1 REPORT DI RICERCA TERRITORI CHE CONCILIANO PROGRAMMA DI POLITICHE E AZIONI PER LA FAMIGLIA IN VENETO di Riccardo Prandini e Vincenzo Marrone Marzo 2015
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REPORT DI RICERCA
TERRITORI CHE CONCILIANO
PROGRAMMA DI POLITICHE E AZIONI PER
LA FAMIGLIA IN VENETO
di Riccardo Prandini e Vincenzo Marrone
Marzo 2015
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Questa ricerca è stata resa possibile anche grazie al sostegno de:
l‟Osservatorio Regionale delle Politiche Sociali - Regione Veneto, in particolare al contributo
della Dott.ssa Antonella Masullo, Dott.ssa Laura Nardini e Dott.ssa Chiara Palutan;
il Centro Produttività Veneto - Fondazione “G.Rumor” - in particolare il Direttore Dott.re
Antonio Girardi e la Dott.ssa Patrizia Bernardini;
le imprese in cui si è svolta la ricerca: Baxi, Crivertrade, Castelmonte, Keyline, Samo e Texa;
gli auditori Fabio Toffolon, Rosa Marina Danzì e Valeria Zagolin.
Riccardo Prandini è Prof.re ordinario di Sociologia
Vincenzo Marrone è dottore di ricerca in Sociologia
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INDICE
INTRODUZIONE (di Vincenzo Marrone) p.7
1. VANTAGGI AZIENDALI E VANTAGGI FAMILIARI DELLE POLITICHE DI CONCILIAZIONE
FAMIGLIA-LAVORO. QUALE CONTINUITÀ? (di Vincenzo Marrone) 13
1.1 – Le misure di conciliazione famiglia-lavoro. Declinazioni e applicazioni 13
1.2 – Un focus sulle politiche e sugli strumenti di flessibilità dell‟orario e
dell‟organizzazione del lavoro 17
1.2.1 – Misure di flessibilità, stress e vantaggi aziendali 19
1.2.2 – Misure di flessibilità e intensificazione del lavoro. Un paradosso?
1.3 – Misure di conciliazione famiglia-lavoro ed incidenza nella produttività.
Prove empiriche ed esiti discordanti 24
1.3.1 – L‟implementazione delle pratiche di conciliazione famiglia lavoro e le
performance aziendali. 26
1.3.2 – In quali aziende e per quali ragioni è più probabile che si adottino misure
di conciliazione. 32
1.4 – Il management 35
2. PERCHÉ LE IMPRESE CONCILIANO (di Vincenzo Marrone) 41
2.1 – Misure di conciliazione, certificazione Audit e indicatori di produttività.
Uno sguardo alle organizzazioni 41
2.2 – Conciliazione, innovazione tecnologica e creatività per eccellere nel mondo.
Il caso TEXA 53
2.3 – La conciliazione dai lavoratori ai cittadini, dalla fabbrica al territorio.
Il caso SAMO 59
2.4 – Conciliazione, tradizione e affezione per competere nel mercato globale.
Il caso Keyline 66
2.5 – Conciliazione, curare il prodotto e il lavoratore. Il caso Crivertrade 73
2.6 – Conciliare nelle cooperative sociali. Il caso di Castelmonte Onlus 79
2.7 – Conciliazione, fra premi incentivanti e pluralità di orari flessibili
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Il caso BAXI 88
3. LE PERCEZIONI DEI BENEFICI PER I DIPENDENTI E LE RISPOSTE
PROFESSIONALI (di Vincenzo Marrone) 93
3.1 – La survey ed il campione 93
3.2 – La percezione di benefici 95
3.3 – Le misure di conciliazione utilizzate 101
3.4 – Orientamenti e atteggiamenti verso il tema e gli strumenti di conciliazione
famiglia lavoro 105
3.5 – Le dinamiche del benessere 109
3.6 – La relazione indiretta fra produttività e benefici nelle relazioni familiari 110
3.7 – Fra conciliazione e produttività. Elaborazioni e percezioni dei lavoratori 113
3.7.1 – Soddisfazione, responsabilità, fiducia 115
3.7.2 – Flessibilità, disponibilità, affidabilità 119
4. QUALI DIMENSIONI RIPENSARE NELLA RELAZIONE FRA MISURE DI CONCILIAZIONE
E VANTAGGI AZIENDALI: SINTESI E PROSPETTIVE (di Vincenzo Marrone) 125
5. IL WELFARE AZIENDALE COME STRUMENTO DI SVILUPPO TERRITORIALE
SOCIO-ECONOMICO SOSTENIBILE E INCLUSIVO (di Riccardo Prandini) 133
5.1 - Il welfare aziendale territoriale e le sue sfide allo sviluppo economico
inclusivo. 133
5.2 - La trasformazione del sistema di Welfare collettivo: oltre lo Stato e
verso un sistema societario plurale 137
5.2.1 - Cosa significa oggi generare welfare: “secondo welfare” o “welfare
policontesturale”? 137
5.2.2 - La multidimensionalità del benessere: personale, lavorativa, familiare 141
5.2.3 - Contrattazione relazionale e promesse a lungo termine in un contesto lavorativo
sempre più incerto 143
5.2.4 - Personalizzazione come sistema di servizi “tagliati” sulla persona 149
5.3 - Cosa significa territorializzare il welfare aziendale: come riconnettere
l‟Amministrazione pubblica, il sistema delle aziende e il benessere familiare 152
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5.3.1 - De-territorializzazione e ri-territorializzazione dell‟economia: alcuni spunti
di riflessione 152
5.3.2 - Cosa è un territorio: oltre la semantica del locale-globale, verso una
governance sperimentale, poliarchica e di cluster 156
5.3.3 - L‟ordine costituzionale del territorio: come dare rappresentazione unitaria
a processi e strutture territoriali complesse 160
5.4 - La sfida delle Alleanze territoriali per lo sviluppo socio-economico: un territorio
che si costituisce e si attiva per generare benessere comune 165
5.4.1 - Le politiche familiari come investimenti generazionali per lo sviluppo
socio-economico del territorio 166
5.4.2 - Il dispositivo “Distretto“ e l‟attivazione familiare di un territorio 169
5.4.3 - Le Alleanze locali come drivers di investimento socio-economico sostenibile
e inclusivo 171
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 175
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INTRODUZIONE
È ormai ampiamente riconosciuto come l‟ingresso delle donne nel mercato del lavoro, le
trasformazioni demografiche e quelle dei legami familiari abbiano portato ad un profonda
riflessione scientifica e politica rispetto al tema della conciliazione famiglia e lavoro.
Espressione con cui si intendono tutte quelle programmazioni e modalità operative attraverso
cui bilanciare i due “mondi vitali” con le rispettive condizioni di necessità: da una parte quelle
di cura familiare e dall‟altra quelle riferite alla sfera professionale.
Quello conciliativo diventa dunque un tema cruciale che abbraccia tutte le pratiche concrete
con cui elaborare e “correggere” i conflitti esistenti fra il luogo della famiglia e quello del
lavoro (Donati e Prandini 2009; 2008; Donati 2005) e rispondere a nuove ed emergenti
istanze sociali, come la generazione di benessere (Prandini et alii 2014; Macchioni 2013). È
anche un‟opportunità per leggere le trasformazioni sociali in atto che coinvolgono la famiglia;
le questioni di genere e il tema delle pari opportunità – quindi di equità sostanziale – nel
mercato del lavoro e nella società; i profondi cambiamenti della cultura imprenditoriale e del
lavoro; l‟organizzazione aziendale; la produttività e la competizione in un mercato sempre più
globalizzato; le evoluzioni, gli sviluppi, le imperfezioni delle politiche di welfare.
Data l‟ampia portata del tema, è intuibile come esso possa definirsi come un crocevia – quindi
un punto di unione – di interessi disciplinari diversi. È possibile rintracciarne la portata
osservando come la letteratura scientifica ha declinato le varie accezioni e ne ha osservato le
applicazioni.
Il nostro contributo vuole rilevare un duplice movimento che si realizza all‟interno del tema
conciliativo. Se da una parte le misure di conciliazione sono ideate ed implementate per
andare incontro alle esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie, prevedendo quindi i soggetti
sociali lavoratore e famiglia, dall‟altra le misure conciliative assumono necessariamente un
secondo soggetto attivo: l‟impresa (o azienda o anche organizzazione, come si preferisce nella
letteratura internazionale) che per questo è frequentemente etichettata come family friendly.
Le misure di conciliazione benché possano distinguere un momento familiare da uno
imprenditoriale, di fatto, contemplano sempre, rispetto alla “realtà del fenomeno”, una
Il report di ricerca è stato realizzato dal prof.re Riccardo Prandini, autore del capitolo 5 e dal dott. Vincenzo Mar-
rone, autore dell‟introduzione e dei capitoli 1,2,3,4.
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relazione fra questi due mondi. Per comprendere pienamente le ragioni dell‟implementazione
di misure di conciliazione, le forme e le funzioni, gli sviluppi e gli effetti associati, è quindi
opportuno osservare come i due mondi comunichino per mezzo di tali pratiche.
Il nostro lavoro – con i limiti che non mancheremo di evidenziare - vuole rappresentare un
piccolo contributo scientifico alla letteratura esistente operando attraverso un approccio “bi-
focale”, osservando cioè contemporaneamente, e mettendole in relazione, sia la prospettiva
dei lavoratori - che fruiscono di politiche e misure di conciliazione - che quella aziendale -
che offre misure di conciliazione (Quali misure? Perché? In cambio di cosa?).
Il tema della conciliazione, le politiche e le pratiche, configurano quindi una relazione fra le
due dimensioni in cui possiamo ipotizzare una dinamica “retroattiva”. Una dinamica cioè in
cui le implementazioni offerte dalle aziende possono determinare – più o meno
significativamente - degli effetti percepiti dai lavoratori che a loro volta metteranno in atto
comportamenti ed atteggiamenti ipoteticamente “conformi” alle aspettative delle imprese,
realizzando non solo “circolarità virtuosa” ma soprattutto dei valori aggiunti non più
riconducibili esclusivamente alla domanda/offerta di misure di conciliazione. Possiamo
schematizzare questa dinamica come segue:
qv = f (oLF;dLF)
ql= f (oLF;dLF)
Dal punto di vista del lavoratore, la percezione del miglioramento della qualità della vita (qv)
(intesa come esito della maggiore possibilità di cura ed organizzazione familiare e lavorativa e
riduzione del conflitto), deriva dalla soddisfazione per l‟offerta di misure di conciliazione
realizzate dall‟azienda (oLF) rispetto a richieste specifiche provenienti dal dipendente (dLF).
Dal punto di vista dell‟azienda, la percezione del miglioramento della qualità del lavoro (ql)
(intesa come attaccamento aziendale, performance, disponibilità, capacità di fare squadra,
impegno professionale ecc.), deriva dall‟efficacia delle misure di conciliazione offerte (oLF)
rispetto a richieste specifiche provenienti dal dipendente (dLF).
Possiamo semplificare – ricorrendo alla terminologia degli economisti – dicendo che quando
la richiesta di misure di conciliazione incontra una offerta di misure di conciliazione si
produce un equilibrio che definisce dei vantaggi per gli attori: i dipendenti, le loro famiglie e
le imprese.
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Possiamo parlare quindi di un equilibrio fra domanda e offerta così come di un equilibrio fra
vantaggi per i dipendenti e vantaggi per i datori di lavoro. La prospettiva è dunque win-win in
cui, cioè, tutti gli attori coinvolti sperimentano dei miglioramenti. E se tutti gli attori coinvolti
sperimentano livelli di miglioramento, dovremmo assumere che l‟implementazione di misure
di conciliazione, che incontrano e soddisfano una domanda, produce una “eccedenza”. Cioè
qualcosa che va oltre il semplice equilibrio dei fattori originari e che “crea” un valore
aggiunto – appunto – che può essere economico, sociale, psicologico ecc. (Kossek e Nichol
1992).
Abbiamo bisogno di entrare entro questo modello logico per comprendere meglio le
potenzialità, i limiti e le dinamiche. Possiamo trovarci difronte a differenti condizioni in cui i
due termini, anche se per ragioni diverse, non si incontrano producendo delle incongruenze.
Caso a: la richiesta di misure da parte dei dipendenti supera la disponibilità offerta
dall’azienda.
dLF>oLF
Siamo in una condizione di scarsità e, eventualmente, di inefficienza. Le misure presenti – se
presenti – non sono sufficienti a rispondere alle richieste dei lavoratori, producendo
potenzialmente degli scompensi a livello lavorativo e produttivo. Per esempio, la semplice
necessità di un genitore (ipotizziamo una madre lavoratrice) di accompagnare suo figlio
all‟asilo ogni mattina, in mancanza di altre risorse familiari o di servizi territoriali specifici, se
non incontra forme di flessibilità di orario all‟ingresso può comportare, ritardi a lavoro,
permessi e richieste di giorni di malattia ed in alcuni casi intenzioni di cambiare lavoro,
generando delle esternalità negative per l‟azienda.
Vediamo ora il caso contrario a quello appena descritto.
Caso b: le misure introdotte sono eccedenti o differenti da quelle richieste:
oLF>dLF
oLF≠dLF
Se le misure introdotte dall‟azienda superano o si differenziano dalle richieste e quindi dal
loro effettivo utilizzo, specie se hanno dei costi economici per l‟azienda, si configura una
condizione di inefficacia e di sprechi di risorse. Immaginiamo, che - in una situazione
paradossale - una organizzazione generosa e particolarmente sensibile al tema della
conciliazione, introduca un asilo nido aziendale ed assuma una educatrice (o stabilisca una
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convenzione con una cooperativa sociale) per la corretta fruizione del servizio. I responsabili
aziendali del progetto però non riflettono su un aspetto importante: dal momento della
richiesta di un nido aziendale da parte dei lavoratori, alla sua effettiva operatività è trascorso
del tempo. Quei bambini per cui era stato progettato sono cresciuti e ora non ci sono bambini
nelle famiglie dei dipendenti al di sotto dei tre anni. In più, le richieste dei genitori sono
cambiate: non hanno più bisogno di un asilo nido ma di una organizzazione flessibile
dell‟orario del lavoro per permettere loro di accompagnare i bambini presso le scuole materne
del paese. Se non ci sono più bambini sotto i tre anni, cosa fare del nido? E dell‟educatrice?
Evidentemente i costi sostenuti per questo particolare “servizio sociale” non ha corrisposto ad
un investimento valido e la percezione dei lavoratori – nonostante la sensibilità dell‟azienda
verso i bisogni di conciliazione - può indebolire il senso di appartenenza, i comportamenti
civici organizzativi, il benessere familiare ecc. Ci ritroviamo nella situazione descritta con il
caso a.
Questi esempi, talvolta paradossali – ma forse non troppo – illustrano come una cultura
aziendale non riflessiva (Prandini 2012) possa incontrare scompensi nella stessa attività
imprenditoriale e realizzare esternalità negative. Da una parte a causa di un basso livello di
cultura della conciliazione che comporta scarsi investimenti in strumenti e risorse per i
dipendenti; dall‟altra a causa di una sensibilità “acritica”, di una tradizione che non è al passo
con il tempo, o a causa di una desiderabilità sociale per cui si cerca di costruire un‟immagine
aziendale positiva o semplicemente di rincorrere le “mode del momento” che, di fatto,
vanificano gli investimenti.
Rimanendo in una prospettiva teorica, la condizione ottimale è raggiunta quando le misure di
conciliazione offerte incontrano le richieste concrete dei lavoratori. Ma per raggiungere
questo equilibrio gli attori devono mettere in campo diverse strategie, capacità di ascolto,
sensibilità e mobilitare risorse immateriali o posizionali che favoriscono tali processi.
Parliamo dunque di meccanismi che regolano lo scambio – quindi l‟equilibrio – fra
disponibilità di misure e offerta da una parte e, conseguentemente, vantaggi per i dipendenti e
vantaggi per le aziende dall‟altra. Così, nel passaggio fra il modello teorico – in cui si
riconosce una linearità logica – e la realtà – che è necessariamente più complessa e articolata
di qualunque modello logico e matematico -, le cose non si realizzano esattamente nel modo
descritto poiché intervengono diversi fattori che possono interrompere la relazione,
modificarla o enfatizzarla e su cui è necessario soffermarsi. Quest‟aspetto definisce la prima
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dimensione problematica della ricerca. Applicando, infatti, il nostro modello alla realtà
possiamo individuare – in via preliminare - una molteplicità di domande, tutte degne di
approfondimenti empirici.
Vista dalla parte del lavoratore possiamo chiederci: di quali misure di conciliazione si fruisce
prevalentemente (servizi, organizzazione dell‟orario, benefit economici ecc.) e in
corrispondenza di quali condizioni? Quali sono le ragioni che muovono i lavoratori a
richiedere misure di conciliazione ed in che modo si esprime tale richiesta (esplicita/implicita,
formale/informale, di gruppo/individuale)? Come incidono le diverse misure family friendly
nella percezione di miglioramenti nella qualità della vita dei lavoratori? Soprattutto, quali
sono gli elementi sui cui gli utilizzatori elaborano una associazione fra il benessere
sperimentato a livello individuale, famigliare e professionale?
Vista dalla parte dell‟azienda, possiamo ipotizzare ulteriori domande: che relazione c‟è fra la
cultura o la tradizione imprenditoriale e l‟offerta di misure di conciliazione? In che modo e
grado si è consapevoli della utilità delle misure di conciliazione? Quale il grado di riflessività
nell‟implementazione di tali strumenti di conciliazione? È prevista una “osservazione” degli
impatti sulla vita dei dipendenti e soprattutto sulle dinamiche produttive? C‟è una relazione
fra offerta di misure di conciliazione e clima aziendale? Rappresentano esclusivamente dei
costi o sono degli investimenti che producono vantaggi economici? Quali sono gli attori
prevalentemente coinvolti per favorire la corretta fruizione delle pratiche? Evidentemente,
l‟elenco delle domande non termina qui.
Un altro ambito problematico è quello per cui il tema trattato – se lo si vuole cogliere nella
sua complessità – si compone di una serie di aspetti che ne definiscono gradi di difficoltà
operativa. Uno di questi aspetti è quello per cui contempla, contemporaneamente, elementi
che possono essere direttamente matematizzati come alcuni indicatori “oggettivi” di
produttività1 come il numero di pezzi realizzati al giorno in una industria manifatturiera, il
numero di assenze da lavoro, ecc. e indicatori “soggettivi” di cui non esiste una unità di
misura e che sono rilevabili solo – o più opportunamente – a partire dalla percezione e dalla
testimonianza di persone, come per esempio possono essere: la cultura imprenditoriale, il
1In realtà sarebbe semplice solo in determinate condizioni, per esempio nell‟industria manifatturiera. Se
volessimo cogliere la produttività nel settore dei servizi, pensando per esempio alla produttività di un educatore
sociale, ci troveremmo a fare i conti con un problema di non poco conto.
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senso di appartenenza aziendale, la percezione del clima aziendale (Shellenback 2004).
Questo aspetto apre al problema della unità di analisi. Fra le aziende e i dipendenti, quale
unità di analisi prendere in considerazione per la valutazione del rapporto fra qualità del
lavoro, qualità della vita dei lavoratori e strumenti di conciliazione implementate e utilizzati?
Questa distinzione è fondamentale poiché da ciò deriva la costruzione e la raccolta dei dati o
delle informazioni, l‟obiettivo e i contenuti dell‟indagine. Se l‟unità di analisi è l‟azienda,
avremmo prevalentemente dati numerici facilmente matematizzabili (numero di assenze,
numero di dipendenti, utili, fatturato, ecc.) perdendo o limitando però la possibilità di
raccogliere le dinamiche “qualitative” che caratterizzano le pratiche di conciliazione. Se
invece consideriamo il lavoratore come unità di analisi, avremmo più facile accesso a
informazioni e dati “qualitativi” che “raccontano” le dinamiche della conciliazione ma ci
troveremmo difronte il problema di come standardizzare i dati e le informazioni sulla
produttività e la qualità del lavoro, che in questo caso non potrà che essere una espressione
soggettiva e individuale.
Tendenzialmente la ricerca e la letteratura scientifica hanno tenuto separati i due termini del
rapporto, concentrandosi da una parte sulla descrizione delle misure di conciliazione e sui
benefici percepiti dai fruitori (indagini sia qualitative che quantitative), ed elaborando
dall‟altra la relazione fra i costi e i relativi vantaggi (con indagini esclusivamente
quantitative). Ciò che invece, al momento, merita ulteriori contributi è la riflessione sulla
“integrazione” dei termini (ed eventuale loro circolarità) e sui meccanismi che descrivono
possibili relazioni fra l‟implementazione di pratiche di conciliazione, vantaggi/svantaggi
organizzativi, vantaggi/svantaggi per i lavoratori.
Prima di presentare il nostro contributo illustrando i soggetti coinvolti, i metodi, le tecniche,
le ipotesi di partenza ed i risultati ottenuti, proponiamo nei paragrafi seguenti una
rielaborazione delle principali evidenze empiriche emerse dalla letteratura sul tema che hanno
argomentato le dinamiche ed i meccanismi.
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1. VANTAGGI AZIENDALI E VANTAGGI FAMILIARI DELLE POLITICHE DI CONCILIAZIONE
FAMIGLIA-LAVORO. QUALE CONTINUITÀ? (di Vincenzo Marrone)
1.1 Le misure di conciliazione famiglia-lavoro. Declinazioni e applicazioni
Abbiamo ampiamente accennato a come negli ultimi decenni, date le trasformazioni
demografiche legate ai cambiamenti della composizione familiare e l‟invecchiamento della
popolazione, quelle del mondo del lavoro che ha corrisposto a nuovi assetti organizzativi e di
gestione del personale e alla introduzione di una significativa quota di forza lavoro femminile,
dei livelli di istruzione più elevati che hanno contribuito alla espansione di settori industriali
con capitale culturale molto più elevato rispetto al passato e le importanti innovazioni
tecnologiche del mondo della comunicazione informatizzata, la domanda “concorrenziale”
(Beauregard e Henry 2009) fra la sfera domestica e mondo del lavoro ha assunto una
rilevanza crescente, sia per i dipendenti che per le organizzazioni. In risposta a questi
cambiamenti, alle “sfide” lanciate dei due mondi in competizione fra loro, e ai conflitti che si
generano tra i differenti ruoli che le persone ricoprono nella loro quotidianità, le imprese
appaiono sempre più orientate a implementare pratiche mirate a “ridurre” gli sforzi dei
lavoratori per soddisfare sia la loro performance sul lavoro che le loro responsabilità personali
e familiari (Rapoport, et alii 2002 – cit. in Beauregard 2009). A realizzare cioè politiche e
strumenti di conciliazione famiglia-lavoro. Ma cosa intendiamo quando parliamo di misure e
pratiche di conciliazione?
Nonostante il particolare successo di questa espressione - o forse proprio per questa fortuna -
non c‟è una “definizione” univoca, anche se è piuttosto riconosciuto come con questo termine
ci si riferisca normalmente a quella serie di strumenti e politiche che riguardano le forme di
sostegno dell‟organizzazione lavorativa per la cura personale e familiare del dipendente.
Generalmente i ricercatori utilizzano termini quali “work and family”, “work-family”, “work-
life” o “family-friendly” per classificare quei programmi che supportano o assistono i
dipendenti per affrontare più efficacemente problemi imprevisti o contingenze crescenti nel
nucleo familiare, come la malattia di un figlio o di un parente, o politiche che offrono ai
dipendenti la possibilità di avere orari di lavoro che permettono loro di rispondere meglio alla
doppia domanda del mercato del lavoro e alle necessarie attività familiari (Clifton e Shepard
2004). Queste politiche coprono quindi un ampio raggio di opzioni, inclusi gli orari di lavoro
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flessibile (per esempio tempo flessibile che permette di variare l‟orario di inizio e termine del
lavoro, o di concentrare le ore di lavoro settimanale in pochi giorni lavorativi o il part time);
le forme di telelavoro, in cui il dipendente svolge il suo lavoro parzialmente o totalmente a
casa (tele-working; home-working; e-working); il lavoro condiviso, ossia la condivisione di
un lavoro a tempo pieno tra due dipendenti (job sharing); i programmi di congedo parentali
(parentali, di adozione, o per altri motivi gravi); le forme e i servizi di assistenza all‟infanzia o
per gli anziani e infine, tutte le forme di assistenza informativa di natura burocratica ed
economica riguardo i servizi disponibili presso l‟azienda e/o il territorio di appartenenza con
riferimento alla cura personale e familiare (Estes e Michael, 2005). Seguendo le varie
definizioni presenti in letteratura, possiamo cogliere le sfumature applicative. Cascio (2000,
p.166) definisce i programmi di conciliazione famiglia lavoro come «qualunque benefit
sostenuto dal datore di lavoro, o condizioni di lavoro, che aiutano i dipendenti a equilibrare le
domande di lavoro e non lavoro dei dipendenti». Una definizione questa che estende
notevolmente i confini semantici delle pratiche e delle politiche di conciliazione: da una
questione di “facilitazione della organizzazione familiare” a “qualunque benefit” per i
lavoratori.
In altri casi, conciliazione famiglia lavoro è il termine generale utilizzato per descrivere le
iniziative organizzative finalizzate a migliorare l‟esperienza dei domini di lavoro e non lavoro
dei dipendenti. Le pratiche e le condizioni dei programmi di conciliazione famiglia lavoro si
riferiscono ad iniziative volontarie introdotte dalle aziende che facilitano la conciliazione
della vita personale e professionale dei dipendenti. Essenzialmente, le iniziative di
conciliazione famiglia lavoro sono offerte dalle organizzazioni per assistere le domande di
lavoro e vita personale nella gestione del personale (Grady, McCarthy, Darcy, e Kirrane,
2008). In questa definizione si evidenzia il carattere volontaristico della implementazione
delle misure di conciliazione e quello strumentale attraverso cui tali politiche possono
intendersi quali strumenti di gestione del personale rappresentando una questione chiave per
le aziende. Entrambi gli elementi, il volontarismo e l‟utilità strumentale, “determinano”
necessariamente un‟estensione semantica del concetto ed una pluralità accezioni e quindi di
pratiche operative.
È dunque sempre più frequente trovare annoverate fra le misure di conciliazione, strumenti e
pratiche che – a rigore di logica – non risponderebbero ad una definizione stretta di
conciliazione dell‟organizzazione della vita familiare e di quella lavorativa (per esempio: le
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convenzioni con esercizi commerciali, centri di assistenza sanitaria, legale, burocratica,
assicurativa, estetica, gli strumenti di semplificazione del trasporto, le campagne informative,
i corsi formativi, benefit aziendali di varia natura, ecc.). In molti casi, potremmo parlare di
misure indirette di conciliazione famiglia lavoro poiché non si rivolgono direttamente alla
cura familiare ma la presuppongono e, rientrando nel più ampio insieme di politiche e servizi
di welfare aziendale, prevedono una incidenza significativa rispetto alla sfera familiare dei
lavoratori.
Se il tema della conciliazione ha avuto tradizionalmente un focus relativamente ristretto
rispetto al tema della salute, dello stress da lavoro, della maternità, e dell‟occupazione
femminile, attualmente è sempre più evidente come questo argomento debba estendersi ad
altre dinamiche ed obiettivi sociali. Il termine “conciliazione” è quindi sempre più inteso
come un termine aperto a notevoli interpretazioni poiché articola il desiderio delle persone –
non solo di chi ha responsabilità familiari – di raggiungere un equilibrio tra il lavoro retribuito
e la vita che va oltre il lavoro, dalla cura dei figli, a quella domestica, alla realizzazione di
momenti di piacere. Khallash e Kruse (2012) fanno notare che estendendo i confini della
definizione di conciliazione famigli-lavoro è possibile rilevarne un elemento caratterizzante
nella capacità di gestione delle pressioni provenienti sia dagli ambienti esterni sia da quelli
interni dell‟individuo. Se per un verso, infatti, gli strumenti di conciliazione sono mezzi per
sostenere un modo di vivere e creare condizioni ottimali per la propria famiglia o per se stessi,
dall‟altra, il lavoro - che è sempre più competitivo - costituisce anche un elemento sociale e
psicologico che crea aspettative e sfide personali. Genera quindi pressioni interne. La
conciliazione riguarda quindi anche la gestione delle pressioni provenienti dalle aspettative di
ognuno e la definizione di obbiettivi che possono riferirsi alle responsabilità familiari o meno.
In altre parole, la conciliazione non riguarda solo la pressione posta sugli individui in quanto
lavoratori, ma anche la pressione esercitata dal livello di motivazione professionale personale.
Per queste ragioni assistiamo – come detto – ad una estensione del concetto di conciliazione
famiglia-lavoro che include anche l‟acquisizione di interessi intellettuali e lo sviluppo di
capacità personali (per esempio la formazione continua) e la possibilità di realizzare
condizioni che permettono di qualificare il proprio lavoro. Le misure di conciliazione
assumono quindi sempre più una connotazione pluralistica e, talvolta, personalizzata.
Il tema della conciliazione famiglia-lavoro entra così a far parte del più ampio argomento
dell‟organizzazione aziendale (Kossek e Ozeki 1998) e in particolare di quel settore
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conosciuto come High Performance Work System. Non è un caso allora che, secondo il
Boston Consulting Group2, le aziende europee devono far fronte a cinque capacità critiche per
competere nel mondo globale, ed una di queste è proprio la capacità di gestire la conciliazione
famiglia lavoro. Questo perché i confini fra vita privata e vita professionale si fanno più
sfumati e, se da una parte i lavoratori selezionano sempre di più quelle occupazioni che
offrono loro la possibilità di aiutarli nel rispondere alle responsabilità di cura familiare o
personale, dall‟altra, per attirare e mantenere persone talentuose e qualificate, le aziende
devono necessariamente offrire loro condizioni di lavoro favorevoli nel rispondere a queste
necessità.
Il dibattito sull‟argomento è molto vivace anche perché, le politiche e le pratiche di
conciliazione famiglia-lavoro, così come di tutto il welfare aziendale o occupazionale
(Pavolini et alii, 2013) trovano oggi sostenitori e oppositori. I primi evidenziano la necessità
di implementare questi programmi come strumenti per affrontare le trasformazioni della forza
lavoro e migliorare la produttività dei dipendenti riducendo assenteismo e turnover ed
aiutando le aziende ad attirare i lavoratori più qualificati. Gli oppositori di questi programmi
esprimono le loro perplessità facendo leva su diversi principi, come quelli di equità (come
giustificare tali pratiche per quei lavoratori che non hanno famiglia?); economici (incertezza
dei vantaggi per le aziende a fronte dei costi sostenuti); etici (è opportuno che l‟azienda sia
coinvolta in questioni familiari?). È una contrapposizione che anima il dibattito – e che in
questo contributo non possiamo approfondire – ma che ci invita a riflettere e a interrogarci
sulla reale utilità dell‟implementazione dei programmi di conciliazione famiglia-lavoro.
Proprio quest‟aspetto - l‟utilità, le ricadute o gli impatti delle misure di conciliazione, dirette e
indirette - rappresenta oggi il nucleo centrale di buona parte della ricerca. Nonostante
l‟interesse scientifico e delle organizzazioni verso il tema di analisi, le dinamiche che
caratterizzano i processi di “causa-effetto” non sono state ancora chiarite in modo definitivo e
il fatto che non ci siano indicazioni conclusive in questo senso deriva presumibilmente da due
aspetti. Il primo è dato dalla ricchezza del dibattito. Non ci sono assunzioni definitive poiché
la scienza continua a osservare il fenomeno sotto diverse angolature sedimentando una serie
2BCG (2014) The Future of HR in Europe. Key Challenges Through 2015. (documento disponibile on-line:
https://www.bcg.com/documents/file15033.pdf )
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di conoscenze del fenomeno e aprendo progressivamente alla necessità di altri
approfondimenti3. In sostanza la mancanza di indicazioni definitive è l‟esito di un dibattito
particolarmente vivace ma ancora descrittivo. Il secondo deriva invece dalla scarsa presenza
di studi empirici focalizzati sui “meccanismi” che legano l‟offerta di pratiche di conciliazione,
gli atteggiamenti, i comportamenti e le percezioni dei dipendenti alle performance aziendali
(Allen, 2001; Schutte e Eaton, 2004) nonostante la numerosa quantità di studi che ipotizzano
tali associazioni.
1.2 Un focus sulle politiche e sugli strumenti di flessibilità dell’orario e
dell’organizzazione del lavoro.
L‟organizzazione dell‟orario di lavoro flessibile è lo strumento più utilizzato con riferimento
al tema della conciliazione. Questo perché è normalmente riconosciuto come la possibilità di
gestire il proprio orario di lavoro offre maggiori opportunità di far fronte alle necessità
personali, familiari ed ai cambiamenti connessi al ciclo di vita familiare, influenzando
positivamente il senso di autonomia dei dipendenti. Inoltre, l‟offerta dell‟orario flessibile,
prevedendo una maggiore capacità dei dipendenti riguardo l‟inizio e la fine del lavoro
giornaliero è generalmente associato ad un basso assenteismo, a migliori condizioni di salute
fisica e psichica (Baltes et al. 1999) e per questo rappresenta uno strumento chiave nella
gestione del personale.
Al contrario, specialmente nella letteratura medica, emerge come l‟irregolarità dell‟orario di
lavoro (per esempio il lavoro su turni, il cambio improvviso di orario, il lavoro notturno, un
orario eccedente quello standard) e la minore possibilità di controllo del lavoro sono fattori
associati allo stress psichico e a lungo possono comportare problemi di salute (come
stanchezza, disturbi del sonno o alimentari, problemi cardiovascolari). In un‟ottica aziendale
puramente strumentale, a tali dinamiche conseguono incrementi dei tassi di assenze per
malattia (Ala-Mursula et al. 2002; Halpern 2005; Bohle et al. 2004). Se pensiamo al lavoro su
turni, la letteratura ci informa che questo ha ripercussioni importanti sulla salute fisica,
3 Come fanno notare Beauregard e Henry (2009) introducendo una ricca bibliografia, a partire da metà degli anni
Novanta dello scorso secolo, l‟oggetto “conciliazione famiglia lavoro” è stato ampiamente dibattuto in riviste
appartenenti a differenti settori disciplinari: economia, sociologia, psicologia sociale, relazioni industriali, studi
di genere, studi sulla famiglia, management e gestione delle risorse umane, caratterizzandosi come oggetto di
studio inter e multidisciplinare.
18
psichica e rispetto al benessere sociale. Le famiglie di lavoratori a turni hanno matrimoni
meno soddisfacenti, tassi di divorzio più elevati e maggiori difficoltà nelle relazioni con i figli
rispetto ai lavoratori con orari standard, e non meno rilevanti sono le opportunità di vita
sociale extra-familiare connesse a questa tipologia di organizzazione dei lavoro (Grosswald,
2004 cit. in Olsen e Dahl 2010).
Se alcuni studi sul tema della flessibilità dell‟organizzazione del lavoro e la conciliazione
famiglia-lavoro appaiono conclusivi, altri ne rimettono in discussione i risultati (Lee e Devoe
2012). È probabile infatti che quando i dipendenti godono di maggiore flessibilità e capacità
discrezionale, sentano maggiormente la responsabilità delle proprie prestazioni e per questo
rischiano di spendere più tempo al lavoro, rendendo la conciliazione famiglia lavoro più
complicata. Così la flessibilità e l‟autonomia dei dipendenti può generare circolarità negative
fra lavoro e casa: orario di lavoro più lungo, stress, stanchezza, conflittualità.
Olsen e Dahl (2010) esaminano in che modo l‟orario di lavoro sia associato alle assenze per
malattia (oltre due settimane) e all‟equilibrio famiglia lavoro, in un campione rappresentativo
di lavoratori norvegesi, partendo dall‟incrocio di due condizioni:
La presenza di flessibilità (che definisce un grado di controllo e gestione del proprio
orario di lavoro);
l‟orario di lavoro irregolare (le ore irregolari sono definite come quel svolte fuori dal
periodo 6-18. Queste includono per esempio il lavoro serale o notturno, su turni e nei
fine settimana).
Ne derivano quattro gruppi di adattamento che presentano: orari irregolari senza flessibilità;
orari irregolari con flessibilità; orari regolari senza flessibilità; orari regolari flessibili. Da
questa configurazione si origina una ipotesi di ricerca: la condizione dei lavoratori con orario
irregolare combinato alla scarsa flessibilità è la più svantaggiosa per la salute e per le relazioni
famiglia-lavoro. Al contrario la regolarità delle ore di lavoro e la presenza di flessibilità è, in
linea di principio, la combinazione più vantaggiosa per i lavoratori e le aziende.
Dall‟analisi campionaria emerge come, in continuità con le ipotesi, gli uomini che hanno orari
irregolari in assenza di flessibilità, hanno un significativo tasso di assenza per malattia rispetto
agli altri e particolari difficoltà nelle dinamiche di conciliazione. Considerando le sole donne,
tale condizione lavorativa (orario irregolare e assenza di flessibilità) resta una discriminante
nello scoraggiare la conciliazione ma non incide sul tasso di assenteismo.
19
Appare meno chiara invece la dinamica della flessibilità per chi ha un orario di lavoro
regolare, che sembra non avere effetti sull‟assenza per malattia né sulla conciliazione famiglia
lavoro. Un risultato che appare incongruente con l‟ipotesi di partenza ma che è probabile
risenta di effetti contrapposti: i vantaggi associati alla flessibilità percepiti da alcuni
dipendenti possono annullarsi per effetto di chi, fruendo di flessibilità, sperimenta un maggior
carico lavorativo che riproduce effetti negativi rispetto agli equilibri familiari ed al tasso di
assenteismo.
Ciò che ci preme sottolineare di questo contributo è un duplice aspetto: da una parte la
rilevanza della flessibilità dell‟orario di lavoro per la salute psichica e fisica dei lavoratori con
orari irregolari, quindi uno strumento che riduce gli effetti negativi di condizioni di lavoro
pesanti. Dall‟altra il carattere di “determinismo debole” della flessibilità che va associata e
considerata sempre all‟interno di altre dinamiche socio-lavorative. In questo contributo
vediamo infatti come nel gruppo di lavoratori con orario regolare, la flessibilità non si
configura come una discriminante per l‟assenteismo e la conciliazione.
Tuttavia, è rilevante sottolineare come in letteratura la flessibilità organizzativa del lavoro sia
stata spesso associata alla maggiore “capacità discrezionale” dei dipendenti che, a sua volta
incide positivamente rispetto all‟incremento ed alla migliore qualità delle prestazioni
professionali. La flessibilità rimanda cioè ad un maggior grado di autonomia nel lavoro che
incide favorevolmente nella prestazione professionale e definisce una modalità regolativa fra
benessere del lavoratore e interessi aziendali. I lavoratori con maggiore capacità discrezionale
devono affrontare e rispondere a livelli di competenze professionali superiori alla norma,
essere in grado di operare su diversi obiettivi (multitasking) e avere capacità di gestione delle
proprie mansioni in forma interdipendente con i colleghi e queste sono generalmente le
ragioni che muovono i datori di lavoro a fornire capacità discrezionale (Ortega 2009). In
questa direzione sembra muoversi anche il contributo di Halpern (2005), interessata tuttavia a
rilevare come le politiche di flessibilità e la capacità discrezionale, definita come “controllo
della propria organizzazione del lavoro”, favoriscano la riduzione dello stress per i lavoratori
e permettano risparmi economici per le aziende.
1.2.1 - Misure di flessibilità, stress e vantaggi aziendali
Generalmente si crede nell‟esistenza di una relazione diretta fra il carico di lavoro da
assolvere, le richieste di cura familiare, lo stress e la salute fisica e psichica. In realtà questa
20
relazione non è lineare poiché intervengono molti aspetti che limitano la possibilità di definire
forti relazioni causali. Lo stress da lavoro si manifesta in condizioni di incompatibilità interne
alla sfera professionale (i tempi di realizzazione di un lavoro non sono congruenti con il grado
di accuratezza richiesta) o di incompatibilità con sfere esterne al lavoro (inconciliabilità di
ruoli sociali, per esempio essere al lavoro quando è necessario essere a casa con i figli
ammalati).
Dal punto di vista fisiologico, i fattori di stress attivano una catena di eventi in cui gli ormoni
che vengono rilasciati – il cortisolo, un ormone prodotto dalla ghiandola endocrina –
viaggiano attraverso il flusso sanguigno ed influiscono su molti organi. Siccome il flusso
degli ormoni è relativamente lento le conseguenze dello stress continuano ad influenzare gli
organi molto più a lungo degli eventi scatenanti stress. Così, uno stress costante associato a
eventi più intensi contribuisce a creare problemi di salute fisica e psichica che possono
manifestarsi attraverso differenti patologie. Un ampio corpo di letteratura medica mostra
come il cortisolo danneggia i neuroni nell‟ippocampo (l‟area principale del cervello che
sopporta la memoria) ed altre parti del cervello (Sapolsky, 1994 - cit. in Halpern, 2005)
influendo negativamente sulla memoria e su meccanismi psicologici cognitivi. Tutto questo
ha o può avere ricadute rilevanti per le imprese in termini di valore delle prestazioni dei
dipendenti e tasso di assenteismo. Quando i lavoratori sono malati, la loro prestazione
lavorativa è più scarsa, prendono più giorni di assenza per malattia e possono potenzialmente
danneggiare le prestazioni complessive se le loro mansioni sono svolte in collaborazione con
altri colleghi.
Lo stress può anche avere a che fare con il turnover che può rappresentare per i datori di
lavoro una voce di spesa piuttosto consistente, visto che i lavoratori che stano lasciando il loro
lavoro riducono la loro produttività e i costi di assunzione e formazione di personale possono
essere molto elevati. Ora, i carichi e le responsabilità familiari acuiscono il senso di pressione
rispetto alle responsabilità lavorative e possono incidere significativamente sul turnover. Lo
stress dovuto al sentire una costante scarsità di tempo aumenta la probabilità dei lavoratori di
cambiare o lasciare il lavoro (effetto prevedibile osservando l‟andamento di ritardi ed assenze
da lavoro). In tali condizioni l‟offerta di strumenti di conciliazione si configura come una
valida strategia per ridurre tali patologie associate allo stress. Questo perché è ampiamente
riconosciuto come la possibilità di controllare e prendere decisioni sulle modalità ed i tempi
del proprio lavoro è linearmente associata negativamente ai fattori di stress permettendo
21
quindi ai lavoratori di elaborare strategie di coping che possono mitigare gli effetti dello
stress. Tale dinamica sottolinea come lo stress non sia legato agli obiettivi professionali e
familiari richiesti ma alla capacità dei lavoratori di controllare lo svolgimento del proprio
lavoro e gestire i carichi familiari.
Il contributo empirico di Halpern (2005) – la cui analisi teorica è quella che abbiamo
sinteticamente descritto - ha quindi l‟obiettivo di rilevare la relazione esistente fra lo stress da
lavoro, il numero di politiche di flessibilità presenti in azienda, il bisogno di politiche di
flessibilità espresso dai lavoratori, l‟impegno professionale rispetto al lavoro, i costi per
l‟organizzazione nell‟implementare misure di flessibilità4, partendo dall‟ipotesi secondo cui la
disponibilità di politiche del lavoro che permettono ai lavoratori la capacità di pianificare e
affrontare la domanda competitiva di tempo familiare e professionale, ridurrà il loro stress e
ripagherà i costi sostenuti dai datori di lavoro.
I costi di cura della salute, l‟assenteismo e il turnover sono tra i costi più significativi per i
datori di lavoro – costi che sono spesso ignorati o sottostimati quando i datori di lavoro
cercano il modo per ridurre le spese. Molti inoltre rigettano l‟idea di una maggiore flessibilità
e capacità decisionale dei dipendenti come metodo per risparmiare denaro. Il risultato di
queste miopie è che i datori di lavoro, quando pensano di tagliare i costi, raramente prendono
in considerazione la possibilità di politiche che permettano ai lavoratori di gestire il loro
impegno del tempo, sebbene molta letteratura sostenga l‟esatto opposto.
4Queste dimensioni sono operativizzate attraverso diversi indicatori come segue:
- la necessità di politiche del tempo flessibile del lavoro con tre indicatori (numero di figli minorenni, età
del figlio più giovane, cura di altri adulti, oltre i 65 anni)
- numero di politiche di flessibilità del tempo di lavoro con sei indicatori: (prendere tempo per occuparsi
del figlio ammalato; quanto è difficile prendere tempo; poter scegliere di avviare o fermare il tempo per il lavo-
ro; presenza assenza di una penalità per l‟utilizzo di lavoro flessibile, poter lavorare da casa; poter lavorare a
tempo pieno o part-time come necessario)
- impegno rispetto al datore di lavoro con tre indicatori: (lavoratore lavora più di quanto debba; lavoratore
è corretto verso il datore di lavoro; il lavoratore farebbe lo stesso lavoro ancora)
- lo stress da lavoro con sei indicatori: (frequenza negli ultimi tre mesi di sentimenti del lavoratore: emo-
tivamente svuotato; usato; stanco quando ci si alza al mattino per lavoro; stressato; con problemi di salute mino-
ri; particolarmente nervoso)
- costi per l‟organizzazione con quattro indicatori (negli ultimi tre mesi: il lavoratore ha avuto conflitti a
causa di problemi nel rispondere a scadenze con i lavoro; i conflitti familiari interferiscono con la capacità dei
lavoratori di fare un buon lavoro; numero di volte in cui il lavoratore ha iniziato il lavoro più tardi o la ha lascia-
to prima a causa dei conflitti familiari).
22
Generalmente, infatti, le aziende che hanno politiche di cura dell‟infanzia o programmi di
flessibilità dell‟orario o del luogo di lavoro, ricche possibilità di congedi parentali e altri
benefit, hanno lavoratori che sono più corretti nei confronti dell‟azienda, più soddisfatti del
proprio lavoro e prendono meno giorni di malattia, rispetto alle aziende che non hanno
politiche di questo tipo.
Lavorando sui dati del National Study of the Changing Workforce 1997, relativi a 1901
lavoratori uomini e 1651 donne, arriva ad una conclusione incoraggiante: «i dati offrono un
messaggio importante e chiaro ai datori di lavoro e ai policy makers, è un affare offrire
impieghi con opzioni di lavoro flessibile», suggerendo che un modo per ridurre i costi è dare
ai lavoratori la flessibilità con cui gestire il proprio tempo poiché il controllo della propria
attività lavorativa è un caratteristica importante che influenza la salute dei lavoratori e la loro
performance. Questa conclusione è sostenuta da dati che evidenziano come il maggior numero
di politiche di tempo flessibile offerte dalle aziende influenzano il maggior impegno del
lavoratore verso l‟azienda, incidono negativamente sulla dichiarazione di livelli di stress da
lavoro che riducono gli sforzi ed i costi organizzativi delle aziende.
L‟impegno verso il lavoro e la minore incidenza dello stress da lavoro si configurano come
regolatori della relazione fra offerta di pratiche di flessibilità e costi organizzativi sostenuti. In
estrema sintesi, il maggior numero di politiche offerte da una azienda riduce i costi
organizzativi sostenuti attraverso meccanismi di efficacia ed efficienza lavorativa.
Possiamo leggere questa relazione in senso inverso, considerando i casi in cui la richiesta di
misure di flessibilità resta inevasa. La necessità di politiche di flessibilità del lavoro non ha
effetti diretti sul numero di politiche di flessibilità offerte dalla organizzazione e così, visto
che la relazione tra la necessità di politiche della flessibilità e costi organizzativi è mediata dal
numero di politiche di tempo flessibile presenti, impegno verso l‟organizzazione e percezione
di stress, un crescente bisogno di politiche family friendly favorisce l‟emergenza di stress da
lavoro, fa diminuire l‟impegno verso l‟organizzazione e incrementa i costi organizzativi.
È evidente come la richiesta di pratiche di conciliazione non è necessariamente associata
all‟offerta. Per esempio i lavoratori che necessitano di tempo flessibile non sono più probabili
di lavorare per aziende che li offrono e ciò ha importanti ricadute per gli equilibri ed i vantag-
gi per aziende e dipendenti. Perché?
Questa domanda propone con forza il carattere culturale delle politiche di conciliazione, più
di quello strumentale.
23
1.2.2 - Misure di flessibilità e intensificazione del lavoro. Un paradosso?
L‟espressione “organizzazione del lavoro flessibile” è stata utilizzata in senso ampio per co-
prire un ventaglio di modelli organizzativi del lavoro, incluso l‟orario ridotto, gli orari non
standard, varie forme di lavoro da remoto e l‟orario di lavoro compresso. La sua peculiarità è
che – in linea di principio – è il dipendente, non il datore di lavoro, a scegliere questa partico-
lare condizione. Quindi, le politiche del lavoro flessibile sono normalmente designate per of-
frire al dipendente un livello di scelta su quanto, quando e dove lavorare e aiutarlo a raggiun-
gere più soddisfazione nell‟equilibrio della vita personale e professionale. Per questo non ci si
aspetterebbe che l‟implementazione di lavoro flessibile possa favorire un processo
d‟intensificazione del lavoro. Tuttavia molti studi hanno illustrato un ventaglio di prove empi-
riche a generale supporto di tale ipotesi, rilevando un impatto positivo fra flessibilità e soddi-
sfazione per il lavoro, grado di autonomia, livelli più bassi di conflitti e – come abbiamo visto
– di stress. Nella prospettiva aziendale ciò può tradursi in una performance economica supe-
riore alla media e in un miglioramento della qualità del lavoro prestato (Golden 2011).
Il contributo di Kelliher e Anderson (2010) ha l‟obiettivo di indagare l‟esperienza vissuta dai
dipendenti con orario o organizzazione del lavoro flessibile, con riferimento specifico alle
evoluzioni della loro vita professionale e all‟intensità ed impegno nel lavoro. Secondo il loro
punto di vista l‟implementazione di pratiche di lavoro flessibile ha ricevuto una notevole at-
tenzione nella letteratura scientifica con particolare riguardo al tema della conciliazione fami-
glia lavoro ma scarsi risultati si sono ottenuti in merito alla valutazione degli impatti sulla in-
tensità del lavoro. Probabilmente – sostengono – il discorso predominante sulla conciliazione
vita lavoro ha oscurato altre importanti implicazioni. Gli autori indicano tre categorie princi-
pali entro cui osservare la modalità con cui si realizza l‟intensificazione del lavoro: imposta,
abilitata e come forma di scambio.
La percezione di una intensificazione del lavoro imposta rimanda a quella situazione in cui il
carico di lavoro non decresce in linea con il numero di ore di lavoro. Spostandosi da un orario
pieno ad uno ridotto, può definirsi una situazione in cui sono pagate un numero minore di ore
di lavoro per prestazioni simili a quelle di un orario pieno. Inoltre, l‟intensificazione del lavo-
ro può configurarsi come estensiva, in quelle situazioni in cui viene richiesta ampia disponibi-
lità che va oltre l‟orario di lavoro programmato.
L‟intensificazione abilitata si caratterizza per una particolare efficienza e qualità nel lavoro
svolto, favorito dall‟organizzazione flessibile del lavoro. Non solo dei tempi ma anche degli
24
spazi, poiché è connesso alla capacità di concentrarsi sugli obiettivi più efficacemente quando
si è lontani da fonti di distrazioni. Questa particolare condizione appare problematica nel caso
del lavoro da casa in cui la possibilità di avere distrazioni può essere significativa e conflittua-
le con il lavoro.
Infine uno dei meccanismi che comporta l‟intensificazione del lavoro e atteggiamenti di mag-
giore disponibilità deriva da dinamiche di reciprocità e di scambio. Ciò si realizza quando i
lavoratori con un orario o un‟organizzazione del lavoro flessibile, esercitano volontariamente
forzi aggiuntivi in risposta a un generale sentimento di gratitudine e apprezzamento verso le
loro aziende. Per dare forma teorica a tali evidenze empiriche, gli autori assumono la teoria
sociale dello scambio (Blau, 1964) sostenendo che se una persona riceve alcuni vantaggi è
obbligato nei confronti del fornitore. Per risolvere tale obbligazione deve reciprocare e così,
per un dipendente che utilizza un‟opzione di lavoro flessibile, si genera un sentimento di ob-
bligazione verso il datore di lavoro che consolida e rigenera questo scambio. Lo scambio si
manifesta, infatti, quando gli attori offrono vantaggi reciproci, senza alcun accordo ma con
l‟aspettativa di godere di benefici nel futuro. Lo scambio reciproco tende ad essere stabilito
nel tempo, nei termini di relazioni durevoli. Tali dinamiche possono coinvolgere anche sog-
getti terzi e nel caso specifico può verificarsi che i lavoratori con formule di lavoro flessibile,
consapevoli dei possibili effetti negativi sui loro colleghi, possono sentire la necessità di au-
mentare i loro sforzi, per rispondere alle loro aspettative, o essere più disponibili nei loro con-
fronti favorendo così lo spirito e le performance del gruppo.
1.3 Misure di conciliazione famiglia-lavoro ed incidenza nella produttività. Prove empi-
riche ed esiti discordanti.
Nell‟ultimo decennio gli studi aziendali, in corrispondenza della evoluzioni
dell‟organizzazione del lavoro, si sono particolarmente interessati a quei sistemi definiti di
Human Resource High Performance in cui il raggiungimento di prestazioni professionali più
elevate è derivato dalla possibilità di partecipazione dei dipendenti nei processi decisionali e a
modalità di riconoscimento monetarie e non monetarie. L‟obiettivo organizzativo è dunque
quello di realizzare una forza lavoro di qualità elevata e con una forte motivazione
professionale ed elevato senso di responsabilità. All‟interno di tale prospettiva, anche i
programmi di conciliazione famiglia-lavoro possono configurarsi come strategie utili a
raggiungere quegli obiettivi poiché, se da un lato supportano i dipendenti nella riduzione del
25
conflitto fra la sfera del lavoro retribuito e quella familiare e di altre importanti attività
quotidiane, dall‟altra innescano processi di “fidelizzazione” - o appartenenza - aiutando le
aziende a mantenere i lavoratori più validi, che spesso hanno reclutato e formato e di
“vantaggi strumentali”, a cui i lavoratori preferirebbero non rinunciare.
