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Riforme elettorali e crisi dello stato liberaleLa
‘proporzionale’ 1918-1919
di Serge Noiret
NelPintervenire sull’introduzione della nuova legge elettorale
nel 1919, si tratterà solo in parte di integrare modelli teorici
sui sistemi elettorali nonché di interrogarsi sul loro valore
intrinseco, quasi di filosofia del diritto pubblico, o di entrare
nel merito di un dibattito teorico sul legame tra società, sistema
elettorale e sistema politico-partitico. Tali modelli eventuali ci
interessano infatti soltanto in una prospettiva storica e
comparata.
Questa ricerca riguarda l’avvento di una società di massa nel
primo dopoguerra italiano, la crisi della classe politica di uno
sta
to liberale di notabili, le cause e gli effetti
dell’introduzione — tra il 1918 e il 1919 — di una nuova legge
elettorale. È dunque certo che il lettore non deve aspettarsi di
trovare sullo sfondo — con il pretesto di analizzare la legge del
1919 — una disquisizione pro o contro la rappresentanza
proporzionale a partire da un caso storico particolare: l’Italia
liberale del primo dopoguerra1. Troppo spesso si è caduti, in
Italia e in altri paesi, nel difetto di proporre una riflessione
storica che servisse gli interessi momentanei dei partiti o delle
culture politiche in cerca di legittimazione scientifica2.
Questo saggio è la rielaborazione di una relazione tenuta nel
gennaio 1988 al seminario su “Le riforme elettorali e il sistema
politico italiano fra ’800 e ’900”, organizzato dal Dipartimento di
storia dell’Università di Firenze e coordinato da Zeffiro
Ciuffoletti e Mario G. Rossi.1 Non vogliamo rivisitare il passato
con una lettura “partigiana” del presente, come propone per esempio
in Francia Jean-Marie Cotteret con il suo Sens et non-sens de la
représentation proportionnelle, in Droit insititutions et systèmes
politiques. Mélanges en hommage à Maurice Duverger, Paris, Presses
Universitaires de France, 1987, pp. 277-282, ribadendo un
atteggiamento scientifico consono al modo poco duttile di
affrontare la politica in Francia non soltanto da parte della
classe politica, ma anche da parte dei politologi. (A questo
proposito basta leggere con quanta carica antiproporzionalista è
stato scritto il saggio del costituzionalista Jacques Cadart, La
diversité des systèmes électoraux des pays de l ’Europe occidentale
et leurs effets comparés, in J. Cadart (a cura di), Les modes de
scrutin des dix-huit pays libres de l ’Europe occidentale. Leurs
résultats et leurs effets comparés. Elections nationales et
européennes, Paris, Presses Universitaires de France, 1983, pp.
13-28.) Si pensi a come, già nel 1912, il costituzionalista Joseph
Berthélémy indicava la differente maniera con la quale si
affrontava il tema delle riforme elettorali in Francia o nel Belgio
dove esisteva “le sens précieux en politique du relatif, du
transitoire, du complexe”, J. Barthélemy, L ’organisation du
suffrage et l ’expérience belge, Paris, Giard & Briere, 1912,
p. 746.2 Stein Rokkan stigmatizza le polemiche tra difensori di
sistemi diversi “anche quando sono rivestiti dei panni del dialogo
accademico”, in S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Bologna,
Il Mulino, 1982, pp. 257-258 e pp. 260- 261, quando scrive: “i
contributi allo studio dei sistemi elettorali saranno inefficienti
e poco affidabili fintanto che la motivazione principale [...]
riguarderà i pro e i contro dei diversi schemi di ingegnerie
elettorali [...]” Quanto oggi sia in realtà obsoleta una polemica
tra “proporzionalisti” e “maggioritaristi” , proprio perché si
rivela cruciale la dimensione storica e comparata dell’evoluzione
dei sistemi elettorali, è recentemente dimostrato con grande
finezza di analisi da Mauro Volpi nel suo Le riforme elettorali in
Francia. Una comparazione con il caso italiano, Roma,
“Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174
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30 Serge Noiret
Tenteremo invece di mettere in evidenza che cosa abbia
rappresentato l’introduzione di una nuova legge elettorale nello
specifico contesto storico della crisi dello stato liberale, con un
particolare sviluppo del sistema politico e dei partiti e con le
particolari condizioni sociali e economiche dell’Italia di
allora.
Si tratta di mettere in luce il legame tra l’avviamento
dell’Italia sulla strada della moderna democrazia di massa e
l’impatto e il significato del cambiamento della legge elettorale
nel quadro delle profonde trasformazioni in atto dopo la
guerra.
Per tentare questo, utilizzeremo anche stimoli e ipotesi
empiriche di ricerca provenienti dall’ambito più “sistemistico” o
anche più “modellistico” della scienza politica, per chiarire quale
fosse, nel 1919, il vero nodo del sistema politico italiano, pur
rimanendo convinti dell’inadeguatezza di quei modelli per fornire
una risposta del tutto
soddisfacente in campo storico, dove non è possibile limitarsi
all’approfondimento della sola dimensione “empirica quantitativa”
dei processi dello sviluppo o, per utilizzare una categoria oramai
inflazionata, di modernizzazione3.
Abbiamo già considerato le maggiori novità delle due leggi
unificate nel Testo unico del settembre 1919 e ci proponiamo di
descrivere in altra sede l’inter legislativo della nuova legge
nelle sue due fasi del 1918 e del 19194. Qui cercheremo soltanto di
rispondere al quesito recente di Hartmut Ullrich a proposito
dell’impatto della nuova legge sul sistema politico, se cioè la sua
introduzione avesse “opened the way for modern mass democracy or
destroyed liberal Italy”5. Per avvicinarci ad una risposta
soddisfacente a questo nodo della storia politica — la
proporzionale rappresentò un suicidio più o meno consapevole della
classe dirigente liberale? — tenteremo tre simulazioni di come
si
Bulzoni, 1987, pp. 8-23. Per quanto riguarda il tema più
generale delle storiografie militanti, con forte carica
ideologico-politica, si rimanda al saggio di Renzo De Felice La
storiografia contemporaneistica italiana dopo la seconda guerra
mondiale, “Storia contemporanea”, 1979, n. 1, pp. 91-108.
Condividiamo ampiamente lo studio di Jens Petersen, Storia e
storiografia in Italia oggi, “Movimento operaio e socialista” ,
1987, n. 1-2, pp. 123-139, specialmente alle pp. 135-136, quando
parla di stretto legame tra storia e politica nella cultura
italiana contemporanea.3 Si veda di Alfio Mastropaolo Sviluppo
politico e parlamento nell’Italia liberale. Un’analisi a partire
dai meccanismi della rappresentanza, “Passato e presente”, 1986, n.
12, pp. 29-92, che si confronta con la categoria della
“modernizzazione” in ambito storico. Per un tentativo di
definizione dell’uso storiografico di questa categoria
interpretativa dei processi di sviluppo si veda Tim Mason, Moderno,
modernità, modernizzazione: un montaggio, “Movimento operaio e
socialista”, 1987, n. 1-2, pp. 45-61.4 Per il testo completo del
codice elettorale del 1919 occorre riferirsi al libro di C,
Montalcini e A. Alberti, La legge elettorale politica. Testo Unico
del 2 settembre 1919, n. 495. Commento teorico-pratico, Bologna,
Zanichelli, 1919, e a P. Piccioni, Codice elettorale politico e
amministrativo. Parte prima: la nuova legge elettorale politica ad
uso degli Uffici, dei seggi, degli elettori, Bologna, Cappelli,
1919 e A. Pironti-J. Spano, Le operazioni elettorali secondo la
nuova legge con note ed istruzioni. Appendice al codice elettorale
politico, Torino, Utet, 1919 e infine a Guido Boncompagni, La
riforma elettorale: portata della nova legge, come si formano le
nuove liste dei candidati, com esi vota, come si computano i voti,
Firenze, Nerbini, 1919. Si vedano infine i nostri La nuova legge
elettorale e le elezioni politiche del 1919, “Ricerche storiche”,
1986, n. 2, pp. 345-405 e, centrato sulla strategia del Psi, Il Psi
e le elezioni del 1919. La nuova legge elettorale. La conquista del
Gruppo parlamentare socialista da parte dei massimalisti, “Storia
contemporanea”, 1984, n. 6, pp. 1093-1146.5 Hartmut Ullrich,
Littérature, méthodologie et sources de l ’étude des réformes
électorales en Italie, comunicazione presentata durante il
Colloquio su “L’étude comparée des réformes électorales en Europe.
XIXème et XXème siècles, une approche interdisciplinaire”, Firenze,
Istituto universitario europeo, 28-30 marzo 1988, Colloquium paper,
doc. lue, 64/88, (Col. 21), p. 15. (L’edizione degli Atti del
Colloquio è in corso di pubblicazione presso l’editore Nomos
Verlagsgesellschaft di Baden-Baden).
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L a ‘proporzionale’ 1918-1919 31
sarebbero svolte le elezioni del 1919 mantenendo la vecchia
legge elettorale. Una riflessione sulla legge introdotta nel 1919
non si può dunque fare senza analizzare i risultati elettorali,
tenendo conto del livello di aggregazione dei dati
disponibili6.
L’introduzione del suffragio universale e della proporzionale
nel 1919
Già nel marzo 1911 Giovanni Giolitti, conscio dell’importanza di
una nuova legge elettorale per l’assetto politico e sociale del
paese alla vigilia di una delle riforme “periodiz- zanti” della
storia costituzionale del Regno d’Italia, asseriva che
“l’eleggibilità, l’indennità parlamentare, la nuova legge
elettorale sono argomenti che vanno studiati a fondo”7.
Giolitti con la legge del 1912 sull’estensione quasi universale
del suffragio, Orlando nel 1918 con l’introduzione del suffragio
universale maschile e la soppressione dei requisiti del censo e
della capacità, che ancora restringevano il corpo elettorale e, più
tardi — nel 1919 — Nitti con l’introduzione della proporzionale e
dello scrutinio di lista avrebbero portato lo stato liberale verso
una fase radicalmente diversa del suo sviluppo istituzionale e
politico. Una fase che, pensata attraverso il modello proposto da
Stein Rokkan per lo sviluppo dei sistemi elettorali verso una
democrazia elettiva egualitaria, prevede l’abolizione delle
disuguaglianze sociali e economiche fra cittadini maschi
nell’esercizio del diritto di voto, mantenendo però notevoli
sperequazioni nel numero degli aventi diritto al voto nelle diverse
circo- scrizioni elettorali8.
6 La problematica delle fonti è stata percorsa con cura da
Hartmut Ullrich nella comunicazione citata sopra. Essa è
approfondita dal libro di Pier Luigi Ballini, Le elezioni nella
storia d ’Italia dall’Unità al fascismo, Bologna, Il Mulino, 1988.
Il recente lavoro di Ballini aggiunge elementi ai precedenti lavori
di Attilio Brunialti, Elezioni politiche, in II digesto italiano.
