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17 L a continuità della mostra presente con quella svoltasi anch’essa agli Uffizi nel 2008 e intitolata L’eredità di Giotto. Arte a Firenze 1340-1375 è, almeno per quanto mi riguarda, assoluta. Identico è l’intento odierno di offrire un panorama il più possibile completo e articolato della produzione artistica a Firenze, a partire esattamente da quando si era lasciato interrotto il discorso, per giungere fino quasi alla metà del Quattrocento. La fortissima di- versità che caratterizza i due segmenti cronologici presi in considerazione può essere misurata, in maniera forse meno consueta, dalla quantità e qualità delle termino- logie critiche rispettivamente coinvolte. Se in pieno xiv secolo a Firenze si affrontavano in maniera pressoché esaustiva i due aggettivi/sostantivi “giottesco” 1 e “or- cagnesco”, per l’arco cronologico qui contemplato la letteratura specialistica propone una varietà davvero ragguardevole di specificazioni critiche convenzionali: neogiottesco; tardogotico; proto-umanistico; gotico internazionale; umanistico; pseudo-rinascimentale o anti-rinascimentale e, finalmente, rinascimentale. Da tale ricchezza si può evincere intrinsecamente l’artico- lazione culturale e la fortissima propensione innovativa che caratterizzano la città del giglio in questi decenni di oggettiva transizione. La polemica fra gli storici che preferiscono sottoline- are il carattere di assoluta novità dell’arte primo-rinasci- mentale e quelli che, al contrario, ritengono di poterne indicare forti elementi di continuità con la grande tra- dizione trecentesca della città rimonta, com’è noto, al xix secolo. Oggi appare prevalente la tesi secondo cui lo sviluppo dell’arte nuova si sarebbe svolto in parallelo alla fiorente cultura tardogotica, fondata per l’appunto sulle radici dell’illustre tradizione figurativa trecente- sca, che dimostrerà la sua straordinaria vitalità creativa fin verso la metà del xv secolo. Del resto, la coesistenza nell’ambito di un contrasto affascinante fra l’arte ispi- rata ai concetti prospettico-spaziali e di naturalismo “in presa diretta”, da una parte, e l’arte fantastica e preziosa di matrice tardogotica dall’altra – che a Firenze appare comunque caratterizzata costantemente da un cospicuo equilibrio formale, alieno dalle punte espressive di gusto genericamente “nordico” –, si ritrova nelle innumere- voli varianti locali della pittura quattrocentesca italiana. Questa è in sostanza la tesi di fondo di un saggio merita- tamente noto di Federico Zeri, nel quale il grande cri- tico delinea con didattica evidenza i tratti peculiari del Rinascimento e dello Pseudo-Rinascimento, ammesso che si voglia accantonare l’altra ben nota e fortunata formula critica equivalente del “Rinascimento umbra- tile”, coniata molto tempo prima da Roberto Longhi con un’avvertenza da non sottacere, che al contrario è finita nell’oblio: «senza nulla di dispregio» 2 . Resta però di fondamentale importanza interrogarsi se, e in quale misura, tale confronto fosse realmente vissuto, nei termini in cui lo si è teorizzato ai nostri giorni, dai protagonisti dell’arte fiorentina del primo trentennio del Quattrocento. Tuttavia, nella critica ha prevalso fino ad oggi, in maniera più o meno esplicita, il riconoscimento del primato del versante più dichia- ratamente innovativo incarnato dalla triade fondamen- tale (Brunelleschi; Donatello; Masaccio), mentre al coté ghibertiano e gotico internazionale è concessa sovente una supremazia, almeno quantitativa, nell’incontrare i gusti della committenza. Si dovrebbe avvicinare mag- giormente la realtà artistica quotidiana della Firenze di allora nell’affermare che le due concezioni stilistiche, anzichè contrapporsi in maniera più o meno consape- vole, dovettero convivere mirabilmente e svilupparsi in parallelo, traendo anzi preziosi spunti creativi dalla loro interazione. Sullo sfondo dell’intreccio originalis- Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico Angelo Tartuferi IN APERTURA / Maestro della Madonna Straus, Annunciazione, 1395-1400 circa, particolare. Firenze, Galleria dell’Accademia [cat. 23].
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Saggio Mostra Bagliori dorati 2012

Feb 04, 2023

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La continuità della mostra presente con quella svoltasi anch’essa agli Uffizi nel 2008 e intitolata L’eredità di

Giotto. Arte a Firenze 1340-1375 è, almeno per quanto mi riguarda, assoluta. Identico è l’intento odierno di offrire un panorama il più possibile completo e articolato della produzione artistica a Firenze, a partire esattamente da quando si era lasciato interrotto il discorso, per giungere fino quasi alla metà del Quattrocento. La fortissima di-versità che caratterizza i due segmenti cronologici presi in considerazione può essere misurata, in maniera forse meno consueta, dalla quantità e qualità delle termino-logie critiche rispettivamente coinvolte. Se in pieno xiv secolo a Firenze si affrontavano in maniera pressoché esaustiva i due aggettivi/sostantivi “giottesco”1 e “or-cagnesco”, per l’arco cronologico qui contemplato la letteratura specialistica propone una varietà davvero ragguardevole di specificazioni critiche convenzionali: neogiottesco; tardogotico; proto-umanistico; gotico internazionale; umanistico; pseudo-rinascimentale o anti-rinascimentale e, finalmente, rinascimentale. Da tale ricchezza si può evincere intrinsecamente l’artico-lazione culturale e la fortissima propensione innovativa che caratterizzano la città del giglio in questi decenni di oggettiva transizione.