Evidentemente – a fronte di possibili benefici per le aziende - le politiche di conciliazione
implementate hanno dei costi. Talvolta questi costi possono essere economicamente irrisori
(per esempio offrire informazioni sui servizi locali di cura e assistenza). In altri possono
essere economicamente irrilevanti ma rendere complicata la dimensione organizzativa del
personale (per esempio la flessibilità dell‟orario prevede investimenti economici nulli o molto
bassi, ma può risultare svantaggiosa – quindi sconsigliata – quando la produzione è
fortemente serializzata, dove cioè l‟attività di un lavoratore ha effetti su quello di un altro o
dipende da quello di un altro). In altri casi ancora l‟implementazione di misure di
conciliazione può comportare investimenti importanti (per esempio i nidi di infanzia possono
essere molto costosi da realizzare e coordinare). In tali circostanze, le aziende sono più
interessate a stimare i vantaggi a fronte di quegli investimenti.
Ora, se da un lato il legame tra misure di conciliazione e performance sembra ovvio, molte
strategie designate per migliorare la produttività della forza lavoro sono solo attese di tradursi
in misure di performance ma non è detto che ciò avvenga. Inoltre, l‟associazione tra pratiche
di conciliazione famiglia-lavoro e performance aziendale è generalmente considerata positiva
quando per performance si intendono gli atteggiamenti verso il lavoro, la cittadinanza
organizzativa, l‟impegno e la motivazione professionale ma meno rilevanti appaiono i risultati
se si considerano valori di produttività hard, come i fatturati, le vendite ecc. Parte del dibattito
scientifico si è concentrato su questi aspetti articolandosi entro due prospettive e domande di
ricerca:
chiarire la correlazione esistente fra l‟implementazione delle pratiche di conciliazione
famiglia lavoro e le performance aziendali.
definire in quali aziende e per quali ragioni è più probabile che si adottino misure di
conciliazione.
I due aspetti non sono affatto sconnessi fra loro ma, al contrario, offrono indicazioni riguardo
un momento comune, la ricerca cioè di come realizzare e interpretare quei meccanismi sottesi
alla dinamica fra l‟implementazione di politiche e le performance. Possiamo dire che, se il
primo aspetto cerca di leggere in modo diretto la connessioni esistente fra input (disponibilità
26
e fruizione di strumenti) ed output (performance professionale), il secondo interpreta quei
meccanismi in forma inversa, ragionando su quelle condizioni che contribuiscono a ricercare
e promuovere le misure di conciliazione.
1.3.1 - L’implementazione delle pratiche di conciliazione famiglia lavoro e le performance
aziendali.
Una domanda implicita che ci aiuta a chiarire il contributo di questa seconda prospettiva al
dibattito è: se le pratiche di conciliazione famiglia-lavoro sono universalmente desiderabili,
perché non tutte le aziende le adottano?
Partiamo dal primo punto. Anche se la ricerca scientifica non ha prodotto una argomentazione
definitiva sulle effettive connessioni tra politiche e performance, sussistono tuttavia elementi
incoraggianti provenienti dagli studi empirici inoltre, sebbene si possa prendere teoricamente
in considerazione la condizione in cui l‟implementazione di pratiche di conciliazione abbia
effetti negativi su indici di performance e sui profitti, nessun caso empirico studiato ha
rilevato tale evidenza. Ciò rigetta la posizione di chi sostiene che l‟offerta di strumenti e
politiche di conciliazione aziendali sottraggano risorse dai profitti.
Chiariti questi aspetti, possiamo presentare – sinteticamente – alcuni elementi e risultati del
dibattito internazionale. Evidentemente questa piccola rassegna non ha la pretesa di esaurire il
dibattito ma vuole semplicemente illustrarne la vivacità e ricchezza.
La decisione delle aziende di offrire misure si conciliazione è data non solo dalla domanda dei
dipendenti nel rispondere a necessità e responsabilità familiari, ma anche da come le aziende
credono che tali strumenti possano influenzare il loro profitto. Molti manager, policy maker e
studiosi attribuiscono infatti un‟importanza sempre maggiore alla implementazione di misure
di conciliazione come strumenti per garantire produttività e ridurre i tassi di assenteismo, i
livelli di stress e l‟intenzione di turnover. In linea generale possiamo raccogliere in tre grandi
ordini i vantaggi che le aziende si attendono di concretizzare in funzione dell‟offerta di misure
di conciliazione e che possiamo indicare come: dinamiche di supporto e riduzione dei carichi,
motivazionali, selettive del personale.
- Dinamiche di supporto e riduzione dei carichi: offrendo al lavoratore maggiori politiche di
congedi, flessibilità negli orari, risorse per questioni familiari, si possono prevenire i problemi
che generalmente contrastano le performance professionali e si possono raggiungere
risoluzioni più efficaci nella gestione dei conflitti famiglia-lavoro. Questo comporta una
27
maggiore attenzione per il lavoro, minore assenteismo e intenzioni di turnover. Inoltre i
programmi di lavoro flessibile con elevata capacità decisionale e i congedi famigliari possono
definire strategie ottimali di adattamento dei picchi (positivi o negativi) di produttività
personale. Per esempio i congedi parentali possono essere favorevoli per rispondere a periodi
che potrebbero essere meno produttivi, così come la possibilità di decidere sugli orari in cui
lavorare può incontrare momenti di produttività personale più alti.
- Dinamiche motivazionali: il secondo aspetto rimanda alle dinamiche motivazionali. I
dipendenti possono lavorare con più impegno e con maggiore efficacia, cooperare più
pienamente nella formazione, assumersi maggiori responsabilità personali rispetto all‟operato,
assistere e monitorare gli obiettivi. Per esempio possono fare migliore uso del materiale di
produzione riducendo gli scarti. Possono facilitare le dinamiche comunicative interaziendali e
favorire la crescita formativa specie nel passaggio a nuove tecnologie e strumenti di
produzione.
- Dinamiche di selezione del personale: i lavoratori possono preferire le aziende con i
programmi di conciliazione famiglia lavoro, permettendo alle aziende di attingere da un
bacino più ampio di candidati, in cui scegliere i più qualificati.
Tuttavia, per quanto in linea di principio si ipotizzi una dinamica logico-consequenziale fra
benefici dei supporti familiari e produttività, i contributi quantitativi che documentino questi
effetti non sono definitivi. È presumibilmente questa la ragione per cui molte aziende sono
incerte rispetto alla implementazione di politiche di conciliazione, poiché non è sempre chiara
l‟entità dei rischi e dei vantaggi economici annessi.
Secondo Bloom e colleghi (2011) il complesso delle misure di conciliazione non sono in
generale “buone pratiche” che migliorano le performance aziendali. Le misure di
conciliazione - in quanto tali – non aiutano le aziende a creare valore aggiunto e soprattutto
non hanno un ruolo determinante nelle organizzazioni che massimizzano le perfomance
economiche. Questo aspetto è particolarmente rilevante da chiarire perché, se le pratiche di
lavoro family friendly rinforzano certamente la capacità dei dipendenti di combinare lavoro e
vita personale queste non agiscono direttamente sulle performance economiche aziendali.
L‟assenza di un impatto economico positivo non deve essere comunque considerato una
ragione valida per disincentivare tali implementazioni poiché esse hanno un effetto tangibile
sul benessere dei dipendenti e sono comunque considerate come politiche che migliorano le
performance aziendali in termini di soddisfazione dei lavoratori. L‟aspetto economico non
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deve cioè essere considerato il principale obiettivo per implementare pratiche di conciliazione
famiglia lavoro. Le aziende, infatti, possono offrire misure di conciliazione prendendo in
considerazione elementi diversi dai benefici economici, rispondendo, in particolare, alla
questione del benessere dei dipendenti o della responsabilità sociale d‟impresa.
In una ricerca in cui vengono coinvolte 120 organizzazioni di Onondaga County, New York,
Baughman e colleghi (2003) offrono un contributo al dibattito sugli impatti delle misure di
conciliazione sulla produttività e sul profitto per le aziende. L‟ipotesi di partenza è quella per
cui questi tipi di benefit possono “ripagare” le aziende attraverso la combinazione di due
elementi: l‟aumento della produttività e l‟offerta di salari più bassi. Le domande di partenza
sono: le aziende che offrono politiche “family friendly” godono di guadagni misurabili nella
produttività della propria forza lavoro? Queste aziende sono in grado di recuperare tutto o
parte dei costi dell‟offerta di benefit pagando salari più bassi?
Le misure di conciliazione osservate sono raggruppate in congedi familiari, lavoro condiviso,
presenza di asili nido aziendali mentre la produttività – associata a tali benefici – è declinata
come: stato d‟animo dei dipendenti, tasso di turnover, assenteismo, efficacia nel reclutamento.
I cambiamenti nello stato d‟animo possono trasformare direttamente i livelli di produttività
alterando il ritmo e la qualità del lavoro individuale, così come possono mediare le intenzioni
di turnover e l‟assenteismo. Tuttavia, sebbene i cambiamenti nei livelli dello stato d‟animo
siano soggettivamente descrivibili e rappresentabili in forma di narrazione, è estremamente
difficile “misurarli” e anche quando lo sono è molto difficile determinare come essi
influenzano la produttività. Il turnover, l‟assenteismo ed il reclutamento sono invece associati
maggiormente al profitto dell‟azienda poiché, prevedendo dei costi (la perdita di produttività
del dipendente che si prepara lasciare quel posto di lavoro; la posizione che resta vuota fino a
quando non viene rimpiazzato; i costi di assunzione di un nuovo dipendente; il periodo di
formazione e di ridotta produttività) sono rilevati con la stessa unità di misure: il denaro.
Inoltre, i datori di lavoro che offrono strumenti di supporto familiare possono attribuire gli
utili della produttività a migliori processi di reclutamento. I lavoratori si applicano nel lavoro
non solo per i livelli di retribuzione, ma anche in base a come il mix di salari e benefit
rispondono ai loro bisogni. Se molti lavoratori chiedono benefici come l‟orario flessibile,
congedi retribuiti e cure dei figli, allora le aziende che offrono tali benefici avranno un
maggiore bacino di candidati qualificati da selezionare e assumere.
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Date le premesse, i risultati non rilevano prove riguardo all‟aumento della produttività in
funzione dei maggiori sostegni familiari. Fanno eccezione quei casi in cui l‟offerta di congedi
per malattia e assistenza all‟infanzia si associa a tassi di turnover più bassi. Inoltre, con
riferimento alla seconda ipotesi, i risultati dell‟indagine offrono prove più robuste della teoria
economica: sebbene non si rilevi una decrescita significativa dei salari in funzione della
presenza di strumenti di conciliazione, si osserva come le aziende che offrono servizi di cura
per l‟infanzia, congedi per malattia e modalità organizzative flessibile dell‟orario di lavoro,
hanno salari più bassi in ingresso. Questo risultato suggerisce che le organizzazioni che
offrono benefici di sostegno familiare recuperano in parte i costi di questi benefici pagando
salari in ingresso inferiori.
Un risultato affine è quello proposto dall‟analisi di Heywood e colleghi (2007) che,
utilizzando i dati della Workplace Employment Relations Survey del 1998 (WERS - UK),
indagano la misura in cui le richieste di pratiche di lavoro family friendly possono avere
conseguenze inattese nella riduzione dei salari. Gli autori partono da una rivisitazione delle
letteratura economico-aziendale in cui si conferma come, in condizioni di lavoro in cui sono
più elevati i rischi per la salute e la incolumità fisica, i salari tendono ad essere più elevati. Al
contrario, in condizioni di maggiore sicurezza sul lavoro e quando i lavoratori hanno un
maggior controllo sui ritmi del proprio lavoro e dispongono di benefit più generosi, i salari
tendono ad essere più bassi. Entro questa cornice le pratiche family friendly sono viste come
servizi al lavoro, preziosi per i lavoratori e costosi per i datori di lavoro, che generano un
differenziale di compensazione salariale negativo.
Nella loro elaborazione introducono la variabile reddito che ritengono fondamentale per
rilevare la relazione fra salari e misure di conciliazione offerti, generalmente non valorizzata
nelle indagini su tale argomento. La letteratura su famiglia e lavoro infatti è piuttosto
concorde – sostengono – sul fatto che l‟offerta di pratiche family friendly è di interesse dei
datori di lavoro poiché “la felicità dei lavoratori rende più profittevoli le imprese”. Le pratiche
family friendly sono tendenzialmente associate alla maggiore soddisfazione per il lavoro e
quindi ad al maggior impegno professionale. Le pratiche family friendly sono viste come un
metodo che può ridurre il turnover così come permettono contemporaneamente di andare
incontro alle necessità delle famiglie. Gli studiosi apportano diversi studi (a cui rimandiamo)
che evidenziano risultati contraddittori. Da una parte i più scettici che sostegno la fallacia di
determinate assunzioni. Lanoie e colleghi (2001) comparano la produttività dei lavoratori
30
prima e dopo l‟introduzione di un programma di lavoro condiviso ed osservano una decrescita
significativa della produttività. Shephard e colleghi (1996) trovano “ininfluente” l‟effetto
dell‟orario di lavoro flessibile sulla produttività mentre Hainese colleghi (1999) mostrando
come l‟orario di lavoro flessibile non ha effetti significativi sul tasso di turnover. Ma ci sono
anche osservazioni propositive che incoraggiano l‟adozione di politiche aziendali. Johnson e
Provan (1995) rilevano che l‟utilizzo di pratiche family friendly è associato ad una crescita dei
salari ed un risultato simile è riportato da Gariety e Shaffer (2001), che estendono questo
studio ad un campione nazionale rappresentativo degli Stati Uniti. In questo caso, nonostante i
numerosi controlli per variabili, come il settore e la dimensione industriale, il capitale umano
e le variabili come le ragioni per cui le persone desiderano pratiche family friendly, si rileva
che il tempo flessibile è associato ad un salario significativamente più elevato. Data questa
discontinuità, diventa necessario individuare quali sono le condizioni entro cui si realizza un
vantaggio sia per le aziende che per i lavoratori.
I ricercatori si concentrano sul salario perché è espressione di un equilibrio esistente nel
mercato del lavoro fra le istanze di flessibilità dell‟azienda e quelle provenienti dal lavoratore.
Quando l‟accordo sulla flessibilità si avvicina alla preferenza dell‟azienda i salari saranno più
elevati, mentre quando si sposta verso la preferenza del lavoratore i salari saranno più bassi.
Introducendo questa variabile è possibile argomentare una dinamica che altrimenti non si
vedrebbe e che viene definita come “effetto reddito”. L‟associazione positiva tra la
disponibilità e la fruizione di misure di conciliazione e i salari possono non aver e nulla a che
fare con la produttività ma riflettere invece gli effetti del reddito. I lavoratori con guadagni più
elevati ne utilizzano una parte per acquistare pratiche family friendly attraverso dinamiche del
mercato implicito. Le aziende, per reclutare e mantenere tali lavoratori devono offrire loro
salari più elevati e strumenti di conciliazione come asili nido e possibilità di lavoro da casa
(gli unici strumenti che in questo contributo sono associati alla produttività), tendenzialmente
più costosi. Al contrario, all‟interno del mercato del lavoro, le aziende in grado di offrire
pratiche di conciliazione a buon mercato attirano i lavoratori che apprezzano tali misure e ne
necessitano al punto da accettare salari ridotti per coprire i costi dell‟offerta. In questo caso i
lavoratori sono disposti a scambiare reddito per misure di conciliazione. I ricercatori rilevano
che in tale circostanza le misure di flessibilità del lavoro non incidono sulla produttività e
soprattutto che l‟indice complessivo delle pratiche family friendly è associato, a parità di
condizioni, con una forte riduzione (del 20%) dei salari.
31
La disponibilità delle organizzazioni di offrire strumenti di conciliazione famiglia-lavoro sarà
dunque condizionata dal mercato del lavoro di figure professionali che hanno guadagni più
elevati in grado di sostenere i costi per acquisire realmente questi benefici impliciti e
“ripagare” gli strumenti offerti in termini di innovazione e produttività.
Anche il contributo di Clifton e Shepard (2004) sostiene come la stima della produttività può
offrire informazioni potenzialmente rilevanti per valutare i benefici economici associati ai
programmi di conciliazione famiglia-lavoro. Pochi contributi scientifici – sostengono – hanno
applicato un modello econometrico per rilevare l‟impatto dei programmi sulla produttività.
C‟è evidentemente un‟assenza di informazioni sui costi e sui benefici economici delle aziende
che implementano politiche orientate alla famiglia e ciò è dovuto in parte alla difficoltà
preliminare di rilevare e classificare la totalità delle pratiche di conciliazione messe in atto. In
questo lavoro, diversamente dai precedenti e in continuità con gran parte della letteratura, si
ipotizza che i programmi di conciliazione famiglia lavoro contribuiscono a migliorare la
produttività, per diverse ragioni. In che modo?
In questo contributo la produttività è intesa come il valore netto delle vendite per dipendente,
mentre l‟indice delle politiche di conciliazione (Family Friendly Index – FFI) deriva da una
classificazione proposta dal Family and Work Institute (US) che rimanda a tre principali
fattori:
Le risorse aziendali offerte per programmi di conciliazione famiglia lavoro;
la flessibilità dell‟orario di lavoro e le politiche di congedi;
la percezione di dipendenti su quanto l‟azienda o il management siano suppor-
tivi;
le variabili economiche e aziendali: il capitale lordo, il valore del capitale fisi-
co, il numero dei dipendenti.
Operativamente gli autori si affidano a diversi modelli di regressione da cui emerge – in
sintesi – come l‟aumento dell‟indice family friendly sia associato ad una crescita della
produttività. Con un aumento dell‟indice family friendly del 10% è atteso un aumento di
produttività di circa l‟1%. Inoltre, è ragionevole assumere che il livello di produttività di una
azienda dovrebbe influenzare la sua capacità di offrire tali programmi. Così, quando l‟indice
family friendly è trattato come variabile esogena si rileva come un suo incremento del 10% sia
accompagnato all‟aumento della produttività del 2-3%.
32
Nonostante l‟importante apporto tecnico all‟argomento, questo studio manca di un elemento
fondamentale. Contrariamente alle proposte iniziali, che dichiarano, gli autori non riescono ad
identificare meccanismi specifici attraverso cui viene influenzata la produttività.
1.3.2 – In quali aziende e per quali ragioni è più probabile che si adottino misure di concilia-
zione.
Per risponde al secondo aspetto, con cui stiamo affrontando la letteratura, partiamo dal
contributo di Konrad e Mangel (2000) che si interessa di individuare le condizioni per cui le
aziende sono più probabili che realizzino politiche family friendly. Gli autori sostengono
l‟ipotesi secondo cui i benefici – in termini di produttività – dati dall‟implementazione di
programmi di conciliazione sono probabilmente più significativi e consistenti per quelle
organizzazioni che hanno:
una elevata percentuale di professionisti con elevata qualifica;
investito molto nella formazione di competenze specifiche dei dipendenti dell‟azienda;
una percentuale elevata di dipendenti donne.
La descrizione del perché ciò avvenga è l‟oggetto della ricerca che si articola secondo i tre
momenti.
a - Lavoratori con elevata professionalità
I professionisti – cioè gli esperti che applicano forme di conoscenze specialistiche ad una
serie di problemi complessi – sono risorse “critiche” per le aziende a causa della loro
conoscenza tacita, costi, scarsità e trasferibilità delle loro competenze. In quanto “portatori” di
conoscenze specializzate - difficili da reperire e costose da sviluppare nel breve periodo – i
professionisti hanno la capacità e la funzione di ridurre le incertezza che presenta il mercato,
il settore industriale, la produzione aziendale ecc., gestendo un complesso di problemi non
routinari. Inoltre, attirare e mantenere un nucleo di professionisti con qualifiche elevate può
essere particolarmente rilevante per le aziende perché molte delle competenze dei
professionisti sono generalizzabili, possono cioè essere apprezzate dagli altri dipendenti,
abilitare il lavoro degli altri e “contaminare” l‟ambiente di lavoro. In un periodo in cui le
imprese sono sottoposte ad una elevata competizione globale e a rapidi ed improvvisi
cambiamenti della domanda, per affermarsi in settori industriali e di mercato, disporre di
competenze generalizzabili è fondamentale. Non solo, tali competenze appaiono anche le
33
risorse più difficili da proteggere poiché le organizzazioni competitor possono fare offerte
migliori per accedere a tali competenze. Mantenere professionisti di elevata qualità è una
questione critica perché la domanda di professionisti è in crescita rispetto agli altri lavoratori e
per tali ragioni le aziende che impiegano un maggior numero di professionisti sono più
probabili di adottare programmi di conciliazione estensivi.
Inoltre, un ulteriore aspetto per cui la gestione aziendale può essere particolarmente
interessata alla gestione dei conflitti famiglia-lavoro dei professionisti è dovuta alla maggiore
perdita di valore monetario in seguito a turnover, distrazioni e orario di lavoro ridotto, o della
riduzione dell‟impegno dei professionisti, rispetto a quei lavoratori meno qualificati e pagati
meno. In particolare le misure di conciliazione si configurano come strumenti particolarmente
adatti e vantaggiosi rispetto a queste figure professionali perché i professionisti con elevata
qualifica, esprimono il loro “picco di produttività” fra i trenta e quarant‟anni, in
corrispondenza della formazione familiare e della nascita del primo figlio – eventi ritardati dal
lungo periodo di istruzione e formazione. Nei professionisti la domanda competitiva fra
lavoro e famiglia è enfatizzata in corrispondenza del loro periodo di maggiore produttività.
Infine i programmi di conciliazione famiglia lavoro, specie quelli che riguardano
l‟organizzazione dell‟orario lavorativo, si adattano particolarmente bene agli elevati livelli di
autonomia di cui i professionisti necessitano per svolgere nel miglior modo possibile le
proprie mansioni.
b - Dipendenti formati in azienda e con competenze specifiche
Esiti simili possono essere rilevati ed attribuiti con riferimento a quei lavoratori che non sono
professionisti con qualifiche elevate e generalizzabili ma che hanno sviluppato, durante la loro
esperienza professionale, competenze specifiche tali da rendere l‟azienda “dipendente” dalla
loro professionalità e dalle loro prestazioni. Lo sforzo discrezionale, le iniziative, e i
suggerimenti provenienti dai lavoratori con competenze specifiche possono essere
particolarmente apprezzate per le aziende, perché questi dipendenti hanno le conoscenze
necessarie per risolvere efficacemente problemi e implementare delle soluzioni. Così le
aziende tenderanno ad offrire incentivi a ogni dipendente che possiede competenze e
conoscenze particolarmente rilevanti per il successo dell‟azienda che non sono facilmente
accessibili nel mercato del lavoro, soprattutto se sono realizzate attraverso percorsi di
formazione promossi dalla stessa azienda. Fornire strumenti di conciliazione famiglia-lavoro
34
è una delle strategie aziendali per estendere il margine di produttività poiché induce questi
lavoratori a massimizzare l‟impegno sul lavoro; tendono a ridurre le perdite di produttività
derivanti dai conflitti famiglia-lavoro; motivano infine i dipendenti ad esercitare sforzi
discrezionali come parte di un processo di scambio generalizzato.
Differentemente dalla precedente situazione, queste figure – data la specificità professionale –
in generale non sono contese sul mercato nel lavoro e per questo le misure di conciliazione
non funzionano per trattenere i lavoratori da altri competitor ma scoraggiano comportamenti
di chi lavora sotto le proprie capacità e rappresentano un deterrente a cambiare settore
produttivo (dove non sarebbe riconosciuta tale professionalità) o a lasciare il lavoro, perdendo
anche i benefit associati.
c - Presenza rilevante di lavoratrici
Si tratta della condizione che possiamo considerare più intuitiva. Nelle aziende in cui la
presenza femminile è particolarmente elevata, il rischio di perdita di produttività dovuta a
carichi di cura e di organizzazione familiare è superiore rispetto a quelle aziende in cui la
presenza di donne è scarsa o minore. Questo è dovuto al fatto che la responsabilità principale
della cura domestica e dei figli ricade quasi esclusivamente sulle donne. Così, le aziende che
impiegano elevate percentuali di lavoratrici sono più “dipendenti” da loro ed è più probabile
che adottino programmi di conciliazione famiglia-lavoro estensivi per ridurre la perdita di
produttività dovuta all‟assenteismo ed agli effetti tipici del conflitto famiglia-lavoro.
In sintesi, siccome il conflitto famiglia-lavoro è maggiore per le lavoratrici rispetto ai
lavoratori, la riduzione d‟impegno, distrazioni, ritardi e assenteismo conseguenti, ha un
maggiore impatto sulla produttività delle aziende che impiegano un‟ampia forza lavoro
femminile. È quindi più probabile che queste aziende implementino programmi di
conciliazione famiglia-lavoro. In particolare si sostiene che l‟implementazione di misure
family friendly è più probabile che si realizzi in quelle organizzazioni in cui le donne coprono
ruoli manageriali (Bloom, Kretschmer, Reenen 2011). Tale legame è spiegato attraverso due
dinamiche, fra loro connesse:
in quanto manager, le donne sono in condizioni contrattuali migliori per richiedere e
negoziare pratiche vantaggiose per il loro benessere;
in quanto manager, le donne hanno maggiori probabilità di superare le resistenze am-
bientali nell‟implementare e generalizzare le misure di conciliazione.
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Quest‟ultimo aspetto apre ad una dimensione molto rilevante rispetto alla connessione fra
implementazione delle pratiche di conciliazione e produttività: il management.
1.4 Il management
Abbiamo già illustrato come l‟offerta di misure di conciliazione da parte delle aziende non è
affatto omogenea ma cambia in funzione di differenti fattori, come quelli strutturali (il settore
industriale, le dimensioni aziendali, l‟età dell‟azienda, la proporzione di donne impiegate);
quelli storico-culturali (che rimandano alla presenza di una tradizione con cui
l‟organizzazione supporta le necessità dei dipendenti); quelli strategico-strumentali (la
consapevolezza che alla misure di conciliazione si associano minori tassi di turnover,
assenteismo, fidelizzazione dei dipendenti, la costruzione di una immagine pubblica con
rispettivi ritorni economici) e abbiamo introdotto una riflessione sul ruolo del management e
della struttura organizzativa per la buona riuscita delle politiche di conciliazione.
Frequentemente la dimensione manageriale definisce un aspetto critico per l‟implementazione
e l‟efficacia delle misure di conciliazione. Questo aspetto può essere così rilevante da meritare
una sezione specifica di approfondimenti e definirsi come un “meccanismo” regolativo.
Bloom, Kretschmer e Reenen (2011) partono dalla considerazione che il management è la
chiave di volta per comprendere e favorire il corretto funzionamento delle politiche di welfare
aziendale e di conciliazione. Studiano l‟impatto delle pratiche di conciliazione famiglia lavoro
in 450 aziende di Germania Francia, Regno Unito e Stati Uniti distinguendo operativamente
due momenti: l‟esistenza di una relazione diretta fra produttività aziendale e misure di
conciliazione; l‟esistenza di una relazione indiretta, mediata dal “buon management”5. Fra le
5In particolare declinano:
1 - le misure di conciliazione includendo forme di flessibilità per la cura dell‟infanzia, il lavoro da casa,
flessibilità dell‟orario di lavoro, lavoro condiviso, sussidi per l‟infanzia attraverso formulazioni come: “Quanta
flessibilità c‟è se un dipendente ha bisogno di prendere un giorno per stare a casa per problemi con i figli”?
“Lavorare a casa nel normale orario di lavoro; cambiare da full time a part time; sussidi economici per aiutare a
pagare la cura dei figli.
2 - La qualità manageriale è rilevata attraverso quattro aree: operazioni, monitoraggio, obiettivi, incentivi
Le operazioni di management è centrata sulla introduzione di tecniche di produzione snelle, la docu-
mentazione di processi di miglioramento, e la logica dietro l‟introduzione di miglioramenti.
Il monitoraggio riguarda le performance di individui e la revisione delle performance (per esempio, at-
traverso regolari perizie e piani di lavoro) e conseguenze direttive (per esempio un sistema di premi e sanzioni
che garantiscano i piani di lavoro).
La sezione degli obiettivi esamina il tipo di obiettivi (se gli obiettivi sono semplicemente economici o
operativi o più olistici) il realismo degli obiettivi (troppo esteso, irrealistico) la trasparenza degli obiettivi (sem-
plice o complessa) il range e le interconnessioni degli obiettivi(esempio, se sono dati coerentemente attraverso
l‟organizzazione).
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diverse ipotesi che presentano e verificano – su cui non possiamo dilungarci – ci soffermiamo
su quella per noi più rilevante. Se le politiche family friendly aiutano a rendere il capitale
umano una risorsa aziendale più valida o inimitabile, aiutando i lavoratori ad essere più
produttivi o aiutando le aziende a mantenere i lavoratori validi ci aspetteremmo:
∂y/∂X ≥ 0
dove:
y = indice di performance (produttività e profitto)
X = indice di politiche family friendly (asili nido ecc.)
La relazione positiva fra le pratiche e le migliori performance aziendali è verificata, ma
omettendo la dimensione manageriale.
Quando invece – nei modelli di regressione – questa relazione è controllata attraverso l‟indice
di buon management, l‟associazione tende a scomparire. Ciò significa che la relazione fra
pratiche implementate e indicatori di performance è una relazione spuria, mediata dalla
capacità e dalle sensibilità del management di coordinare le richieste dei lavoratori e gli
strumenti di conciliazione alle loro prestazioni professionali. Tale studio offre importanti
spunti per – e invita la ricerca a – considerare la centralità delle capacità immateriali, come
quelle organizzative-manageriali, che sono elementi di regolazione in grado di rispondere, da
una parte alle richieste di conciliazione dei lavoratori e dall‟altra di influenzare le
performance e i risultati aziendali.
In uno studio condotto su 350 aziende americane, Konrad and Linnehan (1995) riportano
come il supporto del top management per le pari opportunità è positivamente correlato alle
“politiche formalizzate delle risorse umane”, una configurazione di politiche e pratiche family
friendly. Nella ricerca emerge come tali politiche migliorano lo status occupazionale delle
donne e delle persone di colore attraverso le funzioni svolte dal top management nelle
aziende, di facilitazione delle relazioni lavorative, di mediazione negli scambi fra lavoratori,
Gli incentivi includono criteri di promozione, pagamenti e bonus e o il colpire cattivi performers dove le
buone pratiche sono ritenute essere un approccio che da forti ricompense per chi ha sia capacità che sforzo.
3 - La produttività è invece intesa in termini di profitto economico
4 – Variabili di controllo date dalle caratteristiche della forza lavoro (età media dei dipendenti, ore di lavoro,
proporzione di dipendenti femmine, informazioni su competenze, formazione e sindacalizzazione ecc.).
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di sostegno di valori etici e di supporto del clima aziendale. Quando i top manager
enfatizzano alcuni valori come la correttezza e le pari opportunità e mettono questi valori in
pratica, ciò aiuta le aziende a ottenere l‟impegno dei lavoratori e una migliore reputazione
come impresa socialmente responsabile.
Inoltre, l‟adozione di pratiche di conciliazione è determinata da conoscenze, percezioni ed
esperienze dirette dei programmi di conciliazione dei manager. È quindi più probabile che una
azienda implementi politiche family friendly se i suoi dirigenti le hanno sperimentate e se
credono che tali pratiche possano raggiungere alcuni obiettivi organizzativi o il mantenimento
di personale di talento.
La rilevanza del management non si esaurisce però nei ruoli e nelle funzioni del top
management. Anche figure direttive intermedie, che connettono i livelli direttivi elevati agli
altri dipendenti, possono avere molta importanza nel corretto funzionamento ed
implementazione di politiche family friendly.
Le pratiche di gestione delle risorse umane hanno visto infatti un significativo spostamento
delle capacità e delle pratiche decisionali centralizzate a livello di management superiore ad
uno decentralizzato, devolvendo responsabilità a livello di line manager (responsabili o
direttori di linea di produzione da ora lm) (McCarthy et alii 2010). Tale devoluzione significa
anche una maggiore estensione delle incongruenze fra le politiche formulate a livello di
management superiore e le decisioni assunte al livello più basico. Appena le politiche delle
risorse umane si sviluppano entro una organizzazione gerarchica multilivello, i gradi
intermedi assumono particolare rilevanza nell‟influenzare le decisioni e l‟implementazione
pratica delle politiche, tanto che la politica delle risorse umane può essere qualcosa di distinto
dalla reale pratica (Legge, 2005 - cit in McCarthy et alii 2010). Le figure di direzione
intermedie regolano, negoziano ed interpretano le connessioni tra i livelli istituzionali e
strategici delle organizzazioni e quelli tecnico-operativi. Dato che essi, in molte aziende,
possono svolgere un ruolo attivo nei processi decisionali della gestione delle risorse umane,
includendo le decisioni sulla conciliazione, è importante comprendere come agiscono
influenzando il funzionamento in generale dell‟organizzazione, le politiche, i programmi e le
pratiche di conciliazione. Questo perché le politiche di conciliazione sono formalmente
designate e adottate a livello organizzativo, normalmente dal responsabile delle risorse
umane, ma sono ampiamente implementate e gestite figure intermedie come per esempio
supervisori o responsabili di progetto. Così tali figure rappresentano un momento critico fra la
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programmazione politica e la realizzazione pratica poiché concretizzano le politiche delle
risorse umane.
È questo l‟oggetto specifico del contributo di McCarthy, Darcy e Grady (2010) che applicano
la teoria del “comportamento pianificato” alle dinamiche con cui i lm mediano la relazione fra
programmazione e offerta a livello dirigenziale di strumenti di conciliazione e fruizione ed
efficacia percepita dai dipendenti. La teoria del comportamento pianificato è un approccio
disposizionale alla previsione del comportamento (Ajzen, 1991). Secondo tale teoria il
comportamento di una persona è determinato – anche se non in via esclusiva – dalla sua
intenzione di esprimere il comportamento e questa intenzione è a sua volta data
dall‟atteggiamento maturato verso quel comportamento, da norme soggettive e dal controllo
percepito rispetto al comportamento assunto. In sintesi, atteggiamenti, norme soggettive e
percezione di controllo del comportamento portano alla intenzione di manifestare un dato
comportamento.
Nel contesto delle politiche e delle pratiche famiglia lavoro, la teoria del comportamento
pianificato implica che il lm che ha atteggiamenti positivi verso i programmi di conciliazione,
che sperimenta maggiore pressione sociale (norme soggettive) per implementare politiche e
pratiche di conciliazione e che percepisce di avere maggior controllo sulla formazione e
implementazione di politiche di conciliazione, avrà una maggiore intenzione di adottare ed
implementare tali programmi rispetto al lm con atteggiamenti meno favorevoli.
Ma quali sono i fattori che influenzano le intenzioni di comportamento del line management
verso la conciliazione e, di conseguenza il comportamento e le azioni?
Atteggiamenti
- Il primo aspetto da considerare come un fattore importante nel determinare gli atteg-
giamenti verso le politiche e le pratiche di conciliazione è la consapevolezza cioè la reale co-
noscenza della disponibilità di politiche, delle modalità di accesso e dei loro generali impatti
sia per l‟azienda che per i dipendenti. L‟assenza della conoscenza per il lm delle varie politi-
che delle risorse umane, in generale, impatta negativamente sulla loro efficacia e possono in-
nescare incongruenze profonde fra la programmazione e la reale operativizzazione e fruizio-
ne. Al contrario, la consapevolezza del lm di varie politiche di conciliazione in termini di di-
sponibilità, eleggibilità e di specifici o possibili adattamenti operativi è una determinante im-
portante delle loro intenzioni e comportamenti verso queste politiche e della partecipazione
dei dipendenti nei programmi family friendly.
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- La seconda dimensione riguarda l’utilizzo personale in atto o pregresso di politiche di
conciliazione. È evidente come le esperienze di particolari comportamenti influenzano gli at-
teggiamenti e così, la misura in cui i lm utilizzano o hanno utilizzato programmi di concilia-
zione è un fattore che condizionerà i loro atteggiamenti verso tali programmi. Le intenzioni
dei manager di adottare opzioni di conciliazioni o iniziative per il personale sono cioè in-
fluenzate dalla loro personale esperienza di tali iniziative. Chi ha utilizzato misure di concilia-
zione nel passato sarà positivamente disposto a mettere in pratica tali programmi per il perso-
nale.
Le norme soggettive, che si configurano come risposta alle pressioni sociali nell‟adottare o
meno un dato comportamento, appaiono una determinante alle intenzioni di comportamento.
Quindi, in un ambiente aziendale dove la domanda di politiche di conciliazione è
particolarmente rilevante, il management è, in linea di principio, maggiormente soggetto a tali
pressioni ed è quindi più probabile che le intenzioni del lm di adottare ed implementare tali
iniziative siano superiori rispetto alle sezioni dove la domanda è inferiore.
Percezione di controllo del comportamento: la maggiore partecipazione nei processi
decisionali rispetto alle iniziative e politiche di conciliazione è probabile che influenzi il
controllo sull‟implementazione. Così, la misura in cui il lm è coinvolto nella formazione ed ha
un grado di controllo sulle politiche di conciliazione è probabile che influenzi le intenzioni ed
i comportamenti nella implementazione delle stesse politiche e soprattutto rispetto alla loro
efficacia.
Gli atteggiamenti positivi sono insufficienti per l‟implementazione o per l‟efficacia di
politiche di conciliazione poiché altri fattori come il potere di prendere decisioni, le risorse
disponibili e accessibili ecc. influenzano tali capacità. I lm sono spesso in una posizione di
difficoltà perché devono implementare strategie e iniziative in cui non sono stati
necessariamente coinvolti nella formulazione del piano e spesso soffrono condizioni di
frustrazione per implementare politiche determinate a livello manageriale superiore di cui non
sono stati partecipi. Al contrario, in quelle aziende in cui sono coinvolti nella formulazione di
politiche di conciliazione, si registrano maggiori percezioni positive (Maxwell 2005). I lm
dovrebbero avere un certo livello di coinvolgimento nelle decisioni sui programmi di
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conciliazione per evitare di gestire ed implementare politiche e trasformazioni che non
concordano o non comprendono pienamente.
Per sintetizzare, il ruolo del lm ci aiuta a cogliere una dimensione regolativa fra l‟offerta di
pratiche supportive di conciliazione, gli utilizzi e l‟efficacia. Questo ruolo organizzativo
intermedio si configura come interfaccia fondamentale fra l‟attività di programmazione, che
di solito è presa dalla direzione aziendale, e quella dell‟efficacia (che riguarda le modalità di
implementazione, la comunicazione, la fruizione e la soddisfazione rispetto alle necessità
espresse). Due aziende potrebbero per esempio implementare la stessa misura di conciliazione
in funzione delle medesime richieste ma ottenere esiti piuttosto differenti. Diventa quindi
necessario indagare i meccanismi e i ruoli regolativi che congiungono i due momenti. I lm
esprimono una modalità regolativa e possono favorire o scoraggiare la corretta formulazione,
comunicazione, applicazione e valorizzazione delle pratiche. Quella del lm può essere
considerata una figura di sostegno rilevante per le necessità di conciliazione dei dipendenti
poiché, quando lo è, tende ad avanzare richieste di politiche e di pratiche di conciliazione
nelle aziende, contribuendo significativamente alla cultura della conciliazione. Gli ambienti di
lavoro supportivi sono caratterizzati da un management che fa da sostegno alle
preoccupazioni della vita personale dei dipendenti, all‟esistenza di ampi programmi di
conciliazione, e ad un ambiente in cui i dipendenti sono incoraggiati ad utilizzare politiche e
programmi di conciliazione. Può anche avvenire che il lm possa tendere a contrastare lo
sviluppo e l‟implementazione di programmi e iniziative. Dove non sono supportivi - rispetto
al tema della conciliazione -, possono minare le politiche e i programmi designati per aiutare i
dipendenti nel bilanciare la domanda di lavoro e quella di non lavoro, per esempio
applicandoli scorrettamente o riducendone le possibilità di utilizzo. Possono quindi
condizionare quell‟equilibrio fra offerta di misure di conciliazione e domanda espressa, come
abbiamo ipotizzato in apertura di questo capitolo.
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2. PERCHÉ LE IMPRESE CONCILIANO (diVincenzo Marrone)
2.1 - Misure di conciliazione, certificazione Audit e indicatori di produttività. Uno
sguardo alle organizzazioni.
Il legame “causale” fra le misure di conciliazione e gli indicatori di produttività aziendale -
come abbiamo illustrato - è tutt‟altro che definito univocamente in letteratura. A parere di chi
scrive possiamo individuare due grandi impostazioni analitiche (ed empiriche) che partono da
accezioni differenti di produttività. Da una parte chi rileva la produttività con indicatori
economici “hard” come il profitto, il fatturato, le vendite ecc. (indicatori facilmente
standardizzabili e che trovano l‟unità di misura nel denaro), dall‟altra chi ha una approccio
alla produttività più “soft” e la rileva con tradizionali indicatori di turnover e di assenteismo
dei lavoratori dipendenti.
Le perplessità nascono quando si nota come, generalmente, l‟approccio econometrico “hard”
non rileva significativi apporti delle misure di conciliazione famiglia lavoro alla produttività
mentre, altrettanto generalmente, l‟approccio “soft” ne riconosce importanti contributi.
A nostro modo di vedere il primo orientamento risente della tradizionale impostazione della
produttività intesa come modalità attraverso cui si rapporta il costo di un ora di lavoro per il
valore economico del prodotto per ora. Esclude dal calcolo le dinamiche sociali ed umane che
possono condizionare la modalità, i tempi e la qualità produttiva, per esempio le motivazioni,
le responsabilità individuali del lavoratore, il clima aziendale e gli scambi comunicativi
orizzontali e verticali, il senso di appartenenza e la passione per la professione. Esclude
inoltre, necessariamente dal calcolo questi aspetti poiché altri fattori hanno una incidenza sul
valore aggiunto molto più rilevate (e non controllabile) rispetto all‟apporto delle risorse
umane, come per esempio l‟improvvisa variazione della domanda di prodotto, la variazione
dei costi delle materie prime, il tasso di cambio monetario ecc. L‟improvvisa svalutazione o
rivalutazione di una moneta estera può spostare notevolmente il valore di produzione molto
più di quanto non possa fare l‟impegno e la motivazione del personale.
C‟è un ulteriore aspetto che rende problematica questa modalità di calcolo della produttività e
che è ben illustrata da Enzo Rullani (2012). Secondo l‟autore – particolarmente interessato a
far emergere il fattore “conoscenza” quale elemento moltiplicatore del valore di produzione –
la società odierna non può più adottare i criteri della modernità per descrivere e calcolare la
42
produttività. L‟azienda di tipo fordista-taylorista fondava – legittimamente - il calcolo della
produttività sulla semplice equazione ora di lavoro/numero di pezzi prodotti poiché la
capacità replicativa della macchina – nella produzione di massa – soddisfaceva
sufficientemente la domanda del mercato. Una domanda non solo standard ma, soprattutto,
certa o comunque ampiamente prevedibile.
«…in quel tipo di impresa (la catena di montaggio del modello fordista) la produttività era qualcosa di
preciso e misurabile: misurava e cadenzava il ritmo della produzione sulla base di un indicatore
preciso: il numero di pezzi (in output) ottenuti per ogni ora lavorata (in input). Ovvero, in modo
indiretto, il volume di prodotti ottenuti da una certa linea, da un certo stabilimento. Bastava il ritmo
per accrescere il valore replicabile dalla conoscenza replicabile, nella fabbrica della produzione di
massa. Ecco perché, allora, quella nozione di produttività era ragionevole e largamente
utilizzata: indicava, infatti, la fonte del valore, legando il ritmo lavorativo ai moltiplicatori cognitivi che
ne discendevano. Se oggi guardiamo alla produttività adottando questo punto di vista, è facile prendere
un abbaglio, pensando che il massimo della produttività si possa ottenere forzando la mano sul
lavoro, e dunque in condizioni di massimo stress lavorativo: ritmi incalzanti, poche pause, orari di
lavoro lungo e a ciclo continuo (comprese le notti e le feste comandate), ferie ridotte all‟osso» (ivi,
p.123).
Il processo di globalizzazione dei mercati e le capacità della telecomunicazione, che hanno
annullato gli spazi e quindi i tempi di reazione, hanno trasformato significativamente il
funzionamento dell‟impresa spostando nuovamente il focus della produttività dalla macchina
all‟uomo. In particolare è la risorsa conoscitiva – cioè le competenze, la professionalità, il
bagaglio teorico e tecnico in grado di “assecondare” le oscillazioni e i cambiamenti della
domanda internazionale – che appartiene all‟uomo e non alla macchina, ad assumere oggi una
rilevanza strategica per competere sul mercato.
«quando si pensa all‟aumento della produttività nell‟industria, due secoli e mezzo di modernità ci hanno
fornito una idea abbastanza precisa di come sia possibile in pratica raggiungere questo risultato. In
linea generale, si può procedere aumentando il grado di meccanizzazione dei processi, accelerando il
ritmo della catena, aumentando la potenza e la velocità delle macchine impiegate, parcellizzando
e razionalizzando il lavoro, ottimizzando la sequenza delle operazioni da compiere,
standardizzando i processi e i prodotti, aumentando i volumi produttivi, e così via. […] Ma che
succede, in tutti quei casi – e sono sempre di più – in cui l‟uso della tecnologia e delle macchine è
limitato dalla complessità dei problemi da affrontare, dovendo agire in un contesto troppo vario,
variabile e indeterminato per affidare la risposta unicamente alla potenza replicativa di una macchina o
di un software?» (ivi, p.23)
Anche la lettura di Solari (2011) ci aiuta a cogliere determinate dinamiche interaziendali che
riguardano la produttività. Argomentando il carattere sociale della relazione di impiego,
sostiene che:
«...la relazione di impiego deve essere considerata come un contratto sociale che si evolve nel tempo e
risente di condizioni diverse (politiche, economiche e sociali) non come uno scambio di mercato
perfetto. Incorporare gli obiettivi dei lavoratori all‟interno dell‟impresa diventa un tema strategico.
43
Ottenere e mantenere la prevedibilità nelle relazioni di lavoro è un obiettivo centrale della gestione. Il
vero nodo della gestione delle risorse umane è ottenere un allineamento anche minimale tra gli interessi
all‟interno di una visione pluralista dell‟impresa. La consapevolezza dell‟importanza della relazione
d‟impiego è un presupposto necessario di qualsiasi ragionamento sulle modalità specifiche di
organizzazione e gestione del rapporto tra impresa e lavoratori» (idem, pp.19-20).
Questa riflessione nasce dalla consapevolezza secondo cui uno degli aspetti caratterizzanti la
centralità della gestione delle risorse umane in tempi recenti è proprio l‟accentuata
competizione internazionale e la richiesta di maggiore produttività (idem, p.27). Le pressioni
del mercato globale spostano l‟attenzione verso le persone, considerate risorse preziose su cui
fare affidamento per rispondere efficacemente alle improvvise variazioni della domanda. Per
queste ragioni la produttività non può più essere intesa semplicemente come un mero calcolo
econometrico di unità misurabili, ma deve integrare dimensioni immateriali che permettono
ad una azienda di reagire immediatamente ai cambi repentini del mercato, innovarsi, crescere,
competere, affermarsi.
“il rapporto con il valore non dipende da un parametro soltanto: ha valore l‟efficienza della “macchina
energetica” che eroga il lavoro, ma ha anche valore la capacità di emozionarsi, convincere, costruire il
mondo esterno in rapporto con gli altri. Per riportare la nozione di produttività a tutto questo, occorre attribuire
valore a pensieri o cose dotate di senso, e studiare i legami con altri che a questi pensieri o cose danno valore.
Insomma, in un mondo instabile, popolato di soggettività creative e di ecologie complesse – come è
diventato i mondo contemporaneo – la creazione di valore e dunque lo sviluppo della produttività “che
conta” rimanda ad un circuito tra senso, legame e valore che è proprio delle ecologie o dei paradigmi
produttivi, visti nella loro reale varietà di emozioni e circolarità di legami” (Rullani, pp.121-122).
È evidente come questa proposta ci inviti a considerare la produttività sotto nuove prospettive
che tengano conto del contributo umano – non razionalizzabile – al lavoro. Prospettive che
appaiono in perfetta sinergia con il tema della conciliazione famiglia lavoro. È questa sinergia
che accompagna la prospettiva win win, in cui si elaborano strategie aziendali per innescare
circuiti virtuosi e far emergere esternalità positive valide contemporaneamente per la sfera
produttiva del lavoro, per quella personale e familiare e, infine, per la dimensione sociale e
culturale di una data realtà territoriale.
La seconda prospettiva, quella che abbiamo definito “soft”, generalmente apprezza il
contributo delle misure di conciliazione famiglia-lavoro alla produttività partendo dalle
prestazioni individuali dei lavoratori. I limiti di tale impostazione – a parere di chi scrive –
sono rintracciabili in due aspetti prevalenti. Da una parte si pensa alla produttività o alle
prestazioni aziendali come ad un aggregato di prestazioni individuali o dall‟aggregato della
riduzione dei costi per dipendente. Dall‟altra la relazione conciliazione/produttività enfatizza
44
particolarmente il carattere razionale e strumentale mentre riserva minori attenzioni alle
dinamiche di tipo espressivo, quindi l‟aspetto culturale, valoriale ed affettivo che sono parte
integrante dell‟attività professionale. Così, questa prospettiva, se da una parte ri-scopre la
centralità del contributo umano al processo produttivo, dall‟altra appare incompleta poiché
troppo focalizzata sul calcolo utilitaristico dei vantaggi per l‟azienda e quelli per il
dipendente. Ne deriva che se non emergono vantaggi “misurabili” in termini quantitativi ed
attribuibili alla implementazione e fruizione delle misure di conciliazione o di strumenti di
welfare aziendale, tutta la programmazione rischia di essere considerata svantaggiosa, costosa
e, in sostanza in-utile.
Entrambe le prospettive contribuiscono, tuttavia, in modo complementare al dibattito in
oggetto fornendo momenti imprescindibili della ricerca.
A proposito di questo, di particolare interesse sono i risultati ottenuti dall‟indagine
sull‟impatto delle misure di conciliazione del programma “Berufundfamilie” (Audit Famiglia–
lavoro) in Germania. Il programma Berufundfamilie nasce come “strumento strategico per
realizzare una politica di gestione delle risorse umane incentrata sull‟importanza della
famiglia, finalizzata a creare un equilibrio sostenibile e duraturo tra gli interessi dell‟azienda e
le esigenze familiari dei collaboratori” (Ghedina 2013, p.68) e questo si traduce per le aziende
come un aumento della produttività, maggiore fidelizzazione dei lavoratori e della clientela,
abbattimento dei costi di turnover, del reclutamento e inserimento di nuovo personale, facilità
di acquisizione e mantenimento di talenti, acquisizione di flessibilità organizzativa e di
capacità di prevenzione ed adeguamento, che permettono di assorbire meglio anche le
fluttuazioni del mercato (idem, p.70). Dall‟analisi condotta sulle aziende che partecipano al
programma e ne hanno ottenuto la certificazione, alcuni indicatori di produttività – osservati
nel periodo 2007-2012 – sembrano mostrare esiti confortanti.
I fattori che appaiono particolarmente sensibili all‟introduzione di strumenti e pratiche di
conciliazione sono: motivazione del personale, tasso di assenze per malattia, durata della
malattia, il numero di dimissioni spontanee, la qualità degli aspiranti, il tasso di assenteismo,
gli esigui costi d‟inserimento al lavoro. Positivi ma più deboli appaiono invece la produttività
del personale, il grado di fidelizzazione dei clienti, la durata dell‟impiego, i costi acquisizione
del personale.
I dati confermano quindi le tendenze riportate in letteratura con riferimento all‟approccio
“soft” della produttività.
45
Anche nella nostra ricerca abbiamo indagato alcune tendenze attraverso i “classici” indicatori
di produttività delle risorse umane. Tuttavia quest‟analisi si configura – nell‟economia della
ricerca – come preliminare e contestuale, volta soltanto a presentare alcuni elementi descrittivi
delle realtà imprenditoriali in cui è stato realizzato lo studio.
Le sei aziende coinvolte nella ricerca sono Samo (Bonavigo, Verona), Texa (Monastier,
Treviso), Keyline (Conegliano Veneto), Castelmonte ONLUS (Preganziol, Treviso),
Crivertrade6 (Silea, Treviso) e Baxi di Bassano del Grappa e tutte hanno ottenuto la
certificazione Audit famiglia e lavoro dalla regione Veneto. Certificazione che garantisce la
presenza in azienda di pratiche e politiche family friendly.
Anno della certificazione AUDIT Famiglia
Lavoro
Samo 2014
Texa 2013
Keyline 2013
Castelmote 2010
Baxi 2014 Tab.2.1 – anno della certificazione Audit
Con riferimento alle dimensioni per numero di dipendenti, l‟impresa più piccola ha 37
dipendenti mentre la più grande ne conta oltre 700.
I contratti di lavoro dei dipendenti sono quasi esclusivamente di tipo full-time ad eccezione
della cooperativa sociale Castelmonte, dove la proporzione si inverte ed in cui i tre quarti dei
dipendenti hanno un contratto di lavoro part time.
Anche per quanto riguarda il genere degli occupati si riproduce una tendenza simile alla
precedente:
i lavoratori sono prevalentemente di sesso maschile (percentuale che oscilla fra il 68 e l‟83% )
ad eccezione di Castelmonte dove l‟88% dei soci lavoratori sono di sesso femminile,
inversione di tendenza dovuta alla tipologia di lavoro.
L‟età media per azienda varia dai 37 ai 45 anni con distribuzioni per classi di età molto
eterogenee. Alcune imprese possono contare su un capitale umano molto giovane: quasi un
terzo della popolazione dei dipendenti di Texa e Keyline non supera trenta anni di età, e per
6Non disponiamo di dati strutturati di questa azienda. Quelli presentati derivano dall‟intervista alla proprietà.
