Rivista Trimestrale anno I, Nr. 1 Un figlio a tutti i costi di Vera Paola Termali Alzheimer o diabete III di Federica Sciacca Radioterapia e gravidanza di Giovanna Sartor Intervista al Prof. Massimo Saita Preside della Facoltà di Economia della Bicocca
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Transcript
Rivista Trimestrale anno I, Nr. 1
Un figlio a tutti i costi
di Vera Paola Termali
Alzheimer o diabete III
di Federica Sciacca
Radioterapia e gravidanza
di Giovanna Sartor
Intervista al Prof. Massimo Saita
Preside della Facoltà
di Economia della Bicocca
Medicina di Frontiera Iscrizione al Tribunale di Como N° 3/2011
Due righe sull’editore Il Centro Ricerca e Formazione Scientifica (Ce.Ri.Fo.S), nasce dall’esigenza di promuovere la ricerca italiana indipendente verso la
cura delle malattie rare ad indirizzo endocrino - metabolico e verso le tecnologie avanzate. Ce.Ri.Fo.S ha la necessità di aprire una
finestra di scambio di informazioni con il personale medico di base, ospedaliero e il paziente, e l’esigenza di formare il personale
atto a occuparsi del paziente con lo scopo di creare un beneficio per la collettività.
Ce.Ri.Fo.S, pensato e creato da un gruppo di ricercatori italiani, si pone i seguenti tre obiettivi.
1. La ricerca della cura, affrontando le tematiche delle terapie biologiche e lo studio delle alterazioni cellulari.
2. L’informazione attraverso la rivista “Medicina di Frontiera” che si rivolge sia al medico sia al paziente. Per il medico seleziona
le più interessanti pubblicazioni scientifiche, corrispondenti al proprio approccio terapeutico.
Al paziente fornisce informazioni che possono trovare applicazione terapeutica nell’immediato, preoccupandosi di fornire indica-
zioni anche su metodiche sperimentali e alterazioni fisiologiche di tipo farmacologico, ambientale ed emozionale.
3. La formazione di personale medico e paramedico con corsi accreditati e non affinché l’approccio con il paziente sia sempre più
cosciente e empatico nella visione di risk management d’eccellenza. La formazione in Europrogettazione per fornire ai ricercatori
italiani gli strumenti per acquisire finanziamenti europei.
Come non scrivere due righe sul mio Professore,
il mio mentore, il relatore della mia tesi?
Due righe che non possono essere una recensio-
ne, non ne ha bisogno, ma vogliono essere una
manifestazione di stima e riconoscenza.
Parlo dell’attuale Preside della Facoltà di Medi-
cina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,
Prof. Rocco Bellantone, persona di poche parole,
di grande valore umano e spessore professiona-
le, uomo in continua ricerca, uomo che investe
sui giovani che gli stanno vicino.
Io sono arrivato a lui un po’ vecchietto e quin-
di non ho potuto assaporare l’importanza di una
formazione originale, improntata all’osservanza
delle procedure e dei rapporti.
Ho visto ragazzi soffrire e gioire per essergli vi-
cino, alcuni inviati in altre università per impara-
re e riporatare il succo dell’esperienza maturata
all’estero.
Nel secolo della gelosia, lui è stato sempre di-
sponibile all’insegnamento, alla condivisione
del sapere, cosa molto rara e preziosa in ogni
Università.
Io spero che questo suo libro diventi una pietra
miliare per la chirurgia come il Sabiston ed altri.
Per me, per il contenuto, per gli autori e per le
cose dette in precedenza, lo è già.
Dott. Samorindo Peci PhD
Responsabile Scientifico
Il libro segnalato
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RADIOTERAPIA E GRAVIDANZA di Giovanna Sartor
Ai fini della valutazione del danno provocato dalla radioterapia alla gravidanza,
è doveroso puntualizzare che il problema assume diverse sfumature a seconda
del punto di vista da cui viene affrontato: gravidanza futura, gravidanza in atto ed
infine assistenza a familiari sottoposti a radioterapia.
Per quanto riguarda una GRAVIDANZA FUTURA, è importante ricordare che
gli ovociti sono cellule particolari: derivano dalla trasformazione degli ovogoni,
già presenti nell’ovaio fetale, possono rimanere a riposo fino alla menopausa, e
si differenziano in cellula uovo, dopo la pubertà, solo per qualche giorno, com-
pletando la meiosi solo alla fine delle fecondazione. Circa due mesi prima della
nascita dell’individuo, gli ovociti raggiungono il massimo numero; da questo
momento in poi il loro numero diminuirà, fino all’esaurimento, all’epoca della
menopausa. Sugli ovociti il danno da radiazioni ionizzanti è sia di tipo cromoso-
mico strutturale sia di tipo cromosomico numerico.
Le aberrazioni cromosomiche strutturali a cui vanno incontro gli ovociti sono di
tipo cromatidico, datosi che negli ovociti la replicazione del DNA è già avvenu-
ta. Di queste, le più importanti sono quelle dovute agli interscambi cromatidici,
perché ne possono derivare anomalie stabili e trasmettibili alla progenie. Seb-
bene nella maggior parte dei casi essi non diano luogo a guadagno o perdita di
materiale genetico, in alcuni casi problemi di segregazione durante l’anafase II
possono portare a morte cellulare, coinvolgendo quindi la fertilità del soggetto, o
alla nascita di individui con malformazioni.
Le aberrazioni cromosomiche di tipo numerico sono dovute essenzialmente a
mancata separazione di cromosomi strutturalmente normali o a segregazione
scorretta conseguente ad interscambi cromatidici, e possono portare a danni ge-
netici correlati a ritardo mentale o malformazioni congenite.
Le evidenze sperimentali, in vivo ed in vitro su animali da laboratorio, dimo-
strano che esistono meccanismi di riparazione del DNA negli ovociti dei mam-
miferi, tuttavia il problema è ancora in fase di studio, e sicuramente le moderne
tecniche di analisi molecolare potranno dire molto su questo tema. In ogni caso,
il fatto che la quantità di ovociti sia limitata e non rinnovabile è un elemento di
fragilità, che può essere aggravato se vi è esposizione a radiazioni ionizzanti.
Per la donna, lo scenario indagato riguarda due situazioni: esposizioni a scopo
medico di bambine e donne in età fertile, ed esposizioni a seguito di incresciosi
eventi, quali le esplosioni nucleari e gli incidenti alle centrali nucleari, e riguarda
due danni che le radiazioni possono indurre, infertilità o danno genetico.
Per quanto riguarda l’infertilità, si possono ricavare informazioni da “follow up”
di pazienti irradiate in età pediatrica o fertile. L’esposizione ad alte dosi di ra-
diazione provoca infertilità, che interviene a dosi diverse per età diverse della
donna: per donne di età superiore ai 40 anni 6 Gy sono sufficienti per determinare
la completa cessazione dell’attività ovarica, mentre per le donne di età inferiore
ai 40 anni ciò accade per dosi superiori a 20 Gy. La sede irradiata, così come la
dose prescritta, sono fattori molto importanti per il superamento di questi valori
soglia, così come è molto importante l’utilizzo di farmaci in associazione con la
radioterapia, i quali possono modificare, in negativo, questi valori. Dosi minori
di 2 Gy distruggono il 50% dei follicoli ovarici. Senza entrare nello specifico
di patologie diverse, si può affermare che la moderna strategia clinica per la cura
del cancro in pazienti giovani, con varie associazioni chemio-radioterapia, ha
ottenuto importantissimi risultati, portando la sopravvivenza a valori molto alti.
Però, se da una parte la terapia è un salvavita, dall’altra esiste il rischio che essa
provochi sterilità. Negli ultimi 10 anni la conservazione della fertilità è diventata
un obiettivo per cui molti scienziati lavorano; esistono strategie mature e strate-
gie ancora sperimentali, ma è bene che venga effettuata una valutazione caso per
caso: essendo molte le variabili che possono influire sul danno, una valutazione
del rischio non può essere effettuata se non dopo indagine accurata sulle diverse
variabili che intervengono nel problema.
Per quanto riguarda il danno genetico, informazioni possono essere ricavate da
osservazioni effettuate su popolazioni esposte a
radiazioni ionizzanti a seguito di esplosioni nu-
cleari ed incidenti alle centrali nucleari.
Il gruppo più studiato, anche dal punto di vista
temporale, è quello dei discendenti dei supersti-
ti delle esplosioni delle due bombe atomiche di
Hiroshima e Nagasaki. Per dosi medie ricevute
dai genitori valutate attorno ai 200 mGy, non
sono state rilevate variazioni statisticamente
significative dello sviluppo psicofisico, di mal-
formazioni di origine genetica e di parametri di
natura citogenetica e biochimica, relativamente
ad una popolazione di individui i cui genitori
non erano stati irradiati.
Il secondo gruppo più studiato è quello che è
stato investito dalle radiazioni ionizzanti pro-
venienti dal fallout dopo l’incidente nucleare
di Chernobyl. Molti studi sono stati fatti, con
risultati controversi, ma non sembrano esserci
evidenze certe di aumento di malformazioni o
di mortalità infantile correlata all’esposizione
delle madri prima del concepimento (Nations
Chernobyl Forum – WHO - 2006).
