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Una cultura della realtà. Rossellini documentarista To Masha, the forward-thinking kind of gal Luca Caminati
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Roberto Rossellini documentarista. Una cultura della realtà.

Jan 29, 2023

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Bengi Akbulut
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Una cultura della realtà.Rossellini

documentarista

To Masha,the forward-thinking kind of gal

Luca Caminati

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Sommario

Ringraziamenti

PrefazioneLaboratori rosselliniani e cinema del pensierodi Marco Bertozzi

La produzione documentaria alla fine degli anni ’30Il “documentario narrativo”La maniera di Rossellini

I primi esperimenti di documentario narrativo«Fantasia sottomarina»«Il ruscello di Ripasottile»«La vispa Teresa»«Il tacchino prepotente»Il documentario romanzato

«India Matri Bhumi»: la forma documentaria incontra l’alteritàLa nuova libertàIl perturbante postcolonialeRossellini a ParigiPassaggio in India«India Matri Bhumi»

I documentari televisivi sull’India«L’India vista da Rossellini»«J’ai fait un beau voyage»

I documentari d’occasione«Torino nei cent’anni»«Torino tra due secoli»«“Idea di un’isola”»«Intervista a Salvatore Allende»«Rice University»«A Question of People»«Concerto per Michelangelo»«Le Centre Georges Pompidou»

PostfazioneRossellini documentarista?di Adriano Aprà

Filmografiadi Adriano Aprà

Bibliografia

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Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia

PresidenteFrancesco Alberoni

Consiglio di amministrazioneFrancesco AlberoniGiuseppe AvatiGiancarlo GianniniGiorgio TinoDario Edoardo Viganò

Comitato scientificoFrancesco AlberoniPino FarinottiMarco MüllerAndrea PiersantiRubino RubiniSergio Sciarelli

Direttore generaleMarcello Foti

Collegio dei revisori dei contiNatale Monsurrò (presidente)Andrea MazzettiMarco Mugnai

DirettoreGabriele Antinolfi

Ufficio Coordinamento,Amministrazione e Attività Promozionalidella Divisione EditoriaMario Militello (Responsabile)Charmane Spencer (Segreteria organizzativa)

© 2011 Fondazione Centro Sperimentale diCinematografia, Romahttp://www.fondazionecsc.it

in collaborazione con Carocci Editore, Romahttp://www.carocci.it

ISBN

Prima edizione: dicembre 2011

In copertina:

Divisione Editoria

Editing e RedazioneLaura Gaiardoni

Progetto grafico e impaginazioneAlberto Guerri, Maria Romana Nuzzo

Il volume è illustrato prevalentemente confotogrammi tratti da pellicole conservatepresso la Cineteca Nazionale. Le altreimmagini, foto di scena, foto di set, foto diviaggio e una selezione di fotografie dellafamiglia Rossellini, provengono dal FondoRossellini, custodito presso la Fototecadella Cineteca Nazionale.I fotogrammi di titoli provengono daiseguenti archivi:

La Fondazione è disponibile a riconoscere ailegittimi detentori il copyright relativo allefotografie delle quali non è stato possibilereperire gli aventi diritto.

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Ringraziamenti

Questo lavoro è nato grazie all’incoraggiamento, all’entusiasmo e al-l’amicizia di Francesco Casetti, da poco professore alla Yale University,che unitamente a Dario Edoardo Viganò e Gabriele Antinolfi, si è fattopromotore del progetto presso il Centro Sperimentale di Cinematografia diRoma. Al Centro Sperimentale ha subito trovato l’incondizionato appog-gio di Mario Militello, responsabile del coordinamento per la DivisioneEditoria, dove ha preso l’attuale forma di libro grazie agli occhi attentidell’editor Laura Gaiardoni. È stata Laura a suggerire il titolo Una culturadella realtà, che coglie in pieno lo spirito del volume. Per la ricca parte ico-nografica e l’elegante impaginazione del testo ringrazio Alberto Guerri(reparto grafico).La gran parte della ricerca e della scrittura di questo volume è avvenutaa Roma, grazie alla borsa di studio Paul Mellon/NEH (National Endowmentfor the Humanities) della American Academy per l’anno accademico2009/2010. Il soggiorno in Accademia mi ha permesso di condurre la ri-cerca su fonti spesso rare o sconosciute, e ho potuto godere dell’apportoanedottico di molti studiosi e testimoni. In particolare, ho avuto la fortunadi accedere all’archivio privato di Adriano Aprà, che mi ha generosamentemesso a disposizione materiale inedito o parzialmente edito e che si è gen-tilmente prestato a scrivere un suo intervento per questo volume. Perl’aspetto bibliografico ho avuto l’incondizionato aiuto di Laura Ceccarelli,della Biblioteca “Luigi Chiarini” del Centro, e di Anna Maria Licciardello,dello staff di Enrico Magrelli, Conservatore della Cineteca Nazionale. Ègrazie ad Antonella Felicioni (archivio fotografico della Cineteca Nazio-nale) che ho potuto consultare le immagini appartenenti al Fondo Ros-sellini. A Roma mi è stata di grandissimo aiuto la collega e amica IvelisePerniola, che mi ha immediatamente messo a disposizione il suo archivioprivato e mi ha permesso, attraverso le nostre conversazioni, di trovare lagiusta via per continuare questo studio. Ivelise è stata anche lettrice at-tenta del primo capitolo. Marco Bertozzi si è gentilmente prestato a leg-gere il manoscritto, e i suoi commenti sono stati essenziali. Sua è la bellaprefazione a questo volume, di cui gli sarò sempre grato. Ringrazio Giuzzo

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Laboratori rosselliniani e cinema del pensierodi Marco Bertozzi

Il libro di Luca Caminati traccia un percorso emblematico per la rifles-sione sul cinema del reale. Almeno per tre motivi. Il primo, naturalmente,sta nell’immersione dell’autore nel Rossellini documentarista. Caminaticorre pienamente i rischi del confronto con un cinema più volte definito,in toto e semplificando molto, “documentario”. All’ambiguità del terminein sé si aggiunge l’incertezza teorica di una critica che vedeva nel neo-realismo un movimento ontologicamente documentario: come se fra ilmondo e la sua messa in forma filmica non esistessero scarti, aporie, de-ragliamenti. Ecco, la riflessione sul rapporto fra “realtà” e “finzione” inRossellini ci obbliga invece ad affinare gli sguardi: ad attraversamentilenti, nell’osservazione minuziosa di alcune derive dell’idea documenta-ria, fra cinema antropologico e divulgazione televisiva, documentario dicreazione e film saggio, cortometraggio ludico-espressivo e documenta-rio scientifico. Il motto rosselliniano «per pensare bisogna sapere»1 illu-mina un cinema con aspirazioni saggistiche, un cinema per esprimersi,un cinema che “sbanda” nell’ascolto/incontro con il mondo. Un campoaperto, irrorato da idee libere da preconcetti – uno, fra tutti, il documen-tario come “genere” – in cui emerge il laboratorio di uno sperimentatorecapace di ibridare diversi campi cinematografici.Per questo il bel libro di Caminati ha una ricaduta importante sul docu-mentario contemporaneo. Osservando la molteplicità degli approcci ros-selliniani, ci impone una riflessione sulle forme cinematografiche delpresente e spinge a confondere gli sguardi fra “osservazione documenta-ria” e “finzione realistica”. Trasferte scopiche garantite dall’accoglienzadell’epifanico: nella capacità, per il cinema di Rossellini, di aprirsi all’ac-cadimento, all’imprevisto, all’intrusione del fato. Atti di accoglienza peruna ricostruzione del mondo baciata dal pensiero figurale ma lontanadagli agonismi intellettuali della cultura istituzionale. Un insegnamentoper l’oggi, l’idea che lo sguardo documentario non garantisca certezze masolo ricchezza, e deragliamento, di punti di vista. Proprio osservando isuoi documentari su popoli e culture – penso, ad esempio, a India MatriBhumi (1957-1959) o a “Idea di un’isola” (1967), sulla Sicilia e i siciliani

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Barbaro, figlio di Umberto, attraverso i cui aneddoti siamo riusciti a rico-struire pezzi mancanti della storia del cinema italiano. Alfredo Baldi miha generosamente aperto le porte del suo ufficio privato per permettermidi consultare materiale inedito. Il giovane novantenne Vittorio Carpi-gnano, studente al Centro nel biennio 1938-1939, ha permesso di rico-struire alcuni momenti iniziali della carriera di Rossellini. Viva Paci si ègenerosamente prestata a leggere una versione primitiva del testo. Vero-nica Pravadelli e Paolo Bertetto hanno offerto il loro aiuto e la loro ami-cizia durante il mio soggiorno romano. E, last but not least, RenzoRossellini, che in un terso giorno di febbraio mi ha concesso un incontronei suoi uffici romani, non sapendo che non sarebbe più riuscito a libe-rarsi di me. A Renzo e alla sua amicizia questo volume deve tantissimo intermini sia accademici che personali.Un grazie sentito va alla Concordia University di Montreal, e alla Facultyof Fine Arts che mi ha generosamente garantito i fondi necessari per fi-nire il lavoro. Un grazie particolare ai miei colleghi della Mel Hoppen-heim School of Cinema, che mi hanno accolto fin da subito con grandesimpatia e calore. È grazie a loro e ai nostri entusiasti studenti se la miaricerca scientifica trova sempre nuovi stimoli.La lettrice più attenta di questo libro, e che ne ha seguito lo sviluppo dalsuo incipit, è stata, come sempre, Masha Salazkina, che con le sue unichequalità “transnazionali” ha potuto liberare Rossellini dalla palude italiana,e inquadrarne l’opera in una più corretta dimensione europea e interna-zionale. A lei, e ai rosselliniani di ieri e di oggi, dedico questo lavoro.

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gendo altri autori: cito, ad esempio, le opere documentarie di Pier PaoloPasolini, sino a pochi anni fa ritenute minori, quei meravigliosi film informa di appunti “ridotti” a semplici sopralluoghi per opere narrative a ve-nire.Alfine, il libro di Caminati illustra un percorso esemplare per un cinemadel pensiero. L’idea di una realtà non esplicabile si confronta con scartidalla visione documentaria, ritenuta, di volta in volta, ammissibile. Un li-vello di sorveglianza tenero – che rifiuta la dittatura della sceneggiaturachiusa – in cui l’ammissione dell’inatteso illumina una poetica senzascampo. Una ricerca costante, di un autore dalla vocazione multimediale,attratto da un visibile mai domo.

1. Roberto Rossellini, Islam. Impariamo a conoscere il mondo mussulmano, Don-zelli, Roma, 2007, p. 4.2. Ivi, p. 3.

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– l’inizio giornalistico, fortemente descrittivo, viene via via abbandonatoa favore di un tempo dell’attesa e dell’introspezione, in cui la dimensionesocio-antropologica perde i suoi connotati “scientifici” – Gianni Celati di-rebbe “amministrativi” – per irrorare il film di sguardi perduti sulla vitaquotidiana dell’uomo in quanto tale. È quel «paziente lavoro di rammendodella specie umana»2 che Rossellini amava ricordare. E che solo il tempodell’attesa riusciva a saturare.Un altro importante aspetto del libro di Caminati riguarda il “racconto”dell’esperienza realistica antecedente il neorealismo. Come per Michelan-gelo Antonioni, l’esempio di Rossellini è probante e costituisce un preci-pitato dell’avanguardia documentaria al neorealismo. Una emergenzanecessaria, che accomuna tutto il miglior cinema italiano del periodo: unosguardo che non è solo questione di occhi, ma che pervade, congiunta-mente, etica ed estetica. Un attacco all’ammissibilità del realismo di regimeche, ben prima del crollo di Mussolini e della disfatta bellica, trova isti-tuzioni e intellettuali fascisti opporsi all’invisibilità del “paese reale” perincontrare ambienti dal vero e attori sociali, professioni nascoste e lingueregionali, tragedie locali e drammi nazionali. Uno sguardo intriso di at-tenzione agli aspetti della realtà fenomenica che parte dal documentarioe, in Rossellini, informa la serie di opere “ibride” della trilogia della guerra,La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L’uomo dalla croce (1943).Si tratta di film di finzione girati in piena guerra ma privi di facili tenta-zioni retoriche o direttamente propagandistiche, permeati piuttosto da unevidente stile documentaristico. Caminati, inserendosi in un percorso sto-rico-critico recentemente suffragato anche da altre ricerche, evidenzia ilfiume carsico di esperienze capaci di instaurare quel nuovo modo di guar-dare il mondo. Esperienze che, ben prima del neorealismo, correggono, inmaniera quasi dimessa, il compito di glorificazione chiesto loro dalla re-torica del regime.Il terzo motivo d’interesse del libro di Caminati riguarda l’espansione cri-tica verso opere normalmente dimenticate dai tradizionali studi di storiadel cinema. La scarsa considerazione critica dei documentari – a parte raricasi, in cui la rilevanza dell’oggetto indagato sembra obbligare, di per sé,la necessità della riflessione – conduce la non-fiction a una assurda pe-nombra storiografica (non essere nemmeno inserita nelle filmografie degliautori). Indegni di una specifica analisi filmica. Una serie di partiti presi– l’associazione del documentario all’idea di breve durata; il ritenerlo pa-lestra di formazione per ambire poi al “vero” film, quello narrativo; l’in-tenderlo poco più di una mera osservazione del mondo e molto meno diuna sua messa in forma originale – riduce questo cinema, soprattutto neglistudi italiani, a un ruolo ancellare del “cinema che conta”. Eppure le cosesono andate diversamente e senza autori come Dziga Vertov o Vittorio DeSeta, Joris Ivens o Frederick Wiseman, Raymond Depardon o ArtavazdPelesjan la storia del cinema sarebbe stata un’altra storia. Caminati, insintonia con la recentissima nouvelle vague storiografica, allarga dunquele maglie del visibile per consegnarci una importante revisione del per-corso rosselliniano. Un allargamento che, congiuntamente, sta coinvol-

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La produzione documentaria alla fine degli anni ’30

L’importanza del dibattito sulla natura del rea-lismo nell’arte e nella cultura di massa del re-gime fascista, più in particolare sul ruolo deifilm e della narrativa (fiction e non-fiction)nella formazione della cultura del Ventennio,recentemente intrapreso da alcuni critici nor-damericani – tra cui spicca il lavoro di RuthBen-Ghiat, Fascist Modernities – costringe glistudiosi a rivalutare il ruolo del documentarionello sviluppo della modernità italiana1. Do-cumentari e cinegiornali giocarono un ruolochiave nel processo di modernizzazione por-tato avanti dal regime, sia come documenta-zione del successo delle iniziative governative(l’immagine del duce come guida in ognicampo del processo è uno dei segni iconici di quest’epoca) sia come parteintegrante di una spinta verso un più diretto contatto con la realtà2. L’ideache il realismo (il “neorealismo”) fu un’opzione solo postbellica sembraormai un ipotesi svalutata della cui genesi sono responsabili molti criticicinematografici ed esponenti culturali del dopoguerra (quelli che per primiscrissero la storia del cinema italiano). Essi s’impegnarono a fondo a dif-ferenziare il “nuovo” cinema (e loro stessi) da ogni prodotto culturale con-taminato dall’ideologia dell’era fascista3. E infatti per quel che riguarda ilneorealismo, invece di guardare indietro al cinema di quegli anni, tuttigli intellettuali guardarono sul piano geografico fuori dall’Italia e sulpiano cronologico a un periodo antecedente, allo scopo di localizzare inun mitico altrove il milieu culturale del nuovo cinema del dopoguerra4.Inoltre gli storici del cinema hanno associato la produzione documenta-ristica prebellica con i cinegiornali dell’Istituto Nazionale LUCE, conosciutiper le loro implicazioni didattiche e propagandistiche, senza prendere inconsiderazione la ricca produzione di altri tipi di film non-fiction5. A unlivello ideologico-culturale più complesso, quest’omissione può riflettere

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flessioni critiche e storiche e le esperienze pratiche» e ad «assorbir le pra-tiche realiste» del documentario in Italia12.A dire il vero una retorica “realista” era già parte della discussione sulrealismo nel cinema degli anni ’30, come ampiamente provato da GianPiero Brunetta e Ben-Ghiat13. Riviste letterarie come «L’Universale», «LaLibra» e «Occidente», e personalità del calibro di Berto Ricci, Ottone Rosaie Dino Garrone erano coinvolte in questo dibattito. E tra loro spiccavacertamente Barbaro, il cui ruolo nel dispensare una poetica realista è giàstato investigato in profondità da Brunetta.Il ruolo del film di non-fiction nella tarda era fascista è evidenziato, pro-prio nel primo numero di «Bianco e Nero», dalla traduzione di un’ampiaselezione tratta da Movie Parade di Paul Rotha del 193614, e l’interesse delCentro Sperimentale per il “documentario narrativo” sembra essere unnesso mancante intenzionalmente trascurato nella storia del neorealismo.Questa connessione tra cinema “dal vero” e neorealismo può ora essere ri-condotta a un momento precedente. Quando il termine “neo-realismo”venne applicato per la prima volta in Italia – prima della sua più tardacomparsa nelle riviste di cinema intorno al 1948 – fu nel contesto di unriferimento al documentario. Nella sua genealogia del termine, StefaniaParigi afferma che, dalla metà degli anni ’30, i critici italiani applicaronoquesta definizione a esperienze estetiche diverse, per esempio al docu-mentario del GPO (General Post Office) capitanato da Grierson15. Era lastessa parola che Cavalcanti avrebbe suggerito a Grierson di utilizzare peril suo lavoro documentaristico16. Il fatto che “neorealismo” sia un termineelastico degli anni ’30 è allora significativo di una generale tendenza fi-losofica e sociale al ritorno a un più rigoroso impegno con la realtà. Ilneorealismo storico (l’effettivo movimento cinematografico del dopo-guerra) è il culmine di un lungo processo di ravvicinamento tra arte e re-altà nella Weltanschauung italiana ed europea.

Il “documentario narrativo”Anche un’occhiata superficiale ai documentari prodotti durante la secondadecade del regime fascista (1933-1943 ca.), fatta eccezione per i cine-giornali propagandistici LUCE, mostra come questo nuovo genere stranieropresentasse stimolanti possibilità per i registi italiani. Su riviste e giornalidel tempo, la grande popolarità delle indagini sociali di Grierson (TheDrifters, 1929), i documentari narrativi di Flaherty (Nanook of the North[Nanuk l’esquimese, 1922], Moana [L’ultimo eden, 1926] e Man of Aran[L’uomo di Aran, 1934]), insieme con esperimenti simili di docu-fictioncome Tabu (Tabù, 1931) di Friedrich Wilhelm Murnau, stimolò un gruppodi registi italiani attivi su simili linee di lavoro “ibride”. Mino Argentieri,nel suo L’occhio del regime, ricorda che Sandro Pallavicini negli Stati Unitiscopre The March of Time (nel 1934)17, il cinegiornale di Louis de Roche-mont, in seguito produttore anche di semidocumentari dalle tinte narra-tive noir, come per esempio Boomerang (Boomerang, l’arma che uccide,1947) diretto da Elia Kazan. Questo “genere” era stato vagheggiato in Ita-lia principalmente da chi disquisiva di un cinema che si liberasse dall’ar-

il pregiudizio culturale, stabilito dal criticismo crociano, contro il docu-mentario come prodotto “non artistico”. E una volta attribuito al neorea-lismo lo status di cinema modernista (sia in senso storico, come cinemadel pre-boom, sia in senso estetico, come fa Gilles Deleuze quando pro-prio nel neorealismo identifica la frattura tra cinema-movimento e il mo-derno cinema-tempo6), quest’omissione può rispecchiare una particolarelettura “liberal” del neorealismo come cinema d’arte, non contaminato daforme basse come il documentario. L’insistenza dei primi storici del ci-nema italiano (come Umberto Barbaro nelle sue recensioni, o Carlo Liz-zani nella sua Storia del cinema italiano) sulle fonti letterarie e pittoricheindigene riflette proprio quest’ansia verso il métissage e l’ibridazione ar-tistica7.La mia ricerca mostra infatti come negli anni ’20 e ’30 ci fosse in realtàuna vitale cultura cinematografica italiana che generò un interessante –sebbene piccolo – corpus di documentari, e un dibattito culturale moltovivace sulla questione del realismo nelle arti e nel cinema in particolare.Sebbene il dibattito sorto intorno al documentario scompaia con il fioriredel neorealismo dopo il 1945, esso era stato in realtà molto animato dal1935 circa sino alla fine della guerra. Molti degli autori di «Cinema» (cul-turalmente gravitante intorno all’Istituto LUCE sotto la direzione di Vitto-rio Mussolini, figlio del duce) e di «Bianco e Nero» (pubblicata dal CentroSperimentale di Cinematografia di Roma a partire dal gennaio 1937) – ledue più influenti riviste di cinema dell’epoca – discutono l’impatto avutodai registi documentaristi John Grierson, Alberto Cavalcanti, Joris Ivens,Robert Flaherty e dal fotografo Walter Evans sul cinema italiano, eviden-ziando l’importanza di questo genere per lo sviluppo del cinema contem-poraneo. Tra le varie discussioni sul documentario come genere, quel chepiù spicca è il dibattito sul “documentario narrativo” (come Cavalcantidefinisce questo tipo di film alla Flaherty che mescola fiction e non-fic-tion)8. Le serie discussioni critiche generate dal cinema documentario pos-sono fornire un grande contributo alla storia – sempre in evoluzione –del cinema documentaristico italiano e alla altrettanto complessa rela-zione tra fiction e “modi” del documentario9. Senza dimenticare un fattomolto pratico: è infatti del 1926 (Regio Decreto Legge n. 1000) la legisla-zione che impone ai teatri di mostrare cinegiornali e documentari primadi ogni proiezione di un lungometraggio10. Non è dunque un caso che lafine degli anni ’30 veda fiorire nuove compagnie di produzione (come peresempio la Dolomite Film per cui lavoreranno sia Roberto Rossellini cheLuciano Emmer, tra gli altri). La volontà propagandistica mussolinianatrova pronti mercanti della prima e dell’ultima ora. Vittorio Carpignano,allievo del Centro Sperimentale nel biennio 1938-1939, ricorda come «sifacessero film in fretta e furia, tanto da venderli ai distributori» e ottenerecosì i fondi pubblici11. Ma prima di addentrarci nella storia della praticadocumentaristica e della sua ricezione in Italia, dobbiamo confrontare lasua assenza dalla maggior parte delle storiografie del neorealismo e il con-testo storico di questa importante omissione. In breve, per dirla conAdriano Aprà, è stato proprio il “realismo” neorealista a far fuori «le ri-

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dina che dipinge ventiquattro ore nella vita del Lumpenproletariat pari-gino. Nel 1934 Cavalcanti si unì all’Empire Marketing Board di Griersone poi alla Film Unit del GPO, divenendo una delle forze trainanti del mo-vimento documentaristico britannico e lavorando ad alcuni dei capolavoriGPO come Coalface (1935). Egli aveva inoltre regolari contatti con la scuoladel Centro Sperimentale e collaborò con regolarità a «Bianco e Nero». Unarticolo intitolato Documentari di propaganda, pubblicato nel 1938, co-struisce una genealogia per il “documentario narrativo”, da non confon-dersi, nella tassonomia di Cavalcanti, con il “documentario puro” diGrierson. Il “documentario narrativo”, soprannominato a volte “docu-mentario poetico”, ebbe i suoi precursori in Nanuk l’esquimese e L’ultimoeden, Grass: A Battle for Life (1925) e Chang: A Drama of the Wilderness(1927) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper e in La croisière noire(1927) di Léon Poirier. Il ruolo di Cavalcanti come intermediario tra Lon-dra e Roma e come partecipante attivo alla vita del Centro è attestata dauna breve nota non firmata apparsa su «Bianco e Nero» nel 1940: «Ab-biamo visto privatamente alcuni documentari prodotti in Gran Bretagnada Alberto Cavalcanti. Cortimetraggi che sono costati poco, ma realizzatida persone di vivo entusiasmo e dotate di uno spiccato senso del cinema.

tificiosità degli studios, dalle manipolazioni drammaturgiche, dalle con-taminazioni letterarie e teatrali e dal divismo, avendo come paradigma ifilm di Flaherty e della cinematografia sovietica muta. Ma a caldeggiarloerano stati anche i propugnatori di un cinema che fosse più stretto allaideologia e alla “rivoluzione culturale” fasciste. Forse il primo caso italianodi fiction/non-fiction è Palio (1932), diretto da Alessandro Blasetti conAnchise Brizzi come direttore della fotografia (lo ritroveremo nello stessoruolo in “Sciuscià” [Ragazzi], 1946, di Vittorio De Sica). Il film viene de-scritto da Barbaro come «misto di documentario e di narrativo […], nemicodegli stacchi rapidi e del montaggio alla russa, [Blasetti] usa spesso car-rello e panoramica teso com’è all’intenzione di dare consistenza narra-tiva e fluidità ai suoi film»18. Un simile esperimento viene condotto l’annosuccessivo: è Camicia nera di Giovacchino Forzano, prodotto dal LUCE e di-stribuito nel marzo del 1933. Girato parzialmente in Maremma con attorinon professionisti, impressionò i recensori dell’epoca, tra cui “V. L.” chescrive: «Antiletterario e antintellettuale, non curante dei dettagli, sprez-zante di ogni sottigliezza tecnica, nemico giurato del decorativismo e delcalligrafismo, totalmente devoto alla descrizione [...], fondamentalmentedisinteressato alla fotografia e agli effetti di luce, il film ha un caratterenaturalista e positivista, tutto sostanza e niente forma. Cosa si può dire,in una parola, è che è opera di ingegno [...]. La luce dominante del film è[...] l’oscurità. Tutte le inquadrature sono sommerse nell’ombra, in oscuree grigie zone d’ombre, così che c’è dunque un tono antielegante ma digenuina spontaneità. La fotografia è verista, senza eccessiva morbidezza,poco lavorata e assolutamente mancante di ogni pulitura finale»19.Per avere un vero spostamento di attenzione verso più interessanti formedi documentario bisogna però aspettare la figura cosmopolita di Caval-canti. Questo intellettuale di origini italiane, nato in Brasile ed educato inFrancia, si trasferì a Parigi alla fine degli anni ’20 e iniziò la carriera nelcinema come scenografo. Il suo primo lungometraggio è un documenta-rio sperimentale, Rien que les heures (1930), una sorta di sinfonia citta-

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vidua una questione chiave del rapporto Cavalcanti-Grierson. MentreGrierson si dimise dal GPO nel giugno 1937, Cavalcanti vi rimase: è a que-sto punto che Cavalcanti conduce la GPO Film Unit lontano dalle discus-sioni teoriche su educazione pubblica e arte e verso film fortementedipendenti dalle tecniche narrative dell’industria dei film commerciali... Lostory-documentary fece la sua prima apparizione quando Grierson era an-cora al Post Office23. In questo stesso nuovo tono populista Harry Wattprodusse The Saving of Bill Blewitt (1936). Questo film aveva dialoghiscritti, scenografie e, la cosa più significativa, era costruito intorno a unastoria completamente immaginaria. Esso, tuttavia, era anche realizzato ingran parte in esterno e con attori non professionisti, persone reali che re-citavano in eventi che avrebbero potuto molto probabilmente accaderenel corso della loro esistenza quotidiana. Come Swann non manca di in-dicare, questo film «anticipa per alcuni aspetti le tecniche di produzionee l’estetica del neorealismo italiano»24. Bill Blewitt fu infatti un rifiutodella precedente tradizione griersoniana del didatticismo a favore di unapproccio molto più umanistico, che intimoriva meno quanto a soggettifilmici e vicinanza allo spettatore. «Lo story-documentary, in contrastocon la tradizione griersoniana, conta in primo luogo sulla continuity dimontaggio del convenzionale film in esterno. In questo tipo di produzionecinematografica, il peso del film era portato entro la narrazione e le per-formance degli attori. Watt aveva imparato come gestire i non-attori neifilm dal suo apprendistato sotto Robert Flaherty»25. La nuova direzionedel GPO da parte di Cavalcanti si manifestòanche nell’insistenza su attori non profes-sionisti impegnati a recitare una sceneggia-tura26.L’influente figura di Cavalcanti nello svi-luppo del “documentario narrativo”, o story-documentary, deve aver trovato un pubblicoentusiasta tra gli studenti, gli insegnanti e iseguaci del Centro27. In un articolo su «Ci-nema» del 1939, Barbaro ammonisce controil mero didatticismo nel documentario, epromuove invece L’uomo di Aran comeesempio di arte e documentazione28. In sensopiù generale, i registi e i critici cinematogra-fici italiani aderirono all’interesse mondialeper il nuovo genere del documentario, come provato dall’insistita pubbli-cazione degli interventi di Rotha su «Bianco e Nero» e dalla pubblicazione,nella sua interezza, della traduzione di Raymond Spottiswoode, A Gram-mar of the Film, nel 193829. E i documentari del GPO trovano posto anchea Venezia: Night Mail (1936) di Basil Wright e Watt (prodotto da Grierson)viene presentato nel 1936. North Sea (1938) di Watt (prodotto da Caval-canti) nel 193830. Ne sono un esempio tutti i documentari dell’epoca chefacevano riferimento alle varie tendenze europee, come la sinfonia dellacittà, o gli studi umanistici di eventi o località specifiche31. È il caso di Ac-

Quello che soprattutto ci ha interessato è stato il modo con cui è statoimpiegato il sonoro: rumori, parole, musica. Invece, nei documentari ita-liani che di rado si proiettano nei nostri cinema, non accade mai di me-ravigliarsi per l’impiego del sonoro. Quasi sempre è una musichettagenerica che commenta il susseguirsi delle immagini. Del resto, la mag-gior parte dei documentari italiani è prodotta da individui il cui nome ètaciuto sulle didascalie dei film»20.La posizione di Cavalcanti come modernizzatore della scena documenta-ristica italiana non è stata ancora pienamente apprezzata. Sembra tutta-via chiaro che fosse spesso in Italia e a Roma fino al 1942, quando nonpoté più entrare in Italia perché il suo passaporto brasiliano fu ritenuto so-spetto21. La questione del suono sollevata dai redattori di «Bianco e Nero»punta in direzione di un suo “uso creativo” e in particolare della gestionedi elementi diegetici e non diegetici. L’enfasi di Grierson su “suoni” e “pa-role” impressionò i registi italiani probabilmente per il loro realismo22. InThe British Documentary Film Movement, 1926-1946, Paul Swann indi-

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struita attorno ad alcune vignette strappalacrime: il soldato che apre la let-terina inviata dal figlio (contiene una foto del bimbo con impresso «per ilmio papà»), l’altro che segretamente ritaglia immagini di dive da attaccarealla parete (potrebbe anche essere una forma di autopubblicità dell’indu-stria cinematografica), la radio che dà voce a uno dei figli dei soldati fe-riti. Il film è ovviamente “scritto”: infatti non sembra affatto girato su untreno ma in studio, con fondali a riproporre il movimento attraverso i pa-norami europei. Sempre di Carpignano è da segnalare Noi mondine (1941),film di 10 minuti dall’assetto narrativo tradizionale, ma narrato in primapersona da una “mondina”. La voce femminile, rara all’epoca, invoca com-passione per il duro lavoro delle risaie, e per certe immagini ricorda ov-viamente tutta la produzione seguente sul tema, da Riso amaro (1949) diGiuseppe De Santis a La risaia (1955) di Raffaello Matarazzo. Un precur-sore del genere narrativo potrebbe essere il film di Francisci Neve sull’Ap-pennino (1935). Il film è un lungo infomercial per la stazione sciistica delTerminillo: ma il tutto è mostrato attraverso il colpo di fulmine di due va-canzieri. Francisci girerà anche nel Sosta d’eroi sulle navi ospedale. Il filmè costruito intorno a una serie di sketch che coinvolgono, neanche a dirlo,mamme, lettere, messaggi radio ecc.

ciaio (1933) di Walther Ruttmann, ispirato da un testo di Luigi Pirandello(e da questi sconfessato), Il canale degli angeli (1934) di Francesco Pasi-netti, Il ventre della città (1933) di Francesco Di Cocco, Cantieri del-l’Adriatico (1932) di Barbaro e Il pianto delle zitelle (1939) di GiacomoPozzi Bellini. Non è dunque difficile immaginare che Cavalcanti trovò nelCentro un terreno fertile. L’intervento su «Cinema» di Pietro Francisci, do-cumentarista autore di Armonie di primavera (1940) e Sosta d’eroi (1941),e direttore artistico sotto Sandro Pallavicini alla INCOM (Industrie Corti Me-traggi), polemicamente intitolato Del “puro” e del “romanzato” nel docu-mentario, e aspramente critico della nuova classificazione, testimonia delvivo interesse e partecipazione di critici e autori32.

La maniera di RosselliniAnche se la via italiana verso il “documentario narrativo” non raggiunsei risultati di altri paesi né in termini di qualità né in termini di quantità, ilmodo fu certamente visto come un possibile campo di espressione, esplo-rato da alcuni registi già nei primi anni ’30. Piuttosto che parlare di veridocumentari narrativi, possiamo dire che troviamo delle istanze narrativein molti dei documentari dell’epoca. Ne sono un esempio due brevi docu-

mentari sullo stesso soggetto: Comacchio(1940-1942) di Fernando Cerchio e Gente diChioggia (1940) di Basilio Franchina da unsoggetto di Giovanni Comisso. La gente e lavita del delta del Po – di lì a pochi anni ri-presi prima da Michelangelo Antonioni nelsuo Gente del Po (1943-1947), e poi da Ros-sellini nell’ultimo episodio di Paisà (1946) –vengono descritti focalizzando l’interessedello spettatore su microstorie (un pesca-tore, un bambino, una famiglia ecc.) all’in-terno di un arco narrativo relativamentetradizionale, accompagnato da musica dalsapore modernista e immagini a tratti ancheleziose, in cui si investigano i diversi aspettidell’attività della pesca. Interessante in que-

sto senso l’incipit di Gente di Chioggia. Mentre la prima scena ci mostra unabarca di pescatori al largo in preda a una tempesta (visivamente vicino aThe Drifters), subito dopo una triste colonna sonora accompagna la pano-ramica di una donna con i bambini in ovvia attesa al porto. Piuttosto al-lora che l’oggettivismo griersoniano, qui diventa più evidente comemodello North Sea, dove il documentarista segue e modella con parti scrittela vita di un gruppo di pescatori scozzesi33. I due film, di soggetto simile,mostrano la grande differenza di approccio tra il GPO di Grierson e di Ca-valcanti, e l’ovvio effetto di quest’ultimo sugli italiani. Un altro interes-sante esempio è il melodrammatico T.O. [Treno Ospedale] 34 (1941) diCarpignano. Il film, di 12 minuti, segue un gruppo di soldati di ritorno dalfronte russo dentro il loro vagone ospedale. Ma la narrazione è tutta co-

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di André Bazin in relazione al neorealismo nel suo Un’estetica della re-altà36) come in Roma città aperta (1945) di Rossellini e Ladri di biciclette(1948) di De Sica, si presta certamente a deviazioni che non hanno unaprimaria motivazione narrativa. È interessante il fatto che mentre il filmha una chiara impostazione teleologica (le navi salveranno i nostri eroi?),i molti “a parte” arricchiscono l’umanità della storia, aumentando il va-lore documentario del film. Un episodio di questo tipo è la scena nellaquale la madre di uno dei marinai intrappolati nel sottomarino è ritrattamentre conversa con un ufficiale dellaMarina. La donna afferma che il suosesto senso le dice che suo figlio è mortoe che la Marina le sta nascondendo in-formazioni. Questa scena esemplifica ilmodus operandi di De Robertis. Da unaparte l’ostentazione del grande pro-gresso tecnologico della Marina e la suaassoluta dedizione ai marinai nelle cir-costanze più difficili, dall’altra l’inseri-mento di un tono melodrammatico equasi comico (l’effettiva conversazionetra madre e figlio). Analogamente, inRoma città aperta vediamo Don Pietrorecitare un ruolo insieme comico edrammatico (come nella ricerca dei ri-belli in casa di Pina, che si conclude conDon Pietro che sferra una padellata sulla testa di un vecchio). Come giànotato da Franco Venturini nel suo articolo del 1950, Uomini sul fondoscomparve dalla storia ufficiale del neorealismo, per essere sostituito,come abbiamo visto, da ben più illustri predecessori letterari37. Compren-dere la teoria che sottende la pratica della produzione cinematograficanon-fiction in Italia nei tardi anni ’30 è inoltre vitale per capire il feno-meno delle origini confuse e composite del neorealismo nel dopoguerra.Ogni storia del cinema italiano mancherebbe certamente di un pezzomolto importante del puzzle senza l’animata scena del documentario ita-liano dei tardi anni ’30.È questa dunque l’atmosfera culturale che accoglie il giovane Rossellini,cineasta autodidatta e sperimentatore di forme nuove di narrazione. Ri-sulta insomma chiaro come il cinema documentario di Rossellini nonnasca da una intuizione privata ma da una complessa rete di motivi sto-rici, commerciali e artistici. Ma a questo milieu, Rossellini aggiunge fin dasubito un soggetto inaspettato: il mondo animale.

