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Roberto Sanna - l'Alchimia Del Dolore

Jun 16, 2015

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ROBERTO SANNA

L’ALCHIMIADEL DOLORE

La Riflessione

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ROBERTO SANNAL’ALCHIMIA DEL DOLORE

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATAL'OPERA È FRUTTO DELL’INGEGNO DELL'AUTORE

© 2009 La Riflessione

Davide Zedda Editore

Via F.Alziator, 2409126 – Cagliari

[email protected]

[email protected]

Prima Edizionefinito di stampare nel mese di settembre 2009

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Tu mi rendi uguale a Mida,Il più triste degli alchimisti;

Per te trasformo l’oro in ferroE il paradiso in inferno;Nel sudario delle nuvole

Io scopro un caro cadavere,E sopra le rive celesti

Costruisco grandi sarcofagi.

(Charles Baudelaire – L’alchimia del dolore)

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LA SORELLA

I.Ero solito in quelle giornate estive vagare solitario presso le

strade della mia città, in quei lunghi e silenziosi viali albera-ti in cui il mio passo era accompagnato costantemente daombre meravigliose.

Mi piaceva quella dolce e soave solitudine, quella poesiamisteriosa. Sapevo che a quell’ora nessuno attraversava queiluoghi, ed io potevo perdermi nei miei malinconici pensieri, inquei sogni velleitari, nei miei irrealizzabili desideri, e quellapace raggiungeva il mio cuore in tal modo che tremava comecolto nel delirio di una pura estasi.

Quel pomeriggio, mi pare che fossimo agli inizi di luglio,uno dei miei mesi preferiti, però le cose andarono in modoassai diverso, inaspettati eventi dovevano accadere.

Infatti, ero in preda ad uno dei miei soliti entusiasmi poetici.Intessevo frasi senza parole alla vista di una gentile farfalla odi una verde foglia brillante al contatto con i raggi solari,quando sentii dei passi dietro ai miei.

Mi turbai all’inizio come ridestato da un sogno, poi mi calmai,qualcuno doveva alla fine passare per quella via, era logico.

La mia ansia e la mia curiosità ripresero e crebbero quandomi parve di udire una risata di una voce chiaramente femmi-nile. Sembrava proprio rivolta verso di me, ma certo in unmodo veramente delizioso perché lei emetteva delle notedolci ed armoniose che parevano formare una bellissimafrase musicale.

Sentii quello scalpicciare che si adeguava al mio ma non mivoltai, probabilmente l’immaginazione mi giocava un bruttoscherzo davvero, e non avevo certo intenzione di fare bruttafigura, proprio io che credevo nel sogno come unica realtà.

I miei sospetti però avevano colto nel segno, sentii i passiaccelerare improvvisamente, io rallentai l’andatura e la

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ragazza mi sorpassò alla destra, all’interno del marciapiede.Il suo profumo mi parve come una profusione di rose odoro-

se che invadeva il mio olfatto, vidi che lei ora si voltava ripe-tutamente verso di me.

Notai che era una ragazza molto giovane. Forse aveva qual-che anno in meno di me: i suoi capelli bruni corti erano accon-ciati perfettamente, il viso leggermente abbronzato aveva uncolorito che mi ricordava il sole, quell’astro che tante voltenella mia vita mi era stato compagno.

Dava proprio un’aria di simpatia con quel suo modo di muo-versi e non c’era più alcun dubbio: c’è l’aveva con me, infatti,si produceva lei in una serie impressionante di boccacce lan-ciando ogni tanto anche qualche sonora risata, ammiccandomidagli occhi dal taglio gentile.

Per la mia tipica natura empatica risposi in modo buffissimoa quelle espressioni, e contorcevo il viso nel modo più bizzar-ro possibile, e la ragazza incitata da quell’emulazione mi sfida-va in un assurdo gioco di smorfie.

Dopo qualche minuto lei riprese un’espressione normale eproruppe in una lunga risata cui mi unii anche io. I nostricorpi furono per qualche secondo attirati al suolo da quell’ila-rità così magicamente sorta.

«Ah! Ah!» disse e portava la mano all’altezza del petto colsorriso bianco che si allargava in tutto il viso.

«Ah R. come ti voglio bene, non sei cambiato proprio perniente» allora disse con un accento particolarmente caloroso.

Io mi sorpresi, conosceva il mio nome, ed io non avevo maivisto quella ragazza prima di quel giorno. Ero stupito da quelfatto e questa meraviglia m’impedì di contraddirla.

Lei intanto mi si era avvicinata, era di statura leggermen-te inferiore alla mia, e mi aveva abbracciato fortissimo finoa soffocarmi.

«Ah! Fratello mio! Come ti voglio bene!»«Sì, Manuela – dissi –Ti voglio tanto bene anche io, lo sai.»«Cosa ho detto» pensai, avevo pronunciato un nome senza

riflettere, e sapevo, non so come ma ne ero certo, che quello

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fosse effettivamente il suo.«R. da quanto tempo che non ci vediamo, mi sei mancato

tantissimo, non vedevo l’ora di incontrarti di nuovo.»Io cercavo di fare un ragionamento logico su quello che mi

succedeva, poteva essere un imbroglio, un tranello, dovevaesserci un secondo fine, dovevo essere diffidente.

Il cuore poi però prese il sopravvento e mise la museruola alpensiero e ai suoi dubbi e alle sue incertezze oppose una fedeferma e cieca. Quella simpatia, quella bontà, quell’affetto chevenivano da quella ragazza non potevano non essere la verità,no, lei non mentiva.

Avevo trovato finalmente una sorella.

II.

Già da quel sorprendente pomeriggio Manuela venne a vive-re nel mio piccolo appartamento, nella modesta mansarda dapoeta solitario che possedevo.

La sua allegria e la sua simpatia, nonché un inspiegabileaffetto nei miei confronti mi contagiavano a tal punto cheanche io mi scoprivo a ridere delle cose più impensate, ebastava che i nostri sguardi s’incrociassero per poco più di unsecondo che eravamo costretti a tenerci per frenare le lacrimeche pronte inondavano gli occhi.

Un’altra sua caratteristica, un’altra peculiarità del suo carat-tere era quella di vezzeggiarmi chiamandomi con i più bizzar-ri nomignoli, di abbracciarmi e di baciarmi in continuazione,come se dovesse ad ogni istante dovere dimostrarmi di voler-mi bene.

«Il mio amato fratello» così lei era solita chiamarmi, ed io eroconquistato da quel suo modo di fare, da quella gioia natura-le, da quella sincerità e da quella spontaneità che mi coinvol-geva sempre in misura maggiore.

Finii io per amarla febbrilmente, per adorarla come se leifosse un angelo disceso dal paradiso per portarmi, per

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donarmi la gioia.Avevo dimenticato il significato della parola noia. Con

Manuela niente era scontato: ogni cosa, dal mangiare al pas-seggiare, era un assoluto divertimento. Io, che avevo semprenascosto i miei sentimenti più profondi, ora ero lieto di poter-li esprimere così liberamente, ero felice di potere essere final-mente me stesso, senza nessun compromesso.

Manuela amava tantissimo i fiori, ed ogni mattina, non sape-vo come facesse ma si alzava sempre prima di me, le stanzen’erano piene: delle più diverse specie e varietà, i loro coloririempivano di vita le camere della mia dimora da misantropocon il loro profumo, ora conoscevo il segreto di quell’effluvio,m’inondava il cuore di sensazioni e di emozioni che non avevomai sperimentato prima.

La sua innata gioia di vivere poi si esprimeva anche in unaltro modo: lei amava, infatti, sopra ogni cosa cantare e posse-deva una voce molto bella dagli accenti dolci e dalle sfumatu-re malinconiche.

Cantava canzoni conosciute che interpretava però in mododel tutto personale, con uno stile particolare, o, invece, inven-tava sul momento delle melodie e parole che quanto mi piace-vano tanto sarebbe stato difficile riprodurre.

Incitava anche me ad entrare in quel gioco, ed io, che nonavevo mai cantato, ora mi lanciavo in spericolati duetti che ter-minavano sempre in grandi risate e nelle nostre usuali mani-festazioni d’affetto.

«Non ci lasceremo mai» ci promettevamo e a un tratto ilnostro tono diveniva serio e uno strano silenzio si posava franoi, fra le nostre anime, un silenzio carico d’emozione e di sen-timenti veri.

Quando poi faceva buio non avevamo l’abitudine di uscire.Manuela mi diceva spesso che non lo amava, le piaceva laluce, il sole, e parlava di quell’astro come se fosse una personadi sua conoscenza.

Ci mettevamo allora il pigiama, lei ne indossava uno di unleggero tessuto bianco e lucido su cui erano disegnati dei

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piccoli cuoricini vermigli. Io lo adoravo e ogni sera dicevo eripetevo quanto le stesse bene, poi cominciavamo a parlaredegli argomenti più disparati.

Forse era il buio, forse era la notte o forse era il tono di con-fidenza che assumevamo, ma era certo che le nostre voci eranoridotte a sussurri, a frasi in codice il cui significato era notosolamente a noi.

Lei mi raccontava del suo ultimo viaggio, era andata inAmerica e affermava di essersi divertita moltissimo. Mi rac-contava episodi particolarissimi che evidenziavano la suabontà e la sua generosità d’animo, ma non c’era mai nella suanarrazione neanche la minima ombra di vanità, anzi lei sitoglieva sempre qualsiasi merito.

Poi il modo in cui raccontava era appassionante, coinvolgen-te, sapeva dare colore a ogni storia, dargli quella tinta, quellasfumatura in più come nessun altro osservatore della medesi-ma scena avrebbe saputo fare.

Un giorno mi chiese:«R. hai una ragazza?»Io arrossendo dissi di no.Allora lei si avvicinò e mi abbracciò teneramente, poi mi disse:«Devi avere sofferto tanto. Non è vero?»«Devi esserti sentito tanto solo?» poi aggiunse mentre

io annuivo.«Adesso sono tornata e non dovrai mai essere più triste, per-

ché la tua sorella non ti lascerà!»

III.

In una chiara mattina d’estate io e Manuela, la mia amatasorella di cui non potevo più fare a meno, camminavamo indirezione del parco comunale, come per noi era ormai divenu-ta buona abitudine.

Lei era come sempre del suo ottimo umore, allegra, gioiosa epronta ridere per ogni cosa: quel giorno indossava una tuta

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grigia (lei non amava certo formalizzarsi o vestire in modoeccessivamente vistoso o esageratamente elegante) dal tagliofine che rivelava ancora di più la sua graziosa femminilità.

Lei aveva preso il mio braccio quando fummo all’altezza delcancello di colore verde mentre gli alberi avevano comincia-to a circondarci con le loro lunghe fronde e con la loro altez-za smisurata.

Nelle stradine lastricate del parco scorrevano coloro che siapplicavano all’attività del footing. Udivamo, senza nessunavoglia di unirci ad essi, il loro respiro affannoso. Vedevamo ivolti provati dalla fatica e i muscoli delle gambe che vibrava-no nel movimento ripetuto.

C’inoltrammo nei luoghi più nascosti, più solitari del giar-dino, anche Manuela come me, amava quei posti isolatidove nessuno può disturbarti e dove si può chiacchierare insanta pace di qualsiasi argomento senza correre il rischio diessere interrotti.

Avevamo trovato una panca di pietra che occupavamo ora-mai con abitudine da due settimane, tanto che oramai la con-sideravamo una nostra proprietà. Avevamo aggiunto i nostrinomi a quelli degli altri innamorati che vi capeggiavano intutta la larghezza di essa.

Il silenzio, quella mattina, era dolcemente interrotto, dal cin-guettare degli uccellini, dai passeri dalla voce delicata o daisimpatici pettirossi dal tenero piumaggio.

Manuela riusciva addirittura ad attirare a sé quei piccoliesserini di solito così diffidenti nei confronti del genereumano. Lei parlava a loro, ed essi sembravano considerarlacome un’amica e si posavano nelle sue mani emettendo eufo-nici versi.

Quella notte avevo composto una piccola poesia perManuela, gliela recitai ed anche se non era un granché (io laparagonavo al sole, mi pare) lei si commosse e mi disse:

«Grazie, R. è bellissima!» e mi abbracciò forte con le lacrimeagli occhi, lacrime che presto spuntarono anche nei miei.

Eravamo felici, in quel momento. Potevo leggerlo nello

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sguardo di puro smeraldo della ragazza, lei si lasciò andarepoggiandosi nella mia spalla e ci lasciammo travolgere dallospettacolo incantevole della natura.

Solo qualche minuto dopo però udimmo dei rumori, deipassi che venivano nella direzione in cui eravamo seduti,entrambi ne fummo molto delusi perché la magia di quelmomento era stata spezzata da quell’arrivo improvviso. Cialzammo per andarcene con i visi mesti mentre un ragazzoalto dal volto butterato si avvicinava verso di noi.

Ci allontanammo lentamente ma il ragazzo senza ragioneprese il braccio di Manuela.

«Voglio parlare con te» disse.La ragazza sorpresa assunse un’espressione di puro terro-

re e disse:«Lasciami stare» e mi rivolse uno sguardo che chiedeva un

disperato aiuto.Con un ardire che non mi era consueto, il sangue mi pulsava

forte nelle tempie dall’indignazione, levai il braccio del brutoda quello della ragazza e dissi con una voce di tuono:

«Mia sorella non vuole parlare con te, vattene!»Quel ragazzone che pareva come un corpo privo dell’anima,

sembrò non capire e tentò di avvicinarsi ancora a Manuela chearretrò spaventata, io mi misi di fronte a lui.

I nostri sguardi feroci s’incontrarono; le nostre mani freme-vano per la lotta. Il ragazzo mi spinse a terra con violenza eandò via.

Manuela ora calmatasi un poco mi aiutò a rialzarmi e disse:«Grazie R., ti voglio bene.»Ci abbracciammo nuovamente, per la prima volta mi parve

che la ragazza avesse perso la sua naturale allegria. La conso-lai per la strada che ci riportava a casa.

La sera le era già tornato il buon umore.

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IV.

Manuela, una sera, erano passati forse due mesi dal nostroprimo incontro, tornò a casa con una misteriosa aria afflitta.

Si sedette nel divano azzurro senza dire una parola; dopoqualche secondo cominciò a piangere copiosamente.

Mi preoccupai subito di quegli eventi perché non c’era cosa cuitenessi tanto come alla mia amata sorellina. Oramai non pensa-vo che a lei per tutto il giorno e non potevo separarmene senzadoverne soffrire in modo inspiegabile e meraviglioso.

Mi avvicinai a lei, mi sedetti al suo fianco e le presi la mano,i suoi occhi erano notevolmente arrossati. Doveva avere pian-to anche fuori di casa.

«Che cosa è successo Manuela?» io le dissi teneramente«Raccontami tutto, ti prego.»

Il suo pianto allora divenne ancora più acceso, mi abbracciòe, singhiozzando disse:

«Fratello mio, ho delle cattive notizie da darti, purtroppo. Midispiace tanto.»

Mi chiesi allora cosa dovesse essere successo, allarmandomiperché non la avevo mai sentita parlare in quel modo, con queltono, e se lei sosteneva che era successo qualcosa, dovevanoessere accaduti fatti veramente terribili.

Alla fine Manuela mi rivelò il suo segreto, era risultata posi-tiva al test dell’HIV.

Tentai in un qualche modo di consolarla, ma le sue lacrimenon sembravano doversi mai fermare, ci tenemmo stretti alungo senza parlare mentre la notte improvvisamente spunta-va dalle finestre e il vento aveva, con violenza, preso a sbatte-re sulle vetrate.

Quando ci lasciammo ci accorgemmo di non riuscire più aparlare. Manuela mi guardava sempre con quello sguardosconsolato e frenava solo a stento quella sua profonda tri-stezza; io anche facevo lo stesso cercando vanamente unasoluzione a quel problema, sapendo benissimo che dopo

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qualche anno sarebbe arrivato l’AIDS, la terribile malattiadagli effetti mortali.

Non mangiammo, non avevamo più voglia di fare niente.All’improvviso la nostra felicità era crollata come un castello dicarte quando muoviamo male, per incidente, l’ultimo pezzo.

Tutta quella gioia, tutta quella luce, tutto quel sole erano soloun ricordo, solo un ricordo oramai. Il mio cuore si struggeva esi domandava perché proprio alla mia amata sorella, a quellaragazza d’oro doveva capitare quella tragedia. Proprio a leiche era un angelo in tutte le cose, lei non meritava una fine delgenere, non era giusto, no, non era giusto.

Andammo a dormire più presto del solito senza rivolgerciparola. Vedevo che lei soffriva moltissimo, che era stato ancheper lei qualcosa d’imprevisto, d’inaspettato, era come sedavanti vedesse continuamente la morte, che nera indicava ilsuo viso.

Spensi la luce, dormivamo, infatti, nella stessa camera, inletti separati, ma non riuscivo affatto a prendere sonno.L’insonnia, che credevo di avere per sempre debellato, oraritornava prepotentemente.

«Ci deve essere una soluzione, ci deve essere» mi ripetevo,lungamente pensavo.

Accesi la luce, anche Manuela non dormiva, era stretta al suocuscino con gli occhi spalancati.

Mi recai nel bagno, presi un rasoio, mia sorella mi guardavacome per dire:

«No, non farlo, ti prego non farlo» io feci un cenno in mododa impedire che muovesse obiezioni.

Aprii una ferita, un taglio all’altezza del pollice, lo stesso feci inquello di Manuela, i due umori vermigli vennero a contatto.

Allora dissi:«Siamo una persona sola.»

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IL FANTASMA

Mauro Biloni, alzandosi in quella splendida mattina diluglio, pensò che la vita fosse proprio bella, e non dubitò diessere la persona più fortunata e felice al mondo. Il sole allorairradiava con raggi piatti e dorati il tetto della villa a due pianidi sua proprietà. A tratti quel lucore si posava sulla sua mac-china sportiva nera da cento milioni, creando un bizzarroriverbero che pareva divertire molto l’uomo.

Lui aveva approssimativamente un’età di trentacinque anni,portati benissimo, però, come si sentiva ripetere da ogni suoconoscente. Ed era vero, il suo corpo robusto e muscoloso nonpresentava neanche un filo di grasso, questo grazie alle sedu-te settimanali che si concedeva in palestra. I suoi capelli bruni,poi, parevano quelli di un ragazzo, neanche il minimo sento-re di grigio o di bianco li attraversava.

Una lieve brezza arrivò allora sino alla bocca dell’uomo, cheinalò con compiaciuta voluttà quell’aria gentile e delicata cheriempiva il suo cuore di gioia e di beatitudine. Davanti a suoiocchi una magnifica spiaggia solitaria sorgeva, con sabbia finee odorosa. Il mare, con lievi increspature bianche di schiuma,carezzava dolcemente quelle soavi rive.

Lui stirò le braccia in alto e sbadigliò e vide, davanti ai suoiocchi, come in un film, tutta la sua vita, tutti i suoi trionfi. Lalaurea con i pieni voti, l’inizio della sua impresa, della fabbri-ca di automobili, che nel giro di pochi anni aveva fatto parla-re di sé in tutta la nazione, era amato dai suoi operai, era sti-mato da tutta la gente del luogo. Aveva un nome, insomma,una fama che si era conquistato nel campo, grazie ad un duroed operoso lavoro.

L’uomo rientrò nella stanza da letto mentre la giovanemoglie dormiva ancora. Lui si soffermò per qualche istante adosservarla nel sonno: ammirò il viso ovale perfetto, i capellibiondi lunghi e delicati, quell’aria di dolcezza che da lei tutta

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si profondeva. Mauro la amava tantissimo e il suo amore eraampiamente ricambiato. Quell’unione durava oramai da dueanni, senza nessuno scossone. Mauro pensò che il matrimoniolo avesse proprio messo a posto, certo da giovane si era diver-tito a lungo, se l’era spassata, ogni sera una ragazza diversa, elui era un seduttore nato, ci sapeva fare con le donne. Ora,però, aveva trovato la donna della sua vita, la persona giusta.Lei, il suo nome era Alessandra, aspettava un figlio. Mauronon si sarebbe mai sognato che sarebbe stato così bello diveni-re padre, no, si disse, non lo avrebbe mai immaginato.

Lui s’avvicinò alla donna e le sfiorò il grembo dove a poco apoco cresceva il nuovo membro della famiglia Biloni. A quellecarezze la ragazza si risvegliò, aprendo leggermente gliocchioni castani. Mauro fece un segno col dito per indicarle dinon parlare, i loro due sguardi s’incontrarono con affetto fra lefresche lenzuola, s’abbracciarono teneramente.

«Cara come stai?» poi lui disse.«Bene, bene» replicò la ragazza che aveva otto anni in meno

di quelli del consorte.«Vuoi che ti prepari qualcosa?» disse lui con un morbido

tono di voce.«No grazie, amore» replicò la ragazza in un sussurro melo-

dioso «non c’è né bisogno.»Alessandra tornò a girarsi fra le coperte di seta bianca men-

tre Mauro si cambiava per recarsi alla sua “fabbrichetta”com’era solito chiamarla simpaticamente. Lui, mentre radevail suo mento virile e quadrato, canticchiava un vecchio moti-vetto di qualche anno prima. Era proprio una bella giornata,una giornata di felicità, come poche ne capitano nella vita, elui sentiva di volere abbracciare il mondo intero.

Uscì con quest’aria allegra e festosa da quell’abitazione lus-suosa. Lui non si vergognava della sua ricchezza, del suodenaro perché era stata tutta opera del suo lavoro e del suospirito d’iniziativa. S’indirizzò verso l’automobile con un faresicuro, con gli occhiali da sole calcati sul naso, con i vestiti disartoria lucidi e brillanti, era bellissimo ed elegantissimo.

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Arrivò celermente nel suo ufficio, dove regnavano un ordi-ne e una pulizia assoluti. La scrivania azzurra lo aspettavacon il comodo scranno da cui controllava con un terminalecomputerizzato l’andamento dell’azienda. La giovane segre-taria appena assunta gli portò alcuni documenti da firmare,lui la guardò, Sara era il suo nome. Certo che se lui avessevoluto, con quella brunetta tutto pepe chissà cosa avrebbecombinato, ma era meglio non pensarci, oramai era un uomosposato, lui pensò, e con la mano andò a sfiorarsi la grossaaurea fede nuziale.