La polemica fra gli storici che preferiscono sottoline-are il carattere di assoluta novità dell’arte primo-rinasci-mentale e quelli che, al contrario, ritengono di poterne indicare forti elementi di continuità con la grande tra-dizione trecentesca della città rimonta, com’è noto, al xix secolo. Oggi appare prevalente la tesi secondo cui lo sviluppo dell’arte nuova si sarebbe svolto in parallelo alla fiorente cultura tardogotica, fondata per l’appunto sulle radici dell’illustre tradizione figurativa trecente-sca, che dimostrerà la sua straordinaria vitalità creativa fin verso la metà del xv secolo. Del resto, la coesistenza

nell’ambito di un contrasto affascinante fra l’arte ispi-rata ai concetti prospettico-spaziali e di naturalismo “in presa diretta”, da una parte, e l’arte fantastica e preziosa di matrice tardogotica dall’altra – che a Firenze appare comunque caratterizzata costantemente da un cospicuo equilibrio formale, alieno dalle punte espressive di gusto genericamente “nordico” –, si ritrova nelle innumere-voli varianti locali della pittura quattrocentesca italiana. Questa è in sostanza la tesi di fondo di un saggio merita-tamente noto di Federico Zeri, nel quale il grande cri-tico delinea con didattica evidenza i tratti peculiari del Rinascimento e dello Pseudo-Rinascimento, ammesso che si voglia accantonare l’altra ben nota e fortunata formula critica equivalente del “Rinascimento umbra-tile”, coniata molto tempo prima da Roberto Longhi con un’avvertenza da non sottacere, che al contrario è finita nell’oblio: «senza nulla di dispregio»2.

Resta però di fondamentale importanza interrogarsi se, e in quale misura, tale confronto fosse realmente vissuto, nei termini in cui lo si è teorizzato ai nostri giorni, dai protagonisti dell’arte fiorentina del primo trentennio del Quattrocento. Tuttavia, nella critica ha prevalso fino ad oggi, in maniera più o meno esplicita, il riconoscimento del primato del versante più dichia-ratamente innovativo incarnato dalla triade fondamen-tale (Brunelleschi; Donatello; Masaccio), mentre al coté ghibertiano e gotico internazionale è concessa sovente una supremazia, almeno quantitativa, nell’incontrare i gusti della committenza. Si dovrebbe avvicinare mag-giormente la realtà artistica quotidiana della Firenze di allora nell’affermare che le due concezioni stilistiche, anzichè contrapporsi in maniera più o meno consape-vole, dovettero convivere mirabilmente e svilupparsi in parallelo, traendo anzi preziosi spunti creativi dalla loro interazione. Sullo sfondo dell’intreccio originalis-

Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico

Angelo Tartuferi

in apertura / Maestro della Madonna Straus, Annunciazione, 1395-1400 circa, particolare. Firenze, Galleria dell’Accademia [cat. 23].

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Angelo Tartuferi, Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico

dopo i sospetti già adombrati in tal senso7. L’operosità di Gherardo di Jacopo agli albori del nuovo secolo ebbe una sensibile influenza sulla scena artistica cittadina, ben al-dilà del caso dell’imitazione quasi pedissequa del suo stile – ma in chiave ironica e popolareggiante – offertane dal Maestro di Borgo alla Collina, alias Scolaio di Giovanni8. Allo Starnina si può restituire, a nostro parere, l’inedito Santo Stefano [fig. 2] seduto per terra, replica puntuale, e tuttavia con qualche allentamento sul piano qualitativo, di quello che compare insieme a San Bruno nell’elemento di predella del County Museum di Los Angeles (inv. n. AC 1996.137.1). Il piccolo dipinto – noto allo scrivente sol-tanto in base alla fotografia – suggerisce la constatazione che il successo riscontrato dall’artista poteva comportare il riutilizzo di composizioni collaudate, anche da parte della bottega, per opere di devozione privata di dimen-sioni più ridotte e, forse, di minore impegno.

Come affermato con sicurezza dallo stesso Vasari nelle Vite (1568), Starnina fu con ogni probabilità il ma-estro di Masolino, e ciò risulta convalidato in maniera straordinariamente palese dagli elementi stilistici riscon-trabili nel piccolo frammento con una delicatissima testa della Vergine [fig. 3], riconosciuta al pittore valdarnese per primo da Boskovits, in cui si sommano anche in-tense suggestioni dal Maestro della Madonna Straus. Databile intorno al 1415, il dipinto è probabilmente la testimonianza più antica della sua arte giunta fino a noi, vicinissimo peraltro al superbo goticismo, davvero al limite dell’astrazione, della Madonna dell’Umiltà degli

La tavola frammentaria di Hannover [cat. 7] docu-menta invece lo stile originalissimo di Antonio di Fran-cesco, che si dichiara puntigliosamente «da Vinexia» e certamente era originario di un luogo soggetto alla Sere-nissima4. Aggregato sovente al contesto multiforme del neogiottismo dell’ultimo ventennio del secolo, questo artista affascinante e girovago sfugge in realtà a qualsiasi categorizzazione sin qui nota. La fisicità tornita e ornata dei suoi personaggi giunge talvolta a punte di natura-lismo che sembrano anticipare gli esiti di artisti attivi negli anni venti del Quattrocento, quali Lippo d’An-drea, Mariotto di Cristofano [cat. 97] o Francesco d’An-tonio [catt. 65 e 96 a-b].

