nel :

En général on regrette que la manipulation des huiles soit aussi arriérée dansle royaume de Naples, et surtout dans les provinces les plus productives,qui ne fournissent que des huiles pour les fabriques. Je dois cependantmentionner l’établissement à Bari de Mons. Ravanas, dont les résultatslucratifs détermineront, je l’espère, d’autres entreprises de ce genre. Outreune qualité supérieure, Mons. Ravanas obtient un plus grand produit parune double pression des olives triturées.

Due anni dopo lo stesso autore torna sulle « belle macchine idrauli-che » di Ravanas, in toni che il suo anonimo recensore del napoletano“Giornale di commercio” giudica non sufficientemente entusiasti:un torto che lo stesso giornale non tarda a riparare, con una descri-zione dei « mirabili effetti » sul misero stato dell’olivicoltura puglieseprodottisi, dopo epica lotta contro la resistenza strenua degli inte-ressi colpiti e dei pregiudizi radicati, da « quando il signor Ravanasfermò nell’animo di migliorare in Puglia la fabbrica degli oli ». E,

. J. Millenet, Coup d’oeil sur l’industrie agricole et manufacturière du royaume de Naples,Napoli , pp. –.

. Recensione a J. Millenet, Des principaux produits agricoles de la partie continentale duRoyaume de Naples, Napoli , in “Giornale di commercio arti industrie manifatture e varietà”,...

. Articolo anonimo in due parti De’ nuovi stabilimenti del signor Ravanas per la triturazionedelle olive, parte prima in “Giornale di commercio arti industrie manifatture e varietà”, . ;parte seconda, ivi, ... Le citazioni sono tratte dalla parte prima, dove, per un errore di

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rimbalzando da uno scritto all’altro, le imprese di Pierre diventanol’esempio canonico della fattibilità di una linea di trasformazionedella società meridionale che in particolare gli scrittori di economiadegli anni Trenta elaborano e diffondono: quella di uno sviluppo cheproduca « benessere sociale » evitando le tensioni, le rotture dei nessiche danno forma alla società e all’ambiente, che vengono provocatesia dal vecchio “monopolio” mercantile sia dal nuovo e temutissimo« feudalesimo industriale » all’inglese.

Non ci sono basi documentarie che ci permettano di mettere inrelazione questo circuito “alto” e dotato di un insediamento spazialeampio con quello in cui si va costruendo in provincia una narrazioneanaloga. Non mancano d’altronde indizi sui processi concreti attra-verso i quali l’immagine di sé presentata da Ravanas ai poteri localie centrali diventa racconto pubblico. In coerenza con il disprezzoper i « piccoli negozianti » locali, che è elemento centrale di questaimmagine di sé, e nonostante sia universalmente classificato comenegoziante di Bari, Ravanas realizza scarsissimi rapporti con l’am-biente denso e potente del negozio barese di ascendenza marinara,non solo sotto il profilo delle pratiche e dell’immagine che vuole dar-ne, ma anche sotto quello delle reti relazionali: mantiene ben saldoil nesso societario col fratello che, rimasto in Francia, sovrintendeai carichi inviati da Bari a Marsiglia, si circonda di uomini di fidu-cia fatti venire appositamente dalla Provenza a rischio di provocareimmigrazioni imprenditoriali concorrenziali e pericolose per i suoiinteressi immediati, sposa una donna provenzale. I nessi locali prefe-risce viceversa costruirli dal lato degli ambienti proprietari, non tantoquelli di Bari, dove mette su casa, famiglia e magazzini per l’olioda commercializzare, quanto con quelli dei centri olivicoli dell’en-troterra barese: Bitonto in particolare, dove costruisce un trappetoimportante sfidando l’opposizione dei trasformatori locali.

È una opposizione che si consuma presto. Nel suo trappeto, con-tadini e notabili « entravano. . . col sogghigno della diffidenza, e neuscivano compresi di maraviglia e di entusiasmo ». Fra costoro c’èun grande proprietario di oliveti, Carmine Sylos, esponente di una

stampa segnalato nell’errata in una nota al titolo della parte II, i « mirabili effetti » diventano« miserabili effetti ».

. Rimando per queste questioni a B. Salvemini, Economia politica e arretratezza meridionalenell’età del Risorgimento, Lecce .

. F.S. Sylos, Per la scuola olearia regionale, Giovinazzo , p. .

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famiglia illustre, futuro sindaco di Bitonto e presidente del ConsiglioProvinciale nel : reazionario fierissimo ma anche accorto ge-store delle sue aziende e personaggio ben inserito nei circuiti comu-nicativi notabiliari della provincia intera. Gli spezzoni della sua corri-spondenza che sopravvivono — quelli con Giuseppe Maria Giovene,un naturalista insediato in un altro centro olivicolo importante cheera stato uno degli esponenti della agronomia tardo–settecentescafavorevole alla riconversione dell’olivicoltura meridionale verso laproduzione di olio da tavola — contengono indizi importanti sullepercezioni delle trasformazioni che circolano in questo ambiente. « Igattini hanno aperti gli occhi, e tutti oggi. . . la sanno lunga », scriveSylos nel ; occorre a suo avviso « preparare idonee piscine perconservar così olio fine come il comune, riporlo attentamente, la-sciarvelo riposare. . . e aspettare che i Francesi vengano a chiederlo.I forti capitalisti che prenderanno questo partito si emanciperannoda ogni servitù forestiera: io lo sto dicendo dall’anno passato, e quiincominciano a sentirmi ». Nell’ambito delle relazioni immediatedi Sylos, risuonano temi simili. Gli oli di Ravanas, scrive nel ilsindaco di Bitonto Eustachio Rogadeo, « emancipano » la provincia« dal monopolio dei piccoli negozianti » provocando un allargamen-to del gioco mercantile asfittico che assegnava un potere ricattatorioai detentori di capitali liquidi.

Probabilmente tramite la mediazione di personaggi come questi iluoghi del potere, invece di patteggiare con Ravanas privilegi puntualigiustificati con l’immagine di sé da lui stesso proposta, la ufficializ-zano e la propongono sulla scena pubblica tramite i meccanismimessi a punto nello Stato napoleonico ed ereditati dai Borboni. Nel il Consiglio Provinciale di Terra di Bari, in cui siedono alcunifra i grandi proprietari che più direttamente avevano saputo lucraredalle innovazioni di Ravanas, fra cui ancora Carmine Sylos, chiede aFerdinando II l’onorificenza richiesta da Pierre per se stesso nel :un « distintivo onorevole » che riconosca i « vantaggi incalcolabili »prodotti dalla sua iniziativa. Il gennaio il re gli concede unamedaglia d’oro al merito civile; e, a quel punto, i riconoscimentidelle istituzioni locali si fanno innumerevoli. L’inchiesta di quello

. Cfr. L. Sylos, I tempi e la vita di Carmine Sylos. Discorso commemorativo, Bitonto .

. BNB, fondo D’Addosio, /.

. ASB, fondo Agricoltura Industria Commercio, b. , fs. , lettera dell’...

. ASN, fondo Ministero dell’Interno, II inventario, f. , seduta del maggio .

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stesso anno sulle Ricchezze industriali della provincia è un’occasionedi lodi altissime da parte dei sindaci dei comuni olivicoli e dà modoall’Intendente di spingere le autorità locali ad attivarsi per diffonderele innovazioni di Ravanas dove non sono ancora giunte. A sua voltail Consiglio Provinciale propone una ricostruzione a tutto tondo del-le storia recente dell’economia di Terra di Bari centrata sulla figuraeroica dell’imprenditore provenzale. L’olio, derrata « preziosa in tutt’itempi », afferma nella seduta dell’ maggio , era « degenerataper la grossolanità de’ nostri usi », tanto più « deprezzata » a causadelle

tante piantagioni avvenute da tempo in qua presso remote genti, e perfinonel nuovo mondo. I metodi serbati da noi per estrarre olio dalle bacchedi ulivo mentre ne diminuivano il quantitativo, ne deterioravano anchela qualità, e ne ritardavano la manufatturazione. Così il prezzo medio delgenere su cui ragionasi, erasi da lustri in qua stabilito sul tenore di circa D. la soma; e tale tuttavia continuerebbe se il signor Ravanas co’ suoi torchiidraulici non lo avesse in pochi anni portato a tal finezza da contendere oggine’ mercati di ambi gli emisferi cogli olj di qualsiasi provenienza. Per talguisa mentre scorgiamo i nostri olj da fabbrica elevati fino al valore di D. la soma, quelli da bocca giungono a contrattarsi con un di più da a ducati. Risultati sì prosperi hanno adescato diversi esteri negozianti quivenuti a stabilirsi in varj comuni di questa Provincia; ed i nostri sollertiproprietarj dal canto loro si sono mossi a gareggiare cogli esteri fabbricanti,trovando nella moltiplicazione di questi opificj un metodo di triturazionepiù speditivo in virtù de’ strettoi a vite, e de’ torchi idraulici. È perciòche la manifattura dell’olio cammina paripasso colla collezione delle olive,vantaggio incalcolabile pe’ possidenti, i quali in operazioni sì speditive,trovano risparmio sugli esiti, e miglioria nel genere.

In questo modo il circuito oleario finalmente « esce dai brevitermini dell’Adriatico » in cui era rimasto da sempre e richiamaa ridosso dei luoghi di produzione i « commessi » di grandi casemercantili francesi e napoletane che affidano la merce ad una rete di« corrispondenti » incomparabilmente più larga di quella del negoziofamiliare barese. E nel ancora il Consiglio Provinciale, il cuipresidente è ora l’ex sindaco di Bitonto Eustachio Rogadeo, proclama« la novella manifatturazione degli olii detta alla Ravanas » la primadelle ragioni che hanno reso « il commercio di Bari. . . più attivo e

. ASB, fondo Agricoltura Industria Commercio, b., fs. , « Ricchezze industriali.Manifatture, macchine e loro disegni. Prodotto consumo e altro. Statistica generale », .

. ASN, fondo Ministero dell’Interno, II inventario, f. .

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fiorente ». Le altre ragioni addotte dal Consiglio — l’accresciutotraffico delle altre derrate, l’insediamento di case commerciali estere,l’aumento del giro di affari e dei capitali degli stessi imprenditorilocali, la costruzione di una rete stradale funzionale che converge suicentri urbani più importanti della costa — sono certo il risultato diprocedure decisionali complesse, conflittuali o pattizie, che investonoapparati istituzionali e soggetti molteplici. Ma, anche su quel piano,sia i contemporanei che gli storici trovano nessi significativi con lepratiche d’impresa di Pierre Ravanas.

.. Le metamorfosi del contratto: dalla fiducia allo jus

Pierre vive a questo punto della sua biografia una sorta di incon-gruenza di status. L’alta considerazione che ha saputo guadagnarsipresso imprenditori ed intellettuali, così come l’onore accordatoglidagli apparati periferici e centrali dello Stato, ne fanno una figura diprimo piano all’interno della provincia; ma la sua renommée cominciaa spandersi nel Regno intero. E a questa dimensione onorifica, cheè ben spendibile sul piano del credito d’impresa, della fiducia com-merciale, delle reti di relazione, non corrisponde una dimensioneadeguata delle sue attività economiche, relegate fino a quel momentoad una dimensione di dignitosa mediocrità.

Alla fine degli anni Trenta Pierre prende una decisione cruciale:quella di fuoriuscire dall’ambiente provinciale e giocare sul pianodell’intero Regno, in particolare dei suoi tre grandi porti oleari —oltre a Bari, Gallipoli e Gioia in Calabria; e, di conseguenza, di fare iconti con l’ambiente della Borsa napoletana, luogo in cui prendevaforma l’egemonia delle grandi case mercantili napoletane ed esteresui produttori e mercanti provinciali, caratterizzato da un marcatocarattere speculativo, da una ipertrofia della finanza in rapportoalla produzione ed alla circolazione materiale delle merci. Ravanasintraprende questa nuova carriera con lo spirito dell’« homme àprojet » con cui aveva affrontato l’ambiente provinciale, rimarcan-do ulteriormente la sua distanza dai « piccoli negozianti » baresi. I

. ASN, fondo Ministero dell’Interno, II inventario, f , seduta del maggio .

. Cfr. A. Massafra, Produzione, commercio e infrastrutture nel decollo di Bari, in Storiadi Bari, vol. IV, L’Ottocento, a cura di M. Dell’Aquila e B. Salvemini, Roma–Bari , inparticolare pp. –.

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

quali avevano certo avuto molto da imparare da lui, ma, a loro volta,avrebbero potuto insegnargli qualcosa proprio a proposito dellaBorsa napoletana. A differenza dei negozianti di altri porti regnicoli,spesso semplici commissionari delle grandi case, essi avevano sa-puto costruirsi una posizione relativamente autonoma rispetto aicircuiti napoletani, adottando pratiche sofisticate che permettevanoloro di utilizzarne le risorse informative e finanziarie e di trattenerepresso di sé spazi decisionali ed una parte considerevole dei profittidi intermediazione, di ridurre i rischi insiti in una immersione pienanei meccanismi che dominano la grande piazza di Napoli. Ma ilsuo disprezzo per questi ambienti provinciali e gli onori che haguadagnato proponendo forme del tutto diverse di far impresa gliimpediscono di accorgersi dell’originalità e delle potenzialità deimodelli imprenditoriali baresi. A Napoli cerca spazi, ancora unavolta, in ambienti di origine francese, creando in particolare conla grande impresa « Claudio Duchaliot e compagnia », presente nelRegno in posizione preminente dalla fine del Decennio francese,« associazioni in partecipazione »: una forma di società riconosciutadalla legge napoletana (al contrario del codice di commercio napo-leonico che l’aveva esclusa nonostante la sua precedente inclusionenel progetto dell’anno X), ma che non è sottoposta ad alcun ti-po di formalizzazione. Estremamente flessibile, essa non limitala responsabilità personale, mette in gioco i patrimoni dei soci ininvestimenti in apparenza facilmente liquidabili, ed è un seminariopotenzialmente inesauribile di contenziosi. Ravanas vi si butta acapofitto, viene a trovarsi presto in una situazione di sovraesposizio-ne finanziaria che lo conduce — secondo le parole di uno dei suoiavvocati — « a due dita da tremenda rovina » e finisce per travolgerela stessa « Claudio Duchaliot ». Il titolare di quest’ultima, RiccardoDuchaliot, la mette in liquidazione il marzo , scaricando laresponsabilità su Ravanas e sulle sue manovre con la società mar-sigliese « Ravanas et cie ». Così, mentre a Napoli corre voce che

. Cfr. Code de Commerce, accompagné de notes et observations par M. Fournel, Juriconsulte, àParis, chez Stoupe, Imprimeur du tribunal de Commerce, , p. .

. Leggi di Eccezione per gli Affari di Commercio, V parte del Codice per lo Regno delle DueSicilie, titolo III, capitolo IV, p. dell’edizione del .

. Ecco uno schema degli intrecci societari nei quali si trova coinvolto Pierre Ravanas almarzo , nel momento della sua crisi imprenditoriale:

a) Socio della « Ravanas e cie » con sede a Marseille e diretta dal fratello minore Jean–Baptiste, commissionario dell’ « associazione in partecipazione »

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Linguaggi del mercato

Ravanas sta per fuggire in Francia con « il denaro dei pugliesi e i capi-tali di Duchaliot », si apre un contenzioso che i tribunali napoletanie francesi non riescono a districare per decenni.

Ravanas reagisce alle difficoltà cercando i mezzi per far fronte agliimpegni con nuove iniziative commerciali. Ma ormai, per sostenerequesta strategia aggressiva, non può trovare risorse sufficienti nellospazio incontrollabile e cacofonico della Borsa napoletana, dove unpersonaggio del calibro di Duchaliot lo va sommergendo di accusea livello giuridico ed etico, e l’« opinion générale », scrive al fratelloJean–Baptiste un collaboratore di fiducia di Pierre, « croit Duchaliotvictime de votre frère ». Ravanas deve nuovamente guardare allaPuglia, dove ha radicato in profondità la sua fama. Anche in questanuova difficile situazione, egli può sperare di difenderla e, nell’imme-diato, pensare di ricavare il credito necessario per scongiurare, a suavolta, il fallimento.

Ma lì pure non è certo al riparo dalle conseguenze nefaste dellasua avventura napoletana. Man mano che giungono a scadenzacambiali ed ordini di derrate che ha continuato a trarre impruden-temente su Duchaliot anche dopo l’apertura della liquidazione, eda fronte dei quali non ha disponibile nell’immediato la provvista,egli cerca affannosamente soccorso nella rete dei proprietari localie delle parentele ed amicizie francesi, in quei circuiti della fiduciache ha cercato di alimentare. Ma i risultati sono scarsi, ed è costret-to a smentire un tratto fondamentale della sua immagine: quellache lo presenta come un mercante capace, a differenza degli altri,di costruire rapporti cordiali e proficui con i produttori, ai quali« da venti anni ch’egli dimora fra noi ha sempre anticipate conside-revoli somme ai proprietarii ed ai coltivatori, senza esigerne chel’interesse legale, e senza esercitar mai verun rigore giudiziario contro idebitori suoi ». Così, in pratica per la prima volta, lo troviamo, oltreche nelle aule del Tribunale di Commercio di Napoli, in quelle

b) Socio della « associazione in partecipazione » con Duchaliot e Lezaud, diretta daRichard Duchaliot

c) Agente a Bari dell’« associazione in partecipazione » con Duchaliot e Lezaudd) Socio di altre « associazioni in partecipazione » con negozianti pugliesi.

. APR, lettera di Abèle Durand a Jean–Baptiste Ravanas, Napoli, luglio .

. Certificato rilasciato al Sig. Pietro Ravanas aîné da’ proprietari della provincia di Bari,datata aprile , in appendice a P. Ravanas, Memoria sulle innovazioni introdotte nel modo dimacinar ulive in Provincia di Bari, Bari, Tipografia Sante Cannone e figli, . Corsivo mio.

. ASN, fondo Tribunale di Commercio, vol. , Ravanas, Duchaliot, Collareta, ..;

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

della provincia pugliese. Qui diventa un frequentatore assiduo: viesercita lui pure « rigore giudiziario » nei confronti di debitori; e, altempo stesso, vi viene condotto da oscuri ed ambigui personaggi,che gli recano danno non solo perché gli sottraggono una partedelle risorse finanziarie oramai scarse a sua disposizione, ma anchee soprattutto, perché lo obbligano a difendere la sua onorabilitànelle sale di giustizia della provincia che lo glorifica. L’economiache Ravanas aveva voluto costruire sulla base di rapporti contrattua-li fiduciari, sembra ora funzionare solo sotto la tutela minacciosadello jus: coloro che hanno stretto con lui contratti che recano lasua firma si vanno convincendo che essa non può essere onoratache tramite un’azione legale.

.. Parola giudiziaria, parola pubblica: l’onore del « negoziante »e l’onore del « proprietario »

Il punto è che la stessa azione legale non può svolgersi al riparodelle immagini che saturano lo spazio provinciale. Si guardi ai duecontenziosi giudiziari che producono più clamore. Nel novembre don Luigi Cavalieri — uno speculatore napoletano che dinnan-zi al giudice si presenta come « architetto e negoziante », ma cheviene descritto dall’avvocato difensore di Ravanas come un « anticofacchino di dogana, dipendente dalla casa Duchaliot della quale fulungamente commesso, ricevendo salari e pagamento di opere »

— in possesso di due ordini di derrata di salme di olio, emessida Duchaliot tre anni prima ed « accettati » da Ravanas, gli chiede laconsegna della merce. E quando Ravanas si rifiuta di farlo, a frontedi titoli che considera fraudolenti e comunque annullati dal traen-

vol. , Affatati, di Pompeo, Ravanas, Duchaliot, marzo ; vol. , Affatati, Duchaliot,Ravanas, aprile .

. Cfr., ad esempio, ASB, sezione di Trani, Gran Corte Civile, , cc. –, ...

. Per D. Pietro Ravanas aîné contra D. Luigi Cavalieri, e D. Riccardo Duchaliot rappresentantedella ditta Claudio Duchaliot nella Gran Corte Civile di Trani, Trani, Tipografia Sante Cannone efigli, , p. . Nella copia da me consultata dell’allegazione a stampa, custodita presso l’ASB,c’è un’annotazione manoscritta coeva in cui si dice che si tratta di un errore (« commessoperché non era stato ritrovato in tutto Napoli il negoziante Cavalieri. . . »). È anche questo unsintomo dell’impossibilità di opporre frontalmente il manoscritto giudiziario e l’allegazione astampa. In fondo alla stessa copia dell’allegazione la stessa mano ha trascritto la sentenza chela Gran Corte Civile avrebbe pronunziato sul caso.

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te, Cavalieri lo cita in giudizio. È una lesione gravissima della sua« opinione commerciale », che gli arreca — secondo le parole delsuo avvocato — « più danno che uccidendolo con una pugnalata,avvegnacché gli avrebbe tolto l’onore e la fama, vera vita dell’uomoonesto ». E lesioni ulteriori ed ancor più gravi al suo onore gli deri-vano dal suo rifiuto, un mese dopo, di pagare le somme riportate sualcune lettere di cambio che, nella foga di cercar risorse, egli avevaincautamente tirato su Duchaliot nel momento stesso in cui veni-va alla luce il suo dissesto. Il beneficiario delle lettere di cambio èdon Francesco Lopane, una sorta di prestatore professionale che, inqualità di amministratore delle rendite ricavate da alcune famiglienapoletane sui loro beni pugliesi, nonché di amministratore del RealAlbergo de’ Poveri di Napoli, trasferisce spesso somme di denarodalla provincia alla Capitale, attraverso lettere di cambio tirate susoggetti residenti a Napoli. Si tratta di un abituale frequentatore delleaule di giustizia, dove trascina i debitori morosi: non esita dunquea convocarvi anche un personaggio del calibro di Ravanas. Questideve riuscire ad evitare di onorare la sua stessa firma e di sborsaredenaro che non ha più, scongiurando al tempo stesso non solo ilrischio sempre incombente dell’« arresto personale », ma anche ilpericolo di distruggere del tutto il suo capitale simbolico e la residuacredibilità finanziaria. Si apre così un duplice contenzioso che avrà,più di tutti gli altri in cui Pierre è coinvolto, una grande risonanza, epeserà in maniera decisiva sul mutamento della pubblica narrazionesulle origini e caratteri della prosperità pugliese.

I processi, istruiti, ai sensi del titolo V del vigente codice di proce-dura civile, in primo grado presso il Tribunale Civile di Trani nellasua funzione di Tribunale di Commercio, e in appello presso la GranCorte Civile di Trani, una delle quattro funzionanti nel Regno, sisvolgono secondo lo schema cronologico seguente.

. Ivi, p. , nota.

. Previsto dalle Leggi di eccezione del commercio.

. Causa Lopane/Ravanas: ASB, sezione di Trani, fondo Gran Corte Civile, I e II foglio diudienza, ..; causa Cavalieri/Duchaliot: ASB, sezione di Trani, fondo Gran Corte Civile, Ie II foglio di udienza, ..; I e II foglio di udienza, ..; I e II foglio di udienza,

agosto .

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Lopane Cavalieri/Duchaliot

aprile1845

presso il Tribunale Civile di Trani« in linea commerciale » il RealAlbergo dei Poveri di Napoli, che nonaveva preso parte alla convenzione diDuchaliot con i creditori del 22 marzo1845, cita, per tre cambiali di complessi-vi duc. 3185,43, il traente Ravanas (chele avrebbe spiccate, insieme ad altre 4,a fronte di carichi di olio ordinatigli daDuchaliot) ed il destinatario d. France-sco Lopane che le aveva girate al RealAlbergo

3maggio1845

udienza e sentenza: si dà ragione a Lo-pane. Duchaliot Federico Brayer, depu-tato dei creditori, lo pagano con duepolizze del Banco dello Spirito San-to del 21.6.45 per la sorte principa-le e dell’11.7.45 per interessi e spe-se giudiziarie per duc. 123,91 (per lealtre 4 cambiali: Lopane promette aRavanas di “concordarsi” con Ducha-liot, e Ravanas; in cambio, Ravanas fa« premure » a Duchaliot perché paghisubito le cambiali per cui erano staticondannati)

3novembre1845

protesto da parte di Cavalieri contro Ra-vanas degli ordini del 5.11.1842 per 200some di olio tratti da Duchaliot su Rava-nas e accettati da Ravanas, poi ritiratied annullati dallo stesso Duchaliot, mada quest’ultimo rimessi in commercio efiniti, tramite girate, nelle mani di Cava-lieri; dichiarazioni di Ravanas di insus-sistenza degli ordini stessi dato il loroannullamento da parte del traente

4novembre1845

Cavalieri cita Ravanas presso il Tribu-nale Civile di Trani “in lineacommerciale”

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Linguaggi del mercato

Lopane Cavalieri/Duchaliot

8novembre1845

Ravanas produce: atto di notifica aCavalieri della lettera di Duchaliot del25.10.1843 di annullamento degli ordi-ni; richiesta di comunicazione per mez-zo della cancelleria degli ordini per farrilevare al magistrato le alterazioni ele frodi delle girate; dichiarazione cheavrebbe citato Duchaliot; domanda didanni a Cavalieri per « l’oltraggio arre-cato alla opinione commerciale » di Ra-vanas stesso con l’atto di protesto degliordini annullati

14novembre1845

Ravanas: notifica a Duchaliot i suoi at-ti dell’8 novembre; lo cita a partecipa-re alla causa Cavalieri in quanto autoredi falso e comunque come responsabi-le delle molestie arrecategli da Cavalie-ri stesso; gli chiede i « danni–interessipe’l discredito prodotto gli dai protesti »e le spese del giudizio; elegge domi-cilio in Trani presso il suo avvocato epatrocinatore d. Pietro Azzella

25novembre1845

Ravanas: notifica a Cavalieri la citazio-ne fatta a Duchaliot il 14 novembre;chiede che il tribunale si pronunci conuna sola sentenza su tutte le istanze del4, 8 e 14 novembre

26novembre1845

Duchaliot: elegge domicilio in Tranipresso il suo avvocato e patrocinatorespeciale d. Vitantonio de Philippis; di-chiara che aveva ritirato gli ordini pa-gandoli con i fondi della associazione inpartecipazione con Ravanas e li avevamessi di nuovo in circolazione per i bi-sogni della società secondo gli usi com-merciali e l’autorizzazione dello stessoRavanas

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Lopane Cavalieri/Duchaliot

27novembre1845

Cavalieri notifica a Ravanas il depo-sito nella cancelleria del tribunale deidue ordini di derrate. Duchaliot notifi-ca a Ravanas il deposito nella can-celleria del tribunale della scrittura pri-vata del 22 marzo 1845 per la mes-sa in liquidazione della casa ClaudioDuchaliot

2dicembre1845

Ravanas « replica »: asserendo che c’èstata frode da parte di Duchaliot d’in-tesa con Cavalieri; chiedendo, nel ca-so non fosse accolta la tesi precedente,di provare con titoli e testimoni che Du-chaliot aveva commesso frode con fir-me in bianco e sovrapposte in concorsocon Cavalieri che era « un antico facchi-no di dogana dipendente dalla casa Du-chaliot, dalla quale fu lungamente com-messo, ricevendo salari e pagamento inopere »

4dicembre1845

Cavalieri risponde: paghi Ravanas ilsuo debito e poi si rivalga contro Du-chaliot; lui è terza persona, e nondipendente da Duchaliot

??? (informo??)

10dicembre1845

udienza e sentenza: si dichiarano estin-ti diritti e obbligazioni nascenti da dueordini di derrate; si ammette Ravanasa provare anche con testimoni cheDuchaliot rimise in circolazione frau-dolentemente i due ordini, che Cava-lieri era connivente, che Cavalieri eradipendente della casa Duchaliot

26dicembre1845

al Tribunale Civile di Trani « inlinea commerciale » giunge la« dimanda » di citazione in giudizio diRavanas da parte dell’avvocato di Lopa-ne, corredata di motivazioni e documen-ti per le altre 4 cambiali di cui 2 prote-state contro Duchaliot da parte dal cav.Luigi Cito a cui erano state girate: intutto duc. 2412,58, con riserba di agirecontro il trattario Duchaliot

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Linguaggi del mercato

Lopane Cavalieri/Duchaliot

30dicembre1845

« risposta » di Ravanas: intima a Lo-pane una lettera di Duchaliot del28.4.1845 in cui accusa ricevuta del« conto corrente bilanciato » fino al31.3.1845 nel quale risulta debitore diduc. 1401,97: dunque la provvista difondi è stata fatta nelle mani del trat-tario; chiede al magistrato la decaden-za dell’azione perché il protesto non gliè stato « intimato » regolarmente né èstato citato nei termini perentori

2gennaio1846

atto con « contraddizione » finale delquerelante: alla scadenza delle cambia-li, Duchaliot è già fallito, come risulta an-che dalle sentenze di questo tribunaledel 3.5.1845 e del 18.11.45; e come ri-sulta da una abbondante giurispruden-za, il fallimento del trattario distruggeogni provvista di fondi; Ravanas avevanotizia legale del fallimento di Duchaliotdalla citazione del Real Albergo per lealtre 3 cambiali

??? (informo??)

8gennaio1846

udienza e sentenza: Ravanas è con-dannato al pagamento delle cambiali afavore di Lopane: Duchaliot era « in li-quidazione, parola che per civiltà com-merciale si è surrogata a quella di fal-limento ». Dunque risulta illegale e az-zardata ogni provvista di fonti nelle suemani

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Lopane Cavalieri/Duchaliot

11febbraio1846

Ravanas notifica a Lopane: certificatodel Cancelliere del Tribunale di Com-mercio di Napoli da cui risulta che nel1845 quel magistrato non ha pronuncia-to sentenza alcuna di fallimento delladitta Claudio Duchaliot; 5 estratti di par-tite di banco da cui risulta che Ducha-liot fra aprile e luglio ’45 ha pagato oltreduc. 35,000. Inoltre deposita nella can-celleria della Gran Corte Civile diTrani « dimanda » di appello con do-cumenti allegati, motivata nella sostan-za così: « la parola liquidazione non siè surrogata per gentilezza alla parolafallimento. . . chi trovasi in liquidazioneesercita tutt’i suoi diritti »

20febbraio1846

atto di notifica della sentenza aiprocuratori di Ravanas e Duchaliot

21febbraio1846

Cavalieri si appella presso la GranCorte Civile di Trani contro Du-chaliot e Ravanas notificando presso idomicili eletti dalle controparti in Trani

27febbraio1846

Duchaliot si appella contro Cavalieri eRavanas notificando presso i domicilieletti dalle controparti in Trani

30marzo1846

seconda scrittura dell’avvocato di Rava-nas « in aggiunta de’ motivi di appello »,con il corredo di ulteriori documenti chedimostrano che Duchaliot non è fallito:copia di atto notarile dell’1.4.1845 concui Duchaliot concede a Brayer di iscri-vere ipoteca sui suoi beni; 6 lettere pre-cedenti la convocazione dei creditori daparte di Duchaliot, che si riferiscono adatti mercantili e che dimostrano la prov-vista di fondi da parte di Ravanas e lacondizione di creditore di quest’ultimo

2 aprile1846

« risposta » dell’avvocato di Lopane:un negoziante in liquidazione nonpuò pagare in contanti e perciò offrepagamenti di fondi

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Linguaggi del mercato

Lopane Cavalieri/Duchaliot

4 aprile1846

« replica » dell’avvocato di Ravanas: in-siste sul fatto che Duchaliot non è fal-lito. Lo stesso Lopane ha ricevuto pa-gamenti da Duchaliot. Se Lopane nonvoleva convenire con la dilazione chegli altri creditori hanno concesso a Du-chaliot, doveva agire contro Duchaliotstesso, farlo dichiarare e riprotestare, e,a quel punto, agire contro Ravanas inquanto traente nei termini, prescritti enon, coma ha fatto, 10 mesi dopo

7 aprile1846

allegazione a stampa a favoredi Ravanas

14 apri-le 1846

prima allegazione a stampa afavore di Lopane

14maggio1846

seconda allegazione a stampaa favore di Lopane

??? (informo??)

15giugno1846

I udienza: conclusioni ed arringhe degliavvocati delle parti

22giugno1846

II udienza e sentenza: Ravanas è con-dannato a pagare le cambiali nelle manidi Lopane

24agosto1846

Ravanas non presenta appello (nono-stante ci fossero prove della inefficaciadel trasferimento degli ordini da Ducha-liot a Cavalieri dato che quest’ultimo eracomplice nella frode), ma, tramite il suopatrocinatore, « eleva » la nullità degliappelli perché non intimati né alla partené al domicilio reale, perché la senten-za di primo grado è interlocutoria e nondefinitiva, perché Duchaliot aveva con-fessato che gli ordini erano stati rimessiin giro dopo essere stati annullati

??? (informo??)

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Lopane Cavalieri/Duchaliot

23 e 30settembre1846

udienza e sentenza in contumacia deipatrocinatori di Ravanas: si revoca lasentenza del Tribunale di Commerciodel 10.12.1845; si dichiara inammissi-bile la prova testimoniale che Ravanasaveva richiesto; si condanna Ravanas« anche con arresto personale » a con-segnare gli oli e ai danni–interessi afavore di Cavalieri, o a pagarne il va-lore; non si « vaglia » l’azione di Rava-nas contro Duchaliot, ritenendola subor-dinata all’esito dei conti della condizio-ne di debitore o creditore di ciascunodei due soci; e comunque « fa salvo » ilsuo diritto a ottenere giustizia « innnzi achi e come per legge »; condanna Rava-nas alle spese a pro di Cavalieri, nullaa pro di Duchaliot

4maggio1847

Ravanas si oppone alla sentenza con-tumaciale e ne domanda l’annullamen-to; chiede che gli appelli delle contropar-ti si dichiarino inammissibili o, « in sus-sidio », si rigettino; chiede la confermadella sentenza appellata e la condannadegli appellati alle spese

7 luglio1847

allegazione a stampa a favo-re di Ravanas firmata da LorenzoFesta Campanile e Pietro Azzella

??? (informo??)

6agosto1847

udienza e sentenza: si rigettano le ec-cezioni di rito; si rigettano le opposizioniper quel che riguarda Cavalieri e si ordi-na che questi venga pagato in derrate oin moneta; si revoca la sentenza contu-maciale per quel che riguarda Duchaliote lo si condanna a rivalere Ravanas ditutte le condanne pronunciare contro ilmedesimo e « ristorarlo di tutti i dannied interessi cagionatigli col giudizio dicui si tratta, da farsene liquidazione me-diante specifica a norma di legge »; sicondanna Ravanas alle spese del giu-dizio in favore di Cavalieri, e Duchaliotalle spese di giudizio in favodi Ravanas.

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Linguaggi del mercato

I processi vengono presentati in udienza da un giudice « relatore »,oltre che sulla base della consueta messe di scritture difensive più omeno ampie e accompagnate da documenti allegati, dell’informo: unrito ben radicato nelle consuetudini giudiziarie del Regno meridiona-le anche se privo di riscontro nelle norme, secondo cui gli avvocatidelle parti, immediatamente prima dell’udienza, si recano presso l’a-bitazione privata del giudice relatore per esporre, spiegare, precisareil contenuto dei loro scritti, nel rispetto delle regole deontologichesulle quali si insiste molto nelle pubblicazioni del tempo. Si tratta,evidentemente, di una pratica che non lascia tracce documentarie, peraltro abbondanti nelle scritture difensive delle parti. Le quali devonomuoversi all’interno di un repertorio argomentativo che, per quantointriso dei tecnicismi e dei riti propri allo spazio giudiziario, non puònon essere fortemente condizionato dal racconto delle gesta eroichedi Ravanas che risuona nello spazio pubblico, extragiudiziario. Più inparticolare, le scritture man mano prodotte devono tener conto, daun lato, dell’enorme asimmetria della dotazione di capitale simbolicocon la quale le parti si presentano davanti ai giudici, che può tradursiin una asimmetria di quella « fama » largamente dibattuta nella dot-trina da secoli, cioè del peso della parola pronunciata ed affidata allagiustizia; dall’altro della contiguità e, di conseguenza, delle interazionidelle tre sfere nelle quali Ravanas in qualità di convenuto si gioca il suocapitale simbolico: quella giudiziaria, naturalmente, ma anche quellaistituzionale, che gli vale protezioni e privilegi formali ed informali, equella commerciale, che produce giudizi in termini di affidabilità e sol-vibilità. Tre sfere che le riforme del decennio francese, essenzialmenteereditate dai Borbone, avevano separato a livello normativo e delle car-riere, ma che restavano assai vicine nella cerchia piccola dell’ambienteprovinciale dei notabili, collocati in reti informali a maglie strette eriuniti attorno ai diritti di accesso su base censitaria ai frammenti diautonomia politica ammessa dal centralismo borbonico.

Il segno più evidente delle interazioni in questo caso fortissi-me fra sfera giudiziaria e sfera pubblica, di cui gli attori devonotener conto e che intendono a loro volta alimentare, è che alcune fraqueste scritture vengono stampate, e costituiscono le prime allega-zioni in materia commerciale pubblicate nella provincia nel corsodell’Ottocento.

. V. Moreno, Il Galateo degli avvocati, a cura di F. Mastroberti, Taranto .

. Cfr. M. Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna .

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Sono Ravanas ed il suo avvocato Pietro Azzella che per primidecidono di sottoporre ad un pubblico più vasto di quello delle auledi giustizia un’ulteriore, ampia, memoria difensiva, tre giorni ap-pena dopo la « replica » da loro stessi depositata in cancelleria, cheavrebbe dovuto chiudere la produzione difensiva scritta da prenderein considerazione nell’udienza della Gran Corte Civile di Trani per ilprocesso contro Lopane. Suddivisa in « antifatto », in cui si disegnaun quadro fattuale; « fatto », che dà conto minuziosamente di ognipassaggio dell’affaire e delle ragioni addotte dalle due parti, e unasezione dedicata alle motivazioni di Ravanas, preceduta da uno snodoin cui si precisano le « questioni » da esaminare, la memoria presentaun tono ed un linguaggio rigorosamente giuridico e non proponealcuna valutazione dei due avversari e delle loro azioni; in particolare,non invoca affatto le gesta straordinarie dell’appellante. Il nodo giuri-dico che ritorna in tutte le scritture del processo e sul quale insistein particolare la memoria a stampa è quello della distinzione tra lacondizione di « liquidazione » e quella di « fallimento ». Duchaliotnon può essere fallito, sostiene l’avvocato di Ravanas, non essendostato dichiarato tale dal competente Tribunale di Commercio di Na-poli, ma si trova in stato di « liquidazione »; dunque, la « provvistadei fondi » che Ravanas, traente delle lettere di cambio delle qualiLopane reclama il pagamento, aveva fatto nei confronti del trattario,Duchaliot, resta valida. Lopane deve rivolgersi a quest’ultimo, e soloa lui, per essere soddisfatto.

Lo scritto è di grande efficacia, ma di lettura non certo agevoleper chi non maneggi il linguaggio giuridico. Ciononostante essoviene dato alle stampe. Gli indizi a nostra disposizione ci conferma-no la tendenza alla riduzione delle allegazioni giuridiche a stampaanche nel Regno delle Due Sicilie; e, comunque, la prevalenza dellememorie difensive manoscritte in rapporto a quelle a stampa nelcontesto dei tribunali in cui Ravanas compare è nettissima. Dunque,non solo la decisione di produrre questa ulteriore scrittura difensivadopo la conclusione della procedura di scambio di memorie e do-cumenti in vista dell’udienza, ma anche la decisione di pubblicarla,sono tutt’altro che banali e andrebbero in qualche modo spiegate.

Una pista possibile emerge richiamando il mutare improvvisodel modo di collocarsi nell’arena pubblica da parte di Ravanas, incoincidenza con l’emergere delle difficoltà finanziarie e giudiziarie incui le sue iniziative mercantili lo hanno cacciato. Il suo obiettivo restaquello solito: ricavare risorse extra–economiche utili alla sua impresa.

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Linguaggi del mercato

Ma, dall’inizio del funesto , la sua strategia di sollecitazionein suo favore dell’ambiente notabiliare ed istituzionale, soprattuttoprovinciale, diventa diretta e pressante. Ed agisce a livelli diversi,aderenti alle segmentazioni dello spazio pubblico, ma convergenti.

In primo luogo, giunto « a due dita da tremenda ruina », perla prima volta nella sua vita Ravanas pubblica. Sulla napoletana “Bi-blioteca di commercio”, appare una corrispondenza datata Bari, °febbraio intitolata Considerazioni commerciali del Sig. Ravanas,che può essere letta, oltre che come una analisi lucida dei circuitieconomici meridionali, come una sorta di giustificazione, al tem-po stesso, della sua decisione di praticare i « giochi di carta » dellaBorsa napoletana e del suo personale insuccesso in questo campo,causato dalla sua stessa rettitudine in un ambiente dominato dallaspeculazione e dalla malafede.

Qualche mese più tardi, firma e fa stampare a Bari una Memoriasulle innovazioni introdotte nel modo di macinar le ulive in provincia diBari, che affida il compito di rilucidare la sua immagine di grandeinnovatore non al linguaggio esclamativo ampiamente adoperatonegli anni Trenta dell’Ottocento dai suoi ammiratori, ma a quel-lo « oggettivo » del disegno tecnico e dei numeri. D’altro canto, illinguaggio esclamativo viene ampiamente utilizzato nell’appendi-ce alla Memoria, intitolata Certificato rilasciato al Sig. Pietro Ravanasaîné da’ proprietari della provincia di Bari, dell’aprile , cioè im-mediatamente dopo la sospensione dei pagamenti della « ClaudeDuchaliot ». In fondo vi figurano firme. Non a caso non vi sitrova nessuno fra gli protagonisti del commercio barese; si trattaviceversa di grandi e piccoli proprietari e negozianti della provinciaolearia, oltre che di architetti e notai, farmacisti e medici, giudici efunzionari pubblici e, soprattutto, uomini di chiesa, come a megliogarantire una fama di moralità che rischia di essere mandata infrantumi. « Da venti anni ch’egli dimora fra noi — scrivono i suoisostenitori dopo aver elencato i motivi che gli danno diritto allafama e alla riconoscenza pubblica — ha sempre anticipate conside-revoli somme ai proprietarii ed ai coltivatori, senza esigerne chel’interesse legale, e senza esercitar mai verun rigore giudiziariocontro i debitori suoi ».

. Per D. Pietro Ravanas, p.

. a. III, , p. –.

. Ravanas, Memoria sulle innovazioni.

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Aggiungendo a tutto questo l’allegazione a stampa del suo avvo-cato, che ribadisce la sua onorabilità adoperando un ulteriore registrolinguistico, quello giuridico, Ravanas cerca di proiettare sullo spaziopubblico provinciale un’immagine di sé che riprende e adegua allenuove circostanze quella che aveva costruito nei decenni precedentiper vie indirette, cioè evitando di esporsi in prima persona e poggian-dosi sulle reti di relazione che aveva saputo tessere. È l’immagine diun soggetto collocato in una sfera superiore, non solo sul piano diuna eticità che gli consente di produrre felicità pubblica perseguendoil suo interesse individuale, ma anche su quello delle dimensionistesse degli affari che tratta: impegnato in una « grave discussionecommerciale » con la casa Duchaliot riguardante « un conto di piùmilioni, ed una perdita di oltre mila ducati », egli deve difendersidall’accusa di sottrarsi al « pagamento di miseri duc. al signorLopane ». Lo si è così trascinato al livello dei piccoli legulei, dei« paglietta » della secolare polemica radicata nel dibattito intellettualee politico meridionale, che tendono agguati al suo onore più che allesue finanze, utilizzando l’intrico di norme che egli ha comunque,come ben dimostra il suo avvocato, pienamente rispettato.

Sovrainterpretazione dello storico? Forse. Fatto sta che sembraesattamente questa l’interpretazione che della decisione di produrree pubblicare la memoria difensiva di Ravanas dà l’avvocato della suacontroparte. Una sola settimana dopo la pubblicazione dell’allega-zione a favore di Ravanas, viene data alle stampe una Memoria perDon Francesco Lopane, e, un mese dopo, un Supplemento di difese perD. Francesco Lopane, entrambe a firma dell’avvocato Donato Casa-vola, che presentano una caratteristica sorprendente in questo tipodi scritture: esse replicano non solo e non tanto alla corrispondentescrittura giuridica a favore di Ravanas, ma all’insieme delle scritturee degli atti pubblici prodotti da Ravanas stesso dall’inizio del . Lafigura dell’avvocato difensore dell’imprenditore provenzale e le sueargomentazioni giuridiche scivolano in secondo piano: l’avversariodell’avvocato Casavola è Ravanas ed il complesso delle sue pubbli-cazioni. Le due ampie allegazioni sono costruite con l’obbiettivo

. Per D. Pietro Ravanas, p. .

. Memoria per D. Francesco Lopane contro D. Pietro Ravanas negoziante domiciliato in Baridella Gran Corte Civile di Trani, Trani, Tipografia Sante Cannone e figli, .

. Supplemento di difese per D. Francesco Lopane contro D. Pietro Ravanas aîné negoziantedomiciliato in Bari nella Gran Corte Civile di Trani, Trani, Tipografia Sante Cannone e figli, .

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di evitare di lasciare gli avversari del provenzale inchiodati ad unpiano argomentativo esclusivamente giuridico, nel mentre egli sipresenta davanti alla Gran Corte mobilitando risorse argomentativee strumenti di persuasione dei giudici costruite su una molteplicitàdi piani ed ambiti, anche se queste non sono affidate a scritture nondestinate espressamente ad essere adoperate nel rito giudiziario. Èuna asimmetria che l’avvocato di Lopane ritiene pericolosa per l’esitodel processo. Egli reagisce ibridando, per così dire, il genere dell’al-legazione: in particolare nelle parti introduttive e conclusive ed inquella denominata canonicamente « fatto », il tono e l’argomentazio-ne diventano lontanissime dalla sobrietà e dal tecnicismo di questotipo di scritture.

La risposta alla mobilitazione da parte di Ravanas al suo capitalemorale di negoziante poggia su quattro punti. In primo luogo, sidenuncia il tentativo da parte di Ravanas di nascondere la debolezzadella sua posizione davanti al mercato ed alla legge, confondendogli ambiti di azione. Egli cerca di ottenere dilazioni sui pagamenti inscadenza nientedimeno che alla « interposizione della prima autoritàdella provincia »; invoca il « potere diplomatico » per impedire chevenga a galla la sua spaventosa condizione debitoria; e, soprattutto,si rifiuta di pagare irrobustendo i suoi sofismi legali con « il pesodella sua opinione [. . . ] quasicché la rinomanza potesse qualche voltaservir di scusa per appropriarsi le sostanze altrui ». Dica — scrivel’avvocato facendo riferimento al Certificato allegato alla Memoria del — se i suoi comportamenti commerciali sono degni

di quell’uomo probo che si spaccia. Esibisca pure attestati in istampa diproprietarj che lo preconizzano come leale e benefico. Rassomiglia a coluiche per dimostrare la sua profondità nelle scienze, deduceva la sua etàmatura e la florida salute; o come quell’altro che per scusarsi di un misfattos’intratteneva a rammentare la sua vita divota. Si tratta di vedere se Ravanasabbia come negoziante adempito ai suoi doveri; e se sia tenuto a restituireuna somma per cambiali che dovevano andare in protesto; non già divalutare altre sue azioni estranee. E poi si sa che chi si rende autore digrandi macchinazioni, cerca sempre coprirsi con piccole opere di simulatabeneficenza, onde imporne al pubblico: ma ciò costituisce ipocresia e nonvirtù.

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

In secondo luogo, polemizzando con la distinzione fra stato diliquidazione e stato di fallimento a fondamento della difesa di Rava-nas (« puerili cavilli »), l’avvocato di Lopane propone, con una granmobilitazione di giurisprudenza e dottrina francese, una concezionedel concetto di fallimento del tutto deformalizzata, cioè come situa-zione di sospensione dei pagamenti che non ha bisogno alcuno delriconoscimento della giustizia. In questo modo, non solo si dimostrache Ravanas ha tratto le cambiali consegnate a Lopane su un fallito(Duchaliot), e quindi deve risponderne lui, ma può definire lo stessoRavanas fallito, dal momento che non è più in grado di far fronte aipropri impegni commerciali.

Su questo negoziante fallito, che per non dichiararsi tale « va strap-pando firme e falsi attestati per proclamarsi da se medesimo l’eroe delcommercio », può essere impunemente riversato un fiume di insultidi straordinaria violenza — egli è esempio di « turpitudine », « mala fe-de » e « sopraffina malizia », autore di un « piano depressivo della mo-rale e della giustizia », « sordo ad ogni principio di onore », « tristoesempio pei commercianti » — che attaccano frontalmenteonare ilprestigio con il quale si presenta davanti ai giudici.

Infine. Ravanas non è affatto l’eroe solitario dell’immagine da luicostruita, ma uno dei tanti negozianti provinciali, contro i quali sipossono mobilitare gli elementi essenziali della polemica contro ilcommercio in generale che — ci torneremo nel paragrafo seguente— proprio in quegli anni va emergendo nell’ambiente provinciale informe nuove rispetto a quelle secolari. Così il « proprietario » Lopa-ne, incardinato nei valori stabili e millenari della terra, può essereopposto al « negoziante » Ravanas, esponente tipico di quei « tempimoderni, epoca tanto vantata della civiltà », nei quali si osserva « lamala fede » e « la malizia umana camminare a pari passi coi crescentilumi del secolo ».

La sentenza della Gran Corte Civile di Trani, emessa nell’udien-za del giugno dopo che in quella precedente del giugno

. Ivi, p. .

. Ivi, in particolare p. .

. Ivi, pp. –.

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ibidem.

. Memoria per D. Francesco Lopane, pp. –.

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« si intesero le conclusioni de’ signori Azzella e Casavola [. . . ] non-ché le di loro rispettive arringhe », è, come di dovere, redatta inuna prosa scarna; ma dà ragione a Lopane in forme che recepi-scono nella sostanza la strategia estremamente aggressiva del suodifensore. Lopane viene definito come « colui che con tanta buonafede [. . . ] pagò il denaro » a Ravanas, e, dato che « la legge soccorresempre la buona fede », è giusto che gli venga restituito da partedi colui che la buona fede ha tradito. Condannato « anche conarresto personale », Ravanas vede il suo nome glorioso trascinatonella polvere.

A questo punto si indebolisce vistosamente anche la posizionenel contenzioso che lo oppone a Cavalieri e che si trascina ancoraa lungo. Dopo una sentenza a lui favorevole in prima istanza smen-tita in sede di appello, Ravanas ricorre nuovamente presso la GranCorte Civile di Trani. E, ancora una volta, dopo aver « comunicatoi documenti e portato la causa alla discussione » e nell’attesa dell’u-dienza, l’avvocato Azzella, questa volta affiancato da Lorenzo FestaCampanile, un professionista illustre, l’autore forse più prolifico inprovincia di allegazioni a stampa, produce un’altra ricca memoria ela pubblica.

. ASB, sezione di Trani, fondo Gran Corte Civile, , .., cc. –v.

. ASB, sezione di Trani, fondo Gran Corte Civile, , .., cc. –; ,.., cc. –v.

. Si veda, fra l’altro, Lorenzo Festa Campanile, Memoria a pro de’ signori D. Luigi, e D.Giambattista Sagarriga Visconti contro il signor Principe di Cariati, s.l., Tipografia Porcelli, [];Candido Turco, Lorenzo Festa Campanile, Giunta per gli eredi Vergine contro Portaruli, e Sellari,s.l., s.n., []; Francesco Savoia, Lorenzo Festa Campanile, Per lo signore Giuseppe Beltranicontro le signore Jodioux e Mignier nella Gran Corte civile di Trani per la udienza del dì a relazionedell’onorandissimo signor consigliere Bonfanti, Trani, dalla Tipografia di Sante Cannone & Figli,; Lorenzo Festa Campanile, Pietro Azzella, Per D. Pietro Ravanas aîné contra D. Luigi Cavalieri,e D. Riccardo Duchaliot rappresentante della ditta Claudio Duchaliot nella Gran Corte Civile di Trani,Trani, dalla Tipografia di Sante Cannone e Figli, ; Lorenzo Festa Campanile, VincenzoIngravallo, Teodorico De’ Soria, Per l’avvocato De’ Soria contra i signori Sancio, Nella Gran Cortecivile di Trani, Trani, s.n., []; Lorenzo Festa Campanile, A pro di D. Giambattista Bianchicontro D. Giuseppe Giordano della Gran Corte Civile di Trani, Trani, dalla Tipografia di SanteCannone & Figli, ; Emilio Favale, Lorenzo Festa Campanile, Per lo reverendo capitolo diGioja contro D. Teodorico Soria nella G. C. civile di Trani udienza del dì febbraio a relazione delloegregio consigliere signor D. Michele Gattini, Bari, Tipografia Cannone, ; Pasquale Arnone,Lorenzo Festa Campanile, Memoria pel consigliere municipale di Terlizzi sig. Domenico De Nicolocontro il Sindaco sig. Gioacchino Guastamacchia per la . sezione del Tribunale Circondariale di Traninella causa a decisione pel febbraio , Trani, dalla Tipografia di Sante Cannone e figli, . Suquesto personaggio cfr. P. Discanno, Parole dette sul feretro di Lorenzo Festa Campanile, Trani .

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Le forme ed i temi si ripetono, anche se ora le accuse si rivol-gono con particolare violenza contro Duchaliot. Dopo un « cennostorico per snebbiare la causa dalle declamazioni degli avversari »,si disegna un Ravanas « facile » e « fidente » nelle operazioni di com-mercio, vittima di « agguati », di una « frode spiattellatissima »,di uno « schifoso abuso di fiducia » che « dà luogo allo scandalosopiato attuale ». In più c’è una sorta di avviso ai suoi creditori ed al-l’ambiente provinciale, a smentita delle « vociferazioni » con le qualiDuchaliot, col soccorso dei « brani di cento lettere di Ravanas » dalui stesso « affastellate », « riempie la capitale e le province »: inparticolare quella che dava Ravanas in procinto di fuggire in Franciaportando « seco. . . il denaro dei pugliesi ed i gran capitali di Ducha-liot ». « Ravanas è troppo uomo di onore, e tuttoché messo a duedita da tremenda ruina pei tranelli Duchaliot, di che un cruento esem-pio offre la causa attuale, pure non si è discostato un passo dal suodomicilio, resistendo alle coattive premure di autorevolissimo perso-naggio. Solo restò a fronte di tutti gli urti: tutti gli à superati mercé lapiù operosa costante probità ». L’« autorevolissimo personaggio »,a quanto pare l’Intendente della provincia, vorrebbe nientedimenoliberarlo dalle aggressioni di creditori veri o presunti sottraendoloalla giustizia; ma lui ha deciso di sfidare la sorte: chi volesse, sa doveandarlo a cercare.

Stavolta gli avvocati della parte avversa non ritengono valga lapena di rispondere con una nuova allegazione a stampa: l’affaireLopane ha dato una sorta di colpo di grazia all’immagine e alla fa-ma di Ravanas, che non appare più una risorsa importante nellospazio giudiziario. Ciononostante la Corte, che pure lo condannadefinitivamente a risarcire Cavaliere, gli dà ragione nei confrontidi Duchaliot. Può essere un punto fermo dal quale ripartire; e, in

. Per Don Pietro Ravanas cit., p.

. Ivi, p. e .

. Ivi, p. .

. Ibidem.

. Ivi, p.

. Ivi, p. , nota.

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ibidem.

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effetti, Ravanas tenta il rilancio imprenditoriale. Ma farsi risarcire dalsuo socio illustre non è impresa a portata di mano: con Duchaliotil contenzioso prosegue senza esito in sedi lontane. Il rischio delfallimento e dell’« arresto personale » incombe ancora, e Pierre ècostretto a vendere gli oleifici e la casa di Bari, già ipotecati. Va astabilirsi a Modugno, un centro dell’immediato entroterra barese incui può contare su solidi legami ed appoggi, e cerca di ricominciarea manovrare sul mercato dell’olio, ravvivato, così come il mercatointernazionale nel suo complesso, dalle nuove tariffe doganali “liberi-ste” del –. Lo incontriamo ancora a concludere qualche piccoloaffare e nella spedizione di un carico di olio dal porto di Monopoli nel destinato a Venezia. Nel rimette in attività il grande oleificiodi Modugno. Ma, anche se non è formalmente bandito dal mondodegli affari, il suo nome illustre è diventato oramai un ostacolo.

Già dai primi momenti di difficoltà Ravanas aveva chiamato daAix un suo nipote, Charles Pons, discendente di una famiglia atti-va, sin dall’inizio del Settecento, nel commercio oleario sulle rotteche sboccano a Marsiglia, che gli ha già prestato somme di dena-ro con garanzia ipotecaria per ducati: un nome nuovo, chepuò essere facilmente nascosto fra quelli degli stranieri che, sem-pre più numerosi, si affollano sulla piazza di Bari, può fornirgli unabuona copertura per continuare a fare commercio. Con i capitalidi suo zio Jean–Baptiste e in corrispondenza con Giovani Pagliano,un negoziante ligure installato a Napoli dove risulta molto attivo,Pons collabora con Pierre e lo istituisce suo mandatario ufficiale. Nelnovembre , associando la sua firma a quella di due dei vecchicollaboratori di Pierre Ravanas, Abèle Durand e Nicola Bottalico, conl’avallo di Giovanni Pagliano, Pons ottiene un credito di ducatialla dogana di Bari e spedisce alcuni carichi a Venezia. È il livellodella folla dei piccoli commercianti che si muovono ai margini dellegrandi case di commercio baresi e straniere: i . ducati per i qualiPierre era accreditato appena qualche anno prima e che l’avevano col-locato ai vertici del negozio della provincia danno la misura del suomondo perduto. Ravanas fa un ultimo tentativo di farlo rivivere nel

. Cfr. la lettera di Abèle Durand a Jean–Baptiste Ravanas datata Napoli luglio :« Votre frère attend avec impatience M. Charles Pons, ne s’arrangeant pas avec Duchaliot il nepourra travailler sur son nom » (APR).

. Memoria per D. Francesco Lopane cit., p. .

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

, lanciandosi in un ultima avventura, in Calabria. Dopo l’esitosfortunato dell’accaparramento di oli che vi realizza la sua carrierasi trascina stancamente, fra conflitti e rivendicazioni che investonoquesta volta anche i suoi parenti–soci, il nipote Pons ed il fratelloJean–Baptiste in primo luogo. Ma è una vicenda sostanzialmentefinita.

Pierre ha . Ha da vivere ancora anni lontano dal mondodel negozio nel quale era nato e aveva acquisito rinomanza. Volati-lizzatosi il patrimonio, dei cui residui il tribunale di Trani disponenel ’ la vendita giudiziaria, privo delle risorse del suo lavoro edella solidarietà dei parenti di Aix, che lui stesso ha contribuito aconsumare col suo atteggiamento rivendicativo, Pierre è costretto,insieme a moglie e figlia, « a battere alle porte di case amiche » dellaprovincia. Le disavventure commerciali e gli attacchi velenosi di cui èstato oggetto fuori e dentro le aule giudiziarie non hanno cancellatoil ricordo delle sue gesta: il Consiglio Provinciale di Terra di Baritorna con enfasi e ripetutamente ad esaltare l’imprenditore giuntoin provincia « giovine, generoso, probo e ricco » ma impoveritosiper la malvagità di pochi; la pubblicistica lo ricorda come costruttoredi quel « benessere sociale » diventato, tramite Lodovico Bianchini,ideologia pubblica di questa fase estrema del Regno napoletano; ilre gli conferisce una seconda medaglia d’oro. Ma ora gli onori, da

. V. Ricchioni, Un pioniere forestiero del Risorgimento agrario meridionale, poi in Id., Studistorici di economia dell’agricoltura meridionale, Firenze , pp. –, p. .

. APR, lettera di Jean–Baptiste Ravanas a Pierre Ravanas, ..; ASB, sezione diTrani, fondo Gran Corte Civile, Causa Pons, Speranza, I e II foglio di udienza, ... Neglistessi anni Ravanas è implicato, a vario titolo, in numerosi altri processi: cfr. fondo Tribunalecivile di Trani, Tribunale civile di Trani, causa Ravanas, De Stefano, I e II foglio di udienza,..; causa Ravanas, De Stefano, I e II foglio di udienza, ..; causa Ravanas, De Stefano,I e II foglio di udienza, ..; causa Ravanas, Durand, I e II foglio di udienza, ... fondoGran Corte Civile, causa Pons, Ravanas, Speranza, I e II foglio di udienza, ..; causa Pons,Ravanas, Speranza, I e II foglio di udienza, ...

. G. Lodispoto, Avvisi ed Affissi, Trani . ASB, sezione di Trani, fondo Tribunale civiledi Trani, Fogli di udienza, nn. , , .

. Ricchioni, Un pioniere « forestiero » cit., p. .

. Dalla citata risoluzione del consiglio provinciale di Terra di Bari del maggio ,riportata in Sylos, Per la scuola olearia cit., p. . Cfr. anche la risoluzione del maggio , ivi,pp. –.

. Il rescritto della concessione regia è del maggio . La medaglia porta questa iscrizio-ne: « Petro Ravanasio sen. quod artem oleariam in Peucetia auxerit diffuserit — MDCCCLIV »( Ricchioni, Un pioniere, p. ).

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risorsa della vita di impresa, sono degradati a strumento per acquisiregli indispensabili mezzi di sussistenza. L’ultimo successo lo ottienein questo campo, mobilitando in suo favore settori dell’opinione pro-vinciale che conta e facendo arrivare petizioni al trono. Con rescrittodel dicembre il sovrano lo strappa dalla miseria assoluta conuna pensione di ducati annui a carico della Provincia per la duratadella sua vita e di quella della figlia. A questo punto la sua esisten-za può collocarsi in una sfera di dignitoso riserbo. Si trasferisce aTrani, relativamente al riparo dalle direttrici dell’economia provin-ciale. Lì, nel ’, perde la moglie, e l’anno successivo dà in sposa lasua unica figlia Mélanie, alla quale era comunque riuscito a fornireuna formazione negli educandati femminili delle élites baresi, adun napoletano di nobili origini, Roberto del Balzo, che dopo unacarriera nei tribunali tranesi vi era diventato conservatore delle ipo-teche. Quando, nel , Mélanie si trasferisce a Napoli col marito,Pierre fa ritorno in Francia. Il fratello vi è morto da poco, lasciandoai quattro figli faccende giudiziarie non ancora sistemate, derivantidal suo coinvolgimento nell’avventura meridionale. Per il resto,dal momento che i tre maschi seguono, rispettivamente, la carrieralegale, quella ecclesiastica e quella militare, il rapporto dei Ravanascol negozio si è esaurito anche nel loro ambiente d’origine.

Pierre si apparta ad Arles e poi a Marsiglia, dove muove nel in casa di un nipote.

.. Da una narrazione federativa ad una narrazione oppositiva

Dal momento che il racconto diffuso costruitosi negli anni Trentadell’Ottocento poggiava la prosperità della provincia tutta sulle spalledi una singola eroica figura di imprenditore, esso non può sopravvi-vere alla vicenda del “fallimento” di Ravanas, che, mettendo in gioconegozio ed etica in egual misura, si è svolta non solo dentro gli am-

. Sylos, Per la scuola olearia cit., p. .

. Insieme alle signorine Longo e Amély, Mélanie era stata premiata ai saggi musicalifinali del dell’istituto « Batifort e Wembacher » (P. Moliterni, La cittadella della musica, inStoria di Bari cit., p. ).

. APR, lettere del figlio Cyrille Felix Toussaint al suo avvocato del .., ..,..; « Requête en défence des Ravanas du .. »; « Requête en demande de nullitéd’opposition des Lezeaud contre Ravanas du .. »; « Jugement du tribunal civil de Marseilledu .. déclarant nulles les oppositions des Ravanas ».

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

bienti del commercio e della giustizia, ma, anche per volontà dellostesso Ravanas, nello spazio pubblico. Si aprono così all’improvvisopossibilità ampie perché altri materiali narrativi vengano organizzati,fatti circolare ed ufficializzati nei luoghi del potere, per dar conto dellaprosperità di una provincia che non viene certo meno con l’uscita discena di Ravanas.

Frammenti di questi materiali non erano del tutto assenti anchenegli anni culminanti della parabola di Ravanas, e si affiancavano alracconto di gran lunga prevalente che esaltava l’imprenditore stra-niero. Sia pure presentati in forme non esplicitamente polemiche,accenti e riferimenti erano significativamente diversi. In particola-re l’ottimismo sull’economia presente e futura della provincia, giàesplicito nel racconto pubblico centrato su Ravanas, appare a volteproposto in forme iperboliche e fondato su una gerarchia dei settori edei ceti imprenditoriali irrigidita. È soprattutto a Bari — una città conla quale Ravanas aveva avuto rapporti ambigui e spesso conflittuali —che questi discorsi vengono elaborati e messi in circolazione.

L’entusiasmo sulla prosperità della provincia si proietta, nei di-scorsi dell’avvocato barese Carlo D’Addosio di fronte alla SocietàEconomica di Terra di Bari, sul Regno intero:

chiunque, dopo di aver senza prevenzioni osservato lo stato attuale di popo-lazione del nostro Regno, quello delle nostre manifatture, la moltiplicazionedei nostri prodotti in tutti i diversi rami delle industrie agrarie, la superioritàde’ cambi in tutte le diverse piazze di Europa, la facilità delle comunicazioniinterne, lo stato infine delle nostre relazioni commerciali e della navigazio-ne della nostra marina mercantile, non può non convenire esser noi [. . . ]pervenuti a tal punto di progresso e di floridezza da poter senza iattanzaprender posto tra le più incivilite nazioni d’Europa.

All’avanguardia del progresso è, ovviamente, la provincia e ilsuo capoluogo. L’agricoltura provinciale — affermano i decurio-ni baresi nel — è « abbondevolissima di frutti di straordinariagrandezza » e non ha bisogno alcuno di « immeliare »; e la cittàche vi presiede, Bari, è già ora « floridissima, popolosa, procaccian-te », « piena di uomini spigliati e ingegnosi [. . . ], doviziosissima di

. Atti della Reale Società Economica della provincia di Terra di Bari, Bari , pp. –.D’ora in poi questa pubblicazione annuale verrà citata come Atti, più l’anno di edizione, checorrisponde all’anno della « tornata solenne » di cui si pubblicano i discorsi principali.

. ASB, Deliberazioni decurionali del Comune di Bari, novembre .

. C. D’Addosio, in Atti , p. .

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capitali », ed è destinata a una « immensa prosperità ». Il motivodella città « centrale di sito, e centrale di commercio », sul qualeera stata condotta nel periodo francese la rivendicazione e la difesadel ruolo di capoluogo di Bari e la richiesta insistita di istituzioni edinvestimenti pubblici, viene riscattato dalla contingenza e presen-tato come il prodotto ineluttabile del suo commercio: non quellobuono, socialmente benefico, che nel racconto centrato su Ravanasveniva contrapposto a quello cattivo, speculativo e opprimente neiconfronti dei produttori; ma il commercio tutto, come attività uma-na di per sé gerarchicamente superiore alle altre, a quella stessaagricoltura santificata da retoriche vecchie e nuove. È il commerciolo « spirito motore dell’ingegno umano, dell’industria, delle arti esorgente inesauribile di ricchezza di ogni civil comunanza »; « inparagone dell’agricoltore e dell’artefice il commerciante è collocatoin una condizione più alta e civile; talché stando egli di mezzo trail produttore e il consumatore le sue attinenze lo legano a tutti gliordini della società, e le permutazioni e le sue svariate intrapreselo sottopongono a mille casi di dubbia fortuna ». Dunque non discuole di agricoltura, come vuole il governo borbonico, c’è bisogno,ma di scuole di pilotaggio; non di monti di pegni, che rischiano diindurre nel contadino « imprevidenza » e « infingardaggine », ma diistituzioni creditizie a sostegno dell’intrapresa mercantile. E, datoche questa fiorisce soprattutto a Bari, è lì che bisogna concentrarele risorse scarse disponibili. Toccherà poi ai mercanti, una voltamessi in grado di perseguire il proprio tornaconto, diffondere ilbenessere dalla loro città sul territorio.

Calati nel contesto provinciale, questi materiali discorsivi assu-mono una concretezza, per così dire, nominativa: essi fanno direttoriferimento ai « piccoli negozianti » disprezzati da Ravanas, che van-no a loro volta creando nessi, reti, consenso; e che, d’altro canto,dopo essere usciti dalla condizione marinara ed approdati al negoziodignitoso gestito non più andando per mare ma dal chiuso delle bot-teghe in città, cominciano a produrre una generazione in cui sono

. G. Chiaia, in Atti , p. .

. L. Attolini, Memoria per la città di Bari metropoli e primate di Puglia, Napoli , p. .

. C. D’Addosio, in Atti , p.

. G. Chiaia, in Atti , p. .

. ASB, Deliberazioni decurionali del comune di Bari, novembre

. C. D’Addosio, in Atti , pp. –.

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

ben rappresentati professionisti — avvocati in primo luogo — dotatidei mezzi tecnici per contribuire in prima persona alla costruzionedi racconti collettivi. I riferimenti nominativi diventano esplicitiquando, per la prima volta, vengono date alle stampe necrologie dinegozianti locali. La prima, del è l’orazione funebre dedicataa Don Vito Diana, letta « alla presenza d’ogni ragion di persone, emassime di mercatanti », nella chiesa della congrega di « personecivili » a cui Diana era « affratellato », da Giulio Petroni, professorenel locale liceo e futuro storico della città. Qui la prosperità dellaprovincia ha una sua eziologia precisa e del tutto alternativa a quelladel discorso ancora dominante. Siamo due anni prima della crisi diRavanas, e questi è più che mai universalmente esaltato; ma Petroninon lo cita neanche. Il suo eroe è tale in quanto, al contrario delFrancese, rifiuta ogni postura eroica, schiva la rinomanza sancitadai poteri amministrativi, rifugge dai gesti clamorosi. Le virtù diDon Vito, sottolinea l’oratore, non sono quelle illustri della nobiltàdel sangue e dell’ingegno, ma quelle modeste della operosità, del-la beneficienza non formalizzata e ritualizzata, della scioltezza neirapporti con individui collocati in ogni punto dello spettro socia-le: « sapeva [. . . ] che il vero pregio d’un negoziante dopo la lealtàe la fede non è punto il fasto importuno, ma la gentilezza dellemaniere, il parlar corretto e breve, l’erudirsi l’intelletto di quellescienze che sono aiutatrici del commercio ». Egli era giunto allavisibilità simbolica nello spazio sociale urbano senza perseguirla:« senza uscire dalla condizione sua si rese degno della riverenza ditutti ». La stessa cerimonia funebre solenne e la stampa della ne-crologia, che non avevano precedenti per quanti erano rimasti nella« condizione » di negoziante, hanno agli occhi di Petroni bisogno diuna giustificazione, che egli trova in quella generale « riverenza »,nel prestigio sociale conquistato da Diana dall’interno della sua mo-desta bottega. Sono personaggi come questo, di taglia modesta pergli sguardi “esterni”, i protagonisti della rivoluzione sociale pacificama dirompente che ha prodotto la prosperità della provincia. Essa èapprezzabile in pieno da chi ha memoria per sporgersi verso l’am-biente in cui era nato ed aveva cominciato a far negozio. « Fu lungotempo fra noi », scrive nel l’autore della seconda necrologia

. G. Petroni, Poche parole di lode alla memoria di Vito Diana mercatante barese, Bari ,p. .

. Ivi, p. .

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barese di negoziante, prodotta da un avvocato di diretta discendenzamarinara,

la ricca e numerosa classe dei Commercianti, che rozzi nei modi, aspri negliatti, duri nelle parole, poveri di sapere, quanto ricchi di argento, altro nonpoteano a lor laude vantare, che integrità di animo e lealtà di costumi. Manon abbiam poi veduto col volger di meno di un secolo questa città cangiarsembianze, e dalla piazza di gretti speculatori, come quei di oltremontiper dileggio l’appellavano, levarsi di tratto a posto di florida gentile e coltaCapitale delle Puglie [. . . ]? E a chi in gran parte tanto si debbe, se non aiMercatanti, che ingentilitisi, e conosciuta la falsità del vieto sistema, volleroi loro figli e dotti e colti, e in lontane contrade menaronli chi ad appararvile scienze e le maniere della vita, chi a nobilitarne i modi colle cognizionie le pratiche di ben atteso viaggiare? E, sia lode alla sua memoria, il Dianaprimo ne dava l’esempio, cui non fu tardo a seguire il Giuseppe Milella, equanti altri erano, e sono oggi cospicui sostenitori del patrio fioritissimocommercio.

Con il fallimento economico ed etico di Ravanas, il nuovo rac-conto e la nuova eziologia della prosperità, fondata non su un eroesolitario ma su un soggetto collettivo — i « mercatanti ingentilitisi »baresi — si afferma rapidamente, e può proiettarsi sui tempi lun-ghi, fornire un costrutto attorno al quale strutturare una memoriaurbana. Il tema della « città del negozio » fornisce il bandolo peruna ricostruzione del passato di Bari intesa come compito civile edistituzionale. Il Decurionato la aveva già nel sovvenzionata edaffidata al notaio Giuseppe D’Addosio, più volte schierato in Consi-glio Comunale a favore dei negozianti ed appassionato raccoglitoredi memorie patrie; e poi, non avendo questi portato a termine l’im-presa, a Giulio Petroni, l’autore della necrologia di Diana, collega eparente, tramite l’erudito settecentesco Emmanuele Mola, del figliodi Giuseppe D’Addosio, quel Carlo già citato, pubblico funzionariolui pure entusiasta della prosperità commerciale della città. La primavera storia di Bari può così vedere la luce, raccolta attorno ad un mitodi grandezza originaria ben più forte di quelli che avevano circolatonella erudizione e nella agiografia dei secoli precedenti: l’idea di unaoriginaria prosperità commerciale smarritasi nei tempi bui, che lacittà va man mano riguadagnando non grazie ad apporti forestierie ad invenzioni geniali, ma all’« indole » dei Baresi. Il commercio è,nelle pagine finali della storia di Petroni, la dimensione psicologica,

. L. Traversa, Brevi cenni sulla vita di Raffaele di Giuseppe Milella, Bari , pp. –.

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

il terreno dei rapporti interpersonali di ogni qualità di abitanti dellacittà; costituisce il clima dentro cui si amalgamano vecchi residentie nuovi arrivati, l’alto ed il basso dello spazio sociale. I Baresi sonoin generale dotati di un « pronto giudizio e scaltro accorgimento »che applicano di rado alle scienze ed alle lettere, vinti come sonodalle lusinghe dei traffici. « L’ingegno speculativo si dimostra [. . . ]fin ne’ fanciulli da trivio, che, raggranellate poche monete, si dannoincontanente a comprare e rivendere cosette »; esso li accompagna daadulti, e continua a possederli se e quando riesce loro di arricchirsi.L’itinerario qui più seguito non è quello canonico dall’impresa allaproprietà, ma, se mai, quello inverso: « nelle ragioni della mercaturavolentieri si mette chi prima vivea di sole sue entrate, e fors’anchechi di nobil vita era vago ». Fra coloro che « non hanno avita fortu-na, molti in breve se la sanno formare da sé »; gli altri vivono confierezza e lealtà la loro condizione di subalterni del mondo del com-mercio, lavorano indefessamente, borbottano molto ma « ad ogninuova istituzione agevolmente si piegano ». In generale « trovi [. . . ]un certo fare di confidente uguaglianza fra tutte le classi, un pococurarsi di titoli senz’autorità; effetto questo di vita commerciale: ilche può dispiacere ai teneri delle prerogative di nobiltà, agli altri nondispiace ».

Apparentemente più corale e dunque più coinvolgente di quellocentrato su Ravanas, questo racconto è viceversa dotato di una capa-cità di creare consenso ben inferiore a quello che lo precede. I cetiurbani che lo animano tendono a creare “scissione”, opposizioneviolenta non solo nelle aree sociali e territoriali emarginate e condan-nate dallo sviluppo mercantile, ma all’interno stesso dei luoghi focalidella crescita, ed evocano narrazioni contrapposte negli stessi am-bienti in cui si tessono le lodi dei « mercatanti ingentiliti ». In quellaSocietà Economica che risuona dell’oratoria ottimista dei D’Addosio,dei Chiaia, dei Petroni, occupa il ruolo apicale di Segretario Perpe-tuo Francesco Santoliquido, che va denunciando insistentemente icaratteri di uno sviluppo che rompe equilibri consolidati senza appre-starne di nuovi, che precipita fasce di società rurale in una condizionedi instabilità e miseria provocata dai rapidi e facili arricchimenti di

. G. Petroni, Della storia di Bari dagli antichi tempi sino all’anno libri tre, vol. II, Napoli, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

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pochi; che « seduce » i contadini, con le « prospettive lusinghevolidell’agio » e col « falso calcolo di migliorare la propria condizione »,a disertare le campagne per rifugiarsi in città e viverci di espedienti,sul crinale fra il lecito e illecito. Afferma Santoliquido nel :

L’odierno cosiddetto incivilimento lungi dall’immeliar le sorti della provin-cia, le ha fatte indietreggiare, perocché ha espulso gli uomini dai campi [. . . ]li ha impigriti, resi sensuali, corrotti [. . . ]; quindi fuorviati, li vede a vicendao per licenza infami, o per corruzione spregevoli; e distrutta così la bilanciaeconomica delle famiglie, vanno tosto o tardi a cadere in grembo ad unamiseria, dalla quale riesce difficile e talora impossibile il risorgimento.

Il successo della « lusinga » urbana è fondato sulla crisi della civiltàdei campi. Il giudizio sull’agricoltura provinciale può essere negativotanto quanto è entusiasta quello degli esaltatori del commercio: « ditutto siam ricchi in questa provincia, meno di certa industria cam-pestre », afferma il Moscatelli. Arretratezza tecnica, ignoranza dicontadini e massari, scarsezza di capitali aggravano gli effetti dellostravolgimento degli equilibri tradizionali, creando una situazioneprecaria, pericolosa. Anche la produttività relativamente alta dellacerealicoltura della provincia settentrionale e della Puglia piana, sot-tolinea Carlo De Cesare, ha basi fragili, è da attribuire alla naturalefertilità della terra dissodata, che è risorsa non rinnovabile data la crisidella pastorizia e la conseguente riduzione degli ingrassi disponibilie delle sinergie possibili. Il rigoglioso progettismo agriculturista ot-tocentesco — che va assiduamente avanzando proposte di rilanciodella pastorizia vagante, di realizzazioni di prati artificiali e di rimbo-schimento, di facilitazioni per la gelsicoltura e le manifatture rurali —vuole in qualche modo risarcire le lacerazioni prodotte dalla grandetrasformazione dell’economia agraria, ripristinare l’antica centralitàdel momento della produzione, ristabilire quella « progressione dal-l’agricoltura alle arti al commercio » che eviterebbe di consegnarele sorti della regione solo alle sue città e ai traffici che vi si annodano.

. F. Santoliquido, in Atti , pp. –

. Id., in Atti , pp. –.

. Id., In Atti , p. .

. C. De Cesare, Intorno alla ricchezza pugliese, Bari e Id., Delle condizioni economiche emorali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia, Napoli .

. F. Santoliquido, in Atti , p. .

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

Anche perché, agli occhi degli “agriculturisti”, le funzioni dire-zionali espresse dalle città appaiono carenti e spesso perverse. « Ilcommercio barese — afferma De Cesare riprendendo un tema diffu-sissimo, in qualche misura presente anche nella narrazione centratasu Ravanas — non è che spacciato monopolio, spoliazione usuraia,rovinoso aggiotaggio ». « Dalle piazze di Barletta e di Bari partono aguisa di locuste tanti commessi delle case di commercio ivi stabilite, iquali si diramano per la provincia [. . . ], e in tempo d’inverno, quandol’industrioso ha maggiore bisogno di danaro per la coltivazione deicampi, si pongono come vampiri in agguato, aspettando che l’infeli-ce agricoltore venga a chiedergli somme a prestanza », per poterloricattare con tassi e condizioni usuraie. La funzione creditizia eser-citata dai « piccoli negozianti » ormai trionfanti, lungi dal sostenerel’agricoltura, contribuisce a tenerla in condizione di precarietà, ne ri-duce i margini di profittabilità e la costringe a inseguire, nella ricercadisperata del guadagno immediato che la emancipi dalla tutela degliusurai, la congiuntura spesso bizzarra della domanda internazionale,cercando di adeguarvi le scelte colturali.

È qui un altro aspetto funesto dello sviluppo trainato dalle città.Dall’età della Restaurazione a fine Ottocento, quando i Fiorese egli Jatta potranno ripensare lo sviluppo provinciale a partire dagliesiti drammatici della crisi vinicola, il filo rosso che percorre la ri-flessione “agriculturista” è la preoccupazione suscitata dalle coltureche si estendono « rompendo gli argini della proporzione colle al-tre coltivazioni » e « la equilibrata varietà della produzione »; iltimore degli esiti nefasti della « mania di piantare alberi [. . . ] fino adabusarne », dell’alterarsi l’« antica corrispondenza » a favore della« soverchia specializzazione » che « avvelena [. . . ] il nostro sistemaagrario pugliese ». La sovraesposizione commerciale indotta daimercanti condanna i produttori « a patire sovente quelle convulsioni

. De Cesare, Intorno alla ricchezza pugliese, p. .

. Memoria letta, ed indirizzata al Sig. Intendente della Provincia Cavaliere D. Gennaro di Tocco,nel giorno maggio , dal Vice Presidente della Società Economica, in Le relazioni alla SocietàEconomica di Terra di Bari, a cura dell’Amministrazione della Provincia di Bari, vol. , –,Molfetta , p. .

. S. Loffredo, Storia della città di Barletta, vol. Il, Trani , p. .

. Santoliquido, che riferisce l’opinione del socio C. Palmalà di Montrone, in Atti ,p. .

. È l’opinione del Froio riferita da A. Jatta, cit. in F. De Felice, L’agricoltura di Terra di Baridal al , Milano , p. .

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che l’arbitrio di [Trieste e Venezia] gli suscita e muove », taglia iponti alle spalle di un’agricoltura che va man mano concentrandosisu un ventaglio ristrettissimo di prodotti, mancando i quali « le piùbelle provincie del Regno, quali sono quelle pugliesi, precipitanoin una desolante e commovente miseria ». Nella stessa Cameradi Commercio barese, negli anni dello sviluppo travolgente dellavite, la sensazione di camminare sull’orlo del baratro si sarebbe fattaacutissima: « noi siamo addivenuti stranieri in casa nostra », affermaColumbo nella tornata del settembre . « Nella nostra provincianon vi sono opifici, manifatture, industrie estrattive, laniere, cotonifi-ci, tessuti, bachicoltura, industrie seriche, fabbricerie, e niuna delletante e tante industrie che fanno animato e vario il commercio dialtre regioni; noi non abbiamo che tre o quattro articoli di produ-zione agricola, ricchi articoli, non vi è dubbio, ma soli, e sui quali siavvolge e si sviluppa l’intero nostro commercio ». Tutto dipendecosì dai prezzi di quelle derrate, sui quali, però, non è possibile farealcun affidamento. Scrive L. Gentile nel :

da noi i prezzi dei cereali, dell’olio ed ora del vino non furono prezzinormali, ma di occasione e si errò nel ritenerli duraturi: sull’alto prezzodel grano influì la mancata produzione danubiana per la guerra turco–russa e risalì l’olio perché mancarono le qualità superiori nel Genovese ein Marsiglia; come il rincaro del vino oggi nasce dal momentaneo difettodell’Italia superiore. Ieri da tutti si produceva olio, poi grano, oggi vino,guardando non ai bisogni della nazione produttrice, ma ai mercati esteri.

Al centro di questa economia dell’azzardo non c’è più il « ceto diantichi proprietari laboriosi, istruiti in certo modo delle cose agrarie,leggitori assidui dei libri dell’antica agricoltura, onesti e patriarca-li »; quegli agricoltori che, protetti dai « residui degli ordinamentifeudali », avevano un « operare superiore al semplice calcolo di com-mercio ». Al loro posto « sottentrarono i mercatanti, gli speculatori,

. L. Moscatelli, in Atti , p. .

. C. De Cesare, Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie diPuglia, Napoli , p. .

. ASB, fondo Camera di commercio, Deliberazioni camerali, settembre .

. E. Di Ciommo, Bari –: evoluzione del territorio e sviluppo urbanistico, Milano ,p. , nota.

. De Cesare, Delle condizioni, p. .

. G. Romanazzi, Note e considerazioni sull’affrancazione de’ canoni e sul libero coltivamentodel Tavoliere di Puglia, Napoli , p.

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

gli uomini del dolce far niente, avvezzi a traricchire coi negozi dellaBorsa e con le usure: gente avversa all’agricoltura, ignorante e su-perba, la quale si considerava come sacrificata dai debitori coll’esserdiventata possidente, coll’aver dovuto prendere suo malincuore incambio del denaro mutuato le più belle possessioni di Puglia! ».Costoro sacrificano la « morale » alle « avventure produttive », alla« calma amministrazione delle [. . . ] antiche grandi e piccole masse-rie » sostituiscono quella « coltura intensiva » che mette in discussionela « pace sociale » e fa sì che tutti siano « travagliati dalla mobilità deifatti mercantili e dalle grandi incertezze dei profitti e degli averi ».Di qui il diffondersi di un rapporto strumentale coi campi, quel « nonsaper valutare la terra in se stessa », quell’incapacità di intenderel’agricoltura come mondo, come civiltà di rapporti fra uomini, chefinisce per far emergere nella sua crudezza, al di là del velo trasparen-te del contratto miglioratario, il deficit di controllo sociale che segnal’emergenza dei nuovi mercanti e della nuova economia. La salvezzaè affidata al ritorno in posizione di comando sulla compagine sociale,in forme che tengano conto dei tempi, il “filosofo di campagna”, ilproprietario che crea al contempo ricchezza e consenso, che mette incircolo merci e valori, che costruisce insieme al benessere individualei collanti ideali, tanto più indispensabili quando si vanno disfacendo inessi e gli istituti che tenevano assieme la vecchia società organica.

La città che, insieme ad una parte cospicua delle campagne puglie-si, viene travolta dalla crisi drammatica della fine degli anni Ottantaè un organismo profondamente fratturato. Le narrazioni diffuse so-no, da questo punto di vista, un segnale di processi che segnano inprofondità la società urbana nel suo complesso.

.. Epilogo

La crisi viticola può sembrare il verificarsi delle profezie sinistre degli“agriculturisti” pugliesi, e, comunque, costituiscono una smentitaclamorosa delle prose entusiaste dei propugnatori del progressocommerciale barese. L’opposizione frontale fra onore mercantile ed

. De Cesare, Delle condizioni, p. .

. S. Fiorese, Storia della crisi economica in Puglia dal al , Trani , p.

. Ibidem.

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onore proprietario, fra città del negozio e città delle campagne, nonpuò trascinarsi nei i tempi nuovi.

L’elaborazione di una narrazione all’altezza dei tempi procede, alsolito, in arene molteplici. Un centro di elaborazione essenziale tornaad essere — come quaranta anni prima con l’affaire Ravanas ma ascala ben maggiore — l’intreccio fra “parola giudiziaria” e “parolapubblica”. Lo jus irrompe di nuovo, in forme violentissime, nella vitaeconomica barese in occasione dei processi civili e penali per i falli-menti a catena che coinvolgono la gran parte delle élite economichedella città. Ancora una volta, ma con una risonanza moltiplicata dalladimensione straordinaria della vicenda e dalla diversa conformazio-ne della sfera pubblica, la partita che si gioca nelle aule di giustiziaviene portata, anche per volere dei protagonisti, nelle piazze. Dopole allegazioni stampate intorno alla vicenda Ravanas nel –, letipografie baresi tornano a stampare, questa volta a ritmo frenetico,allegazioni giuridiche a contenuto mercantile.