Enciclopedia metodica e alfabetica di legislazione, dottrina e
giurisprudenza, Torino, Unione Tipografica Torinese, 1895-1898,
vol. X, pp. 227-306 (Si vedano anche le voci Diritto elettorale e
Scrutinio (sistemi di))\ di Salvo Mastellone, Il sistema elettorale
italiano dal I860 al 1948, in Maurice Duverger, L ’influenza dei
sistemi elettorali sulla vita politica, Roma, Edizioni Cinque Lune,
1950, pp. 163-176; di L. Pauli, Leggi e lotte elettorali in Italia,
Roma, Casa editrice italiana, 1953; di Giovanni Schepis, Le
consultazioni popolari in Italia dal 1848 al 1957. Profilo
storico-statistico, Empoli, Editrice Caparrini, 1958, e Italia, in
S. Rokkan e Jacques Meyriat, International guide to electoral
statistics. Vol. 1. National elections in Western Europe, The
Hague-Paris-New York, Mouton-De Gruyter, 1969, pp. 206-229 e anche,
dello stesso autore, I sistemi elettorali. Teoria, tecnica,
legislazione positiva, Empoli, Editrice Caparrini, (s.d.), pp.
XXVII-LXIII; e, infine a quello di Alberto Aquarone, Le
istituzioni. Il problema della rappresentanza politica e le leggi
elettorali, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di
Alberto M. Ghisalberti, Firenze, Olschki, 1974, pp. 463-514.
Fondamentale per ottenere una buona bibliografia degli studi in
generale e su vari paesi in una prospettiva storica, è R. Herrero,
Repertorio bibliografico sobre dere- cho electoral y elecciones,
“Revista de estudios politicos” , 1983, n. 34, pp. 213-275.7 Citato
da Alessandro Schiavi, Come hanno votato gli elettori italiani,
Milano, Avanti!, 1914, p. 1. Per quanto riguarda tutto il dibattito
politico ed istituzionale sulla legge politica del 1912 si veda
l’opera fondamentale di H. Ullrich, La classe politica nella crisi
di partecipazione dell’Italia giolittiana. Liberali e radicali alla
Camera dei deputati, Roma, Archivio storico della Camera, 1979, 3
voli.8 Rokkan parla di cinque fasi di sviluppo del sistema
elettorale chiaramente evidenziate nella storia del Belgio,
dell’Inghilterra e della Svezia. La prima fase, pre-rivoluzionaria,
fu caratterizzata da notevoli variazioni provinciali e locali nel
diritto di voto nonché dalla necessità, per goderne, di appartenere
a uno “strato corporativo”. La seconda fase, dopo le rivoluzioni
francese e americana, regolò l’accesso dei cittadini al voto
mediante criteri legati al censo. La terza fase corrispose ad una
prima mobilitazione di massa con un suo conseguente impatto
sull’allargamento del corpo elettorale, pur mantenendo
disuguaglianze formali come il voto plurimo ecc. La quarta fase fu
segnata dal- l’introduzione del suffragio universale con la
soppressione dei requisiti economici e sociali per i maschi sopra
una certa età ma anche dalla permanenza di un divario tra il peso
dei voti nelle varie circoscrizioni. (Questa fase caratterizza, a
nostro parere, l’Italia liberale dal 1913 al 1921.) La quinta fase,
attuale, favorisce la progressiva democra-
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32 Serge Noiret
Interrogandosi sul contenuto delle discussioni che precedettero
riforme importanti come quelle del 1882 e del 1919 in Italia,
appare chiaro il riferimento non al processo decisionale in quanto
tale, ma al concetto di “giusta rappresentanza delle minoranze”, al
migliore legame tra stato e società che ne sarebbe derivato e
all’impatto di tali riforme sulla rappresentanza. Queste istanze
caratterizzano le mentalità collettive e la cultura politica
comuni, all’epoca, a molti paesi europei.
Con la riforma del 1919 — anche se era erroneo pensare di
poterlo ottenere con una riforma elettorale senza tenere conto
dello stato di sviluppo della società e dello stesso sistema
partitico — si sperava nella creazione di nuovi partiti politici di
area liberale e costituzionale. Questi partiti, moderni,
centralizzati ed organizzati su tutto il territorio nazionale,
avrebbero dovuto fronteggiare l’offensiva popolare e socialista. Si
ipotizzava addirittura la possibilità, mediante la proporzionale e
lo scrutinio di lista, di ottenere un’adeguata rappresentanza
politica dei vari interessi economici e sociali9 che ne erano privi
con la precedente legge maggioritaria a scrutinio uninominale e
doppio turno. Si intendeva infine combattere il “clientelismo” che
si era sviluppato con lo scrutinio uninominale nelle piccole
circoscrizioni provinciali10.
Collocando così i problemi istituzionali e
le connesse leggi elettorali nel loro contesto storico, si può
capire meglio con quanta energia nella seconda metà dello scorso
secolo (soprattutto tra gli anni 1860 e 1880), in vari paesi
europei (Belgio, Francia, Italia, Svizzera, Germania ecc.) si sia
parlato di suffragio universale, di rappresentanza proporzionale e
di scrutinio di lista con l’intenzione di realizzare in termini
istituzionali, democratico-parlamentari, l’idea di “equa
rappresentanza” nell’ambito di una nuova società di massa (diritto
di decisione per la maggioranza, rappresentanza per tutti), anche
se in Italia in quegli anni sembra che ci fosse stato “poco
interesse per lo studio del reale funzionamento di una democrazia
parlamentare, soprattutto della partecipazione politica dei
cittadini e dei sistemi elettorali considerati meno importanti che
la ricerca del voto clientelare e delle alleanze personalistiche
alla Camera”11.
Analizzando i particolari meccanismi delle riforme elettorali in
sede storica e secondo i criteri elencati precedentemente, si
devono tuttavia anche separare due aspetti fondamentali che finora
sono emersi uniti: il diritto di voto ai cittadini in quanto tali
(il grande dibattito sul suffragio universale durante la terza fase
dello sviluppo storico dei sistemi elettorali individuata da Stein
Rok- kan), e il tipo di scrutinio considerato (il dibattito sullo
scrutinio maggioritario o proporzionale). Questi due aspetti
complemen-
tizzazione dell ’accesso al suffragio per nuovi gruppi di età,
per le donne, ecc., ma anche l’uguaglianza numerica nel rapporto
tra “votanti e rappresentanti” su tutto il territorio: S. Rokkan,
Cittadini, elezioni, partiti, cit., pp. 232- 233. Sui vari modi di
mantenere il suffragio ristretto e il suo allargamento tra XIX e XX
secolo rinviamo anche allo studio di sintesi di Jean-Marie Cotteret
e Claude Emeri, Les systèmes électoraux, Paris, Presses
Universitaires de France, pp. 13-27.9 Una “rappresentanza
corporativa” come è stata intesa nel senso non immediatamente
legato ai processi elettivi, nel saggio di Claudio Pavone e
Mariuccia Salvati, Suffragio, rappresentanza, liberaldemocrazia,
“Rivista di storia contemporanea”, 1986, n. 2, pp. 149-174.10 Sul
“clientelismo” si veda in generale Carlo Tullio-Altan, La nostra
Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e
ribellismo dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986 e A.
Mastropaolo per quanto riguarda11 periodo di fine Ottocento, in
Sviluppo politico e parlamento, cit., pp. 33-34.11 Carlo
Ghisalberti, Storia costituzionale d ’Italia. 1848-1948, Roma-Bari,
Laterza, 1981, pp. 318-319. Questa affermazione dovrebbe essere
meglio verificata alla luce delle numerose e recenti ricerche in
questo campo.
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L a ‘proporzionale’ 1918-1919 33
tari delle leggi elettorali, uniti ad altri meccanismi,
permettono spesso di snaturare completamente o in parte — se usati
dal legislatore con un certo “machiavellismo”, soprattutto nel caso
della proporzionale — le volontà ideali espresse nel dibattito
attorno ad una determinata riforma elettorale e di favorire così,
in realtà, strategie politiche contingenti. È dunque importante
separare la legge del 1918 e quella del 1919 (anche se entrambe
furono poi integrate nel Testo unico del settembre 1919) e
considerare quali meccanismi della legge elettorale possano o meno
correggere o anche snaturare i “grandi principi” espressi in sede
di dibattito culturale e politico. Successivamente risulterà più
semplice saggiare la coerenza degli indirizzi
politico-programmatici della classe dirigente del 1919 e dei
partiti di massa all’opposizione.
Nella legge del 1919 il processo di snaturamento della
proporzionale attraverso meccanismi correttivi era particolarmente
sottile.
L’introduzione del “voto aggiunto” , il cosidetto “panachage”12,
con sperequazioni tra numero di elettori necessari per eleggere un
deputato da collegio a collegio, combinata a quella dello scrutinio
di lista e alla proporzionale con il sistema d’Hondt in piccole
circoscrizioni (l’ampiezza delle circoscrizioni è giudicato da
Fisichella un elemento decisivo nel verificare T “operatività”
della proporzionale13) avrebbe permesso di diminuire gli effetti
dell’impatto che, secondo i fautori della legge, una pura
proporzionale avrebbe avuto sulla necessaria organizzazione di
partiti competitivi. Mantenendo così vivi alcuni aspetti
personalistici e clientelari della vecchia legge, quelli più
tradizionalmente legati alla geografia elettorale politica del
collegio, si snaturava in parte un confronto elettorale su
programmi precisi o ideologie strutturate a livello nazionale,
condizioni essenziali per la nascita di partiti “moderni” anche
nell’arco costituzionale, liberale e democratico.
La nuova legge avrebbe dovuto favorire, nello spirito di quella
parte della classe dirigente liberale che la propugnava14, una
soluzione istituzionale e politica che permettesse una migliore
rappresentanza degli interessi economici e/o corporativi, capace di
eliminare pericoli di sedizione o di totale rottura con le
istituzioni dello stato, provenienti da varie classi sociali e
principalmente dal cosidetto “Quarto stato” . Tommaso Tittoni, che
discusse nell’aprile 1919 sulla “Nuova antologia” della validità
della proposta di legge Micheli per la rappresentanza propor-
12 Questa correzione non era l’unica operata sulla legge
introdotta dal ministero Nitti. Ci permettiamo di rinviare al
nostro già citato saggio sulla legge del 1919, pp. 376-377 (vedi n.
4).13 Domenico Fisichella, Elezioni e democrazia. Un’analisi
comparata, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 167.14 Era certamente anche
il caso di Francesco S. Nitti — non certo convinto difensore della
proporzionale, come dimostra la sua posizione nel secondo
dopoguerra (era un uomo ancora legato al sistema individualistico
di un parlamento di notabili e non di partiti) — sicuro della sua
necessità nel particolare periodo storico dell’Italia del 1919. La
posizione di Nitti, che ebbe un ruolo decisivo nell’introduzione
della legge dal momento che segui anche con attenzione i lavori in
commissione, alla Camera e al Senato, non è stata finora molto
studiata. Sul contenuto del dibattito che ha preceduto la riforma
del 1919 rinviamo a Francesco Gui, Governo e Parlamento in Italia
all’indomani di Vittorio Veneto, “Clio”, 1981, n. 1, pp. 47-78;
Id., Riforma delle elezioni e partiti fra Orlando e Nitti, ivi,
1981, n. 2, pp. 171-196 e La classe dirigente liberale e la
proporzionale, ivi, 1982, n. 2, pp. 277-281. Su Nitti rinviamo agli
accenni fatti da Francesco Barbagallo nella sua biografia Francesco
Saverio Nitti, Torino, Utet, 1984, pp. 347-355 e alle giuste
riflessioni di Lorenzo Piccioli in La riforma elettorale del 1919
nella crisi politica del primo dopoguerra, in Zeffiro Ciuffoletti
(a cura di), Riforme elettorali e democrazia nell’Italia liberale,
Firenze, Centro editoriale toscano, 198 82, pp. 117-127, nonché ai
nostri lavori già citati alla nota 4. Non ci sono purtroppo
riferimenti alle convinzioni nittiane in materia di legislazioni
elettorali nel saggio di Arturo Colombo sulle concezioni che l’uomo
politico lucano aveva del sistema politico liberale, Nitti e il
concetto di democrazia, “Il Politico”, 1985, n. 1, pp. 23-39.