Verso le dieci, nel suo studio, ricevette una visita inattesa.Sostava davanti alla porta un uomo sporco e malvestito, conun’aria consunta e vissuta, con abiti chiassosi e sgargianti,con una barba che gli cresceva selvaggiamente nel visomagro. Inizialmente Mauro non riconobbe l’uomo; poi lamente si concentrò.

«Piero, ma sei tu» lui esclamò al vecchio compagnodelle superiori.

I due uomini si abbracciarono vigorosamente, e cominciaro-no ad interrogarsi vicendevolmente su quello che era lorocapitato in quei lunghi anni dal loro ultimo incontro.

Piero era disoccupato e sopravviveva solo grazie alle sue fur-berie, ai suoi noti trucchi che sin da giovane lo avevano unitoa Mauro. Il giovane industriale sentendo parlare il vecchiocompagno sentì farsi avanti nella sua mente un certo imbaraz-zo. Ora lui era un uomo affermato e non poteva certo farsivedere in giro con quel pezzente. I suoi dubbi poi furonofugati dalla seguente riflessione: in fondo mostrava una grandignità nel rivolgere la parola a quella specie di mendicante,era da considerarsi come un atto di carità.

La loro discussione, condita da scoppi improvvisi d’ilarità,durò a lungo. Furono rievocate le loro imprese giovanili: leragazze, le feste, tutte le avventure che li avevano visti comeprotagonisti. Poi ad un tratto Piero disse:

«Ti ricordi di Giorgio?»«No» disse Mauro perplesso, nonostante la sua mente si

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sforzasse di portare in luce un volto collegato a quel nome,non vi riusciva.

«Ma come?» disse Piero «non ti ricordi della gita, lo scherzodella baita, era stata una tua idea, non puoi averlo dimentica-to, è stato uno spasso di cui abbiamo riso per anni.»

Un’immagine del passato tornò, Sì, ora ricordava vagamente,un ragazzo di un’altra classe cui aveva giocato un tiro manci-no, non tutto però gli era chiaro, ma fece finta di rammentare.

«Ah, sì» disse con sufficienza l’uomo mentre osservava condisgusto la pancetta dell’amico.

«Ah, lo sapevo.» Fece ilare l’altro «Beh, immagina ora vaganelle strade come un barbone, proprio qui vicino. Devi propriovederlo, quasi crepavo dalle risate quando l’ho riconosciuto.»

«Ora è messo peggio che dopo il tuo trattamento, è tuttoammattito.»

Mauro pensò di non sopportare più quel suo compare dal-l’alito di sigaretta, con i denti gialli e cariati, voleva liberarse-ne al più presto, ma, senza che lui lo volesse, si fece trascinarea vedere quel tipo.

I due discesero nelle strade che portavano al porto. Le navi simuovevano gravemente fra i lunghi moli, i traghetti carichiscoppiavano di persone in viaggio, le barche dei pescatori siconfondevano fra loro, con l’attorcigliarsi delle reti e il puzzoacre del pescato.

I due individui, il fallito e l’uomo di successo, si avvicinaro-no in un angolo maleodorante di una piccola piazzetta doveverdi ligustri si ergevano verso il cielo azzurro traversato soloda qualche lieve evanescente nuvola rosacea.

Davanti a loro si mostrò questa scena: un uomo della lorostessa età, con il volto da bambino e con i capelli grigi cammi-nava, o meglio si muoveva maldestramente nel marciapiede,come un tarantolato, balbettando, a tratti, parole incomprensi-bili. Mauro guardò con noia quel matto dai vestiti logori e dal-l’aria misera, era proprio scocciato, doveva tornare al suo lavo-ro. Non poteva più perdere tempo con tutte quelle sciocchezze.

«Guarda, devo andare» lui era per dire, poi però ricordò

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tutto, all’improvviso, in un istante, quello che era successo inquella primavera. Si trovavano in una baita, nella gita dellaterza superiore. Si facevano le solite cose, le consuete battu-te che nascono fra le compagnie maschili, insomma ci si sec-cava molto.

Lui, allora, ebbe un’idea, fecero entrare nella baita con unascusa questo ragazzo di un’altra classe, si chiamava Giorgio,ed era un ragazzetto che pareva un bambino per quanto eramagrolino e timido. Iniziarono a prenderlo in giro, ma prestosi stancarono perché quel tipo non dava soddisfazione. Poi lospintonarono ma lui non reagiva, a quel punto a Mauro venneun’idea, tanto sadica quanto divertente per la congrega di gio-vani aitanti maschi.

Lui raccattò un bastone e con quello, dopo aver fatto calare ipantaloni al ragazzo…

Non poteva ricordare, era stato solo un gesto di giovani esal-tati, non poteva ancora sentirsi in colpa per quel fatto. Erastato solo un incidente giovanile. Ora guardava il volto di quelvecchio, perché così pareva al suo sguardo, e capì che era statolui a ridurlo in quello stato.

«Beh, ti sei incantato, possiamo andare ora» disse Piero.Mauro si scosse, i due uomini andarono via, lui con la coda

dell’occhio ancora cercava quella figura miserevole, col cuoreche gli batteva all’impazzata nel petto virile. Riuscì con unascusa a separarsi da Piero, ritornò nel suo ufficio e si chiuse achiave per riflettere su quello che gli era accaduto.

Per ore si arrovellò la mente alla ricerca di una soluzione perquel problema, senza riuscirne, però, a venirne a capo.Trovava mille giustificazioni ma nessuna reggeva al giudiziodella sua coscienza. Poi però venne un’idea, uscì correndo dal-l’ufficio fra gli sguardi stupiti dei suoi dipendenti.

Senza fiato raggiunse la banca che sorgeva al fianco degliedifici della fabbrica, e prelevò una somma considerevole incontanti. Si accorse di sudare, il suo volto era disfatto eaveva un’espressione strana, che non aveva mai notatoprima su di sé, gli parve che rughe gli circondassero, gli

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assediassero la fronte. In tutta fretta lui raggiunse Giorgio, che ancora vagolava nella

piazzetta dal terribile nidore, lui gli sfiorò la spalla e disse:«Senti, lo so che non ti ricordi di me, ma io ti voglio aiutare,

seguimi, ho un debito da saldare nei tuoi confronti.»Il tipo precocemente invecchiato non comprese neanche

una parola di quello che gli veniva detto, mugolò qualcheverso acuto e stridulo, poi si mise a piagnucolare. Maurotentò di prendere la situazione in mano, quello era, in fondo,il suo mestiere.

«Ti voglio aiutare, hai capito?» disse muovendo, agitando lemani con forza, porgendogli le manate di soldi che avevaappena prelevato. Giorgio si spaventò ulteriormente a queigesti e continuava a piangere. Il suo volto smangiato dallafame era rigato, sconvolto, impaurito.

«Lo lasci stare» disse allora un uomo che passava dietro di loro.«Non vede che è un pazzo, lei non può fare niente, lo

lasci stare.»Mauro ascoltò le parole dell’uomo di mezz’età che sembrava

avere un’aria saggia e ragionevole. Quelle argomentazioni loconvinsero, si arrese, lui che non aveva mai mollato, lui cheera capace di risolvere i problemi più difficili, ora era schiac-ciato da quel fantasma che ritornava dal passato.

Tornò a casa quando era già notte, dopo avere deambulatoa lungo, pensò che non avrebbe dovuto seguire quel suo vec-chio compagno di scuola, ma ormai l’aveva fatto e non pote-va più farci niente. Dire che quel giorno gli era parso, la mat-tina, come bellissimo, credeva di avere raggiunto la felicità,ed ora era tormentato da quel volto, da quella colpa di tantianni addietro.

Alessandra vedendolo arrivare notò che qualcosa non anda-va, vedeva che il suo uomo si comportava in modo insolito,vide che le mani gli tremavano violentemente, e chiese convoce carezzevole e vellutata:

«Tesoro, cosa c’è? Stai male?»Lui allungò il braccio come per assicurare che non era

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niente, poi aggiunse:«È solo un po’ di mal di testa, passerà» affermò, portando la

mano in direzione della fronte.La cena si svolse in un’atmosfera irreale, in un silenzio asso-

luto. L’uomo di solito allegro e vitale era divenuto all’improv-viso taciturno e ombroso. Dopo qualche minuto se ne uscì inquesto modo:

«Senti, cara. Ho scordato una cosa in macchina, vado, laprendo e torno subito.»

Disse questo in un tono concitato; con gli occhi iniettati disangue. Non aspettò risposta. Scappò via in tutta frettalasciando la porta aperta.

Si ritrovò a correre in strada, incosciente di quello che face-va, raggiunse il parco pubblico. I cancelli erano chiusi. Li sca-valcò con facilità. Non parlava eppure gli pareva di gridare. Siavvicinò ad un grande ficus sempreverde, dai rami spessi elisci, dalle foglie glabre e gigantesche

Si accorse di avere in mano una corda. Doveva averla com-prata senza rendersene conto. La legò saldamente al ramo.

Gli parve allora di uscire fuori di sé. Era come se si vedesseagire, come se fosse un osservatore di quella scena. Si vidementre s’impiccava. Sentì arrivargli la morte alla gola.

Questo pensiero, in quel momento, allora, sorse nellasua mente:

«Sono salvo!» «Sono salvo!» e sentì una strana gioia consolar-gli il cuore.

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IL GIOVANE INCANTATORE

I.Il sole era un astro così freddo e gelido nel cielo di quella

mattina di marzo. Nelle grigie strade della città di M., unaragazza vagava, passeggiava avvolta in un cappotto di pannoblu molto grazioso e raffinato. Le ore erano ancora piccole, esolo qualche figura s’intravedeva all’interno di bar dalle lucidi tenue fulgore.

Il nome della ragazza era Stefania; i suoi corti capelli neriavevano un taglio quasi maschile, corti e ben pettinati. Il visoera ovale e dava un’immediata impressione di razionalità esensibilità assieme. Le labbra erano sottili, il mento legger-mente allungato, le sue mani avevano uno strano modo dimuoversi come se cercassero di afferrare qualcosa.

La sua età poteva ben approssimarsi sui venticinque anni.Conservava da un lato un aspetto di ragazzina e dall’altroun’evidente maturità. Quest’ultimo fatto si evidenziavasoprattutto nei particolari: la piccola borsa di pelle nera, iltrucco leggero ma presente, la compostezza dei movimentiche faceva pensare al superamento delle acerbe esaltazioni diun’adolescente.

La fronte di Stefania si corrugò all’improvviso. I suoi passi sifecero più rapidi, producendo uno strano picchiettio nelsuolo. Un pensiero ricorrente balenava nella mente dellaragazza mentre la sciarpa azzurra le si stringeva delicatamen-te nel collo niveo. Il giorno precedente aveva lasciato il suoragazzo e quella mattina s’era alzata molto presto per riflette-re su quello che le era accaduto.

Quella storia, quella relazione era iniziata circa un annoprima, quindi era un qualcosa che aveva lasciato un segno,una traccia importante nella vita della ragazza. Lui si chiama-va Samuele, ne vedeva anche ora il viso abbronzato, con lalieve barba di un giorno che usava lasciarsi. Sentiva l’odore

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pungente del suo profumo, il senso della sua pelle e altroancora.

Era stata lei a lasciarlo, da qualche tempo lei sentiva un sensodi disagio, d’imbarazzo nello stare con quel ragazzo. Sentivanel cuore uno scarto, una distanza fra le loro due anime chepareva incolmabile. Pensava, a volte, che loro due parlasserodue lingue diverse, come se appartenessero a due universi chenon potevano comunicare fra loro.

Stefania alzò lo sguardo verso nuvole screziate di un azzurrointenso. Ora aveva preso a spirare un vento sottile e gelido, leis’era immessa in una strada che non conosceva. Era un lungoviale dagli edifici alti ed anonimi dove ad un tratto spuntavauno strano spiazzale squadrato senza alberi né panchine.

In quello slargo il vento era più forte e più freddo, e dava allapelle brividi e sentori di neve, di ghiaccio, di grandi laghiimmobili, di giganteschi alberi muti. Stefania ebbe lo stranodesiderio di addentrarsi in quel luogo.

L’atmosfera che si respirava era, in effetti, fantastica. Il silen-zio era così profondo. La solitudine così intensa, così vibranteche lei non si sarebbe sorpresa nel vedere spuntare all’improv-viso uno gnomo bitorzoluto, dal cappello rosso e dal corpotozzo e rugoso, con una sacca verde nelle spalle piena di fun-ghi appena raccolti.

Lei s’accorse che il cuore le palpitava leggermente, sentivauna strana emozione venirle all’animo. Era una sensazionebizzarra e misteriosa, un senso di spazio illimitato, di vertigi-ne come se, ad un tratto, stesse camminando fra le nuvole, ocome se una lama ghiacciata la facesse lievemente sanguinarenel petto.

Il sole le brillò un attimo negli occhi, la abbarbagliò legger-mente. Si portò una mano nella fronte e le parve di sentire unlieve rumore che si ripeteva. All’inizio credette solo d’essersiimmaginata tutto, poi comprese che si trattava di lontani colpidi tosse.

Stefania attraversò il vento, lo tagliò e si diresse nel puntoin cui le pareva provenire quel tenue tossicchiare. Giunse

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nell’angolo più interno dello scabro piazzale, dove sostavanodelle betoniere abbandonate, dove i lavori per quell’areaerano ancora in corso, e riudì, ora più distintamente quelsuono.

Vide un braccio magro ed infantile spuntare da una selva dicartoni male ammucchiati. Si piegò istintivamente e li smosse.Due occhi azzurri, o meglio, celesti, di un celeste puro e per-fetto la guardarono. Davanti alla ragazza c’era un bambino,un ragazzetto che forse poteva avere dieci o anche dodici anni.Stefania vide con commozione quel fanciullo che in quellagiornata d’inverno indossava solo una strana leggerissimatunica bianca ricamata.

Il ragazzo era bellissimo, nonostante il corpo fosse quasi assi-derato. Lui, infatti, portava dei corti capelli biondi, sottilicome seta, di un’incomparabile finezza. La pelle poi aveva uncolore roseo e delicato. Vedendo che quella ragazza che lo fis-sava, aveva assunto un’aria smarrita e titubante, come di chinon sa ancora se fidarsi della persona che ha appena conosciu-to.

Stefania era irresistibilmente attratta da quel fanciullo. Siavvicinò a lui e cercò di rassicurarlo, posandogli una manomaterna sulla soffice capigliatura. Il ragazzino subito le sorri-se in modo dolcissimo. La ragazza, vedendo che lui tremavaper il freddo, e le labbra sottili erano sul punto di divenire vio-lacee nel colore, si tolse il cappotto e lo avvolse nelle sue spal-le.

Già da qualche anno abitava da sola in un piccolo apparta-mento che sorgeva in prossimità del porto, in uno di quegliedifici che s’accostavano alla parte più vecchia della città. Nonebbe nessun dubbio, doveva condurlo a casa, e poi conosciu-ta la sua identità lo avrebbe riportato alla sua famiglia.

«Mi chiamo Stefania» lei disse con gentilezza, prendendo lasua mano.

«Qual è il tuo nome?» poi aggiunse.Il ragazzino spalancò le labbra e disse:«Il mio nome è Charles» con una voce flautata e musicale,

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con accenti che per ragioni misteriose scossero l’anima dellaragazza. C’era in quella voce un’innocenza ed una tenerezzache stupivano.

I due, senza altre parole, si mossero nelle vie della città, conla mano tenuta. Dopo qualche minuto, Stefania abbassò ilcapo verso gli occhioni celesti del fanciullo e chiese:

«Dove abiti, Charles?»«Da nessuna parte, Stefania» disse lui come se fosse la cosa

più naturale del mondo, come se fosse normale non possede-re una casa o un posto in cui vivere. La ragazza stupita sifermò e chiese:

«Dove sono allora i tuoi genitori? Non hai un padre, unamadre, un fratello o una sorella?»

«Io non ho né padre né madre né fratelli o sorelle» disse sor-ridendole.

«Ma da dove vieni?» allora chiese Stefania, sempre più sor-presa da quelle risposte, non osandone dubitare, perché sape-va che quel ragazzo non mentiva.

Lui allora, col braccio destro che era libero, indicò il cielo, ein particolar modo un gruppo di nuvole dai riflessi dorati chedanzavano nell’orizzonte, e disse:

«Laggiù, laggiù, da quelle nuvole, da quelle nuvole meravi-gliose.»

Stefania non sapeva cosa replicare a quelle parole, era assur-do quello che diceva. Nessuno può essere nato nelle nuvole.Eppure non parlò. Quella voce musicale ed eufonica l’avevaipnotizzata; quei suoni le stordivano la ragione, erano coseincredibili quelle che sentiva ma, a tratti, anche lei se ne con-vinceva, le riteneva così vere da non doverne e non poternedubitare.

Parlarono a lungo per arrivare fino a casa sua, e lei provavasempre una strana e maggiore simpatia per il piccolo Charles.Lui poi era gentile e educato in maniera particolare. Passandoper strade in cui sorgevano lievi vegetazioni lui raccoglievapiccoli fiori gialli e li porgeva alla ragazza, facendole compli-menti per ogni cosa.

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Quei boccioli che coglieva poi, invece di vizzirsi dopo qual-che minuto, rimanevano intatti nella freschezza dei loro peta-li, ed emanavano un profumo forte ma delicato anche ad unacerta distanza.

Avvolta da quell’insolita atmosfera magica lei fece entrare ilbambino nel suo appartamento.

II.

Passarono diversi giorni da quel bizzarro episodio e il ragaz-zino ora s’era insediato stabilmente all’interno dell’apparta-mento della giovane ragazza. Lei aveva in verità cercato disapere qualcosa in più sulla famiglia di Charles, ma non avevaottenuto alcun risultato.

Una mattina s’era recata in Questura ed aveva chiesto infor-mazioni sull’eventuale sparizione di un ragazzino nei giorniprecedenti. I funzionari non ne sapevano niente, nessuna per-sona che corrispondeva alla sua descrizione era stata dichiara-ta scomparsa.

Diede risposte evasive alle domande pressanti degli agenti.Era divenuta all’improvviso diffidente, si nascose, si trinceròin un lungo silenzio ai sospetti degli impiegati. Riuscì a veni-re fuori della questura prima che tradisse la presenza delragazzino nella sua abitazione. Le era sorto il timore che quelragazzino fosse fuggito da un terribile orfanotrofio, vedevaimmagini di cruenta violenza e disperata solitudine sorgerenella sua mente, e non voleva permettere che lo riportasseroin uno di quei postacci. Non negò a sé stessa di provare giàuna sorta d’affetto per quel gentile bambino.

Stefania aveva anche interrogato lungamente Charles sullesue origini, ma le risposte erano sempre più stravaganti edoriginali. Un giorno dichiarò d’essere figlio del sole, un altroaffermò che i fiori erano suoi parenti. Diceva queste cose conla massima serietà, con gli occhi che gli s’illuminavano. Nonera possibile contraddirlo.

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Quella compagnia divenne sempre più cara alla ragazza, ilbambino era dotato di un potere misterioso che la faceva cal-mare e restare tranquilla. Una strana serenità ora attraversavala sua vita, una pace che si diffondeva magicamente nelle stan-ze come una musica silenziosa e soave.

Il ragazzino aveva dei comportamenti insoliti e sorprenden-ti. Un giorno, infatti, Stefania sentì che parlava da solo nel ter-razzo della sua casa. Lei lo raggiunse e vide che discorreva conil gatto bianco dei vicini, e quello pareva tutto intento ad ascol-tare quelle parole che apparivano incomprensibili alla ragaz-za.

Non appena la vide le sorrise e disse:«Ciao Stefi,» usava chiamarla con quel soprannome oramai

da tempo, «vieni qui, dai!» disse e le presentò il gatto come sefosse un essere capace di comprendere, affermò che si chia-masse Luciano. Certo che quel gatto in quel momento parevaproprio avere un’anima, figurava che fosse molto intelligente.Ad un tratto le parve anche che l’animale le strizzasse l’occhio,ma doveva essere solo un’impressione, doveva essersi sicura-mente sognata tutto.

Charles poi comunicava anche con le piante del suo terrazzo.Faceva questo cantando delle nenie particolari, con una linguache pareva il tedesco. Stefania, però, non lo conosceva e nonpoteva giurare che non fosse un idioma assolutamente scono-sciuto.

Quelle pianticelle, che lei si dimenticava di annaffiare, creb-bero da allora in modo prodigioso.

La ragazza era alla ricerca di un lavoro. Da alcuni mesi erastata licenziata dalla sua precedente occupazione e i soldicominciavano a finire. Questa era una delle tante cose che ulti-mamente la preoccupavano. A volte, nelle notti, rimaneva sve-glia con pensieri che le circondavano la mente, senza riuscirea trovare una soluzione a quel piccolo dramma che ora l’ango-sciava.

Lei amava in particolare modo i libri, ed era un suo vecchio

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sogno quello di potere lavorare all’interno di una libreria. Alei poi piaceva molto il contatto con il pubblico, il potere par-lare con la gente, però non aveva fino allora ottenuto che pic-coli lavoretti come segretaria in uffici commerciali e legali,dove era trattata senza rispetto. Quel tipo di occupazione larendeva molto insoddisfatta.

Una mattina, invece, con sua grande sorpresa, da una libre-ria del centro, che fra l’altro lei frequentava spesso, ricevetteuna telefonata. Una signora gentile le comunicò che era stataassunta, lei non credeva a quelle parole. Non aveva, infatti,mai rivelato a nessuno questo suo segreto.

Incuriosita si recò nel locale colmo di volumi che s’affollava-no negli scaffali laccati di giallo da dietro alla grande vetrina.Con un certo timore s’avvicinò al banco dove sorgevano lacassa e un personal computer bianco.

«Mi scusi?» chiese ad una signora che aveva il capo chino.Quella la guardò e gli occhi, prima indifferenti, furono acce-

si da un profondo entusiasmo.«Stefania» disse lei aggiustandosi gli occhiali dalla montatu-

ra in osso sul naso. Le strinse vigorosamente la mano e poi,prima che lei potesse aprire bocca, continuò:

«Il suo piccolo fratello è venuto qui due giorni fa. Lui mi haparlato tanto bene di te,» la donna sembrava usare molta con-fidenza con la ragazza più giovane «che non ho potuto fare ameno di credere alle sue parole.»

Stefania si stupì di quello che sentiva, era proprio del picco-lo Charles che si parlava, come poteva avere fatto, si doman-dò, ma intanto la donna proseguiva nel suo discorso:

«Ringrazialo ancora, è così carino e così gentile, poi quei fioriche mi ha regalato sono proprio bellissimi. Che strano. Li hoda alcuni giorni e non si sono ancora seccati. Incredibile!»