46
queste due aziende oltre il 60% dei dipendenti è costituito da lavoratori che hanno fino a
quarant‟anni. Si tratta di un dato rilevante per almeno due motivi: il primo di natura
economico/strategica che evidenzia l‟investimento imprenditoriale nelle nuove generazioni; il
secondo evidenzia un dato strutturale della composizione del personale che si trova ad
affrontare un periodo del ciclo di vita familiare particolarmente sensibile alle dinamiche ed
alle necessità conciliazione con i lavoro. In altre (Samo e Castelmonte) le classi di età
appaiono più equamente distribuite mentre in Baxi c‟è una prevalenza di dipendenti con età
più avanzate che aprono nuove questioni rispetto al tema conciliativo: l‟invecchiamento della
popolazione dei dipendenti e soprattutto l‟elaborazione di strumenti e modalità per
l‟assistenza di genitori anziani o non autosufficienti.
Età media < 30 (%) 31 - 40 (%) 41 - 50 (%) > 50 (%)
SAMO 42 12 31 38 19
Texa 37 25 38 28 9
Keyline - 30 30 23 17
Castelmote 44 17 24 28 32
Baxi 45 2 28 46 24
Tab.2.2 - Composizione per età e classi di età dei dipendenti
Le assunzioni
Uno degli indicatori che possono aiutarci a comprendere le prestazioni delle organizzazioni
coinvolte nella ricerca è sicuramente il dato sulle assunzioni. In un periodo storico in cui il
tasso di disoccupazione in Italia è crollato a minimi storici (13,4%) specie per quanto
concerne l‟occupazione giovanile (43,9%), un‟azienda che assume lavoratori sembra andare
decisamente in controtendenza. Certo – sottolineiamo – questo non significa che le aziende
che hanno risposto alla nostra ricerca non risentano della crisi economica attuale. Tuttavia
sembrano porsi come operatori attivi nella creazione di lavoro e nell‟attrazione di capitale
umano. Rilanciano, e lo fanno – fra le altre cose – attraverso l‟investimento in capitale umano,
dimensione entro cui rientra l‟offerta di servizi di conciliazione.
In particolare i dati in nostro possesso evidenziano punteggi positivi rispetto alle assunzioni
nell‟ultimo triennio ed una conferma positiva nel primo semestre del 2014.
Fra il 2011 ed il 2013 la Samo, che attualmente conta 238 dipendenti, ne ha assunti 1207 e nel
primo semestre 2014, 41; la Texa, che ha 370 dipendenti ne ha assunti 99 nel triennio e 17 nel
7Parte di queste assunzioni sono legate all‟acquisizione dell‟azienda Inda
47
2014; Keyline, con 93 lavoratori ne ha assunti 44 nel triennio e 3 nel primo semestre del
2014; la cooperativa sociale Castelmonte, che conta 314 soci-lavoratori ne ha assunti 18 nel
triennio e 11 nel 2014, infine Baxi ha assunto nel biennio 2012-13, 17 lavoratori.
N. dipendenti al
2014
Σ assunzioni
(2011-2013)
n. assunzioni/
tot. dipendenti (%)
Assunzioni
1°sem.2014
SAMO 238 120 50,42 41
Texa 370 99 26,75 17
Keyline 93 44 47,31 3
Castelmote 314 18 5,73 11
Baxi 723 17 2,35 0
Tab.2.3 – Le assunzioni
Se normalizziamo le assunzioni del triennio, le riferiamo cioè al numero di dipendenti totale,
vediamo come Samo e Keyline abbiano inserito nel proprio organico una forza lavoro pari
rispettivamente al 50% e al 47% dell‟attuale numero di dipendenti; Texa del 27% e
Castelmonte di circa il 6%. Meno significativo è il dato biennale di Baxi (2,35%). È
importante sottolineare come per quest‟ultima azienda i processi produttivi siano
particolarmente intensi nel periodo primaverile ed estivo, comportando un fabbisogno di
lavoratori stagionali con contratti di lavoro interinale. Se il numero di assunzioni cresce molto
poco, ciò deriva da questo aspetto.
Non possiamo parlare di crescita o di incremento del numero di dipendenti, poiché non
disponiamo del dato relativo a chi ha lasciato il lavoro nel triennio, né del numero di
dipendenti nel 2011. Possiamo però certamente parlare di assunzioni, un fattore significativo
nella valutazione generale delle prestazioni aziendali.
L'assenteismo
Un indicatore di produttività tipicamente utilizzato per rilevare le performance aziendale e le
prestazioni dei lavoratori è il tasso di assenteismo. Ad oggi non esiste una modalità univoca
per calcolare questo indicatore poiché concorrono molti fattori che vengono inclusi o esclusi
dal calcolo (fra questi fattori abbiamo la malattia, i permessi, i congedi, le assenze per motivi
familiari, gli scioperi). Nel nostro caso – per limitare le incertezze di rilevazione del dato -
abbiamo calcolato un indice di assenteismo ricorrendo allo scarto fra il numero di ore di
48
lavoro complessivamente ed effettivamente realizzate in un anno (ore lavorate) e quelle
potenziali, previste per quello stesso anno (ore lavorabili).
Ciò che appare interessante notare è una progressiva riduzione del valore di questo indice, con
un‟unica eccezione in cui il dato appare in lieve aumento. Gli scarti registrati fra il 2011 ed il
2013 diventano sempre meno consistenti, cioè le ore lavorate si avvicinano progressivamente
a quelle lavorabili. Se ne deduce una generale riduzione del tasso di assenteismo.
Diff.% ore lavorate e ore lavorabili
2011 2012 2013
SAMO -12,68 -13,02 -6,89
Texa -21,41 -16,76 -14,71
Keyline -22,02 -15,03 -14,98
Castelmote -18,22 -16,50 -14,11
Baxi -20,22 -21,28
Tab.2.4 - Diff.% ore lavorabili e ore lavorate
Fig. 2.1 - Diff.% ore lavorabili e ore lavorate
Osserviamo ora la tendenza delle ore di malattia nel triennio. In particolare ci soffermiamo su
una tassonomia data dal rapporto fra le ore di malattia di un determinato anno e le ore
lavorabili previste per lo stesso anno. Per semplificare, possiamo leggere il dato come numero
di ore di malattia registrate per ogni 100 ore lavorabili in un anno.
Dalla tab.2.5, è possibile vedere come il tasso di malattia sulle ore lavorabili sembri rimanere
invariato per una azienda (2,61-2,64); diminuisce lievemente per due aziende (1,24-1,47;
3,50-3,24), e per una si riduce significativamente (3,18-2,71). In una sola organizzazione
questo tasso aumenta in maniera significativa (1,73-3,12) nel triennio.
-25,00
-20,00
-15,00
-10,00
-5,00
0,00
2011 2012 2013 2014
Samo Texa Keyline Castelmonte Baxi
49
Ore di malattia
/ore lavorabili (%)
Ore per infortuni sul lavoro
/ore lavorabili (‰)
2011 2012 2013 2011 2012 2013
Samo 2,71 2,22 2,64 6,65 0,61 3,56
Texa 1,24 1,54 1,47 0,68 0,98 1,24
Keyline 3,18 2,90 2,71 1,66 2,57 1,14
Castelmote 1,73 2,67 3,12 2,44 5,10 0,90
Baxi - 3,50 3,24 3,40 2,02
Tab.2.5 - Rapporto ore di malattia per ore lavorabili e rapporto delle ore per infortuni sul lavoro per ore
lavorabili
Fig.2.2 - Rapporto ore di malattia per ore lavorabili (%)
Fig.2.3 - Rapporto ore per infortuni sul lavoro per ore lavorabili (‰)
Un indicatore meno utilizzato nelle statistiche che affrontano il tema della relazione fra
conciliazione e produttività è quello che riguarda il numero di infortuni sul lavoro.
La stanchezza per i ritmi lavorativi particolarmente intensi, lo stress da lavoro e in particolare
l‟affaticamento derivante dai turni, dagli orari prolungati e dal pendolarismo, sono fattori
0,00
0,50
1,00
1,50
2,00
2,50
3,00
3,50
4,00
2011 2012 2013
Samo Texa Keyline Castelmote Baxi
0,00
1,00
2,00
3,00
4,00
5,00
6,00
7,00
2011 2012 2013
Samo Texa Keyline Castelmote Baxi
50
normalmente attribuiti agli incidenti sul lavoro. Questo fenomeno, particolarmente grave nel
nostro paese, può comportare danni temporanei o permanenti per il singolo, fino alla morte e
può rappresentare un danno importante per l‟impresa. Le misure di conciliazione,
permettendo orari flessibili ed un adattamento dei ritmi professionali alle esigenze dei singoli,
possono configurarsi come strumenti importanti per limitare il verificarsi di tali eventi.
Se consideriamo il rapporto fra le ore di infortuni sul lavoro registrate dalle aziende in un
anno e le ore lavorabili previste per quell‟anno (per mille), notiamo come tale valore tenda a
decrescere nel tempo, anche se non in modo lineare. Per tre aziende (Keyline, Castelmonte,
Baxi) decresce significativamente nel biennio 2012-13; per una (Samo) aumenta nel biennio
ma resta ben al di sotto del valore registrato nel 2011; in un solo caso (Texa) aumenta
gradualmente ma possiamo pensare ad un andamento fisiologico visto che i valori registrati
restano i più bassi in assoluto fra le aziende. È doveroso considerare anche la tipologia di
lavoro svolta nelle nostre imprese, poiché a seconda del settore produttivo possiamo avere
maggiori o minori probabilità di riscontrare infortuni sul lavoro. Per esempio, l‟azienda Samo
produce cabine doccia e la probabilità di incidenti sul lavoro è ragionevolmente superiore a
quanto possa accadere presso Texa dove si producono prevalentemente software e strumenti
digitali.
Vertenze sindacali e turnover
Un indicatore significativo che abbiamo rilevato per “sondare” la qualità del clima aziendale,
è il numero di vertenze sindacali aperte durante l‟anno. Nelle aziende coinvolte nella ricerca è
un fattore praticamente assente dalla rilevazione. In un solo caso si registrano due vertenze
sindacali nel triennio su una popolazione di oltre settecento dipendenti. Questo dato sta ad un
indicare generalmente un rapporto fra i lavoratori e la direzione o la proprietà, non
conflittuale.
Infine il turnover. È un indicatore tipico utilizzato per rilevare un aspetto della produttività: un
basso turnover porta a minori costi per le assunzioni e la formazione e soprattutto significa
poter contare su competenze apprese e sedimentate nel corso di un lungo periodo
professionale e formativo. Tuttavia è stata una nostra scelta non considerarlo in questa fase di
ricerca (anche se i responsabili delle risorse umane delle aziende coinvolte sostengono livelli
di turnover molto bassi). Questo perché – a parere di chi scrive – date le difficoltà di
collocamento professionale e di un mercato del lavoro che appare bloccato, al momento è un
51
indicatore poco affidabile. Resta comunque interessante indagare le “intenzioni” di turnover
dei dipendenti che fruiscono delle misure di conciliazione, aspetto che affronteremo nel
prossimo capitolo.
In questa presentazione abbiamo seguito l‟orientamento “soft” che associa determinati
outcome di performance agli input degli strumenti di conciliazione condividendone gli esiti.
Tuttavia, riteniamo doveroso sottolineare come le tendenze appena illustrate non siano il
risultato diretto della certificazione Audit, visto che le aziende vengono certificate fra il 2013
ed il 2014 – eccetto Castelmonte che è certificata nel 2010 -, né sono conseguenze dirette
delle misure family friendly. Negli anni precedenti la certificazione, - che di fatto formalizza
un percorso pregresso – vengono introdotte misure di conciliazione e di welfare aziendale che
possiamo genericamente legare alle performance aziendali positive, ma non si tratta
necessariamente di fattori causali. È più opportuno parlare di fattori concomitanti, cautela
giustificata da differenti motivi (che molto spesso l‟orientamento soft non considera).
Primo: molte associazioni fra misure di conciliazione e produttività possono essere spurie e
determinate da fattori intervenienti che nell‟analisi dei dati non vengono considerati ma che
emergono nelle interviste. Per esempio il responsabile del personale di una delle sei aziende –
in cui si registra una riduzione consistente del tasso di assenteismo – durante l‟intervista
descrive i criteri di calcolo ed assegnazione del premio di produttività, evidenziandone
l‟effetto positivo sul tasso di assenteismo ed esortando – per questo motivo – a non valutarne
l‟esito come effetto delle misure di conciliazione.
Tutto può essere collegato ma mi sentirei in difficoltà a collegare alcuni indici di produttività con certe
misure. Tra l‟altro noi abbiamo istituito questo premio di assiduità che è una contrattazione di secondo
livello, quindi è assolutamente non dovuta. Per due anni noi abbiamo agganciato questo premio, che è
una cifra che sono 700-800€ lordi, viene agganciato a degli obiettivi. Gli obiettivi per due anni sono
stati il fatturato, quindi il raggiungimento del fatturato, sia collettivo che individuale e poi un calcolo di
riparametrizzazione del premio in base all‟assenteismo. Non è direttamente collegato perché il premio,
dove l‟obiettivo è raggiunto, viene assegnato, però riparametrizzato individualmente in base alla
presenza (Int. KM, Keyline).
Il tasso di assenteismo decresce perché l‟“assiduità” del lavoratore è il fattore principale nel
calcolo del premio di produttività. Così la riduzione dell'assenteismo non deriva dalle misure
di conciliazione, ma dalle prospettive degli incentivi economici.
Questo aspetto ci porta ad una seconda osservazione. Un motivo per non considerare le
performance aziendali finora descritte come conseguenze delle misure di conciliazione sta nel
fatto che la direzione causale può essere letta nel verso opposto: le misure di conciliazione
52
non sono necessariamente una causa delle prestazioni professionali ma è possibile che in una
azienda in cui si registrano performance apprezzabili è più probabile che si offrano misure e
facilitazioni per il personale e le loro famiglie. In pratica, resta l‟associazione ma viene meno
la direzione causale.
Il terzo elemento che ci impedisce di cogliere l‟incidenza delle misure di conciliazione
famiglia lavoro alla produttività riguarda la cultura e la tradizione imprenditoriale. Come
vedremo nelle sezioni successive, le aziende in cui si è svolta la ricerca hanno sempre avuto
una sensibilità spiccata ed una attenzione particolare al tema della conciliazione e del
benessere dei lavoratori, atteggiamento che si è espresso con l‟offerta di misure di
conciliazione ante litteram.
Questo elemento “storico” ci impedisce di separare un prima da un dopo e cogliervi delle
differenze. È preferibile allora proporre un percorso di lettura ed una interpretazione
dell‟origine e degli sviluppi del tema della conciliazione in azienda e dell‟adesione al
programma Audit. Questa narrazione può aiutarci a capire meglio di tante relazioni statistiche
in che modo le misure di conciliazione posso configurarsi come strumenti strategici per
l‟efficacia di una azienda.
53
2.2 - Conciliazione, innovazione tecnologica e creatività per eccellere nel mondo. Il caso
TEXA
(dalle interviste al responsabile della comunicazione e marketing, dr. Pavanello; responsabile
delle risorse umane, dr. Doro, e segreteria ufficio risorse umane, dott.ssa Bassetto;)
Texa è una azienda che ha fondato il suo successo sulla produzione e la vendita di
apparecchiature diagnostiche per il settore automotive. È un‟azienda che crea innovazione
lavorando entro un settore industriale, quello delle centraline elettroniche, molto piccolo ma
fortemente competitivo in cui le competenze professionali, le capacità tecniche, operative e
conoscitive delle persone fanno la differenza.
L‟azienda TEXA (acronimo di Tecnologie Elettroniche X Automobili) nasce dall‟attività dei
fondatori: Bruno Vianello attuale presidente e direttore generale ed Emanuele Cavalli ora
amministratore delegato e ha sede nel comune di Monastier, Treviso. È presente in tutto il
mondo con una capillare rete di distribuzione: commercializza direttamente in Spagna,
Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Polonia, Russia e Giappone tramite filiali. I
progetti attuali più ambiziosi riguardano la videoassistenza e la telediagnosi ragioni per cui ha
siglato un importante accordo di collaborazione con Google Search Appliance, destinato a
costituire la base per tutte le sue nuove generazioni di prodotti. Questa progettazione prevede
una diagnosi che parte dalla strumentazione montata sulle vetture che restano sempre
connesse alla rete, e che permette una diagnosi fatta da remoto, senza che il veicolo entri in
officina.
I fondatori iniziano progettando e realizzando artigianalmente apparecchiature diagnostiche
per il controllo e la riparazione delle prime centraline elettroniche montate sulle automobili, in
un periodo storico in cui pochi erano in grado di farlo. I primi strumenti raggiungono un
successo rilevante tanto da essere fortemente richiesti dalle officine meccaniche del territorio.
Quindi la produzione viene commissionata da una azienda bolognese - la Tecnotest – che
vende gli apparecchi con il proprio marchio. Nel 1992 Texa pone il suo marchio sulla
strumentazione che produce e si afferma in questo settore industriale. Nei primi anni l‟azienda
conta una decina di lavoratori – fondatori compresi – ma l‟aver intercettato un cambiamento
in atto ed un settore produttivo vergine porterà ad una crescita vertiginosa del numero di
dipendenti (attualmente sono 450 di cui 370 nella sede di Monastier) e ad un aumento del
fatturato continuo, fino ai nostri giorni.
54
Sono cominciati veramente in pochi. Erano una decina di persone, però sono entrati in un momento
importante. Soprattutto hanno intercettato un momento di cambiamento: la chiave inglese, il martello
non servivano più a riparare guasti che erano prettamente elettronici, legati alle centraline e quindi sono
arrivati su un terreno vergine, in cui tutti avevano bisogno di uno strumento e quelli della Texa erano
probabilmente migliori rispetto a quelli della concorrenza perché dietro c‟erano delle menti brillanti e
delle idee particolari legate per esempio a … i primi strumenti ad essere aggiornati via web, i primi
strumenti ad avere una tele-assistenza nel senso che era possibile contattare un esperto per farsi aiutare
ed erano anche belli esteticamente che è una caratteristica di Texa. Se guardiamo i nostri strumenti,
sono piacevoli perché c‟è chi studia la grafica e l‟estetica, cosa che spesso non è per i competitor.
I primi anni del 2000 sono stati fondamentali per le sorti ed il successo dell‟impresa e a ciò ha
certamente contribuito la realizzazione di “Axone 2000” uno strumento di elevatissima
qualità, precisione e semplicità di utilizzo da essersi affermato sul mercato al punto che oggi –
a distanza di quattordici anni – continua ad essere utilizzato nelle officine di riparazione. È
con i primi anni del 2000 che si registra una crescita significativa dell‟azienda e ciò è
facilmente documentabile passando in rassegna le sedi che nel tempo si sono notevolmente e
gradualmente ampliate, passando da un piccolo capannone industriale nel ‟92 alla sede attuale
– inaugurata nel 2012 – che si estende per 30mila mq coperti in un‟area di oltre 100mila mq e
che – come indicato nel sito web – “rappresenta un vero monumento contro la
delocalizzazione e la spersonalizzazione del lavoro, con un continuo alternarsi di
avanzatissimi luoghi di lavoro e centri di aggregazione legati nella filosofia e
nell’architettura alla tradizione locale”.
Lo stile, l‟estetica, l‟architettura, gli spazi offerti dalla struttura fisica dell‟azienda sono un
indicatore indiscutibile di attenzione per i lavoratori. La mensa è di fatto un ristorante, il bar è
un caffè posto in un atrio che riproduce lo scorcio di un borgo antico - una piazzetta con
panche e lampioni-, un ampio corridoio interno accoglie una fontana, una sala è destinata alle
attività ludiche e ricreative in cui giocare a biliardo o ping-pong e le ampie vetrate permettono
una visuale suggestiva, rasserenate e prevedibilmente “lungi-mirante”. Grande rilevanza
hanno gli spazi verdi, con un parco di 40mila mq, un grande giardino pensile ricco di piante e
spezie e la presenza di diffusi spazi d‟acqua e fontane. Insomma l‟investimento nella struttura
architettonica e nell‟attenzione ai particolari estetici indica una precisa volontà di creare un
ambiente non solo di comfort ma soprattutto in cui i lavoratori possano esprimere al meglio le
loro capacità. Il concetto ispiratore di questa sede consiste nel realizzare un luogo in cui il
dipendente si senta valorizzato e motivato, partecipando in maniera creativa alla vita
aziendale.
55
È stata costruita questa nuova sede che è stata inaugurata nel 2012 e nonostante la crisi, che comunque
ha toccato anche noi, si è continuato ad andare avanti con i lavori, che è segno di grande lungimiranza
da parte della proprietà, con la filosofia di creare un ambiente molto a misura d‟uomo. L‟ispirazione che
ha Vianello è quella un po‟ di Olivetti, di creare un ambiente in cui, visto che ci si passa tanto tempo
qui, il dipendente si senta a suo agio, si senta valorizzato e apprezzi il fatto che si cerchi di creare
attorno un ambiente confortevole. Questo crea quell‟attaccamento all‟azienda e quella spinta creativa
che magari non avrebbe in altri luoghi.
A conferma di tali atteggiamenti è rilevante come i nostri interlocutori insistano
frequentemente su un‟espressione: il presidente, per riferirsi ai lavoratori, tende a preferire
l‟espressione “appartenenti” a quella di “dipendenti” quasi a volere sottolineare la dimensione
del coinvolgimento e dell‟entusiasmo, della responsabilità e dell‟impegno per un unico grande
progetto. Un progetto industriale e di cultura industriale i cui esiti non sono misurabili
esclusivamente con le voci di fatturato ma possono essere espressi anche dai numerosi
riconoscimenti nazionali ed internazionali che l‟azienda ha ottenuto negli anni. Fra gli altri,
uno particolarmente prestigioso è il Premio Nazionale dell‟Innovazione 2011, consegnato al
fondatore Vianello dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Questi risultati non sono dettati dalla “fortuna” di aver intercettato un mercato in espansione,
o da una specifica capacità e competenza tecnica ma da una serie di fattori che si intrecciano
fra loro: una personalità alla guida dell‟impresa con una spiccata capacità di leadership e di
coinvolgimento; un capitale tecnico-culturale molto elevato (il 45% dei dipendenti sono
ingegneri, cento dei quali impegnati nel settore Ricerca e Sviluppo); un clima aziendale
favorevole allo scambio ed alle comunicazioni orizzontali; un senso di appartenenza
all‟azienda robusto e gratificante.
Diciamo che si è creato con un certo tipo di persone che sono qua magari da più anni, un clima molto
familiare, di coinvolgimento. Gran parte delle persone sentono l‟azienda come propria. Questo anche
per il rapporto di estrema familiarità che c‟è con il proprietario, che è un rapporto che non passa
attraverso barriere e quindi ci si sente tutti un po‟ parte di una avventura […]posso andare a parlare con
il fondatore, con il titolare, confrontarmi con lui, lui comunque ascolta le mie idee e questo crea,
soprattutto su una certa popolazione, una volontà di fare, di pensare, di dare il proprio apporto perché
ci si senta tutti partecipi di questo evento. Sui più giovani si cerca di lavorare molto con la struttura,
creando l‟orgoglio di far parte di una azienda che spesso citata sui giornali, che è presa ad esempio e
quindi di valorizzare e di tirar fuori qualcosa di più che non sia il mero lavoro.
Un‟azienda, inoltre, particolarmente giovane (l‟età media è di 37) e che investe sui giovani
per quello stesso senso di lungimiranza che metaforicamente esprimono – secondo la nostra
lettura - le vetrate dell‟edificio. Oltre ad assumerli, TEXA forma i giovani, tanto che a partire
dal 2004 finanzia il progetto TEXAEDU con cui organizza in trenta istituti professionali
italiani un corso biennale, riconosciuto dal Ministero dell‟Istruzione, Università e Ricerca per
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conseguire il diploma di “meccatronico”, ovvero di meccanico specializzato in elettronica.
TEXA prepara il piano di studi, forma i professori, realizza i libri e fornisce gli strumenti per
le lezioni ad ogni scuola. Questi corsi sono sostenuti dall‟azienda e completamente gratuiti
per le scuole e gli studenti.
Una eccellenza italiana in grado di competere con i grandi marchi internazionali, europei ed
orientali (come Audi, Bosch, Launch) sul terreno della innovazione tecnologica, della
creatività, della qualità ed dell'efficienza nelle prestazioni. Innovazione, creatività e
prestazioni date dall‟impegno e dalle competenze dei lavoratori ma anche delle loro
motivazioni e dallo spirito di squadra che li accompagna. Così le misure di conciliazione
famiglia lavoro, con la conseguente certificazione Audit ottenuta dalla regione Veneto nel
2013, sono parte integrante di questa cultura industriale. Di un atteggiamento sensibile ed
attento che “ha cura” delle persone, delle loro ambizioni e gratificazioni, dei loro rapporti
umani dentro e fuori il luogo di lavoro.
L‟azienda vuole un certo tipo di approccio verso i dipendenti. Quindi il welfare aziendale non è altro
che la formalizzazione di quello che in parte è stato fatto e si vorrà fare ma non perché te lo chiede
l‟Audit o la certificazione, ma perché è insito nel modus operandi dell‟azienda.
Queste dimensioni “culturali di impresa” sono inoltre favorite da una struttura organizzativa
poco gerarchizzata che, nonostante il profilo internazionale, mantiene ancora alcuni aspetti
tipici dell‟impresa familiare/padronale, dove i livelli organizzativi sono pochi e i processi
decisionali snelli, perché soggetti ad un numero limitato di valutazioni ed eventuali
autorizzazioni.
In primis è una questione organizzativa. Noi abbiamo una struttura organizzativa abbastanza piatta. Nel
senso che, se penso al nostro uffici, fra il presidente, il direttore generale e … (l‟impiegato, ndr) c‟è un
livello soltanto in mezzo. L‟organizzazione più strutturata è quella dell‟area D dove ci sono tre livelli
organizzativi. Quindi c‟è una organizzazione che porta ad un processo decisionale abbastanza diffuso
rispetto ad altre realtà dove ciascuno vede soltanto un piccolo pezzetto e fa fatica a condividerlo con gli
altri.[…] Poi la nostra è una azienda “familiare” dove c‟è una proprietà presente. Il fatto che ci sia una
organizzazione snella e con pochi livelli gerarchici, il fatto che le idee e le innovazioni, la
partecipazione venga incentivata … , se la persona dice: ma questo potrebbe essere fatto così! Viene
ascoltata in azienda.
L‟ambito principale entro cui l‟azienda ha avviato e sta sperimentando misure di conciliazione
è quello della organizzazione dei tempi vita-lavoro che ha declinato secondo i seguenti
strumenti:
a) convenzioni con asili nido;
57
b) organizzazione dell‟orario in entrata flessibile.
La convenzione con gli asili nido prevede una disponibilità di pochi posti (da 4 a 2) per i figli
dei dipendenti Texa presso strutture private a fronte di una contribuzione integrativa della
retta mensile (20-25%). Si tratta di un servizio convenzionato che rappresenta per i dipendenti
un risparmio economico da una parte e soprattutto una facilitazione logistica nella
organizzazione della vita familiare (vedremo nel paragrafo/capitolo dedicato ai lavoratori la
rilevanza di tale servizio). Un servizio che appare essere apprezzato dai lavoratori che hanno
re-iscritto i loro figli nello stesso asilo per il secondo anno, portando l‟azienda a rinnovare la
convenzione.
A luglio, al momento di decidere se rinnovare la convenzione con l‟asilo nido, chiaramente la prima
cosa è andare a chiedere ai fruitori se il servizio era in linea con le loro aspettative o meno. Ed erano
entrambi genitori più che soddisfatti. Hanno deciso di re-iscrivere i loro figli anche quest‟anno. Se non
erano contenti sicuramente non li avrebbero re-iscritti. Poi c‟è la possibilità di iscrivere i propri figli ad
una struttura comodissima alla sede dio lavoro che grazie al contributo che da l‟azienda ha dei prezzi
vantaggiosi rispetto a quelli che la famiglia avrebbe dovuto sostenere da un‟altra parte. Ed in terzo
luogo una struttura che presenta un livello di qualità piuttosto alto. E quindi la decisione di procedere su
quel tipo di intervento.
Nella stessa direzione va la disponibilità a concedere un orario flessibile di ingresso. Oltre
trenta dipendenti hanno una flessibilità di ingresso di 15-30 minuti. Sebbene sia una pratica
ormai consolidata ciò non vuol dire che sia priva di dis-effcienze. La flessibilità dell‟orario di
lavoro è normalmente concessa per esigenze legate ai figli ed ai loro orari di scuola ma può
scontrarsi con difficoltà organizzative nell‟ambiente di lavoro. Per quanto riguarda le linee
produttive, dove l‟attività di lavoro di ogni singolo è legata a quella degli altri, la flessibilità
oraria non è possibile da realizzarsi o è particolarmente sconsigliata. È più probabile invece
che sia concessa là dove i lavoratori hanno un livello di autonomia operativa e professionale
maggiore tale da non condizionare significativamente i tempi di lavoro dei colleghi.
Ci sono due aspetti legati all‟organizzazione. Ci sono della aree dell‟azienda cui la flessibilità non è
pensabile, non è possibile. Se lavoro a turni non posso fare flessibilità di orario, perché non posso
avvicendarmi. Se lavoro in produzione e ho delle persone che lavorano su linee di assemblaggio, quindi
il mio lavoro è vincolato a quello degli altri: devo iniziare alla stessa ora e finire alla stessa ora. Ci
sono altre postazione all‟interno della fabbrica in cui potrei in linea di principio applicare la flessibilità,
poi però il mio lavoro dipende a monte o a valle da quello di qualcun altro, o ho una necessità di fare
dei lavoro di squadra … si pensi a due manutentori che devono andare insieme a fare un determinato
intervento. Se uno arriva più tardi a lavoro, l‟altro sta a guardarsi, finché non arriva. Quindi ci sono
delle esigenze tecniche che rendono inapplicabile la flessibilità o comunque se fosse applicabile lo
sarebbe a costi eccessivi per l‟impresa.
58
In altri casi la “dis-efficienza” legata all‟orario flessibile può essere considerata accettabile a
livello organizzativo – di cui l‟organizzazione di fa carico – a fronte di un beneficio rilevante
per il lavoratore. È il caso in particolare del lavoro d‟ufficio in cui se il personale impiegato
ha differenti orari di ingresso e di uscita, il tempo complessivo per coordinarsi come gruppo
tende a restringersi. Cioè, l‟orario in cui tutte le persone sono insieme contemporaneamente,
si riduce.
È chiaro che questo comporta delle dis-efficienze accettabili, e in ogni caso uno se ne fa carico perché
capisce che è uno strumento che per il lavoratore rappresenta un beneficio molto importante non a
livello economico, ma l‟aspetto più importante è la possibilità di organizzare la propria vita meglio.
Una ulteriore misura che nasce e si sviluppa dall‟attività diretta dei lavoratori ed in cui
l‟azienda fa da supervisore e organo di promozione è quella del car-pooling. Anche se questa
misura non è ideata, organizzata né finanziata dall‟azienda, ma è realizzata esclusivamente dai
lavoratori, la proponiamo per due ragioni:
i vantaggi economici e non economici associati a tale pratica per i lavoratori e per
l‟impresa;
il carattere informale della pratica che rappresenta una modalità di azione che parte
“dalla base”, differente dalle classiche pratiche aziendali coordinate dalle direzioni
con le eventuali prospettive di integrazione e coordinamento vertice/base.
Rispetto a questa pratica, attualmente l‟impresa ha messo a fattore comune i dati di residenza
dei dipendenti in modo da facilitare e permettere di organizzarsi spontaneamente per andare in
azienda utilizzando una macchia, facendo quindi un percorso comune. L‟azienda ha cioè fatto
in modo che i dipendenti avessero le informazioni base con cui organizzarsi. Il car-pooling,
ossia la turnazione nella guida e nella disponibilità di utilizzo del proprio mezzo di trasporto e
la condivisione delle spese di spostamento, rappresenta per i lavoratori uno strumento
significativo di risparmio economico e di alleggerimento dello stress legato alla guida.
Infine, dal punto di vista della comunicazione Texa dispone di una bacheca elettronica
Texainside su cui appaiono tutte le comunicazioni “sociali” che riguardano l‟azienda e i suoi
dipendenti. Non rientra fra le misure di conciliazione ma rappresenta uno strumento di
comunicazione che favorisce anche la trasmissione di informazioni relative al tema ai
dipendenti. Texainside si configura quindi anche come uno strumento utile nel favorire la
realizzazione del senso di coinvolgimento e integrazione.
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2.3 - La conciliazione, dai lavoratori ai cittadini, dalla fabbrica al territorio. Il caso
SAMO.
(dall’intervista all’amministratore delegato, dott.ssa D. Venturato)
L‟azienda SAMO viene fondata dal signor Venturato che nel 1963 apre il primo sito
produttivo a Bonavigo, un piccolo paese della provincia veronese, luogo di nascita del
fondatore. Attualmente l‟azienda ha sedi produttive anche presso altre località (Bergamo,
Treviso, Varese) e distributori in tutto il mondo ma mantiene la sede legale e lo stabilimento
produttivo principale in questa località, a quaranta chilometri da Verona, in un contesto
prevalentemente agricolo e isolato dalle grandi arterie di trasporto e comunicazione. Sebbene
questa possa apparire una condizione scarsamente strategica per l‟azienda, si tratta di una
scelta ponderata dettata da un forte legame con il territorio che, vedremo, condiziona e
caratterizza le scelte in materia di conciliazione e welfare aziendale.
Mio padre ha fondato questa azienda. Poi però nel „63 è stato aperto questo sito produttivo, dove siamo,
e l‟ha aperto in questo piccolo paese che si chiama Bonavigo, un piccolo paese di mille e duecento
abitanti perché questo è il paese dove mio padre è nato. Mio padre ha girato un po‟ poi è voluto ritornare
nel suo paese natale per incominciare questa attività. Quindi dal ‟63 la nostra sede è questa qui. Questo
punto lo volevo un pochino rimarcare perché non è banale nel senso che noi siamo a 40 km da Verona,
non ci sono strutture logistiche, nel senso: l‟autostrada non esiste, c‟è la superstrada ma l‟abbiamo attesa
per anni. Questa superstrada che è ancora incompiuta è l‟unica superstrada poi il resto sono tutte strade
normali. Sono paesi prevalentemente agricoli, nella zona ci sono alcune aziende, siamo un po‟ nascosti
nella nebbia... perché ci dicono così, ci sono grosse aziende anche qui nei dintorni però siamo fuori
dalle zone industriali ben attrezzate.
Samo nasce come azienda produttrice di accessori da bagno e nel tempo si specializza in un
settore specifico, quello dalla produzione di cabine doccia. Il fondatore nasce nel 1927 e, nel
dopoguerra, lavorando come rappresentante di vendita di attrezzature per la lavorazione dei
metalli individua nel segmento degli accessori da bagno un settore promettente. Si tratta di
una intuizione accompagnata da un background che il territorio offriva (e offre tuttora) nella
produzione artigianale di mobili. Il territorio veronese, come il Veneto in generale, ha sempre
espresso eccellenze nel settore del legno e della falegnameria. Così viene coniugata la
tradizione e l‟esperienza offerta dal territorio con l‟“innovazione” offerta dall‟applicazione e
dall‟utilizzo di nuovi materiali, nella sfera domestica.
…questa era una zona oltre che di agricoltura anche di falegnami, anche adesso è tutta una zona di
mobili, e quindi cominciò con i mobili per il bagno e cominciò con questa toilette – così si chiamavano
– con questi armadi da bagno, con gli specchi. Quindi incominciò con questi mobili in acciaio per il
bagno, poi a seguire il porta asciugamano, le tende, noi allora ne facemmo tantissime. Quindi il porta-
tende con le tende da doccia. Con le tende da doccia siamo entrati in ogni casa. E da lì, si è passati… ma
stiamo parlando della fine degli anni „70, l‟evoluzione di una tenda da doccia fu la cabina doccia. Che
60
venne sempre fatta con l‟acciaio che era quello che noi utilizzavamo per fare gli accessori ed i mobiletti
da bagno e poi cominciammo non con il vetro ma con la plastica. Quindi molto leggere, poco costose
rispetto al vetro, sicure e flessibili e facili da istallare, non c‟era bisogno di un professionista quindi
l‟evoluzione della tenda doccia fu questa prima cabina doccia che era più strutturata, un pochino più
carina comunque non usciva l‟acqua, quindi noi cominciammo con quel tipo di produzione. Noi siamo
diventati grandi con quel tipo di produzione. Noi avevamo l‟80% del mercato su questo elemento.
Attualmente il gruppo di Samo opera con circa 250 dipendenti e l‟80% del fatturato è
realizzato in Italia. Nonostante la stabilità del gruppo ed il ruolo di leader nel settore, le
trasformazione del mercato internazionale e le ripercussioni su quello interno, condizionano
pesantemente le scelte industriali portando l‟azienda ad estendere il ramo produttivo
attraverso l‟acquisizione di un altro importante marchio italiano. La consapevolezza
dell‟esperienza negativa di altri importanti marchi italiani come Pozzi Ginori e Ideal Standard,
che operavano nello stesso settore e che non hanno retto alle sfide della globalizzazione,
portano il gruppo Samo ad acquisire nel 2013 Inda, un‟azienda storica nata agli inizi degli
anni ‟50 a Varese specializzata nella produzione di accessori da bagno con importanti quote di
fatturato sia in Italia che all‟estero. Nasce il marchio Samo Industrie. Questa scelta è dettata
necessariamente da ragioni industriali che permette all‟azienda di estendere il proprio settore
produttivo e di mercato uscendo dalla nicchia delle cabine doccia e competere nel settore
dell‟arredo bagno tout court. Inoltre permette di realizzare delle ottimizzazioni dovute alle
economie di scala. Inda ha infatti al suo interno una vetreria che manca a Samo, un settore di
produzione strategico per non dipendere nei tempi e nei costi di produzione da soggetti
esterni.
A parte la zona di Civita Castellana non c‟è più nessuno che produce sanitari. Arrivano tutti dall‟estero.
Ideal Standard, Pozzi Ginori, sono dei marchi che non esistono neanche più. Ma una volta la produzione
era tutta da noi, Noi ci siamo concentrati su un segmento. Per tutta una serie di vicissitudini noi due anni
fa abbiamo pensato … si è cercato di fare una strategia diversa. Quello che siamo riusciti a fare, quello
che cercavamo, era unirsi con un altro gruppo. Quindi in un periodo di profonda crisi in cui molte
aziende chiudono per problemi finanziari, commerciali o di gestione, […] abbiamo fatto un accordo con
un'altra grossa azienda del nostro settore che invece aveva seri problemi e abbiamo acquistato questa
azienda. Quindi Samo, che produceva solo cabine doccia adesso si è unita con Inda. Da due anni
abbiamo creato questa Samo Industrie che detiene le quote di Samo e Inda, dove Samo ha la
maggioranza. Ora non abbiamo solo le cabine doccia che - poteva essere riduttivo - ma abbiamo anche i
mobili da bagno e gli accessori da bagno. Ecco che in questo mix di prodotti ci consente di proporre al
mercato dei prodotti che non sono solo di nicchia ma di coprire altre fette di mercato. Questa unione
consente di fare delle economie di scala. Questa azienda per esempio ha una vetreria, a noi serve la
vetreria perché il mercato è cambiato e i pannelli sono tutti di vetro, con grado di sicurezza molto
elevato rispetto ad una volta, per cui noi abbiamo necessità di avere una vetreria. Prima li acquistavamo
da terzi ora li facciamo al nostro interno. Quindi ci sono delle ottimizzazioni.
61
Se l‟operazione industriale ha una ragione economica, questa operazione rappresenta tuttavia
una sfida nell‟organizzazione del personale ed una motivazione reale di adesione al
programma Audit Famiglia-Lavoro proposto della regione Veneto per “rivedere” le pratiche di
conciliazione famiglia lavoro tradizionalmente offerte dall‟azienda e riflettere sulla loro
rilevanza, necessità e strutturazione. Gli strumenti di conciliazione proposti dall‟azienda
infatti – come in tutti i casi analizzati in questo lavoro – precedono la data di certificazione
Audit Famiglia tanto da poter sostenere molto serenamente che il marchio Audit Famiglia-
Lavoro non fa che formalizzare delle pratiche preesistenti e riconoscere a determinate imprese
una cultura imprenditoriale orientata al benessere di dipendenti e delle loro famiglie. In questo
caso specifico, la certificazione Audit Famiglia rappresenta anche un momento di
razionalizzazione e di ricerca di un principio di equità nell‟offerta di servizi verso i
dipendenti. Finché l‟azienda conserva le caratteristiche di una organizzazione poco struttura,
la fruizione e la richiesta di misure di conciliazione avviene attraverso canali informali e
personali. In sintesi il dipendente si rivolge direttamente al datore di lavoro con cui c‟è
generalmente un rapporto di reciproca conoscenza. Diverso è quanto accade ad una azienda
più strutturata, con stabilimenti produttivi dislocati sul territorio e con un numero di lavoratori
importante tanto da impedire o limitare quel rapporto di reciproca conoscenza. In questo caso
la programmazione, l‟offerta e la fruizione di strumenti di conciliazione si realizza attraverso
canali formalizzati e standardizzati validi per tutti allo stesso modo.
Quello che avveniva prima deriva dalle conoscenze personali e dalla persona, dalla sensibilità delle
persone, del titolare ecc. Ma perché se viene lì una persona e te lo chiede, anzi addirittura c‟era questo
salto, non si va dalle risorse umane per alcune problematiche ma si passa direttamente ai titolari, non si
passava da chi faceva le risorse umane, non esisteva. Con il discorso dell‟Audit e con l‟aumento delle
persone, mentre dei vecchi (gli operai, ndr) me li ricordo tutti, so dirle quanti figli hanno, dei nuovi ... di
là con questo nuovo stabilimento non so neanche i nomi. Allora in questo caso il discorso dell‟Audit
significa anche scavalcare questo discorso del personale, della richiesta direttamente al titolare per
mettere delle regole. Se c‟è una persone delle risorse umane ci si rivolge a questa persona e questa
persona dà le agevolazioni per quanto possibile, ma ha una visione globale, cioè viene fatta a tutti. Cioè
non è che a uno viene fatto perché ti conosce. E quello che non ti conosce, allora? Quindi una
formazione, con delle regole che però possano essere uguale per tutti. Perché altrimenti quello che mi
conosce mi ferma quando esco da qui, ma quello che non mi conosce …
In un periodo storico economico caratterizzato da estrema incertezza della domanda, e per
un‟azienda che vede crescere il numero dei dipendenti in modo rilevante, tanto da
compromettere il controllo della dirigenza sul lavoro dei singoli, l‟offerta di misure di
conciliazione si traduce in uno strumento che favorisce il senso di responsabilizzazione e di
collaborazione del personale dipendente e di comunicazione efficace all‟interno dell‟azienda.
62
Le misure di conciliazione offerte sono pensate come controparte per lo sviluppo di interesse,
motivazione e senso di responsabilità dei lavoratori per il loro lavoro e per l‟organizzazione.
La catena del coordinamento aziendale e del controllo delle attività industriali supera la
relazione diretta e diventa molto più articolata tanto da richiedere una forte motivazione ed
impegno individuale nelle performance e nei risultati aziendali.
Mentre per una piccola azienda è più facile tenere sotto controllo un po‟ tutto, più si diventa grandi
come personale da gestire, più ci si allontana dal controllo. […]Per cui, a maggior ragione, serve una
collaborazione delle risorse umane, collaborazione che sia fattiva e professionale. La professionalità
delle persone è una cosa molto importante. Anche dal solo dal lato fiscale, delle cose che non vengono
fatte correttamente, poi dopo ti ritrovi che magari viene la finanza per dei controlli e per delle cose
insignificanti che sembravano non preoccupanti, invece si hanno dei problemi. Una di queste cose qui è
soprattutto l‟impegno e la professionalità delle persone.
Il percorso di certificazione Audit Famiglia-Lavoro, intrapreso da Samo ha una particolare
connotazione che potremmo dire comunitaria. Lo sforzo è, infatti, quello di “agganciare” il
tema della conciliazione non solo al benessere dei dipendenti, in quanto dipendenti, ma anche
in quanto cittadini e residenti di quella località. Così l‟azienda nel promuovere pratiche per il
benessere dei dipendenti si “estende” al contesto comunitario-territoriale8. L‟azione aziendale
non può prescindere dalla località sia per l‟origine e la tradizione che lega l‟azienda al
territorio, sia per ragioni di continuità fra la dimensione residenziale e quella professionale dei
lavoratori: i dipendenti sono prevalentemente cittadini di Bonavigo e delle località limitrofe e
per questo l‟incidenza delle attività aziendali sul territorio è particolarmente rilevante.
Un elemento paradigmatico di tale impostazione riguarda la convenzione in fase di
progettazione con un asilo privato. La convenzione prevede un numero di posti riservati ai
bambini, figli dei dipendenti Samo (si tratta di poche unità, 2-3). In cambio l‟azienda
s‟impegna a contribuire economicamente nel sostenere alcune spese di gestione dell‟asilo.
Prevale allora l‟idea di un supporto ad un servizio territorialmente collocato di cui possono
beneficiare anche i non dipendenti piuttosto che di un contributo economico individuale
slegato dal territorio e che per questo non produrrebbe ricadute sul territorio, a vantaggio di
una pluralità
8Al momento si tratta di pratiche in ideazione e programmazione, per cui non è possibile valutarne gli impatti.
Tuttavia le accezioni adottate nella descrizione dei progetti ci permettono di coglierne il carattere originale e
specifico.
63
quello che stiamo valutando, nel senso che io preferisco dare un contributo all‟asilo che va a beneficio
di tutta la comunità, cioè non un beneficio alla mamma che magari poi non ci va ma preferisco dare un
contributo all‟asilo come il rifacimento del giardino, dei giochi, l‟acquisto dei quaderni …
Un ulteriore elemento che possiamo cogliere come caratterizzante l‟elaborazione dei progetti
di conciliazione famiglia-lavoro, riguarda il risparmio del tempo. Il tempo assume una
valenza prioritaria rispetto a tutte le altre dimensioni che normalmente riguardano il tema
conciliativo. Per esempio le convenzioni con altri esercizi non sono orientate semplicemente
al risparmio economico ma a quello del tempo. Sono in fase di sperimentazione una serie di
convenzioni atte a ridurre i tempi nella prestazione delle attività.
Di convenzioni io posso farne finché voglio. Non è mica un problema. Ma allora va a finire che c‟è un
calderone di convenzioni … C‟è la fila per fare le convenzioni però in questo momento stimo facendo
una lista di quelle che fanno risparmiare tempo. […] Il gommista che fa comunemente il 5% di sconto a
tutti ... va bene a quelli di Samo gli fa il 6%, ma in più io chiedo che venga a prendere la macchina in
azienda quando il dipendente arriva e la riporti entro le 5 e mezza. Che non è una questione di costo.
Perché io preferisco quasi quasi pagare il 5% in più ma che mi porti la macchina qui. Che la mattina
venga a prenderla qui quando arrivo e la riporti quando vado a casa. Quindi io piuttosto faccio il
contrario pago in cambio di un servizio. Se poi noi riusciamo ad ottenere sia uno sconto economico che
un risparmio di tempo, è il massimo. […] Questa è una. L‟altra con cui stiamo trattando … qui ci sono
delle aziende agricole per cui tu puoi fare l„ordine via internet, e una volta alla settimana ti portano la
spesa, la verdura a casa. Quindi quella sarebbe già una convenzione, io ordino della verdura e me le
portano in aziende o a casa. Perché non è ancora in atto la convenzione. Perché gli agricoltori passano
prima nei vari comuni e logicamente qua passano alle tre. A me che passino alle tre non interessa,
devono passare alle cinque e mezza quando i dipendenti finiscono. Allora io sto trattando per far
cambiare giro in modo tale che arrivino alla Samo alle cinque e mezza.
Appare chiaro come la questione tempo e organizzazione del tempo sia un tema
particolarmente sensibile per la direzione aziendale con cui tenta di facilitare la gestione della
quotidianità dei lavoratori. È nello stesso ordine di idee e di finalità che l‟azienda sta
elaborando un piano con le amministrazioni comunali per ottenere la banda larga. Potrebbe
sembrare un obiettivo molto distante dal tema conciliativo ma, in realtà, l‟accesso a servizi
informatizzati accessibili e soprattutto rapidi consente di raggiungere differenti obiettivi:
permette di lavorare in remoto e porre le basi per il telelavoro comportando vantaggi
economici per l‟azienda in termini di riduzione di costi per gli spostamenti e maggiori
possibilità di conciliazione attraverso la flessibilità del luogo di lavoro. Inoltre gli
investimenti in strutture e tecnologie informatiche e di comunicazione con la relativa
informatizzazione dei servizi amministrativi, permettono ai lavoratori e, ancora una volta, ai
cittadini, il risparmio di tempo nel disbrigo di pratiche burocratiche.
Qui non esiste la banda larga. È un problema tecnico di cui ne abbiamo parlato con i sindaci. Cosa
c‟entra la banda larga con la conciliazione? Centra! Io ragiono nei termini delle persone che stanno
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lavorando e delle loro famiglie. Tantissima gente di questo posto lavora qui. Se delle persone devono
chiedere anche dei documenti, informazioni, il collegamento in questo posto è molto lento. Se devo
aspettare un‟ora in comune per avere una carta perché non ho il collegamento dell‟anagrafica, sono ore
che sono perse. […] in accordo con il comune, noi la portiamo e in qualche modo voi vi potete
aggregare per l‟utilizzo. E che cosa succede: nel pacchetto che noi stiamo trattando si possono creare
delle agevolazioni per tutta la comunità. Che cosa vuol dire: wi fi in piazza; se vai in comune per
qualsiasi tipo di documento che uno deve chiedere, deve aspettare perché i tempi di collegamento sono
molto lunghi. E non riesci a collegarti perché una volta su tre non c‟è segnale. Logicamente se noi
arriviamo con la banda larga e il comune si attacca alla linea a costi zero però può dare un servizio alla
cittadinanza, perché ne usufruisce e quindi ne ha beneficio tutto il comune.
È evidente come tale prospettiva presenti una sovrapposizione dei due assi che caratterizzano
l‟elaborazione delle pratiche di conciliazione di questa organizzazione. Da una parte il
risparmio del tempo per i dipendenti e dall‟altra l‟offerta di un servizio che non si esaurisce
nella fruizione particolaristica di affiliati ma interessa tutta la comunità territoriale. Questa
valenza ritorna al discorso proposto in apertura, quello per cui la localizzazione dell‟azienda
non rappresenta un vantaggio logistico né economico, ma definisce un senso di attaccamento
al territorio imprescindibile ed un senso di responsabilità sociale.
Avevo raggruppato tutti i sindaci dei comuni della zona per cercare di fare un discorso … perché non
dobbiamo lavorare solo noi aziende ma ci deve essere – e quello secondo me è la cosa più importante –
una relazione con il territorio. Quindi anche con tutti i comuni della zona riuscire a trovare una cosa che
possa facilitare le aziende.
Questo aspetto caratterizza l‟operare del nostro attore in merito alle politiche di conciliazione
tanto da differenziarlo da altre organizzazioni che ugualmente affrontano i medesimi
problemi. La dimensione del piccolo paese agrario caratterizza gli stili di vita della
popolazione, le strutture ed i legami familiari e l‟organizzazione della quotidianità è ciò
differenzia notevolmente le prospettive e la realizzazione di servizi di welfare aziendale nella
comparazione con aziende situate in contesti industriali e fortemente urbanizzati. Tutta la
programmazione Audit non può – se vuole essere efficace – prescindere dal contesto culturale
ed economico entro il quale opera l‟azienda.
Abbiamo fatto tutto un percorso sull‟Audit e sulla conciliazione dove venivano prese sempre in
considerazione delle aziende in aree industriali organizzate e vicine ai grossi centri, dove i problemi
sono diversi rispetto a delle aziende isolate. In altre zone […] si parla di asili o di scuole e qui non
vogliono la scuola a tempo pieno. Per cui i bambini finiscono e … vanno solo la mattina, nel
pomeriggio non vano a scuola. Qui al contrario ci sono i genitori o comunque la comunità che non
vogliono il tempo pieno e quindi i bambini vanno a scuola solo la mattina. Ma questo non perché le
strutture non ci sono. La disponibilità c‟è ma in realtà tantissime scuole si fa solo la mattina. Quindi
questo significa che c‟è una rete di supporto familiare molto presente. Nonni, zii … una rete piuttosto
presente, altrimenti non si capirebbe questa richiesta
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L‟investimento in misure di conciliazione o in pratiche di welfare aziendale si motiva come un
elemento in grado di favorire una condizione per lavorare con maggior rigore ed impegno. In
particolare si evidenzia lo scrupolo per la qualità del lavoro volto a minimizzare gli sprechi ed
i costi nelle varie fasi operative. Le misure di conciliazione mettono nelle condizioni di
lavorare meglio e soprattutto equilibrare gli svantaggi di una domanda esterna incerta e
altalenante. La corretta e puntuale valutazione dei costi di gestione, del magazzino e delle
varie fasi di attività industriale, diventano gli obiettivi principali da considerare e perseguire.
Per fare ciò è imprescindibile l‟apporto scrupoloso delle risorse umane ed il loro controllo
sulle loro specifiche mansioni. Le risorse umane, il capitale umano, sono allora uno dei
pilastri su cui le aziende muovono i loro sforzi. L‟attenzione delle risorse umane nei processi
produttivi diventa, in questo periodo storico di difficoltà economiche e di un mondo esterno
che non è prevedibile, un obiettivo aziendale ed una scelta strategica. Le misure di
conciliazione rappresentano uno degli strumenti per concretizzare tale obiettivo.
Il mondo esterno non è prevedibile e quindi quello dell‟azienda, almeno al suo interno deve
essere stabile, certo. Le dimensioni del controllo e della certezza, proprio perché all‟esterno
non sono garantiti, all‟interno dell‟azienda vengono maggiormente enfatizzate. Le direzioni
aziendali cercano così di produrre un atteggiamento nei dipendenti che si muova lungo questa
traiettoria. Che favoriscano il controllo e la certezza
Sia le persone che andranno a vendere che devono essere motivate ed io personalmente penso che sono
le persone che fanno al differenza. Per cui sia all‟interno, perché devono fare una gestione più possibile
oculata, senza sprechi, sia di persone che anche operativamente lavorano perché deve esserci una
qualità corretta, perché se una cosa viene fatta male c‟è una ripercussione a costi pazzeschi. Io penso
sempre che il discorso delle risorse umane sia importante perché si riesce a vendere e a produrre se tutta
la filiera è motivata. Questa è secondo me una delle cose più importanti. Se le cose al nostro interno
vengono fatte bene si hanno delle economie e quindi anche dei costi che sono certi ma anche
controllati.[…] Non è detto che se c‟è una domanda di un prodotto, l‟azienda possa andare bene. Se le
cose vengono prodotte male e vengono vendute, poi ritornano perché non fatte correttamente.