. Eccone alcune: Per il sig. Nicola Fione curatore della fallita De Angelis contro il sig. TommasoDe Angelis ed il banchiere sig. Giovanni Diana, Bari, Stabilimento Tipografico Gissi & Avellino,; Per il sig. Nicola Fione quale curatore della fallita De Angelis contro i sig.i Tommaso De Angelis,Giovanni Diana ed altri creditori, Bari, Tipografia Fratelli Fusco, ; Difese per Tommaso DeAngelis contro Nicola Fione voluto curatore dell’asserita fallita Tommaso De Angelis, Bari, TipografiaFerd. Petruzzelli e Figli, ; Ragioni in difesa di Martino Traversa banchiere di Bari imputato dibancarotta fraudolenta, Trani, s.e., aprile ; Per il sig. marchese Giovanni Diana contro la pretesafallita De Angelis, Bari, Tipografia Fratelli Pansini fu S. ; A difesa del signor Martino Traversaqm Filippo banchiere di Bari sugli appelli prodotti dall’ill.mo procuratore generale del re presso lacorte e dalla parte civile Bartolomeo Lefemine, s.a.i. []; Per il Signor Martino Traversa quondamFilippo contro i signori Giovanni Quinto, Antonio Sgobba ed altri, Bari, Tipografia Fusco, ; Per ilSignor Martino Traversa quondam Filippo contro i signori Luigi Azzone, Diego Amendoni e Gaetano deMartino, Bari, Tipografia Michele Grandolfo di Franc., s.d. []; Sentenza resa nella causa perbancarotta fraudolenta a carico di Martino Traversa fu Filippo banchiere di Bari, Bari, Tipografia diModesto Lepore, ; Sentenza pronunziata dalla corte di appello delle Puglie nella causa riflettentel’omologazione del concordato nel fallimento del signor Martino Traversa qm Filippo di Bari, Bari,Tipografia di Modesto Lepore, ; Per Angelo Saverio Positano contro la Società Aicardi &C. rappresentata dal Signor Giuseppe Pavoncelli e contro Luigi Aicardi fu Marco, Bari, TipografiaFratelli Pansini fu S., ; Ragioni in difesa dei sig. Saverio Carrassi e Gioacchino Gargano sindacidella fallita Martino Traversa qm Filippo di Bari contro Vincenzo Azzone, Bari, Tipografia di F.Petruzzelli e Figli, ; Avv. Ignazio Sarlo, Memoria nell’interessa della Ditta M. & A. Tossizzadi Parigi parte civile nella causa contro i signori Marchese Giovanni Diana, Michele Diana e VitoLuigi Alberotanza, imputati di bancarotta fraudolenta, truffa, ecc., Trani, Tipografia V. Vecchie C., ; Un fantasma di bancarotta fraudolenta a difesa dei signori Marchese Giovanni Diana,Michele Diana, Vito Luigi Alberotanza, Giovinazzo, Tipografia del R. Ospizio V.E., ; CausaDiana–Alberotanza, alligati, s.a.i.; A difesa del signor Michele Diana imputato di cooperazione inBancarotta Fraudolenta e Falso continuato in atti di commercio, Trani, Tipografia Vecchi e C., ;

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. Le intermittenze dell’onore mercantile

È una produzione discorsiva straordinaria, che varrebbe la penadi studiare da vicino. Ciò che mi pare di scorgervi è, fra l’altro, untentativo di guardare ai tempi nuovi senza smarrire del tutto le filadella storia della città del negozio. Nei tempi che cambiano, alcunidei materiali discorsivi con i quali Pierre Ravanas era stato espuntodalla vicenda ottocentesca pugliese e si era costruito il racconto delleglorie del ceto mercantile locale continuano ad essere disponibili.Li si potrà ritrovare utilizzati dentro nuovi quadri narrativi situatiin congiunture e contesti, inutile dire, del tutto diversi. I modi difar negozio dell’imprenditore provenzale, la visione di uno sviluppomercantile connesso organicamente alle logiche ed ai ritmi dellaproduzione agricoltura e manifatturiera proposta da lui cinquant’anniprima, non sembrano trovare spazi neanche quando le cose gli dannopienamente ragione. Del resto a fine secolo il suo era ormai diventatoun nome esotico, presente a volte nelle pagine dei cultori di memoriepatrie.

A favore del Marchese sig. Giovanni Diana contro gli eredi del fu sig. Pietro Conte, Bari, StabilimentoTipografico del Meridionale, ; Per Marchese Giovanni Diana resistente contro il signor VicenzoDanisi ricorrente, Napoli, Tipografia Paperi–Bernardi, ; Studio degli Avv. Comm. Giuseppee Vincenzo Capruzzi, Per il sig. Marchese Giovanni Diana contro i sig. Nicola de Nora e Paolinade Nicolo, Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, ; Avv. Pietro Rosano, In difesadel Banco di Napoli nella causa della Banca Provinciale di Bari, Napoli, A. Bellisario & C.–R.Tipografia De Angelis, ; Studio degli Avv. Comm. Giuseppe e Vincenzo Capruzzi, Per ilCuratore della Fallita della Banca Provinciale contro i sig. Domenico Cioffrese e Domenico Fracchiolla,Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, ; Studio degli Avv. Comm. Giuseppe eVincenzo Capruzzi, Per la fallita Banca Provinciale contro il curatore del fallimento Martirano, laBanca Nazionale ed altri creditori, Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, ; Per ilsig. Francesco Calia curatore del fallimento A.S. Positano contro il Curatore del fallimento Martirano,la Banca Nazionale ed altri creditori, Bari, Tipografia Fusca, ; Studio degli Avv. Comm.Giuseppe e Vincenzo Capruzzi, Per Francesco Calia curatore del fallimento A.S. Positano controLuigi Aicardi ed altri, Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, s.d. []; Per il sig.Francesco Calia curatore del fallimento A.S. Positano contro i sig. Luigi Aicardi ed Emmanuele Favia,Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, ; Studio degli Avv. Comm. Giuseppe eVincenzo Capruzzi, Per il sig. Marchese Giovanni Diana contro i sig. Nicola de Nora e Paolinade Nicolo, Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, ; Studio degli Avv. Comm.Giuseppe e Vincenzo Capruzzi, A favore del Marchese Giovanni Diana contro la fallita della DittaVito Bianchi & C. e dei singoli soci, Bari, Stabilimento Tipografico del Meridionale, ; Studiodell’avv. Emilio Sforza, Memoria a favore municipio di Foggia difeso dell’avvocato sig. Emilio Sforzacontro il signor Marchese Giovanni Diana e gli eredi del sig. Gelsomino De Liso, Bari, StabilimentoTipografico Fratelli Pansini, ; Avv. Stefano Bianchini, Per la Sig.ra Carolina Arboritanzacontro La Banca d’Italia, March. Giovanni Diana ed altri, Bari, Stabilimento Tipografico Gius.Laterza & Figli, ; Avv. Luigi Milella, Per gli eredi della Marchesa Porzia Diana contro laCongregazione di carità di Bari, Bari, Tipografia Fratelli Fusco, .

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P II

MORALITÀ MERCANTILI, PRATICHEDELLO SCAMBIO E BENE PUBBLICO

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Capitolo I

Negli spazi mediterranei della “decadenza”

Note su istituzioni, etiche e pratiche mercantilidella tarda età moderna

.. Il Mediterraneo dei grandi racconti

Nel cuore del siglo de oro della storia spagnola, don Chisciotte percor-re vaste lande deserte dove gli capita di incrociare una umanità di duetipi: da un lato carrettieri e mulattieri con le loro mercanzie, dall’altramigranti alla ricerca di lavoro. Come notava Fernand Braudel nellasua opera maggiore, i « vuoti », le « solitudini » sono forme frequentidei paesaggi in quella « federazione di Mediterranei » che costituisceil suo Mediterraneo. Si tratta di uno spazio « punteggiato di economiesemichiuse: di piccoli mondi organizzati per se stessi ». D’altrondeessi « hanno. . . porte e finestre aperte: essi lasciano sfuggire verso gliambienti vicini piccoli ruscelli che. . . permettono ed animano la vitagenerale dell’insieme ». Lo si può vedere in particolare lungo le coste,spesso paludose e pericolose, e perciò esse pure vuote di uominiradicati nello spazio, dove piccole imbarcazioni di ogni forma contri-buiscono a mettere in contatto le « economie semichiuse », navigandocol litorale in vista di approdo in approdo, condotte da “proletari delmare” che oscillano fra pesca e commercio di prossimità.

L’opera di Braudel non è certo avara di suggestioni come que-ste. Ma i suoi mulattieri, migranti e marinai sembrano apparteneread un mondo brulicante e sommerso, ben distinto da quello in cuisi elabora la civilizzazione occidentale. Nella sua classificazione de-gli scambi in tre livelli, costoro abitano il livello infimo, quello dei« mouvements browniens » del commercio: vi si agitano piccoli uomi-

. Cfr. R. Chartier, Storie senza frontiere: Braudel e Cervantes, in “Dimensioni e problemidella ricerca storica”, , n. , pp. –.

. Si veda, in particolare, F. Braudel, Civiltà materiale, economica e capitalismo (secoli XV–XVIII). I giochi dello scambio, Torino .

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ni, forniti di piccoli mezzi, piccoli saperi e capitali, che movimentanoa corto raggio merci banali, di consumo quotidiano, di prezzo unita-rio basso e grande ingombro. Viceversa il Mediterraneo mercantileche lo affascina è situato ai livelli superiori degli scambi: quelli dellegrandi fiere e dei grandi porti, delle città della finanza e della manifat-tura di lusso sorvegliata dalle corporazioni di mestiere, che dominanoed al tempo stesso volgono le spalle al loro contorno rustico per pro-iettarsi verso spazi mercantili dilatati. È il mondo della “rivoluzionecommerciale” prodottasi a cavallo fra tardo medio evo e prima etàmoderna, di una civiltà mercantile che identifica e gerarchizza glispazi e disegna, per ciascuno di essi, percorsi di ascesa e decadenza.

In Braudel e nella vasta storiografia che, in particolare nella primametà del Novecento, ha analizzato i circuiti alti del commercio, laproiezione spaziale della “repubblica internazionale del denaro”,connessa strettamente alla circolazione dei saperi e delle culture, èuno degli elementi che contribuisce a rendere pensabile il Mediter-raneo come oggetto analitico dotato di una qualche autonomia: ledimensioni e le caratteristiche di questo mare sarebbero suggeriteanche dalle direttrici delle rotte marittime, dei flussi finanziari, dellegravitazioni mercantili terrestri sulle grandi piazze commerciali chevi si affacciano. D’altronde rotte flussi e gravitazioni attribuiscono alMediterraneo di ogni tempo una geografia incerta. I grafi tracciabi-li seguendo questi itinerari disegnano un areale sfrangiato, apertoverso gli spazi oltre gli stretti ed i contorni terrestri immediati. I beniche si muovono nei livelli superiori degli scambi sono soprattuttoquelli capaci di distinguere, di onorare luoghi ed uomini che li con-sumano: spezie, stoffe di qualità, manufatti raffinati, metalli e pietrepreziose, materiali coloranti destinati a pareti e vetrate di chiese epalazzi ed ai quadri dei grandi pittori. Essendo questa capacità didistinzione legata alla loro rarità, una larga parte di essi va fatta ar-rivare da lontano, lungo itinerari che debordano largamente dallecoste mediterranee. Situati in larga parte lungo l’asse est–ovest, que-sti flussi hanno i loro centri di organizzazione e smistamento sullecoste del Medio Oriente, ma, a partire dalla rivoluzione commerciale

. R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del medioevo, Torino .

. Uno strumento importante è Bibliographie du monde méditerranéen. Relations et échanges(–), a cura di A. Blondy, Parigi .

. Il riferimento è a A. De Maddalena, H. Kellenbenz (a cura di), La repubblicainternazionale del denaro tra XV e XVII secolo, Bologna .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

tardo–medievale, sono in larga parte governati dalle grandi piazzemercantili della riva centro–settentrionale del Mediterraneo, capitalial tempo stesso politiche ed economiche. In particolare nelle cittàitaliane la costruzione e l’invenzione di saperi e strumenti della vitamercantile — la contabilità a partita doppia, la lettera di cambio, labanca, l’impresa a responsabilità limitata — si fonde armonicamentecon la costruzione di una superiore civilizzazione urbana.

L’ingresso nella storia europea degli oceani, fra Quattrocento eSeicento, determina un mutamento di scala delle carte geografiche ementali e, al tempo stesso, delle direzioni e dimensioni dei circuitimercantili. Questa nuova rivoluzione commerciale costituisce unasvolta irreversibile, simboleggiata dal ridursi del Mediterraneo, chenei planisferi occupava la parte di gran lunga più grande e centraledell’orbe cristiano, ad un piccolo seno nei mappamondi nuovi checercano affannosamente di dar conto degli spazi man mano scoperti.Braudel sposta in avanti, verso il pieno Seicento, la marginalizzazionedegli scambi mediterranei, che comunque resta un destino inelutta-bile. La decadenza del Mediterraneo mercantile inquadra e in partespiega in particolare la decadenza dell’Italia, l’area che aveva ospitatouna parte essenziale delle funzioni direzionali alte e che va man manoriconvertendo uomini mezzi e saperi per situarsi in ruoli più modesti.Anche grazie alla discesa dei mercanti nordici fra Cinque e Seicento,il nostro mare non è certo tagliato fuori dai giochi dello scambioin grande e dalle trasformazioni che li emancipano dai tradizionalicontesti urbani; ma gli eventi essenziali hanno origine e svolgimentoaltrove. Nella tarda età moderna al cleavage fra fedeli ed infedeli, a ca-vallo del quale si erano situati con grande successo i mercanti italiani,si va sostituendo l’opposizione, ora contabilizzabile, fra nord e sud,centri e periferie, manifattura e industria, sviluppo e arretratezza.Man mano confinato nella posizione di fornitore delle poche derrateche le sue “vocazioni naturali” rendono concorrenziali, il Mediterra-neo va a collocarsi in una posizione subalterna nel nuovo sistema dicomplementarietà asimmetriche poggiato sulla gerarchia dei capitali,delle tecniche, della forza militare e politica, dal quale i paesi che visi affacciano devono riscattarsi cercando di adottare istituti, etichee pratiche “atlantiche”. Esso resta d’altronde, in un’immagine benpresente nella storiografica e nel suo uso pubblico, la culla di unaciviltà economica che sa appropriarsi di tecniche e strumenti forgiatiin altri mondi ma li rifonde in un amalgama produttore di felicitàcollettiva: una civiltà minacciata da barbarie vecchie e nuove ma priva

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di alternative credibili. La piena integrazione del Mediterraneo nellaglobalizzazione mercantile può essere oggi proposta come veicolo diriscatto economico e di contatti pacificatori, come la via maestra dapercorrere per evitare al tempo stesso la povertà e lo scontro fra civil-tà, particolarmente minaccioso per un mare sulle cui poche acque siaffacciano popoli di religioni lingue e culture diverse, segnati da secolidi ostilità. È, nella sostanza, la vecchia linea del “dolce commercio”,contrapposto da Montesquieu alle etiche nobiliari e religiose por-tatrici di opzioni non negoziabili e contrapposizioni inconciliabili.Esso riemerge ad esempio nei documenti prodotti nel quadro delprocesso euro–mediterraneo avviato a Barcellona alla fine del secoloscorso: un episodio futile nella storia delle relazioni fra Europa emondi islamici che, dopo la crisi recente degli assetti politici dellariva sud, nessuno più ricorda.

Questa immagine del commercio in grande ha convissuto a lun-go con quella, opposta, che considera lo scambio contrattuale emonetario una minaccia agli equilibri ed ai nessi sociali. I riferimentistoriografici adoperati da quanti, collocandosi a cavallo fra sfera pub-blica e mondo dei saperi esperti, ripropongono oggi questa linea,sono più imprecisi e spesso raccogliticci: Finley o Tawney possonoessere avventurosamente accostati a Karl Polanyi o E.P. Thompson,al fine di presentare i mulattieri ed i marinai che brulicano sui bordimediterranei di ogni tempo come attori di una civiltà dello scambionon di livello inferiore ma qualitativamente diversa, fondata sullareciprocità più che sul contratto, immersa nei valori e nei tessutirelazionali densi delle società insediate, poggiata su circuiti spazialibrevi e debolmente monetizzati ma fitti e diffusi. Viceversa i trafficiin grande hanno ruoli e spazi limitati facenti capo a “ports of trade”che non diffondono negli entroterra merci e valori contrattuali: conle loro particolari istituzioni, saperi, tecniche, essi selezionano mercie destinatari e costituiscono una intercapedine opaca fra mercato e

. A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo primadel suo trionfo, Milano .

. Vi vedano in proposito i documenti prodotti nell’ambito del Network of Excellencedei centri di ricerca in scienze umane sul Mediterraneo “Ramses”, finanziato nell’ambito delVI programma–quadro della Commissione Europea (–), in http://ramses.mmsh.univ-aix.fr; in particolare Mediterranean Unions: Visions and Politics, june , e La Méditerranée,horisons et enjeux du XXIe siècle, mai .

. Alcuni riferimenti essenziali nella voce Mediterraneo di Franco Benigno, in XXI secolo. Ilmondo e la storia, a cura di T. Gregory, Roma , pp. –.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

mondi sociali introvertiti. La decadenza può così essere vista comeuna occasione importante: schermando in una qualche misura questimondi dagli impulsi di una fase decisiva della modernizzazione capi-talistica, essa permette alle economie morali collocate sui contorni diquesto mare di resistere meglio di quelle dell’Europa settentrionalealle aggressioni dell’avidità mercantile. Cambiato ciò che è indispen-sabile cambiare, questo particolare amalgama di apertura al mercatoe messa sotto tutela dello scambio, di grandi circuiti confinati in luo-ghi, istituzioni e gruppi ristretti e circuiti di vicinato che percorronoe ricuciono vasti universi sociali, possono costituire una riserva disaggezze, di modi di produzione e circolazione, di forme di vita dariattivare ed opporre al capitalismo odierno distruttore di socialità,equilibri ed ecologie millenarie.

.. I racconti plurali degli scambi banali: luoghi e spazi dei traf-fici

Quelle su riferite per slogans sono due delle “master narratives” che,fuoriuscendo dall’ambito ristretto dei libri di storia professionale,offrono temi e suggestioni ad alcuni fra discorsi presenti nell’odiernaarena pubblica. Opposte nei supporti analitici e negli esiti politici,esse hanno in comune un elemento centrale: l’alterità fra i protagoni-sti, i saperi, le istituzioni, gli spazi e le logiche sociali dello scambiomercantile a base contrattuale, e quelle del mondo dei piccoli trafficiintrisi di economia morale.

Questa alterità, che disegna al tempo stesso un ordine socialee spaziale dei traffici articolandoli per gerarchie, centralità, livel-li ed ancorandoli alle famose vocazioni produttive e geografichemediterranee ed alle loro complementarietà asimmetriche con l’or-ganizzazione produttiva dei nuovi centri, è smentita da una partedella storiografia recente. Quella più attenta agli umori, linguag-gi e concetti circolanti nelle varie versioni e denominazioni della“world history” va sostituendo, fra le figure eponime del proprioatteggiamento interpretativo, Shlomo Goitein a Federigo Melis o Fer-

. Un orientamento efficace in una produzione ormai enorme in L. Di Fiore e M. Meriggi,World History, Le nuove rotte della storia, Roma–Bari . Per uno sguardo aggiornato sul mondodegli scambi cfr. M. Fusaro, Reti commerciali e traffici globali in età moderna, Roma–Bari ,ripreso in parte in Ead., Vie e tecniche delle comunicazioni terrestri e marittime, in Storia d’Europa edel Mediterraneo, II, Dal Medioevo all’età della globalizzazione, diretta da A. Barbero, Sezione V,

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nand Braudel, e fra i luoghi simbolici del Mediterraneo mercantile lasinagoga del Cairo al mercato di Rialto. “Provincializzare” il Medi-terraneo della decadenza è, ovviamente, operazione più agevole che“provincializzare” il Mediterraneo tardo–medievale o l’Europa del ca-pitalismo mercantile e industriale. Partendo dal presupposto di unradicale policentrismo e pluralismo dei percorsi di mutamento socia-le, il racconto della collocazione man mano più subalterna del nostromare nello sviluppo occidentale può essere lasciato sullo sfondo, osemplicemente ignorato, e sostituito da racconti sfilacciati, in un cer-to senso inconcludenti, difficili da comporre in affreschi trasferibilisul terreno dell’uso pubblico della storia; ma, perciò stesso, capaci digettare luce su uomini e cose guardati a lungo con condiscendenza,lasciati nell’oscurità o situati in ruoli predeterminati, non sorretti daprove documentarie. Ad esempio è possibile incrociare negli studigrandi mercanti urbani immersi in reti relazionali ed identitarie den-se che smentiscono decisamente la loro immagine di precursori dirazionalità weberiane, e micromercanti che inseguono ascese socialipromosse dal profitto monetario e dal successo di impresa. E gli unie gli altri fuoriescono dagli spazi loro assegnati: frequentano i grandicircuiti e, al tempo stesso, si insinuano in angoli remoti designaticon toponimi che le carte geografiche non sempre riportano, susci-tandovi lamentele contro l’arroganza di un mercato che impediscel’« ordinata progressione » che nelle ben formate società orienta laproduzione in primo luogo sui bisogni locali e riversa sul mercatosolo i beni “superflui”. Anche i mulattieri incontrati da Don Chisciot-

L’età moderna (secoli XVI–XVIII), a cura di R. Bizzocchi, volume X, Ambiente, popolazione, società,Roma , pp. –.

. Le rivisitazioni di Braudel costituiscono una industria fiorente che non sembra esposta acrisi alcuna: cfr., per fare solo qualche esempio, Actes du IIe Colloque International d’Histoire (Athè-nes – sept ). Economies Méditerranéennes. Equilibres et intercommunications, XIIIe–XIXe

siècles, tome III, Atene ; F. Tabak, The Waning of the Mediterranean –. A GeohistoricalApproach, Baltimora ; G. Piterberg, T.F. Ruiz, G. Symcox (a cura di), Braudel Revisited: TheMediterranean World, –, Toronto–Los Angeles ; M. Fusaro, C. Heywood, M.–S.Omri (a cura di), Trade and Cultural Exchange in Early Modern Mediterranean. Braudel’s MaritimeLegacy, Londra–New York .

. Alludo a D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and HistoricalDifference, Princeton (Ia ed. ), con un a prefazione in cui l’autore discute le critichericevute.

. C. Afan de Rivera C., Considerazioni su i mezzi da restituire il valore proprio a’ doni che hala natura largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie, ° ed., voll., Napoli , vol. II, pp.

e .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

te possono presentarsi come agenti di questo sconvolgimento dellelogiche sociali, della sottrazione ai circuiti brevi di beni consegnati aspazi ed attori del tutto incontrollabili dai produttori.

I luoghi a cui fanno capo i variegati protagonisti dello scambiodel Mediterraneo della decadenza vanno costruendo una geografianuova. Nelle posizioni di testa delle piazze mercantili la gerarchiadiventa meno netta rispetto a quella della rivoluzione commercialetardo–medievale. Il numero dei porti aumenta e, al tempo stesso,cambiano le loro funzioni. Man mano che centri collocati fuori dallospazio mediterraneo smontano il vecchio sistema di complementa-rietà ed egemonie controllato da un pugno di città e repubbliche dimercanti affacciate sul Mediterraneo, essi domandano alle piazzemercantili, e contribuiscono a costruire, soprattutto servizi portualidi snodo della circolazione di merci, di appoggio alla navigazione, disostegno finanziario ed assicurativo per merci, navi e mercanti impe-gnati in circuiti che si allungano: all’interno delle piazze mercantilile funzioni di entrepôt acquistano peso crescente in rapporto a quellelegate all’armamento marittimo ed alla trasformazione manifattu-riera delle merci importate e della redistribuzione in un hinterlandpiù o meno ampio di quelle esotiche. Questo diverso equilibriofra le funzioni portuali è particolarmente visibile nei porti “di fonda-zione”: Livorno, Smirne, più tardi Trieste. È l’età dei porti franchi,

. Per queste osservazioni sui porti, e le altre in merito sparse in questo scritto, cfr.: L.Dermigny, Escales, Echelles et ports francs au Moyen Age et aux Temps modernes, in Les Grandesescales, e Colloque d’Histoire Maritime, IIIème partie, Période contemporaine et synthèses générales,“Recueil de la Société Jean Bodin”, Bruxelles, , t. , pp. –; P.L. Cotterell, D.H.Aldcroft (a cura di), Shipping, Trade and Commerce. Essays in memory of Ralph Davis, Leicester; S. Cavaciocchi (a cura di), I porti come impresa economica. Secoli XIII–XVIII, Firenze ;A. Guimerà, D. Romero (a cura di), Puertos y sistemas portuarios (siglo XVI–XX), Madrid ;Commerce et port franc, numero monografico di “Nice historique”, , n. ; L. Fisher, A. Jarvis(a cura di), Harbours and Havens. Essays in Port History in Honour of Gordon Jackson, MaritimeHistory Publication Office, Research in Maritime History n. , ; A. Leroy, Ch. Villain–Gandossi (a cura di), Stations navales et navigations organisées en Méditerranée, Toulon ; L.A.Ribot Garcia, L. De Rosa, (a cura di), Naves, Puertos y itinerarios maritimos en la época moderna,Madrid ; S. Cavaciocchi (a cura di), Ricchezza del mare. Ricchezza dal mare. Secoli XIII–XVIII,Firenze . Un’utile rassegna è quella di G. Harlaftis, Storia marittima e storia dei porti, in“Memoria e ricerca”, , n. , pp. –.

. J.–P. Filippini, Il porto di Livorno e la Toscana (–), voll., Napoli ; S. Fettah,Temps et espaces des trafics portuaires en Méditerranée : le cas du port franc de Livourne (XVIIe–XIXesiècles), in “Ricerche storiche”, , n. , pp. –; A. Addobbati, Commercio rischio guerra. Ilmercato delle assicurazioni marittime di Livorno (–), Roma ; A. Prosperi (a cura di),Livorno, –. Luogo di incontro tra popoli e culture, Torino ; D. Goffman, Izmir and the

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voluti dai principi ma proiettati, secondo retoriche non prive di rife-rimenti ai meccanismi concreti dello scambio, « hors du royaume ».Relativamente immuni dalla quadrettatura fiscale, istituzionale, e giu-ridica delle formazioni politiche nelle quali la geografia e la storia licollocano, essi cercano di appropriarsi di una fetta della torta manmano più grande dei profitti di intermediazione, evitando di entrareapertamente nella competizione per le funzioni direzionali, ormaifuori della portata dei protagonisti economici e politici di taglia piùmodesta fra quelli presenti nel Mediterraneo.

Contestualmente tende a cambiare il tono ed i caratteri dell’uni-versalismo mercantile che segna gli ambienti portuali. Vi va emer-gendo una configurazione nella quale mi sembra trovare riscontriempirici più solidi l’ampia storiografia ben risistemata nel recenteThe Great Sea di David Abulafia. In questa sorta di nuova ortodossiapersonaggi come Leone l’Africano tendono a simbolizzare un Me-diterraneo di incroci senza tempo, Benedetto il Moro dimostra laconciliabilità di fatto fra fedi inconciliabili in via di principio, la quoti-dianità di Malta, una delle “frontiere della cristianità” più esposte, puòessere costituita anche da assai laiche funzioni di intermediazionemercantile sovranazionale, una piccola isola sulla costa tunisina pos-seduta dai Lomellini di Genova dimostra la ricchezza degli interstizicommerciali nei secoli dello scontro con l’infedele, la diplomazia puòdiventare conoscenza dell’altro, la lingua franca e la lex mercatoriasono prodotti, certo parziali, incompleti e contraddittori, di una koinémercantile insofferente ad ogni barriera istituzionale o simbolica.

Levantine World –, Seattle ; F.A. Querci, F. Trampus, F. Lodato, Internazionalità estoricità del porto franco di Trieste: centro commerciale–emporiale–transitario globale, Trieste ; R.Finzi, G. Panjek (a cura di), Storia economica e sociale di Trieste, vol. , La città dei gruppi, Trieste; Id. (a cura di), Storia economica e sociale di Trieste, vol. , La città dei traffici (–),Trieste . Sui porti franchi cfr. anche A.Caracciolo, Le port franc d’Ancone. Croissance etimpasse d’un milieu marchand au XVIIIe siècle, Parigi ; G. Giacchero, Origini e sviluppi delportofranco genovese, agosto – ottobre , Genova ; Commerce et port franc, numeromonografico di “Nice historique”, , n.

. D. Abulafia, The Great Sea. A Human History of the Mediterranean, Londra . Cfr.anche, più specificamente per l’età moderna, M. Green, Catholic Pirates and Greek Merchants: aMaritime History of the Early Modern Mediterranean, Princeton .

. N. Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano, Roma–Bari ; G. Fiume (a curadi), Il santo patrono e la città. San Benedetto il Moro: culti, devozioni, strategie di età moderna,Venezia ; A. Brogini, Malte frontière de chrétienté, Roma ; L. Piccinno, Un’impresa fraterra e mare. Giacomo Filippo Durazzo e soci a Tabarca (–), Milano ; Ch. Windler, Ladiplomatie comme expérience de l’autre. Consuls français au Maghreb (–), Ginevra ; J.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

Nelle piazze mercantili del Mediterraneo della decadenza, forse piùche in altre fasi della sua vicenda, il commercio non solo riesce adessere cross–cultural, ma è un fattore che contribuisce, per così dire,a desostantivizzare le culture, e, insieme ad esse, alcune forme diidentità sociali. Le factories inglesi a Livorno o le nations francesidelle échelles du Levant possono conservare una strutturazione forte;

Dakhlia, Lingua Franca. Histoire d’une langue métisse en Méditerranée, Arles . Aggiungerei,fra i libri più significativi in questa direzione, M. Green, A Shared World: Christians and Muslimsin the Early Modern Mediterranean, Princeton ; E.R. Dursteler, Venetians in Constantinople.Nation, Identity and Coexistence in the Early Modern Mediterranean, Baltimora . Alcuneosservazioni pertinenti su questa letteratura in A.M. Rao, Napoli e il Mediterraneo nel Settecento:frontiera d’Europa?, in F. Salvatori (a cura di), Il Mediterraneo delle città. Scambi, confronti, culture,rappresentazioni, Roma , pp. –. Una rassegna di studi sul Mediterraneo ottomanoche discute questa impostazione: N. Doumanis, Durable Empire: State Virtuosity and SocialAccomodation in the Ottoman Mediterranean, in “The Historical Journal”, , n. , pp. –.

. Il riferimento è al libro famoso di Ph. D. Curtin, Cross–Cultural Trade in World History,Cambridge . Un caso che ha ovviamente attratto l’attenzione degli storici è quello dellecomunità ebraiche portuali — i “port jews” come li definisce L.C. Dubin, The Port Jews ofHabsburg Trieste. Absolutist Politics and Enlightenment Culture, Stanford (cfr. la trad. it. Gorizia). Fra i numerosi contributi in questa direzione cfr. J.I. Israel, Diasporas within Diasporas:Jews, Crypto–Jews, and the World of Maritime Empires (–), Leida–Boston ; D. Cesarani(a cura di), Port Jews Communities in Cosmopolitan Maritime Trading Centers, –, Londra; D. Cesarani, G. Romain (a cura di), Jews and port Cities –. Commerce, Communityand Cosmopolitarism, Londra . Sulle diaspore in generale, sulle quail tornerò in conclusionein riferimento al libro recente di Francesca Trivellato, cfr. I. Baghdiantz–McCabe, G. Harlaftis,I. Pepelasis–Minoglou (a cura di), Diaspora Entrepreneurial Networks: Four centuries of History,Oxford–New York .

. Cfr. R. Davis, Aleppo and Devonshire Square. English Traders in the Levant in the EighteenthCentury,Londra ; D. Goffman, Britons in the Ottoman Empire, –, Seattle–Londra; M. D’Angelo, The British Factory at Leghorn: a Kind of Chamber of Commerce cum Consulate,in C. Vassallo (a cura di), Consolati di mare and Chambers of commerce, Malta , pp. –; Ead., Mercanti inglesi a Livorno –. Alle origini di una “British Factory”, Messina .Più in generale sugli Inglesi nel Mediterraneo, dopo i lavori di Ralph Davis e di GigliolaPagano De Divitiis, cfr. C. Vassallo, M. D’Angelo (a cura di), Anglo–Saxons in the Mediterranean:commerce, politics and ideas (XVII–XX centuries), Malta ; D. Vlami, Corporate Identity andEntrepreneurial Initiative: the Levant Company in the Eighteenth and Nineteenth Centuries, “TheJournal of European Economic History”, , n. , pp. –. Fra i lavori più innovativi inmerito segnalo quelli di M. Fusaro, Uva passa. Una guerra commerciale tra Venezia e l’Inghilterra,–, Venezia , e M. Green, Beyond the Northern Invasion: the Mediterranean in theSeventeenth Century, in “Past & Present”, , n. , pp. –.

. Dopo Y. Debbasch, La nation française en Tunisie (–), Parigi , ed il monumen-tale lavoro di A. Raymond, Artisans et commerçants au Caire au XVIIIe siècle, voll., Damasco, si veda: J.–P. Farganel, Les marchands dans l’orient méditerranéen aux XVIIe et XVIIIe siècle :la présence française dans les échelles du Levant (–), voll., tesi di dottorato dell’UniversitàParis I Panthéon–Sorbonne, ; E. Eldem, French Trade in Istanbul in the Eighteenth Century,

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ma in generale la segmentazione dello spazio urbano per corpi dimercanti di diversa origine e lingua, raccolte attorno ai loro simbolie protette da privilegi e immunità, sembra lasciare il campo a unintrico di rapporti di bassa intonazione gerarchica, aperti ad apportinon locali, non nazionali, non racchiusi in cerchie fiduciarie, paren-tali, religiose, etniche. In grandi piazze come Marsiglia, Napoli,Smirne, Istanbul, Alessandria, Salonicco, la stessa Livorno, la follavariopinta dei raduni mercantili che negozia senza essere impacciatadalla diversità dei simboli, culture e credenze — un topos della repub-blica delle lettere settecentesca — sembra il lato più visibile di untessuto fitto di scambi interculturali, di contaminazioni ed incroci.

In questo contesto le complementarietà asimmetriche dentro lequali si situa il nuovo Mediterraneo sono certamente ben visibili, manon saturano lo spazio mercantile. Le linee di traffico più strutturatepoggiate sugli entrepôts maggiori, che spesso debordano, oltre cheverso il Nord, verso le Indie orientali ed occidentali, ne incrocianoaltre più corte e meno regolari, ma, nel loro complesso, assai signifi-cative anche dal punto di vista quantitativo. Il commercio di potenze

Leida–Boston ; D. Valerian, Les marchands latins dans les ports musulmans méditerranéens :une minorité confinée dans des espaces communautaires, in “Revue des mondes musulmans etde la Méditerranée (Identités confessionnelles et espace urbain en terres d’Islam)”, , n.–, pp. –. Fra la ampia letteratura recente sulle “nazioni” cfr. S. Cavaciocchi (a curadi), Il ruolo economico delle minoranze in Europa, sec. XIII–XVIII, Firenze ; J. Bottin, D. Calabi(a cura di), Les étrangers dans la ville. Minorités et espaces urbaines du bas moyen âge à l’époquemoderne, Parigi .

. Fra i lavori più significativi in questa direzione, M.–C. Smyrnelis, Une société hors desoi. Identités et relations sociales à Smyrne au XVIIIe et XIXe siècles, Parigi ; M. Mazower,Salonica, City of Ghosts: Christians, Muslims and Jews, –, New York–Londra ; L.Frattarelli Fischer, Vivere fuori dal ghetto. Ebrei a Pisa e Livorno, secoli XVII–XVIII, Torino . Unadiscussione di questa letteratura ed una analisi puntuale fondata su un’ampia documentazionein M. Rovinello, Cittadini senza nazione. Migranti francesi a Napoli (–), Milano .Una diversa impostazione in D.L. Caglioti, Vite parallele. Una minoranza protestante nell’Italiadell’Ottocento, Bologna .

. Cfr. la famosa descrizione della borsa di Londra di Voltaire, in Lettres Philosophiques,Sixième Lettre, Sur les Presbitériens, Rouen, chez Claude–François Jore, , p. .

. Quando non altrimenti specificato, le argomentazioni sui flussi mercantili per mare quiproposte sono fondate sui lavori seguenti (un elenco che denuncia, al tempo stesso, i limiti dellemie competenze linguistiche e i miei interressi di ricerca specifici): N.G Svoronos, Le commerce deSalonique au XVIIIe siècle, Parigi ; G. Rambert, Histoire du commerce de Marseille, IV, De à, Parigi ; R. Paris, Histoire du commerce de Marseille, V, De à . Le Levant, Parigi ;G. Rambert, Histoire du commerce de Marseille, VII, De à . L’Europe moins les trois péninsulesméditerranéennes. Les Etats Unis, Parigi ; W. Kaltenstadler, Der österreichische Seehandel über

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

mercantili in decadenza con gli “enemigos de la fe” può essere incerte fasi consistente, e gli stessi Veneziani, una volta cacciati daCipro come dominatori, vi ritornano ben accolti come mercanti “stra-nieri” insieme a Inglesi e Francesi; il gioco complicato ed obliquodello scambio e del riscatto degli schiavi delle due sponde mobilitacapitali, istituzioni e imprenditori; la caravane, invece di presentare

Triest im . Jahrhundert, in “Vierteljahrschrift für Sozial und Wirtschaftsgeschichte“, , p.–, , p. –; G. Giacchero, Economia e società del Settecento genovese, Genova ; I.Mattozzi, Crisi, stagnazione e mutamento nello Stato veneziano sei–settecentesco: il caso del commercioe della produzione olearia, in “Studi veneziani”, , n. , pp. –; E. Gimenez Lopez, Alicanteen el siglo XVIII: economia de una ciudad portuaria en el Antiguo Regimen, Valencia ; F. Benigno,Il porto di Trapani nel Settecento. Rotte, traffici, esportazioni, Trapani ; M. Alonzo Pérez, Lecommerce franco–espagnol en Méditerranée occidentale (–), Poitiers ; S. Boubaker, Larégence de Tunis au XVIIe siècle : ses relations commerciales avec les ports de l’Europe méditerranéenne,Zaghouan ; K. Fukasawa, Toileries et commerce du Levant d’Alep à Marseille, Aix–en–Provence; M. Gangemi, Esportazioni calabresi nel XVIII secolo. Le tratte di “seccamenti salumi tavole legnamied altro”, Napoli ; E. Frangakis–Syrett, The Commerce of Smyrna in the Eighteenth Century(–), Atene ; B. Salvemini, M.A. Visceglia, Pour une histoire des rapports économiques entreMarseille et le Sud de l’Italie au XVIIIe siècle et au début du XIXe siècle. Flux marchandes, articulationsterritoriales, choix politiques, in “Provence historique”, , n. , pp. –; D. Panzac, Commerceet navigation dans l’Empire ottoman au XVIIIe siècle, Istanbul ; S. Laudani, La Sicilia della seta.Economia, società e politica, Catanzaro ; P. Boulanger, Marseille, marché international de l’huiled’olive. Un produit et des hommes –, Marsiglia ; K. Fleet, European and Islamic Tradein the Early Ottoman State: the Merchants of Genoa and Turkey, Cambridge ; D.H. Andersen,The Danish Flag in the Mediterranean. Shipping and Trade, –, tesi dottorale dell’Universitàdi Copenhagen, ; V. Costantini, Il commercio veneziano ad Aleppo nel Settecento, in “Studiveneziani”, , pp. –; D. Ciccolella, La seta nel Regno di Napoli nel XVIII secolo, Napoli; L. Mueller, Consuls, Corsaires, and Commerce. The Swedish Consular Service and Long–distanceShipping, –, Uppsala ; A. Montaudo, L’olio del Regno di Napoli nel XVIII secolo, Napoli; S.D. Aslanian, From the Indian Ocean to the Mediterranean: The Global Trade Networks ofArmenian Merchants from New Julfa, Berkekey . Sulla storiografia sul commercio marittimocfr. A. Di Vittorio, C. Barciela Lopez (a cura di), La storiografia marittima in Italia e in Spagnain età moderna e contemporanea, Bari , e, più di recente, il fascicolo doppio della “Revued’Histoire Maritime”, , n. –, intitolato La recherche internazionale en histoire maritime: essaid’évaluation.

. E. Martín Corrales, Comercio de Cataluña con el Mediterráneo musulmán (siglos XVI–XVIII).El comercio con los “enemigos de la fe”, Barcellona

. V. Costantini, Il sultano e l’isola contesa. Cipro tra eredità veneziana e potere ottomano,Torino .

. Fra la storiografia recente cfr., oltre ai molti contributi di Salvatore Bono (ad esempioLumi e corsari. Europa e Maghreb nel Settecento, Perugia ), L. Lo Basso, In traccia de’ legninemici. Corsari europei nel Mediterraneo del Settecento, Ventimiglia ; G. Van Krieken, Corsaireset marchands. Les relations entre Alger et les Pays–Bas, –, Parigi ; W. Kaiser (a cura di),Le commerce des captifs. Les intermédiaires dans l’ échange et le rachat des prisonniers en méditerranée,XVe–XVIIIe siècle, Roma ; G. Fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi in età

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agli infedeli, come nella navigazione convogliata del Quattrocentoveneziano, il volto arcigno della civiltà cristiana proteggendo le navi“rotonde” da mercanzia con le galere militari, insinua imbarcazionidel tutto indifese nelle articolazioni più minute della costa ottomana,contribuendo così a risolvere la strutturale insufficienza dei mezziper il trasporto per mare della Sublime Porta. Del resto le navicristiane, nei secoli del grande scontro di civiltà, non solo animanogli scambi nei porti grandi e piccoli del Turco o approvvigionanoIstanbul di cereali egiziani. Sotto gli occhi del papa e dei re cattolici ocristianissimi, flotte di imbarcazioni condotte da marinai e mercanticristiani trasportano anno dopo anno, da un capo all’altro del Me-diterraneo, migliaia di seguaci di Allah diretti a La Mecca: senza iloro servigi, sarebbe stato ben difficile per musulmani del Maroccoassolvere al rito più importante prescritto dal loro dio.

Ma, seguendo questi itinerari, si è indotti ad un’operazione storio-grafica non frequente anche per le connesse difficoltà documentarie:quella di spingere lo sguardo al di là del gruppo ristretto dei grandiempori. Occorrerebbe in primo luogo, come fa il genovese AndreaSpinola, prendere « la parola porto. . . largamente », rinunciando amettere in un ordine gerarchico rigido l’insieme di lemmi — marina,approdo, spiaggia, caricatoio, scaro, seno, cala, rifugio. . . — dentroil quale il « porto » si situa. La classificazione dei luoghi ai quali fannocapo merci e navi è certo un obbiettivo importante per i poteri: comela Repubblica di Genova e quella di Venezia, il Viceregno napoletano,al fine di accrescere il controllo politico e fiscale sui traffici, limita conle sue prammatiche i tratti di costa accessibile lecitamente da partedelle imbarcazioni mercantili, ordinando la chiusura di « tutt’i porti,che stanno in campagna ». Non si tratta di un ossimoro. Nella visione

moderna, Milano ; M. Fontenay, La Méditerranée entre la croix et le croissant. Navigation,commerce, course et piraterie (XVIe–XIX siècle), Parigi .

. Cfr. il classico F.C. Lane, I mercanti di Venezia, Torino .

. Si veda, per tutti, D. Panzac, La caravane maritime. Marins européens et marchands ottomansen Méditerranée (–), Parigi

. Cit. in G. Assereto, Porti e scali minori della Repubblica di Genova in età moderna, in S.Cavaciocchi (a cura di), I porti cit., p. . Cfr., anche, dello stesso autore, I porti delle riviere, inId., Le metamorfosi della Repubblica. Saggi di storia genovese tra il XVI e il XIX secolo, Savona , pp.–; G. Doria, P. Massa Piergiovanni (a cura di), Il sistema portuale della Repubblica di Genova.Profili organizzativi e politica gestionale, Genova .

. Cfr. la prammatica V « De nautis et portubus » del febbraio , in L. Giustiniani,Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, vol. VIII, Napoli , tit. CLXXVI; D.A.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

del legislatore napoletano il porto di campagna, quello cioè connessoad un insediamento rustico di dimensioni modeste o a volte addirit-tura inconsistenti, è un dato di fatto evidente; e, per di più, esso nonassolve solo alla funzione di riparo di imbarcazioni in casi di emergen-za, ma ha anche un ruolo mercantile, concreto o potenziale, che lorende qualitativamente non del tutto diverso dal porto che può meglioospitare le istituzioni di conoscenza, sorveglianza e repressione deitraffici per mare, quello urbano. Il disordine al quale porre riparo staproprio qui: in un difetto di classificabilità, e quindi di controllo, diun universo di luoghi in cui i grandi empori si collocano in un conti-nuum rispetto a « gateway settlements » ed « epiphenomenal port »

di incerta istituzionalizzazione, legittimità e stabilità.Questi tentativi di ordinamento falliscono vistosamente. Aggrap-

pandosi alla geografia minuta delle coste, i traffici che sfuggono allepiazze mercantili vecchie e nuove non solo sopravvivono ma sem-brano rafforzarsi e rinnovarsi, alimentati dalle risorse aggiuntive incapitali, attrezzature e saperi dei quali la crescita del commercio ingrande non garantisce il controllo monopolistico da parte di colo-ro che occupano le posizioni gerarchiche dei giochi dello scambio,nordici o mediterranei che essi siano. Il fenomeno appare partico-larmente vistoso negli spazi marini che erano stati e in una qualchemisura continuano ad essere oggetto di tentativi di controllo e ter-ritorializzazione da parte delle grandi città mercantili della primarivoluzione commerciale. Man mano che l’egemonia mercantile epolitica di Genova e Venezia si indebolisce, il Mediterraneo diventa« mer ouvert » non solo per i mercanti e le navi delle grandi forma-

Varius, Pragmaticae edicta decreta interdica regiaeque sanctiones regni napoletani. . . , vol. II, Neapoli, tit. CLIV. Rimando su questo punto a A. Carrino, B. Salvemini, Porti di campagna, porti dicittà. Traffici e insediamenti sulle coste del Regno di Napoli nella prospettiva di Marsiglia (–), in“Quaderni storici”, , n. , pp. –. Un quadro sui porti del Regno di Napoli in M. Sirago,Le città e il mare. Economia, politica portuale, identità culturale dei centri costieri del Mezzogiornomoderno, Napoli .

. Cfr. le pp. ss. di P. Horden e N. Purcell, The Corrupting Sea. A Study of MediterraneanHistory, Oxford . Su questi temi cfr. J. Armstrong, A. Kunz (a cura di), Coastal shipping andthe European Economy, –, Mainz ; e, soprattutto, il fascicolo di “Rives Méditerranéen-nes”, , n. , intitolato Les petits ports. Usages, réseaux et sociétés littorales (XVe–XIXe siècle), inparticolare gli articoli di G. Buti, Villes marittimes sans port, ports éphémères et poussière portuaire. Legolphe de Fréjus aux XVIIe et XVIIIe siècles, pp. –, e Ch. Denis–Delacour, Petits ports et escales dela cote romaine dans la seconde moitié du XVIIIe siècle, pp. –.

. J. Ferrier, La Méditerranée, mer ouverte à la France : le tournant historique de , in Ch.Villain–Gandossi, L. Durteste (a cura di), Méditerranée, mer ouverte, t. I, Malta , pp. –.

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Linguaggi del mercato

zioni territoriali. Il “Golfo di Venezia” si anima di traffici vivaci cheessa non controlla, che fanno capo ai nuovi porti franchi aperta-mente concorrenti di Trieste, Fiume, Ancona. Al contempo « sudditianfibi » si insinuano, con le loro imbarcazioni a fondo piatto, nelcomplicato intrico di vie d’acque delle terre affacciate all’Adriaticosettentrionale e delle vicine zone paludose, penetrano nel sistemafluviale padano aggirando barriere e divieti e lo connettono più stret-tamente con un mare ormai aperto ai non sudditi. Qui trafficanti divaria provenienza

caricano liberamente oli nella Puglia, li conducono sotto la punta di Goro,s’incuneano in Ariano, et in altri luoghi vicini al Ferrarese, di là poi si traspor-tano in Ferrara et luoghi adiacenti non solo, ma nel Mantovano, Bolognesee si diffondono ancora nel Polesine e spargono nel Veronese, Vicentino ePadovano, condotti da malviventi contrabbandieri che camminano armatiin truppa sopra cavalli carichi di otri e baghe.

Di fronte alla polizia di mari veneziana la “malizia” marinaraelabora di continuo soluzioni che richiedono risposte ulteriori, spessovane. Le navi olearie pugliesi partono con due polizze di carico: sefermate dalle galeotte veneziane, esibiscono quella per Venezia e visi recano pagando il dazio, altrimenti approdano a Ferrara e fannocontrabbando.

. R. Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli ; R. Descendre,Quand la mer est territoire. Paolo Sarpi et le Dominio del mare Adriatico, in “Studi veneti”,, pp. –; M. Costantini, Resistenza al declino e difesa dell’autonomia: le nuove dimensionidello spazio marittimo veneziano, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo centro–orientale tra vecchie enuove egemonie. Trasformazioni economiche, sociali e istituzionali nelle Isole Ioniche dal declino dellaSerenissima all’avvento delle potenze atlantiche, Roma , pp. –.

. Cfr. D. Andreozzi: Lacrime e sangue. Sudditi anfibi, uomini e merci nell’Adriatico centro–settentrionale del Settecento, in L. Avellini, N. D’Antuono (a cura di), Custodi della tradizione eavanguardie del nuovo sulle sponde dell’Adriatico, Bologna , pp. –. Si veda, dello stessoautore, Fra Trieste, Ancona, Venezia e Bologna. La canapa e il commercio nell’Adriatico del ’, inD. Andreozzi, C. Gatti (a cura di), Trieste e l’Adriatico. Uomini, merci, conflitti, Trieste , pp.–; « Qual generazione di fiera si pensi introdurre ». Spazi dei commerci e pratiche dei mercantia Trieste e nel Litorale austriaco nei primi decenni del Settecento, in D. Andreozzi, L. Panariti, C.Zaccaria (a cura di), Acque, terre e spazi dei mercanti. Istituzioni, gerarchie, conflitti e pratiche delloscambio dall’età antica alla modernità, Trieste , pp. –. Cfr. inoltre M.L. De Nicolò,La “speranza”. Piloti pratici, naufragi, prove di fortuna nell’Adriatico del Sei–Settecento, Gradara; B. Salvemini, Far negozio senza informazioni. “Marinai” pugliesi nell’Adriatico settecentesco,“Quaderni storici”, , n. , pp. –.

. Biblioteca Querini Stampalia, Venezia, cod. , c. v.

. S. Ciriacono, Olio ed ebrei nella Repubblica veneta del Settecento, Venezia , p. .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

Dall’altro lato della penisola, la via d’acqua che segue da vicinol’arco costiero fra le propaggini settentrionali del Regno di Napoli ela Spagna mediterranea è affollata di piccole imbarcazioni che sfidanola guerra di corsa nei frequenti periodi bellici e, sempre, i pirati; e,al tempo stesso, contribuiscono a svuotare di ogni contenuto reali-stico le pretese dei “navalisti” genovesi di rendere servum un settorealmeno di questi mari. Qui un « grouillement vif et rapide » me-scola, agli « échanges de proximité, des flux plus amples déterminéspar des occasions de fret ». Civitavecchia, Livorno, Genova, Nizza,Marsiglia, Barcellona, l’Ajaccio genovese e poi francese vi figuranoinsieme ad una folla di piccoli, a volte minuscoli villaggi costieri, cheproducono personale, capitali, saperi, imbarcazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ciò che comunque va sot-tolineato con forza è che una parte rilevante delle risorse poggiate sulpulviscolo dei porti di campagna sparso sulle coste settentrionali delMediterraneo non resta prigioniera dei « mouvements browniens »del commercio per mare. Negli ambienti della poliattività costiera,in cui i mestieri del mare si intrecciano a quelli della terra, si fannolargo soggetti, carriere, pratiche altamente specializzate e sofisticate,a volte riconosciute ed inquadrate dalle istituzioni, capaci di mar-care presenze significative sugli itinerari classici facenti capo allegrandi piazze mercantili, e di costruirne nuovi. La grande caravaneche va « de Turquie en Turquie » descritta da Gilbert Buti nella sua

. R. Savelli, Un seguace italiano di Selden: Pietro Battista Borghi, in “Materiali per una storiadella cultura giuridica”, , n. , pp. –; C. Bitossi, Il Genio ligure risvegliato. La potenzanavale nel discorso politico genovese del Seicento, in F. Cantù (a cura di), I linguaggi del potere nell’etàbarocca. I. Politica e religione, Roma , pp. –. Su queste questioni è centrato il libro diT.A. Kirk, Genoa and the Sea: Policy and Power in an Early Modern Maritime Republic, –,Baltimora , su cui cfr. le osservazioni di A. Pacini, Genova e il mare, in “Storica”, , nn.–, pp. –. Sulle aspirazioni granducali al controllo del bacino tirrenico cfr. F. Angiolini,Sovranità sul mare ed acque territoriali. Una contesa tra Granducato di Toscana, repubblica di Luccae monarchia spagnola, in E. Fasano Guarini, P. Volpini (a cura di), Frontiere di terra, frontiere dimare: la Toscana moderna nello spazio mediterraneo, Milano , pp. –.

. G. Buti, Colporteurs des mers et caravaneurs en Méditerranée occidentale. L’exemple desrelations entre la France méridionale et l’Italie du Sud au XVIIIe siècle, in B. Salvemini (a cura di),Lo spazio tirrenico nella ‘grande trasformazione’. Merci, uomini e istituzioni nel Settecento e nelprimo Ottocento, Bari , p. . Restituiscono il clima di questo commercio costiero M.S.Rollandi, Mimetismo di bandiera nel Mediterraneo del secondo Settecento. Il caso del Giorgio inglese,in “Società e storia”, , n. , pp. –, e E. Beri, « Contrabbandieri, pirati e ladri di mare ».Bonifacini e napoletani nella marina di Pasquale Paoli (–), in “Società e storia”, , n. ,pp. –.

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straordinaria dimensione e complessità poggia su una collana diminuscoli approdi — La Ciotat, Saint–Tropez, Cannes, Martigues,Cassis, Six–Fours, La Seyne — situati nel cono d’ombra del più gran-de porto mediterraneo dell’ultima età moderna, Marsiglia. Più inlà, sulla costa occidentale ligure, Laigueglia, Diano, Cervo, PortoMaurizio — le cui attività marinare erano state a lungo osteggiatedalla Dominante — prolungano, ovviamente in forme del tutto di-verse, la presenza mercantile dei “Genovesi” ben al di là del loro“secolo”. Nell’arretrato Mezzogiorno il borgo calabro di Parghelìasparge stagionalmente per l’Europa micro–imprenditori itinerantiche vendono prodotti locali di qualità alta, e per questo è terreno dicoltura di competenze marinare e propensioni massoniche gravitantisu Marsiglia; altri Calabresi, quelli di Scilla e Bagnara, sono attivissiminella navigazione e nel commercio di telerie di bassa qualità sulladirettrice adriatica; Sorrento, Procida, Amalfi, Positano, centri pocosignificativi in quanto luoghi di imbarco, sono grandi produttori edesportatori di mezzi e competenze per la navigazione. Del resto ilfenomeno da questo punto di vista più clamoroso è prodotto da un al-tro ambito che le nuove gerarchie economiche ed il perdurare di unadominazione politica antimercantile condannerebbero all’arretratez-za ed all’esclusione. I mercanti e marinai Greci, soprattutto delle isoledell’Egeo, vanno insinuandosi per ogni dove, nei porti del Mar Nero

. G. Buti, Aller en caravane: le cabotage lointain en Méditerranée, XVIIe et XVIIIe siècles, in“Revue d’histoire moderne et contemporaine”, , n. , pp. –; Id., Les Chemins de la mer.Un petit port méditerranéen: Saint–Tropez (XVIIe–XVIIIe siècles), Rennes .

. M. Montacutelli, Riscoprendo il mare. Genova e il Mediterraneo dopo il “secolo dei genovesi”,in F. Salvatori (a cura di), Il Mediterraneo cit., pp. –. Sui marinai e “padroni” genovesisettecenteschi cfr. L. Lo Basso, Tra Santo Stefano e l’Europa. Le attività commerciali di GiovanniBattista Filippi attraverso la documentazione privata (–), in “Intemelion. Cultura e territorio.Quaderno di studi dell’Accademia di cultura intemelia”, , n. , pp. –; Id., Il Sud deiGenovesi. Traffici marittimi e pratiche mercantili tra l’Italia meridionale, genova e Marsiglia nelSettecento, in B. Salvemini (a cura di), Lo spazio tirrenico cit., pp. –; A. Carrino, Fra nazionie piccole patrie. “Padroni” e mercanti liguri sulle rotte tirreniche del secondo Settecento, in “Società eStoria”, , n. , pp. –.

. G. Cingari, Scilla nel Settecento: « Feluche » e « Venturieri » nel Mediterraneo, Reggio Cala-bria ; G. Di Taranto, Procida nei secoli XVIII–XIX: economia e popolazione, Ginevra ; F.Assante, Amalfi e la sua costiera nel Settecento. Uomini e cose, Napoli ; A. Berrino, I sorrentini eil mare, in P. Frascani (a cura di), A vela e a vapore. Economie, culture e istituzioni del mare nell’Italiadell’Ottocento, Roma , pp. –; G. Cirillo, Traffici amalfitani nel Mediterraneo moderno:merci e flussi commerciali, in M. Mafrici (a cura di), Rapporti diplomatici e scambi commerciali nelMediterraneo moderno, Soverìa Mannelli , pp. –.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

che nel secondo Settecento si apre al Mediterraneo come nellegrandi piazze, Livorno, Napoli, Marsiglia in primo luogo. E capitaanche che, quando nel Settecento l’impero asburgico ne costruisceuna nuova sostenendola con la propria potenza politica e militare,questa non colonizzi i luoghi con cui commercia, ma venga semmaicolonizzata, come lamentano mercanti e funzionari triestini, da Grecigiunti da poco portando sulle spalle, come unico loro patrimonio, unsacco di fichi secchi.

C’è un’ultima categoria di piccoli porti che andrebbe ben tenutapresente: quella che commercializza i prodotti del proprio entro-terra immediato. Si tratta solitamente di merci banali, di derrate dipeso ed ingombro unitario grandi rispetto al valore e che perciònon consentono di essere agevolmente trasportate in pochi e sparsiluoghi di concentrazione. Questi centri di gravitazione e commercia-lizzazione, spesso minuscoli ma diffusi e dunque nel loro complessoimportantissimi, sono stati più spesso osservati dalla prospettiva lonta-na dell’approvvigionamento annonario delle grandi città, produttoredi conflitti, macchine amministrative, pensieri e progetti: dunque diuna enorme documentazione utilizzata diffusamente in libri impor-tanti. Non è l’ultimo dei meriti del magnum opus di Peregrin Hordene Nicolas Purcell, ricco di suggestioni che superano l’arco crono-logico ampio su cui è costruito, quello di richiamare l’attenzionedirettamente su questi sistemi elementari e sulle connessioni strette

. E. Sifneos, Can commercial techniques substitute port institutions ? Evicence from the Greekpresence in the Black and Azov Sea ports (–), in R. Salvemini, (a cura di), Istituzioni e trafficinel Mediterraneo tra età antica e crescita moderna, Napoli , pp. –. Si veda anche P. Herlihy,Odessa: a History –, , Harvard .

. Cfr. D. Vlami, Business, Community and Ethnic Identity. The Greek Merchants of Livorno,–, tesi di dottorato dell’IUE, Fiesole, ; M. Ch. Chatziioannou, G. Harlaftis (acura di), Following the Nereids. Sea Routes and Maritime Business, th–th Centuries, Atene; D. Tziovas (a cura di), Greek Diaspora and Migration since . Society, Politics andCulture, Farnham (Surrey) ; M. Dogo, « A respectable body of nation ». Religious freedom andhigh–risk trade: the Greek merchants in Trieste, –, in “The Historical Review/La RevueHistorique”, , pp. –.

. Osterreichische Nationalbibliothek, Wien, N. S. , ff. –, « Memoria intorno alcommercio del porto franco di Trieste. . . ».

. H. Peregrine, N. Purcell, The Corrupting Sea cit. La discussione, avviata vigorosamenteda James ed Elizabeth Fentress (The Hole in the Doughnut, “Past & Present”, , n. , pp.–) è poi proseguita, in particolare, in W.V. Harris (a cura di), Rethinking the Mediterranean,Oxford , dove, alle pp. –, è pubblicata un’ampia replica di Horden e Purcell: FourYears of Corruption: A Response to Critics.

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che essi intrattengono con la produzione e con ogni livello delloscambio. Le società locali mediterranee — raccontano Horden ePurcell — non si aggregano in microspazi autosufficienti dal puntodi vista alimentare ed economico, secondo il modello nord–europeodell’autoconsumo contadino. Il rischio alimentare, per esempio, nonriguarda solo le città, ma anche le campagne, comprese quelle cerea-licole, e le proietta nel mondo dei traffici sia per vendere le propriederrate nelle annate buone che per approvvigionarsene quando ilraccolto fallisce. Di qui una propensione strutturale allo scambioche fuoriesce ampiamente dal quadro classico delle grandi piazzemercantili, incrocia circuiti brevi e lunghi e li contamina con ogniforma di attività illecita che la debole presa istituzionale dei poteriterrestri sugli spazi liquidi non riesce a mettere sotto controllo.

Tornerò su quest’ultimo punto nel paragrafo seguente. Nel quadrodelle considerazioni svolte fin qui, osserverei come questa immaginedi pervasività del mercato a fondamento micro–ecologico proposta inThe Corrupting Sea lasci ai margini questioni che mi sembrano centrali.In primo luogo l’autoconsumo non è un obbiettivo reso illusorio daivincoli ambientali: in ambiti ben caratterizzati e non certo infrequentidel contorno mediterraneo, esso è escluso dalla stessa organizzazioneproduttiva, sociale ed insediativa, ossia dalla fortissima specializzazionedel paesaggio rustico emersa in processi secolari intrisi di conflitti egiochi di potere. D’altronde questa specializzazione non è inserita inuna organica divisione del lavoro progettata e realizzata da una qual-che mano invisibile. Le complementarietà economiche fra le societàinsediate sulle coste sono, come sempre, imperfette e, nel nostro caso,relativamente deboli. Nella loro straordinaria diversificazione, sullaquale si è ampiamente insistito, i paesaggi rustici mediterranei presen-tano somiglianze che si traducono in produzione vendibile spesso noncomplementare ma concorrente. « Nel Mediterraneo si producono lestesse cose », scrive un testimone preoccupato della ristrettezza deglisbocchi mercantili dell’agricoltura del Regno di Napoli: in primoluogo la famosa « trilogia mediterranea », grano, olio e vino, e poila lana delle pecore transumanti e, a partire dalla prima età moder-

. Si tratta di Federico Valignani, presidente della Regia Camera della Sommaria diNapoli, in uno scritto databile al – citato in M.A. Visceglia, Sistema feudale e mercatointernazionale: la periferizzazione del paese, in “Prospettive Settanta”, , –, pp. –. Loscritto di Valignani è stato pubblicato da G. De Tiberiis, Le « Riflessioni sopra il commerciodi Federico Valignani ». Alle origini del pensiero riformatore nel Regno di Napoli, in “Frontiered’Europa”, , nn. –, pp. –.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

na, la seta. Soprattutto nelle aree a specializzazione più forte, i flussimercantili sono al tempo stesso un destino ed una maledizione, unastraordinaria fonte di ricchezza materiale e simbolica e, al tempo stes-so, una minaccia per produttori e mercanti. Perseguitati da un latodall’incostanza della natura e dalla minaccia del fallimento del raccolto,dall’altro dall’incostanza della domanda, essi rischiano di dover affron-tare il succedersi di anni di carestia e di anni di magazzini pieni neiquali le derrate marciscono per mancanza di acquirenti. Questi ultimidevono essere cercati faticosamente, ansiosamente, in primo luogosfruttando i margini di flessibilità del paesaggio agrario. Il quale, nono-stante le retoriche del Mediterraneo eterno e l’intrico dei poteri che loimbriglia, è tutt’altro che immobile: sotto l’impulso di una domandaassai volatile e che non possono influenzare se non in minima parte,contadini e signori piantano e spiantano, dissodano i pascoli o li resti-tuiscono alle pecore, aggrediscono i boschi o lasciano inselvatichire lecolture, fanno risalire l’agricoltura sui pendii montuosi o lasciano cheessa si rifugi nei fondovalle. D’altro canto, una volta assicurato un buonesito dell’annata agricola, gli sbocchi, anche nelle fasi di espansionedella domanda, non sono mai garantiti ed i carichi di ritorno non sem-pre risultano convenienti. Il trend del commercio in termini di quantitàpuò essere crescente, ma, attorno ad esso, le curve ricostruibili su baseannua si muovono zigzagando. La variabilità di questo commerciorimane fortissima: proporzionale al grado di “politicità” delle merci(il grano in primo luogo), correlata agli accidenti dei raccolti, delleepidemie, dei conflitti bellici, ed alimentata dalla concorrenza di altripotenziali fornitori delle merci mediterranee e coloniali.

Tutto questo spiega, credo più della microecologia, il carattereipertrofico delle funzioni mercantili rinvenibili anche in alcuni frai “porti di campagna”. Gli sbocchi possono essere conquistati solocon un lavorio minuto sul crinale del mercato, attraverso transazionicostose perché richiedono competenze, saperi, la costruzione e rico-struzione di reti di contatti e solidarietà, la mobilitazione di capitaliconcentrati in mani potenti o dispersi fra una miriade di possessori.A volte, in particolare nel caso dei cereali siciliani, queste risorsesono prodotte, controllate ed erogate da grandi macchine ammini-strative che governano dall’altro punti di imbarco specializzati — icaricatoi ; in altri casi nei piccoli porti sono insediate filiali di grandi

. N. Blando, Istituzioni e mercato nella Sicilia del grano, Palermo, . Un progetto diricerca su questi temi è stato avviato da Brigitte Marin e Catherine Virlouvet. Fra i risultati

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case mercantili, inglesi o francesi in particolare, che, appoggiandosiai servizi di intermediazione delle factories dei nuovi porti franchied erogando credito alla produzione, si assicurano l’approvvigiona-mento di derrate e materie prime destinate alle manifatture. Ma ilcontrollo amministrativo o economico non è mai totalitario: i flussicontaminano i contesti locali e vi suscitano forme di coordinamentocon la produzione, iniziative e risorse autonome che, come si è detto,possono essere impiegate proficuamente anche molto lontano.

La rete fitta di reciproche commissioni, noli, sconti cambiari checoinvolge una parte rilevante dei piccoli e grandi mercanti sparsi nel-le piazze mercantili come nei “porti di campagna” induce a metterein discussione l’immagine di una molteplicità di traffici irregolari e lo-cali che assediano da ogni lato le direttrici e le piazze del commerciostrutturato a lunga distanza. La geografia mercantile del Mediterra-neo della decadenza non si semplifica; d’altro canto essa non portail segno della aleatorietà e della casualità. Insomma non si tratta disostituire al « myth unitaire » l’immagine, nella sostanza banale, diuno spazio mediterraneo « fragmenté ». La spazialità che va emer-gendo ha caratteristiche incisive: essa presenta, piuttosto che unaconformazione gerarchica e a grandi campiture, una strutturazioneminuziosa, un ordine a grana sottile che nessuno ha programmatoe decretato ma che diventa man mano riconoscibile da parte degliattori, e concorre a definire il loro orizzonte delle opportunità. Avertebrare lo spazio marittimo non sono soltanto le rotte inquadra-te dalla Levant Company o dalla Chambre de Commerce di Marsigliache regge le échelles du Levant. I grafi degli itinerari mercantili di-segnano anche spazi diversi, dotati di altre temporalità, governatida altri protagonisti, soggetti, norme. Quelli della caravane proven-zale lungo le coste ottomane sono dilatati e intricati, ma altamentestrutturati. Un’altra “carovana” di tutt’altra natura, quella dei nuovi“Genovesi”, che nel Settecento contribuisce a disegnare con relativanettezza uno spazio tirrenico, guardata da vicino smentisce le rap-presentazioni di parte francese che la denunciano come esempio di

pubblicati cfr., a cura della Marin e della Virlouvet, Nourrir les cités de Méditerranée. Antiquité–temps modernes, Parigi .

. J. Béthemont, Géographie de la Méditerranée. Du myth unitaire à l’espace fragmenté, Parigi. Sugli spazi economici cfr., fra gli altri,R. Cameron, L.F. Schnore, (a cura di), Cities andMarkets. Studies in the Organization of Human Spaces presented to E.E. Lampard, Lanham–NewYork–Oxford .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

avventurismo mercantile ed opportunismo sregolato. Nulla di piùlontano da quell’« aller à l’aventure le long d’une côte, de port enport, de plage en plage, pour y faire leur chargement en détail à me-sure qu’il se présente des objets à bon marché », immaginato in unmémoire del . Ben radicati nei borghi liguri già menzionati, a lorovolta differenziati per pratiche e spazi frequentati, i “Genovesi” nondistribuiscono in forma random i loro pinchi fra i porti tirrenici, mali addensano in maniera statisticamente significativa: in particolaresulla costa della Calabria tirrenica meridionale essi proiettano unageografia di presenze fortemente strutturata, in una qualche misuracostruita a specchio rispetto a quella della Liguria dei loro borghimarinari.

È la logica, più volte descritta, dei circuiti mercantili, che rendo-no discontinuo ed irto di asperità lo spazio degli scambi. Quest’ultimopuò prendere la forma di un insieme differenziato di ambiti di azione— o di sospensioni temporanee dell’azione — di dimensioni areali in-certe e confini non lineari né esclusivi, i quali si cristallizzano quandopratiche emerse per prove e tentativi di uno o più soggetti producono,sotto gli occhi di potenziali imitatori, profitti in una qualche misuraschermati dagli effetti più devastanti dell’incertezza incombente; equindi riducono il ventaglio dei comportamenti da prevedere e rendo-no le scelte d’impresa relativamente stereotipate. Essi si costruisconodentro congiunture che allentano l’ordine preesistente: in particolarele situazioni di blocco dei traffici determinate dalle guerre, delle qualiGreci e Genovesi in particolare sanno trarre profitto. In quegli ambitigli attori, evidentemente non tutti imprenditori schumpeteriani pro-iettati verso la ricerca compulsiva di innovazione e di sovraprofitti,tendono a rinchiudersi dopo averli costruiti, accontentandosi spessodi lucri mediocri ma meno incerti, consegnandosi ad una sorta di pathdependency che non ha bisogno di tempi lunghi per acquisire efficaciama che si iscrive in tempi definiti. Le nuove egemonie del Mediter-raneo della decadenza non rendono liscio lo spazio, non travolgonoi circuiti, ma in una qualche misura li rafforzano e ne generano dinuovi, stimolando risposte differenziate da parte di una molteplicitàdi soggetti in vario modo localizzati. Ne risultano attenuati gli effetti

. Archives Nationales, Paris, AE, B III .

. Insiste su questo concetto, ad esempio, P. Pourchasse, Le commerce du Nord. Les échangescommerciaux entre la France et l’Europe septentrionale au XVIIIe siècle, Rennes , anche perspiegare la debole presenza francese nei mari europei settentrionali.

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di dominazione prodotti dalla vistosa asimmetria fra le economie e lepotenze in gioco; rallentato il dispiegarsi delle gerarchie economichee politiche.

.. Bene pubblico, bene privato, bene degli apparati: i mercanti-lismi in idea e in atto

Incastonato fra formazioni politiche di ogni rango ed affollato dinavi mercantili e militari nordiche, il Mediterraneo non sopportaagevolmente metafore come quella platonica (“mare corruttore”) ogroziana (“mare libero”) riferibili alla difficoltà di ridurlo a territorio,di sottometterlo a norme e controlli; tanto più nella fase della sua de-cadenza. Coincidente con l’emergere, fra i compiti del principe ed ifondamenti della sua legittimazione, della promozione del “commer-cio attivo”, la tarda età moderna colloca l’andar per mare in involucriistituzionali e normativi di una densità, mi avventuro a dire, senzaprecedenti.

Inteso come saldo positivo della bilancia commerciale, controllodella navigazione e scambio di manufatti contro derrate, il commer-cio attivo, a differenza dello sviluppo pensato dagli economisti politiciottocenteschi, non attraversa le frontiere, si ottiene a spese del com-mercio altrui, produce nei propri partners commercio passivo: unaferita aperta, quest’ultimo, agli occhi di amministratori ed intellettua-li che adottano il principio che « ogni nazione che non naviga vedrà isuoi interessi politici e domestici subordinati agli interessi del popolonavigatore », e considerano atto « basso » e degno dell’« Imperatoredel Marocco » il consentire agli stranieri di « venire a fare un commer-cio attivo con i prodotti del proprio suolo ». In effetti gli imperatoridel Marocco della storiografia che conosco non mettono in piedi

. Consulta del Supremo Magistrato di Commercio del aprile , in BSNSP, ms. XXXC I, c. .

. Cfr. M. Morineau, Naissance d’une domination. Marchands européens, marchands et marchésdu Levant aux XVIIIe et XIXe siècles, in Commerce de gros, commerce de détail dans les pays méditer-ranéens (XVIe–XIXesiècles), Nizza , pp. –; B. Masters, The Origins of Western EconomicDominance in the Middle East : Mercantilism and the Islamic Economy in Aleppo, –, NewYork ; T. Kuran, Islamic Commercial Crisis: Institutional Roots of Economic Underdevelopmentin the Middle East, in “Journal of Economic History”, , n. , pp. –. Sull’economiaottomana in generale cfr. H. Islamoglu–Inan (a cura di), The Ottoman Empire and the WorldEconomy, Cambridge ; H. Inalcik, S. Faroqui, B. McGowan, D. Quataert, S. Pamuk, An

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

politiche ed apparati mercantilistici, a differenza delle formazionipolitiche europee piccole e grandi, che pensano e promuovono gliscambi in una reciproca dimensione agonistica. Ma anche su questopiano non sembrano reggere le visioni dualistiche di un Mediterra-neo prigioniero della morsa delle dominazioni nordiche. Si tratta inrealtà di un agonismo indebolito, non “appassionato”, in cui i “piccoliStati” possono non figurare da semplici comparse. I conflitti prodottidalla “jealusy of trade” si moltiplicano ma, per così dire, si bana-lizzano; perdono ogni rapporto non solo con le linee di frattura fraciviltà ed appartenenze religiose, ma anche, in una certa misura, conil gioco delle potenze: le posizioni assunte dai contendenti non sonopredeterminate da “patti di famiglia” come quello fra i Borboni diFrancia, di Spagna e di Napoli, non coincidono sistematicamente congli schieramenti volta a volta costituitisi nelle guerre dichiarate, nonnecessariamente si svolgono alla luce del sole. Le controversie com-merciali si trascinano spesso alla ricerca di compromessi di fatto olegalizzati da trattati che spesso lasciano irrisolti gli oggetti essenzialidel contendere; e comunque producono norme, istituti, modelli checircolano per poi essere usati contro chi li ha elaborati. Ne deriva,come si è detto, un orizzonte fittissimo di vincoli ed opportunità perchi va per mare o chi vi fa transitare merci.

La quantità, qualità ed incisività di questi vincoli e risorse è connes-sa alle ambiguità profonde delle prassi, degli istituti e delle dottrinedel mercantilismo tardo. La capacità degli Stati di mobilitare e schie-rare, in forme compatte ed ordinate, uomini e risorse per competerevittoriosamente è assai dubbia. La questione millenaria del nessonecessario fra legittimità e limitazione del potere politico — il fatto

Economic and Social History of the Ottoman Empire, voll., Cambridge . Ricco di spunti chequi non utilizzo M. van der Boogerts, The Capitulations and the Ottoman Legal System: Qadis,Consuls, and Beratli in the Eighteenth Century, Leida–Boston .

. Cfr., fra gli altri, R. Tufano, La Francia e le Sicilie. Stato e disgregazione sociale nelMezzogiorno d’Italia da Luigi XIV alla Rivoluzione, Napoli .

. I. Hont, Jealusy of Trade. International Competition and the Nation State in HistoricalPerspective, Cambridge, M.A., . Su questi temi si vedano ora J.–F. Chanet e Ch. Windler(a cura di), Les resources des faibles. Neutralités, sauvegardes, accomodements. En temps de guerres(XVIe–XVIIIe siècles), Rennes ; K. Stapelbroek (a cura di), Trade and War: the Neutrality ofCommerce in the Inter–State System, Helsinki , e A. Alimento (a cura di), War, Trade andNeutrality. Europe and the Mediterranean in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, Milano .

. M.A. Denzel, J. De Vries, Ph. Robinson Roessner (a cura di), Small is Beautiful? In-terlopers and Smaller Trading Nations in the Pre–Industrial Period: Proceedings of the XVth WorldEconomic History Congress in Utrecht , Wiesbaden .

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Linguaggi del mercato

cioè che il comando politico che non poggi sulla pura costrizionedeve disegnare i limiti della sua applicazione, e dunque concedereambiti di immunità all’agire di individui e corpi che lo subiscono— non viene certo risolta nell’interventismo tardo–mercantilistico;vi riemerge anzi in una forma specifica e particolarmente acuta. Lanozione di bene pubblico che va emancipandosi da quella di bonumcommune a fondamento corporativo, o l’emergere di un commercialhumanism nel quale la tradizione assolutistica e quella civica riu-scirebbero a fondersi, sono un costrutti discorsivi armonicistici checerto non esauriscono l’affollato e variegato universo dei discorsi; e,soprattutto, non danno conto delle tensioni acute, a volte dilemmati-che, che attraversano le istituzioni ed i processi decisionali in materiadi commercio.

Nella seconda età moderna la costruzione della pubblica felicitàtramite la promozione del commercio poggia su un presupposto as-sai problematico, su cui il cameralismo tedesco insiste con particolareforza: la possibilità di ricondurre lo spazio mercantile allo spaziopolitico, e, più precisamente, al territorio sovrano. È quest’ultimoche, indebolendo le sue partizioni interne e rafforzando le frontiereverso l’esterno, definisce anche l’ambito soggetto a calcolo da partedelle macchine della nuova contabilità — ad esempio quella francesedella Balance du Commerce — destinate ad orientare l’interventosulle solide basi dell’aritmetica. Il fatto è, però, che questo calcolo“nazionale” somma il risultato delle azioni di soggetti individuali ocorporati che lo Stato dà per presupposti, che non può creare; per dipiù, essi calcolano in forme autonome e diverse dal calcolo felicificopubblico. C’è una incongruenza di fondo fra la dimensione collettiva

. Dopo J.G.A. Pocock (di cui si veda in particolare sui questi temi Virtue, Commerce, andHistory: Essays on Political Thought and History, Chiefly in the Eighteenth Century, Cambridge) la storiografia in merito, soprattutto americana, è diventata assai fitta. Cfr., ad esempio, J.Takeda, French Absolutism, Marseillais Civic Humanism, and the Language of Public Good, “TheHistorical Journal”, , n. , pp. –; Ead., Between Crown and Commerce. Marseilles and theEarly Modern Mediterranean, Baltimora .

. Si veda in particolare G. Garner, État, économie, territoire en Allemagne. L’espace dans lecaméralisme et l’économie politique, –, Parigi . Su questi temi cfr. J.–C. Perrot, Unehistoire intellectuelle de l’économie politique (XVIIe–XVIIIesiècle), Parigi ; J. Hoock, Economiepolitique, statistique et réforme administrative en France et en Allemagne dans la deuxième moitiédu XVIIIe siècle, in “Jahrbuch für Europaische Verwaltungsgeschichte”, , n. , pp. –;J.L. Klein, M.S. Morgan (a cura di), The Age of Economic Mesasurement, Annual Supplement tovolume of “History of Political Economy”, Durham–Londra, .

. G. Daudin, Commerce et prospérité. La France au XVIIIe siècle, Parigi .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

della felicità da calcolare e conseguire e la dimensione privata deisoggetti a cui essa è in ultima istanza affidata, che suscita elaborazionie prassi contraddittorie.

Nella soluzione più radicale a questo dilemma, spesso vista nellastoriografia come punto di arrivo ineluttabile di processo teleologico,la figura del mercante, dopo aver attraversato i secoli con alternafortuna, è riqualificata dal riconoscimento del carattere fondativo, perla comunità politica, dell’agire individuale interessato e dei diritticonnessi: quello di proprietà in primo luogo. Visto da questo lato,il commercio fra i popoli non può che configurarsi come dirittonaturale, come ambito prepolitico che il principe può regolare, fa-cilitare, ma non costruire o cancellare. In particolare egli non puòopporsi frontalmente, in nome dell’imperativo territoriale, all’anticadimensione extraterritoriale della mercatura, al tessuto di parole enorme (la lingua franca, la lex mercatoria) dell’universalismo radicatonelle grandi piazze mercantili della rivoluzione commerciale tardo–medievale, e che trova nei tempi del mercantilismo maturo nuovalegittimità fra filosofi e amministratori. Nelle visioni e proposte chequesti ultimi avanzano, l’opposizione fra commercio attivo e com-mercio passivo si indebolisce, le concezioni statiche della quantitàdi ricchezza globalmente disponibile cominciano a coesistere conconcezioni dinamiche, il concetto di sviluppo si fa largo, faticosa-mente ma efficacemente. La concorrenza mercantile sostenuta dapolitiche di potenza deve intrecciarsi alla ricerca di complementarietàpiù o meno asimmetriche, di una divisione internazionale del lavorobenefica per tutti, anche per i partners deboli. Il trattato fra Inghilterrae Portogallo del diventa paradigmatico.

Ma, come si sa, non è questa la visione prevalente. L’enorme pro-duzione etichettata dagli storici come “culture of commerce” ruotaattorno ad una legittimazione della pratica mercantile fondata sullaattenuazione del suo fondamento egoistico e sulla sua contaminazio-ne con le altre componenti del bene pubblico che si va costruendoattorno allo stato monarchico. Praticare il mercato significa sempre

. Cfr. P. Duguid, The Making of Methuen: the Commercial Treaty in the English Imagination,in “História: Revista da Faculdade de Letras (Universidade do Porto)”, , n. , pp. –.

. Faccio riferimento a N. Glaisyer, The Culture of Commerce in England, –, Wood-bridge, Suffolk, . Ho tratto spunti important da C. Petit, Mercatura y jus mercatorum.Materiales para una antropologia del comerciante premoderno, in Id. (a cura di), Del jus mercatorumal derecho mercantil, Madrid , pp. –, e H. C. Clark, Commerce, the virtues, and the publicsphere in early seventeenth–century France, in “French Historical Studies”, , n. , pp. –.

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più rischiare l’esclusione dai vertici delle gerarchie sociali — ad esem-pio in occasione delle due recherches de noblesse di Luigi XIV; e tuttoquesto rimescola e disarticola le appartenenze, i profili e le azionidei componenti della “repubblica internazionale del denaro”. Riatti-vato dal serbatoio del latino classico, si fa strada in una vasta arealinguistica euro–mediterranea il termine “negoziante”, che si vadistinguendo da quello di “mercante” man mano che si definisce uninsieme di pratiche mercantili “alte”, immateriali, distanti dalla mani-polazione quotidiana di navi e merci e perciò stesso non derogantialla nobiltà, compatibili con i nuovi profili del gentiluomo in variomodo ancorato alla corte sovrana. Distinguendosi dal mercante, ilnegoziante si appropria di un diverso orizzonte delle opportunità,rispetta un’altra tavola di norme che distinguono il lecito dall’illecito.Nella zona del lecito vanno a collocarsi comportamenti che i teoricidel bonum commune cristiano avevano considerato lesioni gravi delleleggi del mercato — ad esempio le manipolazioni finanziarie, mo-netarie e monopolistiche promosse dai principi — le quali possonoora trovare accoglienza nel nuovo concetto di bene pubblico. Ma,da un lato, le funzioni mercantili basse devono continuare ad essereesercitate e suscitano nuove figure — i “padroni”, i “marinai” — cheacquisiscono frammenti di autonomia e imprenditoriali; dall’altraanche il negoziante non è riconducibile in alcun modo alla figura diufficiale regio. Dunque i problemi di fondo rimangono sul tappeto.Le esitazioni morali dei riformatori italiani ed iberici nei confronti delmondo dell’economia o la presenza di una “economia politica dellagloria” nei luoghi di punta del pensiero illuministico, ivi compresal’Encyclopédie, non sono semplici arcaismi, ma il risultato di una atti-va ed ansiosa rielaborazione, addolcimento, limitazione del concetto

. K. Verboven, Ce que negotiari et ses dérivés veulent dire, in J. Andreau, J. France, V.Chankowski (a cura di), Vocabulaire et expression de l’économie antique, Bordeaux , pp. –. Molti spunti su questi temi in F. Angiolini e D. Roche (a cura di), Cultures et formationsnégociantes dans l’Europe moderne, Parigi ; J. Jeannin, Marchands d’Europe. Pratiques et savoirs àl’époque moderne, Parigi . Un esempio dei conflitti sulla denominazione sociale mercantilein B. Salvemini, Una “bonne ville” nella Francia assolutistica. Giochi di memorie e conflitti politicia Marsiglia fra Sei e Settecento, in E. Iachello, P. Militello (a cura di), Il Mediterraneo delle città,Milano , pp. –.

. Il rimando ovvio, fra l’immensa letteratura in proposito, è pur sempre a Franco Venturi.Cfr., più in particolare, K. Stapelbroek, Love, Self–deceit, and Money. Commerce and Morality inEarly Neapolitan Enlightenment, Toronto

. R. Morrissey, Napoléon et l’héritage de la gloire, Parigi .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

di interesse e di bene privato. Se, come afferma l’Abbé Coyer, « leCommerce. . . n’est plus une affaire particulière, c’est une science del’État », il commerciante, piccolo o grande che sia, non può esserelasciato ai suoi vizi privati. Le pubbliche virtù vanno promosse conatti di volontà e di potere volti, in primo luogo, a costruire e dif-fondere per terra e per mare la figura del négociant patriote. Senzaquesto fondamento il commercio attivo diventa una chimera. Beneprivato e bene pubblico sono entrambi valori costitutivi del corposociale territorializzato, ma l’organizzazione della loro convivenza èil nucleo problematico vero della nuova « science de l’État ».

Queste opposte legittimità e visioni non generano solo accesebattaglie di carta nella repubblica delle lettere; esse influiscono pe-santemente sulle battaglie diplomatiche e campali fra Stati e, d’altrocanto, penetrano dentro le compagini nazionali, alimentandovi unaconflittualità su linee contorte, prassi di intervento incerte ed incertiposizionamenti sullo scacchiere dei conflitti internazionali. Non è inprimo luogo possibile, come si è spesso fatto, mettere in relazionediretta attori e opzioni di politica economica — schierare in particolarequelli pubblici nel campo interventista e quelli privati in quello anti-statalista. Come si è detto, l’allineamento di negozianti e produttoririspetto alle scelte di potenza e di alleanza dei loro sovrani è, nellaquotidianità della vita degli scambi, del tutto ipotetica; ma altrettantodubbi sono i loro “precorrimenti” liberisti. Lamentele continue edaltissime investono quanti usufruiscono della protezione del re ma nefrustrano i tentativi di costruire commercio attivo non tenendo in nes-sun conto la dimensione nazionale. Denunce di “frodi” nei confrontidi norme tipiche della produzione di diritto positivo settecentesco —ad esempio quelle sulla nazionalità della nave, del capitano e dell’equi-paggio o sull’obbligo di ricorrere a noli nazionali anche in presenza dinavi straniere che offrano servizi di trasporto a prezzi e condizioni piùconvenienti — risuonano nei luoghi del potere, dalle propaggini piùperiferiche fino ai vertici, riempiendo gli archivi. Ma, data l’impossibi-lità di negare ogni legittimità al calcolo massimizzante individuale e diescludere recisamente la sua funzione di generatore di pubblico benes-

. Cit. in F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino , p. , n.