1. Sulla questione del realismo in ambito fascista, oltre al citato seminale vo-lume di Ben-Ghiat, Fascist Modernities. Italy, 1922-1945, University of Califor-nia Press, Berkeley, 2001, si veda anche il primo capitolo del volume di NicolettaMisler, La via italiana al realismo. La politica culturale artistica del P.C.I. dal 1944

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Il “documentario narrativo” più vicino alla sua definizione europea, eanche quello che incontrò maggior successo di critica e pubblico, è Uo-mini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis. Prodotto dal Centro Ci-nematografico del Ministero della Marina Militare Italiana, utilizza soloattori non professionisti per raccontare la storia del salvataggio di un sot-tomarino militare presso la costa di La Spezia. Se da un lato esso fu in-teso come vetrina per la Marina allo scopo di impressionare, con il suoequipaggiamento tecnologico d’avanguardia, il pubblico italiano all’iniziodella guerra, il film si trasforma molto rapidamente in un’avvincente sto-ria di valori umani. Rossellini è stato presente sul set del film, secondo TagGallagher, almeno per qualche giorno34, e certo vi sono molte affinità traquesto film e quelli realisti del dopoguerra35. La combinazione di momentialtamente drammatici (le navi troveranno il sottomarino nella nebbia?) sialternano a lunghe riprese dove la sofferenza dei marinai per la mancanzadi ossigeno e la pressione nel sottomarino affondato è ritratta con insi-stenza. I marinai sono al tempo stesso anonimi (hanno tutti gli stessi abitie la stessa espressione) e identificati da alcune qualità specifiche: l’ac-cento, la foto della madre, il cibo nascosto nei pantaloni. La struttura nar-rativa, sebbene non così episodica ed “ellittica” (per usare la terminologia

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tra il pubblico prima della guerra e quello del dopoguerra. Cfr. Mariagrazia Fan-chi, Elena Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del ci-nema in Italia 1930-1960, Edizioni di Bianco & Nero-Marsilio, Roma-Venezia,2002, p. 9.5. Sull’Istituto LUCE e la propaganda fascista si veda Mino Argentieri, L’occhiodel regime, Bulzoni, Roma, 2003 (I ed. L’occhio del regime. Informazione e pro-paganda nel cinema del fascismo, Vallecchi, Firenze, 1979).6. Cfr. Gilles Deleuze, Oltre l’immagine-movimento, in Id., Cinema 2. L’imma-gine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989.7. Nel recensire Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Barbaro scrive: «Ilfilone aureo della tradizione cinematografica italiana, non per fattori esterni maper complesse determinanti storiche, è rappresentato dal racconto popolare diintrigo intrecciato e condotto con un realismo di carattere prevalentemente vi-sivo; tendenza legata alla tradizione della narrativa e del teatro meridionaledell’800, i cui più alti campioni sono naturalmente Verga e Di Giacomo, ma lacui origine potrebbe farsi risalire fino alla pittura del Seicento, istaurata nel-l’Italia Meridionale dal genio fulmineo di Caravaggio e dai suoi grandi seguaciVelasquez Preti e Battistello e volgarizzata, attraverso ai Ribera e alle presciatedi Luca Giordano, fino agli Aniello Falcone, Micco Spadaro, e magari Dullino, DeNittis e Toma». Umberto Barbaro, La VII Esposizione di Venezia, «Bianco e Nero»,9, settembre 1939, pp. 6-7.8. Cfr. Alberto Cavalcanti, Documentari di propaganda, «Bianco e Nero», 10, ot-tobre 1938, pp. 3-7.9. Sul nesso fiction/non-fiction si vedano le bibliografie in Gary Don Rhodes,John Parris Springer (a cura di), Docufictions. Essays on the Intersection of Do-cumentary and Fictional Filmmaking, McFarland & Co., London, 2006, e in Ale-xandra Juhasz, Jesse Lerner (a cura di), F Is for Phony. Fake Documentary andTruth’s Undoing, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2006.10. Riassume bene questo momento storico Steven Ricci, Cinema and Fascism:Italian Film and Society, 1922-1943, University of California Press, Berkeley,2008, p. 60, citando da Il cinematografo e il teatro nella legislazione fascista, Co-lombo, Roma, 1936.11. Da un’intervista con Vittorio Carpignano, Roma, maggio 2010.12. Adriano Aprà, Primi approcci al documentario italiano, in A proposito delfilm documentario, Annali I, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e De-mocratico, Roma, 1998, p. 40.13. Cfr. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone del-l’amore” a “Ossessione”, Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 353, e Ben-Ghiat, FascistModernities. Italy, 1922-1945, cit., p. 47.14. Cfr. Paul Rotha, Movie Parade, «Bianco e Nero», 1, gennaio 1937, pp. 107-110 (traduzione della prefazione di Movie Parade, The Studio Ld., London, 1936).15. Cfr. Stefania Parigi, Le carte d’identità del Neorealismo, in Bruno Torri (acura di), Nuovo Cinema (1965-2005). Scritti in onore di Lino Miccichè, Marsilio,Venezia, 2005, pp. 82-83.16. Così Elizabeth Sussex riporta le parole di Cavalcanti: «L’unica differenza fon-damentale era che io sostenevo che documentario fosse una denominazionesciocca [...]. Ebbi una conversazione molto seria con Grierson nei primi, rosei

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al 1956, Mazzotta, Milano, 1963, in cui si possono trovare le indicazioni di al-cuni interessanti saggi di Mario Mafai, Renato Guttuso, e altri sulla questionerealista. Interessante, anche se limitato al mondo dell’arte, il saggio di CurzioMaltese, Vicende e problemi del realismo in Italia, «La Biennale di Venezia», 46-47, dicembre 1962. Si veda anche il mio Alberto Cavalcanti e il “documentarionarrativo”: il ruolo della tradizione documentaristica nella formazione del ci-nema neorealista, «Bianco e Nero» n.s., 567, maggio-agosto 2010, versione an-teriore del presente capitolo.2. Come recentemente ha fatto notare Francesco Casetti, il cinema rappresentail vero occhio del XX secolo, non semplicemente come mezzo di rappresenta-zione, ma – aspetto più importante – nella maniera di influenzare il modo in cuile arti guardano alla realtà. Sulla relazione tra cinema e modernità, fuori dauna possibile lunghissima bibliografia, suggerisco Francesco Casetti, L’occhiodel Novecento. Cinema esperienza modernità, Bompiani, Milano, 2005; TomGunning, The Cinema of Attraction. Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, «Wide Angle», 3-4, autunno 1986, pp. 63-70; Miriam Hansen, America,Paris, the Alps: Kracauer (and Benjamin) on Cinema and Modernity, in Leo Char-ney, Vanessa R. Schwartz (a cura di), Cinema and the Invention of Modern Life,University of California Press, Berkeley, 1995, pp. 362-402.3. Si veda Ennio Di Nolfo, Intimations of Neorealism in the Fascist Ventennio, inJacqueline Reich, Piero Garofalo (a cura di), Re-Viewing Fascism. Italian Cinema1922-1943, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2002, p. 83.4. Sui molti elementi di continuità politica e ideologica tra periodo pre e postbellico, gli storici hanno scritto ampiamente negli ultimi tempi. Lo studio più ap-profondito e perspicace resta probabilmente ancora quello di Claudio Pavone,Una Guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Borin-ghieri, Torino, 1991. Sulla questione della mancata epurazione della classe in-tellettuale e dirigente nel paese si veda Lamberto Mercuri, L’epurazione in Italia,L’Arciere, Cuneo, 1988, e Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione inItalia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2008. Per quanto riguarda gli studi sul ci-nema, Alan O’Leary ha brillantemente riassunto le questioni in gioco: «L’asser-zione di una definitiva rottura tra il cinema dell’epoca fascista e quello cheseguì la guerra è stata regolarmente messa in dubbio a partire dagli anni Set-tanta. La percezione di una rigida divisione tende tuttavia a riaffermarsi. Si po-trebbe suggerire che il breve spazio assegnato al Neorealismo nella Storia delcinema italiano, vol. VII (1945-1948), diretta da Lino Miccichè, separa inevita-bilmente il momento neorealista da quello che lo precede. Più generalmente,molti mantengono con tenacia queste radici ideologiche nell’insistere che il ci-nema della nascente democrazia e repubblica è eticamente ed esteticamente di-stinto da quello prodotto da o sotto il Fascismo. Al contrario, l’affidare alNeorealismo la posizione di cuore del cinema italiano ha l’effetto paradossaledi sostenere che qualunque cosa di qualità, compreso ciò che venne prima, siaderivata per moto centrifugo da esso». Alan O’Leary, After Brunetta: Italian Ci-nema Studies in Italy, 2000 to 2007, «Italian Studies», 2, autunno 2008, p. 284.Questa continuità è riaffermata in modo convincente dallo scrupoloso studio diMariagrazia Fanchi ed Elena Mosconi sul pubblico italiano, nel quale si sostienel’esistenza di un continuum “spettatoriale”, nei termini di esperienza visuale,

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«Bianco e Nero», 6, giugno 1938 (ed. or. A Grammar of the Film. An Analysis ofFilm Technique, Faber and Faber, London, 1935). Una nota di colore: il capitolointitolato Origin of the Documentary Movement in the Class Struggle è tradottoin italiano omettendo il riferimento alla lotta di classe, e nel testo, in luogodella sigla URSS, si impiega il vocabolo Russia.30. Cfr. Giulio Cesare Castello, Claudio Bertieri (a cura di), Venezia 1932-1939.Filmografia critica, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1959, p. 120.31. Per un’analisi di questi filoni rimando senz’altro all’esaustivo capitolo Un re-gime in luce dal volume di Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano.Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia, 2008.32. Cfr. Pietro Francisci, Del “puro” e del “romanzato” nel documentario, «Ci-nema», 159, 10 febbraio 1943.33. È interessante che Brunetta scriva: «Uomini sul fondo ricalca nella sua strut-tura iniziale – forse senza saperlo – i documentari inglesi del GPO realizzati neglianni ’30 sotto la direzione di John Grierson (tipo North Sea by H. Watt)». Bru-netta, Il cinema italiano di regime, cit., p. 137. Credo che grazie al ruolo di Ca-valcanti si possa limare quel forse.34. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,Da Capo Press, New York, 1998, p. 67.35. E bisogna anche ricordare che il direttore della fotografia del film, Ivo Pe-rilli, fu a seguito nel team degli autori sia di Riso amaro sia di Europa ’51 (1952)di Rossellini.36. Cfr. André Bazin, Che cosa è il cinema?, a cura di Adriano Aprà, Garzanti, Mi-lano, 1973 (ed. or. Qu’est-ce que le cinéma?, 4 voll., Éditions du Cerf, Paris, 1958-1962).37. Cfr. Franco Venturini, Origini del neorealismo, «Bianco e Nero», 2, febbraio1950.

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giorni a proposito dell’etichetta documentario poiché io ritenevo che andassechiamata, in modo abbastanza divertente (è solo una coincidenza, ma ha fattofortuna in Italia), Neorealismo. La risposta argomentata di Grierson – e me lo ri-cordo davvero bene – fu giusto ridere e dire: “Tu sei un personaggio davvero in-nocente. Devo accordarmi con il Governo, e la parola documentario li impressionacome qualcosa di serio”». Elizabeth Sussex, Cavalcanti in England, «Sight andSound», 4, autunno 1975, poi in Ian Aitken (a cura di), The Documentary FilmMovement: an Anthology, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1998, p. 188.17. Cfr. Argentieri, L’occhio del regime, cit., p. 198.18. Umberto Barbaro, Neorealismo e realismo II. Cinema e teatro, a cura di GianPiero Brunetta, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 474.19. V. L., Camicia nera, «Scenario», 3, marzo 1933, poi in Elaine Mancini, Strug-gles of the Italian Film Industry during Fascism, 1930-1935, UMI Research Press,Ann Arbor, Michigan, 1985.20. An., Note, «Bianco e Nero», 2, febbraio 1940, p. 67.21. Cfr. Ian Aitken, Alberto Cavalcanti. Realism, Surrealism and National Ci-nema, Flick Books, Trowbridge (Wiltshire), 2000.22. Aprà nota giustamente che è proprio «l’assenza di commento [...] il segnaledi un’ambizione d’autore». Aprà, Primi approcci al documentario italiano, cit., p.44. In una conversazione con chi scrive, Carpignano ricordava il senso di op-pressione provato ascoltando lo “speakeraggio” dei cinegiornali LUCE.23. Cfr. Paul Swann, The British Documentary Film Movement, 1926-1946, Cam-bridge University Press, Cambridge, 1989, pp. 85-86.24. Ivi, p. 86 (mia traduzione).25. Ivi, p. 88 (mia traduzione).26. «Cavalcanti una volta contattò via cablogramma David MacDonald, un re-gista “commerciale” che era stato portato alla direzione di Men of the Lightship(1940), per dirgli di rigirare l’intero metraggio “per nulla convincente” in cuiaveva impiegato attori professionisti, mentre quello che aveva girato con per-sone reali era “splendido”». Ivi, p. 163 (mia traduzione).27. La lista di studenti iscritti o affiliati al Centro Sperimentale nel 1940 è piut-tosto interessante: Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Stefano Van-zina (Steno), Gabriel García Márquez, Pasqualino De Santis, Gianni Di Venanzo,Pietro Germi, Dino De Laurentiis, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti. Tra gli in-segnanti: Barbaro, Blasetti e Pietro Sharoff.28. «L’uomo di Aran, per citare uno dei migliori documentari che si conoscano,non vale tanto per l’illustrazione delle condizioni di vita che ci offre di un certoconglomerato umano, o per la conoscenza che ci comunica della struttura geo-logica di una certa isola; ma per il valore artistico di questa, diciamo pure, do-cumentazione. Come converrà chi ricordi, in esso, la scena del bambino che siavvicina allo strapiombo sul mare della cui profondità ci fa indirettamente av-vertiti il grido del gabbiano, o le scene straordinarie della faticosa raccolta diun po’ di terra per le future povere culture. Tali che la visione dell’isola e dei suoiabitanti merita per noi la qualifica non di trattato ma di lirica». Umberto Bar-baro, Piccola storia del film documentario in Italia, «Quadrivio», 45, 7 settembre1936, p. 366.29. Cfr. Raymond Spottiswoode, Una grammatica del film, numero speciale di

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I primi esperimenti di documentario narrativo

Sugli inizi del cinema di Roberto Rossellini nella Roma fascista si è scrittoampiamente e in maniera esaustiva soprattutto grazie alle biografie degli ul-timi anni. Gianni Rondolino e Tag Gallagher, tra gli altri, hanno ricostruitopuntigliosamente gli esordi non proprio nobili di un giovane un po’ scape-strato che sembra avvicinarsi all’industria cinematografica quasi per caso. Inpochi però notano che la carriera di Rossellini inizia e finisce con il cinemadocumentario. Dall’ultimo, elegiaco e realista, film documentario sul museoBeaubourg di Parigi, ai primissimi esperimenti con il cinema della natura,Rossellini mostra un continuo interesse per questo genere, percepito comeuna via didattica di investigazione della realtà parallela al lavoro di finzione.Se è vero, come scrive Adriano Aprà, che il documentario italiano ha soffertola pesante eredità documentaristica del neorealismo, lo stesso non si puòdire per Rossellini, che abbandona il provincialismo della scena romana finda subito. Con Viaggio in Italia (1954) comincia l’avventura modernista delcinema, almeno secondo André Bazin, che allinea il film di Rossellini alprimo lungometraggio di Agnès Varda, La Pointe-Courte (1955), nella loro«semplicità avanguardistica»1, ma anche l’avventura del regista fuori dal ci-nema italiano, che comincia con la scoperta graduale dell’alterità. E propriola comprensione dell’altro, i conflitti provocati da questa dialettica psicolo-gica e ideologica sono al centro del suo cinema a venire. Affrontati sia in ter-mini comici, come il soldato afroamericano ubriaco di Paisà (1946) o ifraticelli di un altro mondo nel Francesco giullare di Dio (1950), sia neidrammi del rapporto di coppia di Stromboli (1950) o Europa ’51 (1952). Illungo viaggio di Rossellini alla scoperta dell’altro trova nel documentario unalleato importante. Soprattutto nel momento in cui il regista decide di dedi-carsi interamente al cinema come caméra-stylo, e, insieme ai suoi amici pa-rigini, l’etno-antropologo Jean Rouch e il suo giovane assistente FrançoisTruffaut per primi, di portare la macchina da presa in giro per il mondo.

«Fantasia sottomarina»La carriera documentaristica di Rossellini comincia a Ladispoli, nella villadi famiglia, dove il regista fa costruire un acquario in cui inventa una fa-

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È stato proprio Vittorio Carpignano, in un colloquio con chi scrive, afar notare la grande rivoluzione INCOM in termini di suono, e in parti-colare l’uso della voce narrante. O addirittura, come nel suo T.O. [TrenoOspedale] 34 (1941) la totale assenza del commento, lasciando invecela storia alle voci dei protagonisti. Lo stesso si può vedere nel suo suc-cessivo Noi mondine, sempre del 1941, in cui la voce narrante è quelladi una mondina (o presunta tale) che parla con toni dialettali in primapersona del duro lavoro nei campi. La sensibilità INCOM dei vari Dome-nico Paolella, Pallavicini, Pietro Francisci, si vede anche nel cortome-traggio di Corrado D’Errico Milizie delle civiltà (1941), filmassolutamente celebrativo del regime, dedicato alla costruzione dellaTerza Roma, il quartiere EUR, in cui pur nel delirio di carrelli riefensta-hliani il regista riesce a infilare un toccante momento di realismo dandovoce ai vari dialetti degli operai del cantiere. La scelta di Notari per ilfilm di Rossellini è da considerarsi una strategia doppiamente interes-sante. Da una parte questa è la voce ufficiale dei cinegiornali LUCE primae de La Settimana Incom poi. Dagli anni ’20, e poi per tutto il venten-nio del regime, è questa voce cadenzata ma senza alcun riconoscibileaccento dialettale a rappresentare sul serio la voce del padrone: affa-

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vola di pesci innamorati. Fantasia sottomarina, prodotto dalla INCOM (In-dustrie Corti Metraggi), esce sugli schermi romani in anteprima il 12 aprile1940, ma è senz’altro da attribuirsi agli anni precedenti: del ’38, secondoGallagher e Rondolino (e di sicuro non sono valide le tesi di un film ante-riore dato che la INCOM di Sandro Pallavicini fu fondata proprio nel 1938).La compagnia di Pallavicini era non solo interessata a svecchiare il docu-mentario tradizionale LUCE, con la sua pesante e didattica voce narrante, maanche a promuovere i nuovi documentari narrativi. Mentre per lo spetta-tore contemporaneo Fantasia sottomarina sembra in effetti eccessivamente“parlato”, la critica dell’epoca ne aveva percepito una storia fatta di «og-getti, animali, paesaggi»2. Situazione a dire il vero paradossale se si pensache l’INCOM era stata voluta da Luigi Freddi nel 1938 proprio perché nonsoddisfatto «dello spirito non totalmente allineato del Luce»3.Fantasia sottomarina inizia a pieno ritmo con l’orchestrazione di EdoardoMicucci; la musica non è particolarmente originale, più un pastiche dimotivetti tra il classico e il pop. I titoli di testa scorrono sull’inquadraturafissa di un fondale marino (in realtà sappiamo che si tratta dell’acquariocostruito sul tetto della casa della compiacente Zia Forzù). «C’era unavolta, così cominciano tutte le fiabe, e così possiamo cominciare anchenoi…», racconta lo speaker Guido Notari con voce allenata nell’italianostandard dell’epoca, ma senza l’enfasi fascista così comune nei cinegior-nali. Il tono è infatti quello familiare, e amichevole, di chi si rivolge a ungruppo di bambini. Le prime inquadrature di pescetti che si muovono quae là sono accompagnate da sviolinate con tocchi ad archetto ampio. Com-pare poi «un saraghetto giovane e vivace» che va a fare la sua passeg-giata per incontrare la sua bella. Ma appare uno scorfano e la musica sifa più rapida. Poi compare «un’insidia gastronomica», è l’esca di un pe-scatore. Il saraghetto «sventa l’insidia con un colpo di coda», soprattuttoper salvare i suoi compagni meno scaltri. L’accompagnamento musicale sifa cupo: appare un polpo (ed entra in inquadratura dall’alto, probabil-mente lanciato dentro la vasca senza troppi complimenti). Comincia ladanza macabra e il sarago è agguantato da un tentacolo. Si libera, ma in-vece di allontanarsi provoca il polpo: «vuole avere l’ultima parola», ci dicela voce narrante. Il sarago si allea con una murena, che attacca il polpo.Qui comincia una cruenta battaglia, la musica si fa più rapida e concitata,ma il combattimento è reale. Ne risulta un momento voyeuristico abba-stanza forte, che l’effetto favolistico generale non basta ad attenuare. Bi-sogna organizzare i rinforzi: il montaggio già molto veloce si fa oraincalzante, il sarago usa le antenne dell’aragosta per mandare il suo mes-saggio. Accorre una seconda murena «che si getta a pesce» contro il polpo.È solo con l’assalto di gruppo che il polpo molla la presa e cerca di scap-pare, «poi esausto non vede un roccione, vi picchia la testa e cade esau-sto». Finita la battaglia si ritorna sul saraghetto, ora «triste perché è solo».E il suo dolore è ancora più cocente alla vista di due seppie che amoreg-giano. Ma ecco che ritrova la sua innamorata. I violini riprendono il loroandamento romantico e lo speaker può affettuosamente dichiarare cheanche questa «come tutte le fiabe si conclude serenamente».

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regno animale e una fascinazione mesmerica di fronte alla pura bellezzadei corpi acquatici in movimento. In Rossellini questa gioia dell’investiga-zione è invece solo il primo passo verso la costruzione della storia, le con-catenazioni della narrazione e, non ultima, l’allegoria favolistica.Un altro grande precursore di cinema del regno animale, anch’egli maiaccostato a Rossellini, è Roberto Omegna, figura interessantissima delpanorama italiano d’inizio secolo e ancora poco studiata. Nato a Torinonel 1876, cugino di Guido Gozzano, fonda prima il cinema Edison a To-rino e poi la casa di produzione Ambrosio. Nel 1926 si unisce al LUCEdove continua la sua produzione di film scientifici: il suo Uno sguardo alfondo marino (1936) è premiato alla Mostra di Venezia. Sul ruolo sen-z’altro poco ortodosso di Omegna, ancora anni dopo la sua morte nel1948, si dibatteva sul valore della sua opera. Se Fernando Cerchio (grandeinnovatore “realista” del cinema italiano) elogia nel 1940 Il pioniere Ome-gna7, nel 1948 «Cinema» nuova serie ne pubblica L’ultima intervista8, sot-tolineandone però l’estrosità piuttosto che lo spirito innovatore difilmmaker, la stranezza di una bizzarra carriera piuttosto che il realismomagico dei suoi film.Con la INCOM nasce, come si è detto, il cortometraggio piuttosto che il do-cumentario. Sotto la direzione di Pallavicini e del suo assistente Paolella,l’INCOM prende una strada nuova e interessante: negli anni che vanno dal’38 fino al ’43, si fa carico di svecchiare il documentario italiano, in dire-zione di una forma più aperta dal punto di vista ideologico, e introducela narrativa di fiction alla Flaherty e Cavalcanti. Insomma, il documenta-rio narrativo, che conta anche i primi lavori di Rossellini, rientra dal puntodi vista ideologico in quel filone di “realismo fascista” identificato da RuthBen-Ghiat nel suo Fascist Modernities di cui abbiamo parlato nel primocapitolo di questo volume9.Ma torniamo al film, Fantasia sottomarina. È una metafora politica, comedice Renzo Rossellini jr., in cui il polpo è il fascismo e il saraghetto e glialtri pesci che vengono in suo soccorso sono l’opposizione antifascista?O è solo una metafora sulla prepotenza? O forse l’opposto, un’allegoria suitentacoli del comunismo? O una storiella d’amore con sfondo gangstere-sco, un’americanata “animalesca” dove ai bassifondi di New York si so-stituiscono i fondali marini dell’acquario di Ladispoli? Un’influenza fortesu questo e altri corti biologici successivi è senz’altro l’allora già domi-nante modello disneyano di antropomorfizzazione animata. In un certosenso Rossellini rinegozia il valore del cartoon americano sostituendo ilsegno stilizzato e quindi reso innocuo da Walt Disney con la cosa vera (glianimali in carne e ossa). Qui la realtà dei corpi animali aggiunge un certoelemento perturbante alla storia. Che dovrebbe essere solo una favola, madiventa un dramma di animali veri. Non c’è un the making of di questifilm, un breve “dietro le quinte” come succede nei DVD oggi giorno, ma esi-stono aneddoti che, anche se inevitabilmente si concentrano sui fatti fol-klorici (la zia Forzù, proprietaria della villa, il “domatore” di uccellini,protagonista umano di Ripasottile ecc.), mostrano interesse verso aspettidel mondo animale rinchiuso, diciamo così, nella prigione degli uomini.

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bile, paterna, ma allo stesso tempo stentorea e sicura di sé. Notari è ilgolden standard dell’italiano fascista.Di sicuro Fantasia sottomarina rientra in pieno nel filone che si è creato coni nuovi documentari di ispirazione anglosassone (tra Robert J. Flaherty e ilGPO [General Post Office] di Alberto Cavalcanti). Ma altre chiare matrici sonovisibili. Una storia di pesci antropomorfizzati non può non ricordare i film“biologici” di Jean Painlevé, di cui forse Rossellini aveva avuto occasionedi vedere qualcosa. I film di Painlevé erano infatti spesso alla Mostra Inter-nazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: nel ’35 il suo capolavoroL’hippocampe (1934), il film sui cavallucci marini che gli donò la primagrande popolarità, poi nel 1936 Voyage dans le ciel e nel 1938 Barbe-bleue4.Come Painlevé, Rossellini aveva una naturale passione per le innovazionitecnologiche in campo cinematografico (tutti ricordano l’invenzione perEra notte a Roma, 1960, del pancinor, un sistema di zoom telecomandatoche permetteva al regista di zoomare senza guardare in macchina). La so-miglianza tra le antropomorfizzazioni di Painlevé e quelle di Rossellini, siain Fantasia sottomarina che nei successivi Il ruscello di Ripasottile – rea-lizzato probabilmente nel 1940, uscito in sala nel maggio 19415 e recente-mente ritrovato dalla Cineteca di Bologna – e La vispa Teresa (sempre del’40), è notevole. Rimane comunque interessante notare come lo stigma cro-ciano di non-arte per quel che riguarda Painlevé resista in Italia ben oltreil dopoguerra. Glauco Viazzi non solo nega ogni valore artistico ai suoifilm, ma li accusa di vero e proprio fallimento anche nel puro ambito dellaricerca scientifica6. Data l’atmosfera, non sorprende che nessuno, forse ne-anche Rossellini, fosse interessato a genealogie pericolose, e senz’altro poconobili. Di sicuro non troviamo traccia di Painlevé nei suoi scritti, né il re-gista francese viene menzionato nelle numerose biografie rosselliniane.Piuttosto che giocare troppo sulle ipotesi storiche, si possono notare delledifferenze importanti: Painlevé era un regista subacqueo, e le riprese eranotutte realizzate in mare aperto con macchine da presa appositamente pre-parate e adattate. Il motore artistico in Painlevé è la forte curiosità biolo-gica nel materiale filmato, un’ossessione certosina per i dettagli bizzarri del

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da notare inoltre che questa volta Rossellini lavora con la Excelsior-SACI(Società Anonima Cinematografica Italiana). Grazie al successo di LucianoSerra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, a cui Rossellini aveva colla-borato come sceneggiatore e aiuto regista, il produttore Franco Riganti(già patron dell’ACI [Anonima Cinematografica Italiana]), fonda a nomedella sorella Elisabetta Riganti la casa di produzione Excelsior. Il filmsegue nelle modalità il lavoro di Fantasia sottomarina, anche se è certa-mente più complesso non tanto nella struttura narrativa (mantiene infattiil tono da favola disneyana), ma nei più complicati passaggi tecnici. Piut-tosto che in un semplice acquario, il film è stato girato in esterni, e com-pare anche un personaggio umano, il pescatore (ritroveremo gli umani neLa vispa Teresa).Con il sottotitolo Una favola cinematografica di Elisabetta Riganti e conil marchio Excelsior-SACI, il film è accompagnato da disegni di animali(un coniglio, un uccello sul ramo), da musiche di Gino Filippini (erronea-mente identificato da Gallagher come “Ugo” Filippini, e tralasciato daRoncoroni, che accredita Umberto Mancini) e dalla fotografia di RodolfoLombardi.L’incipit ricorda quello di Fantasia sottomarina: «C’era una volta un ru-scello…». Si comincia subito con un informatore: la rana, che racconta auna cornacchia i misteri di ciò che succede in fondo al ruscello. La coppiadi persici ha deposto le uova, e la rana è felicissima di darne notizia. La mu-sica si fa jazzata e qui abbiamo una serie di inquadrature di uccelli suglialberi. Secondo i biografi Rossellini aveva assunto un artista di strada inpiazza Vittorio a Roma, che lavorava con degli uccelli ammaestrati13 alrivo nei pressi di Palidoro, non lontano dalla villa di Ladispoli. Dorme il pe-scatore, e la voce narrante ricorda che «gli uomini svegli sono pericolosi».Ma il vero problema sorge quando «la perfida trota» riesce a catturare unaconversazione tra un uccellino e una tartaruga un po’ sorda. Le trote siprecipitano, vincendo la corrente contraria. È questa la scena girata in unavasca dell’Istituto Ittiogenico, con un interessante trucco. Nato nel 1895nell’immobile di un antico saponificio, lo stabilimento romano era un cen-tro specializzato in pescicoltura con un interessante percorso museale travasche e vetrine sull’allevamento dei pesci. Per girare la scena delle troteche in massa si precipitano verso il pranzo, Rossellini – secondo Ronco-roni14 – creò una forte corrente nelle vasche, istigando le trote a “risalire”,come di loro natura, la corrente. Questi piccoli trucchi sono forse poca cosadi fronte agli effetti speciali attuali, eppure funzionano a meraviglia! Lalepre diffonde l’allarme dell’attacco, e tutti accorrono, incluse la lumaca ela coccinella. Forse proprio a questa scena si riferisce Federico Fellini15

quando racconta di aver visto Rossellini, in studio (Fellini parla di Cinecittà,ma si trattava invece degli studi Excelsa), girare un film di insetti. Gli ul-timi metri del film sono profondamente mutilati: capiamo che gli uccellinisvegliano il pescatore sperando nel suo aiuto per mettere fine alla stragedegli innocenti. Il film si interrompe bruscamente, ma come già per Fan-tasia sottomarina, il buon fine sembra assicurato. Addirittura con l’inter-vento, forse inconsapevole, di un essere umano.

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Se questo aspetto in Fantasia sottomarina e in Ripasottile si rivela al pub-blico solo grazie alle note di produzione, ne La vispa Teresa diventa pa-lese. Rossellini è solo parzialmente interessato al mondo animale, quantopiuttosto alle zone di incontro tra animale e umano. Ciò si vedrà benemolti anni dopo, nel biennio 1957-1958, durante il suo viaggio in India,in cui l’elemento di discontinuità animale-umano diventa il catalizzatoredella poetica “biologica” di Rossellini. Se Disney è interessato ad antro-pomorfizzare, Rossellini “animalizza” la vita dell’uomo portando alla lucele zone e il modo del contatto. In Fantasia e in Ripasottile questo aspettorimane solo al livello di produzione, con il trasporto del mare nell’acqua-rio sul terrazzo e gli effetti speciali dentro l’Istituto Ittiogenico, ma si fapiù chiaro con La vispa Teresa (la presenza fisica dell’essere umano comeinvasore) e ne Il tacchino prepotente (1940), che ha come set l’aia di unafattoria. Non sorprende allora la grande passione di Rossellini per la pescae per le immersioni. Tra i vari aneddoti su questo c’è l’incontro nel 1929con tre biologi giapponesi che lavoravano nella baia di Napoli10 e cheRossellini segue per un certo periodo nelle loro immersioni.

«Il ruscello di Ripasottile»Muovendoci con rispetto cronologico, si assegna a Il ruscello di Ripasot-tile il secondo posto tra i primi documentari biologici di Rossellini (esclu-dendo da questo conteggio il mai completato Dafne/Prélude à l’après-midid’un faune). Per anni considerato perduto, ne è stata ritrovata una parte(m. 228 su m. 314) nella cabina e nella platea di una sala cinematograficaabbandonata di Palmi, in Calabria. Il film era stato separato in un centi-naio di spezzoni ora molto danneggiati dall’umidità. Secondo StefanoRoncoroni, Il ruscello di Ripasottile è stato girato in esterni in un ruscel-letto vicino a Palidoro, località situata nel retroterra di Ladispoli, e in in-terni all’Istituto Ittiogenico di Roma. La storia è questa: a monte delruscello di Ripasottile sono nate delle trote, il documentario comincia ap-punto con una scena delle uova che si aprono ed escono fuori dei pe-sciolini, girata all’Istituto Ittiogenico; la notizia si diffonde tra tutti glianimali del ruscello e anche tra quelli del bosco e della campagna circo-stanti. La cornacchia lo dice ad altri uccellini che lo dicono alla tartaruga,alle anitre, alle lepri e così via fino a che lo vengono a sapere anche le tigridel ruscello, quei voraci pesci di acqua dolce che sono le trote, le quali co-minciano a risalire il ruscello per andare a mangiare i piccoli nati. Se-nonché, pentiti di aver dato con la loro gioia quella ghiotta notizia alletrote, tutti gli animali dell’acqua, del bosco, della campagna si ribellanoed «organizzano una spedizione contro questi pescecani»11. «Tutti gli abi-tanti dell’acqua, della terra e del cielo si coalizzano per impedire tale ec-cidio. Un pescatore, che si è addormentato sulle rive del ruscello, vienedestato dagli uccellini proprio in tempo, perché, tirando la rete, possa cat-turare tutte le trote. La pace ritorna nella famiglia dei persico, con grandegiubilo della natura circostante»12.Gallagher riporta che il film era nato con alcuni titoli provvisori: Anchei pesci parlano (troppo “fotoromanzo”), I pesci a congresso (troppo dotto);

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come Romoletto a capo della sua ghenga dimonelli-partigiani. L’inquadratura è una pa-noramica da sinistra a destra e poi dal basso inalto di circa 50 secondi (la più lunga del fim),dove è evidente, oltre alla storiellina raccon-tata dalla voce di commento, un vero interesseper il movimento dell’insetto, la sua lotta perarrivare a risalire una protuberanza del ter-reno, la fatica di muoversi tra i sassi. La vocelascia campo a momenti di bella poesia:quando il coleottero entra in scena (l’inqua-dratura ravvicinata lo fa sembrare un piccolorinoceronte) una nota bassa del pianoforte èl’unico commento offerto.Ma ecco la bambina Teresa vista dalla pro-spettiva degli insetti: è un mostro altissimo eincomprensibile. È proprio il coleottero a diri-gere l’attacco verso le scarpe della bambina, egli insetti assumono formazioni di guerra. Inun momento surreale le scarpe giganteschedella bambina sono viste dalla prospettivadegli insetti (come nel museo irreale di Ilya edEmilia Kabakov). La farfalletta supplica di es-sere liberata, la filastrocca dice «Deh, lasciami,anch’io sono figlia di Dio», mentre un coro dibambini ripete che Teresa lasciò la presa equella «fuggì, fuggì, fuggì». Il film apparemonco della parte finale, ma si è giusto intempo per una serie di primi piani dei prota-gonisti: lumaca, farfalla, bruco, coleotterohanno la loro passerella finale. La vispa Teresa è senz’altro il più surrea-lista dei primi film di Rossellini, e anche il più complesso sia per realiz-zazione che per ambizione artistica. L’uso del suono, pur essendo sempredoppiato, si muove con più scioltezza tra voce di commento e colonnasonora grazie al riff sulla poesiola per bambini che ispira la storia.