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34 Serge Noiret
zionale15, mostrò chiaramente quanto una giusta rappresentanza
del popolo uscito da un sanguinoso conflitto, mediante un sistema
che dava “un voto uguale a tutti”, sarebbe diventata in sé il
miglior modo di allontanare le tentazioni eversive
deH’ultrasinistra, attuando finalmente il disegno
democraticotrasformistico giolittiano (nel senso positivo del
concetto)16 di integrazione delle masse popolari nelle istituzioni
liberali in crisi a partire dalla guerra di Libia.
Tittoni pensava che la pressione delle masse popolari, espressa
in quel momento in numerose azioni sociali (scioperi, boicottaggi,
occupazioni di terre) se dirottata verso nuove elezioni con la
proporzionale e lo scrutinio di lista, avrebbe provocato una
ridistribuzione della rappresentanza, rimanendo così nell’alveo
delle istituzioni dello stato, ed avrebbe diminuito di pari passo
le spinte centrifughe di socialisti e cattolici, incrementando
infine quello che oggi si potrebbe chiamare il “consenso politico”
verso lo stato liberale e le sue istituzioni, consenso che avrebbe
permesso di risolvere gran parte dei problemi del dopoguerra.
La proporzionale vista come “suicidio” della classe dirigente
liberale
Confrontarsi con la storiografia costituzionale sul primo
dopoguerra — anche se scarsa — significa entrare nel merito di
giudizi di valore espressi su un particolare sistema elettorale;
proprio quello che abbiamo detto di volere evitare per affrontare
un nodo assai delicato della storiografia: quello della condanna
senza appello dell’introduzione
della proporzionale nel 1919. Rilevare gli aspetti negativi o
positivi di diversi sistemi elettorali avrebbe come conseguenza di
impedire una reale percezione della situazione storica e dei suoi
condizionamenti, difetto che, secondo noi, ha sempre offuscato una
corretta valutazione storiografica dell’introduzione della
proporzionale da parte di Nitti nel 1919.
Esistono realtà sociali e sistemi politici — come per esempio il
Belgio, la cui legislazione viene spesso studiata come emblematica
— dove la frammentazione in vari cleavages linguistici, religiosi,
politici, impedisce al legislatore di introdurre uno scrutinio
maggioritario che avrebbe significato, e significherebbe tuttora,
la dissoluzione della nazione17. Esistono altri sistemi politici
nei quali l’introduzione della proporzionale paralizzerebbe (e di
fatto ha paralizzato) anche la giusta dialettica tra potere
legislativo e potere esecutivo e sortirebbe lo stesso effetto
disgregatore che avrebbe nel Belgio l’introduzione dello scrutinio
maggioritario.
Ribadite in sede storica queste premesse, tentiamo di rispondere
alla domanda seguente: è vero che l’introduzione della
proporzionale in Italia significò il suicidio della classe
dirigente liberale di estrazione risorgimentale? Dobbiamo realmente
attribuire questa reponsabilità al tipo di sistema elettorale?
Riteniamo al contrario — come tenteremo ora di documentare — che
l’introduzione della proporzionale nel 1919 in un sistema politico
pseudoparlamentare — per utilizzare la felice espressione di
Giuseppe Maranini —, un sistema che aveva già espresso in cin-
quant’anni di sviluppo le sue debolezze e pa-
15 II saggio fu successivamente ripreso in T. Tittoni, Scrutinio
di lista e rappresentanza proporzionale, in Conflitti politici e
riforme politiche, Bari, Laterza, 1919, pp. 199-270.16 Paolo
Pombeni, Introduzione allo studio dei partiti politici, Bologna, Il
Mulino, 1985, p. 123.17 Si veda di Jean Stengers, Histoire de la
législation électorale en Belgique, Colloquium paper, Doc. lue,
48/88 (Col. 5), presentato per il convegno “L ’étude comparée des
réformes électorales en Europe. XIXème et XXème siècle, une
approche interdisciplinaire”, (vedi n. 5).
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L a ‘proporzionale’ 1918-1919 35
ralisi, non sia stato che l’ultimo, necessario e disperato
tentativo di aggregazione al sistema di nuove e sfuggenti forze
politiche, per tentare di ovviare all’incapacità e alle colpe che,
da Depretis a Giolitti, la classe dirigente liberale aveva
manifestato nella gestione dello Statuto albertino e per
ricomporre, dentro le istituzioni dello stato, il divario crescente
tra la “politica della piazza” e quella del parlamento.
Abbiamo detto disperato perché — e questa connotazione è
strettamente connessa alla prima — le sorti dello stato liberale si
erano giocate ben prima della guerra18 e non dipendevano più — nel
1919 — dal sistema elettorale.
Non si tratta dunque di negare l’importanza attribuita in
termini di polity building al sistema elettorale che, scelto con
accuratezza negli anni di passaggio dalla Destra alla Sinistra
storica, avrebbe forse avuta quella influenza sulla configurazione
del sistema politico-partitico e sul futuro dello stato liberale
auspicata da Maranini. È il metodo esplicativo globale
dell’evoluzione del sistema politico italiano tra Ottocento e
Novecento fornito da storici costituzionalisti come Maranini che
deve essere corretto. Un tale modello di studio è troppo legato a
considerazioni di parte sul valore di un meccanismo elettorale di
tipo inglese e sulla sopravvalutazione del suo ipotetico valore
ingegneristico e di impatto sul sistema partitico nel contesto del
1919.
Almeno per quanto riguarda il primo dopoguerra, le condizioni
stesse che avrebbero permesso nell’Ottocento e forse ancora
all’inizio dell’età giolittiana, una evoluzione del sistema
pseudoparlamentare verso una moderna democrazia di partiti non
esistevano
più o, comunque, non erano più dipendenti dalla tradizionale
classe dirigente liberale, bensì dalle nuove forze politiche ancora
in gran parte estranee al sistema politico e al trasformismo di
governo: il Ppi, nuovo partito protagonista del sistema dopo la
subalternità imposta nei fatti ai cattolici all’interno dei blocchi
clerico-moderati e poi con il patto Gentiioni, e un Psi sempre meno
dipendente dal riformismo pragmatico e possibilista del suo gruppo
parlamentare e della Ggdl.
Nel 1919 l’evoluzione del sistema politico verso una democrazia
pluralista e moderna basata sul suffragio universale poteva ancora
essere avviata e diretta dai notabili più illuminati della vecchia
classe dirigente liberale, ma non poteva certamente essere rivolta
contro le nuove forze politiche del dopoguerra, e questo a
prescindere dalla scelta del sistema elettorale. Tenendo presente
questo insuperabile nodo politico del dopoguerra, proprio questa
riforma elettorale, la proporzionale, sia pure con i meccanismi
particolari che ne modificarono gli effetti, era diventata l’unica
possibile per Nitti per avvicinare allo stato il Ppi, il Psi e le
masse controllate da questi due grandi partiti. L’effetto
psicologico, scaturito dal riconoscimento del diritto alla
rappresentanza per tutti e l’effetto politico di organizzazione di
una rappresentanza parlamentare più consona alle attese del paese,
avrebbero dovuto aprire il dialogo con nuovi interlocutori per un
governo liberale finalmente sorretto da una maggioranza di partiti.
Si trattava anche di migliorare il rapporto con il nuovo partito
cattolico ora decisivo nella vita politica del paese, e di
contrastare la consueta politica trasformistica che aveva
svalorizzato il par-
18 Vogliamo qui riallacciarci alla maggiore storiografia sul
primo dopoguerra, che dimostra quanto il conflitto mondiale non
fece che accelerare processi già avviati prima. Si veda di Renzo De
Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi,
1965; di Roberto Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l ’avvento
del fascismo. 1918-1922. Dalla fine della guerra all'impresa di
Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1967; di
Adrian Lyttelton La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al
1929, Roma-Bari, Laterza, 1974.
-
36 Serge Noiret
lamento ed incrementato il potere dell’esecutivo19. Il
trasformismo era stato utilizzato per assicurare al primo ministro
liberale il sostegno delle forze avverse, un’abitudine ancora alla
base degli accordi del 1913 con i cattolici. Esso sboccava
nell’espressione di maggioranze personali faticosamente raggiunte
alla Camera dai precedenti governi, fino alla fine della XXIV
legislatura, e Nitti — anche se era certamente partecipe del
vecchio sistema — tentava con la sua riforma elettorale di
modernizzare la vita politica.
Nel suo discorso di prolusione nella Regia università di Torino,
il senatore Ruffini, conscio della delicata situazione politica e
istituzionale dell’Italia dopo la riforma elettorale e le elezioni
del 16 novembre 1919, indicava in realtà due elementi fondamentali
che non negavano, con il senno del poi, la necessità della riforma.
Il primo era che la guerra aveva accelerato la percezione dei
problemi istituzionali da parte della classe politica e più
particolarmente di quelli legati alla scelta di un nuovo sistema
elettorale e del tipo di rappresentanza politica o degli interessi
sociali e/o economici che questo avrebbe dovuto assicurare. La
guerra aveva avuto non soltanto un impatto immediato
sull’allargamento del corpo elettorale e l’instaurazione del
suffragio universale maschile, sulla discussione a proposito di una
riforma della legge elettorale e sulle varie propo
ste di trasformazione del ruolo del Senato ma, determinando una
nuova situazione istituzionale (il Parlamento era stato sopraffatto
nel 1915 dalla “piazza” e dal governo), ed anche politica,
economica e sociale, aveva contribuito in modo decisivo a
influenzare il tipo stesso di riforme che gli “ingegneri”
elettorali e la classe politica si promettevano di attuare nel
1918-1919.
Il secondo elemento era che riformare le istituzioni diventava
non solo auspicabile, ma necessario per incanalare le masse, i loro
nuovi partiti ed interessi all’interno del quadro costituzionale
dello stato liberale e della nazione. Per Ruffini, quello della
riforma elettorale era l’unico modo per effettuare una vera
“rivoluzione pacifica” e prevenire così maggiori sommosse nel
paese. L’introduzione della rappresentanza proporzionale
costituiva, ancora dopo la prima prova delle urne, una riforma da
non mettere in discussione. Essa era servita al paese legale per
adeguarsi, nel campo del diritto elettorale, ai mutamenti avvenuti
nella società e già avvertiti nel 1913 con il patto Gentiioni.
Questa evoluzione della legge elettorale — perché di evoluzione
storica si trattava secondo Ruffini — doveva compiersi per superare
la sconfitta storica del sistema maggioritario ottocentesco con le
non meno anacronistiche leggi che avevano mantenuto una certa
restrizione del suffragio20. Infine la sua opi-
19 Sugli aspetti profondamente negativi del trasformismo si veda
di C. Ghisalberti Le istituzioni politiche e amministrative
dell’Italia liberale in Lo Stato liberale italiano e l ’Età Meiji.