. (François Bedos de Celles), Le négociant patriote, contenant un tableau qui réunit lesavantages du commerce, la connoissance des spéculations de chaque nation; et quelques vues particulièressur le commerce avec la Russie, sur celui avec le Levant, et de l’Amérique Angloise : ouvrage utile auxnégociants, armateurs, fabriquants et agricoles, Parigi .

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sere, non è praticabile da traduzione sistematica del vasto ventaglio dicomportamenti propri dell’opportunismo mercantile in fattispecie direato: sono i ministri stessi a chiedere flessibilità e cautela alle istanzegiurisdizionali e amministrative che interpretano in senso letteralela norma scritta. La linea del « laissez nous faire et protégez nousbeaucoup » da rivendicazione del mercanti diventa orientamentodell’agire di ufficiali di ogni livello. Mas estado y mas mercado.

Gli Stati che promuovono il commercio vengono così risucchiatiin una spirale interventistica che rende ipertrofici e sconnessi ap-parati e norme. L’operazione storiografica solita che li considera,come la moneta nell’economia politica classica, velo che fa trasparireall’occhio esercitato la dialettica fra gli attori reali, da un lato i poterie dall’altro le forze sociali, diventa improponibile. La statualità dellaestrema età moderna non anticipa lo Stato minimo ottocentesco; alcontrario produce una fantasmagoria di norme, ispessimento isti-tuzionale, una dilatazione ed un infoltimento di apparati dotati dipersonale, ruoli, simboli, risorse, inerzie. Anche all’interno di questaintercapedine opaca fra poteri e società si vanno elaborando conce-zioni del bene, ovviamente contraddittorie e non sempre esplicitate,che ingombrano lo spazio pubblico, ne accrescono la complessità,alimentano conflitti e dinamiche.

Non vorrei con questo contribuire alla diatriba sull’emergeredello Stato moderno. Nell’ambito che qui ci riguarda le trasforma-zioni sono particolarmente evidenti nella costruzione di segmentidi diritto positivo poggiati sulla legge scritta e su apparati di direttaemanazione sovrana, che tendono a insinuarsi in ogni angolo deicircuiti della produzione e dello scambio. Il punto è che, come si sabene, questo avviene più spesso per aggiunta che per sostituzione;lascia cioè in piedi spazi normativi ed istituzionali spesso secolari, chenon rimangono inerti e non si lasciano emarginare passivamente.

. Alcuni esempi in merito in A. Carrino, Tra nazioni e piccole patrie cit., pp. –.

. Cfr. J.–P. Hirsch, Ph. Minard, « Laissez nous faire et protégez–nous beaucoup » : pourune histoire des pratiques institutionnelles dans l’industrie française, XVIIIe–XIXe siècles, in d L.Bergeron, P. Bourdelais (a cura di), La France n’est–elle pas douée pour l’industrie ?, Parigi ,pp. –; J.–P. Hirsch, Les deux rêves du commerce. Entreprise et institutions dans la région lilloise(–), Parigi .

. G. Pérez Sarrion, Mas estado y mas mercado. Absolutismo y economia en la España del sigloXVIII, Madrid .

. Si veda da ultimo il notevole libro di R. Zaugg Stranieri in antico regime. Mercanti, giudicie consoli nella Napoli del Settecento, Roma .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

In particolare nel campo delle norme riguardanti il commercio e lanavigazione, la partita sulla legittimità e la capacità obbligante degliatti di volizione del principe ha esiti confusi. Il principe stesso — adesempio quello francese con la Ordonnance de la marine del —può rendere omaggio alla forza persistente del vecchio jus trasfe-rendo nel linguaggio del diritto positivo interi corpi normativi, inparticolare dal lato del negozio giuridico, elaborati in secoli di prati-ca mercantile marittima, i quali, secondo una interpretazione nonpriva a mio avviso di forzature, avrebbero carattere “a–nazionale” e“a–internazionale”, e sarebbero dotati di una giuridicità originaria eirriducibile. D’altronde, soprattutto sul piano della police, diremmocon un anacronismo sul piano del diritto pubblico, le norme positi-ve, anche quando si sistemano nei nuovi codici, possono avere unacoercitività inferiore a quelle sovrastatali ancorate allo jus gentium,al diritto romano, al diritto naturale. Capita che lo stesso legislatoreattacchi nei fatti la sacralità e la legittimità della sua volontà incor-porata nella legge inflazionandone la produzione: smentendo la suavolontà espressa in un momento dato, aggiornandola, modificandolacon altri atti di volizione, egli finisce per privarla di un fondamentodel diritto che gode ancora di un prestigio indubbio, la durata neltempo. Su questo piano l’aspirazione ad una « disciplina regolare »

non riesce in alcun modo ad essere soddisfatta.In questo ingorgo normativo ed istituzionale il nesso amministra-

tivo, inteso come produzione di comando nei confronti di soggettiche non hanno titolo per opporvisi, e la certezza del diritto, lungidall’avanzare con le pretese statalistiche, si smarriscono in conflitti dif-fusi, giurisdizionali ed onorifici al tempo stesso: quelli degli apparati

. Cfr. in particolare F. Osman, Les principes généraux de la lex mercatoria: contribution àl’étude d’un ordre juridique a–national, Parigi . Su una linea simile cfr. U. Santarelli, Mercantie società tra mercanti, Giappichelli, Torino , e F. Migliorino, Mysteria concursus. Itineraripremoderni del diritto commerciale, Milano . Una interpretazione più modernizzante in F.Galgano, F., Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale, Bologna . Indicazioni importantiin S. Cerutti, Giustizia sommaria. Pratiche e ideali di giustizia in una società di Ancien Régime:Torino XVIII secolo, Milano .

. È orientato in questa direzione il lavoro intellettuale e pratico di Domenico AlbertoAzuni e della cultura giuridica gravitante su Genova, sulla quale cfr. R. Ferrante, Universitàe cultura giuridica a Genova tra Rivoluzione e Impero, Genova , e Id., Codification and lexmercatoria: the maritime law of the second book of the Code de commerce (), in V. Piergiovanni(a cura di), From lex mercatoria to commercial law, Berlino , pp. –. Su Azuni inparticolare cfr. L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (-). Un contributobio–bibliografico, Milano .

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della giustizia ordinaria contro quelli della giustizia mercantile spe-ditiva, delle dogane e dei loro appaltatori contro la sanità marittima,delle magistrature cittadine nei confronti dell’invadenza di quellecentrali. In questo contesto possono annidarsi zone di resistenzadelle prassi e degli istituti corporativi, a volte rafforzati dal riconosci-mento di ruoli ufficiali nei processi decisionali: ad esempio, lo si èaccennato, le Chambres de Commerce delle grandi città francesi rappre-sentate nel Bureau de Commerce che ne raccoglie, a corte, le proposte.Così, anche laddove non c’è un parlamento come luogo legittimo epubblico di confronto e bilanciamento degli interessi, gli apparati siarricchiscono di interstizi dentro i quali si va configurando una sortadi agorà: uno spazio semiufficiale di comunicazione e negoziazionein cui si intrecciano guerre di pamphlets e gazzette, l’andirivieni disuppliche e rimostranze, l’azione di individui e gruppi, stretti da vin-coli corporativi vari, dentro le reti di influenza centrate su dinastie diministri e alti funzionari. Da un lato si costruisce, insieme al dirittonuovo, un “senso dello Stato” e del funzionamento della macchinaamministrativa fondato sulla gestione a partire dalle norme, più chesulla applicazione di queste ultime; dall’altra l’amministrazione noncostituisce un ambito esclusivo degli uomini dello Stato: gli uominidel mercato vi giocano una parte di primo piano.

Anche perché — torno ancora su questo punto a mio avviso es-senziale — non si tratta di una partita che amministratori e mercantisettecenteschi giocano ordinandosi per gruppi nazionali agenti, cia-scuno, nell’ambito dello spazio giuridico e politico del proprio Stato.L’insistenza ossessiva della contabilità e della produzione normativasettecentesca sulla nazionalità delle economie (insieme, aggiungerei,alla straordinaria forza dello statalismo ottocentesco sul discorso sto-riografico in generale) genera la visione, spesso presupposta nei libridi storia, di uno spazio mercantile costituito da ambiti ipernormatiperfettamente confinati, coincidenti con i territori degli Stati sovrani;

. P. Bonnassieux, Les assemblées représentatives du commerce sous l’Ancien Régime, Paris ;J. Fournier, La Chambre de commerce de Marseille et ses représentants permanents à Paris (–),Masiglia ; Th. Schaeper, The French Council of Commerce, –: a study of mercantilismafter Colbert, Columbus, OH, . Più in generale M. Potter, Good Offices: Intermediation byCorporate Bodies in Early Modern French Public Finance, in “The Journal of Economic History”,, n. , pp. –; Id., Corps and Clienteles. Public Finance and Political Changes in France,–, Aldershot .

. Si veda in particolare Ch. Frostin, Les Pontchartrain, ministres de Louis XIV. Alliances etréseau d’influence sous l’Ancien Régime, Rennes .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

e ciascuno di essi appare separato dagli altri da vuoti normativi —siano essi quelli, amplissimi, dei mari o quelli inconsistenti dellefrontiere terrestri — dove vigono le regole intermittenti della guerrae della diplomazia, e si va faticosamente costruendo uno jus publicumeuropeum destinato ad acquisire efficacia solo nel secolo seguente. Mipare di poter dire che su questa visione agisce una forma di violenzaclassificatoria esercitata anche dall’archivio (o meglio da una partedell’archivio), dalla quale occorrerebbe in qualche misura emancipar-si. In tempo di pace o in condizione di non belligeranza reciproca, leintermittenze delle regole vigenti negli spazi extrastatali sono in parteridotte dai trattati e dai reciproci privilegi negoziati ed ufficializzati.Occorrerebbe d’altronde tenere ben presente un altro lato del tessutonormativo ed istituzionale, territorializzato in maniera assai difetto-sa e comunque non congruente con gli spazi politici, che attendeindagini ravvicinate. Esso emerge in tutta evidenza se le prassi diintervento del principe vengono osservate dal punto di vista dei lorodestinatari, i mercanti.

Si guardi in particolare alla figura del console, che, lungo tempie processi profondamente diseguali, va diventando, da rappresen-tante di un corpo, uno snodo dell’apparato pubblico. Ma con unaparticolarità che ne complica la posizione, ossia il fatto che egli svolgequesta funzione nuova nell’ambito di un territorio diverso da quellodella sovranità di appartenenza: è lì che deve giocare la partita deiconflitti giurisdizionali, cercando di conquistare, con il sostegno delproprio sovrano, ruoli e prerogative nella folla di magistrature localiconcorrenti. Suo compito fondamentale, che va precisandosi manmano che avanzano i processi di territorializzazione promossi dalproprio principe, diventa quella di reintrodurre elementi di extra-territorialità, di sospensione della vigenza delle leggi, nel territoriodel sovrano che lo accoglie concedendogli l’exequatur. Le qualità deiconsoli si misurano anche su questo metro. Nella corrispondenzaufficiale essi vantano, come meriti validi per l’ascesa nella gerarchiaamministrativa, i “colpi” che gli riescono, ossia i reati per i quali sonopreviste pene severissime, perpetrati impunemente in concorso con imercanti della propria “nazione”: ad esempio far fuggire nottetempo

. Cfr. i saggi e l’ampio repertorio bibliografico pubblicati in di J. Ulbert, G. Le Bouëdec(a cura di), La fonction consulaire à l’époque moderne. L’affirmation d’une institution économique etpolitique, Rennes .

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una nave in quarantena, o coprire l’esportazione clandestina di granoin una fase di crisi annonaria e di chiusura delle tratte. Si tratta di attiovviamente non ufficializzati ma di fatto reciprocamente tollerati,spesso negoziati fra istituti e soggetti situati a cavallo dei confini deiterritori sovrani.

Questa dimensione per così dire bassa, relativamente nascostae a territorializzazione incerta, dell’agonismo mercantilistico è, iocredo, un nodo cruciale; in ogni caso, assolutamente centrale per ilmondo del negozio in ogni sua articolazione. C’è tutta una vastaarea di decisioni importanti ma minute e di carattere processuale,da assumere in un corpo a corpo fra mercanti, istituzioni e norme,che sono delegate di fatto o ufficialmente alle posizioni periferichedi apparati di vario inquadramento nazionale impegnati in un giocorelazionale e conflittuale fittissimo: l’area delle manovre di doganie-ri a volte dipendenti da arrendatori e feudatari; della classificazioneed identificazione delle merci; delle vessazioni dei tribunali alimen-tate dalla indefinizione delle loro competenze; dell’accertamentodell’appartenenza nazionale di navi e mercanti e dell’autenticità deidocumenti di bordo; delle certificazioni sanitarie, che, ben lungidal seguire nel Mediterraneo, a differenza che negli oceani, criterioggettivi e rigorosi, come ha immaginato un libro recente, vengo-no elaborate in un quadro di ripicche e reciprocità documentate dauna corrispondenza vastissima ed eloquente: basterebbe utilizzarla,oltre che per documentare i focolai della peste e le misure di preven-zione del contagio, per comprendere la concreta trama istituzionaleche chi svolge traffici per mare deve tenere ben presente per cal-colare e scegliere soprattutto sul breve e brevissimo periodo. E

. J. Booker, Maritime Quarantine. The British Experience, c. –, Aldershot .

. Cfr. lo straordinario saggio di J.–P. Filippini, Livorno e la peste di Marsiglia, in Id., Ilporto di Livorno cit., vol. II, pp. –. Di grande interesse anche i casi presentati da D.Andreozzi, “L’anima del commercio è la salute”. Sanità, traffici, rischio e dominio sul mare inarea alto adriatica (–), in R. Salvemini (a cura di), Istituzioni e traffici cit., pp. –. Sui meccanismi di funzionamento di questa istituzione fondamentale nel commerciomediterraneo cfr. F. Hildesheimer, Le bureau de la santé de Marseille sous l’Ancien Régime. Lerenfermement de la contagion, Marsiglia ; D. Panzac, Quarantaines et lazarets. L’Europeet la peste d’Orient (XVIIe–XXe siècles), Aix–en–Provence ; C.M. Cipolla, Il burocrate eil marinaio. La sanità toscana e le tribolazioni degli inglesi a Livorno nel XVII secolo, Bologna; G. Buti, Contrôles sanitaires et militaires dans les ports provençaux au XVIIIe siècle, in C.Moatti, W. Kaiser (a cura di), Gens de passage en Méditerranée de l’Antiquité à l’époque moderne.Procédures de contrôle et d’identification, Parigi , pp. –; G. Assereto, “Per la comunesalvezza dal morbo contagioso”. I controlli di sanità nella Repubblica di Genova, Novi Ligure .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

fra ufficiali di basso rango ma titolari di decisioni cruciali e mer-canti di ogni tipo si colloca una nebulosa di intermediari dai ruolispesso intercambiabili o indefiniti, ben istallati anche in luoghi incui gli effetti di dominazione economica dovrebbero essere assolutie semplici: interpreti, sensali patentati e mezzani non approvati,mezzani di noleggi, ricevitori di carichi, piloti, interpreti, tutti acaccia di ruoli e frammenti di profitto commerciale. Farsi largofra costoro per procurarsi noli e merci produce costi di transazioneevitabili, da un lato, assorbendo all’interno dell’impresa funzionidella circolazione in vendita sul mercato lecito ed illecito, dall’altropraticando lo spazio mercantile in qualche misura da “insiders”, dacomponenti di contesti locali che il ricorrere di gesti, itinerari erapporti mercantili rende familiari.

Questo terreno vasto di confronto e conflitto diventa centraleman mano che la contesa per il commercio attivo si inasprisce ma,anche per ragioni connesse agli equilibri politici, non può sempregiocarsi sui livelli più elevati ed ufficiali, con mosse e contromosse dipolitica economica incisive e vistose o con la guerra guerreggiata. Iperiodi di pace non sospendono il conflitto mercantile, né gli alleatiufficiali sono sempre alleati commerciali. C’è una quotidianità del-l’interventismo mercantilistico costituita da un reciproco e continuo« harassement » alimentato dall’abbassarsi del livello dei luoghi delledecisioni e dei decisori; dal costituirsi, ai bordi delle istituzioni e nellepiazze mercantili, di una zona ipernormata e al tempo stesso opaca:una sorta di limbo territoriale dove si addensano agenti e istituti dimolte sovranità in bilico fra vari sistemi di norme ed appartenenze, egli apparati tendono a smarrire la natura pubblicistica loro assegnatadai processi di statizzazione.

Il mercantilismo in atto è fatto di materiali di questa natura. L’in-cisività programmatoria e finalistica dell’intervento statale è assaidubbia, ma questo non significa che i suoi effetti siano futili. Spazidei traffici e pratiche mercantili si definiscono in un rapporto serratocon questi giochi istituzionali.

Per un quadro sulla peste mediterranea e le sue conseguenze sui traffici si vedano D. Panzac,La peste dans l’Empire ottoman –, Louvain , e G. Restifo, I porti della peste. Epidemiemediterranee fra Sette e Ottocento, Messina .

. Cfr. il saggio inedito di Ch. Denis–Delacour, Des Nordiques au service des traficsannonaires romains dans la seconde moitié du XVIIIe siècle. Ringrazio l’autore per avermi messoa disposizione questo testo.

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Linguaggi del mercato

.. Etiche, attori, pratiche

Dal momento che, anche nella fase della decadenza, gli scambi me-diterranei sono vivaci e non certo confinati dentro la sfera dellareciprocità e del dono, la questione delle condizioni “artificiose” cherendono possibile ogni rapporto contrattuale non può essere elu-sa. In particolare in presenza di apparati funzionanti nelle forme sudelineate.

Su questo tema si è andata accumulando una storiografia ormaienorme di impianto neoistituzionalista. Nei suoi presupposti piùo meno esplicitati, le istituzioni che funzionano propriamente co-stituiscono un quadro esteriore e precedente l’azione e gli attori, eproducono norme in varia maniera formalizzate applicate a soggettiche non concorrono alla loro stessa produzione. In questo modo esse,da un lato, stabilizzano agli occhi degli attori le interpretazioni dei datidi realtà, riducono la fantasmagoria delle opzioni disponibili, e dun-que rendono possibile la scelta; dall’altro hanno un effetto ordinatoresulle pratiche, scoraggiano il free riding, rafforzano il tasso di fiduciafra operatori che non hanno piena informazione sui reciproci profilimercantili e morali, e dunque consentono di allungare le catenedel credito, di estendere la dimensione dei circuiti, di ridurre i costidi transazione. Quando queste norme vengono interiorizzate dagliattori, e quindi si riduce il ruolo degli apparati costrittivi a garanziadel rispetto delle norme stesse, la prevedibilità dei comportamenti diquanti partecipano alle transazioni diventa piena, l’induzione all’inve-stimento forte, la crescita economica garantita. Successi e fallimentidel mercato trovano spiegazione esogene.

La potenziale pertinenza di questi temi al nostro caso di studioderiva anche dalla latitudine amplissima delle variabili esterne almercato che possono essere convocate per comprenderne il funzio-namento. Il concetto di istituzioni adoperato in questa letteraturapuò ben ospitare, fra l’altro, le « imprese istituzionali a carattereierocratico », come direbbe Max Weber, che agiscono sulle etichemercantili nel Mediterraneo ottomano come in quello cristiano,

. Il riferimento storiografico d’obbligo nell’ambito degli studi mediterranei (e nonsolo) è A. Greif, Institutions and the Path to Modern Economy: Lessons from Medieval Trade,Cambridge .La discussione sul neoistituzionalismo è ormai enorme, e, in una qualchemisura, ripetitiva. Segnalo, per tutti, l’articolo di T.W. Guinnane Les économiste, le credit et laconfiance, in “Genèse”, , n. , pp. –.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

dove il mercato dovrebbe aver acquistato autonomia ben più precoce-mente. Possiamo provare a seguire il ragionamento da questo latoappoggiandoci a studi importanti, in particolare italiani, che han-no ripensato radicalmente il rapporto fra cristianesimo e profittoeconomico, tradizionalmente collocati in opposizione frontale.

Come ci ha spiegato Giacomo Todeschini, gli ordini mendicantiincardinati negli ambienti urbani medievali elaborano e riesconoa rendere operativo un concetto di bene comune accogliente, chegiustifica l’interesse individuale e la ricchezza privata, ma impediscel’inganno reciproco: molti fra i comportamenti lesivi della fiduciamercantile, e quindi del funzionamento fluido del mercato, sonocollocati nel campo del peccato. Ma questi meccanismi che rendonopossibile lo scambio vigono in limiti stretti, territoriali e sociali, inambiti civici fortemente territorializzati, ed escludono quanti nonvi appartengono o vi appartengono in forma difettosa: bene comu-ne e cittadinanza sono inscindibili. Ne deriva, anche da questo lato,una disimmetria di fondo fra l’insediamento potenzialmente vasto,geografico e relazionale, dell’agire del mercante, e la legittimazio-ne puntuale, legata alla civitas, della sua azione. Con il rafforzarsidelle formazioni politiche non locali ed urbane, il complicarsi conse-guente delle forme dell’appartenenza territoriale e della cittadinanza,l’allargarsi dei circuiti dei traffici e di coloro che vi sono inclusi, simoltiplicano le « forme dell’inattendibilità » e « dell’infamia »; la« precarietà o almeno la fragilità della reputazione » fa del contratto ilrisultato non di una preventiva ed accertata inclusione nella cerchiadegli affidabili di quanti lo sottoscrivono, ma di una « fiducia che icontraenti si riconoscono l’un l’altro di momento in momento e dauna situazione all’altra ». La collocazione delle lesioni del mercatonella figura del peccato, efficace se sostenuta dai vincoli dell’opinionee dell’inclusione formalizzata in una civitas, offre garanzie deboli.Nell’opinione di Paolo Prodi, queste possono essere rafforzate dallaeticità che, nella “repubblica internazionale del denaro”, sosterrebbe

. Cfr., in particolare, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso dellaricchezza fra medio evo ed età moderna, Bologna .

. G. Todeschini, Fiducia e potere: la cittadinanza difficile, in La fiducia secondo i linguaggi delpotere, a cura di P. Prodi, Bologna , p. .

. Ivi, p. .

. Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna . Rimando inproposito al capitolo seguente di questo libro.

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Linguaggi del mercato

il diritto sovranazionale dei mari, le sue forme contrattuali, le sueprocedure di composizione speditiva dei conflitti, e quindi definireb-be la frode come colpa: una affermazione che attende sostegni fattualial momento, mi sembra, non disponibili.

Questo fondamento debole, circostanziale, del contratto e dellafiducia fra i mercanti cristiani appare tanto più evidente se riferitoad uno spazio come quello mediterraneo, in cui la christianitas nonpuò fungere da metafora dell’umanità intera, ma diventa una artico-lazione dello spazio mercantile. All’interno di quest’ultimo vanno acollocarsi a pieno titolo soggetti che « il circuito tra confessori e co-scienze » non può obbligare né nel foro interiore né in qualche forocivile: gli « infedeli » lontani che producono traffici per mare intensisi aggiungono a quelli che, sotto la denominazione di ebrei, frequen-tano da secoli le piazze di mercato cristiane. La domanda proposta daGerard de Malynes nel primo Seicento, se il mercante cristiano possaaccordare fiducia alle promesse di Turchi, barbari ed infedeli. di-venta cruciale, e la risposta dubitativa che ne dà lo stesso Malynes misembra individui, ben più efficacemente dell’ottimismo e del paterna-lismo eurocentrico del “dolce commercio” di Montesquieu, il sensodei processi reali. Con gli infedeli si può commerciare, si possonostipulare contratti che saldano le pendenze al momento stesso delloscambio o, se impegnano il tempo, lo contabilizzano; ma questo nonproietta prevedibilità e sicurezza sugli scambi futuri. Le parole delloscambio contrattuale elaborate e formalizzate dalla teologia cristianain ambienti civici densi, una volta trasferite dentro questi spazi dilatatidiventano secche, fredde, incomplete: mobilitano un segmento solodella persona, i suoi interessi ma non i sentimenti e le appartenenze;e quindi non possono di per sé fondare legame sociale. Commerciarenon solo con l’infedele ma anche con lo straniero, e aggredirlo, sonoforme di interazione pienamente compatibili, e che si protraggonoanche nella fase di banalizzazione e deideologizzazione dei conflittiche qui ci interessa.

Questa « scissione della coscienza nei contratti », che aveva persecoli impegnato teologi e giuristi, da Jean Gerson a Giovan Battistade Luca, è ben lungi dall’essere risolta dall’emergere del monopolio

. P. Prodi, Settimo non rubare cit., p. .

. G. de Malynes, Consuetudo: vel lex mercatoria, Londra , p. . Qualche riflessione inmerito nel capitolo finale di questo libro.

. P. Prodi, Settimo non rubare cit., p. .

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

normativo dello Stato. Nella visione di Paolo Prodi, che riprendesu questo punto una ampia letteratura storica e sociologica sul latooscuro della modernizzazione, lo Stato fabbrica diritto senza riferi-mento alcuno ad un ordine superiore a se stesso, e quindi produce« comando politico. . . eticamente indifferente ». Dal momento chele sue norme non incontrano il « terreno della morale », esse diven-tano coercizione, traducono la frode in reato: a differenza del peccatoe della colpa, una figura di per sé debole sul piano dell’obbligazione.L’esistenza stessa del mercato diventa così un semplice dato empiricola cui spiegazione rischia di essere introuvable.

I problemi non si semplificano se si lascia il piano del grandeaffresco fondato sulla trattatistica e si riprende il filo degli studi dicaso discussi in questo scritto. Da un lato l’incongruenza degli spazidi vigenza degli apparati statali e del loro comando politico rispettoagli spazi mercantili sovranazionali, dall’altro la contraddittorietà,la pluralità ed il debole enforcement della legge positiva alimentanoabbondantemente i cataloghi e le tipologie del reato mercantile;al tempo stesso, la svuotano di contenuti deprecatori. Un concet-to forte di frode presuppone una tavola delle leggi rispetto allaquale misurare la devianza della pratica fraudolenta e la colloca-zione in una dimensione pubblicistica di quanti sono chiamati amisurare e punire la frode stessa: condizioni, lo abbiamo visto, inlarga parte assenti. Il mancato rispetto delle norme da parte degliattori non avviene al riparo dallo sguardo dei sovrani, ma vieneda loro presupposto, in una qualche misura promosso, comunquetollerato; in particolare nelle zone di sovrapposizione o di inde-finizione della vigenza dei diversi apparati statali, o ai bordi delleistituzioni, dove si affollano norme formalmente pubbliche madi fatto negoziate, sotto lo sguardo dei sovrani, fra ufficiali e mer-

. Ivi, p. .

. Ibidem.

. Sul quale, in assenza di uno sforzo di contestualizzazione che chiami in campo anchele istituzioni, si rischia di continuare a recitare la litania della opposizione norme/pratiche.Un repertorio di casi più o meno interessanti in G. Béaur, H. Bonin, C. Lemercier (a curadi), Fraude, contrefaçon et contrebande de l’Antiquité à nos jours, Ginevra . Un punto diriferimento resta il libro di S. Marzagalli “Les boulevards de la fraude”. Le négoce maritime et leblocus continental, –. Bordeaux, Hambourg, Livourne, Villeneuve d’Asq . Osserva-zioni interessanti, per quel che riguarda lo spazio tirrenico, in Samuel Fettah, Les consuls deFrance et la contrebande dans le port franc de Livourne à l’époque du Risorgimento, in “Revued’histoire moderne et contemporaine”, , n. , pp. –.

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Linguaggi del mercato

canti. In questo ambiente il commerciante per mare, adoperandopratiche reticolari e mobilità, manovrando con le nazionalità e lebandiere, può, ben più che altre figure di sudditi, sfuggire ad alcunidegli effetti della territorializzazione statale: al limite, costruirsiun proprio contesto istituzionale con un bricolage di frammentidi diritto e di apparati di varia emanazione, retti da uomini coni quali realizzare rapporti fruttuosi sul piano dell’informazione,dell’applicazione delle norme, della individuazione di occasionidi lucro. Tutto questo diventa parte rilevante delle risorse, dellepratiche e dei saperi dell’impresa.

Si tratta di imperfezioni del mercato determinate dalla imperfezio-ne delle istituzioni, che contribuiscono alla decadenza? Certo si puòsempre avanzare la tesi — infalsificabile ma di buon senso — che itraffici sarebbero stati più intensi in un diverso e più favorevole con-testo istituzionale. Per l’intanto, occorre spiegare come funzionanoquelli che ci sono, il cui andamento relativo rispetto ai traffici di altrimari attende ancora una misurazione adeguata, ma è senz’altrocrescente in termini assoluti.

La direzione di indagine che mi sembra più proficua è quella che,ispirandosi ad una modellistica e ad una strumentazione elaboratain ambiti disciplinari diversi — la nuova sociologia economica, laeconomia delle convenzioni, la teoria delle communities of practice,l’economia cognitiva — legge gli scambi cercando di emanciparsida concezioni rudimentali dell’attore, solitamente inteso come indivi-duo razionale, e da concezioni del mercato come ambito autonomocaratterizzato da una razionalità unica, per così dire gravitazionale,minacciata da istituzioni inadeguate. Gli studi così orientati ormainon mancano: quello di Francesca Trivellato sulla casa commerciale

. Un progetto di ricerca in questa direzione, finanziato dalla Agence Nationale de laRecherche francese, è intitolato Navigocorpus e diretto da Silvia Marzagalli. Un altro progetto incorso, in parte analogo, è diretto da Guillaume Daudin.

. Cfr. R.M. Hogarth, M.W. Reder (a cura di), Rational Choice. The Contrast between Eco-nomics and Psycology, Chicago–Londra ; R. Salais, M. Storper, Les mondes de production.Enquête sur l’identité économique de la France, Parigi ; J. Tanner, Die öconomische Handlung-stheorie vor der ‘kulturalische Wende’?, in H. Berghoff, J. Vogel (a cura di), Wirtschaftsgeschichte alsKulturgeschichte. Dimensionen eines Perspektivenwechsels, Frankfurt–am–Mein–New York ,pp. –; P. Duguit, « The Art of Knowing »: Social and Tacit Dimensions of Knowledge and theLimits of the Community of Practice, in “Information Society”, , n. , pp. –; Ph. Minard,Norme, istituzioni e regolamenti dell’economia. Nuovi approcci del mercato in Francia, in “Studistorici”, , n. , pp. –.

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

sefardita basata a Livorno Ergas & Silvera del primo Settecento —forse il solo paragonabile per respiro e ampiezza di documentazionealla grande thèse di Charles Carrière — mi sembra rappresenta-re con chiarezza la distanza ormai notevole rispetto al clima in cuiCarrière studiava le sue famiglie di negozianti e, al tempo stesso,presenta un’aria di famiglia con non pochi fra i lavori recenti richia-mati per cenni nelle pagine precedenti. Metterli sotto osservazionerichiederebbe un altro saggio. Mi limito qui a estrarne, in conclusio-ne di questo, gli atteggiamenti interpretativi che mi sembrano piùproficui.

— L’individuo in quanto soggetto a cui imputare le scelte eco-nomiche è una costruzione analitica potente ma non puòessere presupposta all’indagine. Mille forme di impresa didiverso livello di formalizzazione — parentele, segmenti dicomunità, società instabili e asimmetriche — arricchiscono ecomplicano l’opposizione classica fra impresa decentrata (ilmarket) e quella a controllo controllo burocratico (la hierar-chy), e diffondono nel mondo degli scambi decisori dotati dicomplessità e spessore.

— Le decisioni d’impresa non possono essere correlate elastica-mente al mutare delle variabili economiche (in primo luogo iprezzi relativi) ed alle circostanze che le disturbano (epidemie,carestie, guerre, mutare delle norme, qualità e rapidità del-l’informazione). L’orizzonte delle opportunità reali è ben piùridotto di quello potenziale: esso viene ricostruito in rapportoai modi di produzione delle informazioni, alla loro interpre-

. F. Trivellato, The Familiarity of Strangers. The Sephardic Diaspora, Livorno, and Cross–Cultural Trade in the Early Modern Period, New Haven–Londra . Fra le reazioni europeeal libro segnalo la discussione su “Quaderni storici” , n. , pp. – A proposito di“The Familiarity of Strangers”, di Francesca Trivellato, con interventi di M. García Arenal, G.Ceccarelli, C. Tazzara, nonché G. Calafat, Diasporas marchandes et commerce interculturel. Familles,réseaux et confiance dans l’économie de l’époque moderne, in “Annales HSS”, , n. , pp. –. La stessa Trivellato propone il nucleo del suo atteggiamento interpretativo, inteso comefusione delle proposte della microstoria italiana con la « global history », in Is There a Futurefor Italian Microhistory in the Age of Global History?, in “Californa Italian Studies”, , http://escholarship.org/uc/item/Oznhq.

. Négociants marseillais au XVIIIe siècle. Contribution à l’étude des économies maritimes,

voll., Marsiglia .

. O.E. Williamson, Markets and Hierarchies. Analysis and Anti–trust Implications, New York.

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Linguaggi del mercato

tazione e valutazione tramite calcoli che massimizzano unventaglio di valori diversi (non certo solo quello monetario),alla negoziazione all’interno del soggetto decisore (come si èvisto spesso composito).

— I saperi mercantili, alti o contestuali, le loro stratificazioni ele forme della loro trasmissione costituiscono opportunitàe producono al tempo stesso inerzie. Gesti sperimentati ecodificati, soprattutto in condizioni di variabilità elevata, pos-sono proiettarsi su orizzonti temporali lunghi. Capitali, navie marinai che non trovano impiego profittevole nell’anno incorso possono essere lasciati dormienti, piuttosto che conver-titi affannosamente, a costi non irrilevanti, verso investimentialternativi poco sperimentati, all’inseguimento di redditi daestrarre momento per momento.

— Le relazioni “dense” fra i protagonisti dello scambio — loca-li, parentali, culturali, etniche, diasporiche — non possonoessere sostantivizzate, né pensate come precondizione delloscambio, produttrici di fiducia sostitutive alle istituzioni quan-do queste non sono all’altezza del loro compito; esse figuranocome una delle risorse nel ventaglio di quelle disponibili.

— Il mercato praticato è un campo di azione composito, riccodi detriti e sconnessioni, nel quale saperi, forme relazionali,istituzioni non sono quadri o prerequisiti, ma sue componentiessenziali.

Il mercante si muove in questo orizzonte incerto e rischioso. Ilsuo successo, ed il funzionamento stesso del mercato, dipende dallaidentificazione, in forme processuali inventate nel corso stesso delloscambio, di spazi di prevedibilità di estensione limitata, di regolaritàconoscibili ma provvisorie, di eticità contestuali che sono in grado dicristallizzarsi dentro ambiti relazionali dati e non sono attribuibili adambiti diversi di azione.

Questi modi di essere del mercato suggeriti da un gruppo di studisui traffici per mare del Mediterraneo della decadenza non compon-gono certo un modello universale alternativo a quelli circolanti; né,d’altro canto, essi descrivono un contesto imprigionato in meccani-smi ferrei. Ce lo ricorda, oltre all’imminenza dei grandi eventi di fineSettecento, la virulenza delle polemiche antivincolistiche dell’ultimoantico regime. Spesso ancorate dagli storici a matrici dottrinali cheanticipano l’Ottocento, esse andrebbero meglio connesse ai dibattiti

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. Negli spazi mediterranei della “decadenza”

sui muratoriani “difetti della legislazione”, i quali, ingarbugliandosie contraddicendosi, inducono disprezzo per lo Stato, finiscono per“indisciplinare” gli attori che si vogliono “nazionalizzare”, rischianodi fare della vita economica un seminario di opportunismi ed im-moralità funzionali a carriere di successo. Le richieste diffuse di unapparato pubblico semplificato, separato dalla quotidianità del merca-to e quindi più efficace nel definire regole e fini dello scambio, sonoaggressive rispetto ad aspetti decisivi delle società della tarda età mo-derna; d’altronde esse emergono dall’interno stesso di quelle società,e dunque ne testimoniano l’instabilità, i conflitti, le dinamiche.

Un tempo, in polemica contro la pratica storiografica della ricercadi precorrimenti, ci si sarebbe richiamati all’imperativo di storicizzaree contestualizzare i propri oggetti di studio.

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Capitolo II

Etiche e pratiche mercantili nel « codicegenetico dell’uomo occidentale »

Un commento a Settimo non rubare di Paolo Prodi

.. Alle radici dell’Occidente

Con Settimo non rubare Paolo Prodi porta a compimento, ed allostesso tempo ricolloca dentro un quadro coerente, una ricerca tren-tennale, fra le più sistematiche e di più ampio respiro proposte dallastoriografia italiana dei decenni a cavallo fra i due secoli, volta a ri-costruire i processi che, per una lunga fase della storia occidentale,hanno in varia misura sottratto la decisione politica, giudiziaria edeconomica alla volizione di chi detiene momentaneamente il poterecivile. Ne sono emersi, oltre ad una lunga serie di saggi, tre libriimportanti firmati da Prodi stesso, situati nel contesto di una attivi-tà assidua di promozione di gruppi di ricerca, di organizzazione diconvegni e seminari, di pubblicazione di opere a più mani.

In quest’ultimo, così come nei due libri precedenti, l’ancoraggionelle urgenze dell’oggi è esplicitato non nella forma della giaculatoriadel presente come storia, ma tramite una vigorosa presa di posizionesul mondo odierno, dalla quale derivano le domande essenziali daporre al passato e il metodo da adottare per cercarvi risposte pertinen-ti. Le « riflessioni sull’attualità » di Prodi « esulano dalle competenzedello storico ma vanno denunciate. . . sin dall’inizio con chiarezzaperché sono alla base della sua curiosità » (p. ). La quale non è « unacuriosità accademica », ma deriva da una visione del « momentostorico che stiamo vivendo » (p. ).

. Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna .

. Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente,Bologna ; Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza ediritto, Bologna .

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Linguaggi del mercato

La sensibilità di Prodi per la dimensione istituzionale e giuridicanon gli suggerisce curiosità alcuna per l’emergere di forme post–statalidell’ordinamento politico che possono richiamare quelle “gotiche”dell’Europa di antico regime, o per il riproporsi di un protagonismodei giuristi e del diritto nel frammentarsi e moltiplicarsi delle fonti di le-gittimità giuridica e nel venir meno del giogo dello Stato legicentrico.Né, d’altro canto, gli sembra possibile o auspicabile la ricomposizione,in una sorta di « spazio giuridico globale », degli spazi nazionali del di-ritto, che la globalizzazione — fenomeno nuovo che nulla ha a che farecon esperienze precedenti di emersione di « mercati globali » (p. ) —va privando del loro stesso oggetto: si rischierebbe, lungo questa via,di produrre una « unificazione e risacralizzazione del potere politico–economico nelle megalopoli del nuovo millennio » (p. ). Quellapresentata da Prodi è una visione « tragica » risultante dalla partecipazio-ne al « dramma quotidiano » (p. ) di una « mutazione antropologica »(p. ), oltre che istituzionale e sociale, « in cui si innestano coordina-te millenarie della nostra struttura culturale » (p. ): dall’affermarsicioè di un « potere multinazionale irresponsabile » che, fondendosicol potere politico, rischia di portarci « all’indietro di millenni » (ivi);dall’emergere dell’« onnipotenza di un mercato senza regole al cuicentro non sta più la compravendita delle cose e quindi la proprietà,ma l’informazione, i servizi, la salute e la bellezza, la vita e la morte »(p. ). Nel quadro dell’« attuale rivincita del contratto sulla legge nelnuovo diritto à la carte che caratterizza le incarnazioni metanaziona-li del potere economico » (p. ), viene meno la « rete di protezionefornita da un’etica condivisa » e si fa strada l’odierna « insostenibileleggerezza del furto » (è il titolo del paragrafo dell’ultimo capitolo,pp. –); impallidisce il « confine fra il rubare ed il non rubare, trail furto e il comportamento “onesto” » consentendo l’« enorme ca-tena di furti impuniti o quasi legalizzati » che ingombra le cronache(). Non solo quelle italiane. La « debolezza delle strutture politichee amministrative » provoca in Italia offese quotidiane al mercato, una« violazione sistematica delle regole che ne permettono la vita » (p. ),

. Rimando, per tutti, a due libri importanti di sintesi, editi essi pure dal Mulino: A. DeBenedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna , e P. P. Portinaro, Illabirinto delle istituzioni nella storia europea, Bologna .

. Il rimando ovvio è a Paolo Grossi. Fra le opere tradotte in italiano di G. Teubner, cfr. Lacultura del diritto nell’epoca della globalizzazione, Roma .

. Il riferimento è a S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Roma–Bari .

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

rendendo « l’espressione “conflitto di interessi”. . . quasi patetica nelsuo rievocare situazioni di eccezione nei rapporti tra il potere politicoe il potere economico » (ivi). E comunque « il caso italiano » non hanulla di eccezionale: esso è interessante solo perché ci permette di« comprendere dove stiamo andando in Occidente » (ivi).

Questo spostamento dell’attenzione dal « caso italiano », al centrodegli umori civili di altri importanti filoni di ricerca di storia religiosadegli ultimi decenni — quello di Adriano Prosperi o di Massimo Firpo,ad esempio — al « caso occidentale » è di importanza cruciale nellaprospettiva di Prodi, e ha non a caso animato il dibattito attorno allasua proposta interpretativa. Ci tornerò più avanti. Lo richiamo ora persottolineare l’inattualità della posizione di Prodi nel contesto di una sto-riografia internazionale (e dell’insieme delle scienze umane e sociali)sempre più attenta alla molteplicità delle vie della civiltà, e, di conse-guenza, intenta a “provincializzare” l’« Europa barbara ed infedele ».per evitare di assumerla a parametro universale di giudizio. Notoria-mente poco interessato a collocarsi in modi politicamente corretti,Prodi legge i disastri della globalizzazione non come generalizzazioneal mondo intero dei valori mercantili occidentali e aggressione allemille culture locali, ma, al contrario, come fallimento della proiezioneglobale, potenzialmente salvifica, di quel « codice genetico » dell’Occi-dente che vi ha prodotto libertà, mercato regolato, diritti individuali,limitazione del potere; e, viceversa, come importazione nell’Occidentestesso di forme sociali, istituzionali ed antropologiche distruttive. Laquestione di fronte alla quale siamo, aveva scritto con particolare rudez-za ed accenti spengleriani nel primo libro della sua trilogia, è la « finedell’Occidente », la minaccia ai « valori di cui siamo detentori nellaprossima civiltà planetaria »; una minaccia proveniente sia dall’internodel « nostro sistema », sia dai « modelli integristi che penetrano dall’e-sterno, con le migrazioni dei popoli ». « Ai nuovi popoli [sic] dobbiamosaper trasmettere (e da loro dobbiamo esigere) non soltanto il rispettodelle tecniche e dei meccanismi del sistema democratico ma in primoluogo. . . l’humus che questi meccanismi e tecniche ha generato ».

. Cfr., per quel che riguarda Settimo non rubare, la recensione di Giovanni Levi intitolata Unirrisolto dualismo italiano, in “L’Indice dei libri del mese”, , nn. /, p. .

. Il riferimento è al libro seminale di Bernard Lewis precedente alla sua conversione astorico della “rabbia musulmana”: Europa barbara e infedele. I musulmani alla scoperta dell’Europa,Milano .

. Il sacramento del potere cit., p. .

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Linguaggi del mercato

A questo humus della civilizzazione occidentale generatosi nel cor-so dei secoli, spiega Settimo non rubare, è del tutto estraneo il nuovointegralismo del mercato onnipotente e sregolato dell’età della globa-lizzazione. Questa è anzi una prospettiva nuova e minacciosa, rispettoalla quale le catastrofi immani del secolo dal quale siamo da poco uscitipossono essere per un momento dimenticate: « stiamo lasciando unmondo in cui i contorni delle identità civiche erano ben definiti e, infondo, tranquillizzanti per la nostra società occidentale » (p. ). D’al-tronde, si tratta di una prospettiva ineluttabile nel passaggio d’epocache viviamo. Il ruolo pedagogico che vent’anni fa l’Occidente sem-brava poter assumere nei confronti delle altre civilizzazioni diventaimproponibile. Una volta allargatosi, dai fondamenti sacrali sui qualiavevano per secoli riposato i patti politici (Il sacramento del potere) e lepratiche della giustizia (Una storia della giustizia), a quelli che avevanopermesso la nascita e l’autonomizzazione della sfera economica, losguardo di Prodi percepisce un futuro cupo, « tragico ».

L’operazione storiografica è in un certo senso parte integrante diquesta tragicità. Ormai diventato del tutto irrilevante per il potere,lo storico, afferma Prodi riprendendo in un intervento recente unarticolo di Wolfgang Reinhard, è una sorta di Hofnarr, il « buffone dicorte che può affermare delle verità scomode perché tanto non fannomale a nessuno. . . sapendo bene che, dopo, la “società della menzo-gna” travolge tutto ». D’altro canto le sue verità hanno una qualitàparticolare, per così dire fattuale, che gettano sul presente fasci diluce potenti. Lungo i decenni in cui il suo programma si è dispiegato,Prodi aveva ben mostrato come il posizionarsi della ricerca a ridossodi temi che, da Sofocle a John Rawls, tornano ossessivamente nellastoria millenaria dell’Occidente — in particolare quello della pretesaricorrente del potere civile di fabbricare il diritto senza riferimentoalcuno ad un ordine superiore a se stesso — « non pretende di for-nire alcuna spiegazione teorica », né tanto meno di « fornire ricetteo soluzioni » (p. ) allungandone l’elenco diventato al tempo stessosmisurato e ripetitivo. La storia produce « insegnamenti » (fra gli altriquelli elencati alle pp. –) ancorati — gli echi marxiani mi paionoqui significativi — alla concretezza dei processi reali piuttosto cheagli schemi, ai desideri ed ai buoni propositi che si leggono dentroaltre forme discorsive dotte.

. P. Prodi, La storia come legittimazione o de–legittimazione del potere, in “Giornale di storiaon–line” (http://www.giornaledistoria.net), , p.

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

Così Settimo non rubare ripropone e completa il catalogo delle posi-zioni dalle quali occorre prendere le distanze in nome della storia. Visono comprese quelle degli « economisti, un po’ saturi di formalismie di modelli matematici astratti, in crisi per una realtà che si rifiuta dientrare nei loro imbuti teorici » (p. ) e che immaginano, come nelcaso di Milton Friedman, un « mercato come entità autonoma » chein realtà « non è mai esistita » (p. ); le contrapposizioni di politologicome Sartori fra « un mercato inteso come “meccanismo imperso-nale” e la pianificazione collettivista », che non tengono nel contodovuto le mille forme di relazione e tensione fra Stato e mercato rin-venibili nella vicenda occidentale (ivi); « le proposte di buona volontàdi filosofi della politica o del diritto che ripropongono in astrattodottrine desunte dagli schemi del giusnaturalismo neokantiano odel contrattualismo nell’eterna contrapposizione tra le teorie comu-nitariste e quelle liberali » (p. ); le « ricette astratte fornite ancheda premi Nobel come Amartya Sen che gli sembrano stranamentesimili alle lezioni di economia politica di Francesco Vito che sentivada ragazzo nei primi anni Cinquanta sui banchi universitari: “l’econo-mia al servizio dell’uomo” ridipinte soltanto di nuovi colori » (p. );tutte le varianti dell’ « economia del dono », da Marcel Mauss in poi.

Per questa via si giunge al cuore dell’universo cattolico, nel qualeProdi occupa una posizione, nel contesto italiano assai notevole, dirifiuto netto di ogni invadenza dell’istituzione ecclesiastica sul terre-no proprio delle istituzioni statali. Nei libri precedenti i fondamenticulturali di questa collocazione emergevano con chiarezza nella pole-mica con alcune fra le declinazioni più importanti del cattolicesimocontemporaneo — ad esempio, il nesso secolarizzazione–ateismo alcentro della riflessione di Augusto Del Noce. Il tema del mercatoevoca ora altri avversari, fra i quali Stefano Zamagni, vicino di fedee di sede accademica: « rimango. . . scettico verso tutte le invenzionidi una nuova “economia civile” utopica, basata su un volontarismodestrutturato come possibile terzo modello tra il mercato e lo Stato »,verso i tentativi di « costruire un settore separato o terzo settore o“non profit” o mercato (credito) etico come recinto autonomo sot-tratto al mercato ed alle sue ferree regole » (p. ). Più in generale,Prodi mette in discussione la « “dottrina sociale cristiana” come si èsviluppata dall’Ottocento ad oggi », che disegna « in un unico quadro »

. Una storia della giustizia cit., p. .

. Le sue posizioni sono ora ribadite in Avarizia, Bologna .

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Linguaggi del mercato

un modello di società e di economia alternativo al liberalismo ed almarxismo, e la contrapposizione fra capitalismo e democrazia comesistemi dotati di logiche ferree ed incompatibili, riproposta da papaRatzinger e da Emanuele Severino. « Il problema è che in tutto questodiscorso, sia di Benedetto XVI che di Severino, manca la storia » ().

.. Per una storiografia utile

La storia che manca, e che Prodi propone, cerca di pronunciare lesue “verità” sui temi che urgono in questo passaggio d’epoca met-tendo in una qualche misura in discussione le sue caratteristiche dicampo disciplinare situato nell’universo dei saperi dotti formalizza-tosi ed istituzionalizzatosi a partire dal decenni a cavallo fra Otto eNovecento.

Inutile dire che, nonostante l’aspirazione in realtà sommessa arivolgersi ad « un pubblico più vasto » (p. ), il linguaggio, l’apparatoconcettuale e la straordinaria erudizione di Prodi collocano Settimonon rubare (ed i due libri precedenti) ben dentro la tradizione profes-sionale più alta. D’altro canto egli prende le distanze da una praticadisciplinare introvertita, iperspecializzata, segmentata ed ancoratarigidamente al regime della prova, che, di fronte alla dimensione edurgenza dei problemi evocati dall’autore stesso, può apparire futile.La « separazione tra la storia di lungo periodo e la cronaca, tra la storiadella società e della politica », retaggio della « scuola delle “Annales” »,è « ancora una ferita aperta » (p. ). Più in generale, « le separazionifra la storia costituzionale e la storia dell’economia, tra la storia delpensiero economico e quella del pensiero politico, tra la storia delleistituzioni e quella della cultura » hanno « portato la ricerca a una spe-cializzazione sempre più raffinata nel metodo e nei risultati ma anchead un blocco abbastanza evidente sul piano interpretativo. . . Bisognacercare di rimescolare le carte anche a costo di qualche superficialitàe confusione: senza le vecchie scorciatoie ideologiche unificanti, masforzandosi di comprendere il più possibile la complessità del reale »(pp. –). Di qui « i limiti » e, al tempo stesso « la presunzione » « diun’indagine che è per sua natura “generalista” », ed il cui « valoreaggiunto. . . non sta in uno scavo originale ma nella composizionedei punti di vista » (p. ).

La gestibilità di questa operazione di « composizione » — tutt’al-tra cosa, inutile dirlo, da una semplice giustapposizione dei risultati

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

della ricerca altrui — è resa possibile da alcune scelte di fondo inuna qualche misura inevitabili, che, piuttosto che affrontare « lacomplessità del reale », la riducono vigorosamente. L’oggetto stessodell’indagine è costruito attraverso l’adozione di assunti fortissimi,presenti in libri e saggi di Prodi che coprono più di un trentennioe riproposti in Settimo non rubare con le identiche formule verbali.Anche in questi casi non manca certo il dovuto corredo di rimandibibliografici, ma nella sostanza si tratta di prese di posizione nondiscusse, presupposte all’indagine. In primo luogo, lo si è visto, l’in-sistenza sull’assoluta unicità del « nostro codice genetico di uominioccidentali » (in polemica con chi va rintracciando, con particolareassiduità degli ultimi decenni, geni simili ai nostri in altre civiltà),connessa alla forte coerenza interna dell’esperienza storica euro-pea (in polemica con chi, anche sulla scorta di « un weberismo discuola » (p. ), contrappone ad esempio mondo cattolico e mondoprotestante riproponendo in questi termini la “questione italiana”).Poi l’opposizione, centrata in particolare sul grande libro di HaroldBerman e sulle proposte generalizzanti di Louis Dumont sullanascita dell’individuo, fra l’Europa successiva alla “rivoluzione pa-pale” dell’XI–XII secolo ed una « civiltà antica che non conosceval’individuo » (p. ) né « la separazione tra diritto pubblico e dirittoprivato » (p. ), segnata dal monopolio sacrale del potere e da un’e-conomia che non riesce a sfuggire dalla sua natura « palaziale »: diqui il carattere di « reinvenzione » e non di « riscoperta » (p. ) cheriveste la messa in circolo del diritto romano, e la funzione tutt’altroche positiva, anzi di « freno. . . allo sviluppo delle nuove idee », rap-presentato dall’arrivo nell’Europa del medioevo centrale dei testi diAristotele e del pensiero classico e patristico (p. ).

Un’altra scelta, in continuità con i lavori precedenti, è quella di« comporre i punti di vista » e disegnare la proposta interpretativaattorno ad un’indagine estesissima e di prima mano della trattatistica,con addensamenti intorno alla seconda scolastica. Qui l’assunto, ri-badito ripetutamente (a partire da p. ) in polemica con una storiadel pensiero economico e politico in realtà ormai assai poco à la page,è che l’elaborazione teorico–dottrinale rincorre affannosamente la

. La citazione è da Una storia della giustizia, p. ; ma Prodi sparge ovunque formule diquesta natura.

. Tradotto parzialmente da Il Mulino: Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizionegiuridica occidentale, Bologna .

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realtà (e non viceversa), cosicché, una volta collocatosi su un piano« generalista », anche uno « storico abbarbicato ai fatti » (p. ), comeProdi si definisce, può farvi affidamento per decrittare il « rumoredi fondo » (p. ) della storia concreta, per tracciare natura ed evo-luzione dei « fatti ». Non occorre sciogliere al vento le bandiere dellinguistic turn per essere impressionati dalla divaricazione fra la straor-dinaria mobilitazione di questo genere di fonti e la scarsa attenzioneal contesto discorsivo altamente formalizzato nel quale esse vengonoprodotte e, al tempo stesso, al loro carattere rivendicativo e proposi-tivo; e quindi ai limiti, cautele e caratteri di un loro uso “realistico”.Prodi sembra accennare obliquamente al problema ricordando come« fra i trattati accademici, teologici e giuridici, e la realtà concretadella vita economica emerga una selva di scritti, di consigli, di parerisollecitati e commissionati da città, principi, corporazioni, mercanti »(p. ); e d’altro canto l’uso che nel capitolo quinto si fa delle summaeconfessorum, situate fra la trattatistica teologica e la pratica penitenzia-le, apre spiragli di grande interesse. Prodi comunque non vi insiste,e finisce per rivendicare una sorta di non falsificabilità dei « fatti » chestilizza sulla base dei suoi trattatisti, da parte della immane e confusacongerie di « fatti » bruti che gli storici specialistici scavano nell’eser-cizio quotidiano del mestiere. Il libro è disseminato di formule quali« non posso qui entrare », « so bene che », « non possiamo affrontareil problema della storia economica reale — che il nostro approcciolascia volutamente in ombra » (quest’ultima a p. ), che mettonoal riparo da smentite puntuali il filo del racconto. Questo può cosìprocedere indisturbato.

Il filo del racconto è costituito dalla ricostruzione della gene-si e del processo secolare di strutturazione del « codice genetico »dell’« uomo occidentale »: un compito che non può non essere af-

. L’autodefinizione serve a ribadire la precedenza della « società », della « realtà », sulla« teoria », in questo caso la teoria del contratto e dei diritti naturali soggettivi: « non viceversacome alcuni storici delle dottrine tendono a pensare ». L’affermazione è situata fra due ampiecitazioni: la prima tratta da Tommasio Bozio, che ritiene che « sane opus est catholicos esselonge iustissimos plerumque in contractibus » (p. ); l’altra, tratta dalla Civile conversazione diStefano Guazzo, propone un’immagine iperbolica, stereotipica nella trattatistica, dell’attivitàmercantile di Casale Monferrato, invasa la domenica da una “« infinita moltitudine d’huomini »(p. ). Quest’ultimo passo è così introdotto da Prodi: « Per spiegare cosa intendo dire milimito a citare il mutamento che avveniva nella “conversazione” anche in una piccola cittàdell’Italia settentrionale come Casale Monferrato in piena controriforma secondo il celebrequadro di Stefano Guazzo » (ivi).

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

fidata allo storico dell’età moderna in quanto specialista del lungoperiodo, nel mentre la crisi otto–novecentesca dello stesso codice ge-netico « è compito dei contemporaneisti » (p. ). L’inclusione delladimensione mercantile nel « codice genetico » occidentale, che segnail compimento del lungo percorso di ricerca di Prodi, non intacca lacompattezza dell’oggetto: « la tesi sottostante a questo percorso diricerca è che soltanto in Occidente tra il medioevo e l’età moderna siè formato un sistema coerente, mai prima sperimentato nella storiadella civiltà, sistema che, contrariamente a quanto normalmente sipensa, rappresenta un tutto unitario » (p. ).

Al centro di questo sistema coerente ed unitario c’è una configu-razione pluralistica dei poteri e delle fonti di legittimità che, in unaqualche misura, ne smentisce coerenza ed unitarietà. Non si tratta delnesso pluralismo–organicismo resoci da tempo familiare in particola-re dagli storici che hanno rimesso in circolo Otto Brunner e propostouna declinazione della Verfassung europea premoderna come fusionedi poteri e soggetti corporati tramite un diritto terragno e immersonelle pratiche, mandata definitivamente in frantumi nei decenni fati-dici fra Sette e Ottocento. La forza, la novità, la grande suggestionedella proposta di Prodi, come era del resto ben evidente nei librie saggi precedenti, sta nel tentativo di disegnare caratteri originarieuropei estranei alle « visioni monolitiche », a quei « quadri unici »olistici che mettono in ombra la « distinzione dei piani », l’autonomiadelle sfere, le dinamiche (pp. –), il ruolo dell’individuo e dei suoiinteressi attivo ben prima dell’individualismo delle costituzioni tardo–settecentesche. Sul terreno specifico di Settimo non rubare, questopluralismo per così dire antiorganicista si precisa anche attraversola geografia delle proposte da accettare e di quelle da rifiutare, cheinveste, oltre al piano civile su richiamato, quello storiografico.

Assai significativi, proprio perché alquanto incongrui, mi sembra-no i riferimenti alla storiografia neoistituzionalista, alle « fondamentaliopere di Douglass C. North » (p. ) ed a quelle di Avner Greif (p. )che hanno prodotto più di recente gran clamore nel mondo anglosas-sone. Il punto di contatto è evidentemente la centralità dell’individuo;d’altronde essa è da Prodi declinata in modi del tutto diversi. A diffe-renza dei neoistituzionalisti, che rimangono nella sostanza ancoratiad una concezione rudimentale dell’attore, ad un modello massimiz-zante e al tempo stesso gravitazionale dell’agire razionale, e studianogli ostacoli che istituzioni, culture, consuetudini hanno opposto econtinuano ad opporre al suo pieno dispiegarsi, Prodi propone un’i-

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dea costruttivista dell’individuo stesso: non a caso anche qui è benpiù fitto il dialogo con vecchi compagni di imprese storiografiche po-co interessati alla dimensione economica come Wolfgang Reinharde Heinz Schilling, e in generale con « gli sviluppi », « più convincentie meno semplificatori. . . che. . . si sono avuti nella storiografia inEuropa sotto il nome di “disciplinamento sociale” » (p. ). Netto èviceversa il rifiuto della ricostruzione del mercato premoderno comeeconomia del dono, come embeddedness dello scambio nei rapportisociali richiamata oggi con particolare insistenza come cura dei malidel presente e come chiave per colloare il passato in una alterità as-soluta, nelle brume di un paese a noi straniero. Karl Polanyi, la cuilinea di analisi ha « prodotto grandi risultati sul piano delle societàprimitive o preclassiche », ha poco da dire « per lo studio delle societàa sviluppo complesso »: « questi approcci tendono per loro naturaa produrre una specie di microstoria dell’economia del quotidiano,utile ma spesso chiusa a una visione complessiva di lungo periodo »(p. ). A sua volta contrapporre, come fa Bartolomé Clavero, all’« economia del contratto » una « economia del dono » che « avrebbeimbevuto l’Europa come comune “patria cristiana” prima che questafosse sovvertita dalla rivoluzione industriale. . . è del tutto improdutti-vo dal punto di vista storico e non dice certamente sul piano teoriconulla più di quanto le riflessioni dei grandi teologi medievali ci hannogià dato sul rapporto tra il piano della carità/grazia e il piano dellagiustizia » (pp. –).

Particolarmente aggrovigliata, tormentata da specificazioni, incisie congiunzioni avversative, è la rappresentazione del rapporto cheProdi offre fra la sua linea di ricerca e quella di un altro storicocattolico di primo piano, Paolo Grossi, collocato in una posizione dispicco fra gli storici del diritto che negli ultimi decenni hanno aperto« le piste più innovatrici » (pp. –): « Uno dei punti più necessari dachiarire è. . . la mancanza di un riferimento unico dal punto di vistadella giustizia e del diritto. Io penso si possa parlare al singolare di“ordine giuridico” come ha fatto Paolo Grossi nella sua fondamentaleopera, ma anche di “ordinamenti” al plurale intendendo con questola coesistenza di diversi sistemi all’interno di un universo culturalecomune sì ma caratterizzato dalla dialettica, dalla continua tensionetra i poteri. Ciò che intendo ancora sottolineare è che. . . il propriumdel sistema consiste in una ricerca continua da parte di tutti — teologi,

. Si tratta di L’ordine giuridico medievale, Roma–Bari .

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

filosofi e giuristi — della gerarchia delle norme che costituisce ladinamica del diritto propria del medioevo » (pp. –).

.. « La storia d’Europa come rivoluzione permanente »

Dinamica, dialettica, tensione, conflitto sono parole–chiave che tor-nano con ossessiva insistenza nella ricerca di Prodi. Nella sua pro-spettiva, esse non vogliono riferirsi ad interruzioni momentaneedella comunicazione e della funzionalità reciproca fra i soggetti egli ordinamenti che compongono il sistema, al cui ripristino, comenello stesso Grossi, sovrintendono possenti meccanismi produttoridi “pace”: viceversa il loro pieno dispiegarsi si situa al cuore di quel« codice genetico occidentale » che « non ha uguale sulla faccia dellaterra ». Tensioni e conflitti segnalano e riproducono di continuo lesconnessioni del « sistema unico », rendono l’innovazione socialeelemento endogeno essenziale al suo funzionamento, disegnano« la storia d’Europa come rivoluzione permanente ». L’assoluta cen-tralità che in questa storia Prodi assegna alla dimensione religiosa,istituzionale e culturale al tempo stesso, non sta nella sua capaci-tà di mettere in forma la polis frenandone l’intrinseca tendenza aldisordine — lungo una genealogia affollata ed eterogenea del pen-siero occidentale, da Tocqueville a Carl Schmitt — ma, in un certosenso, nell’alimentare quel disordine, nel produrre « un divenire con-tinuo », « un processo continuo di mutamento » (p. ); nel rendere« inquieta, in fibrillazione continua, tutta la storia politica e giuridicadell’Occidente sino ai nostri giorni » (p. ). È qui che può del restoessere cercata « un’identità europea al di là di un discorso genericoed equivoco sulle sue “radici” » (ivi).

L’avvio della « fibrillazione », e quindi il momento fondativo del-l’identità europea, è — Prodi lo ribadisce qui ancora una volta —l’instaurarsi del dualismo degli ordinamenti prodotto dalla “rivoluzio-ne pontificia” del medioevo centrale, che coagula e dà « una valenzaistituzionale » (p. ) alle tendenze proprie della Chiesa occidentale asfuggire al « monopolio sacrale » bizantino (p. ), a non identificarsicon la città (p. ), a non integrarsi nella « struttura feudale–signorile »

. P. Prodi, La storia d’Europa come rivoluzione permanente, in “Il Mulino”, , n. .

. Cfr. ora la riedizione di Cattolicesimo romano e forma politica di Schmitt (), conpostfazione di Carlo Galli, Bologna .

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(p. ). Il risultato, reso possibile dal fatto che a provocarlo non è una« setta iniziatica o giurata », ma una « istituzione » capace di dare anco-raggio ed effettività ad un ordinamento ed alle sue norme, è ben piùcomplesso dell’istaurarsi di « una generica dialettica tra diritto e mo-rale »: è, fra l’altro, il configurarsi delle condizioni che permettonoal mercato di emanciparsi dalla sua dimensione « palaziale » e diventa-re una sfera autonoma dell’agire centrata sull’individuo. Autonomama non separata, non galleggiante in una atemporale razionalità.Negli spazi aperti dalla dialettica fra Chiesa e Impero non vannoa situarsi individui forniti di una razionalità precostituita anche senecessariamente limitata dalle circostanze, ma soggetti che l’ordi-namento sacrale inquadra e legittima sotto il profilo istituzionale egiuridico, e, al tempo stesso, dota di quadri cognitivi, di principi eparametri per misurare l’agire buono e conveniente: esso sostiene« la legittimità del nuovo ordine del mercato e nello stesso tempocerca di dominarlo » (p. ).

Da questa prospettiva i vecchi dibattiti riproposti a partire daglianni Cinquanta da Noonan e De Roover sull’usura e la svalutazioneecclesiastica dell’agire economico, o l’opposizione di Le Goff tra“tempo della chiesa” e “tempo del mercante”, appaiono sfuocati.Prodi mobilita la vasta letteratura che si è andata man mano deposi-tando su questi temi e li ha rinnovati in profondità, ma li riproponea sua volta in termini originali. L’operazione fondamentale prodottafra XII e XV secolo dall’ordinamento ecclesiastico e dalle cultureche ad esso si richiamano, in un rapporto stretto con « la genesi e losviluppo del mercato occidentale » (p. ), è il definirsi dei concettidi proprietà privata e ricchezza in forme compatibili con quello di“bene pubblico” (p. ), e, contestualmente, l’allargamento dellanozione di furto: « da appropriazione di una “cosa” altrui, tipicodella situazione delle civiltà preclassiche e classiche », esso diventa« violazione delle regole del mercato, non soltanto come frode oinganno del singolo soggetto che compra e vende, ma come vio-lazione del “giusto prezzo” che può essere stabilito soltanto in unmercato inteso come forum, cioè giudizio collettivo sul valore dellecose » (p. ). Il furto si configura in questo modo come « infrazionedelle concrete regole della comunità umana nel possesso e nell’usodei beni » e « violazione fraudolenta di un patto contrattuale, sia

. Una storia della giustizia cit., p. .

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formalmente stipulato tra due o più soggetti, sia implicitamentecompreso nei patti di convivenza di una comunità » (p. ).

In questo quadro la nozione di fondo è ovviamente quella di giu-sto prezzo, che, in particolare nella riflessione degli ordini regolarimendicanti, va smarrendo il suo rapporto con la giustizia commu-tativa e distributiva, e, soprattutto, perde ogni aggancio col valorecontenuto nella merce, per affidarsi al « funzionamento del mercatocome persona collettiva » (p. ): secondo la definizione famosa diTommaso d’Aquino, « iustum autem pretium est, quod secundumaestimatione fori illius temporis potest valere res vendita » (p. ).Avendo relegato fra i « ferrivecchi » (p. ) lo strumento giuridicodella laesio enormis, che nel diritto romano invalidava i contratti rea-lizzati a prezzi superiori del doppio o inferiori della metà al valore“reale”, e a sua volta diventato una misura volatile, soggettiva, disan-corata da ogni valutazione collocata fuori e prima del passaggio della“cosa” sul mercato, il giusto prezzo dipende completamente dal buonfunzionamento del mercato stesso. Di qui l’arrovellarsi di teologi egiuristi sulle lesioni che possono essere inferte a questo organismoefficiente e indispensabile alla buona società terrena, ma fragile edesposto al furto.

Ne emerge un’ulteriore sfera vitale sottratta sia al capriccio delprincipe che alla scelta massimizzante dell’individuo: nel campo dellatassazione e del debito pubblico, dei monopoli, del contratto assicu-rativo e dell’investimento finanziario, della incerta legittimità dellecorporazioni come ostacolo alla definizione del prezzo del lavoro;della moneta, che l’omonimo trattato di metà Trecento di Nicola Ore-sme esclude dalla disponibilità dello stesso sovrano che vi è effigiato(pp. –). La stessa eterna questione dell’usura, che ha prodotto un« gonfiarsi smisurato della polemica e della storiografia » (p. ), puòin questo quadro trovare una collocazione adeguata: « la condanna delprestito a interesse da parte della Chiesa che erompe tra il XIII e ilXIV secolo e che assimila l’usura all’eresia » non attesta una chiusuraal nuovo, ma « appare anche come una reazione a una novità che si ègià prepotentemente affermata nelle città italiane ed europee, comestrumento di lotta e di controllo da parte della Chiesa sul nuovo pote-re che si è affermato con le arti dei cambiatori–banchieri » (ivi). Delresto il cammino verso l’affermazione della liceità del prestito avevatrovato fondamenti teorici all’interno stesso della teologia cattolica, inparticolare dal lato dei francescani. La teoria aristotelica dell’improdut-tività del denaro, una volta “riscoperta”, aveva costituito un ostacolo

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importante al procedere lungo questa strada, « presto superato », contutte le vischiosità che Prodi man mano richiama, sulla base dellaequiparazione di Duns Scoto fra denaro e merce (pp. –).

Contestualmente, si definisce un profilo del mercante che final-mente lo sottrae al pubblico disprezzo ed allo statuto di “miserabile”,e lo rende meritevole di un reddito specifico (il profitto) in quantotitolare di « una funzione indispensabile alla vita della società »: quelladi « reperire e acquistare le merci nei luoghi dove esse abbondano pertrasportarle dove esse sono scarse » (p. ). Il punto è che il mercante,così come in altro modo il principe, ha potere sul mercato, è in gradodi manometterne il funzionamento; in più, egli è indotto a farlo, datoche ne ricaverebbe profitto aggiuntivo. Dunque la legittimazionefunzionale del suo interesse individuale è potenzialmente pericolosa,e deve essere circondata da garanzie robuste.

A fornirle è l’estensione del campo di vigenza del settimo co-mandamento a tutte le lesioni del mercato, cioè la loro collocazionenell’ambito del peccato: una nozione che nel tardo medioevo debordadal campo del foro interiore dato che è vertebrata in senso giuridicodalla natura di grande istituzione anche terrena assunta dalla Chiesain un rapporto di tensione con il potere civile. La predicazione esoprattutto la pratica penitenziale generalizzatasi con l’obbligo dellaconfessione annuale stabilita dal concilio lateranense IV (), checondiziona l’assoluzione alla restituzione del maltolto, “disciplinano”i soggetti che possono legittimamente partecipare ai giochi delloscambio, definiscono i valori che fondano l’homo oeconomicus e lorendono compatibile col bene comune attraverso l’attribuzione diuna qualità fondamentale: la fiducia, ossia la presunzione di quantistipulano con lui contratti che il suo agire economico non sarà lesi-vo delle leggi del mercato. Al tempo stesso, la pratica confessionaleconcorre a costruire, insieme al nuovo diritto comune, al dirittoconsuetudinario ed al diritto canonico, un quadro normativo visibilegià dal XIII secolo, composito ma a suo modo coerente, che Prodi,sulla scia di Berman e nonostante le critiche su questo punto rivolte-gli, ritiene di poter chiamare jus mercatorum, proiettando all’indietrola lex mercatoria nata nel Seicento inglese contro l’invadenza dellecorti di giustizia e delle norme regie. Al centro di questo quadroc’è comunque il « diritto penitenziale. . . che viene elaborato comepiattaforma di norme comuni a tutta la cristianità e che costituisce labase più solida per la costituzione del patrimonio di ‘fiducia’ che èalla base di ogni pratica commerciale » (p. ).

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Questa base solida non andrà smarrita nei grandi rivolgimentiche, già ben definiti nei volumi precedenti, vengono qui rievocatidal punto di osservazione del mercato. L’indebolimento a favoredegli Stati del ruolo ordinamentale della Chiesa, della sua capacitàdi codificare e giudicare le lesioni del mercato, è un processo cheProdi fa emergere dal « silenzio del concilio di Trento e del magi-stero ecclesiastico, sia cattolico che protestante. . . , sui problemi delmercato o dell’etica economica in generale » (p. ), tanto più cla-moroso se confrontato con i « grandi decreti dei concili medievali suitemi economici » (p. ); e, soprattutto, dalla loquacia della grandetrattatistica de contractibus e de justitia et jure a cavallo fra gli ultimisecoli del medioevo ed i primi dell’età moderna, in larga parte giàesplorata in profondità in Il sacramento del potere ed in Una storia dellagiustizia e qui riutilizzata da una prospettiva diversa. Prodi ne estrae ifondamenti dottrinali del tentativo di sostituire, ad un ruolo ecclesialedi inquadramento giuridico–istituzionale del mercato, che apparegià irrecuperabile in Jean Gerson, Bernardino da Siena e nel cardinalGaetano, una funzione di giurisdizione spirituale, di controllo delleintenzioni e della moralità soggettiva degli agenti dello scambio, tra-mite la costruzione di un diritto naturale ancorato alla dimensionesacrale e quindi superiore a quello che procede dai monarchi. DaFrancisco da Vitoria a Domingo de Soto a Louis de Molina e LeonardLessius, tutto un immenso lavorìo teorico, tratteggiato da Prodi inmaniera penetrante in pagine che non è qui il caso di ripercorrere,cerca di costruire « un ombrello comune per la difesa della validità deicontratti e delle promesse sulla base del consenso, del presuppostodella fiducia espressa e dell’obbligo della restituzione del maltolto, diqualsiasi ingiusto arricchimento » (p. ).

Il punto più alto di questo tentativo non è comunque rinvenibilenei grandi teologi–giuristi della seconda scolastica, ma nella casisti-ca gesuitica dei decenni a cavallo fra Cinque e Seicento derivantedalla pratica confessionale post–tridentina. Prodi ha in grande con-siderazione la « scuola gesuitica » e la sua « personalità eminente »:Roberto Bellarmino (p. ). I gesuiti legittimano le rivolte indieanche sulla base dell’elaborazione di « un ordine normativo ogget-tivo » che viene interposto « tra il giudizio morale della coscienza el’avanzata prorompente della legislazione statale » (p. ). Si tratta di« un immenso sforzo per costruire un ordinamento etico modellatosu quello giuridico, parallelo ma indipendente da quello statale » (p.); « un tentativo complessivo di sistemazione integrata del diritto

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naturale–divino e della normativa morale come quadro complessivoper regolare la vita economica e il rapporto tra potere economicoe potere politico » (p. ). Il diritto positivo che invade la materiacontrattuale, lungi dal rafforzare la fiducia reciproca dei contraenti,rischia di allentare l’obbligo di coscienza al rispetto dei patti (p. ):allo Stato può dunque essere lasciato il controllo e la punizione delreato affidati precedentemente alla Chiesa, ma è il confessore che de-ve continuare a fornire « all’uomo d’affari le coordinate che possonoorientare la sua coscienza » (p. ).

È il culmine della « teologia barocca », che la direzione del mu-tamento mette presto in crisi. La crescita dell’economia mercantilesi intreccia all’emergere di un concetto nuovo di proprietà che, se-condo le linee tracciate da Paolo Grossi, deriva dalla separazionefra dominium e jurisdictio e diventa disponibilità totale della cosaposseduta, estensione della persona e strumento per l’affermazionedei suoi diritti (pp. –). Contestualmente le chiese riformate sivanno subordinando a principi e sovrani, e la politica concordatariacattolica rinunzia in favore dello Stato alla dimensione pubblicisti-ca del potere ecclesiastico in cambio di privilegi e immunità e delmonopolio sulla « giurisdizione spirituale sul privato » (p. ). Persacon Pio V la battaglia per preservare un qualche residuo di controlloecclesiastico della imposizione fiscale tramite la bolla In coena Domi-ni, la manipolazione della moneta, del credito e del giusto prezzoda parte dei sovrani diventano, da un lato, dati di fatto, dall’altrodecisioni produttrici di obblighi nelle coscienze dei sudditi per iltramite della costruzione di un’immagine del sovrano come rap-presentante di Dio. Il progetto teologico–morale dei gesuiti nontrova più sponde. Essi vengono attaccati da giansenisti e rigoristi,eredi del « pensiero assolutista d’origine agostiniana » (p. ) e schie-rati su posizioni filomonarchiche; il diritto naturale, con Grozio ePufendorf, si emancipa dal nesso con il diritto divino, e quest’ulti-mo, a sua volta, è ricondotto ad una dimensione di diritto canonicoche, rinunciando ad ogni pretesa di universalità, funge ormai da« “disciplina” interna alla Chiesa cattolica, una “police ecclésiastique”relativa alla vita sacramentale e all’organizzazione clericale » (p. ).La condanna da parte del Santo Officio nel – del lassismo edel probabilismo, che cercava di porre freno alla divaricazione fra

. Prodi si riferisce qui a S. Burgio, Teologia barocca. Il probabilismo in Sicilia nell’epoca diFilippo IV, Catania .

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proprietà e bene comune, e poi l’abolizione dell’ordine dei gesui-ti nel , segnalano, da un lato, « la chiara opzione della Chiesaromana per la conservazione degli assetti sociali esistenti » e la sua« alleanza definitiva. . . con il ceto proprietario » (p. ); dall’altrail rattrappirsi della grande tradizione di riflessione teologica sullavita economica: i temi diventano l’economia familiare, il salario deidomestici, i rapporti interni all’impresa (p. ). Contestualmente,si sviluppa in modo « abnorme » la morale sessuale: a Foucault eseguaci Prodi obbietta che l’ossessione per il controllo del corpo e larepressione della sessualità non è connotato originario della prassipenitenziale, ma « una conseguenza della perdita del controllo daparte delle Chiese sulla sfera pubblica del mercato e quindi frutto diun ripiegamento della loro attenzione all’interno della sfera privatae della loro giurisdizione sulle singole anime » (p. ).

È il trionfo dell’« età confessionale », « il momento in cui più ri-schiosamente il potere politico e quello economico tendono a unir-si », prospettando « pericolosamente » quel « monopolio del potere »(p. ) che è la minaccia più diretta al « codice genetico dell’uomooccidentale ». Prodi non insiste sugli aspetti oppressivi e repressividi questa congiuntura, sui danni alla dimensione individuale sottoli-neati da una storiografia che non terrebbe nel giusto conto il quadrocomplessivo. Nel quale, nonostante i pericoli gravi che Prodi segnala,permangono residui consistenti della civilizzazione emersa dalla “ri-voluzione papale”: in particolare la « concorrenza tra gli Stati e tra leconfessioni », la « distinzione di piani fra la sfera pubblica e la sfera pri-vata che aveva permesso la nascita dell’individuo », la « concorrenzatra gli Stati, tra le Chiese, nella rivendicazione di diversi fondamentidell’autorità, nella distinzione tra la sfera della coscienza e la sferadel diritto statale positivo » (ivi). Insomma non viene ancora menol’insieme di sconnessioni fra sfere ed ordinamenti dentro le qualicresce l’humus della civiltà occidentale.

Sul piano dell’economia e dei suoi protagonisti, tutto questo fa sìche la ricostruzione dei quadri normativi e dei flussi commerciali nonpiù intorno alle grandi piazze mercantili indipendenti ma agli Statia dimensione nazionale, non distrugga del tutto l’universalismo deimercanti né i sistemi di valori a fondamento teologico–penitenzialeche lo reggono. Anzi, il risultato è l’emergere di un altro gigantescometa–attore, terzo rispetto alle chiese ed agli Stati: la repubblica in-ternazionale del denaro, che Prodi assume da un breve e dubitativointervento di Aldo De Maddalena ad un incontro dell’Istituto stori-

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co italo–germanico di Trento, attribuendole volontà, progettualitàe, soprattutto, « un’etica cristiana partecipata che ha nel decalogo enel settimo comandamento in particolare il suo perno » (p. ). L’e-mancipazione dei mercanti dalla tutela ordinamentale ecclesiasticanon distrugge dunque la tutela etica, l’insieme di principi e valoritramite i quali la Chiesa aveva legittimato l’agire economico a partiredai secoli centrali del medioevo: è su questa base che, al di là delledistinzioni religiose e delle tradizioni giuridiche, dell’opposizionefra mondo cattolico e mondo riformato o paesi di civil law e paesi dicommon law, si definisce « la contractual society, la società del credito edella fiducia » che « sopravvive alla frattura religiosa e allo svilupporigoglioso degli Stati moderni costituendo, con i suoi interessi e la suacultura, il collante principale della civiltà europea nei secoli dell’etàmoderna » (p. ). Il furto, che la teologia, la pratica penitenzialee la macchina istituzionale ecclesiastica avevano sussunto nella fi-gura del peccato, viene interiorizzato dai membri dell’« Europa deimercanti » come colpa, come ragione di esclusione dalla cerchia dei« galantuomini » (cfr. il quinto paragrafo del cap. IX sulla « nascita delgalantuomo »), come coscienza che le pratiche fraudolente distrug-gono gli stessi nessi mercantili: un corpo di etiche che riceve essopure una vertebrazione giuridico–istituzionale nello jus mercatorum,ambito del diritto autogestito e messo in una qualche misura al riparodall’invadenza di chiese e Stati.

Ne consegue il perpetuarsi dell’induzione ad un agire che ispi-ra e richiede fiducia in tutti coloro che partecipano ai giochi delloscambio. I meccanismi della nuova economia ne escono ulterior-mente rafforzati, proiettando l’Europa su un sentiero di espansionetravolgente: essa è nel pieno medioevo « una regione povera rispet-to alla ricchezza e alla vastità dell’Oriente », ma già « nella primametà del Settecento », azzarda Prodi a dispetto della laboriosissimacontabilità comparativa prodotta in questi ultimi decenni, « è giàincommensurabilmente più ricca » (p. ).

. Pubblicato col titolo La repubblica internazionale del denaro: un’ipotesi infondata o unatesi sostenibile?, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di Aldo DeMaddalena e Hermann Kellenbenz, Bologna , pp. –.

. Cfr., per tutti, K. Pomeranz, il cui libro, del , è stato tradotto dal Mulino qualcheanno dopo: La grande divergenza: la Cina, l’Europa e la nascita dell’economia moderna, Bologna. Secondo Pomeranz, la “grande divergenza” è un fenomeno ottocentesco da spiegare,oltre che per la disponibilità di risorse energetiche e la tecnologia, per la capacità dell’Europa disfruttare le risorse degli altri paesi tramite la violenza.

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

.. La minaccia del monopolio dello Stato

Si tratta comunque di una configurazione resa instabile dal protago-nismo irrefrenabile degli Stati, che a partire dal secondo Seicento,nonostante le resistenze opposte dalla repubblica internazionale deldenaro, estendono enormemente la materia economica normata daisovrani ed invadono il terreno proprio allo jus dei mercanti. Il furto,definitosi nel medioevo centrale come lesione peccaminosa alle leggidel mercato e trasformatosi, con l’autonomizzarsi della repubblicainternazionale del denaro, in colpa interiorizzata e capace di contri-buire alla pubblica felicità anche senza la tutela ecclesiastica, si vatrasformando semplicemente in reato sanzionato dalla legge positivaemanata dallo Stato.

Le spinte a reinvestirlo di connotazioni etiche che producanoobbligo in coscienza non mancano nello stesso pensiero teologico,ma il senso delle cose è un altro: anche nei confessionali il furto è or-mai « violazione dei rapporti interpersonali e non più. . . violazionedelle leggi di un mercato che è sempre più al di fuori della portatadel cristiano comune e soprattutto del confessore » (p. ). Così,anche nella sfera dell’economia, il diritto non emergere più dallecoscienze e dalle pratiche, ma scende dall’alto, e finisce per diventacoercizione: « le norme di comportamento non sono più riconduci-bili al terreno della morale ma sono in qualche modo sempre piùda esso indipendenti riguardando soltanto la sfera delle violazionidi un comando politico eticamente indifferente » (p. ). All’oriz-zonte si profila, da un lato, la « deificazione del Legislatore con ilrovesciamento della visione gerarchica tradizionale delle fonti deldiritto e l’incorporazione nel diritto privato statale di tutto il dirittocommerciale » (p. ); dall’altro l’assolutizzazione della proprietàprivata in “patrimonio”, la sua raffigurazione come il bene che, insie-me alla vita, deve ricevere il massimo di tutela indipendentementedalla sua capacità di contribuire al bene comune. La lunga carrieradel concetto di furto, che aveva animato ed accompagnato la crescitadell’economia occidentale, finisce con la sua totale riconduzione al-l’ambito del diritto penale, col suo immiserimento « come attentatoall’individuo–proprietario » (ivi).

Nelle « fondamentali opere » dei neoistituzionalisti, l’assolutizza-zione delle garanzie proprietarie è un elemento chiave che spiega lagrande espansione ottocentesca, questa sì indubitabile e comunquesenza paragone con quella dei secoli precedenti. E tutto questo si

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coniuga, per una fase che nei manuali viene definita liberale, conl’intreccio fra monopolio normativo del diritto positivo e riduzionedel suo campo di applicazione, fra Stato legicentrico e Stato minimo.Insomma, è qui che la storia del mercato occidentale si apre, o, sesi preferisce, si riapre. Nella ricostruzione di Prodi si tratta vicever-sa di un epilogo in tonalità minore, che segnala la crisi del « codicegenetico » occidentale. I mercantilismi diventano la premessa del-lo statalismo dispiegato ottocentesco, che avrebbe il suo momentosimbolico nella statizzazione della Compagnia delle Indie Orientaliinglese nel . L’Adam Smith di Prodi, come l’angelus novus, halo sguardo rivolto ad un passato irrecuperabile nel mentre la storiaaccelera violentemente la sua marcia e lo trascina con sé: è coluiche lancia « l’appello ultimo a un mercato universale autoregolato inun contesto etico » (p. ). L’intera economia politica classica e lostesso pensiero liberale, che si arrovella sulla questione, centrale perlo stesso Smith, della simpathy, della necessità di un’etica condivisache tenga insieme gli individui che devono rischiosamente abitare ivasti campi lasciati liberi non solo dalle norme religiose ma anchedalla normazione coercitiva monopolizzata dallo Stato, produconopensiero che, a differenza del pensiero giuridico–teologico di età me-dievale e moderna, non riesce — sembrerebbe di capire — a tenereil passo con i processi reali.

Il congedo dal lettore è affidato così, sulle soglie dell’Ottocentodegli oceani aperti come mai prima ai traffici, allo Stato commercialechiuso. Il suo libro sulla giustizia, ricorda Prodi, terminava con « unabiforcazione tra Kant e Hegel, sostenitore il primo dell’autonomiadi un’etica universale e rappresentando Hegel la conclusione mo-nistica » (ivi). Allo stesso modo Settimo non rubare si conclude conuna biforcazione, sostanzialmente analoga ma adattata al diversooggetto: quella fra Smith, ultimo rappresentante dell’universalismodella repubblica internazionale del denaro, e Fichte, il cui pensiero« rappresenta lo sforzo più organico per assorbire la vita economicaall’interno dello Stato » (ivi). In questa maniera la simmetria con gliesiti precedenti è mantenuta; ma la proposta interpretativa, di indub-bia efficacia e suggestione sul piano della storia della giustizia, nonriesce ora a convincere fino in fondo lo stesso autore. La « visioneolistica del mondo » dello Stato commerciale chiuso « non è riuscita ad

. Mi riferisco alla Teoria dei sentimenti morali, che, nell’opinione ormai consolidata deglistudiosi, è indispensabile a comprendere la Ricchezza delle nazioni.