«Il tacchino prepotente»I titoli sono scritti con pallini neri, e la scopa che dovrebbe spazzarli viafa sì che invece, grazie a un trucco, li faccia comparire. La scopa prefiguraquella che servirà per liberarsi del tacchino prepotente. La formula è la so-lita: «C’era una volta un tacchino che tiranneggiava galli, galline, anatre,oche». La scena comincia nell’aia, con il tacchino che «ordina la ritirata».La voce narrante si fa qui più creativa e mima in una specie di stile “li-bero indiretto” (cioè assumendo i toni del soggetto parlante) la voce stessadel tacchino, con un piccolo cambio di tono. Il tacchino manda a lettotutti, incluso il cavallo, «e a una gallina ritardataria dà una severa le-zione». Ma la sedizione è dietro l’angolo: due galli si coalizzano e comin-

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«La vispa Teresa»Il tono da favola per bambini de La vispa Teresa è immediatamente chiarodai titoli di testa, scritti in bella calligrafia su una lavagna, accompagnatida disegni infantili: la fotografia di Mario Bava è identificata da una sti-lizzata telecamera, la regia di Rossellini da un megafono. È questo il se-condo cortometraggio per la Scalera Film, realizzato proprio negli studidella casa di produzione sulla circonvallazione Appia. Si comincia suprimi piani di insetti mentre la solita voce di commento quasi sussurra che«un praticello... è una folta foresta per i minuscoli insetti»16. Come neicorti precedenti, la pace dello status quo è rotta da un intervento esterno.In questo caso «è il rombo del passo spietato di un uomo». Si tratta di uncommento in versi, letto a mo’ di poesia per bambini, e la scelta lingui-stica vuole ovviamente prefigurare le rime della poesiola che porta lostesso titolo. Il polpo prima, le trote poi, qui l’intervento umano: sembrache i film di Rossellini vivano nel terrore dell’intrusione e dell’invasionedi un mondo altrimenti edenico e perfetto. È chiaro che questi sono gliechi della guerra allora alle porte, e non è una sorpresa che la trilogiadella guerra fascista – La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) eL’uomo dalla croce (1943) – riprenda di lì a poco proprio questo modellonarrativo. Alla catastrofe subentra un’azione collettiva che ristabiliscel’ordine, almeno temporaneo.Nel 1940 Rossellini sta ovviamente sperimentando con forme narrativediverse, ma senz’altro tese al cinema della realtà. La semplicità narrativadi questi primi documentari, se da una parte riduce la possibile comples-sità della trama e l’ipotesi di ogni enigma narrativo, dall’altra apre la portaal cinema dal vero, cioè all’analisi e alla contemplazione della natura. Sinota infatti, tra Fantasia sottomarina e La vispa Teresa, un diverso rap-porto con l’antropomorfizzazione del regno animale, allora di moda, se sipensa alla favola disneyana allora (come ora) così popolare. Mentre Fan-tasia usa gli animali come controfigure di personaggi in carne e ossa (odisegnati!), e l’antropomorfizzazione è al cuore della vicenda, qui vediamouna comunità di animali certo ancora alle prese con problemi umani (ilratto degli innocenti, o qualcosa del genere), ma a cui sembra data più li-bertà d’azione. Mentre in Fantasia sembra proprio che sia la voce nar-rante a fare da padrona, qui, nonostante questa rimanga essenziale perl’avanzamento della trama, le inquadrature si fanno più mosse (frequentile panoramiche che accompagnano gli animali nei loro movimenti natu-rali) e si allungano oltre i pochi secondi di Fantasia.Come per esempio quando si scopre che «il nostro uomo è in questo casouna bambina che corre con uno strano aggeggio in mano». Ricomincia ilgioco della comunicazione con le antenne: prima erano le aragoste, quisono le chiocciole a tecnicizzarsi per avvertire del pericolo imminente. Iltema della comunicazione dei messaggi è naturalmente al cuore sia dellatrilogia della guerra fascista sia della trilogia della Resistenza (Roma cittàaperta, 1945, Paisà, Germania anno zero, 1948). Come la cattura del pri-gioniero. Teresa ha infatti catturato nella sua rete una farfalletta, e unbruco si incarica di organizzare la resistenza. È il meno atletico del gruppo,

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saggio dal cinema fascista a quello neorealista è stato meno avventurosoe catartico di quello che i primi commentatori, ansiosi di pericolose ge-nealogie, ci hanno voluto far credere20, il passaggio dal cinema biologicoa quello con attori in carne ossa è stato per Rossellini una normale evo-luzione che ha visto ripetersi temi, tecniche e strategie ben orchestrate.Come scrive Rondolino, «i documentari animali sono in dialogo con lapropaganda, o meglio si pongono in alternativa dialettica al discorso ege-monico fascista. Allo stesso modo in cui l’antropomorfizzazione tende ascemare, e aumenta l’interesse biologico negli animali, così l’aspetto ideo-logico si fa più forte. Questo si vede bene nel primo lungometraggio Lanave bianca e nella finzione debole del documentario narrativo»21. E cosìchiosa Aprà: «A ben vedere, il tema dei tre film di guerra di Rossellini èanalogo a quello dei tre cortometraggi [...]. Si tratta della lotta fra un Da-vide (la coppia di saraghetti, le farfalle e gli insetti, gli animali da cortile,le larve dei pesci persico; ovvero il marinaio ferito, il pilota catturato, ilcappellano inerme) e un Golia (il polipo, Teresa, il tacchino, le trote; ov-vero la violenza della guerra, più che i nemici specifici). I Davide ricercanosolo la serenità di tutti i giorni attraverso la solidarietà e la tolleranza,contro chi agisce egoisticamente»22.Ma è a questo punto che Rossellini incontra Francesco De Robertis. Natonel 1902, il “comandante” De Robertis, come viene spesso definito, eraall’epoca tenente di vascello (poi, dal settembre 1942, capitano di cor-vetta) e direttore del Centro Cinematografico del Ministero della MarinaMilitare Italiana, collegato sia al LUCE che alla Scalera Film23. La prima le-zione da De Robertis, Rossellini, almeno secondo Gallagher, l’ha avutanella sua visita sul set di Uomini sul fondo (1941). Di certo possiamo direche tra i due vi erano già a priori delle consonanze di poetica: interesseper il gruppo e la comunità, rapporto tra vita civile e vita militare, inte-resse nella tecnologia. Se Uomini sul fondo non è il primo film di Rossel-lini (come erroneamente qualcuno ancora sostiene), è forse interessantenotarne le caratteristiche che poi convoglieranno nel realismo rosselli-niano.La nave bianca non è un documentario, e neanche un documentario nar-rativo (e per questo non trova posto in questo volume), ma senz’altro in-corpora molti degli elementi che abbiamo incontrato nei film dei variCarpignano, Francisci, D’Errico, e del primo Rossellini documentarista.Quindi, un fortissimo interesse per il set. Il film è girato quasi interamentein esterni, e gli spazi reali sono incorporati nella storia. Da qui derivaanche l’interesse per il dettaglio, a volte astruso e incomprensibile per ilprofano. Questa potrebbe essere una scelta di Rossellini di stare dalla partedei sottoposti, i marinaretti che obbediscono agli ordini degli ufficiali avolte senza comprenderne il contenuto. Ma possiamo anche offrirne delleletture alternative: come in molte serie televisive che infestano i nostrischermi, dettagli scientifici (che siano medici, legali, burocratici, legisla-tivi o scientifici) vengono usati per aumentare l’autenticità dell’esperienzaspettatoriale. Il linguaggio da iniziati è un significante dell’accuratezza,dell’oggettività, insomma del “realismo” di quanto vediamo. Ma il lin-

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ciano a spiare il tacchino. Scoprono così che di notte, mentre dorme, sisgonfia e perde la sua imponenza: «È una fatica stare sempre gonfi comeun tacchino», commenta la voce. Il mattino dopo il piano, che ha accom-pagnato fino a ora il film con ritmi delicati, si fa nervoso e più jazzato nel-l’arrangiamento. Il tacchino è nervoso perché nessuno sembra piùascoltarlo. Appena il tacchino molesta una gallina, uno dei galletti lo at-tacca. La sedizione e la battaglia hanno inizio. Anche l’altro gallo si av-vicina a dar man forte all’amico. Il tacchino spennato deve ritirarsi. Tuttigli animali «banchettano inneggiando alla sconfitta dell’oppressore». Orai galli sono i nuovi padroni dell’aia, «e il tacchino è diventato il loro umileservitore».La storia come metafora politica era già presente nel titolo alternativo delfilm, La perfida Albione17. Ma a dire il vero basta poco a leggere quel wor-king title come una forma di difesa preventiva. Il tacchino gonfio e pen-nuto può fare riferimento a personaggi più vicini a casa, incluso ilpettoruto e gonfissimo Capo che allora imperversava nei cinegiornali, checon l’approssimarsi della guerra si facevano ossessivamente monocordinella loro perenne celebrazione della nazione guerriera e del suo indi-scusso leader18. Ma il film, anche nella sua forma allegorica, termina sunote alquanto tradizionali. I galli, a rappresentare l’ordine naturale dellecose, riprendono il potere e riportano, come nelle precedenti favole ani-mali, lo status quo.Ai corti realizzati si aggiungono un po’ di titoli che vari commentatori,Rondolino e Gallagher in particolare, citano come possibili film, incom-piuti, o solo progettati. Del 1937 sarebbe Prélude à l’après-midi d’unfaune, e ci sono alcuni titoli di cui ben poco si sa: La foresta silenziosa,Primavera, Re Travicello, La Merca.

Il documentario romanzatoIn un’intervista con Mario Verdone, senza remore Rossellini afferma: «Iovedo la nascita del neorealismo […] in certi documentari romanzati diguerra, dove anche io sono rappresentato con La nave bianca»19. Se il pas-

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11. Stefano Roncoroni, Il “primo Rossellini”, in Edoardo Bruno (a cura di), Ro-berto Rossellini. Il cinema, la televisione, la storia, la critica, Atti del convegno(16-23 settembre 1978), Città di Sanremo, Assessorato per il Turismo e le Ma-nifestazioni, Sanremo, 1980, pp. 55-56.12. Piesse, Il ruscello di Ripasottile (Corto metraggio), «Rivista del Cinemato-grafo», 6, 20 giugno 1941, p. 92.13. Cfr. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., p. 57, e Roncoroni,Il “primo Rossellini”, cit., p. 55.14. Cfr. Roncoroni, Il “primo Rossellini”, cit., p. 52.15. Cfr. Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p. 71.16. La sceneggiatura desunta de La vispa Teresa è ora in Perduti e ritrovati. Duecortometraggi di Rossellini. “La vispa Teresa” e “Il tacchino prepotente”, sceneg-giature desunte a cura di Marta Teodoro, «Il Nuovo Spettatore. Cinema Video Te-levisione Storia», 1, novembre 1997, pp. 117-145.17. Il titolo La perfida Albione non è registrato in alcuna fonte d’epoca, maviene citato come titolo del corto da Massimo Ferrara Santamaria, all’epoca di-rettore generale della Scalera Film, in una intervista inedita di Aprà realizzatail 10 maggio 1987.18. Come ben scrive Mino Argentieri in L’occhio del regime, Bulzoni, Roma,2003, p. 87.19. Roberto Rossellini, Mario Verdone, Colloquio sul neorealismo, «Bianco eNero», 2, febbraio 1952, ora in Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e inter-viste, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia, 1987, p. 85.20. Si veda su questo il mio saggio Alberto Cavalcanti e il “documentario nar-rativo”: il ruolo della tradizione documentaristica nella formazione del cinemaneorealista, «Bianco e Nero» n.s., 567, maggio-agosto 2010.21. Rondolino, Roberto Rossellini, cit., p. 44.22. Adriano Aprà, Storie di guerra: De Robertis e Rossellini, in Centro Sperimen-tale di Cinematografia, Storia del cinema italiano 1940/1944, vol. VI, a cura diErnesto G. Laura, con la collaborazione di Alfredo Baldi, Marsilio-Edizioni diBianco & Nero, Venezia-Roma, 2010, p. 87.23. Sul cinema di De Robertis si veda Fabio Prencipe (a cura di), In fondo almare... Il cinema di Francesco De Robertis, Edizioni dal Sud, Modugno (Bari),1996.24. Cfr. Roland Barthes, S/Z, Einaudi, Torino, 1981.25. Cfr. Annette Kuhn, The Cinema Book, a cura di Pam Cook, British Film In-stitute, London, 1987.26. Cfr. Benedict Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 2009.

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guaggio oracolare ed esoterico dei personaggi aumenta il livello di aurareligiosa della diegesi. Siamo, in fondo, nel pieno della mistica fascistadella macchina, che altro non è che una forma di credo tecnologico nelmito progressivo della modernità. Il mondo del film ci è completamenteaccessibile, e allo stesso tempo assolutamente precluso. Questo sembra es-sere in linea con gli intenti del film di propaganda: da una parte fare par-lare le cose (quale gerarca non ordinava di fare propaganda coi fatti!),dall’altra creare una mistica fascista attorno all’esercito italiano. Si trattain fondo di quel codice che Roland Barthes, in S/Z, chiama «effetto gno-mico»24, cioè quella conoscenza basata su informazioni pseudocondiviseda un gruppo o una comunità. Questo codice fa parte della narrazione (neparla, per quel che riguarda il cinema, Annette Kuhn25), è un resocontodegli attributi convenzionali della narrazione cinematografica classica.Quello che impressiona senz’altro ora nel rivedere La nave bianca è l’in-teressante tentativo di creare davvero una tensione tra l’immagine docu-mentaria (come la partenza delle navi all’inizio del film) e la piùtradizionale storia d’amore che occupa la narrazione.Sarà nel dopoguerra, e per la precisione nel periodo Bergman, che la dia-lettica dell’Altro, già qui presente, assumerà forme conflittuali: gli oppo-sti inclusione/esclusione, individuo/comunità, sé/altro diventeranno ilcentro dell’analisi artistica, psicologica e ideologica del suo cinema. È in-fatti la straniera Ingrid Bergman ad aprire a Rossellini il dubbio sulla na-tura “immaginata” delle comunità (per usare la definizione di BenedictAnderson26) e la sua attuazione. Questi sintomi di sbriciolamento dellanazione come grande famiglia, promossa dal regime, avrà nei film mo-dernisti di Rossellini il suo più chiaro sintomo. Almeno, fino al viaggio inIndia.

1. André Bazin, Agnès et Roberto, «Cahiers du Cinéma», 50, agosto-settembre1955, p. 36.2. Gianni Rondolino, Roberto Rossellini, UTET, Torino, 2006, p. 29, dove si cita larecensione al film de Il Cronista, Documentari italiani, apparsa in «Cinema», 89,10 marzo 1940, pp. 150-151.3. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore”a “Ossessione”, Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 95.4. Cfr. Giulio Cesare Castello, Claudio Bertieri (a cura di), Venezia 1932-1939.Filmografia critica, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1959, p. 64.5. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,Da Capo Press, New York, 1998, p. 689.6. Cfr. Glauco Viazzi, Assassini d’acqua dolce confortati dal jazz, «Cinema» n.s.,53, 30 dicembre 1950, pp. 364-366.7. Fernando Cerchio, Il pioniere Omegna, «Cinema», 92, 25 aprile 1940, pp. 270-271.8. M. V., L’ultima intervista con Omegna, «Cinema» n.s., 4, dicembre 1948, p. 111.9. Cfr. Ruth Ben-Ghiat, Fascist Modernities. Italy, 1922-1945, University of Ca-lifornia Press, Berkeley, 2001.10. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., p. 55.

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«India Matri Bhumi»:la forma documentaria incontra l’alterità

Sarà [...] la grande [civiltà] indiana [...] a prendermi la mano e a trac-ciare il soggetto per il quale non mi è imposto nulla1.

Hindostan is an Italy of Asiatic dimension, theHimalayas for the Alps, the Plains of Bengal for the

Plains of Lombardy, the Deccan for the Appennines, andthe Isle of Ceylon for the Island of Sicily. The same

rich variety in the products of the soil, and the samedismemberment in the political configuration. Just asItaly has, from time to time, been compressed by the

conqueror’s sword into different national masses, so dowe find Hindostan, when not under the pressure of the

Mohamedan, or the Mogul, or the Briton, dissolved into asmany indipendent and conflicting states as it numbered

towns, or even villages2.

Mi è sembrato tuttavia di trovarci [in India] delle cose familiari [...]un po’ come la casa paterna

alla quale si ritorna per Natale [...]. Ho avutol’impressione di ritrovare Napoli3.

La nuova libertàCi sono voluti complessi preparativi, un anno di riprese in 16 e 35mm,grandi fatiche e lunghi viaggi perché Rossellini completasse J’ai fait unbeau voyage par Roberto Rossellini (1957-1958), il suo equivalente ita-liano L’India vista da Rossellini (1957-1958) e il lungometraggio IndiaMatri Bhumi (1957-1959). Oltre a essere accurati ritratti dell’India, que-sti film sono anche fedeli diari dell’irrisolvibile problema estetico, politicoe ideologico che si propone all’artista messo a confronto con il compitodi rappresentare la realtà “altra”. La scoperta di un territorio inesplorato,sia in senso geografico – il continente indiano – sia in senso artistico – lapossibilità di sperimentare lontano dalle acrimonie che avevano accom-pagnato l’uscita dei suoi ultimi film in Europa – si accompagna all’inevi-tabile spaesamento psicologico che assale il viaggiatore e narratoreoccidentale di fronte all’Oriente (ne parlo ampiamente nel mio Orientali-smo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo, rifacendomia Orientalismo di Edward W. Said e alla lettura psicanalitica di Homi Bha-bha ne I luoghi della cultura4). L’investigazione della vita e dei problemi

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e commosso, come Pier Paolo Pasolini, altre metodico e raziocinante, comeAlberto Moravia, oppure un po’ malaticcio e millantatore, come GuidoGozzano, che fa finta di essere stato ovunque per mandare dei resocontisu cose e posti mai visti alle rivistucole che pubblicavano i suoi scritti. Omagari spirituale posthippie, come Sandra Petrignagni, coinvolta in uncorso di elevazione trascendentale in un’università hindi. O ancora il piùdivertente di tutti, Giorgio Manganelli, professore sovrappeso, che arrivain India sprezzante, ma si ritrova poi al limite del suicidio a metà del viag-gio8.Certo l’Oriente è un significante fortissimo e profondamente radicato nel-l’immaginario italiano e occidentale, e tale forza segnica affascina tutte leparti coinvolte in questo processo mitopoietico, dal narratore al lettore. È,mi sembra, quel fenomeno “perturbante” che Sigmund Freud analizza nelsaggio del 1917 Die Unheimlich. Come spiega Freud, Unheimlich è quelloche è familiare e non dovrebbe esserlo; ciò che dovrebbe rimanere re-presso e invece riemerge a livello inconscio. La traduzione italiana “per-turbante” coglie solo parte del concetto. Se Heimlich è ciò che è familiare,noto, Unheimlich definisce il quasi familiare, il quasi noto, ed è legato aun sentimento di disagio, al non sentirsi completamente a proprio agio,

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della gente comune, l’analisi del rapporto tra classi sociali, la rinegozia-zione di identità individuali all’interno della società, l’investigazione dellereazioni psicologiche degli individui di fronte al trauma, l’analisi dei con-flitti tra cultura e culture, e, dopo “il periodo Bergman”, l’anatomizza-zione dei rapporti di coppia, insomma tutte le tematiche al cuore delmondo narrativo rosselliniano, sono messe alla prova dal nuovo contestotransnazionale.Il confronto con l’altrove produce un rinnovato desiderio di raccontarestorie partendo dalle nuove realtà incontrate, ma anche molte domande:come superare la banale tradizione orientaleggiante di tanta letteraturacoloniale? Come essere auteur senza imporre una visione univoca e su-perficiale dell’altro? I film indiani rivelano, nella loro ambiguità di ge-nere (fiction, documentario storico, diario di viaggio, film sperimentale),la difficoltà della scelta rosselliniana. Ma offrono anche un’interessante ri-sposta: invece di cercare una esperienza “autentica”, Rossellini si lancia inuna vera e propria sfida alla tradizione orientalista. Ecco allora che i suoifilm indiani si offrono come fusione di fiction e documento proprio perdestabilizzare il potenziale messaggio colonialista. Quindi non la storiahollywoodiana che prevede l’invisibilità dello stile e la narrazione“chiusa”, certo, ma neanche le storie neorealiste del dopoguerra, dove lanota dominante è una teleologia (se non una vera e propria teologia) dellaliberazione (l’attesa e la speranza della certa “primavera in Italia”), e permolti aspetti neppure quel cinema modernista autoriale inaugurato con ilperiodo Bergman. La narrazione rosselliniana viene manomessa, fram-mentata, rifratta tra diversi generi, stili, media, per porsi come resistenzaviva ai modelli narrativi colonialisti, e apre nuove possibilità di esplora-zione dei limiti del realismo cinematografico.

Il perturbante postcolonialeSaid definisce l’Oriente come «in un certo senso un’invenzione dell’Occi-dente, sin dall’antichità luogo di avventure, popolato da creature esotiche,ricco di ricordi ricorrenti e paesaggi, di esperienze eccezionali»5. L’800 eu-ropeo, sia in letteratura che nelle arti visive, è segnato dall’Oriente in-ventato dai vari Rudyard Kipling e Pierre Loti, da John Singer Sargeant eJean-Léon Gérôme, da Emilio Salgari e Francesco Hayez6. Forse nel corsodegli ultimi anni è mutato l’apprezzamento dell’Oriente, la televisione hariempito i salotti di tutto il mondo di immagini esotiche, accessibili finoa pochi decenni orsono solo a una minuscola élite di intellettuali e viag-giatori. Certo non sono cambiati i temi dei racconti, e soprattutto non ècambiato l’orizzonte delle aspettative degli spettatori. Come se fosse unaricetta non modificabile, tutti i racconti, i film, le memorie e i documen-tari annoverano un Oriente fatto di una tigre, un santone, qualche fiumesacro (basta anche una pozza d’acqua stagnante), un funerale con tantodi pira, donne colorate, qualche smagrito vegliardo, nani, scimmie am-maestrate, panorami mozzafiato, e, al centro di tutto, imperturbabile, ilviaggiatore7. A volte in sahariana, come si fa sempre ritrarre il rubicondoRossellini durante il lungo anno passato nella giungla, a volte partecipe

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Occidente e Oriente. Chi ha viaggiato in India riconosce immediatamenteche la lunga e profonda dominazione coloniale ha prodotto una vita quasioccidentale, in cui le vestigia dell’impero interpellano il viaggiatore a ognipasso, tra alberghi, strade, country club e luoghi di villeggiatura, il tuttocalato in un contesto tropicale del tutto “perturbante”. Il fattore destabi-lizzante del viaggio fuori dalla casa occidentale e nel mondo postcolo-niale pone il viaggiatore/narratore di fronte alla necessità di ridefinirsi. Inparticolare, nota Bhabha, «questi spazi “inter-medi” (in-between spaces)costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come sin-golo o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e [a] luoghi in-novativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’attostesso in cui si definisce l’idea di società»12.In India il viaggiatore/narratore si trova a interagire con questa materianuova, traumatica, in due modi: abbracciandola in una fusione mistica,oppure dando vita a un processo di normalizzazione e stereotipizzazionefondato psicologicamente sulla negazione del represso (Verleugnung). Que-sto processo, il senso di questa Verleugnung, è ambiguo, e spiegabile soloper mezzo delle leggi che regolano l’inconscio. Bhabha e altri studiosi delpostcolonialismo individuano nel meccanismo psicologico responsabiledella creazione dello stereotipo gli stessi principi che sono alla base dellanozione freudiana di feticismo: il feticismo e lo stereotipo sono processioriginati dallo stesso tipo di negazione. Per usare le parole di GiorgioAgamben, «la fissazione feticista nasce dal rifiuto del bambino di prenderecoscienza dell’assenza del pene nella donna (nella madre)»13. La sceltaviene risolta in una sostanziale ambiguità: «Nel conflitto fra la percezionedella realtà, che lo spinge a rinunciare al suo fantasma, e il contro-desi-derio, che lo spinge a negare la sua percezione, il bambino non fa né unacosa né l’altra, o, piuttosto, fa simultaneamente le due cose, giungendo auno di quei compromessi che sono possibili solo sotto il dominio delleleggi dell’inconscio. Da una parte, con l’aiuto di un meccanismo partico-lare, smentisce l’evidenza della sua percezione; dall’altra, ne riconosce larealtà e, per mezzo di un sintomo perverso, assume su di sé l’angoscia difronte a esso. Il feticcio è quindi [...] nello stesso tempo la presenza di quelnulla che è il pene materno e il segno della sua assenza»14.Sia il feticismo che lo stereotipo hanno una struttura comune: l’ansia perl’ignoto, il tentativo di sostituzione metonimica, la necessità di colmarel’assenza/differenza. Questo collegamento tra i due concetti è chiarito daBhabha: «Quanto al legame funzionale tra la fissazione del feticcio e lo ste-reotipo (o lo stereotipo come feticcio), si tratta di un aspetto ancor più ri-levante: in effetti il feticismo è sempre un “gioco” o un’oscillazione tral’affermazione arcaica di pienezza/somiglianza – in termini freudiani:“Tutti gli uomini hanno un pene”; nei nostri: “Tutti gli uomini hanno lastessa pelle/razza/cultura” – e l’ansia che si associa alla mancanza e alladifferenza – di nuovo, per Freud “alcuni non hanno peni”; per noi “alcuninon hanno la stessa pelle/razza/cultura”»15.Il rapporto che Bhabha stabilisce è utile per capire la persistenza e la re-sistenza di fenomeni razzisti, per lo meno a livello della rappresentazione.

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all’essere eppure non sentirsi a casa. Traducendo il concetto di Unheim-lich in inglese, Bhabha utilizza il termine unhomeliness, letteralmente, ilnon sentirsi a casa (diverso da homeless, senza casa), che in italiano pos-siamo rendere con il concetto di “spaesamento” (il sentirsi a disagio, di-sorientati)9. Il senso di extraterritorialità, il confronto serrato con l’alterità,costringe il viaggiatore a una revisione dei concetti di spazio e territoriofamiliari; ed è questo processo che induce il senso di spaesamento. Qualè infatti la peculiarità del viaggio nelle zone di recente decolonizzazionecome per esempio l’India, rispetto al classico viaggio esotico? L’Altro po-stcoloniale è percepito come Altro, non io, non occidentale, non razionale,e allo stesso tempo come Sé imperfetto («almost the same but not quite»,cioè «quasi la stessa cosa ma non esattamente»)10. Mentre l’alterità è radi-cale in quelle zone del mondo in cui l’Occidente non ha segnato – politi-camente e culturalmente – il territorio, nelle “zone di contatto” i confinidiventano ambigui: l’alterità è mascherata da somiglianza, la dicotomianetta diventa friabile11. Questa osmosi tra i due mondi è evidente nel mo-mento in cui il viaggiatore occidentale avverte un senso di straniamentocausato dal vedere certi segni occidentali riprodotti nel cuore stesso del-l’alterità. L’India è un esempio paradigmatico di confusione semiotica tra

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Porre feticismo e razzismo sullo stesso piano psicanalitico permette dispiegare perché questi temi siano onnipresenti nella letteratura di viaggiooccidentale, e come si colleghino con l’ansia del viaggiatore vittima diquesto Unheimlich postcoloniale.Il cinema di Rossellini si confronta con l’India con la sua arma preferita,quella del realismo, definito qui non nella sua cifra meramente stilisticama, in maniera più ampia, nel senso di un realismo inteso come ideolo-gia e prassi del cinema. Solo così si capiscono l’enfasi sulla materialità del-l’esperienza che si concretizza nei tempi lunghi dei sopralluoghi e delleriprese (più da antropologo impegnato in una ricerca sul campo che da fil-mmaker), l’attenzione portata verso il dispositivo cinematografico mi-schiando finzione e documento, l’interesse a coinvolgere sceneggiatori emanodopera locali, la volontà di far interagire le microstorie del film congli eventi epocali della modernizzazione indiana.Come già notava Adriano Aprà, Rossellini si distingue dagli altri registi as-sociati con il neorealismo (Vittorio De Sica in particolare) per una carat-teristica che va oltre il testo filmico di per sé, e che è di “metodo”:«superamento della finzione romanzesca e dello “spettacolo”, proposta dinuovi modi di produzione, modernità del discorso d’autore (sua incidenzasulla vita moderna piuttosto che sulla “cultura”: cinema di esperienza perlo spettatore oltre che di sperimentazione espressiva)»16.In particolare Rossellini anticipa la battaglia a livello di produzione con-tro quella che Guy Debord definisce “la società dello spettacolo”, cioè con-tro la realtà ridotta a immagine-merce nell’era della riproducibilità tecnica.Insomma, contro quella che di lì a pochi anni Pasolini definirà “l’irrealtà”della civiltà dei consumi17. Questo rifiuto dei sistemi di produzione tradi-zionale (in particolare il rapporto complesso con lo star system e la fin-zione romanzesca dei suoi film) porta Rossellini verso la creazione di unnuovo rapporto tra immagine e informazione in cui il cinema è reale comelo sono i giornali e la televisione.L’esperimento con l’India, nella sua antispettacolarità – budget limitato,attori non professionisti, approccio antropologico e sceneggiatura “aperta”– rappresenta la creazione di un controsistema alla rappresentazioneorientalista.

Rossellini a ParigiIl capolavoro di Rossellini del 1954, Viaggio in Italia, fu un sonoro fiascoal botteghino sia nazionale che internazionale, e allo stesso tempo fu odia-tissimo dai critici italiani. Tullio Kezich lo chiama «inadeguato, dilettan-tesco», Fernaldo Di Giammatteo poco chiaro e pretenzioso, e secondoMarino Onorati la sola possibilità rimasta a Rossellini è quella di ritirarsidefinitivamente dallo schermo e di cambiare professione18. Questa l’at-mosfera ostile verso il maestro del neorealismo, macchiatosi dell’onta diavere abbandonato la torva via del realismo in favore di borghesi estetiz-zazioni autoriali. Nonostante Nikita Chru! ëv avesse “sciolto dal giura-mento” gli intellettuali europei, liberandoli dalle direttive di Mosca (eGuido Aristarco ha riprodotto nel volume Sciolti dal giuramento il dibat-

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manzo, in favore della confessione e del diario»21. Questo stile confessio-nale e diaristico, già identificato come caméra-stylo da Alexandre Astrucnel suo provocatorio saggio del 1948 Nascita di una nuova avanguardia(e Truffaut lo mette alla base del suo saggio del 1954, Una certa tendenzadel cinema francese), teorizza la necessità da parte del regista non solo diessere metteur en scène, ma di diventare autore responsabile nel controllodel proprio lavoro dall’inizio alla fine22. Astruc propone, con il concettodella camera-penna, cioè della capacità della macchina da presa di scrit-tura diretta, di liberare il cinema dalle richieste concrete dello spettacolotout court e dagli intrecci della trama per permettere alle immagini di di-ventare un modo per esprimere i propri pensieri tanto flessibili e argutiquanto la lingua scritta23. Astruc nota inoltre speranzosamente come il16mm e la televisione permetteranno una totale democratizzazione delleimmagini, e come il cinema non sarà più solo intrattenimento e spettacoloma mezzo fondamentale di comunicazione umana, tanto è vero che nonsi potrà più parlare di cinema ma “des cinémas”, un concetto ripreso piùvolte da Rossellini nella sua teorizzazione di un cinema “espanso”, e chenel nostro mondo digitale è realtà quotidiana24. Ma la parte del saggio diAstruc forse più rilevante per il cinema di Rossellini riguarda la sua op-posizione alle metafore visuali. Astruc contrappone alla pesantezza di Ser-

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tito apparso su «Cinema Nuovo»), Rossellini non rientra nel nuovo modellodi realismo critico lukacsiano proposto proprio dal comitato editoriale di«Cinema Nuovo» (che indica in Senso, 1954, di Luchino Visconti il veromodello di poetica realista infusa di critica storica). E non basterà la Di-fesa di Rossellini licenziata da André Bazin sempre sulle pagine di «Ci-nema Nuovo»19.Se a Roma l’appello di Bazin non trova ascolto, Parigi sembra coglierequesta novità: i «Cahiers du Cinéma», in consonanza con Bazin, salutanoil film come un capolavoro: Jacques Rivette scrive che con l’apparire diViaggio in Italia tutti i film sono improvvisamente invecchiati dieci anni,e François Truffaut che Viaggio in Italia è qualcosa di mai tentato primaal cinema. Quello che aveva colpito l’immaginazione dei giovani critici èreso chiaro da questa frase di Rivette: «Si tratta di un’estetica televisiva,un’estetica diretta […]. Realismo non è una tecnica di scrittura, né unostile di regia, ma un modo di pensare: che la linea retta è la strada piùbreve tra due punti»20. In breve, sono la trama semplice e diretta e lo stileminimalista delle tecniche di ripresa rosselliniane che dicono qualcosaagli emergenti filmmaker francesi. Sarà questa trama semplice e diretta aportare il cinema francese nelle strade di Parigi. Truffaut cattura bene que-sto sentimento: «I registi di tutto il mondo smetteranno di imitare il ro-

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Flaiano sembra sollevato quando, all’uscita di Stromboli, 1950, può fi-nalmente scrivere che Rossellini è arrivato sull’isola con la macchina dapresa e basta, senza sollecitazioni letterarie e utopiche come Flaherty, cheera arrivato ad Aran grazie a John Millington Synge26). Di Renoir Rossel-lini conosceva il progetto di The River (Il fiume, 1951): si tratta della sto-ria di una famiglia inglese trapiantata in India, in cui l’interesse del registaè focalizzato non sulla società indiana, ma sulla giovane figlia della fa-miglia britannica. Il film è una rigorosa esplorazione dell’esperienza ex-traterritoriale della giovane inglese. L’India entra solo in relazione allepaure, alle ansie, e più in generale alla crescita psicologica della giovanedi fronte all’alterità che la circonda. Per molti versi, Renoir fa con Il fiumequello che Rossellini farà con Viaggio in Italia: filtrare l’esperienza dellospaesamento attraverso la soggettività femminile (il libro omonimo da cuiil film è tratto e la sceneggiatura portano la firma di Rumer Godden, au-trice inglese cresciuta in Bengala). La critica non è mai stata troppo be-nevola verso questo film: a parte alcuni commenti sull’uso spettacolare delcolore (il primo film in Technicolor in India), Il fiume viene accusato diteatralità e soprattutto di incapacità di investigare in maniera appropriatail contesto sociale circostante.L’altra fondamentale influenza arriva a Rossellini da un giovane antropo-logo visuale alle prime armi, Rouch, che afferma: «Non avrei mai giratoMoi un noir [1958] se Roberto non mi avesse incitato a farlo»27. È a Parigiche Rossellini incontra il filmmaker che più influenzerà i suoi film sull’In-dia e che a sua volta verrà da questi influenzato. Il primo incontro tra i dueè, per così dire, virtuale. Il film di Rouch Au pays des mages noirs (1947)viene proiettato alla Cinémathèque Française insieme a Stromboli nel195028. L’amicizia tra Rouch e Rossellini diventa vera collaborazione quandoinsieme formano un piccolo gruppo di studio, l’Atelier Collectif de Créa-tion, frequentato dai futuri nouvellevaguisti29. Rouch nel ’56 era già al la-voro su Jaguar, girato in Niger tra il ’54 e il ’67, e completato e distribuitosolo nel 197130. Jaguar racconta la storia di tre giovani della savana delNiger che lasciano la loro terra in cerca di fortuna e di avventure. I tre viag-giano insieme per mesi lungo la costa e nelle città del Ghana, poi si sepa-rano per lavorare in città diverse e infine, diventati giaguari, uomini espertidella vita e della città, fanno ritorno a casa. L’investigazione di Rouch èparte finzione, parte documentario e parte esplorazione sociologica. Il filmfu girato senza l’utilizzo del suono sincrono, ancora non disponibile, lungoil corso di molti anni di riprese. Rouch convinse due dei tre protagonisti, Da-mouré Zika e Lam Ibrahima Dia (il terzo era Tallou Mouzzourane), a rag-giungerlo a Parigi alla fine del montaggio per commentare le immagini chegli venivano proiettate davanti. Il suono del film è perciò fatto di conver-sazioni ricostruite a memoria dai protagonisti, scherzi, battute, domande erisposte su quanto succede sullo schermo. Jaguar colpì subito l’attenzionedi Rossellini per alcuni interessanti accorgimenti tecnici: era stato girato in16mm, gli attori erano tutti non professionisti, sfruttava esclusivamente illocale africano e soprattutto offriva una mistura di finzione e documentosprezzante di ogni classificazione.