Vale la pena di citare lo studio di Dubrovain cui
si riporta, per le famiglie vissute a Beskaragai
(Kazakistan) tra il 1949 e il 1956, ed irradiate
dal fallout proveniente da una serie di test ato-
mici di superficie con dosi tra 0,5 e 4,5 Sv, un
aumento dell’80% nel tasso di mutazione gene-
tica del DNA minisatellite, per la prima gene-
razione, e del 50% per la seconda generazione,
relativamente al resto della popolazione del Ka-
zakistan, di eguale etnia ma non irradiata, senza
però alcuna conseguenza sulla vita.
Per quanto riguarda la RADIOTERAPIA E
GRAVIDANZA IN ATTO, il problema si com-
plica, in quanto il nascituro è dipendente dalla
vita della madre, ma non è il paziente. Quindi, la
prima considerazione che vale, e vale sempre in
tema di radiazioni ionizzanti, è che se la radio-
terapia è dilazionabile, è bene dilazionarla (Art.
10 D.L. 187/00 - Protezione particolare durante
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la gravidanza e l’allattamento). Le cellule
dell’embrione e del feto dimostrano attività
proliferativa e grado di differenziazione di-
versi nelle varie fasi della gravidanza, e la
radiosensibilità è fortemente dipendente da
questi due fattori.
Nella fase di preimpianto, naturalmente, non
ci sono dati sperimentali sulla donna, e quin-
di i dati a disposizione sono quelli sugli ani-
mali; da questi dati si deduce che il l’effetto
più probabile è il mancato impianto, evento
drammatico ma definitivo, anche se altri ef-
fetti non possono essere esclusi con certezza
assoluta.
Durante l’organogenesi, tra la seconda e
l’ottava settimana dal concepimento, si svi-
luppano gli organi, e quindi le cellule si tro-
vano un uno stato ad alta attività proliferati-
va e ad alta attività di differenziazione. Gli
studi sull’uomo derivanti prevalentemente
dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki
e gli esperimenti condotti su animali, indi-
cano che i danni sul nascituro riguardano
prevalentemente malformazioni, ritardo di
crescita e microencefalia, anche se aborto,
sterilità, cataratta e insorgenza di neoplasie
maligne non possono essere esclusi. Allo
stato attuale delle conoscenze questi danni
sono considerati di tipo deterministico, con
un valore di soglia pari a 100 mSv.
Tra l’ottava e la quindicesima settimana i
neuroblasti si moltiplicano velocemente e
migrano verso la corteccia cerebrale. L’e-
sposizione può influenzare negativamente
questi meccanismi, e quindi il danno sul
nascituro può essere il ritardo mentale, an-
che se possono intervenire anche ritardo di
crescita, sterilità, aborto, malformazioni,
cataratta, microencefalia e neoplasie mali-
gne. Gli studi condotti sui bambini esposti
in utero a seguito delle esplosioni nucleari di
Hiroshima e Nagasaki hanno rilevato che al-
cuni bambini hanno sviluppato un quoziente
di intelligenza (Q.I.) inferiore alla norma.
Allo stato attuale delle conoscenze, si stima
che la diminuzione del Q.I. sia proporzio-
nale all’aumento della dose di esposizione,
con una perdita di circa 30 punti del Q.I. per
sievert.
Tra la sedicesima e la venticinquesima set-
timana il ritardo mentale è meno probabile,
ma non si può escludere, così come non si
possono escludere ritardo di crescita, sterili-
tà, malformazioni, cataratta, microencefalia
e neoplasie maligne.
Dalla ventiseiesima settimana il feto diventa
più resistente, tuttavia non si possono esclu-
dere ritardo di crescita, sterilità, cataratta,
microencefalia e neoplasie maligne.
È importante ribadire comunque che, nel-
la malaugurata ipotesi che la radioterapia
sia terapia salvavita per una paziente in
stato di gravidanza, la decisione spetta
alla paziente, eventualmente supportata
dai familiari. I valori di dose ed i dan-
ni qui riportati non possono costituire un
parametro su cui fondare una decisione
delicata ed impegnativa, né tantomeno ci
si può basare su dati generici ricavati da
Internet. L’analisi del rischio di danno può
essere effettuata solo dallo specialista in
Oncologia Radioterapica o in Genetica, o,
sempre più spesso, da entrambi in colla-
borazione. Essi, sulla base di conoscenze
specifiche cliniche ed epidemiologiche e
della necessaria valutazione della dose
assorbita ai gameti, all’embrione o al feto,
effettuata dal Fisico Medico rigorosamen-
te caso per caso, sono gli unici specialisti
deputati a fornire informazioni specifiche
a supporto delle decisioni delle pazienti.
Per quanto riguarda l’ASSISTENZA
A FAMILIARI SOTTOPOSTI A RA-
DIOTERAPIA, è bene affermare con
molta forza che un corpo irradiato non
diventa radioattivo, e quindi non emette
radiazioni ionizzanti; le donne in gravi-
danza o in età fertile che assistono fami-
liari sottoposti a radioterapia con fasci
esterni o a brachiterapia con sorgenti non
permanenti non possono assorbire dose
dai familiari. Nel caso di brachiterapia
con impianti permanenti o di radioterapia
metabolica, invece, il materiale radioatti-
vo viene introdotto all’interno del corpo,
sia in forma liquida sia in forma solida,
e quindi per le donne in gravidanza, così
come per i bambini, è importante che l’e-
lemento radioattivo all’interno del pazien-
te perda pericolosità; per questo motivo si
devono seguire scrupolosamente tutte le
raccomandazioni che vengono di norma
illustrate prima dell’effettuazione della
terapia, e vengono impartite dall’Esperto
Qualificato.
Esse si riferiscono ad un concetto fonda-
mentale della radioprotezione: se non vi
è un motivo di necessità accertata o di
urgenza, nessuno deve ricevere indebi-
tamente dose di radiazione, e a maggior
ragione individui in stato di fragilità, e si
possono riassumere in tre regole da ri-
spettare:
• lasciare trascorre il maggior
tempo possibile tra l’esecuzione
dell’impianto e il contatto tra donna
in gravidanza e paziente portatore di
impianto; le sorgenti radioattive uti-
lizzate in clinica per impianti perma-
nenti perdono nel tempo la loro ef-
ficacia terapeutica e pericolosità, sia
perché la quantità di atomi che può
decadere si riduce fino ad un livello
trascurabile, sia perché, nel caso di
sorgenti liquide, il materiale viene
eliminato attraverso il normale meta-
bolismo;
• se il contatto è necessario, ri-
durre il tempo del contatto con la sor-
gente di radiazione, ovvero il pazien-
te stesso (meno tempo=meno dose) e
la donna in gravidanza, e, nel caso di
radioterapia metabolica, anche con
indumenti, biancheria ed oggetti con
cui il paziente viene a contatto;
• aumentare la distanza tra la
sorgente (il paziente stesso) e la don-
na in gravidanza; sostare in stanze di-
verse da quelle in cui vive il paziente.
Tutte e tre le regole hanno lo scopo
di riportare il rischio di effetti nocivi
a quello abitualmente incontrato du-
rante una normale gravidanza, così
come per i bambini e le donne in età
fertile.
Anche in questo caso è comunque
fondamentale ricorre al parere degli
esperti in materia, e non ricorrere a
notizie reperite da Internet, che pos-
sono essere non correlabili alla situa-
zione specifica da affrontare.
9 Un Fisco Medico del CRO di Aviano spiega effetti e
precauzioni per salvaguardare le donne e la loro fertilità
Un’eccellenza in centro Italia nell’unità operativa di ortopedia di Ascoli Piceno
La coxartrosi
prima dell’artrosi di Concetto Battiato
L’eziologia dell’osteoartrosi è stata classicamente definita “primitiva” nei
casi ad eziologia legata ad una non specificata meiopragia costituzionale del-
la cartilagine articolare e “secondaria” nei casi legati a deformità congenite
od evolutive, a traumi, a necrosi, etc.
Pertanto il trattamento dell’osteoartrosi considerandola una patologia “dina-
mica” dovrebbe comprendere combinazioni di trattamenti conservativi/fisio-
terapici e trattamenti chirurgici di diversa tipologia. Infatti in caso di devia-
zioni assiali meccanicamente rilevanti, instabilità, lesioni intra-articolari che
comportino disfunzioni della cinetica coxo-femorale la correzione dovrebbe
essere causale ed effettuata prima dell’insorgenza della degenerazione. Nei
casi invece giunti a gradi clinico-radiografici di artrosi avanzata l’intervento
chiave è la sostituzione protesica. Per molti anni la ricerca farmacologica ha
tentato invano di trovare farmaci che potessero interferire con l’avanzamento
del processo degenerativo artrosico o addirittura potessero ricostituire i tes-
suti danneggiati.
Oggigiorno prende sempre più corpo che la coxartrosi cosiddetta primitiva in
realtà non lo sia e questo sta ovviamente cambiando l’approccio terapeutico
di tale patologia avvalorando sempre più un approccio non protesico all’anca.
Studi recenti supportano l’ipotesi che questa artrosi primitiva sia in realtà
secondaria a meccanismi di impingment femoro-acetabolare.