Assodata ormai da lungo tempo la primogenitura cul-turale e tecnico-stilistica del Gotico Internazionale fio-rentino per opera di Lorenzo Ghiberti [fig. 1], affiancato nel campo pittorico da Lorenzo Monaco [catt. 30, 31] – e dunque la sua natura affatto autoctona, a dispetto dei dubbi più o meno vecchi inclini a traballanti ipotesi d’in-fluenze senesi o dell’Italia settentrionale –, è giusto riaf-fermare il ruolo propulsivo e davvero cosmopolita giocato in questa vicenda da Gherardo Starnina [cat. 13]5, ope-roso a Toledo e Valencia dal 1393 al 1401, ma rientrato nella sua città entro l’inizio del 14026. A questo artista dalla fantasia estrosa e dal segno assai raffinato continua a rinviare, per vie ancora non del tutto afferrabili, e tuttavia ineludibilmente, secondo il parere di chi scrive, la dibat-tutissima Tebaide degli Uffizi, attribuita dai più all’Ange-lico, la cui autenticità è ora messa in dubbio [cat. 43],

consapevole osservanza neogiottesca, mentre la bella e praticamente sconosciuta Madonna [cat. 4] di Agnolo Gaddi, riafferma il ruolo dell’artista nel capoluogo to-scano di principale precursore-propagatore della cultura tardogotica autoctona. All’affermazione del nuovo lin-guaggio incline alla raffinatezza disegnativa e cromatica della raffigurazione, nonché alle atmosfere cortesi tra-sferite persino nei soggetti sacri, reca il suo contributo anche Mariotto di Nardo, almeno fino al principio del nuovo secolo – come ben illustrato dall’Incoronazione della Vergine [cat. 6] della Collezione Acton –, l’«egregio pittore» con il quale Lorenzo Ghiberti quasi si vanta di essersi recato a lavorare a Pesaro presso la corte dei Malatesta3. Riflessi dell’incipiente cultura tardogotica si colgono anche nel misurato Spinello di Luca [cat. 2], che se fosse vissuto a Firenze nei giorni di Giotto di Bondone sarebbe stato verosimilmente uno dei suoi più convinti seguaci.

simo e vitale di questi due universi figurativi si dipanano le vicende della pittura fiorentina della prima metà del xv secolo. Non è forse azzardato ipotizzare che la ri-velazione nel contesto della mostra del capolavoro di Paolo Uccello restaurato [cat. 111] – uno degli esem-plari artistici che possono restituire al meglio i termini più intimi di tale intreccio culturale –, sarà addirittura in grado di promuovere un sostanziale riequilibrio del bilancio critico, con l’auspicio tuttavia, che esso non giunga a rubare quasi del tutto la scena alle decine di opere pittoriche convocate, alcune delle quali sono assai rare, mentre non poche delle altre si rivelano, a nostro avviso, di rara bellezza.

Nel campo della pittura, le solide radici fondate sull’illustre cultura trecentesca della città si dichiarano, nel corso dell’ultimo decennio del Trecento, di fonte culturale assai composita: il ricomposto trittico di Nic-colò Gerini [cat. 1] è espressione della più rigorosa e

figura 1 / Lorenzo Ghiberti, Sacrificio d’Isacco, 1401. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

figura 2 / Gherardo Starnina, Santo Stefano, 1405-1410. Collezione privata

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Angelo Tartuferi, Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico

dente l’ampiezza straordinaria della parabola culturale e stilistica compiuta dall’artista, a partire dalla sua “preisto-ria”, rappresentata dalla Madonna della Collezione Mar-tello [fig. 4] – identificata grazie ad un’altra magistrale apertura di Boskovits –, passando, poi, per il dipinto oxoniense e la danneggiatissima lunetta ad affresco con-servata nel Museo di San Marco, per giungere a opere quali la Madonna col Bambino della National Gallery of Ire-land a Dublino (inv. n. NGI 603), databile nella prima metà degli anni trenta. Quest’ultima è certamente uno dei dipinti più entusiasmanti del primo Quattrocento fio-rentino, tra gli esemplari più alti – insieme alle opere più antiche di Filippo Lippi – della nuova pittura riformata in senso masaccesco, nella quale l’artista sembra tuttavia impegnato in primo luogo a interpretare pittoricamente, inasprendole perfino, certe punte estreme del naturali-smo donatelliano11.