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gej Ejzen!tejn o Henri-Georges Clouzot la leggerezza fatta dallo scriveredirettamente le idee sulla pellicola, e Truffaut nel ’54 asserisce il ruolo delregista come autore, l’equivalente cinematografico del romanziere, capacedi esprimersi attraverso elementi tematici, modi personali di creare per-sonaggi, e, soprattutto, attraverso il movimento e lo sfruttamento di at-tori e oggetti dentro il tempo e lo spazio dell’inquadratura. Non è un casoche sia proprio Astruc, in un suo breve saggio del 1946, a notare come ildocumentario romantico sviluppato tanto in Inghilterra quanto in Fran-cia e negli Stati Uniti con la scuola di Alberto Cavalcanti sia diventatol’estetica del cinema europeo contemporaneo, una formula piena di pos-sibilità25, ricollegando il nuovo cinema diaristico alla tradizione del do-cumentario narrativo della scuola di Cavalcanti e Robert Flaherty (di cuiparlo nel primo capitolo di questo volume). Insomma, Rossellini a Parigisi ritrova maestro di una generazione. È in queste circostanze che nascel’idea del viaggio in India.Rossellini ha visto e ammirato tre autori molto diversi che si sono raf-frontati con l’alterità non-occidentale: Flaherty, Jean Renoir e Jean Rouch.«Mio padre amava Flaherty, si ispirava molto a lui», ricorda il figlio RenzoRossellini, e certo l’indiscusso maestro della fiction documentaristica è vi-sibile nei film di Rossellini nel modo in cui documentario e fiction si in-tersecano a diversi livelli della narrazione (anche se il perfido Ennio

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essere una imposizione dall’esterno – le voci dei “nativi” che “parlano”idee occidentali – i due registi usano in effetti la voce di commento inmaniera rivoluzionaria. La “voce di dio” del narratore onnisciente è so-stituita dalle voci – doppiate e false quanto si voglia – che offrono unapluralità e una polifonia al tempo nuova nel cinema: certo un passo inavanti per il cinema etnografico-sperimentale di quegli anni. Potremmoriassumere il diverso approccio dei due artisti così: Rouch fa delle inve-stigazioni etnologiche usando il genere della fiction filmica, mentre Ros-sellini fa della fiction filmica usando il metodo dell’investigazioneetnologica. E questo si spiega non solo guardando il loro diverso retroterra(Rouch è in primis un etnografo), ma anche l’obiettivo che si prefigge-vano. Rossellini è un filmmaker che fa della natura umana il suo oggettod’indagine, mentre Rouch è un etnografo che scopre il potere della cine-presa e la adatta alle sue esigenze scientifiche.Al di là di un generalmente definibile “modo rouchiano” che deve averepervaso la comunità artistica parigina dell’epoca (e non solo grazie aRouch, naturalmente, ma a tutti i prodromi della Nouvelle Vague e di quelgrupo più radicale di filmmaker come Agnès Varda e Chris Marker, poi noticome Rive Gauche35), vi sono alcuni aspetti di India Matri Bhumi che fannodiretto riferimento al nuovo modo antropologico. Le voci dei quattro pro-

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Come scrive Rouch: «For me, as an ethnographer and filmmaker, there isalmost no boundary between documentary film and films of fiction. Thecinema, the art of the double, is already the transition from the real worldto the imaginary world, and ethnography, the science of the thought sy-stem of others, is a permanent crossing point from one conceptual uni-verse to another; acrobatic gymnastics, where losing one’s footing is theleast of the risks»31.«The thought system of others», il sistema di pensiero dell’altro, ben concet-tualizza quel vedere “con” descritto da Bazin nella sua “difesa”, e accomunail modo di vedere i personaggi dei due registi. Che Rouch e Rossellini si fre-quentassero era già noto, da quanto afferma Truffaut (ma Truffaut, da de-voto discepolo, afferma che il giovane Rouch aveva preso il suo meglio dalmaestro Rossellini)32. Ma è stato proprio un suggerimento di Rossellini a con-vincere Rouch ad abbandonare la voce di commento, e a sostituirla con lavoce degli “attori” che riraccontavano la storia (secondo una dichiarazionedi Alain Bergala, critico dei «Cahiers du Cinéma»33). La rivoluzione rouchianava ben al di là del campo dell’etnografia visuale, e si diffonde attraversotutta la storia del cinema europeo. Questo cambio stilistico portò anche uncambio ideologico. Finalmente si dava voce al soggetto della ricerca scien-tifica, rivoltando la consolidata episteme gerarchica dell’antropologia che

prevedeva una distanza “oggettiva” traosservato e osservatore. Con Jaguar, Moiun noir e i film successivi Rouch svi-luppò un’attitudine rivoluzionaria nel-l’approccio alla rappresentazionedell’alterità. Nonostante le critiche chefin dall’inizio fioccarono contro il suometodo, l’impulso verso un cinema ri-flessivo (che a tratti diventa tout courtdiaristico) e verso una forma più parteci-pata di etnografia (che vedrà poi un suocompleto sviluppo nelle opere dei meta-antropologi Clifford Geertz e James Clif-ford) scardinerà il discorso antropologicodalla semplice idea di traduzione di modi

e costumi di una cultura per l’altra (secondo la definizione di David Mac-Dougall) verso la “thick description” (descrizione densa) teorizzata da Ge-ertz34, dove l’analisi dell’altro etnico e il metodo d’investigazione sonostudiati riflessivamente come parte della stessa formazione discorsiva: l’og-getto, l’analisi e il soggetto della ricerca antropologica vanno guardati in-sieme in quanto contemporaneamente coinvolti nella ricerca.Da Rouch, a sua volta, Rossellini ruba senz’altro il metodo per usare il so-noro senza la possibilità della presa diretta. Dalla sua idea iniziale di faresentire la voce dei protagonisti che raccontano in prima persona le loroesperienze, Rossellini intuisce la possibilità di raccontare storie semplici eprevedibili di vita locale. Storie – sia per Rouch sia per Rossellini – basatesu frammenti raccolti sul luogo, e anche se questa, naturalmente, potrebbe

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mente imbarazzate dalla visita della famosa attrice, e belli sono i gestidelle protagoniste di questo che altro non è che un filmino amatoriale. Airosselliniani non può sfuggire la potenza cinematografica del corpo del-l’attrice, colto qui cronologicamente tra Stromboli ed Europa ’51 (1952),ma usato in funzione fantasmatica a evocare uno tra i suoi più famosiruoli hollywoodiani, quello della sorella Mary Benedict nel melodrammaThe Bells of St. Mary’s (Le campane di Santa Maria, 1945) di Leo McCa-rey, in cui, in coppia con Bing Crosby, la Bergman salva una scuola cat-tolica schiacciata da ristrettezze finanziarie. Uno dei film preferiti di mianonna, se mi si permette l’inciso personale. Se Santa Brigida fosse maistato concluso e distribuito con il suo intento di pubblicizzare gli sforzidella Croce Rossa, sarebbe stato di sicura presa popolare.Probabilmente parte di una ricerca sull’uso degli attori liberati da schemitradizionali e in preparazione a una recitazione improvvisata, è il film Lepsychodrame (1956). Rossellini riprende Jacov Levi Moreno e Anne An-celin-Schützenberger che dirigono gli attori a cui chiedono di mettere inscena i propri conflitti interni. Si noti la complessità del progetto. Non si

tratta infatti dell’originario psicodramma (sviluppato in quegli anni pro-prio da Moreno a Parigi) in cui un gruppo di pazienti prosegue la cura psi-coterapeutica attraverso una messa in scena dei traumi e dei conflittipsicologici che li hanno portati a scegliere la terapia di gruppo. Qui ci tro-viamo in una bizzarra inversione di ruolo tra attore e paziente, in cui è ilprimo a dover usare le tecniche recitative per mettere in scena la propriapsiche, annichilendo così la separazione tra teatro e realtà. Di sicuro do-vremmo catalogare questo film di Rossellini come antesignano del cinemadi avanguardia, alla ricerca di punti d’incontro tra cinema, teatro e psi-cologia. Purtroppo il film è irreperibile, e di esso ci rimane solo la testi-monianza di Zerka Toeman Moreno, riportata per intero da Aprà nellafilmografia di questo volume. La stranezza della scelta rosselliniana, ameno che non la si voglia pensare solo come una commissione per la te-levisione francese, sembra ricollocare Rossellini in un ambiente di avan-guardie europee a cui la critica nostrana non ci ha abituato. E a cui il suosoggiorno parigino ha senz’altro contribuito.

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tagonisti della storia, indiani che in realtà abitavano in Italia e quindi par-lavano italiano con un accento indiano (ma solo nella versione italiana, laversione francese non presenta accenti), sono usati da Rossellini per leg-gere la sceneggiatura. Il suono del film non è sincronizzato, ma era statointeramente registrato durante le riprese (il cosiddetto suono d’ambiente):infatti possiamo dire che il suono originale è uno degli aspetti più interes-santi del film, in cui si intuiscono per esempio anche le voci degli extrasulla scena e l’uso sistematico di musica tradizionale indiana.Prima di passare all’analisi dei film sull’India, vanno ricordati due brevilavori di documentazione. Dell’incontro tra Rossellini e Ingrid Bergmanmolto si è detto, tanto nelle riviste accademiche quanto nei fogli scanda-listici, e non è compito di questo libro occuparsi della loro vita personale.Ci interessano invece i pochi metri di girato raccolti sotto il titolo SantaBrigida (1951, 9 minuti circa). Nel convento di Santa Brigida in PiazzaFarnese a Roma vediamo delle riprese che ritraggono l’attrice svedese or-ganizzare, con le suore sue connazionali, il materiale di soccorso da in-viare alle vittime dell’alluvione del Polesine avvenuta nell’ottobre 1951. Leimmagini sono solo una copia di lavorazione (l’arrivo al convento è gi-rato due volte) e non hanno certo altro interesse che quello di puro do-cumento. Si vede l’arrivo della Bergman, le sue conversazioni con lamadre superiora e l’aiuto prestato alle altre sorelle nell’imballare abiti escarpe da spedire nelle zone colpite. Belli sono i visi delle suore allegra-

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Passaggio in IndiaCon l’aiuto di Renoir, Rossellini incontra Jawaharlal Nehru a Londra. Inun’intervista a «Cinema Nuovo», Rossellini dichiara: «I produttori non vo-gliono più farmi lavorare, il mio discorso non li interessa più. Ecco per-ché ho accettato l’offerta che il cinema indiano mi ha fatto. Mi è statadata carta bianca: in India potrò studiare l’atmosfera, analizzare i pro-blemi maggiori, porne in evidenza qualcuno che possa permettermi di va-lorizzare la tradizione magica, fachiristica e filosofica contrapponendolaalle voci attuali, a quelle nuove che sorgono, a quelle che già si vanno im-ponendo. Sarà, insomma, la grande città [forse si intende civiltà] indianacon la sua grandezza, il suo passato e il suo futuro, a prendermi la manoe a tracciare il soggetto per il quale non mi è imposto nulla»36.In queste frasi troviamo riassunti i capisaldi della poetica rosselliniana. Ildesiderio di scoprire e sfruttare il luogo delle riprese, il rifiuto del set infavore della scoperta del luogo. Prendendo in prestito l’espressione «radi-cal empiricist» («empiristico radicale»), usata da Paul Stoller per definirel’approccio di Rouch, e a sua volta usata da William James, possiamo de-finire Rossellini – in maniera ossimorica – come un fenomenologo stori-cista: se l’empirista radicale è qualcuno che «recognizes blatantincongruities, confounding ambiguities, and seemingly intolerable con-tradictions – the texture of life as it is experienced in the field»37, il Ros-sellini postneorealista sottolinea il vissuto attraverso gli occhi deipersonaggi. Per questo al Rossellini fenomenologo si deve sempre ricor-dare di aggiungere quella spinta antropologica tesa alla scoperta del con-testo storico-materialista, più tipica caso mai di un sociologo: insommadobbiamo convivere, noi spettatori, con queste due vene apparentementecontrastanti della poetica rosselliniana, storicizzazione e investigazionefenomenologica-esistenziale. In questo senso India Matri Bhumi non èun Paisà indiano, le cose non sono più presentate sotto un’egida oggetti-vista: la mappa dell’Italia all’inizio della versione americana del film del’46 (Paisan) potrebbe essere un po’ la cifra di questa attitudine, che poi ve-diamo replicata sul piano stilistico nel rifiuto del punto di vista e nellelinee di collegamento dello sguardo. Ora invece sono i personaggi che ve-dono ed esperiscono i grandi cambiamenti epocali: il vecchio e il nuovo,modernizzazione e natura, tecnologia e tradizione. È in questo senso chedobbiamo interpretare Jean-Luc Godard quando scrive che «India c’est lacréation du monde»38. Vorrei invertire l’iperbole godardiana, e scrivere che“India è brutto come la creazione del mondo”. India è un contenitore im-barazzante di modi, stili, e addirittura di diversi passi di pellicola, è un dia-rio di un’esperienza indiana piuttosto che un’opera conchiusa, èregistrazione di un anno passato in India da antropologo.Non è un caso infatti che l’esperienza indiana abbia aperto nuove possibi-lità alla ricerca di diversi modi di esprimersi – e di educare – attraverso ifilm. Dichiara infatti Rossellini al suo ritorno dall’India: «Ho un grande pro-getto per l’America del Sud, in particolare per il Brasile e il Messico. Man-derò dei gruppi di giovani in ognuno dei due paesi: faranno un primosopraluogo. Ne faranno parte uno scrittore, un fotografo, un tecnico del

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associata dallo spettatore occidentale con l’India, per ri-raccontare “due otre cose su di lei”: il tono kiplingiano di certe storie è un metodo usato daRossellini per superare l’impasse imposto all’esploratore occidentale nel mo-mento in cui si accinge a raccontare l’India. Rossellini aveva passato moltotempo, prima e durante il film, a documentarsi sulle tradizioni e i costumiindiani42; nonostante questo il progetto di India non tenta di mostrare i pro-blemi “direttamente”, come forse ci aspetteremmo se ci trovassimo di frontea un Paisà indiano. Rossellini si impossessa dello sguardo colonizzante e losfrutta per penetrare “il sentimento della realtà indiana” enfatizzando il pro-prio sguardo occidentale.

«India Matri Bhumi»Il film India Matri Bhumi inizia con uno sguardo dall’alto: una serie di in-quadrature panoramiche della folla di Bombay. Ma questa visione dal-l’alto si trasforma velocemente in una serie di zoom che ci immergononella folla, e tra questa massa indistinta – sottolineata dal commento chenarra: «migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia che come unfiume riempiono la città» – la macchina da presa comincia a soffermarsisu alcuni individui, mentre la voce narrante li identifica attraverso la loro

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suono e un cineasta capo-gruppo. Ecco come procederò: faccio un indiceper ogni paese e con i miei collaboratori studio i problemi che si pongono:alimentazione, agricoltura, allevamento, idiomi, habitat ecc. Come potetevedere, un lavoro da geografo e da etnologo, che non rimane un mero la-voro scientifico ma dà a ogni spettatore la possibilità di una scoperta. L’artenon sarà che il punto d’arrivo di questi lavori preliminari. Il mio lavoro

consisterà nel fare un’opera che sia unasintesi poetica per ogni paese. In fondo sitratta di neorealismo. Sono andato a cer-care questo metodo all’estero ma potreiutilizzarlo anche in Europa. Sono tor-nato dall’India con uno sguardo nuovo.Non sarebbe interessante fare film etno-logici su Parigi o su Roma? Prendiamola cerimonia del matrimonio: il rito,come espressione profonda dell’uomo,sparisce dietro l’abitudine. Ebbene, biso-gna riscoprire i riti sui quali si basa lanostra società con lo sguardo nuovo del-l’esploratore che descrive i costumi diuna popolazione cosiddetta primitiva»39.

Questa nuova spinta antropologica non è colta dalla critica militante dellasinistra italiana, come Pio Baldelli, che accusa il film di mancare di «do-cumentazione e di verità storica» per non avere affrontato i veri temi del-l’India moderna: «Manca l’India dove si muore di fame a torme, l’Indiaspaccata in caste, l’India della superstizione religiosa e dell’analfabetismo,infine l’India dominata da una classe dirigente capitalistica particolar-mente dispotica ed esosa»40. Neanche il titolo di produzione del film, India58, un chiaro riferimento alle precedenti esperienze filmiche di visionepanoramica su una società e una cultura, sembrano sufficienti a indiriz-zare il critico41.La difficolta, mi sembra, di India Matri Bhumi sta nel fatto che il film pro-blematizza la società indiana non con la forma della denuncia o del mani-festo – o dell’appello, come farà Pasolini ne Le mura di Sana’a (1971-1974),breve documentario-denuncia rivolto all’UNESCO (United Nations Educatio-nal, Scientific and Cultural Organization) per salvare l’architettura dell’an-tica città yemenita –, ma sotto l’egida dello sguardo etnografico-autorialeper cui la rappresentazione di una cultura, gli usi e i costumi dei “nativi”,sono colti con uno sguardo contemplativo nel loro ambiente naturale. E in-fatti tipicamente rosselliniani sono i temi scelti: la morte, l’effetto dei cam-biamenti culturali e sociali sugli individui, il contrasto tra “il vecchio” e “ilnuovo”, natura e ragione, cultura e culture. Mentre molti critici si sono con-centrati sulla quantità di realtà presente nel film, quasi soppesandola per va-lutarne se raggiungeva un livello sufficiente per garantirgli il “bollino blu”necessario alla critica italiana (così come è tristemente necessaria per su-perare l’esame dei postcolonialisti dell’ultima ora), nessuno si è concentratosull’aspetto atipico del film, che usa la narrazione fiabesca, inevitabilmente

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nale amministra identità e conoscenza, Rossellini sembra presentarsi senzapretese scientifiche. I critici contemporanei non avevano colto il tentativorosselliniano di combattere l’India perenne, fissata in un non-tempo a-storico tipico della rappresentazione orientalista43.Mentre, come vedremo nell’analisi dei singoli episodi, le varie storie checompongono il testo hanno un tono decisamente favolistico e orienta-leggiante, l’approccio da cinegiornale di questo incipit – così come lachiusura, dello stesso tipo – si offre allo spettatore con una forte com-ponente didattica: l’uso della voce di commento, il ritmo veloce delmontaggio, l’insistenza sulla folla cittadina, formano un netto contra-sto con gli altri episodi marcati dal montaggio lento, lunghe sequenzeininterrotte che saranno lo stile del Rossellini televisivo di lì a pochianni. Un altro evidente contrasto è nel soggetto della narrazione: i primiminuti del film sono dedicati alla voce del narratore che enfatizza lamassa indiana, le decine, centinaia, migliaia di persone che popolanoBombay. Le aspettative dello spettatore sono a questo punto dirette versouno sviluppo urbano della storia: a sorpresa – e per contrasto –, al mul-tiforme popolo cittadino si contrappongono la pace e il silenzio del lento

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professione, la religione, la casta di appartenenza. Poi si passa alla mac-china a mano nelle strade, in un ulteriore approfondimento di questo pro-cesso di “singolarizzazione”. Dopo la “prima impressione” – lo sguardogenerale e l’insistere del commento sulla massa indiana – scendiamo aindividuare le diverse componenti della società indiana. Questo movi-mento di restringimento, dal generale al particolare, è la tecnica narrativacon cui Rossellini ci introduce ai quattro episodi che compongono il film.Tutte e quattro sono storie esemplari, nel senso che rappresentano unadeterminata casta, un determinato strato sociale – con una densità da per-sonaggio lukacsiano – che però non nega la propria individualità grazieall’enfasi che il regista pone sulla libertà dell’individuo dentro – e nono-stante – la società e – dal punto di vista stilistico – grazie all’enfasi do-cumentaristica del materiale girato.India Matri Bhumi sarà l’occasione per proseguire in questo esperimentodi allineamento dell’occhio del regista con quello dei personaggi “esem-plari della storia”, in cui la visione del regista e quella del personaggio siidentificano per vedere “come se”/“dal punto di vista di”, senza per que-sto negare l’influsso autoriale. Mentre lo sguardo antropologico tradizio-

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della storia la giovane donna e l’elefante saranno incinte.Dichiara Rossellini a giustificare la semplicità della trama: «Nel film, in-vece [rispetto al documentario L’India vista da Rossellini] la materia è ela-borata per la rappresentazione. Ho cercato di esprimere il sentimentodell’India, il calore interiore della gente dell’India. Ho cercato, se possodirlo senza paura del ridicolo, di rendere poeticamente le mie sensazionidi reporter»44. Come si esprimono le sensazioni di reporter “poeticamente”?(e non si può non pensare a Professione: reporter, 1975, di MichelangeloAntonioni). Il paesaggio indiano rivive di fronte alla macchina da presagrazie allo stile lento del montaggio – che segue la “lentezza” degli ele-fanti al lavoro – e i personaggi, apparentemente niente più che burattinidi una brutta narrazione orientalista, trovano profondità grazie allo “stareaddosso” dello stile delle riprese, che li seguono nelle loro operazioni nondrammatiche del lavoro e negli incontri della vita di tutti i giorni. Ros-sellini aveva teorizzato l’uso di questi “tempi morti”, di attesa, che pro-ducono nel testo filmico la tensione necessaria per l’esplosione della scenasuccessiva, e allo stesso tempo aveva sottolineato l’aspetto documentario

del suo cinema. «Ogni soluzione nasce dall’attesa. È l’attesa che fa vivere,l’attesa che scatena la realtà, l’attesa che – dopo la preparazione – dà laliberazione. Si prenda ad esempio l’episodio della tonnara, in Stromboli.È un episodio che nasce dall’attesa. Si viene creando, nello spettatore, unacuriosità per ciò che dovrà succedere: poi è l’esplosione della mattanza deitonni. L’attesa è la forza di ogni avvenimento della nostra vita: è cosìanche per il cinema»45. I tempi morti46 però in India non sono più prolu-sione all’evento, ma diventano evento in sé. Sono l’attuazione del doppiointento ideologico del film, investigare e raccontare. Rossellini esplora leforme di quel “cinema contemplativo” che, dai film di Apichatpong Wee-rasethakul a quelli di Pedro Costa, trova tanto successo nei circuiti dei fe-stival dei giorni nostri. Da una parte Rossellini vuole liberare lo spettatoredal sistema di “sutura” della fiction, sia a livello di stile (campo/contro-campo, colonna sonora ecc.) sia a livello di contenuto (motivazione,trama, identificazione con lo spettatore). Le lunghe pause che lasciano lospettatore di fronte al lavoro degli elefanti trovano il loro culmine nella

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lavoro degli elefanti, nella sequenza più lunga del film (6 minuti e 30 se-condi). Questa tecnica di contrapposizione è ideata da Rossellini per gio-care con la “prima impressione” dell’India, sia quella dello spettatoreoccidentale dis-educato dai molti documentari sul “formicolante”Oriente (che è tuttora visibile: quante volte un evento di massa in unluogo non occidentale è accompagnato da termini come “turba”, chenon solo definisce la quantità ma anche la qualità dei partecipanti: ir-rispettosi, rissosi, selvaggi, rumorosi, incivili), sia quella del viaggiatoreoccidentale che arriva in India via nave o aereo ed è per prima cosamesso di fronte al caos di Bombay.Dopo la confusione e il montaggio veloce del prologo su Bombay ci tro-viamo nella foresta del Khanapur vicino a Mysore, nel Karnataka (le ri-prese cominciano proprio qui il 15 marzo del 1957), a seguire il lavoro diun gruppo di elefanti: l’attesa è rotta dal racconto in prima persona delmahout, il giovane indiano proprietario di un elefante, che cavalca il pa-chiderma nel lavoro quotidiano di abbattimento e trasporto dei tronchi. Lastoria è molto semplice, e nella sinopsi acquista ancora di più un tono dafavola. Il mahout una mattina vede arrivare una troupe di burattinai e siinnamora della figlia del capocomico. Convoca il padre da un villaggio vi-cino per chiedere la mano dell’innamorata. L’innamoramento dei due èraccontato in parallelo con la stagione dell’amore degli elefanti. Alla fine

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il materiale non manipolato, i lunghi momenti di attesa»50. L’attesa cattu-rata attraverso la forma documentaria, che lascia il lento procedere deifatti svilupparsi di fronte alla macchina da presa, rappresenta questo mo-mento concesso allo spettatore di “sentire” il Reale – nell’accezione di cuiparla "i#ek – senza il filtro del montaggio che impone significato alla ma-teria informe.Mentre il primo episodio ha come soggetto la tradizione e la ripetizione,con il secondo episodio, quello della costruzione della diga di Hirakud inOrissa (girato dal 19 al 26 aprile 1957), Rossellini si sposta dalla forestadel Sud alle grandi pianure dell’Est. L’episodio inizia proprio con la de-scrizione della fine dei lavori, costati molti anni e molta fatica. La storiasegue le meditazioni di un operaio che ha contribuito ai lavori: a operaterminata è costretto a trasferirsi in cerca di un’altra occupazione con lasua famiglia. È questo lo sguardo sull’India che si modernizza, raccontatanon enfaticamente – in quello che potrebbe essere un inno alla nuovatecnologia occidentale – né pateticamente – come una sorta di triste me-ditazione sull’occidentalizzazione del Terzo Mondo –.La prima scena è una cameracar tra una lunga fila di operai che si stannopreparando ad abbandonare l’enorme cantiere della diga. La lunga carrellatadalla macchina è in realtà una soggettiva dal punto di vista dell’operaio

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scena, anche esteticamente, più bella dell’episodio: dopo la mattina di la-voro gli elefanti vengono portati al fiume e qui lavati dai loro mahout.Mentre nel terzo episodio vedremo all’opera i devastanti effetti della mo-dernità industriale imposta sul mondo premoderno del villaggio, il bagnodegli elefanti, con il suo pesante simbolismo edenico e ritualistico e conil “grado zero” di montaggio – niente commento e solo il suono d’am-biente come accompagnamento sonoro – a catturare il “realismo” del-l’evento, diventa il momento per investigare il rapporto simbioticoall’interno di una economia precapitalistica tra uomo e animale. Rossel-lini usa questi momenti di pura osservazione per enfatizzare l’aspetto me-tacinematico – rappresentazionale – delle immagini. Così facendo,«forzando – come nota Aprà – la continuità realistica, spazio-temporale,[egli] non si affida all’immagine ma all’idea che sta dietro l’immagine»47.O, per dirla con Rossellini stesso: «Oggetto vivo del film realistico è il“mondo”, non la storia, non il racconto»48. Invece di imporre una visionedell’India, raccontarci attraverso dati e statistiche, documentazione e ve-rità storica (come voleva Baldelli), la situazione socio-economica del sub-continente, Rossellini frammenta la trama da favola orientalistica del suoracconto, rompendone lo schematismo strutturale e stilistico, per mostrare

in “forma documentaria” il mondo rappresentato. Un concetto molto si-mile è espresso in senso lacaniano da Slavoj "i#ek: abbiamo in Rosselliniun costante movimento dalla realtà al reale («from reality to real»49), cioèquello che è al di sotto della realtà – il vulcano di Stromboli, la santitàfolle di Irene in Europa ’51 e i monumenti (Pompei e Napoli) di Viaggioin Italia –, in cui Rossellini vede attraverso gli occhi della “straniera” (Ber-gman) «una spaccatura della sostanza simbolica» (se pensiamo al Simbo-lico come un strato superimposto alla realtà). Quindi Rossellini supera,secondo "i#ek, il programma realista interessato a rappresentare la realtàesterna, ma si impegna a mostrare quell’invisibile “verità” che si cela die-tro le cose, dietro l’ordine simbolico che dà forma alla realtà. "i#ek con-cepisce la forma documentaria, che si presenta alternata alla fiction inmolti progetti rosselliniani, come il progetto «modernista di incorporare ilfallimento all’interno del prodotto finale, dove per fallimento si intende

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sione dell’intellettuale occidentale e dell’intellettuale indiano la si vede nelsottile gioco del primo episodio: la maniera documentaria di Rossellini sifonde con il tono trasognato della favola. Nell’episodio della diga l’approc-cio è molto più rigido e didattico. Il flusso di coscienza del protagonistasembra preso direttamente da qualche commento sulla modernizzazione in-diana in un giornale occidentale dell’epoca.L’episodio trova una sua coerenza grazie all’insistere delle immagini suidati concreti della produzione della diga e delle risorse necessarie per co-struirla. È infatti l’enfasi di Rossellini sugli strumenti del lavoro che rendel’episodio particolarmente efficace. Questa spinta realista del cinema diRossellini si evidenzia proprio in simili circostanze, in cui ogni volta chela storia sembra portarci verso la fiction intervengono certi elementi ma-teriali – l’insistere su riprese “inutili” alla trama (i tempi morti, che nien-t’altro sono se non registrazioni del mondo), sui primi piani di oggettidella vita quotidiana o sugli strumenti di lavoro, come in questo caso, sututto quello insomma che rientra nell’archivio della forma documentaria– a riportarci indietro verso il cinema come registrazione automatica delmondo. In una interessantissima intuizione Giuseppe Ferrara stabilisce unrapporto tra le tecniche brechtiane e Rossellini: «Lo straniamento (Ver-fremdung) infatti ha la funzione di far leva sulla irrealtà, sulla implicita

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(senza nome) protagonista della storia. È infatti sua la voce fuori campo checomincia il racconto dei lavori: «Eravamo in trentacinquemila, sette anni dilavoro». L’operaio scende dalla jeep per recarsi dal capo cantiere per l’ultimostipendio. Il resto dell’episodio segue l’operaio che fa un ultimo nostalgicosopralluogo dei lavori. Le meditazioni che accompagnano le riprese sonoquelle del dibattito tra modernizzazione e tradizione nel tentativo di renderei sentimenti che accompagnavano i grandi cambiamenti dell’India di Nehru.Ancora una volta la decisione di Rossellini di girare il film da un rigorosopunto di vista del personaggio rappresenta il problema centrale per una in-terpretazione postcoloniale dell’opera. Ne è un esempio la scena centraledell’episodio, in cui l’operaio decide di fare un bagno rituale nelle acquedel nuovo lago artificiale. Trattando il nuovo bacino artificiale come se fos-sero le rive di un antico lago, l’operaio, ripreso con un’inquadratura fissa dadietro, entra nell’acqua per lavarsi. Il simbolismo della scena – passato e pre-sente, modernità e tradizione – sembra ridondante e di gusto eccessiva-mente orientalista. Il problema fondamentale – e mi sembra qui il caso diaffrontarlo – è quello della voce fuori campo. Chi parla? Di chi sono le pa-role delle voci che accompagnano le immagini del film? Prima di partire perl’India Rossellini ha letto molto51, e in India si avvale del contributo di So-nali Senroy DasGupta e di Fereydoun Hoveida. La perfetta fusione della vi-

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contare l’India con il doppio approccio del documentario e della fiction. Èinteressante notare come la visione del documentario L’India vista da Ros-sellini aiuti alla comprensione di certi momenti di grande ingenuità poli-tica di India Matri Bhumi. Un esempio è proprio l’episodio della diga:nell’ottava puntata de L’India vista da Rossellini rivediamo la diga di Hi-rakud. Senza la scusa della storia o dell’accompagnamento musicale, perquasi un’ora lo spettatore è messo davanti alla nudità dei dati. Il commentodi Rossellini è scarno e si limita ai fatti: numeri, statistiche, numero dellevittime e del denaro necessario all’impresa. Ma anche India Matri Bhumioffre chiavi di lettura meno semplici di quello che sembra. Proprio per evi-tare di rimanere dietro la maschera (o il mascherino della macchina dapresa), Rossellini si immerge nello stereotipo per riuscirne dall’altra parte.Non cerca di evitare l’orientalismo, ma lo riusa come uno degli elementi ingioco. Ecco allora “la soluzione del problema” a cui Rossellini accennanella citazione: così come Brecht ottiene lo straniamento, la riflessione sto-rica dello spettatore, attraverso il ricorso all’essenza del teatro, così l’in-contro con l’India apre a Rossellini la nuova strada del film didattico chesvilupperà negli anni successivi nei film per la televisione.In termini psicologici possiamo parlare del documento, della materialitàdi India Matri Bhumi, come una forma di ritorno del represso. Un simileeffetto ha, nell’episodio della diga, la scena del bagno nel lago artificiale:il simbolismo “orientalista” con cui sembra presentarsi allo spettatore ac-quista altre possibili letture grazie alle tecniche e ai tempi di ripresa. Unlungo piano sequenza (2 minuti e 30 secondi) in cui la cinepresa fissa im-mobile, di spalle, la svestizione dell’operaio, il suo entrare in acqua, la-varsi, pregare, uscire, rivestirsi. Il simbolismo e la forma documentaria sifondono per fare sentire allo spettatore – senza maschere – il dramma in-dividuale del giovane, il dramma collettivo dell’industrializzazione impo-sta e anche, metacinematicamente, la presenza della macchina da presa.Ma questa volta l’attesa, a differenza della scena della tonnara di Strom-boli, non produce una rivelazione. All’operaio rimangono solo i pochi attiche precedono la sua partenza, e la ricerca di un altro lavoro.Nel terzo episodio (girato dall’8 al 16 giugno nel National Park of Indianei pressi di Bombay) Rossellini racconta la storia di un vecchio pastorein un remoto villaggio: l’arrivo di un gruppo di cercatori di ferro irretisceuna tigre che assalta e uccide un uomo. Mentre comincia la caccia, il vec-chio si avventura solo nella foresta per cercare di allontanare la tigre e sal-varla dai cacciatori. La vicinanza alla natura è il tema della storia: incontrapposizione con l’episodio della diga, gli aspetti distruttivi della mo-dernizzazione sono condannati.Il momento più interessante dal punto di vista stilistico e ideologico è l’ef-fettivo incontro con la tigre. Il montaggio accosta lo sguardo del vecchioindiano con un’inquadratura della tigre, ripresa in 16mm e girata non incontinuità con il resto dell’episodio: tigre e uomo non solo non sono mainella stessa inquadratura, ma il campo/controcampo rivela un montaggiopovero e superficiale. Il 16mm gonfiato è scolorito e sgranato, il fondaleè visibilmente diverso dal luogo in cui si trova il vecchio che guarda. Ros-

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astrazione della “mimesis” teatrale per togliere lo spettatore dalla sua con-dizione di succube di una illusione [...]. Se [Bertold] Brecht esigeva che ilteatro fosse il più possibile teatrale, mettesse in mostra i suoi artifici (lasua essenza), per arrivare all’“effetto di straniamento”, in definitiva perevidenziare l’oggetto in senso storico, Rossellini ottiene la stessa rileva-zione storicistica sfruttando al massimo l’oggettività, l’estraneità propriadell’immagine, il suo valore di freddo specchio delle cose, di assoluto pre-sente»52.Se il Rossellini postneorealista introduce il sentimento dei personaggi, lofa mantenendo parte di quel cinema come “freddo specchio delle cose”, ela tensione tra didatticismo brechtiano e etnografia creativa è cosciente-mente colta proprio da una dichiarazione dello stesso Rossellini: «Le ma-schere vanno bene, sono favorevole, ma sono favorevole nella misura incui bisogna togliersi le maschere. È come i marinai del Potiomkin chestanno per fucilare i loro compagni ammutinati: è perché essi hanno ilvolto nascosto da un telone che si accorgono che sono loro fratelli. Per mel’India fu come questo telone immaginato da Eisenstein; come la solu-zione di un problema. Uno cerca giorni e giorni senza trovare; poi, al-l’improvviso, ecco la soluzione. Ti fora gli occhi»53.La metafora del “telone” e della “maschera” dietro cui non essere visti rendechiaramente il problema ideologico del narratore occidentale a confrontocon l’alterità. L’Oriente rappresenta per eccellenza il posto in cui “vedere”per non essere visti, per “raccontare” senza essere raccontati, per porsi inun artificiale “al di là” – luogo previlegiato e inattaccabile – da cui imporreuna visione sul sottoposto, l’inferiore economicamente e culturalmente.Rossellini è conscio del problema, e per questo affronta la difficoltà di rac-