Quattro decadi fa , Murray ipotizzò una relazione tra una conformazione del
femore prossimale, la cosiddetta “tilt deformity” e lo sviluppo precoce di ar-
trosi coxofemorale. Tale deformità veniva interpretata come una forma lieve
di epifisiolisi a minimo scivolamento ed il femore prossimale veniva
assimilato,all’immagine di un “pistol grip”
Dopo le osservazioni di Murray, seguiro-
no quelle di Solomon in Sud Africa e di
Harris negli USA e l’osteoartrosi cosid-
detta idiopatica o primitiva veniva consi-
derata causata da deformità che vengono
recentemente chiarite ed organizzate in
modo completo da Ganz nella sindrome
da femoroacetabular impingement (FAI).
Tale sindrome da conflitto avviene più
frequentemente nella zona anterosupe-
riore dell’articolazione nel movimento di
intrarotazione con anca flessa a 90°. Sono
stati descritti due classi di impingement:
il tipo “CAM” , prevalente nei giovani maschi, causato da una patomorfo-
logia dell’offset tra collo e testa del femore che nel movimento dell’artico-
lazione provoca una delaminazione cartilaginea dell’acetabolo (outside-in)
ed un secondo tipo detto “PINCER”, prevalente nelle femmine di mezza età
causato da un impatto più lineare tra una ipercopertura acetabolare locale
Morbo di Alzheimer o Diabete III di Federica Sciacca
Dott. Samorindo Peci, laurea in medicina e chirurgia con laude
all’Università Cattolica del Sacro Cuore Roma,
dottorato di ricerca in scienze endocrinometaboliche
ed endocrinochirurgiche sperimentali.
Specializzato in endocrinochirurgia e psiconcologia.
Direttore scientifico del Centro di Ricerca
Cerifos Milano
In genere ha un inizio subdolo: ci si comincia a dimenticare alcune cose e si finisce per arrivare a non riconoscere nemmeno i familiari più stretti. La demenza di Alzheimer che colpisce la memoria e le funzioni cognitive, oggi riguarda circa il 5% delle persone con più di 60 anni, e in Italia si stimano circa 500 mila ammalati, numeri che confermano questa patologia come una tra le più diffuse nella nostra civiltà. Ma i ricercatori di Cerifos, il Centro di Ricerche e Formazione Scientifica sulle malattie rare nel settore endocrinologico e immunologico, non hanno dubbi: oggi il morbo di Alzheimer può essere affrontato all’insorgenza e combattuto con successo. Il team del centro di studi Cerifos già da anni, infatti, conduce studi spe- cializzati in questo campo, parallelamente a quelli sul Diabete di tipo II. Approfondiamo l’argomento con il direttore scientifico del Centro, il dot- tor Samorindo Peci.
Dottor Peci, ci spieghi la sua innovativa definizione del Morbo di Alzheimer come Diabete III, e cosa hanno in comune questa due patologie
Oggi ritengo che sia importante considerare l’Alzheimer all’interno di un dismetabolismo dovuto principalmente al metabolismo degli zuccheri e al mancato apporto del glucosio al cervello causato da un deficit di funziona- mento del recettore insulinico. Bisogna, infatti, partire dal fatto che il cervello per il suo funzionamento necessita di circa 100-150 g di glucosio al giorno, ma il sangue ne può immagazzinare soltanto 5 g e quindi serve un approvvigionamento con- tinuo. Si tratta di un processo in cui è fondamentale il ruolo del recettore insulinico che, quando riconosce la presenza d’insulina, manda un segnale all’interno della cellula e fa sì che si apra un varco nella membrana cellu- lare nell’ esatto momento in cui necessita. Ciò che condividono Diabete e Morbo di Alzheimer però è proprio il difetto del ricettore insulinico, che mentre nell’Alzheimer riguarda il ricettore insulinico del sistema nervoso centrale, nel diabete quello delle cellule ß del pancreas. Un legame che giustifica anche il fatto, ormai risaputo, che il diabetico soffre molto più frequentemente di Morbo di Alzheimer rispetto a chi non ne è affetto. Ed è proprio a causa del deficit di questo recettore che si formano all’inter- no del tessuto cerebrale le temutissime placche amiloidi che, pian piano, fanno perdere efficienza ai neuroni fino a portarli alla morte: un proces- so di degrado, questo, abbastanza lento, che inizia molti anni prima della comparsa dei sintomi e che man mano si diffonde fino a raggiungere l’ip- pocampo, la struttura deputata al processo di memorizzazione. In sostanza quindi, più i neuroni muoiono, più le zone del cervello colpite iniziano a
rimpicciolirsi e il cervello comincia ad avere “fame di zucchero”. Ed è a questo punto che si rendono vi- sibili i primi segni di demenza.
Qual è la soluzione secondo gli studi condotti dai ricercatori di Cerifos?
La soluzione, almeno in parte, si chiama galattosio, uno zucchero che, a differenza del glucosio, per es- sere assorbito dalle cellule non richiede né l’insulina né il suo recettore, che come abbiamo visto mal fun- zionano nei pazienti colpiti dalla malattia. Il galatto- sio, infatti, per arrivare all’interno della cellula usa un canale preferenziale detto GLUT 3, e per questa ragione è l’unico elemento nutrizionale che può arre- stare la fame di zucchero del cervello. Se pensiamo, inoltre, che il galattosio è lo zucchero del latte materno, strettamente quindi legato alla cre- scita e alla strutturazione cellulare, intuiamo facil- mente a quale elemento primordiale ed essenziale ci stiamo avvicinando: per la rigenerazione del sistema neutotrasmettitore, danneggiato da patologie dege- nerative tra cui l’Alzheimer, utilizziamo in pratica lo stesso principio che viene utilizzato per il bambino per riparare, generare o rigenerare il sistema neuro- logico. Con questo, lo puntualizzo, non stiamo dicendo che il galattosio è la cura d’elezione per il Morbo di Alzheimer, ma che certamente questo zucchero può migliorarne notevolmente la sintomatologia, come ha anche dimostrato di fare nei nostri studi. Inoltre, visto che stiamo parlando di uno zucchero facilmente reperibile e somministrabile, ne consi- glio l’uso profilattico a tutti come integrazione ali- mentare: il galattosio infatti penetrando facilmente la cellula, nella quale viene trasformato in glucosio, senza appesantire altri organi, attiva un processo di assorbimento che appare particolarmente utile anche nelle performance sportive. Col riconoscimento dell’importanza del metaboli- smo degli zuccheri sta diffondendosi dunque l’iden- tificazione del Morbo di Alzheimer quale diabete di
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I vantaggi del galattosio
• Assimilazione indipendente dall’insuli- na, senza così incorrere in una sottrazione dell’insulina in forma enzimatica da parte del fegato.
• Compensazione del deficit di glucosio (utile al cuore)dovuto a stress metabolico.
• Disintossicazione endogena (eliminazio- ne di ammoniaca, elemento notevolmente tossico a livello neurologico per tutti i deficit di memoria).
• Metabolizzazione degli aminoacidi, quindi migliore assimilazione delle catene proteiche.
• Effetto anabolico con liberazione delle tossicità proteiche.
• Miglioramento delle prestazioni neurolo- giche.
• Assorbimento del glicogeno, soprattutto nella muscolatura, con miglioramento della funzionalità epatica enzimatica ed allon- tanamento delle complicanze cardiache da deficit metabolico.
• Garanzia di un metabolismo equilibrato
Le cause della malattia, il suo legame con il diabete di tipo II
e l’approccio terapeutico
secondo il Centro di Ricerca e Formazione Scientifica Cerifos.
Intervista al dottor Samorindo Peci
tipo III.
Quali sono stati i risultati raccolti finora dagli studi di Cerifos?
Abbiamo osservato miglioramenti dei valori glicemici in pazienti di Alzheimer con diabete di tipo ll. Ad esempio, in uno dei miei studi più recenti a pazienti con MCI (Mild Cognitive Impairment) è stato sommi- nistrato quotidianamente galattosio per sei mesi. Inizialmente, a metà e al termine della fase di intervento, è stata verificata la prestazione cognitiva con diversi tipi di test, nel corso dei quali sono stati riscontrati migliora- menti significativi in settori specifici delle funzioni cerebrali. I risultati di questo studio pilota fanno sperare che la somministrazione di galattosio migliori l’apporto di energia alle cellule cerebrali tanto da impedirne il decadimento pur con l’avanzare dell’età. Infine, un altro studio proiettato verso malati di diabete II con sommi- nistrazione bisettimanale di galattosio 10% in forma endovenosa e con assunzione orale di 10 g. giornalieri, ha evidenziato un notevole miglio- ramento dei valori della glicemia, riportandoli alla soglia entro 3 mesi. Questo lavoro verrà presentato in primavera a Gerusalemme International Conference on Neuroplasticity and Cognitive Modifiability.
Cosa mi dice su chi obietta che ci sono pubblicazioni scientifiche che evidenziano invecchiamento cerebrali dovuto all’utilizzo del galattosio?
Intanto è soltanto una e non è uno studio sul galattosio. Si tratta di un lavo- ro sull’efficacia di un’altra molecola, nel quale si è utilizzato il galattosio per accelerare il processo di invecchiamento del topo. Non per altro si usano i topi, perché il topo mostra, dato il suo ristretto tempo di vita, mol- to più velocemente i processi d’invecchiamento. Questa tempistica vie- ne ulteriormente accelerata, somministrando un fattore di crescita come il galattosio, ad un dosaggio cento volte superiore a quanto l’organismo del topo potrebbe sopportare. Usare quest’argomento per affermare che il galattosio fa degenerare il tessuto cerebrale significa non saper leggere una pubblicazione scientifica e farne un uso strumentale, da parte di chi ignora o di chi ha paura che il proprio orticello venga scalfito da una intergrazione cosi banale.