A tti de! I Convegno italo-giapponese di studi storici. Roma 23-25
settembre 1985, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1987, pp. 119-129 e
specialmente pp. 126-127.20 Bisogna rilevare quanto Ruffini,
parlando di evoluzione dei sistemi elettorali europei, metta in
evidenza un processo di dinamica storica di “modernizzazione” di
questi sistemi con una loro evoluzione obbligata verso il suffragio
universale e verso l’introduzione generalizzata della
proporzionale. Questo pensiero dinamico evolutivo si ritrova poi
con le sue periodizzazioni storiche nel modello evolutivo, storico
e comparato, dei sistemi elettorali proposto da Stein Rokkan. Esso
era già presente nei lavori di Joseph Barthélemy, nel 1912, quando
scriveva che “11 arrive un moment ou’ la logique immanente
l’emporte, ou’ le besoin de justice et de vérité est le plus fort,
ou’ la raison triomphe; on a alors, malgré toutes les barrières, le
suffrage universel; on a ensuite l’organisation loyale de ce
principe; vote secret, vote obligatoire, proportionnelle.
L’histoire ignore l’immobilité [...] Si je voulais m’essayer au
métier dangereux de prophète, j ’ajouterais qu’il arrivera sans
doute un jour ou’, brisant toutes les lisières, ce dogme ira
jusqu’au bout de ses conséquences logiques: on aura le vote des
femmes, le référendum”, L ’organisation du suffrage, cit., p. 752.
Questo trend verso lo sviluppo dei sistemi elettorali è rilevato
anche da Claude Emeri nel suo
-
La ‘proporzionale’ 1918-1919 37
nione — come quella di altri esponenti di spicco dell’area
liberale, cattolica e riformista che sarebbero stati poi gli stessi
protagonisti dell’introduzione della legge elettorale dell’Italia
repubblicana — era che, se il sistema elettorale non fosse stato
cambiato, non soltanto non si sarebbe corrisposto alle aspettative
legittime del paese nel dopoguerra, ma non si sarebbe nemmeno
riusciti ad impedire una vittoria dei partiti di opposizione
malgrado il mantenimento della legge precedente del suffragio
maggioritario, del collegio uninominale in circoscrizioni ristrette
e del doppio turno. Non si sarebbe così ottenuto l’effetto benefico
per l’intesa tra “paese reale” e “paese legale” che l’introduzione
della proporzionale avrebbe, secondo lui, sicuramente
conseguito.
Ruffini si mostrava convinto, come quasi tutto il mondo
liberale, della capacità aggregativa della modifica in senso
proporzionalista del sistema politico-istituzionale e della
possibilità di aggregare maggiore forza e consenso attorno allo
stato democratico risorgimentale a prescindere dalle tendenze
centrifughe di partiti che avrebbero ottenuto con la proporzionale
una maggiore rappresentanza rispetto al passato. Ruffini scriveva
di non fermarsi al “semplice trionfo delle urne {che essi avrebbero
avuto altrettale, e forse più pieno ancora, con il sistema
antico)2' di tali partiti estremi” . Vedeva, aldilà della effimera
risposta delle urne, “una ben più significativa e duratura e grossa
vittoria, della quale essi stessi sono apparsi neppure qui
pienamente consapevoli: vale a dire il sovrapporsi forse
ineluttabile oramai e irrefrenabile, della loro particolare
concezione politica del diritto elettorale, sopra la tradi
zionale concezione liberale” . Ruffini indicava con questo la
fine, già avvenuta con le elezioni del 1913, del sistema di governo
delle maggioranze parlamentari “ministeriali” formate dall’opera
unificatrice di un primo ministro liberale e la nascita di un
sistema politico di partiti. L’introduzione della proporzionale e
dello scrutinio di lista avrebbe definitivamente guadagnati al
sistema politico democratico e liberale i partiti estremi, erigendo
un vero baluardo con “poteri di prevenzione politica e di
preservazione sociale” in difesa dello stato liberale. Era infatti
questo il vero potere — sempre secondo Ruffini — che ebbero
“segnalate e bene avventurate nella storia, le grandi riforme
elettorali dei maggiori paesi civili”22.
L’ipotesi di Ruffini e di altri uomini politici o studiosi del
sistema elettorale come Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi,
Luigi Federzoni, Filippo Meda, Luigi Stur- zo, Filippo Turati,
Luigi Luzzatti — per motivi spesso diversi o addirittura
contrastanti tra loro — era che l’introduzione della proporzionale
con scrutinio di lista aveva avuto come conseguenza di concedere
una rappresentanza politica equa e reale alle forze politiche
capaci di mobilitare una parte maggioritaria del corpo elettorale,
ma anche — e questo è fondamentale — di avere preservato uno spazio
di rappresentanza alla vecchia classe dirigente liberale.
Con la proporzionale, le forze e i partiti nuovi erano avviati
necessariamente alla “costituzionalizzazione” , allontanando di
pari passo eventuali tentativi sediziosi. Di fronte alla
inevitabilità di una riforma elettorale in senso proporzionalista
in quel particolare momento storico poco importa chie-
Elections et Référendum in Madeleine Grawitz e Jean Leca (a cura
di), Traité de Science Politique. Voi. 2. Les régimes politiques
contemporains, Paris, Presses Universitaires de France, 1985, pp.
315-354, qui pp. 316-317.21 II corsivo è nostro.22 R. Ruffini,
Guerra e riforme costituzionali: suffragio universale, principio
maggioritario, elezione proporzionale, rappresentanza organica, in
“Annuario della Regia Università di Torino”, 1919-1920, Torino,
1920, pp. 5-98, qui pp. 56-57.
-
38 Serge Noiret
dersi se il sistema elettorale precedente avrebbe o no dato
maggiore rappresentanza alla vecchia classe dirigente liberale
giolittia- na, incapace comunque, a prescindere dal sistema
elettorale, di gestire il potere in modo fecondo e stabile e di
assicurare una maggiore governabilità nel periodo più travagliato
del dopoguerra. Al contrario, l’interesse nasce proprio nel
dimostrare che, anche con il mantenimento della precedente legge,
le condizioni politiche deH’ingovernabilità sarebbero rimaste
identiche, senza nemmeno l’effetto psicologico positivo che la sua
introduzione ebbe sulle forze cattoliche e socialiste.
Il sistema giolittiano di controllo dell’apparato statale,
dell’amministrazione e del parlamento basato sul notabilato a
livello locale e sul controllo della rappresentanza attraverso la
ricerca personalistica di maggioranze parlamentari, era
definitivamente tramontato nel 1913 con l’introduzione di un
suffragio quasi universale che amplificò il successo cattolico
nelle elezioni dello stesso anno e determinò la caduta del governo
nel 1914, anche se Giolitti stesso e la sua maggioranza non
riuscirono a capirlo e a modificare il loro tradizionale
comportamento politico. Nitti, pur in modo confuso, tentò di
correre ai ripari adeguandosi alle necessità della politica in
regime di suffragio universale, una politica nuova che, da destra,
un uomo come Sidney Son-
nino auspicava già da prima della guerra23.Ci pare dunque
importante rifiutare in se
de storica la critica severa mossa alla riforma elettorale
introdotta dal Nitti nel 1919, una critica che fino ad oggi è stata
quella della storiografia costituzionale nel secondo dopoguerra;
Giuseppe Maranini e, dopo di lui, Carlo Ghisalberti, hanno
incolpato la legge del 1919 di aver minato definitivamente le
istituzioni dello stato liberale e, con esse, tutto il sistema
politico. Afferma Maranini che “Nitti fece candidamente tutto
quello che si poteva per fare esplodere la crisi nel modo
disastroso. Introdusse contro l’opposizione non solo di Giolitti ma
di Sonnino (guarito dalle sue recenti illusioni)10 scrutinio di
lista e la rappresentanza proporzionale; infine volle che le
elezioni — cosa nuovissima — si svolgessero in piena libertà e
correttezza [...] Nitti sbagliò tutto [,..]”24. Il giudizio di
Maranini è stato poi ripreso da Ghisalberti, quando afferma che “il
cambiamento della legge elettorale, nel suo complesso [...] sarebbe
stata di gravissimo danno per le forze liberali.” Ghisalberti,
molto più cauto di Maranini nel giudicare l’azione di Nitti, non
avverte tuttavia che fu11 suffragio universale e non la
proporzionale ad immettere nel sistema politico le istanze di
quello che egli definisce “un corpo elettorale ancora impreparato e
non sicuro dei suoi convincimenti democratici”25.
23 È da rimpiangere il fatto che l’analisi del pensiero
politico-istituzionale di un uomo come Sidney Sonnino, oppositore
della proporzionale nel 1919, non sia stata condotta da Antonio
Jannazzo fino alla legge cui ci riferiamo nel suo Governo
rappresentativo e democrazia nel pensiero di Sonnino, “Il pensiero
politico”, 1987, n. 1, pp. 79- 97. Lo studio rende conto
dell’attenzione del Sonnino per la nascita di un partito liberale —
non più soltanto di notabili — con l’avvento del suffragio
universale ma non spiega il passaggio da una posizione favorevole
alla proporzionale all’opposizione al disegno di legge Micheli del
1919. Lo stesso difetto è presente nello studio di Antonio Casali,
Sonnino e il problema della riforma elettorale, 1870-1912, in Z.
Ciuffoletti (a cura di), Riforme elettorali, cit., pp. 65-80, che
menziona le posizioni di Sonnino in favore del suffragio universale
e della proporzionale a fine Ottocento senza seguire la loro
evoluzione politica nel primo dopoguerra.24 Giuseppe Maranini,
Storia de!potere in Italia, Firenze, Vallecchi, 1967, p. 283.25 C.
Ghisalberti, Storia costituzionale d ’Italia, cit., pp. 332-333.
Manca però — pur nel così pregevole ed essenziale studio di
Ghisalberti — una vera attenzione allo studio dei meccanismi
elettorali introdotti con la proporzionale, uno studio che, se non
potrebbe discolpare Nitti dal non aver previsto il grandissimo
successo delle forze di opposizione alla guerra, non potrebbe
tuttavia incolparlo di poca attenzione verso la legge elettorale,
che seguì di persona nella sua gestazione sia alla Camera che al
Senato.
-
La ‘proporzionale’ 1918-1919 39
In realtà, la pacificazione del paese, il ristabilimento
dell’ordine interno, la risoluzione dei conflitti di lavoro o delle
questioni brucianti di politica estera, dipendevano non da un
mutamento o da una conferma dal sistema elettorale del 1912 in
quanto tale — anche se non vogliamo qui negare l’importanza dei
meccanismi elettorali nel conseguimento di determinati risultati da
parte del sistema politico — ma dipendevano dalla capacità della
vecchia classe dirigente costituzionale, sempre maggioritaria nel
paese indipendentemente dal sistema elettorale, di fronteggiare,
organizzandosi con compattezza e responsabilità26, con abilità ed
apertura al dialogo, le spinte delle nuove forze politiche; queste,
sia in campo socialista che in campo cattolico, non erano in modo
compatto, spesso loro malgrado, contrarie a garantire la continuità
del sistema politico liberale e democratico.
Più che istituzionale, il problema era politico, e le colpe di
Nitti devono essere ricercate su quel terreno e nella sua
incapacità a gestire meglio che nel passato il potere legittimo che
gli veniva dato in parlamento, rivolgendosi con più convinzione
alle forze cattoliche, interlocutrici obbligate dei liberali.