Stefania, senza replicare, accettò quel lavoro cui tanto avevaanelato.

Ancora altri dovevano essere però i fatti che dovevano stupi-re la giovane ragazza. Quel piccolo misterioso ragazzino sem-brava dotato di un potere particolare: quello di far diventare

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gentili tutte le persone che lo circondavano.Nel palazzo dove abitava Stefania s’era prodotto un fenome-

no straordinario, fantastico. Tutti si amavano e si scambiavanocomplimenti e lodi. Era sorta una gara di bontà e generositàche era impensabile fino a qualche settimana prima.

Quel cambiamento era dovuto al giovane bambino, a quelgiovane incantatore. Quel ragazzetto biondo dalla pelle di bam-bino era adorato e coccolato da tutti, e lui faceva regali a tuttele persone del palazzo, anche se non si sapeva come facesse atrovare quegli strani gioielli azzurri che distribuiva.

Stefania pure ricevette uno di quei monili, uno che aveva laforma del sole, ma con un disegno oblungo e bizzarro. Lei loringraziò con le lacrime agli occhi, oramai non poteva frenarequella gioia, quella felicità che non riusciva a spiegarsi.

«Questo gioiello è per te, mio sole» disse lui con la sua voceincorporea e musicale, con quella voce che seduceva, che esta-siava.

Lei lo abbracciò. Oramai non si poneva più interrogativi sullasua nascita o sulla sua famiglia. Disse, con calore: “PiccoloCharles ti voglio bene.»

«Anche io ti voglio bene, Stefania» disse lui mentre dalletende bianche il sole appariva alle loro spalle. Quei raggi siposavano delicatamente su quell’immagine di due personeunite in modo così profondo.

III.

Un pomeriggio primaverile si stendeva sulla città in fiore. Ilsole caloroso allungava le ombre dei passanti mentre una fre-sca bava di vento si riversava nelle stradine del centro. I nego-zi s’affollavano di gente. Le voci si confondevano in una vita-le amalgama, fra le risate delle commesse e le chiacchiere deigiovani.

Stefania quel giorno non lavorava. Era il suo giorno libero. Siera per questo recata alla ricerca di un regalo per il suo piccolo

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amico. Non ne conosceva il motivo ma si sentiva molto felice.Camminava o meglio saltellava nel selciato, con una grandeallegria.

Si sentiva leggera, piena di gioia. I suoi occhi bruni eranocolmi di una profonda luce interiore. Le piaceva molto l’ideadi fare un dono al suo piccolo Charles, e già voleva immagina-re la sua faccia dinanzi alla sorpresa che le preparava.

«A meno che non mi legga ancora nel pensiero» si disse leidivertita.

Era arrivata fino ad un negozio di giocattoli in cui intendevaentrare quando sentì una ruvida mano posarsi sulla sua spal-la. Si voltò e davanti ebbe un volto familiare, una faccia cono-sciuta. Era Samuele, il suo ex-ragazzo. Dal volto bruno le sor-rideva.

«Ciao!» disse lei gentile, si sentiva molto buona e non c’èl’aveva più con lui. Era in fondo passato così tanto tempo cheserbare ancora rancore non sarebbe stato né giusto né ragione-vole.

«Ciao!» replicò lui con la sua voce profonda e mascolina.«È tanto tempo che non ci si vede» disse lui. Stefania sentì

ancora quel suo tipico profumo intenso, mentre gli occhi nerila scrutavano con interesse.

«Sì. È vero» disse lei«Allora come stai?” poi aggiunse.«Sì, va tutto bene» lui replicò «Sai sono divenuto capo villag-

gio, come volevo.»«Raggiungo sempre i miei obiettivi» poi disse portandosi le

mani grandi nei capelli scuri e molto curati. «Sai anche io ho raggiunto il mio obiettivo, lavoro in una

libreria.»«E questo era il tuo sogno? Non me lo avevi mai raccontato.»«Sì» rispose lei facendo finta di non notare il lieve accenno

d’ironia che era in quelle parole.La discussione si protrasse per lungo tempo. Stefania aveva

una gran voglia di parlare con lui. In fondo lo aveva amatomolto e non lo aveva dimenticato. Il rivederlo dopo tanto

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tempo, anzi, le aveva risvegliato antiche speranze, vecchiricordi in cui lo immaginava ancora come perfetto.

I suoi occhi, in quel momento di felicità e d’entusiasmo, vede-vano solo i pregi di quel ragazzo e non riuscivano a notarequel gretto egoismo che l’aveva costretto a lasciarlo.

«Ti trovo bene!» disse ad un tratto lui, con lo sguardo pene-trante.

«Grazie!» disse lei sorridendo.«Anche tu» poi aggiunse e pensava di trovarlo proprio bello.«Senti» poi disse lui «Posso invitarti a cena. Non preoccupar-

ti, non ci provo. Incontriamoci come buoni amici.»Lei, senza riflettere, rispose di sì. «Allora, stasera vengo a prenderti” disse lui.«Alle otto.»«Alle otto.»Samuele la salutò e si mosse verso la lussuosa macchina nera

parcheggiata nel marciapiede. Stefania lo vide andare via. Leiallora tornò a casa e sentì un brivido strisciarle nel petto, persensazioni che le sorgevano, che le si risvegliavano ad un trat-to nella mente.

Entrò nel suo appartamento e allora, vedendo gli occhi cele-sti e gentili di Charles che la guardavano con dolcezza, siricordò che aveva avuto l’intenzione di comprargli un regalo.Se l’era dimenticato, n’era dispiaciuta. Sarebbe stato per un’al-tra volta

Per tutta la sera, prima del suo appuntamento, lei fu intratte-nuta dal bambino dai capelli biondi e dal viso di ragazza. Eradavvero un ragazzino incantevole; ma quella sera lei non gliprestava attenzione. La sua mente volava invece all’altro, aSamuele, era stato un incontro inaspettato e ne provava anco-ra una forte emozione.

Il ragazzino notò subito quella distrazione e, con cura, chie-se:

«Cos’hai Stefi? Sembra che ti sia persa dentro ad un sogno.»Lei, in un primo momento, voleva raccontargli tutto, poi fu

presa da uno strano timore e disse:

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«Sai, ho incontrato una vecchia amica, che non vedevo datanto tempo. Stasera usciamo insieme.»

Sentì un sobbalzo, un sussulto venirle al cuore. Aveva menti-to. Non sapeva perché ma le parve che la terra avesse preso atremare.

Lo guardò nei suoi occhi celesti e puri. Lui aveva capito dellasua menzogna, n’era stupito, e forse proprio per questo nonreplicò. Uno strano silenzio scese fra i due.

IV.

Trillò la suoneria del citofono verso le otto e un quarto.Charles dormiva già, Stefania discese ad incontrare Samuele.

Lui l’aspettava in mezzo al marciapiede, elegantementeappoggiato alla sua vettura scura. Era vestito di tutto punto ein mano aveva un grosso e brillante mazzo di rose di un colo-re rosso carico.

«Sono bellissime» disse lei stupita da tante attenzioni.«Sì» disse lui con la sua aria sicura mentre baciava nelle

guance la ragazza.«Stai molto bene» disse lui notando l’abito un po’ scollato che

lei indossava. Il suo occhio lungamente andava a guardare inquel punto e nel viso gli sorgeva un’espressione divertita emaliziosa.

Arrivarono in un ristorante elegante e costoso. Il personaleera vestito con delle divise bianche e lucide. Tutti erano di unagentilezza squisita. I lampadari brillavano in mille gocce dicristallo. Le luci iridescenti si posavano nelle candide tovagliee nel fulgore delle posate d’argento.

Stefania pensò che sarebbe stata un’ottima serata. Non avevamai visto Samuele comportarsi in modo così gentile e galante.Era poi anche simpatico e divertente com’era nel suo carattereestroverso.

Ad un tratto lui chiese l’origine di quel gioiello. Disse:«Te l’ha regalata il tuo nuovo uomo? Vero? Facevi tanto la

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santa e invece ti sei già fatta un amante.»«No, no» replicò lei arrossendo non poco «non è come la

pensi» e raccontò la lunga storia del quel bizzarro bambinoche in una mattina di febbraio aveva incontrato e che ora abi-tava insieme con lei.

Dinanzi a quella storia fantastica Samuele non lesinò la suaproverbiale ironia. Un bambino in casa. Cos’era diventata unababy-sitter.

Stefania non parve udire l’acida battuta. Continuò, anzi, aparlare del ragazzino. Affermò che era triste per lui. Non gliaveva detto dove andava. Gli aveva mentito. Dire che lui le eratanto caro, era stata così stupida a non dirgli la verità. Era unaleggerezza che non si perdonava.

Samuele assunse un fare comprensivo. La sua voce si abbas-sò di tono, per assumere delle sfumature e degli accenti piùvellutati. Poi, però, disse:

«Guarda che non gli devi mica rendere conto di tutto. Se vuoiuscire esci. Sei o no una donna libera ed indipendente?»

Lui serrò la ragazza con queste argomentazioni fino a farlaconvincere di quello che sosteneva. Iniziarono a bere. Lei nonvoleva. Lo sapeva che era molto sensibile all’alcool. Lui riuscìad obiettare con successo alla ragazza: per una volta, non c’eraniente di male. Poi non uscivano in fondo come buoni amici.Le aveva promesso che non ci avrebbe provato ed lei nonpoteva negare che s’era comportato come un perfetto galan-tuomo.

Il clima divenne più allegro fino ad assumere, a tratti, untono d’euforia. Il ragazzo rimaneva ben lucido nel suo astutopiano. Lei invece era già un po’ brilla e lasciava che lui facessele sue battutine maliziose, il braccio avanzava con preciseintenzioni verso il corpo della ragazza.

Si lasciò trascinare in quel gioco, con ingenuità dovuta ancheall’ottenebramento della coscienza cui era soggetta in quelmomento.

La riaccompagnò a casa che lei oramai non era più in sé. Siricordavano i vecchi tempi, i bei vecchi tempi. Si rideva degli

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episodi che divenivano più belli così trasformati dalla memo-ria. Ci sapeva fare; fece rammentare alla ragazza la loro primavolta.

Erano arrivati davanti all’abitazione della ragazza. Non videche una luce accesa brillava nel quarto piano, all’interno delsuo appartamento. Lo fece salire in casa. Già nell’ascensore luila baciava nelle spalle e faceva scivolare con veemenza le maninel suo corpo giovanile.

Furono così, da una parte per caso, dall’altra per intenzione,nello stesso letto. Stefania mentre lui la spogliava sembròritrovare la sua coscienza. Disse:

«No, non voglio. Ti prego. Finiscila. C’è un bambino in casa.»Samuele però fu ben deciso e soffocò quella ribellione ai suoi

intenti. Portò la mano nella bocca della ragazza per farla tace-re; ed, in sostanza, la stuprò.

Dopo un qualche tempo, il buio serrava la stanza da letto dalsoffitto al pavimento. Si udirono dei lievi passi entrare nellastanza. Quel piccolo rumore fece svegliare la ragazza.Nonostante un gran mal di testa lei si rese, ad un tratto, contodi quello che le era accaduto, coprì con le lenzuola il suo corponudo.

Le luci si accesero. Charles la fissava con uno sguardo vacuoe spento. Quel colore celeste non era più quello del cielo odella purezza. Lei notò delle occhiaie rosse, sintomo di unlungo pianto. Il suo volto poi aveva un pallore, una bianchez-za, un lividore, come se non vi scorresse più neanche una goc-cia di sangue. Samuele dormiva profondamente con il caporiverso nel cuscino color rosa.

Il ragazzino scappò. Stefania solo dopo qualche minuto loseguì, ma non riuscì a trovarlo. Doveva essere scappato fuoricasa. Era disperata. Cacciò l’uomo dal letto e lo fece andarevia. Non poté sopportare quello sguardo, quel sorriso di deri-sione, come per dire «ti ho fregato», che spuntava dal visovirile.

Cercò il bambino per tutta la notte, ma non lo trovò. Giròtutte le strade della città, ma non ve n’era rimasta traccia.

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Tornò a casa la mattina. Le prime luci dell’alba, gli smortichiarori dell’aurora accompagnavano il suo viso stanco e sof-ferente.

Aprì la porta di casa. Lo spettacolo che vide era terribile.Il ragazzino s’era impiccato al lampadario. Una corda sottile

dal colore rosso l’avvolgeva nel collo. Il dolce viso di Charlesera deformato dalla morte. Stefania piangendo lo tirò giù, lostrinse a sé, piena del profumo delicato che da lui si profonde-va, ma il suo cuore aveva già, purtroppo, terminato di battere.

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I.

Era già sera. Fuori della finestra, sistemata, posta nel secon-do piano dell’edificio popolare in cui abitavo, il buio e l’oscu-rità si addensavano sul vetro in una densa e muta immobilità.

Tutto m’appariva quieto e tranquillo all’interno della miapiccola cameretta, col soffitto basso che mi opprimeva i pen-sieri. Solo si udiva il lieve e continuo ronzio della luce elettri-ca che veniva da un’unica e nuda lampadina che spenzolava,che pencolava dall’alto, in modo pericoloso, con alcuni fili cheerano scoperti.

Nessuno s’era preoccupato di ripararla. Ne seguii per alcuniistanti il movimento ondulatorio ripetuto che m’ipnotizzava,che mi ossessionava.

Provavo freddo e questo nonostante ci fosse una tempera-tura molto elevata, e nella città di K. fosse quasi arrivatal’estate. Mi raggomitolai, sospirando lievemente, in un ango-lo del piccolo e modesto letto di legno consumato. Il vetrodella finestra di fronte a me rifletteva lievemente il mio visodi bambina, e i capelli neri tagliati corti e non troppo benepettinati. Pensai di avere, in quel momento, proprio unaspetto triste e sfortunato.

Pensai che nel mio cuore non vi fosse alcuna speranza per ilfuturo.

Quella sera, mi ricordai, avrei dovuto studiare, ma non loavevo fatto; e, proprio per questo motivo, il mio cuore battevapiù velocemente del normale. Il respiro era, intanto, corto,mozzato. Avevo paura per il giorno dopo. Forse m’avrebberointerrogato, non osavo pensarci, questo mi faceva tremare,questo mi faceva stare veramente troppo male.

Provai a prendere in mano il libro dalla copertina di coloreazzurro. Lo dischiusi, lo aprii nella pagina in cui v’era la

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lezione da dover imparare.Vidi allora apparire il volto cupo e severo del professore, quel

suo particolare sguardo inquisitore e privo di compassione. Eracome se fosse arrivato specialmente nella mia stanza al fine diincutermi timore, col solo ed unico scopo di terrorizzarmi.

E vi riusciva molto bene davvero. La testa mi doleva forte;ripetere era divenuta, da qualche tempo, una fatica troppogrande, uno sforzo indicibile per le mie povere forze.

Le idee mi si confondevano nella mente. Gli occhi mi si riem-pivano di lacrime involontarie di sofferenza. Sì, avevo propriouna gran voglia di piangere, ma mi trattenevo, ma mi frenavoper la mia invincibile ed innaturale timidezza, per la mia irri-nunciabile insicurezza.

Ci provai un’altra volta, non bisognava arrendersi, non biso-gnava arrendersi. Era solo, era esclusivamente una questione divolontà. Riprovai quindi, ma non v’era proprio nulla da fare,non vi riuscivo. Era qualcosa che andava oltre le mie possibilità.

Mi sentivo male, stavo male ma non avevo nessuno con cuiparlarne; nessuna persona con cui potermi confidare. Avevopaura, paura, paura degli altri, paura del mondo, paura di tutto.

Pensai che in quel momento nessuno m’avrebbe potuto aiu-tare; nessuno m’avrebbe potuto capire, ma forse, forse mi sba-gliavo, ma non possedevo certo il coraggio per verificare que-sta teoria.

Decisi di fare qualcosa per liberarmi da quel pressante sensod’alienazione, da quell’angosciante solitudine che mi rendevatanto inquieta.

Avevo pochi soldi conservati, pochi ma sufficienti per poter-mi comprare una rivista, una delle poche libertà che ero ingrado di concedermi.

Stabilii di scendere con la mia vecchia e logora tuta, cheindossavo anche se mi vergognavo molto di quegli abiti pove-ri e miserevoli. Erano gli unici che mi potevo permettere, maforse, anche se avessi avuto i soldi, non me ne sarei compratidi migliori. La mia persona sembrava adatta proprio a queltipo d’indumenti.

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Uscii dalla mia stanza. Ora provavo una forte sensazione dicalore in tutto il corpo.

Mia madre (mio padre era morto senza che io avessi maiavuto la possibilità di conoscerlo) sedeva come sempre nel vec-chio divano macchiato e scolorito, e, come sempre, beveva unabottiglia di birra mangiando degli enormi panini imbottiti.

Avevo un folle terrore di quella figura insolitamente alta esmisuratamente adiposa. Era sempre arrabbiata, furiosa perqualsiasi cosa che occorresse o accadesse.

Tutta la pensione d’invalidità era spesa in alcolici. Non miarrischiavo mai di domandarle del denaro. Non osavo mai, inverità, chiederle alcuna cosa. Le sue reazioni erano sempreconvulse e violente. Già diverse volte mi aveva picchiata, maio non piangevo, ma non per ribellione solo per paura, soloper paura.

Lei non capiva questo, non lo capiva e allora la serie di colpi,la scarica di botte continuava, seguitava, si prolungava ioancora più terrorizzata di prima non reagivo. Ad un tratto poi,finalmente, si stancava e smetteva di pestarmi.

«Dove stai andando?» mi disse ora con il suo sguardo odio-so ed arcigno.

«All’edicola» io sussurrai, abbassando lo sguardo fino a terrae ben oltre.

«Che sia vero. Se no ti picchio, puttanella.»«Sì.» dissi io, non osando replicare a quella terribile ingiuria.

Uscii dalla porta. Il mio cuore continuava a pulsare violente-mente. Mi pareva ad un tratto che le cose avessero preso adondeggiare, ne vedevo i contorni come sfumati, come riempi-ti di un denso vapore aereo.

Era la verità che da un po’ di tempo mi pareva di vederemolto meno. Ovviamente non avevo il coraggio di parlarnein casa, ma io non avevo proprio la forza d’animo di farealcuna cosa.

Ero arrivata nella strada buia; mi avvicinai all’edicola eacquistai la rivista. C’erano dei ragazzi. Mi sentivo osservata.Risalii velocemente a casa, percorrendo i gradini a due a due.

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Pensai subito di non avere fatto un buon affare. Il miocuore, la mia anima mi diceva, affermava che avevo commes-so un errore.

Ne ero cosciente, in verità, già da prima, ma in quella situa-zione non m’era possibile non sbagliare. No, non m’era pro-prio possibile.

Rientrai velocemente nella mia stanza e mi rinchiusi dentro,cercando in tal modo di evitare i rimproveri e i lamenti di miamadre, ma, in verità, sentii in ogni caso tutto ciò che lei mi gri-dava, che mi strillava, ed io non potevo rimanere indifferentea quelle parole.

Mi distesi nel letto, mi sentivo molto stanca, priva di ognienergia. Per diversi minuti non toccai nemmeno la rivista;avevo quasi una sensazione di terrore solo all’idea di doversfiorare quelle pagine patinate e piene d’illustrazioni e di sgar-gianti fotografie colorate.

Poi però la presi in mano quasi involontariamente mentre unrumore di vetture veniva dalla strada adiacente.

Mi fermai con una certa stoltezza in una pagina in cui v’eraun’intervista ad una giovane scrittrice.

Si chiamava Angela Colonna, aveva solo diciassette anni,proprio come me, io pensai, ed era divenuta famosa, celebre inseguito alla pubblicazione di un romanzo intitolato «Le colon-ne dell’amore».

La rivista affermava che fosse proprio un gran bel volume, evi era proprio da crederci leggendo l’entusiasmo con il qualela giovane ragazza parlava di sé e del suo lavoro.

Vidi una sua foto: aveva un aspetto molto gradevole e questodoveva avere certo contribuito non poco al suo successo. Il suoviso era ovale, regolare e ben proporzionato; aveva dei lunghie vaporosi capelli bruni, occhi grandi e dolci dello stesso colo-re. Indossava abiti ricercati ed eleganti.

Aveva, per così dire, un’aria molto romantica, veramenteangelica e soave.

Nell’intervista, ad un tratto, il malizioso cronista ponevaquesta domanda:

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«E l’amore! Come va?»La ragazza pareva schermirsi in un primo momento, poi,

finalmente svelava la verità. Sì, aveva un fidanzato (l’informa-tissimo cronista assicurava che si trattava di un uomo dellospettacolo, forse un affermato primo ballerino).

L’intervistatore andava, allora, più a fondo nelle domande.Voleva conoscere se i due avessero intrattenuto rapporti inti-mi. Mi parve che quell’insistenza fosse diabolica. Non volevocontinuare a leggere, non volevo, ma lo feci come in preda adun forte istinto di morte, di autodistruzione.

La giovane scrittrice, anche in questo caso, sembrò non vole-re rispondere ma solo inizialmente, poi rivelò quel suo segre-to, la sua prima volta.

Sembrava che da quelle righe trasparisse proprio quell’emo-zione, mi pareva, ad un tratto, che io provassi le sue stesse emo-zioni, mi appariva che proprio io provassi le sue identiche sen-sazioni, era come se io fossi improvvisamente diventata lei.

«È stato come rompere le acque» questo diceva.Questa sicuramente particolare espressione mi colpì moltis-

simo. Non sapevo per quale motivo ma cominciai a tremare intutto il corpo. Quelle parole, quelle frasi con mille immagini emille sensazioni diverse contemporaneamente cominciaronoa turbinare, a volteggiare nella mia mente.

Mi sentii stordita, nauseata ed immensamente sola, sola,sola. Era come se un abisso s’aprisse, si spalancasse ai mieipiedi e mi chiamasse e mi volesse inghiottire.

Era come se un uomo, un demone oscuro avesse preso fra lemani, afferrato il mio cuore e, con un punteruolo di ferro, sidivertisse a straziarlo, a lacerarlo ferocemente.

Sentii una tensione insopprimibile prendere il possesso, ildominio del mio corpo. Scostai la rivista e cercai di calmarmi,ero troppo nervosa, ma non riuscii nel mio intento.

Cercai di ripetere la lezione del giorno dopo, ma non ricor-davo assolutamente nulla.