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sellini tradisce insomma una delle regole fondamentali del realismo cine-matografico baziniano, quelle che il critico francese descrive in Montag-gio proibito54. Scrive infatti Bazin a proposito di Where No Vultures Fly(Gli avvoltoi non volano, 1951, di Harry Watt, la storia di una famiglia in-glese che crea un rifugio per animali durante la seconda guerra mondialein Africa), già a suo dire “mediocre”, che il film procede con banali mon-taggi in parallelo e suspence ingenua e convenzionale. Fino a quando ilfiglioletto è pericolosamente vicino a una leonessa: «Ma ecco che con no-stro stupore il regista abbandona i piani ravvicinati che isolano i prota-gonisti del dramma, per offrirci simultaneamente nello stesso totale igenitori, il bambino e la belva. Questa sola inquadratura, in cui ognitrucco diventa inconcepibile, autentica immediatamente e retroattiva-mente il banalissimo montaggio che lo precedeva»55.Sempre nello stesso saggio Bazin ricorda il momento di The Circus (Il circo,1928) di Charles Chaplin, in cui Charlie e il leone sono nella stessa gabbia.Insomma, è con l’uso del totale e del piano sequenza, del mantenimentodella fluidità spazio-temporale dell’azione che il film «ci porta d’un colpoverso il massimo dell’emozione cinematografica»56. Come scrive SergeDaney a proposito di questo aspetto di Bazin, alla base del realismo c’è ildivieto del montaggio nel momento in cui due oggetti possono essere nella

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della presenza fisica lì e allora diventa un’arma di decostruzione del sistemadella narrazione che allarga la comprensione della scena: la meditazionedel vecchio pastore indiano sul bel tempo andato, preindustriale e naturale,di cui la tigre è in questo episodio il simbolo, se da una parte perde di in-tensità emozionale nel momento in cui viene negato allo spettatore il pia-cere di perdersi nella diegesi, dall’altra aumenta la coscienza politica eintellettuale di chi si trova costretto a negoziare la narrazione con la naturainevitabilmente fittizia del cinema come forma rappresentazionale. La tigredi celluloide fa forse meno paura della creazione computerizzata di Juras-sic Park (id., 1993) di Steven Spielberg, o di Charlie in gabbia con il leone,ma di sicuro si propone come riflessione antiorientalista: ancora una voltaRossellini usa il cinema e il suo dispositivo per creare una distanza tra la vi-sione imposta dal narratore e la realtà sullo schermo. Il cinema intervienea spodestare ogni forma di imposizione – e interpretazione – della realtà permostrare «l’idea che sta dietro l’immagine»60.Una scimmia ammaestrata e il suo padrone sono in cammino da villag-gio a villaggio. Il quarto e ultimo episodio del film (girato a Mumbra,presso Bombay, dal 18 al 22 maggio) comincia proprio con la morte del-l’uomo: la scimmia continua il suo viaggio e si esibisce sola a una fiera.Senza nessuno a prendersi cura di lei, tenta di rientrare nel suo ambientenaturale, ma le scimmie selvatiche la rifiutano. Finalmente la rivediamonell’ultima sequenza in un circo.Il film si chiude con lo stesso tono da cinegiornale con cui era iniziato.Questa volta senza voce di commento, ma solo con il suono delle tablase le immagini di Bombay del principio.Nella letteratura esotica esistono chiari topoi degli animali selvaggi. Comenota Isabella Pezzini, «la crudeltà e l’irriducibile ferocia degli animali diqueste contrade sono palesi antropomorfizzazioni, e, per contiguità, moltospesso passano a connotare i loro connazionali umani»61. Anche Rossel-lini sembra in un certo senso vittima di questa facile antropomorfizza-zione62. Come abbiamo già visto nell’episodio della tigre, se India MatriBhumi rifiuta la stereotipizzazione esposta da Pezzini per usare gli animalicome personaggi della storia, non si può non notare come la scimmiettaè vittima della solitudine e del disadattamento alla società che la circonda,quella degli umani e quella degli animali, proprio come le protagoniste diStromboli ed Europa ’51. Gli animali – e la scimmia di questa storia inparticolare – fanno parte della poetica rosselliniana. La semplicità di que-sto ultimo episodio, senza parole, vuole raggiungere la forza espressiva edemotiva della parabola evangelica. Da che parte sta la libertà? Dove sitrova la vera vita? Ecco le domande che Rossellini si pone nel corso dellasua carriera e che chiudono l’avventura indiana.Al suo ritorno in Italia Rossellini dichiara alla stampa: «Mi è sembratotuttavia di trovarci [in India] delle cose familiari [...] un po’ come la casapaterna alla quale si ritorna per Natale [...]. Ho avuto l’impressione di ri-trovare Napoli»63. La casa paterna è simbolica della casa occidentale, delqui contrapposto all’altrove, del posto Heimlich dove tutto è chiaro e de-finito – in particolare i ruoli domestici che toccano ai due sessi. Napoli è

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stessa inquadratura, e soprattutto, una forma di sado-esteticismo per cuibisogna morire per le proprie immagini: «Questo è l’erotismo per Bazin»,chiude sarcasticamente Daney57. La scelta rosselliniana mi sembra offriresul piano metacinematico una riflessione sul dispositivo già in atto nei primifilm neorealisti, e poi sempre più evidente nel periodo Bergman. Proprio ilmomento simbolicamente più carico del film, e cioè l’incontro con la belvaattorno a cui l’intero episodio sembra costruito, a causa della discrepanzatecnica, si propone “staccato”, come un “tra parentesi” o forse una sottoli-neatura della finzione del cinema. Da notare come invece gran parte del-l’episodio sia stilisticamente orientato verso lunghi piani sequenza, rifiutodel campo/controcampo, totali, carrellate e campi lunghi. Ancora una voltaattraverso un trucco di smascheramento Rossellini sgancia lo sguardo dellospettatore dalla diegesi per ridirigerlo verso l’artificialità del cinema: il di-verso passo – 16 e 35mm – con cui la scena è costruita, anziché presentarel’arrivo della tigre come climax drammatico lo “abbassa” alla sua realtà diripresa documentaristica58. Il tono favolistico e moraleggiante della storia sidisintegra: al suo posto rimane il dubbio della presenza fisica della mac-china da presa. Come nota Roland Barthes, il tempo della fotografia non èquello del «ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato [...].Ogni fotografia è un certificato di presenza»59. La negazione del documento,

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mente separati entrano in contatto gli uni con gli altri e stabiliscono solidi rap-porti che in genere includono condizioni di coercizione, radicali ineguaglianzee irrisolvibili conflitti» (mia traduzione).12. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 12.13. Giorgio Agamben, Stanze: la parola e il fantasma nella cultura occidentale,Einaudi, Torino, 1977, p. 39.14. Ibid.15. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 109.16. Adriano Aprà, Rossellini oltre il neorealismo, in Lino Miccichè (a cura di), Ilneorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1999, p. 289.17. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 72.18. Cfr. Tullio Kezich, Viaggio in Italia, «Sipario», 102, ottobre 1954, p. 34; Fer-naldo Di Giammatteo, Viaggio in Italia, «Rassegna del Film», 24, ottobre 1954;Marino Onorati, Viaggio in Italia, «Film d’Oggi», 41, 14 ottobre 1954.19. Il dibattito “Sciolti dal giuramento”, avviato dall’articolo di Renzo Renzi,Sciolti dal “Giuramento”, apparso su «Cinema Nuovo» nel numero 84, 10 giugno1956, e protrattosi sulle pagine della stessa rivista per circa due anni, ha rac-colto i contributi di intellettuali come Paolo Gobetti, Umberto Barbaro, ItaloCalvino, Vittorio Spinazzola, che sono stati tutti successivamente riuniti daGuido Aristarco in Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul ci-nema degli anni Cinquanta, Dedalo, Bari, 1981; la Difesa di Rossellini di AndréBazin è apparsa su «Cinema Nuovo», 63, il 25 agosto 1965, pp. 147-149.20. Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, «Cahiers du Cinéma», 46, aprile 1955,p. 14.21. François Truffaut, Rossellini: Je ne suis pas le père du néoréalisme, «Arts», 16giugno 1954, p. 3.22. Cfr. Alexandre Astruc, Nascita di una nuova avanguardia: la caméra stylo, inAndrea Martini (a cura di), Utopia e cinema. Cento anni di sogni, progetti e pa-radossi, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Marsilio, Venezia, 1994, pp.57-61 (originariamente pubblicato, col titolo Du stylo à la caméra et de la ca-méra au stylo, su «L’Écran Française», 144, 13 marzo 1948); e François Truffaut,Une certaine tendance du cinéma français, «Cahiers du Cinéma», 31, gennaio1954, pp. 15-29; trad. it. Una certa tendenza del cinema francese, in Id., Il pia-cere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1989.23. Nota bene Laura Rascaroli, in The Personal Camera: Subjective Cinema andthe Essay Film, Wallflower, London, 2009, p. 194, come la metafora della pennafosse già stata adottata da Cesare Zavattini in un suo saggio apparso su «Ci-nema», 92, 25 aprile 1940, ora in Id., Neorealismo ecc., a cura di Mino Argen-tieri, Bompiani, Milano, 1979.24 Un’analisi dell’avveramento delle teorie di Astruc è condotto da Bjørn Sø-rensen, Digital Video and Alexander Astruc’s caméra-stylo: the new avant-gardein documentary realized?, «Studies in Documentary Film», 2, 2008, pp. 47-59.25. Cfr. Alexandre Astruc, Renaissance du cinéma Italie: Rome, ville ouverte,«Combat», 16 novembre 1946, p. 5.26. Cfr. Ennio Flaiano, L’isola di Rossellini, «Il Mondo», 25 marzo 1950, ora in Id.,Lettere d’amore al cinema, a cura di Cristina Bragaglia, Rizzoli, Milano, 1978, p.159.

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invece l’altro dell’altro, l’alterità interna dell’Italia, la città “porosa” – se-condo la definizione di Walter Benjamin – che rifiuta l’assimilazione almodello occidentale della nuova Italia postunitaria. La percezione del con-tinente indiano è per Rossellini stretta nella definizione di questi due pa-rametri: luogo dell’ordine e dell’affermazione del simbolico, la culla delmondo e quindi luogo per eccellenza del Grande Altro – come spiega "i#ek– che controlla con il suo rigido sistema di caste e di regole la vita di tuttii giorni (religione, Stato, cultura), ma è allo stesso tempo l’«almost thesame but not quite»64, il vero luogo dell’Unheimlich, cioè di ciò che do-vrebbe essere familiare e non lo è. Ma la menzione di Napoli ci riporta aViaggio in Italia come film cardine della carriera rosselliniana. Se là Ros-sellini abbandonava il neorealismo per entrare nel cinema d’autore, conIndia Matri Bhumi supera l’esperimento modernista per dedicarsi al ci-nema educativo. Come ben ci spiegherà in Illibatezza (1963), episodio diRo.Go.Pa.G.

1. Roberto Rossellini, Il mio dopoguerra, «Cinema Nuovo», 70, 10 novembre1955, p. 346.2. Karl Marx, The British Rule in India, «New York Daily Tribune», 25 giugno 1853,poi in Shlomo Avineri, Karl Marx on Colonialism and Modernization: His Dispat-ches and Other Writings on China, India, Mexico, the Middle East and NorthAfrica, Doubleday & Company, Garden City, New York, 1968, p. 85.3. Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di Adriano Aprà,Marsilio, Venezia, 1987, p. 185.4. Cfr. Luca Caminati, Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema delTerzo Mondo, Mondadori, Milano, 2007; Edward W. Said, Orientalismo, Feltri-nelli, Milano, 1999 (ed. or. Orientalism, Pantheon Books, New York, 1978); HomiBhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2001 (ed. or. The Location of Cul-ture, Routledge, London-New York, 1994).5. Said, Orientalismo, cit., p. 11.6. Si veda su questo il bel volume curato da Rossana Bossaglia, Gli orientalistiitaliani. Cento anni di esotismo 1830-1940, Marsilio, Venezia, 1998.7. Come ben scrive Caren Kaplan in Questions of Travel. Postmodern Discoursesof Displacement, Duke University Press, Durham, 1996, p. 50.8. Si veda su questo argomento il bel volume di Rossana Dedola, La valigia delleIndie e altri bagagli. Racconti di viaggiatori illustri, Mondadori, Milano, 2006.In particolare su Manganelli si veda Grazia Menechella, Il felice vanverare. Iro-nia e parodia nell’opera narrativa di Giorgio Manganelli, Ravenna, Longo, 2002.9. Il traduttore del volume di Bhabha non coglie la genealogia freudiana del ter-mine, che così va completamente persa per il lettore italiano. Cfr. Bhabha, I luo-ghi della cultura, cit., p. 22.10. Bhabha, The Location of Culture, cit., p. 86.11. Per il concetto di “zone di contatto” si veda il saggio di Mary Louise Pratt,Imperial Eyes. Travel Writing and Transculturation, Routledge, London, 1992, p.4, dove l’autrice definisce le zone postcoloniali come una «contact zone», «lospazio di incontri coloniali, lo spazio dove popoli storicamente e geografica-

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47. Adriano Aprà, intervento in un dibattito in Gianni Menon (a cura di), Di-battito su Rossellini, Partisan, Roma, 1972, p. 40.48. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 88.49. Slavoj !i"ek, Rossellini: Woman as Symptom of Man, «October», 54, autunno1990, p. 40.50. Ivi, p. 44 (mia traduzione).51. Cfr. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., pp. 453-456.52. Giuseppe Ferrara, L’opera di Roberto Rossellini, in Piero Mechini, RobertoSalvadori (a cura di), Rossellini, Antonioni, Buñuel, Marsilio, Padova, 1973, p.32.53. Gianni Rondolino, Roberto Rossellini, utet, Torino, 2006, p. 20.54. Montaggio proibito è raccolto in André Bazin, Che cosa è il cinema?, a curadi Adriano Aprà, Garzanti, Milano, 1973.55. Bazin, Montaggio proibito, cit., p. 71.56. Ibid.57. Serge Daney, L’Écran du fantasme (Bazin et les bêtes), in Id., La Rampe. Ca-hiers critique 1970-1982, Cahiers du Cinéma, Gallimard, Paris, 1983, p. 34 (miatraduzione).58. Una tecnica simile viene impiegata da Rossellini nel momento più dram-matico di Roma città aperta (1945), la morte di Pina. Mentre lo spettatore è cat-turato nel gioco di campo e controcampo motivato dallo scambio di sguardidisperati tra Pina e Francesco, Rossellini introduce una terza inquadratura cheoggettivizza e de-drammatizza la scena. Ringrazio Patrick Rumble per il sug-gerimento.59. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino,1980, p. 86.60. Aprà, in Menon (a cura di), Dibattito su Rossellini, cit., p. 40.61. Isabella Pezzini, Asia teatro dell’immaginario. Viaggi letterari, avventure,gusto e divulgazione fra Ottocento e Novecento, in Oriente: storie di viaggiatoriitaliani, Nuovo Banco Ambrosiano, Milano, 1985, p. 245.62. Nell’eccellente volume India. Rossellini et les animaux, a cura di NathalieBourgeois e Bernard Bénoliel, con Alain Bergala, Cinémathèque Française, Paris,1997, una serie di critici mette in rilievo il ruolo fondamentale del mondo ani-male nella poetica di Rossellini.63. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 185.64. Bhabha, The Location of Culture, cit., p. 86.

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27. Jean Rouch, La ricerca della verità, in Edoardo Bruno (a cura di), RobertoRossellini. Il cinema, la televisione, la storia, la critica, Atti del convegno (16-23settembre 1978), Città di Sanremo, Assessorato per il Turismo e le Manifesta-zioni, Sanremo, 1980, p. 47.28. Cfr. Joram Brink (a cura di), Building Bridges. The Cinema of Jean Rouch,Wallflower, London, 2007, p. 14.29. Come riporta Dirk Nijland, Jean Rouch: A Builder of Bridges, in Brink (a curadi), Building Bridges, cit., p. 30.30. Cfr. Mick Eaton (a cura di), Anthropology, Reality, Cinema. The Films of JeanRouch, bfi Publishing, London, 1979, p. 22.31. Jean Rouch, Ciné-ethnography, University of Minnesota Press, Minneapo-lis, 2003, pp. 20-21.32. Cfr. François Truffaut, in Mario Verdone, Roberto Rossellini, Seghers, Paris,1963, p. 199.33. Cfr. Ian Mundell, “Rouch Isn’t Here, He Has Left”: A Report on Building Bridges:The Cinema of Jean Rouch, French Institute, London, 2004 (rintracciabile sul sito<http://www.senseofcinema.com/2005/festival-reports/jean_rouch_conference>).34. Cfr. Clifford Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bo-logna, 1990.35. Cfr. Eaton (a cura di), Anthropology, Reality, Cinema, cit., p. 8.36. Rossellini, Il mio dopoguerra, cit., p. 346.37. Così Paul Stoller, in The Cinematic Griot. The Ethnography of Jean Rouch,The University of Chicago Press, Chicago, 1992, p. 213, definisce Rouch.38. Jean-Luc Godard, India, «Cahiers du Cinéma», 96, giugno 1959, p. 41.39. Uomini drappeggiati e uomini cuciti, intervista di François Tranchant e Jean-Marie Vérité, in Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 189.40. Pio Baldelli, Roberto Rossellini. I suoi film (1936-1972) e la filmografia com-pleta. Dibattiti e intervista al regista, Samonà e Savelli, La Nuova Sinistra, Roma,1972, p. 148.41. È interessante notare come molti film di Rossellini abbiano nel titolo unnome geografico (Roma, Germania, India). C’è la fascinazione per il locale (di de-rivazione neorealista; è il posto che detta il film) e il tentativo idealista di co-gliere lo Zeitgeist del luogo, l’essenza della realtà, «lo splendore del vero», comelo definisce Godard. Ma dobbiamo ricordare anche molti film dedicati a perso-naggi famosi (Socrate, Luigi xiv, Francesco), tributo di Rossellini all’iniziativapersonale e alla sua fede nella libertà personale, e, ancora, la presenza di unadata esplicita (Europa ’51, India 58) o implicita (legata a un nome che è rap-presentativo di un’era). Più in generale, c’è il tentativo di rappresentare oltre ilsoggettivismo dell’autore e la soggettività dei personaggi.42. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,Da Capo Press, New York, 1998, pp. 465-473.43. Per il concetto di “fissità” («fixity») si veda Bhabha, The Location of Culture,cit., p. 66.44. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 169.45. Ivi, p. 91.46. Su questo aspetto si veda l’articolo di John Hughes, Recent Rossellini, «FilmComment», 4, luglio-agosto 1974.

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I documentari televisivi sull’India

Le magique ne m’attire pas [...] c’est la réalité qui m’intéresse1.

Se c’è un film liminale per contenuto e forma all’interno dell’opera rossel-liniana, questo è senz’altro Illibatezza, episodio di Ro.Go.Pa.G. (1963), filma episodi diretti in ordine da Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pa-solini e Ugo Gregoretti. In Illibatezza siamo in una falsissima Bangkok (ri-creata in studio a Roma) dove una sorridente Rosanna Schiaffino interpretaAnna Maria, hostess dell’Alitalia, la quale, piuttosto che scrivere noioselettere al fidanzato a Roma, preferisce inviargli filmini in super8 dai variposti del mondo in cui si trova. Nell’epoca di Facebook si vive la norma-lità della condivisione delle immagini, e il diventare ogni giorno protago-nisti del film della propria vita non fa impressione. Ma nel 1963 questocommercio di immagini (benché assolutamente innocenti) fa innamorareperdutamente Joe, un commesso viaggiatore americano un po’ sovrappesoe d’incipiente calvizie, non lontano nell’aspetto fisico dal regista del film.E Joe, che di professione vende programmi televisivi (I Love Lucy e PerryMason sono il suo forte), ha pure lui la stessa arma segreta: una piccolamacchina da presa con cui segretamente segue Anna Maria e un proiettoreportatile con cui riproduce le immagini della bella sulle pareti della ca-mera d’hotel. Come notano giustamente Stefano Masi ed Enrico Lancia, ilmediometraggio è un vero trattatello sul cinema, sul ruolo globalizzantedella televisione e sul problema dell’autenticità delle immagini2. Illibatezzaè un attacco al presunto oggettivismo del cinema (film quanto mai falso,fatto di fondali, veline e specchi a ricreare un improbabile Oriente) e unavirulenta accusa al feticismo dell’immagine e del dispositivo cinematogra-fico allora in auge tra i giovani della Nouvelle Vague. Con largo anticiporispetto alle teorie debordiane, Illibatezza ironizza sulla società dello spet-tacolo in cui la realtà è diventata immagine, e l’immagine è diventatamerce. Il mondo virtuale riesce a mercificare la vita quotidiana (Pasolini labattezza senza mezzi termini “irrealtà”!) e a trasformare anche la coscienzaindividuale. L’americano finisce così, dopo l’ennesimo rifiuto di AnnaMaria, a smaniare contro il muro della camera d’albergo su cui proiettaimmagini della bella hostess: nell’era della pornografia in web, Rossellinisembra essere stato profetico nella sua analisi.

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Organization) a Parigi, dove si proiettano La punition (1962) di JeanRouch e Showman (1963) dei fratelli Albert e David Maysles, ed entrandovede un gruppo di giovani assiepato attorno a un nuovo modello di mac-china da presa a mano. Rossellini è indispettito da questo «mito della mac-china da presa come se fossimo su Marte [...]. La macchina da presa è unapenna a sfera, una scemenza qualsiasi, non ha alcun valore se non si haqualcosa da dire»7. La macchina da presa per Rossellini deve essere unapossibilità di cinema alternativo, di cinema esteso che può sopperire aibisogni umani (Anna Maria usa le video lettere per comunicare con l’in-namorato), e infine di cinema come esplorazione: esplorazione del mondo,esplorazione dei sentimenti ed esplorazione della rete ideologico-sociale.Se Tracy ed Hepburn finiscono il film pronti a continuare la loro batta-glia tutta americana contro i diritti negati, Anna Maria e Joe (e Rossellinicon loro) si avviano verso la fine del cinema come apparato novecente-sco (la sala cinematografica), muovendosi dal semplice cinema d’esplora-zione alla vera esplorazione del cinema.

«L’India vista da Rossellini»I due documentari indiani non sono solo complementari al lungometrag-gio India Matri Bhumi, ma anche l’inizio di un nuovo modo di pensarel’immagine televisiva in relazione all’ideologia dello spettacolo e all’in-formazione. In questi due esperimenti con la televisione vediamo il primotentativo da parte di Rossellini di raggiungere un ben più ampio numerodi spettatori attraverso un medium allora nuovo. L’India vista da Rossel-lini venne registrato negli studi RAI a bassissimo costo. In sala, a interlo-quire con Rossellini, un giornalista già del settimanale comunista «VieNuove» ma sdoganato dai democristiani e dal Vaticano, Marco Cesarini

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Il film di Rossellini si rivela altrettanto interessante se letto in parallelo a unsaggio del filosofo americano Stanley Cavell3, che analizza una scena diAdam’s Rib (La costola di Adamo, 1949) di George Cukor. Cavell si soffermasulla scena del picnic in cui la coppia protagonista mostra agli amici unfilmino autoprodotto. Adam e Amanda (Spencer Tracy e Katharine Hep-burn) proiettano un home movie ante litteram, proprio come il protagoni-sta di Illibatezza. Il film amatoriale è in entrambi i casi una parodia del temadel film esterno, ne La costola di Adamo la lotta tra i sessi, in Illibatezza losmanioso e maniacale corteggiamento dell’uomo non più per la donna incarne e ossa ma per la sua immagine proiettata. Ma soprattutto, come tipicodell’opera modernista, i due film sottolineano la loro autoreferenzialità, cioèl’opera d’arte cita la propria stessa materialità, la natura del proprio essereoggetto artistico. Basta questo a identificare il film nel film come un mo-mento di confronto con quello che lo stesso Cavell, in The World Viewed,definisce «the automatism», cioè «a succession of automatic world projec-tions»4 che forma la base materiale dell’arte cinematografica. I “mondi pro-iettati” dai due film sono però alquanto diversi: quello de La costola diAdamo è ancora avvolto nel sogno teleologico liberal-democratico della so-cietà americana, tesa verso un’unione migliore e in perenne lotta verso unavera uguaglianza (in questo caso quella tra i due sessi). Illibatezza, film diun decennio successivo, presenta al contrario un mondo globalizzato divo-rato dai nuovi “non luoghi” della incipiente postmodernità (aeroporti, hotel,uffici) in cui anche l’esotico esiste in forma mediata (per prendere in pre-stito la terminologia di Marc Augé5). I filtri e i trucchi a buon mercato diRossellini riflettono a livello di messa in scena il messaggio del film, teso amostrare la perdita dell’autenticità della società mediatica. La macchina amano funziona più da scudo che da medium per (non) vedere il mondo, o,peggio, per vederlo sotto l’egida protettiva dello status di turista (cioè nonveramente coinvolto, non veramente lì, ma solo osservatore esterno). Se ilfilm nel film di Cukor era un gesto artistico e democratico, in Illibatezzafilm interno ed esterno si confrontano su un ben più duro campo di batta-glia: realtà contro fantasmi, finzione contro documentario. I filmini ama-toriali, ai nostri giorni onnipresenti grazie alla videocamera digitale,rappresentano il primo caso di cinema diffuso, e per la precisione di docu-mentario privato atto a creare un archivio visivo personale. Ma cosa sonoi progetti di Rossellini per la televisione, se non tentativi di portare l’im-mediatezza dell’amatoriale sullo schermo televisivo? La caméra-stylo al cen-tro del nuovo cinema democratico?Da un punto di vista ideologico Illibatezza offre un altro piano di letturaautobiografico. Rossellini critica la società dello spettacolo e l’immaginediffusa (e ne è prova il suo operare al di fuori del sistema), e allo stessotempo rifiuta il “culto del dispositivo”. Insomma, l’autoreferenzialità del-l’opera diventa critica dell’immagine reificata e de-umanizzante e con-danna di chi feticizza il medium. È dell’aprile 1963 la polemica diRossellini contro i giovani registi del cinéma vérité6, e vale la pena ripor-tare l’aneddoto. Rossellini è invitato dall’amico Enrico Fulchignoni a unaconferenza UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural

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di convivenza religiosa è interrotta. La sequenza comincia con un gruppodi persone seduto a gambe incrociate “all’indiana”, intento nella lettura.L’impavido giornalista con cui Rossellini conversa chiede: «Stanno pre-gando?». Con un abile colpo di teatro si cambia inquadratura e Rossellinirisponde: «No, siamo alle corse dei cavalli!». I “libri sacri” che le personeviste in precedenza tengono in grembo sono i programmi delle corse su cuiscommettere. Rossellini sfrutta in maniera efficace uno dei primi trucchidel cinema, quello che Siegfried Kracauer, riferendosi a The Immigrant(L’emigrante, 1917) di Charles Chaplin, chiama debunking9. All’inizio delfilm, un passeggero sembra vittima del mal di mare, quando un cambio del-l’angolo dell’inquadratura ci mostra che in realtà sta pescando. Debunking,cioè “sfatare” o “distruggere” (la traduzione italiana di Paolo Gobetti, nel-l’edizione a cura di Guido Aristarco, parla di “palloni sgonfiati”), è per il fi-losofo tedesco uno dei principi fondamentali del cinema realistico, cioè delcinema che registra e rivela il vero aspetto del mondo. Rossellini attacca,sfruttando le proprietà del dispositivo, sia la sufficienza e superficialità diuna visione banalmente orientalista, che ci fa vedere il sacro dove non c’è,sia, dal punto di vista metacinematico, la presupposizione dello spettatore,che spesso dimentica l’inevitabile illusorietà del realismo cinematografico

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Sforza. La cifra più evidente della trasmissione è proprio il profondosprezzo che il regista prova per questo mezzo busto e la bizzarra discre-panza di carattere: Rossellini curioso, umile di fronte alla maestosità delsubcontinente indiano, desideroso di capire e far capire; il giornalista sac-cente, untuoso, desideroso di compiacere l’intervistato, contenitore amorfodi ogni tipo di banalità orientalistica in circolazione nell’Italia della finedegli anni ’50. Certo il tipo di spettatore che più disgustava Rossellini8.Il programma di dieci puntate di circa 20 minuti l’una (per un totale di 251minuti di trasmissione) prevede un alternarsi di due inquadrature: unafrontale che riprende i due protagonisti mentre discutono “amabilmente”,e una da dietro le spalle, che sfuma nelle immagini in 16mm fotografateda Aldo Tonti durante il viaggio indiano. L’impostazione della scenogra-fia e della regia televisive è dunque da salotto, piuttosto che da lezione diantropologia.Dopo una breve introduzione sull’argomento della serata, parte il film. Nellaprima puntata, India senza miti, Cesarini Sforza ci informa che «sono i tac-cuini di viaggio di un viaggiatore con gli occhi aperti alla realtà che lo cir-conda», che «ha usato la macchina da presa come un inviato speciale di ungiornale adopera la sua penna», e inoltre che «il narrato non sarà una nar-razione ma sarà una conversazione». Ma a questa dichiarazione pronta-mente Rossellini aggiunge che «forse Salgari è il più onesto, è il più vero»,stabilendo fin da subito la sua piena coscienza della tradizione orientalistaoccidentale. Citando Salgari Rossellini affronta di petto, piuttosto che na-scondere, il suo fardello di uomo bianco. Ponendo Salgari in posizione diprominenza ideologica («il più onesto»), Rossellini intende semplicementedire che lo scrittore non si faceva scrupolo di mettere nella sua arte, di-ciamo senza filtri ideologici (oggigiorno diremmo political correctness),un’India inventata di sana pianta, frutto di elaborazioni di altri narratiorientalisti, un mondo di visioni, una proiezione occidentale di un Orientedecadente, ozioso e sensuale. Ma dopo avere accettato la visione esotica diSalgari, subito Rossellini impone il suo programma di investigazione so-ciale, politica e antropologica. L’India è «un paese straordinario perché stafacendo una grossa battaglia per il suo sviluppo», e di se stesso dichiara che«lo sforzo che [ha] fatto è di vedere un’India assolutamente reale». Nellatradizione del viaggiatore scrupoloso, “illuminista”, Rossellini si impegna asfatare i miti, gli stereotipi, attraverso quella che per lui è un’analisi dei fattisociali ed economici del paese. Se in India Matri Bhumi l’aspetto antropo-logico è sussunto all’interno della narrazione, qui l’intento politico e didat-tico del film è chiaro fin da subito: «Quello che mi ha più sorpreso in India– dichiara Rossellini – è il loro spirito profondamente razionale». E infattiin India senza miti organizza un agguato allo spettatore per prevenire ognipossibile deriva esotica. Si comincia alla Banganga Tank, la piscina sacra deltempio di Walkeshwar sulla collina di Malabar a Bombay. Da qui si passa aun tempio Parsi, mentre Rossellini spiega come le diverse religioni convi-vano pacificamente, e non sia inusuale vedere fedeli di religioni diverse re-carsi nel tempio altrui. Vediamo così immagini di una chiesa cattolicafrequentata da donne musulmane e hindu. Ma subito l’atmosfera elegiaca

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resiste, sembra, senza problemi. Dato che la grande maggioranza di que-sta massa operaia è analfabeta, sia i vestiti che i pranzi sono classificaticon un sistema di colori. Orgogliosamente Rossellini afferma che le con-segne avvengono sempre puntuali e senza alcun errore!Nella quarta puntata siamo a Varsova, villaggio di pescatori a nord diBombay, con una popolazione maharashtra. Qui ci viene mostrato comeil pesce viene usato sia come cibo che come fertilizzante, e qui «nelle co-munità dei pescatori si trovano i cattolici». Questo episodio ci introducea un modello che vedremo ripetuto nel corso delle varie puntate del do-cumentario (e tipico dello spirito didattico rosselliniano, che ritroveremoin molti suoi film per la televisione), in cui l’intero ciclo della produzioneindustriale viene studiato e analizzato nei dettagli: dall’uso delle barcheai metodi di seccatura del pesce, al trasporto, le riprese a tratti sembranoun infomercial per la politica di modernizzazione delle tecniche di pescaintrodotte da Jawaharlal Nehru.Ad alleggerire la serietà dell’argomento, la quinta puntata è ampiamentededicata alla cucina e si esordisce con Rossellini stesso che legge una ri-cetta per una zuppa di lenticchie. Anche se in questo frammento il regi-sta non appare del tutto avverso ai prodotti locali, le testimonianze di chiera in viaggio con lui ci dicono di un Rossellini alla disperata ricerca dipasta e parmigiano. Ma per il pubblico italiano, di cui egli ben conosce il

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che ci fa vedere causa ed effetto dove non ci sono.L’agguato mediatico ci ha liberato dal dovere di parlare di religione, e cosìRossellini ci porta in giro per i luoghi di ricreazione, una partita di cric-ket di bambini in una scuola, l’hockey su prato in un parco di Bombay, epoi i giocolieri di strada, con una povera scimmia ammaestrata che mimaun combattimento con un bastone (ovvia ispirazione per l’ultimo episo-dio di India Matri Bhumi). Si passa poi a un incantatore di serpenti (siamosu Marine Drive a Bombay), ma Rossellini commenta: «Il vero spettacoloero io che stavo proprio qui dove mi trovo». L’incantatore è povera cosa,e i ragazzini indiani sono più interessati alla troupe occidentale.La seconda puntata, Bombay, la porta dell’India, è dedicata alla tolleranzaetnico-religiosa, indicata da Rossellini come un modello da seguire: «L’In-dia è un enorme stomaco, ha digerito tutto quello che veniva da fuori»,proclama. L’episodio più significativo del film è senz’altro il finale sui duefunerali, l’interramento musulmano e la pira del funerale hindi. Proprio suuna pira funebre Pasolini, nel 1967, durante le riprese di Appunti per unfilm sull’India (1968), decide di chiudere il film. Ma se Pasolini sovracca-rica questo momento con la voce di commento che offre le sue conside-razioni finali sull’esperienza indiana, Rossellini decide di lasciare lospettatore a contemplare in silenzio le immagini.La terza puntata è dedicata ad Architettura e costumi di Bombay, e qui sipercorre in macchina tutta la città. Ma non prima di un siparietto moltorosselliniano: a Chowpatty Beach le immagini si dilungano a mostraregente che si riposa un po’ ovunque: sui marciapiedi, sui muretti, ai piedidi qualche statua di generale inglese. Rossellini ricorda come nella sta-tuaria romana spesso i soggetti sono rappresentati nello stato di ozio. Cosìquesti distinti impiegati che fanno un pisolino sulle scale della stazione at-traggono l’attenzione del “pigro” Rossellini, ma fanno anche scattare lavoglia di vedere la comune innervatura dell’essere umano occidentale eorientale, una comune umanità che Rossellini usa per dimostrare che gliindiani infine sono come noi. Anzi, meglio: «Guardi cosa ha fatto l’Indiain dieci anni» commenta Rossellini. Le riprese indagano acutamente il pa-linsesto postcoloniale: un cambio di fuoco dell’obiettivo ci mostra imma-gini di vele greche presso la riva, e all’orizzonte una nave container, aribadire la coesistenza tra tradizione e modernità. «In India c’è la con-temporaneità della storia: si è immersi nel passato e si è nel presente», eun po’ ingenuamente Rossellini commenta: «Loro non hanno il senso dellastoria», in questo senso non conscio del particolare percorso delle nazionipostcoloniali, in particolare di quelle soggette alla forzata modernizza-zione postpartizione come l’India. Le immagini che seguono sono oggi ti-piche del turista in India (chi scrive è stato oggetto dello stesso trattamentoda parte dello zelante autista), ma nel 1957 erano una novità (in un’Ita-lia in cui la tv era arrivata da pochi anni, e le immagini dell’alterità nonerano ancora parte del quotidiano televisivo). Si passa così dalla lavan-deria a cielo aperto di Dhobi Ghat ai facchini con il loro carico di scalda-pranzi, e così via. Quello che entusiasma Rossellini è la precisione e larazionalità di queste immense operazioni, un incubo logistico che invece