Vogliamo ricordare a sostegno della nostra tesi le
considerazioni di Paolo Farneti sul rapporto tra sistema politico e
riforme elettorali. Farneti pensa ad un primato del politico e alla
non incidenza del sistema elettorale nel determinare la crisi del
sistema nel primo dopoguerra. Secondo Farneti la svolta elettorale
del 1919 possiede, a differenza delle leggi del 1882 e del 1913,
“le tre svolte elettorali” prima del fascismo, “pure i caratteri di
una svol
ta politica e cioè di un mutamento politicostrutturale, ma è
anche il momento in cui, come è noto, il sistema politico italiano
entra in una crisi profonda e si avvia verso sviluppi autoritari.
Dunque — scrive Farneti — le svolte politico-strutturali avvengono
indipendentemente dalle svolte elettorali”. Aggiungiamo che le
riforme elettorali possono soltanto contribuire a rafforzare una
svolta politico strutturale in atto — nel 1919 il consolidamento di
un sistema di partiti nuovi —, ma non possono creare di per sé
condizioni politiche assenti prima della riforma del sistema27.
Una simulazione applicata ai risultati delle elezioni del 16
novembre 1919
Date queste premesse, ci sembra importante confutare in sede
storica e con una riflessione sui dati elettorali del 1919,
l’accusa circa gli effetti negativi che avrebbe avuto
l’introduzione della proporzionale in piena crisi dello stato
liberale. Se si può concludere, grazie a Giovanni Sartori, che è
molto difficile calcolare esattamente l’impatto di una determinata
legge elettorale sul comportamento politico e la vita politica, si
può forse intuire meglio quanto una classe politica poco attenta
agli aspetti ingegneristici delle leggi elettorali e dei loro
effetti sul sistema politico e sulla rappresentanza abbia agito con
leggerezza, facendo previsioni sbagliate sull’esito delle
elezioni28. Per questi motivi è interessante ragionare su come si
sarebbero effettuate le elezioni del 16 novembre 1919 mantenendo il
principio maggioritario posto
26 Ghisalberti, parlando dei difetti del sistema politico
istituzionale dell’Italia di fine secolo, sistema che privilegiava
il ruolo dei notabili, indica un motivo essenziale della crisi del
liberalismo e con essa, dello stato risorgimentale: “mancavano
[...] partiti politici organizzati modernamente, con solidi
apparati di vertice e capillari strutture periferiche, capaci di
diffondere la propria ideologia e di penetrare nelle aree più varie
della società civile [...]” in Le istituzioni politiche, cit., p.
124.27 Paolo Farneti, Sistema politico e società civile, Torino,
Giappichelli, 1971, pp. 278-279.28 Questa disattenzione non
esisteva in sede di commissioni speciali della Camera e del Senato,
come tenteremo di mettere in luce in un altro lavoro.
-
40 Serge Noiret
alla base della legge del 1912. Vedremo così che, con un calcolo
pur difficile ed impreciso per l’impossibilità di accedere senza
lunghe e laboriose ricerche a dati elettorali disaggregati a
livello di sezioni, siamo tuttavia in grado di dimostrare in modo
soddisfacente che la crisi dello stato liberale non fu né
dipendente né accelerata dalla nuova legge elettorale e dalla sua
applicazione nel 1919 e nel 1921. Le cause di questa crisi — a
livello politico — si dovevano piuttosto rintracciare
nell’incapacità politico-organizzativa dei liberali e nella
divisione dei loro leader.
L’interesse degli studiosi del sistema elettorale per uno studio
comparato dei risultati di una determinata elezione con i
meccanismi elettorali di un’altra legge, era già vivo anteriormente
alla prima guerra mondiale negli studi dello Schiavi e del
Torresini29. Il primo, interessandosi dei risultati delle elezioni
del 1913 calcolò, anticipando la legge del 1919 applicata nel 1921,
come si sarebbero svolte le elezioni del 1913 con la rappresentanza
proporzionale, lo scrutinio di lista e i collegi regionali30.
In un interessante studio31 — che porta alle stesse nostre
conclusioni — Ugo Giusti si preoccupò poi di paragonare i risultati
del collegio di Firenze nelle elezioni del 1919 e del 1921 con
quelli che si sarebbero verificati applicando la legge elettorale
del 1912, esattamente il contrario di quanto fece Schiavi per il
1913.
Si voleva stabilire, scriveva Giusti, “conoscendo i risultati
delle ultime due elezioni nei raggruppamenti secondo gli antichi
collegi
[...] quali risultati si sarebbero avuti [...] se, invece che
colla rappresentanza proporzionale, le elezioni stesse avessero
avuto luogo per scrutinio uninominale.” Giusti raggruppò i
risultati delle sezioni nel 1919, comune per comune, fino a
corrispondere alla geografia elettorale dei 14 vecchi collegi
uninominali che erano stati messi insieme per ottenere la nuova
circoscrizione elettorale politica di Firenze nel 1919 e nel
192132. Giusti intendeva mettere in luce un fenomeno legato
all’incidenza di una particolare legge elettorale, quella del 1912
e quella del 1919, sulla rappresentanza politica del collegio.
Dimostrò quanto il numero dei voti validi espressi a favore dei
candidati non eletti fosse di gran lunga superiore con il sistema
maggioritario che con lo scrutinio proporzionale e quanto il
vecchio sistema incrementasse così il numero di voti inefficaci
espressi dagli elettori. Con la proporzionale, questo numero
diminuiva soprattutto se si trattava di voti validi dati in favore
di piccole formazioni politiche o liste di un determinato collegio
che riuscivano ad ottenere una presenza più consona alla loro reale
presenza politica.
Secondo questa simulazione elettorale con lo scrutinio
maggioritario, il collegio di Firenze diviso nei 14 antichi collegi
uninominali passava quasi totalmente in mano ai socialisti, che
conquistavano l’86 per cento della rappresentanza ovvero 12 dei 14
seggi, un collegio essendo attribuito al blocco democratico
(Firenze II) e un altro ad uno indipendente (Borgo San Lorenzo)33.
Ora, i ri-
29 A. Torresini, Statistica delle elezioni generali politiche
de! 3 giugno 1900, “La riforma sociale”, 1900, fase. 8, pp.
788-831. Lucio Luzzatto parla di queste prime simulazioni nel suo
Elezioni politiche e leggi elettorali, Roma, Editori Riuniti, 1958,
pp. 83-84.10 A. Schiavi, Come hanno votato gli elettori italiani,
cit., pp. 89-91 e tavola IX.31 Ugo Giusti, Le correnti politiche in
Italia attraverso due riforme elettorali dal 1909 al 1921, Firenze,
Alfani & Venturi, 1922.32 U. Giusti, Le correnti politiche in
Italia, cit., pp. 38-40.33 Supponendo invece il mantenimento di uno
scrutinio maggioritario di lista nel collegio di Firenze sulla base
di un raggruppamento dei collegi uninominali del 1913, i socialisti
avrebbero conquistati tutti i rappresentanti del collegio, come si
può rilevare leggendo la tabella con i risultati elettorali nei 54
collegi del 1919.
-
La ‘proporzionale’ 1918-1919 41
sultati del voto del 16 novembre 1919 attribuirono, in realtà,
con la proporzionale, tre seggi ai popolari, un seggio al blocco
democratico, due ai liberali e soltanto otto seggi ai socialisti.
Giusti nota — ed è secondo noi l’affermazione di maggiore spicco
della sua analisi — che nel 1919, votando con la legge del 1912,
“sarebbero stati completamente inefficaci i voti dei popolari e dei
liberali”34. Vale a dire che popolari e liberali ebbero in realtà
accesso alla rappresentanza in un collegio a forte presenza
socialista soltanto perché la legge del 1912 fu mutata con la
riforma introdotta da Nitti nel settembre 1919. Giusti concludeva
asserendo a livello teorico, senza dare un giudizio di valore pro o
contro l’introduzione della proporzionale, che “dall’esempio
riportato e dal confronto teorico che noi facciamo dei due sistemi
di scrutinio senza naturalmente potere tenere conto dei diversi
adattamenti politici che i sistemi stessi possono consigliare, né
della diversa atmosfera politica entro la quale verrebbero a
svolgersi le elezioni cambiando sostanzialmente il metodo
elettorale, si rileva agevolmente come lo scrutinio di lista con
rappresentanza proporzionale, quando avvenga su circoscrizioni
assai vaste, e tanto più quanto le circoscrizioni stesse sono più
vaste metta in valore quei partiti che hanno una diffusa ma non
intensa rappresentanza [...] mentre attenua di fronte allo
scrutinio uninominale, il successo di partiti aventi diffusione
intensa se pure parziale f...]”35.
Ora possiamo certamente rilevare qui quanto i due partiti di
massa — il Ppi e il Psi — possedessero nel 1919 e nel 1921 po- prio
una “diffusione intensa seppure parzia
le” che trovava nelle aree del Centro-nord del paese consensi
maggioritari quasi ovunque36. Si può dunque dedurre (come vedremo
in dettaglio più avanti) quanto il successo di questi due partiti
nelle circoscrizioni dove erano fortemente radicati fu attenuato
dall’introduzione della proporzionale e proprio quanto, per la
mancata diffusione nell’elettorato del Centro-sud del Ppi e del
Psi, i liberali uscirono dalla consultazione elet- trale con meno
perdite di quante ne avrebbero avute con l’antico sistema. Si
sottolinea così che quello che si perdeva da una parte non si
guadagnava dall’altra per effetto della proporzionale, proprio
perché sia il Psi che il Ppi non godevano di “una diffusa ma non
intensa rappresentanza” in tutto il paese, ma di una intensa e
circoscritta rappresentanza nel corpo elettorale del Centro- nord.
Essi, nelle elezioni del 1919, avrebbero dunque conseguito un
numero di deputati ancora maggiore con lo scrutinio maggioritario,
di lista o uninominale, che con la proporzionale, cancellando i
liberali da quasi tutte le circoscrizioni del Centro-nord senza
incorrere in gravi perdite nel Sud e nelle isole dove, comunque,
non erano molto presenti nell’elettorato.
Giusti sottolineava — anticipando molti dei giudizi della
moderna scienza politica — come, più del sistema elettorale che
poteva solo correggere, ampliando o moderando, un successo, fosse
la forza dei partiti e il loro tipo di diffusione sul territorio a
decidere del successo elettorale nel caso di circoscrizioni assai
grandi come quelle delle elezioni del 1919 ulteriormente estese nel
1921. “Appare chiaro [...] come l’applicazione del nuovo si-
34 U. Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., p. 41.35 U.
Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., p. 41.36 Per i
risultati della sinistra si rimanda al saggio di A. Mastropaolo
Elezioni, in Fabio Levi, Umberto Levra, Nicola Tranfaglia (a cura
di), Il mondo contemporaneo. Storia d ’Italia, Firenze, La Nuova
Italia, 1978, vol. I, pp. 255-280, qui p. 272, tav. 8. Per quanto
riguarda invece il risultato del Ppi si veda, di E. Caranti, Il
partito popolare nelle elezioni dell’altro dopoguerra, “Civitas” ,
1956, n. 9-10, pp. 48-64, e di Gabriele De Rosa II partito popolare
italiano, Roma-Bari, Laterza, 1972, pp. 31-35.
-
42 Serge Noiret
stema elettorale non abbia portato per opera propria a una
situazione politica diversa da quella che usciva dalle reali
condizioni dei partiti al momento delle elezioni, conseguendo
soltanto l’effetto di moderare nei risultati numerici la prevalenza
o la preponderanza dei partiti vincitori.”37.