Qual è l’approccio giusto alla patologia secondo Cerifos?
Innanzitutto, un dato essenziale è lo stadio della malattia: intervenire ai primi sintomi migliora di molto la prognosi. Il protocollo è composto in quattro fasi, personalizzabili in base alle rispo- ste individuali. Per noi le novità terapeutiche, completamente biologiche, utilizzate per la patologia dell’Alzheimer oltre al galattosio da somministrare in miniflebo per la terapia d’attacco e in soluzione os in posologia di mantenimento, sono gli aminoacidi combinati, che servono per attivare la respirazione cellulare e gli estratti cellulari per la rigenerazione dei tessuti. E grazie al contributo di Merck Sharp & Dohme, Homo Novus e ATP, tutte aziende tedesche che hanno collaborato con noi per la produzione di queste mole- cole combinate, stiamo avendo risultati eccellenti. Non meno importante, infine, è la nutrizione chetogenica che affianca il tutto.
In cosa consiste la nutrizione chetogenica?
È un tipo di alimentazione a supporto delle malattie neurologiche. In caso di diagnosi di Alzheimer riteniamo utile affrontare una nutrizione preva- lentemente proteica facendo prevalere el proteine vegetali a quelle ani- mali senza introdurre carboidrati, se non nel giorno di riequilibrio il tutto monitorato dal ketur test che indica il valore di chetoni prodotti nell’orga-
nismo, questo comunque è un atto medico, devono essere presi in considerazione molti fattori funziona- li e fisiologici e monitorati nel tempo. Questo tipo di alimentazione prevede che venga in- crementata l’assunzione di acqua e vieta le bibite dolcificate, lo zucchero e il dolcificante, affronatto un nuovo modello culturale zuccherino attraverso l’utlizzo di altri zuccheri meno complessi e meno necessari per essere assimilati dall’insulina. L’olio, inoltre, deve essere extravergine d’oliva spremuto a freddo e deve sempre essere usato a crudo, e infine la verdura va cotta a vapore oppure grigliata. Dopo i primi dieci giorni e previo consulto col me- dico, poi, si può provare a reintrodurre piccole dosi di carboidrati, utilizzando i carboidrati meno com- plessi.
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DAL FUTURO UNO SGUARDO
ALLA MEDICINA DEL PASSATO
di Fabio Catalano
Le esplorazioni terrestri, subacquee,
stratosferiche e astrofisiche del conti-
nente più remoto ed inaccessibile del
pianeta costituiscono, tra l’altro, un
buon elemento di studio delle reazioni
fisiche e psicologiche dell’uomo alla
sopravvivenza in ambienti e condizioni
estreme in vista di un possibile viaggio
interplanetario. In Antartide, infatti, i
ritmi circadiani si stravolgono a causa
di una luce diurna di 24 ore per sei mesi
e di un buio notturno di 24 ore per altri
sei mesi. In realtà l’alba ed il crepusco-
lo antartico riducono il buio a circa 4
mesi l’anno. La temperatura ambienta-
le, inoltre, scende durante l’inverno a 80
gradi sottozero ed oltre. I venti posso-
no raggiungere i 300 Km/h. L’umidità
dell’aria è quasi assente al punto che,
pur trattandosi di un continente delle
dimensioni di una volta e mezzo l’Eu-
ropa interamente ricoperto da ghiaccio,
viene considerato il deserto più esteso
della Terra.
In tali condizioni la sopravvivenza è
consentita da un ottimo stato di salute,
da un abbigliamento tecnologicamente
evoluto, da ambienti adeguatamente ri-
scaldati. Gli “esploratori” sono in realtà
studiosi particolarmente specializzati
nelle rispettive aree di competenza e
tecnici di alta professionalità in grado di
sopperire alle numerose esigenze logi-
stiche.
In tutto questo sistema altamente tec-
nologico e specialistico viene richiesta
la figura di uno o due medici che sia-
no meno specializzati possibile visto
che si trovano ad operare da soli sen-
za nessuna possibilità di aiuto esterno
come invece avverrebbe in un ambiente
sviluppato. Per coloro che hanno più di
qualche capello bianco, ammesso che
abbiano ancora capelli, un richiamo alla
gloriosa figura del medico condotto for-
se può indicare la tipologia professio-
nale richiesta. Era un medico tuttofare,
dalla medicina interna alla otorinolarin-
goiatria, dalla ostetricia all’odontoiatria
e, paradossalmente, i suoi pazienti gli
dimostravano stima e affetto. Dico pa-
radossalmente in quanto la logaritmica
evoluzione dell’arte medica nel dispera-
to tentativo di assimilarsi ad una scien-
za esatta ha recentemente dimostrato
quanto, più di ogni altra branca, si sia
sviluppata soprattutto la “medicina di-
fensiva”. Nel mondo occidentale ed in
ossequio alla evoluzione tecnologica
non solo si sono sviluppate molteplici
branche specialistiche, ma siamo addi-
rittura giunti ad una superspecializza-
zione. Nel mio caso, essendo ortopedi-
co e … con i capelli bianchi o almeno
brizzolati, ho assistito alla comparsa di
super branche come l’artroscopia e già
intravedo iperspecialisti dedicati solo
alla spalla o solo al ginocchio.
Se volessimo partecipare ad un bando di
14
concorso per essere medico di spe-
dizione su una navicella in partenza
per Marte, ammesso e non conces-
so che sia prevista la presenza di
un medico dato lo spazio ristretto a
bordo, come dovremmo qualificar-
ci? Essere un buon internista non
coprirebbe l’esigenza di effettuare
un intervento chirurgico d’urgen-
za, pur avendo a disposizione tut-
ta lo strumentario necessario così
come un anestesista, normalmente
pronto ad affrontare una situazione
di emergenza avrebbe difficoltà a
trattare una frattura. E se fosse ne-
cessario trattare una pulpite?
Cosa può fare il mondo della me-
dicina per prepararsi ad affron-
tare le sfide del futuro, beninteso
senza nulla togliere alla necessità
di avere professionisti prepara-
ti adeguatamente per fronteggia-
re le problematiche del presente?
Potrebbe sembrare un paradosso
dopo quanto ho appena scritto, ma
probabilmente occorrerebbe una
… specializzazione in “Medicina
degli Ambienti Estremi”.
Occorre ripartire da una materia
quale la “semeiotica”, ultimamen-
te troppo trascurata vista la facilità
con cui gli esami strumentali pos-
sono aiutarci nella diagnosi. E la
logica deduttiva che partendo dalla
anamnesi patologica prossima, e
non solo, e dai segni di un accurato
esame obiettivo ci induca a restrin-
gere il campo delle possibilità. An-
che se tutto ciò può sembrare anti-
storico tali radici dell’arte medica
costituiscono ancora oggi ciò che
differenzia il medico dal tecnico.
In un ambiente remoto, ove la dia-
gnostica strumentale non puo sup-
portare il medico se non in minima
misura, la sua abilità diagnostica,
prima ancora della sua capacità te-
rapeutica, costituisce un elemento
fondamentale che può fare la dif-
ferenza nella tutela della salute del
singolo componente del team o di
tutto il team. Certo non bisogna ri-
fiutare a priori ciò che la tecnolo-
gia può metterci a disposizione, ma
per questioni di spazio e per i costi
da affrontare non si può prevedere
di avere a disposizione quanto nor-
malmente è presente in un ambien-
te ospedaliero.
Un sicuro vantaggio per il medi-
co di spedizione può derivare, e
di fatto in Antartide deriva, da una
approfondita visita medica di sele-
zione prima della partenza. Avere
la certezza di confrontarsi con una
popolazione sana limita di per sé il
campo delle possibili patologie in-
sorgenti. Non tutto può escludersi
dato che non è possibile, anche per
motivi medico-legali, ricorrere a
diagnostica invasiva e che la forte
motivazione individuale potrebbe
indurre i candidati a “trascurare”
di informare l’esaminatore circa
alcune patologie pregresse o alcuni
sintomi importanti, tuttavia l’espe-
rienza di 25 anni di attività in am-
biente remoto non mi ha mai evi-
denziato problematiche che siano
sfuggite alla selezione medica.
Non è questa la sede per gettare il
sasso nello stagno, ma, forse, un
maggiore ricorso ad una semeio-
tica accurata riservando il ricorso
alla diagnostica strumentale solo al
chiarimento di dubbi o incertezza
potrebbe essere di aiuto anche alle
disastrate risorse economiche della
sanità nel nostro Paese.
Boswellia Carterii Boswellia Carteri o incenso africano
Immunomodulante, antinfiammatorio, antiflogistico, antidolorifico, antiedemigeno. Coadiuvante nelle malattie infiammatorie croniche, reumatiche e autoimmuni, colite
ulcerosa, morbo di Crohn, fibromialgia, psoriasi, neurodermite, sclerosi multipla.