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

imporsi ma si può dire che la sua presenza è rimasta come una lungaombra sulla storia della Germania e di tutta l’Europa nei due secolisuccessivi »: essa « ha avuto un suo ruolo come patologia dell’interomondo occidentale » (p. ). La patologia si è tragicamente realizzatain alcuni episodi novecenteschi, ma ha lasciato in piedi una dialetticavivace fra Stato e mercato ben oltre la vicenda dello Stato minimoottocentesco, anche nell’età degli imperialismi, dei totalitarismi edelle democrazie. L’aggressione monistica al codice genetico occi-dentale, come si è detto a proposito delle « Riflessioni attuali » diProdi, si situa non tanto nella Sattelzeit fra Sette e Ottocento, ma inquesti nostri decenni ultimi, e non più dal lato dello statalismo madella prepotenza ed invasività del mercato. Evocato dalla “rivoluzio-ne pontificia” un millennio prima, esso ha smarrito per strada ogniancoraggio etico, e va ora frantumando e svuotando quel diritto asso-luto dello Stato–nazione diventato, da minaccia al « codice genetico »occidentale, baluardo su cui attestarsi per difenderne i residui.

Si tratta di una materia che nella prosa e, mi azzarderei ad affer-mare, nel pensiero di Prodi ha una sistemazione precaria, incerta; ecomunque la crisi del « sistema » occidentale costituisce materia chel’autore affida « ai contemporaneisti ». Il cuore ed il senso del libro,e del programma di ricerca di Prodi, è viceversa l’emergere di quel« sistema » ed il suo svolgersi secolare. È dunque in questo ambitoche potrà più opportunamente muoversi qualche osservazione dicarattere generale a conclusione di queste note.

.. Bonum commune ed etiche mercantili

Torniamo un momento sulla proposta interpretativa centrale di Set-timo non rubare. Il gesto cruciale nella costruzione di Prodi è il nes-so istituito fra due ambiti al tempo stesso coesi al loro interno e« deterritorializzati » (p. ): « il circuito tra confessori e coscienze »,che « si sviluppa in un sistema di norme attraverso il confessionale aldi fuori delle giurisdizioni civili ed ecclesiastiche » (p. ); ed il campodi attività del mercante, caratterizzato, afferma Prodi appoggiandosiad Albertano da Brescia (), « per la sua universalità e alterità rispet-to alle circoscrizioni e ai poteri territoriali. . . il cuore e la bellezzadella professione mercantile è proprio quello di superare le barriereterritoriali e politiche » (ivi). La fiducia prodotta dal comune rispettodelle leggi del mercato, che permette il funzionamento del secondo

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ambito, è garantita dalla contemporanea appartenenza di quanti lopraticano anche al primo ambito: « il punto di partenza della rivo-luzione commerciale consiste proprio nella non identificazione delpotere politico con quello economico, in una deterritorializzazione diquest’ultimo resa possibile dalla desacralizzazione del potere politicoe dal consolidamento di una comune fides garantita dall’appartenenzaalla christianitas » (p. ).

La christianitas legittima l’agire economico “interessato”, ed al-larga il furto fino a comprendervi le lesioni delle regole del mercato,elaborando il concetto di bene comune. Esso non giustifica in al-cun modo — sottolinea Prodi — visioni nostalgiche riproposte direcente: « giustamente si è posto l’accento sul conflitto di interessicome fondamento di un bonum commune sempre da inventare e daraggiungere » (p. ). Quello di bene comune in Prodi è un concettoaccogliente, capace di giustificare l’interesse individuale e la ricchezzaprivata; al tempo stesso, esso è fortemente discriminante. Come ciha spiegato in particolare Giacomo Todeschini, collaboratore impor-tante del programma di ricerca di Prodi ed autore di « fondamentalistudi » (p. , n.) ampiamente utilizzati in Settimo non rubare, la suaelaborazione avviene nel quadro dell’incardinamento degli ordinimendicanti in ambiti civici, fortemente territorializzati, ed escludequanti non vi appartengono o vi appartengono in forma difettosa:bene comune e cittadinanza sono inscindibili.

Ne deriva una disimmetria di fondo fra l’insediamento vasto,geografico e relazionale, dell’agire del mercante, e la legittimazionepuntuale, legata al bene comune della civitas, della sua azione. Con ilrafforzarsi delle formazioni politiche non locali ed urbane ed il com-plicarsi conseguente delle forme dell’appartenenza territoriale e dellacittadinanza, le questioni si aggrovigliano. Man mano che si avvicinala fine del medioevo si moltiplicano le « forme dell’inattendibilità » e« dell’infamia ». Il riscatto teologico–morale della pratica mercan-tile dalla condizione di infamia può essere rimesso in discussione:come si legge in una storiografia assai copiosa, si fa spasmodica laricerca di una riconciliazione fra gerarchie e quadri politici nuovi daun lato, e dall’altro la prassi e lo statuto del commerciante. Praticare ilmercato senza essere esclusi da patriziati urbani ed élites monarchiche— ad esempio in occasione delle due recherches de noblesse di Luigi

. G. Todeschini, Fiducia e potere: la cittadinanza difficile, in La fiducia secondo i linguaggi delpotere, a cura di P. Prodi, Bologna , p. .

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

XIV — diventa un problema cruciale, che rimescola e disarticola leappartenenze, i profili e le azioni dei componenti della “repubblicainternazionale del denaro”. Riattivato dal serbatoio del latino classi-co, si fa strada in una vasta area linguistica il termine “negoziante”,che si va distinguendo da quello di “mercante” tramite una presa didistanza dagli aspetti materiali del commercio; di conseguenza, essoallude ad un diverso orizzonte delle opportunità, ad un’altra tavoladi norme che distingue il lecito dall’illecito collocando nella zona dellecito la partecipazione a lesioni gravi delle leggi del mercato — adesempio le manipolazioni finanziarie, monetarie e monopolistichepromosse dai principi. I processi a cui accenna acutamente Todeschi-ni in riferimento alla fase a cavallo fra tardo medioevo e prima etàmoderna, ne escono rafforzati: la « precarietà o almeno la fragilitàdella reputazione » fa del contratto il risultato non di una preventivaed accertata inclusione nella cerchia degli affidabili di quanti lo sotto-scrivono, ma di una « fiducia che i contraenti si riconoscevano l’unl’altro di momento in momento e da una situazione all’altra ».

Questo fondamento debole, circostanziale, del contratto e dellafiducia che i contraenti si accordano reciprocamente si accentua a di-smisura con la rivoluzione commerciale, con l’allungarsi delle catenedel credito e dei flussi fino a debordare dalla christianitas. Da univer-so deterritorializzato, tangente a quello dell’umanità, la christianitasdiventa una articolazione dello spazio mercantile. All’interno di que-st’ultimo vanno a collocarsi a pieno titolo soggetti che « il circuitotra confessori e coscienze » non può obbligare né nel foro interiorené in qualche foro civile: quegli “infedeli” che nel passo famoso diVoltaire menzionato da Prodi si agitano, mescolati a cristiani di ognitipo, nella borsa di Londra, e che del resto, sotto la denominazionedi ebrei, frequentavano da secoli le piazze di mercato cristiane. Ladomanda proposta da Gerard de Malynes già nel primo Seicento, seil mercante cristiano possa accordare fiducia alle promesse di Turchi,barbari ed infedeli, diventa cruciale, e la risposta dubitativa che nedà lo stesso Malynes mi sembra individui, ben più efficacementedell’ottimismo e del paternalismo eurocentrico del “dolce commer-cio” di Montesquieu, il senso dei processi reali. Con gli infedeli sipuò commerciare, si possono stipulare contratti che saldano le pen-

. Ivi, p. .

. Scritti filosofici, a cura di P. Serini, vol. I, Bari , p. .

. G. de Malynes, Consuetudo: vel lex mercatoria, Londra , p. .

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denze al momento stesso dello scambio o, se impegnano il tempo,lo contabilizzano; ma questo non proietta prevedibilità e sicurezzasugli scambi futuri. Le parole dello scambio contrattuale sono secche,fredde, incomplete: mobilitano un segmento solo della persona, isuoi interessi ma non i sentimenti e le appartenenze, e quindi nonpossono di per sé fondare legame sociale. Commerciare con un in-fedele e aggredirlo, magari in nome della vera fede, sono forme diinterazione pienamente compatibili.

È, in una qualche misura, « il problema della scissione della co-scienza nei contratti » (p. ), che aveva per secoli impegnato iteologi–giuristi al centro dell’attenzione di Prodi, da Jean Gerson aGiovan Battista de Luca, e che predispone all’incontro col vasto mon-do del commercio di età moderna. Il modo adeguato per prenderviparte attiva è quello di uscire dai contesti fiduciari densi, protetti,garantiti, siano essi parentali, locali, etnici o confessionali; quellodi intessere reti che nascono con l’azione, che possono lacerarsi adogni momento e che con l’azione soltanto possono ritessersi. L’in-teresse dei contraenti, non più sorvegliato da una grande « impresaistituzionale a carattere ierocratico » (come direbbe Max Weber) cheeroga ed impone etiche condivise, vi si soddisfa praticando il crinaleincerto fra opportunismo commerciale e frode, anche per evitare,tramite atti riprovevoli in misura minore, l’ignominia suprema dellabancarotta; e comunque esso produce e riproduce free riders pronti adestrarre profitti differenziali inserendosi nei contesti normati e nonrispettandone le norme. In questo orizzonte incerto e rischioso simuove il mestiere del mercante. Il suo successo, ed il funzionamentostesso del mercato, dipende dalla identificazione, nel gioco comples-so delle opportunità e delle scelte soggettive, di spazi di prevedibilitàdi estensione limitata, di regolarità conoscibili ma provvisorie, dieticità contestuali che sarebbe pericoloso estrapolare ed attribuiread ambiti diversi di azione. Proprio per questo è un mestiere che habarriere all’ingresso, cognitive oltre che finanziarie, assai robuste edifese strenuamente dagli inclusi; che ha bisogno di saperi semprepiù specialistici contenuti nel circuito privato dei “segreti” trasmessidi padre in figlio e da gestore d’impresa a “giovane di negozio” e, altempo stesso, in quello pubblico delle migliaia di libri di ars mercato-ria. Ne deriva un seminario infinito di conflitti regolati sulla base

. Segnalo la grande impresa di catalogazione ed analisi avviata da Pierre Jeannin, che misembra assai poco conosciuta ed adoperata): Ars mercatoria. Handbucher und Traktate fur den

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. Etiche e pratiche mercantili nel « codice genetico dell’uomo occidentale »

di uno jus che cerca di aderire alla “natura delle cose” riducendo iltasso di formalizzazione e di eticità insito nell’esercizio della giustizia“normale”.

La proposta di Prodi di sciogliere alla radice il nodo intricatissimodel funzionamento del mercato di antico regime poggiandolo suun’etica condivisa che genera fiducia generalizzata e marginalizzai conflitti, rischia di collocare la sua analisi « generalista » a distanzesiderali dalla esperienza di quanti si confrontano, come capita a mestesso, con qualche frammento della immensa documentazione pro-dotta da questi meccanismi. Sia quanti, come Avner Greif, cercanogli ostacoli al ridursi dei costi di transazione nelle economie del pas-sato, sia coloro che ne studiano le logiche senza collocarle in unascala di razionalità inferiore a quelle che finiranno per trionfare, daquella documentazione estraggono l’immagine — uso qui pure leparole di Prodi — di « un sistema complesso che comprende istitu-zioni, associazioni, corporazioni e gilde, capaci di stabilire una retedi informazioni–comunicazioni, di controlli, di responsabilizzazioniindividuali e collettive, di sanzioni coercitive » (p. ). La questionenon è di delegittimare un livello ed una modalità di analisi — quellainterdisciplinare e « generalista », che mette l’accento su fonti dottri-nali ed è mossa dalle urgenze del presente — a favore della ricercachiusa fra carte polverose e indifferente alle urgenze del presente.Prodi ci mostra con grande finezza come sia possibile leggere teologie giuristi non appiattendosi sulla loro ricerca di senso e coerenza frai dati incoerenti della realtà, e come se ne possa viceversa ricavareun’immagine conflittuale, dinamica, aperta della vicenda europea. Ilpunto è che conflitti, dinamiche ed incoerenze vengono, nel corsodell’analisi, sistematicamente depotenziate perché se ne possano ri-cavare « codici genetici » e « sistemi coerenti »; per proporre in fin deiconti un’immagine arcigna dell’unicità dell’esperienza e dell’identitàeuropea nei confronti di un mondo lontano e ostile, che finisce per so-migliare a quelle organiciste da Prodi stesso fermamente rifiutate. Aprendere sul serio le sconnessioni da lui evocate se ne potrebbero trar-

Gebrauch des Kaufmanns –. Eine analytische Bibliographie, Band , –, a cura di J.Hoock e P. Jeannin, Paderbord–Monaco–Vienna–Zurigo ; Band , –, a cura deglistessi, ivi ; Band , Analysen: –, a cura di J. Hoock, P. Jeannin e W. Kaiser, ivi, .

. Fra i libri notevoli apparsi di recente cfr. L. Fontaine, L’économie morale. Pauvreté, créditet confiance dans l’Europe préindustrielle, Parigi ; F. Trivellato, The Familiarity of Strangers.The Sephardic Diaspora, Livorno, and Cross–Cultural Trade in the Early Modern Period, NewHaven–Londra .

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re scenari meno suggestivi e narrabili, ma forse più persuasivi: capacidi ospitare apporti di altre civiltà conosciute tramite monaci scribi,crociati e mercanti; e, al tempo stesso, aspetti, macroscopici e quielusi, delle vicende del mercato europeo premoderno, come il nessofra vele e cannoni o il lato schiavistico del commercio triangolare, chenon si saprebbe in quale piega della eticità prodotta dal « circuito traconfessori e coscienze » situare. E comunque resterebbe spazio perprodurre storie d’Europa in cui il male non è un destino manifesto,come nelle versioni più aggressive dell’odierno “occidentalismo”,anche se una possibilità sempre incombente.

Non credo che occorra assumere posture politicamente corretteper aprirsi alle domande che al mondo occidentale, ed anche alla suastoriografia, vengono rivolte con insistenza crescente dal suo stessointerno e da “periferie” che sempre meno si rassegnano ad esseretali dal punto di vista economico, culturale, storiografico: domanderiguardanti tratti oscuri del passato lontano o le radici e gli attoridel « momento storico che stiamo vivendo », percepito da Prodicome catastrofico. La globalizzazione non sarà iscrivibile nel « codicegenetico dell’uomo occidentale », ma non ci sarà neanche caduta, dipunto in bianco, dal cielo.

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Capitolo III

Alla ricerca del “negoziante patriota”

Mercantilismi e culture del commercio nel XVIII secolo

.. L’attore economico come “soggetto morale”

L’attenzione alla dimensione morale degli attori sociali è un ele-mento di grande rilevanza dell’atteggiamento riflessivo che segna lescienze della società degli ultimi decenni. In particolare nell’ambitodella teoria economica, le polemiche virulente intorno alla figura,al tempo stesso analitica e retorica, dell’homo oeconomicus mettonoin discussione i fondamenti stessi della disciplina e la sua capacità difornire strumenti e linguaggi alle altre discipline sociali.

Si tratta di uno dei percorsi lungo i quali vengono radicalmenteripensati atteggiamenti interpretativi che hanno segnato, negli ultimidecenni del secolo scorso, una stagione importante e feconda dello

. La letteratura recente in proposito è diventata enorme in particolare in lingua inglese.Si veda, per un esempio che presenta con chiarezza la posta in gioco anche operativa diqueste questioni, il numero monografico sulla business ethics di “Essays in Philosophy”, ,n. , edito ed introdotto da J.E. Roper, in cui si discute in particolare la « corporate publicresponsibility ». Anche nel quadro delle posizioni più apologetiche nel confronti dello sviluppocapitalistico occidentale, come quelle sviluppatesi a Chicago intorno a Milton Friedman, lapolemica contro l’inconsistenza dell’attore economico nella tradizione dell’economics puòdiventare violentissima: cfr., fra la produzione più recente della prolifica Deirdre N. McCloskey,i primi due grossi volumi di una serie che minaccia di giungere a volumi complessivi:The Bourgeois Virtue: Ethics for an Age of Commerce, Chicago , e Bourgeois Dignity. WhyEconomics can’t Explain the Modern World, Chicago . La letteratura in merito, già ampiain precedenza (cfr. A. Sen, On Ethics and Economics, Oxford , e Economics and Ethics?, acura di P.D. Groenewegen, Londra ), si è arricchita vistosamente dopo la crisi economicadegli ultimi anni del secolo scorso. Cfr., per esempio, E.M. Uslaner, The Moral Foundations ofTrust, Cambridge ; Moral Sentiments and Markets Interests: The Foundations of Cooperation inEconomics, a cura di H. Gintis, S. Bowles, R. Boyd, E. Feher, Cambridge, MA, ; K. Basu,Beyond the Invisible Hand: Groundwork for a New Economics, Princeton ; J. Sachs, The Price ofCivilization. Economics and Ethics after the Fall, Londra ; J. Halteman, E. Noell, Reckoningwith Markets. Moral Reflexion in Economics, Oxford .

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studio delle società: da un lato l’individualismo metodologico, la con-cezione dell’attore come produttore di scelte razionali; dall’altro leinterpretazioni di tonalità luhmanniana, che tendono ad annullare l’au-tonomia degli attori stessi e leggono le loro scelte come un prodotto dei« systèmes communicatifs » nei quali sono immersi. Una volta assuntocome “soggetto morale”, l’attore non si situa in un circuito mercantiledato come un personaggio innocente, sprovvisto di caratteri e specifici-tà, pronto ad aderire ad un qualunque sistema di regole; né, viceversa,egli tende a sottrarvisi, come free rider, al fine di massimizzare beniche lo soddisfano — tenendo conto, ovviamente, dei famosi vincoli.

Sottrarsi a queste concezioni rudimentali dell’attore non signifi-ca di necessità tornare a pensare la società come insieme di gruppistrutturati graniticamente, ma provare a prendere sul serio la com-plessità dell’attore stesso: le mille forme (familiari, parentali, locali,societarie) che può assumere il titolare delle decisioni economiche; iconflitti che possono scoppiare anche all’interno di questo decisorecomplesso e plurale; le ambiguità e, al tempo stesso il peso delleidentità, dei ruoli sociali, degli apparati istituzionali; le tortuosità deiprocessi di socializzazione di ogni individuo, che non conducono altrionfo della razionalità e alla messa sotto controllo delle emozioni edelle pulsioni. La posta in gioco è quella di tener conto dell’interaattrezzatura mentale dell’attore, che, ovviamente, egli può nego-ziare ed adattare alle situazioni, ma non senza residui che pesanoe concorrono a riconfigurare la situazione stessa. Per questa viadiventa pensabile una dimensione progettuale dell’attore stesso, dariferire non solo al perseguimento di fini individuali ma anche allarealizzazione di una qualche forma di bene comune.

.. L’età del commercio: una teleologia del self–interest?

Non è certo il caso qui di affrontare di petto questioni di questanatura. Vi ho fatto cenno perché mi pare che questo riemergereprepotente dell’attore come “soggetto morale” anche nella economics— la scienza sociale costruitasi sull’oblio dei « moral sentiments » —sia un elemento importante del clima culturale in cui si costruisce lastoriografia recente sulle moralità mercantili nell’Europa medievalee moderna. Un aspetto mi sembra centrale di questa produzione

. Cfr., fra gli altri, B. Lahire, L’homme pluriel: les ressorts de l’action, Paris .

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. Alla ricerca del “negoziante patriota”

storiografica: l’impossibilità di ricondurre le dispute vivacissime checoinvolgono letterati, giuristi, teologi, amministratori e mercanti aduna qualche epifania del self–interest che, finalmente emancipato daivincoli morali prodotti dalla dottrina e dalle istituzioni cristiane, puòfinalmente dispiegarsi e dar vita al mondo moderno.

Il grande racconto proposto innumerevoli volte dagli storici delpensiero economico e politico fonda la sua teleologia su un insiemedi testi, proposte politiche e spinte sociali presentate come il puntod’arrivo ineluttabile di un processo di lungo periodo. Ne rievoco quile linee portanti. Dopo aver attraversato i secoli con diversa fortuna econsiderazione, la figura del mercante è rivalutata, a partire dalla tardaetà moderna, sulla base del riconoscimento del carattere fondatore,per la comunità politica laicizzata, dell’azione individuale interessatae dei diritti ad essa inerenti: il diritto di proprietà in primo luogo.Guardato da questa angolazione, il commercio fra i popoli diventaun aspetto essenziale del diritto naturale, una sfera prepolitica cheil principe può regolare, facilitare o limitare, ma che egli non puòcostruire o distruggere. In particolare il sovrano non può opporsifrontalmente, in nome dell’imperativo territoriale, alla dimensioneextra–territoriale da sempre incorporata nel commercio; egli nonpuò non fare i conti con il tessuto di parole e norme (la lingua francadei mercanti, la lex mercatoria) tipiche dell’universalismo radicatonelle grandi piazze mercantili della “rivoluzione commerciale” del-l’ultimo medioevo, e che trova, all’epoca del mercantilismo maturo,una nuova legittimità presso settori significativi della repubblica del-le lettere e degli apparati pubblici. In queste visioni l’opposizionefra commercio attivo e commercio passivo, che fonda l’interventi-smo statale, perde di significato; le concezioni statiche della ricchezzaglobalmente disponibile cominciano a coesistere con concezioni di-namiche. Il concetto di sviluppo si fa spazio nel libri dotti e nei luoghidel potere, dove la jealousy of trade alimentata dalle politiche di poten-

. Gli elementi essenziali del dibattito settecentesco ed un’ampia bibliografia in meritosono rinvenibili in Interessi, passioni, convenzioni. Discussioni settecentesche su virtù e civiltà, acura di M. Geuna, M.L. Pesante, Milano ; Á. Alloza Aparicio, B. Cárceles de Gea, Comercioy riqueza en el siglo XVII: estudios sobre cultura, politica y pensamiento economico, Madrid ;Modelli da imitare, modelli da evitare. Discussioni settecentesche su morale e commercio, ricchezza epovertà negli antichi stati italiani, a cura di A. Alimento, Roma ; Felicità pubblica e felicitàprivata nel Settecento, a cura di A.M. Rao, Roma .

. L’espressione humiana è ripresa e brillantemente contestualizzata in I. Hont, Jealousy ofTrade. International Competition and the Nation State in Historical Perspective, Cambridge .

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za cede progressivamente il passo alla ricerca di complementarietàeconomiche più o meno asimmetriche. La divisione internazionaledel lavoro produce civilizzazione e benessere anche per i partner piùdeboli. I “vizi” tradizionali dei negozianti — in particolare l’avariziaindividualista e l’indifferenza verso la propria patria — non portanooffesa alla gloria del loro sovrano ed alla felicità dei suoi sudditi, epossono diventare “pubbliche virtù”. La secolare disputa sulle incertebasi etiche dell’azione mercantile perde di senso.

Non c’è dubbio che posizioni di questa natura siano ben presentinel lungo Settecento europeo. Il punto è che, per comprenderne ilsenso, più che pensarle come precorrimenti di un futuro ineluttabilee leggerle in rapporto a testi e proposte di altri tempi, occorrereb-be immergerle nel contesto di un dibattito su commercio e virtùche non solo non si affievolisce, ma si fa particolarmente acceso edenso. L’ideale del « commercio morale » è saldamente al centrodelle preoccupazioni di amministratori e uomini di lettere, compresoquell’Adam Smith innumerevoli volte proposto come portabandieradello sviluppo fondato sulla razionalità individuale. D’altronde, no-nostante il vocabolario utilizzato sia spesso quello emerso in secoli diriflessione sulla dimensione civica e religiosa dell’azione individuale,esso assume forme e significati del tutto nuovi.

Un primo nodo di problemi è costituito dai dubbi diffusi sullaadeguatezza dell’ottimismo cosmopolita nei confronti di attori edazioni disperse lungo catene di transazioni e di flussi che si estendonosempre più e superano ampiamente gli stessi limiti della christiani-tas. Il loro debordare dagli ambiti spaziali di ogni istituzione civile esacrale rischia di far saltare i freni al dispiegarsi delle avidità mercan-tili: da un lato i freni prodotti dalla grande « impresa istituzionale acarattere ierocratico » costituita dalla Chiesa tramite la prospettiva

. Il riferimento è al contestualismo della cosiddetta Cambridge School, della quale JohnG.A. Pocock e Quentin Skinner sono gli esponenti più noti.

. P. Verri, Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, sulla felicità e sull’economia politica,Milano , pp. –.

. Fra gli studi ormai numerosi che leggono The Wealth of Nations alla luce dalla Theory ofMoral Sentiments, segnalo i due libri recenti, fra loro assai diversi, di E. Rothschild, EconomicSentiments: Adam Smith, Cordoncet, and the Enlightenment, Cambridge, MA, , e F. Dermange,Le dieu du marché : éthique, économie et théologie dans l’oeuvre d’Adam Smith, Ginevra .

. È la terminologia di Max Weber. Cfr. in particolare la sezione VI del capitolo IX dellaseconda parte di Economia e società; nelle Edizioni di Comunità, Milano , alle pp. ss. delvolume IV.

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. Alla ricerca del “negoziante patriota”

della salvezza o della dannazione ultraterrena; dall’altro quelli del re-pubblicanesimo civile che, ad esempio nelle città mercantili italianetardo–medievali, condizionava l’accesso alle risorse della cittadinanzae del governo all’adesione ad etiche spesso elaborate dagli ordinimendicanti. In questo modo, in particolare nel periodo fra secon-do Seicento e primo Ottocento, appropriatamente definito « age ofcommerce », viene messo in pericolo il fondamento del commer-cio stesso: la reciproca fiducia dei contraenti. In assenza di istituzioniterze che garantiscano l’enforcement dei contratti, i mercanti devonoincontrare partners nei quali possono riporre solo una fiducia debo-le, circostanziale. Le parole dello scambio contrattuale rischiano diapparire secche, fredde: esse mobilitano un segmento della persona,ovvero i suoi interessi, ma non le sue appartenenze, le emozioni,i sentimenti. Così i rapporti mercantili non necessariamente pre-suppongono o producono nessi sociali: essi tessono rapporti chenascono dall’azione e possono lacerarsi in ogni momento. Di qui laricerca spasmodica di reti fiduciarie dilatate e dotate di una spaziali-tà simile a quella degli scambi, che, non potendo più essere quelledense parentali e locali, tendono a prendere una forma diasporica subase etnica, linguistica, religiosa. La storiografia, in particolare quellaneoistituzionalista, ha ampiamente insistito su queste reti fiduciarie,ma ha anche ben sottolineato il loro carattere fragile, la necessità dimanutenerle e ricostruirle di continuo, e di elaborare decisioni eco-nomiche che tengano in giusto conto i rischi e le incertezza inerentia questi istituti dello scambio.

D’altro canto, anche quando all’interno dei circuiti si creano eti-che condivise che alimentano la reciproca fiducia dei contraenti,queste investono una parte soltanto del campo dell’agire economi-co. Incontriamo qui un secondo nodo problematico, assolutamen-

. Fra l’ampia produzione di Giacomo Todeschini, si veda in particolare I mercanti eil tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra medio evo ed età moderna,Bologna . Due libri importanti usciti di recente illustrano la centralità della dimensioneetica nell’economia inglese fra medioevo ed età moderna: J. Davis, Medieval Market Morality.Life, Law and Ethics in the English Marketplace –, Cambridge ; Brodie Waddell, God,Duty and Community in English Economic Life, –, Woodbridge . Più in generalesull’interesse della storia economica recente per le culture economiche cfr. Wirtschaftsgeschichteals Kulturgeschichte. Dimensionen eines Perspektivenwechsels, a cura di H. Berghoff, J. Vogel,Francoforte sul Meno e New York .

. Cfr., per tutti, F. Trivellato, The Familiarity of Strangers. The Sephardic Diaspora, Livorno,and Cross–Cultural Trade in the Early Modern Period, New Haven e London .

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Linguaggi del mercato

te centrale nel dibattito settecentesco. Gli spazi dilatati dei circuitimercantili e le spinte cosmopolite devono convivere con un datovistosissimo: quello della territorializzazione politica e dei conflittiarmati o diplomatici fra le potenze. Inutile dirlo, le dinamiche dellapolitica condizionano pesantemente le logiche e il funzionamen-to delle economie, ma non sono a loro volta in grado di produrreobblighi efficaci per gli attori mercantili.

.. Alla ricerca del négociant patriote

Dal punto di vista che qui più interessa, le spinte alla territorializza-zione promuovono etiche dello scambio di diversa qualità rispettoalle tradizionali etiche fiduciarie. Le nuove etiche statocentriche sonointeriorizzate da una parte assai ampia dei protagonisti del dibattitosettecentesco e costituiscono il presupposto implicito comune a granparte delle loro proposte, anche quando esse si presentano contrad-dittorie. Produzione, circolazione e distribuzione delle merci devonofare i conti con una nozione di bene pubblico che, da una parte, siva emancipando da quella di bonum commune corporativo, dall’altranon si scioglie nel cosmopolitismo mercantile né nei diversi ambitidiasporici. La pubblica felicità da perseguire è ormai riferita a insiemisociali collocati in spazi politici sottoposti ad un potere sovrano, ed ècalcolabile attraverso apparati come la Balance du Commerce francese. Icomportamenti mercantili diventano moralmente accettabili se, oltre arispettare i contratti e le moralità corporate, segmentarie, diasporiche,contribuiscono al benessere di una comunità astratta — “pubblica” —simbolicamente promossa e rappresentata dalla figura del principe. Dainsieme di principi universali, la morale diventa una « scienza sperimen-tale » regolata dalle esigenze mutevoli del gioco delle potenze e dallaricerca di compatibilità fra gloria del principe e felicità dei sudditi.

. Segnalo, fra la storiografia recente in merito, Trade and War: the Neutrality of Commercein the Inter–State System, a cura di K. Stapelbroek, Helsinki , e War, Trade and Neutrality.Europe and the Mediterranean in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, a cura di A. Alimento,Milano .

. Sulla quale si veda ora lo studio accurato di G. Daudin, Commerce et prospérité. La France auXVIIIe siècle, Paris .

. C.A. Helvétius, De l’esprit (), citato in R. Chartier, Le origini della Rivoluzione francese,Roma–Bari , p. .

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. Alla ricerca del “negoziante patriota”

Si tratta di un criterio di misura delle moralità mercantili al tem-po stesso fortissimo, dato che esso è assunto da apparati pubblicidotati di capacità costrittiva, e minato alle fondamenta dal fatto chel’esercizio della forza legittima nei confronti dei mercanti “immorali”è resa nei fatti impossibile dal momento che rischia di prosciugarela fonte della pubblica felicità: cioè la propensione all’investimentorischioso da parte dei mercanti stessi. Il calcolo nazionale addizionai risultati della azioni di una molteplicità di soggetti che il sovranonon può creare, che egli trova già legittimamente istallati al centrodei giochi mercantili e che decidono sulla base di una aritmetica deltutto diversa dal calcolo pubblico. C’è una incoerenza, potenziale maminacciosa, fra la dimensione collettiva della felicità da conquistare ela dimensione privata delle azioni dalle quali quella felicità dipendein ultima istanza.

La ricerca dei modi per rendere il bene particolare coerente conquello pubblico, e dei protagonisti della nuova economia che agi-scano in conformità con questo obbiettivo, diventa spasmodica, efonda un’idea di commercio che, come scrive l’Abbé Coyer, « n’estplus une affaire particulière, c’est une science de l’État ». Il suo scopoè, in primo luogo, la costruzione, nel quadro degli Stati in corsodi territorializzazione, delle ragioni che permettono una adesioneall’etica del bene pubblico non prodotta dalla nuda costrizione. Ilconcetto di patria, riferito originariamente alla dimensione civicaed al suo protagonista simbolico, il « cittadino in armi », e la dimen-sione simbolico–sacrale della christianitas, vanno ormai trasferiti alterritorio dei sovrani.

Ma il successo di questa operazione, in qualche misura ancora pos-sibile nella repubblica olandese, è assai scarso negli Stati monarchici. Lafigura del négociant patriote si rivela una sorta di ossimoro, un oggetto

. Insiste efficacemente su queste questioni K. Stapelbroek, Love, Self–deceit, and Money.Commerce and Morality in Early Neapolitan Enlightenment, Toronto .

. Il caso francese in particolare è stato ampiamente studiato da questa prospettiva. Cfr., frai contributi recenti: H.C. Clark, Commerce, the Virtues, and the Public Sphere in Early Seventeenth–century France, in “French Historical Studies”, , n. , pp. –; M. Linton, Virtue inEnlightenment France, New York ; J.M. Smith, Nobility Reimagined: the Patriotic Nationin Eighteenth–Century France, Ithaca ; J. Shovlin, The Political Economy of Virtue: Luxury,Patriotism, and the Origins of the French Revolution, Ithaca ; A. Skornicki, L’économiste, la couret la patrie. L’économie politique dans la France des Lumières, Paris .

. Faccio riferimento a (François Bedos de Celles), Le négociant patriote, contenant un tableauqui réunit les avantages du commerce, la connoissance des spéculations de chaque nation; et quelques vues

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Linguaggi del mercato

introvabile, come dimostrano le lamentele altissime ed onnipresenticontro coloro che godono della protezione regia ma che, prigionieridella loro avidità individuale o di gruppo, frustano i tentativi del lorogoverno di promuovere commercio attivo ricorrendo, ad esempio,ai servizi di trasporto per mare di “stranieri”. E, purtuttavia, questinegozianti avidi e portatori di etiche antipatriottiche restano figure nonsostituibili per la costruzione della pubblica felicità.

Bene pubblico e bene privato sono entrambi valori costitutividel corpo sociale territorializzato, e l’organizzazione della loro coe-sistenza diventa il nucleo centrale della nuova scienza del governopolitico.

.. Legge positiva e moralità mercantili

È in questa tensione irrisolta che occorre cercare le ragioni di fon-do della produzione di regolamentazione pubblica degli scambi, dicarattere direttamente o indirettamente giuridica, che fra il XVIIed il XVIII secolo esplode fino a diventare smisurata — dai trattatiinternazionali allo jus proprium, che fuoriesce da campo di elezionedell’interventismo dei principi, cioè dalla police, per investire il dirittoprivato, da secoli dominato dallo ius gentium, fino a toccare le milleforme del diritto della navigazione e della lex mercatoria. Con le loronorme doganali e sanitarie, sulle qualità e caratteri della produzio-ne, sugli incentivi alla navigazione nazionale, sui privilegi di settoriproduttivi e luoghi, sui porti nominalmente franchi ed in realtà pesan-temente regolamentati, gli Stati diventano, nei circuiti commercialianche a lunga distanza, presenze straordinariamente ingombranti.Invece di favorire il contract enforcement presentandosi come partiterze garanti della moralità mercantile, essi si costituiscono comeparti in causa agenti, con i loro ufficiali ed i loro apparati tentacola-ri, fin nei livelli più minuti e quotidiani della pratica mercantile. Altempo stesso, questo processo esplosivo di fabbricazione di diritto edi istituzioni produce fonti di obbligazione straordinariamente de-boli. L’efficacia della regolazione diventa del tutto scollegata dalladimensione quantitativa delle leggi e dei regolamenti.

particulières sur le commerce avec la Russie, sur celui avec le Levant, et de l’Amérique Angloise : ouvrageutile aux négociants, armateurs, fabriquants et agricoles, Paris .

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. Alla ricerca del “negoziante patriota”

Ci sono intanto antiche questioni di carattere “costituzionale” sulnesso fra legittimità dell’azione del principe e limitazione dell’eser-cizio del suo potere, che, riprese e reimmesse nel dibattito teoricoe politico, proiettano dubbi sulla liceità stessa di questa produzionenormativa. « L’autorité souveraine — afferma Dupont de Nemoursdal punto di vista dei fisiocrati — n’est pas institué pour faire leslois, car les lois sont toutes faites. . . Les ordonnances des souverainsqu’on appelle lois positives ne doivent être que des actes déclaratoiresde ces lois essentielles de l’ordre social ». Per di più, queste leggipositive, che pretendono con dubbia legittimità di includere l’interasfera dell’economia nella sfera del potere, si vanno spogliando dellacarica simbolica che è una componente fondamentale della forzaobbligante di ogni atto normativo. Esse configurano sempre più un« comando politica eticamente indifferente », che, non più riferitoad un ordine a sé stesso superiore come quello sacro amministratodalla Chiesa, non è capace di agire sul foro interiore degli individuiconfigurando peccati o colpe, ma è solo in grado di minacciare pene:l’obbligo che ne deriva è dunque strutturalmente debole.

D’altro canto l’eventualità che i comportamenti propri all’oppor-tunismo mercantile, ma classificati come delitti, siano nella praticaquotidiana del mercato e delle istituzioni chiaramente distinguibilidai comportamenti legittimi e puniti, appare altamente improbabile.È un punto su cui la polemica contro la furia regolatrice dei gover-ni si estende anche ad ambienti ostili allo “spirito di sistema” deifisiocrati e favorevoli alla promozione statale del commercio attivoe del négociant patriote. In primo luogo lo jus proprium mercantili-sta non cancella i sistemi normativi e le istituzioni stratificatesi neisecoli; al contrario esso di aggiunge a quelle esistenti accrescendoulteriormente il pluralismo delle fonti del diritto e dei luoghi dotatidi giurisdizione. In secondo luogo una parte vasta del nuovo inter-ventismo presenta un carattere contraddittorio: ad esempio si puntada un lato ad inquadrare e controllare i traffici, dall’altro ad attirarlievitando che un eccesso di regolazione spinga i mercanti verso porti

. P.–S. Dupont de Nemours, De l’origine et des progrès d’une science nouvelle, Londra ,p. .

. P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna .

. Ad esempio agli esponenti del cosiddetto “cercle de Gournay”, sul quale cfr. orala notevole raccolta di studi Le cercle de Vincent de Gournay: savoirs économiques et pratiquesadministrative au milieu du XVIIIe siècle, a cura di L. Charles, F. Lefebrvre, Ch. Théré, Parigi.

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e territori rivali. Infine, nei luoghi di elezione dei traffici, le normeemanate dal sovrano territorialmente competente si sovrappongonoe si intrecciano con quelle emanate da altri sovrani che riescono aconservare, tramite il complesso gioco dei privilegi, una competenzasoggettiva sui loro sudditi agenti all’estero. Il mercante si muovein una zona al tempo stesso iper–normata ed opaca, in una sortadi limbo territoriale in equilibrio instabile fra differenti sistemi dinorme e di appartenenze.

In questi luoghi regolati in forme contraddittorie e incerte, l’or-dine normativo rappresentato dalla legge positiva, invece di essereun elemento di stabilizzazione e di ancoraggio della comunicazionee della fantasmagoria delle interpretazioni possibili dei dati di realtà,rischia di diventare un elemento di disturbo ulteriore, un moltipli-catore dell’incertezza. In circuiti dello scambio immersi in questiingorghi normativi ed istituzionali, si va configurando una sorta digovernance fondata sulla negoziazione delle norme del diritto positi-vo, su pratiche della legge che alimentano ciò che in principio essadovrebbe evitare: la vagueness in law. Tutto questo contribuiscealla costruzione di un “senso dello Stato” e del funzionamento dellamacchina amministrativa volto alla gestione dello spazio pubblico apartire dalle norme, piuttosto che alla loro applicazione. L’intenzioneregolatrice si traduce (per riprendere un tema classicamente foucaul-tiano) in una gestione della illegalità che deborda dallo spazio deldiritto ed investe il vasto mondo delle pratiche istituzionali di fatto, avolte segrete, affidate a ufficiali collocati ai bordi delle istituzioni eimpegnati in un faccia a faccia diretto con i protagonisti del mercato.

L’ideale dell’attore economico moralmente sano in quanto « lawabiding person » diventa, nel lungo XVIII secolo, una costruzioneutopica.

.. La « cultura del commercio »: per una moralità nazionale nonstatalista

La storiografia ha ampiamente insistito sulla presenza pervasiva del-la frode nei confronti degli apparati pubblici non solo negli ambiti

. È il titolo di un libro importante di Timothy Endicott, Oxford .

. Cfr. il numero di “Quaderni storici” (, n. ) intitolato Frodi marittime tra norme eistituzioni, a cura di B. Salvemini e R. Zaugg.

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. Alla ricerca del “negoziante patriota”

marginali del commercio ma anche presso i settori ed i protagonistipiù in vista, in particolare nelle fasi in cui le politiche di controlloed inquadramento dei traffici si dispiegano con maggiore forza, iviincluse le fasi di conflitto armato. Quello che mi chiedo è se lo svi-luppo mercantile che investe anche il Mediterraneo settecentesco, eche presuppone una qualche forma di rispetto dei contratti, sia unfenomeno del tutto estraneo ai processi di territorializzazione statale;e dunque, se le moralità mercantili operanti nella quotidianità degliscambi investano solo la dimensione privata, il rispetto della paroladata e dei patti fra contraenti, senza misurarsi con la dimensione delbene pubblico, con la responsabilità sociale dell’azione economica,con la conquista di posizioni sociali nel quadro valoriale connesso al-l’emergere degli Stati promotori di commercio attivo. Sono insommarinvenibili comportamenti nei confronti degli apparati statali che, purnon rispondendo alla lettera delle norme di diritto positivo, siano inqualche modo prevedibili, abbiano una loro legittimità et eticità?

Prima che una questione storiografica, si tratta di un tema centraleper gli stessi attori del commercio settecentesco e per i protagonisti deldibattito dotto. C’è una enorme produzione discorsiva di intonazioneprescrittiva — quella definita dagli storici come « culture of commer-ce » — impegnata in una rielaborazione ansiosa, un addolcimento,una limitazione del concetto di interesse e di bene privato. L’obbiettivoè quello di rilegittimare la pratica mercantile attenuando il suo fonda-mento egoistico, per renderla in una qualche misura compatibile conle nuove etiche del “bene pubblico” che si vanno costruendo attornoagli Stati monarchici. Si tratta di un universo testuale ampiamente diffe-renziato: dalle teorie del “dolce commercio” a quelle della « sympathy »come precondizione del nesso sociale, al « commercial humanism »

che cerca di conciliare i valori della tradizione civica con quelli delcivismo nazionale, all’« économie politique de la gloire » presente neiluoghi di punta del pensiero illuministico, ivi compresa l’Encyclopédie;

. N. Glaiser, The Culture of Commerce in England, –, Woodbridge . Più in generalecfr. Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, a cura di F. Angiolini e D. Roche, Parigi; e, più di recente, M.C. Howell, Commerce Before Capitalism in Europe, –, Cambridge.

. Cfr., fra gli studi recenti che riprendono l’impostazione di Pocock, J. Takeda, French Absolu-tism, Marseillais Civic Humanism, and the Language of Public Good, in “The Historical Journal”, ,n. , pp. –; Ead., Between Crown and Commerce. Marseille and the Early Modern Mediterranean,Baltimora .

. R. Morrissey, Napoléon et l’héritage de la gloire, Paris .

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Linguaggi del mercato

fino alla visione, presente ad esempio nelle giurisdizioni consolari,di un mondo dello scambio in cui il rispetto dei contratti non dipendadal timore di una sanzione, sia essa appartenente alla sfera del sacro(il giuramento) o a quella della giustizia civile, ma da una bona fidesmessa in scena con la ritualità semplificata della parola data, di un gesto,di una stretta di mano. L’elemento comune a questi corpi discorsivi è laricerca di fonti dell’obbligazione mercantile e normativa diffuse nellospazio sociale ed interiorizzate dagli attori, che avrebbero sulle praticheefficacia maggiore dei contratti e delle prescrizioni più istituzionalizzatee formalizzate.

Sarebbe ovviamente ingenuo immaginare che questa ricerca del« negoziante patriota », dotato di un’etica mercantile autonoma dallalegge positiva ma con essa compatibile, sia un indice affidabile dell’e-mergere di pratiche che evitino il sistematico free riding di fronte adapparati pubblici incapaci di applicare le norme da essi stessi prodotte.D’altro canto occorrerebbe domandarsi se la « culture of commerce »sia una semplice esercitazione discorsiva che volge le spalle ai fun-zionamento concreto dei mercati, o se non abbia qualcosa a che farecon le moralità mercantili rinvenibili nella quotidianità dello scambio.Credo che la ricerca di qualche risposta in merito possa avvalersi diquesta possente produzione culturale utilizzandola come un reperto-rio di questioni con le quali avvicinarsi alle fonti. Può essere questauna via per evitare di applicare concezioni rudimentali dell’attore edelle sue motivazioni ai negozianti che si misurano con la densitàe contraddittorietà dei quadri economici ed istituzionali del tardomercantilismo.

Forse quegli economisti odierni che interpretano le decisionidegli imprenditori del mondo globalizzato tenendo conto, oltre chedei famosi interessi, di valori e simboli, emozioni e pulsioni, hannoqualcosa da insegnare agli storici a proposito dei loro mercanti vissutiin mondi non ancora “disincantati”.

. Cfr. A. Kessler, Enforcing Virtue: Social Norms and Self–Interest in an Eighteenth–CenturyMerchant Court, in “Law and History Review”, , n. , che studia la “merchant court” di Parigi.

. Una discussione di queste questioni nella Premessa al numero monografico di “Qua-derni storici” (, n. ) intitolato Informazioni e scelte economiche, a cura di W. Kaiser e B.Salvemini.

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P III

PROPAGGINI DELL’ECONOMIAPOLITICA: PENSARE IL MERCATO

DAI SUOI MARGINI

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Capitolo I

Propaggini illuministiche

Intellettuali “nuovi” e sviluppo dipendente in Puglianel Settecento e nel primo Ottocento

.. Premessa

L’esigenza avanzata da Furio Diaz, in riferimento alla Toscana sette-centesca, di una storiografia capace di saldare in una interpretazionecomplessiva della realtà fattori culturali politici ed istituzionali daun lato e fatti economico–sociali dall’altro, mi sembra di particolarerilevanza per il Settecento meridionale. Di fronte ad analisi struttu-rali che in sostanza negano che fossero in atto nel regno borbonicoprocessi di trasformazione radicale e di sviluppo capitalistico, glistudi di storia della cultura continuano in molti casi ad attestarsi suposizioni ottimistiche motivate dalla presenza in angoli risposti dellaprovincia di aspetti centrali e di protagonisti di primo piano del dibat-tito europeo, anche se si postillano le citazioni dei dotti napoletani eprovinciali con la notazione che le arditezze illuministiche andavanoperdute, incerta era la comprensione dei contenuti più propriamenteteorici, inferiore il livello. Per questa via si è tornati, in maniera piùo meno esplicita, al vecchio canone di interpretazione della storiameridionale che vede il ceto intellettuale cozzare invano contro lasolidità degli interessi costituiti in nome di ideali elaborati nel cielodella cultura; e quando si è tentata una saldatura analitica fra culturae società, si è fatto ricorso a nozioni come ritardo o arretratezza. Ilpresupposto è una visione della borghesia meridionale come gruppomai pienamente emerso, ed incapace di appropriarsi degli strumenti

. Aspetti e problemi di storia della Toscana nel Settecento, in “Rivista storica italiana”, , n.–, in part. p. .

. Cfr., per tutti, la rassegna di J. Davis, The case of the vanishing bourgeoisie. A reinterpretationof social and economie development in the Mezzogiorno in the early th century, in “Mélanges del’École Française de Rome. Moyen Age–Temps modernes”, , n. , pp. –.

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Linguaggi del mercato

culturali europei che i ceti intellettuali meridionali mettevano a lorodisposizione con la pubblicistica e l’azione nelle istituzioni culturalie in alcuni snodi di quelle politiche.

A me pare che un tentativo non ideologico di saldare l’analisi deifatti culturali con quella delle strutture del regno borbonico — deicui meccanismi di funzionamento la storiografia economica e socialeva mettendo in luce specificità e differenze qualitative nei confrontidell’Europa dello sviluppo capitalistico — debba fra l’altro portarci adindagare, all’interno della rigorosa periodizzazione del secondo Sette-cento meridionale proposta da Venturi, non solo il gruppo ristrettodei grandi intellettuali che costituiscono, per così dire, il movimentoriformatore ufficiale, ma anche il tessuto connettivo più nascosto eminuto del dibattito, quella zona grigia di cultura diffusa in cui lafigura dell’intellettuale sfumava in quella del proprietario; a studiarela particolare torsione assunta dalle forme culturali dell’Europa sette-centesca così come venivano interpretate dai protagonisti reali dellatrasformazione strutturale.

Le pagine che seguono vogliono dare un contributo in questadirezione. Esse guardano al secondo Settecento in Puglia, e più inparticolare in Terra di Bari, cercando di non pagare un prezzo troppoelevato alla delimitazione del campo di ricerca ad un’area senza unacapitale, in anni nei quali la parola d’ordine della riforma concentravagli sguardi sul principe, ed alla indisponibilità di fonti documentarieo di studi paragonabili a quelli su cui si fonda la grande indaginecoordinata da Furet su Livre et société dans la France du XVIIIe siè-cle o quella sulle accademie provinciali francesi di Daniel Roche. IIcampione è particolarmente significativo, trattandosi di una zonatradizionalmente forte del regno, investita in quegli anni da un indu-bitabile processo di “ritorno alla terra” delle classi dominanti e da unprofondo rimescolamento interno di esse, dall’avanzare dell’indivi-dualismo agrario e da una aggressione ai beni feudali ecclesiastici edemaniali avente come protagonista la particolare forma di borghesiamercantile–terriera.

Di questi gruppi cerco qui di cogliere umori ed aspirazioni. Dal-l’interno degli ambienti pugliesi il passaggio di fase della storia delceto intellettuale meridionale, dalle grandi speranze degli anni pre-cedenti la crisi del racchiuse nell’aspirazione di “fare come

. Vedi in particolare Il movimento riformatore degli illuministi meridionali, in “Rivista storicaitaliana”, , n. , pp. –.

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. Propaggini illuministiche

l’Inghilterra”, all’incertezza e disorientamento degli anni Novanta,fino alla edificazione — qui guardata solo di scorcio — del clima delmoderatismo ottocentesco, si configura come sfilacciamento pro-gressivo del tessuto di opinione riformatrice che era stato costruitosotto la spinta del circolo intieriano, determinato dall’emergenza del-le sue ambiguità originarie e dalle caratteristiche dello sviluppo inatto. Un episodio di eccitazione intellettuale e di trasformazione so-ciale rapidamente soffocato dalle sue stesse interne contraddizioni, epurtuttavia di una intensità priva di riscontri nella storia meridionalefino forse ai grandi rivolgimenti del secondo dopoguerra.

.. La costruzione di un terminale provinciale del movimentoriformatore

All’interno del suo programma di costruzione di un tessuto di opinio-ne che coinvolgesse nella battaglia riformatrice le campagne del Regnodi Napoli, la cultura agronomica e naturalistica assolveva per AntonioGenovesi un ruolo centrale. A differenza che nelle aree più avanzatedella penisola, dove canale di scorrimento di idee e programmi fra capi-tale e provincia fu subito quella particolare cultura economica centratasul concetto di riforma e la stessa pratica scientifica alludeva imme-diatamente ai nodi dell’assetto sociale ed istituzionale, l’arretratezzae la limitatezza del « ceto mezzano » della provincia meridionale sem-brava rendere consapevoli gli uomini del circolo intieriano della suaindisponibilità, nell’immediato, ad assorbire forme culturali portatricidirette di proposte di trasformazione complessiva. Per tutta una fase,dunque, « un po’ di vangeli in più e molta buona agricoltura », secondola formula riassuntiva di Galasso. Ne risultavano accentuati gli aspettidi « partito degli intellettuali » del gruppo riformatore napoletano, diconsorteria di « savj » che, nel suggerire riforme al principe, si faceva

. Cfr., oltre alla imprescindibile produzione di Franco Venturi, M. Romani, L’agricolturain Lombardia dal periodo delle riforme al . Struttura, organizzazione sociale e tecnica, Milano, pp. ss.

. P. Redondi, Cultura e società dall’illuminismo al positivismo, in Storia d’Italia, Annali, ,Scienza e tecnica, Torino , in particolare pp. –. Il concetto è svolto con forza, per quantoriguarda la Toscana, da F. Venturi in Scienza e riforma nella Toscana del Settecento. Targioni Tozzetti,Lapi, Montelatici, Fontana e Pagnini, in “Rivista storica italiana”, , n. , pp. –.

. G. Galasso, Genovesi e Galanti, in “Rivista storica italiana”, , n. , p. .

. Cfr., dello stesso Galasso, Dal comune medievale all’Unità, Bari , pp. ss.

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Linguaggi del mercato

interprete di esigenze non ancora pienamente affiorate alla coscienzadei “galantuomini” provinciali. Il superamento di questi aspetti e, altempo stesso, la diffusione della cultura economica, avrebbero fattoparte del processo di scomposizione di ordini e formazione di classi,di conquista, anche tramite l’allargamento delle competenze naturali-stiche, della centralità del momento della produzione. Nell’itinerariodalla giurisprudenza all’economia — che era, come dice Franco Ven-turi, « la tendenza di fondo di tutto il moto riformatore italiano » — lacultura scientifica si presentava insomma nel Regno di Napoli comeuna tappa intermedia, e la sua diffusione nelle province assunse, inparticolare negli anni Cinquanta, i caratteri di obbiettivo primario peril circolo intieriano.

Ma, in primo luogo, occorreva combattere una battaglia per rin-novare la concezione della scienza e per incrementare il suo ruolo edil suo prestigio nell’universo dei saperi. Quando cominciò a prendereforma nella Puglia barese un terminale del movimento riformatore,le cose della natura erano ancora circondate da un clima dilettantescoe superstizioso, che le grandi compilazioni erudite dell’abate Gimma,elaborate prescindendo da una qualunque pratica scientifica, nonavevano in alcun modo contribuito a dissipare.

Qualche elemento di rinnovamento, sia pure come orecchiamen-to di nomi ed atteggiamenti, si era inserito nei tradizionali dibattitimedici, soprattutto in quanti avevano studiato nella capitale che, dallametà del secolo precedente, si era andata aprendo alla cultura filosofi-ca e scientifica del Seicento europeo: ad esempio, nel farneticanteDella febbre epidemiale grumese dell’anno scritta « contro i volgarisussurri » da Dionigi Ricchetti di Palo, allievo dell’« archiliceo » napo-letano, e « consecrata all’Immortal nome dell’Ill.mo Signore il SignorD. Francesco Bonocore Archiatro della Corte di Napoli », fra una cita-zione di Newton ed una di Leibniz e della sua monade, casualmentemescolati ad una folla di « dottissimi » personaggi locali, è individua-bile la polemica anticartesiana, il rifiuto della « fantastica regolaritàdella natura », in favore delle « consumate osservazioni sugli squallidiletti de’ Poveri languenti, e sulla vaghezza degli orti botanici ».

. In Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino , pp. –. Su questo puntocfr. anche F. Diaz, Politici e ideologi, in E. Cecchi e N. Sapegno (a cura di), Storia della letteraturaitaliana, vol. VI, Il Settecento, Milano, , p. .

. D. Giusti, Vita ed opere dell’abate Giacinto Gimma, Bari , p. ss.

. Alle pp. – dell’opuscolo, che non ha indicazioni di luogo ed anno.

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. Propaggini illuministiche

D’altra parte un contributo importante era venuto dal circolo na-poletano che l’abate pugliese Celestino Galiani aveva raccolto intornoa sé negli anni Trenta: qui la ricezione dei fatti nuovi della scienzaeuropea trovava i suoi naturali canali di diffusione nei legami che ilGaliani stesso manteneva con la provincia. Un intimo amico del Ga-liani, l’arcivescovo di Trani Giuseppe Davanzati, zio del DomenicoForges Davanzati sul quale ci si soffermerà più avanti, era stato autore,sempre negli anni Trenta, di perdute pagine sulle comete « scritte —secondo uno spirito mordace come Ferdinando Galiani — con moltogiudizio ». Nel il carteggio tra i due prelati s’incentrò sul secolaredibattito sulla tarantola ed i tarantolati, che aveva mobilitato, oltreai dotti delle « terre del rimorso » pugliesi, illustri medici napoletani.Il protomedico e presidente dell’Accademia delle Scienze a NapoliNicola Cirillo, pur fautore dell’« esperienza » come fondamento delsapere, aveva fatto parte della « schiera di coloro che an dato fede allavolgare persuasione intorno all’esistenza del vero e genuino taran-tismo ». A Cirillo aveva dedicato la sua opera al riguardo il lecceseNicola Caputi, che, sottoponendo casi a « iteratis, reiteratisqueobservationibus » e riprendendo le « observationes et experimenta »altrui « propria autopsia », « seduliori examine » e « propris oculis »,non si era emancipato dalla « volgare persuasione ». Pronta nel ,l’opera di Caputi rimane inedita per la morte improvvisa di Ciril-lo e la diffidenza verso le « stranezze attribuite dal volgo a cagionisoprannaturali » del suo successore Celestino Galiani e di un altromedico, Francesco Serao, segretario della stessa Accademia delleScienze, al quale Galiani, ottenuto il manoscritto dagli eredi di Cirillo,lo da a leggere (N. Caputi, De tarantulae cit., p. ). Passati anni, edessendosi Caputi persuaso che l’Accademia non aveva intenzionealcuna di pubblicare né di dar credito all’opera, egli la fa stampare aLecce. Ma lì neanche sfugge agli strali dei nuovi accademici. Il Serao,su comando di Galiani, aveva avviato un’ampia corrispondenza con i

. Sul circolo intorno a Celestino Galiani, Bartolomeo Intieri e Nicola Cirillo, cfr. Venturi,Settecento riformatore cit., p. ; su Giuseppe Davanzati, ivi, pp. –. Le citazioni di Davanzatisono tratte da queste pagine di Venturi.

. F. Serao, Della tarantola o sia falangio di Puglia, Napoli , p, . Sull’intenso dibattitosul tarantolismo cfr. la classica opera di E. De Martino La terra del rimorso, Milano , inparticolare le pp. –, –, –

. N. Caputi, De tarantulae anatome et morsu, Lecce , p. .

. Ivi, p. e p. .

. F. Serao, Della tarantola cit., p. .

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dotti pugliesi, compreso lo stesso Caputi, per raccogliere materialiper le sue Lezioni destinate finalmente ad interrompere ogni comuni-cazione fra opinione scientifica ed opinione popolare. Secondo Seraoil tarantolismo, a dispetto degli arzigogoli e delle stesse “observazio-nes ed experimenta” dei medici di provincia, appartiene alla classedelle « moltissime stranezze » che « non son altro, che effetto precisodi fantasia guasta, e di riscaldata immaginazione », particolarmentediffuse in Puglia, dove l’infelicità del clima e la « pesantezza » del cieloprovocano « l’isterica nelle donne, e una specie d’ipocondria negliuomini ».

Attraverso operazioni come questa da lui promossa, Galiani con-tribuiva a diffondere gli umori nuovi anche fra i dotti situati sotto ilpesante cielo pugliese. Una affermazione di fiducia esclusiva nell’u-mana ragione era l’opera lasciata manoscritta dal summenzionatoGiuseppe Davanzati e pubblicata alcuni decenni più tardi dal nipote,quella Dissertazione sopra i vampiri il cui fondamentale obbiettivopolemico era l’ignoranza e la superstizione diffuse in torno a lui,nella « gente idiota ed ignorante [. . . ] dedita molto al vino » come neisuoi « piovani parimenti creduli ed ignoranti ».

In un clima che cominciava ad essere sgombrato dai residui piùgrevi del passato, la nuova scienza si metteva così alla ricerca non piùdei principi primi dei fenomeni ma dei modi di funzionamento deifenomeni stessi: l’appropriazione del newtonianesimo, che il circologalianeo aveva introdotto a Napoli, doveva costituire in Puglia ilmomento dirimente, lo strumento decisivo per strappare la scienzadal dilettantismo e dalla superstizione. Fu Giuseppe Carlucci a pro-fessare per primo in questa provincia la dottrina di Newton tramite ilsuo insegnamento all’università di Altamura a partire dal , collo-candolo sullo sfondo di una rigorosa delimitazione del campo dellascienza rispetto a quello della verità rivelata: « convien seguire i Padriintorno alle cose della Fede e de’ costumi, ove Iddio loro assisteva,affin d’istruirci nelle materie all’eterna salute appartenenti. Non cifuron dati essi per farci Astronomi e Filosofi, ma per indirizzarci soload diritto cammino della cristiana perfezione », dice il Carlucci nelsuo limpido Ragionamento filosofico sul moto della terra, pronto fin dal’ ma strappatogli « a viva forza dalle mani » per essere pubblicato

. Ivi, pp. –.

. F. Serao, Della tarantola cit. p. .

. Ivi, p. .

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anonimo quasi vent’anni dopo. Temi già vecchi nella cultura eu-ropea, ma che fanno fare un salto di qualità al dibattito in provincia;tanto che, per averli affrontati, ma anche per aver voluto rifondare— come molti fra i diffusori in Europa del newtonianesimo — lacertezza dell’esistenza di Dio a partire dalla considerazione dell’ar-monia universale scandita dalle formule matematiche newtoniane, ilCarlucci si attirò la taccia di miscredente. E, naturalmente, il plausodi Celestino Galiani, venuto presto a conoscenza del manoscritto.

Mentre Carlucci si era appropriato della problematica newtonianacon i soli strumenti culturali disponibili in provincia, di derivazionenapoletana è il newtonianesimo del medico e filosofo tarantino Nic-colò Valentini, tornato in patria a formarvi una numerosa scuola ed asostenervi polemiche scientifiche e personali; come anche elaboratonei suoi viaggi di studio a Napoli, Roma, Bologna, Padova e Pisa èl’antinewtonianesimo di Celestino Cominale di Uggiano, allievo diNicola Caputi ed autore, fra l’altro, di una ponderosa quanto sfortuna-ta opera contro la teoria dei colori del fisico inglese. A fare assumerea Newton un certo peso nella cultura provinciale doveva essere unaltro, per così dire, napoletano, della cerchia di Celestino Galiani,Giuseppe Orlandi. Era tornato in Puglia, nella quale era nato, nel quale vescovo di Giovinazzo, dopo aver insegnato a Napoli fisicasperimentale, professando le teorie newtoniane quali erano espo-ste nelle opere di Giacomo ’s Gravesande e Pietro Musschenbroek,anche se in campo matematico aveva preferito il vecchio metodo sin-tetico, ancora molti anni dopo difeso dal Fergola e dalla sua scuola, al

. Napoli . La prima citazione è da p. ; la seconda è tratta dall’introduzione nonpaginata di Emmanuele Mola.

. Cfr. per tutti P. von Musschenbroek, Essai de physique [. . . ] avec une description de nouvellessortes de machines pneumatiques, et un recueil d’experiences [. . . ] traduit du Hollandois par Mr. PierreMassuet, docteur en Médicine, vol. I, Leida , p. XXIV: « j’aurai atteint le but que je m’étoisproposé, si mon Ouvrage peut contribuer à faire connaitre l’existence de Dieu, et les grandesperfections de cet Etre tout–puissant et infini, qui se font remarquer d’une manière si sensibledans tous les Corps de l’Univers, et dans leurs admirables propriétés »

. Il Serena (Di un’antica università di studi nelle Puglie, in “Rassegna pugliese”, , p.) riferisce in proposito quanto dice il Cagnazzi, il quale dà peraltro un giudizio largamentepositivo del suo predecessore sulla cattedra di filosofia, nonostante questi non fosse « mai statoa Napoli ».

. Cfr. la lettera di Celestino Galiani al Cusani, datata Napoli, novembre , pubblicatainsieme ad un’altra di monsignor Felice Paù, vescovo di Tropea, in coda al libro del Carlucci(pagine non numerate).

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metodo analitico. Fratello di Celestino Orlandi, vescovo di Molfetta,Giuseppe Orlandi esercitò un’azione di stimolo e di irradiamento cheavrebbe ben presto portato a risultati notevoli. « Erano nomi ignoti inquei tempi nella Provincia di Bari le matematiche, e le fisiche », dicela biografia dedicatagli dal Volo. Ai due Orlandi, così, « si deve la lucesparsa in quei luoghi; cosiché i non pochi letterati, che in ogni ramoha dato in questi ultimi tempi la stessa Provincia, debbono essereconsiderati come il frutto delle cure di questi due insigni vescovi ».

Ma il ruolo storico del newtonianesimo pugliese non andò al dilà della instaurazione di un costume scientifico, mentre, in quantopratica conoscitiva dotata di un suo statuto e di particolari contenuti,esso non fece in tempo a diffondersi che era già tramontato all’o-rizzonte di questa provincia. L’Orlandi era stato professore di fisicasperimentale e, come dice il Filioli, « degnamente esercitolla perquanto il comportava la condizione de’ tempi »; ma egli era « più ma-tematico che osservatore », mentre l’osservazione andava diventandola parola d’ordine lanciata dal circolo intieriano alle province. In realtà,la scienza omologa allo scopo che Genovesi si proponeva non potevapiù essere quella degli Orlandi; essa doveva essere utile e applicata,fondata sulla manipolazione, da parte dei galantuomini, della naturacosì come essa si presentava nell’ambito della loro proprietà. Ob-biettivo iniziale doveva essere la costruzione di un ideale di culturanel quale la proprietà non fosse più soltanto condizione per liberarsidall’assillo del lavoro e del guadagno, mortali nemici delle litterae, maoggetto stesso dell’impegno intellettuale. La vita materiale non dove-va essere l’elemento bruto da tener lontano da parte dell’intellettualeall’altezza della propria funzione, ma campo d’indagine privilegiato.Ne risultava sconvolta la scala dei valori graduata sul “disinteresse”per il godimento e la ricchezza.

Questo nuovo ideale di uomo “interessato” ed il connesso pro-gramma di ricerca naturalistica cominciarono a farsi largo nel modi-

. Sul dibattito fra sostenitori del metodo sintetico e sostenitori del metodo analiticosono da vedere i numerosi lavori di F. Amodeo (cfr., ad es., quello su Nicolò Pergola in “Attidell’Accademia pontaniana”, ). Orlandi era stato nominato professore all’Università diNapoli per volere del Galiani: F. Nicolini, Monsignor Celestino Galiani. Saggio biografico, in“Archivio storico per le province napoletane”, , p. .

. Bibliografia degli uomini illustri del Regno di Napoli [. . . ], voll., Napoli ss., vol. IX,ad nomen.

. P. Filioli, Giuseppe Maria Giovene Arciprete della cattedrale di Molfetta, in “Annali civili delRegno delle Due Sicilie”, gennaio–aprile , p. .

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ficarsi della tradizionale figura del “filosofo di campagna”, il proprie-tario terriero che, dopo gli studi a Napoli, si ritirava nelle sue terrea ritradurvi la cultura della capitale. All’inizio di questo processo ditrasformazione troviamo negli anni Cinquanta figure come Ferrantede Gemmis, personaggio centrale della Terlizzi operosa della secon-da metà del Settecento, nella quale Giuseppe Maria Galanti avrebbevisto anche i nobili occuparsi di agricoltura. Ferrante era tornatoin patria dopo aver studiato a Napoli, fra gli altri col Genovesi, logi-ca, metafisica, diritto naturale, teologia, ed avervi esercitato, senzasentirvisi molto portato, l’avvocatura; e a Terlizzi, dice nella sua Au-tobiografia, « lontano dalle passioni e dal rumore, e dalli dispetti dellacapitale, nella quiete e fra gli agi domestici mi diedi interamente acoltivare li miei studi favoriti della filosofia, ma per non starmeneinteramente altrui inutile, mi formai una compagnia di scelti giova-ni [. . . ] alli quali insegnai le istituzioni di diritto naturale, logica emetafisica ». Assorbendo gli umori scientifici circolanti in questiambienti, egli inviò anche a Genovesi le sue riflessioni sulla gravitàe su Newton. Il de Gemmis era però insoddisfatto. Il suo maestroaveva cominciato a pubblicare testi di agricoltura ed aveva compilatoil Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, mentre intornoa lui si facevano evidenti i sintomi di una accelerazione della vitaeconomica e sociale; così, continua il Nostro, « per rendermi operosonel mio ritiro, formai il progetto della istituzione di un’accademiache doveva essere intesa principalmente alla introduzione di nuovearti, alla miglioria della agricoltura, nello stesso tempo che doveaavere per oggetto le varie parti del sapere umano ».

Il progetto trovò entusiasta Genovesi, che volle subito esercitarviuna funzione di orientamento, chiedendo a lui ed a tutti i « signoriAccademici » osservazioni minutamente elencate « sul grano bufo,

. G.M. Galanti, Relazione sulla Puglia Peucezia, in Id., Della descrizione geografica e politicadelle Sicilie, a cura di A. Assante e D. Demarco, vol. II, Napoli , p. .

. APdG, Cartella , dattiloscritto tratto da un « cabré » di Ferrante de Gemmis del (cfr. N. de Gemmis, Memorie dei de Gemmis, Bari , p. ) contenente alle pp. –

l’Autobiografia di Ferrante. Il passo citato nel testo alle pp. –.

. Cfr. la lettera inviatagli da Genovesi il febbraio , in A. Genovesi, Lettere familiari.Edizione prima napoletana colla giunta di alcune lettere di diversi uomini illustri al medesimo, a curadi D. Forges Davanzati, tomo primo, Napoli , p. . Franco Venturi ha commentato lelettere a Ferrante di Genovesi alle pp. – del cit. Settecento riformatore. Cfr. anche P. Zambelli,La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli , pp. –.

. F. de Gemmis, Autobiografia cit., p. .

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o negro, che dicesi », non mancando di aggiungere: « È cose di piùanni, ma si può incominciare: si scrivono l’esperienze, e si conserva-no ». Ma la risposta di Ferrante, ancora preso dalle grandi questionidell’uomo e del mondo, è frettolosa ed insoddisfacente, e Genovesideve impartirgli, pur con tutto il tatto del caso, una lezione di probitàscientifica:

Vi ringrazio per la cura, che vi siete presa per l’affare del Bufo. Ma vi prego,che d’ora innanzi, se potete facciate su questa materia qualche osservazione.Certi fatti della natura non si appurano in un giorno, ma ci vuole de’ secoli.Scrivete le vostre osservazioni, perché la memoria è soggetta ad inganno,e scrivetele con precisione. In questo caso, per esempio, si vorrebberonumerare tutt’i granelli, su cui si fa l’osservazione: si vorrebbero notaretutt’i cambiamenti del tempo: così si perviene alla certezza.

Il progetto fallì ben presto a causa dell’« invidia » da cui fu circon-dato, ed il de Gemmis, oltre al discorso inaugurale, ebbe l’occasionedi pronunciarne solo un altro che, invece di riguardare l’agricoltura,verteva « sulle donne celebri, per dirimere una questione ad esse van-taggiosa e per provare che sono dotate di quelle virtù e talenti ugualiagli uomini, la riuscita degli quali può determinarli il grado di educa-zione ». Così, ancora cinque anni dopo, le sue lettere naturalistichenon riuscivano ancora a soddisfare Genovesi:

La ringrazio delle notizie, che mi dà per rispetto all’Agricoltura, sebbeneio avrei voluto un poco più di precisione [. . . ]. Ella potrebbe leggere il, e tomo della coltivazione del Duhamel, libro eccellente. Amereiancora, ch’Ella ne facesse fare un poco di pruova [. . . ]. La precisione dellenotizie, ch’io voleva, per rispetto al seminare nelle vigne di costà, consistenel descrivermi [. . . ]

Segue una elencazione di domande la cui risposta è nella « pruova »,nell’osservazione minuta e paziente.

Sono le cadute e le contraddizioni iniziali di un processo cheavrebbe portato, nel giro di qualche decennio, alla fuoriuscita deldibattito pugliese dall’ambito ristretto della invecchiata « culture géné-

. Lettera del giugno , in A Genovesi, Lettere cit., pp. –.

. Ivi pp. –, lettera del luglio .

. F. de Gemmis, Autobiografia cit., p. .

. A. Genovesi, Lettere cit., pp. –, lettera del febbraio .

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rale de curiosité ». Sempre più ampia, a partire dagli anni Sessanta,fu la partecipazione pugliese al nuovo corso empiristico della cul-tura scientifica a Napoli, con uomini come Nicola Andria, MatteoTondi, Michele Attomunelli, Raffaele Netti, Michele Sarconi, Pie-tro Pulli, Vincenzo Maria Morelli, Ferdinando De Luca, SerafinoGatti, Giovanni Leonardo Maruggi, Domenico Cotugno. Ma ciòche più interessa è il brulicare crescente nella provincia stessa dipersonaggi e gruppi dediti alla pratica scientifica. È in primo luogol’agronomia — nonostante le lamentazioni di Galanti e degli stessiscrittori della materia — a prendere piede, soprattutto dove più inprofondità penetrava lo stimolo del movimento riformatore, che, apartire dall’opuscolo di Intieri sul grano, aveva puntato su di essacome una leva decisiva del progresso del Regno. Nel Giusep-pe Palmieri contribuiva a rifondare l’Accademia degli Speculatoridi Lecce, nella quale vennero aggiunte, « alle discipline filosofiche,matematiche, morali e letterarie [. . . ], quelle riguardanti l’agricoltura,le arti, l’industria ed il commercio ». Un’altra accademia, aventelo scopo di « conoscere i prodotti del territorio e del mar tarantino,sperando che le replicate osservazioni possano un giorno produrrealcun vantaggio fondamentale per le arti e le scienze », fondava

. Alla quale, secondo D. Roche, Science et pouvoirs dans la France du XVIIIe siècle, in“Annales E.S.C.”,, n. , p. ) sarebbero rimaste ancorate le accademie della provinciafrancese.

. Allo scopo di non appesantire ulteriormente le note di questo lavoro, rimando unavolta per tutte, per questi e gli altri personaggi minori successivamente citati senza rimandiin nota, alle compilazioni settecentesche ed ottocentesche di P. Napoli Signorelli, G. OlivierPoli, C. Minieri Riccio, F.A. Soria, N. Morelli, E. De Tipaldo, D. Muller, D. Giusto, ed allestorie di Puglia di Lucarelli e La Sorsa. Ho inoltre tenuto presenti i seguenti volumi: C. Villani,Scrittori ed artisti pugliesi, Trani ; Id., Scrittori ed artisti pugliesi. Nuove addizioni, Napoli ;G. De Ninno, I martiri e i perseguitati politici di Terra di Bari nel , Bari ; N. Vacca, I rei distato salentini del , Trani ; M. Papa, Economia ed economisti di Foggia (–), Foggia; G. Carano Donvito, Economisti di Puglia, Firenze . Di quanti fecero parte dell’Istitutod’Incoraggiamento dà molte notizie Oreste Mastrojanni nella pubblicazione giubilare per ilcentenario dell’istituto (Napoli ). Inutile dire che si tratta di testi da usare con cautela.

. C. Minieri Riccio, Notizia delle accademie istituite nelle provincie napoletane, in “Archiviostorico per le province napoletane”, , p. . Vedi anche sull’argomento G. Gabrieli, Leaccademie in Puglia, in “Iapigia”, , pp. –, e P. Sorrenti, Le accademie in Puglia dal XV alXVIII secolo, Bari .

. Cit. in C. Minieri Riccio, Notizia cit., p. . Per l’impegno economico–sociale delCapecelatro cfr. G. Ungaro Duca di Monteiasi, Prospetto economico politico legale del Regno diNapoli, Napoli , pp. ss. Una scelta del suo epistolario in N. Vacca, Terra d’Otranto fineSettecento inizi Ottocento, Bari .

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a Taranto nel l’arcivescovo della città Giuseppe Capecelatro,autore — come il direttore di questa sua « novella pianta », il padredomenicano Antonio Miniasi — di varie opere di storia naturale estimolatore energico della rinascita economica della zona. Intorno aqueste istituzioni ed a circoli locali si muovevano Presta e De Leo,Gagliardo e Monticelli, e quel Cosimo Moschettini divenuto nel professore di agricoltura in una università istituita a Castro, il quale,intervenendo nel dibattito sulle carestie, « osa francamente asseri-re, e scommettere ottanta contro uno », che se in Terra d’Otranto« l’Agricoltura divenisse il mestiere del gentiluomo e del Filosofo,molto moltissimo frutterebbero le nostre campagne ». SecondoMoschettini « servir dovrebbe di molla a chiunque, perché in fattod’agricoltura mutando sentimenti, si spogliasse degli antichi pregiu-dizi », non tanto « l’amor dell’umanità » ma « vie più il proprio, cioèil desiderio d’un essere più agiato e comodo ». Ed in nome del suoideale di « provvido padre di famiglia », che, « lasciando a’ frati gliatqui e gli ergo perché si logorassero inutilmente il cervello », è utilea sé e agli altri, conduce con fervore missionario la sua battaglia diprogresso nella terra classica dell’oppressione feudale e dell’assentei-smo latifondistico: « Non posso in me frenare lo sdegno, ogni qualvolta per real munificenza chiusa la strada ad un maggior numero dipreti, vedo oltremodo cresciuto quello de’ giureconsulti e medici »,uomini, gli uni, « che nuotano nel grasso senza sapere onde si stil-li », gli altri « fruges consumere nati, li quali anziché essere di qualchepro’, e vantaggio alla società, le sono di peso, e d’oppressione [. . . ].E che! L’agricoltura non potrebb’essere ben degno impiego d’ogniancorché distinto gentiluomo? [. . . ] Deh facciamo uso di quella rettaragione, ch’è dono speciale dell’onnipotenza! Procuriamo, vo’ dire,promuovere la nostra, e la comune felicità: per cui ottenere, qual piùsicuro mezzo dell’agricoltura? ». A quanti, usando la proprietà come

. C. Moschettini, Della brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto. Sua natura cagionieffetti (. . . ), Napoli , prefazione non paginata. Su questi ambienti e sul Presta in particolarecfr. le suggestive pagine – della Nota introduttiva al Palmieri di Franco Venturi, in Illuministiitaliani, tomo V, Riformatori napoletani, Milano–Napoli .

. Moschettini, Della brusca cit., prefazione non paginata.

. Ivi, p. .

. Ivi, prefazione non paginata.

. Alcune valutazioni quantitative in L. Masella, Decime e demani. L’eversione della feudalitàin Terra d’Otranto, in “Quaderni storici”, , n. , pp. –. I brani del Moschettini cheadopero di seguito sono tratti dalla prefazione citata.

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laboratorio naturale per i propri esperimenti, arrideva il successoscientifico, veniva promessa non solo la gloria fra i letterati locali, mal’immediato compenso della maggiore resa della terra, la soddisfa-zione del proprio “interesse”, che ormai non si aveva più esitazionead esibire.

E tutti, su questa linea, sembrano aver assorbito la lezione ge-novesiana sul carattere minuto e paziente della pratica scientifica.Donato de Iatta di Conversano fa, sul suo campo, esperimenti sul« modo di moltiplicare i corbezzoli per via de’ rami » per dieci annidi seguito. A sua volta il Presta scrive la sua opera maggiore « dopoil tirocinio di dieci e più anni alla scuola della osservazione e dellasperienza », e si sente in dovere « di chiedere qualche scusa se nellaprima Parte — dice nella Prefazione — ho sciolto alquanto la brigliaalla erudizione, parlando de’ molti pregi di cui l’olivo va adorno, ecome, e quando si debba credere che qui tra noi capitasse. Conoscobene, che tai ricerche non son del gusto del secolo, perciocché sonoaliene all’Economia olearia; ma siccome il favellar di chi ci è caroe appartienci ella è cosa, che sopramodo diletta, così spero che misi perdonerà ». Dagli uomini a cui il Presta si rivolgeva, il mondodell’erudizione leziosa e fine a sé stessa, che ancora aduggiava tan-ta parte della produzione letteraria meridionale, doveva essere benlontano.

Ugualmente seguaci in modo esclusivo dell’esperienza i cultoridi scienze naturali sparsi per la Capitanata. A San Severo GiovanniRispoli, Antonio Gervasio, maestro di Matteo Tondi, e poi Gaetanode Lucretiis, ad Ariano Giovanni Zerella, a Vico Garganico Miche-langelo Manicone, a Cerignola Teodoro Kiriatti, a Foggia, patriadell’illustre fisico Giovan Battista Fraticelli, Lionardo Tortoletti, ge-nero del de Dominicis ed autore anche lui di memorie sul Tavoliere,oltre che costruttore di una « macchina per gramolare la canape edil lino ». A Foggia in particolare si crea un importante cenacolo

. D. de Iatta, Modo di moltiplicare i corbezzoli per via de’ rami [. . . ], Napoli .

. G. Presta, Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio o si risguardi di primo lamassima possibile perfezione o si risguardi la massima possibile quantità del medesimo, Lecce ,p. .

. Un cenno sul Rispoli e le sue ricerche sull’oppio in F. Ambruosi, Memoria sulla colti-vazione de’ papaveri e sulla maniera di cavarne l’oppio [. . . ] letta nell’adunanza de’ giugno ,in “Atti dell’Istituto d’Incoraggiamento”, vol. cit., p. ; sul Gervasio, V. Di Girolamo, MatteoTondi, in “Rassegna pugliese”,, p. ; sul Fraticelli B. Biagi, Profili di scienziati, Foggia ,pp. –. Del de Lucretiis divenne famosa la Memoria su le locuste [. . . ], Napoli .

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di dotti che accende l’entusiasmo del padre Manicone, provincialedei francescani Osservanti, autore dei cinque volumi de La FisicaAppula: « se la Fisica può, come un altro Ercole, conquistare il mostrodell’errore; se la Fisica ne garantisce da tanti ridevoli pregiudizi; se laFisica infine libera la società da tanti lagrimevoli orrori, come mai sipuò in queste garganiche contrade, anche in questi nostri giorni diluce gridare dai più contro al dilettevole ed utile studio della Fisica? »Ma una prosopopea della fisica stessa rischiara subito l’orizzonte:

se per ora è inintellegibile nei più il mio linguaggio, nol sarà certamentetra poco. Già la luce delle scienze fisico–geometriche–teoretiche–pratichecomincia a scintillare nell’Apulia. Già il Rosati vi fà risuonare lo sconosciutolinguaggio della ragion Fisica; altri la renderanno di uso comune e sicuro;e così le consorelle mie (possa non essere promessa infida!) saranno lette,come leggonsi le vaghe commedie, i teneri Romanzi, ed altre frascherie,che saviezza non inspirano, ma folle gajezza.

A contribuire alla costruzione in Capitanata di questo ideale nuo-vo di classi medie, con una formazione saldamente ancorata allescienze ed alle tecniche, era Giuseppe Rosati. Nato a Foggia nel, vi era tornato nel dopo anni di studio a Napoli, doveaveva conseguito il dottorato in medicina e filosofia ed era risultatoprimo classificato al concorso per la cattedra di fisica nelle scuolemilitari. Non si sarebbe più mosso dalla sua città: vi avrebbe esercitatola professione medica, avrebbe aperto una scuola privata, avrebbescritto opere fisico–matematiche, geografiche, agronomiche, e so-prattutto avrebbe raccolto intorno a sé un notevole gruppo di filosofipratici —- da Francescantonio Gabaldi a Gennaro Valentini, il cui trat-tato di fisica fu pubblicato nel ’, ai geografici Luigi Maria Valentinie Giuseppe Mele, autore, oltre che di un compendio della geografiauniversale di Guttrie, di un libro di trigonometria. Né immune dal-l’atmosfera del circolo rosatiano dové restare, nei suoi anni giovanili,il massimo fra i geografi dell’Ottocento borbonico, Ferdinando DeLuca di Serracapriola.

Ma è soprattutto in Terra di Bari che questo concretismo scienti-fico trovò terreno fertile. Da sostenitore ortodosso del programmaeducativo genovesiano, Galanti riteneva « la storia naturale la facoltà

. M. Manicone, La fisica appula [. . . ], vol. III, Napoli , pp. –.

. Su di lui A. Panerai, Una eminente figura del Settecento pugliese. Giuseppe Rosati agronomoed economista agrario, estratto da “La Capitanata, Rassegna di vita e di studi della provincia diFoggia”, , n.–.

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che nelle province più si dovrebbe coltivare e diffondere », poiché sisarebbero evitate le carestie « se si fossero diretti gli studi ad averestorie esatte e circostanziate delle calamità naturali con gli effetti efenomeni relativi ». Ed il fatto che « in Molfetta ed in Altamura duepreti facessero raccolta di storia naturale, fenomeno raro nelle nostreprovince », lo porta a dire che « non mancavano [. . . ] le persone diqualche coltura in numero, che non aveva veduto nelle altre provin-ce », nonostante si continuasse a mandare da parte dei ricchi i figli adeducarsi in quella « gran fucina di corruzione » della capitale. « Unuomo del vostro gusto, delle vostre cognizioni è un vero tesoro »,scriveva ancora Galanti da Barletta nel maggio del ad uno diquesti due preti naturalisti, Giuseppe Maria Giovene. « Siamo a ba-stanza provveduti di teologi, di casisti, di dottori », mentre, riferiscein un’altra lettera del luglio dello stesso anno, « da per tutto hotrovato una supina ignoranza di cose naturali ».

Dappertutto, fatta eccezione, sostiene Galanti stesso, per Terra diBari. In effetti a Molfetta il Giovene, ad Altamura l’altro prete naturali-sta menzionato da Galanti, Luca De Samuele Cagnazzi, raccoglievanoattorno a sé ed ai loro programmi ed educavano alla ricerca pazientee minuziosa un largo numero di giovani e dotti locali, assumendocon l’andare degli anni un ruolo di guida ed organizzazione dellafetta più consistente del movimento scientifico pugliese. In parti-colare la meteorologia, la scienza dell’osservazione per eccellenza —che, emancipatasi dall’influenza astrologica ed aristotelica, andava inquegli anni organizzandosi in Europa secondo rigorosi programmiempiristici intorno ad istituti quali la Société royale de médecine di Pa-rigi e la Societas meteorologica palatina di Mannheim, costituiva unterreno d’incontro e d’interesse particolarmente adeguato alla piatta-forma ideale, e come vedremo, alle condizioni oggettive delle classidominanti della provincia. Ai « discorsi meteorologico–campestri »

. G.M. Galanti, Relazione sulla Puglia Peucezia cit., pp. –.

. BNB, fondo D’Addosio, /. Cfr. anche la lettera di Galanti al Giovene datata Canosa, settembre , pubblicata da Giuseppe Ceci in “Rassegna pugliese”, , pp. –.

. Pagine importanti sul clima degli ambienti intorno al Giovene ed al Cagnazzi in A.Iatta, Giuseppe Maria Giovene (–), “Rassegna pugliese”,, pp. –, e, soprattutto, in F.Carabellese, In Terra di Bari dal al [. . . ], Trani , pp. VI–XVI.

. D. McKie, Scienza e tecnologia, in Storia del mondo moderno, volume VIII, Le rivoluzionid’America e di Francia –, Milano , pp. –. Sulla meteorologia in Puglia in questoperiodo cfr. A. Iatta, Gli studi meteorologici nel Barese, in “Rassegna pugliese”, , pp. –, eO. Serena, Gli studi meteorologici nel Barese, ivi, pp. –.

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che il Giovene andò pubblicando a partire dal collaboravanovolta a volta Luca ed Ippolito De Samuele Cagnazzi e Gioacchinode Gemmis da Altamura, Emmanuele Mola da Bari, Gennaro e Fi-lippo Carelli da Conversano, Carlo Berarducci da Bisceglie e, nellastessa Molfetta, il fratello del Giovene, il barone Graziano, il suodevoto allievo abate Tripaldi, professore di fisica nel seminario locale,« diligentissimo e nelle cose meteorologiche assai perito », MauroLuigi Rotondo, futuro economista e funzionario borbonico di pri-mo piano, il « dottor chirurgo » Natale de Pinto, i medici AndreaSelvaggi e Carlo Romano, che gli preparavano le tavole nosologichee necrologiche. Giovene si serviva di « due elettrometri atmosfericiuno a paglie più sottili, l’altro a paglie più grosse lavorati con estremaeleganza, ed esattezza, secondo principi e secondo la graduazionedel sig. Volta » e di altre macchine elettroscopiche tutte costrui-te e donategli da Luca De Samuele Cagnazzi, « il quale alle estesecognizioni che possiede, unisce i talenti di lavorare con estrema esat-tezza quasicché ogni genere di macchinuccie fisiche »; e lo stessoCagnazzi, dopo qualche anno, cominciò a pubblicare lui pure le sueosservazioni meteorologiche.