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trovare in due volumi, allora molto popolari. Il primo è la biografia cul-turale del proprio paese di Nehru, The Discovery of India, memorie scrittenel forte di Ahmednagar, lì imprigionato dagli inglesi dal 1942 al 1945, eoriginariamente pubblicato nel 1946, e l’altro è l’intervista di Tibor Mende,Conversations with Mr. Nehru, pubblicato nel 195611.La bibliografia (se Rossellini fosse stato più pedante avrebbe messo la listadei volumi nei titoli di testa) è protagonista della sesta puntata, Le lagune diMalabar. Il solito impossibile Cesarini Sforza esordisce, nella sua totale neb-bia storico-geografica: «Ci siamo spinti fino alla costa sud-occidentale, aMalabar [...]. La vita è più facile o più difficile?». Rossellini spiega: «Sonomolto più poveri. Ma devo dare dei cenni storici sugli ultimi duecento annidi storia dell’India [...]. È a causa delle barriere commerciali istituite dagli in-glesi per proteggere le fabbriche tessili di Manchester che il paese si depau-pera. Gli artigiani devono tornare a vivere sulla terra. Si sono sviluppatemonocolture a fini strettamente industriali». Le lagune di Malabar segue conattenzione la pesca e la lavorazione del pesce, e la raccolta del cocco. Per for-tuna non vediamo il volto di Rossellini quando, in riferimento ai raccogli-tori di cocco, Cesarini Sforza commenta che «si arrampicano come mosche»o quando, di fronte a immagini di giovinette dravide agghindate, il giorna-lista prontamente replica che sono «piacevolmente differenti». Anche Ros-sellini non scherza quando si parla di stereotipi. Il suo documentario prodottoper la NBC “Idea di un’isola” (1967) è evocato qui, quando afferma: «Cometutti gli uomini del Sud sono molto più esuberanti [...]. Sono cattolici, quindimangiano il pesce». Il tono delle immagini, lunghi piani sequenza ad ac-compagnare le barche nella laguna, sembra ispirare una certa rêverie di am-bedue i narratori. Siamo nello stato del Kerala, e ora ci si sofferma sui villagginei boschi di cocco, sul colore della giungla e sulle imbarcazioni («sembrauna barca fenicia»). Ma finalmente l’aspetto tecnico e pragmatico riprende ilsopravvento e la puntata continua con la fabbricazione della stuoia (ricor-diamo che il protagonista inglese de Il fiume era proprio un magnate dellastuoia), e la fabbrica di fiammiferi ci offre un interessante momento cine-matico con il metodo di asciugatura, un gruppo di persone che camminaavanti e indietro come in un cerchio dantesco. «Un paese dove si può sognaredi andare a vivere», chiude Rossellini, mentre le immagini mostrano barcheche trasportano la copra, il mallo della noce di cocco.Nella settima puntata, Kerala, rimaniamo nel Malabar e questa volta Ros-sellini si sofferma sulle malattie endemiche della regione, e sui grandipassi avanti compiuti dal governo indiano. Così dopo averci informatodella diffusione pandemica della malaria e dell’elefantiasi, si sofferma suiprogrammi di vaccinazione ormai diffusissimi. Quindi si dilunga in unadelle sue favorite generalizzazioni, quella sul carattere dei popoli. Temaancora oggi in voga, anche se ritenuto meno scientifico di qualche de-cennio fa, era all’epoca molto diffuso: «Recentemente ho letto il libro diRoger Caillois, Les jeux et les hommes12. Caillois divide il gioco in quat-tro gruppi: la fortuna, l’abilità, la mascherata, la vertigine (il parossismo).Vi sono dunque civiltà che si basano su fortuna e abilità (è il caso del ba-cino del Mediterraneo), o l’Africa che si identifica con la mascherata. In

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provincialismo culturale e l’orgoglio culinario, fa buon viso a cattivogioco, e si dilunga in grandi elogi della cucina indiana. Si prosegue conle immagini, e Verso il sud ci porta in un villaggio musulmano, per poicontinuare verso Madurai e il barocchissimo tempio di Alagorkoil (siamonello stato del Tamil Nadu). L’episodio si avvale della buona conoscenzadi Rossellini dell’architettura locale e della storia politica, sociale e reli-giosa di questa vitalissima regione dell’India. E Rossellini non manca dipromuovere uno dei punti ideologici chiave di questo viaggio indiano: latolleranza e la civile convivenza di persone di lingua e cultura diverse, inuna nuova e armoniosa democrazia. Sembra evidente dalle parole del re-gista che non si tratta di banale naïveté culturale, ma di un progetto cul-turale, se si vuole, in linea con la politica di Nehru. Il futuro dell’Indiadipende anche dal suo passato (vero o presunto) di tolleranza e armonia,e Rossellini, con sagacia prospettivista, si adegua a questo progetto. Lapassione di Rossellini per il futuro politico dell’India postcoloniale è datrovare nel suo incontro personale con Nehru avvenuto a Londra nel giu-gno del 1955, insieme al ministro degli Esteri Raghvan Pillai, con cui Ros-sellini aveva parlato del suo progetto di film indiano10, e nell’incontro conMahatma Gandhi nel 1931 a Roma (il governo fascista era entusiasta diospitare un così forte alleato nella competizione con la perfida Albione).Ma i principi teorici alla base della visione rosselliniana dell’India sono da

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vazione del pesce gestita dai norvegesi con indosso tute polari, quindi diun’altra fabbrica di tubi di cemento, e infine le belle immagini di ungruppo di bambini norvegesi pallidissimi e indianini gioiosi che fanno ilbagno insieme in un incantato mare cristallino.Con l’ottava puntata, Hirakud, la diga sul fiume Mahadi [Mahanadi], siamoin pieno territorio Nehru, per così dire: a occidente del Bengala, nello statodi Orissa, il fiume Mahanadi sta per essere deviato con la costruzione dellagrande diga di Hirakud. Questa puntata, come la seguente, è dal punto divista cinematografico la più interessante, probabilmente perché qui si svolgel’episodio del film India Matri Bhumi sull’operaio della diga. La puntata co-mincia con un cameracar con lento arrivo verso la diga di cui si vedono ilavori. Segue una delle solite gag involontarie: «Nel mezzo – commentaRossellini – ci sono le cime dei monti ora diventati isole, e hanno creato deisanctuaries, dei santuari per animali e soprattutto uccelli». L’inglese animalsanctuaries si traduce come riserva naturale, ma questo sfugge a CesariniSforza: «In riferimento alla santità dell’animale?». Rossellini (quasi avvilitoa questo punto): «Mah, non so», e continua con qualche notizia: «In questolago sono stati sommersi 275 villaggi [...], sono stati impiegati 35.000 la-

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India non esiste nessuno di questi momenti ludici, e soprattutto manca ilsenso della fortuna. Forse è perché da loro esiste la lotta, nella loro reli-gione c’è la lotta tra distruzione e conservazione, quindi hanno un ap-proccio molto concreto e razionale di fronte alla vita» ci spiega Rossellini.Intanto con le immagini siamo arrivati in Kerala, «sulle onde lunghe delriff i polinesiani hanno inventato i giochi d’acqua, qui invece è solo la-voro», commenta Rossellini, che come sappiamo ama più elogiare l’oziomeridiano che la fatica.Le immagini tra le più bizzarre del documentario sono quelle del gruppodi norvegesi in Kerala, nel quadro degli aiuti internazionali dell’Indo-Nor-wegian Project impegnati a migliorare la tecnologia delle barche. Rossel-lini, che è sempre pronto a difendere la saggezza popolare e l’acumelocale, fa notare come le barche dei norvegesi, troppo grandi, si bloccanocoi monsoni, a differenza delle agili imbarcazioni locali. Anche il nostroCesarini Sforza, dopo ore di rieducazione rosselliniana, deve ammettereche «l’India è molto più razionale di quello che pensavamo». A cui unesausto Rossellini risponde: «Mi fa piacere che mi dia ragione». L’episodiosi chiude con le immagini degli operai indiani nella ghiacciaia di conser-

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morto mio padre. Uomo d’azione, rapidissimo, svelto come un furetto.Nehru è più un santo, vuole creare la democrazia in India». Si apre la pun-tata con il titolo Il pandit Nehru, e questa volta vediamo Hirakud dal-l’alto, con Nehru che guarda in basso dal finestrino dell’aereo. Per certiaspetti l’inizio di questa puntata sembra più un cinegiornale ufficiale, conl’inaugurazione della diga e la doverosa rassegna militare. Rossellini com-menta: «Questo 13 di gennaio 400.000 persone sono venute da 2-3-400miglia di distanza». Ma la scena si chiude velocemente, e la troupe segueil pandit a Nalanda, l’università buddista. I tibetani sono venuti a ripor-tare i resti di un cinese buddista (la scena è rovinata da un’altra involon-taria battuta; Rossellini: «Ecco i pellegrini tibetani»; Cesarini Sforza: «Sonomongoli, mongoloidi»; Rossellini, alzando la voce: «Mongoli, mongoli»).L’incontro di Nehru con il giovane Dalai Lama permette a Rossellini disfoggiare la sua conoscenza del buddismo: «Sa come finiva le sue predi-che Buddha? Questo è quello che vi suggerisco. Provatelo, e se vi convieneadottatelo». Passiamo quindi all’Università Visva-Bharati, fondata dalpoeta Rabindranath Tagore a nord di Calcutta, e dedicata all’integrazionedi testi occidentali e orientali e alla tolleranza politica e religiosa: «Uno deilibri di testo è L’estetica di Benedetto Croce», commenta estatico Rossel-lini, per continuare: «Sotto quella tettoia Tagore e Gandhi si incontra-vano».La decima puntata è dedicata a un argomento carissimo a Rossellini, Glianimali in India. Il ruolo degli animali in Rossellini è stato senz’altro pocoaffrontato, se non per l’interessante volume curato da Nathalie Bourgeois,Bernard Bénoliel e Alain Bergala, India. Rossellini et les animaux13. Sia neidocumentari per la televisione che nel film India Matri Bhumi, gli animaliaddomesticati e selvaggi vengono messi a confronto e analizzati sia perla loro presenza fisica e sociale all’interno della comunità sia per il lorovalore simbolico. Gli animali sono presentati, nel cinema di Rossellini,come esseri da osservare in quanto tali (e da amare, nello spirito dei fra-ticelli di Francesco), e figure metaforiche da leggere in relazione alla so-cietà degli umani che li circonda. È il caso, in India Matri Bhumi, dellatigre del terzo episodio, che diventa una figura della modernizzazione for-zata, e della scimmietta ammaestrata del quarto episodio, metafora dellasolitudine umana. In questa decima puntata de L’India vista da Rossellinici sono due momenti rosselliniani, raccontati con ovvio compiacimento.Il primo ha a che fare con un elefante. La troupe si accinge a fotografarlo,ma il mahout smonta dall’animale e si lamenta. L’offerta di denaro non localma, invece dalla sacca tira fuori due zanne posticce, le attacca allabocca dell’animale, torna indietro e a questo punto lascia che lo si foto-grafi. Per Rossellini questo «amore e rispetto per la fierezza dell’elefanteè davvero commovente». A noi spettatori, come nell’episodio della primapuntata alle corse, interessa l’uso del macchina da presa come macchinaper la verità: nel montaggio finale vediamo le due versioni dell’elefantecon e senza zanne. Così come commovente è una scimmietta incinta senzacoda e senza un braccio. L’inquadratura si fa avvincente quando vediamoRossellini in tenuta indiana (il camicione coloniale e i pantaloni chiari

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voratori [...]. Il lavoro è solenne, si fa in silenzio», a cui pronto CesariniSforza aggiunge: «Silenziose formiche attive. Che nobiltà di portamento,che tranquillità!». Per fortuna la sala di proiezione è buia e non vediamo ilvolto di Rossellini di fronte alle affermazioni di tale banale razzismo. Visono poi lunghi silenzi sulle belle panoramiche dei lavori, e quindi un car-rello laterale sul cimitero dei mezzi meccanici, seguito da un movimento inavanti sul monumento ai caduti sul lavoro, e poi uno zoom indietro, e fi-nalmente Rossellini può affermare: «E questa è l’opera compiuta! E questaè una ragazza dell’Orissa che guarda con compiacimento all’opera che lei ei suoi compagni hanno compiuto».La nona puntata è interamente dedicata al pandit Nehru, per Rossellini ilvero uomo della provvidenza che coraggiosamente tenta di risolvere il gi-gantesco problema di modernizzare la più grande democrazia al mondo.È forse in questa puntata, ci stiamo avvicinando alla fine del viaggio, chel’insofferenza di Rossellini verso il povero Cesarini Sforza si fa più forte.Rossellini racconta del suo primo incontro indiano, quello con Gandhi: «Ioho conosciuto Gandhi quando è passato da Roma per andare alla confe-renza della tavola rotonda di Londra nel 1931-1932. Questo omino conquesta capretta ha vissuto nell’appartamento dove ho vissuto io e dove è

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logo fluido, le improvvisazioni sul canovaccio ovviamente offerto da Ros-sellini sono a proposito. E ha inoltre più senso dell’umorismo: la battutasugli uomini alle corse seduti all’indiana è meglio organizzata, e con mi-gliore tempo comico. Inoltre è interessante la differenza nell’“illustrazionesonora”: oltre alle tablas, che accompagnano anche la versione italiana,il sonorizzatore francese sceglie più liberamente musica a effetto. Nellascena delle corse, parodica degli angloindiani, e nella scena del cricket,viene usata una musica da banda che ironicamente richiama la coloniz-zazione inglese. Le domande tecniche permettono a Rossellini di cantarele lodi della macchina a mano: «Je m’amuse beaucoup plus avec le 16mmque le 35mm», a cui acutamente Lalou ribadisce: «L’antécédent de la sen-sibilité moderne». Anche qui ovviamente il documentario risente della at-mosfera culturale dei tempi. Ne è un esempio la spiegazione della vaccasacra come fenomeno utilitario, tipico dell’antropologia materiale che leg-geva ogni evento culturale come conseguenza diretta di necessità prima-rie: la vacca è sacra perché è utile, e così via.La seconda puntata si concentra sulle teorie dell’ozio dei popoli, il che dàa Rossellini l’oppurtunità di parlare di Napoli, e soprattutto della Colle-zione Farnese del Museo Archeologico (i rosselliniani non possono nonpensare alla magica scena con Ingrid Bergman in Viaggio in Italia, 1954).La terza puntata vede un cambio di set, e si parla di cucina. È Lalou a leg-gere la ricetta questa volta, il che permette a Rossellini una bella battutaper il pubblico francese: «Bah, écoute, je mange des spaghetti tous lesjours». Più seriamente, nella versione francese c’è più spazio per notiziescientifiche, e Rossellini può parlare della necessità delle proteine nel-l’alimentazione, e dell’azoto per fertilizzare il suolo. La maggior parte dellenotizie scientifiche del documentario viene a Rossellini dalla lettura diJosué de Castro, Geografia della fame15, volume estremamente popolare al-l’epoca, a cui Rossellini fa spesso riferimento, e che diventa una vera guidaai problemi del mondo. Il film a firma Rossellini girato per l’UNESCO 15anni dopo, A Question of People (1974) è un progetto direttamente con-nesso ai problemi sollevati da questo volume, e Rossellini aveva seri pro-getti di una serie di documentari basati su questo studio. De Castro,presidente della FAO, scienziato nutrizionista, era una vera figura di rife-rimento della sinistra marxista mondiale, e il suo libro ebbe grandissimoriscontro. Secondo Renzo Rossellini jr. la prima versione de La lotta del-l’uomo per la sua sopravvivenza (1967-1971) si doveva chiamare “Storiadell’alimentazione”, modellandosi sul titolo di de Castro. Sempre secondoRenzo, i due si erano conosciuti in Brasile, dove Jorge Amado li avevamessi in contatto. La grande rivoluzione di de Castro per quel che riguardal’alimentazione è davvero di valore copernicano. Come scrive Carlo Levinella bella introduzione all’edizione italiana del 1954, per de Castro «lafame [...] è un fatto tutto umano, tutto legato alle condizioni della società:non frutto di leggi naturali, ma prodotto dalla situazione storica»16. Daqui nasce il primo vero grande atto d’accusa di de Castro contro le poli-tiche economiche coloniali, che hanno condannato un quarto del mondoalla monocoltura e al latifondo, origine del depauperamento del territo-

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che abbiamo già visto in certi scatti dal set) entrare nell’inquadratura peroffrire del cibo alla poverina. È significativo che l’unica inserzione auto-riale, dopo un anno di riprese e di lavoro, avvenga proprio qui, in questomomento di dolore infinito, e di totale coscienza dell’inutilità del gesto sevisto nel grande ciclo di sofferenza della vita. Ma sono la macchina dapresa e il regista che si inseriscono nel tempo tutto uguale della vita del-l’animale, non scandito dai tempi umani, che riportano ancora una voltail grande potere dell’immagine di collegarsi con il reale fenomenologico,umano, animale, vegetale e minerale. Si continua con altri animali. Primagli spazzini della giungla, gli avvoltoi inquadrati mentre divorano la car-cassa di un cane (Rossellini commenta: «Sono orribili ma elegantissimi»),e poi i pipistrelli immensi, e le aquile nella giungla del Karapur, quindi ilvolo di un airone, e scimmie Yanuma, con il pelo grigio e la faccia e ipiedi neri (Cesarini Sforza: «Tarzan delle scimmie». Rossellini, laconico:«Eh sì»). Poi alcune immagini riprese con il teleobiettivo, come le tigri «chefanno la pipì per stabilire i loro territori di caccia», e poi la scena degli ele-fanti che abbiamo visto nel primo episodio di India Matri Bhumi, con imahout che lavano i pachidermi nel fiume. Si continua con un gruppo dioche che attraversano il passaggio a livello.Ma stiamo avvicinandoci alla conclusione ed è tempo di bilanci. Chiedeil giornalista: «Il suo atteggiamento verso l’India […] ci ha fatto vedere idati più ottimistici. Quale critica si può fare?». Rossellini: «Compiacimentoper l’umiltà e per la tolleranza che li fa vivere insieme». Cesarini Sforza:«Noi gli abbiamo dato le macchine, ma cosa... cosa c’è di esportabile nelloro modo di vita?». Rossellini: «Noi non gli abbiamo dato molto […]l’enorme spirito di tolleranza è parte della loro cultura». Rossellini ricordacome uno dei princìpi di Krishna è che si misura il grado di civiltà di unpopolo in base alla sua tolleranza. Conclude Cesarini Sforza: «Abbiamocosì ritrovato un uomo curioso e preciso con le cose».

«J’ai fait un beau voyage»La versione francese de L’India vista da Rossellini, J’ai fait un beau vo-yage, si presenta nella brutta veste grafica orientaleggiante che abbiamogià visto nell’edizione italiana (le lettere del titolo in particolare hannouna banale grafica arabescata), ma ha il vantaggio di avere in studio ilgiornalista e scrittore Étienne Lalou. Il dialogo tra i due è serrato, Lalouchiede a Rossellini se gli interessa il magico, e lui prontamente risponde«le magique ne m’attire pas […] c’est la réalité qui m’intéresse». Ma nonsolo il tono, anche la scenografia è più interessante: non siamo più in unasala di proiezione con lo schermo davanti, ma faccia a faccia in studio, ele immagini del documentario arrivano sullo schermo televisivo in dis-solvenza. Lalou mostra fin da subito diverso spessore della sua controparteitaliana14. Dopo la prima domanda, simile all’incipit italiano in cui Ros-sellini vuole sfatare il mito dell’India come terra magica, Lalou passa su-bito a domande più tecniche: che materiale cinematografico ha portato inIndia, e chi ha contribuito alle riprese. Ma soprattutto Lalou ha una con-cezione più realistica dei tempi televisivi: le domande sono rapide, il dia-

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tesi Scandal, Chicago University Press, Chicago, 2003. In un articolo apparso su«Vie Nuove» il 24 maggio del 1953, Cesarini Sforza creò molto scalpore: uno deipersonaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinoradefinito “il biondino”, viene identificato nella persona di Piero Piccioni. Piccioniera un noto musicista jazz (col nome d’arte Piero Morgan), fidanzato di AlidaValli e figlio di Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esterie massimo esponente della Democrazia Cristiana. Piero Piccioni querelò per dif-famazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Sforza Cesa-rini venne sottoposto a un duro interrogatorio. Lo stesso PCI disconobbe l’operatodel giornalista, che venne accusato di “sensazionalismo” e minacciato di licen-ziamento.9. Cfr. Siegfried Kracauer, Teoria del film, Il Saggiatore, Milano, 1995 (ed. or.Theory of Film. The Redemption of Physical Reality, Oxford University Press, Ox-ford, 1960), p. 437.10. Cfr. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, cit., p. 454.11. Cfr. Jawaharlal Nehru, The Discovery of India, Signet Press, Kolkata, 1946, eTibor Mende, Conversations with Mr. Nehru, Secker and Arburg, London, 1956.12. Roger Caillois, Les jeux et les hommes. Le masque et le vertige, Gallimard,Paris, 1958; trad. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani,Milano, 1981. Caillois è con Georges Bataille uno dei fondatori del Collège deSociologie.13. Cfr. Nathalie Bourgeois, Bernard Bénoliel, Alain Bergala (a cura di), India.Rossellini et les animaux, Cinémathèque Française, Paris, 1997.14. Leggiamo nella sua biografia che Lalou, oltre ad essere stato decorato du-rante la Resistenza al nazismo, ha notevole esperienza di giornalista, editore eproduttore televisivo.15. Cfr. Josué de Castro, Geografia della fame, introduzione di Carlo Levi, Leo-nardo da Vinci, Bari, 1954 (ed. or. Geopolítica da fome, Casa do Estudante doBrasil, Rio De Janeiro, 1952).16. Carlo Levi, in ivi, p. VI.

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rio. Ma de Castro va oltre il semplice atto d’accusa: infatti ribalta il pro-blema sostenendo, contro Thomas Robert Malthus, che la fame non ècausa della sovrappopolazione ma una delle sue conseguenze, e che lasoluzione al problema sta nella diffusione dei mezzi tecnici e scientifici enella razionalizzazione dell’agricoltura. De Castro propone anche una teo-ria che ai nostri giorni sembra un po’ forzata, ma che ebbe grande ri-scontro all’epoca. Dato che le popolazioni che mangiano molte proteinetendono ad avere bassa natalità, lo scienziato traccia un diretto parallelotra proteine e nascite, per cui per diminuire le nascite basterà dare piùproteine al popolo. La connessione è per de Castro scientifica, e ha a chefare con l’aumento della sterilità nelle popolazioni ben nutrite. La puntatasi chiude in tono più leggero con una ricetta per cucinare langoustine àla cardamome.La terza e la quarta puntata replicano, sia nelle immagini che nel testo, laversione italiana.La quinta puntata continua, a dire il vero con un po’ di noia, con storiedi cucina indiana. Rossellini spiega come preparare un piatto di lenticchie,accompagnato dallo sguardo annoiato del presentatore, che sta ovvia-mente cercando di capire cosa penseranno i telespettatori francesi di que-sto signore italiano che legge ricette in tv.Nelle puntate successive si segue il medesimo canovaccio della versioneitaliana, e Rossellini non fa altro che tradurre quanto ha già detto ai te-lespettatori italiani. Da notare che nella nona puntata finalmente men-ziona il volume di Nehru, The Discovery of India, e l’intervista di Mende(Conversations with Mr. Nehru), che sono al centro della sua idea dell’In-dia. E infine, nell’ultima puntata, Rossellini riesce a citare Vitaliano Bran-cati per criticare il gallismo dei maschi italiani.

1. Roberto Rossellini nel colloquio con Étienne Lalou in J’ai fait un beau voyage.2. Cfr. Stefano Masi, Enrico Lancia, I film di Roberto Rossellini, Gremese, Roma,1987, p. 96.3. Cfr. Stanley Cavell, La corte e il matrimonio. La costola di Adamo, in Id., Allaricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, To-rino, 1999 (ed. or. The Courting of Marriage. Adam’s Rib, in Pursuits of Happiness.The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard Film Studies, Cambridge, 1981).4. Stanley Cavell, The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film, Har-vard University Press, Cambridge (Mass.), 1979, p. 73.5. Cfr. Marc Augé, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmo-dernità, Eleuthera, Milano, 1993.6. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films,Da Capo Press, New York, 1998, p. 556, e Gianni Rondolino, Roberto Rossellini,UTET, Torino, 2006, p. 283.7. Rondolino, Roberto Rossellini, cit., p. 283.8. È forse il caso di spendere due parole su Cesarini Sforza, figlio di un profes-sore di filosofia della Sapienza, coinvolto nello scandalo dell’omicidio di WilmaMontesi, raccontato e analizzato brillantemente da Karen Pinkus in The Mon-

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I documentari d’occasione

Mi sono messo a studiare1.

Dopo i documentari indiani, l’impegno diRossellini per la televisione di Stato si fapiù intenso. Comincia infatti la lunga seriedi film educativi, parte di un grande pro-getto scientifico di divulgazione della co-noscenza. Ma sarebbe fuori dallecompetenze di questo libro occuparsi dellafiction televisiva, anche di quelle istanze didocumentazione che appaiono frequente-mente in queste produzioni televisive.Come nota Adriano Aprà nella postfazioneal presente volume, «la quinta e ultimapuntata [de L’età del ferro] è quasi intera-mente basata su materiali di repertorio ac-compagnati da voce over» e una potentecolonna sonora di Carmine Rizzo, quasi afarne una sinfonia cittadina alla Walther Ruttmann; «ne La lotta dell’uomoper la sua sopravvivenza (1967-1971) [si] procede allo stesso modo nelladecima, undicesima e dodicesima puntata (intitolate Questa nostra gran-diosa civiltà della fretta, Un’arte nuova in un mondo di macchine e No-nostante tutto, ancora più lontano)».Parallelamente alla produzione di fiction educativa, rimane sostenutaquella documentaristica vera e propria. Molti di questi film sono scono-sciuti anche al pubblico degli specialisti, e hanno ricevuto davvero atten-zione limitata della critica. Da una parte c’è un ovvio problema didisponibilità dei materiali e della loro qualità. In molti casi si tratta diopere d’occasione, probabilmente accettate per finanziare altri progettidella Orizzonte 2000, la compagnia dei Rossellini père et fils, e di altre ini-ziative in cui Rossellini non era mai restio a imbarcarsi. Secondo Renzojr., il coinvolgimento di Roberto in molti di questi film era parziale: in al-cuni casi si è trattato di prodotti affidati interamente al figlio, appunto, oa collaboratori vari, in altri Roberto si occupava solo di alcune parti della

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La parte più interessante è quella sul cinema, che nasce a Torino (almenosecondo il commentatore) con i grandi film Cabiria, Messalina, Fabiola, epoi le attrici, tra cui la contessa Rina de Liguoro. E si ricorda infine chequi nacque la radio. D’un tratto il tono del film si fa vérité, e il finale ètutto dedicato a un’intervista a un’anziana immigrata siciliana alla Sta-zione Porta Nuova. Ma sono immagini che rivedremo anche nell’altro do-cumentario su Torino, e di cui parleremo a breve. Il film si chiuderetoricamente con un lungo edificante discorso su come Torino non di-scrimini in base alla classe sociale, alla provenienza geografica o alla federeligiosa. Anche noi ce lo auguriamo.

«Torino tra due secoli»Passiamo al più breve e interessante Torino tra due secoli (1961). «Questodocumentario venne realizzato da Roberto Rossellini in occasione di Ita-lia ’61, mostra celebrativa del centenario dell’Unità d’Italia con capitale aTorino», come riporta la nota a inizio film inserita al momento del re-stauro eseguito dalla Cineteca Nazionale nel 1991, che continua: «Comeè facile osservare il film venne realizzato da Rossellini con mezzi eviden-temente “poveri” e con attrezzature pressoché artigianali e ultimato infase di post-sincronizzazione: anche le interviste a [Italo] Calvino, [Giu-lio] Einaudi e [Massimo] Mila furono doppiate in studio successivamente».

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fase produttiva, spesso l’ideazione del soggetto e la revisione dei testi, op-pure della fase finale del montaggio.Ne sono esempi il film su Benito Mussolini, ricordato nella filmografia diquesto volume solo per dovere di registro, o i due film su Torino, com-missionati in occasione del centenario dell’Unità d’Italia e della città suaprima capitale, e da intendersi come appendici del lungometraggio Vival’Italia (1961).

«Torino nei cent’anni»Torino nei cent’anni (1961), mediometraggio per la televisione, ha un in-cipit stentoreo su un montaggio di stampe d’antan, vignette satiriche, fotod’epoca e qualche dipinto d’occasione: così si snocciola questo elogio dellospirito dei piemontesi, «solidi», «costanti», «adatti all’impresa del Risorgi-mento». Con canzoni unitarie, si ringrazia Carlo Alberto di Savoia per lostatuto, senza menzione degli eventi che condussero a quel momento. Maa dire il vero è proprio il suono il vero problema del film: non basta lascelta di due voci narranti, una femminile e una maschile, per togliereuna patina stantia, e poi la scelta musicale trita e banale (canzoni risor-gimentali in orchestrazioni grandiose, e alcune pillole di musica classica)

rende il tutto, dal punto di vista formale, unfilm di propaganda da Ventennio. Il narra-tore non è Guido Notari, ma siamo lì (assenzadi accento, parlantina spedita, dizione spu-meggiante), a cantare le lodi di Palazzo Ma-dama, il glorioso Senato Subalpino, e cosìvia. Con i versi di Piemonte di Giosuè Car-ducci, il documentario annuncia l’abdica-zione di Carlo Alberto dopo la sconfitta diNovara, con carrellata tarkovskijana nellabruma mattutina tra gli alberi del parco. Poila lista degli esuli: Francesco De Sanctis daNapoli, Terenzio Mamiani, Luigi Settembrini.Alle due voci narranti si aggiungono alcune

di quelle dei protagonisti, come quella della marchesa Margherita Pro-vana di Collegno a proposito di una lezione su Dante tenuta dal “napoli-tano” De Sanctis, scenette intese a rendere più familiare il tono del film.Si menzionano anche i prodromi del femminismo italiano, ma le voci dicommento faticano a incorporare il tema nella narrativa monumentali-stica. Non poteva mancare la bella Gigugin, né il fumetto a illustrarel’azione di Giuseppe Garibaldi che sfogliato velocemente si sviluppa comeun filmino animato. Si passa al Teatro dei Pupi, dove si celebra Gianduja,il contadino coraggioso, e poi Guido Gozzano, con immagini di cose dipessimo gusto (ma vengono meglio in poesia che in pellicola), e la pas-sione sportiva per le automobili. Il commento legge una citazione di Gio-vanni Agnelli, che si dichiara a favore degli operai (tanto per dare unabotta al cerchio). Giovanni Giolitti, grande piemontese, non riesce a evi-tare la Guerra, e poi la lotta partigiana con un breve clip da Paisà (1946).

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Il cartello introduttivo chiude definendo il film «opera minore». Le primeimmagini sono quelle della Stazione Porta Nuova già viste (ma questavolta a colori) alla fine di Torino nei cent’anni. Questo bell’incipit in mediare con l’arrivo dei migranti e l’intervista a caldo con la madre giunta a To-rino in visita al figlio non a caso è condotto da Valentino Orsini e dallastessa troupe di un travagliato capolavoro della storia documentaria ita-liana: L’Italia non è un paese povero (1959) di Joris Ivens. Il film, com-missionato dall’ENI di Enrico Mattei e poi censurato dalla RAI, sparì perlungo tempo dalla circolazione2. Il breve frammento di documentario di-retto inserito tra le immagini di repertorio fa di questo corto un’opera piùviva e più socialmente impegnata della precedente. La narrazione infattisi articola sul ruolo di Torino nella storia: se durante il Risorgimento lacittà riceveva una richiesta d’aiuto dai fratelli italiani soggiogati, ora, du-rante il boom economico, sono i nuovi immigrati a presentare la «richie-sta di aiuto e di solidarietà». Il tema dell’immigrazione continua nellatipografia del quotidiano «La Stampa», con un’altra breve intervista al di-rettore capo. Ma si ritorna alla stentorea voce di commento e a immaginidi regi decreti, annessioni e plebisciti. Breve parentesi sul teatro, dove simenzionano i drammi di Giuseppe Giacosa, e si vedono alcune scene dallacommedia Tristi amori. Non poteva mancare un momento dedicato aGuido Gozzano: la macchina da presa, poco sensibile alle istanze femmi-niste dell’epoca, insiste su alcune crinoline poggiate su sediuole imbottite,mentre il commento dichiara «le buone cose di pessimo gusto» come esclu-sive del «mondo femminile». Dopo una breve menzione di Cesare Pavesea ritmo di musichetta jazz (a evocare la sua antologia di autori ameri-cani), si passa alle brevi interviste a Calvino, Einaudi e Mila, dove i tre ri-badiscono la natura di Torino come città di frontiera tra Erasmo daRotterdam e Friedrich Nietzsche, estrema cittadella di razionalità. Sichiude con il messaggio di uguaglianza di Torino già sentito, ma questavolta a salutare il pubblico sono immagini degli stabilimenti FIAT dall’eli-cottero.