L‟azienda Samo ha articolato le politiche di conciliazione che partiranno dal 2015 e che si
svilupperanno in un triennio, secondo tre aree principali:
informazione e comunicazione;
servizi e benefit a favore del personale;
competenza dirigenziale.
Attualmente i maggiori sforzi si sono compiuti in funzione delle aree della informazione e
comunicazione e, in parte, nei servizi ai dipendenti.
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In particolare, per quanto riguarda la prima area, l‟azienda ha realizzato un logo per la
comunicazione SamoVillage, che accompagna ed accompagnerà le comunicazioni inerenti il
tema della conciliazione. Questa comunicazione viene stampata e diffusa via intranet e c‟è un
area di lavoro dedicata in cui vengono archiviati i documenti per creare un archivio.
La seconda area entro cui l‟azienda sta programmando degli interventi è quella dei servizi e
dei benefit a favore del personale. Come abbiamo già discusso, si tratta di quelle misure che
tendono prevalentemente a favorire i tempi per i dipendenti nella gestione della quotidianità.
Il capitolo sulle competenze dirigenziali è invece, al momento, tutto da scrive.
2.4 – Conciliazione, tradizione e affezione per competere nel mercato globale. Il caso
Keyline.
(dalle interviste all’amministratrice unica, dott.ssa Gribaudi; responsabile delle risorse
umane, dott.ssa Mazzer; coordinatrice dei progetti di conciliazione, dott.ssa DalMistro)
L‟azienda Keyline, azienda leader mondiale nel settore delle produzioni di chiavi e di
macchine duplicatrici di chiavi, ha un‟origine secolare, datata 1770. Il gruppo Bianchi1770
nasce a Ciliana di Cadore, un paesino incastonato fra le dolomiti dove più di due secoli fa
esistevano circa trecento fucine che piano piano sono scomparse. Si tratta di un‟azienda
familiare – della famiglia Bianchi – che da otto generazioni ricopre un ruolo importante in
questo settore di mercato. Ed è proprio la tradizione e la dimensione familiare ad aver
probabilmente contribuito a favorire una particolare sensibilità verso il tema della
conciliazione famiglia-lavoro.
Ci stanno studiando a livello di family business, come è possibile che siamo arrivati alla ottava
generazione, quali sono le motivazioni che possano spingere sia l‟imprenditore e le persone che
lavorano con te a seguire un progetto del genere. E io credo che in quest‟ambito quella che adesso noi
chiamiamo la certificazione della conciliazione lavoro famiglia, abbia sempre fatto parte del DNA di
questa famiglia. Nel senso che se vuoi avere una buona squadra, ma questo nel tempo, […] questo può
essere fatto nella consapevolezza di condividere gli aspetti problematici e gli aspetti di business che
puoi portare avanti. E questo lo abbiamo fatto negli anni.
La certificazione Audit Famiglia-Lavoro ottenuta dalla regione Veneto nel 2013 si sovrappone
ad una modalità operativa in essere, quale riconoscimento di un modus operandi e di una
cultura imprenditoriale attenta al tema del benessere dei lavoratori e delle loro famiglie: la
formalizzazione di un programma sostanziale
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Quando la regione Veneto ci ha proposto di certificarci, per noi è stato un passaggio naturale. Naturale a
tal punto che quando i certificatori sono arrivati, noi che avevamo fatto tutta una serie di azioni, ma che
non sapevamo che erano delle azioni che facevano parte di una certificazione, perché era il nostro
modus operandi, praticamente ce l‟hanno data d‟ufficio.
L‟85% della produzione industriale è esportato all‟estero e questo comporta necessariamente
– per l‟azienda - una continua attenzione alle richieste, agli andamenti e alle imprevedibilità
del mercato globale ma anche una cultura industriale che punti alla soddisfazione del capitale
umano. Poter stare nel mercato, competere ed affermarsi sono obiettivi irraggiungibili se non
si può contare sull‟attenzione, la motivazione e la professionalità dei lavoratori:
Le difficoltà dell‟azienda in questo momento sono le difficoltà di tutti di stare in un mercato globale, e
avere la dinamicità e la flessibilità di adattarsi a quelle che sono le richieste di un mercato globale. Noi
esportiamo fuori dall‟Italia l‟85% della produzione quindi ci troviamo per esempio a lavorare con paesi
che hanno delle richieste completamente diverse e culture diverse. Perché lavorare con i giapponesi
vuol dire avere un approccio … un prodotto che va spedito in Giappone chiede la massima attenzione e
quindi ancora una volta devo richiedere ai miei collaboratori flessibilità, specializzazione,
professionalità e quindi do da una parte ma certamente ricevo dall‟altra perché nel momento in cui
voglio stare in un mercato globale, … anche solo i fusi orari hanno bisogno di disponibilità. Alle volte
noi ci troviamo a fare delle conference call con della gente che - io magari sono in Giappone -,
costringo a venire alle cinque del mattino in ufficio. Perché ho bisogno di avere delle persone sul posto
che mi diano delle risposte.
L‟investimento in capitale umano non si esaurisce nella produzione di competenze e
professionalità, ma riguarda anche una serie di atteggiamenti e comportamenti atti a generare
e irrobustire i rapporti umani fra la direzione aziendale e i lavoratori. Relazioni in cui trovino
spazio esperienze di fiducia, affezione, appartenenza. Particolarmente esemplificativo appare
il caso del signor P., un lavoratore malato di cancro che si sottopone ad una terapia
sperimentale che prevede, per il malato, la condizione di continuare per quanto possibile il
regolare svolgimento delle proprie attività quotidiane, compresa quella lavorativa.
In un caso di malattia di un nostro collaboratore della produzione, era un tumore allo stomaco, invasivo
… e lui è entrato in un progetto di sperimentazione. Erano in tre che avevano lo stesso problema ed è
stato chiesto di chiedere all‟azienda in cui lavoravano di continuare a lavorare. E la sperimentazione
era: facciamo prima la chemioterapia, riduciamo il tumore e poi vi operiamo. Però dovete avere una vita
normale. In questo caso P. è stato l‟unico che ha avuto l‟opportunità di continuare a lavorare. Perché io
mi sono assunta la responsabilità del caso. Questo voleva dire vederlo arrivare a 50chili, con la morfina,
lavorare tre ore e poi riaccompagnarlo a casa. Creare un posto di lavoro per lui. Io credo che quando
ricevi tanto devi dare tanto. Racconto questo episodio che è poi emerso con la conciliazione. Episodio
di 5-6 anni fa, … non lo abbiamo fatto oggi per essere visibili con la certificazione. In un contesto in cui
era giusto fare così. E devo dire che per esempio P. è una delle persone che dà giorno e notte
all‟azienda. […] Quando è stato intercettata questa notizia del Sole 24, sono venuti ad intervistarlo e lui
ha detto: «io non sono bravo con le parole, io sono un operaio e quello che posso dire è che dopo la mia
famiglia questa è la mia seconda famiglia. Perché mi ha supportato in un momento …». […] Io lo
ricordo benissimo. Il giorno prima gli ho detto: «P. stai così male. Domani non venire!». E lui mi ha
detto: «No, non vengo». E la mattina me lo vedo qui che l‟avevamo messo assente. Perché non stava in
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piedi. Io gli ho detto: «P., ma?» E lui mi ha detto: «Cristina, fossi rimasto a casa oggi … mi sarei
suicidato. Mi buttavo giù dal balcone».
Questa testimonianza – sebbene particolarmente estrema -, esprime probabilmente al meglio
una relazione “di cura” che si realizza fra le due parti. Una relazione che ha una forte valenza
emotiva. È la dimensione simbolica ed affettiva che porta all‟esperienza di benefici concreti
per i lavoratori e per le loro famiglie da una parte ma anche a benefici – non solo strumentali,
ma culturali ed espressivi - per le aziende. In questo aneddoto si legge e si realizza quella
disposizione umana che abbiamo chiamato della “cura”. Una cura che non è monodirezionale,
e verticistica ma che si trasmette “culturalmente” e in modo trasversale. La cura per il singolo
contagia l‟ambiente sociale, e si articola in attenzioni, premure, responsabilità. Lo stesso
lavoratore ci dice nell‟intervista che questa esperienza “umana” ha modificato il suo
atteggiamento nei confronti del proprio lavoro e il suo modo di riferirsi all‟impresa:
Io sono magazziniere. Mi arrivano i pezzi dal fornitore, devo controllare se la quantità è giusta e …
oppure prima di mandarli fuori devo controllare se c‟è da fare un‟ulteriore lavorazione […]. Prima lo
facevi di routine e vabbè, cinquanta pezzi e via. Adesso se c‟è qualche particolare che intravedo che non
funziona, mentre prima sorvolavo, adesso…sei più attento quando lo fai…
Sono più attento perché … praticamente la fabbrica per me non è del padrone. Il lavoro che fai non è del
padrone ma è tua e allora mi sono reso conto che essendo tua la devi portare avanti al meglio possibile
e, facendo un esempio, se io conteggio i pezzi e al posto di 50 ne trovo 49, chiamo i fornitori e dico:
guarda che mi manca un pezzo …adesso rompo le scatole e dico: manca quel pezzo me lo devi dare
oppure me lo devi togliere dal documento.
(È cambiato, ndr) il mio modo di vedere il padrone. Prima era che era uno che ti dava il lavoro, basta.
Invece adesso ha creato come … più di una amicizia. Allora non è solo un rapporto di lavoro: io lavoro
tu mi paghi. No! È anche un rapporto sentimentale. Adesso avendo vissuto quella cosa là e sapendo il
valore della vita che hai, al mattino io parto, vengo al lavoro … cioè io adesso ho 56 anni, manca poco
alla pensione e non è che non vedo l‟ora che arrivi (Int.Dip.13).
Con questa testimonianza esortiamo il lettore a non confondere l‟attenzione dell‟azienda con
un puro calcolo strumentale o all‟interesse per un ritorno d‟immagine. In questa esperienza ci
sono in gioco valori molto più importanti della produzione in sé ma che, definiscono e
partecipano alla realizzazione di un ambiente lavorativo “familiare” in cui gli interessi delle
parti si sovrappongono e configurano una condizione favorevole per lo sviluppo umano oltre
e prima che quello economico.
Per noi il focus è certamente l‟azienda, certamente gli utili, perché se non facciamo utili siamo una
associazione di beneficenza e chiudiamo domani mattina. Però il focus è la persona. Perché agli utili ci
arrivi attraverso la persona. Per noi il rapporto umano, del capitale umano è al numero uno. Il loro
benessere è il nostro benessere.
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Una promozione umana e sociale che è alla base ed è fondamentale per dare garanzia di
continuità della professionalità e delle competenze. Per questo la dirigenza si sofferma su un
dato significativo e fa notare come trenta dipendenti totalizzino 510 anni di esperienza
professionale. Un dato rilevante per competere nei mercati globali.
Se io voglio stare in un mercato globale è solo la professionalità di tutte queste persone, questa
contaminazione fra le nuove generazioni e le persone che hanno fatto la storia delle aziende nel Key
business, che quindi hanno questa grandissima esperienza, può permettermi di volare lontano. Cioè le
radici. Tutto sommato le radici di questo territorio.
Una professionalità allora che radica nel passato e che si spinge verso le nuove generazioni e
le coinvolge in una progettualità di ampio respiro. Una cultura industriale orientata a integrare
le generazioni ed i settori produttivi, a dis-alienare il lavoro e rendere partecipi nei processi e
nelle scelte produttive. Da una parte dunque la continuità fra le generazioni, il passaggio del
testimone che è nell‟esperienza formativa e professionale, dall‟altra la continuità fra le
professioni e le competenze:
Quando abbiamo delle difficoltà sulle duplicatrici di fronte ai nostri dodici ingegneri, la cosa che mi
viene più facile è quella di andare in produzione e prendere gli operai che hanno più esperienza,
contaminarli con gli ingegneri e molte volte delle soluzioni, che parte da una esperienza, da un valore
aggiunto che è nel loro cervello nelle loro mani, la trovano loro. Quindi io credo che tutto questo passi
come un valore condiviso. Quindi è un valore che cambia l‟approccio culturale anche della persona che
sta all‟interno della produzione.
La sovrapposizione degli interessi e delle premure di lavoratori e datori di lavoro permette
una “sintonia”, condizione necessaria per far fronte alle sfide ed alle imprevedibilità del
mercato globalizzato. In particolare la dirigenza si sofferma su un ulteriore episodio che
illustra bene queste dinamiche, intese come frutto di una cultura organizzativa attenta alle
persone. Negli ultimi anni il mercato mondiale delle chiavi è stato invaso – sono le parole
della intervistata – dai competitors cinesi che hanno immesso nel mercato una quantità
importante di chiavi riducendo la domanda di quelle prodotte in Europa. Le previsioni
lasciavano pensare ad una continua riduzione della domanda e a maggiori investimenti in
macchine duplicatrici. In realtà il mercato sembra aver risposto in modo differente rispetto a
queste prospettive. La bassa qualità della produzione orientale, spesso non conforme alla
normativa europea, si è scontrata con una domanda del prodotto di maggiore qualità. Tale
inversione di tendenza, secondo la nostra intervista, ha avuto il supporto degli operai che si
sono mostrati disponibili a rispondere ad un mercato imprevedibile.
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Il mercato è isterico. Prima era impazzito adesso siamo all‟isteria totale. Difficile anche da
programmare e questo operaio mi dice: nel momento in cui dovessero arrivare degli ordini inaspettati,
c‟è un gruppo di persone disponibili a venire a fare il turno di notte. […] Vuol dire che queste persone
sanno bene che io sto facendo fatica a rispondere ad un mercato globale e quindi ho pianificato che
quest‟anno avremmo fatto meno chiavi e più duplicatrici. Il mercato mi ha risposto, più chiavi e meno
duplicatrici. E perché? Perché i nostri concorrenti a forza di mettere sul mercato le chiavi cinesi, adesso
abbiamo l‟effetto contrario. È vero che l‟anno scorso abbiamo venduto meno chiavi, sono due anni che
vendiamo meno chiavi - perché hanno immesso sul mercato chiavi cinesi, però sono fatte con sostanze
cancerogene, si staccano, non sono a norma perché non hanno le norme che abbiamo noi, europee. […]
Hanno riempito il mercato, però il mercato che probabilmente valuta, almeno alcuni mercati, ci ha
messo nella condizione di dover aggiustare il tiro. Quindi abbiamo pianificato una cosa e abbiamo
dovuto gestire un‟altra cosa. Il fatto che questa persona mi abbia informato e me l‟abbia detto, vuol dire
che questo l‟ha capito benissimo. Aveva capito il mio stato d‟animo e quello che stavo vivendo negli
ultimi quindici giorni. Ma sono convinta che se non ci fosse questa sintonia, che ha fatto emergere la
certificazione, di cui loro sono molto orgogliosi...perché questo è il nostro modo di essere.
Ed è proprio analizzando il rapporto tra una piccola azienda e l‟oceano del mercato globale,
con le sue sfide e le sue opportunità che emerge un aneddoto dal forte carattere simbolico,
cosa che evidenzia lo spirito di gruppo, il comune sentire, l‟appartenenza. Contrariamente ad
un‟impostazione classica della gestione delle risorse umane, che ha sempre trascurato la
dimensione ludica nell‟organizzazione aziendale, il gioco è – e lo è sempre più - una delle
strategie chiave di managing volta a coinvolgere i dipendenti, a far emergere qualità
individuali e ad amplificare dinamiche relazionali con ricadute positive sul corretto
funzionamento organizzativo, sui livelli di comunicazione interni, sulla riduzione dei conflitti
e sulla efficienza e qualità nell‟attività produttiva (Andersen, 2013).
Io torno dai viaggi di lavoro, ne parlo in produzione e dico: sono stata in Giappone, sono stata di qua,
sono stata di là ecc. Insomma dicevo sempre noi andiamo alla conquista di terreni nuovi, di mercati
nuovi. E quindi è nata questa cosa che siamo dei pirati e delle piratesse. Ad un certo punto P. mi dice:
«dobbiamo fare la foto annuale con tutti e ce la facciamo con i cappelli da pirati». Io gli dico: «tu sei
scemo!. Io domani sono sui giornali. Non posso mettere ad uno il cappello … I sindacati mi mangiano
viva»!. E lui mi sfida. Mi dice: «facciamo così. Io compro cento cappelli. Se non li mettono li pago io.
Se invece li mettono li paga lei». Io accetto la sfida. Insomma facciamo prima la foto ufficiale. Poi P. va
a prendere i cappelli. Io ero terrorizzata e dicevo: «chi non vuole fare la foto con i cappelli per favore
vada via»! E, ad un certo punto vedo tutti che vanno fuori per prepararsi per la foto. Insomma tutti
volevano fare la foto “noi siamo dei pirati”. E questa è l‟appartenenza.
Nel corso degli anni l‟azienda ha offerto strumenti di conciliazione di varia natura e con
differenti e specifiche finalità. Tutte sono state realizzate prima – ed a prescindere – dal
percorso di certificazione Family Audit. E in particolar modo sono nate dalla disponibilità
immediata dell‟azienda a fare fronte a problemi o limitazioni che i dipendenti incontravano
nel regolare svolgimento del loro lavoro. È il caso dei due pulmini aziendali acquistati
dall‟organizzazione che si è accollata anche tutti i costi di manutenzione dei veicoli - per
favorire il trasporto casa-lavoro di un gruppo di dipendenti particolarmente svantaggiati dalle
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distanze. Oppure il caso del parcheggio rosa che limita gli spostamenti per le donne incinte.
Anche questa esperienza nasce da un episodio casuale in cui la dirigenza nota le difficoltà di
una dipendete in stato di gravidanza nel parcheggiare il suo veicolo in prossimità
dell‟ingresso in azienda. Altri sforzi sono fatti nell‟ambito della comunicazione interna dove i
temi di discussione non sono esclusivamente inerenti la questione della produttività,
dell‟impresa o delle relazioni sindacali ma si estendono anche a problematiche sociali di
attualità come per esempio il femminicidio, a dimensioni ludiche come le attività sportive o le
feste aziendali aperte alle famiglie dei dipendenti, ad eventi celebrativi in occasione di
premiazioni o a momenti di promozione culturale.
La certificazione Audit, sebbene si sia sovrapposta a pratiche ed atteggiamenti consueti e
consolidati nel tempo, ha corrisposto ad un momento di ulteriore sensibilizzazione e
consapevolezza maturata non tanto dalla direzione aziendale quanto dagli stessi dipendenti, i
fruitori diretti delle patiche. La sensibilizzazione ha fatto emergere una ulteriore domanda di
attenzione e di riflessione verso il tema della conciliazione.
Ho notato che prima della certificazione nei reparti c‟erano delle beghe. Più di una volta ho dovuto
intervenire in queste situazioni che potrebbero anche non essere considerate … ma che hanno la loro
importanza nella collaborazione e nell‟efficienza. Mi pare che dopo la certificazione - sicuramente
questo lo posso dire – quelli che erano i problemi familiari, l‟ho notato perché sono diminuite queste
beghe sciocche e sono affiorate questioni un pochino più consistenti che posso essere proprio di ordine
familiare. Quindi la comunicazione su quelli che erano i problemi familiari è affiorata. Mi viene in
mente una coppia, marito e moglie che lavorano qui che fanno anche dei turni, avevano problemi con la
mamma, insomma abbiamo cercato di aggiustare i turni e i tempi così potevano assistere la mamma.
Sinceramente non credo che con il clima che c‟era precedentemente … probabilmente ci sarebbe stato
un atteggiamento più restio nel chiedere anche questi piccoli accorgimenti, che sembrano tanto piccoli e
poi … Voglio dire, l‟approccio: la mia azienda è attenta a delle problematiche ed io le porto. Si crea quel
clima aziendale in cui si coltiva anche una cultura family friendly, dell‟attenzione a certe dinamiche che
non sono solo lavorative.
L‟attenzione al tema della conciliazione è presumibilmente legata anche ad una dimensione,
rilevata in letteratura, che ha a che fare con la presenza ai vertici delle organizzazioni di
donne. Come sostenuto dal nostro interlocutore è il suo stesso ruolo di madre che ha favorito
lo sviluppo e la sensibilizzazione verso determinate problematiche.
Quello che io ho fatto emergere sono tutte le problematiche legate ai bambini. Ma perché io sono donna
e sono madre. Sono madre di sei figli, quindi al di là di tutti gli aiuti che posso aver avuto nella mia vita,
so molto bene cosa vuol dire se la scuola non ha il pomeridiano, poi magari deve fare l‟attività sportiva
e come incastrare tutte queste cose qua. Quindi il focus che noi abbiamo dato, ma perché per noi era una
esigenza che percepivo dalle madri in azienda. Cioè il parcheggio rosa mi è venuto in mente perché ad
un certo punto mi è arrivata una ragazza del commerciale incinta di due gemelli, che quella mattina
aveva fatto un esame del sangue, che ha parcheggiato in tanta malora perché è arrivata alla fine con
questo pancione e … «adesso mi ricordo che ho parcheggiato lontano»! «Come ho parcheggiato
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lontano»?. E da lì ho detto: «ma come è possibile»!. Ed è stato così, ho detto di comprare un cartello
rosa. Abbiamo appeso un cartello e da questo momento in poi questo deve rimanere a disposizione delle
persone incinte. Quindi probabilmente, lei non avrebbe mai osato chiedere una cosa del genere. E
probabilmente se il suo capo fosse stato un uomo, avrebbe detto: «sì, vabbè, però la prossima volta
cerca di arrivare prima!».
Riguardo le misure di conciliazione famiglia lavoro, al di là delle classiche misure di
flessibilità dell‟orario di lavoro, della semplicità e disponibilità (come sostenuto dai
lavoratori) di concedere permessi, concessione di un orario ridotto per madri che rientrano al
lavoro – oltre quello previsto dalla legge - attualmente l‟azienda sta programmando una serie
di convenzioni con esercizi commerciali esterni. L‟obiettivo è quello di ottenere uno sconto
sul costo di beni e di servizi per i dipendenti con riferimento a odontoiatri, agenzie viaggi,
lavanderie, centri estetici ecc. Queste opportunità, sebbene possano apparire irrilevanti
vengono particolarmente apprezzate dai dipendenti. Inoltre si stanno realizzando convenzioni
con cooperative che gestiscono asili o centri per l‟infanzia specie nella stagione estiva. Un
ulteriore servizio in fase di ideazione è quello che permetterebbe il pagamento di bollette ed il
disbrigo di alcune pratiche di natura burocratica attraverso l‟ausilio di un soggetto esterno
all‟azienda. L‟obiettivo espresso dalla proprietà – in cambio dell‟offerta di tali servizi – è
quello di permettere e favorire la riduzione del conflitto fra le domande espresse dalla sfera
familiare e quelle espresse dal luogo di lavoro.
Mi rendo conto che per avere delle persone che possono “serenamente”, mi rendo conto che è una
parola grossa, voglio dire cercando di venire a lavorare togliendoli tutta una serie di problemi… cioè la
qualità della loro vita perché io ho bisogno di persone che vengano qua con la voglia e la passione di
lavorare che non ha prezzo. […] Nel momento in cui mi produci una chiave e la produci senza dedicare
quell‟attenzione, magari mi stai producendo delle chiavi che diventeranno uno scarto. Che può capitare.
Se però io ti metto in una situazione tale per cui tu comprendi ed hai la sensibilità di dire: «ma quanto
costa questo scarto all‟azienda»? Se io mi rendo conto prima, attivo tutta una serie di recettori … Io
continuo a dire che in questa azienda ognuno è imprenditore di sé stesso. Cioè ognuno deve difendere la
sua posizione.
Uno strumento aziendale particolarmente efficace adottato dall‟azienda per ridurre il tasso di
assenteismo e migliorare la qualità della produzione è il premio di produttività, regolamentato
dalla contrattazione di secondo livello. Fino al 2013 il premio era ottenuto in base al
raggiungimento di un livello di fatturato aziendale e gli incentivi erano calcolati a partire dal
tasso di assiduità, cioè dal numero di presenze sul lavoro. Nel 2014 l‟azienda sceglie di
adottare come criterio prevalente non più il fatturato ma il numero di prodotto non conforme.
Essendo un‟azienda certificata ISO 9000 – il protocollo che regola la certificazione di qualità
– il premio di produttività risente complessivamente del numero di prodotto non conforme,
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cioè di prodotto che per difetti non può essere immesso sul mercato. Il premio di produttività,
ricalcolato in base al tasso di assiduità, viene elargito se la produzione resta sotto una certa
soglia di produzione non conforme. È evidente come lo sforzo dell‟azienda sia tutto teso a
creare le condizioni professionali migliori ed un clima aziendale favorevole per esprimere un
prodotto qualitativamente elevato in grado di affermarsi nei mercati mondiali.
2.5 – Conciliazione, curare il prodotto e il lavoratore. Il caso Crivertrade (dall’intervista alla fondatrice, dott.ssa Pivato; responsabile delle risorse umane, dott.ssa
Beroaldo: medico del lavoro, dott. G.D.G.)
L‟azienda Crivertreade di Silea, nasce nel 1995-96 da una piccola esperienza produttiva
semiartigianale espandendosi per tutto il ventennio successivo. L‟azienda opera nel settore del
visual merchandising e produce espositori di articoli di varia natura per marchi presenti in
tutto il mondo. L‟avvio della attività imprenditoriale appare piuttosto insolito ed è
particolarmente legato alla capacità tecnica e creativa del fondatore e a quella amministrativa
e commerciale di sua moglie. Entrambi non avevano mai lavorato in questo settore
produttivo, il fondatore aveva una piccola azienda – con un solo socio – e si occupava di
grafica mentre sua moglie lavorava nel settore alimentare, ma quando fu proposto loro di
realizzare un prototipo di espositore per il distributore locale di Pepsi, non ebbero alcuna
difficoltà a realizzarlo, né a produrne un migliaio di esemplari. Questo momento segna la
nascita di Crivertrade.
Nasciamo per caso, io uscivo da un settore e mio marito da un altro settore e ci siamo incontrati per
puro caso e abbiamo detto: cosa possiamo fare? Fatalità un nostro amico aveva bisogno di un espositore
della Pepsi-Cola […] che ci ha detto: «mi servirebbe questo campione di questi bicchieri con una molla
ecc.» Io allora sono venuta a casa e gli ho detto: «ma tu riesci a fare sta roba»? - «Mamma mia, è una
stupidaggine»! Ha fatto questo disegno ed un preventivo di cosa poteva costare, io sono andata da
questo mio amico che era all‟ufficio commerciale della pepsi-cola a Scorzè e ha detto: «va bene, mille
pezzi». E da lì dopo, un altro amico che aveva un negozio di occhiali sportivi, e dopo il passaparola e
qua e là e siamo partiti.
Con il tempo si affacciano brand sempre più numerosi e prestigiosi, come nel caso di
Benetton e l‟azienda cresce nel fatturato negli spazi e nel numero di dipendenti che passa da
uno, con l‟avvio, ai 37 e i circa venti lavoratori interinali di oggi. La sede iniziale, una
stanzetta ricavata dall‟azienda in cui il fondatore lavorava, trova locazione in un capannone
industriale di duecento metri quadrati in San Biagio di Callata. Un capannone che sembrava
enorme ma che presto non è più sufficiente a contenere macchinari e commesse. Così, dopo
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cinque anni l‟impresa si sposta in un nuovo edificio di 3500metri quadri nei pressi del
comune di Silea, finché nel 2008 l‟azienda si sposta definitivamente a Silea in uno spazio di
10mila metri quadrati. L‟estensione dello spazio aziendale è un indicatore importante per
cogliere la repentina crescita dell‟impresa. Ci sembra rilevante per sottolinearne il successo
ma, in questo caso – vedremo – questo elemento ci accompagna anche a riflettere sulla
dimensione fisica e strutturale dello spazio aziendale quale elemento su cui la proprietà si è
particolarmente interessata per favorire un clima aziendale e di collaborazione propositivo.
Siamo partiti da una stanzetta, affianco all‟aziendina che lui aveva con un altro socio con cui faceva
telai serigrafici. Facevano le scritte sui camion, sulle vetrine però non avevano la struttura per fare gli
espositori. Abbiamo preso una stanzetta da un‟altra parte, poi abbiamo preso un lavoro da Benetton,
sono venuti a vederci perché … mio marito è sempre stato un ottimo tecnico, per cui le soluzioni
proprio dell‟espositore, dell‟oggetto… per cui molto probabilmente le classiche agenzie non riuscivano
ad avere le stesse attenzioni e le proposte… Il lavoro quindi veniva avanti e da li ci siamo spostati a in
affitto e ci sembrava un capannone enorme. Da una stanzetta e un magazzinetto a duecento metri di
capannone ci sembrava ... non so di diecimila metri. Però ci siamo rimasti poco: cinque o sei anni. Poi
abbiamo acquistato un altro stabilimento di tremila e cinquecento metri vicino a Silea e in un
battibaleno lo abbiamo riempito per cui nel 2008 ci siamo spostati e qua oggi siamo in diecimila metri
quadrati.
L‟azienda ha maturato negli anni una credibilità su cui ha fondato il proprio successo e posto
le basi per gli sviluppi futuri. Una credibilità data dall‟elevata precisione nei dettagli e dalla
qualità del prodotto destinato a operatori nazionali e indirettamente a mercati internazionali
dove il made in Italy è sinonimo di qualità, creatività e accuratezza. È lo stesso livello di
qualità espresso a definire e condizionare un certo tipo di atteggiamento e di attenzioni della
dirigenza verso il personale. Gli sforzi aziendali nell‟ambito delle politiche di conciliazione e
di welfare aziendale tout court vertono proprio a creare le migliori condizioni possibili per
favorire l‟impegno del personale, l‟attenzione e la cura per il proprio lavoro. L‟azienda non
dispone della certificazione di qualità ma – stando alla testimonianza della dirigenza – è lo
stesso mercato che individua e seleziona la qualità.
Noi abbiamo un lavoro difficile. Bello però difficile. Se non sono tutti quanti attenti, precisi e meticolosi
sul lavoro che fanno, lo vedi di là […] Qui ci sono pochi lavori con commesse difettose perché, essendo
brand molto importanti, quando sbagli una volta non ti danno più lavoro. Sei fuori dal mercato. […]
Generalmente quando esce un prodotto da qui è già certificato dalla nostra produzione perché pensi un
Bulgari, se lei le manda un prodotto che ha dei difetti, te lo rendono ma poi non lavori più con loro. È
un po‟ anomala come produzione ecco perché le persone devono essere molto attente a quello che
fanno. […]Perché le risorse umane vanno al primo posto. Se non ho le risorse umane che lavorano bene,
che sono tranquille, che hanno un ambiente di lavoro sano … non producono bene.
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Da ciò deriva la necessaria richiesta di prestazione certosina ai lavoratori ed è proprio
attraverso questo aspetto che si motivano le operazioni welfareistiche atte a promuovere il
benessere dei dipendenti e che possiamo articolare secondo i seguenti capitoli:
misure di flessibilità organizzativa dell‟orario di lavoro;
investimento e progettazione degli spazi per favorire la comunicazione interaziendale;
ambulatorio di medicina del lavoro e prestazione medica eccedente quella obbligatoria
prevista dalla legge.
La flessibilità è applicata al periodo di ferie permettendo ai dipendenti ampia libertà di fruirne
durante l‟anno, alla gestione dei turni atta a favorire le richieste provenienti da chi presenta
particolari necessità di cura familiare, ma soprattutto è una pratica consueta con riferimento
all‟orario di lavoro di tutti i giorni. La flessibilità dell‟orario di lavoro – come abbiamo già
abbondantemente argomentato – è una pratica molto diffusa ed efficace di conciliazione dei
tempi familiari e professionali.
Nel caso di Crivertrade è da evidenziare come la questione della flessibilità oraria dei tempi
abbia coinciso con un percorso di responsabilizzazione del personale. È il lavoratore che si
coordina con i colleghi con cui è a più stretto contatto nello svolgimento delle sue mansioni in
modo da garantire il servizio e la copertura oraria di quell‟ufficio o settore produttivo. La
direzione delle risorse umane o il titolare si limitano ad autorizzare i permessi, le uscite o le
variazioni dell‟orario di lavoro in entrata/uscita e ciò semplifica enormemente i problemi
dirigenziali di natura organizzativa. Attraverso il senso di responsabilità si concretizza
un‟efficace modalità operativa di gestione delle risorse umane.
… questo ha dato modo attraverso un‟organizzazione all‟interno dell‟azienda di sviluppare con più
coordinamento l‟elasticità. Perché se tu dai l‟elasticità a tutti diventa un caos. Allora generalmente gli
addetti entrano per esempio alle 8 del mattino, però l‟elasticità sta nel senso che l‟azienda può dare
anche la fattibilità di scegliere il quarto d‟ora, dopo si organizzano, timbrano e di conseguenza è
regolare l‟orario ecc. Il tempo flessibile può essere anche di mezzora se però questo avviene tramite un
sistema d‟ufficio. Prendiamo per esempio l‟ufficio amministrativo: l‟organizzazione è però che l‟ufficio
sia sempre coperto. Si gestiscono tra di loro, però noi sappiamo che c‟è sempre un ufficio che è
regolarmente presente. […] Diventa una cosa importante per l‟ufficio e per l‟azienda. Diventa
importante anche fra le persone perché se qualcuno ha bisogno di un supporto – una nostra collega ha
avuto un problema grave con la nonna, si sono organizzate, si sono strutturate, non è che devono andare
ogni due minuti dalla sig.ra Pivato, a dire: «scusi eh…?» C‟è la titolare che dopo autorizza la firma,
però di fatto quando vengono a chiedere il permesso, lei sa già che si sono gestite fra di loro. Questo è
importante e loro sono molto responsabili su questo. Difficilmente qua succede che ci sono uffici
sguarniti. Non accade.
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Questo obiettivo viene inoltre favorito dall‟organizzazione fisica dello spazio aziendale in cui
i titolari hanno investito per creare – da una parte – un luogo esteticamente piacevole visto
che accolgono frequentemente importanti marchi di moda ed abbigliamento, dall‟altra per
agevolare lo scambio comunicativo fra i lavoratori. I titolari hanno dato particolare rilevanza
all‟aspetto fisco dell‟azienda e questo è avvenuto in concomitanza del percorso Audit
intrapreso:
…non solo perché è importante l‟immagine dell‟azienda - tenga presente che qui ogni tanto vengono i
grandi brand - ma anche perché hanno puntato sul benessere psicofisico dei dipendenti dell‟azienda.
Perché è anche vero che noi qui, nell‟arco di una giornata siamo all‟interno di una struttura aziendale.
Credo che faccia molto effetto stare in un ambiente silenzioso, non ci sono urli e generalmente siamo
tutti molto tranquilli. Questo dà modo anche ai dipendenti di essere in un ambiente bello, sereno […]
Inizialmente erano tutti assieme in ufficio, con l‟azione di audit hanno capito che la tranquillità degli
addetti è che non puoi avere sette persone in contemporaneo perché se io parlo e tu parli al telefono
inizia ad indisporre le persone. Sono banalità ma sono molto importanti per lo stress - che già abbiamo
tutti - quindi hanno suddiviso dopo l‟azione dell‟audit, è stata fatta una azione molto costruita, hanno
creato quest‟anno degli uffici – per esempio questo non c‟era - hanno creato la sala caffè, l‟uffici
amministrazione è lì, l‟ufficio progettazione e commerciale lo hanno spostato ed hanno fatto una serie di
cambiamenti anche strutturali da quando abbiamo fatto il percorso audit. Perché abbiamo capito che tra
colleghi a volte non c‟è una diretta comunicazione. Non sempre siamo tutti amici nell‟ambiente di
lavoro – perché è una barzelletta - e allora cercare di far dialogare gli addetti mettendoli in ufficio
insieme … ecco che abbiamo cercato di dare facilità di azione che permettesse il dialogo fra colleghi,
(in maniera tale da permettere loro di socializzare e dividersi le responsabilità e le competenze di
quell‟ufficio, ndr). […] Hanno sintonia, vanno d‟accordo, si aiutano a vicenda, si danno una mano. E
poi vengono volentieri a lavorare.
Crivertrade ottiene la certificazione Audit famiglia lavoro nel 2013 dopo un lungo percorso di
valutazione e di formazione per la progettazione di misure di conciliazione durato un anno.
Questo percorso accompagna la riflessione su come produrre benefici e benessere per i
lavoratori e alcune misure adottate rappresentano delle scelte consapevoli maturate anche alla
luce di questo percorso formativo e di sensibilizzazione. Inoltre il percorso Audit rappresenta
un banco di prova per le pratiche già in essere e fornisce degli spunti per introdurvi dei
correttivi, affrontare zone critiche o far emergere aspetti e problematiche meno visibili ma
rilevanti. Anche la ristrutturazione dello spazio architettonico è in parte l‟esito di tali
riflessioni, così come la scelta di promuovere la prevenzione della salute sul luogo di lavoro.
Questa attività si concretizza nella collaborazione professionale di un medico del lavoro con
cui attualmente si sta predisponendo un piccolo ambulatorio in azienda.
Attraverso questa collaborazione – nata nel 2013 - l‟azienda ha sviluppato un piano di
controllo e prevenzione della salute per i dipendenti che prescinde e supera in numero le
normali visite regolamentate dalla legge. L‟attività medica viene esercitata frequentemente, la
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presenza del medico in azienda è settimanale tanto che si prevede la realizzazione di un vero e
proprio – seppur piccolo - ambulatorio. Ci sembra rilevante evidenziare questa peculiarità
poiché la salute di una persona e la prevenzione da malattie è certamente l‟elemento fattuale e
simbolico più significativo del prendersi cura. E quando si parla di cura e prevenzione non si
fa riferimento esclusivamente a quanto avviene nella sfera lavorativa, ma si ha cura della
persona in quanto tale. Ora, l‟attività di medicina del lavoro è una attività normata, i lavoratori
devono cioè effettuare – per legge – delle visite mediche che sono applicate secondo dei
protocolli validati scientificamente. Il medico del lavoro nell‟esercizio delle sue mansioni e
nell‟attività di prevenzione della salute ha cura del suo assistito in quanto persona e non in
quanto lavoratore. È un passaggio che può apparire banale ma è invece molto significativo
poiché è attraverso questo “servizio” che si ripropone l‟unità della persona (biopsichica) che
invece i ruoli sociali tendono scomporre. Il medico (del lavoro) – stando alla testimonianza
del nostro intervistato – non può essere medico a “scompartimenti stagni”. Deve interessarsi
alla persona in quanto tale e per questo comunicare con ambienti esterni a quello del lavoro.
Riconnettere il mondo professionale e quello non professionale.
Un esempio banalissimo: il rilievo della pressione arteriosa elevata non è correlato direttamente al
lavoro ma è il mio compito che venga fatta una lettera al medico curante che vengano fatte delle analisi
accurate di laboratorio, perché sebbene non siano correlate al lavoro, sono legate alla persona e quindi
per fare prevenzione vera bisogna avere un collegamento stretto, quando è necessario, con le figure
giuste a risolvere il problema. Magari scrivo al medico di famiglia: attenzione al suo assistito perché ho
riscontrato una pressione elevata. Magari ho riscontrato un soffio cardiaco, ecc.
Si tratta di attenzioni particolarmente rilevanti poiché la prestazione medica, se da una parte
rileva disturbi della salute non gravi e particolarmente diffusi nella società attuale, tanto da
essere quasi fisiologici, prescindendo dalle mansioni lavorative - la maggior parte delle
persone intorno ai cinquanta anni comincia a prendere farmaci per la pressione arteriosa, per
prevenire eventi cardiaci, o per il tasso di colesterolo elevato - dall‟altra ha una importanza
considerevole rispetto all‟opera di sensibilizzazione e prevenzione della salute. Una buona
attività di prevenzione ha di fatto ridotto le tecnopatie a livelli molto inferiori rispetto al
passato. Soprattutto quello che più interessa – per i nostri obiettivi descrittivi - è la rilevanza
che questo servizio ha nel congiungere i mondi vitali che i lavoratori abitano
quotidianamente. Questa scelta, e questo orientamento valoriale, risente di una sensibilità e di
una attenzione con cui la stessa azienda opera:
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Fin dall‟inizio loro mi hanno prospettato la volontà di fare in modo che i loro lavoratori potessero
sentire che sono tutelati dall‟azienda. Cioè che l‟azienda non è solo una azienda, cioè un posto dove uno
svolge una certa attività e gli viene remunerata quell‟attività ma fosse un posto familiare […] Diciamo
con un livello di percezione del lavoro non come un obbligo e costrizione ma come un posto piacevole
dove svolgere la propria attività. […] Anche perché un lavoratore contento è un lavoratore che
mediamente riesce a lavorare meglio e questo – a mio parere – può avere una influenza sui giorni di
lavoro persi, sulle assenze, le influenze. Un posto piacevole di lavoro è un posto dove uno ci va
volentieri.
Un caso di particolare significatività che ci permette di raccogliere la dimensione della “cura”
riguarda un grave infortunio domestico accaduto ad un lavoratore molto giovane che perde il
pieno utilizzo di una mano. In questa vicenda, con la menomazione fisica e con il conseguente
declino psicologico, l‟azienda si attiva prestando specifiche attenzioni e prestazioni al
giovane. In particolare la sinergia che si sviluppa includendo il ruolo e la professionalità del
medico del lavoro ruota intorno all‟interesse per la persona ed alle sue prospettive future, che
affronta un percorso di reinserimento graduale a partire proprio dal suo lavoro, ambito in cui
gli svantaggi dovuti all‟incidente potevano risultare particolarmente problematici. Si nota
inoltre dalle testimonianze il carattere plurale non solo dell‟intervento ma anche
dell‟“attenzione” alla persona. Ed è significativo che si usi il “Noi”, la prima persona plurale,
per evidenziare il successo dell‟intervento, il fatto si aver superato insieme il problema. Non
quindi un problema personale ma collettivo.
C‟è stato un nostro dipendente che stava facendo dei lavoro a casa e si è tranciato due dita. Un ragazzo
giovane e anche bravo. Noi l‟abbiamo accolto subito [e abbiamo fatto, ndr] tante piccole cose che
hanno fatto in modo che lui abbia superato,.. adesso è qua e tranquillo. Soprattutto sereno. Lui fa il
lavoro che faceva prima. Il nostro medico aziendale lo ha seguito tanto. Lui veniva qua la mattina, lo
controllava per vedere se riusciva a fare dei movimenti che faceva prima. Il medico lo incentivava, era
sempre qui a fianco a lui. Comunque abbiamo superato anche questo problema e lui sta bene (la
proprietà).
L‟azienda mi è stata vicino e mi ha consentito di fare tutto quello che era necessario. […] Gli hanno
dato subito la possibilità di rientrare a lavoro, ha seguito il suo percorso, ha ripreso a lavorare
prontamente e il lavoro invece di aver rappresentato un ostacolo per la sua ripresa ha rappresentato
invece un punto di forza. Perché lui si è completamente ripreso ed ha potuto anche seguire il suo
percorso. È andato a vivere da solo, ha fatto delle scelte personali. Mi ha tenuto informato, abbiamo
fatto dei colloqui informali anche per telefono e il ragazzo adesso lavora pienamente, anche più di prima
forse (il medico).
Anche in questo caso – come in quello già citato del lavoratore in cura oncologica
sperimentale – notiamo come sia la dimensione della “cura” a configurarsi come un “ponte”
fra la sfera vitale del lavoro e quella della vita personale e familiare. Sono la sensibilità e le
attenzioni verso la persona gli elementi attraverso cui il tema della conciliazione e del
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benessere dei lavoratori trova la sua massima espressione ed enfasi. Un benessere che viene
restituito alle aziende non in forma strumentale ma in forma affettiva, di appartenenza ad una
“seconda famiglia” ove sono riposti sentimenti di fiducia, del sentire comune, della
motivazione e della piena gratificazione.
2.6 – Conciliare nelle cooperative sociali. Il caso di Castelmonte Onlus
(dalle interviste a: responsabile delle relazioni istituzionali e comunicazione, dr. Brunello;
responsabile di progetto di laboratori dott.ssa Staffa; responsabile delle relazioni industriali,
dr. Rodio; responsabile ufficio amministrativo, dott.ssa Marconato; responsabile di progetto,
dr. Zeppa)
Fra le organizzazioni selezionate per la ricerca, la cooperativa sociale Castelmonte ONLUS di
Mogliano veneto rappresenta un caso di evidente differenza e specificità. Tale differenza non
deriva esclusivamente dal suo carattere statutario che la definisce come ente non-profit ma
anche dall‟ambito sociale entro cui opera l‟organizzazione, dalla mission, dagli attori con cui
e per cui realizza i suoi interventi, dal tipo e dall‟organizzazione dei servizi erogati. Queste
caratteristiche condizionano necessariamente la domanda ed i bisogni espressi dagli operatori
(i soci dipendenti) in termini di benessere personale e rispetto al tema della conciliazione.
Prima di analizzare il caso entro il nostro framework, presentiamo alcuni dati
dell‟organizzazione, ricavati dai bilanci sociali e dalla documentazione raccolta durante il
periodo di rilevazione sul campo. I dati economici riportati nei bilanci sociali disponibili e
relativi al triennio 2011-2013 evidenziano progressive tendenze di crescita. Il fatturato della
cooperativa aumenta di circa 1milione e cinquecentomila euro, un incremento pari al 20%. Il
valore del capitale sociale – cioè dei depositi corrisposti dai soci prestatori - aumenta di circa
100mila euro nel triennio, cioè del 47%, così come aumenta il numero di soci prestatori, che
da 206 diventano 279 per un aumento percentuale di 35 punti. Anche il capitale economico
destinato alla remunerazione per il personale dipendente cresce negli anni del 7,3% nel primo
biennio e del 5,54% nel triennio come effetto dell‟aumento del personale. Infine il rapporto
percentuale fra il numero di ore lavorabili e quelle lavorate tende a diminuire nel corso del
triennio, ciò sottolinea una riduzione del tasso di assenteismo.
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Dati economici del bilancio sociale9 2011 2012 2013 Δ% (2012-2011) Δ% (2013-2011)
FATTURATO (x mille) 7.334 8.217 8.803 12,04 20,02
Remunerazione personale dipendente (x mille) 4.385 4.706 4.628 7,32 5,54
CAPITALE SOCIALE (x mille) 226 271 332 19,91 46,90
N. soci prestatori 206 229 279 11,17 35,44
Δ% ore lavorabili e ore lavorate -18,22 -16,50 -14,11
Fonte: nostre elaborazioni da bilancio sociale 2011 e bilancio sociale 2012-2013
I valori di ogni singolo indice, nel corso del triennio, registrano segni positivi. Anche in
questo caso – per ragioni già esposte – esortiamo il lettore a non associare direttamente tali
performance alla disponibilità di misure di conciliazione o all‟adesione al programma Audit
Famiglia. Tuttavia, questo non corrisponde al dire che l‟attenzione, le motivazioni ed il senso
di responsabilità dei lavoratori per le proprie mansioni e - in maniera particolare – per i
fruitori dei servizi, in quanto esiti di misure di conciliazione e di welfare aziendale, siano
irrilevanti per le prestazioni complessive dell‟impresa sociale. Al contrario, la qualità del
servizio, da cui deriva la credibilità dell‟azienda e in parte la continuità e l‟accesso negli
appalti pubblici, è un elemento fondamentale da controllare e perseguire. Ma in che modo la
cooperativa può promuovere il benessere di soci lavoratori in circostanze in cui la prestazione
lavorativa non genera oggetti ma consta di rapporti umani?
Ora, qualificare le differenze che contraddistinguono un‟impresa sociale da altre forme
imprenditoriali – quelle di mercato -, è una questione importante da affrontare per cogliere il
modo e le ragioni con cui l‟organizzazione “riflette” e introduce pratiche facilitanti il
benessere dei dipendenti e una più corretta prestazione del servizio. Si tratta di un punto
cruciale cui prestare particolare attenzione, come fa la direzione:
Ci siamo trovati da soli a dover spiegare che contrariamente ad una azienda come la [xxx] dove la
conciliazione … loro riducono l‟orario dello sportello del pubblico e…Nell‟ultimo corso che ho fatto con
gli operatori sociali, molti di loro mi hanno detto: «quando sto staccando, il paziente che sto seguendo,
l‟ospite che sto seguendo si è fatto addosso ed io ho dovuto cambiarlo. Non è che posso dire alle sei e
cinque me ne vado. No, ho dovuto aspettare». Per esempio noi favoriamo il cambio turno, però il cambio
turno non sempre è possibile perché innanzitutto devo garantire la professionalità ma devo anche essere
certo che la persona che mi sostituisce è accettata dal nucleo degli ospiti.
9Si veda il bilancio sociale di Castelmonte Onlus. Documento on line disponibile al sito:
www.castelmonteonlus.it/UserFiles/File/bilancio_corretto.pdf
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Per cogliere il significato delle performance individuali dell‟operatore proponiamo un
passaggio di intervista che illustra la rilevanza della relazione interpersonale intesa come
nucleo elementare su cui si fonda la prestazione professionale.
È successo l‟anno scorso. Avendo fatto dei soggiorni con l‟utenza, ero arrivato al punto in cui stavo per
scoppiare, nel senso che non riuscivo più a rendere per come avevo fatto nei giorni precedenti. Questo è
stato dovuto forse al fatto di aver avuto tanti giorni di lavoro continuativi.
Quando dice “rendere” a che cosa si riferisce?
Rendere significa dare il massimo di se stessi nella relazione con l‟utenza. Il mettersi in gioco. Il saper
capire chi hai davanti e come comportarsi.
In quel periodo in cui lei dice che non riusciva a rendere, in realtà lei non riusciva a relazionarsi.
Era una relazione forzata, meccanica, non sentita. Sapevo che con lei dovevo parlare in una certa
maniera e allora parlavo in quella maniera e basta. Non perché lo sentissi io, ma perché era un ruolo che
dovevo coprire. (Int. dip.6).
Questi passaggi sottolineano la condizione specifica del lavorare con e per le persone con
disabilità e la distanza rispetto a quanto accade per altri tipi di imprese. L‟attività
professionale si esplica non in funzione della produzione di un oggetto ma nella costruzione
di una relazione fra almeno due persone: l‟operatore e il fruitore del servizio. Il servizio
erogato non può non risentire del coinvolgimento personale degli attori. Se si vuole
promuovere e facilitare il ruolo dell‟operatore, il suo benessere e una prestazione
professionale efficace diventa necessario costruire delle pratiche mirate che partano dai disagi
e dalle problematiche che emergono durante lo svolgimento del lavoro a cui partecipano
anche altri soggetti.
Io lavoro dentro una comunità psichiatrica per cui il lavoro è molto impegnativo a livello psichico perché
il carico emotivo è molto alto perché gli ospiti sono giovani e hanno molte potenzialità, hanno molte
richieste, per cui sì, la difficoltà è proprio tenere una forza nostra perché non ci travolgano. Dobbiamo un
po‟ rafforzarci per riuscire a contenere questi ospiti che hanno al capacità di travolgerci. Le cose che
succedono sono a volte molto pesanti. Un ospite può andare in crisi e quindi può iniziare a battere sui
vetri a gridarti dietro: «io ti uccido! Ti do un pugno»! tutte cose … e quello che sto cercando di [fare è]
aiutarmi per stare bene anche con loro e che non mi esca comunque anche a me l‟aggressività verso di
loro. (Int.Dip.1)
Mi è successa una cosa sgradevole con un ragazzo. Questi sono giovani, sono forti. Ha incominciato a
mettermi le mani addosso … mi ha dato degli schiaffi sulla testa e questo sinceramente mi ha fatto
passare un periodo un po‟ brutto perché adesso ho più paura di affrontare ... magari quando vado a fare la
notte. Cioè mi ha lasciato dentro qualcosa, sono sincera. Però voglio superarlo. Non voglio avere paura,
voglio essere più forte io di loro, nel senso che loro dipendono da noi da una parte perché li portiamo
fuori, li fai il te, li fai da mangiare, li fai la merenda, cioè sono loro che dipendono da noi. Io non li
voglio maltrattare, non è il mio carattere, né urlare, assolutamente non è nel mio essere, però non voglio
neanche portarmi a casa questi episodi. (Int.Dip.2)
Un operatore, paragonando la sua mansione a quella di altre professionalità sostiene.
Da noi invece è differente, perché la relazione è in cima a tutto quanto. Quindi sfrutti tanto la tua materia
grigia e il tuo ritorno a casa deve essere tranquillo, sereno e appunto per questo bisogna staccare.
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Uscendo fuori dal cancello della struttura devi abbandonare tutti i tuoi pensieri lavorativi e ritornare a
essere te stesso con gli altri: amici, parenti, familiari (Int.Dip.6).
Analizzare l‟ambito di una cooperativa sociale è un‟operazione rilevante per osservare come
il tema della conciliazione, coinvolgendo dinamiche psicologiche, emotive e
comportamentali, superi la questione dell‟organizzazione della vita familiare del lavoratore e
si estenda alla qualità di vita tout court, condizionante quella familiare.
Da ciò deriva la considerazione per diversi strumenti di conciliazione o di facilitazione e
promozione del benessere come la flessibilità dell‟orario di lavoro - tradizionalmente
utilizzata nelle imprese e ritenuta efficace per il corretto svolgimento delle varie mansioni -
come una condizione necessaria al normale svolgimento del lavoro e per questo
metabolizzata, quasi secondaria. Questo non significa che la flessibilità dell‟orario di lavoro
non comporti dei vantaggi. Al contrario, presenta vantaggi sia per l‟azienda sia per il
dipendente. Prendiamo per esempio la banca ore di cui la cooperativa si è dotata, ben prima
della certificazione Audit. Questo strumento permette ai dipendenti di “accumulare” fino a
cinquanta ore annuali di eccedenze di tempo di lavoro prestato che vengono “restituite” in
forma di permessi o giorni di ferie aggiuntivi da utilizzare entro l‟anno. Dal lato dell‟azienda
la banca ore permette, rispetto all‟utenza di realizzare l‟intervento nella sua completezza,
rispetto all‟ente appaltatore di onorare il contratto nelle sue parti e di garantire l‟efficienza
nella prestazione:
«… non ci sono mai stati turni scoperti e, anche chiamando la mattina per il pomeriggio, noi non
abbiamo mai avuto i turni scoperti. Questo è un indicatore importante!».