Ma la rete di contatti che i due ecclesiastici intessevano andava aldi là dell’ambito provinciale. Inviavano in maniera più o meno siste-matica le loro osservazioni al Giovene il De Lucretiis da San Severo,lo Zerella da Ariano, il Pacelli da Manduria, il Gagliardi da Taranto, ilMoschettini da Martano: intorno alla meteorologia sembrava rianno-

. G.M. Giovene, Discorso meteorologico–campestre per l’anno , in Id., Raccolta di tutte leopere [. . . ] con note dell’editore Luigi Marinelli Giovene, vol. II, Bari , p. .

. Lo stesso Rotondo avrebbe in seguito ricordato il suo « antico genio per le scienzenaturali »: M.L. Rotondo, Saggio politico sulla popolazione e le pubbliche contribuzioni del Regnodelle Due Sicilie al di qua del Faro, Napoli , p. .

. G.M. Giovene, Discorso meteorologico–campestre sull’anno , in Id., Raccolta cit., volumeII, p. . In realtà, ammesso che ne fosse venuto a conoscenza, è improbabile che AlessandroVolta apprezzasse le cose meteorologiche del Giovene, che doveva considerare uno dei « moltiProfessori e Dilettanti », le cui « osservazioni incomplete e staccate [. . . ] a poco o nulla giovano »:Prospetto di un compito osservatorio meteorologico che rassegna al regio ducal magistrato politicocamerale il Professore di Fisica particolare e sperimentale Alessandro Volta — Da Como li agosto, in Le opere di Alessandro Volta, volume V, Milano , p. .

. G.M. Giovene, Osservazioni elettrico–atmosferiche e barometriche insieme comparate, in Id.,Raccolta cit., II, p. . Di questa sua abilità il Cagnazzi e avrebbe dato prova anche all’accademiadei Georgofili, leggendovi fra l’altro, durante il suo esilio fiorentino, nel , delle Considera-zioni sugli igrometri colla migliorazione di quello di Saussure ed una memoria sulla Migliorazionedelle macchine elettriche (AG, busta , e busta , ).

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darsi il discorso di gran parte dell’intelligenza naturalistica regionale.E poi, fuori della Puglia, Orazio Delfico da Teramo, nipote diletto diMelchiorre e lui pure cultore di cose scientifiche, Giuseppe AntonioNotarianni da Fondi, Pasquale Di Vona da San Giovanni Incarico,il conterraneo ed amico Giuseppe Saverio Poli e l’astronomo del-la marina Giuseppe Cassella da Napoli, al quale ultimo il Gioveneproponeva nel la costituzione di una « società meteorologicadel regno » sostenuta da Melchiorre Delfico e vitale ancora nel ’,nonostante le iniziali perplessità finanziarie dello stesso Cassella.

Accanto alla meteorologia, la mineralogia, intorno alla quale si eracombattuta negli anni ’ la violenta battaglia per la valorizzazione diuna nitriera naturale nei dintorni di Molfetta; ed infine, naturalmen-te, la botanica e l’agronomia, il cui studio ed applicazione avrebberodovuto — dice il Giovene recensendo le Istituzioni teorico–prattiche diagricoltura di Giovanbattista Gagliardo — strappare la coltivazionedei campi ai « mercenarii » e consegnarla ai « ricchi », cosicché questinon si limitassero più « a consumare i prodotti delle campagne », ma,impegnandosi « anche a farli nascere », le riscattassero dalla loro condi-zione « miserabile, e poco fruttuosa ». A questo fine Giovene progettò,ricevendone le lodi di Alberto Fortis e Pietro Napoli Signorelli, una« società agraria » che, però, non riuscì ad andare in porto.

Purtuttavia il prestigio derivatogli dalle sue numerose ed accla-mate memorie agricole raccolse intorno a lui, così come intornoal Cagnazzi, una folla di ricercatori locali. « All’Arcidiacono LucaCagnazzi Professore di Filosofia nella Regia Università di Altamura,e socio di Varie Accademie » invia da Terlizzi il luglio una« memoria agraria » in cui dà conto dei pazienti esperimenti perso-nalmente condotti sul suolo Vitangelo Bisceglia, futuro estensore,probabilmente anche per volere del Cagnazzi, della « statistica » mu-rattiana per Terra di Bari ed autore di numerose importanti opere

. Cfr. le lettere del Giovene al Cassella del maggio e del settembre , inBNB., fondo D’Addosio, /. Il progetto della società meteorologica ivi, /.

. Roma . Quando pubblicò quest’opera, Gagliardo era professore di agricoltura nelseminario di Taranto. La recensione del Giovene, inedita, sta in BNB, fondo D’Addosio, /.

. La lettera del Fortis è in BNB, fondo D’Addosio, /, quella del Napoli Signorelli ivi, /.Vi si parla di un « memoriale » sulla fondazione della « società agraria », che non ho rinvenuto frale carte Giovene della BNB.

. Cfr. V. Ricchioni, La « Statistica » del Regno di Napoli del . Relazioni sulla Puglia, Trani,Vecchi, . Lo scritto del Bisceglia è pubblicato in estratto s.a.i. dal n. del “Giornaleletterario di Napoli”, pp. –.

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di argomento agrario e botanico; e cultore di agronomia si sarebbe ri-velato un altro esponente del circolo terlizzese dei de Gemmis, FeliceLioy, il cognato di Ferrante perseguitato come framassone. Al Gio-vene il suo conterraneo Ciro Saverio Minervini, che il giugno da Napoli lo aveva esortato a non stancarsi « d’andare girando pertrovare le cose naturali » poiché « il tempo che impiegava per si fattericerche era ottimamente speso », raccomandava ancora nel diproseguire nella sua opera di educazione alla cultura agronomica dialtri giovani molfettese, come il già ricordato Mauro Luigi Rotondo:

Giacché avete incominciato a far fare onore al nostro d. Mauro Luigi, pro-seguite nell’impegno d’istruire questo bravo giovane, affinché riesca unvostro degno allievo, e di lustro e decoro della nostra povera patria [. . . ].Lo stesso vi raccomando e vi prego pel l’altro nostro d. Vitangelo Salve-mini. Piacemi assaissimo per più riguardi, che nella vegnente primavera,piacendo al Signore, insegnerete all’uno, ed all’altro la botanica. Vi pregoancora istruirli nella chimica moderna; perché ben sapete, quanto essa sianecessaria ad una ben intesa agricoltura.

E concludeva con una bibliografia in materia. A « Don Ciro » fa-ceva ancora riferimento il canonico Oronzio de’ Bernardi, inviandoal Giovene da Terlizzi una lettera sulla dibattuta questione della con-servazione dei vini. Ed anche in questo campo Giovene intrecciavarapporti di collaborazione ben più ampi della cerchia cittadina: con ivari Moschettini, Gagliardo e compagni, naturalmente, ma anche conpersonaggi quali monsignor Francesco Acquaviva dei conti di Conversa-no, mecenate dei naturalisti pugliesi ben noto anche al Presta, il qualegli inviava notizie locali ed i primi semi di cotone per la sua memoriain proposito. Né mancava l’agronomo che, sfidando la « forza di pre-

. Vedi, del Lioy, le tre memorie stampate insieme nel a Palermo presso la StamperiaReale, Sopra gli usi dell’alga marina nell’agricoltura e nelle arti; Per la manipolazione de’ vini; Perl’economia della farina che svolazza da’ molini, e da’ vagli a mano nel cernerla dalla crusca.

. La seconda lettera è datata Napoli, novembre ; entrambe in BNB, fondo D’Addosio,/.

. Ivi, /, lettera del maggio . Fra gli inediti di Minervini ci sarebbe una « Memoriadegli scrittori della storia naturale del Regno di Napoli » (cfr. F. Samarelli, I rapporti intellettuali fral’abate Ciro Minervini e l’arciprete G.M. Giovene, in BCM, mss. ). Su di lui si veda G. De Gennaro,L’abate Ciro Saverio Minervini economista e storiografo pugliese del secolo XVIII, Napoli .

. G.M. Giovene, Descrizione storica della cocciniglia dell’ulivo, in ID., Raccolta di tutte le operecit., I, p. .

. G.M. Giovene, Istruzione su la coltura del cotone a color di camoscio mandata alla societàpatriottica di Milano, ivi, p. .

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giudizio » che circondava di venerazione il Giovene, lo considera unvenditore di chiacchiere scientifiche, come quell’abate Corrado Pansini,lui pure di Molfetta, di cui solo si ricordano due memorie responsive adaltrettante dell’illustre arciprete: figure che si muovono lungo la tramacontorta e a me ora sconosciuta dei conflitti di paese.

.. Generi vecchi, coscienze nuove

L’emergere del nuovo tipo di operatore culturale metteva in movi-mento anche le forme tradizionali di cultura, le quali cominciava-no a risentire delle mutate caratteristiche del pubblico dei fruitori,assorbivano curiosità nuove, si avvicinavano ai centri direzionali.

Come fenomeno di rinnovamento e di sprovincializzazione vaad esempio valutato il fatto che l’editoria locale, presente nella primametà del secolo fra l’altro Trani e a Lecce, veda sempre più emargi-nata la propria funzione nella cultura pugliese rispetto agli editorinapoletani ed alle pubblicazioni periodiche scientifico–letterarie diNapoli e di altre città italiane. Certo il fatto che Basilio Alvani diSpinazzola pubblichi la sua ode sulle Delizie e l’orizzonte di Bandusiasul « Giornale enciclopedico d’Italia » non misura un progresso diispirazione e felicità espressiva nei confronti — citando sempre acaso fra la produzione di qualche decennio anteriore — delle canzo-ni di Gennaro Pelosi In lode dell’eccellentiss., e reverendiss. Arcivescovodella Cattedrale di Bari D. Gennaro Guevara, o dei versi contenuti nellaCorona intrecciata e composta de’ dodici frutti dello Spirito Santo con cuicoronata si vede l’anima dell’Eccellent. e reverendiss. Principe D. GennaroAdelelmo Pignatelli. Purtuttavia, emergendo fra gli Alvani ed i Fer-rara di Spinazzola, i Fucilli di Barletta, i Bassi di Montesantangeloe l’innumerevole sonetteria in lingua italiana e latina organizzata omeno in colonie arcadiche, Ignazio Ciaia saprà riempire i ritmi can-tabili settecenteschi di una robusta coscienza morale. Ed ancora nelsenso di un ricongiungimento fra letteratura e vita, produzione intel-lettuale e produzione materiale, andranno gli scritti di altri letteratipugliesi vittime della reazione nel ’: Ignazio Falconieri, Francesco

. C. Pansini, Esame critico della memoria del sig. canonico Giovene sulla rogna degli ulivi [. . . ],Napoli , p. XXXIX.

. , n. , p. .

. Entrambe queste raccolte sono stampate senza indicazioni.

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Antonio Pepe, Francesco Antonio Astore. Ad un corrispondentedella sua città natale, Casarano nei pressi di Lecce, l’Astore scrive daNapoli che non vorrebbe « che la Poesia parlasse mai e poi mai delleLicori e delle Pilli », dato che « dev’essere e può essere più bella epiù utile causa occasionale della Poesia e più degno oggetto di essal’Uomo, la Natura, il Cielo, l’universo, l’Onnipotente Autor di esso,le Scienze tutte, le Arti. Quel bello che non è utile; quel poema chesolo piace, sorprende, alletta senza istruire, senza emendare, senzamigliorare, o è inutile o è perdita di tempo o è inganno della fantasiao un oppiato della ragione o una elettricità delle passioni ». Questomodo di sentire è certamente più adeguato al nuovo tipo di letteratoraffigurato da quel Giambattista Labini da Bitonto che, scrivendo adun altro dotto di Casarano, intraprende a parlargli del Parnasso Italiasolo dopo avergli detto delle vendemmie che ha fatto incominciarela mattina di quel ottobre , le quali gli « riescono di maggioreinquietudine per esser esse in tale abbondanza che [. . . ] il vino mostosi vende al vil prezzo di carlini cinque la salma, senza rattrovarsicompratori, a’ motivo che mancano le botti »; ed egli, che ha una« cantina sufficientissima » a casa sua, ha « dovuto affittarne un’altranelle vicinanze » senza sapere se alla fine sarebbero bastate.

In campo musicale l’affermarsi di alcune notevoli personalità dicompositore va di pari passo col diffondersi, sin nel cuore della provin-cia, di un gusto meno legato alla sacra rappresentazione, alla celebra-zione corale, da parte dell’intera comunità paesana, dei suoi protettori.

. Copiosa la letteratura, prevalentemente agiografica, su questi letterati. Segnaliamocomunque M. Semeraro Hermann, Ignazio Ciaia. Impegno civile e opera poetica, Fasano ;per l’Astore cfr. la voce di Nino Cortese sul Dizionario biografico degli Italiani, volume IV, Roma, pp. –; per il Falconieri cfr. F. Zerella, Ignazio Falconieri educatore della gioventù, in“Rinascenza salentina”, , pp. –. Per un sguardo più generale cfr. R. Sirri, La cultura aNapoli nel Settecento, in Storia di Napoli, vol. VIII, Napoli , pp. –.

. La lettera, riportata in appendice a G. Rizzo, Settecento inedito fra Salento e Napoli, Ravenna, pp. –, fa parte di un notevole epistolario settecentesco dal cui studio il Rizzo ricava unquadro della circolazione culturale in Terra d’Otranto vivace, anche se a mio avviso in qualchetratto eccessivamente ottimistico. Motivi simili a quelli espressi dall’Astore sono presenti anchenella prefazione alle infelici Novelle morali e galanti del Pepe (Napoli , in particolare p. ).

. Rizzo, Settecento inedito cit., pp. –.

. La quale è la forma musicale che domina in maniera pressoché esclusiva fino alla metàdel secolo. Qualche esempio a stampa: L’inferno in catena. Oratorio sagro dell’Assunzione di Mariadedicato al merito impareggiabile dell’Ill.mo Monsig. D. Michele Orsi degnissimo Arciprete, ed Ordinariodella città d’Altamura [. . . ] Composta da R.D. Antonio Notarpretis di detta città e posta in musica dalsignor Nicolò Calatrana di Bari Mastro di Cappella in detta città d’Altamura [. . . ], Trani ; Il figlio

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L’innovazione è rappresentata emblematicamente dai gentiluomini edalle dame di Terlizzi che, come racconta il Fortis, eseguivano lorostessi, « indipendentemente dagl’istrioni », opere in musica nel teatrodella « colta, nobile, cordiale famiglia » Paù, o dalle « giovani dame col-tivatrici della musica » che solevano cantare « qualche duetto, terzettood aria sotto le finestre della casa in cui abitava [. . . ] il forestiere giuntodi fresco ».

Una più ampia esemplificazione di questo mutamento sono ingrado di fornirla per il campo degli studi storici e giuridici. Nelleprovince pugliesi come altrove il giannonismo, tornato in primopiano nel Regno dopo il ’, anche grazie all’edizione di Giannoneprocurata da Leonardo Panzini di Mola, agiva in due direzioni. Perun verso esso si legava alla lezione muratoriana — divenuta soloin questi anni elemento costitutivo della cultura del Mezzogiornocontinentale, mentre altrove si affievoliva la sua efficacia — nellariscoperta del Medio Evo locale e nella mitologia di uno Stato svevoquale vera e funzionale monarchia illuminata. Forges–Davanzati ave-va presentato nei suoi anni napoletani all’Accademia delle Scienze lasua Dissertazione sulla seconda moglie del Re Manfredi e su loro figlioli,definita suggestivamente da Mario Rosa un « ripensamento in sedestorica della fine di un’età, quasi simbolico correre incontro alla finedi quell’età di speranze e di fermenti suscitati dal movimento rifor-matore »; ma la sua erudizione si materiava, più che di disincantatarassegnazione, di robusti spiriti civili che andarono a cozzare controi nuovi equilibri interni all’Accademia, ormai diversi da quelli deitempi di Celestino Galiani: il prelato di Palo vide esclusa l’operettadagli Atti e dovette pubblicarsela da sé sei anni dopo. Gli stessi

prodigo ravveduto. Componimento sacro [. . . ] da rappresentarsi nella città di Corato alli maggio .Musica del signor Francesco Dolé, Trani ; La morte d’Abele del signor abbate Pietro Metastasioromano da rappresentarsi in iscena in Corato, in questo mese di maggio del corrente anno : in occasionedella solenne festività del glorioso S. Cataldo padrone di detta città [. . . ] Musica del signor Francesco Dolé,Trani s.d. Sui nuovi compositori cfr. il repertorio di P. Sorrenti I musicisti di Puglia, Bari .

. Lettera dell’Abate Alberto Fortis alla signora Elisabetta Carminer Turra, contenente notizie dellacittà di Terlizzi nella provincia di Bari, datata Terlizzi, aprile , in Illuministi italiani, tomoVII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, a cura di G.Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Milano–Napoli , pp. ss.

. [L. Panzini], Vita di Pietro Giannone, giureconsulto ed avvocato napoletano; con la giunta dialcune opere postume finora inedite del medesimo autore, Napoli .

. M. Rosa, Riformatori e ribelli nel ’ religioso italiano, Bari , p. .

. Nel presso Raimondi, Napoli. Sulle tesi di Forges Davanzati ci fu una polemica

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vivaci umori Forges Davanzati portò con sé in Puglia, dove Kiriatti ePapadia illustravano la storia locale, il dibattito sul Tavoliere riportavasistematicamente alla valutazione del periodo aragonese duranteil quale era sorta l’istituzione, Ferrante de Gemmis redigeva delleTavole cronologiche di storia universale pubblicate anonime a Napolinel , il barese Alessandro Maria Kalefati, vescovo di Oria dal al , vi proponeva, in polemica con il dilettantismo locale, unarigorosa ricostruzione del passato. In collaborazione con un suoamico di Trani, il canonico Tommaso Perla, che aveva intrapresolo studio del Medio Evo prima del suo ritorno in patria, ForgesDavanzati scartabellava gli archivi della chiesa arcivescovile della suacittà e comunicava i risultati dell’indagine all’amico Andrea Serrao,allora vescovo di Potenza. Due diplomi greci, rispettivamente del X edell’XI secolo, gli ricordano come « fosse diritto dei nostri sovrani as-segnare ai vescovi le diocesi su cui dovevano esercitare il loro poterespirituale, ed estenderle o restringerle secondo i bisogni e la maggio-re utilità del popolo », e che in quel tempo « i preti erano giudicati,come tutti gli altri cittadini, da giudici secolari »; e la constatazioneche la proibizione del matrimonio stabilita per i preti da Nicola II alconcilio di Melfi altro non aveva fatto che sostituire le concubine allespose legittime, gli fa affermare, con gran plauso del Serrao, che « lanatura è superiore a tutte le leggi umane ». Ancora, un testamento del

tardo–ottocentesca, per la quale cfr. C. Del Giudice, La legittimità dei figli di Manfredi, e la difesadell’anonimo di Trani e di Forges Davanzati, Napoli , recensito da O.M. in “Archivio storicoper le province napoletane”, , pp. –, e G. Beltrani, Forges Davanzati, i mss. di VincenzoManfredi e Filippo Testa, Trani . Sulla mancata pubblicazione dell’opera cfr. G. Beltrani,Domenico Forges Davanzati. La sua vita e le sue opere, Napoli .

. T. Kiriatti, Memorie istoriche di Cerignola, Napoli ; del Papadia vedi, ad esempio,Memorie storiche della città di Galatina nella Iapigia, Napoli ; sul Kalefati ad Oria cfr. Rizzo,Settecento inedito cit., pp. –. Quanto al Tavoliere, quasi tutti gli interventi sul problemane rifacevano la storia. Da aggiungere, a quelli noti e ripetutamente citati, il manoscritto diGiuseppe Rosati Introduzione alla storia della Puglia per la intelligenza del sistema doganale, inAPdG, fondo Riforme tanucciane, cartella D.

. Cfr. la lettera di Forges Davanzati al Perla datata Napoli agosto , pubblicata dalBeltrani in Domenico Forges Davanzati cit., p. , nota.

. D. Forges Davanzati, Giovanni Andrea Serrao Vescovo di Potenza e la lotta dello Statocontro la Chiesa in Napoli nella seconda metà del Settecento, Bari,, appendice, p. , lettera delDavanzati al Serrao datata Trani, maggio .

. Ivi, p. , lettera del Davanzati al Serrao datata giugno , sottolineatura dell’autore.Il Serrao esprime il suo accordo nella lettera datata Potenza, giugno , pubblicata allepp.–.

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, « con cui un certo Ubaldo lascia un vigneto incolto a Dolcetto,monaco benedettino, perché lo dissodi » gli risuscita nella mente l’im-magine odiosa del clero nullafacente: « a quell’epoca gli ecclesiasticisi rendevano utili alla società lavorando la terra; oggi non hannopiù in mano né la penna per copiare manoscritti, né la zappa perlavorare la terra ». Questo recupero del passato ai fini della battagliecivili del presente faceva volgere alla storia anche chi se ne professavaacerrimo nemico: « Le carte vecchie ed i fatti antichi fanno sempre ilsostegno del dispotismo e della servitù, i quali non possono esseresostenuti dalla ragione », scriveva Melchiorre Delfico al Giovene ilsabato santo del ; « ma quando per fortuna si possono far valerein favore della libertà, ancorché la loro forza non sia molta, pure nonbisogna disprezzarne l’azione sussidiaria ».

Alla medievistica si collegava per molti versi l’indagine archeologi-ca, dominata dalla personalità di Emmanuele Mola. Vi si dedicaronoil Kalefati ad Oria, Vitangelo Bisceglia a Terlizzi, impegnato in unacontesa sull’antichità della sua città che aveva già attirato l’ironia delFortis, Luca de Samuele Cagnazzi ad Altamura, il Giovene, spintovidall’esempio dei suoi conterranei residenti a Napoli Giuseppe Save-rio Poli e Ciro Saverio Minervini; ed ancora, con grande entusiasmo,il Forges Davanzati, coadiuvato dal Perla, dal Serrao e dal cantoredella chiesa di Canosa Nicola Volturale. Qui pure il recupero deldato filologico ed archeologico serve alla critica ed alla riedificazionedel presente, la produzione intellettuale stimola alla produzione ma-teriale: « A Canosa vi era anche al tempo di Nerone una fabbrica diporpora, di cui questo detestabile mostro di natura faceva vestire isuoi domestici. Oggi, nella stessa città, si trovano appena i mestieri diprima necessità. Come sono cambiati i tempi! Quali tristi riflessioni

. Forges Davanzati, Giovanni Andrea Serrao cit., lettera del giugno citata nella notaprecedente.

. BNB, fondo D’Addosio, /. Più ampiamente si esprime in proposito il Delfico neisuoi Pensieri sulla storia e su la incertezza ed inutilità della medesima, Forlì .

. Numerosi gli scritti editi del Mola. Una raccolta di sue lettere ed inediti in BNN, sezioneManoscritti, XV–F– e XV–F–.

. Fortis, Lettera cit., pp. –. Del Bisceglia cfr. la Lettera [. . . ] a Michele Torcia [. . . ] sullacittà di Terlizzi, datata luglio , pubblicata come estratto dal “Giornale letterario di Napoli”,n. , insieme ad una lettera del primicerio Tarsia di Conversano.

. Forges Davanzati, Giovanni Andrea Serrao cit., p. , lettera datata Canosa, novembre.

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si presentano in questo momento al mio spirito sulla decadenza! ».Tristezza tutt’altro che retorica e consolatoria, dal momento che,come sente dire il Serrao, lo stesso Davanzati aveva « incoraggiato icoloni di Canosa a piantare giardini e a coltivare gli olivi fornendoloro i mezzi », tanto che il paese non aveva « più bisogno, come untempo, di ricorrere ai vicini per procacciarsi olio e frutta »; in piùaveva « non poco contribuito a ottenere dal magistrato gli ordininecessarii per ripartire le terre comunali [. . . ] fra tutti gli abitanti »,col risultato di vederle piantate a cotone e rendere . scudi diutile.

La stessa recuperata circolarità fra cultura ed economia, ragionee riforme, è presente nell’altra direzione lungo la quale agisce il gian-nonismo: il giurisdizionalismo. Una funzione particolare svolseroal riguardo Celestino Galiani prima ed il ministro Carlo De Marcopoi, i quali accoglievano a Napoli i loro corregionali impegnati neglistudi universitari, trasmettendo loro un anticurialismo che questiavrebbero portato con sé in province già predisposte ad assorbirloa causa della presenza di prelati giansenisteggianti come Capecela-tro a Taranto, Ortiz a Mottola, Forges Davanzati stesso a Canosa,e di altri ancora che ebbero il coraggio di sfidare Roma istituendoquest’ultimo vescovo dietro invito del re.

Ancora un pugliese a Napoli, Ciro Saverio Minervini, è autore diopere esemplari in proposito, che meritarono alte lodi da Genovesi easpre rampogne da Padre Mamachi. Ma della « coorte antivaticana »facevano parte anche elementi rimasti in provincia, che accoglievano,con gli strumenti concettuali dell’anticurialismo napoletano, le spintepiù immediate provenienti dalla borghesia locale, le richieste di priva-tizzazione delle terre ecclesiastiche e della distruzione dei luoghi pii:Onofrio Piani di Torremaggiore, ad esempio, professore di dirittonell’Università di Castro in Terra d’Otranto fino al ’ e poi esuledopo il , o Aniello de Feo di Trani, autore di una notevole Alle-gazione contra le pretensioni della Corte Romana su’l Regno delle Sicilie,

. Ibidem.

. Ivi, p. , lettera del Serrao datata Potenza, giugno .

. Nicolini, Monsignor Celestino Galani cit.; A. Panareo, Il ministro Carlo De Marco e lapolitica ecclesiastica napoletana dal al , in “Studi salentini”, , pp. ss. Qualchenotizia sugli studiosi di diritto locali in G. De Napoli, Giuristi altamurani, estratto da “Il Forodelle Puglie”, a. XXI, n. –, s.a.i.

. La vicenda è raccontata dal Davanzati stesso: Id., Giovanni Andrea Serrao cit., p. ss.

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o Vitangelo Bisceglia, che difese, con una memoria diligentementedocumentata tramite le carte dell’Archivio capitolare di Altamura, ilregio patronato della chiesa della città contro le pretese del vescovodi Gravina.

L’utilizzazione della scienza giuridica non più solo in funzionedella rissa cronica all’interno delle classi dominanti locali, riemersacon violenza proprio in questi decenni sulla questione del controllodelle università, ma anche della battaglia di fasce compatte di esse,compresi a volte esponenti della stessa feudalità, per conseguire l’ob-biettivo unificante della distruzione delle manimorte è, ancora unavolta, spia dei mutamenti interni delle classi dominanti stesse, dicerti capovolgimenti di alleanze, del dislocarsi della cultura in un piùdiretto rapporto con le istanze sociali e politiche. E del resto, in pole-mica asperrima contro la cultura giuridica tradizionale, non mancavaqualche “galantuomo” che facesse eco, anche se con scarsi riscontrisoprattutto in Terra di Bari, ai grandi scrittori di cose economichedi Terra d’Otranto, Palmieri e Briganti, ed al foggiano DomenicoMaria Cimaglia, che aveva per la prima volta considerato il Tavolieredi Puglia come un residuo della barbarie feudale da recidere al piùpresto. Così come abbiamo visto per il Moschettini, al proprietariodi Gravina Michelangelo Calderoni sembra impellente sottrarre ladirezione della cosa pubblica « agli uomini di toga, che defaticati nellaprofonda lettura dei polverosi libri di Baldo, Bartolo, Giasone, Carp-zovio, Paso e Farinaceo, hanno creduto spettare alla loro saviezza,anche il giudicare sull’Economia generale dello Stato, scienza questatutta separata da quella che hanno essi appreso con tanto profittodai summentovati scrittori ». Il potere agli economisti, invece cheai giuristi, e le strade del progresso si sarebbero aperte di fronteal popolo meridionale. È una inversione dei termini del problemapropria di una adesione un po’ ingenua ed entusiasta a certi tratti

. Su Onofrio Piani, fratello di Nicola, la cui fine è raccontata dal Cuoco nel capitolo XLIXdel Saggio storico, e di Giambattista, lui pure morto nei fatti del ’ a Torremaggiore, cfr. G.Beltrani, Un mss. inedito di Onofrio Fiani da Torremaggiore sui fatti del novantanove in Napoli, in“Archivio storico per le province napoletane”, , pp. –. Per la memoria del Biscegliacfr. Carabellese, In Terra di Bari cit., p. XIII.

. D. M. Cimaglia, Ragionamento sull’economia che la Regia Dogana di Foggia usa co’ possessoriarmentari e con gli agricoltori [. . . ], Napoli , in particolare p. . Su questo opuscolo cfr. R.Colapietra, La Dogana di Foggia [. . . ], Bari–Santo Spirito , p. ss.

. Il brano è a p. di una memoria del pubblicata in P. Calderoni Martini, Cennobiografico su Michelangelo Calderoni, s.a.i. (ma ), pp. –.

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della mentalità illuminista; ma è, nello stesso tempo, “errore” pregnodi significati e di riferimenti concreti.

Al centro di questo movimento, destinata ad assorbirne gli umoried a rilanciarli nella cerchia numerosa di quanti la frequentavano, èl’università di Altamura. Fondata nel sotto l’impulso di Marcel-lo Papiniano Cusani, essa raccolse intorno a sé alcune fra le persona-lità più notevoli della provincia, dal Caducei al Manfredi, da AgazioAngelastri al Continisio, dal Bisceglia a Luca De Samuele Cagnazzi aGioacchino de Gemmis, che in qualità di arciprete della cattedrale diAltamura ne fu « prefetto » dal al . Fu quest’ultimo a volereche vi si insegnasse, dopo che la riforma del lo aveva introdottonell’università di Napoli quel « diritto naturale e delle genti » il cuisolo nome, ci riferisce il Forges Davanzati, spaventava il clero napole-tano « ignorante ed ipocrita » e che invece, secondo una relazionedel del de Gemmis, « insegna i doveri dell’uomo e del cittadino,e [. . . ] sembra molto necessario per condurre la gioventù agli studidelle Leggi Civili, la cui macchina è tutt’appoggiata alla ragion dinatura e delle genti ».

Nella stessa relazione il de Gemmis affermava con chiarezza l’i-deale operativo di cultura che animava lui ed i suoi collaboratori:« nella giusta considerazione, che lo scopo di tutte le nostre specola-zioni dee essere la riforma de’ costumi, è di bene che il Professore delDogma non faccia andare scompagnata la scienza dall’Etica Cristiana,ossia la morale »; ed ancora: occorre che il professore di medicina

. Non è di questo parere Giuseppe Maria Galanti: « In Altamura vi è una specie diUniversità di studi dove il concorso degli studenti non corrisponde all’abilità de’ professori. Sicontinua dalle famiglie ricche a spedire li figliuoli per educarsi in Napoli donde ritorna in ognianno un gran numero di eleganti » (Relazione sulla Puglia Peucezia cit., p. ). Ma cfr., contra,l’unico studio di qualche peso sulla questione: O. Serena, Di un’antica Università di studi dellePuglie, in “Rassegna pugliese”, , pp. –, –, –, –, –, poi rifuso in opuscolo(Altamura ; qui cito dalla “Rassegna pugliese”). Vedi anche T. Fiore, Un’antica universitàdi studi in Altamura, in “Altamura. Bollettino dell’archivio–biblioteca–museo civico”, , n., pp. –. Conferma l’opinione del Serena una relazione del del sottintendente diAltamura all’intendente di Terra di Bari, secondo la quale prima del ’–’, « si per la celebritàdei Professori, che per li varj Privilegj di cui vennero le dette scuole dalla munificenza delSovrano arricchite, celebre si rese il nome della medesima per l’intiero Regno, e ripiena si videla città di stranieri studenti » (in ASB, fondo Opere pie, fascio , fascicolo , cc. r.–v.).

. M. Schipa, Il secolo decimottavo, in AA.VV., Storia dell’università di Napoli, Napoli ,p. ss.

. Giovanni Andrea Serrao cit., p. .

. Serena, Di un’antica università cit., p. .

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insegni anche « i princìpi della Chimica e della Botanica, anche per lorapporto che ha questa scienza coll’Agricoltura, la quale per difettodi tali lumi ritrovasi in questa città, come in tutta la Provincia, nel piùalto grado di decadenza e di squallore ». Lamentazioni ed esorta-zioni ad un dover essere troppo frequenti per non essere espressionedi tensioni e movimenti appartenenti già alla realtà, per non esserecollocabili dentro il fermento intellettuale che ho cercato di delinea-re. D’altronde esse richiamano con forza il problema che ponevoall’inizio di questo scritto, cioè quello di entrare più nel merito diquesta fioritura di cultura diffusa e rimisurarla con i contesti. Lapresenza nella società civile di questo angolo del Mezzogiorno diaspetti importanti del rinnovamento culturale dell’Europa settecente-sca è segno indubitabile di una messa in movimento massiccia dellasocietà nel suo complesso, ma può dirci assai poco, in quanto tale,sulla direzione e la qualità di questo movimento. Che è poi, quelloche qui più interessa.

.. Empirismo, solidarismo, speculazione: la sconfitta di Geno-vesi

In realtà, col passare degli anni, il dibattito nel suo complesso siinfoltiva ma nello stesso tempo andava assumendo caratteristicheparticolari, in parallelo con l’allargarsi — in Terra di Bari soprattutto,ma, come abbiamo visto, anche altrove — del gruppo intorno a Gio-vene e Cagnazzi. Un primo dato a questo proposito è che l’interessemontante fra i “galantuomini” locali per la pratica naturalistica siaccompagnava spesso ad un impegno letterario antiarcadico, all’in-dagine storica ed archeologica, alla battaglia giurisdizionalista, malasciava il dibattito economico nella sostanza confinato al grupporistretto di “grandi” intellettuali a cui viene solitamente imputatala partecipazione di questa provincia alla cultura riformatrice, e cheaveva i suoi punti di riferimento, più che nella provincia stessa, nellacapitale. Il nodo della strategia genovesiana di costruzione di una basedi massa della battaglia riformatrice, ossia la sostituzione alla tradizio-nale cultura giuridica della nuova cultura economica come forma dicoscienza prevalente dei protagonisti della vita sociale, non riuscivaad essere sciolto neanche percorrendo la via tortuosa dell’agronomia.

. Ivi, p. .

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Un secondo dato di rilievo è la particolare torsione secondo la qualel’impulso genovesiano allo studio della natura venne accolto e manmano sviluppato dai gruppi egemonici di questo ambiente culturale.

È un punto su cui occorre soffermarsi. Essendo questa copiosaproduzione naturalistica quasi sempre muta sul piano della riflessionesugli strumenti conoscitivi adoperati, possiamo dedicare un qualcheapprofondimento alla questione ricorrendo ad uno scienziato, percosi dire, istituzionalizzato, e però fortemente rappresentativo degliambienti della sua provincia di origine, rispetto ai quali svolse unadecisiva funzione di orientamento e di stimolo: Giuseppe SaverioPoli. Si guardi in particolare al modo in cui questi volle marcare ilmutamento di metodi e di fini della sua pratica scientifica rispetto aquella di Giuseppe Orlandi nel momento in cui, dopo aver acquisitoun’ampia esperienza internazionale, saliva sulla cattedra napoletanache era stata dell’Orlandi stesso. Due a suo avviso sono le cause per lequali la fisica « scorgesi [. . . ] in parecchi luoghi d’Italia non solamentepoco coltivata, ma eziandio avvilita ». La prima sta « nel voler dare a’nuovi ritrovati un valore, ed una estensione assai maggiore di quella,che la loro indole dimostra, e che da’ fenomeni si rileva ». Errore dipresunzione che accomuna coloro « nel cui capo altro non vi è senon [. . . ] attrazione, e repulsione, in forza delle quali la natura opera,e si regge », a Cartesio e seguaci, che « altro non vi scorgono salvochévortici, e materia sottile », ai leibniziani e wolfiani, per i quali « nonci è altro che monadi dotate di forza attiva, ed armonia prestabilita ».Non si trattava dunque di scegliere fra l’una o l’altra teoria:

Ne abbiamo udito pur troppo di questi speciosi deliri, che a guisa di tor-reggianti edifizj si sono tosto fabbricati sulle rovine di altri già distrutti, eche riducendo quasi a moda il contradire quest’oggi quel che ieri si era giàstabilito, hanno per conseguenza prodotta una tal confusione, che i giovaniallievi non potendo scorgere qual fosse fra tanti il vero sentimento, si sonfatti a dispregiare una scienza così eccellente, ed a riguardarla come unaspezie di trastullo dell’umano intelletto.

In questo quadro il compito che si imponeva agli studiosi eraquello di rifondare la fisica sulla base di un rigoroso empirismo:

I soli esperimenti impertanto, e le sole osservazioni riguardar si debbonouniversalmente come il gran libro di poter accrescere, e perfezionare le

. Sul quale cfr. M. Tridente, Il molfettese G.S. Poli, Bari .

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nostre cognizioni; conciossiaché un serio, e diligente esame degli effetti ciguida di mano in mano alla scoperta delle cagioni, e ce le mostra sì chiare,e sì manifeste, che l’intelletto vien forzato a riconoscerle per tali.

E, accanto all’attenzione ai fatti, l’attenzione al mondo della quo-tidianità, dell’esperienza comune degli uomini dei loro problemiimmediati. La seconda ragione del discredito delle scienze fisiche,infatti, consisteva nel fatto che « parecchi Precettori [. . . ] par che adaltro non si sieno occupati, se non [. . . ] a rinvangare le questioni lepiù astratte, e le più generali [. . . ] le quali aver non possono alcun usonella Repubblica, e che per conseguenza poco o nulla gioverebberoquand’anche si sapessero ».

Dunque una decisa presa di posizione in favore della tradizionebaconiana della scienza europea, che, fusasi nella pratica scientificadi Newton con quella fisico–matematica, era tornata a separarsi net-tamente; e la cosa non può sorprendere in chi, come il Poli, avevastudiato in Olanda, roccaforte insieme all’Inghilterra del baconismo.Era del resto questo il filone più dinamico ed espansivo della scienzasettecentesca, più organicamente legato all’accelerazione dei processidi cambiamento economico e sociale. Il fatto è però che l’inter-pretazione che il Poli ne dà appare — a guardare le affermazioni suriportate sullo sfondo della sua vasta produzione naturalistica — estre-mistica e riduttiva. Il mettere al centro dell’analisi le realtà complessedella natura, irriducibili in quanto tali a leggi semplici esprimibilicol linguaggio della matematica — che era in Buffon un tentativodi arricchire ed estendere il newtonianismo, di renderlo flessibileincludendovi il concetto di probabilità ed attenuando la concezionedel progresso scientifico come accumulo di conoscenze razionalmen-te ottenute una volta per sempre — assume qui il significato diuna contrapposizione al newtonianismo stesso che non è in alcunmodo riscontrabile in Genovesi; e l’avversione all’esprit de systèmecorre il rischio, contro il quale D’Alembert metteva in guardia, diconfondersi con l’avversione all’esprit systématique, con la sfiducia nel-

. G.S. Poli, Breve ragionamento intorno all’eccellenza dello studio della natura ed a’ sodivantaggi, che da quello si possono ritrarre; premesso al corso di fisica sperimentale [. . . ], Napoli ,pp. XIV–XVIII.

. Su questi problemi cfr. T. S. Kuhn, Tradition mathématique et tradition expérimentale dansle développement de la physique, in “Annales E.S.C.”, , n. , pp. –.

. W. Tega, Il newtonianismo dei philosophes, in “Rivista di filosofia”, n. , pp. –.

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la capacità della ragione di interpretare correttamente il mondo. Ilrigore dell’osservazione non veniva correlato al problema, vivissimogià in Galileo e ripreso con forza da quegli idolatri dell’osservazioneche furono gli idéologues, della corretta ed efficiente formulazionedella domanda da porre alla natura, perché la risposta risulti signifi-cativa e valutabile. Non l’esperimento, il tormentare la natura perfarle confessare i suoi segreti, fu al centro della pratica scientifica delPoli, ma la raccolta, la descrizione, la classificazione. Si rompeva cosìl’equilibrio fra le « esigenze del pensiero e quelle delle esperienze »

ed il suo manuale di fisica, pur famoso e diffusissimo, rimase fino al-l’ultima edizione una miniera di osservazioni passate al setaccio della« utilità » e prive di una sistemazione teorica adeguata alle conquistedella scienza contemporanea. Lo sperimentalismo genovesiano, cheaveva contribuito a far uscire la scienza napoletana dal livello del purodibattito delle idee e ad ancorarlo alla pratica operativa nel quadrodi un disegno politico e culturale di ampio respiro, venne irrigiditoed estremizzato, fino a giungere, in una memoria del ’ letta dal Ca-gnazzi all’Accademia dei Georgofili fiorentina, ad una rivalutazionedei « mostri » come « prodotti da’ quali qualche lume può trarsi sulleimpenetrabili operazioni della natura ». Rispetto al « paradigmaindiziario » della summenzionata memoria del Ricchetti, secondocui la pratica scientifica consiste nell’assediare e spiare la natura percoglierne i momenti di debolezza nei quali, finalmente, cade il veloopaco che la ricopre nascondendola ai nostri sensi, il movimentodella scienza provinciale tracciato nelle pagine precedenti disegna un

. Cfr. G. Micheli, La critica dell’« esprit de système » e l’ideale enciclopedico del sapere, in L.Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, volume III, Milano , p. . Sarebbe qui ilcaso di richiamare Alexandre Koyré: « Les sciences généralement parlant, débutent toujourspar des théories fausses. Mais la possession d’une théorie même fausse constitue un progrèsénorme par rapport à l’état préthéorique » (la citazione è tratta da P. Zambelli, Introduzione a A.Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Torino , p. , nota).

. Cfr. G. Della Volpe, Galileo e il principio di non–contraddizione, in Id., Logica come scienzastorica, Roma , pp. ss. Per questo aspetto del pensiero degli idéologues, cfr. per esempiole pp. – di S. Moravia, Il pensiero degli Idéologues. Scienza e filosofia in Francia (–),Firenze .

. L’espressione di Ernst Cassirer è citata da P. Redondi, Cultura e società cit., p. .

. L. de Samuele Cagnazzi, Descrizione di una rosa mostruosa, mss. non paginato, in AG,busta , .

. Il riferimento è ovviamente a C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, inCrisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, a cura di A. Gargani,Torino , pp. –.

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percorso, in una certa misura, circolare: giunta al suo culmine, l’ef-fervescenza naturalistica pugliese considera hybris sterile ogni pretesadi svelare le « inconoscibili operazioni della natura ».

L’apparizione meteorica del newtonianesimo in Puglia non per-mise ad esso di svolgervi il ruolo di stimolo e di arricchimento su diun piano culturale generale che aveva avuto altrove, ed è la spia diuna complessiva povertà della circolazione delle idee al livello dellasocietà civile. Il fatto che non sia davvero facile trovare un riferimentoall’Encyclopédie negli scritti del pubblicista medio non pertiene solo al-l’inefficienza dei canali materiali di diffusione libraria. Con la parzialeeccezione di Montesquieu e di un Condillac assunto a principale refe-rente teorico dell’empirismo radicale pugliese, gli esponenti di puntadell’illuminismo europeo erano guardati con sospetto, quando nonviolentemente avversati. La cosa è particolarmente evidente nelmondo di dotti, come abbiamo visto molto affollato, che circondava idue preti naturalisti di Terra di Bari, investito da una circolazione del-le idee, così come riusciamo ad intravederla dalle carte del Giovenegiunte fino a noi, limitata ed asfittica: la nota fondamentale, costituitadall’opprimente ed esclusiva preoccupazione empiristica, risuonanelle lettere dell’Amoretti, del Fortis, del Thouvenel e di alcuni altristudiosi dell’ambiente padovano, che spiccano fra una folla di oscuriraccoglitori e classificatori di cose della natura, e, come vedremo,seleziona le letture dell’arciprete molfettese.

Probabilmente anche dal contatto diretto con ambienti come que-sto Galanti fu indotto ad assegnare un ruolo sempre più ancillare allescienze nel suo disegno di rinnovamento culturale, ad allentare manmano il legame istituito da Genovesi fra diffusione della cultura natu-ralistica ed avanzamento della consapevolezza politica, ad insistere suforme di cultura più complessive, più direttamente nutrite di spiriti

. Per non fare che un esempio, cfr., Francesco Antonio Astore, La filosofia dell’eloquenzao sia l’eloquenza della ragione, volumi, Napoli : opera la cui violenta posizione antillu-ministica avrebbe fatto parlare il Croce di improvvisa ed inaspettata conversione dell’autore,vittima del ’, agli ideali giacobini (B. Croce, La « Filosofia dell’eloquenza » di F.A. Astore, inId., Varietà di storia letteraria e civile, Bari , pp. –). La pallida coloritura russoviana delcircolo massonico terlizzese, notata dal Genovesi nelle lettere indirizzategli dal Bisceglia sotto ilnome di Orsola Garappa (Lettere familiari cit., II, pp. – e ) e rinvenibile nel Cabré degliuomini illustri della sua famiglia di Ferrante de Gemmis (N. de Gemmis, Memorie cit., in part.pp. –) non avrebbe impedito al Bisceglia stesso di approdare, così come più tardi il Giovene,a posizioni sostanzialmente reazionarie: V. Bisceglia, Orazioni recitate nella cattedrale di Terlizziin occasione del felicissimo ritorno di S.M. il Re N.S., Napoli .

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civili. In realtà non si trattava della diffidenza per le « astrazioni »della philosophie e della political economy che sarebbe tipica del movi-mento riformatore italiano in generale: a questa particolare torsionedel dibattito culturale, pur nel moltiplicarsi inedito dei “galantuomi-ni” che vi prendevano parte, corrispondevano strappi larghissimi neltessuto minuto di opinione a sostegno della battaglia riformatrice,che pure abbiamo visto essere stato in qualche modo costruito.

Ma questa debolezza del legame fra dibattito culturale e riforma,in particolare la mancata diffusione della cultura economica, nonsono spiegabili rimanendo all’interno del mondo delle idee. Proveròa sporgermi fuori di questo recinto pur rimanendo ancorato al tipodi materiale documentario assunto a fondamento di questo scritto —il dibattito fra dotti provinciali.

Domenico Pepe di Mola, corrispondente ed ammiratore entusiastadi Filangieri, fra i pochissimi “galantuomini” cultori di economiache mi è stato possibile trovare in Terra di Bari, in una lettera del febbraio spiega al « dilettissimo amico » Giovene che la carestiache stanno vivendo è il risultato dell’agire ineluttabile delle leggi econo-miche: si privatizzino definitivamente le terre, si faccia del self–interestil motore della società ed il grano tornerà da sé ad inondare i mercati.Ma il suo tentativo di mettere in circolo le posizioni più avanzate ed eu-ropee del movimento riformatore napoletano cozza con ilself–interestdelle classi dominanti locali. Della stessa crisi granaria del ’–’ inTerra di Bari l’arciprete Capassi di Ruvo dà una interpretazione in tuttoopposta a quella del Pepe, in un documento tanto puntuale e pieno diriferimenti meccanismi concreti della speculazione ed alle sofferenzedelle classi popolari, quanto generalizzante e permeato di fede nelcarattere liberatorio degli automatismi economici era l’altro. La realtàè che, secondo il Capassi, i dieci o dodici « ricchi » di Ruvo realizzavanoguadagni favolosi a spese dei . poveri della città tramite il famigera-to « contratto alla voce », mettevano in atto « iniqui sotterfugi » per nonpagare il catasto, utilizzavano le istituzioni amministrative locali per iloro privati interessi, dal momento che « li Rappresentanti di questaUniversità (. . . ) sono nell’istessa nave de’ ricchi ».

. Cfr. G. Galasso, Genovesi e Galanti cit., passim.

. Illuministi italiani, tomo V cit., pp. –.

. BNB, fondo D’Addosio, /.

. Cit. in A. Lepre, Contadini, borghesi e operai nel tramonto del feudalesimo napoletano, Milano, e in Id., Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento, Roma , pp. –. Sulla stessa linea, ma

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Delle dinamiche sociali provinciali, nelle quali i nostri “filosofidi campagna” erano pienamente immersi, offre una lettura analo-ga lo stesso Giovene, in un inedito del polemico con quantisi impegnavano « a scovrir i difetti nella legislazione della China, egli errori dell’amministrazione delle colonie europee nell’America »,a « dar lezioni di morale ai Russi » e « di commercio ai Persiani »,invece di « parlare e scrivere ciascuno de’ difetti, de’ mali che afflig-gono, che corrompono la propria provincia, la propria città ». Allosguardo del Giovene, non annebbiato dai fumi del cosmopolitismoilluministico, la sua città presenta uno sconvolgente scenario di mise-ria, di fame, di oppressione. Il governo aveva istituito il catasto permeglio ripartire la imposizione fiscale, ma aveva « creduto favorirla libertà de’ cittadini lasciando alle università la facoltà di imporrea se stessa que’ dazj che stimasse più propri »: la conseguenza erastata la tendenza a ridurre l’onciario, redatto a metà secolo al finedi sottoporre ad imposta proporzionale i possessi immobiliari, adun inerte e voluminoso documento dimenticato fra gli scartafaccidell’università, ed a raccogliere le risorse per pagare al governo ipesi fiscali tramite l’« andare a gabella ». A Molfetta si era adottata lagabella più odiosa: una tassa sul macinato che ricadeva nella sostanzasui poveri, consumatori quasi esclusivamente di pane. Conseguenzascontata, del resto, dal momento che il consiglio dell’università è

composto in parte da ricchi proprietari, che han tutto l’interesse di vederabolita, oppur di ridurre a poco più del nulla la tassa sulle terre, in parte dipersone, che non han altro merito salvo quello di aver imparato a scrivere, eche per tal caso credendo avvilir se stessi se imparassero a coltivar la terrapensano a vivere cogli appalti de’ dazii e delle gabelle quali perciò han tuttol’interesse di moltiplicarle. Un Consiglio in cui non han voto i poveri, da cuisono esclusi i contadini, gli artieri, in breve tutte le classi utili della società,in cui sono obbligati a tacere tutti i buoni che certamente vi sono appuntoperché buoni, e perché poco atti perciò all’intrigo ed alla cabala, che vidominano nelle risoluzioni. Un Parlamento, la cui voce non è che il rumoredella strepitosa collisione de’ varii interessi personali de’ rappresentanti,questo parlamento usurpa il nome, lo specioso titolo di università, e questonome trova il non meritato rispetto nei tribunali.

più elaborate sul piano teorico, una anonima relazione al Corradini di alcuni anni prima, inAPdG, fondo Riforme tanucciane, cartella L.

. Discorso accademico pronunziato in una conversazione patriottica tenuta nella propria suacasa, in BNB, fondo D’Addosio, /.

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Una folla di gabellieri, di redditieri, di mugnai e fornai protetti dal-lo jus prohibendi profittano dei sudori dei poveri, i quali, in tal modo,« coll’essere stati liberati dal dispotismo baronale, non han guadagnatoaltro se non di cambiar tiranno, ed invece di uno averne molti chea vicenda gli opprimono, e tantoppiù crudelmente, quantocché lofanno sotto l’ombra del venerando nome di Pubblico, di Comune,di Università ».

E uno spettacolo non diverso si presentava al Giovene quando ilsuo sguardo spaziava sulle campagne di Puglia. I mietitori, dice adesempio nel Discorso meteorologico campestre per l’anno ,

scorrono da una provincia all’altra. Felici, se riportassero sempre nelle lorocase prospera salute ed un onesto guadagno, che ristori le loro improbefatiche! Ma accade talvolta che portino di ritorno il seme di terribili malattie,e spargono miseramente nelle loro famiglie [. . . ] e spesso la loro giustamercede è dimidiata con frodi, con pretesti e con false misure dall’ingordi-gia, anzi dirò meglio, dalla iniquità e dall’umana barbarie di qualcuno deiproprietari. Cosi la Daunia, povera essa di uomini, impoverisce di uominialtre province, e come un vampiro succhia il sangue dei poveri di tuttoregno. Si è detto e si dice che i contadini sono divenuti astuti, ingannatori efraudolenti. Sì, perché la corruzione ed il contagio da noi si è propagato adessi. I contadini si veggono defraudati, ingannati, e credono una giustiziadi compenso l’ingannare ed il defraudare. Non sono però certamente icontadini quelli, che portano la battuta, e danno il tuono e la voce a questamusica.

È un paesaggio sociale del quale la storiografia recente, con illinguaggio e gli strumenti concettuali ad essa propri, comincia arestituire specificità e contraddizioni che qui richiamo in qualcherigo grossolanamente riassuntivo. Il prezzo altissimo in termini disalario, di sicurezza e stabilità del lavoro, di aumento del costo dellavita, che in particolare i lavoratori dei campi pagano ovunque per laloro partecipazione ai cosiddetti processi di modernizzazione, nonfu, qui più che altrove, la condizione per una ristrutturazione deirapporti di produzione che facesse fare un balzo in avanti alle forze

. In Giovene, Raccolta cit., volume II, pp. –.

. Cfr., oltre ai lavori ben noti, ma non riguardanti specificamente la Puglia, di LuigiDal Pane, Patrick Chorley, Paolo Macry, Gérard Délille e, per il primo Ottocento, John Davis,G. Masi, Strutture e società nella Puglia barese del secondo Settecento, Matera ; Id., La crisidell’antico regime in Terra di Bari (–), Matera ; A. Cormio, Le classi subalterne inTerra di Bari nella crisi dell’antico regime, in “Quaderni storici”, , n. , pp. –; AA.VV.,Economia e classi sociali in Puglia nell’età moderna, Napoli .

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produttive ed aprisse nuove prospettive di lavoro e di vita le masseimpoverite delle campagne. Classe “dominante” ma non “dirigente”,sfruttatrice senza essere “egemone”, la particolare borghesia locale sicontentò di profittare degli spazi che si aprivano nel mercato nazio-nale ed internazionale alle due fondamentali derrate prodotte in loco,l’olio ed il grano, spesso sotto il controllo di capitali napoletani estranieri, lasciando il miglioramento e l’allargamento delle colturealle braccia dei contadini e limitando al massimo gli investimentiproduttivi, sia per evitare la temuta generalizzazione dei processi diproletarizzazione, sia per non stornare capitali dall’intermediazio-ne e dalla speculazione a danno degli stessi contadini impegnati nelmiglioramento delle sue terre.

È il quadro che ho voluto definire con la locuzione, inserita neltitolo di questo scritto, di sviluppo dipendente. All’interno di essopoté essere rapidamente raggiunto un nuovo compromesso fra iceti nobiliari ed i gruppi emergenti, come dimostrano i conflittisul controllo delle amministrazioni locali, e poté configurarsi un“ritorno alla terra” inteso in sostanza, da una parte, come graziosae paternalistica fornitura di consigli tecnici al contadino ignoranteda parte del “filosofo di campagna”, dall’altra come attivizzazioneconcreta ed intervento diretto di quest’ultimo nel momento dellacommercializzazione dei prodotti e dell’anticipazione usuraia sullesementi.

Non è dunque sorprendente l’inesorabile e rapida consunzionedell’immagine dell’uomo “interessato” capace di arrecare benessereagli altri arricchendo se stesso, sulla base della quale si andava altro-ve elevando in quegli stessi anni l’edificio dell’economia politica.La crescita di una cultura economica diffusa intesa come riflessoe sostegno di un processo di accumulazione non trovò in questa

. Pagine esemplari ha, in proposito, N. Cimaglia, Della natura e sorte della coltura dellebiade in Capitanata [. . . ], Napoli , soprattutto pp. –.

. Su questo punto vedi G. Masi, I monti frumentari e pecuniari in provincia di Bari,estratto da Studi in onore di Amintore Fanfani, Milano, e P. Macry, Ceto mercantile e aziendaagricola nel Regno di Napoli: il contratto alla voce nel XVIII secolo, in “Quaderni storici”, , n., pp. –.

. A. Spagnoletti, Le aggregazioni alla nobiltà nelle università di Terra di Bari nel XVIII secolo,in “Società e storia”, , n. , pp. –.

. Cfr. la frase di aperture del saggio di G.J. Stigler, Smith’s travels on the Ship of State, inA.S. Skinner e T. Wilson (a cura di), Essays on Adam Smith, Oxford , p. : « The Wealth ofNations is a stupendous palace erected upon the granite of self–interest ».

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provincia ricca e vivace un terreno fertile; né vi si fece largo unacultura di opposizione ai processi in atto. Nel citato scritto del ,che pure contiene uno dei più violenti e puntuali atti d’accusa controla borghesia meridionale rinvenibili nella letteratura settecentesca,all’umanitarismo astratto e blasfemo dei « filosofi del secolo », im-pegnati a nascondere sotto « il nome prezioso di popolazione » leconcrete malversazioni del dazio cittadino, il Giovene sa solo oppor-re l’altrettanto astratto solidarismo fondato su una religione vindice,che « un giorno dovrà tutti agguagliare dannando l’insensibile riccoad interminabili tormenti, premiando l’onesto e povero di faticatipiaceri ». Quella del naturalista molfettese è una concezione staticadella società, secondo la quale l’agricoltura, così come « non offre spe-ciosi guadagni », non « può soffrire grandi spese e consumazioni »,e l’economia politica, che vuole forzarne lo sviluppo e lacerarneil tessuto di relazioni umane, è scienza amorale e pericolosa. Ilsuo impegno naturalistico si fonde con la dimensione sacrale in unacultura dal tono particolare, che assume in ultima istanza il significatoideologico di un rifiuto di prendere coscienza della realtà e dellesue contraddizioni in termini economico–politici, ossia in terminioperativi e di intervento attivo. Riproposte sul piano, appunto, dellascienza e della religione, queste contraddizioni parevano affondarele proprie radici, più che nelle caratteristiche, mutevoli e dunqueoggetto di scontro politico e sociale, delle classi dominanti, nelle ca-ratteristiche dell’animo umano e nell’avarizia della natura. In quantotali, esse erano attenuabili solo tramite l’acquisizione, da parte deiproprietari, dell’educazione tecnica ed agronomica che li mettessein grado di strappare astutamente alla natura stessa quanto essa sirifiutava di concedere spontaneamente, e, da parte dei contadini, dellarassegnazione necessaria affinché il malcontento non trascendesse inlotta di classe e non interferisse nel particolare modo in cui, secondoun imperscrutabile disegno provvidenziale, si andava dissolvendo lasociété d’ordres.

La distanza rispetto al disegno genovesiano si era fatta incolmabi-le. In questi ambienti la cultura naturalistica, invece di funzionare da

. Dell’influenza dello spirito del Cristianesimo sull’agricoltura pratica, in BNB, fondo D’Addo-sio, /–. Un’altra copia, con alcune modifiche, in AG, busta , , è pubblicata in M. DelVescovo, Un inedito dell’arciprete Giovene: Dell’influenza dello spirito della religione cristianasull’agricoltura, Roma .

. Cfr. gli appunti sull’opera del Mastrofini sull’usura in BNB, fondo D’Addosio, /.

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canale di collegamento fra « savj » e « galantuomini », fra riformatorinapoletani e filosofi di campagna, fu espressione ed alimento di unachiusura provinciale, di una volontà autonomistica di cui non è dif-ficile rintracciare il significato alla luce di quanto si è detto fin qui. Icontatti con la capitale rinvenibili nell’epistolario Giovene fino allafine del secolo si riducono in pratica a quelli con i conterranei Poli eMinervini, mentre spesso vi risuonava la denunzia delle « cabbale »,dei « raggiri », del « canagliume letterario » che la dominava; speciepoi nelle lettere dell’amico fraterno dell’arciprete molfettese, Mel-chiorre Delfico, che gli apriva il cuore nei momenti in cui più cupaed oppressiva gli sembrava l’atmosfera dei suoi soggiorni napoletani.Ma ciò che in un uomo come Delfico era il disgusto per le camarillenelle quali si impantanava qualsiasi riforma, diventa, nella diffidenzadel Giovene nei confronti di Napoli, la diffidenza verso la progetta-zione di ogni mutamento di ampio respiro, destinato per ciò stessoa restare inutile e pericoloso esercizio intellettuale, in chi era statoeducato a privilegiare la concretezza dei miglioramenti agronomici edelle oculate scelte colturali.

Di ciò sembrava ben accorgersi il Delfico, quando, il settembre, scriveva al Giovene: « Se il Governo non vi prende attenzione noinon avremo mai agricoltura, avendone anche le migliori cognizioni.È nelle leggi relative alla proprietà sì civili che feudali, ed in quelledell’amministrazione economica che sono nascoste le cagioni delnostro intorpidimento. I lumi sono per lo più poco attivi quandomancano le facilitazioni necessarie ai moti corrispondenti ». Maormai si era ai tentativi estremi.

Di lì a qualche anno i riformatori meridionali avrebbero persoogni residua fiducia nella capacità del partito dei lumi di determinare« le leggi civili e feudali », e molti di essi avrebbero puntato la loroattenzione sulla politica, intesa non più come educazione ed orga-nizzazione di forze reali, ma come cospirazione per distruggere, conl’aiuto della Francia rivoluzionaria, la macchina statale sulla quale sierano arenate le loro speranze, e poter calare finalmente su lazzaririottosi e contadini affamati le riforme da loro escogitate.

Nel ’, fra i palazzi distrutti dai contadini di Mola di Bari, ci fu,emblematicamente, quello del più europeo fra i « savj » della provin-

. Espressioni tratte da due lettere del Fortis senza indicazioni, in BNB, fondo D’Addosio,/.

. Ibidem.

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cia, il fautore dell’economia politica e della scienza della legislazionefilangeriana, Domenico Pepe: per un’intera fase storica, i giochierano fatti.

.. Una biografia intellettuale pugliese: Giuseppe Maria Giovene

Resta solo, a questo punto, da seguire gli esiti di questo tipo di culturanel passaggio dal clima dell’età delle riforme a quello della restau-razione, tracciando la biografia intellettuale del suo interprete piùcoerente, l’arciprete Giovene. Un passaggio segnato, nella culturaeuropea, da conversioni folgoranti e palinodie tormentose, e svoltosiqui, invece — e la cosa non può sorprendere — come uno sviluppo li-neare, in cui i mutamenti non sempre affioravano alla coscienza deglistessi protagonisti. Non voglio dire che quello del Giovene fosse il de-stino ineluttabile di quanti avevano animato il ritorno alla terra dellaPuglia barese; basti a tal proposito far riferimento agli sviluppi intel-lettuali dell’altro “grande” della cultura naturalistica pugliese, Lucade Samuele Cagnazzi. Ma anche il Cagnazzi ottocentesco è spiegabi-le mantenendosi all’interno delle coordinate essenziali dell’ambientesettecentesco provinciale: l’emergere dell’interesse per l’economiapolitica dell’altamurano — controcorrente non solo rispetto alla suaprovincia, ma questa volta anche rispetto all’intero ambiente cultura-le meridionale — avvenne dopo la cesura del , che lo allontanòin maniera pressoché definitiva dagli ambienti della sua formazione,anche se di essi non cancellò alcuni tratti fondamentali facilmentericonoscibili fin nelle opere più tarde.

. A. Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, vol. II, La rivoluzione del , Bari , p. .

. Oltre alle sue opere edite, alle sue carte della BNB ed ai dizionari biografici giàmenzionati, sono utili alla ricostruzione della vita del Giovene, fra gli altri, A. Tripaldi, Elogiofunebre del Canonico Arciprete Giuseppe Maria Giovene [. . . ], Napoli ; G. Gioja, Elogio funebredell’illustre arciprete D. Giuseppe Maria Giovene [. . . ], Napoli ; P. Filioli, Giuseppe MariaGiovene cit.; C. Tortora Brayda, Giuseppe Maria Giovene, in “Il progresso delle scienze, dellelettere e delle arti”, , pp. –; L. Marinelli Giovene, Elogio storico del cavaliere GiuseppeMaria Giovene, Napoli ; A. Iatta, Giuseppe Maria Giovene cit.; T. Maglione, Vita del cav.Giuseppe Maria Arciprete Giovene [. . . ], Molfetta ; A. Palmiotti, Discorso per l’inaugurazionedel monumento all’Arciprete Giuseppe Maria Giovene [. . . ], Molfetta .

. Rimando per tutto questo a B. Salvemini, Economia politica e arretratezza meridionalenell’età del Risorgimento. L.d.S. Cagnazzi e la diffusione dello smithianesimo nel Regno di Napoli,Lecce .

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. Propaggini illuministiche

Nella formazione giovanile del Giovene c’è un altro elemento didifferenziazione importante rispetto a quella del Cagnazzi: l’educazio-ne gesuitica presso il collegio di Molfetta della compagnia, al qualel’aveva affidato, dopo la morte del padre, la sua famiglia, che, da unamodesta condizione marinara nel traporto e nel commercio dell’o-lio, aveva realizzato una spettacolare ascesa patrimoniale e simbolica,entrando nel patriziato locale, acquisendo un titolo nobiliare ed istallan-dosi con gran pompa nel più sontuoso palazzo della città, un edificioquattrocentesco appartenuto ad una antica famiglia dell’aristocrazialocale. Nato nel , il Giovene aveva quasi condotto a termine ilsuo noviziato a Napoli quando i gesuiti furono espulsi dal Regno, e liavrebbe seguiti se non ne fosse stato dissuaso da Ciro Saverio Minervi-ni. Tornò in patria; poi, ormai chierico, fu di nuovo a Napoli per glistudi, e qui l’incontro col suo amico d’infanzia, Giuseppe Saverio Poli,discendente lui pure da una famiglia marinara arricchitasi nel negoziodell’olio, decise del suo futuro di naturalista. Ma questa vocazioneattese a manifestarsi. A Molfetta lo attendevano le incombenze eccle-siastiche, la composizione del necrologio del dotto vescovo della cittàCelestino Orlandi, che costituì la sua prima opera edita, il vicariatogenerale della diocesi affidatogli, nel , dopo la laurea in dirittocivile e canonico, dal successore dell’Orlandi, il monsignor Antonacci,l’insegnamento nel seminario locale.

Solo nel le sue propensioni naturalistiche trovarono stimoli eapplicazioni concrete. Capitato a Molfetta nel suo peregrinare ansioso,Alberto Fortis aveva scoperto in una dolina carsica a qualche migliodall’abitato, il Pulo, del nitro naturale. La notizia mise a soqquadrogli ambienti scientifici non solo italiani, ma soprattutto il sottoboscodegli appaltatori del nitro artificiale del Regno, preoccupati di vedersiprivare dei loro cespiti di guadagno. Sotto la direzione del Giovene edel fratello, barone Graziano, si tentò per alcuni anni lo sfruttamentodella miniera, ma con risultati scadenti immediatamente utilizzatidagli avversari per affossare l’impresa. Come scriveva amaramente ilFortis al Giovene, « i denari a Napoli si aprono la via come l’acquesotterranee, per andirivieni oscurissimi ».

. Nel Catasto provvisorio di Molfetta del (in ASB), il fratello del Giovene, il BaroneGraziano, risulta iscritto per ducati ,, mentre l’arciprete stesso per soli ducati ,.

. Nello stesso Catasto provvisorio risultano iscritti i negozianti Vitangelo Poli per ,

ducati e Giacinto Poli per , ducati.

. BNB, fondo D’Addosio, /, lettera del giugno .

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Dalla mischia il Giovene usciva sconfitto e deluso, ma con un patri-monio notevole di esperienze, di contatti, di conoscenze. Cominciò apubblicare le prime memorie scientifiche, organizzò con l’aiuto delToaldo e del Cagnazzi il suo laboratorio meteorologico, si circondò diallievi entusiasti, cominciò a corrispondere con alcune importanti, acca-demie italiane: i voluminosi scartafacci scientifici giunti fino a noi

ci fanno penetrare all’interno della sua officina, in quell’« eremo » nelquale si chiudeva per osservare la natura all’inseguimento, da seguacedel Poli, di una scienza finalmente non contaminata dai « romanzi »

che solevano comporre i fisici. Ma l’ardore naturalistico, la consue-tudine a Napoli col concittadino anticurialista Minervini, il legamestretto con uomini d’avanguardia degli ambienti riformatori italianicome Fortis e Delfico non riuscivano a soffocare l’educazione gesuiticagiovanile, che riemergeva anche come avversione alle arditezze dellacultura europea. Al Raynal, dice il nostro arciprete in una specie didizionario enciclopedico di cui ci resta un abbozzo manoscritto,

non se gli può negare una nettezza d’idee, ed una chiarezza di ragionare.Egli ha una eloguenza che piuttosto atterisce, che incanta. Nemico di ognireligione, e della Podestà Regia non lascia scappar occasione senza portarde’ colpi all’una, ed all’altra. Differente dal moderato, e giusto Robertson,che ha voluto farci un bellissimo quadro dell’uomo qual’è ne’ suoi varii stati,e delle società nelle varie combinazioni, e ne’ varii gradi della medesima,Raynal vuol filosofare a diritto ed a rovescio, ed a perdita di vista, ed intendefar l’uomo a modo suo. Ogni volta, che entra a parlare di un popolo dell’Eu-ropa, che s’introdusse a commerciar nell’India, ha la vanità d’incominciaredacché fu divisa la terra da’ figli di Noè. Nemico del cristianesimo, e perciòanche dell’era cristiana non la usa a fronte degli avvenimenti, locché recauna confusione, siccome la reca quello stendere in una volta la storia delcommercio di un popolo, e poi ripigliar da capo, e stender quella di un altro.Egli è tanto cimentoso nel pensare che arrischia a far da profeta. Ha però ilmerito di entrare in varii dettagli economici delle produzioni di Oriente.

Di fronte al magnum opus del cosmopolitismo illuministico, chepure lo affascina, il Giovene si ritrae infastidito dalla « filosofia », dalla

. Divenne, fra l’altro, socio corrispondente dei Georgofili fiorentini (cfr. la sua lettera alsegretario dell’accademia Ambrogio Tardini, datata aprile , in cui lo ringrazia per la nomina,in AG, busta /). Un elenco delle accademie di cui fu socio con le date di associazione inBNB, fondo D’Addosio, –

. Cfr. soprattutto, ivi, il grosso fascicolo /.

. Ivi, /, minuta di lettera senza data indirizzata a Lazzaro Spallanzani.

. Ivi, /.

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. Propaggini illuministiche

progettazione di un futuro di libera circolazione, attraverso marie continenti, di uomini e di idee, e di liberazione dai pregiudizi edalle angustie religiose, per attaccarsi, incuriosito, ancora al dato, al« dettaglio ».

È una lettura solo apparentemente simile a quella che dello stessoRaynal dava la toscana “Gazzetta universale”. Sullo sfondo dellaproduzione giovanile del nostro essa assume una colorazione bendiversa. Nello studio del « dettaglio » condotto nelle sue memoriescientifiche, egli faceva emergere una sua forma di umanitarismo,inteso come attenzione alla condizione delle classi subalterne che,come si è visto, trascendeva a volte in critica di quelle stesse classidominanti che in larga parte si riconoscevano nel suo modo di farecultura. Ma la religione come proiezione della vendetta del poveronel mondo ultraterreno chiudeva subito ogni spiraglio da cui potes-se trasparire una indicazione di lotta contro il tipo di sviluppo cheinvestiva la provincia, fino a trasformare la posizione del Nostro insupporto ideologico di esso. In un altro scritto non scientifico delperiodo giovanile, il racconto La mia villeggiatura, gli umori filopo-polari si stemperano in una caramellosa sensiblerie preromantica, inuna pietà rugiadosa ed autocompiacente, che trova la sua espressionenormale nel gesto buono, nell’atteggiamento di paterna commise-razione nei confronti di chi è condannato alla miseria dall’ordineimmutabile ed imperscrutabile della natura: « Con quanto poco [. . . ]si può fare un bene! Quanto picciola cosa il far buon viso ad uncontadino, ad un servitore, ad un plebejo! Sono ben crudeli coloro, iquali non sanno guardare se non con occhio torvo, e minaccevole iloro domestici, i loro concittadini [. . . ]. Meritan pure, che le bracciadi costoro si faccian pesanti nel lavoro delle loro terre ».

Ma queste non erano che le distrazioni dell’arciprete, soprattuttoassorto nell’osservazione della natura in un atteggiamento di dedi-zione, per così dire, mistica. Si andava tuttavia insinuando in luiun senso di insoddisfazione per una registrazione passiva e perciò

. Cfr. F. Diaz, Francesco Maria Gianni. Dalla burocrazia alla politica sotto Pietro Leopoldo diToscana, Milano–Napoli , pp. XIII–XIV.

. Giovene, Raccolta cit., volume III, p. . La prima parte de La mia villeggiatura fupubblicata anonima a Parma presso la stamperia Carmignani nel , mentre la seconda parteè inedita. È il Marinelli Giovene, testimone attendibile perché nipote del Giovene e curatoredella Raccolta cit., ad avvertirci nel suo Elogio cit. (p. ) che fu scritta nel .

. La quale giunge, nel capitoletto « Il desiderio innocente » de La mia villeggiatura (pp.

ss.), ad avere risvolti interpretabili in chiave freudiana.

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improduttiva dei fenomeni, la quale lo fece divenire, con andare deglianni, « un osservatore alcun poco negghittoso e pigro ». Il suo ulti-mo discorso meteorologico–campestre fu quello dedicato al , e nelleOsservazioni elettrico–atmosferiche e barometriche insieme comparate, dipoco posteriori, espliciti diventano termini di questa insoddisfazione:

Quanto più cresce e va in immenso la massa di tali osservazioni, che sebbenmolteplici, poco tra loro differiscono, tanto si fa maggiore la difficoltà disistemarle ed ordinarle, e di trarne dei risultati [. . . ]. Mi sembra dunque chedovrebbesi, non già cessar in tutto dall’osservare secondo il volgar metodo;ma rinvenire nuovi modi, aprirsi nuove strade, farsi nuove viste, cambiarsi,dirò così, i quesiti, e le domande; così potremo sperare avanzamenti rapidinella meteorologia. L’igrometro ed il termometro messi soli nelle dottemani del celebre Saussure ci han dati più interessanti risultati, che nonavremmo potuto sperare da cento osservatori seduti in mezzo un nobile emolteplice apparato di delicati istromenti appesi nei gabinetti, ed osservatiperiodicamente in determinate ore del giorno.

Ancora nel , nella memoria Dei pronostici raggionati delle anna-te, e delle stagioni, polemizzava contro il « cieco empirismo » delleprevisioni meteorologiche e contro la pretesa di giungere, tramite leosservazioni, a quella mitica certezza da lui stesso inseguita per anni.

Giovene era giunto ad un nodo importante del suo itinerario discienziato, che avrebbe potuto condurlo a ridefinire il suo rapportocon la natura ed aprirgli prospettive nuove. Ma egli lo sciolse nelsenso di un progressivo affievolirsi del primitivo entusiasmo per lescienze. Il sanguinoso molfettese lo sorprese in patria quando,essendogli riuscito a renderla finalmente demaniale brigando allacorte napoletana insieme a Giuseppe Saverio Poli, gli sembrava chesi fosse aperta per la cittadina un’era di felicità. A differenza delfratello Graziano, rimase in disparte. Poté così superare indenne ilperiodo della restaurazione borbonica, e, all’avvento dei Francesi,fu chiamato a reggere, come vicario, la diocesi di Lecce prima, poi

. G.M. Giovene, Lettera [. . . ] al Prefetto della Biblioteca e segretario dell’Istituto Nazionalein Bologna Alberto Fortis sulla pioggia rossigna caduta nella Puglia, e altrove, in Id., Raccolta cit.,volume II, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Sul quale cfr. S. La Sorsa, I moti rivoluzionari di Molfetta nei primi mesi del , Trani.

. Cfr. il carteggio fra il Giovene ed il Vescovo di Molfetta Gennaro Antonucci in BCM,mss. .

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. Propaggini illuministiche

anche quelle di Otranto e Oria, e a soprintendere agli studi nelleprovince di Terra d’Otranto e Basilicata.

A partire da quegli anni la produzione naturalistica si diradò no-tevolmente, né questa tornò ai ritmi degli ultimi due decenni delSettecento quando, nel , fece ritorno Molfetta. Parallelamenteemergeva un interesse per lo studio delle cose religiose che com-pensava il minore impegno scientifico. Concetti chiave della suaproduzione giovanile, come quelli di « natura, leggi della natura, cau-se naturali, effetti naturali » gli sembrarono, in una predica del febbraio , inventati « dall’ignoranza, e dal desiderio di coprirla,[. . . ] dalla irreligione, e dall’ateismo », allo scopo « di rendere Dioinoperoso, ed ozioso, come il dio di Epicuro, ovvero di toglierlo af-fatto dal mondo ». A Lecce, a contatto diretto con la crisi morale edeconomica delle istituzioni ecclesiastiche, a contatto con le difficoltàgravissime dell’economia della provincia, privata dal blocco continen-tale dei suoi sbocchi commerciali e ben più che Terra di Bari nellemani di classi dominanti incapaci di iniziativa e di rinnovamento,Giovene era venuto maturando una intuizione cupa e rassegnata delmondo, che riduceva lo spazio alla fiducia nella capacità rigeneratricedella educazione tecnico–scientifica e quindi nella efficacia operativadei suoi studi naturalistici. In Terra d’Otranto, rileva ad esempiouna sua memoria inedita, nonostante la carenza di cereali costringaun terzo dei contadini a nutrirsi di pane d’orzo, si coltiva tabaccoin terreno non irriguo, con una resa inferiore o tutt’al più uguale aquella del mais; e tutto ciò perché, per coltivare cereali,

occorrono degli avanzi da farsi in anticipazione, locché non è nella coltiva-zione del tabacco. Nella prima ci vuole denaro e opera, nell’ultima tutto èopera, e perché ordinariamente li proprietarii non si brigano di coltivazioneavviene, che li poveri contadini si adattino più a quel genere di coltivazioneche non esigge, se non le loro braccia.

Non una proposta, non una indicazione. Il cerchio della miseriagli sembrava chiudersi inesorabile, senza lasciare varchi.

In questa marcia verso il pessimismo, caratteristica dei soprav-vissuti del Settecento meridionale, Giovene trovava eco nelle letteresempre più amare del suo amico Melchiorre Delfico. « Io mi trovo un

. BCM, mss. .

. Memoria manoscritta intitolata Tabacco in BNB, fondo D’Addosio, / .

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poco disigannato sulla bontà dei contadini — gli scriveva quest’ultimoil giugno da Napoli.

Non è una bontà fisica o morale, sono abitudini di debolezza, pronti adabbandonare alle prime occasioni, che si credessero forti, o che vedesseroun interesse contrario. Giudicava anche io così i contadini degli Apruzzi,quando ad un tempo si trasformarono in traditori e feroci. Sempre più miconfermo nella idea, che l’uomo sia la più cattiva bestia ed imperfetta.

Ed ai contadini Giovene proponeva, in uno scritto che avrebbeinviato ai Georgofili, regole di condotta rigorose, fondate sull’accet-tazione passiva di un reddito inferiore a quello di ogni altro settorein nome dello « spirito religioso e cristiano »: « Guai se lo spirito dilegger novità di Gazzette politiche, che pur tanto si cerca di molti-plicare, si spargesse per il popolo delle campagne; l’agricoltura nepatirebbe assaissimo, e per pensare a ciò che si fa nelle città ed altrovelontano, non più si penserebbe a quello che accade nelle campagne,e sotto i piedi ». È infatti del tutto contrario all’agricoltura « lo spiritodi disvagamento e della loquacità. Un buon coltivatore opera, e noncicala, esiegue, e non parla, tutt’intento all’operazione che à per lemani: ed al più non si permette che un dolce canto, il quale sollevilo spirito, e rinvigorisca il corpo ». Ma, dato che i contadini non siaccontentavano di attendere la vendetta divina, anche il Giovene nefu « disingannato ». In un Avviso a’ proprietari [. . . ] su l’abuso di zapparle vigne nel mese di luglio li definiva « villani ingordi » che « pretendonodi farsi ricchi in un giorno », « una razza di gente » che « per quantostupida, ed ignorante, per altrettanto vedesi andar tronfia del suomestiere [. . . ] quasicché potesse stare a fronte de’ più valenti agro-nomi [. . . ] ond’è che men conoscendo la sua ignoranza più si rendeardita ».

A questo punto, per rimuovere le cause dei mali del mondo, co-minciò a sembrargli sempre più necessario penetrare nelle coscienzedegli uomini, riformare la loro condotta morale. Non era più tanto lascienza ad avere il compito di educare, bensì una religione riscattatadalla sua funzione di consolatrice degli afflitti ed innalzata a stru-mento di universale progresso. Con queste convinzioni partecipòal parlamento del –. In quanto presidente della commissione

. Ivi, /.

. Dell’influenza dello spirito del Cristianesimo cit.

. BNB, fondo D’Addosio, /.

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Agricoltura, industria e commercio discusse anche di foreste, mala sua preoccupazione di fondo restarono i « costumi »: « È un bene lacostituzione », dice un suo appunto dell’epoca; « ma a che gioverà[. . . ] se i nostri costumi saranno quali erano [. . . ]. Tutti i governipossono esser buoni, quando siano circonvallati dai costumi, niungoverno è buono, quando i costumi non siano buoni ». E, natural-mente, violenta fu la sua opposizione all’introduzione della libertà direligione:

In uno Stato in cui si trova questa diversità di Religioni pazienza, e si saquanto imbarazzo dia questa diversità ai governi. E noi che per buonafortuna non abbiamo questa disgrazia vorremo farla nascere? [. . . ] L’odio,che [. . . ] si professa dai pretesi filosofi contro la Religione Cristiana, emassimamente cattolica non è più un mistero. Schiacciare l’infame, era ilritornello del famoso empio Buffone una volta idolo, oggi l’esecrazionedella Francia.

Tornò a Molfetta per chiudersi per sempre nel suo pessimismo cu-po ed ormai chiaramente reazionario. Scrisse ancora di scienza, masoprattutto di religione, secondo una linea di opposizione sistematicae frontale a quanto di nuovo era venuto emergendo anche nel Regno.La ben giustificata denuncia dei brogli e delle malversazioni di cuierano oggetto gli istituti di beneficienza si ribaltava nella propostadi lasciare libera di agire la carità cristiana dei testatori e, in ultimaistanza, di restituire alla Chiesa il suo ruolo predominante nel setto-re. Era la rivendicazione della charité religieuse contro la philantropiecivile introdotta nel Regno dai Francesi, i quali, si indigna il Nostro,avevano vincolato la beneficienza a « forme e metodi amministrativi,e quindi carte e più carte senza fine, e rapporti ed ordini laddove lacarità cristiana non può essere per sua natura vincolata ». All’origi-ne di questo stravolgimento dei valori, naturalmente, i philosophes:« Frutto fu questo velenoso dei moderni filosofanti, che al vocabolodi carità sostituirono l’umanità ed a quello di prossimi, che pure indi-cava una certa gradazione nella carità, e nella beneficienza che è bengiusta, sostituirono i nostri simili »; così, « per dispensarsi dall’amare

. Atti del Parlamento delle Due Sicilie –. Editi sotto la direzione di Annibale Alberti[. . . ], vol. II, Bologna , p. .

. BNB, fondo D’Addosio, /, fascicolo intitolato « Notizie politiche ».

. Ivi, fascicolo intitolato « Sul giuramento alla costituzione ed altro ».

. A. Cherubini, Dottrine e metodi assistenziali dal al . Italia Francia Inghilterra,Milano , p. .

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i prossimi ancorché fossero congiunti di sangue, connazionali, concit-tadini, spasimano poi di amore per gli Eschimesi per i Cafri e per iBeduini dell’Africa ». Nello stesso modo la lotta contro gli alti tassid’interesse, che spesso univa contadini e proprietari terrieri contro inegozianti e trovava risonanze nelle società economiche come neiconsigli decurionali e provinciali, si risolve nel vagheggiamento deitempi in cui la « carità cristiana verso i poveri » insegnata dalla Chiesaera il criterio e la misura delle discussioni in proposito:

Era stata una volta grave disputa, e lunga tra i moralisti sul conto delle usure,che erano questi divisi tra lassisti, e rigoristi. Vi si mischiavano talvoltaalcuni legali, ma questi si restringevano a temperamenti, ed accordi comeesercitarsi l’usura senza aver la censura de’ Tribunali Ecclesiastici, e civili.Tali partiti, e tali disputatori erano severi a mantenere i principj, e la dottrinainsegnata dalla Chiesa quando per disgrazia sono venuti fuori li economisti iquali con baldanza hanno detto alto là. L’affare delle usure non è affare dellaReligione, e molto meno della competenza della Chiesa, degli Ecclesiastici,ma è un affare tutto tutto all’Economia politica, che finalmente il denaroè una merce, la quale entra nelle contrattazioni umane, e però debbonoqueste esser soggette alle leggi che regolano tutte le altre contrattazioni.

Dall’indifferenza verso l’economia politica del periodo settecen-tesco, al suo rifiuto: è la direzione opposta a quella seguita dalCagnazzi.

Il Giovene scienziato entusiasta, portabandiera della cultura pro-vinciale, si spegneva a poco a poco, man mano che morivano i suoicorrispondenti scienziati di ogni parte d’Italia. Continuavano a scri-vergli il Cagnazzi, il marchese di Montrone, giunto ormai al puntopiù basso della sua parabola politica, qualche dotto di provincia epoi ecclesiastici preoccupati delle sorti della Chiesa. In particolare siteneva in contatto con un proprietario–letterato di Bitonto, CarmineSylos, i cui interessi culturali gli erano particolarmente vicini. « Òavuta a leggere e ò divorata con infinito piacere — scrive Sylos a Gio-vene — la traduzione fatta in Modena di un’altra opera dell’insigne DeMaistre, cioè le lettere sull’inquisizione, che io conoscevo in francese.Oh che bella cosa! [. . . ]. Mi creda tutto impegnato di farle conoscerequante più produzioni potrò di un insigne scrittore cattolico, e che

. Memoria mss. Idee sulla prosperità de’ luoghi di pubblica beneficienza, in BNB, fondoD’Addosio, /–.

. Ivi, /.

. Cfr., fra gli altri, P. Vitucci, Giordano de’ Bianchi Dottula, Marchese di Montrone, Bari .

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ha incontrato il suo gusto ». L’opera di de Bonald contro il divorzio,da lui stesso tradotta, è « opera profonda, che pianta e sviluppa i veriprincipi sociali, e dimostra che [. . . ] il Vangelo ce li ha fatti conosce-re, e quindi la civilizzazione è tutto merito del Vangelo ». Stimamolto anche Lamennais, ma, se è vero che « per potersi scrivere piùliberamente in difesa di nostra santa religione abbia difesa la libertàdi stampa, qui la scaprecciò forte l’illustre abate. Ben disse Ciceronequando osservò di non esservi paradosso che non sia stato sostenutoda qualche filosofo ». Né poteva mancare Monaldo: « Sto leggendocon vero piacere gli articoli del conte Leopardi contro Botta [. . . ] ».Ed anche da Bitonto gli scriveva Luigi della Noce: « In Toscana si vaacquistando senno. Si è proibita l’Antologia. S’immagini il rumoreche menano i liberali per la caduta di questa loro piccola Babele. Ilprimo scrittore ne era Giordani, buona penna, ma quanto velenosa!Per me vedo si gran corruzione in ogni maniera di scienze, che senon ci si pone poderosamente riparo, non so dove andrà a parare ilnostro secolo illuminato ».