Seguendo queste indicazioni possiamo aggiungere che la
proporzionale moderò il successo del Psi e del Ppi nel 1919
costruendo un baluardo in difesa dei liberali nel Centro-nord e
mantenendo le loro posizioni di potere nel Centro-sud senza
tuttavia mutare i termini politici della crisi del dopoguerra.
Vogliamo adesso costruire una nostra ipotesi di calcolo
comparato dei risultati delle elezioni del 1919 con il mantenimento
dello scrutinio maggioritario, rendendolo compatibile con il tipo
di lotta politica condotta nel 1919, basata essenzialmente sulla
concorrenza delle liste e non sulle singole personalità, malgrado
la possibilità di un massimo di quattro voti di preferenza o di
aggiunta a secondo dell’entità delle circo- scrizioni e del numero
dei deputati da eleggere.
Abbiamo dunque modificato, con lo scopo di meglio aderire alla
realtà del 1919, la legge del 1912, immaginando uno scrutinio
maggioritario di liste concorrenti nei collegi del 1919 e
mantenendo tutte le altre particolarità della legge del 1912, a
cominciare dai due turni. Non abbiamo tentato una ricostruzione
simile a quella del Giusti per tutto il Regno. Tale ricostruzione
di come si sa
rebbero svolte le elezioni del 1919 all’interno dei vecchi
collegi uninominali sarebbe stata un’impresa troppo ardua non
disponendo, al momento di redigere questo articolo, come Giusti per
Firenze, dei dati delle sezioni per comune sulla base della
geografia elettorale dei collegi uninominali ancora utilizzati nel
19 1 338. I risultati comunque non si sarebbero modificati
sensibilmente nel loro significato generale, come d’altronde
proprio lo studio di Giusti su Firenze dimostra chiaramente.
Ci siamo inoltre ispirati in parte — come già anticipato
nell’introduzione — a stimoli provenienti dalla scienza politica,
seppure con la “naïveté” dello storico di fronte allo scienziato
della politica in contatto continuo con questi metodi. Occorre
dunque insistere sempre sulla cautela con la quale bisogna
procedere sulla strada delle simulazioni elettorali: “possiamo
analizzare solo l’effetto meccanico dell’introduzione del sistema
maggioritario e non l’effetto psicologico” scrive Gianfranco
Pasquino39.
Proprio uno studio di Pasquino a proposito delle elezioni del 3
giugno 1979 in Italia ci è servito da modello di riferimento,
presentando, nelle ingegnerie elettorali confrontate, condizioni
analoghe a quelle del primo dopoguerra. Pasquino intendeva
dimostrare come si sarebbero svolte le elezioni del 1979 se, invece
della proporzionale con scrutinio di lista, ci fosse stata una
legge elettorale politica basata sullo scrutinio maggioritario di
lista a doppio turno40.
37 U. Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., p. 41.38
Abbiamo esaminato la stampa locale per Firenze (“La Nazione”) e per
Bologna (“11 Resto del Carlino della Sera”) per il periodo delle
elezioni, novembre 1919, senza mai riscontrare la presenza di dati
elettorali coerenti e sistematici, forniti a livello di sezioni
elettorali. Per quanto riguarda la ricerca dei verbali delle
sezioni elettorali che davano i risultati delle sezioni si rimanda
all’intervento di Antonio Agosta sull’Archiviazione e la
reperibilità delle fon ti dei dati elettorali dall’Unità ad oggi
durante il convegno di Firenze del 30 e 31 ottobre 1987, intitolato
“Per un atlante elettorale italiano. Problemi di storia e geografia
elettorale”.39 Gianfranco Pasquino, Suggerimenti critici agli
ingegneri elettorali, “Il Mulino”, 1979, n. 267, pp. 749-780, qui
p. 767.40 G. Pasquino, Suggerimenti critici, cit.; sulla
simulazione si vedano le pagine 767-771.
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La ‘proporzionale’ 1918-1919 43
Pasquino utilizza i dati della votazione per il Senato. Al primo
turno vengono eletti i candidati o le liste che superano il 50 per
cento dei suffragi validi espressi e, al secondo turno, tra i due
candidati rimasti, quelli che ottengano la maggioranza semplice dei
suffragi validi espressi. Pasquino accetta anche, nella sua
ipotesi, che i partiti che superano il 45 per cento dei voti validi
espressi al primo turno ottengano “quasi automatica- mente
l’elezione del loro candidato al secondo turno”. Egli nota poi da
un punto di vista generale che “le conseguenze dell’introduzione
del sistema maggioritario a doppio turno non possono in alcun modo
essere previste se non si dispone di due elementi conoscitivi
essenziali: il ritaglio delle circoscrizioni e gli orientamenti dei
partiti per quel che riguarda gli apparentamenti”41.
Rileviamo subito che, con l’ipotesi dell’introduzione di un
simile sistema nel 1919, optiamo tuttavia per un sistema
maggioritario di liste concorrenti e a due turni nelle nuove
circoscrizioni del 1919, che furono provvisoriamente definite prima
delle elezioni del novembre sulla base di raggruppamenti degli
antichi collegi uninominali. Per quanto riguarda invece eventuali
trasferimenti di voti al secondo turno, non potendo sapere quali
sarebbero state in ogni collegio le decisioni dei partiti o dei
candidati nei confronti degli apparentamenti eventuali, né
potendosi basare su una riconduzione automatica di accordi come
quelli del patto Gentiioni, abbiamo scelto le ipotesi più
verosimili, tenuto il dovuto conto della situazione politica del
1919.
Piuttosto che utilizzare una simulazione sulla base di uno
scrutinio maggioritario di
lista a due turni, sarebbe stato forse interessante confrontarsi
con una simulazione dell’applicazione del modello ideale di sistema
elettorale che Giuseppe Maranini pensava come unico rimedio per
ovviare allo sviluppo “pseudoparlamentare” dell’Italia liberale:
“un sistema maggioritario ad un turno e maggioranze relative di
tipo britannico,” il famoso “first-past-the-post”42.
Una tale simulazione, come abbiamo già rilevato, non si può
tuttavia legittimamente adattare alle condizioni politiche del
1919, dove si sarebbe trasformata in una riforma istituzionale
improponibile. Invece, tale sistema introdotto nell’Ottocento o
prima dell’allargamento del suffragio, sarebbe stato certamente
pensabile ed auspicabile43. Con l’introduzione del suffragio
universale in due tempi, tra il 1912 e il 1918, e con il
riconoscimento del diritto alla partecipazione politica delle
grandi masse, inevitabile già dopo la guerra di Libia, non si
poteva pensare di adottare un sistema che urtava con gli interessi
dei partiti che controllavano in parte tali masse e che, dopo
l’esperienza trasformistica del patto Gentiioni, si volevano ora
coinvolgere a pieno titolo nell’arco dei partiti costituzionali e
di governo. Questi motivi, che permeano tutto il dibattito sulla
nuova legge politica e che sono desunti dalle reali condizioni del
dopoguerra in Italia, rendono l’introduzione, nel 1919, di uno
scrutinio che si potrebbe chiamare “maraniniano” solo un’ipotesi
teorica. Le uniche simulazioni possibili, vale a dire compatibili
con il particolare momento storico, sono quelle che ipotizzano il
mantenimento del vecchio sistema almeno per le prime elezioni dopo
la guerra, come avrebbe forse voluto Orlando.
41 G. Pasquino, Suggerimenti critici, cit., p. 768.42 Sul
sistema britannico in prospettiva storica si veda di Andrew McLaren
Carstairs, A short history o f electoral systems in Western Europe,
London, Allen & Unwin, 1980, pp. 189-200. Si veda anche di
Eugenio Biagini Partiti, lotta politica ed elezioni in Inghilterra,
1830-1886: elementi d ’analisi e spunti bibliografici, “Critica
storica” , 1987, n. 3, pp. 453-507.43 È questo anche il parere di
C. Ghisalberti nel suo Le istituzioni politiche, cit., p. 123.
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44 Serge Noiret
Per suffragare maggiormente l’impossibilità di ricorrere ad una
simulazione sulle basi ideali di Maranini, bisogna insistere sul
ruolo decisivo che ebbe, nel rapporto tra sistema politico e
sistema elettorale, la fondazione del Partito popolare. Nel 1913,
infatti, gli accordi Gentiioni non furono graditi da chi, come don
Sturzo, voleva ottenere una vera rappresentanza politica per un
partito cattolico e non fornire soltanto un serbatoio di voti
cattolici per candidati del ministero. Sturzo era rimasto
profondamente avverso all’ennesima operazione trasformistica gio-
littiana del 191344. Il giovane partito di don Sturzo, Filippo Meda
e Guido Miglioli intendeva confrontarsi, per la prima volta, con il
nuovo corpo elettorale ed ottenere quanto i calcoli imprecisi dei
risultati effettivi del patto Gentiioni non avevano potuto dare,
vale a dire una misura della reale importanza delle forze
cattoliche nella società. Eventuali alleanze con i liberali a
livello nazionale erano molto azzardate, vista la mancanza di un
interlocutore nazionale, di un vero partito liberale. Tali intese
potevano soltanto maturare in seguito, nell’intervallo tra i due
turni, nei collegi dove la maggioranza assoluta non fosse stata
raggiunta al primo turno.
Un’alleanza di ferro tra un partito cattolico già strutturato —
non era così — e un partito liberale — che non esisteva —, con il
mantenimento del vecchio sistema elettorale avrebbe spazzato via i
socialisti da tutti i collegi dove non avessero raggiunto la
maggioranza assoluta al primo turno. Questa ipotesi non è tuttavia
da prendere in considerazione anche perché, se fosse esistita una
tale volontà politica anche con l’introduzione
della proporzionale, la stessa alleanza avrebbe dato governi
stabili e forti al paese. In quel caso non si sarebbero nemmeno
dovute mantenere ingegnerie elettorali che sottorappresentavano le
minoranze, in questo caso i socialisti massimalisti.
Abbiamo dunque preso in considerazione tre ipotesi, delle quali
le prime due ci sembrano le più aderenti al quadro politico
generale. Esse tengono dovuto conto della polarizzazione del
sistema politico — socialisti, cattolici e liberali - nell’ambiente
del pluralismo partitico del dopoguerra. Pensare in termini
dualistici o addirittura bipartitici il primo dopoguerra, vale a
dire immaginare una ingegneria elettorale che isolasse il Psi
facendo dei poli liberali e cattolici gli arbitri del sistema,
avrebbe sottovalutato sia il ruolo fondamentale giuocato dal Psi,
anche massimalista, nella società civile, sia la necessità che
spingeva da due decenni i liberali ad avviare una collaborazione di
governo con l’ala riformista del Psi. Era poi necessario tenere
anche conto della frantumazione della società civile e della
molteplicità di interessi economici e sociali in conflitto
nell’immediato dopoguerra, definito da Charles S. Maier all’insegna
del corporatismo45. Per parte sua un eventuale “polo liberale”
avrebbe dovuto tenere conto di queste istanze corporatiste, visto
che addirittura si pensava di dare maggior forza rappresentativa
all’espressione di interessi di classe e/o economici anche nella
Camera e nel Senato46. Solo un sistema proporzionale poteva
riflettere tali interessi corporatisti o, in parte, un sistema
maggioritario a doppio turno sulla base della legge del 1912, come
dimostrano diversi studi ormai classici nell’ambi-
44 Sulle posizioni di Sturzo, profondamente contrario ai blocchi
clerico-moderati, si veda G. De Rosa, La crisi dello Stato liberale
in Italia, Roma, Studium, 1964, pp. 47-77 e dello stesso autore
Luigi Sturzo, Torino, Utet, 1977.45 Charles S. Maier, La
rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nei
decennio successivo alla prima guerra mondiale, Bari, De Donato,
1979.46 Gaspare Ambrosini, Sindacati, consigli tecnici e Parlamento
politico, Roma, Associazione Romana Editoriale, 1925.