Fui alternativamente preda di forti sensazioni di calore e dialtrettanto vigorosi e striscianti brividi di freddo. Restavo

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ferma nel mio letto. Mi coricai, come per provare a dormire,ma c’erano troppi rumori che provenivano dal soggiorno e perquesto io non riuscivo a riposare.

Mi coprii le gambe magre con una coperta di lana pesante dalparticolare decoro greco. Era sfilacciata ai lati ed aveva ungrosso foro al centro. Non ne conoscevo il motivo ma quellavecchia coperta mi dava un forte senso di commozione. Eraquasi come se io la considerassi una persona viva, una vecchi-na da dovere accudire, una donna non autosufficiente di cuidoversi preoccupare.

Forse qualche lacrima mi solcava allora il viso, mentre ilcuore mi sanguinava di un dolore enorme. Pensai che, infondo, quello mio non fosse tanto un cattivo destino, nonpotevo forse considerarmi veramente sfortunata. Non avreisinceramente voluto essere come quella scrittrice. Sentivo dinon invidiarla.

I rumori nel salotto, nel frattempo, non terminavano affatto.Mia madre guardava la televisione fino a tardi e tenendolasempre ad un volume molto alto.

Era già notte dunque ed io non riuscivo a prendere sonno. Latensione, la rigidezza del mio corpo m’impediva di rilassarmi.

Mi rigirai lungamente in quel mio piccolo e povero lettino,ma, nonostante mutassi spesso posizione, quella inquietudine,quel turbamento continuavano ad aumentare sempre più.

Mi accucciai, mi rimpiattai in un lato del letto e mi strinsiforte e teneramente alla coperta. Provai a recitare qualche pre-ghiera ma senza effetto dato che mi pareva di non ricordarnepiù le parole.

Sentivo sorgere, allora, al centro del petto una fitta, unospasmo, un forte dolore, uno stringimento. Ebbi un singulto,sospirai silenziosamente e cercai di calmarmi senza riuscirciin verità.

Mi pareva che qualcosa all’interno del mio corpo si strozzas-se, si restringesse, si tendesse fino a spezzarsi. Non riuscivo aresistere a quel dolore fisico che era arrivato così all’improvvi-so, senza che io me lo fossi aspettato.

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Mi apparve, in un momento, che i miei pensieri fosserodivenuti meno lucidi e coerenti. Pure se rimanevo ferma, eracome se la testa continuasse a roteare, a volteggiare, a turbi-nare nel vuoto.

Era come se fossi ubriaca, ebbra, anche se in verità io nonavevo mai bevuto tanto da potere conoscere gli effetti dell’al-cool nel corpo. L’unica volta che avevo bevuto, ma solo ungoccio, m’ero sentita così male che, nonostante le bestemmie ele imprecazioni di mia madre, m’ero sempre rifiutata di toc-carne ancora.

La testa mi si era come gonfiata, come se vi avessero inietta-to dei liquidi che ora circolavano velocemente dentro di essa.Poi, lentamente, mi abituai a quel dolore, e forse per questomotivo cominciai a badare, a prestare attenzione ai rumori, aisuoni e alle vicende che accadevano in strada.

La situazione in cui mi trovavo era simile a quella che siprova all’interno di un sogno, tanto le cose e gli eventi pare-vano da un lato distanti ed evanescenti, quanto dall’altrovicini e stridenti.

La strada, in un primo momento, doveva essere completa-mente vuota. Era vacua e silente. Si sentiva solo un sottile sibi-lare di vento che pareva giungere in ogni angolo della via, edio avevo così concezione, coscienza dello spazio circostante.

Mi pareva quasi di vederla, la strada asfaltata, buia, nera eminacciosa, rischiarata solo dalle tenui e leggere luci dei lam-pioni. Quell’immobile stasi, quel terrifico silenzio, non duròche lo spazio di pochi minuti. Si udirono, infatti, avanzare,risuonare nel suolo dei passi, passi di persone, di individuiche camminavano con pesantezza, pestando i piedi a terramolto violentemente.

Subito dopo compresi che doveva trattarsi di un gruppo diragazzi. Non so per quale motivo volli immaginare che lorofossero anche più giovani di me,

Le loro voci erano molto alte, esaltate, avrei potuto dire, perquanto i toni e i timbri di quei giovani apparivano scalmana-ti. Udii poi distintamente fra esse le voci di alcune (almeno

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due) ragazze che ridevano garrule alle battute sconce deimaschi.

Quella discussione, quella conversazione era così animata e ilmio udito così fine, così sottile, così sensibile che io ne distin-guevo ogni particolare con esatta distinzione, meglio anche,pensai, che se fossi stata in mezzo a loro.

Ad un tratto ebbi come una visione razionale, mi parve anchedi vedere quel piccolo gruppo di persone: le gole abbronzatemosse all’indietro dalla perversa ironia allusiva, i modi lan-guidi, e quelli prepotenti e studiati.

Era come se leggessi perfettamente, esattamente il male cherisiedeva nelle loro anime, e questo fatto, questa sensazionedell’ambiente mi schiacciava, mi annullava, mi annichilivacompletamente.

Mentre mi rivoltavo nel letto mi parve di essere sommersa,avvolta dall’effluvio prepotente dei loro profumi industriali edei dopobarba all’ultima moda.

Il tono acceso ed eccitato, allegro forse non sarebbe stato iltermine preciso per definire quella particolare situazione,dopo qualche minuto ebbe improvvisamente fine. Uno dei ragazzi aveva detto una parola di troppo e aveva sca-tenato la reazione rabbiosa di un altro. Le urla erano veramen-te altissime, tanto che io mi tappavo con le mani le orecchie,vanamente però, per non udire altro.

Gli insulti erano molto pesanti, pronunciati in dialetto localee, anche se non ne comprendevo il significato, tremavo dinan-zi a tutta quella violenta aggressività.

Ora mi rendevo conto che uno dei due aveva paura dell’altro esi era nascosto, si era rifugiato nell’altra parte del marciapiede.

«Vieni! Vieni!» gli gridava con voce provocatoria ed ironica elo minacciava delle più tremende ed atroci punizioni.

Sentivo, provavo io stessa la paura, la tensione di quelloscontro fatale. Non avrei voluto sentire, non avrei propriovoluto intendere quelle ingiustizie.

La rissa temuta, invece, non si realizzò affatto. I due feceroun’ancora più becera e chiassosa pace, che chissà per quanto

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tempo avrebbe resistito.Ritornò il silenzio, ora non sentivo più il rumore della televi-

sione accesa, forse era proprio venuto il tempo per potermiriposare.

La testa mi doleva. Sentii un brivido percorrere il mio corpo.Il silenzio era agghiacciante. Passarono ancora diverse oreprime che riuscissi a addormentarmi.

II.

Mi svegliai tremando, ancora molto stanca per la lunga notteinsonne, con un forte dolore alla testa e con una trafittura, unmale che mi squarciava, mi lacerava il petto.

Restai diversi minuti coricata, adagiata sopra al mio lettosenza avere il coraggio, la forza d’animo solo per potermimuovere o alzare.

Ogni azione, ogni minimo gesto mi era come impedito. Misarebbe costato uno sforzo fisico e mentale superiore alle mieforze. Sapevo eppure che dovevo tirarmi su; sapevo che dove-vo andare a scuola anche se controvoglia, anche se senza entu-siasmo con quel forte senso di vuoto che mi colmava l’animo.Nella mia mente ora balenava, turbinava questo imperativo,questo preciso ordine:

«Alzati! Alzati!»Lievi strie di sole giallastro macchiavano, chiazzavano le

imposte color marrone, marcite a causa della pioggia e delleintemperie. In uno scatto nervoso, repentinamente, mi levai inpiedi, il cuore riprese a palpitarmi per l’ansia di quella nuovagiornata che era per iniziare.

Mi diressi verso il bagno, dopo avere alzato le serrande dellamia cameretta. Lasciai il letto disfatto con tutte le coperte e lelenzuola in disordine. Avrei, allora pensai, rimesso tutto aposto dopo, con più calma.

La porta del bagno era chiusa, era serrata. Doveva esserciFrancesco, il mio detestato fratello maggiore, questo pensavo

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perché, a quell’ora, mia madre doveva dormire ancora.Attesi a lungo prima che mio fratello terminasse col bagno.

Lui doveva essere sempre il primo ad entrarci e in questi casiera davvero difficile contraddirlo. Oramai era divenuto lui ilpadrone della casa. Circa un mese prima aveva litigato connostra madre e i due, urlando disgustose bestemmie fino alcielo, erano venuti alle mani. Francesco aveva avuto la meglioe da allora si comportava come un tiranno, dava ordini e pre-tendeva di essere obbedito alla lettera. In caso contrario sisarebbero passati brutti guai davvero.

Uscì, proprio mentre io m’addentravo in questi pensieri,dalla porta, sghignazzando, con addosso un forte, vigorosoprofumo di pulito. Era molto più alto e più forte di me edusava la sua superiorità fisica per sopraffarmi e per infligger-mi ingiuste e continue umiliazioni.

Anche quella mattina una scena consueta, cui non m’ero inverità ancora abituata, orribilmente si ripeté.

«Vieni a farti la barba, Alex?» lui disse sfiorandomi il mento(in effetti il mio nome era Alessandra, ma lui mi aveva affib-biato questo nomignolo solo per beffeggiarmi meglio).

Io non replicai a quella provocazione. Abbassai lo sguardo ecercai di entrare nel bagno evitando di cadere in quel tranelloche avrebbe portato ad uno scontro inutile.

Lui, però, sardonico, compiaciuto della sua autorità, si misein mezzo all’entrata e non mi fece passare. Cominciò a toccar-mi, come per farmi il solletico; io impaurita mi piegavo, minascondevo in un angolo, nient’affatto divertita da tutte quel-le attenzioni.

A quel punto lui mi prese forte, mi afferrò per il collo e me lostrinse con violenza. Al che dissi:

«Smettila, ti prego.»Sussurravo da quanto la mia voce appariva flebile e tenue, ed

lui trovò in quella mia frase il pretesto, la ragione per conti-nuare quel suo crudele gioco.

«Lasciami stare!» io implorai ancora e questa volta, con miogrande sollievo, lui mi liberò veramente dalla sua morsa.

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I suoi scherzi, però, non erano ancora terminati. Lui ora miguardava con un’aria particolare e maliziosa, io mi spaventa-vo, rabbrividivo nel più profondo del mio cuore dinanzi aquello sguardo.

Lui s’avvicinò a me e cominciò a toccarmi con forza nelleparti intime, io urlai sconvolta ed addolorata da tutta quel-la malvagità.

Lui allora rise, rise selvaticamente, con un’aria trionfante. Milasciò andare ed io, in un attimo, mi chiusi a chiave dentro albagno, facendo sbattere seccamente la porta.

Mi sdraiai allora nel freddo impiantito e mi inginocchiaipiangendo lentamente. Chiusi gli occhi come per estraniarmida quel mondo da cui mi sentivo rifiutata, per non sentirequello che accadeva.

Solo dopo alcuni minuti mi drizzai e davanti allo specchioguardavo riflesso il mio viso pallido e stanco come se appar-tenesse ad una persona che non avevo mai visto prima.

Piccoli tagli, impercettibili cicatrici che portavo all’altezzadelle labbra mi ricordarono, ad un tratto, un episodio spiace-vole che mi era capitato alcuni anni addietro.

Ero allora ancora una bambina, e nella mia ingenuità pote-vo dirmi ancora felice. Giocavo, in quel tempo, spesso evolentieri da sola con l’unica bambola che possedevo e cheavevo chiamato Lucy (bambola che poi mia madre mi sot-trasse sostenendo che non ero più una bambina e che era oradi diventare grandi).

Andavo allora molto d’accordo con mio fratello, e qualchevolta giocavamo anche insieme. Quel giorno però lui speri-mentò per la prima volta i suoi istinti sadici su di me. C’era incasa una pinzatrice, uno di quegli infernali aggeggi che servo-no per legare assieme fogli sparsi. Non ricordo come era capi-tata in casa, ma rammento che mio fratello se ne era imposses-sato e sin dalla mattina si divertiva ad usarla sopra ogni cosa.

Ad un tratto il suo divertimento pareva sicuramente scema-re, il suo nuovo giocattolo non gli procurava più il piacere cheaveva provato inizialmente. A quel punto lui mi osservò con

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uno strano sguardo, che mi ricordò che mi turbò moltissimo,e si avvicinò verso di me con la sua arma in mano.

Il ragazzino insano usò la pinzatrice proprio sopra la miapelle, divertendosi ad mio ulteriore spavento. I segni di quel-la violenza rimanevano ancora sul mio viso di ragazza, e ser-bavo memoria del fatto che quell’aneddoto fece il giro delpalazzo, e che tutti i ragazzini del quartiere mi presero in giroper diversi mesi, incuranti del male che mi facevano e dellelacrime che, copiose, versavo ad ogni nuova umiliazione.

Mi voltai allora in direzione della stretta vasca da bagno dacui presi un reggiseno costellato da delicati e piccoli fiorellini.Lo indossai mentre sentivo stranamente che il mio cuore sistruggeva dalla tenerezza. Mi guardai nuovamente allo spec-chio ed ero presa da una dolce e morbida sensazione di nostal-gia di cose passate, come un ricordo lontano di antiche esisten-ze in cui la purezza e l’innocenza regnavano su un universoancora incontaminato dal male.

Mi lavai il viso e il resto del corpo, con forza nervosa, quasicon rabbia da quanto era grave quel dolore che mi opprimeva;sulle mie esili spalle sentivo gravare come un grande peso; e lamia schiena era curva come quella di un pettirosso ammalato-si dopo un violento acquazzone. Indossai nuovamente lamaglietta grigia e rientrai nella mia cameretta.

Dall’armadio beige presi gli abiti, gli indumenti necessari pervestirmi al fine di andare a scuola. Mi accorsi subito di esser-mi vestita nello stesso modo del giorno precedente (questoanche perché non avevo molte possibilità di scelta): portavo imiei soliti jeans celesti che mi andavano un poco corti, e che,per quanto erano stati usati, avevano assunto un colore moltopiù vicino al bianco e la mia consueta camicia rosa con dellerighe di un colore più intenso forse fucsia. Notavo che questa,nei polsi, era leggermente sdrucita e consumata.

Raccolsi il vecchio zaino fuori moda nel posto in cui lo met-tevo abitualmente. Uscii dal portone, curandomi di non esse-re scorta da nessuno, anche se, a dire la verità, forse mio fra-tello doveva essere già uscito da qualche minuto. Lui aveva,

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infatti, trovato un piccolo lavoretto che gli permetteva di gua-dagnare i soldi necessari per soddisfare i suoi effimeri piaceri.

La strada che conduceva alla scuola era davvero molto lungae le mie gambe erano troppo deboli e scarnificate per riuscirea sostenerla, a sopportarla senza provare fatica. Era una lungasalita, anche se la pendenza era abbastanza leggera. Essa ora-mai, per il numero infinito di volte che l’avevo percorsa, miera venuta a noia e mi provocava sempre un senso di profon-da nausea. Mi rievocava tutti i tristi e solitari ricordi, i pensie-ri poco lieti che in quegli anni avevo provato.

Prima di tutto dovevo attraversare una lunga fila, una schie-ra serrata di abitazioni dalle pareti ingiallite, che apparivanocome alti uomini smagriti colti da un forte attacco d’itterizia.Poi, proseguendo ancora in quel tragitto, emergevano unaserie di piccoli negozietti che avevano tutta l’aria di esserevicini al fallimento: il tabacchino dall’intonaco cadente da cuiuscivano ragazzi e ragazze con in mano avidi pacchetti disigarette, l’edicola di proprietà di una donna adiposa, il labo-ratorio di un ciabattino, un piccolo omettino, piccolo, grigio emagrissimo dagli occhiali grandi e opachi.

Seguendo quel percorso si arrivava poi in una zona un po’meno periferica e degradata della città, là dove le attività bor-ghesi seguivano uno sviluppo più ordinato e avevano unaspetto più ricco e consolante alla vista. Avevo però in partico-lare antipatia, quasi in odio una piccola pescheria dall’aspettopulito all’esterno ma da cui promanava, da cui si diffondevasempre un puzzo, un tanfo insopportabile e disgustoso.

Il mio cuore cominciò a pulsare violentemente, il mio corpoa barcollare nel momento in cui vidi quell’ultima salita, quel-la secca erta che mi avrebbe portato direttamente dentro lascuola. Rabbrividii nel vedere quei muri di colore rosso cupo.Davanti ai miei occhi sorsero, comparvero le scritte gigantied oscene che erano state marcate da qualche vandalo. Ioancora mi stupivo davanti a quell’immensa volgarità; stenta-vo ancora a credere che potessero esistere persone di quelgenere. Si levò quindi un certo scoraggiamento nel mio

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animo e fui persuasa, ritenni vero che tutti gli esseri umanifossero fatti in quel modo e forse anche io lo ero, forse ero solouna repressa, nient’affatto migliore degli altri.

Quelle immense scritte, quelle bestemmie disegnate con trat-to rozzo e malfermo mi umiliavano, mi toglievano le ultimesperanze, l’ultimo residuo di dignità che pensavo di possede-re ancora.

Ora ero vicina alla scuola e fui travolta dal temuto boatodella folla, da quell’intenso chiacchiericcio che mi faceva sen-tire smarrita. La ressa, la calca era enorme. Ero schiacciata daquella marea, da quella fiumana di persone sconosciute. Poi ilcaldo, quel tempo afoso di una mattina di metà giugno acui-vano in me il senso di estraneità e di solitudine che portavodentro.

Quella particolare atmosfera umida che caratterizzava lacittà di K. in quei giorni era veramente terribile e non mi davaalcuna rassicurazione.

Io conoscevo a malapena i miei compagni di scuola, li vede-vo raggruppati, ammassati in un punto molto distante. Nonavevo certo il coraggio di avvicinarmi a loro; non mi volevofare osservare dai loro occhi, dai loro sguardi irridenti edindagatori.

Compresi subito di avere camminato troppo in fretta, avevo,infatti, già l’affanno. Freneticamente, convulsamente mi eromossa e, in tal modo, ero arrivata in anticipo e dovevo soppor-tare, subire una lenta e crudele agonia: quella che sempre perme era l’attesa di alcuni minuti prima dell’inizio delle lezioni.

Mi guardavo intorno con aria turbata e istupidita, anche seun po’ mi ero abituata a quello spettacolo. Vedevo quelle com-pagnie allegre e smaliziate che sapevano tutto di tutto, e, daun lato invidiavo quella sicurezza che loro possedevano, quel-la padronanza dei propri sentimenti, ma sapevo anche, nellostesso momento, che se avessi ascoltato veramente i lorodiscorsi ne sarei rimasta impressionata negativamente e maivi avrei voluto partecipare.

La campanella dell’ingresso, all’improvviso, suonò, proprio

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quando non mi aspettavo più che accadesse. Il cuore mi balzònuovamente nel petto, e tutte le paure che avevo a lungo cova-to nella sera e nella notte precedente ritornarono con prepo-tenza.

Rallentai volutamente il passo, in modo tale che tutti entras-sero prima di me. In effetti fui una delle ultime persone che lofecero insieme ad un ragazzo dai capelli bruni e una ragazzadai capelli biondi e sottili.

Avanzai nei corridoi unti e maleodoranti dai colori smorti.Vidi in fondo ad uno di essi l’aula dove si trovava la mia clas-se. Capii che tutti gli altri miei compagni dovevano essere giàarrivati. Questo mi mise in ulteriore agitazione, e questononostante cercassi di calmarmi e mi ripetessi che non eraniente, che era inutile prendersi tanta paura per un episodiocosì insignificante.

Ma il mio cuore non seguiva le indicazioni del cervello e tre-mai nel varcare quella soglia con lo sguardo attento e prontoa tutti coloro che mi avrebbero osservata. La mia paura, in unprimo momento, mi parve infondata: nessuno mi salutò, nes-suno s’era accorto di me ed io mi tranquillizzai e andai adoccupare il mio posto che si trovava proprio nel primo bancodella fila centrale. Non avevo avuto negli ultimi due anni néun compagno né una compagna di banco.

Ero proprio sul punto di sedermi quando, all’improvviso,udii un urlo alle mie spalle.

“Buu!” aveva gridato un mio compagno. Non capii chi fossestato. Io mi girai con il viso atterrito dalla paura e dallo sgo-mento e quel mio sentimento doveva apparire veramentemolto divertente a quel gruppo di giovani. Questo in quantotutta la classe ne rise mentre io mi facevo sempre più piccolanella mia sedia, cercando di non pensarci.

Un’altra ben più grande tortura prese allora inizio: quelladell’attesa del professore. Lui non tardò ad arrivare, io miauguravo che non venisse per non dovere essere interrogata,ma non fu così.

L’uomo dal corpo magro ed allungato entrò in perfetto orario

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con i suoi capelli corti leggermente grigiastri e gli occhialonidalla montatura in osso, con il suo sguardo perennemente alte-ro e corrucciato.

Non che io lo considerassi come una persona malvagia o cat-tiva. Non era proprio questo il mio pensiero su di lui, anzi iolo ritenevo un uomo cui mi sentivo molto vicina, più di tuttele persone che conoscevo.

Era una persona seria e giusta, ed io ammiravo il mio profes-sore e avrei voluto che mi notasse, che mi stimasse, che fosseorgoglioso di me, che mi amasse, che mi volesse bene, ma ionon ero, purtroppo, molto dotata negli studi, non ero moltointelligente, e quindi le mie premure, i miei sogni non eranoricambiati che da un gelido e distaccato disprezzo.

Lui entrava in classe ora col suo fare algido, come di una per-sona che c’è l’avesse con il mondo intero. Per qualche minutoancora si fece silenzio nell’aula, poi l’uomo fece lentamente ilsolito appello. Gli alunni rispondevano distrattamente o conun tono ironico e provocatorio, privo di qualsiasi rispetto.

Sentii che l’atmosfera si era come raggelata, agghiacciataquando vidi che il professore chiamava per l’interrogazione.Io cercavo in qualche modo di nascondermi nel mio banco, mami trovavo certamente nella peggiore posizione per tentare untrucco, un espediente di quel tipo.

Speravo che non mi chiamasse, ma non c’era niente da fare.Mi aveva già chiarito che per essere promossa avrei dovutoprendere una sufficienza, una almeno nella sua materia.

Mi chiamò, infatti, insieme con altri tre miei compagni. Io mitrovavo nel lato in cui s’ergeva nera la lavagna insudiciata dalgesso. Al mio fianco vi era Bruno, un ragazzone molto alto egrasso dai capelli rossastri e dai modi volgari e maleducati.