Dall’interno di questo ambiente il vecchio ecclesiastico vedevail mondo sommerso dalla marea montante della corruzione. Dellasua stessa città, un tempo fiorente di traffici, dava al marchese diMontrone un quadro di irrimediabile decadenza economica; edanche a Molfetta « la morale peggio che perduta, ed il principio dionore più non si sente [. . . ], i figli abbandonano i padri vecchi, ifratelli, e parenti non curano, che vedono limosinando i rispettivifratelli, e parenti ». Era la confessione di un sostanziale fallimento,della inefficacia della sua presenza intellettuale perfino nei confrontidel contesto sociale nel quale aveva trascorso gran parte dei suoianni.

Ai suoi concittadini, comunque, come atto di fiducia nelle ca-pacità rigeneratrici del tipo di cultura da lui rappresentato, avevavoluto fosse aperta la sua biblioteca, donata, fin dal , insiemealle collezioni di storia naturale e di reperti archeologici e ad alcunimanoscritti, al seminario locale, che aveva costituito la cassa di

. BNB, fondo D’Addosio, /, lettera datata Napoli, dicembre .

. Ivi, lettera datata Bitonto, settembre .

. Ivi, lettera datata Bitonto, ottobre .

. Ivi, lettera datata Bitonto, maggio .

. Ivi, /, lettera datata Bitonto, aprile .

. Ivi, /, minuta di lettera del Giovene al Montrone senza data (ma luglio ).

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risonanza in provincia per le sue ricerche. Una biblioteca « se nonatta e propria a figurare splendidamente in una Capitale, sufficienteperò almeno alla prima istruzione della gioventù della Provincianei rispettivi rami delle scienze », e che, comunque, contienein sé le linee generali dell’itinerario culturale che si è cercato diricostruire nelle pagine precedenti. La parte più importante deglioltre volumi che la costituiscono è formata da opere di edifi-cazione religiosa e di scienza applicata, con i vari Rozier, Toaldo,Cotte, Petagna, Tenore. Non mancavano alcuni grossi nomi dellascienza contemporanea: i Principia mathematica di Newton, Mus-schenbroek, Pristley, Boyle, Davy, l’Exposition du sistème du mondedel Laplace, i volumi delle Ouvres di Buffon e, fra gli Italiani,Galiani, Spallanzani, Brugnatelli, Fontana; più clamorose però leassenze, da Black a Lavoisier a Volta a Lamarck a Gay–Lussac a La-grange, a testimonianza di un sostanziale disinteresse per la teoria.Il Settecento meridionale è presente con Vico, Giannone, Genovesi,Filangieri e il suo avversario Grippa, Fortunato, Domenico Grimal-di, Vivenzio, Delfico e poi, man mano, Galdi e il Cuoco del Platonein Italia; quello italiano con Muratori e Beccaria, quello europeo insostanza con alcuni libri di viaggio, Necker, i Saggi politici di Hume,gli volumi del Cours d’étude di Condillac. Così la grande assenteresta, accanto alla philosophie, l’economia, non solo quella dei Que-snay e Smith, ma anche quella dei corregionali Palmieri e Brigantio, addirittura, dell’intimo Cagnazzi, del quale manca il manualedi economia politica del . Una biblioteca straordinariamentesimile a quella di colui che aveva iniziato il Giovene alle scienze,Giuseppe Saverio Poli, anche se la diretta esperienza internazio-nale di quest’ultimo la infoltiva di libri di scienza olandesi, inglesi,francesi: uguale nella scarsissima presenza di economisti e di illu-ministi, nei vuoti riguardanti la scienza teorica: una conferma,qualora ce ne fosse bisogno, del carattere esemplare dell’esperienzadell’arciprete molfettese.

. ASB, Sezione di Trani, notaio Domenico Visaggio, vol. , atto dell’ aprile .Vi si conferma la donazione del ottobre con tutte le clausole, fra cui quella che labiblioteca avrebbe dovuto essere aperta ai giovani anche non seminaristi. Allegato l’elencodei libri e oggetti donati.

. Ibidem.

. La biblioteca del Poli è ad oggi custodita in larga parte nella abitazione di Molfettadi un suo discendente, il defunto scrittore Enrico Panunzio, che a suo tempo mi permiseamichevolmente di studiarla.

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. Propaggini illuministiche

Giovene morì nel gennaio a anni, sostanzialmente dimen-ticato negli ambienti scientifici italiani, nei quali pure aveva avutoi suoi momenti di celebrità. Erano tempi, certo, privi del gustodell’avventura e della scoperta presente nella vita intellettuale degliultimi decenni del Settecento, ma alcuni tratti di quella cultura sierano conservati nella sostanza immutati. « Lavoisier, Morveau, Ber-toleth, Fourcroy, Chaptal, voi foste i rigeneratori del mondo fisico:voi reggete il mio cuore, e voi secondate gli sforzi gloriosi di questascientifica ed illustre società », aveva esclamato Andrea Miolli, il pri-mo « segretario perpetuo » della Società di Agricoltura di Terra diBari alla cerimonia dell’« installazione », segnando il clima di asso-luta indifferenza in cui sarebbero cadute le Prelezioni sul Newton ed ilProspetto analitico di economia politica scritto per iscienza, contenentequattro « definizioni » e tredici « proposizioni teoriche », del primice-rio Domenico Mizzi di Capurso. Così come inascoltato sarebberimasto un altro « segretario perpetuo », Francesco Santoliquido, ilquale andava proiettando, dall’interno di una nostalgica aspirazionead una società patriarcale ed arcadica, un’ombra di dubbio sul facileottimismo indotto dagli ambienti più legati all’esportazione oleariae granaria. Le memorie di agricoltura continuarono così ad occu-pare gli ozi dei proprietari, l’allievo prediletto del Giovene, AndreaTripaldi, fece ancora a lungo esperimenti scientifici nel seminariodi Molfetta, lo sviluppo economico della provincia tornò a vivaciz-zarsi anche grazie all’impulso del nuovo sistema di spremitura delleolive introdotto a Bari e Bitonto dal negoziante provenzale PierreRavanas, confermando il suo carattere subalterno, la sua incapacità

. Scrissero lettere di condoglianza ai familiari in occasione della sua morte solo dotti diprovincia ed ecclesiastici. Le raccolse il nipote del Giovene Luigi Marinelli, e sono depositatein BNB, fondo D’Addosio, /. I necrologi poetici sono raccolti in BCM, mss. .

. Atti delle istallazioni delle società di agricoltura in tutte le provincie del Regno celebrate nel dìprimo novembre [. . . ], Napoli , p. .

. Un profilo del Mizzi è proposto da Gennaro Venisti in “Rassegna pugliese”, , p. .Il Prospetto analitico (in ASB, fondo Agricoltura industria e commercio, fascio , fascicolo ) fuletto alla società economica di Terra di Bari il maggio . Del Mizzi c’è anche una Logicamanoscritta in BNB, fondo D’Addosio, /.

. Cfr. le sue relazioni negli Atti della società economica della provincia di Terra di Bari,pubblicati annualmente a partire dal dalla tipografia Cannone di Bari.

. Cfr. R. De Stefano, Il contributo di Pietro Ravanas all’agricoltura meridionale dell’Otto-cento, estratto dagli Atti del Convegno nazionale di studi sul rilancio dell’agricoltura italiana nel IIIcentenario della nascita di Sallustio Bandini, Siena .

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di ribaltare sostanzialmente i vecchi rapporti di produzione propriomentre diffondeva un qualche benessere anche al di là della cerchiaristretta dei gruppi di comando dell’economia e riduceva la basesociale dello stesso antiborbonismo moderato. Era l’ambiente di unaversione estrema del famoso del “concretismo” economico italiano,che ha trovato a lungo, anche nella storiografia professionale, i suoiesaltatori entusiasti.

Non per caso, alla stretta finale del processo unitario, il con-tributo politico di questa zona “forte” del Mezzogiorno si rivelòparticolarmente esiguo.

. Ad esempio G. Barbieri, Gli economisti pugliesi verso il Risorgimento, estratto dagli “Annalidella facoltà di Economia e commercio dell’Università di Bari”, Bari .

. G. Masi, La partecipazione della Puglia alla rivoluzione liberale unitaria, in “Archivio storicoper le province napoletane”, , pp. –.

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Capitolo II

Sull’economia politica nel Mezzogiornod’Italia di primo Ottocento

Note su Francesco Fuoco e Giuseppe De Weltz

.. Premessa: classicismo economico e Mezzogiorno

La diffusione nell’Europa della prima metà dell’Ottocento dell’eco-nomia politica classica ed il processo di trasformazione di essa inscienza accademica sono temi relativamente poco studiati. Eppuresi tratta di questioni di grande importanza. Con aggiustamenti emodificazioni significative, che andrebbero analizzate con attenzione,i teoremi economici elaborati nelle aree dello sviluppo capitalisticodivennero patrimonio ideale delle classi dominanti in paesi emargina-ti da quello sviluppo, dando spesso giustificazione teorica a posizionidi politica economica che, adeguate alle condizioni oggettive delle na-zioni più progredite, si rivelavano assolutamente inadeguate di fronteai problemi dell’arretratezza. Come in tutto ciò si intrecciassero ilprestigio ideale e la forza egemonica sul piano dei rapporti economi-ci e politici delle nazioni di più avanzata industrializzazione, nonchéla debolezza delle classi dominanti locali, sarebbe da verificare conindagini approfondite e multidirezionali.

Nel Mezzogiorno d’Italia la particolare forma di smithianesimoricca di umori antiborbonici che, dopo la tormentata e contraddit-toria elaborazione di Luca de Samuele Cagnazzi, emerse a partiredagli anni Trenta dell’Ottocento, costituì elemento fondamentaledell’ideologia moderata risorgimentale, della sua incapacità di affron-tare i nodi dell’arretratezza del Mezzogiorno stesso e di prefigurareun inserimento non subalterno di esso nello Stato unitario. Non si

. Indicazioni interessanti si possono trovare, ad esempio, in J.J. Spengler, Notes on theinternational transmission of economie ideas, in “History of Political Economy”, , n. , pp.–. Cfr. anche, di E. Lluch, El pensament econòmic a Catalunya, Barcellona .

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tratta certo ora di ipotizzare soluzioni alternative che, sul piano deldibattito economico come su quello dello scontro politico, si rivelanosubito prive del sostegno di forze sociali coscienti e significative: leclassi dominanti meridionali e le loro forme di coscienza, anche negliaspetti antiborbonici, sono in un certo senso esse pure espressionedelle configurazioni sociali e politiche che pensano, formalizzano,progettano. Il fatto è, però, che sforzi di riflessione teorica autonoma,tentativi di elaborare e proporre misure che incidessero realmentenegli equilibri secolari della società meridionale ci furono e, anzi,formarono alcuni dei momenti più alti nel pensiero economico delRegno nella prima metà dell’ Ottocento. Il modo in cui si costruìnel Mezzogiorno l’economia politica classica e quindi il processo diformazione dell’ideologia economica moderata va compreso anchestudiando come questi sforzi e questi tentativi siano stati emarginatidal dibattito teorico e sconfitti nelle loro risultanze pratiche; che è poi,in sostanza, su di un piano certo ben diverso, la vecchia indicazionedi Delio Cantimori studioso di utopisti e riformatori risorgimentali.

Da questo punto di vista è di grande rilievo il gruppo di ope-re apparse sotto i nomi di Francesco Fuoco e Giuseppe De Welzall’inizio del decennio di fermenti che conduce all’effermarsi delliberismo moderato nel dibattito economico meridionale. I due sonofigure diversissime: il primo è un abate poligrafo e patriota napole-tano, approdato alla teoria economica come ad un’avventura tuttaintellettuale; l’altro è un intraprendente uomo d’affari comasco chepartecipa — in una posizione, come vedremo, tutta particolare —all’inserimento nei gangli vitali dell’economia meridionale, a parti-re dal periodo murattiano, di Inglesi, Francesi, Svizzeri, Lombardi,attrattivi, col loro patrimonio di competenze, di spirito imprendi-toriale, a volte solo di idee geniali, dalle potenzialità economichee dal vuoto di autonoma iniziativa che, in una fase di generale edaccelerata espansione dell’economia europea, intravvedevano nelRegno stesso. Li accomunano d’altro canto istanze di rinnovamentoradicale della vita economica del Mezzogiorno espresse in due corpidi idee, progetti ed elaborazioni teoriche che, pure non confondibili,contribuiscono nello stesso tempo a spiegare la loro lunga e fecondacollaborazione scientifica e l’espulsione di entrambi, nonostante larilevanza dei risultati teorici e analitici raggiunti, dal filone principaledel pensiero economico meridionale.

È mia convinzione che, nonostante la notevole quantità di scritti,spesso di ottimo livello, dedicati alle opere in questione, queste atten-

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

dano ancora chi le legga in una prospettiva generale e sullo sfondodei problemi dell’economia meridionale. Attenderanno ancora dopoqueste pagine, le quali tuttavia, insieme ad una riconsiderazione dellaintricata questione filologica dell’attribuzione delle “opere dewelzia-ne”, si propongono di offrire alcuni spunti interpretativi nel sensoindicato.

.. La questione delle “opere dewelziane”: qualche nota filolo-gica sulla produzione e circolazione della pubblicistica eco-nomica meridionale

Il rischio di alimentare inutilmente una discussione filologica che,in attesa di prove definitive, può rivelarsi inconcludente, è forte, manon eludibile nella misura in cui ogni elaborazione sulle questionisu accennate non può che partire da una ipotesi di soluzione deiproblemi aperti. D’altronde il caso in esame può aprire spiragli inte-ressanti sull’ancora incerto statuto dell’autore delle opere a stampa, e,più in particolare, sul funzionamento dei circuiti della pubblicisticaeconomica, meridionale e non, sia dal lato della produzione che daquello della circolazione libraria. Cerchiamo di ripercorrere rapida-mente i fatti anche alla luce dei documenti pubblicati in appendice aquesto scritto, oltre che, naturalmente, alla luce dei lavori di AurelioMacchioro e Francesco Renda, i quali, con un salutare richiamo allefonti, hanno posto su basi nuove la questione.

Dopo l’incontro avvenuto a Parigi nel fra l’ecclesiasticonapoletano Francesco Fuoco esiliato per aver partecipato ai moti del–, il quale aveva fino a quel momento esercitato l’attività difilologo e pedagogo, e Giuseppe De Welz, « negoziante comasco »,come egli stesso era solito definirsi, in Francia per realizzare unprestito di un milione di once d’oro a favore dei Borboni napoletani,vennero pubblicate sotto il nome di quest’ultimo un gruppo di opere

. Cfr. A. Macchioro, Francesco Fuoco o Giuseppe De Welz, in “Giornale degli economistie Annali di economia”, , n. , pp. – , ripubblicato in Id. Studi di storia del pensieroeconomico e altri saggi, Milano , pp. –, da cui cito; F. Renda, Introduzione alla edizione dalui curata della dewelziana Magia del credito svelata, Caltanissetta–Roma , pp. VII–LXXXVIII,nella quale Renda riprende il suo saggio Giuseppe De Welz e Francesco Fuoco. Storia di unacollaborazione, in “Archivio storico per la Sicilia orientale”, , n. . Sempre di Renda, cfr.anche la Prefazione alla sua edizione del Saggio sui mezzi del De Welz Caltanissetta–Roma .Cito il Saggio e la Magia dalle edizioni procurate da Renda.

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di grande risonanza anche al di fuori del Regno, nelle quali venivanoillustrati progetti di vasto respiro sulla costruzione di infrastrutturefondamentali e su iniziative imprenditoriali da realizzare in Sicilia enel Mezzogiono. Tali opere a partire dal vennero rivendicate,anche se solo tramite allusioni e l’inclusione di esse in cataloghi dellesue opere, o, come vedremo, nella sua privata corrispondenza, dalFuoco, il quale nel frattempo aveva pubblicato sotto il suo nomeimportanti scritti di teoria economica. I contemporanei tuttavia,

. Elenco, per facilitare la lettura, le opere sui cui frontespizi Giuseppe De Weltz appare,in esteso o puntato, come autore e che il Fuoco rivendica: Saggio sui mezzi da moltiplicareprontamente le ricchezze della Sicilia, Parigi, Firmin Didot, ; La magia del credito svelata.Istituzione fondamentale di pubblica utilità da G.D.W. offerta alla Sicilia e agli Stati d’Italia, voll., Napoli, Stamperia Francese, ; Memoria per le sagre mani di Sua Maestà Ferdinando I Redelle Due Sicilie, Napoli, Stamperia Francese, ; Memoria presentata a Sua Maestà il Re delRegno delle Due Sicilie da G. D. W. il giugno , Napoli, Stamperia Francese, ; Primoelemento della forza commerciale ossia nuovo metodo di costruire le strade di G. L. Mac–Adam.Traduzione dall’originale inglese di G. D. W. offerta alla Sicilia e agli altri Stati d’Italia con note,tre appendici ed un riassunto dello stesso traduttore e cinque tavole, Napoli, Giovanni Martin,; Giuseppe De Weltz e Giuseppe Barracco, Prospetto per la formazione di una compagniaindustriale per San Leucio, Napoli, Stamperia Francese, . A questi scritti sono da aggiungerel’anonimo Comento di comento, o sia lettere critiche del sig. F.N. sul saggio del sig. Giuseppe De Welzriprodotto dal signore dottore in medicina Giuseppe Indelicato, Napoli, Stamperia Francese, ,e le Massime di economia industriale scritte da Giuseppe De Welz in Napoli il marzo , giornodel suo spontaneo accommiato dalla Real manifattura di Seterie e Cotonerie di San Leucio, rimasteinedite e pubblicate dal comasco solo nel numero del marzo dell’“Ape delle cognizioniutili”, a pp. –. Tali massime, modificate in più punti, vennero pubblicate dal Fuoco qualecapitolo III del III libro della sua Introduzione allo studio dell’economia industriale o principjdi economia civile applicati all’uso delle forze, Napoli, Trani, , ripubblicata in “Rassegnamonetaria”, , n. , pp. – (citerò da quest’ultima edizione). Occorre comunquetener presente l’intera utilissima bibliografia che dei due autori dà Renda (Introduzionecit., pp. XXXV–LV), alla quale andrebbe aggiunto il Tableau géneral d’exploitation rinvenutomanoscritto sotto il nome del De Welz nell’ASN da Gaetano Cingari (G. Cingari, Problemi delRisorgimento meridionale, Messina–Firenze , p. ), nonché le ultime due parti apparse nel sul “Pontano” (n. X, pp. –; n. XI, pp. –) del saggio fuochiano Forza industrialee sue leggi, ripreso nei libri II e III della citata Introduzione allo studio dell’economia industrialedel Fuoco stesso. Considererei infine questa Introduzione del Fuoco non quale ristampadell’introvabile edizione del , bensì come cosa nuova. Essa infatti, oltre a riportare leMassime pubblicate sotto il nome di De Welz, riprende, come ha notato Federico Chessa(cfr. F. Chessa, La ricchezza e le forze economiche secondo la concezione di Francesco Fuoco, in“Annali di Statistica e di Economia della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università diGenova”, anno V, volume VI, pp. –), una serie di articoli pubblicati fra il ed il ,i quali, se fossero già stati pubblicati quali parte dell’edizione del , avrebbero riportatol’indicazione dell’opera da cui erano tratti. Per non appesantire ulteriormente le note, cito leopere di Fuoco e De Welz nel testo tra parentesi tonde.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

anche i più informati ed esperti in materia economica, non sembra siaccorgessero delle rivendicazioni del Fuoco, e lo stesso De Welz, nellasua rivista edita a Milano a partire dal , “L’ape delle cognizioniutili”, continua a citare come sue le opere in questione senza farcaso a quanto Fuoco andava insinuando. Non pongono ugualmenteproblemi di attribuzione le note necrologiche apparse dopo la mortedi De Welz nel gennaio .

Dopo la morte di Fuoco, avvenuta nell’aprile , apparvero in-vece alcune necrologie di pubblicisti meridionali che accoglievano,anche se con sfumature diverse, le rivendicazioni fuochiane: RaffaeleLiberatore in particolare, riportando brani di lettere di De Welz at-testanti la paternità fuochiana delle opere contestate, afferma che ilFuoco, « sia per pattuita mercede, sia per altra cagione », prestò la suapenna per « il comporre, lo scrivere, il dar lume a’ pensieri che buie sconnessi aggiravansi pel capo » di De Welz, il quale in ogni casosarebbe stato l’ideatore dei progetti illustrati nelle opere in questione;il Tranchini invece attribuisce al Fuoco le dewelziane senza neanchemenzionare De Welz. Ciononostante autori illustri e meno illustricontinuarono a mostrare di ignorare la questione, e non solo i Mohl,i Mac Culloch, i Blanqui, ma anche meridionali come Calà–Ulloa,Scialoia, Moreno, Bianchini, De Cesare. Perfino una Rassegna delleprincipali opere dei migliori economisti napoletani del secolo XIX, pubbli-cata da Alessandro Gicca nel sullo stesso fascicolo degli “AnnaliCivili” su cui era apparsa la necrologia del Liberatore, attribuisce alFuoco le sole opere apparse sotto il suo nome.

. Per non fare che un esempio, in M.L. Rotondo, Saggio politico su la popolazione e lepubbliche contribuzioni del Regno delle Due Sicilie al di qua del Faro, Napoli , troviamo citataa pp. e la Magia sotto il nome di De Welz, senza che vengano suscitate questioni diattribuzione.

. Vedi le indicazioni bibliografiche in A. Macchioro, Francesco Fuoco o Giuseppe De Weltzcit., p. .

. F. Palermo, necrologio in “Poliorama pittoresco” del giugno; I. Tranchini, voceFrancesco Fuoco in Dizionario biografico universale [. . . ], volume II, Firenze , p. ; R. Libera-tore, necrologio in “Annali Civili del Regno delle Due Sicilie”, , fascicolo LX, pp. –. Nonc’è cenno alla “rapina” né nella necrologia dell’ “Omnibus letterario” firmata da G. Pasqualoni,né nella nota dell’editore Stella, biografo anche del De Welz, citata in A. Macchioro, FrancescoFuoco cit., p. .

. Sostanzialmente sulle posizioni del Liberatore è il Palermo, per quanto è dato di capiredal suo articolo largamente censurato.

. Ricche indicazioni bibliografiche in A. Macchioro, Francesco Fuoco cit., pp. –; cfr.anche, dello stesso Macchioro, L’economia politica di Melchiorre Gioia, in Id., Studi di storia del

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Perché la questione dell’attribuzione torni a galla dobbiamo aspet-tare i Primi elementi di economia sociale di Luigi Cossa, che dice essereFuoco « autore dell’eccentrica Magia del credito ». L’affermazione, noncorredata da alcuna documentazione, viene ripresa da Ricca Salerno,da Fornari, da Cossa stesso nelle varie edizioni della sua famosa In-troduzione allo studio dell’economia politica, e da quanti si occuparonodel Fuoco, senza alcuno sforzo per sostenere questa attribuzione suun piano filologico. In questi autori, quando non diventa un puro esemplice pseudonimo, De Welz perde così qualsiasi funzione nellaredazione delle dewelziane, mentre il Fuoco, che fino alla pubblica-zione dei Saggi Economici aveva solo dato prova di essere uno dei tantifilologi e pedagoghi napoletani, diventa all’improvviso, da uomo discuola e di lettere, autore di articolati e precisi piani finanziari edaziendali per conto di un banchiere–imprenditore evidentementeincapace di fare il suo mestiere. Secondo il Cossa, ad esempio, Fuocoper denaro « permise che [De Welz] si chiamasse autore » della Magia,che il napoletano aveva « dettata per sostenere i progetti finanziari delministro Medici ». La debolezza dell’argomentazione è immedia-tamente evidente: anche le fonti disponibili quando Cossa scrivevasono unanimi nel riconoscere che De Welz non aveva certo bisognodi comprare idee da altri, e ricordano chiaramente che un rapportocol Medici era lui ad averlo, e non certo il pedagogo esiliato per imoti carbonari. Né argomenti di qualche peso porta l’unico studio-

pensiero economico cit., pp. –. Il Gicca pubblicò, ancora negli “Annali Civili” (, fascicoloCXXXIII, p. ss.), un articolo su Il credito in generale e condizioni del Regno di Napoli, in cui, puraffrontando in pieno le questioni poste dalle dewelziane, non cita né De Weltz né Fuoco.

. Milano . La cit. è a p. .

. Piero Barucci, in polemica con la Prefazione di Francesco Renda alla sua edizione delSaggio sui mezzi, nega l’esistenza di questa linea interpretativa (cfr. “Economia e storia”, , n., pp. –). Ma cfr. F. Nicolini, Niccola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del secolo XIX,Napoli , p. , dove, citando Fornari e Ricca–Salerno, si afferma che il Fuoco si celava« talvolta sotto lo pseudonimo di Giuseppe De Welz ». Nelle « Correzioni e aggiunte » al volume(pp. –), Nicolini cambia linea, ma, si badi bene, non affermando di aver equivocato nellalettura di Fornari e Ricca Salerno, ma riscoprendo Liberatore e Palermo. Ancora nel , delresto, un acuto ed informato indagatore del dibattito economico meridionale, Gaetano Cingari(Problemi del Risorgimento meridionale cit., p. , nota), affermava che « Francesco Fuoco, sottolo pseudonimo di Giuseppe De Welz, aveva pubblicato nel il Saggio [. . . ] ».

. L. Cossa, Introduzione allo studio dell’economia politica, Milano , p. .

. Secondo F. Dello Joio, invece (cfr. La Magia del credito di Francesco Fuoco, in “Rivistaitaliana di scienze economiche”, a , p. ), « pare accertato che, nonostante che il Fuocofosse in esilio, egli conservava rapporti frequenti col ministro de’ Medici che ne ascoltava

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

so che, dall’interno della linea Cossa — Ricca Salerno — Fornari,abbia prodotto uno sforzo in senso documentario, Federico Chessa.A Chessa dobbiamo in realtà essere grati per la scoperta di una seriedi scritti minori del Fuoco sparsi sulle riviste del tempo, per la pub-blicazione del catalogo del apparso sul “Pontano”, per un primoabbozzo della vita del De Welz condotto sulla base delle necrologiepubblicate in occasione della morte del comasco; inconsistenti sonoperò i « vari altri elementi » che egli aggiunge a quelli tratti dal Li-beratore per attribuire al Fuoco le dewelziane, ed erroneo è il suo

molto volentieri i suggerimenti. Si ha conferma di ciò nelle carte finanziarie del ministerodelle finanze napoletane nell’Archivio di Stato di Napoli [. . . ] ». Dello Joio non dice da qualeluogo dell’immenso fondo napoletano tutto ciò risulterebbe; cita invece a riprova « il fatto cheil De Welz — che il ministro de’ Medici sapeva essere il prestanome del Fuoco — gli dedicòcon un preambolo tanto ampolloso la Magia e nell’introduzione elogiò altamente l’attività dipolitica finanziaria ed economica del ministro napoletano ». Dimostrerebbero cioè l’amiciziacol Medici dell’esule antiborbonico Fuoco, e non del collaboratore finanziario dei BorboniDe Welz, le lodi al Medici firmate dal De Welz. Altra pezza d’appoggio di Dello Joio è A.Bertolini, autore della voce Fuoco del Palgrave’s Dictionary, il quale aveva affermato, sempresenza driferimenti documentari, essere stata scritta dal Fuoco la Magia « to support the fìnancialpolicy of the ministro Medici ».

. Le argomentazioni di Chessa sono le seguenti (La ricchezza cit., pp. –): a) all’Inde-licato rispose il Fuoco col Comento di comento, non il De Welz. La cosa non pare dubbia, e anzinon ci sono le basi per mettere in discussione, come fa Macchioro (Francesco Fuoco cit., p. .nota), l’attribuzione al Fuoco del Comento. L’opera fu ripubblicata dallo stesso Fuoco nel

col titolo Lettere sulla Sicilia, ossia osservazioni del sig. F.F. sul saggio del sig. G. De Welz riprodottodal sig. G. Indelicato: l’F.F. sostituito dal Fuoco all’F.N. della prima edizione doveva essere un velopiuttosto trasparente, tanto che Carlo De Cesare, a pp. di Delle condizioni economiche e moralidelle classi agricole nelle tre provincie di Puglia (Napoli ), non ha alcun dubbio che si trattidell’« insigne economista » napoletano. b) Lo stesso discorso vale per il secondo argomento,cioè le allusioni proprietarie del Fuoco. Straordinariamente infelice è in proposito il riferimen-to documentario di Chessa, il quale va a pescare, fra le tante rivendicazioni che il Fuoco fadelle dewelziane, l’unica, a quanto mi risulta, in cui De Welz è esplicitamente citato qualeautore della Magia (si tratta della nota anonima sul Bianchini dell’“Ape Sebezia” del maggio, pp. –), e che dimostrerebbe quindi il contrario di quanto dice il Chessa; comunquele allusioni del Fuoco, se pongono un problema di attribuzione, certo non lo risolvono. c)Una « nuova prova » viene da Chessa individuata in una nota del Mac Adam (ed. cit., p. ),in cui l’autore dice che, dopo essersi occupato del credito nella Magia, « nell’opuscolo sulleconcessioni discuterà convenevolmente la grande utilità che i governi possono ricavare dalsistema delle concessioni »: argomento di cui, secondo Chessa, avrebbe parlato il Fuoco nelcapitolo V del libro II dell’ Introduzione, e non il De Welz. In realtà nel breve passo citato dalChessa, il sistema delle concessioni perde quella funzione taumaturgica rispetto allo sviluppoeconomico che veniva ad esso assegnato in più luoghi del Mac Adam, con la caratteristicaestremizzazione dewelziana; chi invece ne « discute convenevolmente » è proprio il De Welz, inun lungo articolo pubblicato a p. ss. del numero del maggio dall’“Ape delle cognizioni

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tentativo di perpetuare il presunto rapporto mercenario del Fuococol comasco vita natural durante e di assegnare al primo vari articolidell’“Ape delle cognizioni utili”. Il fatto è che non possono essereportate come « prove » dell’appartenenza delle dewelziane al Fuocole rivendicazioni di quest’ultimo, quelle caute e sfuggenti rinvenuteda Chessa o le altre, ben più esplicite, del catalogo del . Comedice Macchioro, esse pongono un problema di attribuzione, ma certonon lo risolvono, dato che bisognerebbe trovare un motivo per faredi esse maggior conto di quelle del De Welz, che volle il suo nomestampato sul frontespizio delle dewelziane e sempre le trattò comecose sue.

Né lo risolvono le cinque lettere del Fuoco che pubblico in ap-pendice. Vediamo intanto di che cosa si tratta. Corrispondente delNostro è Andrea Lombardi, tipico burocrate meridionale autore didiscorsi ed opuscoli letterari, archeologici, giuridici raccolti manmano in volume, il quale, stimolato dal clima dei primi fervidi anniTrenta, andava raccogliendo notizie materiali e consigli dai cultoridi economia per un’ampia pubblicazione sugli economisti napole-tani. Notizie e materiali ne chiese anche al Fuoco, che gli rispose

utili”, intitolato Sistema generale di procedimento per le costruzioni di opere pubbliche negli Statidell’unione nord–americana, per via di concessioni.

. Oltre a brani minori, Chessa attribuisce al Fuoco « tre brevi saggi » dell’“Ape”, che,come ora sappiamo dai cataloghi portati alla luce da Renda, il Fuoco stesso non rivendica. Ilprimo, intitolato Pregiudizio grave smentito dal senso comune (e non L’economia industriale italiana,come dice Chessa scambiando il titolo della rubrica con quello dell’articolo) e pubblicato a pp.– del fascicolo del maggio , è costituito da pagine di citazione del grande nemico delFuoco, Melchiorre Gioia, e da una pagina di commento in cui ricorrono temi dewelziani comel’esaltazione delle tariffe napoletane del – e del Medici. Perché vada attribuito al Fuoconon si riesce a capire. Il secondo articolo da attribuire al Fuoco sarebbe Sopra il sistema proibitivo,il restrittivo e quello della libera concorrenza, alle pp. – del fascicolo del giugno , in quanto,motiva Chessa, l’articolo ha un’impronta liberista in contrasto col protezionismo dewelziano.Senonché, come è detto a chiare lettere, l’articolo è, questa volta, tutto una citazione d’autore,dello Chaptal, corredato da note autobiografiche del De Welz e dalla inequivocabile sigla W.Terzo articolo da attribuire al Fuoco sarebbe Classificazione dell’industria umana e limiti ad essaprescritti, pubblicato in due puntate nei fascicoli di marzo e aprile , rispettivamente allepp. – e –; e qui, nonostante prima della solita W. finale sia detto « tolto dalla Magiadel credito svelata », Chessa non si accorge che si tratta del capitolo VI del I libro della Magia.In realtà, come ha dimostrato inequivocabilmente Renda, il rapporto fra i nostri due autorifinisce il .

. Francesco Fuoco cit., p. .

. Cfr. su di lui la prefazione « A’ lettori » di F. Saverio Salfi alla III edizione dei Discorsiaccademici ed altri opuscoli del Lombardi (Cosenza ). Un necrologo del Lombardi fu

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

con queste lettere ora conservate nell’Archivio-Biblioteca-MuseoCivico di Altamura. Le quali costituiscono il primo documento innostro possesso in cui Fuoco rivendica la paternità delle dewelzianenon con allusioni, ma con esplicite affermazioni. Un passo avantidunque, come dice il Macchioro augurandosi il ritrovamento didocumenti di questa natura, ma non di più: non certo la provadefinitiva che potrebbe venire dal ritrovamento delle lettere delDe Welz al Fuoco viste dal Liberatore. Tanto più che, se il Fuocosi mostra chiaramente interessato a farsi attribuire le dewelzianein un’opera di storia del pensiero economico napoletano, quale ilLombardi diceva di voler scrivere, appare d’altronde estremamen-te cauto sulla forma dell’attribuzione che suggerisce al Lombardie insiste nel voler leggere la parte dello scritto che lo riguarda pri-ma della sua pubblicazione. Vedasi quanto scrive in proposito nellalettera del novembre: « Una delicatezza a cui non posso né debborinunciare mi fa pregare di farne [della storia del suo rapporto colcomasco esposta nella stessa lettera un uso il più discreto. Vorreianzi sapere anticipatamente cosa intendete dirne nella vosta opera,per farvi le mie osservazioni, se lo permettete ». E in quella del gennaio : « rilevarsi essere uscite dalla stessa penna dell’autorede’ “Saggi Economici”, è dir tutto. Soggiungendo poi di averle tro-vate inserite nel catalogo delle opere dello stesso autore, ne troveretela certezza della congettura. Così viensi a rispettare la delicatezza, enon tradire la verità. Se vi piacesse di trascrivermi questa parte delvostro articolo, io potrei leggerla prima di consegnarla alle stampe,e dirvene l’occorrente ».

prodotto da Gennaro Serena, che però non sono stato in grado di trovare. Solo un cennogli dedica T. Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napoletane dal MDCCXXXV alMDCCCXXX, Milano , p. , nota. Notizie su di lui possono anche ricavarsi dalle lettereinviategli da Giordano de’ Bianchi Dottula Marchese di Montrone, conservate nell’ABMC(fondo Serena, cartella ) e dalle sue lettere al Giovene, di cui una costituisce l’appendiceVI, in BNB, fondo D’Addosio, /.

. Fondo Serena, cartella .

. Macchioro (Francesco Fuoco cit., p. , nota ) si augura il ritrovamento delle lettereviste dal Liberatore, svalutandone l’importanza in quanto in esse sarebbero contenute affer-mazioni del Fuoco; senonché, come ben spiega Macchioro stesso nel saggio in questione, lelettere viste dal Liberatore conterrebbero ammissioni del De Welz stesso intorno, quantomeno, alla partecipazione del Fuoco alla redazione delle dewelziane.

. Cfr. la lettera nell’appendice VII: « in un’opera tale, quale mi dite esser dovrà la vostra,sarà di non lieve interesse far conoscere al pubblico, che le opere le quali vanno sotto il nomedi De Welz non sono che mie ».

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Il Lombardi purtroppo non pubblicò, a quanto ci è dato di sapere,lo studio che aveva progettato e non possiamo perciò leggere lesue pagine dedicate al Fuoco pilotate, per così dire, dal Fuoco stesso.Ciò che in ogni caso risulta chiaro è che il Nostro non vuole che perstampa si dica apertamente quanto c’era da dire: in un certo sensovuole che sia il pubblico dei lettori, opportunamente stimolato dallenotazioni suggerite al Lombardi e dai cataloghi, a risolvere a suofavore la questione.

Le congetture che potrebbero a questo punto farsi sulle causedi questa reticenza (esempio: non voleva che De Welz, anche selontano dal Regno, accorgendosi di una troppo aperta rivendicazione,lo smentisse?) non penso possano farci fare dei passi avanti nella solu-zione del problema; la « delicatezza » a cui Fuoco non può rinunciaresembra in ogni caso un motivo in più, da aggiungere al fatto che sitratta di affermazioni di parte in causa, per accettare con beneficiod’inventario le rivendicazioni fuochiane.

Né maggiori lumi ci possono venire su questo problema dallarapida, ellittica e sibillina « storia autentica delle opere dewelziane »delineata nella lettera del novembre, che qui di seguito chioso. « Ilsaggio », comincia il Fuoco, « fu scritto da me a Parigi. De Welz, cheio ancora non ben conoscevo, m’ingannò con vane promesse ». Le« vane promesse » che seguirono la composizione di quello che fupoi pubblicato nel a Parigi da Firmin Didot sotto il nome di Giu-seppe De Welz col titolo Saggio sui mezzi da moltiplicare prontamentele ricchezze della Sicilia, debbono evidentemente riferirsi al nome dafar figurare come autore. « Si rannodò la corrispondenza », infatti,quando il Fuoco riuscì ad « imporre la legge » che quale autore delComento di comento, apparso a Napoli nel in risposta alle notecritiche apposte dal medico palermitano Giuseppe Indelicato all’edi-zione del Saggio da lui curata ad insaputa dell’autore, figurasse la siglaF.N., interpretata dal Liberatore come « Fuoco Napolitano »; la corri-spondenza s’interruppe invece nuovamente quando, pubblicando laMagia sotto il suo nome, il comasco « di nuovo venne meno a tutte lepromesse ». Il Fuoco avrebbe insomma voluto che il De Welz, comeaveva fatto in Comento di comento, firmasse magari prefazione e note,

. Né penso, come potrebbe dedursi dal passo di Fuoco citato per ultimo, che il Lombardipubblicò un articolo sull’argomento: ancora nel il Salfi (“A’ lettori” cit., p. III) si augu-rava che il Lombardi trovasse il tempo di ampliare il suo studio sugli economisti napoletanipubblicato nel .

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ma permettesse a lui di figurare quale autore dell’opera, cosa che, seè giusta l’interpretazione che propongo, veniva ogni volta promessae mai mantenuta.

Il rapporto fra Fuoco e De Welz dunque, lungi dall’essere, comefin’ora lo si è interpretato, uno stretto sodalizio interrotto solo dallapartenza di De Welz per Milano nel , data d’inizio delle rivendi-cazioni fuochiane, dové essere tormentato da una continua disputa diattribuzione. La « storia » del Fuoco ci porta anzi ad anticipare di alcu-ni anni la data della rottura. Al Primo elemento, pubblicato dal De Welznel con una sua dedica del novembre dell’anno precedente,fa evidentemente riferimento il comasco in una lettera pubblicata sulgiornale palermitano “La Cerere” del febbraio , dicendo di avertradotto e corredato di note, nelle more della pubblicazione della Ma-gia, un’opera sulla costruzione e riparazione delle strade; e lo stessoFuoco, nella lettera che sto commentando, dice di aver compilatol’opera a Marsiglia, dalla quale sarebbe partito per Pisa all’incirca allafine del . Dopo il dunque, con la pubblicazione cioè dellaMagia, alla quale il Fuoco doveva tenere moltissimo, sotto il nomedel De Welz, il sodalizio che era stato per tre anni così fruttuoso puòconsiderarsi chiuso; ed è da quel momento, dal momento cioè in cuicapisce che la collaborazione col De Welz non può soddisfare la suaaspirazione ad un ampio riconoscimento nell’ambiente degli scrittoridi economia, che il Fuoco comincia a pensare ad opere economicheesclusivamente sue. Da quel momento, come dimostrano le nume-rose citazioni della Magia nei Saggi fuochiani, il cui primo volumeapparve nel , senza che mai venga fatto il nome dell’autore,hanno inizio le insinuazioni del Fuoco sulla attribuzione a se stessodelle dewelziane.

Scarsa importanza e breve durata ha la riconciliazione successivaal ritorno di Fuoco a Napoli. « Infine », racconta il Nostro concluden-do la sua storia, « io tornai in Napoli alla sua impensata. Egli venne“ad pedes”. Le circostanze mi consigliavano a dissimulare. Anzi feciqualche altro lavoro [. . . ] ». Probabilmente tramite la « persona moltovicina a S.M. » della lettera al Poerio in appendice, il Nostro riesce ad

. La lettera è citata in Renda, Introduzione cit., p. xxx.

. Cfr. la lettera del Fuoco al Poerio del luglio (appendice V), nella quale il Nostrodice di risiedere già da tempo a Pisa.

. Cfr., ad esempio, Fuoco, Saggi economici cit., volume I, pp. –; volume II, p. , nota;, nota, –.

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essere riammesso nel Regno nel , come si ricava dal Liberatore,e il De Welz, che si accingeva ad imbarcarsi nello sfortunato affaredella seteria di San Leucio ed aveva nuovamente bisogno di lui, vaa chiedergli scusa di averlo ingannato non facendolo apparire autoredella Magia e del Primo elemento. Il Fuoco, indotto probabilmentedalle difficili circostanze di esule appena rimpatriato in cui si trovava,dové « dissimulare », ossia accettare per buone le scuse del De Welz escrivere per lui « qualche altro lavoro », cioè, oltre al Codice industriale,rimasto inedito e pubblicato poi in parte dal comasco nel coltitolo Massime di economia industriale, il Prospetto per la formazionedi una compagnia industriale per San Leucio, del quale, per il suo tagliotecnico, non avrebbe forse avuto grande interesse a figurare comeautore. In concomitanza con questa riconciliazione troviamo l’unicaesplicita menzione in Fuoco del De Welz quale autore della Magia,nonché nel numero II del “Pontano”, il primo catalogo fuochiano,nel quale non sono comprese le dewelziane. Le allusioni proprieta-rie riprendono però subito dopo la partenza del De Welz da Napoli il marzo , e già nell’articolo sulla Metrografia del numero V–VIdel “Pontano” troviamo l’allusione, acutamente notata da Chessa,al Saggio sui mezzi come opera sua. Dopo di allora fra i due non ci fu-rono più rapporti e le rivendicazioni del Fuoco diventarono semprepiù insistite.

Gli elementi nuovi che questa versione del Fuoco sui suoi rap-porti col De Welz ci mette a disposizione sono dunque di notevoleinteresse; essa non ci aiuta molto, invece, per quel che riguarda speci-ficamente il problema dell’attribuzione, per quanto questa corrispon-denza privata offrisse al Fuoco una ben opportuna occasione, comedice Renda, per « prendere la penna e scrivere in prima persona tuttoquello che c’era da dire in modo esplicito e convincente ». Occasione

. Discorsi accademici cit., pp. e .

. Per il quale cfr. G. Tescione, L’arte della seta a Napoli e la colonia di San Leucio, Napoli, p. ss.

. Vedi quanto dice in proposito Renda in Introduzione cit., pp. LVIII–LIX.

. Sulla quale cfr. la nota n. .

. Aprile , pp.–.

. Vedilo in Chessa, La ricchezza e le forze economiche cit., pp. –.

. Luglio–agosto , p. ss.

. La ricchezza e le forze economiche cit., p. .

. Introduzione cit., p. LXIII.

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mancata, dunque, che ci costringe a tornare, ancora una volta, alLiberatore, ancor oggi il documento fondamentale sulla questione.

La quale, diciamolo subito, si pone per il Liberatore, a differenzache per molti che lo hanno utilizzato, come rapporto di collabora-zione. Il « vasto disegno » che sta alla base delle dewelziane è del« negoziante comasco », il quale affidò al Fuoco, « la propria operacon quella di lui associando » (corsivo mio), il compito di « persuadereed allettare gli animi, mostrando come il suo proponimento gissed’accordo co’ principi della scienza ». Il Fuoco insomma, secondoil Liberatore, rende persuasivo e dà basi scientifiche ad un disegnonon solo precostituito ed articolato, ma, mi sembra di capire dallafrase che ho messo in corsivo, steso in abbozzo: un’ipotesi che trovaun sostegno nel fatto, già segnalato da Renda, che il Prospetto dellaMagia, stampato a Napoli nel , non viene rivendicato dal Fuoco eva quindi assegnato al solo De Welz. Indubbiamente, come ha notatoMacchioro, lo scritto del Liberatore presenta in proposito notevolimargini di ambiguità e la sua posizione è alquanto oscillante; comun-que, se a lui fosse risultato dal complesso del carteggio mostratoglidalle nipoti del Fuoco che le dewelziane andavano attribuite nellaloro totalità al Fuoco stesso, dovremmo concludere che il Liberatoreaveva scelto in modo infelice i due brani di De Welz da lui citati, inquanto non dimostrano in maniera inequivocabile ciò che bisognavadimostrare. Dice il Liberatore (pag. ):

Questo assunto [quello di persuadere ecc.] commise [il De Welz] all’abateFuoco, la propria opera con quella di lui associando. “Io sarò”, gli scriveva,“non altro che osservatore triviale e commerciante universale: e come tale abile agiudicare delle circostanze particolari del Regno rispetto allo straniero”. All’altropoi rimaneva il comporre, lo scrivere, il dar lume a’ pensieri che bui esconnessi aggiravansi pel capo del primo; chiamare la storia in sostegnodell’argomento; invocare insomma i principi della sociale economia edadattarli all’occorrenza [. . . ].

E, a proposito della Magia: « all’Autore [= Fuoco], allora in Marsi-glia scriveva il De Welz ringraziamenti ed applausi, soggiungendo che“non vi si era toccato neppure un ette” » (ivi). Nel primo brano dunque ilDe Welz rivendica a sé, in quanto esperto commerciante, il « giudicaredelle circostanze particolari del Regno rispetto allo straniero », ciò che

. Ivi, p. LXVIII.

. In Francesco Fuoco cit., p. .

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costituisce tema non secondario delle dewelziane e motivo del dissen-so dell’Indelicato; il secondo poi dimostra che la stesura complessivadel Fuoco, condotta nel caso della Magia sulla base del Prospetto scrittodal De Welz, passava al vaglio critico del comasco, il quale, se per laMagia non ha toccato una sillaba della redazione fuochiana, non è dettoche non lo abbia fatto per le altre opere.

In conclusione non mi sembra che esistano prove per assegna-re completamente ed inequivocabilmente al Fuoco le dewelziane.D’altra parte sarebbe infondato pensare, come sembra fare a volteMacchioro, di togliere al Fuoco ogni funzione nella redazione di esse,dato·che in tal caso occorrerebbe poggiare sul vuoto le rivendicazionifuochiane e trovare una motivazione plausibile al falso clamorosoche avrebbe commesso il Liberatore. A mio parere, già alla lucedegli elementi fin qui addotti, delle considerazioni di Macchioro stes-so e della ricostruzione della figura del comasco proposta da Renda,appare chiaro che le opere in questione vennero fuori da un soda-lizio culturale fra due personaggi insufficienti, presi isolatamente,a giustificarle: un « negoziante di Como » presente sulle principalipiazze europee, che voleva propagandare tramite quegli scritti alcuniprogetti grandiosi prodotti dalla sua mente vulcanica, ed un abatepedagogo e liberale napoletano in esilio, espertissimo, a giudicaredal resto della sua produzione, nell’arte di persuadere comporre edibattere di vari problemi teorici, soprattutto nel campo della scienzaeconomica, ma del tutto a digiuno in quella di risolvere in concreto,come nelle intenzioni del primo, i problemi della messa in movimen-to, in una società arretrata quale quella meridionale, di grandi attivitàimprenditoriali.

. Qualcuno potrebbe notare che il “paglietta” che nel , come lo stesso De Welzracconta con amarezza in una nota dell’“Ape delle cognizioni utili” (agosto , p. , nota),indusse il commissario del quartiere di Napoli nel quale risiedeva il comasco a fargli « staggire »i mobili, ha le stesse iniziali, R. L., del biografo del Fuoco Raffaele Liberatore, il quale ultimo,anche se non esercitava la professione di avvocato, veniva pur sempre dagli studi giuridici.Questi era inoltre proprio nel tornato dall’esilio a Napoli, dove possedeva una casa il cuiusufrutto aveva concesso al padre Pasquale, il famoso giurista destituito anche lui per motivipolitici dal precedente incarico (cfr. in particolare A. De Angelis, Elogio di Raffaele Liberatore,Napoli , p. ; per Pasquale cfr. P.S. Mancini, Della vita e delle opere di Pasquale Liberatore,Napoli ). La motivazione del falso la si potrebbe insomma ritrovare in un acceso contrastosu di un fitto di casa che il De Welz, travolto dal fallimento di San Leucio, non era in gradodi pagare, ma che doveva costituire un cespite imprescindibile per i Liberatore, anch’essiin difficili frangenti perché Raffaele era appena tornato dall’esilio e Pasquale non aveva piùimpiego. Ma, evidentemente, siamo nel mondo delle ipotesi.

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Si guardi alla maggiore delle opere in questione, La magia del credi-to svelata. Di essa si debbono evidentemente attribuire al De Welz siale note vivacemente autobiografiche e le altre di esaltazione delleglorie comasche, le quali però potrebbero essere state aggiunte altesto del Fuoco prima della pubblicazione, sia il resoconto appas-sionato ed amaro delle proprie vicende siciliane, inserito nel testostesso. Ma, quel che è più, non si vede come il Fuoco, la cui vita,come dice il Liberatore, « è tutta nelle sue opere », possa essere statoautore delle ampie parti di economia e tecnica bancaria e finanziariache presuppongono un’ampia esperienza nel mondo degli affari o,quanto meno, una profonda e minuta conoscenza delle pubblicazionidel tempo in materia, che certo non emerge nelle opere apparsesotto il suo nome: dei saggi di economia applicata che aveva più voltee in varia forma promesso, pubblicò la sola Introduzione, che, comedice Fasiani, « riuscì uno scritto esso pure di “teoria pura” »; e Lebanche e l’industria edito a Napoli nel , che pure voleva essere unariproposizione in termini mutati dell’idea dewelziana ed abbisognavaquindi di una puntuale esposizione del suo concreto funzionamento,è da questo punto di vista carente. Facciamo riferimento, per non fareche un esempio, alla puntuale esposizione, condotta nel capitolo IIIdel libro II della Magia, delle modalità tecniche delle varie operazioni

. Cfr. volume I, note alle pp. , , , –, –, ; volume II, p. .

. Cfr. volume I, nota a pp. –, in cui appaiono notazioni del genere: « Negli ultimitempi Galvani e Volta (di Como) sono stati scopritori di verità »; oppure: « Lo stesso sistema diammortamento è dovuto al genio del Papa Innocenzo XI », cioè a quel Benedetto Odescalchidi Como di cui viene data una breve biografia in una apposita nota a p. . A questo papa, inquanto gloria comasca, è poi dedicata l’intera « Appendice I » dell’opera.

. Cfr. volume I, pp. –. Per le sfortunate vicende siciliane di De Weltz cfr. Renda,Introduzione cit., p. XXVII e ss.

. Liberatore, Necrologio cit., p. .

. Già economisti contemporanei al De Welz cercarono di individuare le fonti delle sueconcezioni creditizie (cfr. A. Blanqui, Histoire de l’économie politique en Europe dépuis les anciensjusqu’à nos jours, Bruxelles , in particolare la nota a p.; L. Bianchini, Della scienza delben vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati — Parte storica e di preliminari dottrine, IIedizione, Napoli , pp. –). Secondo Dello Joio (La Magia del credito cit., p. ) « bisognaarrivare molti anni dopo al manuale del Courcelle Seneuil per trovare una esposizione piùcompleta — ma da un punto di vista molto differente — delle operazioni di banca ». Sel’affermazione fosse vera (del che in verità dubito), diverrebbe ancora più difficile attribuire alFuoco conoscenze tecniche non rinvenibili neanche nella pubblicistica.

. M. Fasiani, Note sui Saggi Economici di Francesco Fuoco, in « Annali di Statistica e diEconomia della facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Genova », , volume V,p. .

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finanziarie dell’epoca, e, naturalmente, a capitoli quale quello sulle« leggi organiche della Banca di Sicilia », a tavole fuori testo quali il« Quadro generale del movimento della Cassa di sconto da stabilirsiin Sicilia per ammortizzare il prestito decretato da Sua Maestà, li giugno , da Vienna per la costituzione delle strade », o il « Quadrodel rimborso progressivo del capitale, ed interesse del prestito da farsiper le strade di Sicilia, diviso in obbligazioni di onze cadauna, accompagnate de’ loro rispettivi cuponi d’interesse al % sulnominale », i quali espongono i calcoli che il De Welz dové farsi perconvincere se stesso prima che gli altri sulla convenienza economicadel progetto proposto.

Evidenti d’altra parte sono i segni della presenza del Fuoco: adesempio nelle formule algebriche a pp. – del volume I, nellecitazioni dotte e nei riferimenti alla storia antica e recente, nel gustoetimologico per il quale si spiega che « il mercato nel quale [i fondipubblici] si espongono in vendita ha ricevuto il nome di bursa, cuoio,perché le borse sono comunemente di cuoio, sua primitiva accetta-zione (sic ) », con una nota che ricorda come « il greco Marsupo (sic)significa propriamente la borsa » (II, ); oppure che « aggiotaggio[. . . ] viene da aggio, parola italiana corrotta, che significa aggiunto,maggior valore, valore superiore » (II, ). Non solo. Non avrei dub-bi nell’attribuire al Fuoco le parti più propriamente teoriche e gliabbondanti riferimenti agli economisti del tempo, di cui dimostrerànei Saggi Economici di avere una ben ampia conoscenza: la verticalecaduta della tensione teorica che si nota al passaggio dalle dewelzianeagli articoli dell’“Ape delle cognizioni utili” dimostra come, una voltavenuto meno lo stimolo della collaborazione del Fuoco, la produzio-ne del comasco non poté che limitarsi ad una ricognizione vivace eattenta delle forze produttive, delle occasioni imprenditoriali, dellenovità tecnologiche. Pur avendo egli alle spalle una robusta e coe-rente concezione dello sviluppo, egli non era in grado di produrreelaborazioni di vasto respiro quali quelle presenti nella Magia.

. Professore di matematica e precorritore nell’applicazione di essa all’economia, il Fuoconel passo citato vuole dimostrare « la falsità del [. . . ] metodo di coloro che hanno la mania diapplicare l’algebra ad ogni genere di conoscenze »; che è la stessa posizione del IV dei Saggieconomici, in cui il Nostro sostiene l’utilità dell’algebra solo in economia pura. Cfr. su questopunto M. Fasiani, Note cit., p. ss.

. Nell’indice curato da Renda si leggono i nomi di Platone, Aristotele, Senofonte, Ovidio,Orazio, Omero, Guicciardini, Machiavelli ecc. Si guardi inoltre al brano erudito che apre ilcapitolo III del III libro.

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In definitiva mi sembra di proporre un’ipotesi non peregrinaassegnando al Fuoco l’organizzazione e l’inquadramento teorico estorico di materiali che venivano preparati e ricevevano dal comascouna prima organizzazione.

Cerco sostenere questa ipotesi con un esempio che, sia chiaro,non vuole rappresentare un improponibile schema fisso. Il paragrafoIII del VI capitolo del libro III (nel volume II della Magia, p. ss.)sull’« Emissione degli effetti della banca; natura e numero di essi », èscritto con lo stile asciutto, in punta di penna, privo di riferimenti dottie svolazzi filologici, caratteristico degli scritti sicuramente dewelzianidell’“Ape”, in sintonia, del resto con la natura tecnica della questione:

Il banco, per far valere i suoi fondi, li rappresenta in tanti titoli che mette incircolazione: questi titoli riceveranno il nome di effetti del Banco di Sicilia.Questi effetti saranno pagabili a vista o alla prima presentazione che ne faràil latore.Il pagamento a cassa aperta (i Francesi dicono à bureau ouvert) è una condi-zione essenziale dei titoli circolanti nel banco.Non vi è eccezione, non vi è pretesto, non vi è ragione, che autorizzi ilcassiere del banco a differire il pagamento, anche per un minuto. Presentarl’effetto al banco ed averne la valuta in contante è una sola e medesima cosa.Perché questa religiosa puntualità abbia il suo pieno e completo risultamen-to, il banco non emetterà in effetti un valor nominale che ecceda il valoreeffettivo e il contante che serba ne’ suoi scrigni. I suoi fondi vi esisterannocome un deposito sacro ed inviolabile.

A questo punto troviamo due pagine di citazioni da Genovesi,Mill e Sabatier, che in parte illustrano i concetti esposti con riferimen-ti di vario genere, in parte li sviluppano. Poi il discorso ricomincia sulmedesimo tono, sempre secco e senza svolazzi, come non fosse maistato interrotto: « Per applicare questi principi al fondo del Banco diSicilia, l’emissione de’ biglietti sarà limitata al numero di ventiquattromila ottocento tredici [. . . ] ». E così per pagine e pagine. È imma-ginabile dunque che il Fuoco, cui come dice il Liberatore era stato« commesso » di « invocare [. . . ] i principi della sociale economia edadattarli all’occorrenza », evidentemente affinché il progetto, coone-stato da nomi illustri e corredato di riferimenti teorici e storici, avessemaggiore efficacia sull’animo del lettore ed in particolare dei decisori,avuta in mano la spoglia prosa dewelziana, la abbia arricchita con ipassi d’autore che meglio si inserivano nel filo del discorso.

Naturalmente le modalità di questa collaborazione dovettero va-riare a seconda dei casi. Come la funzione del Fuoco verosimilmente

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si restringe nelle parti tecniche della Magia, così essa si avvicina aquella dell’estensore in bella prosa nelle Memorie del e nel SanLeucio, che lo stesso Chessa attribuisce al solo De Welz. Il punto acui volevo arrivare, comunque, è che in generale, una volta caratteriz-zato il rapporto fra i due personaggi come collaborazione, non mi pareaccettabile né la tesi che vede il De Welz commissionare al Fuocole opere in questione sulla base di un’ idea generale e pubblicarleintervenendo solo marginalmente nella stesura, né la tesi che assegnaal Fuoco la semplice funzione di ripulitore e revisore. Nell’impresadelle dewelziane ciascuno dei due, a suo modo, impegnò tutto sestesso, dando vita ad una stagione di fervore intellettuale destinato aspegnersi con la fine della collaborazione. Né l’uno né l’altro, in uncerto senso, aveva torto nel dirsi autore delle dewelziane. In fondo, lepretese all’esclusività autoriale del Fuoco non sono in sintonia, da unlato, con la situazione ancora fluida del diritto e della giurisprudenzasulla proprietà intellettuale, dall’altra con le forme della produzione astampa nelle zone a cavallo fra Stato, mercato e cultura, quali quellefrequentate attivamente in particolare dal De Weltz.

Con ciò il problema filologico resta: in un’opera come la Magiacircola una così forte ed unitaria ispirazione che non è possibileattribuirla per parti uguali a due personaggi di così diverso profiloculturale. Ma, su questo terreno, il groviglio dei dati filologici non hamolto da suggerirci. Occorrerà piuttosto ricostruire quella ispirazioneentrando nel merito della produzione dei due autori; individuando,per ciascuno di essi, la collocazione nel dibattito acceso che attraversala pubblicistica economica del loro tempo e lega indissolubilmentel’elaborazione teorica alle urgenze della politica economica indottedalle ripercussioni sulla scala internazionale della prima rivoluzioneindustriale.

.. Due opposte visioni dei circuiti economici: i Saggi e la Magia

Il primo volume dei Saggi economici di Francesco Fuoco apparvenel , un anno dopo la Magia. Nel Regno di Napoli, investito dauna profonda crisi economica causata, fra l’altro, dalla riduzione delprezzo dei grani sul mercato internazionale, il Medici aveva da pocovarato misure protezionistiche delle manifatture locali, in consonanza

. La ricchezza e le forze economiche cit., p. .

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con l’emergente opinione che, nel settore industriale garantito daun attivo intervento statale, vedeva la possibilità di riscatto delleeconomie second comers. La religione della libertà economica diFrancesco Ferrara era di là da venire. In questo contesto la visionedei meccanismi economici che emerge dai Saggi, impostata su di unliberismo di così vasto respiro e saldo impianto senza riscontro nellapubblicistica economica meridionale precedente a Ferrara, assumeun risalto tutto particolare.

Le « forze industriali », secondo il Fuoco dei Saggi,

costituiscono un sistema perfetto quando sono abbandonate al loro naturalesviluppo, e ad un libero movimento [. . . ]. Quando l’uomo esce da questocammino, che ci sembra il solo segnato dalle mani stesse della natura, edapprovato dalla ragione, si manifesta un disordine più o meno grandesecondo l’azione più o meno violenta delle forze contrarie, o disturbatrici,che frammischiandosi alle forze naturali, ne prendono l’immagine simulata(I, p. VIII).

Se dunque « il carattere essenziale dell’industria è la libertà, enel solo stato di libertà essa può seguire l’istinto del proprio inte-resse ch’è l’istinto della natura » (I, –), ad essa « è necessarioaccordare [. . . ] in campo vastissimo illimitata libertà » perché possa« necessariamente promuovere la prosperità » (II, ). Del resto glistessi automatismi naturali che agiscono nella sfera economica or-ganizzano il sistema di rapporti che gli uomini intrecciano fra loro,cosicché l’ordine sociale « consiste [. . . ] a far sviluppare liberamentequelle forze che che sono stabilite dalla stessa natura » (I, ).

Ciò non significa che non vi sia « un’arte di guarire i mali delsistema economico–sociale, ma quest’arte non consiste nella preci-pitanza, nella violenza, ma nel preparare le medicine e nell’aspettarquel tempo che dovrà renderle efficaci » (I, ). « Non è di questosistema », infatti,

quel che sarebbe di una macchina qualunque. Nella macchina, come unaruota, una parte si logora, si può subito sostituirla, ed il cammino di essanon si altera, né si arresta; ma nel sistema di cui favelliamo le parti nonsi preparano, e non si formano che lentamente, e spesso questa lentezzaè estrema, dimodoché la sostituzione di una parte nuova all’antica fattacagione di disordine, non dipende dalla volontà dell’uomo, ma dal tempo.

. Il riferimento è ovviamente a A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezzaeconomica, Torino .

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E le cose sovente sono tali, che, se l’uomo volesse accellerar il rimedio, nonfarebbe, che rendere il male incurabile (I, –).

Nel caso di disordini sociali, ad esempio, sarebbe per il Fuoco« errore gravissimo » credere di potervi rimediare « mettendo la so-cietà sotto un’immediata tutela » (I, ); occorre invece lasciar sanarele ferite e le fratture che lo svolgersi della storia irrimediabilmenteproduce nel corpo sociale, in un processo naturale che è sempre, inquanto tale, salutare. Si prenda, ad esempio, il problema delle mac-chine, la cui diffusione aveva suscitato, soprattutto dopo il fenomenoluddista, timori e preoccupazioni: lo svolgersi stesso delle cose farà sìche l’uso di esse non possa

estendersi illimitatamente, siccome si è ripetuto più volte senza riflettere chesi parlava di un male immaginario, anzi impossibile. Tostoché il meccanismoapplicato ad un ramo d’industria diventa straordinariamente profittevole,i capitali ci accorrono, ed in proporzione della concorrenza dei produttorii profitti diminuiscono, e tanto più facilmente, e tanto più rapidamente,quanto più l’abbondanza inseparabile da ogni metodo di perfezione vi con-corre immediatamente. I profitti di questa industria particolare livellandosia questo modo ai profitti di tutte le altre industrie, l’uso del meccanismorimane naturalmente limitato (II, –).

Il miglior rimedio è, insomma, di lasciare agire la « natura », nellaquale « non esiste che il solo bene » e « il solo piacere », essendo « ildolore [. . . ] frutto di quel rompere ch’ei [= l’uomo] fa i legami che lostringono alla natura stessa » (II, ).

Coerenti con questa concezione generale sono le indicazioni dipolitica economica:

Le funzioni dell’alta Amministrazione non son quelle d’immischiarsi neidettagli dell’industria, ma di abbandonarla a se stessa libera, indipendente,o se qualche cosa dovrebbesi fare, sarebbe quella di togliere opportuna-mente gli ostacoli che fossero nati o dagli errori delle amministrazioniprecedenti, o dall’impero delle circostanze, o dal disordine che sembranascere costantemente dall’influenza che il tempo esercita sulle umaneistituzioni [. . . ] (I, –).

Ciò che è dato agli uomini di fare è solo il creare le condizioniaffinché l’industria possa liberamente espandersi, coniugando il self–interest con l’interesse generale:

Raccogliere le forze produttive di cui si sente il bisogno, adottare i nuoviprocedimenti della Meccanica, e della Chimica, animare lo spirito d’indu-

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

stria, fecondare lo spirito di associazione, far meglio valere i doni del clima,e del suolo, rettificare le opinioni, purgare i costumi, metter d’accordo leparti col tutto: ecco a creder nostro il rimedio ed il solo che sia riserbato allaprudenza, e al saggio antivedimento degli uomini: tutto il resto si attendadal Cielo, che il Cielo benedice la fatica, e premia la diligenza (II, ).

Riportata sul piano internazionale, questa concezione ottimisticasi traduce in una visione dello sviluppo economico quale fenomenoche si autopropaga spontaneamente da un paese all’altro, ostacolatosolo dal cieco ed autolesionistico egoismo degli uomini. Le tenden-ze oggettive innescate dal commercio internazionale distribuiscono« l’industria e i vantaggi ch’essa procura in porzioni presso a pocoeguali; dimodo che in qualunque parte del globo abitino i popoli,e qualunque sia la specie del loro lavoro, posson trovare il medesi-mo grado di prosperità nell’eguaglianza dei risultati della loro indu-stria » (I, ). Nell’« immensa famiglia » (I, ) della specie umana« l’Europeo lavora per l’Asiatico, l’Asiatico per l’Europeo, entrambiper l’Americano, e l’Americano per entrambi: insomma ciascunoper tutti e tutti per ciascuno » (I, ).

Se questa è la tendenza « naturale », ben diverso è lo spettacoloche offre il mondo e la storia: leggi proibitive, guerre commerciali,oppressione coloniale

che da quattro secoli han posto l’industria in opposizione colla forza, hannooppressa l’una, corrotta l’altra, han degradata la morale pubblica, hannoinfettata la morale sociale, hanno divorata, e divorano la specie umana. Spin-te dalla sola forza delle leggi proibitive le nazioni europee hanno scopertal’Asia, l’Affrica, l’America, ed han portata la distruzione sulle loro remote,e sconosciute regioni. Il sistema coloniale, la schiavitù, gli odj dell’avari-zia, che si son chiamati odj nazionali, le guerre dell’ingorda avidità, che sison chiamate guerre di commercio han fatto traboccare da questo vasodi Pandora l’inondazione degli errori, delle false massime, delle ricchezzeeccessive, corruttrici, e mal divise, della miseria e della schiavitù, dell’igno-ranza, e dei delitti, i quali in alcune epoche della storia de’ popoli moderni,han fatto della società umana un quadro così odioso, che non si ha il cuoredi arrestarvisi per non essere obbligato a pronunciarsi contro lo sviluppodell’industria e contro i progressi stessi dell’incivilimento (I, –).

Ma il Nostro, a differenza dei russoviani, sa bene che non sono losviluppo ed il progresso a poter essere messi in discussione, bensì lacecità umana che produce leggi proibitive per promuovere presuntiinteressi nazionali. Contro questo egoismo che danneggia sfruttatorie sfruttati turbando il maestoso e naturale procedere delle cose, il

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Nostro ribadisce, esponendo a lungo con le parole del Mill i vantaggidella divisione internazionale del lavoro (II, ss.), ciò che aveva giàaffermato a chiare lettere: « Quel che non dà il proprio suolo e lapropria industria può benissimo ottenersi col commercio esterno,o stabilendo un sistema di cambj coi popoli stranieri, perciocchéormai l’ipotesi di un popolo limitato alle sole sue risorse interne deveriputarsi assurda » (II, ). Anzi: « Il commercio di esportazione è uncommercio di guadagno non per quello che esporta, ma per quelloche in cambio dà occasione ad importare » (II, ).

È perciò assurda qualsiasi ipotesi di protezionismo doganale, che,se può beneficiare momentaneamente un settore produttivo, dan-neggia la nazione nel suo complesso. Le politiche del Medici, avvia-te in coincidenza con la concezione e la pubblicazione dell’operafuochiana, non sono esplicitamente menzionate e criticate, ma ilriferimento è del tutto trasparente. D’altronde non solo le “industriebambine” ma la stessa agricoltura non può essere soccorsa dall’inter-ventismo pubblico. Nel caso dibattutissimo del commercio dei grani,ad esempio,

il far salire ad altezza il frumento indigeno, scacciando la concorrenza dellostraniero, o mettendone la quantità al di sotto del bisogno del mercato,se giova, nel commercio interno, ai produttori che sono pochi, nuoce aiconsumatori che son tutti. E l’altezza del vivere influendo sull’altezza deiprezzi di tutte le altre opere, quando una frazione di queste si cede perquella frazione di frumento, che si provvede dall’estero, si darà il più pelmeno, e l’industria generale non ne andrà avvantaggiata (II, –; cfr.anche I, –).

Ed ecco la riproposizione della teoria smithiana dei « costi assolu-ti »: « Da per tutto l’interesse della massa del popolo è sempre e dovràessere necessariamente quello di comprare tutto ciò che ha bisognoda coloro che lo vendono a miglior mercato » (II, –), siano essiconnazionali o stranieri, dimodoché, in presenza di barriere dogana-li, « l’interesse generale si accorda con quello del contrabbandiere »(II, ). In una situazione di libertà economica, del resto, di brevedurata sarebbe il sacrificio di quei « produttori » che sarebbero statiavvantaggiati dalla protezione doganale: « dando alla loro industria omiglior direzione, o minore estensione, possono anche renderselaprofittevole » (II, ). In definitiva al Fuoco appare assurda ogni corsaal consumatore: « non sono i consumatori che mancano, perché lavena dei bisogni è inesauribile e perenne: sono i produttori, cioè

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

quelli che col mezzo del loro lavoro sono sempre in grado d’offrireun equivalente » (II, , nota). È la produzione insomma che crea ilmercato, e non viceversa. Il problema è quello di produrre ciò checomporta la naturale vocazione della nazione; per il resto, il cerchiochiuso dell’arretratezza si spezzerà da sé. II concetto di Stato si svuotacosì di ogni rilevanza economica a vantaggio dei processi molecolaridella società, tutti, in quanto tali, positivi e quindi bisognosi solo diessere lasciati al loro naturale svolgimento.

Questa visione amplissima ed organica dei processi di funziona-mento dell’economia, e le connesse applicazioni nel campo dellapolitica economica, frontalmente polemiche con le tariffe protezio-niste adottate da Napoli in quegli anni, è in tutto opposta a quelladella Magia. Per il Fuoco la totale libertà economica costituisce ilmodo in cui gli uomini prendono coscienza dei processi oggettiviche si svolgono attorno a loro; nella Magia « la libertà assoluta dicommercio » è « il cerchio quadrato delle scienze economiche » (I,), mentre

il sistema proibitivo è diventato l’ancora della speranza dopo che un ge-nerale funesto sconvolgimento si è impadronito dell’economia de’ popoli.Adattarlo a’ propri bisogni, farlo valere ad animare l’industria interna ed ilcommercio nazionale, e, quel che è più, a sottrarsi al dominio del commer-cio straniero, è l’opera più gloriosa e più utile che possa onorare i talenti ele vedute di un finanziere (I, pp. –, nota).

Problema fondamentale della Magia è appunto quello di « sottrarsial dominio del commercio straniero », in quanto lo sviluppo eco-nomico, lungi dal propagarsi automaticamente, va faticosamenteconquistato da ciascun popolo, nella presente fase storica, a spesedegli altri. La divisione internazionale del lavoro diventa così unostrumento di oppressione e sfruttamento dei più forti sui più deboli,fra i quali ultimi vanno ora annoverati gli Italiani, « una volta maestried inventori », oggi neanche « servili imitatori », « non più signori »ma « veri tributari » (II, ). Ormai « tele, panni, mussoline, seterie,mobili di casa, chincaglierie, insomma manifatture di ogni specie siattendono dalle mani dello straniero » (ivi). « Ma questo », continuala Magia,

non è che la minor parte della nostra vergogna; evvi qualche cosa di peggioe di più umiliante. Gli stranieri industriosi vengono a domandarci le nostresete, le nostre lane, i nostri cotoni, le nostre canape, le pelli, i nostri minerali,insomma le nostre materie gregge, per aggiungervi la loro mano d’opera, e

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ricondurcele sotto quelle forme che ne fanno gli oggetti de’ nostri bisogni,del nostro comodo e del nostro lusso; e così quello che avevamo vendutoper due, per quattro, lo ricompriamo per otto, per dieci, e spesso ancora dipiù (ivi).

Alla base dell’arretratezza economica italiana c’è dunque un clas-sico rapporto di tipo coloniale con i paesi più progrediti, basato sul-l’esportazione di materie prime che poi si riacquistano manifatturate;il che è particolarmente evidente per il Regno di Napoli. Avendo « ilpotere del commercio (collocato) la sua sede nel Nord » e avendovi« fatto nascere uno spirito d’industria che, adulto in poco tempo, èdivenuto poscia gigante », il Mezzogiorno d’Italia « offrì le sue largheproduzioni a questo mostro, che già estendeva le sue braccia per cir-condare l’universo », senza rendersi conto che, in tal modo, segnavail proprio destino. Ma qui c’erano precise responsabilità delle classidominanti locali:

Follemente soddisfatti dal cambio di opere che lusingavano più la vanità,che il comodo e l’agiatezza, i nostri padri credettero che le loro risorsefossero tanto inesauribili quanto la terra che le prodigava, e si adagiaronoimmobilmente su un sistema che doveva un giorno esser cagione di miseriae di rovina. Spogli i loro sguardi della forza che penetra nel futuro, si appa-garono del bene presente, e i di loro nipoti, ereditando il di loro errore, nonne sono rinvenuti che quando il male era divenuto mortale ed il rimedioquasi impossibile (I, ).

L’arretratezza italiana e meridionale in particolare è dunque ilrisultato dell’incomprensione delle leggi che governano lo sviluppoeconomico, le quali sono di segno opposto a quelle che reggonol’universo fatalmente progrediente, nonostante la cecità umana, deiSaggi economici di Francesco Fuoco:

Non bisogna illudersi: le cose umane hanno un corso, ed un corso soggettoa leggi che possono paralizzarsi, turbarsi, ma che infine trionfano di tutti gliostacoli. Nello stato attuale di esse o bisogna imitar l’Inghilterra, ed emularlas’egli è possibile, o bisogna cadere sotto il di lei dominio, e renderseletributarie, non solo de’ prodotti del proprio suolo, ma anche di quelli dellapropria industria: e combattuto in ciò dall’altrui concorrenza, non solotrarne scarso profitto, ma condannarsi ad essere lungamente stazionario (I,–).

Da queste convinzioni profonde, diremmo sofferte, scaturisceil tono oracolare e la passione civile che anima l’appello agli Italia-ni con cui il brano precedente si chiude: « Ecco la massima eterna

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

che deve istruire e spaventare tutti i popoli: fra la miseria e la prospe-rità non vi è via di mezzo. Possano queste mie parole ripercuotersine’ petti degl’Italiani come il fragore del tuono si ripercuote cupa-mente nell’immensità degli abissi » (ivi). Di qui, ancora, la propostaagli Stati italiani di una unità d’azione contro lo sfruttamento eco-nomico da parte delle nazioni già industrializzate, pervasa di afflatirisorgimentali:

L’Italia a tempi nostri divisa, lacerata, avvilita non riuscirà a mettersi nelcammino di un’industria vigorosa, che riunendosi contro chiunque volessedominare ne’ suoi porti, e stabilirvi un monopolio figlio della forza e dell’in-trigo, diseccando tutte le sorgenti della riproduzione interna, e perpetuandoil bisogno de’ prodotti stranieri. Sotto l’influenza di questo dispotismo com-merciale non si può sperare di veder migliorata la sorte degli Stati italiani:un atto di navigazione italica potrebbe solamente salvarli dal naufragio dacui sono minacciati (I, , nota).

Alla universale libertà del commerci propugnata dal Fuoco deiSaggi economici, la Magia, della quale lo stesso Fuoco rivendica lapaternità, oppone « un atto di navigazione italica ».

In questo mondo in cui le contraddizioni sono insanabili, in cuilo sviluppo di una nazione ha per prezzo normale un proporzionalerallentamento nello sviluppo dell’altra, assume un risalto particolarela volizione umana, la quale, lungi dal disordinare il normale proce-dere delle cose economiche, è l’elemento decisivo della battaglia peril progresso. Che cos’altro sono del resto le dewelziane nel loro com-plesso, se non l’esaltazione di questa capacità umana di dominio e ditrasformazione di una realtà resa avversa proprio dall’abdicazione,da parte dei re, delle amministrazioni e delle classi dominanti di se-coli di storia meridionale, nei confronti della « natura »? La centralitàdel ruolo dello Stato, in cui questa capacità umana prende forma edincisività, è il punto d’approdo obbligato dell’analisi dewelziana:

L’amministrazione [. . . ] presiede a tutto, tutto vede, tutto regola, tuttopreviene. È dessa che deve metter d’accordo i bisogni e l’industria, dirigerei bisogni in conformità del clima, del suolo e delle sue produzioni; stabilireun’armonia tra il grado di coltura, la qualità e il numero di godimenti:quindi dalla sua supremazia dipende la pubblica e privata prosperità (I, I; ilcorsivo è mio).

Questa posizione, specularmente contrapposta a quella dei Saggifuochiani, è in tutto coincidente con l’impostazione di fondo degli

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articoli, pur di tanto minore ampiezza di visione e respiro ideale,scritti dal De Welz per l’“Ape delle cognizioni utili”; ma, soprattutto,profondamente omogenea all’interventismo aggressivo, al tentativodi scuotere equilibri secolari e mobilitare tutte le risorse disponibili,che le proposte finanziarie ed imprenditoriali del comasco conten-gono. L’attribuzione al Fuoco delle dewelziane urta così con unantagonismo delle concezioni generali dello sviluppo economico esociale non sanabile, come ritiene Barucci, ipotizzando che il Fuocoabbia abbandonato, nel giro dell’anno trascorso fra la Magia ed ilvolume primo dei Saggi, « la bandiera protezionistica ». Se un mu-tamento possiamo notare nel Fuoco, esso va in senso inverso; dalleposizioni di liberismo intransigente dei Saggi, si passa a posizioni piùpossibiliste, ma sempre lontanissime da quelle della Magia, in Dellalibertà e dei vincoli del commercio, nell’ Introduzione e nei saggi sparsinelle riviste napoletane. D’altronde sarebbe ben curioso che il Fuoco,convertitosi nei Saggi ad un liberismo sostanzialmente riconfermatonegli scritti posteriori apparsi sotto il suo nome, rivestisse poi panniprotezionistici ogni qual volta scriveva per il De Welz: penso, oltrealle affermazioni protezioniste del San Leucio, alle « Massime » scritteil marzo ma rimaste inedite e ripubblicate dal De Welz nelfascicolo dell’“Ape” del marzo , le quali, attribuite dal Chessa alFuoco, contengono le seguenti due affermazioni:

a) « Locali, Macchine, Motori, gli stessi Capitali ingenti, nulla sono,nulla valgono all’Industria, quando non si libera da ciò, chela inceppa: quando non la si difende dagli attacchi, coi quali, sifa forza di abbatterla: quando per essa non si despiega difesa efavore » (“Ape”, marzo , p. );

b) « Il favore è indispensabile all’Industria ne’ cominciamenti:senza di esso si espone ad arrenare, a perire; perciò la liberagenerale concorrenza sarebbe uno de’ germi di morte » (ivi).

Quando il Fuoco riprese queste massime che aveva scritto incollaborazione col De Welz inserendole nell’Introduzione, tralasciòla seconda massima, trasformando così la prima: « Locali, macchine,forze sono valori morti senza un proporzionato capitale circolante:sarebbero come corpi senz’anima » (Introduzione cit., p. ). È un

. P. Barucci, Sui rapporti tra Gioia e Fuoco, in “Economia e storia”, , n. , pp. –.

. Cfr. quanto dice in proposito Renda, Introduzione cit., pp. LVIII–LIX.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

segno evidente che lo stesso Fuoco avvertiva come estranee al suo« sistema » le affermazioni protezionistiche delle dewelziane, tanto daespungerle in un’opera apparsa sotto il suo nome; la qual cosa nongli riusciva di fare nelle dewelziane stesse.

In questo quadro il rapporto fra i nostri due autori e MelchiorreGioia assume una lineare razionalità. Nei confronti dell’economistalombardo, che aveva altamente elogiato la Magia e il Primo elemento eal contrario maltrattato i Saggi, non è possibile pensare ad un ritmicomutare di opinione del Fuoco a seconda che scrivesse per suo contoo per il De Welz . In realtà il giudizio del Fuoco sul Gioia rimasecoerente quanto quello del De Welz, negativo l’uno, positivo l’altro,perché espressione di due diverse concezioni dei meccanismi eco-nomici: quella delle dewelziane e del De Welz vicina alle idee dellaparte dell’ambiente meneghino che si riconosce va nel Gioia, quelladel Fuoco da essa molto lontana.

La conclusione che in definitiva traggo dal complesso degli ele-menti fin qui esposti è che, se le dewelziane furono scritte in collabo-razione, la paternità ideale di esse va attribuita al De Welz. Ciò nonvuol dire, lo si è già chiarito, che in esse non abbiano trovato spazio

. L’argomentazione è valida, evidentemente, se la versione filologicamente correttadelle « Massime » è quella pubblicata nell’“Ape” dal De Welz. L’ipotesi, a guardare al modoin cui il De Welz le riproduce, mi pare verosimile: il titolo indica la data e l’occasione in cuiesse vennero scritte, i numeri tra parentesi e gli « ivi » che seguono ciascuna massima fannoriferimento probabilmente alla pagina del manoscritto da cui viene tratta, la nota finale affermache le massime stesse vengono riprodotte « come esse sono ».

. Barucci (Sui rapporti fra Gioia e Fuoco cit., p. ) nega in sostanza l’esistenza del pro-blema, affermando che fino al il Fuoco « non aveva espresso alcun giudizio sull’opera diGioia ». Secondo Barucci, infatti, « le citazioni nella Magia del credito non hanno [. . . ] che unarelativa importanza », mentre « la nota aggiuntiva alla ripubblicazione della recensione di Gioiain Appendice al Primo elemento, poteva anche essere stata dettata da ragioni di contingenzapolitica e pratica, in relazione agli scopi che il De Welz voleva raggiungere con le operecommissionate al Fuoco: un giudizio assolutamente positivo che giungeva da un uomo aventefama di grande economista e distante dall’ambiente e dagli interessi partenopei, costituiva lamigliore pubblicità per i progetti ambiziosi e, certamente non disinteressati, del De Welz ». Masi guardi alla cronologia: –, Magia: numerose citazioni del Gioia (cfr. l’indice dei nomi delRenda) esprimenti tutte giudizi altamente positivi; –, I volume dei Saggi Economici: nessunacitazione; –, Mac Adam: Gioia definito « principe degli odierni economisti italiani » nellanota a p. I della riproduzione della recensione del Gioia alla Magia; – e ss., scritti editi einediti del Fuoco: ripetute notazioni polemiche contro Gioia; – e ss., “Ape delle cognizioniutili”: innumerevoli citazioni laudative del Gioia.

Non mi sembra proponibile che le « ragioni di contingenza » ipotizzate dal Barucciscompaiano sistematicamente per le opere del Fuoco e ricompaiano per le dewelziane.

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temi e spunti teorici propri del Fuoco, che poi avranno sistemazionee più ampia trattazione nelle opere apparse sotto il suo nome; il fattoè però che nelle dewelziane essi si organizzano e si inquadrano in unastruttura concettuale estranea all’abate napoletano, che fa assumerealla riflessione teorica, pur senza negarla, una curvatura operativa edapertamente interventista.

Di qui il tono particolarissimo ed inconfondibile del Saggio suimezzi, della Magia, del Primo elemento: proposte imprenditoriali de-stinate ad uomini d’affari ed amministratori e nello stesso tempo,proprio perché tali proposte vogliono risolvere i problemi di un’ar-retratezza secolare, esempi di analisi scientifica condotta alla lucedelle esperienze nuove dell’economia politica europea; opere di pro-paganda e di teoria, in cui ambizione scientifica, sete di gloria e diprofitto e ardente passione civile si amalgamano inscindibilmente,collocandole fra i documenti più significativi del risveglio economicoe della capacità di egemonia della borghesia risorgimentale lombarda.

.. Le opere “dewelziane” e il dibattito economico meridionale

Se questo è vero, il De Welz non può essere considerato un prote-zionista qualsiasi, fra i tanti che videro nella crisi agraria successivaalla Restaurazione l’occasione per dare inizio ad una diversificazioneproduttiva del Mezzogiorno; la sua vicenda meridionale non puòessere interpretata semplicemente come il tentativo sfortunato di unodei tanti imprenditori forestieri calati nel Mezzogiorno a partire daldecennio francese, di utilizzare gli spazi aperti alla speculazione e aisovraprofitti monopolistici nella arretrata compagine economica delRegno. Una lettura in questa chiave delle dewelziane non ci permet-terebbe di cogliere il dato di novità sconvolgente da esse introdottonel dibattito economico meridionale e, nello stesso tempo, ci impedi-rebbe di capire la ragione della sostanziale estraneità di esse rispettoalle linee di svolgimento principali di quel dibattito.

I problemi che si paravano di fronte all’imprenditore comasconegli anni Venti dell’Ottocento non erano certo nuovi per il Mez-zogiorno e la Sicilia in particolare. L’inconsistenza delle strutturecreditizie, la frammentazione del mercato, la debolezza dell’apparatomanifatturiero, la copresenza di flussi mercantili a lunga distanza edell’autoconsumo contadino, erano tutti aspetti dell’economia meri-dionale che la crescita delle forze produttive in Europa e la circolazio-

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

ne sovranazionale delle idee avevano cominciato a porre sul pianodelle politiche economiche già dall’inizio del Settecento. In Sicilia ilgenovesismo, così come lo andava riproponendo Vittorio EmanueleSergio, aveva ben presto suscitato richieste di misure parziali ma inci-sive nel senso del rinnovamento economico e sociale e dell’aperturaall’Europa; ma qui più ancora che nel continente scarse sembravanole forze sociali capaci di farsi carico di un programma di questo tipoe di modificare in senso progressivo il blocco di potere, solido anchese con evidenti articolazioni interne, che dominava la vita economicae sociale dell’isola. Il tentativo del Persichelli, ad esempio, di attuareun piano di politica stradale si arenò miseramente anche per la scarsavolontà di alcuni baroni, come dice Denis Mack Smith, « di renderele loro proprietà più accessibili alle forze di rottura della legge pub-blica e ad una economia di mercato », di sacrificare allo sviluppoeconomico il loro potere di controllo sulla società, di riqualificare ilproprio ruolo nella vita economica in senso entrepreneurial.