Boswellia serrata Acts on Cerebral Edema in Patients Irradiated for Brain Tumors A Prospective, Randomized, Placebo-Controlled, Double-Blind Pilot Trial
Simon Kirste, MD1; Markus Treier, MD2; Sabine Jolie Wehrle, MD1; Gerhild Becker, MD3; Mona Abdel-Tawab, PhD4;
Kathleen Gerbeth4; Martin Johannes Hug, PhD5; Beate Lubrich, PhD5; Anca-Ligia Grosu, MD1; and Felix Momm, MD1
Boswellia serrata (BS) is an extract of Indian frankincense. There are very few published data about the effects of BS in brain
edema and brain tumors. The most promising study came from Streffer et al,1 who investigated the use of the BS prepara-
tion H15 in 12 patients with cerebral edema and demonstrated a clinical or radiological response in 8 of 12 patients.
Boeker and Winking2 had similar results in a small prospective study. In a systematic review, Ernst3 found 7 controlled
clinical trials investigating the anti-inflammatory effects of BS. These studies were related to the treatment of asthma,
rheumatoid arthritis, Crohn disease, collagenous colitis, and osteoarthritis. No serious safety issues were raised in any of
the published BS trials. We conducted a randomized, placebo-controlled, double-blind study to investigate the efficacy of
BS on cerebral edema in patients irradiated for brain tumors.
MATERIALS AND METHODS
Patients A total of 44 patients were enrolled in the trial. Demographic, tumor, and radiotherapy data are depicted in Table 1. The 2 randomly assigned groups were well balanced. The CONSORT flow chart for the study is given in Figure 1. All patients received whole brain radiotherapy or partial brain radiotherapy to more than 60% of brain volume. Whole brain radiotherapy was planned by 2-dimensional x-ray simulation, whereas partial brain radiotherapy was 3-dimensional
Corresponding author: Felix Momm, MD, Department of Radiation Oncology, University Hospital Freiburg, Robert-Koch-Str. 3, 79106 Freiburg, Germany; Fax:
1Department of Radiation Oncology, University Hospital Freiburg, Freiburg, Germany; 2Department of Neuroradiology, University Hospital Freiburg, Freiburg, Ger-
many; 3Palliative Care Unit, University Hospital Freiburg, Freiburg, Germany; 4Central Laboratory of German Pharmacists, Eschborn, Germany; 5Pharmacy of the
University Hospital Freiburg, Freiburg, Germany
DOI: 10.1002/cncr.25945, Received: August 27, 2010; Revised: December 19, 2010; Accepted: December 28, 2010, Published online February 1, 2011 in Wiley
Online Library (wileyonlinelibrary.com)
3788 Cancer August 15, 2011
BACKGROUND: Patients irradiated for brain tumors often suffer from cerebral edema and are usually treated with
dexamethasone, which has various side effects. To investigate the activity of Boswellia serrata (BS) in radiotherapy-
related edema, we conducted a prospective, randomized, placebo-controlled, double-blind, pilot trial. METHODS:
Forty-four patients with primary or secondary malignant cerebral tumors were randomly assigned to radiotherapy
plus either BS 4200 mg/day or placebo. The volume of cerebral edema in the T2-weighted magnetic resonance imag-
ing (MRI) sequence was analyzed as a primary endpoint. Secondary endpoints were toxicity, cognitive function, qual-
ity of life, and the need for antiedematous (dexamethasone) medication. Blood samples were taken to analyze the
serum concentration of boswellic acids (AKBA and KBA). RESULTS: Compared with baseline and if measured imme-
diately after the end of radiotherapy and BS/placebo treatment, a reduction of cerebral edema of >75% was found in
60% of patients receiving BS and in 26% of patients receiving placebo (P ¼ .023). These findings may be based on an
additional antitumor effect. There were no severe adverse events in either group. In the BS group, 6 patients reported
minor gastrointestinal discomfort. BS did not have a significant impact on quality of life or cognitive function. The
dexamethasone dose during radiotherapy in both groups was not statistically different. Boswellic acids could be
detected in patients’ serum. CONCLUSIONS: BS significantly reduced cerebral edema measured by MRI in the study
population. BS could potentially be steroid-sparing for patients receiving brain irradiation. Our findings will need to be
further validated in larger studies. Cancer 2011;117:3788–95. VC 2011 American Cancer Society.
radiotherapy in the brain; (4) age >18 years; and (5) writ- ten informed consent. Exclusion criteria were (1) Karnof-
sky index <50; (2) pregnancy; (3) dexamethasone >24 mg/day before radiotherapy; and (4) lack of adequate physical/psychological condition to provide written informed consent.
BS and Placebo
After careful advice from pharmacists considering con- tents, standardization, and availability, the BS product H15 (350 mg; Hecht Pharma, Stinstedt, Germany) was selected for use in the study. H15 does not contain any other ingredients apart from BS. The capsules were bought by the pharmacy of the University Hospital Frei- burg. Lot numbers of the product were exactly listed. The manufacturer was not informed about the trial.
After consulting with a pharmacologist, the dosage in the active treatment group was set at 4200 mg/day
Duration of radiotherapy
and BS/placebo, wk, mean
3.0 3.3 (3x4 capsules/day), primarily because of potential diffi- culties associated with swallowing a large number of cap-
sules. Because BS is available as a dietary supplement and no considerable adverse effects have been reported, there was no defined maximum dose. It is noteworthy that
2
Nucletron, Veenendaal, The Netherlands). Radiotherapy Boeker and Winking reported better results with 3600
was delivered by a 6MeV linear accelerator (Varian Clinac 600C).
Study Design
In Germany, H15 (the Boswellia preparation used for the current study) is sold as a dietary supplement. Because H15 has no reported adverse effects, a classical phase 1 dose escalation study to find a maximum tolerated dose was deemed unnecessary, and we decided to conduct a pilot trial. A double-blind, randomized design was selected to obtain data reflecting the smallest bias possible. The study did not change the well-established radiother- apy for brain tumors in any way, and it did not pose an extra risk for the patients.
All patients gave written informed consent to partici- pate in the study. The study was approved by the ethics committee of the Albert-Ludwigs-University Freiburg and was performed according to the Declaration of Helsinki.
Inclusion and Exclusion Criteria
Inclusion criteria were (1) primary brain tumor or brain metastases; (2) radiotherapy of whole or part of the brain
(>60% of brain irradiated) with a dose of 30-60 Gy in a fractionation of 5 x 1.8-3.0 Gy/week; (3) no former
mg BS extract than with 2400 mg and reported no effects with 1200 mg.
Placebo capsules contained the excipient lactose.
Blinding and Randomization
Randomization was performed by a pharmacist using a computer-generated randomization schedule over 48 treatment numbers. Allocation was performed using bal- anced blocks of 4 distributing BS/placebo 1:1. A consecu- tive treatment number was allocated to the individuals included in the trial.
For blinding, H15 capsules were sealed in another capsule in the pharmacy. Using these double-layer capsu- les, the characteristic smell of BS could not be perceived. Placebo capsules containing lactose were produced with the same coating. Supply for 1 week was transferred into plastic boxes, which were labeled with the individual patient treatment number.
The BS/placebo capsules were delivered to the Department of Radiation Oncology at University Hospi- tal Freiburg. For security reasons, envelopes for emer- gency decoding were also transferred to blinded staff. The randomization code was kept in the pharmacy until the study ended and the database was closed. No emergency envelope was opened. This procedure ensured that all
Cancer August 15, 2011 3789
17
Original Article
Figure 1. A CONSORT flow diagram for the study is shown.
patients and staff were blinded. Additionally, the primary endpoint was rated by an independent neuroradiologist who did not know the patients and only disposed of the magnetic resonance images.
Study Course After providing written informed consent, patients received the BS/placebo in consecutive order following the randomization list in a box containing 84 capsules for
1 week (3X4 capsules/day starting with the first day of radiotherapy). Baseline examinations and weekly study visits (physical examination, EORTC-QLQ 30, mini- mental state, Common Toxicity Criteria [CTC], dexa- methasone medication) were performed by a physician. On every study visit, each patient returned the empty box and received the BS/placebo for the next week. After con- sidering the clinical status of each patient, the necessary dexamethasone dose was defined. At the end of radiother-
apy, BS/placebo was discontinued. The first follow-up visit occurred 4 weeks after the end of radiotherapy.
Study Endpoints The primary study endpoint was cerebral edema volume on T2-weighted magnetic resonance imaging (MRI) after therapy compared with volume at baseline (ie, before the
start of radiotherapy). Edema volume (cm3) was calcu- lated by multiplying the edema extent in 3 directions (x, y, z). Midline shift and size of ventricles were also meas- ured. MRI imaging was performed at 3 time points: before the start of therapy, at the end of therapy, and 4 weeks after the end of radiotherapy (plus BS/placebo).
The secondary endpoints of the study were dexa- methasone medication (mg/week), toxicity (RTOG/ EORTC-CTC score), quality of life (average functioning scales of the EORTC-QLQ 30), cognitive functioning (mini-mental state examination), and progression-free
3790 Cancer August 15, 2011
18
Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al
survival. In addition, serum levels of boswellic acids were measured via high-performance liquid chromatography combined with mass spectrometry.