«Tanto ti boccia» mi disse acidamente, piegandosi verso dime, io avvertii il nauseante sapore di salame della sua bocca;io evitai accuratamente di rispondere.

Mi trovavo ovviamente in uno stato di panico completo e tota-le. Il giorno prima non avevo toccato il libro ed era difficile, inpratica impossibile che riuscissi a recuperare le mie insufficienze.

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Iniziarono le domande, che veloci mi turbinavano, mi cir-condavano in ogni lato, ed io ero solo in grado di balbettarequalche monosillabo, qualche miserevole risposta. Il profes-sore mi guardava molto arrabbiato, ma senza fare commen-ti, evidentemente lui s’aspettava che fossi pronta, ma pur-troppo, non lo ero.

Gli altri, anche se non erano per nulla preparati, erano com-pletamente disinteressati dall’ottenere un qualsiasi risultato.Mi vennero ad un tratto spontanee lacrime agli occhi, mentrela testa continuava a vorticarmi e le gambe avevano preso atremolare in maniera impercettibile. Mi vergognavo e cercavodi nascondere quella mia sofferenza, quel mio dolore a quellepersone che erano incapaci di potermi comprendere.

Il mio imbarazzo era, in verità, ingiustificato perché nessunonella classe sembrava realmente preoccupato di quello cheaccadeva. Vidi, infatti, che un gruppo di miei compagni ron-zava intorno a Vanessa, la ragazza più corteggiata della clas-se. Lei era circondata dai suoi ammiratori, in quel gruppo sifacevano battute sporche e sottintese. Qualcuno provava afare la corte alla ragazza e sembrava anche riuscire ad ottene-re in quel senso qualche risultato.

Quella scena mi fece pensare ad un gruppo di animali inca-loriti, privati del cervello, come se fossero bestie che possede-vano solo il corpo, private del tutto di una qualsiasi parvenzadi anima o di cervello.

Tornai finalmente nel mio banco, sconfitta, estranea, stranie-ra a tutto e tutti. Era come se mi sentissi svuotata con quelgrande male al capo che mi estenuava. Ogni parola, ogni frasemi turbava violentemente, i nervi mi erano scoperti e impaz-zivo dal dolore.

Bruno tornando nel suo banco, mi spintonò e mi guardòcome per dire:

«Sei solo una femminuccia piagnucolosa» e sentii che cadevoin un abisso ancora più profondo.

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III.

Ero tornata a casa, accompagnata da un terribile sole roven-te. Avevo in tutta fretta consumato un pasto molto grasso epesante a base di carne. Non riuscii a digerirlo, a tal punto che,subito, provai un forte dolore, un’intensa pressione all’altezzadello stomaco.

Durante il pranzo avevo attentamente nascosto ogni miominimo sentimento, come peraltro io facevo sempre. Con miamadre non avevo mai parlato seriamente. Noi due non erava-mo mai entrate in confidenza, anche perché le sue capacitàintellettive, in quegli ultimi anni, erano diminuite in misuraprogressiva e sensibile.

Ora lei era capace solo di esprimersi gridando, con le più vol-gari ed oscene espressioni che era possibile immaginare.

Dopo il pranzo mi recai velocemente nel bagno. Presacom’ero da quel profondo disgusto e da quell’acceso senso dinausea per quel cibo troppo pesante, vomitai lungamente econ un lieve sollievo.

Mi parve che in quel rigetto, ma non ne ero troppo sicura, simescolasse, si combinasse anche del sangue.

Rientrai nella mia stanza e solo allora avvertii, compresi qualera la mia situazione effettiva. La realtà mi si rivelò intera, miera finalmente chiaro tutto quello che mi era accaduto.

La coscienza della verità fu così istantanea e lancinante, cosìrepentina che quasi non mi rendevo conto di come, in pocotempo, fossi precipitata in quell’abisso. Era come se la terraavesse preso a tremare, come se una potente scossa telluricaavesse fatto crollare le mie ultime illusorie ragioni di vita, lemie malferme certezze.

Solo in quel momento mi resi conto di quanto fosse perfetta-mente inutile e superflua la mia esistenza. Non avevo un’ami-ca, nessuno con cui confidarmi, non avevo conoscenze. Tantonello studio quanto nel lavoro non avevo speranze, non vede-vo alternative a quella situazione in cui mi ero impelagata.

Già nella mia immaginazione compariva il tabellone degli esiti

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scolastici e senza alcuna fiducia avrei osservato il mio nome ecognome accompagnato dalla scritta: NON PROMOSSA.

Sentii che la pelle mi bruciava, mi scottava. Nel mio cervel-lo divampava un incendio, una vampa bruciava, mi laceravai pensieri, era così forte da arrivare a mangiarmi, a divorar-mi il cuore.

Mi addormentai e piombai subito in un sonno lungo e convul-so da cui mi svegliai ancora più debole e spossata di prima. Unsonno traversato più che da veri e propri sogni, da orride visio-ni. Era come se qualcuno mi svuotasse d’ogni energia e poi miabbandonasse, mi lasciasse sola in una crudele disperazione.

Mi risvegliai completamente, solo quando era oramai pome-riggio inoltrato, forse doveva essere già sera. Restai ferma inquella posizione supina per diverse ore, anche se non avevoallora un’esatta coscienza, cognizione del tempo che scorreva.Forse, pensai, che dovevano essere già le sei o forse addirittu-ra le sette, il clima mi apparve ancora molto afoso.

Sentii di nuovo, allo stesso modo del giorno precedente, lanecessità impellente di dovere uscire, di dovere andare via daquel luogo immediatamente. Non potevo rimanere un minu-to di più all’interno di quell’angusta abitazione, non era pro-prio possibile.

Per questo strano ed irrefrenabile impulso non mi cambiainemmeno, e rimasi con la mia maglietta un po’ sdrucita e condei pantaloncini corti di colore blu scuro. In realtà mi mettevain imbarazzo vestire in quel modo ma non ci feci troppo casoforse anche perché in questo modo accrescevo le torture cuisottopormi, davo sfogo a quel sentimento di autodistruzioneche mi possedeva.

Anche questa volta avrei dovuto superare il giudizio di miamadre. Lei, allora, era intenta a guardare un programma tele-visivo. Il presentatore, un tipo dal viso congestionato e dagliocchialini ovali, gridava senza freni.

Una coppia di persone dalla soddisfatta e ricca aria borghe-se rispondeva ad una domanda dello stesso. Alla rispostaesatta il conduttore si lasciò andare ad uno strano urlo:

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«Aaaaahh!» mentre il suo corpo si piegava fin quasi a sfiora-re il suolo dello studio televisivo.

Credevo di essere scampata al controllo del mio cerbero, inquanto la sua attenzione sembrava distratta da quel program-ma, ma mi sbagliavo. Vedendomi, infatti, disse:

«Dove stai andando?» con un tono arcigno e severo.Io riproposi la risposta che avevo dato il giorno precedente:«Devo andare all’edicola per acquistare un giornale.»«Non me la racconti giusta» disse la donna «mi sembra una

grande cazzata» io sentivo allora mescolarsi orribilmente in leiil lezzo del sudore con l’acre miasma dell’alcool.

Lei allora scoppiò in un inconsulto scatto d’ira. Così disse:«Sei solo una puttana, con chi devi andarti a prostituirti que-

sta volta» le sue mani si muovevano violentemente davanti almio viso «non dovevo lasciarti tutta questa libertà.»

Nonostante quella predica mia madre ritornò a sprofondarenel suo divano ed io potei svignarmela sgusciando via dalportone di casa.

Oramai io ero talmente distrutta e disperata che non provaipiù un senso di umiliazione. Niente avrebbe potuto farmicadere più in basso di dove ero arrivata, eppure in quello sco-ramento, in quella pena, in quel tormento conservavo unaforma di sventurato orgoglio, una misera fierezza per cui eroattraversata, a tratti, da un sottile piacere.

Nel momento in cui raggiunsi la strada, io decisi di percorre-re le consuete strade in cui passavo, in cui mi muovevo. Poiuna bizzarra idea mi venne, mi giunse alla mente e mi mossiverso una stradina in cui per un timore innaturale ed inspie-gabile non avevo osato transitare.

In quel vicolo ostile ed oscuro sorgeva un piccolo bar, unlocale non troppo nuovo in cui l’insegna reclamizzava unamarca di caffè forse non più in commercio da molto tempo.Davanti ad esso provavo una forte soggezione, eppure sen-tivo contemporaneamente il desiderio nervoso e convulso dientrarci. Il respiro mi si fermava a quell’idea ed ero incapa-ce anche del minimo movimento, ma, ad un tratto, presi la

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decisione, ineluttabilmente, irrevocabilmente, e mi trovaiprecipitata dentro al bar.

Mi mossi tremando visibilmente in direzione del bancone.Ero circondata esclusivamente da uomini, la maggior parte dimezza età. Tutti, nessuno escluso, avevano un’aria malsana etrasandata, e dovevano essere anche mezzo ubriachi in quan-to bevevano sregolatamente da bottiglie di birra di vetroverde e dal collo strozzato.

Ero in grande imbarazzo ed ora ero già pentita di avere com-piuto quell’atto, ma non potevo andarmene senza prendereniente. Con il viso che mi s’imporporava dalla vergogna dissi:

“Vorrei un bicchiere d’acqua” anche perché era l’unica cosache ero sicura di potermi permettere.

Il barista, un uomo dal viso largo e scavato e dalle sopracci-glia molto folte, mi scrutò, mi osservò attentamente con il suosguardo profondo ed inquietante.

«La vuoi gasata?» mi disse strofinandosi le mani in un grem-biule dall’apparenza poco pulita. Quel tono di voce ebbe su dime un effetto molto strano; mi sentii quasi offesa per quelleparole. Mi venne una gran voglia di piangere.

«No, la vorrei liscia» allora io affermai, ma avevo parlatoquasi sottovoce, in un lieve sussurro appena. L’uomo, infat-ti, replicò:

«Come?»«Liscia, la vorrei liscia» e mi sembrò che quella combutta di

beoni, quella congrega di uomini avvinazzati si fosse scossadal torpore. Mi parve di avere allora tutti gli occhi, tutti glisguardi addosso. Ora mi imbarazzavo, mi confondevo, miturbavo. Non sarei proprio dovuta entrare in quel locale conquella vecchia maglietta addosso dove erano riprodotti perso-naggi di un cartone animato.

Ero smaniosa, impaziente di uscire, di liberarmi da quell’in-cubo. Volevo trangugiare, bere in un solo fiato tutto il bicchie-re d’acqua. Volevo proprio farlo il più velocemente possibile,ma non volevo dare nell’occhio e per questo bevvi con unalentezza incredibile.

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Non avevo più neanche il coraggio di alzare lo sguardo. Nonvolevo vedere le facce di quegli uomini. Terminai quindi lamia consumazione e uscii lentamente dal terrifico bar, mentreudivo che uno strano ed animato vociare si era prodotto, si eragenerato alle mie spalle al mio raggiungere il grigio marcia-piede sconnesso.

Ebbi il pensiero che la combriccola di bevitori stesse parlan-do proprio di me. Cercai di capire, di comprendere quello cheloro dicevano, ma non vi riuscii.

Ora ero già nella strada, nel piccolo e nascosto vicolo dellaperiferia. Avevo il desiderio di correre, di fuggire via, ma nonlo feci. Mi pareva che le gambe non rispondessero a quelcomando della mente. Mi sentivo affranta, esausta, sfinita. Miaccorsi che in prossimità del bar vi era un esiguo, un ridottospazio verde che mi diede un nuovo e misterioso senso diinquietudine in quanto esso appariva sordido e lercio.

In quel momento ebbi coscienza che qualcuno dal bar miaveva seguito. Mi voltai e vidi davanti a me un ragazzo moltoalto, forse anche un metro e novanta, che indossava unamaglietta grigia che gli usciva dai jeans azzurri stracciati.Portava dei capelli bruni molto scompigliati. Aveva uno sguar-do feroce, cattivo, in quegli occhi che apparivano di un coloreverde molto torbido e caliginoso.

Sembrava proprio che c’è l’avesse con me. Era solo un dubbioma che trovo presto conferma quando l’uomo disse:

«Ehi, tu! Dico a te!»Io non risposi, innaturalmente intimidita, spaventata da quel

ragazzo dal viso sporco ed angoloso. Lui, io notai, si appressa-va, si accostava sempre di più a me.

«Ehi, non ti mangio mica» disse lui in risposta al mio silenziorilasciando le mascelle in una tremenda risata. Io ebbi inveceproprio quella sensazione, che mi fece rabbrividire, rendendo-mi incapace anche del più ridicolo movimento.

«Sì» replicai, sperando che me la sarei cavata in pochi secon-di. Forse aveva solo bisogno di qualche spicciolo. Io glieloavrei dato e tutto sarebbe finito in quel modo.

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«C’è l’hai il ragazzo? Eh!» disse lui.Io risposi di no, facendomi ancora più piccola, arrossendo da

quella domanda imprevista ed imbarazzante.Non ebbi coscienza di come ciò accadde, ma lui era riuscito

a portarmi proprio all’interno di quel piccolo spiano in cuicresceva una lugubre vegetazione d’erbacce varie. Lui, muo-vendo astutamente il suo corpo e le gambe, m’impediva dicamminare, di avanzare liberamente. A quel malvagio gioco,ad ogni piccola vittoria che lui riportava, dalla sua bocca, dallesue labbra sottili scaturiva una lieve e stridente risatina che miecheggiava ripetutamente sino al profondo dell’animo.

Lui mi strinse fino a schiacciarmi in un muro dal colorepurulento e dal terribile afrore.

Le sue mani si mossero allora violentemente sul mio corpo.Non riuscivo ad opporre resistenza in quanto la sua forza fisi-ca era enormemente più grande della mia.

Nessuno poteva vederci. Non potevo gridare in quanto luimi serrava la bocca con la sua mano brutale. Mi levò i vestitiquasi stracciandoli. Il suo respiro era ansimante. Il suo corpoaveva un odore nauseante. Mi violentò. In pochi minuti miritrovai nel suolo stordita, incapace di comprendere, di realiz-zare cosa effettivamente mi fosse successo.

Mi rivestii in fretta quando mi accorsi che i miei vestiti eranosparsi nel terreno erboso. L’uomo s’era già dileguato e forseadesso già raccontava con vanto della sua impresa. I suoi com-pagni del bar, io pensai, che ora si complimentavano con lui,gli dovevano avere offerto una birra schiumante per quelgesto di presuntuosa spavalderia.

Mi misi a piangere. Questa volta non riuscivo a frenare quellacrimare. Era un pianto nervoso, un dolore irrefrenabile. Ilmio corpo magro tremò a lungo, molto a lungo prima di tro-vare requie.

Subito alla mia mente straziata venne in mente il pensieroche mia madre aveva previsto tutto. Sì, riflettei, aveva ragionelei. In quello stato, con quella vergogna, con quello scandaloche mi attraversavano non sarei proprio potuta tornare a casa.

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Sarebbe stata un’umiliazione troppo grande proprio ora cheavevo bisogno invece di affetto, di amore e di protezione.

Mi alzai in piedi, preda, vittima della più intensa, della piùacuta, della più lancinante angoscia, del più profondo scora-mento. Dovetti lasciare con terrore i miei indumenti intimi cheil maniaco mi aveva strappato in quell’atto.

Vagai a lungo nella città, avvicinandomi in una zona più cen-trale, in una parte di essa in cui non avevo mai osato adden-trarmi prima d’ora. Entrai in strade affollate in cui giovanidallo sguardo crudele e i vestiti nuovi e profumati scorrevanoin una breve ed inquietante salita.

Mi pareva che in quel momento le mie sensazioni fosseroalterate, innaturali, falsificate; e, per questa ragione, per que-sto motivo mi sentivo oppressa schiacciata da quella fiumanadi giovani, da quella calca da cui si versavano, da cui si diffon-devano fragori, boati, rugghi che risuonavano, che tuonavanonel mio corpo squassato dalla violenza.

Uscii frettolosamente da quel clamore e mi infilai in una pic-cola viuzza che scendeva all’incrocio con un’edicola chiassosa.La testa era infiammata dal dolore. Lo sforzo per il breve scat-to, poi, mi aveva fatto rimanere senza respiro e avevo la vistaappannata, tanto che gli oggetti intorno erano divenuti per mequasi invisibili.

Montai sopra ad un mezzo pubblico, un autobus dal colorearancione. Non sapevo proprio come dovevo comportarmi. Ilmio aspetto trasandato aveva attirato le attenzioni di tutti.Alcuni ragazzi mi guardavano con un misto di ironia e desi-derio. Senza riguardo notavano con avidità l’assenza del reg-giseno al di sotto della maglietta.

Non potevo certo sostenere a lungo quegli sguardi. Volevolacrimare. Mi diressi nel fondo della vettura dove vi era unposto libero al fianco di un ragazzo con gli occhiali. Quel visomi rassicurò e mi sedetti. Doveva trattarsi di uno studente uni-versitario. Era alto circa un metro e ottanta, ed lui portava consé alcuni libri voluminosi e dalla copertina consumata. Sotto albraccio destro potevo anche individuare un quadernone, una

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copertina zeppa di fogli vergati da una calligrafia minuta emolto precisa.

Aveva un’aria altera e presuntuosa. Non badava affatto allamia presenza. Non se ne curava per niente. Era solo pieno disé. In quell’istante, io però credevo, avevo bisogno infinito diaffetto e di comprensione. Naturalmente posai il mio bracciosulla sua spalla, in un gesto di estrema afflizione.

Lui non parve però gradire quel gesto. Mi guardò con ariaviolenta e indignata, come se gli avessi sporcato in modo irri-mediabile la sua giacca elegante. Deciso, irritato levò la miamano dal suo corpo.

Mi scostai da lui e i miei occhi si colmarono nuovamente diintense e profonde lacrime di sofferenza. Scappai verso il latoopposto della vettura, cercando in ogni modo di non farminotare. Passarono alcuni tremendi secondi prima che l’auto-bus arrivasse alla successiva fermata.

Mi lanciai nervosamente nel marciapiede e presi a correrenella strada. Il mio frenetico tragitto ebbe presto termine per-ché le mie forze erano scarse. In pochi secondi ero già esaustae grosse stille di sudore mi lavavano il viso.

Camminai a lungo, riuscendo a respirare solo con difficoltà.Non comprendevo esattamente dove mi trovavo, ma non eropreoccupata per questo. Il mio pensiero era poco lucido e pre-ciso. Il caldo mi bruciava la pelle, la infiammava spietatamente.

Vidi che, nel viale soleggiato in cui mi trovavo, transitavauna vettura economica, un’utilitaria di colore celeste brillante.Per una ragione non spiegabile mi avvicinai ad essa. Dentro viera un uomo di circa quarant’anni, non troppo magro, altocirca un metro e sessanta, dai capelli corti e già con forti sfu-mature grigiastre.

Lui, vedendomi in quelle particolari condizioni, con quell’ab-bigliamento stracciato, credette che io fossi una prostituta. Loguardai con i miei grandi occhi bruni che imploravano pietà.Mi lanciò uno sguardo stupito, poi disse come per giustificarsi:

«Ho solo cinquemila lire.»Io non replicai e salii sulla macchina mentre lui mi portava in

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un lungo viale in salita, molto riparato, dove sembrava chenessuno potesse disturbare. Mi tolsi i vestiti automaticamente,in modo meccanico, chiudendo gli occhi. Lui guardò il miocorpo grigio e smagrito. Il suo piacere durò solo pochi minutiquanto il mio supplizio. Mentre lui si muoveva sopra di me, lamia mente immaginava, sognava, fantasticava di lunghe pro-cessioni funebri ed interminabili e cruente crocifissioni e altreefferatissime torture.

Non mi ricordo come, ma mi ritrovai nella strada. L’uomo miguardava con un’aria stupita per la mia indifferenza, per lamia apparente insensibilità. Mi scostai dalla vettura senza rac-cogliere i soldi che lui mi porgeva.

Per lunghi minuti ancora traversai la città di K., e questavolta i miei passi presero una direzione precisa. Mi indirizzaiverso un ponte che sorgeva nella parte antica della città. Tuttele persone lì presenti, ognuno di essi poteva salvarmi, la follaera pressante anche in quel luogo. Bastava una parola, ungesto, uno sguardo, un’insignificante attenzione.

Ogni persona si preoccupava solamente di se stessa.Salii sul ponte e mi gettai nel fiume senza nessun rimpianto.

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LE PICCOLE MANI BIANCHE DEGLI ANGELI

I.La febbre cominciò a diminuire in maniera sensibile solo

dopo il terzo giorno da quel traumatico intervento. In quellamattina di un severo e rigido gennaio, infatti, Melissa spa-lancò i timidi occhi verdi, rendendosi conto, avendo la con-sapevolezza che la sua salute andava migliorando, e sentiva,finalmente, dopo i convulsi incubi che l’avevano circondatafino ad allora che ritornava ad avere coscienza piena dei pro-pri pensieri.

Scese dal lettone di coperte rosse e pesanti di lana grezza, esi accorse subito di barcollare leggermente, e che poi la testa legirava in modo tale da renderle ancora più precario l’equili-brio. C’era un lieve freddo che fece stringere a sé le braccia allagiovane ragazza. Lei si strofinò poi le piccole mani bianche alfine di infonderle calore. A quel punto si udì nella stanza unleggero tossicchiare, e quel corpo magro e gracile ne fu scossofino a muoversi lievemente in avanti.

Melissa si fermò di fronte ad uno specchio che possedevaintorno una laboriosa cornice lignea e rugosa. Lei avevadiciassette anni, ma, per l’esile figura che ne emergeva da queipallidi riflessi, la si sarebbe detta ancora una bambina.

Scendevano fino quasi alle spalle, finissimi e delicati capellibiondi dalla tonalità scura, quasi bruna. L’incarnato roseo delviso si allargava fino al profilo minuto e ai lineamenti dolci esottili. Il suo corpo era poi magro, come se fosse smangiato,scavato da un dolore profondo ed irresistibile.

Ad un tratto ritornavano, ribalenavano alla mente i ricordi ele sensazioni di quella sera.

Prima di allora Melissa non si era mai recata ad una festa e,per questo motivo, non ne aveva che una vaga e sognanteidea, che rimaneva, restava ferma, immobile in quelle zoneindistinte ed indeterminate della fantasia.