«“Idea di un’isola”»“Idea di un’isola” (il titolo è stranamente tra virgolette), del 1967, co-mincia allo stesso modo di India Matri Bhumi, con una panoramica daun punto sopraelevato che zooma sul lungomare di Palermo. La voce dicommento di Corrado Gaipa è soave e gattona, e annuncia: «La Sicilia èla più grande isola del Mediterraneo». Si intuisce fin da subito che que-sto è un prodotto per il mercato straniero, la versione originale si intitola,infatti, Roberto Rossellini’s Sicily: Portrait of an Island, trasmesso dallaNBC il 29 dicembre 1968. Pur essendo per molti aspetti una commissione,e codiretta da Renzo jr., è interessante per i rosselliniani riscoprire certitemi che hanno incontrato durante la carriera del regista, riproposti inmaniera “light” per il grande pubblico americano. Bello è infatti l’esor-dio su Scilla e Cariddi, e il repentino cambio di tono: «Ma quando si diceSicilia si pensa alla mafia». Come sempre nello stile rosselliniano gli ste-reotipi e i miti non vengono evitati, ma affrontati di petto, esplorati dal-

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l’interno per uscirne – si spera – dall’altra parte. Rosselliniano è anche uncerto approccio da antropologia materialista che vede un diretto rapportotra condizioni materiali e sovrastruttura culturale, e una visione teleolo-gica del progresso umano. Rossellini conosceva bene sia l’opera di Her-bert Marcuse sia il discorso antropologico a lui contemporaneo, e potevasenz’altro essere entrato in contatto con il materialismo americano at-traverso la lettura del dibattito riportato dalla «Monthly Review», fon-data e diretta dai sociologhi marxisti Paul Sweezy e Leo Huberman, e acui era abbonato (secondo quando riporta Renzo Rossellini jr.). Non sor-prende allora di sentire che l’origine della mafia in Sicilia sia una con-seguenza delle invasioni straniere, e una forma di difesa collettiva controla dominazione: «La Sicilia ha avuto in media ogni cento anni un nuovopadrone [...] allora per abitudine secolare “i siciliani se fanno i fatti loro”»,dice in falso accento siciliano il narratore. «Sono diffidenti, prudenti, se-greti». La macchina da presa sta inquadrando vari gruppetti di uomini chechiacchierano, quando uno si accorge della presenza della troupe, e facenno agli altri di fare attenzione. La piccola gag, che usa il dispositivocinematografico per risvegliare l’attenzione dello spettatore, riporta ilfilm nel regno della finzione, e allo stesso momento mette in guardia dairischi ideologici della finzione. Così il quadretto si chiude sui gesti delmaschio siciliano: «Il maschio siciliano anela alla preda, e la preda è la

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donna straniera». Alle due giovani e belle turiste americane viene imme-diatamente offerto un passaggio, e le due accettano volentieri («it’s verykind of you!»).Rossellini rivela in questo film un buon fiuto per il problema del generee dei costumi sessuali nella cultura meridionale: nota come cornuto «nonè mai usato al femminile», e continua ricordando ironicamente come «ladonna siciliana è purissima». E non poteva mancare una scena dedicataai pupi, i paladini di Francia impegnati nell’eterna lotta con i mori e perla conquista di Angelica (abbiamo già visto il teatro dei burattini nel ce-lebrativo Torino nei cent’anni, per elogiare Gianduja e il parco spirito pie-montese). Non possiamo non pensare a Paisà, quando l’inebriato edisilluso soldato afroamericano Joe si trova con il suo recente amico scu-gnizzo a uno spettacolo di pupi: quando vede il fratello Saladino in peri-colo interviene a interrompere lo spettacolo, generando veementi protestedel pubblico, e risvegliando con una piccola scenetta decenni di inebetitocinema italiano sulla questione del razzismo.Il maschio siciliano viene quindi ripreso nel momento fondamentale delmatrimonio, con le coppie di sposi a fotografarsi sulle carrozzelle d’epocaal museo etnografico Pitrè al Parco della Favorita, o sotto la statua di Er-cole. La lezione di Jean Rouch ed Edgar Morin dell’auto-antropologia èben appresa da Rossellini, che proprio in quegli anni scriveva: «Non sa-rebbe interessante fare film etnologici su Parigi o su Roma? Prendiamo lacerimonia del matrimonio: il rito, come espressione profonda dell’uomo,sparisce dietro l’abitudine. Ebbene, bisogna riscoprire i riti sui quali sibasa la nostra società con lo sguardo nuovo dell’esploratore che descrivei costumi di una popolazione cosiddetta primitiva»3. Ma l’investigazioneantropologica dell’“Idea di un isola” è abbastanza innocua, e non va adire il vero più in là di un simpatico ammiccamento. La gita alla Favoritaci porta alla Casina Cinese, affrescata da un pittore palermitano, Vela-squez (nato Giuseppe Velasco nel 1750, che aveva sfruttato la somiglianzadel proprio nome per prendere l’identità dell’ammirato maestro spagnolo).L’interesse di Rossellini per il falso (si pensi ai personaggi interpretati daTotò in Dov’è la libertà..., 1954, e da Vittorio De Sica ne Il generale DellaRovere, 1959) si applica per estensione alla forma rosselliniana. Senz’al-tro qui e nei documentari narrativi in generale, dove la fiction è al servi-zio del documento (e viceversa nei film di finzione), vediamo l’occhiorosselliniano cercare con la macchina da presa tra le cineserie di pessimogusto un segno per capire la storia della Sicilia. La voce narrante si fabeffe dell’orientalismo borbone («oriente, mistero, un atmosfera di… di…boh!»), il tutto accompagnato da chinoiseries musicali.Si passa all’immancabile inquadratura degli scheletri del Convento deiCappuccini di Palermo, e poi una bella scenetta: quella della fede di un de-voto barone che per mantenere una promessa di grazia ricevuta dovrebbeandare a piedi in Terrasanta, ma decide che è più comodo farlo – accura-tamente misurato il tragitto – nel giardino di casa, accompagnato dal ser-vitore che gli offre acqua e caffè nei momenti difficili. Il momentodedicato alla religione vissuta come esteriorità formale continua con le

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immagini della processione del venerdì santo a Trapani, con la costru-zione di gruppi scultorei da parte di ogni associazione dei vari quartieri:le immagini, ricorda il narratore, assomigliano a quelle dell’Opera dei Pupi.La scena dell’orecchio di Dionisio (vicino al teatro greco di Siracusa) ri-corda la visita alla Sibilla Cumana di Katherine in Viaggio in Italia (1954).Si passa poi al tempio di Segesta e, dopo una bella pausa sul vento chepiega le messi siciliane, alla Valle dei Templi di Agrigento. Ancora imma-gini religiose con i festeggiamenti per la Pasqua a Piana dei Greci («orachiamata Piana degli Albanesi»), e poi il Duomo di Monreale, una battutasulla fontana della vergogna a Palermo (così chiamata per i nudi), l’anticotempio greco di Siracusa dedicato ad Atena, e poi Erice, fondata da Erosfiglio di Venere, e velocemente qualche immagine barocca di Noto. Il tono“materialista” ritorna nel finale dedicato alle coltivazioni. Qui il narratorericorda che la Sicilia è stata depredata delle sue piante, rimpiazzate daquelle importate. Ma si continua con il tour geografico, prima Montele-pre nei pressi di Palermo, dove visse il bandito Giuliano, e poi l’Etna e ladistruzione portata dai sussulti sismici, in cui appare, per i cinefili, il vil-laggio abbandonato di case prefabbricate protagonista di una scena deL’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni a Gibellina. Dal punto divista formale l’aspetto più interessante è il perfetto coordinamento tra ifluidi movimenti di macchina e il montaggio di raccordo, così che si ha

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davvero l’impressione di essere in un tour della Sicilia, come se un ma-gico autobus portasse i turisti da un highlight all’altro delle bellezze del-l’isola. Anche il finale dedicato alla Sicilia moderna e al lavoro mantienelo stesso stile fluido. Si parte dai porti, a cominciare dalla flotta pesche-reccia di Mazara, per poi continuare con le saline del Trapanese, e quindiil petrolio a Ragusa, e i nuovi centri chimici: «Questa nuova alchimia saràcapace di fare sorgere una vita migliore per questi uomini siciliani chenoi tanto amiamo?», si chiede drammaticamente il commentatore.

«Intervista a Salvatore Allende»Intervista a Salvatore [sic] Allende è forse uno dei documenti più interes-santi della produzione prettamente giornalistica di Rossellini, soprattuttoper la morte imminente del presidente cileno l’11 settembre del 1973. Gi-rato nel maggio del 1971 nella casa di Salvador Allende a Santiago delCile, il film fu trasmesso da Rai 1 (in bianco e nero) il 15 settembre 1973con commenti in studio di Rossellini ed Enzo Biagi sulla morte del presi-dente e con il titolo La forza e la ragione. Colloquio di Salvator [sic] Al-lende con Roberto Rossellini. L’intervista di Rossellini è fenomenale nellasua grande abilità, da consumato reporter, di mettere a suo agio il presi-dente. Non poca influenza devono avere avuto in questo senso la pre-senza sul set di Renzo Rossellini, all’epoca militante di sinistra e grandeammiratore dell’esperimento di marxismo democratico del presidente ci-leno. «Su presencia en Chile es muy satisfactoria porque puede apreciar lalucha», comincia il presidente, facendo intendere che considera i suoiospiti come alleati nella sua battaglia. Allende fa la storia della sua fami-glia nel Partito Radicale, gli studi di medicina a Santiago, il suo passatodi medico a Valparaíso. Esce fin da subito il grande amore di Allende perl’arma della retorica, «con estas manos he hecho mil quinientos autop-sias» dichiara mostrando le mani alla telecamera4, per poi dichiarare:«Amo la vita e so quali sono le cause della morte». Si passa alla storia po-litica di Allende. Nel 1951 perde le elezioni per 30.000 voti, ma nascel’embrione de l’Union Popular (socialisti e comunisti), e si dà vita alla stra-tegia della “campagna permanente”. Nel ’58 perde di pochi voti, ma noncontesta le elezioni, opta per la legalità assoluta, continuando nella suastrategia di alleanza tra contadini e operai. Rossellini chiede: «Perché l’im-poverimento dell’America Latina?», a cui Allende risponde: «Il nemico deipaesi in via di sviluppo è la concentrazione capitalistica, per questo “elcobre [il rame] tiene que ser nuestro”». Sulla politica sociale Rossellinisembra provare a testare la fermezza del presidente: «In cosa siete diffe-renti dai cristiano-sociali, che avevano un simile programma di riforme?».«La differenza sta tra le parole e i fatti», risponde pronto Allende. L’inter-vista continua toccando i temi fondamentali dell’epoca: dalla conferenzadei paesi non allineati di Bandung al ruolo della compagnia telefonicaamericana AT&T (che il presidente voleva nazionalizzare). L’intervista sichiude cordialmente, ma inevitabile per lo spettatore contemporaneo è ilsenso di tragico fato che accompagna il saluto del presidente dell’unica ri-voluzione marxista ottenuta per vie democratiche.

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che lo scienziato romano funziona da intermediario culturale tra Rossellinie le istituzioni americane. La prima domanda di Rossellini, «dimmi l’idea tuasulla migrazione dei cervelli dall’Italia», porta l’attenzione ai grandi investi-menti nelle scienze del governo e al capitale privato americano che non esi-ste in Italia. Tra le varie interviste, le più interessanti sono quelle in cui sivede il simulatore del sistema circolatorio progettato da David Hellums, e iltelescopio a raggi gamma di Donald Clayton che ha anche sviluppato unamacchina per l’analisi della polvere e dei gas lunari. Proprio questa partededicata interamente al lavoro svolto a Rice per conto della NASA viene usatoper creare alcuni minuti di bellissima microcinematografia, un montaggio ar-tistico di frammenti di suolo lunare accompagnato dalla colonna sonora elet-tronica di Mario Nascimbene (dal minuto 37.30 al 39.11), a questo puntocollaboratore assiduo di Rossellini. Il momento più spettacolare del film sonosenz’altro le immagini dall’osservatorio della ionosfera di Arecibo a Porto-rico. Gli scienziati spiegano il funzionamento del grande braccio meccanicoche si estende per centinaia di metri sulla vallata sottostante. Verso la finedel programma Rossellini si riunisce con un gruppo di studiosi, e in questascena vediamo messo in chiaro il suo progetto educativo: liberarsi una voltaper tutte della paura della scienza attraverso l’informazione. La televisionediventa quindi il medium ideale per raggiungere anche i luoghi e le personepiù lontani dai centri del pensiero scientifico. Si capisce dunque l’entusiasmodella fondazione De Menil, che aveva proprio come scopo lo smaschera-mento della banalità dei mezzi di comunicazione, la capacità di creare degliesperti di comunicazione per combattere l’ignoranza. Rossellini esordiscecon la domanda che ovviamente più gli sta a cuore: «Pensate che al pubblicodebba essere fornito un certo orientamento verso la scienza?». La sorpresa delfilm sta nelle risposte, a dir il vero tiepide degli scienziati. «Come conta dispiegare i laser nel film documentario?», ribatte subito uno dei partecipanti,a dimostrare il problema grave all’interno dell’accademia del valore dato alladivulgazione scientifica. Ma Rossellini sembra interessato alla scienza nonsolo per diffondere la conoscenza, ma come fonte di ispirazione per il futurodel cinema: «Ci vorrebbe un orientamento generale, che aiuterebbe la dram-matizzazione. Cinema, teatro, romanzo trattano sempre le stesse cose. Nuovisoggetti darebbero nuovi materiali per l’arte». «La scienza è un problema dilinguaggio», commentano gli scienziati, e Rossellini ribatte: «Dobbiamo co-minciare con una lettera dell’alfabeto. Dobbiamo andare dall’A alla Zeta, semettiamo tutto in ordine, tutto diventa chiaro». Clayton a effetto commenta:«Siamo tutti su una nave spaziale», e Rossellini chiosa: «La scienza darà ori-gine a un nuovo tipo di umanesimo» e, aggiungiamo noi, a un nuovo tipodi cinema in cui l’esplorazione del mondo da parte della macchina da presasia al cuore della creazione artistica.

«A Question of People»Il film A Question of People (1974) fu commissionato nel 1973 dalla Uni-ted Nations Fund for Population Activities, ed ebbe la sua prima alla con-ferenza dell’ONU sulla popolazione mondiale a Bucarest nel 1974.Il film comincia con l’immagine del pianeta Terra ripreso dallo spazio, ac-

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«Rice University»Del progetto chiamato Science e interamente girato a Rice dal 1971 al 1973è rimasto visibile un sunto di circa due ore archiviato dalla RAI con il ti-tolo Rice University, mentre il resto del girato siede in parte negli archividella televisione di Stato italiana, in parte negli archivi del Rice UniversityMedia Center. Rossellini si trova infatti in quegli anni “in residence” allaRice University di Houston, ospite della fondazione gestita dai De Menil.Il rapporto con Jean De Menil, aristocratico francese naturalizzato ameri-cano, magnate del petrolio e grande mecenate dell’arte, e con la moglieDominique inizia a Parigi nel momento in cui Rossellini sottoscrive al pro-gramma del Media Center di usare i media moderni per il bene comune. Lafondazione De Menil era infatti uno dei più grandi sponsor internazionalidell’arte contemporanea. Tra le moltissime iniziative della fondazione bastiricordare la costruzione della Rothko Chapel nel 1971 (affrescata propriodall’astrattista americano Mark Rothko), e la Menil Collection, museo pro-gettato da Renzo Piano e inaugurato nel 19865.I De Menil garantiscono a Rossellini la possibilità di lavorare a diversi pro-getti allo stesso tempo, di continuare a vivere tra Parigi, Roma e Houston,e, cosa più interessante per noi, completo accesso ai rinomati scienziati del-l’università americana, una delle più ricche e prestigiose soprattutto per lasua connessione con la NASA. Rice University è quello che rimane di questoprogetto di divulgazione del metodo scientifico. Il film Science si dovevaaprire con immagini del mondo animale visibile, per poi scendere al livellomicrobiologico grazie all’uso di nuove lenti. Rossellini in questi anni spe-rimenta con la micro cinematografia, in un certo senso ritornando ai tempidei primi film animali. Ma qui l’aspetto favolistico e narrativo scompare, esi fa pressante la questione del metodo. Tra i vari aneddoti che si ricordanodi quegli anni passati a Houston, il più interessante per noi è quello che de-scrive il momento in cui Rossellini riesce a portare un gruppo di studiosi in-tenti a studiare il virus della febbre gialla in una sala di proiezione e amostrare loro il suo film del virus. Gli scienziati non lo riconoscono: cia-scuno è abituato a vedere il mondo del piccolissimo sotto specifiche condi-zioni di luce, di ingrandimento e di posizione di osservazione. Questoesperimento di micro-neorealismo, se così possiamo chiamarlo, convinceancora di più Rossellini della necessità di una dialogo tra le scienze, e trale scienze e il pubblico. È chiaro che per Rossellini l’esplorazione attraversoil film diventa anche un’esplorazione del film e del mezzo audiovisivo piùin generale. Come scrive Hannah Landecker, il processo di registrazioni dellamicrovita va di pari passo con la storia e la teoria del cinema6.Rice University comincia allo Houston Livestock Show. Il cartello «entrance»è un bell’invito pure a noi a seguire i gentiluomini con cappello e stivali dacowboy. La voce narrante commenta sui successi spaziali e sul rodeo cheunisce folclore, circo equestre e sport. La musichetta della banda accompa-gna le immagini: «L’epopea del passato, western, e quella del futuro, l’epo-pea dei viaggi spaziali, riescono a convivere». Poi il titolo annuncia «RiceUniversity, l’ottica del progresso umano». Il primo colloquio è quello conl’ingegnere aerospaziale Angelo Miele. I due sono seduti di fronte, ed è chiaro

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Ci si occupa poi del problema dell’acqua in Africa. La musica ora è quelladi un flauto, «Africa supports 9.6 per cent of the whole population of theworld». Le immagini di una donna africana che allatta un minuto bimbosono accompagnate dalle note del blues Sometimes I Feel Like a Mother-less Child, mentre il commento annuncia l’alto livello di mortalità infan-tile, e il conseguente grande affetto delle madri per i loro figli, dimostrato,secondo una logica un po’ approssimativa, dal fatto che se li portano inun marsupio attaccati alla schiena.Il commento ci indica finalmente che siamo in Congo, e continuano iprimi piani di bambine seminude e di alligatori (definiti «master of thewaters»). Il film riprende il suo filo politico (al minuto 55) con una cita-zione da The Content of Social Welfare, il saggio di Nehru sull’importanzadel fattore umano nell’agricoltura moderna8, che serve a introdurre unaspiegazione sul rapporto tra proteine e calorie. Le immagini di villaggiafricani abbandonati aprono il capitolo sul fenomeno dell’urbanizzazionedel Terzo Mondo, «detribalized population as new subproletarians», e lacreazione delle shanty towns ai confini delle grandi metropoli.La seconda ora del film è più esplicitamente politica, e il narratore elenca iproblemi della fase industriale postcoloniale. In particolare sottolinea ilgrave problema delle monocolture che depauperano il territorio (Rossellini

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compagnata da un sibilo di sintetizzatore elettronico (per tutto il film l’ac-compagnamento musicale gioca con le disarmonie del sintetizzatore). Dopoi titoli di testa e la sponsorizzazione ONU del progetto, compare a grandi ca-ratteri una frase del Mahatma Gandhi: «We need to realize that we have notbeen wise in managing our society. To find solutions to the problems of po-pulation – or any other contemporary global concern – we must look withoutexcitement, without prejudice or superstition, without arrogance at the mi-stakes we have made in the past and reconstruct the relationship betweenman and his material world so that we may avoid such mistakes in the fu-ture. There is enough on this Earth to serve man’s need but not his greed».Si comincia con le immagini NASA mentre la voce narrante in inglese dà unabreve storia del cosmo dal Big Bang fino a ora. Si enfatizza da una parte larelatività degli esseri umani, e dall’altro lato proprio l’incapacità di vedere ve-ramente il nostro ruolo minore nel cosmo. Seguono immagini dei primiastronauti che accompagnano il commento che ricorda che 3,39 e 5,27 mi-liardi di persone hanno abitato la terra dall’inizio della nostra specie.Population explosion, l’esplosione demografica, è infatti il nuovo graveproblema di quegli anni. «Will we be able to feed ourselves?», si chiede ilnarratore preoccupato. Per poi commentare sul diritto a nutrirsi dei popolipoveri («The hungry people claim their right to life»). Le immagini in Amaz-zonia che seguono (girate da Renzo jr.) si basano ancora su concetti ormaidesueti di antropologia materialista, per cui si vedono i popoli africanicome a un «different stage of scientific and technological development». Ilnarratore continua: «Primitive people are living chronologically a diffe-rent moment of history». Anche le immagini di Renzo risentono del climadell’antropologia visuale di moda all’epoca, e ai nostri giorni stigmatiz-zata da molti come voyeuristica (se non pornografica). La musica lugubre,i primi piani dei bambini neri, stupiti di fronte alla macchina da presa, la-sciano poco spazio all’immaginazione e molto al gusto exploitation di que-gli anni7. Il significato delle immagini è predeterminato dalla messa inscena, dalla scelta dell’inquadratura e dalla colonna sonora: e loro, i pri-mitivi, possono solo guardare in macchina sconsolati. Non si menzionachi siano o da dove vengano, né dove si stiano svolgendo le riprese. I sel-vaggi sono presi in prestito a significare ogni tipo di gruppo arretrato, a ri-prova dell’affermazione iniziale sul ritardo storico dei primitivi.Il trattore ejzenstejniano che apre la scena successiva segnala la nuova ine-vitabile fase dello sviluppo umano. Non ci sono dubbi sul fatto che, se purtraumatica, la modernizzazione industriale è assolutamente necessaria,come ci ricorda il commento: «The demolition of these gigantic trees is per-haps an obligatory step between one phase of development and another».Si passa così a immagini di sottoproletari brasiliani: «These people of mixedblood living in villages made up of huts on stilts. The so called developingcountries have not yet overcome certain phases of internal underdevelop-ment». Mentre si entra nella seconda parte del film la musica elettronicaintroduce il futuro. «The future will inevitabily belong to man», mentre im-magini di una non identificata metropoli ci viene mostrata dall’elicottero,simile alle immagini di arrivo nel villaggio amazzonico.

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ne aveva già parlato nei documentari indiani) e del controllo dei prezzi eser-citato dalle multinazionali occidentali. Le immagini dal Chad all’Alto Volta(ora Burkina Faso) di greggi morenti sono drammaticamente esplicite.Gli ultimi 45 minuti del film sono un elogio a dire il vero un po’ imba-razzante del metodo sovietico di produzione agricola in cui si celebracome l’URSS, che occupa 1/6 del mondo, abbia debellato la mortalità in-fantile e ridotto le nascite. Addirittura l’architettura sovietico-brutalista diAngarsk e Togliattigrad (con tanto di accompagnamento jazz cacofonico)viene notata per la sua efficienza. La parte dedicata all’Unione Sovieticasi chiude con una visita al mausoleo di Lenin nella Piazza Rossa di Mosca.La parte finale del film è composta di interviste svolte da Rossellini du-rante il soggiorno a Rice. Purtroppo gli scienziati non sono indicati pernome, così abbiamo fatto ricorso alla buona memoria di alcuni archivistiper identificarli. Il primo dovrebbe essere il biologo Clark Read che di-scute sul controllo delle nascite, e quindi il sociologo delle religioni Wil-liam Murdock sulle potenzialità del genio umano per risolvere i problemidel mondo. Si discute in particolare del problema della sovrappopolazionein India (e vediamo alcuni frammenti, gli unici disponibili a colori, delgirato indiano in 16mm, di cui non si ha più traccia negli archivi).Il film si chiude con un’intervista a Jonas Salk, scopritore del vaccino perla polio, e con la discussione sul suo nuovo libro provocatoriamente in-titolato The Survival of the Wisest9. L’ottimista Salk prevede che l’umanitàsi salverà dalla catastrofe grazie al nuovo network di idee che il mondopermette di creare, e alle nuove macchine definite brain prosthesis (pro-tesi cerebrali), che generano nuovi modi di pensare. A conclusione delfilm, e in sintonia con una visione democratica del mezzo audiovisivo,appare il titolo che invita lo spettatore a rispondere attraverso un suo film,o per iscritto: «You are invited to respond to this film through your ownfilms – or in writing – to the World Population Year Secretariat, UnitedNation Fund for Population Activities, 485 Lexington Av., New York, NY10017».

«Concerto per Michelangelo»Concerto per Michelangelo è un film di 43 minuti e 50 secondi prodottoda Rai 2 e trasmesso il 9 aprile 1977 in occasione del sabato di Pasqua. Ilfilm ha come unico vero motivo di interesse il fatto di essere una combi-nazione di immagini televisive in diretta del concerto del coro della Cap-pella Musicale Pontificia nella sala della Cappella Sistina, e di immaginiin pellicola girate nelle stanze e nei giardini vaticani. Il commento sonoroindica l’autoritratto deformato di Michelangelo nelle pieghe di San Bar-tolomeo, «artista tormentato e religiosissimo», e la rappresentazione del-l’umanità teologicamente ante legem, nell’attesa cioè della redenzione. Ilcommento è devoto e celebrativo, come si conviene a una funzione reli-giosa: si definisce Buonarroti «cristiano», «ossessionato dal pensiero dellamorte» che trova la sua «catarsi nella purezza dell’architettura». QuestoMichelangelo vaticanizzato fa dichiarare che l’artista vede «l’architetturacome liberazione dalla figura umana», dove «l’angoscia si placava nei vo-

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gli antichi ascoltassero il brusio delle foglie, mentre lui, uomo moderno,ascolta il brusio della lingua, che è la sua Natura, quella mediata dei segni.Potremmo dire, parafrasando Barthes, che il film ha come principio di-dattico quello di farci notare il brusio. Ma questa volta le bruissement nonè quello semiotico, ma quello fenomenico che coglie la lingua nella suafunzione fàtica ed estetica, generato dalla capacità del mezzo audiovi-suale di catturare la realtà circostante. Così Rossellini in questo suo ultimoprezioso film cattura il brusio dell’umanità moderna, della lingua maanche dei gesti, dei movimenti, del desiderio di conoscere e capire.

1. Da un colloquio con Roberto Rossellini, Un cinema diverso per un mondo checambia, «Bianco e Nero», 1, gennaio 1964, ora in Sergio Trasatti (a cura di),Rossellini e la televisione, La Rassegna Editrice, Roma, 1978, p. 12.2. Si veda, sulla complessa storia del film, Quando l’Italia non era un paese po-vero (1997), film documentario di Stefano Missio che ne racconta le travagliatevicende.3. Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di Adriano Aprà,Marsilio, Venezia, 1987, p. 189.4. La stessa espressione la si trova nella breve autobiografia, Allende por Al-lende, ripubblicata in Frida Modak (a cura di), Salvador Allende en el umbral delsiglo XXI, Plaza y Janés Editores, México, 1998, p. 2.5. Un’ottima risorsa sugli anni texani di Rossellini si trova nel capitolo Rossel-lini in Texas raccolto in Roberto Rossellini, Ente Autonomo Gestione Cinema,Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Roma, 1987, pp. 107-115. Ringrazioanche la signora Helen Winkler Fosdick, assistente di Rossellini durante il suosoggiorno alla De Menil Foundation, per l’intervista concessami.6. Cfr. Hannah Landecker, Microcinematography and the History of Science andFilm, «Isis», 1, 2006, pp. 121-132.7. Comincia nel 1962 il franchise dei film “Mondo”, i shockumentaries prodottida Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi.8. Cfr. Jawaharlal Nehru, The Content of Social Welfare, in Uma Iyengar (a curadi), The Oxford India: Nehru, Oxford University Press, Oxford, 2007.9. Cfr. Jonas Salk, The Survival of the Wisest, Harper & Row, New York, 1972;trad. it. Sopravvivenza dei più saggi, Armando Editore, Roma, 1977.

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lumi architettonici». Il film dal punto di vista scientifico non è altro cheun lungo infomercial per le sale vaticane, e per una lettura completamentecristianizzata dell’opera michelangiolesca. E anche l’alternarsi di immaginitelevisive e filmiche è bella solo come spunto, e certo fa onore al registasettantenne ancora in grado di sperimentare con nuove tecnologie. MaConcerto per Michelangelo è opera stantia, fatta, si legge nelle biografiedi Rossellini, per dovere contrattuale con la televisione di Stato.

«Le Centre Georges Pompidou»Di tutt’altro interesse l’ultimo lavoro di Rossellini, che come abbiamo ri-cordato, comincia e finisce la sua carriera come documentarista. Il film LeCentre Georges Pompidou (1977), distribuito in Francia a cura del pro-duttore Jacques Grandclaude, comincia con una ripresa dalla terrazza difronte al museo, in un gesto artistico consueto per Rossellini, lo zoom in-dietro, cioè l’inizio dell’inquadratura su di un dettaglio per poi allargarel’immagine su un bel panorama dei tetti parigini. Come in India MatriBhumi, per esempio, con in più qui un audio d’ambiente di voci e brusiicittadini. Lentamente, con una panoramica arriviamo alla massa coloratadel museo. Lo stacco ci porta dentro il Beaubourg, e la macchina da presasi muove con carrello e zoom tra le sale creando un movimento continuotra gli spazi. Molto bello anche il sonoro che registra in situ le voci dei vi-sitatori, tra sculture e quadri. Si seguono poi gruppi di scolari in gita den-tro e fuori il museo, così che la cacofonia di suoni si fa più forte. Rossellinigioca nel montaggio con gli spazi, il mormorio all’interno del museo e loschiamazzare nel piazzale antistante. La dialettica dentro/fuori diventanella seconda parte del film quella tra sopra e sotto, con la macchina dapresa che cattura i visitatori tra i vari piani, con enfasi sulla gente che salee scende tra scale mobili, scale e ascensori. Non sorprende in questo filmcorale che gli unici primi piani del film siano ai famosi gangli architetto-nici della struttura disegnata da Renzo Piano. La scena successiva nella bi-blioteca ha una sua piccola storia, con le varie persone in visita che sizittiscono a vicenda. Queste piccole gag diventano più interessanti quandoall’improvviso entriamo nello sguardo degli studiosi della biblioteca condelle micronarrazioni. Ogni volta che vediamo qualcuno guardare un mi-crofilm, immediatamente vediamo in primo piano l’immagine che la per-sona sta consultando. Si ritorna poi in movimento con la sala cronologicadel ’900 artistico, e con l’uso intelligente del suono in diretta per cattu-rare i commenti casuali dei visitatori («C’est insopportable l’hyper-réali-sme», commenta una signora). Si capisce che Le Centre Georges Pompidousi muove non solo nello spazio (il dentro e il fuori, l’alto e il basso) maanche nel tempo (la stessa stanza viene ripresa in momenti diversi, riflet-tendo commenti e umori dei visitatori). Proprio l’ambiente sonoro, l’usodel suono d’ambiente e del suono diretto è a mio parere l’aspetto più in-teressante del film, che riesce nella sua grande semplicità a trasformareuna banale commissione da episodio celebrativo della struttura musealeparigina a piccolo saggio di auto-antropologia moderna. Roland Barthes,alla fine del suo brillante saggio Il brusio della lingua (1984), nota come

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postfazioneRossellini documentarista?di Adriano Aprà

Si potrebbe dire che Roberto Rossellini non è mai stato, o solo occasio-nalmente, documentarista. Si può dire altrettanto legittimamente che lo èsempre stato. Bisogna intendersi sui termini.I primi cortometraggi sono film sugli animali ma non possono dirsi filmsanimaliers. Sono favole alla Esopo o alla Jean de La Fontaine dove le vi-cende che vi si svolgono – sott’acqua (Fantasia sottomarina, 1938-1939),a filo d’acqua (Il ruscello di Ripasottile, 1940-1941) o in terra (La vispa Te-resa, 1940, Il tacchino prepotente, 1940) – altro non sono che metafore deiconflitti “eterni” che riguardano gli umani, e che subito dopo Rossellinimetterà in scena come conflitti circostanziati dalle vicende belliche con-temporanee: La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L’uomo dallacroce (1943). In altre parole, Rossellini parte dal basso, dall’origine ac-quatica della vita, per risalire gradualmente alla superficie e irradiare lasua tematica morale all’acqua de La nave bianca (la marina), al cielo di Unpilota ritorna (l’aviazione) e alla terra de L’uomo dalla croce (l’esercito). Inquest’ultimo film si affaccia inoltre la proiezione dei conflitti umani inuna dimensione spirituale più ampia delle circostanze terrene (la “sacra fa-miglia” e la “grotta” di tutte le scene notturne nell’izba).Gli animali continueranno ad avere un ruolo importante nel cinema diRossellini: avere con essi un buon rapporto (o uno cattivo) prelude a rap-porti altrettanto buoni (o cattivi) con altri esseri umani e con il mondo cir-costante: si veda in particolare Il miracolo, episodio de L’amore (1948),Stromboli (1950), Francesco giullare di Dio (1950), India Matri Bhumi(1957-1959)1.Se nei cortometraggi l’idea di realismo è assente, e anzi non si disdegnanoi “trucchi”, nei film bellici gli elementi che la critica ha potuto definire“realistici” derivano anche dalla volontà di Rossellini di documentarsi.Certo, lo ha fatto nei limiti in cui poteva, date le circostanze e la sua par-ziale maturità critico-storica. Ma che la sua tensione al realismo passasseattraverso una tensione a documentare, se non propriamente al docu-mentario, lo possiamo cogliere nelle “narrazioni deboli” dei primi due film(più articolato narrativamente risulta L’uomo dalla croce, dove c’è una

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Questo repertorio, accompagnato da una voce over, da cinegiornale, nonserve soltanto da liaison narrativa fra i vari episodi. Esso acquista un va-lore stilistico non dissimile da quello che aveva ne La nave bianca e Unpilota ritorna: attenua la differenza tra finzione e documentario, realizzaquella che possiamo definire una finzione documentata, tanto è vero cheil repertorio viene escluso nel passaggio dal quinto al sesto episodio, comese ormai la finzione avesse assorbito definitivamente i tratti stilistici deldocumentario.Nella sua attività successiva Rossellini alternerà film di “pura finzione”,“scritti”, ma basati su una documentazione puntigliosa, per cui la finzionesembra assumere i tratti del documentario – è il caso di Roma città aperta,ma già diversi, più puramente finzionali, saranno Una voce umana, epi-sodio de L’amore, Europa ’51 e La paura (1954), per non parlare di Gio-vanna d’Arco al rogo (1954) –, e film “orali”, stilisticamente più rozzi, oapparentemente tali, come Germania anno zero (1948), Il miracolo, Strom-boli (dove torna l’impiego del repertorio nell’eruzione del vulcano3) e Fran-cesco giullare di Dio.In mezzo si situa un film per certi versi anomalo come Viaggio in Italia(1954). Qui è il distacco analitico con cui Rossellini radiografa le vicendedella coppia inglese messe a confronto con il calore meridionale a con-sentire di parlare di film “etnologico” (il confronto-scontro fra due culture)o, come fece Jacques Rivette, di film saggistico4.Cinema saggistico, cinema didattico, cinema etnologico. India MatriBhumi (1957-1959) segna una svolta radicale nell’opera di Rossellini,anche se retrospettivamente ne possiamo individuare le tracce nei suoifilm precedenti. «È un film che amo molto perché [...] è qui che ho cercatodi fare un tentativo di rinnovamento nel campo della conoscenza, del-l’informazione: un’informazione che non sia strettamente scientifica ostatistica ma che sia anche una certa documentazione dei sentimenti e delmodo di comportarsi degli uomini. È anche, se si vuole, in un certo senso,un film etnologico»5.India Matri Bhumi, che è un film di finzione in quattro episodi interval-lati da materiale documentaristico girato da Rossellini (e presumibilmenteanche da materiale di repertorio di operai al lavoro nell’episodio della digadi Hirakud), va visto in coppia con J’ai fait un beau voyage/L’India vistada Rossellini (1957-1959), la serie documentaristica che costituisce ilpunto di approdo da una parte dei “sopraluoghi” filmati con (o fatti fareda) Aldo Tonti prima delle riprese del film, dall’altra dell’idea di approfit-tare del viaggio in India per realizzare anche una serie di cortometraggi.Se India Matri Bhumi è un film di finzione dall’apparenza documentari-stica, non diversamente da Paisà di cui riprende la scansione espisodica,J’ai fait un beau voyage (meglio del suo corrispettivo italiano L’India vistada Rossellini, in cui il giornalista che conversa con Rossellini appare assaipiù “sordo” e legnoso del suo collega francese) è un esperimento moltooriginale, specie per l’epoca, di giornalismo saggistico, con un Rosselliniche commenta in maniera molto rilassata e dando l’impressione di im-provvisare ciò che passa sullo schermo: quasi una conferenza “multime-

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tensione all’apologo che anticipa, per esempio, la “favola pedagogica” chevuol essere Europa ’51, 1952). Non a caso, del resto, gran parte della cri-tica di allora usò, per definire questi film così diversi nel panorama na-zionale, la definizione di “documentario romanzato”, ripresa poi ancheper Roma città aperta (1945).Un altro segnale della “tensione al documentario” è l’inserzione di mate-riali di repertorio ne La nave bianca e in Un pilota ritorna. Nel primo, so-prattutto, è notevole la ricostruzione “dal basso” – cioè dal punto di vistadei marinai chiusi dentro il ventre della nave come «dentro a tante sca-tole di sardine»2 – della battaglia di Punta Stilo, la prima battaglia navalecombattuta dagli italiani nella seconda guerra mondiale. Il materiale di re-pertorio deriva in questo caso dal documentario La battaglia dello Jonio,girato dal Centro Cinematografico del Ministero della Marina Militare Ita-liana, sotto la supervisione anonima di Francesco De Robertis (supervisoreanche de La nave bianca), durante il combattimento fra navi italiane e in-glesi al largo di Punta Stilo, in Calabria, fra l’8 e il 9 luglio 1940. Ad av-valorare il carattere documentario che viene ad assumere questa battagliaricostruita nella finzione è, per esempio, il fatto che anni dopo De Rober-tis, in Uomini ombra (1954), un film bellico di pura finzione, si serve dialcune inquadrature de La nave bianca (e de La battaglia dello Jonio), pro-iettate su uno schermo come se fossero repertorio, nel momento in cui unufficiale rievoca la battaglia di Punta Stilo.In Paisà (1946) Rossellini ritorna a questo impiego del repertorio, stavoltaper intervallare i vari episodi fra di loro, con l’eccezione però dell’ultimo.