Dexamethasone dose was determined by each patient’s clinical situation before and during therapy. The dose was increased when symptoms of intracranial pres- sure occurred; it was decreased when the patient was asymptomatic. Because the study was a double-blind one, the physicians responsible for the dexamethasone dose did not introduce a bias. Dexamethasone doses were given as median and range, because the mean values were biased by single outliers. Data about the duration of steroid ther- apy prior to beginning radiotherapy were not collected.
Serum Levels of BS
Serum levels of boswellic acids have been shown to reach a peak 1-2 hours after oral ingestion and plateau 2 hours
later.4 The specified pharmacokinetic profile was verified in a test with a male subject; after oral ingestion of 1750 mg BS (H15), serum levels of the boswellic acids AKBA and KBA were measured hourly for 6 hours. This test proved that it was possible to take patients’ blood samples during the plateau phase at any time of the day.
Extracts from different Boswellia species consist of
different boswellic acid compounds.5 The BS preparation used (H15) is known to contain AKBA and KBA in rele-
vant concentrations.6 In the test subject, KBA serum levels up to 34.23 ng/mL were found. AKBA was found in low serum concentrations, with a maximum of 2.83 ng/mL and a minimum of 1.16 ng/mL, which is near the detec- tion limit. AKBA could not be shown in the study patients’ serum. This may be due to concentrations below the detection limit of 1 ng/mL.
Measurement of boswellic acid concentrations was performed in the Central Laboratory of German Pharma- cists (Eschborn, Germany). The blood samples were cen-
trifuged, and the serum was frozen at �80�C
immediately. The high-performance liquid chromatogra- phy/tandem mass spectrometry method for analysis has been published elsewhere.4
Statistics
In addition to descriptive statistics, the Wilcoxon rank
test (BS group versus placebo group) for significance (P < .05) was performed. For 2-sided testing, a power of 80% and a ¼ 0.05 a sample size of n ¼ 19 for each group was calculated and rounded up to n ¼ 20 per group. For better demonstration of the results, edema response was classi- fied according to the following groups: (1) increase of
Figure 2. Results are shown for the primary endpoint: relative
volume of cerebral edema compared with baseline for Bos- wellia serrata versus placebo after therapy and at follow-up (4 weeks after therapy).
edema, >105% of baseline (5% error); (2) constant edema, 75%-105% of baseline; (3) slight decrease of edema, 25%-75% of baseline; (4) large decrease of edema,
<25% of baseline. The raw data were the basis for statisti- cal testing.
Analysis of progression-free survival was performed using the Kaplan-Meier method and log-rank test. For data management and statistical calculations, Microsoft Excel 2002, jmp 5.01 (SAS Institute), and Sigma Plot 8.0 (SPSS) were used.
RESULTS
MRI Measurements
At the end of radiotherapy and at the first follow-up visit the relative changes of edema volume compared with baseline were evaluated. At the end of radiotherapy, 60% of patients who had received BS reached a decrease of
edema to <25% of baseline values or showed no edema at all. In the placebo group, only 26% of patients reached this optimal outcome (Figure 2). At that point, 13% of BS group patients and 21% of placebo group patients had
an increase of edema volume to >105% of the baseline value. At follow-up, 4 weeks after the end of therapy and
Cancer August 15, 2011 3791
19
Original Article
Figure 3. T2-weighted magnetic resonance images of a patient from the Boswellia serrata group with metastases from lung cancer (adenocarcinoma) are shown (a) at baseline, (b) after radiotherapy, and (c) at follow-up (4 weeks after radiotherapy).
after discontinuing BS or placebo, the changes of edema volumes in both groups converged again (Figure 2).
The measured and calculated average volume of edema at baseline was 188.4 mL (range, 0-617.3 mL) in the placebo group and 159.3 mL (range, 0-506.2 mL) in
the BS group (P ¼ .86). During radiotherapy, these values
changed to 97.4 mL (range, 0-346.8 mL) in the placebo group and 45.7 mL (range, 0-264.0 mL) in the BS group
(P ¼ .023). After 4 weeks of follow-up, the values were
83.3 mL (range, 0-352.7 mL) and 73.9 mL (range, 0- 413.1 mL), respectively.
Typical MRI pictures of a patient receiving BS are shown in Figure 3. This patient did not need any dexa- methasone while on radiotherapy.
Stratifying the patients into primary and secondary brain tumors did not change the results. Due to low patient numbers in the subgroups, stratified results were not significant.
Because tumor response on radiotherapy may have a remarkable effect on edema outcome, this endpoint was investigated carefully. In the BS patients, tumor volume
(biggest lesion) changed from an average of 24.4 cm3
before radiotherapy to 2.9 cm3 after radiotherapy com-
pared with 19.9 cm3 to 16.1 cm3 in the placebo group.
This difference was statistically significant (P ¼ .008). Tu- mor response was also evaluated according to Response Evaluation Criteria In Solid Tumors (RECIST). In the placebo group, 18% of patients had progressive disease (PD), 36% stable disease (SD), 36% partial response (PR) and 10% complete response (CR). In the BS group, 0% had PD, 62% had SD, 25% had PR, and 13% had CR.
To investigate whether the BS group was experienc- ing primary edema reduction or secondary edema reduc- tion via a decrease in tumor volume, the ratio of T1-
weighted MRI tumor volume and T2-weighted MRI edema volume (T1/T2 ratio) was calculated. Before ther- apy, this ratio was 0.11 in the placebo group and 0.15 in the BS group. After therapy, it was 0.15 in the placebo group and 0.06 in the BS group. This may be a hint for the edema reduction by BS depending on an additional antitumor effect.
The MRI measurements of midline shift and the size of ventricles correlated with edema size but did not adduce significant results.
Use of Dexamethasone In the placebo group as well as the BS group, the median value of dexamethasone dose was 0 mg/wk before and during therapy. The ranges before therapy were 0-84 mg/ wk in the placebo and 0-112 mg/wk in the BS group. The ranges during therapy were 0-122 mg/wk in the placebo group and 0-84 mg/wk in the BS group. These differences were not statistically significant.
Adverse Effects Common adverse effects of radiotherapy were the same in the placebo and the BS group (dermatitis, alopecia). Symptoms of increased intracranial pressure (nausea, vomiting, dizziness, epileptic seizures, and headache) recorded by RTOG/EORTC-CTC score are shown in Table 2. Two patients had grade 3 and 4 toxicity, both of whom were in the placebo group (nausea grade 3 in 1 patient and epileptic seizure grade 4 in 1 patient). The patient with the epileptic seizure had to discontinue radio- therapy and the study.
In 6 patients from the BS group, diarrhea grade 1-2 occurred compared with no patients from the placebo
3792 Cancer August 15, 2011
20
Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al
Table 2. Intracranial Pressure Symptoms During Therapy, Numbers of Patients
CTC indicates Common Toxicity Criteria; VAS, visual analogue scale.
group. There occurred no other adverse effect associated with the BS group or placebo group.
Many patients had a significant problem swallowing 12 relatively large capsules of BS or placebo per day, but most of the patients learned to cope with this problem. One patient who had metastases from esophageal cancer could not swallow the capsules. Two patients refused to further swallow the capsules and discontinued the study in the first treatment week.
Quality of Life and Mental Functioning The median Karnofsky index of the BS and placebo patients at baseline was 70 and 80, respectively. It did not change remarkably during radiotherapy (80 and 70 at the end of radiotherapy). After 4 weeks of follow-up the me- dian Karnofsky index was 80 in both groups. All differen- ces were not statistically significant.
Quality of life was measured using the EORTC QLQ-30 questionnaire at baseline, after radiotherapy, and after 4 weeks of follow-up. Using the functional scales (physical, role, emotional, cognitive and social function- ing, and global health status), the patients in the placebo and the BS group at baseline reached an average score of
55.9 and 54.3 points, respectively (maximum, 100 points). After radiotherapy and after 4 weeks of follow- up, the BS group scored slightly better, with 58.6 and 61.3 points, respectively, compared with 56.2 and 53.8 points in the placebo group. The differences were not stat- istically significant. All patients had a comparatively low quality of life.
In addition to the EORTC-QLQ 30 questionnaire, the patients underwent a mini-mental state test (MMT). The average MMT score at baseline was 28 points in the placebo group and 29 points in the BS group (maximum, 30 points). At the end of radiotherapy and after 4 weeks of follow-up, the BS patients reached an average of 27 and 29 points, respectively, versus 28 and 26 points in the pla-
Figure 4. A Kaplan-Meier plot is shown for progression-free survival. Patients who failed died or had tumor recurrence; patients who were censored were alive and were recurrence-
free at their last visit (log-rank test, BS versus placebo; P ¼ .68).
cebo group. The differences were not statistically significant.
At baseline, 100% of EORTC-QLQ 30 and MMT questionnaires in both groups were evaluable. After radio- therapy, 81% of the EORTC-QLQ 30 and 80% of the MMT questionnaires were evaluable. After 4 weeks of fol- low-up, 55% of the EORTC-QLQ 30 and 55% of the MMT questionnaires were evaluable. Missing question- naires were due to patient noncompliance or death shortly after therapy. This may bias the quality of life results.
Progression-Free Survival Progression-free survival, which could be a parameter for an antitumor effect of BS, did not differ between the 2 groups. This is shown by Kaplan-Meier plots in Figure 4
Cancer August 15, 2011 3793
21
Original Article
(P ¼ .68; log-rank test, BS vs placebo). The median fol- low-up time was 250 days.