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Johanna, la sua migliore amica, una ragazza bruna dagliocchi grandi e dalla voce squillante, era riuscita a convincer-la e le due ragazze in questo modo avevano raggiunto lagrande casa padronale che si trovava solo qualche chilome-tro al di fuori di Oakville, la piccola cittadina posta nella rivadel lago Ontario.

La sera era diaccia, gelida, aveva appena smesso di nevicare,e quei cumuli bianchi riempivano le strade e i giardini con farecupo e minaccioso. Le due ragazze videro quella possentecostruzione dall’aria classica e vetusta, mentre volti sconosciu-ti spuntavano da ogni parte, rendendo stranamente inquieto ilpasso di Melissa.

E tutta quella scena appariva irreale e fantastica, e la ragazzasi perdeva in quei soffitti alti ed irraggiungibili, e il vago silen-zio di quella comitiva di giovani le faceva colmare quel vuotocon discorsi immaginari.

Le cose accadevano allora senza un senso apparente e com-piuto; e quel freddo pareva rendere inerti anche i pensieri ele sensazioni.

Lei non comprendeva come, ma un ragazzo, avesse un nomeo meno questo rimase per sempre un mistero, si avvicinò a lei.Lui era alto e robusto con un cappello beige da cowboy cheimpediva alla ragazza di poterne vedere gli occhi, di osservar-ne lo sguardo, e indossava anche grossi stivali di pelle intar-siati e lavorati con precisione. Lui aveva iniziato a parlare conlei, anzi forse non aveva in verità pronunciato alcuna parola,era solo il fatto che lui muovesse il corpo in modo lento,ondeggiando, creando in questo modo, un ritmo ripetuto dionde ipnotiche.

Melissa non ne era consapevole di come ciò fosse accaduto,ma si era lasciata convincere, persuadere a salire nel pianosuperiore, ed ad ogni passo che lei muoveva, sentiva il freddo,quel gelo particolare crescere dentro la sua anima solitaria.

Aveva allora la confusa e fuggevole volontà di tornare indie-tro, di rimanere, di trattenersi nel piano inferiore, di non muo-versi, di indugiare nell’indecisione, e le parve con esattezza

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che solo una parte di sé, ignara ed inconsapevole, si arrampi-casse su quei larghi gradini nodosi. Si vide come se si fossesdoppiata e le parve proprio che la persona che saliva salutas-se la parte che restava, come a dire:

«Ciao, ci vediamo dopo!», ma in maniera timida e ritrosa,come per non farsi notare troppo dalle altre persone che lìerano presenti.

La porta di una stanza si aprì, si schiuse, poi si richiuse. Solouno scatto mentre dalla finestra arrivava la tenebra indistinta,Melissa provò nel suo animo adolescenziale un serrato terro-re, avrebbe voluto dire:

«Abbassate la serranda, chiudete le tende, per favore.» manon uscì una parola dalle sue labbra sottili e rosee. C’era fred-do, c’era freddo in quella stanza e le parole le si ghiacciavanonella gola, le si fermavano proprio lì, senza che riuscissero amuoversi, sospese, imprigionate, e trasalivano, si impauriva-no, tremavano come, nella stessa misura in cui tremava il pro-prio corpo.

Lui si spogliava, il suo corpo era del colore del bronzo, colmodi strie nere. La guardò come per dire:

«Vuoi?» ma senza parlare, senza rompere quel cupo, terrifi-co silenzio, con solo un accenno dello sguardo, una lieveinflessione del viso.

Melissa annuì dallo sguardo timoroso, come obbedendo adun ordine, ad una richiesta che non si possa rifiutare. Le manidella ragazza si mossero meccanicamente ad aggiustare icapelli all’altezza dell’orecchio.

Tutto avvenne velocemente, inconsapevolmente, senza cheMelissa riuscisse a comprendere ciò che effettivamente fosseaccaduto. Le lenzuola erano fredde, il cuscino era freddo, illetto di ghiaccio, quelle mani scavavano caverne sotterraneenella sua anima. Tremava, tremava la ragazza, sempre di più,e lei non voleva, non voleva sentire freddo.

L’uomo si scostò ansimante da lei e ricalcò subito sul capo ilcappello da cowboy, celando ancora in questo modo il suo volto.Una sigaretta brillò fra le sue mani, le lunghe spirali del fumo

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volteggiavano nella stanza, Melissa non riusciva a respirare.L’uomo uscì dalla stanza, Melissa si rivestì in fretta, starnutì

rimanendo per qualche minuto sotto le carezze delle dolcicoperte colme di calore, per cercare di fare andare via quelfreddo che la atterriva tanto.

Melissa continuò a camminare, uscendo dalla sua piccolastanza, con le gambe che le tremavano, con un passo ondeg-giante, con sempre la paura di dovere inciampare in qualsia-si istante.

Era ancora molto presto, in quella mattina. Melissa, lenta-mente, si spinse fino alla cucina. Udì il silenzioso vociare dellestoviglie candide, che si stringevano freddamente sopra ad unasciugatoio dalle grate in parte cupamente arrugginite.

Il becco lucido e metallico del lavandino brillava di una lumi-nescenza malinconica e sconsolata, in quella scena che appari-va completamente silenziosa ed immobile.

Si avvicinò fino alla porta che si sporgeva all’adiacente giar-dino che era bianco della gelida neve che era finora caduta. Equell’immagine parve alla ragazza come un deserto, comeun immenso deserto di ghiaccio che la faceva tremare di uninusitato ed innaturale terrore. Inerte osservava il modo incui si riverberavano su di esso le prime luci diurne, che sispandevano con quella particolare inclinazione che, ad untratto, scatenava un’emozione improvvisa e violenta sull’ani-ma della ragazza.

Riprendeva in quel modo il fiume dei ricordi. Ora con esat-tezza matematica rammentava ogni fatto che le era capitato tregiorni prima.

Lei, dopo lo spiacevole ed inquietante episodio della festa,aveva raccontato tutto alla sua amica; era riuscita infine a con-fidare a qualcuno il suo dolore, che in quel momento le simostrava così grande da essere difficile da sopportare.

Scoprì dopo qualche tempo di essere incinta e questo episo-dio tese a farla smarrire ancora di più. Oscuri e precedenti

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terrori ora coglievano la sua psiche adolescenziale, crudeltàataviche e misteriose riemergevano da un passato non dimen-ticato e non chiaro allo stesso modo. Era come se un mostro,un feroce animale dalle taglienti mandibole divoratrici la ser-rasse al collo.

Johanna, osservando la violenta reazione della sua miglioreamica, riuscì a convincerla ad abortire, e in modo tale che nes-suno mai ne sarebbe venuto a conoscenza.

Pensava con timore Melissa al padre, a quell’uomo austero etaciturno, dalle risposte laconiche e fredde, dalla voce cosìcupa da apparire priva di una benché minima emozione.L’uomo faceva il taglialegna da più di quarant’anni, era ora-mai un uomo anziano. Vestiva sempre indossando un lungo epesante giaccone a scacchi rossi e neri. Si nutriva esclusiva-mente di una strana zuppa che preparava una volta la settima-na e che succhiava lentamente da un lungo cucchiaio argenta-to. Non parlava mai, era chiuso in un’immobile e misteriosasolitudine, con quella sua barba lunga e ispida.

Non c’era alternativa, l’unica cosa che poteva compiere eral’aborto, anche se, in verità, la ragazza non si rendeva esatta-mente conto di quello che era stava facendo. La notte non riu-sciva più a dormire regolarmente, così scossa, agitata da unprofondo tormento interiore, in incubi oscuri in cui, inseguita,era poi azzannata, morsa, lacerata, violentata nell’intimo.

Vedeva a volte un uomo, vedeva un uomo molto alto e nero,senza volto, e quest’uomo immobile ed indifferente a tutto, atratti, rilasciava le mascelle in un’orrida e sardonica risata, eMelissa sapeva che quell’uomo rideva, rideva di lei, e lei sisentiva umiliata, atterrita, annichilita.

Melissa e Johanna partirono una mattina in gran segreto perla vicina e ricca Toronto, città, colma nel suo seno di varie cli-niche abortiste.

Le due ragazze furono imbottigliate, paralizzate in un lungoautoveicolo dai riflessi argentati, in una corriera di una famo-sa ditta privata, il cui nome risaltava in una scritta grande daicaratteri appariscenti ed azzurrini. Ricordava Melissa che

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anche allora c’era quella luce fredda, quella luce terribile, chepareva allargare gli spazi e le dimensioni fino a raggiungere ilimiti dell’infinito.

Il viaggio fu una lenta e feroce agonia, i tremori non inter-rompevano di scorrere nel corpo magro ed affilato dellaragazza dai capelli biondi e sottili, fra il cigolare del veicolonella carreggiata e le chiacchiere alienanti dei passeggeri cheportavano Melissa ad una inverosimile inquietudine, e in quelmomento non era sufficiente, non bastava la presenza dellasua amica per poterla consolare.

La ciclopica Toronto si presentò tremenda alla giovane fan-ciulla, come un gigante senza testa e privo dell’anima, con ilunghi grattacieli smisurati e brillanti dalle finestre a specchie-ra, con le fiumane di persone indaffarate ed indifferenti cheimpedivano il cammino.

Melissa non possedeva di certo i soldi necessari per rivolger-si ad una clinica ufficiale, la sua era una famiglia di estrazionemolto povera, e, per questo motivo, aveva dovuto rivolgersi,grazie all’intercessione dell’amica, ad un locale ufficioso incui, in modo assolutamente illegale e clandestino, si praticavauna grezza e tremenda tecnica d’aborto.

Questo pseudo studio medico era posto nella periferia dellacapitale della regione dell’Ontario, ed era gestita da un loscoindividuo, da un furfante dalle quattro cotte, il professor DeOliveira, un mediocre chirurgo brasiliano, affamato di denaroe di successo sociale.

Lui, oltre a gestire una lussuosa e raffinata clinica per gliaborti, che un ardito spot pubblicitario aveva reclamizzato alungo nelle televisioni locali, aveva creato in quella malsanastamberga antigienica, un locale per coloro che non si poteva-no permettere la prima. Questo in modo tale da potere soddi-sfare compiutamente le diverse fasce di domanda che il mer-cato poneva.

Johanna e Melissa, senza dire una parola fra di loro, avevanovarcato la porta e avevano raggiunto, assieme ad altre ragazzemute dalle occhiaie nere e dai volti dolorosi, la lugubre sala

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d’attesa scarsamente illuminata, attendendo ansiosamente ilproprio turno.

I muri erano scrostati e livide macchie d’umidità urlavanonegli angoli, il pavimento era formato da piastrelle verdi diridotte dimensioni, serrate e dal colore stinto, si potevaimmaginare che fossero state impiantate circa venti o trentaanni prima.

La ragazza salutò Johanna, che le strinse con affetto la manoin una lieve pressione. Il suo sguardo delicato allora si mossein direzione di un’indistinta fosforescenza bruna la quale pro-veniva, baluginava dal fondo del corridoio scabro dall’acuto eintenso odore di alcool denaturato e di ospedale.

Da una lercia e maleodorante toilette Melissa vide uscireun infermiere. Con stolida indifferenza quell’uomo si abbot-tonava davanti a lei un paio di calzoni grezzi di colorescuro. Entrò nella sala colma di un lungo e ripetuto bisbi-gliare di voci confuse. Sentì il desiderio di fuggire, di scap-pare, ma la sua volontà era così tenue che rimase in quelmoto inerte che la conduceva verso l’orrore. Sentì di prova-re molto freddo ed ancora lei si stringeva dentro ad unagiacchetta di lana nera traforata.

Sembrava che nessuno badasse a lei, che nessuno si fosseaccorto della sua presenza, lei camminava pudicamente senzaparlare, come sperando che l’avrebbero rimandata indietro,come se si fosse solo trattato di un errore e tutto quello che oraviveva non fosse altro che un brutto incubo da cui risvegliarsial più presto.

Ma, improvvisamente, qualcuno si accorse di lei, era un infer-miere dal corpo tozzo e dagli occhiali ingialliti. Lui bruscamen-te le ordinò di sdraiarsi in un lettino con uno sguardo scontro-so, come se avesse appena interrotto il suo divertimento ed orala guardava con odio e una profonda ansia di vendetta.

Vide, come in un incubo lucido di perfetta percezione, queitremendi ferri muoversi nella semioscurità, in quel buio spez-zato solo dalle fosforescenti luci della gretta sala operatoria, ivolti indifferenti ed ironici degli infermieri, i loro sguardi

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sicuri, le mani grosse, rozze e umide di liquidi purulenti.Proprio in quel preciso istante ebbe inizio l’intervento.

L’iniezione sottocutanea di un liquido biancastro che le fufatta nel suo braccio destro avrebbe dovuto fare in modo cheMelissa non sentisse niente e non provasse dolore. Eppure laragazza fu subito preda di uno strano accesso di coscienza, eciò che non avvertiva, allora lo immaginava attraverso orridevisioni. Questo fatto determinò che Melissa fu consapevole,cosciente di ogni atto che era compiuto violentemente sul suocorpo con utensili medici vetusti e rugginosi.

Una particolare sensazione sgradevole e molesta prese adavvolgerla: era come se una persona malfida e malvagia lastringesse nel collo sottile, e nonostante udisse il suo grandedolore, i suoi lamenti ripetuti, le lacrime d’implorazione, noncedesse a quella sadica crudeltà e, beffardamente, conducesseancora il gioco verso mete più lontane e violente.

Ebbe la sensazione, il sentore Melissa che il feto era statotratto fuori dal suo corpo dilaniato e sanguinante. Nella salachirurgica allora non si udiva altro rumore che quello dellosferragliare degli strumenti medici e lo strofinarsi delle manidegli infermieri.

Prima che iniziasse la seconda fase dell’operazione, che con-sisteva nel raschiamento del corpo della ragazza, un’infermie-ra adiposa dal fare compiaciuto dovette probabilmente pren-dere in mano l’aborto.

Da quella distanza e con quella scarsa luminosità intornoera difficile distinguere o comprendere qualcosa di precisodi ciò che accadeva. Eppure Melissa notò quella particolareespressione che passava nel volto della donna, quella cinicaironia, quel malsano senso di superiorità del forte contro ildebole che contribuì ad accrescere il senso di scacco e di umi-liazione della ragazza.

La donna allora disse:«Ecco, bistecche per i miei cani» con un tono sboccato

e divertito.Una grassa risata ebbe allora eco nella stanza. Vide Melissa

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uomini che si tenevano la pancia prominente con ilarità enotava il brillare delle fedi grosse ed auree, il rifulgere degliorologi di metallo, dalle catenine, dei bracciali, lo sventolaredelle cravatte, il torcersi delle gonne e altri mille piccoli parti-colari e minuti dettagli che ora rendevano quella saletta ani-mata similmente ad una bolgia molteplice e ridondante.

La luce gialla che restava sopra di lei cominciò in quelmomento a pulsare, a vibrare leggermente fino ad assumereun’inaspettata densità e corposità insieme. Melissa ora fupreda di un senso d’angoscia e di agitazione. Non vedeva l’orache quel supplizio terminasse e il suo corpo provato e dilania-to s’irrigidiva e si rendeva più sottile e fragile.

Qualche minuto dopo la ragazza, pallida e barcollante siripresentò nella sala d’attesa dove fu presto raggiunta dal-l’amica, che, vedendola in quel particolare stato, provvide pre-sto a sorreggerla.

«Come è andata?» chiese.«Bene» rispose la ragazza quasi sottovoce.«Bene» ripeté, ma era come se lei non fosse presente in quel-

la stanza.

II.

La realtà ora si dipingeva come dietro ad un velo di lacrime,mentre Melissa posava la sua mano nel pomello della portache si riversava nel piccolo giardino innevato. La ragazzaindossò una lunga vestaglia consumata che era appartenutaalla sua defunta madre, e decise con timore di uscire all’aper-to per farsi avvolgere dalla brezza gelida del mattino.

Lei avanzò lentamente fra i vialetti coperti da collinette dineve candida e lunghe lastre di ghiaccio. Melissa sfiorò con ledita la corteccia liscia e compatta di un arbusto dal taglio sot-tile, rigato solo da alcune venuzze lignee.

Quel freddo era veramente troppo intenso e lei fece ritorno

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nella sua casa, con un senso di nausea che le sopraggiungevaallo stomaco. Chiuse la porta e ristette ad osservare il paesag-gio candido ed intatto con il turbine del vento che spazzava lestrade e i rami degli alberi spogli.

Ad un tratto la ragazza sentì che stava intervenendo un cam-biamento, ebbe la sensazione che il suo corpo prendesse calore,come soggetto alla sferza di una febbre imminente. Il sole oraaveva preso a slargarsi nello spazio e la sua luce si era fatta piùintensa ed armoniosa, e le nuvole che prima la accompagnava-no, ora timorose si scostavano a quell’improvviso contatto.

La scena pareva assumere una dimensione fantastica edirreale. Alla ragazza parve di entrare coscientemente in unsogno o meglio in una bizzarra allucinazione prodotta dallasua mente, che in ogni modo non era per questo meno effetti-va ed esistente.

Era come compiere un salto, era come se ci fosse stato unbreve intervallo di tempo in cui la ragazza avesse perso lamemoria, ed ora che la riacquisiva si ritrovava meravigliosa-mente stupita dalla novità.

Il silenzio divenne presto assoluto, completo, così profon-do da generare sensazione. Passarono alcuni minuti in quel-lo stato di pura estasi quando un lieve rumore intervennenella scena.

Si udì un sottile bussare alla porta di legno, era un percuote-re di una persona di non grande forza, perché quel suonoappariva in ogni caso delicato, leggero. Melissa, senza stupo-re, si avvicinò al portone che si apriva sul giardino e non videnessuno di fronte a lei.

Era stato forse un sogno, oppure una sola sua impressione,eppure quel fenomeno si ripeté nuovamente: ancora il dolcebussare, ma ora era occorso un particolare in più, una voce, unavoce infantile si era magicamente unita a quel regolare ritmo.

La ragazza vi prestò attenzione fino a cogliere queste distin-te parole:

«Mamma, mamma!» nella voce evidentemente di un bambino.Melissa sorpresa da quell’episodio imprevisto si sporse in

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alto e vide effettivamente una sagoma spuntare, delinearsi nelcortile. Un piccolo bambino la guardava da dietro il vetro, coni suoi capelli del colore della sabbia e lo sguardo cristallino dacui scaturivano lacrime di un lungo piangere. Il suo viso eracosì pallido e triste che appariva evidente che era sul punto dimorire assiderato per il gran gelo.

Indossava calzoni marroni di una stoffa particolare, eranolaceri e strappati, macchiati e umidi in più parti. Per il restovestiva di un maglione blu, anch’esso dall’apparenza moltousato, e un cappottino dello stesso colore che doveva essere dimolte taglie superiore a quella effettiva del bambino.

Non appena il ragazzino vide la figura che si stagliava niti-da dal vetro riprese la sua litania:

«Mamma, mamma, aprimi, aprimi, qui fuori c’è freddo, c’ètanto freddo, mamma, mamma perché mi hai lasciato quifuori?» e il suo tono era ora più lento e assumeva inflessionidecisamente più vicine al lamento. Il dolore sembrava in luiessere così grande che non riusciva a reggere lo sguardodella ragazza per più di qualche secondo, e il suo corpo sipiegava ripetutamente verso il suolo.

Melissa era stupita, vedeva quel bambino piangere e nonsapeva come comportarsi. Il suo cuore si commuoveva, l’ave-va scambiata per la madre ma ora le sorgeva il dubbio, e selo fosse stata veramente, e anche i suoi occhi ora si riempiva-no di lacrime di dolce tenerezza. Voleva andare a chiedere asuo padre se poteva farlo entrare. Si voltò quindi un attimoin direzione della cucina, poi mutò idea e si riavvicinò allaporta, forse per aprire, ma ora non c’era più nessuno: il pic-colo bambino era scomparso.

La ragazza spalancò la porta e fece qualche passo nel corti-le, era vero, non c’era nessuno, doveva essersi immaginatatutto, forse la febbre era ritornata e le faceva brutti scherzi.Eppure il suo cuore parve rinfrancato da quell’episodio,forse si sorrise dolcemente allo specchio del vetro della cre-denza. Tutto era così vero, così reale, quelle lacrime, quelviso delicato, e quelle parole che lei si ripeteva ancora nella

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sua mente:«Mamma, mamma.»

Quell’intensa sensazione, per così dire di enormità, ebbe apoco a poco il sopravvento su Melissa, conducendola versouna sorta di febbre nervosa. Il suo corpo era come mosso dasingolari vibrazioni, da una peculiare agitazione che si rivela-va nel palpito accelerato del cuore.

Quel distacco, quella separazione ebbero come effetto direndere la superficie del suo corpo particolarmente calda,come se al suo interno divampassero fiamme intense e vio-lente. Quel sentimento apparve alla ragazza allo stesso mododolce e spiacevole. Era come se, infatti, lei fosse attraversatada un senso di protezione, di cura, ma, allo stesso tempo,questo la rendesse particolarmente gracile e debole, priva diforze ed energie.

Era il fatto che allora alla ragazza venne l’improvviso desi-derio di uscire. Ricordava che anche quella mattina, presso lapiccola scuola statale di Oakville, si tenevano le regolarilezioni. Lei quindi, nonostante non ci fosse in realtà niente distraordinario in questo fatto, provava, viveva una sensazionedi magia ed eccezionalità che la conduceva a compiere que-sto gesto.

Melissa si rifugiò nella sua stanza, serrando bene la portaantica e massiccia, e con un’insolita frenetica lentezza, si cam-biò, indossando un paio di calzoni dal taglio sottile e dal colo-re scuro, e un maglione color amaranto che appariva avere unsenso profondamente autunnale e malinconico.

La porta aperta si richiuse in un colpo che apparve a Melissasin troppo chiassoso, sino a che riprese ad agitarsi per quel fra-casso. Era ancora molto presto e le strade erano completamen-te vuote, e colme d’intensa luce mattutina che si inclinava insfumature quasi trasparenti.

Era possibile in quei momenti ascoltare, udire un silenzioprofondo e assoluto che riempiva di sé gli oggetti circostan-ti, e quando un rumore, benché minimo, veniva a rompere

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quella quiete, quel suono andava ad allargarsi nello spaziointero con le sue particolari pulsazioni.

La strada procedeva in discesa e Melissa riprese ad avvertirequella sensazione di profondo calore già conosciuta e le appa-riva di rientrare dentro compiutamente a quel sogno, a quellavoce infantile e tenera che pareva chiamare proprio lei.