Ma era proprio qui il nodo intorno al quale si giocava l’avveniredelle economie. I gruppi dominanti del Regno smentivano radical-mente l’esistenza di una « mano nascosta » per la quale il loro privatointeresse si traducesse in interesse generale; le loro prospettive diguadagno non coincidevano affatto con l’investimento produttivo,come nelle immagini nell’Inghilterra della rivoluzione industrialeformalizzate dall’economia politica classica, bensì con le posizionispeculative consustanziali alla frammentazione dei mercati, dall’as-senza di infrastrutture, dalle posizioni di privilegio. « Chi è che vogliaimpiegare il suo denaro nelle intraprese dubbie — dice GiuseppePalmieri — se può impiegarlo fino al % con i possessori poveri? ».

Per la Sicilia non abbiamo uno studio quale quello di Chorley sulcommercio dell’olio o di Macry sul commercio del grano per la partecontinentale del Regno; per quello che ne sappiamo, comunque,anche nell’isola gli interessi baronali, strettamente intrecciati a quellidel grande commercio monopolistico, avvolgevano i mercati in una

. Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari , p. .

. Citato in G. Giarrizzo, Paolo Balsamo economista, in “Rivista storica italiana”, , n. ,a. p. .

. P. Chorley, Oil, Silk and Enlightenment. Economic Problems in XVIIIth Century Naples,Napoli ; P. Macry, Mercato e società nel Regno di Napoli. Commercio del grano e politicaeconomica del ’, Napoli . Inutile dire che, al momento della riedizione di questo saggio,il quadro della storiografia è radicalmente diverso, oltre che sul piano concettuale, anche suquello bibliografico.

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rete di vincoli che ne ostacolavano lo sviluppo. A questa oligarchiabaronale–commerciale faceva riferimento il Caracciolo nell’istituireuna diretta correlazione fra « ingrandimento » dei « proprietarj » emiseria della nazione, nella sua avversione violenta verso la grandeintermediazione commerciale, nel lamentare la mancata esistenza diuna « classe di [. . . ] negozianti » capaci di mettere in comunicazioniuomini e spazi prossimi e remoti.

Il riferimento al Caracciolo non vuole essere casuale. Data la de-bolezza delle forze sociali in grado di scendere in campo controquesto blocco di potere, gli attacchi più incisivi nei confronti di essonon potettero che venire da Napoli, con la distribuzione prima deibeni dei Gesuiti operata dal Tanucci e poi con la serie di misureprese dal Caracciolo in quegli anni Ottanta così pieni di fermenti e dioccasioni mancate per le forze progressive dell’economia meridio-nale. Furono attacchi ed è questo il dato da sottolineare in questasede — che non restarono senza conseguenze sul dibattito economi-co e che anzi determinarono il diverso piano su cui esso si sarebbesvolto in seguito. Alla violenta requisitoria del Caracciolo controi « proprietarj », Saverio Scrofani rispondeva affermando che « sonquelli ch’essenzialmente compongono la nazione », le cui sorti sonoperciò indissolubilmente legate alla loro prosperità. Ma il discorsodello Scrofani non può ora fermarsi ad una rozza ed immediata difesadegli interessi baronali. Per l’intanto questi vengono collocati nel piùampio contesto della battaglia per la libertà economica, come parolad’ordine fondamentale dell’Europa progrediente; ma soprattutto ap-pare emergere, qui come in altri scritti di parte baronale del periodo,un interesse specifico per il momento della produzione, l’esigenza dinon lasciarsi sfuggire la possibilità di guadagno che l’aumento delprezzo dei cereali offriva non solo all’intermediazione parassitaria

. Riflessioni sull’economia e l’estrazione de’ frumenti della Sicilia fatte in occasione della carestiadell’indizione III e dal Marchese Caraccioli napoletano, in Scrittori classici italiani di economiapolitica. Parte moderna, tomo XL, Milano . pp. –, .

. Cfr. in particolare intorno a questo nodo di problemi F. Renda, Bernardo Tanucci e ibeni dei Gesuiti in Sicilia, Roma ; Id., Baroni e riformatori in Sicilia sotto il ministero Caracciolo(–), Messina , e la bibliografia ivi citata.

. Memoria sulla libertà del commercio de’ grani della Sicilia presentata a S. M. il Re di Napolida Saverio Scrofani siciliano, in Scrittori classici italiani cit., tomo XL, p. . Sulla figura delloScrofani cfr. G. Giarrizzo, « Introduzione » a S. Scrofani, Memorie inedite, Palermo ; e, più ingenerale sul dibattito settecentesco, Id.. Appunti per una storia culturale della Sicilia settecentesca,in “Rivista storica italiana”, , n. , pp. –.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

ma anche fin dentro il cuore dell’organizzazione produttiva. Il Re,dice Scrofani, « aderendo alle insinuazioni della reale accademia de-gli studj di Palermo, ordinò che si spedisse in Toscana ed altrove ilvalente cattedratico sig. Balsamo per istruirsi nella buona agricoltura.Costui, con le lezioni del peritissimo e dotto professore sig. canonicoZucchini in Firenze e con le lunghe e laboriose esperienze negli altriregni d’Europa, renderà fra breve quei lumi ch’essa ne attende e dicui egli è mirabilmente fornito ». Ne sarebbe risultato uno stimoloal ritorno alla terra degli stessi baroni. La palingenesi sociale potevaessere sostituita dalla manipolazione consensuale dei comportamentidei gruppi dominanti.

I lumi agronomici del Balsamo non sarebbero serviti molto alprogresso economico dell’isola; pure egli è figura centrale ed emble-matica di questo momento del baronaggio siciliano che trovò unosbocco politico nella costituzione del , e, anche nel tormentatosvolgersi dei suoi atteggiamenti, ne descrive con nettezza i limiti.Nel pensiero del Balsamo il ritorno alla terra del baronaggio, la suarinuncia alle posizioni puramente speculative come alla conserva-zione dei privilegi feudali, avrebbe dovuto avvenire in un quadro dimisure economiche e legislative tutte volte ad accrescere la rendita ei profitti della grande azienda, in una evoluzione attenta a mantenereal centro del sistema di potere della società siciliana la figura delgrosso proprietario, capace, lui solo, di “fare come l’Inghilterra”, dimettere in moto il meccanismo dell’investimento agricolo e dell’in-novazione tecnologica. Quindi privatizzazione delle terre ma nonredistribuzione della proprietà, esortazioni all’investimento ma nonfacilitazioni creditizie capaci di dare respiro alla piccola proprietà edi strapparla dalla subordinazione baronale; e, soprattutto, libertà,come terreno più adatto a far sì che gli equilibri di potere andasseroricomponendosi molecolarmente, in maniera indolore, come perspontanea evoluzione dei ceti dominanti stessi finalmente convintisia trovare il fondamento del loro comando sulla società nella pro-duzione e nello sviluppo, invece che nel controllo speculativo e nelprivilegio.

Sarebbe stata la storia stessa a smentire la praticabilità di questalinea, a dare alle proposte del Balsamo il tono di esortazioni acco-

. S. Scrofani, Memoria cit., p. .

. Sul Balsamo cfr. soprattutto il citato articolo di Giarrizzo Paolo Balsamo economista.

. Su quest’ultimo punto, ivi, p. , nota.

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rate ma inefficaci alla conversione dei baroni all’etica del profittocapitalistico, ad introdurre nella riflessione dell’autore stesso ele-menti di problematicità e di dubbio. E, soprattutto, sarebbe statala crisi gravissima succedutasi alla fine delle guerre napoleoniche,la caduta verticale del prezzo del grano in particolare, a renderlaimpraticabile. Ciò che la crisi metteva in discussione era l’interoapparato produttivo dell’isola, ormai non più in grado, come nelperiodo del bon prix settecentesco, di sostenere il peso dell’interme-diazione e delle rendite; e tutto questo introduceva nella oligarchiaeconomica elementi di contraddizione e di disgregazione, tendevaa contrapporre alle ragioni della grande proprietà assenteista, indifficoltà financo nel trovare chi volesse condurre le terre, quelle delcapitale mobiliare e speculativo, in cerca di investimenti alternativia quelli tradizionali.

In questo contesto la contrapposizione tra i fautori delle manifat-ture e della protezione da una parte, e quelli del liberismo e dell’agri-culturismo dall’altra, si fa radicale sul piano del dibattito economico.Alle posizioni sempre più diffuse dello Scuderi o del primo Sanfi-lippo, che lamentavano la subordinazione dell’isola alle manifatturenapoletane e straniere, i gruppi baronali più avanzati continuavanoad opporre la centralità della produzione e delle convenienze eco-nomiche dell’investimento agrario. Ma, specie dopo che le vicendedel – avevano loro dimostrato l’impossibilità di praticare iltradizionale terreno dell’agitazione separatista antinapoletana senzache venisse messa in discussione la loro stessa egemonia politica daparte delle masse contadine e democratiche, essi non potevanoriproporre puramente e semplicemente le posizioni evoluzionistichedel Balsamo. Su questo punto i mutamenti sono significativi. Co-me avrebbe detto in seguito Matteo De Augustinis, la caduta dellatranquillizzante barriera protettiva degli alti prezzi è una sfida allacapacità di rinnovamento della proprietà terriera. Il problema ètutto nel vedere in quale misura essa fu accolta, in quali limiti si situala risposta dei gruppi terrieri dominanti. I documenti in questo sensopiù significativi sul piano della pubblicistica economica ci vengono

. Cfr. F. Renda, Risorgimento e classi popolari in Sicilia –, Milano .

. Sul dibattito ottocentesco in Sicilia cfr., fra gli altri, G. Majorana, Gli economisti siciliani,in “La Riforma Sociale”, , pp. –, e , pp. –; V. Titone, Economia e politica nellaSicilia del Sette e Ottocento, Palermo .

. M. De Augustinis, Della condizione economica del Regno di Napoli, Napoli . p. ss.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

offerti da due scrittori che entrambi si muovono all’interno dellalezione del Balsamo: Nicolò Palmeri e, ancora, Saverio Scrofani.

Nel suo saggio del il Palmeri riprende il giudizio del Balsa-mo sostanzialmente positivo sullo sviluppo dell’agricoltura siciliananegli ultimi decenni del Settecento. La qualificazione da lui introdottaper datare l’origine della crisi non tende ad approfondirne le ragioniinterne alla struttura produttiva siciliana: tutto era andato bene sino,all’incirca, allo scoppio della rivoluzione francese, quando la Sicilia,fino allora « a livello [. . . ] degli altri paesi d’Europa », cominciò adesserne emarginata e si ridusse « più isolata politicamente che fisica-mente non lo è ». Né il periodo della dominazione inglese avevacostituito una inversione di tendenza in questo senso; anzi, introdu-cendo nell’agricoltura siciliana elementi di artificiosa accelerazione,aveva approfondito quel distacco dall’agricoltura continentale chesarebbe venuto drammaticamente alla luce alla fine del periodo napo-leonico. Coerente con queste premesse la proposta di fondo: occorrericostruire i legami della Sicilia con i mercati del mondo intero, dauna parte, dando un « violento impulso » all’esportazione in par-ticolare del frumento, magari con dei premi, dall’altra rendendol’isola, con la totale liberalizzazione degli scambi « in un momen-to in cui l’Europa è ancora invasa dalla funesta mania del sistemaesclusivo », « il centro del commercio europeo ». E qui, evidente-mente, lo scontro era frontale sia con quanti nutrivano illusioni sullepossibilità di allargamento del mercato interno, sia, soprattutto,con il « volgo » posseduto dalla « febbre delle manifatture »: « malattia[. . . ] oggi troppo estesa tra noi », con cui non sono possibili me-

. N. Palmeri, Cause e rimedi delle angustie dell’economia agraria in Sicilia, a cura di R.Giuffrida, Caltanissetta–Roma . Sul Palmeri c’è uno scritto di Giuseppe Ricca Salerno(Niccolò Palmeri e la questione agraria in Sicilia, in “La Riforma Sociale”, , pp. –) che,più che esporre le posizioni del Palmeri, esprime quelle del Ricca Salerno stesso.

. Palmeri, Cause e rimedi cit., p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. « La Sicilia — dice il Palmeri — consuma poco perché povera, la sua interna consu-mazione è arrestata in mille modi; onde se per poco viene a mancare la ricerca straniera, èirreparabilmente perduta » (ivi, p. ); e ancora: « nelle attuali circostanze della Sicilia è impossi-bile che lo spaccio dei nostri prodotti venga solamente dall’interno: una nazione esaurita nonpuò consumare più di quel poco che consuma. Il grande aumento della consumazione puòsolo venir da un violento impulso dato alla libertà del commercio esterno » (ivi, p. ).

. Ivi, pp. –.

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diazioni quali quelle tentate con le misure del Medici del –, inquanto « impedire che un paese riceva, è lo stesso che impedirgli chedia ». I paesi più avanzati d’Europa « non son ricchi perché hannomanifatture, ma hanno manifatture perché son ricchi; poiché i gran-di capitali son quelli che fanno esistere le manifatture »; ma nellenazioni che intraprendono il cammino dello sviluppo è solo l’agricol-tura che offre le prospettive per la formazione di quei capitali, che« somministra i primi elementi alle manifatture, dando ad esse piùperfette materie prime, senza le quali è vana qualunque macchina, èinutile qualunque capitale ». È a partire dall’agricoltura che è possi-bile realizzare quell’allargamento dei consumi e della domanda chedarebbe solide basi alle manifatture stesse. La strada per lo sviluppoindustriale passa attraverso un processo di accumulazione nel settoreagricolo.

Era una problematica già agitata dal Balsamo, ma che nel Pal-meri, a segnalare il mutare dei tempi, assume un tono perentorio,senza ombre o senza possibili ripensamenti: manifattura e agricol-tura divengono termini antitetici nel presente, nella concreta realtàdella politica economica. Solo il processo storico, se gli uomini nonvorranno caparbiamente contrastarlo con misure arbitrarie e pre-suntuose interferenze, potrà riconiugare ed armonizzare questi duemondi.

Ma, se l’accento del Palmeri cade qui, non è questa la parte piùinteressante del suo scritto. Secondo il Nostro, nel gran rivolgimentodi fortune in atto quando scrive il suo saggio, non è più possibile algrosso proprietario continuare ad estrarre la rendita nei modi tradi-zionali. « Se indirette esser devono tutte le operazioni del governoper dare alla nostra economia agraria quel salutare movimento dicui oggi essa manca, sommi e diretti esser devono gli sforzi de’ pro-prietari per conseguire lo stesso interessantissimo fine ». Tanto piùche nel paesaggio sociale delle campagne, loro soltanto gli sembranopossibili soggetti di progresso:

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

Le utili riforme in agricoltura hanno cominciato in tutti i paesi dagli intelli-genti proprietarii. Questa nobilissima arte, tanto necessaria all’esistenza ditutti gli Stati, non riceverà mai verun miglioramento, se, la riforma s’aspettadagli agricoltori, i quali da per tutto son per la maggior parte pure macchine,messe in movimento da una stupida e servile abitudine, che spesso è nemica,non che de dettami della sana ragione, ma della stessa imperiosissima vocedell’interesse.

A partire da questo punto il ragionamento del Nostro si svolgein maniera serrata. La pratica dell’affitto in massa delle grandi pro-prietà ai gabellotti e della concessione e subconcessione delle terrea colonia parziaria, fruttuosa quando « i mezzajuoli [. . . ] in tempipiù felici eran d’ajuto all’agricoltore », è diventata rovinosa perchéi « mezzajuoli » stessi, ridottisi ad uno stato di penosa miseria, dauna parte sono costretti a chiedere al gabellotto finanche di nutrirli evestirli, dall’altra si abbandonano a pratiche di rapina, a « strapazzarebarbaramente » la terra, a fare i « carnefici dell’agricoltura ». Così,« indipendentemente dal basso prezzo del frumento, l’agricoltura èin sé stessa men profittevole di prima »; ed i tentativi del gabellottodi recuperare reddito con il « coltivare a conto proprio assai più terredi prima », anche al di là di quanto consentito dalle proprie forze edai propri capitali, non fanno che alimentare il circolo vizioso dellacrisi:

secondo l’ordine naturale delle cose, nel sistema attuale dell’economiaagraria di Sicilia, la rendita naturale della terra può mancare e non crescere:poiché ogni fittaiolo deve sciupare quanto più può la terra, onde il valorenaturale di essa deve sempre mancare. E se talora avviene che per l’aumentodel prezzo del grano o per altra cagione si trovi il nuovo fitto più vantaggiosodell’antecedente, è questo un valore accidentale che ha acquistato la terra:quindi, rimossa appena la cagione che ha prodotto quell’aumento, il valoredelle terre in Sicilia ricade rapidamente. E noi nel periodo di trent’annisiamo stati testimoni di cotali saliscendi, i quali fan vedere come nel sistemaattuale della nostra economia agraria la rendita del proprietario è sempremal ferma.

. Ibidem.

. Ivi, p. .

. Ivi. p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, pp. –.

. Ivi, p. .

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Messosi a cercare una via d’uscita da questa situazione insosteni-bile, Palmeri esclude sia che il grande proprietario possa coltivare adeconomia le sue terre, non avendone i capitali né la competenza,sia la concessione ad enfiteusi e, tanto meno, la divisione delle pro-prietà, che toglierebbero al coltivatore lo stimolo a ben coltivare e,soprattutto, avvilirebbero « maggiormente la rendita della terra, ch’èsempre la parte principale della rendita pubblica ». La proposta delPalmeri è la suddivisione delle grandi proprietà in aziende–tipo, nétanto ampie da costringere l’affittuario a suddividerle a sua volta econcederle ad altri, né tanto piccole da impedire una razionale con-duzione; e, nello stesso tempo, il prolungamento degli affitti fino a– anni, in modo che il fittavolo trovi la convenienza ad investiresulla terra, ad impiantare ad esempio colture legnose, sottraendo-si alla « funesta necessità di non coltivar altro che frumento ». Intal modo, sostituita la figura del « borghese » con quella del brac-ciante, e trasformatosi il fittavolo, da semplice intermediario tra lagrande proprietà e la miserabile azienda colonica, in imprenditoreagricolo, ridiverrebbe possibile quel processo di accumulazione nellecampagne che la crisi sembrava aver reso ormai non più possibile.

In tutto ciò c’è un prezzo che il baronaggio deve pagare, ma è ilprezzo della sua sopravvivenza in quanto classe dominante nell’iso-la. Nei tempi nuovi della crisi dei prezzi, esso deve rinunziare allapretesa di un rapido e continuo accrescimento della rendita ottenutocon la tradizionale pratica dei fitti a breve termine, sottraendo cioèall’azienda, con la stipula di sempre più esosi contratti, ogni incre-mento di profitto realizzato dal momento dell’entrata in vigore delcontratto venuto a scadenza. L’avvenire della rendita latifondisticaè ormai affidato solo alla sua capacità di inserire elementi capita-listici nei rapporti di produzione tradizionali, che soffocano ogniincremento delle forze produttive agricole.

Rispetto alla complessità ed all’ampiezza, a volte alla contraddit-torietà della visione del Balsamo, si ha la netta sensazione che nelsaggio del Palmeri l’orizzonte culturale si restringa, che l’analisi si

. Ivi, pp. –.

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

semplifichi; ma è un restringimento ed una semplificazione che poisi traducono nella concretezza e nella univocità della proposta. Que-sta assume così il valore di una idea–forza intorno a cui riunificareil fronte baronale e, al tempo stesso, « persuadere » proprietari edagricoltori. Non è più il tempo delle analisi; è il tempo, anche per lagrande proprietà siciliana, dei projects.

Più esplicitamente su questo piano si colloca l’ultimo Scrofani,in particolare nello scritto Sopra un banco d’agricoltura in Sicilia, dalnostro punto di vista di grande interesse perchè per molti riguardiapparentemente simile alla proposta dewelziana. Liberista accesoquanto il Palmeri, lo Scrofani non cerca, a differenza dell’altro, leragioni della decadenza dell’agricoltura siciliana nella disorganizza-zione del mercato internazionale; la drammaticità del presente rendeanzi per lui inaccettabile il giudizio positivo del Balsamo sul carattereprogrediente degli ultimi decenni del Settecento e fa salire a gallamagagne presenti fin d’allora all’interno del mondo rurale dell’isola.La caduta successiva a quella illusoria prosperità dovuta ad un rialzogeneralizzato dei prezzi sembra al Nostro « fenomeno [. . . ] tantopiù meritevole d’osservazione quanto più ci fa chiari che la ricchezzadi uno stato agricolo sta nel solo travaglio della sua agricoltura e ne’prodotti delle sue terre ». Ma lavoro applicato significa investimentiproduttivi: è qui dunque la chiave interpretativa della crisi contempo-ranea e, nella misura in cui questa non è piovuta dal cielo, del mezzosecolo che l’ha preceduta. Fino al circa il dominio e la prepotenzaecclesiastica e baronale nelle campagne, le vessazioni e le usurpazionierano state largamente compensate da un impegno nell’allargamentodelle culture, nelle trasformazioni agricole; da allora in poi si erainvece verificata una progressiva diversione di capitali dalla terra,parallelamente ad una redistribuzione della popolazione che avevaspopolato le campagne e ingrossato spropositatamente le città. Ma,se « la Sicilia è andata retrocedendo da quel punto, che più non si ver-sarono nelle campagne i capitali, che i proprietari v’impiegavano unavolta », il problema altro non è che di ricondurveli, e lo strumento

. Ivi, p. .

. Lo scritto è stato pubblicato da Giarrizzo in Scrofani, Memorie inedite cit., pp. –.

. Ivi, pp. –.

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

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è il « Banco d’agricoltura in carta moneta ». E anche qui la novitànei confronti della diffidenza del Balsamo per il credito è evidente.Non si tratta più ormai di spingere la nobiltà all’investimento deicapitali disponibili invece che alla loro pietrificazione nelle sfarzoseresidenze cittadine: decenni caratterizzati da fenomeni di disinvesti-mento e di distruzione netta della ricchezza hanno provocato unareale carenza di capitali anche per la grande proprietà. Denaro nonne circola perché non ve n’è, non perché venga tesaurizzato, comemolti sostengono. Esclusa ogni possibilità di autofinanziamento, ilcredito diviene così l’unico strumento che consenta la formazione dicapitale.

Il credito non deve essere diretto a promuovere la piccola proprie-tà e l’autonomia economica dell’azienda contadina e colonica. Comeper il Balsamo e il Palmeri, l’asse del discorso rimane centrato sullatifondo baronale e sulla sua salvaguardia come punto di riferimentocerto in una società che rischia il disfacimento:

In un paese a prosperità progressiva importerebbe meno lo annientamentodi una ricca famiglia; ma in uno stazionario o retrogrado dà l’ultima spintaal totale deperimento. La divisione delle terre è utile, ma il passaggio rapidodelle proprietà è sempre pericoloso, giacché porta seco inevitabilmente conle spese necessarie la perdita di una parte del capitale; oltre al cangiamentomorale, che vi ha molta influenza, e che in Sicilia in particolare sarebbe piùmolesto quanto violento.

La struttura creditizia proposta dallo Scrofani può concederecarta moneta a corso legale per migliorie fondiarie e, in parte, perestinzioni di debiti, costituzioni di doti ecc., solo sulla garanzia realedella terra coltivata ed in proporzione al reddito netto da essa pro-veniente. Dalla proprietà i benefici ricadrebbero poi sui ceti nonproprietari attivi in agricoltura in quanto titolari di capitale mobilia-

. Ibidem.. Ivi, pp. –.

. Ivi, p. .

. Fra i risultati che lo Scrofani ritiene si possano in tal modo conseguire è l’avvio asoluzione del gravissimo problema della finanza pubblica: « So anche io qual sia in questomomento la difficoltà di distribuire a proporzione delle proprie facoltà i dazi della Siciliae principalmente quelli su le terre, e qual sia la scandalosa ripugnanza che hanno in ciòmanifestato i primari possidenti, ripugnanza che è la prima cagione per cui la maggior partedelle imposizioni cade sul popolo e su le famiglie che posseggono al di sotto di onze o

annuali. A parlar schiettamente, egli è impossibile di temere che i grandi possessori voglianoalfine daddovero ricusarsi a pagare l’imposta sulle terre pro rata del loro avere; essendo a tenore

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

re: non trovandosi infatti più il terriero nella necessità di chiedereal « castaldo » anticipi di rendita, come ormai accade solitamente,quest’ultimo avrebbe maggiore disponibilità di capitale da investiree quindi vedrebbe aumentare i profitti che, accumulati, potrebberoessere impiegati nell’acquisto della terra dei proprietari costretti dalloloro prodigalità a disfarsi del proprio patrimonio. In tal modo ilricambio al vertice della gerarchia sociale e l’allargamento di esso di-verrebbero fenomeni non più patologici, ma benefici perché naturali,risultanti dall’oggettivo funzionamento dei meccanismi della « libertàeconomica », tradotta in siciliano dai locali ceti baronali.

Ma è qui che cogliamo il nodo reale che i settori più intelligentidel ceto baronale — ma in sostanza anche i gruppi che si battevanoper un avvenire manifatturiero della Sicilia e del Mezzogiorno —non furono in grado di sciogliere. La crisi impone loro di fare i conticon indicazioni e proposte di politica economica che li avevano inaltri tempi visti accaniti oppositori, ma queste vengono ora accoltesolo in un contesto che le svuota di ogni contenuto eversivo e lerende funzionali al consolidamento delle gerarchie sociali tradizio-nali. L’ostacolo era tutto lì: in una società che transitava in anni disconvolgimenti politici caricandosi di tensioni interne senza riuscirea rinnovarsi al vertice, senza che in essa emergessero nuove forzeegemoniche e progressive. Misure che fossero all’altezza della crisiin atto non potevano non evocare nuove figure sociali, suscitatrici

della ragione passato in assioma presso tutte le nazioni illuminate che le antiche esenzioni,prerogative etc. annesse ai feudi sono assurde e impossibili più a sostenersi in faccia al gridouniversale. Né è da credersi che i nobili siciliani, o per dir meglio i maggiori possidenti, chenel furono i primi a domandare l’abolizione della feudalità, vogliano poi essere così scevridi lumi, d’amor di giustizia e di patria a voler per forza o sotto mendicati pretesti eluderela legge e mantenersi in questi diritti conosciuti non più vergognosi per chi cerca esercitarliancora che per chi li concedette una volta. Io per me son convinto che il motivo più validodella loro opposizione alla giusta ripartizione delle imposizioni territoriali non nasca tantodalle già rancide prerogative feudali, ma dalla loro impotenza a pagare più di quello che orapagano ». Col banco invece, « accrescendo il proprietario le sue entrate (e nulla anche scemandodella maniera di vivere che, disgraziatamente per esso, fa parte della propria esistenza), pocoimporterebbe al medesimo di contribuire l’ , il , il % su i nuovi profitti, per i nuovi dazi.In questo modo potrebbe il governo gravarli senza difficoltà di quel più onde ha bisogno,e non solamente non s’incontrerà alcun ostacolo per parte loro, ma saranno essi stessi chesolleciteranno l’uomo di stato a rivolgere su le terre i nuovi pesi onde supplire ai bisogni deltesoro » (ivi, –). Il fulcro del ragionamento è in quella « maniera di vivere » che è ormai unfatto di natura. Scemando la rendita e rimanendo inalterate le spese per la « maniera di vivere »nobiliare, deve diminuire, oltre la quota per gli investimenti, anche quella dovuta allo Stato.

. Ivi, pp. –.

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di quel nuovo equilibrio contro il quale, sia pure all’interno di unalogica non più immobilistica, continuavano a schierarsi i gruppi ba-ronali. D’altronde, misure che non avessero questa portata servivanoancor meno negli anni Venti dell’Ottocento che nei decenni a cavallofra Settecento e Ottocento. L’ombra del Balsamo, con tutto il caricodelle sue contraddizioni irrisolte, si allungava ancora sul dibattitoeconomico siciliano.

Sul lato opposto dello spettro teorico ed operativo, le posizioniprotezionistiche non riescono a prendere quota. Nello Scuderi, cer-tamente lo scrittore più robusto di quest’altro gruppo, l’illusioneliberista di rovesciare il processo di divaricazione delle economieeuropee solo che si togliessero gli ostacoli al libero dispiegarsi delleforze in gioco, viene sostituita da una più impegnata riflessione suiproblemi dell’arretratezza e dello sviluppo e sui rapporti economiciinternazionali. A suo avviso, i problemi della Sicilia della Restaurazio-ne non sono riconducibili solo alla storia recente del suo commercioe della sua agricoltura, ma fanno parte del travaglio che porteràl’Europa nell’era dell’industria dispiegata. Il suo epicedio della ma-nifattura ne sottolinea non solo le maggiori potenzialità di sviluppo,ma anche la sua capacità di ridisegnare i rapporti di forza fra gli Stati–nazione, mettendo chi ne ha « in stato di campare assai con poco,cioè molto prodotto non lavorato con poco prodotto lavorato ». Perquesto il commercio non è più il tramite neutro fra spazi e soggettieconomici, benefico indipendentemente dalle qualtità e qualità dellemerci scambiate. Il suo sguardo è sempre proteso ad individuare conentusiasmo i sintomi anche più piccoli di superamento del rapportodi dipendenza economica e tecnologica della Sicilia dall’estero. Ildiscorso rimane comunque lontanissimo dallo sforzo di elaborazioneimponente che su questi temi a Napoli, e del resto in un notevoleisolamento, andava producendo Luca de Samuele Cagnazzi, e ciòche in sostanza resta sul piano della politica economica è l’adesionealla linea adottata dal Medici nel –: un rigido protezionismo

. S. Scuderi, Dissertazioni economiche ed agrarie riguardanti il Regno di Sicilia, II edizione,Catania . Ma cfr. soprattutto, dello stesso, i Principi di civile economia, volumi, Napoli .

. Cfr. ad es. il Discorso del Professore Cav. Salvatore Scuderi Presidente della Società Economicadella valle di Catania, in Discorsi pronunciali dal Presidente, dal Vicepresidente e dal SegretarioPerpetuo della Società Economica della Valle di Catania nell’adunanza generale del dì maggio ,Catania . Vedi soprattutto le pp. –, dove l’entusiasmo prorompe perché « due nostri soci[. . . ] han con mirabile sagacia inventato due ordegni di facilissimo uso, onde estrarre lo zolfodal materiale eterogeneo senza accenderlo ».

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

non inserito in un contesto di misure aggressive, in grado di spezza-re incrostazioni secolari e condizionamenti nuovi, che nella praticasposta reddito da un settore ad un altro e crea spazi di privilegioper iniziative di carattere più o meno speculativo senza una ricadutaefficace sul territorio.

La sensazione che si ricava anche dalla lettura delle opere delloScuderi è che, ancora una volta, vi circoli una presunzione di intangi-bilità dei quadri sociali dati che crea un gap incolmabile fra analisi eproposte. Ed è una sensazione che diventa ancor più netta a scorreregli scritti di autori collocati sulla stessa linea ma dotati di minore forzateorica, e che perciò rivelano con maggiore chiarezza la trama degliinteressi che li muove. La lotta frontale per un diverso equilibrioall’interno del blocco di potere baronale–commerciale non implicavaper nessuno dei due gruppi contrapposti la messa in crisi del rappor-to di dominio sulla società di quel blocco stesso, una volta ridefiniti isuoi interni rapporti di forza.

La novità delle sconvolgenti proposte dewelziane e, nello stessotempo, la ragione della loro emarginazione dal dibattito economicomeridiona le e della sconfitta del loro vulcanico fautore, sono tuttenella loro estraneità a questo gioco. Guardiamole più da vicino.

Il loro carattere distintivo più evidente è « la fiducia nei valori ter-reni, l’ottimismo, la volontà realizzatrice, il senso della vita associata,che — come dice Rosario Romeo — caratterizzano la fase espan-siva della società liberale » e che rimangono « esclusi » dalla « vitasiciliana » e, più specificamente, dal dibattito economico. Nulla èpiù lontano dall’uomo d’affari comasco delle predicazioni di « GianGiacomo » (Magia, I, ):

Lungi da queste idee o favoleggiate da poeti o ridotte a dottrina dall’atrabiledi qualche sistematico, io mi compiaccio veder l’uomo passar da sviluppo asviluppo, da coltura a coltura, e spingersi fuor di sé, e moltiplicare per dir cosìla sua esistenza, e riempire l’immensità dello spazio, e trionfar dell’imperodel tempo. Le grandi imprese (io non parlo delle gesta sanguinose de’ trionfidistruggitori) sono l’alimento di cui si pascono le anime sublimi, e per cuiqueste divengono immagini vere della Divinità, e mentre sono la gloria diessa, sono ancora l’onore ed il sostegno della di loro specie (Mac–Adam, ).

L’« apatia » (Magia, I, ), l’« indolenza » (ivi, ), l’autolimitazionedelle proprie capacità di dominio sulla natura riconducono l’uomo

. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari , p. .

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al livello dei bruti, negandone la dignità. Egli « non nasce né all’av-vilimento, né alla disperazione; ma per dividere la sua vita fra iltravaglio e l’agiatezza » (ivi, ) in stretta cooperazione con gli altriuomini. E il luogo deputato all’unificazione degli sforzi degli uominiin un’atmosfera di tensione operativa che esalta le capacità indivi-duali sono le città; non certo quelle « ruinose » perché formate dal« corpo mostruoso di consumatori improduttivi » (Comento, , no-ta), ma quelle operose come Leeds, Manchester, Birmingham, cheil comasco contrappone con sferzante ironia all’arcadia agriculturista:

La bella idea degli Economisti di fare sparire le mostruose popolazioni delleCapitali e di consigliare ai grandi proprietarj la presidenza delle loro terre ohcom’è svisata! Egli (=l’Indelicato) vorrebbe farne tanti bracciali! che dolcefilantropia! Il Signor Indelicato vorrebbe spopolare le città, io vorrei formar-ne delle nuove, ed in siti convenevoli. La formazione e l’ingrandimentodelle città sono indizj sicuri di floridezza e d’industria. È un fenomenotutto naturale che tendano a ravvicinarsi tra loro quelli che concorrono allemanifatture: allora l’industria anima l’agricoltura la quale non produce tuttociò che deve che quando le città popolate sono sparse nell’estensione delsuo territorio. Le città sono necessarie allo sviluppo della più parte dellemanifatture, e queste sono necessarie per offrire all’agricoltura oggetti dicambio (ibidem).

C’è già qui un industrialismo di tono diverso da quello diffusosiin quegli anni nel Mezzogiorno. Da una parte « il campo delle ma-nifatture è immenso, ed al suo confronto quello dell’agricoltura èimpercettibile » (Magia, I, ), talché ben più ampie possibilità diprogresso offre all’uomo; dall’altra la manifattura è, al contrario diquanto asseriscono i nostalgici della vita campestre, un fattore diamalgama sociale, di riduzione delle tensioni fra gli uomini perché« li riunisce strettamente tra loro per l’abitudine che risulta dal lavorocomune, e pel bisogno reciproco che gli uni hanno degli altri » (Me-moria, ). Purtuttavia non si tratta di un amalgama armonicistico: lamanifattura è parte della tumultuosa messa in movimento di un’inte-ra compagine economica, a partire dall’agricoltura. Non erano certole industrie sorte nel Regno nel periodo del blocco continentale, ca-paci di perpetuarsi solo se coltivate in serra, il punto di riferi mentodel discorso del De Welz.

In questo modo il Nostro si colloca al di fuori del dibattito fraquanti volevano una Sicilia manifatturiera e quanti erano per la con-

. Ricordo che le note del fuochiano Comento di comento sono del De Welz.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

servazione della sua impronta agricola. Punto di partenza di un av-venire di progresso poteva anche essere, come nelle prospettive delMedici, una Sicilia quale complemento agricolo di una Napoli in-dustriale. Non era lì il problema. Ciò che occorre in primo luogoè liberare il campo, oltre che dal tradizionale fatalismo (« la felicitàe l’infelicità son sempre opera dell’uomo » [Magia, I, ]), da ognipiù sofisticata forma di scarico di responsabilità. In un certo senso lostesso gran dibattere sul ruolo dello Stato nello sviluppo economicopuò nascondere la volontà dei gruppi dominanti di giustificare lapropria inerzia. In una situazione drammatica quale quella del Regno

il sistema di riforma più energico, il più adatto, il più utile [. . . ] è perfettamenteed all’intutto economico. Chi volesse curare i disordini delle finanze con leggipuramente politiche somiglierebbe a quel medico che per guarire dallaconsunzione, laddove prescrive una dietetica di cibi semplici ed i più attia nudrire il corpo, mirasse invece a intertener lo spirito colla lettura deromanzi (Saggio, –).

E, con maggior pregnanza:

le leggi spesso somigliano le ordinanze le più adatte a distruggere la ma-lattia, ma l’opera in fatti è riserbata all’azione delle medicine. Quali sonole medicine nel nostro caso? Sono i mezzi, e i soli mezzi di riproduzioni.Che gli uomini industriosi del Regno delle Due Sicilie si penetrino di questeverità, e che si scuotano dal letargo in cui sembrano come sommersi (Magia,I, , nota).

Un alibi della passività ancora più pericoloso e diffuso è quelloche si nasconde nelle lamentazioni sull’immaturità dei meridionali esull’esigenza di formare l’uomo nuovo in grado di profittare di ini-ziative economiche ed istituzioni progressive, e magari dar loro vita:a quanti, fondandosi su questa esigenza, sostengono che « in Sicilianon può fondarsi un sistema di credito pubblico » perché occorrecostruire prima la fiducia, il De Welz risponde perentoriamente che« sono le istituzioni quelle che stabiliscono cangiano e modificano lacondotta e il carattere degli uomini » (ivi, , nota): « la banca creae stabilisce il credito, non il credito crea la banca » (ivi, II, ). Delresto

il credito è come una pianta, che non ha bisogno di un terreno espressa-mente coltivato, o di un cielo benigno, o di un clima particolare, ma chegitta le sue radici, si veste di fronde, e si carica di frutti, così sotto i geli

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del Settentrione, e sotto i raggi ardenti della zona torrida, come al teporpiacevole e fecondo del Mezzogiorno (ivi, ).

Occorre dunque solo il coraggio di fare in concreto ciò che si dicedi volere.

Dato il profilo del personaggio, il suo non è certo un appello all’at-tivismo imprenditoriale di natura retorica: dal al il De Welzinveste le autorità, i gruppi affaristici ed il pubblico colto meridionaledi una serie di progetti di inziative da avviare o rianimare. Non inte-ressato a coltivare, come altri imprenditori calati nel Mezzogiornofra Sette e Ottocento, gli spazi di profitto offertigli, il comasco inten-de scuotere una società bloccata. L’impresa che propone al Re nel ha per oggetto, da una parte, « di diffondere per tutto il Regnol’uso delle macchine, onde al risparmio della mano d’opera si uni-sca l’abbondanza del prodotto »; dall’altra « di far sparire dalle nostremanifatture lo spirito di rutina, che le ha rese stazionarie talché daquasi un secolo non si sono avanzate neppure di un passo, mentre ne’paesi stranieri si sono immensamente perfezionate, e di dar prodottiche rivalizzando co’ prodotti stranieri non solo ce li rendano inutili;ma ci mettano nel grado di andare altrove a contrastare ad essi laconcorrenza » (Memoria, ). L’iniziativa che concluse il suo periodomeridionale fu uno sfortunato quanto ambizioso tentativo di trasfor-mare la dissestata manifattura reale di San Leucio, data in concessionea lui e a Baracco, in una società per azioni in grado di mettere inmoto un meccanismo auto–propulsivo di sviluppo manifatturiero.La sua proposta per la Sicilia era certo clamorosa, ma, dice nellaMagia, « non è la sola, né la più grande delle mie idee; io presenteròaltri travagli che sorprenderanno per i cangiamenti che produrrannosulla Sicilia, cangiamenti più potenti di quelli che sono stati prodottidalla scoperta delle Indie, e dall’introduzione del credito » (Magia,II, ). E purtuttavia, « se nella Sicilia, adottato il mio Progetto, saràfelicemente eseguito, in pochi anni tutti i paesi sentiranno rossore dinon averne troppo sollecitamente imitato l’esempio » (ivi, ). Do-vrebbe per l’intanto farlo subito lo Stato Pontificio, che vedrebbe inun breve volgere di anni ribaltata la propria condizione economica.

Fu comunque intorno al primo progetto siciliano che il De Welzimpegnò le sue migliori energie pubblicistiche e imprenditoriali. La

. Per il rapporto del De Welz con lo Stato Pontificio cfr. le appendici IV e V e lacorrispondente nota.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

Magia, scritta per sostenerlo, ci offre tutti gli elementi per cogliere laposizione del Nostro. Come si è detto, il De Welz, che pur mostravaper la teoria grande rispetto, non fu certo un economista teorico,e le parti più astraenti sono quelle in cui più si sente la presenzadel Fuoco. Segnalo viceversa due aspetti di carattere generale chemi sembrano senz’altro suoi. Il primo, che si direbbe listiano, è lacollocazione del concetto di forze produttive, e dei beni materiali edimmateriali che le incorporano, al centro dell’analisi economica, inpolemica con Smith ma anche e soprattutto in polemica con Say. Aquest’ultimo sfugge la distinzione, per il Nostro basilare, fra « valorproduttivo di altro valore » (Magia, I, ) e « valore che non ha laforza di mettere in moto altro valore » (ibidem). Partendo da questocriterio di classificazione, non si può più, come fa Say, considerareindifferente il tipo di prodotto messo sul mercato da una compaginesociale, e guardare al mercato stesso come luogo astratto in cui sivalorizzano e circolano beni valutabili solo in base al prezzo spuntatoin un momento dato, scaturiti da fattori produttivi distinti a lorovolta dai prezzi unitari di ciascuno di essi. Si tratta semmai trarre leconseguenze dalla distinzione smithiana fra lavoro produttivo e lavo-ro improduttivo, puntando lo sguardo non più sulla circolazione diprodotti ma sull’accumulazione di potenzialità produttive: cioè, certo,di macchine e strumenti di produzione, ma anche di capacità e saperi,e di istituzioni che le incentivano, in particolare quelle creditizie. Diqui un concetto di capitale sottratto alla dimensione della materia-lità. A « tutto ciò che produce un valore reale va assegnato il nomedi capitale » (ivi, ), indipendentemente dal fatto che esso stessosia o no un « valore reale ». « L’ingegno di un uomo che crea unamacchina, che semplifica i procedimenti ordinari, è forse un valorreale? Il servizio che rende la moneta come moneta, nasce esso daun valore reale? » (ivi, ). Per quanto immateriali, si tratta di fattoriimportantissimi di arricchimento e sviluppo.

Il secondo aspetto da sottolineare è la decisa opposizione — lo sivede già dall’ultima citazione su riportata — nei confronti di un pre-supposto di molta parte dell’economia politica classica: l’esclusionedella moneta dal campo dell’analisi tramite la concezione dellamoneta–velo, dello scambio come baratto, della neutralità della fun-zione monetaria. « Fondando il mio edificio sulla base del credito,non ho ceduto né alla severità di coloro che circoscrivono tutto il

. Cfr. volume I, p. ; volume II, p. e .

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meccanismo dell’economia pubblica e privata ad un movimento,ad un cambio puramente materiale, né mi sono smarrito in queisogni dell’immaginazione che vorrebbe farne un vero giuoco diparole, un’intrapresa di azzardo » (ivi, ). Nella moneta « è d’uopodistinguere [. . . ] due valori, quello che compete alla quantità e qua-lità della materia di cui è composta, e quello che risulta dal servigioche rende come moneta. Il primo valore è dello stesso genere diquello di ogni altra produzione, e risulta dagli usi che si possonofare della materia di cui la moneta è composta, il secondo è cosìdistaccato dalla natura della materia, che può essere rappresentatoda un pezzo di carta » (ivi, ); cosicché « forse non sarebbe fuordi proposito di accordare alla moneta come merce un valore, edalla moneta come segno un prezzo » (ivi, nota). L’individuazionedi un prezzo della moneta nella sua funzione propriamente monetaria,quantificato dall’interesse, rende da una parte non più paragonabilel’economia domestica all’economia delle nazioni (ivi, II, –),dall’altra rende ragione, in opposizione a Say e Sismondi, del ca-rattere produttivo del credito. Se infatti esiste, oltre ad un valoredella moneta connesso alla sua materialità, un altro connesso allasua funzione simbolica, ne emerge, si sarebbe detto nel Novecento,una fondamentale propensione alla liquidità, ossia una spinta allatesaurizzazione da parte di chi non vuole o non sa tradurre in attole potenzialità produttive del suo ambiente, che è ben più fortedella spinta all’accumulo di una qualsiasi altra merce. A differenzache nel mercato scorrevole ipotizzato dal Say, in quello del De Welzriemergono continuamente sacche di ristagno delle risorse che soloil credito riesce a sciogliere, trasferendo le potenzialità insite nellafunzione monetaria in « mani industriose » (ivi, I, ).

La disputa assume significato politico ed operativo se inserita nelpiù generale atteggiamento assunto dai due autori rispetto all’oggettodell’indagine — analitico e sincronico nel Say, dinamico e propositivonel De Welz:

Lo stato in cui il Say suppone un popolo è ben diverso da quello nel qualelo suppongo io [. . . ] Quell’economista circoscrive le facoltà economichedi una nazione in un perimetro limitato, io le considero come animateda un’attività indefinita, le cui funzioni non si limitano all’uso de’ propricapitali, ma si estendono anche all’uso de’ capitali altrui. Parmi vedere dauna parte l’indolenza o un’industria languente, e dall’altra una vivissimaattività, un’industria vigorosa e senza limiti (ivi, ).

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

Ma questa posizione polemica del comasco non può essere conte-nuta nel perimetro della pubblicistica economica. Sostenere, come fail De Welz stesso, che la politica del Medici si collochi a questa altezzadei problemi, che si muova cioè in una prospettiva di mobilitazionedelle risorse disponibili ed acquisibili ai fini dello sviluppo produttivo,non può che essere un tentativo di captatio benevolentiae. Allo stessomodo, non mi pare persuasiva la tesi, fatta propria da quanti si sonooccupati del problema, che vede nel De Welz un uomo del Medici.Certo, nella complessa macchina finanziaria approntata dal ministronapoletano nel tentativo di sostenere uno Stato alla ricerca di legittima-zione sociale, si aprivano spazi anche per le ambizioni smisurate di unDe Welz. Nella realtà questi vennero quasi tutti occupati dagli « ebreitedeschi » (ivi, II, , nota), « insaziabili sanguisughe » (ivi, I, ) pro-tagoniste della « funesta mania dei prestiti improduttivi » (ivi, ), edagli odiatissimi « piccoli finanzieri » che « riducono tutta l’importanzae l’utilità di un prestito a qualche meschino risparmio d’interessi » (ivi,, nota): tutte figure alimentate da un sistema finanziario prigionierodi se stesso, incapace di contribuire all’allargamento della base produt-tiva così da riceverne di riflesso i benefici. Le pagine dedicate dal DeWelz ai « giudei » e ai « piccoli finanzieri » contengono in realtà l’analisicritica più efficace che mi sia capitato di leggere nella pubblicisticacontemporanea sulla politica finanziaria del Medici:

Io non intendo [. . . ] di far l’elogio della prodigalità e della dissipazione, o disostenere che le rendite di uno Stato non debbano essere amministrate contutto il rigore della parsimonia, ma di condannare le meschine supputazionifinanziarie, che mal si competono all’aritmetica dell’alta amministrazione,alla cui dignità si legano intimamente il sistema del credito, che il finanzierenon deve mai perder di vista istituendo i suoi calcoli e combinando le sueoperazioni [. . . ] l’economia di un governo non devesi confondere coll’e-conomia del piccolo proprietario, del piccolo commerciante: questa ha de’limiti che poco son lontani dalla città o dal borgo che si abita, e quello siestende al di là de’ mari, al di là de’ monti, ed i suoi confini si confondonocon quei delle nazioni più remote, e concorrono a formare l’immenso edindefinito recinto del credito universale (ivi, II, ).

Al « far economie meschine », al « ricusarsi alle spese utili » (ivi,), al fondare il credito pubblico su manovre da giocoliere della

. Cfr. ad esempio Magia, I, pp. –, nota.

. L’avversione del De Welz nei confronti di costoro prorompe in più parti della Magia:oltre ai passi citati nel testo, cfr. I. ss.; II, .

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finanza, come nella logica finanziaria del Medici, De Welz opponeuna sua immagine delle politiche finanziarie del governo inglese. Ilquale

al risparmio di somme poco considerevoli preferisce l’estensione semprecrescente del suo credito; ed invece di farsi illudere da un vantaggio pre-sente efimero, slancia lo sguardo nel futuro e vi legge tutti que’ risparmi,e tutte quelle risorte che gli vengono dalla sua franca condotta, e da unagenerosità maneggiata con prudenza e destrezza. Uno pseudo–finanziere alcontrario crede di aver fatto un colpo da maestro, procurandosi [. . . ] qualchefrivola economia impiegando astuzie e doppiezze, fingendo concorrenze,simulando di rigettare le più vantaggiose condizioni, e ricorrendo ad altremen dignitose menzogne, le quali, per quanto denso possa essere il velomisterioso sotto cui si cerca di tenerle nascoste, presto rimangono smentite,e producono danni incalcolabili (ivi, I, , nota).

Non con pratiche di questo genere era possibile promuovere ilbenessere dei popoli, e tanto meno quello della Sicilia, in preda al unacrisi drammatica per risolvere la quale occorrevano misure aggressivee coraggiose, e non per questo improvvisate: « una scossa elettrica »(Saggio, ).

A questo punto si può provare a leggere il “progetto” presentatonella Magia. A prima vista si tratterebbe di innervare di strade ilterritorio siciliano. Ma, a guardar meglio, non è qui il cuore dellaproposta. Stralciate dal contesto della proposta dewelziana, misure dipolitica stradale vennero adottate, ma, impantanandosi nelle magliedegli apparati pubblici e nel groviglio degli interessi corporati e locali,esse risultarono depotenziate di ogni umore eversivo. Ciò chesembra decisivo al Nostro sono i modi per mobilitare risorse e perimpiegarle in questa direzione.

Come abbiamo visto, per il De Welz non esiste un mercato deicapitali unificato; ci sono da una parte i capitali oziosi, dall’altra icapitali produttivi. L’imposizione, se diretta, tende a colpire in pre-valenza questi ultimi, se indiretta diminuisce il consumo favorendol’accumulo dei primi. Il debito pubblico per fini produttivi, invece,

. Per la quale faccio riferimento a R. Romeo, Momenti e problemi della Restaurazione nelRegno delle Due Sicilie (–), in Id., Mezzogiorno e Sicilia nel Risorgimento, Napoli , e a G.Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento, Bari . Per una ricostruzione delle vicende finanziarienelle quali si muove De Welz cfr, B. Gille, Histoire de la maison Rothschield. Tome . Des originesà , Ginevra , pp. –.

. Sulla vicenda cfr. L. Bianchini, Della storia economico–civile di Sicilia, Napoli ,p. ss.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

prosciuga i capitali oziosi riversandoli nella zona produttiva e, procu-rando con gli interessi pagati reddito altrimenti non esigibile, stimolail consumo impedendo così nuovi ristagni di moneta (Magia, II, –); infine, a differenza dell’imposizione, mette a disposizione subitograndi capitali spendibili (ivi, ). Il debito pubblico doveva essere,di conseguenza, lo strumento per raccogliere le disponibilità finanzia-rie necessarie al suo progetto, le quali, nella situazione della Sicilia,avrebbero potuto essere efficacemente investite solo evitando l’osta-colo degli apparati pubblici, tramite una agenzia che gestisse la spesagarantendo la contemporanea costruzione in tutti gli angoli dell’iso-la del sistema stradale proposto. Ma tutto ciò non era sufficiente. Imassicci investimenti stradali avrebbero immesso benefica liquiditàed utilizzato risorse, trasmettendo solo stimoli indiretti all’apparatoproduttivo; e d’altra parte gli impulsi di un efficiente sistema di co-municazioni sarebbero stati trasmessi all’economia man mano che lestrade fossero state completate, cioè in tempi dilatati. La Sicilia invecenon poteva aspettare: essendo essa sull’orlo del baratro, anche la purlieve imposizione necessaria all’ammortamento del debito avrebbepotuto precipitarvela, colpendo ulteriormente l’apparato produttivoe spingendo i capitali residui nella zona improduttiva (ivi, –).La proposta del De Welz per rompere questo circolo vizioso è che lastessa agenzia destinata a gestire la spesa per le strade organizzasseampie aperture di credito in carta–moneta ai privati sulla garanzianon più, come in Scrofani, della proprietà, ma del prodotto: in questamaniera il settore produttivo, vitalizzato da una misura di immediataefficacia sui margini di profitto, avrebbe potuto sopportare l’ammor-tamento del debito. Le efficienti comunicazioni, aggiungendosi poialle facilitazioni creditizie, avrebbero aperto alla Sicilia prospettive diprosperità senza limiti.

Tutti, dice il Nostro, ne avrebbero beneficiato, « proprietari, brac-ciali, artisti, commercianti, marinai » (Saggio, ). Al Siciliano chegli obbietta che « l’istallazione di una banca di sconto [. . . ] sarebbeper la Sicilia una novità poco accetta, come tutte le novità che com-promettono gli interessi » (Magia, II, ), il De Welz risponde chechi se ne sentisse colpito avrebbe in realtà una errata considerazionedel proprio tornaconto. Si prendano i commercianti, che « sembranodovervisi più da vicino opporre » in quanto la banca dewelziana sot-trarrebbe lo sconto delle cambiali alle « banche particolari » (ivi, );ebbene, « quali e quante nuove sorgenti di guadagno » non offrireb-be loro l’accelerazione impressa alla vita economica siciliana dalla

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realizzazione del progetto (ibidem), quali « immensi vantaggi [. . . ]trarrebbero dal nuovo ordine di cose » al costo di « un piccolo di loroguadagno » (ivi, –). « Dove sono — infatti — i più ricchi com-mercianti e capitalisti? Dov’esistono le migliori e più floride banche »(ibidem)? in Inghilterra e in Francia soprattutto, dove l’« idea meschinade’ commercianti » che, « forse non senza ragione », regna in Sicilia,non trova nessun riscontro. In quei paesi

gli uomini addetti al commercio non sono macchine da rutina, ma sonuomini pieni d’ingegno e di conoscenze, acquistate sia collo studio de’grandi scrittori, sia viaggiando presso le più colte nazioni, e studiandonei costumi, le abitudini, la politica, il commercio, l’economia, le risorse, lefinanze [. . . ] la società de’ commercianti non è composta di uomini oziosie sfaccendati, o di coloro che cercano con giuochi futili o conversazionifrivole ristorarsi la sera da’ travagli materiali del giorno; ma di filosofi, difinanzieri, di economisti, di matematici, insomma di letterati di ogni specie(ivi, ).

È, questa, l’immagine idealizzata del commerciante dello svilup-po capitalistico, che deriva i suoi guadagni non più dallo sconto dellecambiali di contadini miserabili e nobili dissipatori, bensì dalla massi-ma produzione e circolitzione di merci, non dalla miseria ma dallaricchezza della nazione, non dalla propria prepotenza ignorante mada una illuminata e colta operosità. In fondo, un’immagine di se stes-so, proposta ai suoi colleghi siciliani come modello a cui adeguarsiper essere all’altezza dei tempi nuovi.

Ma in quel contesto, per motivi che il De Welz non capiva, nonc’era spazio per i commercianti dello sviluppo. Nei suoi schemi men-tali tecnocratici, l’analisi degli interessi, dei rapporti di produzione,dei poteri diffusi e statali, delle culture, dei sentimenti — in una paro-la l’analisi sociale — veniva sostituita da una contabilità dei redditiricavabili prima e dopo l’adozione delle misure da lui proposte. Se laconvenienza delle sue proposte risultava dimostrata, il resto sarebbevenuto da sé. Il gran discorrere della pubblicistica riguardava invecequestioni oziose, nominalistiche, prive di incidenza sullo sviluppoproduttivo. Ma le configurazioni sociali non si reggono su una con-tabilità di costi e benefici. Il De Welz supera di slancio le annosepolemiche riformatrici nell’illusione di saldare gli interessi dei gruppiin gioco in una sconvolgente accelerazione del ritmo secolare dellavita economica siciliana; ma l’attuazione del suo disegno — un ef-ficiente sistema stradale connesso ad un’ampia apertura di credito

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

alla produzione — avrebbe messo in discussione poteri e posizionisociali acquisite, e, per l’intanto, non incontrava figure sociali con-sistenti che se ne facessero carico. Così le dewelziane rimasero neifatti prive di incidenza sulle politiche e, al tempo stesso, un unicumnella pubblicistica economica del Regno. Il loro autore dovette subire« angarie violentissime » (ivi, I, , nota) ed il suo progetto vennesubito violentemente attaccato, cosicché le strade non si fecero el’apparato creditizio rimase praticamente inesistente. Da parte dialcuni si sostenne l’inutilità di comunicazioni sia verso quelle zo-ne interne segnate dall’arretrateza produttiva e dall’autoconsumocontadino, e quindi incapaci di fornire sovrappiù commerciabili, sialungo le coste, che meglio sarebbero state servite dal cabotaggio.Secondo il Palmeri, poi, la costruzione delle strade poteva rivelarsiutile solo una volta che si fossero rimossi « tutti gli ostacoli morali[. . . ] i quali minorano la produzione, scuorano l’industria, arrestanola circolazione ed impediscono che venga accrescendosi il capitaledella nazione »: ancora una volta si puntava su ciò che il De Welzchiamava « misure politiche », le quali, a differenza delle « misure eco-nomiche » del comasco, attendevano di fatto l’emergere dell’uomonuovo per affidargli la pubblica felicità.

Ma su di questo non vi furono diversità di valutazione sostanzialinella pubblicistica del Regno. Anche per lo Scuderi, il primo San-filippo, il Bianchini, al centro delle strategie del progresso socialeed economico si collocano le « misure politiche ». Non per casol’attacco frontale sferrato nella prima opera del Bianchini contro laconcezione dewelziana del debito pubblico come asse della finanzastatale costituì la communis opinio in materia per liberisti e prote-zionisti. Un sistema finanziario sganciato dalle entrate tributarie, diper sé scarsamente elastiche, e centrato invece sulle grandi ed imme-

. Cfr. le appendici I e II.

. Palmeri, Cause e rimedi cit., p. .

. Cfr., del Bianchini, Dell’influenza della pubblica amministrazione sulle industrie nazionali, esulla circolazione delle ricchezze, Napoli ; De’ reati che nuocciono alle industrie alla circolazionedelle ricchezze ed al cambio delle produzioni, Napoli .

. L. Bianchini, Principii del credito pubblico, II edizione, Napoli . Riferendosi a questolibro, nella sua Storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli , p. , il Bianchini dice chequando nel « si spacciò anche per mezzo della stampa il debito pubblico come una sorgentedi ricchezza per le private persone e per gli Stati », scrisse un’opera sul credito pubblico perconfutare queste concetioni, che il ministro delle finanze gli permise di pubblicare solo nel.

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diate disponibilità procurate dal debito pubblico era stato utilizzatodal Medici con obbiettivi congiunturali e, per così dire, politici, perimpedire cioè che la gravissima crisi dell’economia meridionale aves-se ripercussioni catastrofiche sullo Stato borbonico; e, proprio perquesto, aveva evitato di suscitare un fronte compatto di opposizionenell’opinione colta e fra i gruppi sociali decisivi. I progetti del DeWelz, volti a rendere lo Stato un grande erogatore di spesa produttiva,venivano viceversa percepiti come presuntuosi disegni concepiti daun soggetto estraneo al tessuto sociale, animato anzi dall’intento didissolverlo. Il sistema finanziario costruito dal Medici rimase sostan-zialmente immutato fino alla dissoluzione del Regno borbonico, unavolta sfrondato di quegli ardimenti creditizi che potevano aprire spaziad una politica economica in grado di incidere sul corpo sociale.

In assenza di misure incisive, l’attenuazione della crisi negli anniTrenta ed il nuovo clima dei primi anni del periodo ferdinandeofurono accompagnati, più che dal rilancio dell’investimento agricoloo manifatturiero, dal pullulare — come dimostra John Davis — diiniziative speculative in cui interessi terrieri e commerciali, spessointrecciati in società più o meno formalizzate e nelle nuove Com-pagnie, profittano della debolezza della base produttiva e, al tempostesso, la alimentano. Ancora una volta le « misure politiche » non riu-scivano efficaci. Lo avrebbe in un certo senso riconosciuto lo stessoBianchini, quando, rifiutando la proposta liberista di una riconver-sione della rendita che, restituendo capitali al mercato, avrebbe datorespiro all’apparato produttivo, rispondeva che i capitali, in mano aiprivati, non sarebbero stati impiegati nella produzione ma sarebberostati tesaurizzati o avrebbero alimentato l’area della speculazione.Era, appunto, la situazione a cui il progetto dewelziano tentava didare soluzione concreta; ma al Bianchini non sarebbe mai venuto inmente che una via d’uscita potesse essere trovata in quel senso.

Né sarebbe mai venuto in mente ai suoi oppositori, ai settoripiù avanzati ed aperti della borghesia siciliana e meridionale raccoltiintorno al Ferrara ed al “Giornale di statistica”, che tanta parte furonodell’opinione moderata risorgimentale: la parola d’ordine della libertàeconomica, sia pure intesa dal Ferrara in maniera diversa e più ampia

. J. Davis, Oligarchia capitalistica e immobilismo economico a Napoli (–), in “StudiStorici”, , n. , pp. –.

. L. Bianchini, Se la conversione delle rendite del debito pubblico del regno di Napoli sia giustaed utile, in “Il progresso”, , pp. –; cfr. in particolare p. .

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

rispetto alla pubblicistica filobaronale, rivelava già, ed ancor piùavrebbe rivelato negli anni della costruzione dello Stato unitario,la sua inadeguatezza di fronte all’arretratezza meridionale ed allasolidità delle forze interne ed internazionali che la determinavano.

.. Il radicalismo di Francesco Fuoco fra teoria ricardiana e mo-ralismo pedagogico

Se il De Welz non è un protezionista qualsiasi, neanche il Fuoco èun liberista qualsiasi, un semplice precursore di Scialoia e Ferrara;le sue opere, così come le dewelziane, rimasero sostanzialmenteemarginate dal dibattito economico meridionale. D’altra parte seun personaggio tanto diverso dal suo « committente », con una vi-sione generale dei meccanismi economici tanto diversa da quelladelle dewelziane, dedicò ad esse un così grande impegno e parecchianni della sua esistenza, un motivo profondo deve pur esserci, datoche si tratta di un intellettuale di troppo alto livello perché risultinosoddisfacenti interpretazione in chiave esclusivamente mercantiledel suo rapporto con l’imprenditore comasco. Qui di seguito, inattesa che venga alla luce una documentazione più ampia di quella innostro possesso, propongo un tentativo di riorganizzazione dei datiche i contemporanei e le lettere pubblicate in appendice ci dannosulla biografia intellettuale del teorico meridionale, dal quale emergeuna figura non confondibile nella schiera dei liberisti dell’Ottocentoborbonico autori di testi di economia politica; una figura a suo mododi opposizione, così come, in forme del tutto diverse, lo era stataquella del De Welz.

Il luogo d’origine della personalità di Francesco Fuoco va cerca-to nel riposizionamento che lo scoppio della rivoluzione francese el’aggravarsi delle contraddizioni insite nello sviluppo settecentescoavevano provocato fra l’intellighenzia napoletana post–genovesiananell’ultimo decennio del secolo. Nella sua formazione, comunque,non c’è segno di un impegno intellettuale sul terreno in cui si andava-no esprimendo con più energia bisogni, aspirazioni ed elaborazioniintellettuali, quello del dibattito economico. Fece gli studi ecclesiasti-

. Cfr. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., in particolare pp. –. Sui limiti del liberismorisorgimentale cfr. le classiche Osservazioni sul libero–scambismo dei moderati nel Risorgimento diGiorgio Mori, in Id., Studi di storia dell’industria, Roma , pp. –.

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ci a Teano, dove fu ordinato saçerdote; poi l’insegnamento a Napoliparallelo a studi condotti nei campi più disparati, dalla matematicaalla medicina alla grammatica, le cui sedimentazioni sarebbero rie-merse più tardi. A anni lo troviamo fra i rivoluzionari del equindi per due anni al confino nell’isola di Pantelleria.

La sconfitta giacobina, le vicende successive alla rivoluzione fran-cese, il nuovo clima della cultura europea non avviarono in lui quelprocesso di ripensamento delle esperienze rivoluzionarie che, sottolo stimolo del Saggio cuochiano, sarebbe confluita nel moderatismorisorgimentale; il nuovo rapporto che tanta parte dei gruppi intellet-tuali progressisti realizzò con le istituzioni dello Stato rinnovate daldecennio francese, non lo coinvolse. Restava in lui intatta l’aspirazio-ne a mutamenti radicali che l’avevano portato a prendere parte attivaai rivolgimenti del e che, di fronte alla realtà del Regno, nonriusciva a tradurre in un programma concreto di azione. In questatensione fra vasti disegni di rinnovamento e balbuzie propositiva, siva definendo, già da allora, la dimensione fondamentale della suavita intellettuale: l’impegno pedagogico, la rifondazione della societàtramite la manipolazione morale e comportamentale degli individuiche la compongono. Che i suoi « progetti » e « discorsi » sul « metodod’istruzione » apparsi dopo il , o l’insegnamento nel Regio Liceodel Salvatore a Napoli a partire dal non fossero arcadia, ce lodimostra la sua partecipazione, dopo un ventennio di scrivania, al-la rivoluzione del –, di cui rimane documento significativo ilprogetto di riforma della pubblica istruzione inviato al parlamentocostituzionale e pubblicato nel Discorso sul vero metodo d’istruzionedel . Nella pedagogia si esprimeva la sua ansia di rinnovamen-to intellettuale e morale, il suo modo di reagire al chiudersi delleprospettive politiche apertesi nei terribili ma esaltanti anni Novantadel secolo precedente. Lì si esprtimevano elementi di radicalismoprogressista che lo predispongono a sentire come proprie le speran-ze e le proposte del De Weltz, tanto da collaborarvi per anni conassorbente impegno e da rivendicare le opere uscite sotto il nomedell’imprenditore comasco per tutta la vita.

Certo fra la pedagogia e l’attivismo imprenditoriale, sia pure acco-munati, come nel nostro caso, da forti istanze innovatrici, il salto eranon breve, ed in ogni caso impensabile senza una rifondazione dellastrumentazione culturale del letterato napoletano maturata in unclima sociale e politico diverso da quello meridionale. L’occasione inquesta direzione gli fu offerta dall’esilio in Francia al quale fu costret-

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

to dopo il –. Una volta immerso in una realtà ben più vivace sulpiano economico come su quello del dibattito delle idee, le istanzedi rinnovamento del Fuoco nei confronti del Regno meridionale co-minciarono ad acquistare una dimensione di concretezza, alla qualediede corpo l’incontro a Parigi col De Welz nel . Il Fuoco rimaseconquistato dal vulcanico comasco perché questi gli raffigurava unaalternativa di lotta per il rinnovamento civile e morale più realistica erapida rispetto all’agitazione politica nella quale si era impegnato nel’ e nel ’–’, o rispetto al rinnovamento degli spiriti che avevacercato di realizzare con i suoi alunni napoletani.

Negli anni di collaborazione col comasco, dal al , tranneil Comento di comento, non pubblicò nulla di suo, ma l’arricchimentoculturale che ne derivò fu enorme. La rottura col De Welz ed il falli-mento dei suoi piani imprenditoriali proposero al Fuoco gli elementidi una riflessione questa volta tutta personale, svolta ormai su un pia-no ben diverso dal vecchio pedagogismo: al centro del suo impegnoculturale si era definitivamrne collocata l’economia politica.

Dopo il soggiorno a Parigi e a Marsiglia, che aveva coinciso colsodalizio col De Welz, il Nostro si era stabilito a Pisa. Nell’ambienteaccogliente e tranquillo del Granducato, a contatto cogli esuli napole-tani ed i professori dell’università pisana, con alcuni dei quali strinsecalda amicizia, la sua riflessione poté maturare. L’ luglio del chiede a Giuseppe Poerio un parere sul primo dei suoi saggi econo-mici, il quale, scriveva, « contiene lo spirito d’un vasto sistema »:era l’inizio di una stagione creativa del tutto nuova e, finalmente,tutta personale ed originale. Dal ’ al ’ andò illustrando il « vastosistema » nei sette saggi raccolti in volume, nell’Introduzione, in arti-coli per le riviste di cui era diventato a vari livelli collaboratore, senzache però gli riuscisse mai di costruire la cattedrale di idee che pureavrebbe voluto.

Non è qui il caso di tentare una valutazione puntuale del Fuocoeconomista, impresa che richiederebbe ben altro spazio e uno spe-cifico impegno. Basterà in questa sede individuare alcuni aspettiutili ai fini di questo scritto. Se le dewelziane ci appaiono estraneeal clima culturale e sociale del regno di Napoli e, al contrario, omo-

. Cfr. l’appendice V.

. Sia pure in un contesto argomentativo che non condivido, sono da vedere le indicazionidi Luigi Einaudi in Francesco Fuoco rivendicato, in Id., Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrineeconomiche, Roma , pp. –.

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loghe alla tensione riformatrice della borghesia meneghina, i Saggicostituiscono un elemento di novità rispetto al panorama del dibat-tito economico antecedente e contemporaneo dell’Italia intera. AlNord come al Sud della penisola — così come in ambienti signifi-cativi dell’Europa continentale — evidente era la resistenza, a voltel’ostilità ed il rifiuto, nei confronti dei livelli crescenti di formalizza-zione dell’analisi che il classicismo economico, in particolare inglese,proponeva rilanciando in forme diverse il dirompente stile di pen-siero fisiocratico. Il famoso “concretismo” della “scuola italiana” dieconomia, ovviamente, presenta diverse caratteristiche e significatinella Lombardia dei Gioia e dei De Welz rispetto al Mezzogiornodei Cagnazzi e dei Bianchini, ma è ugualmente poco produttivo dalpunto di vista analitico. La riflessione del Fuoco si pone invece imme-diatamente come contributo “für ewig”, e si traduce in uno sforzo diformalizzazione di esito incerto ma non banale.

Così si apre il primo volume dei Saggi economici:

Scrivendo questi “Saggi” ho abbracciato tutti i luoghi, tutti i tempi, tuttele nazioni: la solitudine, ed il silenzio di trista fortuna sono stati favorevolial mio lavoro. Nello studio d’un quadro tanto immenso, riscaldata la miaimmaginazione non dal desiderio di gloria, non dalle seduzioni della vanità,non dalla cupidigia dell’interesse, ma dal solo amor degli uomini, dal desi-derio ardente del bene, ho cercato il vero con trasporto eguale all’ingenuità(Saggi, I, p. V).

Al passare dalla Magia ai Saggi, dalla collaborazione col De Welzal confronto con se stesso e con la scienza nuova della società, Fuocoprende le distanze dall’impegno diretto a trasformare le cose nell’im-mediato geografico e relazionale, ed dai conflitti che ne derivano,all’inseguimento di valori universali: quelli della ragione e del benedell’umanità. Nell’indagare la macchina sociale, egli dice,

abbiam sentito la necessità di chiuder gli occhi allo spirito di partito, chea danno della felicità pubblica, e privata, agita ormai purtroppo le menti;e li abbiam chiusi al mormorar atrabiliare delle opinioni esagerate, nonconsultando che gli oracoli della impassibile ragione, e ad altra inclinazionenon cedendo che a quella del bene universale. Non abbiamo scritto néper piacere, né per disgustare, né per servire al capriccio de’ forti, né perlusingare l’irritabilità de’ deboli, non per sagrificare l’interesse del maggiornumero all’ambizione dei pochi, né l’interesse dei pochi alle pretensionisovente strane del maggior numero; non per fare del ben pubblico unachimera gigantesca, ed illusoria, e del ben privato un pretesto di scandalo,una sorgente di disordine: ma abbiam scritto per tracciare nuda, e piana

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la strada della verità, quella per la quale solamente noi crediamo si possagiungere al bene universale (ivi, XI–XII).

Se la pietra di paragone per misurare la validità dell’analisi è ilbene dell’umanità intera, adeguati allo scopo devono essere gli stru-menti dell’analisi. Essa non deve certo vagare tra « gli spazi immensidove tutto si trova, tutto si vede, e nulla si raccoglie » (ivi, VI); d’al-tronde deve avere per base « principi generali, frutto dell’analisi, edell’esperienza, i quali sono stati, e saran sempre il fondamento d’ogniumano sapere » (ivi).

Di tutta la biografia fuochiana questo della composizione deiSaggi è il momento magico. Il disimpegno politico e, per così dire,imprenditoriale, non è in fondo che il prodotto di una sfiducia deriva-ta da esperienze vive e dirette della incapacità degli uomini di mutareil mondo; eppure il Fuoco si apre ad un ottimismo cosmico, allavisione di una natura di per sé progrediente nonostante l’inettitudineumana a secondarla. Ancora più aspra e decisa è nei Saggi rispettoalla Magia la condanna di chi rifiuta il progresso in nome della conser-vazione di una originaria, e del tutto illusoria, integrità ed organicitàdei legami sociali, ed altrettanto decisa è l’esaltazione della nuovaciviltà industriale. La differenza è tutta nel fatto che, per il Fuoco deiSaggi, la civiltà industriale non va eroicamente costruita vincendoostacoli giganteschi, come nelle dewelziane, ma contemplata nel suoineluttabile diffondersi, analizzata con procedimento scientifico comefatti di natura. L’ottimismo dewelziano sulle capacità trasformatricidell’uomo diventa ottimismo provvidenziale. Di conseguenza perdepeso l’agire umano, dal lato della politica economica come dell’inizia-tiva progettuale, ed assume un ruolo centrale l’analisi dell’oggettivodispiegarsi dei meccanismi naturali. Il situarsi sul piano della teoria ela condanna dell’interventismo in economia fanno tutt’uno.

Ma, come si diceva nelle pagine iniziali di questo scritto, l’iso-lamento del Fuoco non nasce dal fatto di essere arrivato con undecennio di anticipo sul liberismo meridionale. Il suo ottimismonon ha nulla a che fare con quello dei « nuovi credenti » nelle sortiprogressive della nuova Italia, ma emerge da una vivisezione dellasocietà che non indulge ad edulcoramenti. Senza dubbio occorrevedere meglio di quanto fatto fin ora in quale misura il Nostro si siaappropriato del complesso dell’analisi ricardiana ed in che direzioneabbia cercato una sua originalità sui temi proposti dal grande econo-mista inglese. In Fuoco la teoria della rendita è collocata fuori della

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problematica delle leggi sul grano e del rapporto fra salario e prezzodel grano necessitato dalla tendenza malthusiana della popolazione acrescere al di là delle sussistenze; il proclamato primato del momentodella distribuzione non poggia su fondamenta teoriche esplicite;la sua versione della teoria del valore è incerta e contraddittoria.D’altronde ciò che Fuoco sottolinea con forza della teoria ricardianadella rendita è proprio l’antagonismo delle forze agenti sul merca-to, il suo carattere, proprio della « situazione classica » della scienzaeconomica, di « sistema dell’antitesi »: « I proprietarj non possonomigliorar di condizione che a scapito de’ capitalisti e degli operai;e i capitalisti non possono sempre più accrescere i loro fondi che adanno degli operai, come gli operai non possono migliorar di con-dizione, che a discapito de’ capitalisti » (Saggi, I, ). In particolarec’è una contraddizione precisa fra l’interesse della proprietà e quellodella società nel suo complesso. Ad esempio

il buon mercato del frumento conviene all’uomo e come fittaiuolo, e comeproduttore, e molto più come consumatore. Nuoce è vero ai proprietari [. . . ]ma i proprietari non sono che una sola classe, e classe limitata della società, ifittaiuoli formano una classe estesissima, e i consumatori costituiscono tuttaquanta è la società. I proprietari gridano al rinvilirsi de’ generi frumentarj,perché non veggono che il loro solo interesse; ma è giusto far dritto a’ loroclamori? All’utilità di pochi uomini è ragione sagrificare quella di un popolointiero? (ivi, ).

Ottimismo non significa dunque in Fuoco armonicismo alla Ba-stiat. La forza della civiltà industriale e delle nazioni in cui essa si erapienamente affermata stava proprio nella loro tendenza ad acutizzareall’estremo le tensioni e nello stesso tempo nella loro capacità di nonfarle esplodere superandole sul piano di un travolgente movimentoascensionale della società nel suo complesso. Dunque una adesioneall’industrialismo ben lontana da toni apologetici. A suo modo, no-nostante incertezze ed oscillazioni, è parte lui pure della « situazioneclassica » dell’economia politica.

La diffusione in Italia, e nel Mezzogiorno in particolare, dellascienza economica andava viceversa prendendo altre strade. Nei ma-

. Cfr. in particolare Saggi economici, II, –.

. Vedi in particolare M. Fasiani, Note sui Saggi economici cit., p. ss.; V. MalagolaAnziani, La scuola classica in Italia: il caso di Francesco Fuoco, in AA.VV., Sul classicismo economicoin Italia: il “caso” Francesco Fuoco, Firenze , pp. –.

. K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol. III, Torino , p. .

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nuali di economia politica che cominciano ad apparire a Napoli apartire dalla seconda metà degli anni Trenta dell’Ottocento, il pro-blema della distribuzione si pone in termini giuridico–solidaristicidi « equità legale », di « giustizia distributiva », di « giusta quota »,che smentiscono la teoria ricardiana della rendita; salario rendita eprofitto, lungi dall’essere tra loro in antagonismo, crescono e dimi-nuiscono insieme. In queste posizioni, in particolare nel pensierofinanziario di Giuseppe Palmieri (Saggi, I, ), Fuoco stesso leggevauna piatta adesione di questi scrittori di economia all’« imperfezione »dei mercati con cui avevano maggiore familiarità: essi costruivanoin questo modo visioni generali dei meccanismi economici sullabase di configurazioni puntuali destinate ad essere travolte, sia purein tempi non definibili, dalla marcia del progresso. Insomma l’in-comprensione dei teoremi ricardiani negli economisti meridionalidegli anni Trenta era una incomprensione reale: senza dimenticare lemediazioni ed tutti i soliti caveat del caso, mi avventuro a dire che lecategorie del classicismo economico non riuscivano a configurarsinella loro testa anche perché non si erano configurate nella realtà.

Né d’altra parte essi volevano che ciò si verificasse. Nel climadi paura del “comunismo” che andava diffondendosi anche laddovemancavano le condizioni elementari della sua pensabilità, i rapporticapitalistici di produzione venivano rifiutati in quanto portatori ditensioni sociali minacciose. Lo stesso sviluppo economico potevaessere temuto da scrittori importanti di cose di economia. Si prendal’economista meridionale più rappresentativo del clima degli anniTrenta, Matteo De Augustinis. Alla scienza economica inglese, ma-terialistica e centrata sulla produzione, egli contrappone la scienzaitaliana dell’equa distribuzione; alla grande azienda che provoca

. Cfr. ad esempio M. De Augustinis, Elementi di economia sociale, II edizione, « Italia », pp. , , ; C. De Cesare, Manuale popolare di economia pubblica, vol. II, Torino ,p. .

. De Augustinis, Elementi di economia sociale cit., p. . Lo stesso autore aveva mostratoil suo fastidio per la teoria ricardiana della rendita in una recensione alla Martineau pubblicatanel napoletano “Giornale di commercio”, n. ( settembre ) e n. ( settembre ). Sulproblema della introduzione di Ricardo in Italia occorre ancora riandare al vecchio A. Mancarella,Le dottrine di Ricardo e gli economisti italiani della prima metà del secolo XIX, Napoli .

. Cfr. De Cesare, Manuale popolare cit., p. ; V. Moreno, Lezioni di pubblica economia,Napoli –, pp. –.

. M. De Augustinis, Discorso storico–critico sulla economia sociale, in “Il progresso”, ,pp. –, in particolare p. .

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proletarizzazione, la piccola azienda che induce adesione all’ordi-ne costituito; allo sviluppo disorganico inglese, quello organico delRegno della prima età ferdinandea. Scrive il De Augustinis:

In niun paese meglio della Gran Bretagna le funzioni economiche dellaricchezza seguono il loro corso naturale; nullameno la ingiustizia delladivisione civile e politica della proprietà è di tale e tanta influenza che inniun altro paese del mondo vedesi tanto contrasto tra la produzione e laricchezza da una parte e nel loro insieme, e la sterilità degli effetti sociali e lamiseria delle masse e del popolo dall’altra.

Certo le manifatture inglesi

sono in gran parte le prime e le più perfette che il globo presenti; però chevale per l’Inghilterra questa superiorità che costa l’opera di sei milioni dicittadini che vivono nella più desolata miseria, ed hanno d’uopo di lavorarefino a ore il giorno onde guadagnare un solo scellino? Uno scellino inInghilterra! I fanciulli prima dell’età di anni con un lavoro che li storpia ealtera la loro salute, ne guadagnano appena due per settimana. Abbiasi purechi voglia una superiorità che si ottiene a questo prezzo.

Di qui l’idea che una compagine economica felicifica abbia comefine non più, smithianamente, « l’eccesso delle produzioni su i con-sumamenti, o della produzione sulla spesa, o il cumulo de’ capitalie de’ valori, quanto l’accrescimento universale di ciò che serve allasoddisfazione de’ bisogni di ciascuno ». È il soddisfacimento dei bi-sogni che produce un « avanzamento [. . . ] effettivo e diffusivo, e nonuna prosperità fittizia, illusoria di pochi a gran fatica de’ moltissimi,o altrimenti monopolista, come oltremare ». Non dunque che sineghi, come da parte dell’“economia volgare”, il carattere antagoni-stico dello sviluppo capitalistico inglese; esso però viene ridotto adun caso atipico di eccessiva e forzata accelerazione produttiva, dalquale non sono estrapolabili leggi economiche universali. Mancandola fiducia nella possibilità di superare quelle contraddizioni sulla basedel progresso produttivo, una visione ottimistica e nello stesso tempoliberista può essere riferita solo ad una società in cui siano frenati i

. Id., Della condizione economica del Regno di Napoli cit., pp. –.

. Id., Elementi di economia sociale cit., p. .

. Id., Della condizione economica del Regno di Napoli cit., p. .

. Ivi, p. .

. Ivi, p. .

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processi di proletarizzazione e di accumulazione, in cui la piccolaproprietà funzioni anche da ammortizzatore sociale, in cui i rapportifra i produttori non siano mediati dalla impersonale dinamica dellaformazione dei prezzi ma sorretti da vincoli solidaristici: appuntoun mercato in cui salario profitto e rendita crescono e diminuisco-no insieme, anche se a scapito della dinamica produttiva. In questavisione, la società riusciva a funzionare senza necessità di interven-ti statali e senza pericolose tensioni non realizzando pienamente lasua trasformazione in senso capitalistico, ma contenendola così dalimitarne gli effetti eversivi.

Riemergono così diffidenze e resistenze nella sostanza non di-verse da quelle con cui si era scontrato il De Welz. Il ricardismo delFuoco non poteva non apparire un elemento sgradevole ed estraneoa quella “scuola italiana” che andava confluendo nel moderatismo ri-sorgimentale: Francesco Fuoco continuava a trovarsi dalla medesimaparte di Giuseppe De Welz.

Che questo tipo di recezione dell’economia politica nel Mezzo-giorno non fosse casuale lo dimostra l’epilogo della stessa vicendadel Fuoco. Uscito dal Regno con un ricco bagaglio di varia erudizio-ne, egli si era formato la sua visione dei meccanismi economici acontatto con l’Europa dello sviluppo capitalistico, nella quale il suooriginario radicalismo meridionale aveva riconosciuto i tratti dellanuova società per la quale aveva lottato per decenni. Ma del fatto chequesta società costituisse un futuro proponibile e anzi ineluttabileanche per il Mezzogiorno, così come mostra di credere nei Saggi, di-venta sempre meno sicuro dopo il suo ritorno nel Regno. Qui stringelegami di collaborazione col mediocre giornalismo napoletano delperiodo di Francesco I, si avvicina nuovamente, ma ancora per poco,al De Welz imbarcatosi nella sfortunata avventura di San Leucio,e, soprattutto, torna a respirare l’aria pesante di una società privadegli slanci e degli ardimenti di cui aveva nutrito il suo impegno discrittore a partire dal . Qui smarrisce completamente, per nonpiù ritrovarla, quella fiducia tranquilla, propria dei Saggi, nelle sortifuture di un mondo pure percorso da tensioni e difficoltà, che gliaveva aperto la strada alla analisi economica. La realtà, non più os-servata dall’osservatorio intellettuale pisano ma vissuta dall’internodell’ambiente napoletano, assume ora, ai suoi occhi, la dimensionedell’arretratezza, del malgoverno, della corruzione civile e morale:una realtà che né le rivoluzioni politiche della sua giovinezza, né ilsuo impegno pedagogico né le proposte dewelziane erano riuscite

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a scalfire, e di fronte alla quale anche il liberismo radicale dei Saggisi rivela impotente. L’ottimismo fuochiano comincia a poco a pocoa sfaldarsi per dar luogo ad una visione cupa, in cui la « civiltà in-dustriale » perde il suo carattere di punto d’approdo del procedereinarrestabile delle cose per divenire utopia nebulosa e lontana.

Per l’intanto non più « illimitata libertà » per l’industria:

Ove illimitata è la libertà industriale non tarda a convertirsi in licenza, inisfrenatezza: l’arte che l’astuzia mette ad ingannare la semplicità, la frodesempre desta ad abusar della buona fede, non avendo né freno, né misura,s’introdurrà a poco a poco nelle arti, in tutti i mestieri, in tutte le contratta-zioni, e il mondo politico–industriale si troverà diviso in due classi immense,l’una d’ingannatori, e l’altra d’ingannati. Ciò, se non c’inganniamo, non solotende a sbarbicare la morale pubblica, ma ben anche a corrompere il germefecondo dell’industria, ch’è la buona fede. Il costume si convertirà prestoo tardi in natura, e un sol’uomo non si troverà più, il quale non abbia ilcarattere fraudolento (Introduzione, p. ).

Di qui il recupero della funzione di una legislazione giusta anchese liberticida, in contrasto con quanto, ancora nel secondo volumedei Saggi (pp. –), si affermava sulla incapacità delle istituzioni dideterminare la felicità dei popoli: « La libertà di fare il bene è troppobella, è troppo dolce servitù per [non] essere preferita ad una libertàmalfattrice » (Introduzione, ). Certo, in un regime di piena libertàcommerciale non si avrebbero ritardi e impedimenti,

ma l’industria sarebbe continuamente esposta ad essere la vittima dellafrode, e dell’altrui insensata avidità. Un’industria creata è parte del patri-monio comune, che la legge deve far di tutto perché non solo esista, mavada crescendo e prosperando: ché dall’esistenza, dall’incremento, e dallaprosperità dell’industria dipende il bene universale (ivi, ).

In tal modo diventa ben più difficile individuare le leggi eterne egenerali che governano i meccanismi economici, mentre riemergo-no le istanze che avevano fatto del Fuoco prima dell’esilio un erudito.Nel l’attività giornalistica del Nostro s’interrompe e con essas’interrompono gli scritti di economia, mentre si fa sempre più in-tensa ed esclusiva l’attività filologico–pedagogica, ripresa fin dallaprima rottura col De Welz. Il sostanziale insuccesso dei suoi scrittidi economia, la grave malattia del , l’incapacità di tramutare in

. Cfr. l’appendice X.