Boswellic Acid Serum Levels To prove BS uptake in the patients, the serum levels of the boswellic acids KBA and AKBA were measured. AKBA could not be shown in any of the 48 examined samples (concentration under the detection limit), and KBA was not shown in any of the 24 placebo patient samples. In 19 of the 24 BS samples, an average concentration of 64.9 ng/mL (range, 5.12-153.49 ng/mL) KBA was seen. In 5 of the BS samples, no KBA was found. Two of these samples came from patients who did not continue the study later on; 3 samples came from patients whose other samples were positive and who had difficulties with medication compliance.
In the patient with the highest BS serum levels (5 samples, all positive with an average KBA concentration of 123.1 ng/mL [range, 53.25-153.49 ng/mL]) one of the largest edema reductions was observed. His edema volume was reduced by more than 300 mL from baseline to the time after radiotherapy.
DISCUSSION In addition to spiritual use, Boswellia or frankincense has been used as a medication for hundreds of years.7 In recent years, mechanisms of action of boswellic acids have
been identified.8 Takada et al9 showed that AKBA can potentiate apoptosis, inhibit invasion, and abolish osteo- clastogenesis in different human cancer cell lines. The mechanism of these actions was found to be a suppression of nuclear factor jB (NF-jB) and NF-jB-regulated gene expression. It was further shown that boswellic acids pos- sess potent anti-inflammatory properties in vitro by inhib- iting 5-lipoxygenase, human leukocyte elastase, and the
NF-jB pathway.10,11 Cathepsin G was identified as
another target of boswellic acids.11
In clinical research, positive effects of boswellic acids in the treatment of inflammatory diseases could be
shown.3,12 There exist clinical trials about the use of bos-
wellic acids in asthma,13 rheumatoid arthritis,14 Crohn
disease,15 collagenous colitis,16 and osteoarthritis of the
knee.17,18 To our knowledge, there exist only first clinical observation results for the treatment of cerebral edema by
boswellic acids.1,2
In our study, patients taking BS extract had signifi- cantly less cerebral edema than patients taking placebo,
whereas the median dexamethasone dosage was the same in the BS and the placebo group.
As cerebral edema and its inflammatory processes are major causes of morbidity in brain tumor patients the treatment of these phenomena has always been of high importance. The most effective medication for cerebral edema patients is steroids, in most cases dexamethasone. However, steroids have reasonable adverse effects as immunosuppression, mental changes, or even Cushing syndrome. Furthermore, there is evidence that dexameth- asone influences cancer therapies through stabilization of blood-brain and blood-tumor barriers and reduction of
tumor perfusion.19 Several years ago, it was shown that the use of steroids influences vascular response to radia-
tion20 and directly inhibits apoptosis in human malignant
glioma cells.21 However, in spite of strong efforts, an adequate replacement medication for dexamethasone has not been found yet. Boswellic acids could be the basis for
a new kind of anti-inflammatory and thus antiedema medication with decreased adverse effects, the additional induction of apoptosis, and no modulation of drug (and
radiation) sensitivity.19 In addition to the first clinical
results,1,2 our study may be a further step in this direction. In this study, patients receiving BS showed a better
tumor response to radiotherapy. This was not a planned endpoint, and therefore, it has to be considered carefully. Nevertheless, this observation may be a hint to a cytotoxic or radiosensibilizing effect of BS which will have to be investigated in further studies with long-time BS medica- tion. It also has to be determined whether the impact of BS on cerebral edema may be caused by an antitumor
effect. The prospective, randomized, placebo-controlled,
double-blind design of this study makes its results highly reliable. Nevertheless, the study will have to be confirmed by a phase 3 trial. In the design of such a study, some weaknesses of the reported trial should be considered. First, most of the patients had problems swallowing 12 large capsules a day; future trials should attempt to pro-
vide the boswellic acids in a more concentrated form.22
Another possibility could be the development of a BS product with an isolated acting component and applicable intravenously. Second, considering the excellent toxicity profile of BS, a phase 3 study should use an even higher dose, particularly if the BS product can be more highly concentrated. Third, the food of the patients on study
should be closely observed. It was shown by Sterk et al23
that food intake can remarkably change the bioavailability of boswellic acids. By adding fat to normal nutrition, the
3794 Cancer August 15, 2011
22
Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al
serum levels of BS could be further increased. Fourth, the measurement of quality of life should be better adapted to the situation of brain tumor patients; neither the MMT nor the EORTC QLQ 30 seems to be the best instrument for quality of life measurements in this context. A further study might use more individual instruments tested in
palliative care, such as the SEIQoL.24 Fifth, duration of dexamethasone medication before the study should be recorded, and an exact schedule for decreasing dexametha- sone dose should be given. Finally, the effect of BS on the tumor should be included as a study endpoint.
A future phase 3 trial should consider the most im- portant points for a potential clinical benefit of BS: an effect on cerebral edema with possible reduction of the necessary dexamethasone dose and an antitumor effect. It will have to be investigated whether both are reflected in patients’ quality of life.
In our patients, BS significantly reduced cerebral edema measured by MRI. There were no severe adverse events concerning BS. The results of this study do not sug- gest the use of BS as a replacement of dexamethasone in patients treated with brain irradiation; nevertheless, they show that BS could allow for steroid sparing. The study will have to be confirmed by further investigations.
CONFLICT OF INTEREST DISCLOSURES The authors made no disclosures.
REFERENCES 1. Streffer JR, Bitzer M, Schabet M, et al. Response of radio-
chemotherapy-associated cerebral edema to a phytotherapeu- tic agent, H15. Neurology. 2001;56:1219-1221.
2. Boeker DK, Winking M. The role of boswellic acids in therapy of malignant glioma [in German]. Dt Aerztebl. 1997;94:1197-1199.
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Cancer August 15, 2011 3795
23
a cura Anna Frisinghelli FESC
UO Cardiologia riabilitativa
AO “G Salvini” - Garbagnate Milanese MI
Cardiologia riabilitativa ancora troppo pochi i pazienti che ne usufruiscono
La Cardiologia Riabilitativa (CR) è un processo multifattoriale,
attivo e dinamico, che ha come fine quello di favorire la stabi-
lità clinica, di ridurre le disabilità conseguenti alla malattia e di
supportare il mantenimento e la ripresa di un ruolo attivo nella
società, con l’obiettivo di ridurre il rischio di successivi even-
ti cardiovascolari, di migliorare la qualità di vita e di incidere
complessivamente in modo positivo sulla sopravvivenza.
Nel nuovo millennio, di fatto possiamo affermare che la CR
è quella branca della cardiologia clinica che si occupa del pa-
ziente cardiopatico post-acuto nella sua totalità, avvalendosi di
una équipe multidisciplinare capace di lavorare in team [1]. E’
quindi un intervento a lungo termine, omnicomprensivo, arti-
colato in diversi momenti complementari tra loro: valutazione
medica/cardiologica; ottimizzazione della terapia; prescrizio-
ne dell’esercizio fisico; correzione dei fattori di rischio CV;
counselling.
Oggi, in Europa e in USA, vi è accordo sul fatto che un inter-
vento di CR - quando indicato e appropriato - migliori l’outco-
me dei pazienti rispetto alla “usual care”, e questa branca della
cardiologia è ampiamente riconosciuta come il modello stan-
dard per il trattamento globale del paziente cardiopatico in fase
post acuta o cronica, rappresentando il modello più efficace e
cost-effective per una prevenzione secondaria efficace.
Per questi motivi, la CR è raccomandata con il più alto livello
di evidenza (classe I) dalle Linee Guida (LG) ESC e ACC/AHA
per il trattamento dei pazienti affetti da cardiopatia ischemica,
scompenso cardiaco cronico o da esiti di recente cardiochirur-
gia.
Tuttavia, nonostante le raccomandazioni delle LG, nel mondo
reale le cose vanno diversamente. Come dimostrato nel 2008
dalla survey ISYDE, che ha raccolto dati
relativi all’attività di 165/190 centri di CR
su tutto il territorio italiano, solo 1/3 circa
dei pazienti eleggibili a interventi di CR
usufruisce effettivamente di tali program-
mi (e ciò è ancora più evidente per i pa-
zienti con scompenso, che solo nel 12%
circa dei casi risultavano avviati a un pro-
gramma di CR).
E’ evidente quindi che esistono delle bar-
riere all’accesso alla CR, che sono di tipo
culturale (l’assistenza cardiologica, nel
nostro Paese, ma non solo, è culturalmente
orientata più verso la fase acuta che verso
la fase post-acuta o cronica; ne consegue
la scarsa richiesta di accesso alle strutture
riabilitative da parte di quelle per acuti per
una sottovalutazione dell’importanza di
questo collegamento e per una sopravva-
lutazione dei risultati a lungo termine dei
trattamenti effettuati in fase acuta), e anche
di tipo economico (il problema della soste-
nibilità di programmi di esercizio e preven-
zione secondaria articolati in prestazioni
multidisciplinari e quindi apparentemente
costosi; il grande numero di pazienti po-
tenzialmente candidati a CR a fronte di una
recettività ancora insufficiente, soprattutto
nelle regioni del Centro-Sud).