La bellissima Annunciazione del Maestro della Ma-donna Straus [cat. 23; fig. in apertura] – il probabile Ambrogio di Baldese12 – inaugura nella mostra una serie ragguardevole di opere di analogo soggetto, che illustra l’interpretazione di questo tema squisitamente fiorentino attraverso diverse sfumature stilistiche, tutte di alto livello esecutivo. La tavola conservata alla Gal-

maniera significativa nel percorso autonomo del grande pittore, che mi apparve all’epoca della mostra del 2006 alla Galleria dell’Accademia, esattamente come oggi, racchiuso in se stesso e quasi impenetrabile da qualsiasi apporto esterno. Caso unico e assolutamente eccezionale, quello di Don Lorenzo, di un artista che possiede a livelli altissimi le qualità tipiche dell’arte cortese, intimamente profana nella sua natura, e le piega gioiosamente a glo-rificare i temi della fede, con una forza e una sincerità di risultati che pochi altri possono vantare. L’unico altro caso, com’è noto, si verifica alcuni anni dopo ancora a Firenze, proprio con il Beato Angelico, staccatosi artisti-camente parlando da una costola del monaco camaldo-lese, co-fondatore sulle orme di Masaccio del linguaggio rinascimentale in pittura.

Tra le opere che si possono richiamare a conferma dei vertici qualitativi assoluti raggiunti da Don Lorenzo Monaco figura senza dubbio l’Adorazione dei Magi [cat. 31] degli Uffizi, purtroppo pesantemente avvilita nei suoi riflessi ghibertiani – riscontrabili in origine anche nella carpenteria – dalla riquadratura tardo-quattrocen-tesca di Cosimo Rosselli. L’opera è identificata tradizio-nalmente con la Pala dell’altar maggiore della chiesa di Sant’Egidio, per la quale tuttavia il camaldolese ricevette dal 1420 al 1422 un compenso di 182 fiorini dall’Ospe-dale di Santa Maria Nuova (cui la chiesa apparteneva), che a ragione è apparso in anni più recenti troppo in-gente per le dimensioni della tavola. Essa dovette es-sere eseguita invece, più plausibilmente, per l’altare della Confraternita dei Magi, annessa alla chiesa di San Marco a Firenze, dove il dipinto si trovava nel 1809, posto sopra la porta del refettorio nel primo chiostro. In ogni caso, appare da confermare la datazione tarda di questo capolavoro, intorno al 1420, nel quale l’artista sembra voler sperimentare le possibilità estreme del suo affascinante linguaggio: i corpi elegantissimi si tendono e s’inarcano fino all’inverosimile, le vesti presentano colorazioni sempre più sofisticate e cangianti, mentre il paesaggio assume forme surreali. L’architettura sullo sfondo, che aspirerebbe a essere complessa e solida, si complica invece nel moltiplicarsi delle arcate, per ap-parire piuttosto traballante e incerta. Essa finisce per essere l’unica spia, forse, del disagio del pittore nell’in-terpretare la nuova spazialità che comincia a farsi strada.

Nel contesto del secondo decennio del Quattrocento, appare opportuno sottolineare anche l’importanza del ruolo svolto da Paolo Uccello, al cospetto dell’indimen-ticabile Annunciazione di Oxford [cat. 26], a patto che sia accolta per essa la collocazione precoce nel percorso dell’artista, intorno al 1420. Risulterà allora del tutto evi-

lari – di Budapest [cat. 42], alla paternità dell’Angelico ipotizzata da Boskovits, unitamente al frammento cor-relato già in Collezione Bartolini-Salimbeni a Firenze, sembra preferibile per noi, quantomeno come ipotesi di lavoro, quella di Giovanni Toscani, già asserita da altri. A quest’ultimo, poi, dovrebbe spettare – come ho già indicato anni fa – il San Girolamo penitente dell’University Art Museum a Princeton, databile plausibilmente nella seconda metà degli anni venti del Quattrocento, che pure è oggi generalmente riferito all’artista10.

Tornando al momento cruciale dell’affermazione conclamata a Firenze del linguaggio tardogotico in pit-tura, situabile nel decennio 1405-1415, appare pressoché superfluo ribadire il ruolo assolutamente fondamentale di Piero di Giovanni, dal 1391 monaco camaldolese di Santa Maria degli Angeli a Firenze, con il nome di Lorenzo (Lo-renzo Monaco). Egli dovette muoversi in maniera relati-vamente indipendente anche nei confronti dello Starnina, il cui rientro in patria non sembrerebbe aver inciso in

Uffizi [cat. 27]9. Di non minore portata è, poi, il contri-buto fornito da Gherardo Starnina alla formazione del Beato Angelico, ampiamente riconosciuto dalla critica e ben illustrato in questa occasione dalla Madonna di Cedri [cat. 32].

La mostra offre peraltro un notevole apporto per la conoscenza del primo tempo del Beato Angelico, tramite la revisione conservativa della carpenteria e la pulitura della superficie pittorica del cosiddetto Trittico di san Pietro martire [cat. 34], già concepito tuttavia in un tavolato unico, come le pale d’altare. Non è certo questa l’occasione per addentrarsi in un tema fonda-mentale quale la produzione giovanile del grandissimo frate pittore, ma non si può fare a meno di osservare che su di essa sono state fatte convergere negli ultimi due decenni molte, anzi, troppe opere, in alcuni casi patentemente inconciliabili tra loro. Della Tebaide degli Uffizi si è già fatto cenno, ma persino per quella “ge-mella” – eppure diversa nella cifra stilistica dei partico-

figura 4 / Paolo Uccello, Madonna col Bambino, 1420 circa. Fiesole (Firenze), Collezione Martello.

figura 3 / Masolino, Testa della Vergine, frammento, 1415 circa. Collezione privata.