Inoltre la banca ore rappresenta una risorsa di tipo economico per l‟organizzazione poiché
permette di ridurre i costi potenziali che dovrebbe sostenere se quelle ore fossero pagate come
lavoro ordinario o lavoro straordinario. I dati a nostra disposizione sottolineano tale rilevanza
economica – che nel tempo è cresciuta. Nel 2014 il monte ore accumulato ha superato le 4500
ore, corrispondenti ad un valore economico – e quindi ad un potenziale risparmio per
l‟impresa - di 64mila euro. Nel 2011 il dato registrato era di circa un terzo e ciò sottolinea la
rilevanza ed il successo dell‟utilizzo di tale strumento.
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La banca ore
Anno Saldo recuperi (ore) Valore
corrispondente (€) 2011 1.609 € 22.523 2012 3.855 € 53.970 2013 3.474 € 48.636 2014 4.576 € 64.064
Ma, a sottolineare il valore aggiunto di questo strumento non è il solo dato economico. Alcuni
dei soci lavoratori intervistati concordano, infatti, sul vantaggio - sociale e organizzativo
familiare – che la banca ore rappresenta per loro. A fronte di un‟eccedenza di ore di lavoro
prestate, molti preferiscono poterle utilizzare per gestire meglio i tempi e le attività familiari:
dall‟avere più tempo per le vacanze, alla cura di genitori anziani, alla maggiore disponibilità
di tempo per seguire i propri figli e la casa. Ricordiamo che questo dato emerge anche come
conseguenza della composizione dei lavoratori che sono per l‟88,5% donne. La banca ore –
sebbene non sia uno strumento particolarmente innovativo riguardo al tema della
conciliazione – rappresenta tuttavia un mezzo particolarmente efficace e vantaggioso per le
parti.
In una realtà abbiamo sperimentato attraverso la richiesta alle persone se preferivano utilizzare la banca
ore o se una giornata accumulata poteva essere pagata come lavoro ordinario in più. Effettivamente la
maggior parte delle persone ha preferito la banca tempo perché questo permette di avere più tempo per
loro, la possibilità di avere permessi, possibilità di stare a casa o di avere ferie in più perché non è che
devono essere utilizzate nella settimana successiva ma si possono accumulare. Essendo cinquanta ore
uno può ottenere una settimana di ferie in più tranquillamente. Sono quasi due settimane.
Alla domanda sulla preferenza se fruire delle ore accumulate con la banca ore o del
corrispettivo aumento salariale, una intervistata con il marito in cassa integrazione ed un
genitore da accudire risponde:
In certi periodi te volessi vedere un po‟ di soldi. Certi altri … ho degli impegni con papà che sta poco
bene, che è anziano e utilizzo quelle poche ore che magari mi scalano e mi va bene rimanere a casa.
È all‟interno di questa ampia riflessione che viene ideato e programmato l‟ “Osservatorio
Famiglia” un servizio di supporto informativo e di orientamento che si articola attraverso gli
sportelli di ascolto attivi. La finalità di tale servizio è quello di raccogliere le istanze
provenienti dai lavoratori nello svolgimento delle proprie mansioni fornendo consigli e
sostegno psicologico.
Sebbene questa iniziativa possa apparire rilevante per il benessere dei lavoratori nella gestione
del proprio equilibrio psicologico, ben presto la direzione realizza l‟inefficacia di tale
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programmazione. Le richieste provenienti dai dipendenti sono numericamente irrisorie e gli
sportelli stentano a funzionare come previsto. L‟insuccesso del servizio è legato alle resistenze
con cui i lavoratori sono disposti a parlare delle proprie questioni private. Dal voler mantenere
distinti il mondo professionale da quello personale e familiare. È attraverso questa presa di
coscienza che la direzione della cooperativa – includendo i coordinatori che rappresentano un
ruolo intermedio fra i lavoratori e la direzione – introduce dei corsi specifici, ossia modalità
relazionali attraverso cui abbattere o ridurre tali resistenze. Questi corsi si configurino come
dei veri e propri correttivi per il funzionamento dei servizi di ascolto e del programma
“Osservatorio Famiglia”. Particolare successo è quello legato al corso di scrittura maturato in
seno ad una prospettiva di intervento non più individuale ma di gruppo.
Quello degli sportelli di ascolto è un meccanismo che richiede dei tempi più lunghi. Ci sono state delle
risposte ma per avere un ritorno si dovrebbe proiettarlo su un tempo più lungo. Perché è un servizio che
viene percepito con difficoltà, nel senso che c‟è un problema di privacy da superare. Per il dipendente
avere un rapporto diretto su questioni molto personali è un problema. […] Per superare questo blocco
abbiamo pensato di aggiungere dei servizi che sono anche quelli dei percorsi a tema perché abbiamo
come suggerito una strada diversa per raggiungere le persone che in quel caso venivano contattati in
piccoli gruppi. Un gruppo diventava un contesto più semplice. E anche molto utile in termini
“educativi”, auto-formativi, in certe occasioni è stato uno strumento formativo di per sé il gruppo. Quello
che abbiamo verificato è che dopo un primo approccio di gruppo c‟è stato un ritorno.
Ora, il fatto che noi lavoriamo insieme e che ad un certo punto ci siamo trovati a fare il corso di scrittura
ha facilitato i rapporti interpersonali perché abbiamo un interesse comune di cui possiamo non
vergognarci. Ci facciamo anche noi una riflessione, perché ci poniamo il problema di come farlo e
soprattutto il problema qual è?. È che se dobbiamo farli parlare, dobbiamo rassicurarli che l‟azienda non
c‟entra nulla.
Per esempio rispetto alle ausiliarie – le donne che fanno le pulizie – soprattutto per loro che è un gruppo
che aveva delle problematiche all‟interno, a loro è servito molto e i risultati li vediamo oggi perché …
innanzi tutto hanno imparato a conoscersi e fino a prima non lo avevano fatto, si scambiavano solo
classici discorsi da colleghi. Quindi hanno scoperto di avere cose in comune. E questo si vede oggi
perché il gruppo, almeno una parte del gruppo ha atteggiamenti diversi tra di loro e anche nei confronti
dell‟ente e ci hanno chiesto di continuare. E si vede perché hanno apprezzato che noi mettessimo a
disposizione questo servizio senza chiedere nulla in cambio. Questa era la loro paura iniziale.
È nostra intenzione sottolineare come un “corso di scrittura” non rientrerebbe fra le pratiche
di conciliazione famiglia-lavoro. Siamo tuttavia interessati a proporre questo caso per almeno
due motivi. Il primo è di natura tecnica ed analitica delle pratiche implementate. La
programmazione – anche se maturata con le migliori delle intenzioni da parte delle dirigenze -
può determinare degli insuccessi in corrispondenza di un grado di riflessività basso, specie
quando i destinatari non partecipano al disegno ed alla implementazione degli strumenti. In
questo caso – come osserviamo – l‟introduzione di correttivi ha la funzione di facilitare e
regolare lo scambio (di fiducia) fra le parti. Inoltre la programmazione può prevedere dei
tempi di realizzazione che possono non coincidere con gli sviluppi e con gli impatti previsti.
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Per questo i correttivi diventano parte integrante di un percorso dinamico più che di una
programmazione stabile e definitiva.
Se c‟è una criticità è proprio nei tempi. I progetti finanziati hanno dei tempi che sono stretti e la
proiezione che si può fare come programmazione e come incisività è relativa. La nostra ambizione è
quello di farlo diventare un processo che continua a prescindere da … e poi i risultati si vedono con il
tempo.
Il secondo motivo riguarda i contenuti della pratica che – sebbene non sia diretta alla
conciliazione famiglia lavoro – ha importanti ripercussioni nelle dinamiche qualitative della
vita personale e familiare comportando – come vedremo – vantaggi personali in termini di
benessere e importanti sviluppi sociali sul luogo di lavoro.
L‟esperienza che ogni operatore fa dei corsi/laboratori di supporto psicologico ed in
particolare del corso di scrittura è sintetizzabile in tre aspetti prevalenti, differenti ma connessi
fra loro.
Il primo riguarda la possibilità di conoscere e scambiarsi opinioni ed esperienze fra colleghi.
L‟esperienza della scrittura – proposta in forma di laboratorio – ha una valenza socializzante
in cui i colleghi di lavoro non solo imparano a conoscersi ma “socializzano” le loro emozioni:
le difficoltà, i dubbi e i problemi che incontrano nell‟esercizio della propria professione.
Questa dimensione è quella sociale che integra e favorisce la nascita del “clima aziendale”
positivo, fatto di comunicazione, intesa e collaborazione. La dimensione di gruppo permette
inoltre di condividere il peso delle responsabilità che si hanno nei confronti delle persone di
cui ci si prende cura.
Ognuno di noi scriveva… ha tirato fuori una parte della propria vita. Della propria esperienza dei propri
passati, su quello che avevano scritto e posso dire, ho capito dai miei colleghi, che anche loro hanno
vissuto delle cose spiacevoli nella vita, per cui certi atteggiamenti magari un po‟ più rudi, un po‟ più
rigidi oppure troppo liberali o troppo … sono dovuti all‟esperienza che si hanno avuto. (Int.Dip.3).
Se vedi la tua collega che ha espresso alcune cose o particolarità della sua vita: dove era prima, cosa
faceva … che prima tu non si conoscevi perché te trovi a lavorare, te parli però non te vee nel profondo
di niente, quindi qualcosa è servito anche per conoscerci meglio. Sicuramente!. E anche per aver un
rapporto, che magari quando uno si apre un po‟, ti avvicini sempre un po‟ di più. Più notizie si ha l‟uno
dell‟altro, più particolarità del carattere, del modo di pensare, del modo di agire, più ci si conosce,
meglio funziona. Perché quando non si esteriora più di tanto, tu hai sempre un muro. […]
È come una valvola che tu puoi uscire, dire ciò che … anche quello che ti sta dentro. Facendole
settimanalmente tu non ti carichi mai di un carico che dopo te scoppi … (Int.Dip.2).
Nel fatto di riconoscere che i tuoi colleghi di lavoro, pensi di loro … come posso dire, le “giudichi”.
Vedendole sotto un altro aspetto riesci poi anche a lavorarci meglio perché poi vedi che hanno anche
altre qualità, altri pregi. Il fatto di aver fatto questo incontro mi ha fatto vedere che determinate persone
che pensavo che fossero un po‟ chiuse, che fossero un po‟ di un certo tipo, vedendole tirar fuori un po‟
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più di loro stesse, mi ha fatto stare un po‟ meglio con loro. [e] questo è un lavoro che ci deve essere
intesa, ci deve essere collaborazione (Int.Dip.1).
Il secondo aspetto ha una valenza emotiva e di equilibrio psicologico che agisce a livello
individuale ma che si riflette nelle relazioni con gli utenti del servizio. L‟esercizio della
scrittura permette di esprimere delle emozioni e di riscoprirle in quelle degli altri ma
soprattutto permette di ordinare i pensieri e di ancorarli ad un percorso lineare, ad una
continuità che segna l‟individuo. La memoria e la costruzione biografica rappresentano
strumenti importanti per rinforzare il sé e porsi con determinazione in circostanze
problematiche o impreviste.
Non è facile parlare anche con gli altri, perché quando si tratta di parlare di emozioni, perché le emozioni
non sono … come posso dire … un campo che è culturalmente accettato. Sembra una cosa che è l‟ultima
cosa, invece le emozioni fanno parte del nostro benessere (Int.Dip.1).
Prima venivo dalla fabbrica. Nel lavoro di fabbrica cominci la mattina, esci di sera e io non avevo mai il
tempo di scrivere, buttare giù, riflettere. Il corso di scrittura mi ha fatto un po‟ riflettere sul fatto che
sarebbe bene tenere un diario in cui ogni giorno, le tue emozioni le butti giù, quello che ti succede si
butta giù … solo che il tempo… magari lo faccio domani, lo faccio domani e poi non lo fai. Perché, la
signora che ci ha fatto questo corso mi ha fatto notare che le emozioni che tu provi quotidianamente,
buttate giù subito … è una cosa molto importante secondo me. Perché dopo, quando vai a veder magari
fra qualche anno, lo trovi scritto nero su bianco … sì, bisognaria farlo secondo mi! Perché rivedi un po‟
la tua vita, cosa ti è rimasto, cosa è passato ciò che non è passato (Int.Dip.2)
Io ho seguito i vari corsi messi a disposizione degli operatori, al servizio di tutti. Ho fatto anche quello
della scrittura, quello che ho apprezzato di più, che ho vissuto di più. Sono riuscita a mettere per iscritto
tante cose che avevo in mente e che non riuscivo mai a collegare parola per parola a scriverla, a mettere
in ordine. Mettere in ordine per iscritto ma mettere in ordine in testa. […] Tutti mi dicono che sono una
persona calma paziente, è una mia serenità ed io cerco di darla. Ed avere le idee chiare, ed avere la
serenità interna vuol dire tanto, perché quando si va a lavoro con determinate persone e non sei sereno …
intanto loro lo vedono subito. Ti guardano negli occhi e ti dicono: «ma cosa hai oggi? mi sembri
strana!». Per cui la serenità è qualcosa che influisce molto nel nostro lavoro (Int.Dip.3).
A conferma della relazione fra serenità sperimentata sul luogo di lavoro, benessere personale
e dinamiche relazionali familiari, la testimonianza di una lavoratrice appare rilevante. In
questo caso particolare, i corsi promossi dalla cooperativa, permettono alla lavoratrice di
adattarsi ad un ambiente di lavoro ostile. La relazione con i responsabili della struttura in cui
l‟intervistata presta servizio sono difficili da gestire e il supporto della cooperativa a sua
difesa appare poco determinato nel riportare l‟equilibrio e un clima pacificato. Soprattutto tali
dinamiche professionali comportano un malessere nel dipendente che viene trasposto nella
sfera domestica. Il corso, supportato dalla figura di uno psicologo, permette al lavoratore di
reagire all‟ambiente di lavoro, di costruirsi una “corazza” attraverso cui affrontare e talvolta
assecondare le ostilità dei superiori e di recuperare la serenità familiare.
87
Grazie a questi corsi, ne sono uscita da sola. Mi sono trovata veramente bene e questo ha portato un
miglioramento anche nella mia famiglia, perché ho problemi abbastanza grossi a casa. Con mio marito
mi sono trovata in positivo. Mi sono trovata ... ho cominciato a reagire diversamente da come reagivo
prima. […]A lavoro non porto mai i miei problemi però quando venivo a casa logicamente riversavo in
famiglia. [E questo aveva delle ripercussioni importanti] perché mio marito non sta bene, però invece di
seguire lui … l‟avevo messo in un angolo, c‟ero io prima. Ero egoista perché pensavo a me. A quanto
male stavo io (Int.Dip.5).
C‟è infine una terza dimensione che emerge come rilevante e che chiama in causa la fiducia
fra i dipendenti e la direzione della cooperativa e l‟autostima. I corsi permettono a molte
operatrici di raccontare se stesse fuori dal loro ruolo professionale “restituendo” un‟immagine
di sé più ricca ed articolata, quindi gratificate. È importante sottolineare che molte operatrici
sono di origine non italiana e molto spesso il loro titolo di studio o le loro competenze
superano di molto le funzioni e le richieste legate alla professione. Raccontare la pienezza del
loro essere, del loro saper fare è una forma di soddisfazione e gratificazione che il lavoro non
permette o addirittura “contraddice”. Tutto questo ha un‟importante ripercussione sul grado di
autostima a livello individuale e sulla fiducia che le operatrici iniziano a riporre nei promotori
dei programmi di laboratorio e nell‟impresa cooperativa.
La prima reazione positiva in questo approccio è stato il fatto di un riconoscimento nei confronti
dell‟azienda. Quando hanno capito che questo tempo dedicato a loro era un tempo regalato, era uno
spazio pensato completamente per loro, perché l‟idea era: «ma dov‟è il trucco, perché l‟azienda fa questo
per noi, ma come la Castelmonte fa questo per noi»!? Ecco, questa è stata la reazione e quando l‟hanno
capito l‟hanno apprezzato, è stato un buon punto di partenza sia nel lavoro che facevamo ma anche in un
senso più ampio perché ha creato un rapporto di fiducia maggiore con l‟azienda. In più, nello sviluppo
dei laboratori, la cosa che si è manifestata sempre è stata la necessità di esprimersi che veniva
finalmente appagata, gratificata. Loro avevano questa necessità, questa voglia di raccontare anche il loro
privato. Non nel dettaglio della questione familiare, che poi veniva fuori nei racconti, ma proprio di
raccontare il sé al di là del proprio ruolo di lavoro. cioè l‟operatrice di struttura o l‟ausiliaria che fa le
pulizie aveva bisogno e quasi l‟urgenza di dire però era un‟artista. Perché - ho sempre dipinto -
raccontavano e portavano le loro cose. C‟era una che dipingeva, una fotografa, una che faceva delle cose
con le stoffe e lo rivendicavano come … quasi a raccontare un sé diverso da quello che comunemente
viene percepito anche dalle colleghe.
88
2.7 – Conciliazione, fra premi incentivanti e pluralità di orari flessibili. Il caso Baxi. (Intervista al responsabile delle risorse umane, dott.ssa Bordignon)
L‟azienda Baxi fa parte di un gruppo multinazionale olandese, la BDR Thermea. La sigla
deriva dalla fusione di diversi marchi come Baxi, DeDietrich, Remeha, Thermea, tre brand del
settore del termo-sanitario, uniti in un unico gruppo nel 2009. Il primo italiano, Remeha
olandese e la francese DeDietrich. Alcuni dati: il gruppo ha sede ad Amsterdam, ha circa 5000
dipendenti ed un fatturato di circa 1700milioni di euro. Ha sedi produttive nei principali paesi
europei, e Turchia e sedi commerciali sparse nel mondo: i principali sono in Russia, in
repubblica Ceca, in Cina ed in Argentina.
L‟origine di Baxi spa di Bassano del Grappa, è più antica del gruppo di cui fa parte -
quest‟anno compie 90 anni – ed ha quindi una storia molto più lunga e articolata. Nasce nel
1925 come “Smalteria Metallurgica Veneta”, quindi come impresa la cui produzione non
aveva niente a che fare con quella attuale. Le principali tappe evolutive sono legate
all‟acquisizione del gruppo Zanussi – a partire dagli anni ‟70 – azienda che operava nel
settore degli elettrodomestici. Volendo ampliare il suo mercato, inserendosi nel settore del
riscaldamento domestico, la Zanussi acquisisce lo stabilimento di Bassano per avviare la
produzione di caldaie e scaldabagni e lo guida per tutti gli anni ‟70 e parte degli anni „80. Da
quel momento in poi questo settore diventerà il core business dell‟azienda. A metà anni ‟80 lo
stabilimento passa ad una nuova proprietà, viene acquisito dal gruppo Ocean, un altro gruppo
italiano che in quel periodo produce lavastoviglie e lavatrici, anch‟esso interessato ad entrare
nel settore del riscaldamento. L‟azienda matura robuste competenze tecniche in questo tipo di
produzione e questo nuovo gruppo porta con sé un elevato know-how riguardo il
funzionamento dei mercati internazionali, le esportazioni, l‟accesso a mercati esteri. Nel 2000
Ocean cede lo stabilimento a Baxi, un gruppo inglese.
Per la prima volta l‟azienda passa da un gruppo italiano ad uno straniero, un gruppo
multinazionale – qual era Baxi – che permette di sperimentare nuove strategie industriali
specie in direzione dei mercati internazionali. Da quel momento si realizza un ulteriore
cambiamento sempre più spinto verso le esportazioni.
Dal punto di vista produttivo si assiste invece ad una sempre maggiore specializzazione verso
un settore produttivo – quello di proporre soluzioni climatiche per l‟ambiente domestico – che
richiede prodotti molto più sofisticati, innovativi e sostenibili, in grado di rispondere alle
89
domande specifiche dei vari mercati internazionali e competere nel settore. Con il 2009 –
siamo ai nostri giorni – Baxi UK cede lo stabilimento al gruppo olandese BDR Thermea.
Attualmente lo stabilimento Baxi di Bassano del Grappa realizza prodotti per il comfort
climatico domestico, cioè impianti e strumenti sia di riscaldamento che di climatizzazione.
Baxi spa, è l‟unico stabilimento italiano del gruppo, con settecento dipendenti e con un
fatturato di circa 280milioni di euro di cui un terzo realizzati in Italia e due terzi all‟estero.
Presso questa sede sono presenti tutte le funzioni aziendali: il consiglio di amministrazione, la
direzione generale, il settore produttivo, la distribuzione, il settore di progettazione ricerca e
sviluppo e il settore dei sistemi informativi. La rete vendita è invece in parte interna ed in
parte esterna poiché l‟azienda si affida anche ad agenti e distributori indipendenti.
La certificazione Audit Famiglia-Lavoro arriva nel 2014 come naturale conseguenza di un
percorso di politiche e interventi di welfare aziendale che procede da almeno quindici anni.
Una serie di politiche in cui è centrale la regolazione della controparte sindacale. Se per le
altre aziende abbiamo visto una programmazione ed interventi particolarmente informali o
non mediati da soggetti terzi, in questo caso, data anche la struttura aziendale e la numerosità
del dipendenti, il ruolo di mediazione e di negoziazione del sindacato come rappresentante
delle istanze dei lavoratori è imprescindibile. In particolare nella negoziazione fra i risultati di
produzione aziendale e il benessere dei lavoratori la relazione con le parti sindacali ha avuto
un rilievo importante.
I miei predecessori hanno portato sempre avanti una politica di relazioni sindacali molto presente. Vuoi
perché siamo uno stabilimento metalmeccanico, vuoi perché abbiamo una lunga storia di relazioni
sindacali, il tema del benessere in senso lato dei lavoratori contro un premio di produttività è stato
sempre un tema fondamentale delle relazioni sindacali di questa azienda. Per cui noi siamo partiti nel
1994 quando è stato definito per la prima volta l‟accordo interconfederale che prevedeva che le aziende
potevano erogare questo premio di produzione, penso che l‟allora Ocean sia stata una delle prime che ha
fatto questo premio di risultato che voleva da un lato premiare le performance dell‟azienda in termini di
flessibilità e dall‟altro la parte sindacale chiedeva delle tutele, delle agevolazioni magari degli istituti
particolari per i propri lavoratori e su questa base si sono evolute le politiche di conciliazione negli anni.
Soprattutto si assiste – nello sviluppo e nella progettazione di politiche per il benessere dei
lavoratori – al passaggio dal tema della sicurezza sul lavoro e dell‟ambiente di lavoro, al tema
della conciliazione, prima declinato come supporto – in particolare – per le madri lavoratrici –
poi declinato come programmazione per far fronte all‟invecchiamento della popolazione
lavoratrice - tema oggi centrale e in divenire.
90
Le ragioni strumentali che muovono verso l‟offerta di misure di conciliazione sono legate alla
gestione razionalizzata delle risorse umane tale da affrontare i repentini cambiamenti della
domanda internazionale. È l‟imprevedibilità del mercato globale a condizionare la gestione
aziendale proponendo sempre più forme di flessibilità dell‟organizzazione del lavoro.
Nel 94-94 e negli anni successivi, la politica di conciliazione non si chiamava così e si badava di più
alla sicurezza dei lavoratori. Poi il tema sicurezza è diventato un tema acquisito perché noi abbiamo
tutte le certificazioni: OHSAS 18000, anche sull‟ambiente abbiamo la 14000 insomma abbiamo
raggiunto i notevoli standard di rispetto di queste due materie e quindi ci si è più concentrati, anche per
l‟evoluzione della popolazione aziendale sulle politiche di conciliazione. Perché? Perché noi chiediamo
oggi ai lavoratori di essere sempre più flessibili. Noi, come tutti quanti, abbiamo un mercato talmente
poco prevedibile che ci costringe a seguire la domanda. Un giorno hai un picco e il mese dopo hai un
abbassamento, e dobbiamo modulare la produzione e tutto quello che ci va insieme, a questa domanda.
Vuoi perché facendo parte di un gruppo multinazionale sei misurato su degli obiettivi a breve e medio
termine che sono il mese, il trimestre. Dove hai tutta una serie di indicatori che riguardano il fatturato, il
risultato operativo, il magazzino che devi assolutamente raggiungere. Allora ci sono tutta una serie di
strumenti che noi mettiamo in campo dalla flessibilità al part-time, la flessibilità divisa per reparto, in
cambio la rappresentanza sindacale dice per esempio: in cambio noi vogliamo tutelare le madri che
tornano al lavoro. Quindi per esempio noi abbiamo i permessi per maternità - oltre quelli di legge,
parliamo di tutte cose che vanno oltre la legge. Per esempio quando una signora torna dalla maternità,
fino ai tre anni del bambino può lavorare ad un orario ridotto che può essere di quattro, di sei, di sette
ore. Può fare un orario differenziato, abbiamo una linea ad orario differenziato. Vuol dire che fanno
comunque otto ore ma le fanno con un orario diverso. Quindi, la pausa più corta in modo tale che
cominciano dopo, finiscono prima degli altri, riducendo la pausa in modo da permettere a coloro che ci
lavorano di portare i figli a scuola e di andare a prenderli. Con tutte le regole che ci sono per entrare in
questo gruppo. Cioè devi avere un figlio entro i tre anni o entro gli otto anni oppure i dieci, oppure se
questo numero di persone non copre tutto l‟organico della linea ci possono andare coloro che studiano o
coloro che hanno dei familiari da accudire.
È evidente come le misure di conciliazione rappresentino in questo caso - più di ogni altra
azienda studiata - uno strumento attraverso cui le parti cercano un equilibrio fra l‟efficienza e
la capacità di risposta dell‟azienda ai mercati ed il benessere dei lavoratori. Per fare questo
l‟organizzazione industriale struttura al suo interno delle linee di produzione che possano
garantire forme di flessibilità oraria. Abbiamo visto come la flessibilità – presso altre aziende
non sia proponibile per le linee di produzione, poiché produce dis-efficienze e costi troppo
elevati. Questo caso rappresenta invece una strategia organizzativa tesa a far rientrare gli
strumenti della flessibilità anche per i lavoratori in linea. Una linea impiega 25 lavoratori.
L‟azienda dispone di una linea ad orario differenziato in cui è prevista una variazione oraria in
ingresso/uscita dei lavoratori rispetto alle altre linee produttive. Orario differenziato dettato
dal soddisfare le esigenze organizzative dei genitori con figli di età scolare o prescolare. C‟è
una linea ad orario ridotto dove i lavoratori, che esprimono determinate necessità, lavorano
per sei ore otto. In questo caso si registra una riduzione di produzione rispetto al potenziale di
91
otto ore ma si tratta di un misura organizzativa dettata anche dall‟invecchiamento della
popolazione operaia.
Un'altra linea, un'altra cosa rispetto alla conciliazione è la linea a sei ore. Questa è stata fatta nell‟ultimo
accordo integrativo vagliando un po‟ l‟età media della popolazione aziendale che per noi è 43 anni,
quindi alta. Quindi abbiamo iniziato ad affrontare il tema dell‟ageing, il tema dell‟età dei lavoratori che
devono lavorare in linea di montaggio e a 60 anni puoi fare un po‟ fatica. Quindi su proposta della RSU
abbiamo fatto questa line di sei ore.
L‟azienda ha inoltre previsto otto ore di permessi annui retribuiti per i dipendenti con
patologie oncologiche, tali da favorire i regolari controlli, analisi ed accertamenti medici. Ha
invece abbandonato la prospettiva delle convenzione con asili e scuole di infanzia per almeno
tre ragioni: l‟impossibilità di convenzionarsi con strutture pubbliche per evidenti motivi di
equità di accesso ai servizi; la questione della disponibilità economica dei lavoratori.
Nonostante il sostegno economico elargito dell‟azienda come previsto dalle convenzioni, gli
asili nido sono strutture troppo costose per i dipendenti; la dimensione logistica/organizzativa:
il territorio di provenienza dei lavoratori è troppo esteso e per rispondere equamente a
determinate esigenze familiari e si dovrebbero stipulare convenzioni con un numero di
strutture eccessivo.
In passato, negli anni 2000, ci abbiamo provato [convenzioni con asili nido, ndr] ma la struttura privata
costa, quindi io azienda nonostante ti do un sostegno per la retta dell‟asilo, ma tu devi pagare di più…
poi teniamo conto che la maggioranza dei dipendenti non ha uno stipendio molto alto quindi non va in
una scuola privata. Altro fattore è stato che ... noi abbiamo una popolazione aziendale che per il 90%
abita nel raggio di 20 Km e qui la conciliazione è molto difficile, perché l‟asilo deve essere molto vicino
o dove è più comodo per tuo tragitto, dove stano i nonni, tutta una serie di fattori per cui anche
convenzionarsi con un asilo non aveva senso perché si accontentavano un gruppo di persone, ma se ne
scontentava tantissima. Così, l‟abbiamo abbandonato. Oggi non ci serve tanto perché la popolazione è
cresciuta e quindi i problemi sono altri, sono quelli che riguardano l‟assistenza di genitori o parenti
anziani che hanno bisogno.
Certamente gli interventi più robusti per il benessere dei lavoratori sono di tipo economico.
L‟azienda elargisce dei “buoni scolastici”, una somma annuale destinata ai figli dei lavoratori,
valida a tutti i livelli di istruzione, incluso il percorso universitario. Infine, di particolare
rilevanza economica è il premio di risultato, che corrisponde a 4200€, elargito annualmente
per ogni lavoratore. Una somma importante che rappresenta il raggiungimento di standard
elevati con riferimento alle prestazioni aziendali.
La conciliazione … ovviamente non è che queste cose vengono date perché ci piace, dobbiamo avere un
ritorno. Che è appunto il fatto che siamo un azienda che non ha ancora fatto un ora di cassa
integrazione, siamo un azienda che è un momento difficile, non raggiunge il budget ma comunque ha
270milioni di euro di fatturato. Questo vuol dire che questo paga. Dall‟altra parte c‟è una conciliazione
economica ancora favorevole nei confronti dei lavoratori perché ogni lavoratore prende dall‟azienda un
92
premio di risultato che è sui 4200euro l‟anno. Noi abbiamo un premio di produzione, un premio di
efficienza, un premio di qualità e il premio eco-indice. Che è un premio che va a misurare l‟indice di
conformità o meno agli audit in materia di sicurezza e ambiente.
Si tratta di benefit che vengono associati – dalla nostra interlocutrice – a condizioni di lavoro
favorevoli per i lavoratori e che rappresentano degli esiti di performance positivi per l‟azienda
ma di cui manca un indice robusto ed affidabile che possa riassumere tale relazione. Il tasso di
turnover, che è indicativo del senso di appartenenza all‟azienda, non è affidabile in questo
periodo di crisi per il mercato del lavoro ed è un indicatore che ha da sempre registrato valori
molto bassi. Tuttavia i dati di crescita aziendale risentono di condizioni di lavoro favorevoli –
legate alla sicurezza, alla qualità dell‟ambiente e alle misure di conciliazione -, condizioni che
però non possono essere disaggregate per individuare l‟apporto di ogni singolo fattore alla
crescita aziendale. Possiamo allora generalmente far convergere una condizione di lavoro
positiva alle performance aziendali.
Il senso di appartenenza all‟azienda lo vedi con il turnover. Il tasso di turnover è rasente allo zero. Ma in
questo momento non è un indicatore affidabile? Non lo era neanche in passato, ma l‟azienda ha sempre
avuto un tasso di turnover basso. Se le condizioni di lavoro, io do per scontate la sicurezza e l‟ambiente
di lavoro e che però non sono scontate in altre aziende, però da noi ci sono e sono degli standard
altissimi, ma quando parlo di conciliazione queste cose le ho superate perché per noi … sono uno
standard non possiamo prescindere da questo. In ogni integrativo c‟è un capitolo sulla sicurezza, in ogni
integrativo c‟è un capitolo sull‟ambiente. Io peno che tutte queste cose fanno sì che i lavoratori si
trovino bene nell‟azienda e l‟azienda riesca a performare. Ora se mi chiede di misurar il link fra queste
due cose, non ce l‟ho. Ho degli indicatori di efficienza, di qualità che sono riferiti al prodotto ed alla
produzione e c‟è una crescita costante, quindi c‟è un miglioramento costante. Probabilmente in futuro
bisognerà misurare qualcos‟altro, perché abbiamo raggiunto un livello tale che ... ed è costante e quello
ti dice che quella misura l‟hi sotto controllo, devi mantenerla ma adesso è il momento di andare a
misurare qualcos‟altro. Una cosa che abbiamo incominciato a fare misurando la qualità esterna. Noi la
qualità interna la misuriamo da sempre ma la qualità esterna è qualcosa di differente perché non dipende
da noi. La stiamo monitorando perché, quello che si tenta di fare è misurare tutto il processo. Non devo
essere bravo soltanto a produrre le caldaie ma devo essere bravo ad istallarle anche se questa cosa non
dipende da noi ma noi facciamo la formazione dell‟installatore.
93
3. LE PERCEZIONI DEI BENEFICI PER I DIPENDENTI E LE RISPOSTE PROFESSIONALI
(diVincenzo Marrone)
Se nel capitolo precedente il soggetto di analisi è l‟azienda (espressa attraverso la direzione
aziendale) in questo capitolo ci concentriamo sulle opinioni che i lavoratori-dipendenti hanno
maturato rispetto agli strumenti di conciliazione famiglia-lavoro. Soprattutto ci interessiamo
alle ragioni che hanno portato loro a farne richiesta e ai comportamenti ed agli atteggiamenti
che hanno maturato rispetto al loro datore di lavoro, al luogo di lavoro e rispetto al proprio
lavoro.
L‟obiettivo che si presenta in questa sezione è chiarire in che modo le misure di conciliazione
non solo si configurano come strumenti di supporto per il benessere dei dipendenti e delle
loro famiglie, ma permettono una elaborazione personale attraverso cui è possibile valutare il
valore aggiunto – in termini sociali, cognitivi, emotivi ecc. - che i lavoratori offrono
all‟azienda.
Il capitolo è articolato in due parti. Nella prima parte illustriamo i principali risultati di una
survey finalizzata a rilevare le percezioni di benessere attribuite alla fruizione di misure family
friendly da parte dei lavoratori, gli atteggiamenti, gli orientamenti le loro opinioni maturate
nei confronti di tali strumenti. In questo caso l‟analisi coinvolge altre aziende, diverse dalle
sei selezionate e finora descritte, appartenenti al territorio veneto.
Nella seconda parte, analizziamo invece le prospettive descritte dai lavoratori nelle intervista
face to face. Daremo molto spazio alle loro testimonianze dirette per cogliere le modalità con
cui la fruizione di misure di conciliazione favorisce un atteggiamento propositivo verso il
lavoro.
3.1 - La survey ed il campione
Il numero complessivo di lavoratori che hanno fruito di misure di conciliazione è pari a 647.
Il criterio utilizzato per la selezione delle aziende per questa parte di ricerca – attività curata
dall‟Osservatorio regionale sulle Politiche Familiari del Veneto - è stato la presenza di
programmi family friendattivi nelle imprese.
La survey è stata realizzata attraverso il canale web. Ogni dipendente aveva accesso al
questionario collegandosi ad un link tramite una codice che per ragioni di anonimato è stato
realizzato da un soggetto terzo, diverso dall‟azienda e dal gruppo di ricerca. Al questionario
94
hanno risposto 154 persone su un universo di popolazione di 647 unità (23%). Il tasso di
restituzione è stato inferiore alle aspettative, tuttavia, nonostante la bassa numerosità del
campione, i risultati che proponiamo possono offrire stimoli e suggerimenti di certo interesse.
Il campione di intervistati si compone di una prevalenza femminile, quasi tre quarti (il 74.7%)
di loro sono donne. Rispetto allo stato civile circa il 70% dichiara di essere coniugato e il 22%
è invece celibe o nubile. Il 7,1% dichiara di essere separato o divorziato, mentre l‟1,3%
dichiara di essere vedovo o vedova.
DENOMINAZIONE
Azienda Ospedaliera di Padova Società Nuova Società Cooperativa Sociale
Comune di Jesolo Cooperativa sociale Porta Aperta s.c.s. ONLUS
Confezioni Volpato srl Il Raggio Verde Cooperativa sociale A.R.L. ONLUS
Berner SpA Mano Amica Società Cooperativa Sociale ONLUS
Centro Servizi Sociali Villa Serena ESU DI VENEZIA
“I Piosi” Società Cooperativa Sociale Il Sestante Cooperativa Sociale a R. L. ONLUS
Una casa per l‟uomo Società Cooperativa Sociale Stireria Barin snc
Fondazione Giacomo Rumor Centro Produttività Veneto C.C.S. Consorzio Cooperative Sociali
Fineco Innovazione srl Studio Zeta di Zuccon Mauro sas
Azienda ULSS21 di Legnago Automazione Veneto srl Unipersonale
Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione SpA Energia Territorio Risorse ambientali – ETRA SpA
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona Geox SpA
Servizi Educativi Cooperativa Sociale Lowara srl Unipersonale
Baxi SpA Forum Media Edizioni srl
Castel Monte Società Cooperativa Sociale – ONLUS Acque Veronesi scarl
Telecom Italia SpA Fiore Technologies SpA
Comune di Monselice Recchia Ambulatorio Polispecialistico srl
Provincia di Padova Fairtrade TransFair Italia Soc. Coop.
Tab. 3.1 - Elenco delle organizzazioni coinvolte nella survey
Il gruppo di intervistati ha una età media di 42 anni, valore che si distribuisce fra i 26 anni del
più giovane e di 71 del più anziano10.
La quasi totalità dei rispondenti (94.8%) ha la nazionalità italiana. Un quarto di loro risiede
nella provincia di Padova (25,3%). Seguono le province di Verona, Venezia e Treviso che
registrano valori percentuali piuttosto simili (rispettivamente del: 17,5; 16,9 e 15,6%), quindi
Vicenza (10,4%), Rovigo (8,4%) e infine Belluno (5,8%).
10
E probabile che si tratti di un lavoratore in pensione che continua a svolgere una attività lavorativa integrativa
visto che dichiara di svolgere meno di dieci ore di lavoro settimanali. Il secondo lavoratore più anziano ha 60
anni.
95
Rispetto alla composizione familiare, per la maggioranza dei casi – circa i tre quarti - sono
coppie di genitori con uno o più figli. Il 13% è composto da genitori soli con figli mentre il
6,5% sono coppie senza figli. Infine, il restante 7,7% si divide fra single che vivono da soli e
persone che vivono con la loro famiglia di origine.
Se oltre il 14% degli intervistati dichiara di non aver figli, il 35,7% ne ha uno solo, il 33,8%
due e il restante 16,1% ha tre figli o più di tre. Se si considera il figlio più grande, l‟età media
è di dieci anni mentre, considerando il figlio più piccolo l‟età media scende a sette anni.
Infine, alla domanda: “Tra i membri della sua famiglia ci sono persone, anche non conviventi,
con disabilità o non autosufficienti di cui si prende cura?” il 18,8% risponde di sì, con
particolare riferimento alla presenza di anziani (14,3%).
Riguardo al livello d‟istruzione conseguito, la percentuale più elevata si registra in
corrispondenza del titolo di scuola media superiore (36,4%), seguito dalla laurea (29,2%). Il
16,2% dei rispondenti non supera la qualifica professionale e la stessa quota di intervistati
(9,1%) dichiara di aver conseguito un diploma universitario e un titolo post laurea. In linea
generale siamo di fronte ad un livello d‟istruzione mediamente elevato.
Per quanto riguarda la composizione per professione, notiamo come l‟attività di impiegato sia
quella prevalente (35%), seguita da quella di educatore professionale o di operatore di servizi
educativi (22,1%), e di operatore socio assistenziale e operatore sanitario (22%). Quindi le
figure dirigenziali (13,6%) e gli operai, generici o specializzati (7,1%).
La quasi totalità del campione ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato (94%). La
maggioranza (64,3%) ha un contratto di lavoro full time di 36-40 ore settimanali; circa un
quarto del campione (24%) ha un orario di lavoro compreso fra ventuno e trentacinque ore
settimanali; mentre l‟11,7%, di venti ore settimanali o meno.
3.2 - La percezione di benefici.
Nel questionario abbiamo chiesto ai rispondenti di indicare – in una scala con valori compresi
fra 0 e 10 – la percezione dei benefici associati all‟utilizzo di misure di conciliazione famiglia
lavoro. Queste percezioni erano rilevate attraverso affermazioni che a loro volta rimandavano
a tre differenti macro-aree di benessere: quella personale, quella lavorativa e quella familiare.
Infine, ognuna di queste dimensioni si componeva di tre sottodimensioni: la percezione di
benefici personali si configurava come percezione di benessere fisico, psichico e sociale; la
percezione di benefici lavorativi come livelli di performance o produttività, senso di
96
attaccamento all‟azienda e clima lavorativo; infine, il benessere familiare era rilevato
attraverso il benessere di coppia, quello genitoriale e le facilitazioni nella cura e nelle
relazioni parentali.
97
Variabile Stato %
SESSO M 25,3
F 74,7
STATO CIVILE Coniugato/a 69,5
Celibe/Nubile 22,1 Separato/a - divorziato/a 7,1
Vedovo/a 1,3
Età media 42,36
Dev.st 7,44
Min 26 Max 71
Quartile 25 37
Quartile 50 41 Quartile 75 47
Contratto di lavoro Indeterminato 94,2 Determinato 3,9
Progetto 1,9
Orario di lavoro Fino a 20 ore 11,7
da 21 a 35 ore 24,0
da 36 a 40 ore 64,3
Provincia di residenza Padova 25,3 Verona 17,5
Venezia 16,9
Treviso 15,6 Vicenza 10,4
Rovigo 8,4
Belluno 5,8
Composizione famigliare Coppia con uno o più figli 72,7
Genitore solo con uno o più figli 13 Coppia senza figli 6,5
Single (vivo da solo) 4,5
Vivo con la mia famiglia di origine (genitori/fratelli/sorelle) 3,2
Numero di figli nessuno 14,3 1 35,7
2 33,8
3 o più 16,1
Età figlio (considerando il più grande - N=131) Media 10,27
Dev.st 7,73 Età figlio (considerando il più piccolo - N=131) Media 7,1
Dev.st 6,58
Persone di cui prendersi cura No 81,2
Sì, anziani 14,3
Sì, adulti 2,6 Sì, minori 1,9
Titolo di istruzione conseguito Scuola dell'obbligo 4,5 Qualifica professionale 11,7
Scuola media superiore 36,4
Diploma universitario 9,1 Laurea universitaria 29,2
Titolo post laurea (master, dottorato di ricerca) 9,1
Professione Impiegato 35,0
Educatore profess. / Operatore di servizi educ. 22,1
Operatore socio assistenz. e operatore sanitario 22,0 Dirigente o carriera direttiva 13,6
Operaio 7,1
Dove non specificato, N=154
Tab. 3.2 – Alcune informazioni sul campione
98
Di seguito osserviamo i valori medi registrati per ogni singolo item delle tre macro-aree.
La percezione dei benefici da quando si utilizzano misure di conciliazione media Dev.st N
Benefici personali: g. Sono più sereno/a nell'affrontare la quotidianità 5,88 2,78 154
Benefici personali: e. Sono meno stressato/a 5,40 2,85 154
Benefici personali: l. Sono più disponibile ad ascoltare i bisogni degli altri 5,12 2,85 154
Benefici personali: h. Sono più sicuro/a di me stesso 5,10 2,89 154
Benefici personali: c. Sono più riposato/a ed energico/a 4,96 2,74 154
Benefici personali: f. Sono più riflessivo/a e giudizioso/a 4,95 2,86 154
Benefici personali: d. Mangio meglio e con maggiore equilibrio 4,55 3,01 154
Benefici personali: i. Posso coltivare di più i miei hobby 4,25 3,06 154
Benefici personali: k. Frequento di più gli amici 4,19 3,04 154
Benefici personali: b. Curo di più la mia forma fisica e il mio aspetto esteriore 4,18 2,83 154
Benefici personali: a. Mi ammalo di meno 3,97 2,96 154
Benefici personali: j. Dedico più energie al volontariato e all'associazionismo 3,09 2,87 154
Benefici lavorativi: m. Constato che l'azienda realizza in pratica i valori di cui
parla 6,51 3,36 154
Benefici lavorativi: k. Mi sento più orgoglioso di lavorare per questa azienda 6,45 3,17 154
Benefici lavorativi: d. Sono più disponibile ad andare incontro alle necessita
dell'azienda 6,20 3,06 154
Benefici lavorativi: l. Mi fido di più dell'azienda e del suo management 6,16 3,20 154
Benefici lavorativi: e. Sono più attento/a alle esigenze dei miei colleghi 6,12 2,83 154
Benefici lavorativi: g. Condivido di più il lavoro con i miei colleghi 5,96 2,84 154
Benefici lavorativi: h. Il clima di lavoro con i superiori è migliorato 5,77 3,19 154
Benefici lavorativi: a. Lavoro con più entusiasmo e professionalità 5,75 2,83 154
Benefici lavorativi: c. Raggiungo con più facilità gli obiettivi che mi sono
assegnati 5,69 2,91 154
Benefici lavorativi: f. Mi sento più libero/a di esprimere le mie esigenze ai
superiori 5,68 3,08 154
Benefici lavorativi: j. In azienda mi sento più rispettato come persona 5,65 3,22 154
Benefici lavorativi: b. Mi assento di meno dal lavoro 5,41 3,18 154
Relazione figli: a. Sono più agevolato nell'organizzare le loro giornate 6,96 2,85 122
Relazione figli: c. Sono più attento ai loro bisogni di crescita 6,83 2,88 121
Relazione figli: d. Posso seguirli maggiormente nai loro percorsi e nelle loro scelte 6,82 2,97 122
Relazione figli: e. Se mi chiamano ed hanno bisogno di me riesco a liberarmi più
facilmente dai miei impegni 6,71 2,96 120
Relazione figli: b. Li aiuto di più nelle loro attività quotidiane (vestirli, lavarli,
accompagnarli a scuola o nelle attività sportive o sociali, ecc.) 6,45 2,98 121
Rapporto familiari: d. Se mi chiamano ed hanno bisogno di me, riesco a liberarmi
più facilmente dai miei impegni 6,40 2,84 89
Rapporto familiari: c. Ho più tempo per stare con loro 6,20 2,89 85
Relazione di coppia: d. Siamo più sereni come coppia 6,13 2,71 123
Rapporto familiari: a. Mi prendo maggiormente cura di loro personalmente 5,97 2,83 86
Rapporto familiari: b. Posso organizzare meglio le persone che si prendono cura di
loro 5,83 3,02 84
Relazione di coppia: c. Abbiamo maggiori occasioni per parlare e fare nostri
progetti. 5,67 2,73 123
Relazione di coppia: a. Condividiamo maggiormente i compiti e le faccende
domestiche 5,47 2,74 121
Relazione di coppia: b. Passiamo più tempo nel fare cose insieme 5,42 2,68 123
Tab. 3.3 - Valori medi degli item sulla percezione di benefici (Scala 0-10)
99
Dai valori medi si nota come gli item su cui si registrano i punteggi più elevati sono quelli che
rimandano alle relazioni genitoriali. Ciò evidenzia la specificità delle misure di conciliazione
quali strumenti che favoriscono le relazioni di cura dei figli. Particolarmente rilevanti sono
anche i benefici che si registrano in corrispondenza della cura ed assistenza dei familiari.
Anche in questo caso i dati offrono un riscontro congruente legato alla fruizione di misure di
conciliazione: le misure di conciliazione vengono richieste per favorire l‟equilibrio con le
responsabilità di cura ed organizzazione familiare e tendenzialmente rappresentano degli
strumenti soddisfacenti.
Se guardiamo alla sfera del lavoro, particolarmente rilevanti sono i valori medi che si
registrano in corrispondenza dei benefici declinati come “riconoscimento” dei valori
aziendali, orgoglio per la propria azienda, disponibilità nei confronti dell‟azienda e fiducia
riposta in essa. Dati che ci confortano su una primissima associazione positiva fra fruizione di
misure di conciliazione e atteggiamento professionale.
Per quanto riguarda il benessere personale notiamo come gli unici indicatori in cui si
registrano valori leggermente superiori alla soglia media di scala “5” riguardano i benefici di
natura psicologica: la serenità nella quotidianità, la disponibilità e l‟ascolto degli altri, la
sicurezza di sé stessi. Al contrario, le dimensioni in cui gli item non superano la soglia media
sono quelle che riguardano il benessere personale fisico e quello sociale. Ciò sta ad indicare,
in linea del tutto generale che, gli intervistati associano le misure di conciliazione al benessere
personale fisico e sociale molto meno di quanto non facciano con le altre dimensioni rilevate.
Per semplificare11 le accezioni di “benefici percepiti” riducendo il numero degli item abbiamo
calcolato la media delle sottodimensioni e delle macro-aree in modo congruente con le nostre
ipotesi di ricerca. Questo ci permette di gestire con maggiore semplicità i dati di cui
disponiamo.
È particolarmente evidente (tab.3.4) come i benefici percepiti nel rapporto genitoriale
configurino una dimensione che più “sensibilmente” si associa alla fruizione di misure di
conciliazione; seguita dal senso di attaccamento all‟azienda; quindi dalla maggiore possibilità
di cura nei confronti di familiari.
Inoltre è interessante notare come le sfere della percezione dei benefici siano fra loro
fortemente correlate (tab.3.5). Ciò sta ad indicare come i benefici percepiti si intreccino fra
11
Una tecnica particolarmente efficace per questo scopo sarebbe stata l‟analisi fattoriale in componenti
principale, ma data la bassa numerosità del campione si è preferito procedere con il calcolo della media.
100
loro e come non sia possibile distinguere dove inizia e dove termina l‟influenza di una sfera
sulle altre due12. Tuttavia, nel prossimo paragrafo cercheremo di individuare possibili
dinamiche – ipotizzando direzioni di causa effetto - attraverso cui testiamo l‟incidenza che il
benessere familiare e personale ha rispetto alla sfera lavorativa.
Macroaree dei benefici percepiti media Dev.st. N
Benessere personale 4,64 2,40 154
Benessere fisico
[Mi ammalo di meno, Curo di più la mia forma fisica e il mio aspetto esteriore, Sono
più riposato/a ed energico/a, Mangio meglio e con maggiore equilibrio]
4,42 2,60 154
Benessere psichico
[Sono meno stressato/a, Sono più riflessivo/a e giudizioso/a, Sono più sereno/a
nell'affrontare la quotidianità, Sono più sicuro/a di me stesso]
5,33 2,54 154
Benessere sociale
[Posso coltivare di più i miei hobby, Dedico più energie al volontariato e
all'associazionismo, Frequento di più gli amici, Sono più disponibile ad ascoltare i
bisogni degli altri]
4,16 2,61 154
Benessere familiare 6,17 2,48 141
Benessere figli
[Sono più agevolato nell'organizzare le loro giornate, Li aiuto di più nelle loro
attività quotidiane, Sono più attento ai loro bisogni di crescita, Posso seguirli
maggiormente nei loro percorsi e nelle loro scelte, Se mi chiamano ed hanno
bisogno di me riesco a liberarmi più facilmente dai miei impegni]
6,74 2,76 123
Benessere coppia
[Condividiamo maggiormente i compiti e le faccende domestiche, Passiamo più
tempo nel fare cose insieme, Abbiamo maggiori occasioni per parlare e fare nostri
progetti, Siamo più sereni come coppia]
5,65 2,53 124
Benessere familiari
[Mi prendo maggiormente cura di loro personalmente, Posso organizzare meglio le
persone che si prendono cura di loro, Se mi chiamano ed hanno bisogno di me,
riesco a liberarmi più facilmente dai miei impegni, Ho più tempo per stare con loro]
6,01 2,81 90
Benessere lavorativo 5,95 2,78 154
Produttività
[Lavoro con più entusiasmo e professionalità, Mi assento di meno dal lavoro,
Raggiungo con più facilità gli obiettivi che mi sono assegnati, Sono più disponibile
ad andare incontro alle necessita dell'azienda]
5,76 2,82 154
Clima aziendale
[Sono più attento/a alle esigenze dei miei colleghi, Mi sento più libero/a di
esprimere le mie esigenze ai superiori, Condivido di più il lavoro con i miei colleghi,
Il clima di lavoro con i superiori è migliorato]
5,88 2,83 154
Attaccamento azienda
[In azienda mi sento più rispettato come persona, Mi sento più orgoglioso di
lavorare per questa azienda, Mi fido di più dell'azienda e del suo management,
Constato che l'azienda realizza in pratica i valori di cui parla]
6,19 3,02 154
Tab.3.4 – Le macroaree dei benefici percepiti
12
Abbiamo proposto un modello analitico e tecnico per affrontare questo aspetto in: Prandini, Macchioni,
Marrone 2014
101
BenPers BenFis BenPsic BenSoc BenLav Produtt.