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La ‘proporzionale’ 1918-1919 45
to della scienza politica sul rapporto tra legge elettorale e
numero dei partiti47.
Nelle nostre simulazioni abbiamo dunque tenuto presente questa
frantumazione della società italiana e delle realtà del sistema
politico-partitico: solo il mantenimento dello scrutinio
maggioritario di lista a due turni si sarebbe rivelata un’ipotesi
praticabile. Immaginiamo due possibili scenari della sua
applicazione al 1919: uno meno sfavorevole al Psi che, dei due
partiti di massa, era quello che si contrapponeva frontalmente al
sistema liberale e alle conseguenze dell’intervento e della guerra,
e un altro scenario più sfavorevole al Psi.
Abbiamo nonostante tutto costruito una terza simulazione che dia
alla scelta del sistema elettorale, nel 1919, un peso che in realtà
non possedeva, una simulazione dunque poco consona alle condizioni
del sistema politico, per tentare di dimostrare per assurdo come
anche i risultati che vedremo, premiando i liberali oltre ogni
misura, non avrebbero cambiato il nodo essenzialmente politico
della crisi del sistema. Per questa ipotesi abbiamo artificialmente
cancellato ogni residua differenza tra interventisti e neutralisti
in campo costituzionale in modo da immaginare che, alla pari del
Psi e del Ppi, i liberali avessero creato prima delle elezioni un
partito politico nazionale.
In tutte e tre le ipotesi la variabile indipendente è quella di
un Psi quasi sempre isola
to, che poteva contare quasi unicamente — al secondo turno — su
un elettorato proprio, senza flussi di voti nuovi provenienti da
elettori di altri partiti al primo turno48. L’elettorato del Psi
era molto strutturato e organizzato dalle reti politiche, le
sezioni e le federazioni, e dalle leghe di resistenza ed era
convinto in partenza di dare un voto “contro la guerra” . Il resto
del corpo elettorale era poco mobile in favore dello stesso Psi,
come d’altronde il programma apertamente rivoluzionario di questo
partito nonché, ad elezioni avvenute, le percentuali irrisorie di
voti di “panachage” che realmente ottennero i suoi candidati — sia
nel 1919 che nel 1921 — dimostrano con sufficiente chiarezza49.
Per quanto riguarda l’altro grande partito di massa del 1919 —
il Ppi — a parte le considerazioni già svolte, abbiamo ipotizzato
una maggiore mobilità dell’elettorato di centro destra al secondo
turno verso le sue liste. Sulla scia degli accordi del 1913 e della
collaborazione di Filippo Meda al governo Bosel- li nel 1916, il
primo ministero Nitti contava già sulla collaborazione di due
ministri cattolici. Questo partito si poteva dunque considerare
“ministeriabile” e comunque integrato nell’arco dei partiti
costituzionali malgrado grosse tensioni interne e con la Santa
sede. Non si poteva dunque prescindere da possibili alleanze tra
popolari e costituzionali dopo il primo turno.
47 Maurice Duverger, I partiti politici, Milano, Comunità, 1961;
D. Fisichella, Elezioni e democrazia, cit., pp. 181-193.48
L’analisi dei flussi elettorali si fa tradizionalmente con una
buona dose di “buon senso” o di riflessione politica o sulla base
di ricerche empiriche e quantitative comparate (si veda per esempio
il saggio di Annie Laurent, che mette in relazioni i risultati
delle elezioni legislative francesi del 16 maggio 1986 con i
risultati delle elezioni regionali nelle circoscrizioni del
Nord-Pas-de-Calais nel suo Le nomadisme électoral, “Revue française
de Science politique”, 1987, n. 1, pp. 5-20.) Esiste tuttavia un
modo “scientifico” di procedere che rifiuta le teorie basate sul
“buon senso”. Tale metodo sembra impossibile da applicare nelle
analisi storiche per la difficoltà o addirittura l’irreperibilità
di “dati al più basso livello di aggregazione disponibile (sezioni
elettorali)” (p. 440): si veda di Stefano Draghi l’applicazione del
modello di Goodman nel suo L ’analisi dei flussi elettorali tra
metodo scientifico e dibattito politico, “Rivista italiana di
scienza politica”, 1987, n. 3, pp. 433-455 e, di più immediata
comprensione, dello stesso autore La lunga marcia dell’elettorato
italiano. Il modello dei flussi per capire il voto, “Politica ed
economia”, 1987, n. 9, pp. 23-25.49 Si veda il nostro II Psi e le
elezioni, cit.
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46 Serge Noiret
Le liste costituzionali e liberali sono quelle che, a nostro
parere, e sempre tenendo conto della particolare situazione storica
del primo dopoguerra, avrebbero visto confluire su di sé un maggior
trasferimento di voti nel caso di un ipotetico secondo turno. È per
questo motivo che abbiamo ritenuto legittimo privilegiare, al
secondo turno, i candidati liberali arrivati sia primi che secondi
al primo turno, come se fossero state liste di un unico partito
(Cost) già dal primo turno. Per rendere ancora, e in modo forzato,
più consistente l’area costituzionale, non si sono mai dissociati i
socialisti riformisti o i radicali da questo “polo liberale”.
Abbiamo soltanto considerato i repubblicani a parte, come quarto
partito interventista e arroccato sul rifiuto di ogni
patteggiamento con candidati neutralisti.
Prima di passare all’analisi dei dati, bisogna nuovamente
rammentare le dovute cautele in materia di simulazioni elettorali
ancora recentemente ricordate nel dibattito politico dal senatore
Ruffilli, autore di un progetto di riforma elettorale per conto
della De50. “Le simulazioni — a parere di Ruffilli — non possono
tener conto dei mutamenti di comportamento degli elettori davanti a
un nuovo sistema elettorale.”51. L’introduzione di un particolare
sistema elettorale esercita certamente i suoi particolari effetti
psicologici sul comportamento degli elettori, ma soprattutto sul
modo con il quale partiti e candidati si propongono di affrontare
la campagna elettorale. (Ci basta sottolineare che abbiamo avuto
l’occasione di studiare il modo con il quale la Direzione di un
partito centralizzato come il Psi affrontò le elezioni del 1919
imponendo le liste bloccate con una proporzionale interna alla
lista stessa tra i
suoi candidati, in modo da rispettare l’equilibrio delle forze
tra massimalisti e riformisti in un determinato collegio sulla base
dei risultati politici del XVI congresso dell’ottobre 1919).
Le tre ipotesi di simulazione
Sintetizziamo ora la nostra ipotesi di come si sarebbero svolte
le elezioni del 1919 se si fosse utilizzata la legge elettorale
politica del 1912.
Considerazioni comuni alle tre ipotesi.
1. Si utilizza come sistema elettorale lo scrutinio
maggioritario di lista a due turni sulla base della legge
elettorale politica del 1912 applicata ai collegi definiti dalla
nuova legge del 1919 con un semplice raggruppamento di quelli del
1913.2. Le variabili indipendenti sono: i risultati elettorali del
16 novembre 1919, la geografia dei collegi e lo scrutinio di lista
con la nuova legge elettorale politica del 191952.
Ipotesi A (relativamente più favorevole al Psi).
a. Tutte le liste non esplicitamente del Ppi, del Psi o del Pri
che non siano liste scissionistiche di questi tre partiti, sono
raggruppate arbitrariamente per semplificare il calcolo dei
risultati, sotto la denominazione di Partito costituzionale
(Cost).b. I collegi dove il Ppi, il Psi o il partito Cost ottennero
più del 45 per cento dei voti di lista validi, durante la votazione
del 16 novembre 1919, sono attribuiti alla lista di
50 Roberto Ruffilli (a cura di), Materiali per la riforma
elettorale, Bologna, Il Mulino, 1987.51 R. Ruffilli, Elezioni:
cambiando il sistema si cambia l ’Italia, “Corriere della Sera”, 16
gennaio 1988.5~ I dati dei voti validi sono stati ripresi dalla
statistica del ministero per l’Industria, il commercio ed il
lavoro, Ufficio centrale di statistica, Statistica delle elezioni
generali politiche per la X X V legislatura, 16 novembre 1919,
Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra,
1920.
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La ‘proporzionale’ 1918-1919 47
maggioranza relativa prima del secondo turno o ballottaggio.
c. Durante il secondo turno, fittizzi trasferimenti di voti
validi si sono fatti soltanto tenendo conto delle seguenti
direzioni:
se il Psi e il Ppi sono i due partiti vincenti dopo il primo
turno, gli altri voti Cost si trasferiscono automaticamente sulla
lista del Ppi durante il secondo turno eccezione fatta del caso
menzionato in (b) e dei due collegi seguenti: Ancona-Pesaro, 9
deputati da eleggere e Genova-Porto Maurizio, 17 deputati da
eleggere (due collegi dove il frazionamento delle liste degli altri
partiti rende il trasferimento di voti sul Psi al secondo turno
minimo per assicurare ad esso la vittoria sul Ppi in entrambi i
casi);
se invece il secondo partito vincente dopo il Psi è il partito
Cost, eventuali trasferimenti di voti validi nel secondo turno si
operano dal Ppi verso il partito Cost in tutti i casi, eccezione
fatta per quelli in cui il Psi ha ottenuto più del 45 per cento di
voti validi al primo turno.d. Quando le due liste vincenti al primo
turno sono entrambe del partito Cost, s’intende ovviamente che il
collegio appartiene al partito Cost.
e. Se il Ppi è il partito vincente al primo turno senza la
maggioranza assoluta, il collegio è vinto dal Ppi solo se esso ha
totalizzato più del 45 per cento dei voti o nel caso che il secondo
partito sia il Psi e non superi il 45 per cento dei voti validi
espressi. Nel caso che il Ppi fosse seguito dal partito Cost senza
totalizzare più di 45 per cento dei voti, il collegio è attribuito
al partito Cost al secondo turno.
f. Se il partito Cost arriva primo al primo turno esso vince il
collegio in tutti i casi, anche se si dovesse ricorrere al secondo
turno sia con il Ppi sia con il Psi. Se il partito Cost arriva
secondo al primo turno perde il collegio al secondo turno solo
quando Ppi o Psi,
arrivati primi, totalizzano più del 45 per cento dei voti validi
espressi alla prima votazione.g. Le circoscrizioni elettorali sono
54 e i deputati da eleggere sono 508, corrispondendo ai 508 collegi
uninominali del 1912.
Ipotesi B (la più sfavorevole al Psi).
Sono valide tutte le regole enunciate nella ipotesi A, ad
eccezione del caso di un collegio che veda il Psi come primo
partito con più del 45 per cento dei voti validi al primo turno,
nonché nel caso dei collegi di Ancona-Pesaro e di Genova-Porto
Maurizio. Nel ballottaggio vince sempre il partito arrivato
secondo, il Ppi, il partito Cost o il Pri. Si ottiene così una
elezione nella quale i socialisti vincono soltanto quando essi
totalizzano più del 50 per cento dei voti validi espressi alla
prima votazione, così da escludere il ballottaggio.