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Angelo Tartuferi, Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico

Chiostro degli Aranci della Badia fiorentina [cat. 98] at-tribuibili al portoghese Giovanni di Consalvo24.

Un interessante spunto d’indagine è offerto da una delle innumerevoli aperture critiche fornite da Miklós Boskovits, tramite il riconoscimento della mano del pittore e miniatore [catt. 90] fiorentino Bartolomeo di Fruosino – nato alla fine degli anni sessanta del xiv se-colo e morto nel 1441 – in una tavoletta di predella con la Natività della Vergine [fig. 8] conservata nel monastero delle Benedettine di Santa Maria degli Angeli a Pistoia25. La parabola umana di questo artista – iscrittosi nel 1408 all’Arte dei Medici e degli Speziali come pittore –, la cui fisionomia stilistica può dirsi ancora oggi per molti aspetti sfuggente e in attesa di ulteriori chiarimenti, copre in pratica gli estremi cronologici della mostra, nell’ambito della quale egli può certamente figurare fra i più convinti e coerenti assertori del linguaggio tardogotico. Dopo l’ini-ziale, fortissima adesione alla cultura di Lorenzo Monaco, particolarmente evidente nella sua produzione miniata, nel dipinto pistoiese egli sembra superare l’aspro accento calligrafico che ancora caratterizza il bel desco da parto raffigurante anch’esso la Natività della Vergine e recante

nosceva rivali, coincise in pratica con la rivelazione del linguaggio masaccesco, che nella Firenze di quei giorni stava crescendo «tremendamente solo sopra sé stesso» (Longhi), in parallelo con la cupola brunelleschiana22. La recezione della nuova visione proposta dal genio valdar-nese – trasposizione pittorica di quanto già maturato dai grandi scultori del tempo –, dovette risultare tuttavia meno assoluta e condizionante rispetto a quanto acca-duto oltre un secolo avanti con Giotto. Tuttavia, dopo l’avvento di questa nuova finestra sul mondo, niente avrebbe potuto restare come prima. E persino un artista conservatore come Bicci di Lorenzo, sembra avvertire qualche flebile eco dei tempi nuovi nella Madonna della Pinacoteca di Empoli [cat. 60], avviata nel 1423, da cui traspare un’ampia solennità dell’impianto compositivo, per lui davvero inconsueta.

Tommaso di ser Giovanni (Masaccio) attuò il suo solitario rivolgimento figurativo anche nel campo del ritratto, com’è noto sulla base della testimonianza delle fonti. La sconvolgente naturalezza del Ritratto di giovane [cat. 67], qui riprodotto al termine della pu-litura [fig. 7], consente a nostro parere di proporne l’identificazione, se non – come riteniamo – con una testimonianza diretta della sua attività in questo campo, quantomeno come un riflesso puntuale e qualitativa-mente assai alto di essa23.

Al compimento del primo quarto del xv secolo, la città fondava certamente i suoi successi militari ed economici, nonché la splendida fioritura artistica, sul fortissimo orgoglio civico e persino sulla consapevo-lezza di poter vantare un grande passato, soprattutto nel campo dell’arte. Da questo punto di vista, appare pertanto assai significativo il finto rivestimento nello stile del romanico fiorentino che caratterizza lo squisito tabernacolo da viaggio [cat. 63] qui accostato al Mae-stro della Predella Sherman. La presenza alla mostra dell’entusiasmante dipinto eponimo [cat. 64] di questo “Giovanni di Paolo” del Tardogotico fiorentino, ne at-testa inequivocabilmente l’alta e raffinata originalità. Ho già avuto occasione di sottolineare come la sua for-mazione si sia svolta in ambito assai vicino a Lorenzo Monaco, prima di affermare a partire dalla metà degli anni venti del Quattrocento l’adesione di fondo alla cul-tura angelichiana, accompagnata poi dai riflessi di vari artisti dell’epoca (Masolino da Panicale; Arcangelo di Cola; Francesco d’Antonio), mentre sul piano espres-sivo parrebbe di poter evidenziare una certa empatia con Paolo Uccello. In ogni caso, risulta difficile a mio parere scorgere reali tangenze stilistiche fra i dipinti sin qui assegnati all’anonimo e alcune lunette affrescate nel

leria dell’Accademia, databile ancora sullo scorcio del Trecento, per la grazia delicatissima dell’atmosfera che la pervade e la raffinatezza della stesura cromatica, s’im-pone al rango di equivalente tardogotico fiorentino del supremo esemplare martiniano dipinto nel 1333 per la Cattedrale di Siena. Gli altri due rari esemplari del tema [catt. 24, 46] di Giovanni Toscani, testimoniano invece della sensibile articolazione del percorso stili-stico di questo artista di notevole livello, che durante il terzo decennio del Quattrocento affianca validamente Giovanni di Marco [catt. 47, 99] nel ruolo di pronto e originale divulgatore della visione masaccesca13.