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croscopio soprattutto) ma ha anche registrato una serie di conversazionicon scienziati della Rice University di Houston, Texas, che ha poi utiliz-zato nel documentario – peraltro mai trasmesso, ma che sopravvive negliarchivi della RAI – intitolato appunto Rice University (1971-1973)9.Esplicitamente documentario è poi “Idea di un’isola” (1967), film realiz-zato su commissione in maniera piuttosto tradizionale (l’onnipresente voceover) ma che ricalca gli interessi didattici di Rossellini col suo excursus siasugli aspetti contemporanei sia su quelli storici della Sicilia.L’Intervista a Salvatore Allende (1971-1973), un documento di eccezio-nale importanza testimoniale anche se girato come un qualsiasi special te-levisivo, doveva far parte di un progetto più vasto di interviste a grandidella Terra, fra cui Mao Tse-tung, di cui resta l’unico realizzato: primotassello di una “enciclopedia politica”?Fino a qui dobbiamo dire che, con l’eccezione di J’ai fait un beau voyage,l’attività propriamente documentaristica di Rossellini è, sia come impegnoche come risultati, complessivamente “secondaria”, mentre, come si èvisto, il suo “punto di vista documentato”, tanto nel periodo didatticoquanto in quello precedente, appare centrale. Possiamo invece affermareche, a conclusione della sua attività, si riaccende un lampo propriamentedocumentaristico nelle due sue ultimissime opere: Concerto per Miche-langelo (1977) e Le Centre Georges Pompidou (1977). Entrambi i film sonoriflessioni su due “macchine artistiche”, luoghi istituzionali di esibizione

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diale” (che Rossellini non improvvisi nel senso proprio della parola ma –come quando realizza i suoi film – si basi se non su un copione su ideemolto chiare, è confermato dal fatto che sia nella versione francese che inquella italiana dice praticamente le stesse cose con le stesse parole).L’opposizione tra finzione e documentario, scrittura e oralità, proseguiràin maniera anche più dichiarata con Il generale Della Rovere (1959) edEra notte a Roma (1960), che sono riletture “a distanza”, raffreddate, delcalore “documentaristico” che caratterizzava film dell’immediato dopo-guerra come Roma città aperta e Paisà, ai quali evidentemente riman-dano. Nello stesso periodo, a Il generale Della Rovere e a Era notte a Romasi oppongono non solo India Matri Bhumi ma anche Viva l’Italia (1961),sorta di Paisà risorgimentale e primo film a esplicitare la conversione diRossellini verso un cinema “enciclopedico storico” dopo il tentativo in-diano di cinema “enciclopedico geografico”6.Viva l’Italia ci introduce a un altro aspetto del Rossellini documentarista,o meglio “documentato”, che è alla base di tutto il suo cinema didattico,da L’età del ferro, 1964-1965, a Il Messia, 1976 (cioè la parte più consi-stente, almeno in termini quantitativi di minutaggio, della sua attività, ecomunque quella a cui egli era notoriamente più legato, disinteressatocome si proclamava a quella anteriore, e per la quale era e rimane più ap-prezzato)7. Nei film didattici Rossellini cambia radicalmente il proprio me-todo di lavorazione. Le sue sceneggiature, che erano state a dir pocoelusive rispetto al film realizzato, adesso sono assai più precise e rispet-tate, e sono precedute da un lungo lavoro di documentazione, quasi cheegli volesse limitarsi a dare, con i film, un documento in forma di fin-zione basato il più possibile su fonti autentiche (ma tutto da indagare èquanto di soggettivo, sia al livello dei fatti prescelti che a quello dellostile, penetri in questi progetti dichiaratamente “oggettivi”). Questo mododi procedere trasforma quelle che sono pur sempre finzioni in saggi informa di finzione. Per certi aspetti, anche se le scelte stilistiche sono di-versissime, si può accostare il modo di procedere di Rossellini, che si al-lontana dalle forme tradizionali di narrazione (anche le proprie), a quelloquasi coevo di Chris Marker, Jean-Luc Godard e Alexander Kluge: l’eclissidel cinema come racconto e l’insorgere del cinema come saggio.Una traccia di documentarismo più esplicito nei film didattici di Rossel-lini la troviamo nel momento in cui la sua enciclopedia ha a che fare contempi più vicini ai giorni nostri: ne L’età del ferro la quinta e ultima pun-tata è quasi interamente basata su materiali di repertorio accompagnati davoce over; ne La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (1967-1971)procede allo stesso modo nella decima, undicesima e dodicesima puntata(intitolate Questa nostra grandiosa civiltà della fretta, Un’arte nuova in unmondo di macchine e Nonostante tutto, ancora più lontano). Naturalmenteil repertorio, pur fornendo una base oggettiva al discorso saggistico diRossellini, viene piegato, sia nella selezione che nel montaggio, a quantodi soggettivo egli non può fare a meno di introdurvi8.In questo periodo va registrato inoltre il progetto su La scienza (1970 ca.),per il quale Rossellini non solo ha girato alcune “prove” (riprese al mi-

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6. L’enciclopedia geografica sarebbe dovuta proseguire, subito dopo India MatriBhumi, con Geografia della fame, un adattamento del saggio Geopolítica dafome (1952) di Josué de Castro, sociologo ed etnologo brasiliano, che Rossel-lini aveva probabilmente letto nella versione italiana edita da Leonardo da Vinci,Bari, nel 1954, con prefazione di Carlo Levi; per questo progetto, che aveva ere-ditato da Cesare Zavattini e Sergio Amidei, Rossellini era andato in Brasile nel-l’agosto del 1958, incontrando de Castro. Prolungamenti dell’enciclopediageografica si possono rintracciare nel progetto di serie televisiva La straordina-ria storia della nostra alimentazione (1964 ca.) e in A Question of People (1974),dove Rossellini (e i suoi collaboratori) utilizzano non solo riprese effettuate inIndia nel 1957 ma anche altre riprese, destinate a progetti non realizzati, ef-fettuate in Brasile (forse in vista del progetto La civiltà dei conquistadores, 1970ca.) e in Africa.7. “Appendici” di Viva l’Italia, concepite come il film in occasione delle cele-brazioni del centenario dell’Unità d’Italia, possono essere considerati i docu-mentari (uno di medio metraggio per la televisione, l’altro di corto metraggioper il cinema) Torino nei cent’anni (1961) e Torino tra due secoli (1961). En-trambi, pur ricalcando tematiche didattiche care al Rossellini del periodo, ri-sultano di fatto film su commissione non particolarmente memorabili.8. Nel campo dei film di repertorio (o di montaggio o di compilazione che dirsi voglia) scarso o nessun rilievo ha Benito Mussolini (1962), che pure esplicitanei titoli «un film di Roberto Rossellini». Di fatto, egli si è limitato a fare da ga-rante a un’operazione che all’epoca si contrapponeva “dal centro”, assieme aBenito Mussolini: anatomia di un dittatore (1962) di Mino Loy, alla ricostru-zione “da sinistra” del Ventennio fatta dal ben altrimenti ammirevole All’armisiam fascisti! (1962) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, con com-mento di Franco Fortini.9. Tracce di questo progetto si trovano nel mediometraggio di Claudio Bondì Ro-berto Rossellini. Sognando la scienza (1997).

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dell’arte. Il primo, commissionato dalla RAI e dal Vaticano per il SabatoSanto pasquale, è interessante, oltre che per l’autoritratto forse involon-tario che diventa per lui Michelangelo, come esperimento: l’unico in cuiRossellini intrecci cinema e video, o meglio ripresa elettronica in diretta;il secondo è, invece, un tentativo esemplare in una direzione nuova: quelladella “constatazione” documentaristica. Avvolta dai radi suoni dei visita-tori, in assenza di voce over, la macchina da presa si aggira fra il “conte-nitore” – l’architettura ultramoderna di Renzo Piano e altri – e il“contenuto” – le opere d’arte esposte – con una curiosità descrittiva chenon nasconde un velato scetticismo di fondo (siamo ben lontani da qual-siasi “celebrazione”). Da una parte Rossellini riflette sul rapporto classicofra arte e Chiesa, dall’altra su quello moderno fra arte e istituzione laica.In entrambi i casi identifica l’arte come processo di produzione, al di là oprima dei suoi risultati espressivi.Come non vedere in queste opere involontariamente ultime una rifles-sione di Rossellini sulla propria arte? Intreccio di politica, di economia, ditecnica, di documentario e di finzione, nei cui limiti, ma influenzato anchedagli stimoli di tali limiti, egli si esprime.

1. Rimando in proposito a un mio saggio, Rossellini et les animaux de “Fantai-sie sous-marine” à “India”, nel prezioso Nathalie Bourgeois, Bernard Bénoliel,con Alain Bergala (a cura di), India. Rossellini et les animaux, CinémathèqueFrançaise, Paris, 1997.2. Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondocinema italiano (1930-1943), a cura di Tullio Kezich, vol. III (NAZ-ZAV), Bulzoni,Roma, 1979, p. 963 (intervista radiofonica del 22 settembre 1974). Nella stessapagina Rossellini parla del film, sia pure con il senno di poi, come di «un filmdidattico su come si svolgeva un combattimento navale».3. Il sapore documentaristico di Stromboli deriva anche da una delle fonti ispi-rative del film: i documentari realizzati dalla Panaria Film Tonnara (1947, Fran-cesco Alliata, Quintino di Napoli, Pietro Moncada), Bianche Eolie (1947, diNapoli, Moncada, Fosco Maraini) e Isole di cenere (1947, di Napoli, Moncada,Maraini). Claude Mauriac, nel recensire il film alla sua uscita in Francia, ritieneerroneamente che la scena della tonnara sia stata realizzata impiegando ma-teriale di repertorio, confermando così indirettamente il sapore documentari-stico del film. Cfr. Claude Mauriac, L’amour du cinéma, Fratelli Fabbri, Milano,1957, p. 131.4. «Il y avait Le fleuve, premier poème didactique: il y a maintenant Voyage en Ita-lie, qui, avec une netteté parfaite, offre enfin au cinéma, jusqu’alors obligé aurécit, la possibilité de l’essai» («C’era Il fiume [The River, 1951, Jean Renoir], primopoema didattico: ecco adesso Viaggio in Italia che, con una nettezza perfetta,offre finalmente al cinema, obbligato sinora al racconto, la possibilità del saggio»).Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, «Cahiers du Cinéma», 46, aprile 1955, p. 20.5. Conversazioni televisive, dichiarazioni del 1962 registrate per la televisionefrancese ma mai andate in onda; ora in Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scrittie interviste, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia, 2006, p. 203.

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Filmografiadi Adriano Aprà

Questa filmografia si basa sui titoli di testa e di coda di tutti i film documen-tari esistenti diretti, prodotti o supervisionati da Roberto Rossellini, integraticon dati risultanti da altre fonti. Questi ultimi sono riportati fra parentesi qua-dre. I film sono elencati in ordine cronologico di realizzazione. All’inizio della suaattività, i progetti di cortometraggi erano di più: «Sarà pure [oltre a Uomini sulfondo (1941) di Francesco De Robertis] presentato dalla Scalera [Film] ungruppo di originali cortimetraggi realizzati da Roberto Rossellini. Ne citiamo ititoli: Il ruscello di Ripa Sottile [sic], La vispa Teresa, La foresta silenziosa, LaMerca, Primavera, Re Travicello [tratto presumibilmente dalla poesia satiricaomonima di Giuseppe Giusti (1843), che riprende motivi di Esopo, Fedro e Jeande La Fontaine (Les grenouilles qui demandent un Roi, Libro III, favola 4)] e Iltacchino prepotente» (An., Notizie, «Film», 40, 5 ottobre 1940, p. 11).

Dafne/Prélude à l’après-midi d’un faune (1935)[Regia: Roberto Rossellini; soggetto: dall’omonima composizione di Claude De-bussy (1894), ispirata ad Après-midi d’un faune (1876) di Stéphane Mallarmé;interprete: Diana Varé (Dafne)].Probabilmente mai terminato o mai montato, comunque mai programmato.Dafne è quasi sicuramente il primo titolo del cortometraggio riportato in moltefilmografie come Prélude à l’après-midi d’un faune. Il titolo «Dafne di RobertoRosellini [sic]» è infatti menzionato nella didascalia di due foto di scena ne «LoSchermo», 4, novembre 1935, p. 40.

Fantasia sottomarina (1938-1939)Regia e soggetto: Roberto Rossellini; fotografia (b&n, 1.37:1): Rodolfo Lom-bardi; musica: Edoardo Micucci; edizione curata negli stabilimenti di Cinecittà,Roma; sistema di registrazione sonora: RCA-Photophone; [voce di commento:Guido Notari; montaggio: R. Rossellini; assistente al montaggio: Marcella Ro-manini; produttore: R. Rossellini; produzione (forse solo in fase di edizione) e di-stribuzione: INCOM (Industrie Corti Metraggi, secondo la «Rivista del

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tro di posa: Scalera Film; registrazione sonora: RCA-Photophone.Durata (copia Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, Torino, re-staurata da positivo infiammabile nel 1996, m. 227): 8’20”; riprese: presumi-bilmente nella primavera del 1940, in esterni nel «grande prato che alloraandava da via Odescalchi [a Ladispoli] fino alla ferrovia Roma-Pisa» (Paliotta,Ladispoli, immagini e racconti da Caravaggio a Rossellini, cit., p. 252) e in internialla Scalera Film (o a Cinecittà). Il film non risulta essere stato distribuito.

Il tacchino prepotente (1940)Regia: Roberto Rossellini; fotografia (b&n, 1.37:1): Mario Bava; musica: MariaStrino; [produzione: Scalera Film].Durata (copia Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, Torino, re-staurata da positivo infiammabile nel 1996, m. 177): 6’24”; girato presumibil-mente nel 1940, «in una fattoria che era tra il mare, Torre Flavia e la palude»vicino a Ladispoli (Paliotta, Ladispoli, immagini e racconti da Caravaggio a Ros-sellini, cit., p. 252). Il film, che ha avuto come titolo alternativo La perfida Al-bione, non risulta essere stato distribuito.

[Santa Brigida] (1951)[Regia e soggetto: Roberto Rossellini; fotografia (b&n, 1.37:1): Aldo Tonti; in-terpreti: Ingrid Bergman e le suore del Convento di Santa Brigida; produzione:Croce Rossa svedese].Il documentario, rimasto incompiuto, era stato commissionato dalla Croce Rossasvedese impegnata in favore delle vittime dell’alluvione del Polesine avvenutanell’ottobre del 1951. Le riprese sono state effettuate nel Convento delle Suoredel SS. Salvatore di Santa Brigida in Piazza Farnese a Roma alla fine dello stessoanno. Il girato, muto, è stato preservato nel 1989 dalla Cinemateket Svenska Fil-minstitutet su richiesta della Mostra di Venezia, che lo ha presentato in ante-prima quell’anno. Esso è visibile sul sito <http://www.filmarkivet.se>. Il giratoè preservato anche dalla Cineteca Nazionale. Un minuto del materiale è statoutilizzato nel documentario svedese För Barness Skull (In favore dei bambini,1953, 22’) prodotto dai Sandrew Studios per l’organizzazione Save the Chil-dren. Durata: m. 257 (9’).

[Le psychodrame] (1956)[Regia: Roberto Rossellini; regia degli attori dello psicodramma: Jacov Levi Mo-reno, Anne Ancelin-Schützenberger; produzione: ORTF (Office de Radiodiffusion-Télévision Française), Service de la Recherche; girato in b&n, 16mm].«Rossellini, nel 1956, riprese uno psicodramma diretto da Moreno al Centred’Études della Radio-Télévision Française a Parigi. Lo psicodramma era statovoluto da Anne Ancelin-Schützenberger e doveva avere per protagonisti degliattori televisivi, naturalmente nel ruolo di se stessi. Ricordo che i funzionari ri-masero seccati del fatto che gli attori si bloccarono davanti alla combinazionedi psicodramma e cinepresa. Per un po’ rimasero piuttosto statici e cercammodi aiutarli a ritrovare un po’ di spontaneità. La televisione aveva chiamato Ros-sellini per filmare la sessione [...]. Moreno chiese a un attore se si sentiva ri-stretto nei suoi ruoli e, quando quello rispose di sì, gli chiese: “Sai cosa è che ti

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Cinematografo»; distribuzione: Tirrenia Film; il film Avventuriera, a cui il corto-metraggio è accoppiato, risulta distribuito dalla Cinetirrenia); direttore di pro-duzione: Domenico Paolella].Visto di censura: n. 30785 del 29-1-1940 (m. 320, 11’44”; il film era stato pre-sentato in censura fin dal 20-11-1939); durata (copia Cineteca Nazionale, m.286): 10’27”; prima proiezione: 1-9-1939 (alla Mostra Internazionale d’Arte Ci-nematografica di Venezia); uscite: Roma (Supercinema, in accoppiata con Av-venturiera, L’émigrante, Francia, 1939, di Léo Joannon), 13-4-1940 (7 gg.),(Planetario), 20-4 (4 gg.); Milano (Abruzzi, con Avventuriera), 15-6 (2 gg.). Pro-grammato in USA in un pacchetto di cortometraggi INCOM che comprendevaanche Criniere al vento (1939) di Giorgio Ferroni e Castel S. Angelo (1939) di Do-menico Paolella; nuovo visto: n. 837 del 26-6-1946 (m. 340, 12’26”); riprese:estate 1938, in tre acquari (di diverse dimensioni per consentire campi lunghi,medi e primi piani) costruiti sulla terrazza della casa dei Rossellini in via Ducadegli Abruzzi (all’attuale n. 199) a Ladispoli (da una testimonianza di MarcellaDe Marchis nel mediometraggio Roberto Rossellini. Sognando la scienza, 1997,di Claudio Bondì).

Il ruscello di Ripasottile (1940-1941)Regia [e soggetto]: Roberto Rossellini; commento (nei titoli di testa si legge:«una favola cinematografica di»): Elisabetta Riganti; fotografia (b&n, 1.37:1):Rodolfo Lombardi; musica: G. [Gino] Filippini; produzione: Excelsior-SACI [So-cietà Anonima Cinematografica Italiana]; [produttore esecutivo: Franco Riganti;voce di commento: Guido Notari; distribuzione: Scalera Film; ma il film a cui èaccoppiato, Ragazze sperdute, è distribuito dalla ACI (Anonima Cinematogra-fica Italiana)-Europa Film].Visto di censura: n. 31293 del 25-4-1941 (m. 280, 10’14”); uscita: Roma (Bar-berini, in accoppiata con Ragazze sperdute, Missing Daughters, USA, 1939, diCharles C. Coleman jr., produzione Columbia), 10-5-1941 (5 gg.); riprese: 1939o 1940 in esterni «in parte nel Vaccino e nel Sanguinaro, i corsi d’acqua che de-limitavano allora Ladispoli, e in parte nel bosco di Palo» (Crescenzo Paliotta, La-dispoli, immagini e racconti da Caravaggio a Rossellini, Edizioni Interculturali,Roma, 2006, p. 254), e in interni all’Istituto Ittogeno (o Ittiogenico) di Roma.Secondo quasi tutte le filmografie la musica sarebbe di Umberto Mancini (mal’indicazione di Filippini – identificato da alcuni come Ugo – è nella schedadella «Rivista del Cinematografo» oltre che nei titoli di testa).Del film è stata restaurata nel 2010 dalla Cineteca del Comune di Bologna unacopia incompleta (m. 228 su 314 [o 280?], 7’17”) e molto rovinata, ritrovatadal fotografo Domenico Murdaca in un cinema abbandonato, il Cilea, di Palmiin Calabria.

La vispa Teresa (1940)Regia: Roberto Rossellini; [soggetto: dalla poesia omonima di Luigi Sailer (1825-1885), educatore e scrittore, contenuta nella raccolta di poesie per bambiniL’arpa della fanciullezza (1870); ne esiste anche una versione “allungata” (unicasua in italiano) di Trilussa (1917)]; fotografia (b&n, 1.37:1): Mario Bava; musica:Simone Cuccia; [interprete: Adriana Ceriani (la vispa Teresa); produzione e] tea-

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India Matri Bhumi (1957-1959)Regia: Roberto Rossellini; soggetto e sceneggiatura: R. Rossellini, Sonali Sen-roy DasGupta, Ferydoun Hoveida [Fereydoun Hoveida]; fotografia (Gevacolor,Ferraniacolor, Kodachrome, 1.37:1): Aldo Tonti; commento: Jean L’Hôte (nellaversione italiana il commento è attribuito nei titoli a Vincenzo Talarico, che siè limitato in realtà a tradurre e adattare quello di L’Hôte); «illustrazione sonora»[realizzata presso gli studi]: Tadié-Cinéma; musica: Philippe Arthuys; assistentemusicale: Christian Hackspill; musiche classiche dell’India elaborate da: AlainDanielou (edite dalla Ducretet-Thomson); montaggio: Cesare Cavagna; [fonici:Rocco Mangano, Antony Vasant]; aiuto registi: Giovanni [Tinto] Brass [a Parigiper la postproduzione], Jean Herman [in India]; [assistenti alla regia: M.V. Kri-shnaswamy (Kittu), Habib (autista della Film Division), Deshmuck; riprese addi-zionali in India: Romolo Marcellini; operatori: Renzo (Rino) Filippini, PieroPupilli]; assistenti operatori: Giorgio Tonti, Prem [Vaidya]; [aiuto operatori: Agha,Lall, Vincenzo Filippini; elettricista: Naidu; assistenti montatori: Jolanda Ben-venuti, Cesarina Giglietti]; interpreti: non professionisti [fra cui Pasha (il mahoutdel primo episodio) e Nokul Chakravarti (l’operaio del terzo episodio)]; produ-zione: [R. Rossellini per] Aniene Film (Roma), Union Générale Cinématographi-que (Parigi); [assistenza tecnica: Indian Films Development (Jean Bhowanagary);direttori di produzione: Jean Herman, Aldo Marconi; ispettori di produzione: M.Matur, H. Mohau]; laboratorio di sviluppo e stampa: Tecnostampa, Roma; [la-boratori di doppiaggio e missaggio: NIS, Fonoroma, Fonofilm]; distribuzione ita-liana: Cineriz.Visto di censura: n. 29690 del 17-6-1959 (m. 2600 = 95’); prima proiezionepubblica: S. Polo dei Cavalieri (Roma), cinema Castello, 27-6-1959 [proiezioneda intendersi puramente nominale a fini ministeriali]; anteprima della versionefrancese: Festival di Cannes, fuori concorso, 9-5-1959; uscite italiane: Milano,12-3-1960; Roma: 26-5; durata: 98’ (versione francese), 92’ (versione italiana),87’ (versione italiana restaurata).Il primo episodio è stato girato dal 15 marzo ai primi di aprile 1957 nella fore-sta del Khanapur vicino a Mysore, nel Karnataka; il secondo dal 19 al 26 aprilealla diga di Hirakud, in Orissa; il quarto dal 18 al 22 maggio a Mumbra, vicinoa Bombay; il terzo dall’8 al 16 giugno al National Park of India vicino a Bom-bay. Lingue parlate: francese (nella versione francese: commento alla prima ealla terza persona), italiano (versione italiana, commento), telegu (primo epi-sodio), bengali (secondo episodio), marathi (terzo episodio), hindi (quarto epi-sodio).Il film è stato realizzato prima in versione francese (presentata a Cannes ma maidistribuita nelle sale), poi in versione italiana. Di entrambe le versioni sembrairreperibile il negativo originale. Oggi il film sopravvive grazie a restauri o a edi-zioni in video. Il restauro della versione francese è stato realizzato da un posi-tivo decolorato ma integro consegnato da Henri Langlois a Jeanne Severini(vedova del pittore Gino Severini) e donato, alla sua morte, dal nipote SandroFranchina e da sua moglie Jennifer alla Cinémathèque Française. Il restaurodella versione italiana è stato realizzato nel 1991 da Cinecittà Internationalsulla base di alcuni positivi molto usurati, oltre che decolorati, il che spiega ladifferenza di durata rispetto al visto di censura. La versione italiana è una edi-

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costringe?”. “Il rapporto con mio padre”, rispose l’attore, che poi nello psico-dramma ottenne una grossa catarsi del conflitto con questa figura, questa voltauna catarsi sincera e commovente. Rossellini, dietro la cinepresa, sembrava af-fascinato dall’intera procedura; aveva solo una camera perché lo spazio erapiuttosto limitato, ma riuscì a dare un gran senso del movimento del dramma,che durò solo due o tre ore e fu montato in una sola bobina» (Zerka Toeman Mo-reno, in Jacov Levi Moreno, Zerka Toeman Moreno, Manuale di psicodramma.Tecniche di regia psicodrammatica [1969], a cura di Ottavio Rosati, Astrolabio,Roma, 1987, pp. 13-14).Il documentario, forse mai terminato e che comunque non risulta essere statotrasmesso, è attualmente irreperibile.

J’ai fait un beau voyage (1957-1959)Regia [e produzione]: Roberto Rossellini; fotografia degli inserti filmati (16mmKodachrome e Ferraniacolor, ma trasmesso e conservato in b&n, 1.37:1): AldoTonti; «presentato da» (= giornalista in studio): Étienne Lalou; collaborazionetecnica (= regia televisiva): Jean L’Hôte; assistente: Pierre Robin; «illustrazionesonora»: Pierre Poulteau; con R. Rossellini e Lalou.Dieci puntate, senza titolo individuale, trasmesse dall’ORTF (Office de Radiodif-fusion-Télévision Française): 1. [Bombay], 26’, 11-1-1959; 2. [Bombay], 24’30”,1-2; 3. [Bombay], 22’, 8-2; 4. [Varsova], 26’, 22-2; 5. [Voyage au Sud], 24’, 8-3; 6. [Malabar], 18’, 23-3; 7. [Quilon], 22’, 12-4; 8. [Barrage], 24’, 10-5; 9.[Nehru], 24’, 14-6; 10. [Animaux], 29’, 6-8.Girato nel gennaio-marzo 1957 a Bombay (Mumbay), Varsova (presso Bombay),nella giungla del Karapur, in Kerala (Madurai, Malabar, Quilon, ecc.), alla digadi Hirakud in Orissa, a Nalanda nel Bihar, a Santiniketan nel West Bengala.

L’India vista da Rossellini (1957-1959)Edizione italiana del precedente.Regia [e produzione]: Roberto Rossellini; fotografia degli inserti filmati (16mmKodachrome e Ferraniacolor, ma trasmesso e conservato in b&n, 1.37:1): AldoTonti; «interviste di»: Marco Cesarini Sforza; «con la collaborazione di»: Giu-seppe Sala; riprese televisive: Franco Morabito; edizione: Adriana Alberti, Jen-ner Menghi; con R. Rossellini e Cesarini Sforza.Dieci puntate trasmesse dalla RAI Radiotelevisione Italiana nel programma Iviaggi del Telegiornale: 1. India senza miti, 27’10”, 7-1-1959; 2. Bombay, la portadell’India, 27’10”, 14-1; 3. Architettura e costumi di Bombay, 21’10”, 21-1; 4.Varsova, 19’44”, 28-1; 5. Verso il sud, 29’20”, 4-2; 6. Le lagune di Malabar,24’23”, 11-2; 7. Kerala, 23’08”, 18-2; 8. Hirakud, la diga sul fiume Mahadi [=Mahanadi], 25’24”, 24-2; 9. Il pandit Nehru, 25’51”, 4-3; 10. Gli animali in India,28’12”, 11-3.La versione francese è stata realizzata prima di quella italiana. Il materiale mo-strato è identico nelle due versioni. Le differenze di durate (239’30” e 251’ com-plessivi) sono dovute agli interventi dei giornalisti in studio e alle risposte diRossellini (peraltro praticamente identiche, quanto a contenuti, in entrambe leversioni).

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Mario Fioretti; musica: Mario Nascimbene (edizioni musicali Tank); montaggio:Maria Rosada; aiuto registi: Roberto Capanna, Paolo Poeti; operatore: Carlo Fio-retti; capo squadra tecnico: Attivo Bevilacqua; produzione: Roberto Rosselliniper Orizzonte 2000 [con un finanziamento della National Broadcasting Com-pany]; direttore di produzione: Francesco Orefici; voce di commento: CorradoGaipa; durata (a 25 f/s): 50’45”.Trasmesso dalla National Broadcasting Company, col titolo Roberto Rossellini’sSicily: Portrait of an Island (commento detto da Ken Bolton, durata: 52’), il 29-12-1968 e da Rai 2 (in b&n) il 3-2-1970 (ore 21:15).Il film è introdotto dal cartello «Roberto Rossellini presenta».

Intervista a Salvatore Allende (1971-1973)[Regia: Helvio Soto, Emidio Greco; fotografia (16mm, colore, 1.37:1): RobertoGirometti; suono: Gino Russiello; produzione: Renzo Rossellini jr. per la SanDiego Cinematografica]; con Salvador Allende, Roberto Rossellini; durata: 45’.Girato nel maggio del 1971 nella casa di Allende a Santiago del Cile. Trasmessoda Rai 1 (in b&n) il 15-9-1973, ridotto da 45’ a 36’ 22’’, con commenti in stu-dio di Roberto Rossellini ed Enzo Biagi sulla morte del presidente e col titolo Laforza e la ragione. Colloquio di Salvator [sic] Allende con Roberto Rossellini (du-rata complessiva, compresi gli interventi in studio: 50’).

Rice University (1971-1973)«Un programma di Roberto Rossellini diretto da William Colleville [Colville]».Regia [e fotografia (16mm, colore, 1.37:1)]: Colville; musica: Mario Nascim-bene; [montaggio: Beppe Cino; produzione: R. Rossellini]; durata (a 25 f/s):112’44”.Il film, previsto per la RAI Radiotelevisione Italiana, non è mai stato trasmesso.Serie di conversazioni tra R. Rossellini e Jean e Dominique De Menil, Clark Read,Dieter Heyman, Donald Clayton e altri scienziati di Rice University a Houston,Texas, con immagini del telescopio di Arecibo a Puerto Rico.

A Question of People (1974)[Regia: Roberto Rossellini (e Beppe Cino); assistenti alla regia: Giampaolo San-tini, Renzo Rossellini jr.; fotografia (16mm, colore, 1.37:1): [Mario Nascim-bene?]; montaggio e commento: Beppe Cino]; produzione: [Roberto Rossellini],United Nations Fund for Population Activities; durata: 125’.Didascalia iniziale: «Roberto Rossellini initiates a film dialogue during WorldPopulation Year of the United Nations. This observation of the human conditionhas been made with the assistance of the United Nations Fund for PopulationActivities». Noto anche col titolo The World Population. Il film è stato proiettatoa Bucarest alla conferenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sulla popo-lazione mondiale. Una versione di 28’ è stata realizzata col titolo People: A Mat-ter of Balance, montaggio di Michael Heywood, con un nuovo commento diHeywood e V. Tarzie Vittachi, per la Human Settlements Agency dell’ONU, con laprecisazione «From filming by Roberto Rossellini».Girato in diverse occasioni in Brasile (da Giampaolo Santini), in Africa (da RenzoRossellini jr.) e alla Rice University (conversazioni di Roberto Rossellini con due

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zione “riveduta e corretta” dall’autore rispetto a quella francese; le differenzemaggiori, a parte alcuni tagli interni, sono il tipo di commento, che nella ver-sione francese è detto da voci francesi senza accento, in quella italiana da vocidi indiani che recitano in italiano ma con marcato accento, e nella elimina-zione di diverse inquadrature nella coda finale. Paradossalmente, più integredella versione italiana restaurata sono due edizioni del film in video, prove-nienti da copie nuove (o addirittura dal negativo che, come si è detto, non èstato finora localizzato): una edita in Italia in VHS dalla CDE Videa negli anni ’90(84’43” a 25 f/s), una edita in Giappone in DVD negli anni Duemila (88’25” a 25f/s, differenza di durata dovuta forse alla conversione in formato NTSC, perchéaltrimenti le due copie sembrano identiche).

Torino nei cent’anni (1961)Regia: Roberto Rossellini; sceneggiatura: Valentino Orsini; consulenza storica:Carlo Casalegno, Enrico Gianeri; commento: Vittorio Gorresio; fotografia(16mm, b&n, 1.37:1): Leopoldo Piccinelli; montaggio: Vasco Micucci; collabo-razione alla regia: Enzo Leonardo; assistente alla regia: Gilberto Casini; assi-stenti operatori: Mario Vulpiani, Mario Volpi; produttore: Federigo Valli;produzione: PROA (Produttori Associati) per RAI Radiotelevisione Italiana; assi-stente alla produzione: Piero Valli; organizzazione: Ugo De Lucia; prima tra-smissione: RAI, 10 settembre 1961 (ore 22:25); durata (a 25 f/s): 46’35”.

Torino tra due secoli (1961)Regia: Roberto Rossellini; sceneggiatura: Valentino Orsini; commento: VittorioGorresio; fotografia (colore, 1.37:1): Leopoldo Piccinelli; assistente alla regia:Enzo Leonardo; produzione: PROA (Produttori Associati); produttore esecutivo:Federigo Valli; durata: 12’.Girato a Torino alla Stazione Porta Nuova, presso la sede del quotidiano «LaStampa» e negli uffici dell’editrice Einaudi, del Politecnico e delle officine Fiat.Proiettato nel 1961 in occasione dell’esposizione torinese Italia ’61, organiz-zata per celebrare il primo centenario dell’Unità d’Italia. Le interviste a ItaloCalvino, Giulio Einaudi e Massimo Mila sono state doppiate da altre voci. Copiarestaurata dalla Cineteca Nazionale nel 1991.

Benito Mussolini (1962)Nei titoli di testa si legge solamente: «Un film di Roberto Rossellini/ideato daPasquale Prunas/produzione Etrusca-Galatea».[Regia: Prunas; supervisione: R. Rossellini (puramente nominale); testo: GiovanBattista Cavallaro, Ernesto G. Laura; commento: Enzo Biagi, Sergio Zavoli; vocedi commento: Romolo Valli; musica: Roberto Nicolosi, diretta da Pier Luigi Ur-bini; montaggio: Romeo Ciatti; supervisione: Mario Serandrei; produzione: Etru-sca Cinematografica-Galatea (Milano); distribuzione: Unidis]; durata: 112’30”.Visto di censura: n. 36568 del 18-1-1962 (m. 3070 = 112’14”); prima proiezionepubblica: 21-1-1962. Film di montaggio in b&n.

“Idea di un’isola” (1967)Regia: Renzo Rossellini jr. [e Roberto Rossellini]; fotografia (colore, 1.37:1):

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Bibliografia

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scienziati); il film include anche materiali girati in India da Roberto Rossellinie Aldo Tonti nel 1957, e documenti di repertorio della NASA e sovietici.

Concerto per Michelangelo (1977)Regia: Roberto Rossellini; fotografia (35mm, Eastmancolor trasferito su video,1.37:1): [Mario Montuori (film)], Giorgio Ojetti (video); musica: eseguita dalcoro della Cappella Musicale Pontificia, diretto da mons. Domenico Bartolucci;voce di commento: Alberto Lori; assistente alla regia: Laura Basile; assistente distudio: Roberto T. Fiocchetti; assistente musicale: Fiorenzo Sampietro; coordi-namento tecnico: Ernesto Righi; controllo camere: Bruno Ciucci, Giuliano Luc-chetti; tecnico audio: Vincenzo Sirena; cameramen: Ignazio Cerrato, RobertoChioffi, Mario Colafrancesco; mixer video: Giovanni Bartoli; capo elettricista:Carlo Mancini; operatori RVM: Mario Nicoletti, Silvano Spiti; produzione: Rai 2-Tg 2, coordinata da Guido Sacerdote; trasmesso in Eurovision da Rai 2 il sabatosanto 9-4-1977; durata (a 25 f/s): 43’50”.Didascalia finale: «La RAI Radiotelevisione Italiana ringrazia per la cortese col-laborazione la Commissione Pontificia per le comunicazioni sociali e la Fab-brica di S. Pietro e per la consulenza il prof. Deoclecio Redig De Campos».Il video comprende parti girate in pellicola in Vaticano nella settimana del 2-4-1977 e parti (il concerto) riprese in diretta dalla Cappella Sistina al momentodella trasmissione.

Le Centre Georges Pompidou (1977)Regia: Roberto Rossellini; fotografia (Eastmancolor 5254, Mitchell Mark 2, An-genieux 254-250 zoom, 1.37:1): Nestor Almendros; suono (presa diretta): Mi-chel Brethez; montaggio: Véritable Silve; aiuto regista: Christian Ledieu;assistente alla regia: Pascal Judelewicz; operatori: Emmanuel Machuel, JeanChabaut; assistenti operatori: Anne Trigaux, Emilio Pacull Latone; microfoni-sta: Philippe Lemenuel; missaggio: Dominique Hennequin; assistenti al mon-taggio: Colette Le Tallec, Dominique Taysse; caposquadra elettricisti:Jean-Claude Gasché; macchinista: Jacques Frejabue; GTC Laboratoire; produ-zione: Jacques Grandclaude, Création 9 Information; distribuzione: ADPF (Asso-ciation pour la Diffusion de la Pensée Française); trasmesso dall’ORTF (Office deRadiodiffusion-Télévision Française) il 4-6-1977 e da Rai 3, col titolo Il centroGeorges Pompidou, l’1-10-1983 (ore 20:30); durata: 56’30”. Girato tra la fine diaprile e il 6 maggio 1977.Il film è stato restaurato nel 2007 a cura del produttore Grandclaude e integratocon una selezione di 40’ da 20 ore di materiale girato in b&n e a colori 16mmsul set del film e intitolato La dernière leçon. Rossellini au travail e con una se-lezione di 19’ delle riprese in b&n 16mm del colloquio su L’engagement socialet économique du cinéma organizzato e presieduto da R. Rossellini al Festivaldi Cannes, 12-14 maggio 1977, intitolata Le dernier combat. Le colloque de Can-nes 1977.

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