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programma e prassi uno scontento nei confronti della società meri-dionale, che diviene per questo tanto più cupo ed amaro, segnano diuna nota di pessimismo via via più profondo l’intensissima attivitàpedagogico–erudita e l’ultimo suo scritto di economia, Le banche el’industria, pubblicato a Napoli nel . Il sistema creditizio, che altempo del sodalizio col De Welz gli era sembrato capace di ridestareenergie sopite da secoli, gli si configura ora — nella concreta realtà diun paese in cui, fra l’altro, erano venuti fuori tanti progettisti di ban-che da sembrare « una banca universale, e i suoi abitanti non altro chebanchieri » — come un gigantesco cespite di speculazioni ed illecitiarricchimenti. Dice Fuoco raccontando i motivi che l’avevano spintoad occuparsi sul “Topo Letterato” Del bene e del male di una banca:

Nel magistero delle banche io vedeva un gioco, e non altro che un giocomesso in onore come la più nobile, e la più feconda delle intraprese indu-striali: io vedeva la vera industria immolata come vittima ad una industriasimulata e bugiarda: io vedeva la ricchezza delle famiglie esposta a tutte levicende dell’azzardo, e la ricchezza pubblica servir di Banca ad una sfrenatalotteria: io vedeva sotto le apparenze del bene celarsi grandi mali presentie grandissimi mali futuri: io, vedeva infine sulle rovine dell’impero dellaprobità elevarsi l’impero della frode e dell’astuzia (Le banche, XVIII).

Nel caso migliore, poi, le banche sono inutili e coreografici car-rozzoni in cui schiere di piccolo–borghesi inetti e nuovi e vecchiricchi realizzano la loro ambizione di riconoscimento sociale:

. Nella quale pure non gli sarebbero mancati dispiaceri. Secondo Pietro Martorana(Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli , p. ) « nonriuscì punto felice » l’esperimento fatto dal Fuoco alla Nunziatella di un « nuovo metodo per farapprendere il latino ». Ne seguì una tenzone in versi ed in prosa coi professori del collegio, nellaquale il Fuoco, fra l’altro, intervenne con un opuscolo dal titolo La ciancia per la ciancia delledieci bagatelle, che non ritenne opportuno inserire nei cataloghi (ivi, p. xx). L’episodio si verificònel . Per difenderlo poi dall’accusa di essere un plagiario scese in campo FrancescantonioMastroberti, recensendogli su “Il progresso” (, in particolare p. ) la IV edizione del Nuovocorso di filologia elementare. Sul Fuoco purista cfr. E. Cione, Napoli romantica –, Milano, p., e soprattutto M. Sansone, La letteratura a Napoli dal al , in Storia di Napoli,Società Editrice Storia di Napoli, s.a.i., volume IX, p. .

. Una breve ed anonima recensione all’opera apparve sul “Giornale di commercio”, n., settembre . Precedentemente, sullo stesso giornale (n. , giugno ), MatteoDe Augustinis, in un articolo intitolato Poche parole sulle banche napoletane, citava il Nostrochiamandolo « persona assai ragguardevole », « veneranda persona il di cui cuore si allargasensibilmente ad ogni fatto o impresa di bene pubblico ». L’imbalsamazione del Fuoco eraincominciata.

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Il sistema bancario presso di noi non ha saputo mai altrimenti mostrarsiche con la pompa di un numeroso Personale. È stata, non saprei dire semiseranda o scandalosa l’Arte, con la quale si sono studiati i Progettistidi moltiplicar Burò, direzioni, officine, e che so io, come se l’intendimentonon fosse stato, che quello di assicurare un soldo ad una schiera d’impiegatiinutili, e parasiti. Il carattere di fondatori della Banca si è fatto valere come untitolo da essere ricompensato con gratificazioni, ed altri beneficj. A questomodo i beneficj del capitale della Banca sonosi rivolti a vantaggio de’ suoiBurò, e a danno degli Azionisti. Ma, si dirà, tutto si è fatto col consensodell’Adunanza generale. E quest’Adunanza generale di quali personaggi sicomponeva essa mai? Di quei medesimi, che dovevano esser premiati: de’possessori più ricchi di azioni, de’ più influenti nelle deliberazioni, infine diquelli, il pensiero de’ quali era il pensiero dominatore dell’Adunanza (ivi,XXXV–XXXVI).

Su questi fatti di malcostume meridionale indugia un Fuocostanco e rassegnato, ben diverso dal Fuoco che si scagliava sarcasti-co contro quelle « piante parasite » di uomini i quali, « introdotti aschiere ne’ Burò vi si stanno spensierati a cicalar d’inezie aspettandoimpazientemente il momento di uscirne oppressi dalla noja, e nonper bisogno di prender ristoro dal lavoro » (Saggi, II, ). Contro talepasta di gente, che dopo aver invaso e corrotto l’apparato amministra-tivo si è impadronita delle banche, contro coloro che se ne servonoper speculazioni finanziarie, contro questa situazione di degradazio-ne civile prima che economica, l’abate napoletano propone la sua« Banca Borbonica », il cui scopo, dice,

sarà economico, industriale, e morale: economico, perché tende al camminoregolare, ed alla proporzionata distribuzione delle ricchezze: industrialeperché si propone di favorire e promuovere immediatamente la fecondità,lo sviluppo, ed il perfezionamento dell’industria: morale, perché ai bisognifittizj sostituirà bisogni reali, e non farà servire la ricchezza come istrumentoda render peggiore la condizione della povertà (ivi, –).

Il progetto è ambizioso quanto lo era stato quello del De Welz,ma la sua inadeguatezza rispetto ai problemi che si propone di risol-vere risalta ancora di più sullo sfondo dell’analisi disincantata che ilFuoco fa delle cose e degli uomini. In fondo, più che un progettobancario, il cui fallimento si direbbe dato per scontato, in quest’operail Fuoco intendeva lanciare un messaggio: « mi scoppia nel cuoreuna sentenza, la quale io vorrei risonasse nel petto di tutti: la Moralenon è il solo fondamento, ma l’animo delle intraprese industriali » (ivi, XX-XVIII). Come nella giovinezza, il Nostro torna a cercare il male, più

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

che nelle istituzioni costruite dagli uomini, nell’animo degli uoministessi, nella loro pochezza morale.

Cessava così la riflessione del Fuoco economista, proprio mentresi dava vita un intenso dibattito economico che, lo abbiamo visto,percorre vie ben diverse da quelle da lui battute. All’abate napoleta-no non restava che l’impegno padagogico–erudito, la riforma degliintelletti, che, fra l’altro gli offriva un maggiore riconoscimento. Fuin corrispondenza con illustri personaggi del mondo letterario italia-no, frequentò un altro grande oppositore del clima risorgimentaleitaliano, il Leopardi del periodo napoletano, scrisse lodati libri digrammatica in cui la sua passione civile erompeva prepotente, segnodi una vitalità non ancora del tutto spenta: « Tutto il mondo, a chibene il considera, sembra un delirio, ma il mondo delle lettere ènello stesso tempo delirio e follia », ingombrato com’è da pedantiche mortificano le esigenze più profonde del giovane che si affacciaal sapere; pedanti che non capiscono come i Machiavelli, i Guicciar-dini « furono grandi nella parola perché cominciarono di gran lungaprima ad essere grandi nelle idee ». « Da ciò — è ancora il Nostroche scrive — nasce un dovere comune a’ filosofi di riunirsi in corpoe gridare tutti contro le arti della seduzione e dell’inganno, ed unirela luce degli argomenti al peso dell’autorità, per venire in soccorsode’ sedotti, e degl’ingannati ». Ma è una battaglia difficile, che certonon possono condurre i napoletani, che tutto sacrificano all’amoredel quieto vivere; ed anche da questo punto di vista il futuro è senzaprospettive: « sino a che i miei concittadini saranno uomini si fatti, iodirò che ancor lontano è il giorno in cui dovrà stabilirsi la felicissimaalleanza tra la Filosofia, e la morale ».

Ancora e sempre la morale. Qui si chiudeva, da dove era comin-ciato, il cerchio di un’esperienza perdente, ma che pure portava insé l’esigenza di un rinnovamento profondo del clima economico ecivile del Mezzogiorno estranea allo stanco e ripetitivo liberoscam-bismo dei manuali meridionali degli anni Trenta e Quaranta. Ma il

. In una lettera pubblicata a pp. V–VI della fuochiana Grammatica francese (Napoli ),il Marchese di Montrone gli chiede di salutare Leopardi a nome suo.

. F. Fuoco, Esame critico de’ metodi grammaticali di Portoreale, Porretti, Lemare, e Lefranc[. . . ], Napoli , p. XXIII.

. Id., Nuovo corso di filologia italiana elementare, III edizione, Napoli , pp. VI–VII.

. Ivi, p. VIII.

. Ibidem.

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problema, lo si è detto detto all’inizio, non è quello di pensare unastoria diversa da quella reale. L’esigenza innovatrice del Fuoco sicollocava nella tradizione del radicalismo progressista meridionale,che, in assenza di forze sociali che se ne facessero carico, continuavaa produrre visioni palingenetiche e impotenza operativa, invece cheidee–forza, proposte corpose e concrete quali quelle del De Welz.

Resta il fatto che la diffusione dell’economia politica nel Mez-zogiorno avvenne ignorando due dei punti più alti della riflessioneeconomica del primo Ottocento italiano, i Saggi, fuochiani così comela Magia dewelziana: il che è un segno delle caratteristiche di questogrosso fatto culturale, che va così a collocarsi tutto all’interno delprocesso di formazione dell’ideologia moderata del Risorgimento.

.. Appendice

... Lettera di Giuseppe Daniele al Medici datata Napoli agosto

L’Ecc.mo Ficquelmont mi ha incaricato di un foglio di osserva-zioni sulla memoria del Sig. De Welz, io gliel’ho fornito come qui incopia, e perché trattasi di salvare la Sicilia, e perché nella memoria sitace, quanto V.E. avea fatto per farla felice, senza spendere milioni esenza perder tempo, così io non ho dovuto tacermi.

Ficquelmont è convinto, di quanto io dico, e mi ha permesso, cheio conchiudessi la mia memoria come V.E. trova qui annesso.

Il Luogotenente viene di rimettere il rapporto, perché si faccianole strade. La Sicilia è rovinata, se si accetta il mutuo, degni V.E. leggere,quanto io osservo di cose positive. Le vostre leggi senza milioni dispesa la felicitavano [. . . ].

. I documenti delle appendici I e II sono in Archivio di Stato di Palermo, fondo MinisteroAffari di Sicilia, busta , fascicolo . Non si riportano i brani di minore interesse dalpunto di vista qui adottato. La relazione del Daniele qui parzialmente riportata è un esempiodell’opposizione frontale che dové incontrare il De Welz. La puntigliosa precisazione di fatticifre luoghi della patria siciliana, sulla quale imprudentemente lo straniero si era permesso didiscettare, nasconde una reale volontà immobilistica. Tutto il ragionamento vuole dimostrarel’inutilità della costruzione delle strade, e la dimostrazione, a parte alcune evidenti forzature,riesce in effetti efficace; senonché l’inutilità del Daniele si rapporta alle forze produttive ed aimodi di impiegarle esistenti, quando invece l’obbiettivo del De Welz era lo sviluppo delle forzeproduttive stesse. Da notare anche la violenta opposizione del Daniele alla storica preminenzadi Palermo.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

... Memoria di Giuseppe Daniele sul Saggio sui mezzi da moltiplicareprontamente le ricchezze della Sicilia

Ha degnato l’E.V. incaricarmi di provederle un esemplare della me-moria pubblicata dal Sig. De Welz sotto titolo Saggio sui mezzi dimoltiplicare prontamente le ricchezze della Sicilia, e farle io un fogliodi osservazioni per quanto le mie conoscenze locali sulla Sicilia miavrebbero suggerito.

Per l’adempimento della prima parte, io mi son diretto allo stessoSig. De Welz, che sul momento si diede la premura di rimettereall’E.V. l’esemplare desiderato unito a sua rispettosa lettera d’accom-pagnamento; per le osservazioni io mi son trovato imbarazzatissimo,giacché dalla lettura dell’opera del Sig. De Welz io mi son trovatoquasi rapito, e quasi persuaso, che dicesse bene, quantunque moltecose mi colpiscano fortemente, ma accortomi, che l’oggetto, per cuil’autore ha scritto, è quello di provocare la pronta costruzione dellestrade, onde potesse egli farne il prestame, io ho riletta la memoriacon la prevenzione che l’autore non è più indifferente [. . . ].

Io dovendo fare delle osservazioni sulle strade mi sono atterritopensando, che il solo mettere in dubbio i vantaggi che queste presen-tano, mi farebbe non solo mettere in ridicolo, ma mi attirerebbe ildisprezzo delle teste pensanti e la pubblica indignazione. Ogni sicilia-no mi guarderebbe come suo nemico, e come quello, che vorrebbelasciare la Sicilia senza commodi, senza comunicazioni, privarla delconcorso degli esteri e delle loro ricchezze, e differire l’incivilimento,con queste tristi idee io non dovrei venire al cimento, ma V.E. melo ha comandato, io ho studiata la memoria del Sig. De Welz, horilevato, ch’egli non conosce affatto l’interno dell’isola, non conoscedove si producono l’eccellenti qualità e grandi quantità de cereali, edove sono trasportati, ho rilevati volontariamente falsi i di lui calcoli,e gli esempii che adduce. Ho rilevato che tace ciò, che gli costa, ed ècontrario al suo privato interesse, per cui scrive, e mi son convinto,che lui stesso conosce la fallacia del suo piano che essendo erroneonon farebbe, che sommo danno alla Sicilia, quindi mi accingo allaconfutazione di quanto dice il sig. De Welz, e fò rilevare, che i mezzidi prontamente attivare le ricchezze della Sicilia sono conosciuti dal gover-no, che li avea già cominciati ad attivare, e che uscire da quelli è il massimodegli errori.

Io convengo, che le strade siano comode per tutti, siano utili permolte comuni, siano necessarie per il valle minore di Caltanissetta,

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e che siano da farsi, ma queste devono essere eseguite, come ilgoverno le ha immaginate e preparati i lavori, e ciò dopo lungheesperienze ed ispezioni fatte eseguire dal Sig. Persichelli, e quindicorrette per l’intelligenza ed imparzialità, che in ogni opera mette S.E.Campofranco, che da direttore generale de ponti e strade portò afine il piano, che senza la rivolta di luglio avrebbe avuto massimaesecuzione.

Se si volesse confutare l’opera del Sig. De Welz nel concreto dellaSicilia, egli sbaglia sempre, io mi limito al solo interesse, ed osservole pagine , , , , , , , , , , , .

Pagina paragrafo linea a si parla delli caricatori, che sono solamente, comecche per legge li cereali non si potevano imbarcareche dalli sopradetti luoghi, dove bisognava trasportarli per terra, cosìecco dal Sig. De Welz dimostrata l’ingente spesa per il trasporto dalliluoghi di produzione a quelli d’imbarco, e perciò suggerito il riparocolle strade.

Il Sig. De Welz fu in Sicilia al , in quell’epoca esisteva la leggedelli caricatori, ma il Colbert del regno delle due Sicilie, il Cav. DeMedici, che conosce tutti li mali e tutti li rimedii senza la spesa dipiù milioni, il di cui interesse eccederebbe l’utile, che se ne ricava,facilitando l’agricoltura e senza perdere tempo, con un sol foglio dicarta fece, che il Re il ° giugno avesse fatto sparire l’errore,che da secoli esisteva. I cereali divennero come ogni altro genereproprietà libera de particolari. I caricatori furono dichiarati banchiliberi frumentarii. I cereali possono essere imbarcati come ogn’altrogenere in ogni punto della Sicilia, dimodocché da quell’epoca felicein poi ogni proprietario non fà, che la piccola spesa dalla propriamasseria alla vicina marina, per arrivare alla quale non vi è che unainevitabile e piccola spesa.

Il Sig. De Welz conobbe le cose in Sicilia al . La legge al fece sparire la necessità della spesa de’ trasporti lunghi, ne risulta cheil milione di once, che il Sig. De Welz fà brillare di risparmio collaformazione delle strade, si è ottenuta con un sol decreto, questo sichiama essere un De Medici, che dove altri hanno bisogno milionied anni di tempo, egli lo fà con un foglio di carta ed eseguibile almomento.

È rimarcabile, che il Sig. De Welz, ch’è un negoziante istruitissi-mo, e che conosce tanto bene il dettaglio delle cose delle due Sicilie,siasi permesso stampare al , come apena sarebbe stato permessoprima della publicazione del rapportato decreto; le strade perciò non

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

sono necessarie per i cereali, e la reticenza del Sig. De Welz è laprova brillante, che lui stesso sente l’insussistenza delle sue asserzio-ni suggerite dal solo interesse del mutuo, che vorrebbe fare, e checosterebbe alla Sicilia molti milioni [. . . ].

Provato dunque, che i grani in Messina vanno per mare con lapiccola spesa di grana a a salma, come egualmente vanno inPalermo, e per terra quando si saranno spesi milioni per le strade,il trasporto de cereali secondo il Sig. De Welz costerebbe d.ti , asalma, deve convenirsi, che il commercio non si servirà mai della viadi terra, dove può adibire la via di mare. Un esempio.

Da Pescara e da Manfredonia in Napoli non vi sono che migliadi ottime strade rotabili, i trasporti non sarebbero meno di d.ti aquintale, comecché però i noli sono a grana a tumolo monetae misura di Napoli, il commercio preferisce impiegare un tempopiù lungo, fare a miglia di più, onde economizare grana aquintale. Lo stesso e con più forte ragione sarebbe in Sicilia, doveil nolo costa meno, ed il trasporto per terra sarebbe molto più caro,perché Girgenti, Caltanissetta, e l’interno della provincia di Cataniadistano molto da Messina.

Non vale il fallace esempio, che si porta dell’Inghilterra, e dellaFrancia, sono in quelli Stati le manufatture, che vanno per terra e percanali, i vini li cereali e simili anche ivi vanno per mare.

Dopo avere giustificato, che il calcolo dell’autore è volontariamen-te fallace nella quantità del consumo, ed è falso, perché suppone, chesi paga attualmente d.ti , a salma per trasportare i grani in Messina;dopo avere provato, che con la spesa di milioni i generi indigeni egrezzi non saranno mai trasportati per terra, ma lo saranno, comeattualmente lo sono da grana a per mare, smentite le ragioni dicalcolo dell’autore, anzi dimostrato il contrario, ne risulta, che quan-do fossero fatte le strade, queste non serviranno mai all’agricoltura,che sarà favorita dalli trasporti per mare, molto più dopo la pacecon i Barbareschi, che ha portato il colmo di tranquillità e di fortunaad infinite famiglie, che prima vivevano in continui palpiti e spessonella desolazione. Ma Ferdinando ebbe Medici per ministro, ad un rebenefico unito un profondo ministro tutto dovea essere perfetto.

Permetta il Sig. De Welz, che gli si dica, che i grani, che uscivanodalli caricatori, erano meno buoni di quelli fuori caricatore, l’esisten-za delli quali era fatale alla Sicilia, giacché tutti li grani dalli particolarisi dovevano consegnare agli impiegati, che ne facevano una massa,dalla quale si restituiva ad ogni immittente una quantità eguale a

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quella immessa ma non l’identifica qualità consegnata, per questamiscela ogni proprietario dovea impegnarsi ad avere gran quantità diprodotto, senza badare alla qualità, che sarebbe stato un vantaggiodella massa generale, ed ecco perché li grani delli caricatori da piùanni erano discreditati, ed in commercio si vendevano da grana ad.ti a salma di meno delli grani fuori caricatore [. . . ].

Sappia il Sig. De Welz, che li zolfi, li vini, le sode sono tuttiprodotti sulle coste e nell’interno, in cui le strade consolari nonpossono influire a minorare la spesa de trasporti [. . . ].

Il Sig. De Welz vuole che la navigazione sia nazionale, sappia, chesiamo in pace con i Barbareschi, e che gli esteri stante i dritti di tonnel-laggio e mezzo tonnellaggio, di cui son caricati, non possono sostenerela concorrenza con i nazionali, per cui senza escluderli di dritto, so-no esclusi di fatto, ciò che si è saputo pensare, e far decretare da quelministro con cui il credito è venuto, quindi si dissipò, ed oggi rinasce.

L’agricoltura siciliana avea bisogno vedere sparire le leggi, cheinceppavano la libertà di disporre de cereali, era necessario, chepotessero essere imbarcati in ogni punto, che fossero aboliti li moltidritti, che si pagavano ai particolari, tutto fu fatto con il decreto del °giugno ; non restava che abolire interamente il dazio di sortitasopra li cereali, li vini, le acqueviti, li salami, e li salumi. La nuovatariffa era stata stampata in giugno per essere pubblicata il Inovembre, ed eseguita dal ° gennaio .

La Francia oggi diviene felice con l’esecuzione de’ progetti del-l’immortale Colbert. La Sicilia lo sarà, quando i sistemi, che l’immor-tale De Medici fece da S.M. sanzionare, saranno eseguiti.

Mancò a Colbert il tempo. La rivolta differì l’epoca felice della Sici-lia, alla quale si facevano già tutti li vantaggi reali e non immaginarii,vantaggi pronti e non dispendiosi.

Il Principe di Campofranco è alla testa del governo di Palermo,egli conosce, che le strade sono utilissime alla sola provincia di Cal-tanissetta, e perciò le solleciterà per quella sola provincia, il di più èopera di commodo e di lusso.

Le strade secondarie sono necessarie alli comuni, ma questenon sono l’opera del governo, che deve solamente animarle, e noninteressarsi.

L’agricoltura ha bisogno l’abolizione delli dritti di sortita. Campo-franco la proporrà, e l’attual ministero è troppo illuminato per nonapprovare subito l’abolizione, come viene di fare in Napoli per ilsego, le carni salate, le insogne. Il re sarà benedetto in Sicilia.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

Campofranco farà innestare da per tutto li merinos, che S.A.Rfece venire dalla Spagna in Palermo al . Saprà forzare i proprietaridelle sete a servirsi de metodi conosciuti ed attivati da più anni inPalermo ed in Catania, dove le sete tutte si estraggono in organzini.Campofranco animerà le società mercantili per le spedizioni lontane

La civilizzazione dipende dalle facili comunicazioni. La conser-vazione della divisione in valli minori o siano provincie aggevolala circolazione da comune a comune, fa nascere la necessità dellestrade intermedie, fatte in alcuni luoghi, la necessità, il commodo,e la gelosia sono un generale stimolo per far, che da per tutto sianofatte, come già si vien di terminare da Catania a Aci.

Campofranco conosce, che li tribunali sono utili, come si trovanoper il pronto accerto della giustizia, anziché le gran corti criminalidi Trapani, Siragusa, Caltanissetta, e Girgenti dovrebbero fare dagran corti civili, come fanno quelle di Messina e di Catania, tuttoin questo modo sarebbe più spedito, e meno dispendioso all’erarioed alli particolari, che per l’appelli non si troverebbero rovinati perandare sino in Palermo, dove ogni siciliano è considerato come cosae non come persona.

Voglia Iddio, che l’aria di Palermo non attacchi il Principe diCampofranco, e che voglia egli conservarsi l’opinione, che si hadi lui, d’essere l’uomo intelligente e giusto, e che non sacrifica adalcun privato interesse il pubblico vantaggio. Io conchiudo i mezzi dimoltiplicare le ricchezze della Sicilia sono:

° L’adozione della tariffa, che Medici avea fatta gradire a S.M. agiugno .

° La classificazione delle dogane, che S.A.R. e Medici aveanofissata in due classi, e non come in Napoli, dove sono tre classi.

° L’innesto forzoso delli merinos, e che le sete s’abbiano a tra-vagliare da per tutto, come si fa in Palermo in Catania ed in parte inMessina.

° L’ordine giudiziario fosse da per tutto, com’è in Messina ed inCatania.

° Non si accetti alcun mutuo, o si accetti per le strade sino adAdernò, e Girgenti, il dippiù è l’opera del tempo, ed è conseguenzanecessaria dell’ esistenza delle Intendenze, che sono le tutrici degliamministrati, mentre sono le vigili autorità, che custodiscono i drittidel Sovrano, che lddio ci conservi lungamente, e per cui si prega.

P.S. La Sicilia per essere completamente felice ha bisogno, chel’augusto Francesco I nipote e genero del nestore de sovrani, France-

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sco, che qual capo della sacra alleanza è il vigile custode delli drittide Monarchi, persuada Ferdinando, che allora sarà veramente padrede’ popoli, quando ne farà di tutti una sola famiglia, un perfetto solregno, quando tutti li sudditi avranno eguali doveri e dritti, quandola legge sarà unica, e quando la Sicilia cesserà di essere colonia diPalermo, al di cui vantaggio si sta sacrificando la gloria del monarca,la giustizia, e l’interesse dell’intero regno.

Se Francesco, ed il monarca del Piemonte generi di Ferdinandodelle città capitali Ragusa Venezia e Genova ne hanno fatte tre cittàdi provincie con qual giustizia si attrassa la Sicilia sacrificandola aPalermo?

Iddio ispiri all’Imperator d’Austria, che persuada all’augusto Fer-dinando, che allora sarà benedetto, quando cesseranno gli odii, chesi vogliono nutrire tra napolitani e siciliani con solo vantaggio dellacittà di Palermo, che non aspira che alla costituzione inglese ed allerivolte.

... Lettera di Giuseppe De Welz al tesoriere generale della ReverendaCamera Apostolica datata Napoli, dicembre

Monsignore. Come il ° volume della mia opera vide la lucemi feci un dovere di spedirgliene un esemplare col mezzo del miosignor cugino il vicario generale de’ Domenicani. Se le mie ideemeriteranno la di lei approvazione i miei travagli mi diverranno piùcari; e s’ella le trovasse efficaci a perfezionar l’ordine dell’ammini-strazione, e dell’industria romana, io benedirei mille volte il cielo, elo pregherei caldamente del suo santo ajuto. Per quanto a me pareella potrebbe con somma gloria del governo, ed immensa utilitàdel pubblico illustrare l’attuale amministrazione col promuovere lo

. Questo documento, come il seguente, è in Archivio di Stato di Roma, fondo Tesorierato,busta , fuori fascicolo. Una copia della Magia il De Welz la inviò anche al Papa, che glirispose con una lettera del marzo pubblicata dal comasco nell’ “Ape delle cognizioniutili”, gennaio , p. . Il De Welz aveva più volte nella Magia mostrato il suo interesse ele sue speranze per lo Stato Pontificio (volume II, –. –, nota, nota, , ), cheriteneva potesse avere un grandioso avvenire qualora vi si ponessero in atto le sue propostesiciliane, dato che, come dice nella lettera pubblicata in questa appendice III, trova « grandeanalogia tra le circostanze di questo paese e quelle dello Stato Pontificio ». Che le ambizionidel De Welz non si fermassero del resto alla Sicilia o allo Stato Pontificio lo dimostrano, fral’altro, le lettere pubblicate da Simonetta Bortolozzi in Lettere di economisti italiani nelle “CarteViesseux”, “Storia del pensiero economico — Bollettino d’informazione”, , n. .

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stabilimento di una banca uniforme a quella che io ho proposta perla Sicilia. Trovo grande analogia tra le circostanze di questo paese equelle dello Stato Pontificio se non che molte, e molte particolaritàpiù favorevoli a quest’ultimo. Nel caso ch’Ella volesse stendervi unamano generosa ed efficace, ed i miei servigi potessero concorrere adun’opera sommamente utile, e gloriosa, mi dichiaro fin dal presenteprontissimo a ricevere l’onore dei suoi comandamenti [. . . ].

... Lettera del Tesoriere generale della R.C.A. al De Welz datata dicembre

Dal R.mo P. Vicario de’ Domenicani cugino di V.S Ill.ma mi fu[. . . ] ricapitato il secondo tomo della di lei opera sullo stabilimentodelle banche, quale io ho avidamente scorsa secondo me lo hannopermesso le non poche brighe del mio dicasterio, ed ho avuto luogoa sempre più ammirarvi la vastità delle sue cognizioni, e la giustezzade’ suoi principj, e delle sue viste in fatto di materie economiche. Iola ringrazio senza fine del cortese pensiero di farmi dono d’un suolavoro così pregiato, e di tanta pubblica utilità, e l’accerto, che ovefra noi si pensasse poter occorrere di adottare alcuna delle istituzioninella sua opera insinuate io non lascerei certamente di far sentire ilvantaggio, che si avrebbe di profittare degli estesi suoi lumi in questiargomenti, e di quella cooperazione, ch’ella così gentilmente s’ècompiaciuta esibire [. . . ].

... Lettera di Francesco Fuoco al Barone Poerio in Firenze, datata Pisa, luglio

Mio carissimo amico. L’altro ieri fu qui S.M. il Re, la Regina, epochi altri del seguito. I ministri, e i rimanenti della rispettabilissima

. In ASN, Archivio Poerio–Imbriani, carteggio Poerio, lettera . Si tratta qui di GiuseppePoerio, padre dell’Alessandro menzionato nella lettera (su di loro cfr. B. Croce, Una famigliadi patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari ). Il Carmignani di cui sempre nella lettera è ilfamoso giurista ancora nel in corrispondenza col Fuoco (cfr. F. Nicolini, Niccola Nicolinicit., pp. –, nota, nonché le lettere ivi riportate). L’articolo di cui si parla è la prima parte delsaggio Esposizione di una nuova teoria su la rendita della terra, e il giornale è il “Nuovo Giornalede’ letterati” di Pisa, che pubblicò lo scritto fuochiano alle pp. – del n. XXI. La secondaparte fu poi pubblicata nel n. XXII a pp. –. L’intero saggio vide poi la luce lo stesso anno inopuscolo presso l’editore pisano Nistri e venne poi incluso nei Saggi Economici, volume I, pp.–.

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compagnia corsero per dritto a Livorno. Lascio tutti i particolariinutili e mi limito alle cose essenziali.

Da persona molto vicina a S.M. fui assicurato che l’amnistia saràpubblicata il giorno agosto. Gli esclusi saranno i soli condannati;però mi soggiunse, che col tempo anche questi avrebbero sperimen-tato la sovrana munificenza. Parlai, e con qualche ardore, della causadi Monteforte. Ecco la risposta secca da oracolo: sta zitto, vedrai. . .non dubitare.

Dopo la causa comune gli dissi, che avrei voluto presentare a S.M.una petizione, implorando gli ordini (non ridete) di farmi continuareil mio viaggio sino a Napoli, poiché ingiustamente, e senza che io nesapessi il perché, mi si erano chiuse le porte del Regno. Il personaggionon volle, e mi giurò che tutto sarebbe finito, ripetendomi un milionedi volte: non dubitare, sarete richiamati.

Eccomi puro, e semplice relatore. Spetta a voi a credere, o a noncredere, e a far le vostre riflessioni.

Il vostro Alessandro venne a vedermi prima di partire, e ci abbrac-ciammo con tutto il cuore. Mi promise scrivermi da Genova. Eglis’incarrozzò verso le /.

L’altro ieri venne a vedermi il Carmignani. Egli si dolse meco dinon avermi veduto. Io gli dissi che voi eravate determinato di vederlopassando per la sua casa, dove avreste fatto fermare la carrozza: mache fu troppo crudele la separazione da vostro figlio, e che in queimomenti non era possibile, che vi fosse venuto altro pensiero. Iospettatore di quella scena, ne fui convulso, e malato: e gliela descrissivivamente, talché restò soddisfatto.

Egli dopo mille obbliganti espressioni mi parlò in un modolusinghiero d’un mio articolo inserito nel n° corrente di questogiornale (n° XXI). Io vi prego di leggerlo ancor voi, e dirmi contutta la sincerità, che onora l’amicizia, che ne pensate. Siccome quelsaggio contiene lo spirito d’un vasto sistema, amo di conoscere leopinioni del pubblico, onde lavorar con piede più fermo; e provocole opinioni di quei pochi amici pensatori, che sogliono giudicareper solo amore del vero. La vostra opinione mi sarà tanto più cara(e credete a me senza prevenzione) per quanto sarà più franca.Le osservazioni quando sono giuste, e sincere non possono nonpiacere a chi lavora per bene. Non più [. . . ].

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... Lettera di Andrea Lombardi a Giuseppe Maria Giovene datataPotenza, ottobre

In una nota apposta al Discorso sugli economisti del nostro Regno,ch’è l’ultimo de’ miei discorsi accademici, ho promesso un lavoro piùesteso, e più ragionato sull’oggetto medesimo. I miei amici Delfico,Tenore, Cagnazzi, ed altri distinti economisti, e letterati nazionali, edesteri mi hanno spronato a compiere la promessa. Ho quindi raccoltonumerosi materiali, e vado già ad occuparmene. Mi mancano peròle sue produzioni sopra argomenti di economia patria, ed io nonvoglio avere il torto di obbliare un nome così illustre come il suo,ed opere cotanto utili, ed applaudite. Oso perciò pregarla a volersicompiacere di fornirmi un notamento esatto delle sue produzioni suqualunque materia di economia, ed indicarmi il modo come poterleacquistare, qualora non le riesca facile di favorirmele direttamente.Le sarei ancora obbligato se volesse darsi la pena di manifestarmi ilsuo avviso sulla cosa, e le opere enunciate nell’indicato discorso, esomministrarmi qualche saggio suggerimento sul nuovo lavoro, chevado ad intraprendere [. . . ].

... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, ottobre

Carissimo amico e collega.Il nostro comune amico Sig. Barone Piccinni mi recò la vostra

del giorno settembre, la quale mi riuscì molto grata. Io vi avreiimmantinente risposto, se gravi disordini nella salute non me lo aves-

. In BNB, fondo D’Addosio, /. Il Fuoco risponde a richieste del Lombardi simili aquelle espresse nella lettera di cui riportiamo i passi che ci interessano, la quale dové essereuna specie di circolare inviata ai maggiori economisti del tempo. Il « discorso sugli economistidel nostro Regno » di cui nella lettera è il saggio Sull’origine progressi e stato attuale dell’economiapolitica nel Regno di Napoli — Ragionamento letto alla Reale Società Economica della CalabriaCiteriore nella sessione generale del maggio , pubblicato dapprima in opuscolo a Potenza nel e nel “Giornale enciclopedico” (, n. ), e poi, riveduto e ampliato, nelle varie edizionidei Discorsi accademici (I edizione Potenza , II edizione Cosenza , III edizione Cosenza).

. Questa e tutte le altre lettere del Fuoco in ABMC, fondo Serena, cartella . Non riportola nota delle opere spedite al Lombardi, che accompagna la lettera del novembre.

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sero impedito. Per questa medesima ragione non ho potuto prima dijeri l’altro ritirare dal Waspandok i vostri opuscoli, che leggerò al piùpresto, per tornarvi ad ammirare, come vi ho ammirato nelle altrevostre produzioni.

Troppo onore mi ha accordato la vostra Società Economica innominandomi suo socio. Io mi riserbo di fargliene, per organo vostro,che ne siete degnissimo presidente i ringraziamenti, scrivendo unalettera per questo solo oggetto, onde tutti i socj sieno informati dellamia riconoscenza: ora sieno fatti a voi e particolari, e cordialissimi.

A questo proposito eccovi una riflessione riserbata. Lo so che laproposta a questo ministero dovrà farsi per mezzo del Sig. IntendenteChiarelli. Siete voi sicuro che la faccia accompagnata con rapportofavorevole? Dovrò io temere di sentirmi caratterizzato per quel chemai non fui? Piuttosto che io sia privo dell’onore di appartenerealla Società, che vedermi incolpato, e quindi tenuto a fare apologia.Incontrando Morelli, qui venuto a causa di un morbo che accusa, allasfuggita, gli feci la stessa domanda: ed egli mi rispose, che le propostenella Società sogliono farsi con la previa intelligenza dell’Intendente,e che non doveva nulla temere. Non pertanto io vi prego a prenderein seria considerazione questo articolo, e di adoperarvi o che laproposta non venga qui fatta, o che venga tale da non turbare lamia pace. Questa prevenzione non vi sorprenda, perché ho tra lemani qualche fatto della stessa natura, e le cui conseguenze furonodispiacevoli. Piacciavi su di ciò darmi subita risposta. Morelli misoggiunse, che la proposta non si era qui comunicata per trovarsi ilsegretario della Società assente. Quando i miei sospetti fossero senzafondamento, ed avvenisse il contrario, gioverà che voi me ne facciateinteso, per io affacciarmi al ministero, e verificar la faccenda.

Delle mie opere in economia non posso spedirvi, che quelle, cheho disponibili. Ho già prevenuto Waspandok, il quale mi ha detto,che l’entrante settimana avrà occasione di spedirvi i libri che gli darò.Dopo la spedizione vi darò conto di questo articolo, che trovereteassai curioso. Ma in un’opera tale, quale mi dite esser dovrà la vostra,sarà di non lieve interesse far conoscere al pubblico, che le opere lequali vanno sotto il nome De Welz non sono che mie.

Vi farò giungere le mie opere filologiche, e vi pregherò di pro-pagarne la conoscenza per la provincia. Esse sono di grande utilità,siccome vedrete.

Il mio indirizzo è vico Campanile n° ° piano nobile. Prevale-tevene sempre e quando vorrete onorarmi de’ vostri comandi.

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

Mi riserbo esser più lungo in altra occasione, ora essendo chia-mato al disbrigo di qualche affare, che m’ importa.

Gradite i miei ringraziamenti per le vostre cortesissime esibizioni,ed accettate il ricambio che ve ne fo’.

... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, ottobre

Carissimo amico e collega. Poiché desiderate pronta risposta, eccolacol presente corriere. È pur bastante, che l’intendente dica esserbuona la mia condotta morale, e religiosa, e che godo la pubblicaopinione. Impegnatevi dunque, e fate che presto corra la proposta.Dico presto, perché desidero contemporaneamente far risolvere unaltro affare, che molto mi preme.

Ho pronto un pacco, e cercherò subito veder Morelli, il quale fua visitarmi, ma io mi trovai fuor di casa. S’egli vorrà incaricarseneglielo farò arrivare in casa del suocero, altrimenti lo consegnerò aWaspandok.

Dovendovi tener parola delle opere che vi spedisco, allora viparlerò pure delle opere corse sotto il nome di De Welz.

Non mi dilungo più, perché da più giorni sono assai incomodatocon la testa.

Torno a pregarvi, corsa che sarà la proposta, di tenermi avvisato[. . . ].

... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, novembre

Gentilissimo amico. Incontrai il Sig. Morelli, il quale mi disse chesarebbe venuto da me per prendersi il pacco de’ libri, che tengopreparati. Perché non mi colga all’improvviso preparo questa letteraper consegnargliela: e comincio dal farvi parola delle opere che vispedisco.

Le opere filologiche sono

a) Prospetto del vero metodo d’istruzione applicato alle lingueed alle scienze secondo lo spirito dell’insegnamento mutuo.

b) Nuovo sistema di eloquenza italiana.c) Esposizione ragionata di un nuovo metodo di latinità.

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d) Sistema di filologia elementare etc. Arte di tradurre, e d’inten-dere i classici, senza conoscere le regole della composizione.

e) Manuale o guida per insegnare, e apprendere facilmente, espeditamente l’arte di tradurre i classici latini.

f ) L’arte di scrivere ad imitazione de’ classici latini è pronta manon ancor pubblicata. L’avrete con altra occasione.

g) Sistema di filologia elementare applicato alla lingua italiana.L’arte d’intendere i classici italiani.

h) Sistema di filologia elementare applicato alla lingua italiana, elatina. Introduzione allo studio grammaticale. Alla fine diquest’ultima opera troverete un catalogo delle mie opere.Questo catalogo comincia dai Saggi Economici.

Di questa opera non posso spedirvi che il ° volume, avendoesauriti tutti i primi venuti di Pisa.

Nel I° volume si contengono due saggi. Il primo contiene l’espo-sizione di una nuova teoria su la rendita della terra.

Supplisco questo saggio con un opuscolo che vi spedisco, nelquale troverete l’esposizione, che io pubblicai prima di dar luce aiSaggi. Non è che una specie di sunto del saggio. Questo fa vedere lanuova strada, che battono gli economisti inglesi.

Nel saggio, dopo l’esposizione della teoria, e dopo alcune osser-vazioni importantissime, si stabilisçono i rapporti intimi della nuovateoria co’ principj fondamentali dell’economia politica. Sieguono leapplicazioni, e le conseguenze della nuova teoria: quindi le rispostealle objezioni elevate contro di essa, e le risposte alle note critiche daG.B. Say fatte all’opera di Riccardo. Per digressione vi si ragiona del-l’analogia tra l’industria agraria, e la manifatturiera. Infine si delineaun sistema generale d’industria, si resume il saggio, e si conchiude.

Il secondo saggio contiene la metafisica dell’economia politica. Sicomincia dalle ricerche su la natura, origine, e diverse specie dibisogni: e poi si considerano questi relativamente al produttore de’valori ed al consumatore, e quindi si stabiliscono i rapporti che hannocol sistema generale dell’economia. Viene l’armonia tra il numero, ela varietà de’ bisogni con la varietà de’ lavori. Si stabilisce il sistemaorganico dell’industria umana; e poi i rapporti intimi del sistemadell’industria colle proprietà, con la circolazione, e col commercio. Siconsidera il sistema dell’industria ne’ rapporti con la finanza, e conla fiscalità: e più con la legislazione, con la politica, e con la morale.Si risolve un importantissimo problema, ed è: “Dato il disordine

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nel sistema dell’industria, in che modo si potrà riuscire a stabilirvil’ordine?”. Si descrive la piramide sociale, o l’armonia che si stabiliscetra l’ordine delle diverse classi della società, e l’ordine de’ diversigradi di perfezionamento nel sistema produttivo. Si conchiude. Eccoquanto mi è stato possibile di dirvi intorno ai due saggi compresi nel° volume. De’ saggi contenuti nel ° ne giudicherete da voi solo.

Troverete la soluzione della questione indicata al n° .L’ Introduzione allo studio dell’economi a applicata all’industria,

si pubblicherà coll’arte di scrivere il latino, e allora le ricevereteentrambe.

Veniamo all’opere, che corrono sotto il nome di De Welz. IlSaggio fu scritto da me a Parigi. De Welz, che io ancora non benconosceva, m’ingannò con vane promesse. Pubblicato il Saggio, inPalermo venne riprodotto dal Dottor Indelicato con note critiche.Ecco De Welz nella necessità di rispondere, e di ricorrere di nuovoa me. Io risposi col Comento di Comento ma gli imposi la legge diapporre sul bottello le lettere F.N. In questa occasione si rannodòla corrispondenza. Io era partito di Parigi per cagione di malattia,e mi trovava in Marsiglia. Qui scrissi la Magia del credito, tradussi ilMac–Adam dall’inglese, e vi aggiunsi l’introduzione, le appendici etc.Di nuovo venne meno a tutte le promesse, e di nuovo si ruppe tranoi ogni corrispondenza. Infine io tornai in Napoli alla sua impensata.Egli venne ad pedes. Le circostanze mi consigliavano a dissimulare.Anzi feci qualche altro lavoro, come vedrete dall’indice.

Questa è la storia autentica delle opere de welziane. Una delicatezzaa cui non posso, né debbo rinunciare mi vi fa pregare di farne unuso il più discreto. Vorrei anzi sapere anticipatamente cosa intendetedirne nella vostra opera, per farvi le mie osservazioni, se me lopermetterete.

Intorno alle opere filologiche non vi fo parola. Esse parlano chia-ramente a chi le intende. Non è la sola filosofia che ne sostiene lasemplicità, e la fecondità, ma l’esperienza di più anni. Io vi mandosette manifesti ragionati, che vi prego sparpagliare utilmente per laprovincia.

Lessi con infinito piacere i vostri discorsi alla Società Economicadella provincia. Essi son semplici, eleganti, e d’un oggetto utilissimo.La via feconda è quella della statistica. Spingete, vi prego, questogrande oggetto. Darete un esempio di gloria immortale per voi, esegnerete le prime tracce d’un sistema, la cui importanza ed utilitàpochi son fatti per sentire.

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Linguaggi del mercato

Ecco due parole all’ultima vostra del prossimo spirato. Avetefatto bene di ritirarvi la nota de’ socj corrispondenti. Si voleva unaformalità qui abolita; e fino a quando si vorrà? E perché? Ma lasciamoal tempo di guarire queste malattie. Dal mio canto però ricevetevitutta l’effusione della mia riconoscenza.

Morelli partì all’improvviso, e non ebbe tempo di farsi vedere. Iodunque porterò a Waspandok il pacco de’ libri, che vi ho notati, e liraccomanderò alla sua diligenza [. . . ].

... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, dicembre

Mio caro e gentilissimo amico. Già l’amico comune Sig. Barone Pic-cinni vi avrà detto della mia malattia, e saprete perciò il motivo delmio silenzio. Da prima un violento gastricismo, dal quale, per curee diligenze adoperate, mi liberai dopo quindici giorni. Cominciavala convalescenza, quando ecco un tumor metastatico si annunzia sulcollo del femore sinistro. Lento lento progredisce, facendo spessosembianza di scomparire. La maturazione si fa come ne’ tumoridetti freddi. Si usano mezzi da farlo screpolare, ma tutti riesconovani. Ecco l’infelice necessità di ricorrere alla mano di chirurgo.Per tante circostanze, ch’è inutile di noverare, l’operazione riescedolorosissima. Quindi oltre la febbre sintomatica di costume, sisconcertano le forze dello stomaco, le quali avevan cominciato ariordinarsi. Nuovo accesso gastico, e nuova febbre. Ecco la seriedelle mie cose patologiche; e la serie terapeutica, che le si è oppostanon prima di jeri mi ha permesso di uscire di casa. Sarò io dopotutto ciò, meritevole del vostro compatimento, se tanto ho ritardatola mia risposta?

Consegnai allo stesso Sig. Piccinni il pacco delle mie opere desti-nate per voi. Egli mi disse di avervelo spedito. Lo avete o no ricevuto?Tutto è stato conforme al notamento col quale lo accompagnai?

Eravi un catalogo delle mie opere destinato pel Sig. Morelli. Si tro-va egli ancora costì, o vi è partito? Nel primo caso informatelo dellevicende della mia salute, e ditegli, che quando saprò dove indirizzarcon sicurezza le mie lettere, io risponderò a quella che mi scrisse.

Per vostra intelligenza vi dico che il rapporto di codesto Sig.Intendente giunse in questo ministero, e scritto con favore. L’affaredorme ancora; ma io lo desterò quanto prima [. . . ].

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. Sull’economia politica nel Mezzogiorno d’Italia di primo Ottocento

... Lettera di Francesco Fuoco ad Andrea Lombardi datata Napoli, gennaio

Carissimo amico. Troppo tardi rispondo alla vostra del dicembreultimo, ma potete ben supporre, che non lievi circostanze ne sianostate la cagione.

Eccomi a parlarvi de’ libri. La Magia, il Comento, il Saggio etc. iocredo che si trovino vendibili presso Marotta, e Waspandok, perchèli veggo annunziati nel loro catalogo. In quanto a tali libri non possorendervi veruno servigio, perché appena ne ho un esemplare per me.Del ° volume de’ miei Saggi, che vi manca non potrei far altro chemandarvi quello, che ho per me: ma se si sperdesse, o gisse per altraimprevista circostanza in sinistro? Non mi è stato possibile fin oraavere i primi volumi che mi mancano. Il pisano libraio e stampatorenon ha più risposto alle mie lettere. Fate dunque valere alla megliol’estratto, che ve ne abbozzai, e aspettiamo miglior tempo.

Io non posso incaricarmi di alcun travaglio, perché la mia salute,e le mie eccessive occupazioni me lo vietano.

In quanto all’opera di De Welz, parmi che dicendo, dallo stile,dalle dottrine etc. rilevarsi essere uscite dalla stessa penna dell’autorede Saggi Economici, è dir tutto. Soggiungendo poi di averle trovateinserite nel catalogo delle opere dello stesso autore, ne traerete lacertezza della congettura. Così viensi a rispettare la delicatezza, enon tradire la verità. Se vi piacesse, di trascrivermi questa parte delvostro articolo, io potrei leggerla prima di consegnarla alle stampe, edirvene l’occorrente.

Qui giunse il rapporto favorevole di codesto intendente intornoalla mia nomina a vostro socio. Per qualche circostanza l’affare nonè risoluto ancora. Quando questo accaderà, allora mi riserbo discrivervi una lettera da leggersi in seduta. Intanto vi ringrazio delleamichevoli cure adoperate per questo per me onorifico oggetto [. . . ].Ditemi qualche cosa delle mie opere filologiche [. . . ].

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Capitolo III

Genealogie intellettuali e stili di pensiero

Il mercato e i suoi “fallimenti” fra formalizzazione e valori

.. Immagini dello scambio mercantile: due genealogie di pen-siero

Gerard de Malynes, inglese del XVII secolo, è l’autore di uno di queimanuali di pratiche mercantili a larga diffusione sui quali i negoziantidella vecchia Europa appoggiavano la loro formazione: Consuetudo:vel, Lex Mercatoria (Londra ). In questo libro, Malynes si domanda,fra l’altro, se il negoziante possa accordare fiducia alle promesse diTurchi, barbari ed infedeli in generale. La risposta pende verso il sì,ma alla condizione che essa si limiti alla materia mercantile, e nonsi estenda ad altri terreni: anche se con essi si può far commercio, sitratta comunque di barbari ed infedeli che occorre trattare come tali.Imprigionati nelle loro culture, nelle loro etnie, nelle loro credenzeerronee, nei loro profili antropologici, essi rappresentano l’altro,collocato al di là dei confini della civiltà. Fra lien social e rapportimercantili non c’è alcun rapporto necessitato. Il compito di espanderela civiltà può, se mai, essere affidato ai missionari o alle cannoniere.

A partire dai tempi stessi di Malynes, comincia a definirsi unagenealogia diversa del pensiero europeo, che immagina una capaci-tà espansiva della civilizzazione fondata non più sull’azione direttasulle anime e sui corpi dei non civilizzati, ma sull’agire indirettodelle pratiche mercantili. I negozianti possono fungere da nuovi epiù efficaci missionari e conquistatori sulla base di due presuppostifondamentali: da un lato, i vincoli della barbarie non sono rigidi, ilprocesso di civilizzazione può non procedere per catarsi e repressioni,ma tramite l’agire molecolare di pratiche, rapporti, comportamentiripetuti; dall’altro le pratiche mercantili, a differenza che per Malynes,costruiscono legami anche su un piano non mercantile. In questocaso c’è di conseguenza un rapporto forte fra nesso sociale e nesso

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Linguaggi del mercato

mercantile. Nella misura in cui fanno commercio, anche fra loro,barbarie ed infedeli divengono sempre meno tali. La costruzione dirapporti mercantili fra soggetti, gruppi, paesi avrebbe la tendenzaintrinseca a veicolare valori: in particolare quelli di libertà, responsa-bilità individuale, convivenza pacifica, universalismo. E d’altro cantol’operare di questi valori sarebbero anche in grado di porre rimedioad aspetti della condizione di povertà su cui si erano accumulati secolidi riflessione, quelli non legati strettamente all’accesso immediato aibeni mercantili: essi producono un ambiente di sicurezza personale,legalità, apertura delle prospettive individuali e di gruppo. La co-struzione e diffusione della civiltà mercantile rappresenterebbe unamaniera per aprire il varco all’irrompere di una intera civiltà sociale.

L’Europa aveva applicato a se stessa, prima di rivolgerla ad altri,questa pedagogia della civilizzazione, definendo delle vie di fugadalla spirale dei conflitti fondati su identità ed appartenenze forti,non negoziabili, e, per conseguenza, feroci, sregolate, distruttive: inparticolare dai conflitti religiosi che avevano lacerato l’Europa ed ilMediterraneo del XVI secolo. E’ la linea antiidentitaria della terri-torializzazione e della « ragion di stato » che, per esempio, BernardBadie ha saputo ben illustrare nel suo La fin des territoires. Per ri-chiamare rapidamente una narrazione divenuta classica fra gli storici,nella prima età moderna lo Stato territoriale comincia a presentarsicome una tecnica della regolazione sociale che si oppone all’etica edalle pratiche aristocratiche dell’onore, della fiducia, dell’appartenen-za a comunità sociali e locali, e dialoga con le etiche borghesi delloscambio contrattuale. La questione sul tappeto, secondo un piccoloe famoso libro di un personaggio di difficile classificazione, AlbertHirschman, è quella di sostituire alle passioni gli interessi, o quantomeno alle passioni senza qualificazioni la passione tranquilla di accu-mulare beni e moneta. In questo modo l’arte della guerra si sarebbeprofessionalizzata e di conseguenza avrebbe riguardato un ambitopiccolo della società, si sarebbe situata in uno spazio di regole più omeno esplicite che cominciano a tracciare i primi abbozzi del dirittointernazionale, e si sarebbe connessa strettamente alla diplomazia.All’interno dello spazio della sovranità, la violenza legittima avrebbe

. B. Badie, La fine dei territori. Saggio sul disordine internazionale e sull’utilità sociale delrispetto, Trieste .

. Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo,Milano .

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. Genealogie intellettuali e stili di pensiero

man mano abbandonato la dialettica dei rapporti sociali, e la povertàmateriale sarebbe divenuta sempre meno il segno di una condizionesociale stabile, resa equivalente a impotenza e miseria dalla violenzalegittimamente consentita ai soli ordini sociali superiori, per diven-tare una condizione temporanea, instabile, accidentale, rimediabileattraverso l’acquisizione di beni materiali alla portata di tutti. Allaportata anche dei poveri, purché degni, cioè involontari. Ai poverivolontari occorreva viceversa applicare una pedagogia dell’esclusionee della violenza regolata non più dagli ordini superiori ma dal nuovoStato “ragionevole”. Il celebre commercio « qui adoucit les mœurs »di Montesquieu fa allusione, da un lato, ad una aritmetica delle ric-chezze materiali come indice del benessere collettivo, e dall’altroad una aritmetica della pubblica felicità che sarebbe collegata conla prima e la giustificherebbe. Questa doppia aritmetica misura lasocietà buona.

Sarebbe un esercizio futile quello di compilare liste di casi in cuicommercio, passioni e violenza di sono intrecciati inestricabilmente,dimenticando il carattere innovatore, in una certa misura sconvolgen-te, di questa straordinaria costruzione ideologica nei contesti in cui èemersa. Ma sarebbe anche troppo a buon mercato liquidare l’etno-centrismo ed il disprezzo per l’altro presenti in posizioni come quelledi Malynes, ignorando la loro collocazione all’interno di un’altragenealogia illustre del pensiero europeo, ben più lunga di quella rias-sumibile nel nome di Montesquieu; una genealogia centrata su unrapporto con le pratiche mercantili che, senza essere in alcun mododi disprezzo e rifiuto, ne sottolinea con realismo ed efficacia alcunitratti distintivi ignorati dalla visione ottimistica montesquieiana.

Rileggiamo Malynes. Le pratiche mercantili che egli descrive nonsono necessariamente aggressive, ma non sono neanche in grado diimpedire il conflitto su altri livelli relazionali. Esse hanno luogo fradiversi che rimangono diversi. I barbari che commerciano restanotali non solo perché essi sono inchiodati alla loro condizione inferiore,ma anche per insufficienze intrinseche alla pratica commerciale afondamento contrattuale, che, a differenza dello scambio di recipro-cità, tende a saldare le pendenze fra i contraenti al momento stessodello scambio, e, se impegna il tempo, lo contabilizza. Fondato suquesti presupposti, il mercato disegna uno spazio sociale dotato disaperi (l’ars mercatoria come metrologia, cartografia, scienza dellanavigazione, tecnologia contabile commerciale) e norme (la lex mer-catoria come un insieme di regole in parte emancipate dal vincolo

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territoriale, dai particolarismi e dai pluralismi della sovranità di an-tico regime). Uno spazio dunque a territorializzazione debole, chesi estende al di là delle frontiere, in qualche misura neutralizzato edemancipato dalle appartenenze culturali. In questo spazio specialepossono collocarsi individui e gruppi caratterizzati da tipi e livelli dif-ferenti di civilizzazione ed identità, i quali, attraverso le loro pratichemercantili, non impegnano i loro gruppi di appartenenza; al limite,non impegnano neanche se stessi. Quando smettono di praticare lamercanzia, possono anche imbracciare le armi contro i loro interlo-cutori commerciali. Le parole dello scambio mercantile sono secche,fredde, incomplete, povere di senso: non ci si può costruire sopra unnesso sociale.

La riflessione sullo scambio mercantile come relazione segnatadalla debolezza o dall’inconsistenza degli elementi di socialità, e cheha perciò bisogno di essere sostenuta da relazioni di altra natura perchépossa svolgere una funzione di allentamento dei conflitti, ha impe-gnato episodi e momenti illustri, certo assai differenti gli uni daglialtri, della storia culturale europea: dai teologi medievali, in particolareappartenenti agli ordini mendicanti, che, a disagio di fronte ai nessicontrattuali che impegnano un lato soltanto di ciascuno dei contraentie rompono di conseguenza l’unità della persona, trovano per essi unruolo legittimo nella respublica cristiana facendone uno dei molti attri-buti del cives; all’Adam Smith che cerca un sostegno al funzionamentodel libero mercato nella reciproca sympathy fra gli attori del contrat-to; a Tocqueville e Durkheim, ossessionati dall’inconsistenza del liensocial nella società nuova e impegnati nella ricerca ansiosa di possibiliancoraggi. Anche nel discorso pubblico del paese centrale nella pro-mozione nel nesso mercantile come nesso di civilizzazione, gli StatiUniti, c’è una oscillazione continua fra i due termini che declinanonella lingua inglese il concetto di libertà, e che rinviano a due differentiideali civici: da un lato quello della liberty come autonomia dell’indivi-duo dal potere e gelosa custodia di una sfera “privata”; dall’altro quellodella freedom come partecipazione dell’individuo alla sfera pubblica,come cittadinanza che si esprime rafforzando con altri fili la tramafragile dei rapporti contrattuali. È una oscillazione che nasconde unaincertezza, una esitazione di fondo in rapporto agli esiti gloriosi dellibero dispiegarsi delle logiche del mercato.

. Si veda l’opera monumentale di Brandeis David Hackett Fisher, Liberty and Freedom,Oxford .

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. Genealogie intellettuali e stili di pensiero

Insomma frugando nella genealogia di pensiero che si può far risa-lire a Malynes, ben più che nell’ottimismo della genealogia che mettecapo a Montesquieu, si possono trovare strumenti per comprendereil gioco complicato di negoziazioni, conflitti, rappresentazioni, pauree duplicità che ritroviamo nella storia lunga dei rapporti mercantili.La storia di Venezia e dei suoi rapporti con il Mediterraneo musul-mano è, da questo punto di vista, esemplare; come lo è, su un altropiano, quella degli ebrei che vendono merci e prestano denaro aicristiani fra un pogrom e l’altro. Occorrerà attendere per uscire daqueste ambiguità.

.. La repubblica delle competenze: una storia in procinto difinire?

Si tratta, senza dubbio, di vecchie querelles fra intellettuali; ma essenon sono sconnesse dai processi storici concreti. Tanto più che il cam-po della repubblica delle lettere in cui quei dotti erano collocati nonaveva carattere contemplativo, aveva frontiere porose, si proiettava,in forme volta a volta diverse, verso i campi della vita attiva, costrui-va “opinione pubblica”, influenzava i processi decisionali. D’altrocanto non è forse inutile tenerle presenti, dal momento che alcuniaspetti di quelle dispute risuonano ancor oggi, trovano sostenitoried avversari agguerriti, ed assumono una urgenza nuova derivantedall’accelerazione drammatica dei processi economici e delle loroconseguenze sull’uomo, la società, l’ambiente.

Più che aggiungere la mia opinione a quelle correnti, provereiqui a riflettere sulle odierne condizioni istituzionali di pensabilità diquesti temi carichi di storia, sulle forme assunte dai campi, dai lin-guaggi, dai protagonisti di questi dibattiti. Una questione mi sembra,da questo punto di vista, particolarmente importante: il fatto chela sfera pubblica odierna sia profondamente segnata dalla presenzae, al tempo stesso, dalla trasformazione, di istituzioni imponenti ecomplicate che incanalano, organizzano, promuovono, segmentano,selezionano e riproducono i discorsi sulla società, spesso sulla basedi massicci finanziamenti pubblici o, quanto meno, con il riconosci-mento pubblico della loro funzione di etichettatura e certificazionedella qualità dei discorsi prodotti.

Costruita allo snodo fra forme liberali e forme democratichedei regimi politici occidentali, la repubblica delle competenze, delle

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università e dei centri di ricerca, spesso letta come organizzazionedella separatezza delle nuove funzioni intellettuali, è stata, per certilati, un elemento fondamentale delle nuove configurazioni politichee sociali: uno strumento indispensabile di integrazione e bilancia-mento della repubblica del popolo, uno strumento di vertebrazionedel processo decisionale attraverso il gioco dei rapporti fra saperispecializzati, burocrazie pubbliche, volontà popolare, organizzazionedegli interessi. I decenni successivi al secondo dopoguerra, segna-ti dal dispiegarsi dello sviluppo occidentale e, al tempo stesso, daldiffondersi delle politiche keynesiane, costituiscono al tempo stes-so la fase in cui in particolare le discipline specialistiche deputate amisurare, interpretare e curare la povertà, cioè quelle economiche,conquistano prestigio e influenza amplissima.

È una congiuntura, come tutti sanno, del tutto tramontata. Dalnostro punto di vista, il mutamento si presenta, da un lato, comedeformalizzazione e deterritorializzazione del processo decisionale,rappresentato spesso dalla formula del passaggio dal governmentalla governance; dall’altro, come indebolimento del ruolo che vigiocano i campi disciplinari specializzati. L’arena pubblica odiernapullula di luoghi, istituti, protagonisti, discorsi e registri discorsividiversi, non gerarchizzati o gerarchizzati secondo parametri chehanno poco a che fare con la competenza certificata dalle istituzionideputate, e che premono disordinatamente sul processo decisionale.Su questioni come le disuguaglianze economiche e la povertà, unapedagogia liberista aggressiva, spesso proposta con argomentazio-ni che richiamano Montesquieu — in una certa misura gli stessiaccordi euro–mediterranei di Barcellona possono essere considera-ti un dispositivo di diffusione ed una cassa di risonanza di questeposizioni — si confronta rumorosamente con il pensiero organi-cista, “antropologico” e valoriale dei suoi avversari. Alle logichedel mercato come cura dei mali del mondo, questi ultimi oppon-gono le logiche della solidarietà, della reciprocità, del dono, sullequali si fondano miti di innocenza economica attribuita all’Europadel passato o ad altre civiltà del presente: una visione polanyianagenerosa, ma funestata, agli occhi di chi fa il mio mestiere di lettoredi vecchi documenti, dalla incapacità di dar conto della pervasivitàdelle pratiche mercantili del passato e da una visione caricaturalee catastrofistica del mutamento storico all’origine al mondo mo-derno — il famoso passaggio dalla società solidaristica alla societàcontrattuale. Tutto questo mentre la repubblica delle competenze,

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. Genealogie intellettuali e stili di pensiero

svalorizzata ma più che mai affollata, produce, sui propri partico-lari registri discorsivi, quantità crescenti di documenti ed analisi,finanziate con risorse pubbliche ma spesso confinate dentro circuitispeciali e separati, che si autoalimentano oziosamente.

Spesso il rimedio a questa duplicità discorsiva viene cercato, alivello di singoli produttori di conoscenza sociale, nella contamina-zione fra luoghi e registri discorsivi. Si vede assai sovente utilizzare,nelle riviste specializzate del proprio campo, apparati discorsivi edesplicativi del tutto diversi da quelli usati, dagli stessi professionistidel sapere, alla televisione o nei comitati di partito e di governo, dovepassano visioni grossolanamente semplificate dei fenomeni socia-li. Sono problemi di etica delle competenze che hanno occupato ilpensiero e la verve polemica dell’ultimo Bourdieu, furioso dispregia-tore dell’intellettuale opinionista e mediatizzato. Come si sa bene, i“chierici”, a volte, tradiscono. Comunque sia, il coesistere sulla scenapubblica di pratiche discorsive profondamente diverse sotto il profiloanalitico ed istituzionale mi pare una caratteristica macroscopica deldibattito sulla società odierna, che meriterebbe una riflessione ancheperché gli esiti decisionali ai quali quelle diverse pratiche alludonosono tutt’altro che coincidenti.

.. Povertà, migrazioni, conflitti: ciò che hanno da dirci i “chie-rici”

Per spiegarmi, proporrei qui di seguito un esercizio, certo assaigrossolano, riferito al tema del divaricarsi crescente fra ricchezza epovertà nella globalizzazione contemporanea: ossia un confronto fraun’immagine consensuale e largamente trasversale, ben insediatanella scena pubblica, e quella che è possibile estrarre dalle rivistespecializzate dei campi disciplinari istituzionalmente volti all’analisidi questi fenomeni.

Si prenda l’immagine mediatica dell’Europa come fortezza diricchi pericolosamente protesa su un Mediterraneo povero che laassedia e cerca di penetrarvi: un’immagine che si ripresenta insisten-temente, ad esempio, nella forma delle folle che prendono d’assaltole barriere che proteggono Ceuta e Melilla o nelle barche sgangheratecolme di gente di colore di ogni sesso ed età, che cercano di sbarcaresulle nostre coste. Questa immagine si compone di alcuni elementifondamentali, reciprocamente connessi:

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— fra i due versanti mediterranei c’è una differenza fortissimadei livelli di benessere individuale e collettivo, riassumibiliadoperando gli indicatori della contabilità nazionale; in ognicaso, una differenza di gran lunga più forte di quelle, esse purecrescenti, riscontrabili all’interno dei paesi della riva nord;

— quantità e direzioni dei flussi migratori sono determinatisostanzialmente dai gradienti del PIL;

— i conflitti “etnici” all’interno dei paesi ricchi sono determinati,in ultima istanza, dalla persistenza di questi differenziali fraautoctoni ed immigrati anche di seconda o terza generazione:sarebbero questi differenziali a produrre ed alimentare zonesociali e spaziali di esclusione, enclaves in cui sono sequestrateculture non comunicanti con il contesto di accoglienza, lequali offrono anzi linguaggi e risorse per i conflitti stessi.

Che questo derivi da una quantità insufficiente di penetrazionedi pratiche ed etiche mercantili, secondo le apologetiche liberiste, oviceversa sia il risultato della stessa atomizzazione mercantile dellasocietà, secondo le visioni polanyiane, poco importa in questa sede.

Per quello che mi pare di sapere, queste immagini trovano unsostegno limitato nei campi delle scienze sociali istituzionalizza-te, ivi compresa quella economics spesso presentata come centro diproduzione del “pensiero unico” liberista.

C’è intanto una questione di misura. Non sono certo pochi emarginali gli economisti professionali che si fanno beffe dell’atten-zione spasmodica alla più piccola delle oscillazioni degli indicatoridel prodotto lordo, a livello locale, nazionale, europeo, mondiale;che si battono con forza (ad esempio il premio Nobel Joseph Stiglitz)contro le istituzioni, le “scatole degli attrezzi”, i decisori che sorveglia-no e misurano i beni che passano attraverso il mercato, diventandocosì misurabili, e si danno l’obbiettivo di accrescerli ad ogni costo,di promuovere in ogni dove privatizzazione e mercantilizzazionesenza attenzione alcuna ai contesti locali. La stessa strumentazionedella contabilità nazionale, adoperata oggi per misurare il successodi queste politiche spesso disastrose, è stata in larga parte elaboratanell’Inghilterra degli anni Trenta da Richard Stone, a sostegno dellecostruzioni analitiche e delle proposte interventiste di John May-nard Keynes; le quali, nonostante siano state adoperate nei trent’anni“gloriosi” del secondo dopoguerra in tutt’altra maniera, avevano ori-ginariamente l’obbiettivo, ribadito insistentemente da Keynes stesso,

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. Genealogie intellettuali e stili di pensiero

di porre rimedio alle situazioni di povertà primaria, di indisponibilitàdi beni utili elementari, al fine di consentire a tutti l’accesso ai beniche non passano per il mercato: ossia quei beni che la triste scienzadell’economia non vede e non valuta, ma che segnano il livello dicivilizzazione di un insieme sociale. Per una parte importante deglieconomisti di professione si considera ormai una banalità lo scartofra ciò che il prodotto lordo è capace di esprimere ed il livello di vitain quanto insieme di « capabilities and freedoms », per riprendere unaltro premio Nobel per l’economia, Amartya Sen. Sono orami datempo disponibili indicatori alternativi numerosi che danno risultaticerto non coincidenti con quelli classici: adoperando il più famoso,l’Human Development Index (HDI), fondato sui lavori di Amartya Sen,l’Italia, secondo le statistiche dell’OCSE al settimo posto nel mondoper PIL pro capite (), scende al diciottesimo posto.

Non essendo, come è ovvio, le questioni di misura neutre, la loroelaborazione si connette strettamente ad un vasto lavoro di indagine,analisi, riflessione sul concetto di mercato, che mette in evidenza lasua natura di spazio istituzionale segnato da violenza sociale e classifi-catoria, da effetti di dominazione che si autoperpetuano. Il concettodi fallimenti del mercato rappresenta uno strumento ormai canonicodi chi si occupa professionalmente di economia. C’è, per esempio,una massa impressionante di lavori sulla knowledge economics checonvergono su un punto: la diffusione delle conoscenze non cancellale asimmetrie informative; al contrario può accrescerle e contribuirea produrre nuove ricchezze e povertà ed a rendere gli attori che siconfrontano sul mercato più ineguali. Invisibili in termini di prodottolordo, queste ricchezze e povertà richiedono, anche nel campo del-l’economia, l’uso di analisi qualitative che la sociologia ha elaboratoda tempo: lo studio del valore simbolico differenziale dei beni acqui-sibili, dei rapporti incerti e variabili fra scarsa disponibilità di beni estatuto sociale, delle percezioni, delle attività di comparazione fra lapropria condizione e quella dei gruppi di riferimento, delle aspettati-ve, delle incertezze. Si può ben sopportare una bassa disponibilità dibeni oggi se si spera di averne di più domani; viceversa, se il futuro èfosco o illeggibile, la povertà può diventare insopportabile.

Guardiamo al secondo elemento costitutivo dell’immagine media-tica su accennata. Appiattire le migrazioni sui push and pull determinatidai differenziali di reddito e interpretarle come risultato di decisionifondate sul ventre vuoto, non è un atteggiamento interpretativo chetrova gran consenso negli studi specializzati: mi avventuro a dire che

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non sarebbe prudente presentarsi ad un concorso universitario conargomentazioni di questo tipo. Nella produzione saggistica che cono-sco l’accento cade sempre più sulle reti e le catene migratorie, l’agiredelle solidarietà e delle parentele, sulle negoziazioni ai margini dellefrontiere normative, territoriali, linguistiche, culturali. Su questo pianouna città come Marsiglia, che può in realtà ben giustificare le retorichee le affabulazioni spesso stucchevoli sulle funzioni di crocevia di civiltàe culture che gli assessori al turismo di qualunque località costierapiccola o grande del Mediterraneo adoperano con autocompiacimen-to, è stata ed è oggi più che mai un grande laboratorio pratico edanalitico. Se si interpretano i quartieri più “etnici” della città con unosguardo miserabilista, si rischia di non capirci un granché. I beni chevi circolano hanno percorso circuiti spesso molto lunghi, nei quali simuovono produttori, intermediari, culture ed istituzioni complesse.Alle sue frontiere l’Europa erige barriere che dovrebbero impedireogni flusso non legale di uomini e merci; ma si tratta di barriere chepresentano di fatto una porosità in una qualche misura istituziona-lizzata, organizzata e largamente praticata da soggetti dotati non dirado di saperi, competenze e capitali, capaci di realizzare forme diaccumulazione e di fondare gerarchie strutturate nell’ambito degli am-bienti migratori. In questi ambienti, miserie e precarietà di ogni tiposi mescolano a capacità di controllo su beni materiali ed immateriali, aricchezze acquisite attraverso giochi economici e relazionali collocatinella vasta zona grigia fra legalità e crimine.

Infine i conflitti. Un aspetto che mi sembra centrale in molti de-gli studi che mi è capitato di leggere in proposito è l’impossibilitàdi situare i gruppi ed i quartieri prodotti dalle migrazioni e dallaloro gestione politica, in quello spazio speciale e coerente di civi-lizzazione antioccidentale che, nell’interpretazione mediatica piùdiffusa, alimenterebbe il rifiuto e l’aggressività di quanti vi si situano.A guardarli da vicino attraverso le inchieste sul campo che vi si vannoconducendo, nei quartieri etnici di Marsiglia o di Londra si adottanoe si interiorizzano gli stessi principi di funzionamento dello scambiodiffusi nei quartieri “normali”: le negoziazioni, le manipolazioni, leforme di sommerso lì diffuse non hanno niente a vedere con le logi-che della solidarietà, della reciprocità, del dono. Il “pensiero unico”,da questo lato, presenta una capacità di interpretare la società fondata

. Cfr., per tutti, M. Peraldi, Itinerari algerini, scenari urbani: esempi di emancipazione edeterritorializzazione, in “Meridiana”, , n. , pp. –.

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. Genealogie intellettuali e stili di pensiero

sul carattere performativo delle immagini che produce: anche inambienti che presentano in apparenza una alterità culturale nei con-fronti del pezzo di occidente in cui sono inseriti, la povertà è semprepiù largamente concepita come indisponibilità, più che di beni “disussistenza”, di merci dotate di valore simbolico loro attribuito dalcontesto sociale di accoglienza. Ma, come già Malynes sospettavaquattro secoli fa, affrettarsi ad acquisire beni–simbolo occidentali —e riscattarsi da una condizione di povertà concepita come mancanzadi questi beni — può non significare volersi immergere nel contestovaloriale dell’occidente. La domanda ripetuta fino alla noia a proposi-to delle bombe di Londra del — come è possibile che un gestocome questo sia stato compiuto da gente del tutto “normale” sottoil profilo dei rapporti di produzione e riproduzione e delle forme diconsumo adottate — non ha molto senso.

Si giunge per questa via a toccare il grande problema del comu-nitarismo: un problema intrattabile sia assumendo un atteggiamento“giacobino”, considerando cioè l’adesione individuale ai valori ed allalegalità del contesto di accoglienza come la condizione imprescindi-bile dell’accesso pieno alla cittadinanza; sia rinunciando allo spazio“liscio” della territorialità moderna ed accettando la segmentazioneetnica, ed in una qualche misura giuridica, della sfera pubblica. I con-flitti delle banlieu francesi non sono certo espressione di uno shockof civilisations; i valori in campo non hanno carattere sostantivo, masono elaborati in un processo relazionale che produce incoerenze,contaminazioni, contraddizioni. Nulla di nuovo, anche dal puntodi vista di chi si interessa per mestiere del passato: le culture cheriusciamo a documentare non sono certo insiemi coerenti. Lo sonomeno che mai ora, quando si indeboliscono limiti e frontiere rice-vute ed altre se ne costruiscono e ricostruiscono di continuo, connuove forme di segmentazione che non distinguono fra loro soloinsiemi predefiniti — etnici, religiosi, culturali — ma li attaversano; etendono ad attraversare anche gli individui. Le identità, le civiltà, leculture diventano puzzles insensati, che producono percezioni nuovedella ricchezza e della povertà e nuovi conflitti, indecifrabili con legeometrie della ragione classica. Ma esse fanno anche allusione adaperture possibili; e, in ogni caso, offrono i soli materiali disponi-bili per costruire convergenze, incroci, contaminazioni invece checontrapposizioni minacciose.

All’analisi fine di queste incongruità, discontinuità e pluralità deiconcetti di ricchezza e povertà va in questi anni dando un contributo

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Linguaggi del mercato

essenziale anche la triste scienza dell’economics: una scienza socialeche al suo ormai secolare ancoraggio nella pensée de survol, cioè allamodalità del pensare la realtà sequestrandone la gran parte in unaqualche forma di ceteris paribus, deve la sua straordinaria potenza ela sua sconcertante debolezza. Ma la pensée de survol — sembranosegnalare le vicende recenti della disciplina — non è un destinomanifesto; è piuttosto una concreta modalità di strutturazione di uncampo disciplinare che, di fronte a problemi intrattabili con i ferri delsuo mestiere, cerca di procurarsene di nuovi affacciandosi al di là deisuoi confini.

.. Per uno stile di pensiero tâtonnant

La sfera pubblica odierna è minacciata da “pensieri unici”, identità for-ti, forme comunicative urlate prodotte dalla frantumazione del corposociale; a loro volta esse la alimentano cercando di farsi largo nelconfuso vociare dei mille interessi settoriali insediati nelle strutture enelle logiche della governance, tramite richiami di principio altisonan-ti connessi a pratiche della manipolazione minuta delle istituzioni.In questo contesto la distanza fra parola esperta e parola diffusa sifa abissale. Il rifiuto della complessità delle mediazioni politiche fatutt’uno con il rifiuto delle complessità della analisi della società epromuove la delegittimazione delle istituzioni, pubbliche o ricono-sciute dagli apparati pubblici, in cui il pensiero sociale specialisticoviene elaborato e trasmesso — l’università in primo luogo. Si trattadi stili di pensiero e materiali discorsivi ricorrenti in passaggi crucialinella storia della democrazia occidentale. Il fatto che oggi venganoriproposti con forza è un indizio, fra i tanti, del passo indiavolato cheva assumendo il mutamento sociale in questo inizio di millennio.

Cercarvi spazi per uno stile di pensiero che proceda a tentoni, perdistinzioni, per analisi ravvicinate, non credo sia solo un obbiettivo diaccademici in cerca di un ruolo sociale perduto. Nella configurazione“keynesiana” dei trent’anni gloriosi del secondo dopoguerra, i saperisociali esperti, istituzionalizzati e quindi segnati da una relazionedifettosa ed incerta con le domande e gli interessi organizzati dellasocietà contemporanea, costituivano una risorsa preziosa proprio

. Basti qui il rimando ad un vecchio classico come R. Hofstadter, La tradizione politicaamericana, Bologna .

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. Genealogie intellettuali e stili di pensiero

perché potevano rappresentare, nella dialettica decisionale, i pensierinon pensabili dagli attori in campo in un momento dato, quelli degliattori assenti o potenziali — passati, futuri, non insediati o privi dirisorse espressive ed organizzative efficaci. Le condizioni sono oggidel tutto diverse; ma la presenza, nella sfera pubblica e nei luoghidella decisione, di elementi di universalizzazione — quegli elementiche, nella riflessione dell’ultimo Bourdieu, assegnano all’intellettualespecialista un ruolo di resistenza e controllo degli effetti perversi dellamodernità estrema — mi sembra, se mai, ancora più importante.

È il ragionare distinto e ravvicinato, che tâtonne per meglio ade-guarsi alle pieghe della realtà sociale, e le passioni calme che possonoderivarne, che rendono pensabili le situazioni comunicative imma-ginate da Habermas: quelle situazioni dalle quali diventa possibileuscire con opinioni diverse da quelle con le quali vi si è entrati, eche consentono la ricerca comune di forme di coabitazione, sia pureprovvisorie e parziali, fra i diversi dei tempi nuovi. Ovviamente nonsi tratta cercare soluzioni di questa natura su un piano freddamenteprocedurale: ai nuovi “bisogni di comunità” che propongono valoried identità fondati su un passato o un altrove più o meno mitico eper questo sottratti alla negoziazione, occorrerebbe opporre spazidi relazione funzionanti sulla base di qualche principio elementare,laico ma capace di orientare le scelte quotidiane. Ad esempio quelloche dava un senso “civile” alla ricerca arduamente specialistica delpiù grande degli “esperti” del XX secolo, il Keynes già più volte citatoin questo scritto: l’evitare al più grande numero possibile di individuil’esclusione dai consumi non economici provocate dalla disponibilitàinadeguata dei beni economici.

Una volta sottoposto il mercato a rigorose procedure di formaliz-zazione analitica, i suoi “fallimenti” potevano essere ricondotti senzaambiguità a questo nodo squisitamente valoriale.

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OGGETTI E SOGGETTI

. Bartolo AnglaniLa lumaca e il cittadino

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. Paola CarmagnaniLuoghi di tenebra. Lo spazio coloniale e il romanzo ----, formato × cm, pagine, euro

. Rachele BranchiniL’Io è l’Altro. I gemelli nel romanzo contemporaneo ----, formato × cm, pagine, euro

. Milena MontanileScritture della memoria ----, formato × cm, pagine, euro

. Paolo SteffanUn «giardino di crode disperse». Uno studio di Addio a Ligonàs di AndreaZanzottoPrefazione di Ricciarda Ricorda ----, formato × cm, pagine, euro

. Franco FidoNell’alveare della memoria. Ultimi incontri letterari ----, formato × cm, pagine, euro

. Carla Eugenia FornoCinquecento inquieto. Autori e generi nel sogno della letteratura ----, formato × cm, pagine, euro

. Giovanni AcerboniManzoni e il vero falsificato. Saggio sui Promessi sposi e sulla poeticamanzonianaPrefazione di Maurizio Vitale ----, formato × cm, pagine, euro

. Emerico GiacheryPer Montale ----, formato × cm, pagine, euro

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. Mario CerotiScritti montaliani e altri saggiPrefazione di Riccardo Castellana ----, formato × cm, pagine, euro

. Małgorzata Ewa TrzeciakL’esperienza estetica nello Zibaldone di Giacomo LeopardiPrefazione di Joanna Ugniewska ----, formato × cm, pagine, euro

. Lucia Dell’AiaLa sfera del puer. Il tempo dei ragazzini di Elsa MorantePrefazione di Anna Clara Bova ----, formato × cm, pagine, euro

. Irene PalladiniPer una fenomenologia dell’orrore nella narrativa di Federigo TozziPrefazione di Roberto Puggioni ----, formato × cm, pagine, euro

. Ida PorfidoRefrattari e libertari. Voci di scrittori francesi moderni e contemporanei ----, formato × cm, pagine, euro

. Anna Clara BovaDel mito e della poesia. Demitizzazione e «ritorno del mito» ----, formato × cm, pagine, euro

. Chiara BauzulliCarlo Levi filosofo. Evoluzione del pensiero leviano dagli anni Venti aglianni QuarantaA cura di Andrea Comincini e Arianna Bernardi ----, formato × cm, pagine, euro

. Pierre Saint–AmandParesse des Lumières

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. Estela González de Sande, Mercedes González de SandeBoccaccio e le donne ----, formato × cm, pagine, euro

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. Dentro Casa d’altri. Analisi semiotiche del racconto di Silvio D’ArzoA cura di Patrizia Violi e Anna Maria Lorusso ----, formato × cm, pagine, euro

. Angelo FabriziRileggere Alfieri

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. Sara BonfiliErmanno Cavazzoni tra comico e parodiaPrefazione di Andrea Raffaele Rondini ----, formato × cm, pagine, euro

. Emiliano AlessandroniIdeologia e strutture letterariePrefazione di Emanuele Zinato ----, formato × cm, pagine, euro

. Marcello MontanariPinocchio e altre favole. Per una lettura filosofica delle fiabe ----, formato × cm, pagine, euro

. Carlo DilonardoIl Ventennio dei ventenni. Illusioni e speranze di una generazione di intel-lettualiPrefazione di Giorgio Taffon ----, formato × cm, pagine, euro

. Rileggendo Fulvio TomizzaA cura di Marianna Deganutti ----, formato × cm, pagine, euro

. Marcello Verdenelli, Giampaolo Vincenzi«Le vostre parole sono come luce di stella dolce e lontana». Transiti nellascrittura di Dino Campana ----, formato × cm, pagine, euro

. Luigi MattForme della narrativa italiana di oggi ----, formato × cm, pagine, euro

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. Ferdinando PappalardoClericus vagans. Saggi sulla letteratura italiana del Novecento ----, formato × cm, pagine, euro

. Marcello MontanariLa Storia non finisce. Società civile, tempo e storia in età moderna ----, formato × cm, pagine, euro

. Bruno CumboL’opera in corso di Roberto Calasso ----, formato × cm, pagine, euro

. Bartolo AnglaniChe cos’è questa crisi? Divagazioni sul teatro di Goldoni e sui suoi inter-preti

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. Giuseppe RandoNei pressi dell’Infinito e altri saggi leopardiani. In appendice l’edizionecritica dell’orazione Agl’Italiani di Giacomo Leopardi ----, formato × cm, pagine, euro

. Gabriella GuarinoSul bestiario di Esopo e Fedro. Lettere greche A–K ----, formato × cm, pagine, euro

. Rosanna PozziNove poeti per Mario LuziPrefazione di Stefano Verdino ----, formato × cm, pagine, euro

. Carla FornoLe amate stanze. Viaggio nelle case d’autore ----, formato × cm, pagine, euro

. Natàlia VacanteAi limiti del vero. Approdi creativi e riusi inerziali nelle strategie narrativedi Giovanni Verga. Con un’appendice su Federico De Roberto ----, formato × cm, pagine, euro

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. Carlo MathieuLa voce dei Canti. Prosodia e intonazione nella lirica di Giacomo Leopardi ----, formato × cm, pagine, euro

. Bartolo AnglaniIl «soave mestier della Birba». I ciarlatani di Goldoni e altri saggi

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. Denise AricòL’arte della guerra nel Settecento. I ‘Discorsi militari’ di Francesco Alga-rotti

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. Vittorio CapuzzaUn inedito incontro fra Giovanni Papini e il cardinale Pietro Maffi. Noteintorno a un manoscrittoPrefazione di Rino Caputo ----, formato × cm, pagine, euro

. Encarna Esteban BernabéViaje terrestre y celeste de Mario Luzi. Análisis de la espiritualidad luziana ----, formato × cm, pagine, euro

. Cécile Le LayMarie dans la Comédie de Dante. Fonctions d’un “personnage” fémininPréface par Sergio Cristaldi ----, formato × cm, pagine, euro

. Silvia FreilesLa «parola illimitata» di Bartolo Cattafi ----, formato × cm, pagine, euro

. Augusto PonzioLa coda dell’occhio. Letture del linguaggio letterario senza confini nazio-nali ----, formato × cm, pagine, euro

. Karol KarpViaggio, cultura e identità. La produzione migrante di Artur SpanjolliPrefazione di Daniele Comberiati ----, formato × cm, pagine, euro

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. Critica, filologia e scienze umane. Una giornata di studi con GiuseppeRandoA cura di Paola Radici Colace ----, formato × cm, pagine, euro

. Raffaele LampugnaniI diari d’internamento di Federico Bonisoli. La lingua e il “bel dire” di unfascista italo–australianoPrefazione di Desmond O’Connor ----, formato × cm, pagine, euro

. Chiara SesanaOdissea moderna. Figure di Ulisse nel Novecento italianoPrefazione di Enrico Elli ----, formato × cm, pagine, euro

. Emanuele CanzanielloCrimini della bellezza. Un canone del romanzo fascista ----, formato × cm, pagine, euro

. Stefano RedaelliLa scienza nella letteratura italiana ----, formato × cm, pagine, euro

. Lucia Dell’Aia (a cura di)I fiori fantastici dei vulcani. Studi per Anna Clara Bova ----, formato × cm, pagine, euro

. Stefania MartiniTruppe irregolari. Palazzeschi sig. Aldo (distretto di Rio Bo) ----, formato × cm, pagine, euro

. Nino ArrigoLa balena nelle langhe. Mito ed ermeneutica nell’opera di Herman Mel-ville e Cesare PavesePrefazione di Christopher Concolino ----, formato × cm, pagine, euro

. Carlo CapraLa felicità per tutti. Figure e temi dell’Illuminismo lombardo

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. Roberta TurchiLe maschere di Goldoni

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. Anna Clara BovaDiscorso di un italiano intorno alla poesia romantica

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. Annastella CarrinoQuasi sint civitates. Società, poteri e rappresentazioni nella Puglia di etàmoderna

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. Bartolo AnglaniLa tragedia impossibile. Alfieri e la profanazione del tragico

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. Paolo Rigo, Laura Toppan (a cura di)« In lontane chiarità ». Studi per Mario Luzi (con alcuni inediti) ----, formato × cm, pagine, euro

. Biagio SalveminiLinguaggi del mercato. Denominazioni sociali, moralità mercantili e stilidi pensiero della age of commerce (secoli XVII–XIX) ----, formato × cm, pagine, euro

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Compilato il marzo , ore :

con il sistema tipografico LATEX 2ε

Finito di stampare nel mese di marzo del

dalla tipografia «System Graphic S.r.l.» Roma – via di Torre Sant’Anastasia,

per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)