Clima Attaccam BenFam BenCopp BenFig
Ben.fisico ,941
Ben.psichico ,927 ,825
Ben.sociale ,917 ,794 ,758
Ben.lavorativo ,836 ,761 ,850 ,721
Produttività ,824 ,749 ,846 ,700 ,962
Clima aziendale ,814 ,732 ,829 ,707 ,970 ,915
Attaccamento azienda ,778 ,716 ,779 ,674 ,955 ,865 ,886
Ben.familiare ,694 ,596 ,711 ,615 ,755 ,716 ,680 ,761
Ben.coppia ,702 ,610 ,677 ,640 ,741 ,707 ,674 ,746 ,893
Ben.figli ,682 ,586 ,702 ,591 ,767 ,728 ,704 ,770 ,954 ,743
Ben.familiari ,733 ,623 ,732 ,686 ,747 ,708 ,701 ,737 ,919 ,747 ,853
Tab.3.5 – I benefici percepiti. Correlazioni, r di Pearson. Tutte le correlazioni sono significative al livello 0,01
3.3 - Le misure di conciliazione utilizzate
Nel questionario abbiamo proposto un elenco di misure di conciliazione famiglia-lavoro che
gli intervistati dovevano indicare nel caso in cui li avessero utilizzati nell‟ultimo anno. La
flessibilità organizzativa del lavoro (che include voci quali l‟orario di lavoro flessibile, il part
time e forme di congedi parentali) è una categoria di strumenti utilizzata da oltre i tre quarti
della popolazione d‟intervistati. Seguono i servizi disponibili per il dipendente e per la sua
famiglia (per esempio gli asili nido, i servizi per la prima infanzia, i servizi per il risparmio
del tempo); quindi gli strumenti di informazione, orientamento e formazione al tema della
conciliazione famiglia-lavoro; la strumentazione e le tecnologie informatiche atte a facilitare
l‟equilibrio fra vita famigliare e vita professionale; infine gli aiuti monetari elargiti
direttamente ai dipendenti ed alle loro famiglie.
Categorie di misure di conciliazione N %
16a. Flessibilità dell'organizzazione del lavoro 118 76,6
16b. Utilizzo di tecnologie informatiche 69 44,8
16c. Aiuti monetari e benefit 39 25,3
16d. Servizi per il dipendente e la sua famiglia 89 57,8
16e. Formazione-Informazione e sensibilizzazione 85 55,2
Tab.3.6 – Fruizione di misure di conciliazione aggregate.
È importante chiedersi se l‟utilizzo di specifiche misure di conciliazione abbia rilevanza
rispetto ai benefici percepiti. Affrontiamo questo aspetto illustrando e commentando la
tab.3.7. in cui per ogni dimensione di benessere (in riga) abbiamo tre colonne che indicano
rispettivamente:
102
la differenza dei punteggi medi dei benefici percepiti per l‟utilizzo o meno di quella
misura di conciliazione. Calcola la differenza, per esempio, fra il punteggio medio del
benessere psicologico di chi utilizza misure di flessibilità e il punteggio medio di chi non
utilizza misure di flessibilità. Da questo dato rileviamo come l'utilizzo di misure di
conciliazione sia sempre associato a valutazioni superiori dei benefici sperimentati rispetto al
non utilizzo (nella tabella i valori riportati hanno tutti segno positivo).
La seconda colonna riguarda il test F di Fischer che esprime l‟affidabilità e la
significatività di quella differenza fra medie di gruppi.
Infine la colonna dei punteggi standardizzati (z) ci permette di confrontare non solo i
valori in colonna ma anche quelli in riga. Con gli z_score, possiamo cioè standardizzare i dati
al punto da vedere quale fra i gruppi di strumenti di conciliazione incide maggiormente nel
discriminare i benefici di una determinata dimensione. Per esempio possiamo vedere come la
flessibilità, non solo incide significativamente sulla produttività, ma è quello strumento che
incide più degli altri su tale aspetto.
Guardiamo nello specifico le singole classi di pratiche di conciliazione partendo dalla
flessibilità.
a- Notiamo come le dimensioni in cui la differenza nella percezione dei benefici è
particolarmente rilevante riguardino la sfera dei familiari da accudire, la relazione genitoriale
cioè il rapporto con i figli e due dimensioni della sfera lavorativa: il senso di produttività ed il
clima aziendale.
b- Rispetto alla strumentazione tecnologica informatica - sebbene siano in pochi ad
utilizzare tali dispositivi - le distanze sembrano aumentare. In particolare sono proprio le
percezioni di benessere a livello familiare, quelle che risentono maggiormente dell'utilità
nell'accesso a tali strumenti.
c- I benefit di natura economica non sembrano discriminare le dimensioni di percezione
dei benefici ad eccezione del benessere dei figli. È probabile che tale tendenza risenta di
quegli strumenti classici ma sempre efficaci come le borse di studio erogate dalle aziende per
i figli dei dipendenti.
d- I servizi si configurano come misure di conciliazione che incidono significativamente
nelle dinamiche familiari specie per quanto concerne i familiari che hanno bisogno di cura ed
attenzioni specifiche. Ma sono anche associati ad un senso di attaccamento all'azienda.
103
e- Infine, le attività di formazione, informazione e sensibilizzazione al tema della
conciliazione non discriminano significativamente le percezioni di benessere, anche se è
rilevante notare come la dimensione che appare più sensibile a tali strumenti è la relazione di
coppia. Possiamo pensare che l'attività di informazione e di diffusione della cultura della
conciliazione, muova atteggiamenti e comportamenti, sensibilità ed attenzioni che si
trasferiscono e manifestano in famiglia fra i partner.
104
Flessibilità Tecnologia Benefit economici Servizi Informazione e formazione
Δ F z Δ F z Δ F z Δ F z Δ F z
Ben. fisico 0,7 2,05 -1,47 0,73 3,11 -1,88 0,41 0,74 -0,68 0,51 1,43 -1,42 0,19 0,21 -1,88
Ben. psichico 1,07 5,01* -0,31 1,08 7,12** -0,82 0,57 1,46 0,05 0,7 2,91 -0,89 0,82 4,04* 0,64
Ben. sociale 0,89 3,26 -0,88 1,14 7,52** -0,64 0,36 0,54 -0,91 0,71 2,78 -0,86 0,55 1,65 -0,44
Produttività 1,47 7,80** 0,94 1,54 12,17** 0,58 0,41 0,62 -0,68 1,01 4,92* -0,03 0,86 3,64 0,80
Clima aziendale 1,46 7,67* 0,91 1,5 11,38** 0,45 0,48 0,83 -0,36 0,83 3,26 -0,53 0,8 3,07 0,56
Attaccamento az. 1,01 3,16 -0,50 1,24 6,67* -0,33 0,58 1,07 0,09 1,43 8,82** 1,14 0,49 1,00 -0,68
Ben. coppia 0,92 2,72 -0,78 1,49 11,48** 0,42 0,65 1,44 0,41 1,15 6,43* 0,36 0,96 4,54* 1,20
Ben. figli 1,38 4,96* 0,66 1,82 14,79** 1,42 1,1 3,70 2,45 1,32 6,76* 0,83 0,48 0,88 -0,72
Ben. familiari 1,6 4,72* 1,34 1,6 7,87** 0,76 0,46 0,44 -0,45 1,51 6,61* 1,36 0,83 1,98 0,68
Ben. familiare 1,18 3,86 1,69 6,64* 0,8 1,01 1,26 2,69 0,73 1,79
Ben. lavorativo 1,31 6,38* 1,42 10,65** 0,49 0,90 1,09 5,94 0,72 2,56
Ben .personale 0,88 5,45* 0,98 18,23** 0,45 2,81 0,64 9,08** 0,52 3,02
**p<0,01; *p< 0,05
Tab.3.7– Misure di conciliazione e benefici percepiti nella sfera personale, lavorativa e familiare
105
3.4 - Orientamenti e atteggiamenti verso il tema e gli strumenti di conciliazione famiglia
lavoro
Con il questionario abbiamo anche rilevato alcuni orientamenti degli intervistati rispetto al
tema del welfare aziendale, con particolare riguardo alle misure di conciliazione, secondo
diverse angolature. Per fare questo abbiamo costruito cinque forced choice statement
chiedendo agli intervistati di collocarsi lungo un continuum i cui poli sono espressi da
affermazioni contrapposte (tab.3.8).
Affermazione 1 Affermazione 2 Dimensione Media Dev.st.
In questo momento di crisi le
aziende devono investire
esclusivamente nei mezzi di
produzione
In questo momento di crisi le
aziende devono continuare ad
investire sulla conciliazione
famiglia lavoro
Capitale fisico
VS
Capitale umano
7,37 2,63
E' compito esclusivo dello
Stato fornire servizi di welfare
per tutti. Le imprese hanno
altri scopi e funzioni
Non è compito esclusivo dello
Stato fornire servizi di welfare
per tutti. È giusto che anche le
imprese facciano la loro parte
Welfare State
VS
Welfare Aziendale
7,06 2,89
Le misure di conciliazione
sono uno spreco di risorse per
le aziende
Le misure di conciliazione
sono un investimento in risorse
Spreco di risorse
VS
Investimenti
8,68 1,91
Le misure di conciliazione
servono ad aumentare
esclusivamente la produttività
dei lavoratori
Le misure di conciliazione
servono ad aumentare la qualità
di vita dei dipendenti
Produttività
VS
Qualità vita
7,55 2,34
Le misure di conciliazione
sono soltanto pubblicità per le
azienda
Le misure di conciliazione
aumentano il senso di
appartenenza all'aziende
Immagine azienda
VS
Appartenenza
8,25 2,06
N=154
Tab.3.8 – Orientamenti verso il tema della conciliazione e del welfare aziendale
a) La prima coppia di affermazioni rileva un‟opinione riguardo la rilevanza degli
investimenti aziendali in funzione del capitale fisico/strumentale o in quello umano. Il valore
medio registrato, superando la soglia media di scala “5” rileva come gli intervistati tendano a
dare prevalenza al secondo tipo di investimenti. Appare rilevante come – secondo gli
intervistati - in un periodo di crisi economica sia necessario investire in capitale umano con
riferimento alle misure di conciliazione.
b) La seconda coppia di affermazioni rileva la contrapposizione fra l‟accordo ad un
orientamento esclusivo dello Stato nell‟offerta di politiche e di servizi sociali ad un
atteggiamento concorde sul ruolo che le aziende possono assumere in termini di welfare
aziendale. Anche in questo caso i rispondenti sono maggiormente orientati verso la seconda
posizione. Trovano cioè importante il carattere sussidiario del welfare aziendale.
106
Le ulteriori tre coppie di affermazioni rilevano con maggiore specificità il significato e
l‟opinione che gli intervistati hanno delle misure di conciliazione famiglia-lavoro.
c) Il primo caso rileva una dimensione economica delle misure di conciliazione,
compresa in una valutazione che va dall‟essere uno spreco di risorse all‟essere un
investimento. Il dato, abbondantemente superiore al valore soglia 5, indica che i rispondenti
giudicano le misure di conciliazione come degli investimenti più che dei costi per le aziende.
d) Nel secondo caso si rileva l‟utilità delle misure ipotizzando una contrapposizione fra i
vantaggi pro-azienda e quelli pro-dipendenti. La prima affermazione tende a evidenziare
l‟aumento degli sforzi e della produttività dei lavoratori, la seconda evidenzia invece le utilità
per i dipendenti in termini di migliore qualità della vita. Generalmente le misure di
conciliazione sono intese come strumenti per migliorare la qualità della vita dei dipendenti
più che la produttività dei lavoratori a favore delle imprese.
e) Infine, le ultime due affermazioni contrapposte distinguono la funzione simbolica.
L‟immagine dell‟azienda ed i vantaggi che ne deriverebbero, da una parte e dall‟altra il senso
di appartenenza dei dipendenti. In questo caso i rispondenti rilevano una particolare efficacia
delle misure di conciliazione rispetto al senso di attaccamento aziendale.
Una prima valutazione, che emerge dalle affermazioni contrapposte, indica una prospettiva
ottimistica delle misure family friendly. Tutti gli indicatori utilizzati rilevano una
predisposizione o consapevolezza da parte dei dipendenti della “utilità” di tali pratiche sia per
loro che per le stesse aziende.
A conferma degli atteggiamenti dei dipendenti, rispetto alle misure family friendly, abbiamo
chiesto di indicare una preferenza fra l‟implementazione e/o l‟incrementi di misure di
conciliazione e maggiori incentivi economici secondo la seguente formulazione: “A parità di
risorse che l’azienda potrebbe investire, dove preferirebbe che l'azienda le investisse?”.
L‟output mostra come il 61% dei rispondenti è più favorevole alle misure di conciliazione a
fronte del 39% che preferirebbe un corrispettivo aumento di stipendio. Questo dato ci sembra
di particolare interesse vista l‟attuale situazione economica in cui versa la maggior parte delle
famiglie italiane. Ci saremmo infatti aspettati una prevalenza di preferenze per incrementi di
retribuzioni salariali. Al contrario, la fruizione di determinati servizi e misure – come
vedremo nel prossimo capitolo - sembra essere un importante strumento di supporto familiare.
107
A parità di risorse che l’azienda potrebbe investire, dove preferirebbe che l'azienda le investisse? %
Ulteriori misure di conciliazione 61
Corrispettivo stipendio per i dipendenti 39
Tab.3.9 – Preferenza fra misure di conciliazione e corrispettivo aumento salariale
Particolare rilevante si evidenzia quando chiediamo di indicare una preferenza rispetto alla
possibilità di incrementare gli incentivi legati al tema della conciliazione e del supporto alle
famiglie, secondo la seguente formulazione: “Quale fra i seguenti servizi, la sua azienda
dovrebbe potenziare?”. In questo caso gli incentivi preferiti dagli intervistati sono di natura
economica che possono realizzarsi tramite borse di studio, bonus, voucher ecc. Sembra un
dato in controtendenza rispetto al precedente ma tale incongruenza – a parere di chi scrive – è
solo “apparente” o di natura aritmetica: gli incentivi economici registrano la percentuale più
elevata perché le voci dei servizi sono molteplici e diversificate. Se i servizi fossero aggregati
in un‟unica classe, supererebbero di molto la percentuale degli incentivi economici13
.
È inoltre interessante notare come oltre un quinto della popolazione intervistata vorrebbe
avere maggiore possibilità di fruire di servizi dell‟organizzazione dell‟orario di lavoro. Questo
sta ad indicare che, nonostante la flessibilità dell‟organizzazione lavorativa sia lo strumento
più utilizzato, restano ampi margini entro cui elaborare programmi ed iniziative che vadano
verso questa direzione.
Quale fra i seguenti servizi, la sua azienda dovrebbe potenziare? %
Incentivi economici, in forma di borse di studio, bonus, voucher etc. 25,3
Servizi per l'organizzazione degli orari di lavoro 21,4
Servizi per la prima infanzia, da 0 a 3 anni 12,3
Servizi per i bambini dai 4 ai 10 anni 11,0
Servizi destinati ai familiari che necessitano di assistenza 9,7
Servizio di risparmio del tempo 9,7
Servizi per la cura del proprio benessere psico-fisico 8,4
Servizi per i ragazzi, dagli 11 ai 18 anni 1,9
Tab.3.10 – la richiesta di potenziamento degli strumenti di conciliazione.
Infine, un ulteriore indicatore sugli atteggiamenti verso le misure di conciliazione è fornito
dalla seguente condizione che abbiamo sottoposto agli intervistati: “Pensando alla sua
giornata tipo, quale fra le seguenti risorse ritiene determinante e prevalente nel favorire la
conciliazione fra gli impegni familiari e quelli lavorativi?”.
13
Le categorie dei servizi per la prima infanzia, per bambini e per ragazzi, se aggregate, equivalgono al valore
percentuale degli incentivi economici.
108
Pensando alla sua giornata tipo, quale fra le seguenti risorse ritieni determinante e prevalente nel
favorire la conciliazione fra gli impegni familiari e quelli lavorativi? %
La presenza di misure di welfare aziendale promosse dalle imprese. 33,8
La presenza di una rete familiare disposta ad aiutare. 28,6
La presenza di adeguati servizi sul territorio 22,1
L‟aiuto proveniente dal partner 15,6
Tab.3.11 – Fattori determinanti per la conciliazione
È interessante notare come – sorprendentemente – la maggior parte degli intervistati trovi le
misure di welfare aziendale come le più “determinanti” nel favorire la conciliazione. Segue la
rete familiare e i servizi istituzionali territoriali. L‟aiuto proveniente dal partner è soltanto
l‟ultima delle possibilità indicate. È probabile che tali tendenze derivino da una questione di
genere visto che la maggior parte degli intervistati è di sesso femminile.
Complessivamente, questi risultati sugli atteggiamenti e gli orientamenti degli intervistati,
restituiscono l‟immagine di un gruppo di lavoratori che fruisce di varie misure di
conciliazione che percepisce come importanti per sperimentare vantaggi in forma di benessere
familiare, lavorativo e personale. Percezioni che sono riscontrate nella opportunità di
incrementare ulteriormente tali interventi.
3.5 - Le dinamiche del benessere
Se finora abbiamo illustrato le tendenze generali che emergono dai dati, ora cercheremo di
sviluppare un percorso di ricerca – e di interpretazione - che ci permetta di capire alcune
dinamiche interne alla percezione ed elaborazione del benessere. Secondo le ipotesi della
nostra ricerca e della letteratura che finora abbiamo presentato, le misure di conciliazione
incidono positivamente nel regolare la riduzione dei conflitti familiari e del benessere
personale con la produttività. Data tale premessa ipotizzeremo un nesso “causale” che lega
queste dimensioni.
Ben. Lavorativo
(a) Produttività
(b) Clima aziendale
(c) Attaccamento az.
(d)
Ben. familiare ,318*** ,249*** ,196*** ,454*** Ben. fisico ,135*** ,097*** ,083*** ,202*** Ben. psichico ,473*** ,565*** ,534*** ,268*** Ben. sociale ,033*** ,012*** ,090*** -,006*** R
2 = 0,631
N = 141 ***p<0.01; **p<0,05
Tab.3.12 - Come le sfere dei benefici personali e familiari incidono sulla sfera del benessere lavorativo.
Regressione lineare multipla, coefficienti β
109
Tecnicamente abbiamo utilizzato un modello di regressione lineare per valutare il grado di
influenza delle variabili indipendenti su quella dipendente. Dalla tabella 3.12 (a) emerge come
il benessere psichico ed il benessere familiare siano i fattori che maggiormente “riproducono”
la variazione del fattore “benessere lavorativo”. Il benessere percepito a livello fisico incide
debolmente mentre quello sociale non ha alcuna rilevanza. Questo risultato ci porta a
considerare che, se le misure di conciliazione incidono sul benessere psicologico dei
dipendenti e su quello delle relazioni familiari, sarà più probabile che gli stessi lavoratori
sperimenteranno un maggiore benessere o agiatezza rispetto al campo professionale. Una
prima evidenza empirica che ci conforta sulla presenza della “influenza” della dimensione
personale e familiare su quella professionale.
Nella costruzione degli indici abbiamo presentato tre dimensioni differenti che compongono il
benessere lavorativo e che abbiamo indicato con le espressioni di: produttività, clima
aziendale senso di attaccamento all‟azienda. Vediamo ora se ed in che modo queste
dimensioni sono influenzate dai fattori del benessere personale e familiare e se ripresentano le
stesse dinamiche del modello generale (a).
Se osserviamo i fattori della produttività (b) e quello del clima aziendale (c) notiamo come, in
entrambi i casi, il predittore più rilevante sia il benessere psichico. Come nel modello
precedente, percepire maggiori benefici a livello mentale ed emotivo favorisce il senso di
efficacia nel lavoro (produttività) e migliora il rapporto con i colleghi ed i superiori (clima
aziendale). Più debole ma ancora significativa è l‟incidenza del benessere familiare. Ciò
significa che, in entrambi i casi, i migliori rapporti vissuti e sperimentati in famiglia con
l‟utilizzo di pratiche di conciliazione, favoriscono atteggiamenti virtuosi verso il lavoro e
l‟ambiente di lavoro. Il benessere fisico e quello sociale continuano a non essere rilevanti.
Differente è lo scenario che ci si prospetta guardando all‟indice dell‟attaccamento aziendale
(d). In questo caso i benefici sperimentati a livello psicologico, pur rimanendo rilevanti
incidono relativamente meno rispetto ai modelli precedenti ed a quello generale. Assume
rilevanza la percezione di benefici sperimentati a livello fisico, ma, soprattutto, diventa
preponderante l‟effetto dei benefici sperimentati a livello familiare. Questo fattore diventa il
più rilevante nel riprodurre la varianza della variabile dell‟attaccamento aziendale.
Possiamo proporre un‟interpretazione ed una lettura di questa tabella cercando i significati in
profondità, che trascendono i dati statistici. Nei primi due casi (clima e produttività)
assistiamo ad una “ri-generazione” del benessere psichico che supporta le attività lavorative e
110
gli atteggiamenti verso l‟ambente di lavoro. In questo caso le misure di conciliazione sono
risorse per il benessere mentale, emotivo e di equilibrio psichico. Possono – come vedremo
con le interviste in profondità – ridurre il carico di stress, le preoccupazioni per gli altri
contesti non lavorativi e le distrazioni che ne derivano e, per questo, facilitano la qualità del
lavoro e la costruzione di un clima aziendale propositivo e più agevole. Possiamo sintetizzare
dicendo che le misure family friendly regolano la relazione fra benessere lavorativo e il
benessere personale attraverso la leva del benessere e dell‟equilibrio psichico.
Differente è la prospettiva del senso di attaccamento all‟azienda. In questo caso non abbiamo
più una mera strumentalità delle misure di conciliazione ma una dinamica decisamente più
profonda che rimanda ad un legame simbolico ed affettivo. Le misure di conciliazione, in
questo caso, mediano il rapporto fra due mondi: quello della famiglia (luogo simbolico
affettivo per antonomasia) e quello dell‟azienda (che - non a caso - in molte interviste è
considerata una seconda famiglia). Le misure di conciliazione, quando agiscono
significativamente nel permettere la “cura” familiare e personale e nel favorire migliori
rapporti di coppia, genitoriali e parentali, comportano la genesi di dinamiche altrettanto
simboliche ed affettive nei confronti del luogo di lavoro. La dimensione trasversale che
attraversa questa relazione possiamo definirla come “della cura” intesa come farsi carico,
prendersi cura, aver cura ecc. Queste differenti prospettive hanno bisogno di riflessioni
importanti cui è possibile accedere attraverso una ricerca qualitativa, che illustriamo nei
prossimi paragrafi.
3.6 - La relazione indiretta fra produttività e benefici nelle relazioni familiari
Molta letteratura pone l‟accento alla relazione esistente fra la produttività, l‟elaborazione dei
conflitti famigliari e i migliori rapporti di cura ed organizzativi dovuti alle misure di
conciliazione. Se in linea di principio tale relazione può sembrare data ed ovvia, non
possiamo assumerne una direzione lineare. Detto in altri termini, non tutte le aziende possono
vedersi incrementare la produttività con l‟introduzione delle misure di conciliazione che
migliorano i rapporti familiari.
Nel nostro lavoro – sebbene con i limiti della numerosità del campione – abbiamo indagato
tale relazione integrando il modello già esposto con uno in cui re-introduciamo due indici
importanti per la produttività: il clima aziendale e l‟attaccamento all‟azienda (tab.3.13). Così
111
abbiamo una sfera endogena rispetto alla produttività (clima aziendale e attaccamento
all‟azienda) e sfere esogene alla produttività (benessere familiare e benessere personale).
Come già visto, il benessere psichico e quello sperimentato a livello familiare hanno una
incidenza importante rispetto alla produttività. Quando invece inseriamo nel modello analitico
le variabili indipendenti del clima e dell‟attaccamento aziendale, vediamo come questi ultimi
fattori riducano l‟effetto del benessere psichico sulla produttività e annullino quello del
benessere familiare. Ciò sta ad indicare che la relazione fra produttività e benessere familiare
non è diretta ma è regolata dagli altri due fattori.
Dagli output di questi nuovi modelli emerge come il clima aziendale ed il senso di
attaccamento all‟azienda configurino due paradigmi differenti nella relazione che si genera fra
produttività e benessere familiare.
Sembra, infatti, che il clima aziendale incida sulla produttività con delle logiche proprie che
prescindono dal benessere familiare. La relazione è tutta interna alla sfera del lavoro ed è in
parte influenzata dal benessere psicologico individuale che partecipa a tali dinamiche.
Al contrario, il senso di attaccamento all‟azienda lega il benessere familiare alla produttività
del lavoratore. È possibile notare, infatti, come il benessere familiare nonostante
l‟introduzione delle due variabili della sfera lavorativa (clima e produttività) mantenga
un‟incidenza rilevante per l‟attaccamento aziendale.
Questa relazione conferma il carattere regolativo specifico dell‟attaccamento aziendale, e
quindi di una dimensione simbolica ed affettiva, nella relazione fra benessere familiare e
produttività. Se la produttività è influenzata certamente dal buon clima aziendale e da una
condizione psichica più serena ed equilibrata, è anche influenzata dal benessere familiare non
direttamente ma attraverso la sperimentazione di un‟esperienza affettiva e simbolica verso
l‟azienda. L‟attaccamento all‟azienda è parte integrante di questa esperienza, condivide cioè
lo stesso spazio semantico (che abbiamo detto essere quello della cura).
Le misure di conciliazione volte al benessere familiare e personale possono certamente
favorire la cura e l‟organizzazione della vita familiare ma non necessariamente incidono sulla
produttività. Possono trasformarsi in vantaggi per l‟azienda in termini di produttività e di
qualità del lavoro realizzato, di efficienza ed efficacia nel lavoro, quando si ri-genera un senso
di attaccamento, appartenenza e fiducia nella propria azienda.
112
Produttività Clima azienda Attaccamento
Benessere familiare 0,080*** -0,015*** 0,309***
Benessere fisico 0,024*** -0,044*** 0,142***
Benessere psichico 0,240*** 0,145*** -0,109***
Benessere sociale -0,036*** 0,087*** -0,055***
Produttività - 0,507*** 0,178***
Clima aziendale 0,538*** - 0,517***
Attaccamento 0,140*** 0,384*** - R
2 0,84 0,85 0,80
N =141 ***p<0.01; **p<0,05
Tab.3.13 - Come la dimensione della produttività individuale è influenzata dagli altri fattori. La relazione spuria
con il benessere familiare. Regressione lineare multipla, coefficienti β
Fig. 3.1 – La “relazione di cura”, fra senso di attaccamanto all‟aziedna e benessere familiare.
113
3.7 - Fra conciliazione e produttività. Elaborazioni e percezioni dei lavoratori.
Dalla survey emerge come le misure di conciliazione non comportino direttamente una
maggiore produttività ma siano leve che abilitano/disabilitano meccanismi regolativi di natura
sociale, psicologica e culturale. Le sfere entro cui possiamo sintetizzare tali dinamiche
regolative sono quindi quelle del “clima aziendale” e del “senso di attaccamento”. In sintesi,
le misure di conciliazione famiglia lavoro incidono sulla produttività mediante queste due
sfere. La prima ha un carattere prevalentemente sociale e comunicativo e si “esaurisce”
nell‟ambiente del lavoro e nella relazione con quello della personalità. La seconda rimanda
invece a dimensioni psicologiche, valoriali e simboliche, quindi culturali e coinvolge – per
questo – anche l‟ambiente familiare (con la semantica della cura). Ricorrendo al classico
modello AGIL possiamo rappresentare la nostra prospettiva come segue:
A - le misure di conciliazione sono mezzi, risorse abilitate per raggiungere determinati
obiettivi;
G - gli obiettivi sono quelli di una migliore qualità di vita dei lavoratori e di vantaggi per le
aziende in termini di produttività e performance, favorite da:
I - clima aziendale, che rimanda alle logiche sociali e comunicative esplicite o tacite interne
all‟azienda;
L - attaccamento aziendale, espressione di una cultura d‟impresa - che viene trasmessa e
socializzata - a cui partecipano i lavoratori, fondata su dinamiche simboliche, valoriali ed
affettive.
Fig.3.2- Il ruolo regolatore del clima aziendale e del senso di attaccamento, fra misure di conciliazione e
produttività
114
Dobbiamo quindi chiederci in che modo le misure di conciliazione favoriscono i processi di
attaccamento all‟azienda e di costruzione di un clima aziendale propositivo e come questi
permettano a loro volta di realizzare maggiore efficienza ed efficacia nei processi produttivi.
Per elaborare queste dinamiche proponiamo un percorso di ricerca non standard, affidandoci
all‟analisi dei contenuti delle interviste face to face svolte presso le sei aziende coinvolte nella
ricerca. Il metodo narrativo può aiutarci più di quello statistico a qualificare tali dinamiche.
Abbiamo intervistato complessivamente ventotto lavoratori14
. Tuttavia le testimonianze
raccolte saturano abbondantemente i contenuti dell‟oggetto di ricerca e altre interviste
avrebbero presumibilmente apportato scarse informazioni aggiuntive ai temi emergenti.
In questa sezione non separeremo le interviste in base all‟azienda di appartenenza ma le
tratteremo unitariamente, individuando accezioni ricorrenti dell‟oggetto di ricerca, momenti di
continuità e divergenze nelle percezioni, nelle scelte e nelle motivazioni degli intervistati con
riferimento all‟utilizzo di misure di conciliazione e valutazioni della propria qualità
produttiva.
Le sfere del cima aziendale e quella del senso di appartenenza, non vanno intese come
rigidamente separate ma come dimensioni fra loro interrelate. Il clima aziendale può favorire
lo sviluppo del senso di appartenenza così come quest‟ultimo aspetto può a sua volta generare
un migliore clima aziendale. Se separiamo i due aspetti è solo per ragioni analitiche. C‟è un
secondo criterio che ci permette di definire le due sfere, e tale criterio si basa prevalentemente
sulla presenza dell‟interazione sociale. Il clima aziendale prevede relazioni sociali – quindi la
presenza di altre persone con cui relazionarsi – mentre il senso di attaccamento può anche
prescindere dalla relazione sociale ed “esaurirsi” in dinamiche psicologiche, emotive e
simboliche. Per esempio un lavoratore autonomo può percepire un senso di attaccamento per
il proprio lavoro sulla base di elaborazioni personali ma – finché lavora da solo - non può
sperimentare né parlare di un clima aziendale.
Così possiamo individuare le componenti del clima aziendale nei caratteri comunicativi
orizzontali e verticali, nell‟intesa fra colleghi, nell‟empatia. Caratteristiche queste che
favoriscono la fluidità organizzativa delle attività di lavoro.
Riassumiamo invece con l‟espressione di “senso di attaccamento” quelle dimensioni che
coinvolgono emotivamente il lavoratore rispetto al proprio lavoro ed al luogo di lavoro. Per
14 Due aziende – per ragioni legate ai processi produttivi – non hanno concesso la disponibilità di intervistare i
loro dipendenti.
115
esempio il grado di soddisfazione per il proprio lavoro, il senso di responsabilità, la
disponibilità, l‟orgoglio, l‟identità, la lealtà, l‟affetto. È evidente che molte delle dimensioni
elencate si pongono come momenti di confine fra le due sfere, a conferma della loro
continuità semantica.
Nelle interviste realizzate emergono con molta frequenza e vigore le accezioni elencate e tutte
sono associate dai lavoratori alle misure di conciliazione proposte dalle aziende. Non solo.
Tali riconoscimenti “riflettono” quasi specularmente le attenzioni che le direzioni aziendali
prestano ai loro dipendenti, anche quando non formalizzate nel programma Audit ma offerte
in modo informale come espressione di un “tipico” o tradizionale modus operandi. Di una
cultura imprenditoriale da sempre attenta ai bisogni dei propri dipendenti.
3.7.1 - Soddisfazione, responsabilità, fiducia
Un ambiente di lavoro amichevole e sereno permette di acquisire più facilmente le
competenze, crescere professionalmente e rendersi autonomi nelle proprie attività. Condizioni
queste che a loro volta ri-generano un senso di soddisfazione e gratificazione per il proprio
lavoro e di riconoscimento della fiducia che le aziende ripongono nei dipendenti. Aspetti che
cor-rispondono ulteriormente ad un senso di responsabilità del dipendente nei confronti della
propria azienda. È evidente come in questo caso si stia parlando di trasmissioni simboliche ed
emotive (Miller e Monge 1986) fra la dimensione sociale lavorativa e la dimensione
individuale. Il clima aziendale, il senso di attaccamento e la qualità e l‟attenzione per la
propria produzione sono aspetti circolarmente interconnessi e si fondano sulle esperienze di
condivisione, fiducia, responsabilità (Schulte et alii 2006). È esemplificativo un passaggio
d‟intervista che illustra l‟apporto del clima aziendale amichevole alla maturazione del senso
di responsabilità per il proprio lavoro. Un giovane lavoratore, riferendosi all‟esperienza di
lavoro fatta durante il periodo di affiancamento sostiene:
l‟ho vissuta con una leggerezza che mi sembrava di avere un amico che conosco da dieci anni. Perché
era giovane, stessi pensieri, ti aiuta e mentre lavora ti parla e cerca di conoscerti e quindi vedi in lui una
parte che vuole socializzare. Imparavo talmente volentieri il lavoro che anche il tempo mi è passato
velocissimo. L‟affiancamento serve nel primo periodo, dopodiché l‟azienda ti lascia andare. Quando
vede che tu prendi in mano … prendi l‟iniziativa, l‟azienda ti lascia fare e vede fin dove arrivi.[Ora] ho
una responsabilità più grande, perché io comincio a costruire una macchina dalla a alla zeta e nessuno
controlla prima. Arriva al cliente e io ho firmato per quella macchina. Quindi sanno che sono stato io. È
una responsabilità molto grande perché secondo me …c‟è tutto, tutto quello che ho appreso, c‟è quello
che mi ha insegnato il ragazzo che mi ha affiancato per i primi mesi, se ho capito o no, quello che mi ha
116
spiegato, se sono autonomo, se la macchina la so costruire bene. Secondo me l‟azienda vuole vedere fin
dove sai arrivare e io ovviamente faccio quello che so fare ma voglio far capire all‟azienda che sono un
ragazzo autonomo, che so lavorare, che ascolto, imparo e sono un ragazzo serio. Secondo me l‟azienda
vuole vedere questo. (Int.Dip.20)
Il clima aziendale collaborativo, d‟intesa e sinergia, l‟idea di squadra che accompagna
l‟organizzazione aziendale e permette la fluidità dei processi, la fiducia ed il senso di
responsabilità si riflettono nella soddisfazione personale e nella ricerca della qualità del
prodotto che ne deriva.
Si è pesante però è appagante perché poi ti da soddisfazione quando vedi il lavoro. L‟altro giorno mi è
capitato di andare in un centro commerciale qua vicino e mi è capitato di vedere le macchine
duplicatrici che facciamo noi e la chiave che avevo fatto io. E dico: «Caspita. Però, bello»!. Oppure
l‟altro giorno, io abito in un condominio in cui è stata cambiata la serratura della porta centrale.
L‟amministratore mi da la chiave… l‟ho fatta io!. Cioè ti da soddisfazione poi alla fine ... tanto
impegno. Io sono soddisfatta (Int.Dip.14).
La realizzazione di un clima aziendale favorevole, diventa quindi un obiettivo importante da
realizzare, permesso anche dall‟offerta di misure di conciliazione. Anna15
è madre di due
bambini, di otto e tre anni (Int.Dip.15). È operaia di un‟azienda che produce chiavi e lavora
nel settore della coniatura. Carica dei conii su delle presse che schiacciano e marchiano le
chiavi. Il suo è un lavoro faticoso e stressante. Faticoso dal punto di vista fisico perché i coni
di acciaio sono molto pesanti da sollevare, stressante perché i ritmi di lavoro sono molto
veloci. Deve seguire contemporaneamente tre presse che producono singolarmente fino a 200
coniature al minuto. Tuttavia Anna è soddisfatta del suo lavoro, nonostante questo comporti –
come ci mostra orgogliosa – il fatto di aver sempre delle mani nere, sporche di grasso. Non
sarebbe disposta a cambiarlo con altre attività nella stessa azienda, neanche con la confezione,
dove l‟ambiente è pulito e meno rumoroso. La soddisfazione per il proprio lavoro che cura
con attenzione meticolosa - cosa che si può comprendere dal modo e dal tono con cui ne parla
- è una miscela di impegno e passione personale,
Io faccio il marchio della chiave. A noi ci arriva la chiave e dobbiamo fare proprio il marchio, lo
stampo. Ci sono dei macchinari, si attrezzano le macchine in base alla tipologia della chiave e, la pressa
schiaccia la chiave, schiacciamo la chiave e facciamo i diversi marchi. A me piace tantissimo! Ho
lavorato anche in altri reparti e … niente da fare. Sono ritornata dalla maternità e ho lavorato in altri
reparti, in fresatura ma anche in confezione che magari è tutto pulito … guardi le mie mani sono queste,
però a me piace lì. Tanti mi dicono ma come fa a piacerti per avere le mani così? Però, l‟ho sempre fatto
e mi piace perché... forse trovo soddisfazione in quello che… quando vedo che mi viene fuori bene la
15
Per tutela della privacy e dell‟anonimato, i nomi dei lavoratori intervistati sono inventati.
117
chiave allora sono soddisfatta. […] Essere soddisfatta di una chiave è banale forse, però essere
soddisfatti di quello che si fa tutti i giorni è importante;
di supporto dei colleghi nei momenti di difficoltà,
magari non riesco a vederle tutte e tre (le presse, ndr) perché devo caricarne una e allora mi trovo in
difficoltà e allora si respira un attimo, si prende fiato e mi fermo. Mi fermo un attimo, mi organizzo,
magari spengo una macchina, ne guardo una, ne attrezzo una. Io ho un buon rapporto nel mio reparto e
ci aiutiamo a vicenda. Non mai avuto nessun problema, […] e quando abbiamo difficoltà, perché
naturalmente loro hanno l‟esperienza notevole davanti, non hanno mai, assolutamente, fatto pressione
perché abbiamo la macchina spenta. Anzi preferiscono che piuttosto che facciamo errori, ci si deve
fermare e vedere insieme per risolvere il problema;
di gratitudine nei confronti di una direzione capace di ascoltare le necessità familiari dei
dipendenti, specie se in corrispondenza della maternità e della cura dei figli,
ho avuto problemi in gravidanza e sono rimasta a casa dall‟inizio. Poi mi sono fatta i nove mesi dopo e
non è semplice per … io mi metto nei panni anche di un datore di lavoro. Sì, insomma, un anno e mezzo
… poi ho ripreso il mio lavoro e mi hanno trattata bene. Quindi non posso dire niente. Cosa può fare
l‟azienda per una mamma? Beh già se chiedo i permessi quando i bambini stanno male, qui non mi
hanno mai creato nessun problema. Anche quando ho i bambini che… mi chiamano e devo andare a
casa. Non mi creano mai nessun problema.
Una gratitudine che si manifesta in maniera particolare prendendo atto che la disponibilità
della sua azienda di ascoltare e supportare le richieste di cura familiare non è una caratteristica
riscontrabile in tutte le aziende. Ed il metro di paragone deriva proprio dal confronto con
l‟azienda ed il lavoro di suo marito. Confronto in cui coglie il valore “sociale” aggiunto di una
impresa vicina alle famiglie.
[Con] mio marito che lavora in un'altra azienda, alla sera ci si parla. Il lavoro è un argomento che viene
fuori in famiglia e parlando con mio marito … però, però. Per esempio tutti questi servizi … La
disponibilità verso i dipendenti, il sentire i problemi dei dipendenti da parte … dall‟alto. Qui abbiamo
tante più cose che loro non fanno. Non hanno nessun ascolto. Lui non si lamenta tanto, però magari
piacerebbe che fossero più ascoltati. Se io ho un problema non mi chiudono la porta. A mio marito un
po‟ sì.
Motivi per cui nutre un sentimento di orgoglio e si dice non intenzionata a cambiare il suo
lavoro.
È una vita che sono qua. No, anche perché ci sono dei servizi che l‟azienda offre e quindi – magari è
poco, ma al giorno d‟oggi. Io ne ho usufruito di uno con la mia famiglia e mi sono trovata benissimo.
Non so se sarei mai riuscita ad averne l‟opportunità: sono andata in agenzia e ho avuto un bello sconto
grazie all‟azienda. E abbiamo passato tre giorni da favola in questo hotel in Slovenia che non sarei mai
andata per conto mio a Postumia, in questo hotel così, perché avrei detto: «no, no risparmio! Vado da
un‟altra parte!». Era bellissimo perché eravamo in piazza a Postumia che non ci sarei mai andata.
Anche a Natale ci hanno dato un buono spesa e per una famiglia - io che spendo cento euro a settimana
per la spesa - aver ricevuto il buono spesa che ci hanno dato è un bel regalo di Natale.
118
Questa testimonianza ci permette di sottolineare due aspetti. Il primo è quello secondo cui le
percezioni e le motivazioni personali sono espressione di un intreccio (che distinguiamo solo
analiticamente) fra l‟esperienza individuale, quella collettiva e quella simbolica. L‟impegno e
la soddisfazione personale non solo sono supportati dal gruppo e dalla cultura imprenditoriale,
ma diventano anche ingredienti che rinforzano “circolarmente” i primi due elementi. Ciò ci
permette di chiarire il secondo aspetto, quello per cui tali dinamiche non vanno intese
esclusivamente come strumentali – come vorrebbe la prospettiva dello scambio (economico)
razionale - ma si configurano anche come espressioni culturali. È nella trasmissione dei valori
e dei simboli che possiamo rintracciare la costruzione del clima aziendale, dello spirito di
squadra, del senso di responsabilità, del senso di attaccamento, di soddisfazione per il lavoro,
nell‟impegno individuale e collettivo.
Nel seguente passaggio di intervista si rileva la dinamica che collega la dimensione del clima
aziendale a quello del supporto del dipendente - in maniera particolare durante la maternità -,
ad una idea di cultura imprenditoriale “responsabile”. La percezione del lavoratore,
consapevole dei vantaggi associati all‟utilizzo di determinate pratiche di conciliazione e di
benefit per sé e per la propria famiglia - è elaborata come confronto delle condizioni di lavoro
e dei modi di intendere il lavoratore, rispetto a esperienze professionali pregresse.
Io fino ad adesso mi sono trovata bene, meglio di altre aziende in cui ho lavorato. […]
Fondamentalmente qui ho trovato maggior volontà di creare un gruppo, anche da parte della direzione,
cosa che invece nelle altre aziende fondamentalmente non c‟è perché, lì dove ho lavorato io, per la mia
esperienza personale, più che altro ci si occupava del rendimento finale, del fatturato del cercare di
lavorare più possibile, questo era fondamentalmente l‟obiettivo. Qua mi sembra che tutto sommato si
voglia cercare di creare un clima … Se per esempio una persona ha dei problemi famigliari oppure sta
male, l‟azienda si interessa, non è estranea a questa cosa. Oppure il fatto di voler creare dei momenti di
aggregazione, per esempio nel periodo natalizio o nel periodo estivo, per cercare comunque di creare un
minimo di festa insieme agli altri colleghi. Non è il mio caso però mi hanno riferito delle gravidanze che
sono state seguite e comunque accolte sempre in maniera abbastanza positiva (Int.Dip18).
Un clima aziendale – quindi – che non si limita alla relazione di collaborazione e intesa fra i
dipendenti, né che esalta l‟aspetto monodirezionale dirigenza-dipendenti, ma che si configura
come circolarità virtuosa fra le due parti sociali. La direzione e i dipendenti “partecipano”
attivamente alla costruzione del clima aziendale in una prospettiva in cui i vantaggi sociali
hanno un carattere emergente, superano cioè la somma degli “investimenti” delle parti
enfatizzando caratteri quali l‟impegno ed il senso di responsabilità per la propria attività.
Io credo che sia molto importante l‟ambiente di lavoro dove il dipendente viene considerato comunque
a tutto tondo, non solo un dipendente “da profitto”. Quindi una attenzione che gli viene considerata e
119
che gli viene comunque rivolta, conta: “vengo al lavoro più volentieri”. Penso che sia anche un po‟
scontato, se io sto bene … anche se ho la febbre vengo al lavoro. Non so, lavorando con serenità e con
tranquillità, penso che uno possa rendere anche duecento al posto di cento (Int.Dip19).
Io penso che la risposta la diamo da sempre. Il fatto di impegnarsi in maniera totale e limitando anche le
eventuali assenze per non dar fastidio sia alle aziende che alle colleghe, dimostra un certo attaccamento
all‟azienda. Perché comunque, io parlo per me, cerco sempre di limitare quello che può essere la mia
non presenza proprio per non creare disarmonia e difficoltà. Essendo io poi l‟unica alla gestione della
macchina al laser, capisco che quando non ci sono è un problema. Quindi cerco di limitare … e questo
dimostra un certo attaccamento all‟azienda perché magari un‟altra persona potrebbe fregarsene e
comunque gestire le cose in una maniera diversa. Il fatto di essere sempre presenti e di evitare in ogni
modo, fino all‟ultimo la mia assenza, per me dimostra anche attaccamento. Il fatto di portare comunque
a temine il lavoro (Int.Dip18).
3.7.2 – Flessibilità, disponibilità, affidabilità
Un aspetto a cui prestiamo particolare attenzione riguarda il tema della flessibilità dell‟orario
lavorativo e alle valutazioni che i lavoratori fanno di questa possibilità. Questo
approfondimento è dovuto al fatto per cui tutte la organizzazioni che abbiamo analizzato
hanno adottato varie forme di flessibilità dell‟orario di lavoro. D‟altra parte, come abbiamo
sottolineato, questo strumento è presumibilmente quello maggiormente utilizzato dalle
imprese in tema di politiche di conciliazione, anche se, in determinate circostanze comporta
delle dis-efficienze.
Una prima distinzione che possiamo rilevare – anche attraverso le interviste – è quella che
riguarda il grado di formalizzazione della flessibilità. In alcuni casi si tratta di un
atteggiamento da parte della direzione aziendale che si mostra attenta ad accogliere e
rispondere alle esigenze di organizzazione dei tempi di vita familiare di dipendenti in assenza
di un vero e proprio “protocollo” o programma di orario flessibile. Dall‟altra abbiamo invece
una formalizzazione di questa modalità organizzativa, segnata da criteri di accesso.
Emerge infatti come molto spesso le aziende rispondano positivamente alle richieste ed
esigenze di gestione dei tempi familiari dei dipendenti per una tradizione o cultura
imprenditoriale fondata sulla conoscenza diretta e sullo scambio di fiducia tra
datore/lavoratore. Sono numerose le sezioni di interviste che confermano questo aspetto e
molto spesso a tale atteggiamento corrisponde la disponibilità dei lavoratori di “restituire” il
proprio sostegno in caso di improvvise necessità per l‟azienda.
Io ho notato una buona disponibilità e per correttezza si cerca di comunicare però se c‟è l‟imprevisto …
diciamo che non è mai stato negato. Anzi ho avuto problemi di salute del papà e sono stati
disponibilissimi […] mi è stato detto: fai quello che devi fare che qua ci arrangiamo noi.[Quindi] se c‟è
bisogno di fermarsi mezz‟ora, se c‟è necessità oppure se c‟è tanto lavoro, non è che io, arrivano le sei,
metto giù la penna e me ne vado a casa (Int.Dip.10).
120
È ovvio che se lo sai prima ti organizzi un attimo … ma altrimenti puoi usufruire di tutto. Poi anche
quando ho avuto … quando ho problemi di orari perché devo andare a prendere la bimba, ho spostato il
mio orario ma non mi hanno assolutamente detto niente e se c‟è bisogno anche nei pomeriggi. L‟orario è
fondamentale, c‟è una grande flessibilità. È ciò che impedisce ad una persona di lavorare se non riesce a
tenere … [Il lavoratore] restituisce altrettanta disponibilità perché nel momento stesso in cui sei coperta
e garantita è logico che lavori meglio e sei anche più disponibile se c‟è da fare uno spostamento di
orario per coprire… o se c‟è necessità di lavoro. Se c‟è necessità di coprire certi lavori sei molto più
disponibile e poi, con meno preoccupazioni. Se sei più tranquillo nel tuo lavoro perché sai che non hai
problemi nell‟andare a prendere la bimba, perché hai l‟orario organizzato in un certo modo è logico che
la tua testa è più libera e riesci a lavorare meglio (Int.Dip.11).
I passaggi riportati descrivono un meccanismo reciprocitario che non va confuso con uno
scambio esclusivamente strumentale ma si fonda su aspettative fiduciarie che rappresentano le
fondamenta stesse dei legami sociali e nel caso particolare della stabilità aziendale
(McAllister 1995). Una accezione che trapela quando i lavoratori intervistati, alla
disponibilità offerta dall‟azienda, “ricambiano” con atteggiamenti espressi con le parole di
“lealtà”, “correttezza”, “responsabilità”.
In altri contesti possiamo invece osservare come la pratica della flessibilità dell‟orario venga
standardizzata per permettere a tutti di avere pari opportunità nell‟accedere ad una
determinata prestazione.
È esemplificativa la motivazione che una azienda dà al processo di certificazione. In un
momento di espansione dell‟impresa e di inserimento di nuovi dipendenti, la certificazione
Audit diventa uno strumento strategico di direzione aziendale con cui permettere a tutti i
dipendenti di fruire equamente dei dispositivi aziendali riducendo il “rischio” dei
particolarismi a vantaggio dei vecchi dipendenti, conosciuti personalmente dalla direziona
aziendale. Alla base di questa motivazione non c‟è solo una questione di equità “morale” o un
principio democratico, ma il chiaro sforzo di non produrre iniquità fra dipendenti che
produrrebbe un clima di lavoro ostile e conflittuale.
Inoltre la formalizzazione dell‟orario flessibile ci permette di cogliere un importante aspetto.
Attraverso le interviste prendiamo atto che chi ha un orario flessibile – contrattualizzato – non
lo utilizza sistematicamente ma solo in quelle circostanze in cui la domanda familiare
compete con quella lavorativa. La flessibilità sembra funzionare come una “fascia di
sicurezza” da ansia e stress, promuovendo maggiori attenzioni e cure familiari e permettendo
contemporaneamente un grado di serenità e tranquillità superiore. Risorse importanti per
affrontare il lavoro.
121
Guido è padre di due bambine piccole, vive con sua moglie e nella gestione della famiglia non
possono avere il supporto dei nonni. A causa delle necessità di gestione e organizzazione
familiare, le sue timbrature orarie sono caratterizzate da frequenti ritardi sul lavoro che si
trasformano in un monte ore di permessi, significativo.
La mia situazione famigliare è che io e mia moglie non abbiamo appoggi esterni, quelli che sono i
suoceri non sono materialmente presenti, quindi con due bambine di cui una di otto mesi e l‟altra di
quattro anni, dobbiamo arrangiarci noi. Ovviamente anche solo portare a scuola la bambina più grande,
con la più piccola presente diventa un problema.
Guido è un ingegnere il cui ruolo professionale è cruciale per la crescita di una azienda che ha
fondato il suo successo sulla ricerca e l‟innovazione tecnologico-informatica. È un formatore
e per istruire altri lavoratori sul funzionamento delle centraline elettroniche, la loro
programmazione e la realizzazione degli strumenti di diagnosi, deve analizzarle
scrupolosamente cogliendone la logica e la progettazione. Un profilo professionale quindi
particolarmente elevato, una risorsa importante per l‟azienda. Ora Guido gode della
flessibilità di orario in ingresso – una opportunità presentatagli dall‟azienda – che gli permette
di seguire correttamente le sue figlie e di rimanere legato all‟azienda.
Se lavorassi in una azienda che mi fa iniziare alle otto di mattina e mi fa finire alle sette di sera, per me
quella non è una azienda in cui potrei lavorare, perché non mi permetterebbe di portare avanti in modo
concreto la famiglia. Il fatto che ci sia una flessibilità, su quella che è la gestione dell‟orario, per me fa
sì di dire «per me questa è ancora una azienda che ha un occhio verso la famiglia e anche verso il
dipendente padre, che può dire: «Io qui dentro ci lavoro perché riesco a conciliare le esigenze della
famiglia».
Quando chiediamo se fosse disposto a cambiare azienda in funzione di una retribuzione
superiore a quella attuale, risponde:
Se mi impongono l‟orario no!. Non accetto il passaggio, allo stato attuale. Mi sono reso conto che
quando cominci ad avere famiglia e vuoi portare avanti in modo concreto l‟educazione dei bambini e
l‟equilibrio famigliare, bisogna conciliare.
Come molta letteratura illustra, l‟offerta di misure di conciliazione rappresenta una strategia
imprenditoriale vincente per mantenere lavoratori altamente qualificati il cui capitale tecnico e
culturale rappresenta una risorsa fondamentale per quelle aziende che vogliono competere nei
mercati internazionali.
Una ulteriore conferma di questo aspetto deriva dal caso di Gianluca (Int.Dip3).
122
Gianluca è un ingegnere elettronico che si occupa del collaudo degli strumenti di diagnosi
delle centraline elettroniche per automobili. I suoi interessi di studio coincidono con l‟attuale
professione tanto da aver sviluppato la tesi di laurea nell‟azienda in cui lavora, ormai da dieci
anni. In questi dieci anni cambia anche la sua condizione familiare: si sposa e con sua moglie
hanno due bambini e con questo cambiano anche le dinamiche legate al lavoro.
Inizialmente facevo nove ore e delle volte anche di più perché non avevo altre cose, cioè arrivavo a casa
e mia mamma mi faceva trovare tutto pronto … Prima era facile. Poi mi sono sposato nel 2007. Cosa è
cambiato rispetto al lavoro? Quando mi sono sposato niente. Quando è nato il primo figlio invece ho
incominciato ad avere i primi effetti, delle corse, di avere sempre poco tempo. Poi è nata la seconda
quindi, è andata in via esponenziale. Inizialmente c‟era il supporto anche dei miei genitori che anche
loro abitano qua vicino e non ho avuto necessità di flessibilità in entrata o in uscita. Dopo, mia mamma,
c‟è stato un periodo che si è ammalata e abbiamo dovuto farci aiutare da una baby sitter. Un altro
discorso che può essere importante sottolineare è che mia moglie fa i turni in ospedale, fa l‟infermiera a
Treviso, facendo dei turni deve essere sempre mezz‟ora prima a lavoro per il passaggio di consegne. Per
cui la flessibilità l‟ho dovuta mettere in campo io.
La flessibilità è – come ampiamente riconosciuto - uno strumento di supporto fondamentale
all‟organizzazione della vita familiare ma, quello su cui vogliamo soffermarci è il fatto che
non ha soltanto una rilevanza organizzativa. Piuttosto incide su dinamiche psichiche che
contrastano lo stress e su quelle sociali per cui il ritardo a lavoro è percepito come una
trasgressione a norme e codici di comportamento. Notiamo, infatti, che in molti casi l‟orario
d‟ingresso a lavoro non cambia da quello standard, valido per tutti. Ciò equivale a dire che
l‟offerta della flessibilità dell‟orario non è utilizzata pienamente. Tuttavia la consapevolezza
di godere di tale possibilità genera un senso di maggiore tranquillità nell‟affrontare gli
imprevisti familiari e gli spostamenti casa-lavoro. Un senso di tranquillità che è rafforzato da
un secondo aspetto: la consapevolezza di non trasgredire la norma dell‟orario di lavoro.