La scena artistica fiorentina degli anni qui considerati è popolata anche da una folta schiera di pittori e “cofa-nari”, impegnati a soddisfare le richieste, da parte di un mercato in notevole espansione, di immagini per la de-vozione privata, tabernacoli portatili, piccoli Crocifissi, deschi da parto, cassoni14. Si tratta di una sorta di tessuto connettivo della pittura fiorentina di questi anni, che trae alimento – come sempre accade in ogni contesto artistico – dalle idee-guida delle personalità di maggior spicco. Da questo ambito variegatissimo e disomogeneo, dal punto di vista della qualità dell’esecuzione, è possibile cogliere in trasparenza il profondo intreccio tematico-formale fra cultura tardogotica e umanesimo rinascimentale.

Non è consentito dar conto qui di tutte queste per-sonalità e, inoltre, solo per alcune vale francamente la

figura 5 / Maestro di Carlo III di Durazzo, Storia di Messer Torello e Saladino, particolare della formella centrale, 1390 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

figura 6 / Maestro del 1419, San Giuliano in trono, particolare del trittico, 1420-1425. San Gimignano, Museo Civico.

figura 7 / Masaccio (qui attribuito a), Ritratto di giovane, 1425 circa, foto al termine della pulitura. New York, Collezione Alana.

pena di giungere a esprimere qualche rammarico per la mancata presenza alla mostra. Il monopolio della pro-duzione di cassoni dipinti spetta al cosiddetto Maestro di Carlo III di Durazzo [fig. 5]15, mentre risultano im-pegnati soprattutto, ma non esclusivamente, nella pro-duzione devozionale a carattere privato, il Maestro di Carmignano16, il Maestro di Sant’Ivo17, l’estroso Mae-stro di Ristonchi (o di Montefloscoli)18, o l’accattivante Maestro del 141619, tanto per citarne alcuni.

L’ipotetico recensore di questa mostra che dovesse lamentare l’assenza di due artisti quali Cenni di France-sco e il Maestro del 1419, ne avrebbe tutte le ragioni. Legittime, anzi, sacrosante opposizioni dovute a pro-blemi di conservazione, hanno impedito che la loro at-tività fosse degnamente rappresentata. L’uno è cauto e, tuttavia, precoce divulgatore degli accenti tardogotici in diverse contrade della regione – nonché artista par-ticolarmente caro a Miklós Boskovits20 –; l’altro, rite-nuto dal medesimo studioso «notevole figura di pittore fiorentino»21, è un fantasioso comprimario dei protago-nisti principali del Tardogotico più acceso, che guarda soprattutto in direzione di Masolino, pur vantando un linguaggio di assoluta originalità [fig. 6].

L’arrivo in città alla fine del secondo decennio di Arcangelo di Cola da Camerino [cat. 61] e, soprattutto, quello di Gentile da Fabriano [catt. 69-70], giunto al culmine di una celebrità che nell’Italia di allora non co-

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Angelo Tartuferi, Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico

Di spessore nettamente più alto appare il messaggio di Giovanni dal Ponte, che appartiene secondo noi al novero ristretto dei protagonisti di primo piano degli albori della pittura quattrocentesca fiorentina. Dipinti quali Il cavaliere e la gentildonna [cat. 100] o l’Allegoria delle sette Arti Liberali del Museo del Prado [cat. 102] si collocano certamente sotto ogni aspetto ai vertici dell’arte dell’Umanesimo fiorentino tardogotico. Tut-tavia, è opportuno sottolineare che dobbiamo al mede-simo artista, in una fase precedente della sua attività, uno dei testi pittorici dove risulta in assoluto la più alta osservanza e comprensione linguistica dell’arte masac-cesca, mai esibita fino ad allora, vale a dire sul 1430: il San Pietro in cattedra come papa e i santi Ludovico e Prospero [cat. 99] degli Uffizi.

Molto meno attenta e scrupolosa, rispetto a quella di Giovanni dal Ponte al principio degli anni trenta, po-trebbe apparire l’osservanza masaccesca di Domenico Veneziano, nonostante l’indubitabile formazione fioren-tina, al cospetto della bellissima Madonna di Bucarest [cat. 103]. Ma si tratterebbe soltanto di un’impressione

Un altro probabile punto di riferimento per il gio-vanissimo Masaccio fu con ogni probabilità il già men-zionato Giovanni di Francesco Toscani, che nel primo decennio del Quattrocento poteva dirsi già artista di lungo corso, essendo nato nel 1372 circa. Nell’Ado-razione dei Magi della tavola di predella di Melbourne [cat. 68] l’adesione ai nuovi modelli masacceschi appare molto forte, non soltanto sul piano formale, ma per-sino nella naturalezza emotiva dei personaggi – disposti su un unico piano –, al punto che il rimando alla ta-vola berlinese di analogo soggetto di Tommaso di ser Giovanni per la predella del Polittico del Carmine di Pisa s’impone con assoluta e rara immediatezza. Le due grandi e pressoché sconosciute tavole raffiguranti l’An-nunciazione, quella della Georgetown University di Wa-shington [cat. 24], restaurata per l’occasione, e l’altra della Basilica lateranense [cat. 46], illustrano il riuscito adeguamento del pittore ai rinnovati schemi quat-trocenteschi della visione, soprattutto nell’ampiezza dell’inquadramento spaziale e per l’adozione di scenari architettonici di gusto brunelleschiano.