All’improvviso la ragazza ebbe un sobbalzo, come se fosseritornata subito ad una dura realtà. Le mani presero a tremar-le violentemente e i suoi passi deboli e leggeri erano semprepiù lenti e stentati. Un vuoto al petto la fece piegare in due elacrime cominciavano a bagnarle gli occhi color verde smeral-do. Istintivamente lei prese a legarsi i suoi capelli biondoscuri, che tendevano molto verso il castano chiaro. Il suo voltosi muoveva smarrito vicino allo zaino di tela dove emergeva-no alcune decorazioni a forma di stella.

Cominciava ad avvicinarsi verso zone più battute della pic-cola cittadina e già i primi personaggi facevano capolino negliangoli della strada, e questo fatto rendeva particolarmenteinquieta la ragazza.

Il vento allora iniziò a fremere gelidamente nelle strade stret-te e grigie della piccola cittadina canadese.

Un uomo passò con la testa china, il capo nascosto, celato dauna cuffia di lana intessuta a mano, con gli sbuffi neri di unsigaro che gli circondavano la barba corta e ben curata.Melissa era sempre presa dallo sgomento alla vista di ognialtro essere umano.

A poco a poco quelle sensazioni svanirono fino a quandol’aria non mutò, e il profilo della scuola cadente non si dise-gnava nell’angolo lontano della strada.

Il sole ora faceva una luce un po’ più decisa e si udiva un lievedolce chiacchierare di ragazze e ragazzi che indossavanomaglioni e giacche pesanti, e questo fatto generava una forteeco di melodie delicate. E Melissa pensava, immaginava anco-ra di pianure sterminate di un verde brillante e luminescente, dilunghe spiagge solitarie dalle incantevoli redolenze delicate.

Dopo questa lunga teoria d’immagini, come udendo il suono

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struggente di un carillon, la ragazza si riebbe.Una mano, lieve, una mano amica le si era posata nella spal-

la sinistra. La ragazza si voltò, lasciando il caleidoscopio dellevisioni, davanti ai suoi occhi appariva ora il volto di Johanna,i suoi occhi piccoli e scuri, i capelli neri, corti con sottili e par-ticolari ricci. Indossava un maglione nero, fine, e una giacchet-ta di colore grigio scuro o seppia, vestiva lei inoltre con unpaio di jeans neri che rivelavano le gambe smagrite.

«Come stai?» lei chiese a Melissa con un tono concitato, eviden-temente non si aspettava proprio di vederla quella mattina, eaveva notato che l’amica non appariva molto in buona salute,con quello sguardo sfuggente, con quella particolare lentezzanei movimenti, e con le mani che evidentemente tremavano.

«Bene» disse lei con un accento particolarmente doloroso incui appariva risiedere una genuina dolcezza. Johanna prese lamano all’amica, e, stringendola, avvertì che essa era madida epulsante di calore.

Le due figure minute allora si mossero attraverso i lunghi cor-ridoi dai pavimenti scrostati della scuola statale, mentre dallafinestra si mostrava un cupo giardino di cemento innevato.

Si svolgevano allora le lezioni con una cadenza monotona,quasi irreale. Il freddo voleva creare, tendeva ad ingenerareuno stato di sonnolenza, di quiete, di immobilità.

Si udiva distinto fra i diversi silenzi il tonfo della neve cheprecipitava dal cielo, Johanna con ansia osservava l’amica dipiccola statura, notando che lei non pareva prestare attenzio-ne alle lezioni, come immersa in una languida fantasticheria e,allo stesso tempo, pigramente stanca.

Era particolare il fatto di come Melissa iniziasse a prendereappunti, con una penna dal particolare inchiostro viola, e,improvvisamente fosse costretta a fermarsi come dinanzi aduno sforzo troppo grande da poter sopportare.

Giunse infine il breve tipico intervallo fra le lezioni. Le dueragazze si avvicinarono al piccolo spiazzo di cemento in cui siradunavano in quell’ora gli studenti della piccola scuola.

Melissa camminava con una certa difficoltà, sempre più

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lentamente, e parevano acuirsi nel suo volto dalla forma cir-colare, quei lineamenti insieme dolci e dolorosi. Apparivaagitata, il suo respiro diveniva presto mozzato, affannoso alpunto che si voltava a volte di scatto in mille direzioni diver-se. Col sibilo del vento che andava a raggiungerla nelle tem-pie pulsanti, la giovane ragazza ascoltava sempre con mag-giore difficoltà le parole che le rivolgeva Johanna, la suamigliore amica.

Era come se tutti i suoi sensi si fissassero, unendosi in ununico punto. Ora il suo corpo prendeva a trasalire con irrefre-nabile violenza, quel breve camminare era stato una faticatroppo grave per le sue povere e tenui forze.

Voleva muoversi, fare qualcosa, ma non c’era niente da fare,non vi era possibilità di reazione. Il dolore ora la sopraffacevacompletamente.

Il suo corpo cadde, privo di energia, misteriosamente attira-to al suolo. Johanna intanto si adagiava amorevolmente sul-l’amica malata.

Ora lacrime cominciavano a sgorgare dagli occhi dal tagliopreciso e regolare di Melissa, i suoni si ampliavano in unriverbero che la stordiva, s’accrescevano fino ai particolari piùminuti in quel particolare senso di estraneità.

«È troppo forte! È troppo forte!» la ragazza diceva distesa frale braccia accoglienti dell’amica, davanti agli sguardi stupitied indifferenti degli altri studenti.

Tornando lungo la strada di casa, Melissa, accompagnatadall’amica, con un passo lento e misurato, ripensava a queglistrani avvenimenti che le erano capitati. La sua anima eradecisamente lacerata, scossa, avvertiva un senso di disequili-brio e di nausea assieme.

La notte già raggiungeva la camera della giovane ragazza,lei si distese, si adagiò mollemente nel pesante e alto materas-so di vetusta fattura e fu preda da uno stato di vago torporesognante e di, allo stesso tempo, febbrile agitazione, prestovenne comunque il sonno e insieme ad esso emergevano

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oscure visioni nebulose ed indistinte. Al risveglio parve a Melissa di vibrare ancora in tutto il

corpo, come se fosse ancora irrigidito dai lunghi incubi fera-li. Eppure nel momento in cui prendeva coscienza dell’am-biente una vaga speranza le rendeva al petto un dolce e gen-tile batticuore.

In quel momento, proprio in quel preciso istante l’orologiosegnava le sei e mezza circa, con le lancette che si inseguivanonel quadrante con quel loro tipico fremere in brevi scatti.

Quando la ragazza si levò in piedi, fu quello il tempo in cuile riprese una forte agitazione e un’ansia convulsa, per l’attesadi sapere se avrebbe rivisto quel fanciullo che aveva misterio-samente incontrato il giorno prima. Non doveva sperare, forsedoveva essersi trattato solo di un sogno.

La ragazza allora discese le scale dopo che si era fattaavvolgere entro il tepore di una vestaglia di lana di coloremarrone, sdrucito nel corpo e all’altezza dei gomiti, lungo lescale aggettanti.

Con un tenue battito la ragazza raggiunse prima il salone, epoi la cucina. Fu in un certo senso quello scendere, quell’arri-vare così emozionata a quell’appuntamento una grossa delu-sione. Tutto era immoto e vero, si era lasciata così prendere daquel convulso entusiasmo che ora ne era stordita come colpi-ta da una potente scarica elettrica. Il suo corpo a sbalzi si pie-gava vittima di una forte fitta allo stomaco.

Fuori dalla casa ora si udiva il brusio che produceva lo scor-rere di camion che trasportavano beni di mercato, per il restola scena non appariva meno che desolante. Eppure la ragazzanon demordeva nella sua particolare follia e decise di usciredalla casa, sempre col suo passo titubante e timido in direzio-ne del giardino.

Melissa avanzò nel vialetto ghiaioso e umido dello stesso. Ilcielo, in quel momento era coperto e offuscato da nubi nere ecariche che vagavano cupamente celando alla vista l’orizzonte.

Muovendosi indecisa nel suolo rigido, la ragazza era scossadalle forti folate di vento che rendevano difficoltoso il suo

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cammino. Il freddo divenne a tal punto intenso che la ragazzasi vide costretta a ritornare all’interno dell’abitazione dallaquale prese il suo giaccone scolorito dalle tonalità verdi e loindossò prima di ritornare al centro di quella feroce tormentadi neve.

Gli elementi della natura si scatenavano, e quella tensione sitrasmetteva ben presto nell’anima di Melissa. Lei giunse infi-ne fino alla corta e bassa staccionata di legno marcito in cui sifermò, ormai senza più respiro.

Proprio in quell’istante la ragazza vide fare capolino nellastrada un bambino avvolto da pesanti indumenti invernali.Lei non seppe se il trasalimento che ne derivò dipendeva piùdalla sorpresa o dalla speranza. Ma non c’era motivo di agitar-si, vide che quel piccolo ragazzino era accompagnato dallamadre. I due corsero a trovare pronto rifugio presso un auto-veicolo che ben presto prese moto nella strada pericolosa.

La tempesta di neve mutò ad un tratto in un acquazzonemolto violento. Nonostante le intemperie non accennassero acessare, nonostante questo Melissa rimase ancora ferma nelmodesto recinto ad osservare ciò che capitava intorno.

Vide allora, il respiro nel frattempo le si era rallentato finoquasi a raggiungere un ritmo regolare, che da una casa ches’ergeva poco distante spuntava un ragazzo che aveva preso aspalare il giardino della stessa e, vedendosi osservato, sembròlanciarle un’occhiata piena di malevolenza.

Tutte le sue precedenti speranze svanirono completamentedinanzi a quella sconfortante immagine. Eppure in quella suadelusione si scopriva, si disvelava comunque una bizzarravena consolatoria che rendeva paradossalmente la ragazzaancora più inquieta.

Lei ora si muoveva senza più paura, verso la casa. Si sentivacome svuotata dal termine di quell’intensa emozione. Febbrilefu il rientro verso i consueti luoghi della sua esistenza.

Mestamente allora la ragazza ritornò all’interno di quellamodesta edificazione, che forse risaliva al secolo scorso e cheera costruita su due piani. Melissa sentì di essere molto stanca,

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spossata, come dopo un grande sforzo fisico. Aveva un gran-de desiderio di stendersi e di riposare, anche solo di sedersiper un attimo.

Però non lo fece e forse anche perché quel gesto le apparivaessere molto difficoltoso. Allora Melissa appoggiò il bracciosul frigorifero brontolante, mentre tentava di pulirsi i capellibiondo scuri che ancora grondavano di umori.

I suoi occhi verdi allora si diressero verso la porta, e per unaparticolare rivelazione, vide in modo distinto due piccolemani bianche che si approssimavano ad essa e le vide come sefossero avvolte da una particolare aura luminescente.

Le parve allora di avvertire nell’aria un particolare profumoche rassomigliava forse all’incenso o ad un’altra essenzasoave, quasi come si trattasse di una polvere leggera ed impal-pabile. Quella profumazione per le sue peculiarità fece venirein mente alla giovane ragazza gli angeli.

In effetti lei non sapeva proprio per quale motivo le fossevenuto in mente quel pensiero eppure aveva coscienza dinon essere in errore e che quella sua convinzione fosse quel-la giusta.

Anche se quel fatto era assolutamente, completamente pre-vedibile, questo non mancò di sorprendere fortemente laragazza. Il bussare, il lieve bussare che si ripeteva e che rim-bombava nelle percezioni di Melissa fino a suscitare nel suoanimo adolescenziale un senso di terrore assoluto. Era come se gli oggetti intorno sbiancassero fino a scompariretotalmente e lei quindi si ritrovasse in un luogo solitario e sco-nosciuto circondata dal rumore assordante di campane spie-gate o dai lunghi ripetuti boati di assurde sirene.

La ragazza si avvicinò allora alla porta tremando per lalunga indecisione, senza sapere ancora cosa fare. Era ormaidi fronte alla porta, anche questa volta vide quel piccolobambino che la guardava con gli occhi pieni di lacrime di tri-stezza e di infelicità, ma rispetto all’altra visione, si era veri-ficato un cambiamento. Vi era un elemento estraneo, nuovoche modificava il tutto.

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Infatti, il piccolo ragazzino, che possedeva caratteristichenella sua fisionomia che lo facevano pienamente rassomiglia-re alla ragazza, non appena la vide smise immediatamente dipiangere e sembrò rilasciare le labbra in un sorriso dolcissimo.

Melissa, in quel momento, sentì una forte sensazione di pace.Era come se si sentisse all’improvviso al sicuro, protetta con-tro ogni difficoltà, e il suo corpo diveniva colmo all’istante diun’arsura molto particolare, e, per questo motivo, levò alcunidegli indumenti che allora indossava, senza più provare i bri-vidi tipici della stagione invernale.

Non aveva più paura, ora tutti i suoi dubbi si erano dissolti,si erano dileguati, erano svaniti, erano scomparsi. Aprì laporta ed uscì nel giardino per la seconda volta in quella mat-tina. Compì questa azione naturalmente, senza pensarci.

Il bambino le si avvicinato e le due figure ora si stringevanoteneramente, in un amore puro e incondizionato.

Melissa sentì allora il suo corpo in fiamme, come se stesseeffettivamente bruciando ed avvertiva invece che il ragazzinoaveva la pelle impregnata di una genuina frescura primaverile.

Ora le sembrava che il tempo scorresse molto lentamente,fino quasi ad arrestarsi. I suoi passi rallentavano, mentre orail bambino le prendeva la mano e giocava con essa, muoven-dola quasi si trattasse di un’altalena.

Avanzando lungo il giardino, Melissa si accorse che qualco-sa era effettivamente cambiato nel paesaggio circostante, cheappariva riempito da una particolare luce iridescente che sirendeva manifesta in ogni minimo particolare di quello scena-rio naturale.

Era veramente strano, pensava la ragazza, colta da una sin-golare commozione, ma non ricordava affatto di avere vistomai rilucere nel cielo un sole così luminoso e chiaro e pulito.

Non era, in quel momento, possibile vedere neanche la mini-ma ombra di neve, gli alberi, e questo era proprio impossibilein quella stagione, erano liberi e in fiore.

Ebbe un altro balzo al cuore quando si accorse che un altroevento non ordinario aveva iniziato a prodursi. Dinanzi ai

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suoi dolci occhi verdi, infatti, Melissa osservò che le strade, lecostruzioni, le case erano scomparse, completamente, e che alloro posto si levavano invece montagne suggestive, estesi pratidi sognanti vegetazioni.

Il bambino aveva allora preso a correre dentro quellavaria natura, gioiosamente, poi ad un tratto urlando rag-giunse la ragazza:

«Mamma, mamma» diceva la sua voce insieme tenera edimpaurita, e le aveva mostrato una mano insanguinata comese fosse stata dilaniata da una fiera feroce.

Melissa aveva stretto a sé il bambino con il cuore straboccan-te di una paura, di un terrore irrazionale. Avevano iniziatoentrambi a piangere affettuosamente. Era bello, ragionavaMelissa, ma qualcosa si era rotto, sentiva che le sue forze eranosul punto di venirle meno, e che le sue sensazioni cominciava-no a perdere precisione e consistenza, fino a quando lei nonsvenne nel prato fresco e rugiadoso.

III.

Dallo svenimento, il risveglio fu molto diverso da quello chela ragazza poteva attendersi. Melissa, infatti, notò di ritrovar-si ancora in quel prato, in quella stessa distesa verde in cuiaveva perduto i sensi.

Immediatamente la sua prima sensazione fu quella di esserecome dentro ad un sogno. Con distinzione quel fenomeno siripeteva, ma questa volta vi era un particolare nuovo. Era, ineffetti, come se fosse passata dall’altra parte del vetro ed oravedesse le cose attraverso una diversa prospettiva.

Si accorse che il suo corpo era incredibilmente denso di calo-re, leggermente madido, sudato, e questo le rendeva un senti-mento, un brivido che lei trovava proprio magnifico. Le piace-va rimanere distesa con quella pace che la invadeva, senzasentire la necessità di alzarsi.

Un lieve sole giallo screziato di rosso baluginava nel cielo di

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un celeste intatto. Ondeggiando alcune nuvole candide dan-zavano fra i colori della natura che intorno esplodeva in milleconsistenze delicate, in diverse tonalità, come melodie che siintrecciassero sapientemente fra loro.

Nella pelle, stranamente per la prima volta nella sua vita nonavvertiva il tipico freddo canadese, scoperta, l’erba puntuta lasolleticava con dolcezza, la pizzicava leggermente.

Si alzò quindi senza sforzo e si accorse di camminare in unclivo, in una collina dalla pendenza molto lieve. Il prato erasoffice e la ragazza, in un momento, si rese conto che cammi-nava senza scarpe.

Non vi era dubbio che tutto quel paesaggio, tutto quello sce-nario avesse in sé un qualcosa di magico, di straordinario edirreale allo stesso tempo. In effetti la ragazza comprendeva,era cosciente che tutto quello che ora vedeva non poteva esse-re vero, eppure allo stesso modo era impossibile non crederci.

Era come se ad un tratto il suo cuore avesse preso a sangui-nare, ma non violentemente, ma con regolarità e il respirodella ragazza ora era calmo e nello stesso tempo insolitamen-te vitale.

La ragazza, colma di quelle particolari sensazioni, continua-va a camminare in quella dolce discesa che le si presentavainnanzi, e, progressivamente le si allargava l’orizzonte, la pro-spettiva: un immenso e magnifico scenario naturale le simostrava allora in ogni angolo di quella distesa.

La ragazza si portò inavvertitamente la mano all’altezza deicapelli biondo scuri, ed essi si sciolsero in un momento, scos-si leggermente da una brezza che con delicatezza li sfiorava,facendoli ondeggiare lievemente. Melissa ancora non finivadi stupirsi e di commuoversi alla visione di quella naturaintatta e pura. Si trovava, e non sapeva come, ma in veritànon se lo chiedeva neanche, in una conca vergine dall’inter-vento dell’uomo.

Era quella una valle particolare in quanto non si potevaaffatto dedurre cosa vi fosse oltre, dato che in tutti i quattrolati essa era circondata da alte montagne prive di neve, le cui

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vette si perdevano per la grande altezza alla vista della gio-vane ragazza.

I suoi dolci occhi verdi si muovevano all’istante da un luogoall’altro, divenendo sempre più curiosi di afferrare quella mol-teplicità di emozioni, quel caleidoscopio di colori e sensazionivisive, quella moltitudine di profumi e suoni armonici.

Ad un tratto davanti a lei apparve un lago, una distesa d’ac-qua di non grandi dimensioni, ma che, in ogni modo, attirava,attraeva la ragazza. Melissa notò che la forma del lago era sin-golare, essenziale, forse tendente verso l’ovale, e in qualunquemodo molto arrotondata.

Raggiunse senza provare fatica la riva in cui l’acqua giunge-va con delicatezza e dove si frangeva sopra un tessuto di sas-solini levigati di colore grigio non uniforme.

Sentiva, avvertiva la ragazza il fortissimo desiderio dientrare in acqua e a questa esigenza interiore lei non si oppo-se affatto. Per un attimo lei pensò, immaginò che l’acquapotesse essere fredda, ma non lo era. Quel calore che ora pro-vava, avvertiva nei piedi e nelle gambe era così intenso, eracosì profondo, che ben presto lei immerse l’intero suo corponel lago.

Era come se lei riandasse ad epoche passate, come se aves-se intrapreso un viaggio di ritorno verso luoghi mitici edimenticati dalla memoria, verso quell’infanzia che le erastata negata.

Il suo corpo diveniva con lo scorrere lentissimo ed imper-cettibile del tempo sempre più denso, più pieno, più ricco dicalore, a tal punto che lei quasi cadeva in deliquio, che quasiperdeva la coscienza del mondo esterno.

Sentì, in un momento, che nel suo petto, nel suo seno, qual-cuno le si era insinuato e aveva preso ad abbracciarla con pic-cole e morbide mani. Sapeva, anche se in quel momento nonpoteva vederlo, che si trattava certamente del piccolo bambi-no che il suo animo ben conosceva.

Ad un tratto le parve di udire ancora quella sua voce, quel-la sua dolce voce, ma forse era solo un sogno, quella voce che

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diceva, che ripeteva sempre la stessa parola:«Mamma, mamma!» e Melissa sapeva allora che non dove-

va preoccuparsi più di niente.

Erano passati alcuni giorni da quando Johanna aveva perl’ultima volta visto la sua amica Melissa. Lei era molto preoc-cupata per la sua salute. L’aveva vista in quella nota mattinamolto debole, le era parsa malata, e capiva Johanna che nondoveva avere ancora superato il trauma di quell’operazione.Infine era necessario che lei avesse presto sue notizie.

Aveva provato per innumerevoli volte in quei giorni a chia-marla per telefono, ma non era riuscita a rintracciarla, il rice-vitore emetteva un suono particolare come se la linea fossestaccata o fosse perennemente occupata.

A quel punto Johanna non poteva più attendere, e decise diandare a cercare la sua migliore amica direttamente nellasua abitazione.

Quella mattina, era una Domenica ancora incredibilmentefredda e gelida e la ragazza si muoveva febbrilmente nellestrade di asfalto sconnesso di Oakville. Ben presto, c’erano sol-tanto due isolati di distanza fra le loro rispettive abitazioni, sidelineò la vecchia e piccola casupola su due piani dell’amica.

Il cancelletto era aperto, leggermente dischiuso. Alcunedelle tende erano scostate e questo significava che qualcunosi trovava in casa. Johanna giunse dinanzi al portone che inalcune parti era scrostato, certamente di facile attacco per imalviventi, pensava la ragazza, dopo avere notato la pocotenace serratura.

La ragazza si sfilò il guanto di lana blu molto fine e suonò alungo il campanello che rispose emettendo a forza un trillobasso e rauco. Ci vollero alcuni minuti prima che Johannaudisse che nel silenzio lievi passi si muovevano in direzionedella porta. Finalmente si aprì ed era proprio Melissa che orastava di fronte all’amica.

Johanna osservò con attenzione il suo aspetto. Sembravasmagrita, deperita in modo notevole, la sua pelle, poi, il suo

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colorito era particolarmente bianco, esangue, mentre lei ricor-dava con distinzione esatta che normalmente esso assumevadelle tonalità dorate, e questo nonostante la scarsa intensitàdel sole canadese.

A quel punto le si avvicinò e con un reciproco ed affettuosoistinto le due ragazze si abbracciarono amorevolmente.