L‟uso che ne faccio è essenzialmente quello di quando ho la necessità, tipo di quando mia moglie fa il
turno di mattina. Tutti gli altri giorni vengo qua alle otto e mezza e faccio l‟orario – diciamo - normale.
Ma non faccio più le corse che facevo prima. Dal mio punto di vista la flessibilità, penso al 70%, si ha
questo punto della tranquillità, del gestire meglio i tempi, dopo magari arrivo lo stesso alle otto e mezza,
però sono più tranquillo con i bambini magari non li metto fretta. Dal punto di vista della famiglia lì
secondo me ho avuto i maggiori benefici, soprattutto con i bimbi. Perché quando non avevo questa
flessibilità e sentivo quest‟ansia di fare le cose in fretta per essere qui alle otto e mezza, mi rendevo
conto che con i bimbi ero più teso, alzavo la voce più facilmente. Al mattino il bimbo ha i propri orari, i
propri tempi e magari succedeva che aveva un imprevisto o succedeva che doveva andare in bagno
prima dell‟asilo o che…, lì scattava in me l‟ansia di arrivare alle otto e mezza e timbrare che adesso non
c‟è.
Una misura – quella della flessibilità - che, a parere degli intervistati, influisce positivamente
nella prestazione professionale. Chi fruisce di determinate facilitazioni – come è ampiamente
123
rilevato in letteratura – da una parte tende a “restituire” queste attenzioni in forma di cura per
la qualità del lavoro, di disponibilità verso l‟impresa ed i colleghi, di senso di integrazione e
dall‟altra è posto in condizioni psico-fisiche migliori per poter realizzare il suo lavoro.
Vedendo questa apertura dell‟azienda verso il dipendente viene anche più spontaneo da parte del
dipendente aprirsi di più all‟azienda nel senso che se c‟è una cosa che posso finire stasera, occupa un
quarto d‟ora in più, lo faccio volentieri. Magari invece prima avrei detto: vado via alle cinque e mezza,
lo faccio domani mattina. Quindi dal punto di vista aziendale c‟è questo ritorno. Sentendomi fortunato
per il discorso della flessibilità, a me non costa niente impiegare un po‟ di più del mio tempo, quindi
fermarmi un po‟ di più la sera. Questo sentirmi fortunato significa anche voler bene al mio lavoro e
quindi spero di farlo bene. Cioè se facessi una cosa controvoglia sicuramente i risultati sarebbero
diversi.
Una consapevolezza dei vantaggi per i dipendenti e l‟azienda che porta a suggerire di
generalizzare l‟offerta di questi strumenti – dove possibile – anche ad altri lavoratori. Ed è
proprio in questo passaggio che si coglie, da una parte lo spirito collaborativo di gruppo e
dall‟altra la modalità di costruzione culturale di un impresa attenta ai dipendenti ed alle loro
necessità familiari.
Se per l‟azienda non influisce tanto, proporrei di espandere questo benefit anche agli altri dipendenti
perché quella volta che è uscita la possibilità di fare richiesta era per chi aveva problemi familiari, figli
piccoli ecc. Invece credo che anche per chi non ha necessità familiari, per esempio tante persone che
vengono da lontano, magari si fanno 50km al mattino e 50 al pomeriggio, sapere che hanno questa
fascia di tranquillità, anche per il viaggio stesso, secondo me inciderebbe in maniera positiva.
Queste dinamiche sono ulteriormente evidenziate da Dario (Int.Dip.28), un tecnico
collaudatore di strumenti diagnostici. Il suo profilo – ci spiega – è a metà strada fra quello di
un dipendente e quello di un lavoratore autonomo. Il suo lavoro richiede, infatti, una
particolare capacità imprenditoriale che lo porta quotidianamente a contatto ed alla ricerca di
clienti sul territorio. Dario, con la sua squadra, composta da altri due colleghi, deve ricercare
partner e clienti con esigenze specifiche, proponendo loro strumenti e soluzioni diagnostiche
individuali. Il suo è quasi un lavoro artigianale con cui affronta problemi particolari ideando e
realizzando strumenti ad hoc. La funzione legata alla sua professionalità è decisamente
strategica per una azienda con un elevato valore tecnologico aggiunto poiché permette di
coprire fette di mercato che le logiche di produzione seriali devono necessariamente
escludere. Soprattutto tale funzione comporta un‟importante introduzione di creatività quale
valore professionale aggiunto. La soluzione di casi particolari è spesso la molla che permette
di aprire nuovi mercati.
124
Tempo fa, con un mio collega di lavoro, abbiamo fatto un progetto, su uno strumento nuovo. Abbiamo
fatto tutto, dalla a alla zeta. Tutto. E infatti dopo, dalla direzione c‟è stata una mail di ringraziamento
perché il lavoro era stato fatto bene. L‟idea era partita dal nostro ambiente perché noi volevamo uno
strumento specifico, limitato, che facesse solo determinate cose. È andato fuori e subito ci sono state
500 vendite.
Dario ha però necessità di conciliare la sua attività professionale con il suo ruolo di padre. Ha
due bambine ed è separato. Le domande di cura familiare entrano pienamente in conflitto con
quelle professionali evidenziando gli scompensi maturati a livello di qualità di vita personale.
Conflitti che amplificano uno stato di stress e di ansia e che si riproducono nell‟ambiente di
lavoro.
L‟intervistato elabora un prima ed un dopo - rispetto alla sua qualità di vita familiare e
professionale -, in funzione della fruizione dell‟utilizzo di un orario di lavoro flessibile. Una
misura - propostagli dall‟azienda – percepita come uno strumento efficace per ridurre e
superare il conflitto famiglia lavoro e restituirgli un grado di tranquillità e serenità utile a
vivere meglio la quotidianità e a svolgere efficacemente il suo lavoro. Utile inoltre a
raggiungere successi professionali e a godere di una soddisfazione fatta di responsabilità e
appartenenza.
Dovevo prendere sempre quarti d‟ora, due volte alla settimana e alla sera dovevo mandare sempre i miei
o qualcuno a prendere le bambine, perché io sono da solo, sono separato e … ho tutto un castello in
piedi ben complesso da gestire. Invece così … ad esempio io domani finisco alle 17 e così posso andare
a prendere le bambine. Vado tranquillo, arrivo giusto, non ho problemi. E così io comincio la mattina
alle 8, le mie otto ore le faccio sereno, tranquillo, non ho problemi. […] Io vengo sereno e non devo fare
le corse per strada, per non avere il pensiero, perché se arrivo alle 45, non importa, posso fermarmi fino
alle 6, non è un problema. […] Questo si riproduce nei rapporti, più che nel lavoro, nei rapporti con i
colleghi. Nel lavoro fai fatica, perché arrivi qua già stressato, preso magari da altre cose … Se tu sei più
tranquillo, sereno e vedi che l‟azienda fa degli sforzi nei tuoi confronti, se io mi devo fermare anche un
quarto d‟ora in più per finire delle cose mi fermo. Se sono in giro a finire una cosa, la finisco.
Anche nel suo caso l‟ipotesi – che gli presentiamo - di un lavoro meglio retribuito ma con
orari rigidi viene scartata. Al contrario – con questo poniamo l‟accento sul carattere della
trasmissione culturale di una pratica e degli atteggianti associati e della modalità di
costruzione del clima aziendale - sostiene l‟importanza di estendere tali provvedimenti
aziendali a quei colleghi che non ne fruiscono ancora.
No. Non so neanche se valga la pena. Direi di no!. Perché la tranquillità, ripeto quando sono in ritardo,
adesso non faccio più le corse perché sono tranquillo. Prima facevo le corse per strada, un casino nel
traffico, perché avevo sempre paura di arrivare in ritardo. A me sta cosa qua mi ha dato molta
tranquillità. […] Sarei il primo a dire che dovrebbe essere esteso a tutti, perché alla fine con il sistema di
badge di ingresso e di uscita, tu riesci a fare il calcolo delle otto ore a fine sera. Io l‟avevo richiesto
appena ho visto la comunicazione. Subito perché prendevo tre quarti d‟ora di permessi, sempre.
125
4. QUALI DIMENSIONI RIPENSARE NELLA RELAZIONE FRA MISURE DI CONCILIAZIONE E
VANTAGGI AZIENDALI: SINTESI E PROSPETTIVE (diVincenzo Marrone)
Il contributo che abbiamo presentato con questo report si inserisce nel dibattito nazionale ed
internazionale che vede le misure di conciliazione famiglia lavoro e le proposte di welfare
aziendale come leve importanti nella gestione delle risorse umane atte a promuovere
dinamiche virtuose sia per i lavoratori che per le organizzazioni datoriali. In letteratura è
ampiamente dibattuto il tema - con particolare riguardo ai vantaggi associati alla conciliazione
- e la pluralità delle prospettive e delle discipline scientifiche coinvolte e gli esiti delle
rilevanze empiriche non sempre concordi evidenziano la vivacità del dibattito e la
significatività dell‟argomento per la società attuale.
L‟obiettivo del lavoro proposto è stato proprio quello di sintetizzare alcuni passaggi chiave del
dibattito, proponendo e analizzando parte della letteratura scientifica internazionale
evidenziandone momenti di continuità e discontinuità.
Abbiamo visto come le misure e le pratiche di conciliazione non hanno una definizione
univoca e standard ma siano adattabili a varie interpretazioni che risentono delle modalità con
cui vengono applicate nelle realtà imprenditoriali. Le misure di conciliazione si estendono
dunque dal nucleo concettuale che le intende come strumenti importanti per l‟organizzazione
della vita familiare e lavorativa ad accezioni che abbracciano, in senso più ampio, il benessere
dei lavoratori. Questa estensione semantica è causa e conseguenza di una pluralizzazione di
interventi – da annoverare come strumenti di conciliazione – che si adattano a specifiche
esigenze dei dipendenti e delle organizzazioni. È proprio grazie a questa trasformazione
semantica e operativa che possiamo apprezzare – anche nella nostra indagine – le ragioni che
stanno alla base della progettazione e dell‟implementazione di tali strumenti per le
organizzazioni e le ragioni che muovono i dipendenti ad avanzare richieste e fruirne.
La ricerca scientifica si è interessata particolarmente alla valutazione dei vantaggi associati a
questi due momenti: l‟implementazione per le aziende; l‟utilizzo per i dipendenti. Se per
questi ultimi i risultati emersi, sono piuttosto confortanti e allineati – le misure di
conciliazione rappresentano vantaggi importanti per il benessere dei lavoratori e delle loro
famiglie -, lo stesso non si può dire riguardo ai vantaggi in termini di produttività per le
126
aziende. Questo dipende – secondo la nostra interpretazione - da come si considera il concetto
di “produttività”.
In particolare, abbiamo rilevato come, in generale, gli studiosi – quando valutano il concetto
di produttività affidandosi a indici econometrici, come le voci di fatturato, gli utili o le vendite
ecc. - tendono a ridimensionare il contributo delle misure di conciliazione fino a considerarlo
irrilevante. Al contrario quando adottano indicatori più soft, come il tasso di assenteismo o il
turnover (che rappresentano comunque delle voci di costo importanti per le aziende)
riscontrano un‟incidenza significativa. In questo caso le misure di conciliazione famiglia-
lavoro fanno la differenza per le imprese.
Secondo la nostra lettura il primo approccio – troppo concentrato sull‟output
economico/monetario per le imprese, sullo scarto aritmetico costi-benefici – trova il suo
limite nella sottostima dei contributi conoscitivi, sociali, psicologici - umani - alla produzione.
Aspetti che – al contrario – seppur difficilmente quantificabili, rappresentano oggi delle leve
strategiche fondamentali per le imprese che vogliono concorrere nel mondo (Berger 2006).
Il secondo orientamento rimette al centro il lavoratore ma – teso a standardizzare e “misurare”
le prestazioni – produce due ordini di sottostima. Il primo è quello che vede la produttività
come un semplice aggregato di performance individuali, perdendo la dimensione
emergenziale dell‟apporto delle relazioni sociali e dei meccanismi di trasmissione e
costruzione culturale. Cioè di qualcosa che supera il semplice aggregato dei contributi
individuali. Abbiamo rilevato come la creazione e la trasmissione della cultura della
responsabilità d‟impresa – la diffusione e la socializzazione di questo particolare aspetto fra le
proprietà e i lavoratori e fra lavoratori – abbia un ordine di realtà che – per quanto non
misurabile – produce effetti rilevanti per le aziende.
Il secondo ordine di sottostima è dato dall‟enfasi posta su particolari indicatori di produttività
(assenteismo, turnover, malattia ecc.) che, sebbene siano indicatori importanti, rappresentano
solo “parzialmente” degli output (quindi ipotetiche conseguenze) e non esauriscono il
discorso sulle “ragioni” che le collegano alle misure di conciliazione. Non sempre vengono,
infatti, chiariti i meccanismi che legano le misure di conciliazione a questi indicatori e alle
prestazioni individuali, elementi che possono - come emerge in alcuna letteratura e nella
nostra indagine – correlare in modo spurio. Diventa quindi importante ricercare e argomentare
le “ragioni” che permettono una associazione positiva fra la conciliazione e la produttività,
apprezzando in particolare quelle dinamiche che permettono alle imprese di produrre valore
127
aggiunto, andando quindi ben oltre il problema della riduzione dei costi per le aziende (come
si fa con gli indicatori di assenteismo).
Il lavoro che abbiamo proposto vuole uscire da entrambe le logiche analitiche sintetizzate per
focalizzarsi sulle dinamiche sociali che hanno – poiché tali – una reale incidenza sia per le
organizzazioni sia per i lavoratori (e per i territori) e rappresentano aspetti che a loro volta
producono/non producono vantaggi (sociali, culturali, economici ecc.).
Benché presentiamo dei dati e delle analisi in continuità con il secondo approccio indicato
(abbiamo riservato una sezione specifica all‟interpretazione di dati di performance aziendale)
il nostro obiettivo si propone di superare tale impostazione interrogandosi sul valore delle
dinamiche sociali che caratterizzano il passaggio dalla presenza/fruizione di misure di
conciliazione alle prestazioni professionali ed al valore aggiunto per le imprese.
Per fare questo abbiamo adottato un metodo di indagine non standard intervistando sia i datori
di lavoro e/o i responsabili delle risorse umane che i lavoratori. Dall‟analisi delle interviste è
emersa una circolarità virtuosa che lega l‟offerta e la fruizione delle misure di conciliazione
con atteggiamenti propositivi al lavoro ed aspettative da parte delle organizzazioni, conformi.
Le dinamiche che regolano lo scambio sono sintetizzabili in due ordini di realtà: il clima
aziendale e il senso di attaccamento all‟azienda. Il primo aspetto rimanda a dinamiche
comunicative verticali fra dirigenza e dipendenti ed orizzontali fra i lavoratori, che
permettono la maggiore fluidità dei processi decisionali e conoscitivi, la generalizzazione
delle competenze professionali, l‟intesa e l‟empatia che rendono l‟ambiente di lavoro meno
conflittuale. La seconda sfera è invece parte integrante di dinamiche sociali e psicologiche che
legano le persone al proprio lavoro ed al contesto di lavoro. Rimandano in maniera particolare
alla semantica della “cura”. Si tratta di esperienze con una forte valenza simbolica ed affettiva
che originano atteggiamenti di fiducia, responsabilità, correttezza, cura del proprio lavoro. Le
due dimensioni non sono evidentemente slegate ma partecipano congiuntamente alla
definizione di “meccanismi” con cui le misure di conciliazione si pongono come strumenti
vantaggiosi per le prestazioni professionali individuali e per i risultati aziendali.
Il senso di attaccamento all‟azienda ed il clima aziendale sono fattori che migliorano la
qualità del prodotto e dell‟attività produttiva. In letteratura aziendale è ampiamente
riconosciuto come la qualità sia un fattore determinante per l‟aumento della produttività e del
profitto poiché abilita ulteriori leve intermedie. Per esempio migliora l‟immagine aziendale e
la fidelizzazione dei clienti, fattori che riducono la concorrenza dei prezzi aumentando il
128
fatturato. Aumentando il numero di clienti aumentano anche le economie di scala che
permettono risparmi economici nelle fasi produttive. Con la cura per la qualità della
produzione, diminuiscono i costi di lavorazione, gli sprechi e le risorse impiegate per
correggere le lavorazioni non conformi. Diminuisce l‟invenduto e le spese per le materie
prime e i materiali non utilizzati. Queste dimensioni della produttività sono aspetti che
mediano il rapporto fra l‟apporto umano (sociale, culturale e organizzativo di un‟impresa) ed i
risultati economici: i profitti. Sono queste le ragioni per cui le misure di conciliazione
famiglia e lavoro agiscono sulla produttività qualificando sia l‟attività professionale del
singolo lavoratore che le relazioni sociali e culturali esistenti fra i lavoratori e fra lavoratori e
la dirigenza. La produttività quindi non rimanda esclusivamente ad un aggregato di
prestazioni individuali, né può esaurirsi nel calcolo economico fra valori di input (ore lavoro;
materie prime; investimenti in capitale fisico) e valori di output (vendite di beni e servizi), ma
deve tener conto di quelle qualità che regolano gli input e gli output, ovvero di quei fattori
“moltiplicatori” che permettono di aumentare i vantaggi a parità di risorse investite.
In un modello del tutto teorico - in cui ipotizziamo l‟esistenza di un mercato economico e
fiscale stabile (domanda del prodotto, mercato dei cambi, politica fiscale, costi delle materie
prime ecc). - possiamo pensare al rapporto fra la variazione degli utili (Δu) - in un periodo di
tempo dato (t1- t0) – e le risorse investite (r) – considerate stabili nel tempo (costo del lavoro e
retribuzioni, costi delle materie prime, costi strumentazione, ecc.) – come funzione
dell‟effetto moltiplicatore dei fattori del clima aziendale (Xc) del senso di attaccamento (Xa) e
di altri moltiplicatori come per esempio la creatività, l‟esperienza ecc. (Xn).
fatt
ori
di p
rod
uzi
on
e
risorse investite p
rod
utt
ivit
à
fatt
ori
mo
ltip
licat
ori
clima e attaccamento
aziendale et al.
pro
du
zio
ne
uti
li e
valo
re a
ggiu
nto
differenziale degli utili
129
𝛥𝑢(𝑡1− 𝑡0)
𝑟= 𝑓 (𝑋𝑐 + 𝑋𝑎+. . . 𝑋𝑛)
Tuttavia, se questo modello illustra la logica finora elaborata, è solo un modello ipotetico e
teorico che può non trovare una applicazione puntuale per due motivi. Il primo è quello per
cui le risorse investite in un periodo possono generare effetti a distanza di tempo o in periodi
differenti da quelli previsti. Il secondo – più rilevante - è quello per cui non possiamo parlare
di un mercato stabile. Al contrario, il clima aziendale e il senso di attaccamento aziendale
sono fattori moltiplicatori che emergono come rilevanti proprio in un periodo storico
economico in cui la concorrenza internazionale genera una domanda instabile e imprevedibile
da una parte e richiede continua innovazione e creatività dall‟altra. Per lo stesso motivo le
politiche aziendali delle risorse umane – in cui s‟inseriscono le pratiche di conciliazione – non
determinano immediatamente profitti e successi di breve periodo per un‟azienda ma possono
certamente partecipare a generare vantaggi economici e strategici di medio e lungo periodo.
Per esempio - come abbiamo evidenziato – l‟introduzione di misure di conciliazione e le
dinamiche socio-culurali innescate possono non corrispondere a un conseguente ed immediato
incremento del profitto e degli utili, ma permettere alle aziende di programmare interventi in
nuovi mercati, investire, porre le basi per affrontare settori inesplorati. La produttività di
un‟impresa che investe in misure di conciliazione – per apprezzare tali pratiche – deve tener
conto quindi degli effetti di lungo periodo e di dinamiche multivariate entro cui operano tali
fattori. Ed è rilevante accorgersi di come le aziende – fornendo misure di conciliazione -
lavorino proprio nella “costruzione” di queste due dimensioni.
In particolare si nota come gli aspetti salienti e attesi dalle imprese, riguardino non solo le
competenze dei dipendenti ma anche la loro affidabilità ed il senso di responsabilità. Si tratta
di risorse non misurabili ma imprescindibili per un‟impresa che vuole (o deve
necessariamente) competere nel mercato internazionale. Più volte, dalle interviste con i datori
di lavoro emerge un fatto peculiare: se la domanda del mercato è incerta, instabile e le sue
variazioni non sono in nessun modo prevedibili nel medio periodo, le dinamiche interne alle
aziende devono paradossalmente “restituire” un grado di affidabilità maggiore.
L‟impossibilità di una programmazione industriale necessita del massimo supporto e
collaborazione interna e di una visione comune in grado di “attenuare” le incertezze del
mercato e rispondere efficacemente alle oscillazioni della domanda.
130
Per questo motivo la “disponibilità” dei lavoratori ad incontrare e condividere le sfide
aziendali, il “senso di responsabilità” che li porta curare nel dettaglio la qualità della loro
produzione e ridurre gli sprechi, il “senso di attaccamento” basato sulla fiducia reciproca che
realizza una integrazione fra prospettiva individuale e prospettiva collettiva, sono aspetti e
risorse centrali per il successo delle imprese. Successo che non corrisponde necessariamente
ad un immediato incremento del fatturato o ad un aumento delle vendite, ma che significa
confrontarsi in settori industriali ed economici estremamente competitivi. Stare sul mercato
internazionale, scoprire nuovi territori in cui inserirsi ed investire. Sono queste le ragioni che
ci spingono ad invitare la riflessione teorica ed empirica sulla relazione fra produttività e
conciliazione verso nuovi indicatori e nuove modalità di rilevazione che entrino nella “black
box” delle relazioni sociali e culturali.
Non solo. Diventa fondamentale la riflessione sugli attori coinvolti affinché si esca
dall‟equazione imperfetta fra conciliazione/produttività e famiglia/impresa.
Dalla nostra ricerca emergono tre accezioni paradigmatiche con cui le aziende valorizzano il
percorso di certificazione Audit Famiglia Lavoro che si sovrappone a pratiche “informali”
pregresse.
La prima è di natura “simbolica” e si concretizza nel ritorno di immagine che ha l‟azienda.
Poter inserire il “logo” della certificazione Audit in documenti pubblici permette di
presentarsi e rappresentarsi come un‟impresa “amica della famiglia”, aspetto che certifica un
valore sociale aggiunto ed evidenzia la qualità delle relazioni lavorative.
La seconda è di natura strettamente “funzionale-organizzativa”. Il percorso di certificazione
permette una riflessione interna all‟azienda con cui strutturare politiche, pratiche e strumenti
validi per tutti i dipendenti, uscendo dal rischio dei “particolarismi” basati sulla conoscenza
diretta, che si verificano maggiormente nelle configurazioni spontanee e informali.
La terza ha una valenza che possiamo definire “formale-evolutiva”. La certificazione
formalizza delle pratiche in essere che derivano da una cultura imprenditoriale pre-esistente e
latente. Tale formalizzazione non ha solo un carattere istituzionale ma anche uno di tipo
evolutivo poiché pone le basi per promuovere ulteriormente la cultura imprenditoriale della
conciliazione famiglia-lavoro, sensibilizzare al tema e incoraggiare la realizzazione di nuovi
dispositivi. Questa terza accezione ci accompagna nella riflessione su un nodo critico. Con la
nostra ricerca abbiamo visto, infatti, che sussiste una circolarità virtuosa fra i due mondi,
quello delle imprese e quello delle famiglie. Tuttavia tale circolarità non può dirsi stabilizzata,
131
né definitiva, sia per l‟evidente carattere contingente che accompagna tutte le relazioni sociali
che per le “aspettative” che i lavoratori nutrono nei confronti delle loro aziende. Dalle
interviste emerge, infatti, come – nonostante l‟elevato grado di soddisfazione maturato per la
propria azienda, con riferimento agli sforzi per conciliare – restano ancora domande inevase e
necessità familiari da supportare. Tale consapevolezza va incontro ad un paradosso. È la
stessa certificazione Audit Famiglia-Lavoro, con i vari percorsi di formazione e
sensibilizzazione a produrre richieste ed aspettative ulteriori da parte dei lavoratori. Richieste
che non sempre le organizzazioni possono affrontare da sole, per ragioni di costi economici
(per esempio gli asili nido o la disponibilità di spazi ed attività estive dei figli); per ragioni
organizzative (il tempo da dedicare alla progettazione dei “servizi” è tempo sottratto alla
attività principale); per ragioni di competenze, opportunità e mission (per quanto una azienda
possa essere sensibile ad alcuni temi non può “accollarsi” tutti gli oneri e gli sforzi – specie di
natura burocratica - per garantire determinate risposte).
Si solleva un momento critico che vede le imprese “responsabili” di fronte ad un paradosso.
Finché le aziende introducono benefici per i lavoratori come elementi appartenenti ad una
propria cultura e tradizione imprenditoriale, le percezioni dei lavoratori sono evidenti e
congruenti con tali impostazioni e finalità. Quando tali attenzioni vengono “formalizzate” ed
enfatizzate, come nel percorso Audit, le aspettative dei lavoratori aumentano. Il livello delle
aspettative per quantità, qualità, efficienza ed efficacia delle pratiche di conciliazione aumenta
ma non è automatico che aumentino anche le disponibilità e gli sforzi messi in campo dalle
aziende. Per questo è fondamentale che la pratica della certificazione non si esaurisca in un
momento simbolico con cui l‟amministrazione pubblica riconosce e premia gli sforzi delle
aziende family friendly. È invece doveroso che l‟attore pubblico contribuisca alla piena
realizzazione di un programma ponendosi come interfaccia che renda più fluidi gli scambi fra
il mondo delle imprese e quello dei servizi alla persona ed alle famiglie. Il settore pubblico
per la sua capillare diffusione territoriale può, più di ogni altro attore, mettere in contatto
mondi sociali differenti, orientati al raggiungimento di determinati obiettivi.
Obiettivi che riguardano il benessere di lavoratori ed il benessere delle aziende. Non si tratta
di favorire semplicemente il successo delle imprese, ma di partecipare attivamente alla
costruzione di un contesto territoriale in cui si generi benessere. Non solo economico ma
anche – se non soprattutto – sociale, civico e culturale. Abbiamo visto come le dimensione
della responsabilità e della fiducia caratterizzino gli scambi virtuosi fra azienda e lavoratori. È
132
necessario che tali circolarità si estendano e coinvolgano anche l‟attore pubblico che, in
quanto tale, ha non solo la facoltà ma l‟obbligo di promuovere e favorire il benessere, lo
sviluppo, l‟equità e l‟integrazione sociale. Solo facendo leva sul potenziale integrativo che
l‟attore pubblico può attivare, per unire imprese, terzo settore, famiglie e cittadini, è possibile
raggiungere livelli di conciliazione famiglia-lavoro che permettano – non alle singole aziende
ma al territorio -, di esprimere al meglio la produzione industriale nel mondo. Produzione il
cui valore aggiunto è sempre manifestazione di aspetti sociali e culturali.
133
5. IL WELFARE AZIENDALE COME STRUMENTO DI SVILUPPO TERRITORIALE SOCIO-
ECONOMICO SOSTENIBILE E INCLUSIVO (di Riccardo Prandini)
5.1 Il welfare aziendale territoriale e le sue sfide allo sviluppo economico inclusivo.
La ricerca condotta da Vincenzo Marrone mostra a mio parere quali enormi cambiamenti
stiano riguardando le relazioni tra datori di lavoro (imprese), dipendenti (lavoratori), famiglie
dei dipendenti, ma anche dei datori di lavoro (anche se purtroppo queste sono quasi sempre
fuori da ogni tipo di osservazione scientifica), territori e sistemi locali di welfare. Mostra
soprattutto che al centro del “sistema azienda”, composto dai proprietari, dagli azionisti, dagli
imprenditori, dai manager, dai lavoratori, dalle reti e filiere di fornitori e clienti, dai rapporti
con il territorio, etc., stia emergendo una rivoluzione ancora non del tutto compresa e, quindi,
non ancora ben governata-diretta. Evidenzia inoltre come la volontà di sostenere i propri
dipendenti – con processi di Family-Audit e con dispositivi di conciliazione famiglia-lavoro –
dia risultati estremamente positivi sia sotto il profilo del cosiddetto “clima aziendale” sia
rispetto alla capacità di ingaggiare-motivare responsabilmente il dipendente che è fortemente
interessato a rimanere in una azienda che si “prendono cura” in modo esplicito delle sue
esigenze sia lavorative sia extra-lavorative. La ricerca evidenzia infine quanto sia difficile
“misurare” l‟impatto dei dispositivi di conciliazione famiglia-lavoro, dato che il sistema
azienda-lavoratore-famiglia, non è un “sistema chiuso” su cui poter svolgere delle vere e
proprie sperimentazioni da cui trarre informazioni su presunti nessi causali. Le ricerche che ad
oggi hanno parlato di “correlazioni” positive tra dispositivi di conciliazione e produttività, lo
hanno fatto in modo piuttosto ipotetico e spurio, non potendo appunto isolare il “sistema” in
modo da sperimentare l‟attivazione oggettiva di nessi causali. Solitamente, e Marrone espone
con precisione queste procedure di analisi, si correla la presenza di dispositivi di welfare con
indicatori di produttività “spuri”, quali il turnover, le assenze per malattia o per bisogni
familiari, etc. Si tratta però di procedure analitiche ancora poco precise e affidabili, soprattutto
ancora tutte legate a una idea di produttività come presenza sul “posto” di lavoro.
Occorrerebbe invece usciere da questa visione ristretta, analizzando con maggiore precisione
come la presenza di politiche conciliative influisce sulla capacità personale e relazionale di
impegnarsi nel proprio lavoro, diminuendo lo stress negativo in tutte le sue componenti,
mettendo le persone in una condizione di lavoro più tranquilla, generando un clima di
134
collaborazione migliore con i datori e con i colleghi di lavoro, capace di influire
positivamente sulla produttività individuale e di gruppo. Ma per fare questo tipo di analisi
occorrerebbe avere una disponibilità da parte dell‟azienda di lasciar entrare nei propri processi
di lavoro e a permettere di “ascoltare” i bisogni e i progetti di vita dei propri dipendenti, che
non si riesce a trovare quasi mai, visto che (nel mentre) l‟azienda deve operare. In termini
molto generale, e nei settori produttivi a bassa specializzazione, possiamo osservare che la
forza-lavoro è ancora concepita come un capitale “oggettificato” che deve produrre, come se
si trattasse di un mero strumento di produzione, una “macchina banale” da poter sostituire a
breve dalla automazione. Nella realtà invece, soprattutto dove un capitale umano elevato è
necessario alla produzione e dove le competenze dei lavoratori diventano la risorsa principale
dell‟azienda, è in atto una rivoluzione importantissima che tocca lo stesso concetto di
contratto di lavoro. La ricerca di Marrone cerca di aggiungere qualche indicazione su quali
siano gli “indicatori” da utilizzare per misurare l‟impatto dei dispositivi di conciliazione sulla
produttività, ma il lavoro da fare rimane ancora molto in quanto la collaborazione con le
aziende, per sviluppare nuovi algoritmi di calcolo, rimane a livelli molto generali e
insufficienti. La speranza è che gli imprenditori comprendano quanto sarebbe importante per
loro capire la “portanza” di un clima di lavoro positivo e di dipendenti fortemente impegnati e
responsabili, variabili che certamente – e il Rapporto lo mostra chiaramente – sono fortemente
influenzate dalla cultura conciliativa del management.
In queste mie conclusioni vorrei perciò riprendere le argomentazioni di Marrone e svilupparle
in due direzioni distinte ma intrecciate, pena rimanere soltanto “o” in una logica di erogazione
“volontaria” dell‟azienda “o” in discorsi generici sullo sviluppo territoriale. Il primo
approfondimento riguarda il rapporto il “patto” tra azienda e dipendente, patto che va
analizzato da entrambi i punti di vista ed anche in connessione alle enormi mutazioni di
aspettative reciproche che stanno emergendo – e che esploderanno in futuro – entro il
contratto di lavoro. Il secondo riguarda invece le innovazioni che il “territorio”, in particolare
l‟amministrazione pubblica e i rappresentanti delle parti sociali, dovrebbero innescare per
agevolare lo sviluppo di una economia inclusiva e sostenibile. Per poter provare a riflettere su
queste due problematiche, devo prima introdurre – seppure molto sinteticamente – cosa
intendo per “welfare aziendale territoriale”.
In prima battuta infatti, il termine-concetto “welfare” tende a rimanere del tutto opaco – a
meno che non ci si accontenti di riferirsi a una generica idea di “benessere”. Ma, allora,
135
benessere in che senso? E quali dimensioni del benessere sono coinvolte? Individuali o
collettive? Materiali o psicologiche? E perché una azienda dovrebbe impegnarsi a produrre
benessere? Non dovrebbe occuparsi solo di profitto, come viene detto in ogni dove? E
“benessere” di chi? Dei suoi dipendenti (ma non paga già uno stipendio per le loro
prestazioni?): dei loro familiari (e perché mai dovrebbe farlo; non si invade così la sfera
privata?). Di altri attori del territorio? Con tutti o solo con quelli con cui le aziende hanno
davvero rapporti? La nostra proposta sarà quella di utilizzare il termine welfare in modo molto
specifico: come risultato di una particolare modalità riflessiva di re-entry, nel contratto di
lavoro, che include aspetti della vita – sia “privata” che lavorativa –solitamente esclusi.
Questa re-entry presuppone però che l‟azienda percepisca il suo “stare nella società”, in modo
nuovo: c‟è chi lo definisce Corporate Citizenship (Adler 2006; Crane et alii, 2012) e chi,
invece, ne sottolinea l‟innovativo e crescente ruolo politico (Scherer e Palazzo, 2011).
Comunque lo si interpreti, questo è lo spazio-tempo dove emerge la possibilità di “contratti
relazionali” specifici o – detto in altri termini – dove si rendono possibili processi di braiding,
intrecciamento tra dimensioni di vita “modernamente” tenute separate. Come avremo modo di
vedere, piuttosto che di una generica creazione benessere, qui è in atto una vera e propria
rivoluzione che innesca la “personalizzazione” della relazione di lavoro e che avrà certamente
conseguenze enormi sui processi di contrattazione e quindi anche sul welfare aziendale. In
seconda istanza occorre specificare meglio cosa si intende per “aziendale”. La letteratura e i
case studies a disposizione, sono generalmente riferiti a esperienze di grandi aziende,
soprattutto multinazionali, capaci di “internalizzare” alcune delle funzioni che in passato
svolgeva lo Stato. Se volessimo schematizzare questo processo di internalizzazione del
welfare state potremmo farlo (Fig. 5.1) indicando 4 aree di intervento che ricalcano quelle
tradizionalmente statali: 1) area di previdenza complementare; 2) area dei beni e servizi
sanitari integrativi; 3) area dell‟assistenza sociale; 4) area della promozione e
dell‟apprendimento personale. Se le prime due aree rispondono principalmente
all‟assicurazione rispetto a rischi “moderni” (la fine o l‟interruzione momentanea del lavoro e
la perdita della salute), le altre due affrontano invece i cosiddetti “nuovi” rischi sociali e cioè,
da un lato, la conciliazione tra famiglia e lavoro (con relativi carichi di cura), dovuta
prevalentemente all‟aumento dei tassi di attività femminile (in specie di madri con figli
piccoli), all‟incremento della popolazione anziana e ai profondi cambiamenti avvenuti
nell‟organizzazione e nei tempi di lavoro: dall‟altro le plurime transizioni e intrecci tra
136
sistema della formazione e del lavoro (Prandini 2012a).
Fig. 5.1. Il sistema del welfare aziendale
Al centro di questo nuovo “campo” sta il tema del cosiddetto Shared Value (Porter e Kramer
2006; 2011). Con questo concetto si intende un modo nuovo di concepire e realizzare la
catena del valore. In sintesi si tratta di ri-entrare nel profit la creazione di valore “sociale”.
L‟azienda non è più solo legittimata dal “fare profitti”, bensì da generare valore “a partire da-
per-con” il territorio, valore di cui il profitto è solo una minima parte. I dispositivi di welfare
aziendali, rappresentano esattamente una faccia di quella medaglia. È però risaputo che in
prevalenza vengono gestiti solo in grandi aziende, quelle con a disposizione rilevanti risorse
di personale ed economiche. Tutt‟altro problema hanno invece le miriadi di piccole e medie
imprese che popolano e innervano il nostro Paese. Le Pmi non possono seguire la strada delle
grandi imprese, internalizzando il welfare. Debbono organizzarsi in tutt‟altro modo, da un lato
attivando processi di pooling, dall‟altro comprando beni e servizi di welfare dall‟esterno: nel
primo caso vengono elaborati contratti di rete (Cafaggi 2009; Teubner 2011), dove il soggetto
è la relazione tra aziende, oppure vengono siglati patti e piattaforme di lavoro comune; nel
secondo vengono creati mercati di welfare aziendale estremamente interessanti per la crescita
Sistema fisico-organico e
comportamentale
Sistema della Personalità
Aspettative e rapporti
con l’esterno
Sistema della cultura e
della socializzazio
ne
Area A S S I C U R A T I V A
Area O R G A N I Z Z A T I V A
Area CRESCITA PROFESSIONALE
Area SOSTEGNO AI GENERI E GENERAZIONI
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137
del territorio, ma che vanno regolati in un modo specifico, viste le asimmetrie informative
potenziali.
Il tema dello Shared Value e gli accoppiamenti strutturali tra economia e società che esso
richiede, ci porta al terzo termine-concetto che va ri-specificato: quel “territoriale” che ormai
ovunque è presentato come “la” soluzione a tutti i problemi sociali. Solitamente è utilizzato
per riferirsi a strutture e processi sociali siti-posti in una determinata frazione di spazio. Se si
rimane a questo livello, però, non si riesce a fare più alcuna differenza tra, per esempio,
“spazio locale” e “territoriale”, perdendo così una delle connotazioni che sarebbero più utili
per indicare l‟innovazione in atto (Moulaert et alii 2013): la funzione di attiva inter-azione tra
attori che “crea” i confini di senso del territorium. Se, infatti, lo spazio locale, la località, è
semplicemente un dato topologico relativo a un osservatore, per cui ognuno è sempre in una
posizione spaziale derivata dalla differenza tra un valore locale e uno globale, il “territorio” è
sempre dato da un processo attivo di costruzione dello spazio: si scrive sempre territorio, ma
si tratta di processi continui di “territorializzazione – de-territorializzazione – re-
territorializzazione” (Magnaghi a cura di 2011). La proposta che qui faremo sarà dunque di
definire come “territoriale” uno specifico modo di “operare” di attori sociali, individuali o
collettivi, indirizzato a generare valori comuni (Shared Values) atti ad arricchire la relazione
di collaborazione così prodotta. Un territorio non è quindi una porzione di spazio definita
politicamente, o culturalmente e nemmeno economicamente (o in qualsiasi altro modo): è
invece un modo di co-operare, con molteplici effetti di ordine economico, politico, culturale,
etc., che ha come obiettivo la creazione di un contesto capace di moltiplicare le risorse
comuni, necessarie al funzionamento di ciascuno e di tutti gli attori coinvolti.
5.2. La trasformazione del sistema di Welfare collettivo: oltre lo Stato e verso un sistema
societario plurale
5.2.1. Cosa significa oggi generare welfare: “secondo welfare” o “welfare policontesturale”?
La prima operazione di chiarimento da compiere riguarda il senso del concetto-termine “wel-
fare”, la cui semantica viene generalmente utilizzata in modo generico a indicare un “benesse-
re” non meglio specificato. Questa genericità non è adeguata a descrivere la realtà attuale, so-
prattutto per due ordini di motivi: a) perché vi è ancora forte una abitudine a pensarlo solo in
138
connessione con lo “Stato sociale”, attribuendo al settore pubblico-statale l‟unico e indiscuti-
bile dovere di intervento sociale e di compensazione dei rischi: b) perché ormai gli attori di
tale “benessere”, nel nostro caso gli enti pubblici, le aziende e i dipendenti, le associazioni di
categoria, etc., influiscono e producono-distruggono benessere ben oltre i classici confini
amministrativo-politici. In particolare e in certi casi, l‟azienda “entra” nella vita dei dipenden-
ti in modo del tutto nuovo rispetto al passato, così come questi collabora in modalità imprevi-
ste e innovative. Al centro di questa nuova relazione sta il tema, rilevantissimo, dei contratti
(e delle partnership) di lavoro.
Rispetto al punto a), oggi gode di ottima ricezione a livello scientifico e, soprattutto giornali-
stico, il concetto di “Secondo welfare”, cioè di quel “mix di protezioni e investimenti sociali a
finanziamento non pubblico, fornite da una vasta gamma di attori economici e sociali collega-
ti in reti caratterizzate dal forte ancoraggio territoriale, ma aperte al confronto e alle collabo-
razioni trans-locali, che vanno progressivamente affiancandosi al primo welfare di natura
pubblica ed obbligatoria”. Secondo i teorici del Secondo welfare (http://secondowelfare.it/),
nell‟ambito del Primo rientrano le prestazioni e i servizi considerati “essenziali” per una so-
pravvivenza decorosa e per un‟adeguata integrazione nella comunità, nonché per garantire il
godimento dei diritti fondamentali di cittadinanza; mentre nell‟area del Secondo rientra il set-
tore della protezione sociale integrativa volontaria, soprattutto nel campo delle pensioni e del-
la sanità, nonché quella parte dei servizi sociali – con confini da definire pragmaticamente:
bisogno per bisogno, territorio per territorio, comunità locale per comunità locale – che il set-
tore pubblico non è oggi in grado di garantire. Il punti critici di questo approccio mi paiono
almeno tre, in brevissima sintesi. In primo luogo si continuano a pensare le trasformazioni del
welfare, entro la cornice novecentesca dello “Stato” sociale, in specifico dei “gloriosi
trent‟anni”. Ma quella configurazione fu solo un momento di un ciclo storico che partì prima
e che è ancora in fase di morfogenesi. Continuare a prendere come parametro quel tipo di wel-
fare (appunto inteso come il “Primo” e come riferito allo Stato novecentesco), non può che
portare a considerare gli attori e i dispositivi del “Secondo” come affiancamenti compensativi
(cioè, di riserva) o, al massimo, come soggetti da co-involgere nella macchina statale. In tal
senso “Secondo” rappresenta un indice temporale – di un ciclo osservato però troppo “tardi” –
e un indice gerarchico di una struttura a due pilastri pensati come ancora ben distinti. In realtà
la strutturazione del welfare state del dopo-guerra, rappresenta a sua volta una morfogenesi di
un momento precedente e non può essere preso come parametro finale, così come la sua strut-
139
turazione attuale non è definitiva. In seconda battuta la “narrazione” delle ragioni genetiche
del secondo welfare, considera prevalentemente due fattori molto differenti e non comparabi-
li: da un lato i vincoli di bilancio degli stati-nazione che renderebbero necessari tagli al welfa-
re; dall‟altro l‟emergere di nuovi bisogni non includibili in quelli “moderni”. Questa distin-
zione però non è coerente in quanto i “nuovi rischi” necessiterebbero in realtà di nuovi inve-
stimenti anche del Primo welfare, mentre d‟altra parte la richiesta di tagli ricade su qualsiasi
tipo di spesa. In definitiva però è evidente che al cosiddetto Secondo welfare viene lasciato
spazio solo come compensazione “privata” – cioè “intervento ex post” – di bisogni sociali non
più affrontabili con risorse statali. Di nuovo però sembra che se lo Stato fosse capace di inter-
venire in modo adeguato, il Secondo welfare dovrebbe rientrare nella sfera “privata”. Qui pe-
rò si innesta il terzo problema. Quello di una distinzione pubblico/privato non adeguata ai
cambiamenti in atto che, tra l‟altro, porta a considerare alcuni servizi e prestazioni come “in-
dispensabili” e quindi riconducibili a diritti, mentre altre come accessorie e quindi “privata-
mente” affrontabili. Ma proprio questa distinzione pubblico/privato – indispensabi-
le/dispensabile, non regge vista la complessità delle dinamiche sociali in atto. Non solo è
estremamente arbitrario distinguere in necessario dal contingente (il problema dei Liveas è
qui, per esempio, chiarissimo) in quanto i bisogni sono in continua evoluzione: non solo è
molto problematico lasciare praticamente tutto il campo dei servizi sociali nel lato del contin-
gente. Il vero punto critico è che questo “frame” non riesce a rendere in modo adeguata la ri-
voluzione che le identità degli attori, delle loro relazioni e delle loro logiche di funzionamen-
to, sta producendo nel campo del welfare. Non è un caso che oggi i concetti più interessanti
(con conseguenti ricerche), indichino come fondamentali strutture e processi ibridati/danti,
accoppiamenti strutturali, crossing di confini, partnership, regimi di regolazione pubblici ma
non statali, governo per standard, costituzionalizzazione delle sfere civili, regimi sperimenta-
listi, etc. Ognuna di queste realtà ci narra di un mondo sociale non più governato dallo Stato-
nazione e, soprattutto, dove cambiano le identità-funzioni di Statale-civile/pubblico-privato e,
conseguentemente, di bene comune e di beni comuni. Come esempio delle trasformazioni che
riguardano il campo delle aziende, accenniamo all‟idea della Corporate Citizenship, così co-
me a quella dell‟impresa come attore politico che genera veri e propri diritti sociali (Crane et
alii 2008). Detto in estrema sintesi, la narrazione di Primo e Secondo welfare, pare estrema-
mente debole e inadeguata a comprendere questo passaggio d‟epoca. La generazione di welfa-
re è oggi operata da una pluralità di attori, relazioni, intrecci, ordini emergenti che pratica-
140
mente non hanno più a che vedere con la distinzione “primo-secondo”: questo è invece un
welfare assolutamente policontesturale: un ordine emergente complesso che genera bene co-
mune del tutto non riconducibile a pubblico/privato (Macchioni 2014).
Rispetto al b) la riflessione necessaria per uscire dalle secche del mainstreaming è ancora più
profonda perché implica null‟altro che il ripensamento completo della relazione tra
dipendente (ma per quanto dipendente?), datore di lavoro (per quanto?) e territorio (con quali
confini?), con tutti i diritti e doveri che ne emergono. Su questo versante occorre essere
radicali, ben oltre il dibattito piuttosto stantio che è avviato nel nostro Paese. Bisogna essere
capaci di considerare la rivoluzione che sotto i nostri occhi sta sconvolgendo le stesse identità
delle organizzazioni for profit e delle loro relazioni con il cosiddetto capitale umano e con il
territorio. Si tratta di pensare a un management riflessivo capace di dare forma, da un lato, a
una impresa che sempre più deve abbandonare i tratti classici di una organizzazione moderna
e, dall‟altro, a un lavoratore che è spinto sempre più a doversi includere come “persona”
nell‟organizzazione (che a sua volta cambia) (Andersen 2013). Se cambia il senso del welfare
e quello della relazione tra impresa e dipendenti, allora dovrà cambiare anche il nesso tra
azienda, benessere e territorio. Siamo qui al centro di almeno due importantissime
innovazioni sociali, laddove con tale concetto si intenda il cambiamento delle relazioni sociali
che rendono possibile un cambiamento positivo capace di rispondere in maniera migliore a
bisogni emergenti. Da un lato, quello interno, siamo in presenza di innovazioni relative alla
relazione tra azienda e dipendenti che necessità di contratti relazionali specifici (e oltre). La
contrattazione deve osservare la relazione dipendente-datore di lavoro in modo “ampliato”,
includendo nel contratto non solo molti più temi di aspettativa, ma soprattutto l‟aspettativa
che il contratto sarà ricontrattabile nel tempo. Al centro di questa innovazione sta il tema della
“personalizzazione” dei contratti che, evidentemente, appare ancora in prevalenza come una
bestia nera per le parti in causa e per i loro rappresentanti sindacali o imprenditoriali. Dal lato
esterno, invece, l‟innovazione comprende l‟intero sistema di governance del territorio,
finalizzato alla sua crescita in termini di qualità di vita. È questa la sfida concettuale e pratica
maggiore perché occorre definire cos‟è un territorio, da chi è abitato, con quali diritti-doveri e
quale possa essere la forma della sua governance (ma di questo ci occuperemo dopo).
Vediamo in sintesi quali sono i punti cruciali di questa complessa tematica.
141
5.2.2. La multidimensionalità del benessere: personale, lavorativa, familiare.
Il welfare aziendale va declinato in termini sia multidimensionali sia osservando ciò che
accade sui confini che connettono la sfera privata del dipendente a quella professionale e
pubblica (osservazione dell‟in-betweeness). Da una ricerca svolta su aziende della Provincia
di Trento (Prandini, Macchioni, Marrone 2013), questa multidimensionalità è apparsa
chiaramente. In primo luogo (per mezzo di analisi fattoriale) sono emerse tre dimensioni ben
distinte di “benessere”: uno di tipo “personale” che riguarda le dimensioni della salute fisica e
psichica come quelle della capacità individuale di focalizzarsi su problemi e affrontarli; uno
“professionale” che riguarda il rapporto con i colleghi di lavoro, la produttività e
l‟identificazione/impegno verso l‟azienda; uno “familiare” relativo alle relazioni con il
coniuge e con i figli. Le tre dimensioni sono indipendenti, ma fortemente interconnesse a
livello empirico. Ciò significa che qualsiasi approccio monodimensionale, sia esso soltanto
riferito a una delle dimensioni secondo interessi manageriali o di politica familiare o di
interesse psicologico, non è adatta a comprendere multidimensionalità degli aspetti di vita
realmente attivati nella relazione di lavoro. In seconda istanza e non meno importante, la
generazione di benessere personale, professionale e familiare – attivata (o meno) dai diversi
dispositivi conciliativi aziendali – non segue per nulla logiche “addizionali” e mono-causali:
non è che prima venga generato benessere personale a cui poi si aggiunge quello
professionale e infine quello familiare (o in qualsiasi altra forma addizionale e temporale si
vogliano porre le co-relazioni). Ciò che invece accade è che i benesseri sono uno per l‟altro un
fattore di com-possibilità. In altre parole il benessere che il dipendente sperimenta è un
benessere “complesso” e “plurale”: complesso perché ognuno dei fattori che abbiamo
analizzato concorre alla sua emersione globale; plurale perché ogni fattore in gioco, seppure
con “portanze” diverse, contribuisce a generarlo. Questo benessere è perciò un “fenomeno
emergente” che soltanto a fini di osservazione scientifica può essere scomposto
analiticamente. È evidente che un lavoratore che può usufruire di dispositivi conciliativi,
percepirà un aumento del suo benessere in relazione, prima di tutto, ai suoi bisogni e le sue
esigenze. Se per esempio ha figli molto piccoli e se usufruisce di un orario flessibile o meglio
personalizzato, sperimenterà in prima battuta un beneficio maggiore nella relazione
genitoriale, potendo stare più tempo con i figli, dando loro più attenzione e quindi riuscendo
ad aiutarli maggiormente nella crescita. Probabilmente questo miglioramento nel campo
genitoriale, potrà generare anche un miglio benessere bio-psichico (meno stress, più serenità e
142
meno tendenza ad ammalarsi) che si riverbera su un equilibrio psicologico. Questo a sua volta
avrà probabilmente effetti positivi sulla relazione di coppia e, essendo più capace di gestire
queste relazioni, il dipendente sarà anche più performativo al lavoro, più sicuro di sé, più
capace di esprimere i propri problemi alla dirigenza, etc. A sua volta questa nuova
“configurazione” di benessere complessivo, avrà effetti positivi retroagenti sui suoi elementi
costitutivi. In altre parole qui ci troviamo di fronte a un ordine di realtà – il benessere
complessivo e plurale del dipendente – emergente. A contare non sono specifiche e isolabili
relazioni causa-effetto, quanto il sistema globale e le azioni-retro-azioni del “tutto” sui suoi
elementi “costitutivi”.
Questa fenomenologia, che ha che vedere con sistemi complessi e ciberneticamente auto-
regolati, dovrebbe avere un impatto decisivo su chi decide di implementare i dispositivi
conciliativi, a dire: non cercare tanto di isolare alcuni fattori ritenuti fondamentali per
accrescere un tipo solo di benessere, quanto di “progettare” un sistema complesso e
personalizzato di dispositivi che influenzeranno in maniera differenziale tutti gli aspetti del
benessere del dipendente (che tra l‟altro sono tutti importanti). L‟approccio economicista che
privilegia solo l‟aspetto della produttività del dipendente, è cieca rispetto a questa realtà
emergente, ma non comprende che non è possibile solo operare su un livello di realtà nella
ipotesi (falsa) che questo non abbia poi influenze sugli altri. Vi sono manager che
implementano dispositivi conciliativi per liberare tempo lavorativo a scapito di quello
personale o familiare. Ma ciò non può funzionare perché il benessere è un effetto emergente,
complesso e globale.
Se il benessere che possiamo osservare è un effetto emergente complesso e globale – che
implica sia dimensioni personali che professionali che familiari – allora quel benessere
rappresenta un “equilibrio riflessivo”. Ed è proprio in quanto tale che va trattato e sostenuto.