la data del 1428, fino ad anni recenti appartenente alla Hi-storical Society di New York, ma comparso ultimamente sul mercato antiquariale a New York26. Come sottoline-ato molto bene da Ada Labriola in questo catalogo [cat. 90], dal dipinto di Pistoia emerge un indirizzo stilistico molto diverso, tendente a forme morbide, eleganti, con-traddistinte inoltre da una grande fluidità lineare e da una gamma cromatica raffinata, arricchita da passaggi vivaci e cangiantismi. In altre parole, la temperatura tardogotica di Lorenzo Monaco sembrerebbe essersi notevolmente innalzata, a una data che secondo il nostro modo di vedere dovrebbe cadere sul finire degli anni venti.

Accenti stilistici non troppo dissimili ritornano, se non sbaglio, in un dipinto assai intrigante [fig. 9], che fino ad oggi è sfuggito a una definizione critica che fosse pienamente soddisfacente. Si tratta della Madonna col Bambino e quattro angeli appartenente alla Cattedrale di Copenaghen, che era presente alla mostra di Lo-renzo Monaco svoltasi nel 2006 alla Galleria dell’Ac-cademia di Firenze, con il riferimento ipotetico alla

figura 8 / Bartolomeo di Fruosino, Natività della Vergine, particolare, 1425-1430. Pistoia, Monastero di Santa Maria degli Angeli.

figura 9 / Bartolomeo di Fruosino (?), Madonna col Bambino e quattro angeli, particolare, 1435 circa. Copenaghen, Cattedrale di Sant’Ansgar.

figura 10 / Maestro del 1441, Miracolo della Beata Giovanna, 1441. Signa (Firenze), pieve di San Giovanni Battista.

fase tarda di Francesco d’Antonio da me suggerito27. Oggi mi chiedo se in questo dipinto inafferrabile non si possa riconoscere il punto di arrivo finale, intorno alla metà degli anni trenta, del lungo percorso di Barto-lomeo di Fruosino. La soffice morbidezza delle carni, il cromatismo acceso e cangiante, nonché la tendenza a ricercare eleganti profilature in alcuni personaggi, sembrerebbero infatti legare quest’opera, che certa-mente può dirsi una delle più emblematiche dell’ul-timo Tardogotico fiorentino, alla tavoletta pistoiese.

Per tornare all’ambiente più strettamente gravitante intorno a Masaccio, fino dai suoi esordi, occorre rimar-care il ruolo non secondario di Mariotto di Cristofano, la cui riscoperta si deve ancora alle ricerche di Boskovits, che non trascura tuttavia di studiare e rendere attuali i testi trecenteschi presenti nella nativa San Giovanni Val-darno, come viene qui riscontrato da Andrea Staderini nella singolare tavola del Museo di Palazzo Venezia a Roma [cat. 97], contraddistinta dalla rara tipologia ghi-bertiana della carpenteria.

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Angelo Tartuferi, Pittori a Firenze alla vigilia del Rinascimento (e anche dopo): qualche spunto critico

15 L. Sbaraglio, in Virtù d’amore 2010, pp. 107-109. 16 Fiorillo 2001.17 Baldini 2005.18 A. De Marchi, in Sumptuosa tabula picta 1998, pp. 359-364.19 Topi 2008, che opportunamente rettifica la proposta di Weppelmann

(2007) di dividerne il catalogo fra mani diverse.20 Per un aggiornato sunto critico-bibliografico su Cenni di Francesco, cfr.

S. Chiodo, in The Alana Collection 2011, pp. 57-61.21 L’ipotesi d’identificare il Maestro del 1419 con il miniatore Battista di

Biagio Sanguigni ad opera di L. B. Kanter (2002; e in Fra Angelico 2005,

pp. 227-234), è giustamente respinta per la mancanza di adeguati riscontri

stilistici, per cui si veda Boskovits 2002a e Parenti 2006, p. 74 n. 27.22 Longhi 1940, p. 152. Per Arcangelo di Cola, cfr. Marchi 2002, pp. 160-

169; per il soggiorno fiorentino di Gentile, cfr. A. De Marchi, in Gentile da

Fabriano 2006, pp. 244-247.23 Per un riepilogo dei dati su Masaccio e la vasta bibliografia, aggiornata al

2006, si ritiene utile rinviare a Tartuferi 2008.24 Per il Maestro della predella Sherman, cfr. A. Tartuferi, in Miniatura del

’400 2003, pp. 78-81; per la proposta d’identificazione con Giovanni di

Consalvo, cfr. L. B. Kanter, in Fra Angelico 2005, pp. 291-296. In proposito

si vedano le argomentazioni pienamente condivisibili fornite qui da Sonia

Chiodo [cat. 98]. Per Giovanni di Consalvo, cfr. Boskovits 2004. 25 Cfr. Feraci 2008, pp. 117-118 e 124 nn. 61-74, cui si rimanda per un

esaustivo riepilogo critico e bibliografico sull’artista.26 Cfr. New York 2011, lot 119.27 A. Tartuferi, in Lorenzo Monaco 2006, pp. 246-248.28 Tartuferi 2011b, pp. 84-91.29 Riferita per la prima volta all’artista da Longhi 1928, p. 35.