Ipotesi C (modello ideale per il Partito liberale (Cost)).
Questa ipotesi, l’abbiamo già rilevato, non possiede nessuna
vera aderenza alle reali condizioni politiche del 1919. Presuppone
un vero patto di ferro, un Blocco nazionale di tutte le forze
liberali e moderate indipendentemente dal loro schieramento prima
della guerra mondiale tra “neutralisti” ed “interventisti”, nonché
una risoluzione positiva delle divisioni estreme che percorrevano
la maggioranza liberale della XXIV legislatura. In questo caso
sarebbe esistito un partito liberale organizzato, moderno e
strutturato su scala nazionale alla pari del Psi, partito che
avrebbe potuto di per sé influire sul processo elettorale.
Abbiamo considerato, ferme restando tutte le altre condizioni
della nostra ipotesi A, che i liberali formino una lista unica in
ogni collegio già dal primo turno. Queste liste Cost comprendono,
ai fini della nostra si-
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48 Serge Noiret
mulazione, tutte le liste che hanno ottenuto voti alle elezioni
del 16 novembre e che non sono ovviamente del Pri, del Psi o del
Ppi.
Rileviamo subito un cambiamento in solo otto collegi, tutti del
Centro-nord. Tre collegi vedono i liberali superare i socialisti
dopo il primo turno e contendersi il secondo turno con il Ppi, che
perde il collegio in tutti i casi eccezion fatta per il collegio di
Brescia, il risultato del quale non cambia nei confronti della
nostra ipotesi A.
Sette collegi vedono dunque i liberali spuntare la
rappresentanza con la ipotesi C:
— a scapito dei socialisti nel collegio di Genova-Porto Maurizio
(Psi, —17)— a scapito dei cattolici nei collegi seguenti: Cuneo,
Roma, Udine-Belluno, Treviso, Venezia e Vicenza (Ppi, —45)
Questa conquista di 62 seggi da parte delle liste Cost sulla
base dei risultati di una votazione con le condizioni della nostra
ipotesi A, ma con un blocco di tutte le liste non appartenente al
Pri, Ppi o Psi in partenza, sarebbe stata decisiva per ottenere una
maggioranza stabile di governo ma soltanto con il secondo turno. La
conquista dei collegi dipendeva dunque da questioni squisitamente
politiche: la nascita o meno di un vero partito liberale adatto a
confrontarsi con il nuovo modo di fare politica dopo l’introduzione
del suffragio universale e di integrare nuove istanze sociali e
nuove masse. Questo “cavaliere inesistente” — per dirla con Giorgio
Galli —, non aveva posto nel contesto storico del 1919 a causa
della frammentazione dell’arco costituzionale dopo la caduta del
governo Orlando e della permanenza di una mentalità legata, nel
campo liberale, al vecchio notabilato. In presenza tuttavia di tali
ipotetiche condizioni politiche, un sistema elettorale
maggioritario a due turni avrebbe avuto come effetto di rafforzare
una maggioranza parlamentare liberale già anticipata prima delle
elezioni con una sola ma decisi
va condizione: un accordo al secondo turno con i cattolici. In
presenza di una tale volontà politica e di un moderno partito
liberale si sarebbe ottenuto lo stesso effetto sull’esecutivo che
con la proporzionale anche se, ovviamente, non lo stesso numero di
seggi.
Questa ipotesi è però poco realistica a causa del secondo turno
che, in tutti i collegi dove candidati “ministeriali” sarebbero
stati eletti contro i socialisti, obbligava il candidato Cost a
cercare i voti cattolici, ricalcando una situazione “gentiloniana”
in presenza però, questa volta, di un forte ed organizzato partito
cattolico poco disposto a tale mercanteggiamento.
Rileviamo infine come, con una tale simulazione, il Ppi perda
molto di più dei socialisti, che rimangono notevolmente stabili
anche con questa simulazione.
Risultati della simulazione
Risultati della ipotesi A
Con la ipotesi A (per i dati disaggregati della simulazione,
vedi tab. 1), più favorevole al Psi, si ottiene il seguente
risultato per le elezioni del novembre 1919 con la legge del
1912:
1° turno (vince il partito che ottiene più del 50 per cento dei
voti validi di lista espressi il 16 novembre 1919):Psi: 10 collegi
per un totale di 126 deputati. Ppi: 1 solo collegio per un totale
di 7 deputati.Cost: 3 collegi per un totale di 25 deputati.
2° turno (vince tra i due partiti meglio piazzati al primo turno
il partito che ottiene il miglior trasferimento di voti di altre
liste sulle sue al secondo turno, ottenendo in questo caso il primo
posto o la maggioranza relativa):Psi: 6 collegi per un totale di 56
deputati. Ppi: 11 collegi per un totale di 103 deputati.
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La ‘proporzionale’ 1918-1919 49
Cost: 23 collegi per un totale di 191 deputati.II risultato
globale delle elezioni secondo la nostra ipotesi A sarebbe stato il
seguente:
Psi: 182 deputati pari al 35,89 per cento dei mandati.Ppi: 110
deputati pari al 21,65 per cento dei mandati.Cost.: 216 deputati
pari al 42,51 per cento dei mandati.
Risultati della ipotesi B.
Con la ipotesi B, sfavorevole al Psi, si ottengono i seguenti
risultati:
1° turno: identico alla ipotesi A 2° turno:Psi: mantiene i 126
deputati ottenuti al primo turno della ipotesi A.Ppi: mantiene i
risultati della ipotesi A (110 deputati) e conquista al secondo
turno 4 collegi in più (38 deputati) per un totale di 148
deputati.Cost: mantiene i risultati della ipotesi A (216 deputati)
e conquista al secondo turno 1 collegio (10 deputati in più) per un
totale di 226 deputati.Pri: con la ipotesi B il partito
repubblicano, rimasto senza rappresentanza con la prima ipotesi,
conquista al secondo turno un collegio ai danni del Psi, il
collegio di Ravenna- Forlì con un totale di 8 deputati.Il risultato
globale della elezione del 1919 con la nostra ipotesi B sarebbe
dunque stato il seguente:
Psi: 126 deputati pari al 24,80 per cento dei mandati (—
11,09).Ppi: 148 deputati pari al 29,72 per cento dei mandati (+
7,48).Cost: 226 deputati pari al 46,45 per cento dei mandati ( +
1,97).Pri: 8 deputati pari al 1,57 per cento dei mandati (+
1,57).
Risultati della ipotesi C.
Con la ipotesi C, molto favorevole al Cost, si ottengono i
seguenti risultati:
1° turno: identico a quello della simulazione A in tutti i
collegi meno 8: Brescia, Cuneo, Genova, Roma, Udine, Venezia,
Treviso e Vicenza.
2° turno: risultati calcolati sulla base della simulazione
A:Cost = 216 + 62 = 278 rappresentanti, pari al 54,72 per cento
della rappresentanza. Pri = 0 + 0 = 0Ppi = 110 — 45 = 65
rappresentanti, pari al 12,79% della rappresentanza.Psi = 182 — 17
= 165 rappresentanti, pari al 32,48 per cento della
rappresentanza.
La ripartizione della rappresentanza a Montecitorio risultante
dalle tre simulazioni è visualizzata nei grafici 1 e 2. Il dato di
maggiore rilievo che emerge da questi grafici appare il seguente:
là dove un partito si avvantaggia al secondo turno si tratta spesso
del Ppi e comunque quasi sempre del Ppi se al secondo turno i
cattolici competono con i socialisti. I cattolici, anche se
arrivati secondi al primo turno, riceverebbero ovviamente più
volentieri i voti del partito Cost che quelli del Psi.
Il dilemma del sistema politico italiano nel primo dopoguerra
non era dunque assolutamente dipendente dal tipo di sistema
elettorale ma dalle condizioni politiche, soprattutto dall’ipoteca
che gravava sul sistema per la mancanza di un partito Cost
strutturato e capace di definire anche prima del voto le sue
intenzioni di governo e le sue capacità di dialogo con il Ppi che,
anche in presenza delle ipotesi C, rimane decisivo per l’elezione
dei candidati liberali al secondo turno.
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50 Serge Noiret
Tabella dell’ipotetica governabilità.
Esaminiamo quali sarebbero state le eventuali maggioranze di
governo di Nitti con le nostre tre simulazioni.
Ipotesi reale, 1919: Cost + Ppi = 242 + 100 = 342, maggioranza
di 88 deputati. Ipotesi A: Cost + Ppi = 226 + 110 = 336,
maggioranza di 82 deputati.Ipotesi B: Cost + Ppi = 226 + 148 = 374,
maggioranza di 120 deputati.Ipotesi C: Cost = 278, maggioranza di
24 deputati.
Le cifre presentate da questo ipotetico panorama della
governabilità dopo le elezioni del 1919 sono solo indicative di
tendenze. Devono essere lette con la dovuta cautela anche se danno
informazioni sicuramente interessanti.
Se la situazione politica non cambia nei suoi termini reali
comparando la ipotesi A e B al risultato del 1919, bisogna rilevare
tuttavia quanto sia determinante il peso del partito cattolico in
una eventuale formula di governo con i liberali. Solo la ipotesi C,
del tutto astratta, darebbe una risicata maggioranza ai soli
liberali, molti dei quali non sarebbero stati eletti al secondo
turno senza i voti cattolici. Il peso politico dei cattolici, già
quantificato dall’ “Osservatore romano” dopo le elezioni del 1913
(i cattolici saranno stati determinanti nell’elezione di ben 228
deputati ministeriali) è determinante per la formazione di un
governo stabile. I socialisti, al pari della situazione di
esclusione del Pei dalle maggioranze di governo nel periodo
repubblicano, non sono minimamente in grado, per il loro peso
elettorale e parlamentare, di influire in modo decisivo sui destini
di una maggioranza di governo tra liberali e cattolici. Il sistema
politico del primo
dopoguerra — leggendo le cifre, ma anche ricordando delle
posizioni politiche dei massimalisti53 — esclude poi — in ogni caso
— i socialisti dall’esecutivo, rendendoli periferici nei confronti
del sistema stesso e anticipando, sotto questo profilo, il ruolo
odierno del Pei.
Con la simulazione A e soprattutto con quella B, ferma restando
la costante ed irriducibile avversione massimalista al sistema — ed
in questo caso una avanzata di una trentina di deputati (A) o una
perdita di una trentina di deputati (B) non influisce sulla
governabilità —, il partito Cost rimane maggiormente dipendente da
un eventuale accordo con il Ppi.
Conclusioni
Ci sembra dunque che i dati delle elezioni del 16 novembre 1919,
grazie a queste tre simulazioni, aiutino a risolvere il nodo
politico e istituzionale della crisi dello stato liberale.
L’effetto ingegneristico imputato al sistema elettorale del 1919
va ridimensionato a fattore di spiegazione della crisi dello stato
liberale: se si poteva parlare, per l’introduzione della
proporzionale nel 1919, di un effetto psicologico necessario e
desiderato dai liberali più progressisti per agire indirettamente
sulle masse controllate dal Ppi e dal Psi e su questi due partiti,
si deve tuttavia concludere che questa stessa legge elettorale ebbe
un’ “operatività” assai neutra nei confronti del sistema
politico-partitico. Non si può certamente affermare la stessa cosa
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