Melissa allora fece presto entrare l’amica nel noto salone incui avevano passato lunghe serate nelle quali nella penombrasi intessevano fitte chiacchierate. L’aria era gelida nonostantefosse accesa una stufetta di colore grigio, Johanna aveva fattocaso alle due spie rosse che brillavano all’interno della stanza.

Osservava con una certa apprensione il tremore violento delcorpo dell’amica. In quel momento Melissa appariva debolis-sima, i suoi movimenti erano molto lenti e misurati. Sembravache i riflessi e la vista della ragazza fossero appannati, inmodo tale che, camminando, Melissa rischiasse in ognimomento d’inciampare.

Non appena le due ragazze si furono sedute, adagiandosi sudue poltrone dalla fodera marrone, una di fronte all’altra, ilsilenzio si ruppe per una seconda volta.

«Come stai?» chiese Johanna allungando la mano verso quel-la dell’amica e stringendola leggermente a sé.

«Bene, mi sento solo molto debole e stanca» rispose Melissacon una voce che era divenuta ancora più flebile del solito eche possedeva una sfumatura così infinitamente dolce e tene-ra che Johanna ne fu immediatamente commossa

«Ne sono felice» disse allora l’amica e sentiva così che le sistringeva il cuore «Ma sei sicura di stare bene? Hai chiamato ildottore? Sai in questi casi la prudenza non è mai troppa.»

Melissa allora guardò l’amica con uno sguardo che apparivasmarrito, come se o non avesse compreso il significato di quel-le domande o non avesse affatto udito quelle parole.

Lei allora dopo un’attesa ancora di alcuni secondi rispose«Sì» dimostrando ancora che la sua salute non era buona.

Johanna vedeva quella sofferenza che pareva propriamentedisegnarsi nell’intero aspetto della ragazza. I suoi capelli

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biondo scuri cercavano di restare, di rimanere raccolti dietrola nuca, legati da un nastro elastico azzurro, ma già alcuneciocche scivolavano sia sulla fronte della ragazza che verso ilobi lievemente arrossati.

Melissa non riusciva a mantenere lo sguardo alzato perchéesso riandava di frequente verso le mani che nervosamentegiocavano con una vestaglia bianca che possedeva dei riportidi un colore verde pastello. Sotto invece indossava un pigia-ma celeste dove erano riprodotte le figure di innumerevolipagliacci col naso azzurro.

Proprio dopo qualche altro istante la ragazza, sfinita, nono-stante non si fosse prodotta in alcuno sforzo, si adagiò sopradi un bracciolo della poltrona scura, e dai suoi occhi verdicominciarono a discendere lacrime sottili e dolcissime.

Johanna subito accorse a soccorrere l’amica così minuta egracile e la accompagnò a letto per farla riposare. La vegliòfino a quando non si fu addormentata completamente. Volevarimanere al suo fianco ma dovette andare via perché per lei siera già fatto troppo tardi.

Era arrivata la sera ed il buio si accompagnava ad essa. Eragià tardi quindi quando Melissa si svegliò da quel lungosonno ma, in verità, si sentiva ancora stanca, nonché indolen-zita in tutto il corpo.

Il cuore riprendeva allora a pulsarle velocemente nel petto;lei rimase a lungo immobile nella stessa posizione, senza riu-scire a muoversi o a compiere la minima azione.

La ragazza non si rendeva conto di quanto tempo fosse tra-scorso da quando si era risvegliata. Quell’angoscia particolarecontinuava ancora a crescere. Era strano ma le luci erano acce-se nella sua stanza, lei non si ricordava di averlo fatto, ed essecreavano, generavano dei riflessi, dei riverberi che rendevanoben più inquieto l’animo della ragazza.

Più precisamente nell’angolo destro della sua camera eraposato un fermacarte di vetro azzurrato che diede alla ragaz-za la distinta sensazione che vi fosse qualcosa oltre, al di là

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della stanza, qualcosa di lucente, di dorato, che, per inspiega-bili motivi, la terrorizzava.

Era il fatto che quella situazione, prima o poi, dovesse termi-nare, si dovesse interrompere, e proprio così fu.

Accadde che come un fascio di luce azzurra invadesse quel-la camera, creando un’atmosfera di pace. Tutto si svolse in unistante o al massimo nel giro di pochi secondi. La ragazza sivoltò in un lato del letto, verso sinistra dove era posizionatol’ingresso della stanza, e vide che al suo fianco era ora appar-so quel bambino dai capelli biondi che tanto le rassomigliava.

Non se ne era accorta ma le aveva preso la mano e ora lei sen-tiva sopra la sua pelle quel contatto fresco e morbido nellostesso tempo.

«Andiamo! Andiamo! Presto!» lui diceva «Ci aspettano» e lasua voce era adesso mossa in una certa agitazione come se nonsi potesse effettivamente attendere altro tempo.

Dopo che Melissa si fu rapidamente cambiata, le due figuresi inoltrarono nei meandri della cittadina di Oakville. Subitofurono accolti da un buio intenso, da un’oscurità densa e silen-te che rendeva ancora più forti dubbi alla ragazza.

Aveva preso, intanto, a nevicare, a nevicare forte per la strade,tanto che la visibilità era ridotta e la ragazza non riusciva a com-prendere esattamente in quale luogo si stessero dirigendo.

Il vento, in cui era frammisto quel fastidioso nevischio, li tra-volgeva, rallentando in questo modo il loro cammino. Non erapiù possibile parlare o scambiare parola, il frastuono generatodagli elementi naturali era assordante. Si udiva, a tratti, fra lepause di quegli immensi boati, il gracchiare di uccelli notturniche lacerava ancora di più l’aria, oppure si sentiva lo strettocigolare di portoni di antiche locande.

Il gelo era così penetrante che ben presto la ragazza si reseconto che il capo aveva preso a dolerle acutamente, e insiemevi era anche un solido dolore che le torceva, che lo stomaco. Ilsuo corpo si raffreddava, progressivamente, tanto da perder-ne quasi la sensibilità. Anche la mano del piccolo bambino chela tirava di continuo per affrettarsi era divenuta gelida e quasi

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lei non riusciva ad avvertirla.Convulsamente proseguiva quel rapido cammino, senza

soste, a lunghi frenetici e febbrili strappi che stendevano fisi-camente la ragazza. I due infine giunsero in prossimità dellerive del grande lago che si stendeva in quella zona delCanada: il lago Ontario.

Non era certo uguale al lago che aveva visto da poco, laragazza pensava tra sé. Quelle onde alte e violente non la ras-sicuravano affatto e tutto quel paesaggio non faceva altro chefar crescere la sua tensione e la sua angoscia. Il suo sentimen-to allora era quello della fuga, della paura. Non avrebbe volu-to rimanere un secondo di più in quel luogo, in quella temibi-le situazione, ma rimase comunque immobile in attesa dinuovi eventi.

Il bambino ora aveva lasciato la sua mano ed all’improvviso,Melissa fu colta da una singolare visione per così dire paralle-la. Un circolo verde e lucente aveva preso a fiammeggiarenella sua fronte, irradiando in tale maniera una luce particola-re da cui scaturiva una singolare profumazione.

Melissa fu colta nuovamente da una magnificente visionedorata, che le era impossibile spiegare o comprendere a pieno.Queste immagini che ora la raggiungevano, la facevano inso-litamente e felicemente tremare, quasi avesse raggiunto unostato d’estasi.

Poi però le sue percezioni diminuivano e ritornava il cuposcenario lacuale, e le onde e i marosi che la inquietavano.Questo motivo si ripeté più volte e più volte ancora, prima chela visione fosse completa, assoluta, superiore.

A quel punto lei vedeva solo una striscia luminosa in cui ilragazzino la invitava a camminare e lei avanzava senza paura,anche se, in verità, il suo corpo affondava nel grande lago tem-pestoso fino a quando lei, sola, non scomparve completamen-te in quei perigliosi flutti.

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LA CROCIFISSIONE DELL’AGNELLO BIONDO

Sentii un brivido sulla pelle come se un vento mi spirasseaddosso con malignità. Solo in quel momento mi accorsi diessere completamente nuda; nessun indumento addosso, erocompletamente nuda.

Non sapevo dove mi trovavo, tutta quell’apparenza buia etenebrosa m’induceva a credere che fossi capitata in unacaverna o in un qualche altro anfratto altrettanto misterioso.C’era freddo quindi, ed ero senza vestiti, mi vedevo costrettaa stringermi nelle spalle magre dalla carnagione pallida.

Provavo imbarazzo a trovarmi in quella situazione, masoprattutto spavento e anche stupore per il come fossi giuntain quel luogo. Mi resi conto subito di avere i sensi appannatie che le mie percezioni erano vaghe e confuse pure se eropresa, all’improvviso, da vaste ed istantanee sensazioni di pia-cere e di eccitazione.

Lentamente presi a provare compiacimento di quella situa-zione apparentemente vergognosa, con il crescere della miacalma e della mia sicurezza poi, anche la temperatura iniziavaa prendere una certa corposità.

Quella che a prima vista mi sembrava solo un riflesso delmio mutato stato mentale, ora era una verità incontestabi-le: ora provavo persino caldo nonostante fossi priva divestiti, e quella calura crebbe e con essa anche quel sensodi eccitazione morbosa dei sensi, grondavo sudore e ancheil mio corpo morbido aveva preso una colorazione rossa-stra e fiammeggiante.

Proprio come le fiamme, i fuochi erano stati accesi nel frat-tempo intorno a me, senza che io me ne fossi resa conto. Neconclusi che qualcun altro oltre a me doveva essere presen-te in quel luogo, questo fatto mi rese ancora più curiosa e mirendevo complice di quel misfatto, portando le mani sulleparti intime come a simulare una vergogna non vera, che

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non provavo assolutamente.Il caldo aumentava ed il mio corpo si addensava, si rappren-

deva di quei sordidi umori. Proprio in quel momento sentii(era come se fossi stata sorda fino a poco prima ed ora avessiriacquistato l’udito) un ritmato mutilare di percussioni tribaliche cresceva progressivamente d’intensità fino a divenire unbombardamento sonoro, un muro fitto ed impenetrabile.

Fu allora che mi resi che nella scena c’era un altro cambia-mento, questa volta decisivo: una serie di misteriosi personag-gi dal volto pitturato e tatuato mi circondavano e si muoveva-no intorno al ritmo delle allucinanti percussioni tribali.

Il cerchio, a poco a poco si stringeva. Quegli uomini dall’ap-parenza primitiva, lasciarono a terra i gonnellini, unico indu-mento che indossavano fino ad allora.

Quegli indigeni potevano ben essere definiti membruti. Sidimostravano spavaldi, sicuri di sé. Mi si avvicinavano sem-pre di più e cominciano a strusciarsi contro il mio corpo accal-dato. Io, per un attimo, fui presa dalla tensione e dalla paura econ le braccia proteggevo il seno da quel lubrico contatto. Poia quelle pressioni li lasciai andare. Più che uomini quegli esse-ri erano delle belve selvatiche, mi stesero a terra con violenza,io avvertii lo stridore della schiena al suolo, e, a turno, mi vio-lentavano e violavano la mia verginità.

Le efferatezze di quegli sconosciuti non avevano termine. Mipareva strano ma non opponevo troppa resistenza, anzi avevopiacere nel subire quelle torture. Quel turbine di emozioni midevastava quindi gradevolmente il cuore e chiedevo loro checontinuassero ancora.

Mi risvegliai che ero ancora dolente e compiaciuta. Il terroreche mi aveva procurato quell’incubo era grande e mi sibilavaancora nelle ossa ma era ancora più grande l’eccitazione frene-tica e morbosa che mi aveva procurato.

Essere stuprata, essere posseduta fisicamente, completamen-te in balia di un’altra persona, schiava, sottomessa, dominata.

Con questi pensieri che avevano preso il controllo della mia

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mente, non riuscivo a stare ferma e neanche a riaddormentar-mi. Mi dovetti alzare che era ancora presto per andare a scuo-la, e nel bagno non potei fermare, contenere l’istinto dimasturbarmi riecheggiando le mostruose e sensuali scene cheavevano popolato quella mia notte agitata.

Si fece mattina quindi e il mio corpo era stanco e vibrante discosse nervose che erano come piccole scariche di elettricitàche alla fine mi sfibravano completamente.

I miei genitori, con la loro impalpabile indifferenza ed apa-tia, erano usciti di casa per le loro abituali occupazioni, eroquindi sola in casa, tutta sola e tutti i muri e le pareti eranodensi, accumulati dei miei umori.

Mi portai davanti allo specchio, mi lavai il viso e poi control-lai il mio aspetto con notevole accuratezza. Le occhiaie si nota-vano, risaltavano, la mia pelle era comunque liscia e gradevo-le, era l’abbronzatura che si notava. Mi ravviai i capelli cheultimamente avevo tinto di rosso scuro e tagliati molto cortiper rassomigliare ad una famosa cantante molto in voga inquel periodo.

Ero dimagrita nell’ultimo periodo, e questo anche se ero giàdi costituzione gracile. Feci uno sguardo antipatico alla miaimmagine allo specchio, avevo fatto colazione nonostante pro-vassi un forte senso di nausea, ed ora il mio stomaco ne risen-tiva e ne doleva.

Il flusso del vomito ne corse naturalmente, senza induzionevolontaria: un liquido giallastro ed acido che mi corrodeva lagola e i denti. Ebbi la sensazione distinta dello stomaco che sitorceva e si piegava per il rigetto.

Questo accadimento prese a far aumentare la angoscia e imuscoli e i nervi invece di rilasciarsi si tendevano sempre piùe mi impedivano di stare ferma.

Mi spogliai e mi feci una doccia molto velocemente, visto chemi sentivo molto stanca. L’acqua scrosciava sul mio corpo e midiede un senso strano d’inquietudine quel rumore che soloora percepivo con stupore.

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Ero stanca, molto stanca, spossata, non avevo nessuna vogliadi andare a scuola eppure dovevo farlo, non riuscivo a trova-re nessuna scusante valida per evitarlo; poi tanto non sareistata capace di riposarmi né di riprendere sonno.

Mi guardai compiaciuta e disgustata prima di avvolgermi nelmio accappatoio bianco che leggermente mi pungeva la pelle.Avvolta in quell’abbraccio fui presa da un certo languore e daun riflesso di sazietà. Ponevo deboli resistenze e scarne obie-zioni e la mia coscienza era così ridicola che mi venivano faci-li le bestemmie alla bocca.

Le dita si mossero abili per un facile piacere. Mi distesi nelpavimento fra le sensazioni di freddo e caldo che alternativa-mente provavo. Poi ritornava la rabbia e la frenesia, la stan-chezza e l’irrequietezza.

Mi vestii indossando ciò che prima mi capitava nelle mani,presi una mogliettina nera aderente e un paio di jeans neri ecosì uscii di casa.

Una delle più grandi noie che dovevo sopportare nell’andarea scuola era il dover salire su una di quelle corriere brulicantidi studenti, dove si sentivano puzzi insopportabili.

Quella sensazione era ancora più viva quella mattina, e lanausea si rifaceva temibilmente avanti. C’era molto caldo edio avevo preso a sudare copiosamente, si era stretti nel pul-lman, volevo che qualcuno mi toccasse e mi molestasse, lì,davanti a tutti.

Arrivai alla giusta fermata e continuava il brulicare delleformiche e cresceva la mia angoscia, pensai che il mio sguar-do si fosse fatto livido e rabbioso ma nella verità, dovevosentirmi solo impaurita e spaventata di qualcosa di pocochiaro come se la mia coscienza, la mia identità si stesse pro-gressivamente disgregando senza che fosse possibile ferma-re questo processo. Già questi strani presagi prendevano aconfondere i miei pensieri e soprattutto le mie percezioni. Daquel momento ebbi il senso come di un’alienazione, di undistacco dalla realtà.

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Sentii un click, uno scatto improvviso, e tutto era cambiato inun solo istante. A tratti mi pareva proprio di avere delle diffi-coltà visive e credetti di essere vittima di un’allucinazione.

La scuola, al suo interno, nelle pareti e nel pavimento, miapparve avere tinte e toni più cupi, con un senso di orrorepoco chiaro, sfuocato e per questo motivo ancora più apporta-tore di paura.

Il grigio si completava attraverso delle macchie nere, e nono-stante i molti rumori che imperavano, avevo, possedevo ladistinzione del silenzio che ne riempiva gli spazi vuoti.

Passarono forse anche alcune ore di lezione prima che miaccorgessi di qualcosa di particolare che stava succedendo. Unragazzo, un mio compagno di classe di nome Mauro, infatti,mi fissava continuamente, senza pausa. Nonostante mi voltas-si, sentivo sempre il suo sguardo addosso che non si scollavada me neanche per un istante.

Inizialmente ne fui quasi lusingata e sorridevo a quel ragaz-zo che era stato con me sempre gentilissimo e educato. La suafigura magra, sottile, faceva pensare che avesse molti anni inmeno di me. C’era una singolarità che si rivelava il lui, erano icapelli biondi, così sottili da sembrare una lanugine impalpa-bile e trasparente.

Essi ad un tratto curvavano e prendevano un’ondulazionetutta propria, s’increspavano in una maniera che ragionevol-mente poteva essere definito dolce o tenero.

Continuava a guardarmi, quindi, quel ragazzo dall’aspettopuerile, ed io, ben presto, mi stancai di tutte quelle attenzionie m’immaginai che fosse un tipo piagnucoloso. Sì un tipoappiccicoso e piagnucolante.

Gli lanciai uno sguardo stretto e severo come a dissuaderlodalle sue intenzioni. Mi parve che Mauro si fosse un po’ spa-ventato e il suo volto denotava proprio turbamento e incapa-cità a reagire.

Eppure, nonostante quel perentorio avviso, il ragazzo nonsmise di fissarmi e di osservarmi, anzi diventava, se possibile,ancora più insistente, ancora più invadente di prima.

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Io feci finta di niente e cercai da quel momento di ignorarlodel tutto, come se non esistesse.

Finita quell’ora di lezione, il ragazzino mi si avvicinò, io erostizzita da quell’incontro, ma non potevo più evitarlo.

«X.» Mi disse «stai bene?»«Mi è sembrato che stessi poco bene» disse e tremando lo

disse, perché era evidente che fosse molto emozionato di par-lare con me, e poi con tono amichevole ed affettuoso poggiò lasua mano nella mia spalla, per levarla però subito, intimiditoforse dal fatto di avere osato troppo. Io ero scocciata, volevorestare sola, volevo essere lasciata in pace, non ne potevo più.

«Bambino idiota ti vuoi levare dai piedi» allora gli urlai, glivomitai addosso con ira.

Il ragazzo ne rimase scosso e dopo essersi scusato (in unmodo molto gentile e piagnucoloso) si allontanò rintanandosinella solitudine del suo banco.

Soddisfatta che fu la rabbia di cui mi ero nutrita, mi placai epersi nuovamente il contatto con la realtà e ritornai in unasorta di vuoto assoluto, di sonno senza soluzione. Da quellaletargia mi ridestai, solo nel momento in cui intervenne la con-sueta quotidiana pausa fra le lezioni.

Ebbi una scossa, un sobbalzo e ripresi a provare una pauraoscura e una tensione lacerante, che trasformava in polverela mia anima e le mie emozioni. Uscii dall’aula, notai chedentro vi rimase solo Mauro (certamente a piangere, imma-ginai) ma non ci feci caso più di tanto.

Mi mossi quindi nei lunghi e stretti anditi della scuola efacevo questo in maniera del tutto involontaria, senza voler-lo, come per inerzia. Mi avvicinavo alla zona dei bagni, eproprio in quelle prossimità c’erano due ragazzi che si bacia-vano appassionatamente, senza ritegno. Lei si faceva toccarein maniera piuttosto esplicita dal ragazzo che giunse perfinoa metterle una mano nel seno. Lei protestò a quel gesto, ani-matamente, lui rideva beffardo del bel gioco che le avevatirato, poi i due ripresero compiaciuti ad amoreggiare.

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Quel senso oscuro di violenza ridestava gli umori not-turni, mi affrettai a raggiungere il bagno con la frenesiadi masturbarmi.

La tensione era alta ma c’era anche troppa gente intorno ame. Mancava l’intimità e il vuoto, il bianco vacuo che inten-devo generare era distante e così non riuscii a venire.Maledicendomi presi il cammino inverso per ritornare versola classe e udivo l’echeggiare di voci confuse e risate, e vidianche una certa folla che si raggruppava, si ammassava e sidipanava proprio dall’ingresso della mia aula.

Il fatto di aver notato questo fatto non mi rese per questomeno indifferente. Ero nervosa, stanca, m’infastidiva tuttaquella gente intorno, ebbi il senso di soffocare.

Mi diedi un’aggiustata alla maglietta, infilandola per benenei jeans neri prima di accorgermi della causa di quel clamo-re; una scena non immaginabile si stava producendo.

Mauro, quel timido ragazzino, aveva col legno dei banchicostruito una sorta di croce. Era difficile credere a quello chevedevo, la cura con cui era stata forgiata richiedeva un lavo-ro di almeno qualche giorno.

Il ragazzo quindi dopo aver innalzato in maniera totalmen-te inspiegabile quell’arnese, vi si era appeso piazzandosi deichiodi sia nei piedi che nelle mani e anche questo era per lomeno difficile da realizzare.

Mauro, seminudo, col sangue che gli colava in rivoli spor-chi sul suo corpo smagrito, scheletrico, si era crocifisso. Ilsuo sguardo era assente, il volto senza espressione come sefosse svenuto.

Intorno s’era creato un clima di ironia e di disprezzo. Lebattute si sprecavano come i colpi e gli oggetti che venivanolanciati all’agnello biondo.

Il disegno della croce, la massa che si affollava, le immagi-ni che la mia mente generava si affastellavano confusamen-te, tutto mi infuocava e mi stordiva.

Volevo gridare, morire, mi avvicinai al ragazzo, non volevofar altro che dimenticare, lui forse sperava ancora in una mia

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parola pietosa.Invece io gli sputai negli occhi ed esclamai:«Porco C*****!»

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INDICE

LA SORELLA pag. 7

IL FANTASMA pag. 17

IL GIOVANE INCANTATORE pag. 25

L’ALCHIMIA DEL DOLORE pag. 39

LE PICCOLE MANI BIANCHE DEGLI ANGELI pag. 65

LA CROCIFISSIONE DELL’AGNELLO BIONDO pag. 93

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L’ALCHIMIA DEL DOLORE

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