1 Per un tentativo assai recente di ridefinizione del concetto di “giottesco”,

cfr. Tartuferi 2011a. 2 Zeri 1983, pp. 545-572; Longhi 1926, p. 114. 3 Salmi 1955a; Chiodo 2008. 4 Parenti 2010, pp. 134 e 136 nn. 29-30. 5 Per agili sintesi storiche sul periodo e la bibliografia relativa si vedano Cec-

chi 2002a, pp. 15-34 e Cardini 2009, pp. 15-26; sul versante più specifica-

tamente storico-artistico, Paolucci 1990, pp. 19-32; Boskovits 2002b, pp.

53-75 e Parenti 2006, pp. 67-74. Per Lorenzo Monaco si veda il catalogo

della mostra svoltasi alla Galleria dell’Accademia, a cura di chi scrive e di

Daniela Parenti, cfr. Lorenzo Monaco 2006. 6 Bernacchioni 2004, pp. 47-48. Su Starnina, si veda van Waadenoijen

1983 e A. De Marchi, in Sumptuosa tabula picta 1998, pp. 260-265; Condo-

relli 2000; inoltre, più di recente, cfr. Bernacchioni 2007; de Vries 2007

e Laclotte 2007. 7 Natali 2009, pp.16-20. 8 Lenza 2012. 9 Cfr. A. Tartuferi, in Arte in Lombardia 1988, pp. 198-199. 10 Per il dipinto, cfr. G. Bonsanti, in Masaccio 2002, pp.172-173; per la pater-

nità del Toscani mi sono pronunciato da tempo: cfr. Tartuferi 2002, p. 39. 11 Per i dipinti citati e la loro vicenda critica si veda in Hudson 2008, pp.

254-256, 280-281. La tavola della Collezione Martello è classificata fra le

opere d’incerta attribuzione, cfr. Hudson 2008, p. 309.12 Cfr. Chiodo 1998. 13 Sul Toscani, cfr. Sbaraglio 2007; A. Galli, in The Alana Collection 2011,

pp. 135-139. Per Giovanni dal Ponte e la bibliografia relativa si veda A.

Turchi, in La Collezione Corsi 2011, pp. 165-169.14 Cfr. Virtù d’amore 2010.

1441 affrescò quattro Episodi della vita della Beata Gio-vanna sulla parete sinistra della cappella maggiore della pieve di San Giovanni Battista a Signa [fig. 10], non lon-tano da Firenze, cui si possono accostare stilisticamente alcuni dipinti su tavola, provenienti quasi certamente da alcuni cassoni, con episodi mitologici o della storia antica28. In queste opere il Maestro del 1441 dimostra di prestare attenzione in primo luogo alle opere di Paolo Uccello, Domenico Veneziano, Francesco Pesel-lino, ma soprattutto si rivolge all’attività degli artisti con i quali condivideva la specialità di “forzerinaio” o “cofanario” che dir si voglia, tra i cui esponenti princi-pali è da annoverare certamente il Maestro del Giudizio di Paride [cat. 101]. La sua sognante Annunciazione [fig. 11] delle Gallerie del Courtauld Institute a Londra (inv. P.1966.GP126), tiene ancora ben alta la bandiera del Gotico fiorito a Firenze, ormai verso il 1440, quando la scena artistica cittadina è davvero cambiata, al punto che per la prima volta per dipinti di questa fatta si può parlare, forse, di un indimenticabile, affascinante e stu-pendamente lirico “ritardo culturale”29.

superficiale o distratta, poiché la costruzione fisica e morale del gruppo divino sarebbe inconcepibile senza l’assunzione completa dei dettami di Donato e Masac-cio, mentre il fitto roseto sullo sfondo – memoria in-dubbia dell’hortus conclusus tardogotico –, ha la valenza spaziale di un’architettura di Filippo Brunelleschi o dell’Alberti.

Nello stesso decennio e anche in quello seguente continuava a fiorire – nelle botteghe a fianco di quelle da cui uscivano le grandi pale d’altare del Beato Ange-lico e di Filippo Lippi – il mondo fiabesco e coloratis-simo dei deschi da parto e dei cassoni, i cui personaggi dall’eleganza accattivante ripropongono in accenti cor-tesi la storia, i poemi epici o l’ambiente cavalleresco. Si tratta di pittori che talvolta danno vita a una produzione di gusto popolareggiante, ripetitivo e quasi seriale, a proposito della quale anche un concetto fondamentale per la ricerca e la definizione critica in campo storico-artistico, qual è quello dell’autografia, sembra assu-mere un ruolo più marginale e sfumato. Questo è il caso, per esempio, del gradevolissimo artista che nel

figura 11 / Maestro del Giudizio di Paride, Annunciazione, 1440 circa. Londra, Courtauld Institute Art Gallery.