In realtà, come già detto, è dimostrato che
24
la CR è un intervento con un rapporto costo-efficacia molto
favorevole, sia dopo un evento coronarico che dopo un episo-
dio di scompenso; che è un intervento in grado di migliorare
la prognosi, riducendo le ospedalizzazioni e quindi le spese
per l’assistenza; e che i costi della CR per anno di vita salvato
sono paragonabili a quelli di altre terapia consolidate.
Quali sono le peculiarità di un programma di CR?
Il programma può essere ambulatoriale (percorso più agile e
meno costoso, indicato per i pazienti a “basso rischio”), oppu-
re degenziale (programmi intensivi, più complessi, di tipo om-
nicomprensivo), indicata per pazienti a “rischio medio-alto”.
Questi sono soggetti a rischio di nuovi eventi o di instabilizza-
zione clinica (ad es., pazienti con FE <35%, classe NYHA >II,
aritmie ipo- o ipercinetiche, o con necessità di terapia infusi-
va), oppure con decorso post-chirurgico complicato (ad es.,
per prolungata degenza in terapia intensiva, e/o necessità di
assistenza respiratoria), con complicanze “evento-correlate”
(ictus, embolia polmonare, necessità di reintervento, versa-
menti pleuropericardici massivi, infezioni, ferite complicate,
decubiti), con importanti comorbilità (BPCO, insufficienza re-
37 Siamo tutti Stakeholder! Come partecipare alle decisioni europee e conoscere in anticipo le linee guide sulla ricerca
“Chi decide le tematiche della ricerca?” e “Perchè l’Italia percepi- sce così pochi fondi?” sono le domande che sorgono più facilmente quando mi trovo ad affrontare il tema dei fondi europei. In questo articolo voglio esporre un concetto, riguardante la parteci- pazione alle scelte delle linee guida sulla ricerca diffuse dalla Com- missione Europea che vengono utilizzati nei bandi. Le “call” (bandi di sovvenzione) del VII Programma Quadro (per sovvenzioni alla ricerca) escono tipicamente a partire da Luglio di ogni anno e rimangono aperti per tre mesi circa. Con l’avvento di Horizon 2020 (per sovvenzioni alla ricerca dal 2014-2020) si pensa che le tempistiche rimangano invariate. Ritengo di fondamentale importanza far capire che è impossibile preparare un progetto da presentare alla Commis- sione Europea in così poco tempo. In questo articolo voglio dimostrarvi che anticipare le tempistiche per conoscere le linee guida sulla ricerca è possibile, basta essere un po’ più Stakeholder. Permettetemi la definizione alquanto economica di Freeman datata 1984 per introdurre il concetto di Stakholder: “Gli Stakeholder primari, ovvero gli Stakeholder in senso stretto, sono tutti quegli individui e gruppi ben identifi- cabili da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza. In senso più ampio Stakeholder è ogni individuo ben iden- tificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizza- zione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più am- pio significato, gruppi d’interesse pub- blico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sin- dacati e la stampa, sono tutti da considerare Stakeholder”. In termini più europeistici, gli Stakeholder sono tutti quei gruppi di interesse che influenzano le attività e le scelte della Commissione Europea nel definire le linee guida dei programmi di finanziamento. In ambito sanitario possono essere: associazioni di pazienti, associa- zioni di categoria, istituzioni pubbliche, gruppi di istituti privati, enti pubblici (ad esempio Regione Lombardia). La Commissione Europea, attraverso le direzioni generali, continua- mente pubblica richieste di consultazione dove gli stakeholder devo- no dichiarare i loro interessi su tematiche specifiche. Questo avviene anche per la ricerca (Direzione Generale Ricerca ed Innovazione) e per la sanità (Direzione Generale Salute e Consuma- tori). La consultazione è lo strumento principale utilizzato dalla Commis- sione Europea per decidere le linee guida future. Nel Luglio di ogni anno, all’apertura dei bandi del VII Programma Quadro, noi vediamo il frutto della consultazione degli Stakeholder insieme al lavoro della Commissione Europea che trasforma le linee guida in “call” per supportare la ricerca europea. L’intervallo di tempo che intercorre tra la consultazione e la “call” non è di brevissima durata. Siamo in grado quindi di poter parteci- pare alle decisioni o di capire in anticipo dove si concentreranno le sovvenzioni alla ricerca.
di Girolamo Simonetta Per dare una risposta più esauriente alle doman- de introdotte ad inizio articolo devo suddividere ulteriormente il mondo degli Stakeholder. Mitchell, nel 1997, suddivide gli stakeholder in base a tre fattori: potere, credibilità/diritto rico- nosciuto, impellenza In base a questo concetto non basta essere uno stakeholder per vedere realizzati i propri bi- sogni. In un’Europa formata da 27 stati, nella quale i bisogni sono diversi da stato a stato. Le decisioni prese dalla Commissione Europea
vengono quindi influenzate da- gli Stakeholder che hanno tutte e tre le caratteristiche sopra in- dicate. La nostra nazione, attualmente, non è in grado di identificar- si un “definitive stakeholder” poiché manca una linea unica di interesse da portare a livello europeo durante le consultazio- ni riguardanti la ricerca. Ognuno vuole coltivare il pro- prio orticello, quindi viene a mancare una linea di unità per poter influenzare le decisioni della Commissione Europea. I paesi che fanno da padrone durante le consultazione sono i paesi del Nord, non casual- mente sono quelli che ricevono più fondi per la ricerca. Il loro modo di agire è principalmente diverso dal nostro; essi adotta-
no una linea guida unica per più stati membri influenzando con il loro potere le decisioni della Commissione Europea. L’adozione di una linea guida comune unica influisce nettamente di più rispetto a diverse linee guida, differenti tra loro e presentate da un unico stato membro. In conclusione, quello che la nostra nazione deve essere in grado di fare è attirare l’interesse di tutti gli attori coinvolti nella ricerca per poter indicare una coerente linea guida da presentare alla Commissione Europea durante le consul- tazioni; noi dalla nostra parte possiamo essere più partecipi alla vita europea tenendoci costan- temente informati su ciò che è ricerca in ambito europeo.
Girolamo Simonetta
Europrogettista
Presidente EPCA
European Project
Consultants Alliance
Spin Off Un soluzione italiana vincente nella ricerca
di Valentina Vena
Fondamento delle innovazioni è sempre stata la ricer-
ca. Nel contesto attuale i singoli sono spinti a propor-
si individualmente, sviluppando iniziative di carat-
tere imprenditoriale. Già i D. Lgs. 297/1999 e D.M.
593/2000, prospettavano la possibilità di costituire
società finalizzate all’utilizzazione industriale dei ri-
sultati della ricerca con la partecipazione azionaria,
il concorso o l’impegno di professori, ricercatori uni-
versitari, università, im-
prese, società ed enti di
ricerca. Le Università
sono chiamate, quindi,
a perseguire le loro fina-
lità di carattere pubblico
anche attraverso stru-
menti privatistici di im-
presa. Opportunità, que-
sta, fattibile grazie allo
Spin Off Universitario
(SOU): un’iniziativa im-
prenditoriale, avviata da
ricercatori e professori
universitari ed esclusi-
vamente nella forma di
una società di capitali di
diritto privato, per la va-
lorizzazione economica
di trovati, know-how e
competenze della ricer-
ca accdemica.
Affinché sia possibile
si richiede al ricerca-
tore di pianificare ogni
aspetto organizzativo,
gestionale e finanziario finalizzato all’avviamento
dell’iniziativa, anche con il ricorso a società esterne o
sviluppando all’interno del proprio gruppo specifiche
competenze manageriali. L’economicità dell’opera-
zione esige, inoltre, la pianificazione nel breve perio-
do, di un equilibrio finanziario, che garantisca perdu-
rabilità alla società, soprattutto dopo il primo triennio,
quando dovrà essere in grado di svolgere la propria
attività senza alcun altro sostegno.
Il contributo dell’Ateneo è offerto nella fase di start
up delle iniziative, quando, coerentemente con le
proprie finalità, concede l’utilizzo di spazi e di attrez-
zature, riconosce la licenza per l’uso della dizione di
Spin-off dell’Università, inserisce le nuove iniziati-
ve imprenditoriali all’interno del sistema delle sue
relazioni con il tessuto economico ed istituzionale,
offre ai propri ricercatori la possibilità di accedere al
portafoglio della Proprietà
Intellettuale dell’Ateneo.
Alla base della costitu-
zione delle nuove socie-
tà è l’idea. Perché questa
possa essere di successo
è necessario che risponda
ad alcuni requisiti: l’O-
riginalità, l’Innovatività,
l’Applicabilità industria-
le, la Potenzialità di mer-
cato e la Difendibilità dei
prodotti.
L’iter di presentazione,
valutazione e approva-
zione o rifiuto, si articola
come nella flow chart ri-
portata in Figura 1.
Nella formulazione del
Business Plan il gruppo
di ricercatori può essere
supportato da una terza fi-
gura, costituita all’interno
dello stesso Ateneo: il Di-
partimento per la Ricerca.
Quest’ultimo non si occu-
pa unicamente dell’avviamento dei progetti impren-
ditoriali, ma costituisce il vero e proprio incubatore
della ricerca, all’interno dell’Università, favorendo
anche la sensibilizzazione e l’informazione in merito
alle opportunità offerte dagli SOUs.
Coloro, i quali fossero interessati a porre in essere
iniziative di SOU, sono invitati a prendere contatto