Con questo concetto intendiamo quella particolare “configurazione” di benessere personale,
professionale e famigliare, unica per ogni diverso dipendente, che viene raggiunta attraverso
l‟utilizzo di strumenti conciliativi. Ogni lavoratore ha chiaramente esigenze sia sotto il profilo
strettamente personale (distinto in esigenze fisiche e psicologiche, per essere sintetici),
professionale (di rapporti con colleghi, di produttività, di senso di appartenenza) e familiare
(genitoriali, di coppia e di cura agli anziani). Ognuna di queste esigenze necessita di risorse
per essere affrontata e per poter dare risposte: ma evidentemente non si può investire in
ciascuna di esse allo steso modo, perché spesso sono in conflitto. Dovrò passare più tempo
143
con i miei figli? O con mia moglie? Dovrò così sacrificare la mia carriera? Oppure dovrò
sacrificare la cura dei genitori anziani per fare carriera? Oppure dovrò rinunciare alla carriera
e anche alla famiglia per motivi di salute? La combinazione (e i conflitti) che ognuno deve
“inventare” per trovare il suo equilibrio dipende da moltissimi vincoli e risorse, sia personali
che sociali (salute, capacità cognitive, risorse economiche, conoscenze, etc.). Dipende per
esempio dalle priorità che ognuno dà a quegli aspetti della sua vita, ma non solo da questi
perché se così fosse tutto dipenderebbe solo dalla volontà. In realtà ci sono molti vincoli che
limitano i proprio progetti di vita, così come diverse abilitazioni. Quello che la ricerca ci ha
mostrato è che i nostri intervistati cercano di raggiungere il loro equilibrio specifico,
riflettendo sui “pro” e i “contro” delle loro decisioni. Questo “equilibrio riflessivo” personale,
dipende anche dall‟equilibrio riflessivo del Noi costituito dalla coppia o dalla famiglia
(Prandini 2013a). Nessuno può mai scegliere come se fosse solo, almeno laddove ha
responsabilità famigliari. E se lo fa, significa che quelle responsabilità sono state poste
all‟ultimo posto nella scala dei valori.
5.2.3. Contrattazione relazionale e promesse a lungo termine in un contesto lavorativo
sempre più incerto
A fronte di questa multidimensionalità dei bisogni e, soprattutto, a fronte della velocità di
cambiamento che tocca tutte le sfere di vita, il rapporto di lavoro tra dipendente e datore non
può che subire una profondissima mutazione. I temi in esame sono almeno, ma non solo, due:
1) la continua flessibilizzazione o precarizzazione dei contratti di lavoro; b) la
complessificazione dei contenuti di vita che entrano nella relazione di lavoro. Del primo
aspetto ci occuperemo nel prossimo paragrafo, trattando di contratti relazionali. Rispetto alla
complessificazione dei contenuti di vita che entrano nella sfera lavorativa, possiamo
accennare soltanto alla tematica emergente e centrale. La questione fondamentale che oggi
riguarda la relazione di lavoro, può essere così definita: cosa significa organizzare un rapporto
di lavoro, quando tutto cambia a velocità estrema? La risposta ha a che vedere, probabilmente,
con il concetto di membership che, nel presente contesto, ha molto a che vedere con il tipo di
relazione: a tempo indeterminato, determinato, e in nuove e cangianti modalità. La
rivoluzione in ci mostra che la realtà di “un lavoro per tutta la vita e nella stessa
organizzazione” è in via di sparizione, o comunque in fortissima crisi. Il rapporto di lavoro da
contrattualizzare, diventa contingente e fortemente oscillante. In tutti i sensi: materiale,
144
sociale e temporale. Materialmente (il cosa del contratto) ci si aspetta sempre di più che il
dipendente sappia cambiare mansioni, continui la sua formazione, sia disponibile ad
apprendere “al momento” ciò che serve per lavorare. In un contratto discreto è quasi
impossibile “fermare” queste aspettative. Dal punto di vista “sociale”, al dipendente viene
chiesto sempre di più di riconfigurare i confini tra vita privata/professionale, per lasciare che
le proprie capacità di relazione, affidabilità, capacità di prendersi cura, finanche di anticipare i
bisogni del datore (una forma peculiare di amore!), possano arricchire la sue competenze
professionali. Dal punto di vista temporale, crollano tutte le vecchie barriere tra tempo di
lavoro e tempo di vita, fino alla invasione dei primi sui secondi. Questa riconfigurazione dei
confini tra interno-esterno, prende la forma di una continua re-entry tra aspetti di vita privata e
vita lavorativa, andando a creare uno spazio emergente pieno di nuove aspettative, sia sul
lavoro che nella vita privata, con conseguenti problemi di gestione. In altri termini viene
richiesto alle persone di essere molto più disponibili sul lavoro, sotto punti di vista che fino a
pochi anni fa erano richiesti solo ai top manager. Inoltre la capacità di “dedicarsi” al lavoro
sembra aumentare. Ma viene chiesto all‟azienda di essere molto più flessibile di prima, per
permettere alle persone di poter gestire meglio la propria vita privata. D‟altra parte anche
l‟azienda, subisce una estrema trasformazione in quanto deve sempre più dipendere da quelle
capacità molto personali e idiosincratiche che richiede ai suoi dipendenti. Deve organizzare
ciò che è difficilmente prevedibile e contrattare ciò che non è contrattualizzabile. In fin dei
conti anche l‟azienda subisce la precarizzazione, anche se dal suo punto di vista. Non è un
caso che per certe mansioni, molto importanti in una azienda, i contratti somiglino più a
“matrimoni”, cioè a partnership (Andersen 2008). Questa duplice imprevedibilità-instabilità,
rende il rapporto di lavoro simultaneamente più flessibile e inflessibile, più instabile, ma più
intenso. La gestione di queste nuove aspettative, richiede che la contrattazione sia capace di
attivare processi di braiding (Sabel 2010), cioè di “intrecciamento” tra dimensioni materiali,
sociali e temporali altamente complesse. I dispositivi di welfare aziendale sono esempi di
queste nuove trecce.
Vista la complessità delle dimensioni del benessere implicate e i processi di crossing, è
evidente che la contrattazione discreta non può essere adatta a regolare il welfare aziendale.
Da questo punto di vista, la contrattazione nazionale collettiva è ancora troppo
standardizzante dal punto di vista “sociale” (non personalizzata”), lenta e rigida dal punto di
vista “temporale” (non on demand) e poco innovativa da quello “materiale”. Il welfare
145
aziendale serve proprio per far emergere, intercettare e dare risposte a bisogni più
personalizzati che vanno al di là dei confini tradizionali dei contratti discreti. Questi sono
dispositivi giuridici di tipo tradizionale dove, a fronte di una retribuzione fissa, si richiede un
determinato tipo di attività. Un primo modo di andare oltre questo modo di contrattazione, è
quello di introdurre benefits, in forma di retribuzione variabile (per esempio a fronte di
maggiore produttività) e poi beni e/o servizi. Se le parti contrattuali non sono in grado, o non
vogliono, legarsi in modo specifico e definitivo, allora si definiscono dei contratti
“relazionali” (MacNeil 2011). Una definizione precisa dei diritti-doveri implicati, può essere
impraticabile a causa della incapacità di identificare incerte condizioni futuri o per la
difficoltà di determinare gli adattamenti complessi adeguatamente. Così, la sostituzione delle
clausole di aggiustamento sono inclusi nell‟ambito del processo per stabilire una
cooperazione per l‟organizzazione del prodotto o del servizio. In pratica un contratto
relazionale, è un contratto che prevede la possibilità di cambiare le specifiche del contratto
stesso, assumendo così una forte flessibilità e adattabilità materiale (cosa è contrattato),
sociale (con chi si contratta) e temporale (per quanto e in che tempi). Secondo Andersen
(2013), i contratti relazionali a loro volta vengono poco a poco sostituiti dalla forma delle
partnership, una sorta di contratto di secondo ordine, che serve per tentare di fare i conti con
il fatto che ogni circostanza di promessa (contenuto del contratto) è in continuo cambiamento.
In pratica sono promesse di continuare a promettere: ci si lega in modo tale da poter cambiare
la forma del legame, pur mantenendo questo ben stretto. Si allargano gli orizzonti temporali,
sociali e materiali, per tenere stretto il legame di collaborazione. Questo sviluppo di
partnership può anche proiettare una lice diversa sul processo di precarizzazione del lavoro. È
evidente che ormai per quote crescenti della popolazione, non è più possibile un contratto di
lavoro discreto e neppure a tempo indeterminato. La “determinazione” temporale sta
irrompendo in modo strutturale nel campo del lavoro. E gli osservatori mostrano grande
preoccupazione, soprattutto per le generazioni più giovani. Dal punto di vista dell‟azienda, la
precarizzazione significa impossibilità di includere lavoratori come membri “per sempre”. E
anche questo è un problema, non da poco. L‟azienda deve poter impegnare il lavoratore non
potendo però impegnarsi per un tempo lungo. Come può convincere il lavoratore a
impegnarsi? E il lavoratore deve trovare motivi per impegnarsi sapendo che non potrà
rimanere in quell‟azienda per molto. Come si esce da questa situazione? La soluzione sembra
essere appunto una “intensificazione” della relazione che include più dimensioni di vita
146
cercando risposte molteplici ai bisogni che ne conseguono. La contrattazione relazionale e i
dispositivi di welfare sono formule per trattare questi aspetti “intrattabili” del nuovo mondo
del lavoro.
È certamente questo uno dei temi più interessanti che emergono dal Rapporto. La relazione tra
datore di lavoro e dipendente, una volta basata sul contratto di lavoro discreto, sta prendendo
forme estremamente complesse e ricche di contenuti difficilmente includibili nelle forme
contrattuali classiche. Ciò che viene a modificarsi è, più in profondità, l‟insieme delle
aspettative che legano datore e dipendente. La formula contrattuale classica e discreta si
basava prevalentemente su aspettative piuttosto generiche. Dal lavoratore ci si attendeva che
mettesse a disposizione il suo tempo di vita e un insieme di competenze lavorative fortemente
riferite alla missione dell‟azienda. Si trattava dunque di un contratto “discreto” cioè
decisamente delimitato nei suoi contenuti. In termini teorici potremmo dire che l‟appartenere
come dipendente alla organizzazione, passando per una contrattualizzazione, sintetizzava il
motivo generalizzato per cui l‟imprenditore cercava forza lavoro (lo scopo dell‟azienda),
insieme alla motivazione del lavoratore in cerca, da un lato, di reddito e, dall‟altro, di auto-
realizzazione. Si trattava di due serie di aspettative parallele (ricerca di forza lavoro
competente e ricerca di reddito/auto-valorizzazione) che erano collegate in modo forte
attraverso il “posto di lavoro” tendenzialmente a tempo indeterminato. Vigeva una altissima
zono di “indifferenza” tra le politiche dell‟azienda che venivano decise dal management o
dall‟imprenditore-proprietario e la vita privata del lavoratore che una volta terminate le ore di
lavoro poteva tornarsene a casa senz‟altro a cui pensare (se non a mantenere il posto). Entro il
rapporto di lavoro erano incastonate anche aspettative prevalentemente implicite e latenti
riguardanti, da un lato l‟aggiornamento e la crescita professionale che il datore metteva a
disposizione del dipendente e, dall‟altro, l‟impegno di quest‟ultimo a lavorare e impegnarsi
oltre le mere mansioni contrattualizzate. Con il complessificarsi del mondo del lavoro, sia
rispetto alle richieste di beni e di servizi sempre più diversi e specialistici, sia rispetto
all‟organizzazione della produzione con tempi e modi incrementalmente diversificati, il
contratto tradizionale discreto non riesce più a contenere serie di aspettative che non
coincidono più in modo semplice. Il datore di lavoro comincia ad aspettarsi che i dipendenti
siano più flessibili rispetto agli orari; che si impegnino maggiormente davanti a problematiche
non routinarie e prevedibili; che imparino a lavorare in un team e che, soprattutto, siano
sempre motivati a imparare nuove soluzioni. I dipendenti si aspettano che i datori prendano in
147
considerazione i loro carichi familiari; che siano interessati alla loro carriera e che siano
disponibili a farli crescere professionalmente. Le mutazione del mondo del lavoro che dal lato
della offerta si presenta come aumento della precarizzazione, dei contratti atipici o a tempo
determinato, delle richieste di flessibilità e di disponibilità personale a cambiare mansioni e
ruoli, così come quelle dal lato dell‟offerta con sempre maggiore richiesta di attenzione verso
i bisogni e gli interessi di vita privata così come alla crescita e accumulo di competenze,
spinge verso la ricerca di nuove forme contrattuali e di nuove culture della membership
occupazionale. Secondo Andersen (2013) sono tre i codici culturali che entrano nella gestione
delle aspettative lavorative innovandone i contenuti e quindi anche il bisogno di gestirli.
Il primo ha a che vedere con la “adolescentizzazione” del lavoratore. Con questo concetto si
intende che il datore di lavoro si aspetta sempre più dal lavoratore che egli trovi una
motivazione personale – e non istituzionale – a formarsi e a rendersi disponibile ad acquisire
competenze importanti per il lavoro. In altri termini deve essere il dipendente stesso a
specificare il suo impegno lavorativo eccedendo le aspettative e i doveri meramente richiesti
nel contratto. Il dipendente deve auto-attivarsi nel senso di un crescente impegno per mettersi
autonomamente, senza che gli venga richiesto esplicitamente, nelle condizioni di operare
efficacemente per l‟azienda. Il riferimento alla “adolescenza” (cioè al continuare a crescere),
si riferisce proprio alla aspettativa che il dipendente concepisca il suo lavoro nei termini del
life-long-learning, ossia come a un insieme di competenze da potenziare e apprendere senza
tregua. Questo sforzo che apre un orizzonte temporale indefinito è certamente una richiesta
che nella cultura del lavoro precedente non era presente e che riempie di nuovi contenuti il
ruolo del lavoratore con tutto lo strascico di energie motivazionali e di apprendimento che
vengono ora attese. Il secondo codice culturale che va ad arricchire le aspettative di ruolo del
lavoratore, prende spunto dalle relazioni intime basate sull‟amore. Con ciò si intende
l‟aspettativa che il dipendente sappia “anticipare” (come un buon partner!) i bisogni del datore
di lavoro, mettendosi nei panni di chi deve prevedere le problematiche emergenti e dare
soluzioni prima che diventino tema di comunicazione formale. Qui è in gioco quella che viene
chiamata intelligenza “emotiva” delle persone, la loro capacità di lavorare in gruppo e di “fare
squadra”. Anche in questo caso si tratta di modalità di lavoro che in precedenza non erano
richieste e che comunque rimanevano nell‟informalità del rapporto tra dipendente e datore di
lavoro. Ora invece si tratta di competenze che possono anche rientrare nel contratta, ma anche
se non sono contrattualizzate, fanno parte delle contratto esplicito che avviene tra le parti e
148
che va a creare le basi per quello che gli economisti e gli operatori del management chiamano
modello del “Total Reward”. L‟ultimo codice culturale che entra nel rapporto di lavoro è
quello del “gioco”, cioè di tutta quella serie di attività volontarie che i dipendenti possono
scegliere di fare o meno – riunioni dove ognuno deve esprimere come vede gli altri, dove
viene chiesto di assumere la prospettiva e il ruolo di altri per vedere l‟azienda da un punto di
vista diverso, momenti “eccitanti” con i colleghi dove si mette alla prova il proprio coraggio,
test psico-motivazionali che vengono utilizzati per permettere al dipendente di aggiornare le
sue motivazioni personali al lavoro – dove viene messo in moto la gestione della
immaginazione e dell‟innovazione e dove si costruiscono scenari “strani”, non routinari,
paradossali, ma in grado di osservare la vita aziendale in modo creativo. La funzione del
gioco è quella di mostrare come l‟organizzazione aziendale, così come i propri ruoli
nell‟azienda, è contingente, cioè potrebbe essere attualizzata in modo diverso.
Queste tre culture del lavoro trasformano, insieme alle condizioni contrattuali in profondo
cambiamento, la relazione tra dipendente e datore. La trasformazione in atto riguarda anche il
lato dell‟azienda. Questa deve a sua volta cambiare la sua “vision” aziendale, le sue forme
organizzative, il suo modo di entrare nei nuovi mercati, la sua presenza sul territorio, in modo
da rispondere alle sfide sociali. In particolare, e questo è un tema pochissimo osservato,
l‟azienda sfruttando moltissimo le modalità di flessibilizzazione e delocalizzazione del lavoro,
si viene a trovare in una situazione imprevista. Ha sempre di più a che fare con dipendenti
che, in negativo, sanno di non poter contare su contratti a tempo indeterminato e su carriere
“lineari”, con tutto lo strascico di problematiche motivazionali che ne consegue; in positivo,
invece, che a loro volta sfruttano i contratti di lavoro a termine o atipici per “acquisire”
competenze, liste di clienti, informazioni, risorse da poter poi utilizzare quando il contratto
scadrà e dovranno cercare un altro posto. A questo punto il contratto di lavoro non è più
considerabile come un dispositivo giuridico semplice che “lega” giuridicamente due serie di
aspettative chiare, discrete e definite. La contrattazione diventa relazionale includendo al suo
interno aspetti della vita del dipendente che prima non sarebbero mai stati concepiti come
rilevanti per un contratto di lavoro. Il tema della conciliazione famiglia-lavoro, riguarda
proprio uno di questi aspetti, cioè i diritti di cura che un dipendente ha nei confronti dei suoi
familiari e che un datore di lavoro può tenere in considerazione quando stringe un rapporto
contrattuale.
Nel prossimo futuro il combinato disposto della differenziazione dei territori e della
149
personalizzazione delle relazioni industriali, spingerà certamente verso forme di
contrattazione di secondo livello, spesso gestite insieme a diversi attori del territorio. Esiste
infatti una tendenza, seppure ancora piuttosto in nuce, di trattare queste innovazioni sociali
entro progetti di “sviluppo territoriale” con il sostegno delle associazioni imprenditoriali, dei
sindacati degli enti bilaterali e anche di pezzi rilevanti di servizi sociali territoriali. Come si
comprende si connette la forma della partnership, altamente flessibile dal punto di vista
contrattuale, con quella del territorio, estremamente flessibile dal punto sociale. In pratica si
usano artefatti semantici che lasciano aperti orizzonti di possibilità ampi, pur mantenendo la
capacità di regolarli. Tutto ciò – al di là della sua formalizzazione giuridica – necessita
certamente di elementi non-contrattuali del contratto, quali fiducia reciproca, impegno verso
un bene comune, capacità di co-operazione che non possono essere definiti contrattualmente.
è proprio in questo punto che entrano in gioco gli attori sociali del territorio che possono
sviluppato schemi di pacchetti di welfare, anche adatti alle piccole imprese, dove gli enti
pubblici e le associazioni di categoria, il sistema della formazione, i sindacati, etc. offrono
sostegno per la loro fattibilità (Treu, a cura di, 2013). Di fatti se l‟ambito aziendale è il più
adatto per poter osservare i reali bisogni dei dipendenti e quindi personalizzare i dispositivi di
welfare, quello territoriale il migliore per osservare i percorsi di sviluppo del territorio. La
costruzione partecipata del welfare aziendale, cioè di programmi bilaterali o ancora meglio
multilaterali, non solo è indice di un profondo radicamento dell‟azienda, ma pure che sono in
atto processi di ri-territorializzazione.
5.2.4. Personalizzazione come sistema di servizi “tagliati” sulla persona.
“Personalizzare” un servizio significa operare e orientarlo in modo da interagire con la
persona in quanto medium di potenzialità plurali (a diversi livelli di osservazione ontologica:
potendo cioè contare su diversi strati esistenziali (Prandini e Sabel 2013). Operare in due
direzioni diverse: 1) cucendo il servizio addosso alle contingenti e peculiari potenzialità del
soggetto; 2) per generare un passaggio dalla potenza all‟atto, cioè attivando qualcosa che era
dis-attivato. È la logica interna del servizio, la sua configurazione, a essere dirimente. A
contare sono i meccanismi generativi che producono personalizzazione, cioè le procedure del
servizio che portano le potenzialità a venire attualizzate e “realizzate”. In altri termini
possiamo dire che la “personalizzazione” è la formula di contingenza di un modo iper-
specificato di produrre servizi. Sebbene tutto potrebbe significare “personalizzazione”, solo
150
laddove è presente una logica generativa di “capacitazione”, se ne può parlare in modo
congruo. Da questo punto di vista il medium persona è il piano di pogtenzialità su cui operare
con il servizio, trasformando la persona in una nuova forma, cioè portandola in una situazione
di nuova auto-realizzazione. Nell‟operare in questo modo (Fig.5.2), la persona non è
semplicemente una tabula rasa su cui imprimere forme, bensì esattamente quel piano di realtà
stratificata ontologicamente da riconoscere nella sua contingenza peculiare, su cui fare “leva£
per il progetto di riforma. Qui, forma-persona significa che le potenzialità latenti e non
ordinate (dis-ordinate) che ogni individuo possiede, vanno ri-ordinate ed enacted, affinché
passino dalla potenza all‟atto e, così, possano aiutarlo a cogliere opportunità sociali che nella
sua configurazione (deficitaria) precedente non potevano essere colte. In altre parole: la
(ri)attivazione delle potenzialità personali latenti, diventa condizione di possibilità per poter
cogliere opportunità sociali.
I risultati della ricerche e le riflessioni che stiamo elaborando, dovrebbero convincere i datori
di lavoro che un programma conciliativo ben progettato e implementato, soprattutto se basato
sulla flessibilità dell‟orario di lavoro, ma arricchito da ulteriori dispositivi, dovrebbe essere
personally tailored. Il sistema conciliativo, oltre a dover essere complesso e ricco, deve anche
essere fortemente ritagliato-disegnato sui bisogni dei dipendenti. Non bisogna seguire le mode
e fare quello che al momento è più pubblicizzato dai mass-media.
È la personalizzazione del sistema conciliativo che conta. Per questo occorre una analisi
preliminare che colga esattamente i bisogni in campo. E occorre, infine, anche un sistema di
valutazione capace di mostrare cosa funzione e cosa invece va cambiato. Se infatti siamo in
presenza di un benessere complessivo e globale che deriva da un lavorio costante di scelte che
portano ad un equilibrio riflessivo personale, allora non ha molto senso progettare un sistema
di dispositivi conciliativi mono-diretti, con la presunzione di toccare un solo livello della vita
del dipendente.
151
Fig. 5.2 – La logica dei servizi personalizzati (relazionali e riflessivi) come logica di trans-formazione
I manager, o i proprietari delle aziende, dovrebbero essere consapevoli di questa verità, anche
perché la vivono in prima persona come tutti. Un vero sistema di conciliazione deve essere
rivolto alla persona nella sua interezza, calcolando anche come variabile decisiva i suoi
“impegni” familiari, il suo equilibrio psicologico e, naturalmente, anche la sua capacità
produttiva. Il dipendente va dunque considerato come un persona “integrale” che va rispettata
in tutte le sue dimensioni e i suoi diritti. Isolare solo un aspetto di quell‟intero, significa fallire
completamente lo scopo. Per lo stesso motivo, anche voler giustificare i dispositivi di
conciliazione soltanto come strumenti per aumentare la produttività o il benessere familiare,
non ha molto senso perché ognuna di quelle dimensioni è collegata alle altre. Per poter
erogare questo tipo di servizi serve organizzare il territorio in modo innovativo, attivando tutti
gli attori capaci di contribuire alla generazione di benessere.
Tempo 1
Persona come medium di
potenzialità “sciolte” e
dis-attivate
Tempo 4
Persona come forma di
potenzialità ri-attivate
e ri-organizzate
Tempo 2-3
Erogazione del servizio personalizzato,
relazionale e riflessivo;
- assessment dei problemi
- pianificazione del servizio
Processo di trans-formazione
152
5.3. Cosa significa territorializzare il welfare aziendale: come riconnettere
l’Amministrazione pubblica, il sistema delle aziende e il benessere familiare
5.3.1. De-territorializzazione e ri-territorializzazione dell’economia: alcuni spunti di
riflessione.
LA riflessione sul welfare aziendale non può però limitarsi a quanto accade dentro alla
azienda. Fondamentale è il sistema di governance territoriale che deve sostenere lo sviluppo
“a rete” delle innovazioni aziendali. È risaputo che il problema del nostro Paese non sia quello
della mancanza di innovazione, nel nostro caso di innovazione di welfare aziendale, quanto di
disseminarla nelle PMI. È a quel livello che i problemi sorgono. Occorre quindi collegare la
teoria e la pratica dello Shared Value a una riflessione sui fattori economico-sociali che
spingono verso la reticolazione, il pooling, il clustering. In particolare, occorre una riflessione
sulla ri-territorializzazione dell‟economia capace di orientare verso la costituzione di cluster
aziendali, cioè “concentrazioni territoriali di aziende specializzate in determinati settori (ma
anche di settori differenti), interconnesse tra di loro insieme a fornitori, erogatori di servizi e
istituzioni (università, associazioni sindacali e datoriali, agenzie regolative, amministrazioni,
etc.) che competono e cooperano simultaneamente. Non è qui possibile sintetizzare la
rilevanza di questi cluster per i vantaggi competitivi delle economie, teoria sviluppata da M.
E. Porter (1985; 1990). E neppure possiamo introdurre il tema, estremamente interessante per
il futuro, dell‟emergere di una nuova economia di città-stato (World Economic Forum, 2014).
Rimane il fatto che da più parti sta chiarendosi la rilevanza di una nuova territorializzazione
dell‟economica, fortemente embedded in territori coesi, innovativi, fortemente connessi,
governati in modo sperimentale, capaci di attrarre e di far crescere culturalmente,
civicamente, politicamente, i propri cittadini. Il fattore centrale rimane sempre quello della
capacità di porre in relazione identità e interessi diversi, in modo tale che possano auto-
sostenersi.
Entro il complesso campo della scienza economica, esiste una disciplina estremamente
rilevante per il nostro tema: la geografia economica, recentemente tornata alla ribalta a motivo
della notorietà raggiunta dai premi Nobel Krugman e Stiglitz. Studia i processi e le strutture
spaziali delle attività economiche, sottolineando i fattori che ne influenzano il radicamento o
lo sradicamento (Clark et alii, 2000). Lo spazio, anche nel caso dell‟attività economica, non è
mai “liscio”, cioè uniforme: non è uno spazio geometrico newtoniano. Viene costantemente
153
organizzato e “costituito” per renderlo abitabile e produttivo. Le interazioni e gli scambi nello
spazio sono sempre costosi. Il costo dipende dal tipo di scambio e dalle fattezze geografiche
dello spazio. In particolare ha enorme importanza il costo dei trasporti (comunicazioni) e
quello dell‟accesso ai mercati. Dipende inoltre dalla comunicazione e coordinazione dei
lavoratori. Un secondo insieme di fattori riguarda la possibilità di raggruppare i fattori della
produzione e /o di concentrarli nello spazio. Alcuni assets sono da considerarsi “beni
pubblici” o “beni comuni”, altri sono da considerarsi come esternalità positive quali
knowledge spillovers tipicamente idee, innovazioni, etc. che possono essere osservate e
copiate dalle aziende che risiedono in quei cluster. Un esempio classico è la densità del
mercato del lavoro, cioè il numero, le relazioni e la possibilità di attivarle di lavoratori entro
un certo spazio. Una alta densità di lavoro agevola fortemente la relazione tra domanda e
offerta di lavoro, mettendo in connessione competenze dei lavoratori e bisogni delle aziende.
Nel modello centro-periferia di Krugman (1991) la mobilità del lavoro è centrale in quanto la
concentrazione di lavoratori in uno spazio economico, agevola la creazione di mercati
profittevoli per le aziende, così come la presenza di aziende che lavorano rende profittevole
per i lavoratori insediarsi in quel luogo. Uno dei suoi risultati più rilevanti sta nell‟aver
dimostrato come il successo di una azienda è fortemente connesso alla presenza di cluster di
altre aziende, di reti di fornitori, da fornitori di servizi, infrastrutture logistiche, istituzioni
politiche, presenza di leggi e di standard resi effettivi, centri universitari, associazionismo di
vario tipo, etc. In pratica le aziende fioriscono entro un ecosistema innovativo e supportivo
che fiorisce entro un contesto con aziende innovative e produttive. Potremmo anche affermare
che l‟economia è sempre fortemente localizzata e che in verti casi va a catalizzare contesti in
equilibrio dinamico e auto-rafforzantesi. Questo equilibrio va concepito sia in termini di
opportunità reciproche, sia in termini di costi potenziali. Una azienda “piantata” nel centro di
nulla, dovrà probabilmente investire sulla formazione dei dipendenti, su servizi, sul
istituzioni, connessioni, etc.
Michael Storper ha proposto uno schema molto semplice per spiegare i diversi sentieri verso
la territorializzazione o de-territorializzazione economica, basato sull‟analisi
dell‟organizzazione della produzione enacted entro i due contesti del mercato e dei fornitori
necessari. Egli costruisce una tabella a doppia entrata (Fig. 5.3): sull‟ascissa pone i costi di
trasporto e di transazione (TMM: Transactions and Transport to Market); sull‟ordinata i
fattori relazionali che servono per produrre il bene finale (TEKSS: Upstreams Trasactions,
154
Externalities, Knowledge Spillovers, Scale). Se i costi TMM vengono di solito pensati come
in diminuzione, quelli TEKSS sono molto più variabili, vista la velocità della domanda e dei
bisogni in continuo cambiamento. Per tale motivo, la narrazione della blobalizzazione
economica come sradicamento, de-terrritorializzazione, spazializzazione neutrale, etc., ha
fortissimi limiti. Le forze che spingono alla territorializzazione e alla clusterizzazione della
produzione sono fortissime e in atto. In particolare la teoria predice un aumento rilevante di
specializzazione economica territoriale dovuta al fatto che l‟organizzazione della produzione
cerca di localizzarsi dove maggiore è la facilità di approvvigionare fattori di produzione
(compresa la forza lavoro, il capitale sociale, culturale e istituzionale, etc.).
TTM
T
E
K
S
S
Isolamento Concentrazione
Basso Medio Alto
Basso
Impianti isolati
e dispersi (possibili catene di
fornitori internazionali intra-
industriali)
3
Area di mercato
per impianti isolati
(possibili catene di
fornitori internazionali intra-
industriali;
importazione)
2
Medio
Grandi impianti
dispersi;
grandi cluster
interconnessi
(alta esportazione; catene di fornitura
complesse)
3, 4
Grandi impianti
interconnessi
(alto export?;
catene di fornitura
complesse)
3, 4
Impianti orientati
ai grandi mercati
(catene di fornitura
per import)
Alto
Cluster
Interconnessi
(orientati all‟export)
1
Supercluster
(orientati all‟export)
1
Cluster isolati
locati in aree di
mercato
(catene di fornitura
per import?)
2
Concentrazione
Fig.5.3. Forze che influenzano la territorializzazione: prossimità e mercati + modelli di territorializzazionee di commercio.
Legenda:
1. Il vincitore prende tutto, specializzazione per competenze
2. Beni e servizi parzialmente non commercilizzabili
3. Manifatturiero sensibile all‟importazione, con divisione del lavoro
4. Mercati globalmente contendibili con flussi di sapere globale
Secondo questo modello possiamo osservare quattro strati dell‟economia globalizzata.
Il primo (n. 1), include attività altamente specializzate e capaci di servire ogni parte del
155
mondo. Si tratta del livello più specializzato attualmente operante a livello economico. Si
tratta di due realtà estremamente diverse. 1a) da un lato specialisti nel campo della finanza,
dei media, dello sport, della consulenza manageriale, della scienza, della medicina, etc. Le
loro iper-competenze vengono generate in contesti economici molto localizzati, ma i loro
servizi sono facilmente commercializzabili e, oggi, richiesti da mercati globali, mentre il
costo della loro commercializzazione rimane basso. 1b) Dall‟altro si tratta di cluster
industriali altamente specializzati e orientati all‟export, quelli che la letteratura ha chiamato
“distretti”.
Il secondo livello (n.2), è composto da realtà che servono beni e servizi parzialmente o
totalmente non trasmissibili al di fuori del territorio. La loro vendita necessita di una
fortissima prossimità con l‟acquirente. Si pensi a tutto il “movimento” a km. 0.
Il terzo (n.3) livello corrisponde al processo di globalizzazione mediante de-
territorializzazione. La produzione non necessita di particolari rapporti con il territorio ed è
facilmente vendibile. Si pensi ai servizi di annuncio o di call center, oppure alla manifattura a
basso livello di specializzazione.
L‟ultimo livello (n.4) è composto da beni e servizi presi sempre più in mercati aggredibili.
Per quanto riguarda il nostro tema, quello della territorializzazione, mi pare evidente che la
costruzione di reti di welfare aziendale rappresenti una opportunità di crescita sia per le
aziende, sia per il territorio che andrebbe a caratterizzare economie del tipo 1 e 2, tipiche di
molti dei nostri contesti italiani. Costruendo reti di welfare, le aziende non solo scambiano
conoscenze, beni, servizi, abbattendo i costi: innescano anche lo sviluppo di mercati di beni e
servizi innovativi; la creazione di partnership pubblico-private, etc. L‟espansione di saperi e
competenze, così come la possibilità di copiare innovazioni è fondamentale come gran parte
della letteratura dei cluster ha già mostrato mediante il tema della competizione-solidarietà tra
aziende. Stesso logica sottintende la creazione di un mercato denso di lavoratori specializzati,
soprattutto nei campi che caratterizzano la path-dependency del territorio (programmi di
welfare per orientare i figli dei dipendenti e per farli studiare). I legami tra le aziende e la loro
filierizzazione (Prandini 2012b) è un ulteriore capo saldo del territorio in esame (programmi
di welfare per le filiere, reti di imprese). Questa “reticolazione” è solo possibile laddove le
aziende, insieme, sono capaci di porsi domande quali: il mio operare e i prodotti che produco,
sostengono lo sviluppo integrale del territorio? I miei prodotti includono crescita sociale?
Sono responsabili verso il contesto in cui vivo? Purtroppo però non pare che questa capacità
156
riflessiva sia presente in molti imprenditori – che continuano a concepire il loro ambiente
come una scatola di opportunità da sfruttare a basso prezzo – e neppure nei rappresentanti dei
sindacati delle associazioni di categoria e negli amministratori pubblici. Manca quello che
Porter chiama cluster thinking che altro non è che la capacità di pensare per grappoli di attori
e per territorio, la propria strategia imprenditoriale (Donati e Prandini 2009). Questa tendenza
viene proposta laddove si vogliono potenziare i Paesi in via di sviluppo, ma in realtà riguarda
allo stesso modo le nostre imprese. Vediamo più in specifico di cosa si tratta e come lo si può
collegare al tema della territorializzazione.
5.3.2. Cosa è un territorio: oltre la semantica del locale-globale, verso una governance
sperimentale, poliarchica e di cluster
In questa parte voglio entrare nel cuore della argomentazione e affrontare il tema, sempre
molto confuso, del territorio. Confuso perché molto spesso: 1) lo si identifica semplicemente
con un pezzo di spazio delimitato politicamente-amministrativamente o sotto qualche altro
aspetto; 2) per tale motivo lo si equipara al “locale”. Ma così facendo il territorio va a indicare
soltanto una porzione di spazio definita non dalle sue costituencies, ma solo dal livello
politico-amministrativo (quindi “estrinsecamente”), in un riferimento oppositivo al globale. A
mio parere, invece, occorre procedere con due modalità di riflessione completamente diverse.
La prima ha a che vedere con una concezione “costituzionale” del territorio e con il relativo
cluster thinking: la seconda con il tipo di governance che può regolare tale costituzione.
1) Un territorio è una porzione di spazio che viene distinta dal resto, delimitata e ri-
differenziata al suo interno (Schumacher 2012). La prima operazione è quella del distinguere
tra un interno ed un esterno: l‟interno diventa lo spazio operativo di chi ha posto il confine e
produce i beni che verranno poi distribuiti tra i costituenti. A porre la distinzione, a segnare il
confine è un attore, individuale e collettivo, che si appropria di quello spazio. Questa
complessa operazione di delimitazione, appropriazione, distribuzione di beni è il momento
“costituente” del territorio. Costituente significa che la territorializzazione non ha nulla a che
vedere con la realtà naturale di una ambiente, bensì con un atto di invenzione “politica”. I
costituenti, gli attori che vanno a costituire il territorio, sono coloro che “collettivamente” gli
assegnano identità e funzioni, istituendo confini con un esterno su cui non possono operare.
Una volta che è stato costituita una “sfera” di azione, i costituenti la utilizeranno come
confine di senso per dare significato alle loro progettualità. Territorializzare significa perciò
157
costituire un confine contenente-delimitante uno spazio che diventa l‟eco-sistema di sviluppo
dei suoi costituenti e di cui occorre prendersi cura (Magnaghi 2010). Questo eco-sistema è
costituito dagli attori in gioco (nel nostro caso: aziende, istituzioni culturali, politiche,
scientifiche, famiglie, cittadini, etc.; culture civiche, politiche, economiche, senso civico,
abitudini e stili di vita, saperi rilevanti, competenze di vario tipo, etc,). L‟insieme degli attori
“costituenti” – gli stakeholder – traccia una distinzione andando – di “rimbalzo” – ad “auto-
costituirsi” come un Noi che diventa visibile e istituito, prendendo identità e cominciando a
operare come una collettività: questo “Noi” ri-entra in questo spazio-operativo, curandone la
crescita e lo sviluppo inclusivo (Prandini 2012b). Senza questa riflessività – l‟agire in termini
di un Noi (cluster) e dei suoi stakeholder ambientali, curandosi di generare benessere e
potenzialità di sviluppo per essi – senza questo cluster thinking non esiste affatto un
“territorio”, bensì solo uno spazio operativo “locale”, senza nessuna vera identità specifica.
Sentirsi parte di un territorio, operare per creare un “welfare territoriale”, significa invece
operare come una collettività che possiede un bene comune oltre quella dei suoi costituenti.
Bene comune che può essere pensato solo mediante un pensiero di cluster: agisci sempre in
modo che il territorio che di cui sei parte costituente e che mi ri-costituisce ogni giorno, si
sviluppi e cresca insieme alle tue attività. Se cresce solo l‟azienda, ma questa crescita provoca
una de-crescita del territorio, allora l‟azienda non fa “parte” di un territorio: semplicemente
utilizza uno spazio operativo per realizzare i suoi obiettivi. Che quello spazio sia qui o su
Marte, non fa la differenza. Il territorio è quindi lo spazio operativo di una azienda, costituito
insieme ad altri istituendo confini di senso, in cui l‟azienda ri-entra, prendendosene cura come
suo luogo di crescita e sviluppo. In tal senso il territorio è un “bene comune”, cioè la
condizione di possibilità per è produrre il bene di tutti i suoi costituenti. È evidente che il
territorio è costituito da una pluralità di attori, non solo quelli economici, ma pure quelli
politico-amministrativi, quelli della cultura, della formazione, dalle famiglie, etc. da chiunque
se ne prenda cura, riflettendo sulle conseguenze delle sue proprie operazioni sul resto dei
costituenti.
2) La governance di tale territorio-costituito, non può assolutamente rifarsi ai vecchi modelli
governativi del command-and-control, cioè non può essere governato da un centro-vertice che
decide per la periferia: deve invece elaborare una strategia di governo poliarchica e
sperimentale.
Una governance di questo tipo è stata teorizzata Charles Sabel (2013) – prendendo nel corso
158
del tempo – il nome di sperimentalismo democratico, governance sperimentalista, poliarchia
direttamente deliberativa, regimi contestualizzanti. Questa logica di governa prevede, in
buona sostanza, che le istituzioni centrali (come che siano costituite), attribuiscano autonomia
a quelle locali per perseguire scopi generali espliciti. Il centro monitora le prestazioni locali,
colleziona informazioni di tipo comparativo e crea pressioni e opportunità per un
miglioramento continuo a tutti i livelli. Il dispositivo è vincente proprio perché riesce ad
adattarsi meglio a contesti, come quelli sociali, che sono connotati dall‟incertezza e da
contingenze che non possono essere calcolate con facilità. Esso implica: 1) la
decentralizzazione delle azioni e il coordinamento centralizzato della loro valutazione; 2) la
piena considerazione dei segnali di deviazione dalla norme, perché le anomalie e le devianze
sono concepite come sintomi di problemi e come opportunità per migliorare il sistema. La
funzione di questo processo non è il controllo, ma rendere trasparente il funzionamento del
sistema. 3) La partecipazione degli stakeholder non è obbligata normativamente, bensì libera
e basata sul impegno a risolvere un problema comune. I vantaggi del modello sono molteplici:
1) stimola a individuare e rispondere ai deboli segnali di errore, con prassi di diagnosi e
correzione condivisa. Le diverse unità operative sono spinte a gareggiare verso il meglio, col
fine di acquisire reputazione intersistemica; 2) riduce notevolmente la massa di informazioni
che il centro dovrebbe avere per costruire la norma o la procedura di riferimento. Questo
potere è infatti attribuito agli attori locali; 3) stimola comportamenti autonomi e creativi,
mentre chiede rendicontabilità e trasparenza; 4) produce una messe di cambiamenti
amministrativi e regolativi che possono circolare tra le unità, arricchendole; 5) induce una
riflessione a diversi livelli del sistema (nelle unità operative, tra di loro, a livello centrale); 6)
stimola l‟apprendimento e la correzione reciproca; 7) si basa su processi di impegno
collaborativo, riducendo i rischi di opportunismo.
Una variante del modello è quella dei regimi contestualizzanti (contextualizing regimes).
Questi emergono a livello nazionale, ma soprattutto globale, laddove i decisori istituzionali si
trovano a dover decidere (sempre più spesso) su problematiche estremamente complesse,
transnazionali, metadisciplinari, etc. In queste situazioni critiche, scelgono di delegare la
decisione, o almeno la fase di analisi della problematica, a organizzazioni di stakeholder
esperti (pubblici, privati, Ong, partnership, etc.). Questa tendenza è sempre più forte perché:
1) i decisori istituzionali non posseggono le conoscenze specifiche per risolvere i problemi
crescentemente più intricati; 2) sanno che la scelta della normativa e delle procedure da
159
applicare è contestuale, quindi non generale né deducibile da un corpus completo di dati; 3) la
globalizzazione richiede l‟implementazione di norme che sono a cavallo di legislazioni
nazionali diverse. I regimi in esame possono essere generati da livelli diversi del sistema e
sono composti da attori estremamente dissimili. Possiedono però una struttura comune che
include alcune caratteristiche basilari. 1) La prima caratteristica è data dai confini vaghi e
cangianti della membership. Questi regimi sono del tutto differenti, per esempio, dalle
associazioni di commercio che si focalizzano sugli scambi bilaterali, perché hanno a che fare
con beni e servizi che non sono regolabili al momento dell‟erogazione. La conformità
concerne piuttosto la filiera di produzione e non il prodotto. Poiché anche le regole e le
procedure della filiera sono cangianti, questo tipo di regime associa al processo di valutazione
anche quelli di investigazione e di sperimentazione. La deviazione dalla norma è quindi intesa
come richiesta di sostegno, training e monitoraggio reciproco da parte delle unità. La
sanzione più pesante è quella di essere esclusi dal processo di certificazione. 2) Le strutture
tendono ad essere amorfe e complesse, soprattutto cercano di includere tutti gli stakeholder
che si avvicinano e sono in grado di dare un contributo. 3) I regimi hanno la forza di rendere
esecutive le loro normative perché utilizzano una cultura dell‟equità e della giustizia
(fairness) procedurale, fondata sui valori della trasparenza; della pubblicizzazione delle
performance e dei dati rilevanti; dell‟inclusione di tutti i coinvolti; di procedure decisionali
massimamente consensuali, basate sulla buona fede e sulla deliberazione ragionata; della
auto-valutazione continua; della critica costruttiva e cooperativa.
Il dispositivo, che per ragione di sintesi chiamiamo di sperimentalismo democratico, può
essere descritto come una procedure che implica la relazione “sussidiaria” tra attori centrali (i
sovraintendenti) e unità operative che sono chiamate a implementare i programmi del
territorio, avendo però massima libertà di azione (fig.5.4). Questa libertà di azione viene per
così dire compensata da forme di controllo obbligatorie, svolte però da peer che riflettendo
suoi diversi piani d‟azione scambiano informazioni, suggerimenti, vie d‟uscita da problemi
incontrati, etc. In questo modo il “territorio” – cioè l‟insieme degli attori che si sono auto-
costituiti in un Noi ben riconoscibile e che agiscono per realizzare, oltre ai loro progetti
specifici, bene comuni necessari alla crescita collettiva – riescono a “vedere” l‟interesse
comune e a lavorare per esso. Ognuno, sia essa l‟amministrazione pubblica, o il sindacato, o
l‟ente bilaterale, o l‟azienda, o il comitato dei consumatori-cittadini, i rappresentanti famiglie,
etc., percepisce più chiaramente che il suo modo di agire e di perseguire i propri interessi è
160
legato al modo di agire degli altri e che il loro agire “comune” genera quei beni né privato né
pubblici che sono necessari alla crescita di tutti. Si tratta di un “gioco” a somma maggiore di 0
dove chi opera deve vincere facendo vincere anche gli altri, almeno nei termini della
manutenzione e dello sviluppo di quelle risorse che servono a tutti.
Fig. 5.4: Lo sperimentalismo democratico come struttura poliarchia direttamente deliberativa.
5.3.3. L’ordine costituzionale del territorio: come dare rappresentazione unitaria a processi e
strutture territoriali complesse
Un modo diverso, ma funzionalmente equivalente di concepire la regolazione del territorio, è
quello della sua auto-costituzionalizzazione. Le Costituzioni (politiche) moderne sono emerse
dall‟accoppiamento strutturale tra il sistema politico e quello giuridico. Mediante l‟invenzione
della Costituzione il primo ha risolto il problema della legittimità del potere (potenzialmente
arbitrario), sottoponendolo al controllo del diritto; il secondo ha risolto il paradosso della sua
fondazione, richiamandosi al decisore politico e alle fonti del diritto. Una volta
L‟attore centrale sceglie, insieme ad altri stakeholder più informati ed esperti, gli
scopi generali da perseguire (il suo valore di bene comune) e le misure di massima
per raggiugerli.
Le unità operative (aziende, sindacati, associazioni civili, agenzie private, e ogni
altro tipo di attore) si attivano e/o sono attivate, per decidere come raggiungere gli
scopi e come misurarne il valore (economico, politico, sociale, culturale, etc.),
elaborando piani d‟intervento.
A fronte di questa libertà di azione, le unità si obbligano a riferire in modo
regolare e chiaro, i successi raggiunti, le modalità di lavoro utilizzate, i modi per
misurarli, etc., e a confrontarli insieme ad altri attori competenti. Se del caso,
procedono a una loro riscrittura
Al centro del processo sta una nuova forma di rendicontabilità, basata sulla Peer
review. Le unità operative devono rendicontare, davanti a un pubblico
rappresentativo delle constituencies del contesto in cui si opera, del loro operare,
cioè debbono rendere ragione delle loro scelte
È obbligatorio per tutti rendere conto dell‟uso della libertà attribuito dal sistema,
alla luce delle altre esperienze implicate. La rendicontabiltà non è più basata sulla
comparazione delle prestazioni rispetto a una regola/standard fisso, bensì sulla
attività di giustificazione davanti a attori esperti e stakeholder
La rendicontabilità richiede di mostrare come è stato considerato l‟impatto delle
loro decisioni su tutti gli altri stakeholder; di spiegare i motivi delle loro decisioni;
di essere soggetti a un valutazione periodica.
161
costituzionalizzato lo Stato – cioè la forma di autorappresentazione semplificata del potere
politico – ha potuto includere e quindi controllare e regolare ogni altro attore sociale. La
complessità sociale ha però richiesto forme diverse di “costituzionalizzazione” degli attori
sociali: le configurazioni già descritte del neo-corporativismo e delle costituzioni economiche
ci hanno ricordato che la Modernità oscilla dal suo inizio tra spinte neo-liberiste e neo-
welfariste, senza riuscire a trascenderle. Le due figure di “governo” inventate dal Moderno
per ridurre i costi di trasazione, sono state non a caso le “gerarchie” e i “mercati”
(Hollingwood e Boyer 1997). Queste hanno rappresentato per tutto il Novecento due
“metafore” dell‟ordine sociale, ben oltre le loro tecnicalità, in quanto si sono strettamente
legate, la prima al valore del controllo centrale (e di conseguenza della redistribuzione e della
perequazione), la seconda della libertà (e di conseguenza della produzione e della
concorrenza). Sarebbe interessante seguire le rappresentazioni simboliche di questi due
principi organizzativi e di ordine – che topologicamente prendono rispettivamente la figura
della “piramide” e della “rete” (Ost e van de Kerchove 2002) – ma non possiamo che
sintetizzarne le logiche così da far emergere per differenza gli ordini costituzionali.
Le gerarchie sono strutture d‟ordine composte da unità (spesso burocratiche) chiamate anche
“agenti” e da un ufficio centrale (o capo ufficio) chiamato “principale”. Ogni unità
(burocratica) è direttamente subordinata ad una – e solo ad un‟altra – unità (burocratica) fino
ad arrivare al vertice o “principale”. Questa forma di organizzazione e di trasmissione
verticale di comandi e controlli, è estremamente funzionale per decomporre problemi
complessi (e “continui”) in una serie discreta di problemi più semplici. Ognuno di questi,
però, è solo lascamente connesso agli altri e perciò poco influente sul processo di soluzione.
Potremmo dire che la gerarchia è una macchina per decostruire la complessità, trasformando
realtà emergenti in realtà addizionali (con i rischi di riduzionismo del caso). Il vertice è anche
quel centro che: i) determina le responsabilità e le giurisdizioni delle sotto-unità
(burocratiche); ii) le dota di risorse; iii) le supervisiona e ne monitora le prestazioni. Questa
forma di governo funziona bene ed è adeguata, solo se il “vertice” ha a disposizione tutte le
informazioni necessarie a controllare e dirigere le sotto-unità (e anche tutte le informazioni
sulle unità), così da poter risolvere tutti i problemi di coordinamento che emergono nel
processo di governo. È evidente che lo Stato moderno costituzionale e di diritto è una
concretizzazione di questa struttura d‟ordine. Il problema è che in una società complessa e
“accelerata” come l‟attuale è altamente improbabile che: 1) il suo vertice “politico-
162
governativo” sia così ben informato; 2) le sotto-unità utilizzino le informazioni e i poteri a
loro attribuiti solo per svolgere la loro funzione (mentre le usano non per “servire”, ma per
mantenere e aumentare i loro interessi-poteri); 3) la suddivisione del problema in micro-
problemi aiuti alla sua soluzione (in realtà crea difficoltà crescenti di coordinamento tra
principale e agenti, e fortissime inefficienze e inefficacie di sistema). Per tali motivi l‟ordine
gerarchico, nel suo complesso, ha una capacità di reazione al cambiamento ambientale molto
lenta (per di più dipendente dalle capacità di comprensione delle innovazioni da parte dei
vertici) e non si crea alcuna reale condivisione collettiva dei problemi, dei saperi, delle
soluzioni e degli obiettivi.
I mercati consistono invece solo di attori indipendenti e non ordinati reciprocamente
attraverso alcun un vertice. Nessun attore è sovraordinato-subordinato ad altri e ognuno può
impegnarsi in qualsiasi tipo di transazione con chi vuole. Possono naturalmente nascere
filiere, economie di scale, collaborazione, cluster, distretti, ma senza un loro ordinamento
gerarchico. In altre parole le regole che governano le transazioni sono autoprodotte attraverso
lunghi processi di eduzione sociale che vanno a costituire ordini spontanei. Le istituzioni del
contratto e della proprietà, garantite giuridicamente, cementano il sistema. Il mercato si adatta
velocemente alle novità e trasmette quasi in diretta le informazioni utili al suo funzionamento
(si pensi all‟importanza della formazione “immediata” dei prezzi senza che sia necessaria
alcune “programmazione” centralistica, tema troppo spesso sottovalutato). Qui, a differenza
della gerarchia, il problema sta nel fatto che i mercati funzionano bene quando il futuro è
facilmente prevedibile, quando i meccanismi di domanda e offerta non vengono pervertiti da
altre logiche e, soprattutto, quando vi sono clienti solvibili.
Gli “ordini costituzionali” (Sabel 1997) consistono invece di unità (costituenti) e di un
sovraintendente (costituito). Le unità costituenti possono essere qualsiasi cosa: attori di
mercato come aziende; cittadini; membri di un sindacato o di altre associazioni, uffici di
organizzazioni private o pubbliche, agenzie governative, organizzazioni di Ts. Il
sovraintendente potrebbe essere una Corte (Costituzionale o privata arbitrale); il capo ufficio
di una gerarchia pubblica o privata; l‟ufficiale eletto di una associazione; una entità
burocratica; un comitato arbitrale; infine un “soggetto” composto da questi ed da altri
soggetti, per esempio un cartello locale per lo sviluppo economico formato da rappresentanti
di sindacati, imprese, banche locali, grandi e piccole aziende, agenzie di welfare, istituzioni
educative, etc.. La topologia degli ordini costituzionali è “frattale”, dove una distinzione
163
rientra in se stessa creando sotto-insiemi. Solitamente un sovraintendente è l‟unità di un
ordine istituzionale di ordine superiore che così va a costituirsi come un “ordine di ordini”. La
funzione del sovraintendente (costituito) è di determinare le responsabilità e le giurisdizioni
delle unità (costituenti) e di porre le regole attraverso cui esse possono agire e risolvere i
conflitti che insorgono. Egli svolge una funzione regolativa (legislativa), di governo e di
giudizio. La sua autorità, giurisdizionale e legislativa, deve essere coerente con le regole a cui
anche il sovraintendente è obbligato in quanto unità (logica dell‟auto-governo) e tutte le
regole devono essere necessariamente stabilite consultando i costituenti. Le forme di
consultazione possono essere le più diverse.
Diversamente dai mercati, gli ordini costituzionali – attraverso i sovraintendenti – possono
programmare e decidere di allineare (o ridisegnare) le diverse unità, i loro compiti e le loro
dotazioni. Diversamente dalle gerarchie, possono fare conto su unità che auto-allineano
reciprocamente i loro interessi, mediante processi di consultazioni e deliberazione comune. In
buona sostanza gli ordini costituzionali sono più efficienti ed efficaci dove: esistono forti
problemi di coordinamento spontaneo e/o dove l‟ambiente sociale cambia in fretta. Negli
ordini costituzionali, infatti, le relazioni orizzontali tra le parti (costituenti) – tipiche del
mercato – possono essere modifiche tramite consultazione e deliberazione a livello verticale
(costituito). Così è possibile ri-ordinare l‟ordine costituzionale, potendo cambiare i propri
interessi, identità e regole di coordinamento, senza distruggere l‟ordine. Questo modo
d‟ordine costituzionale è, questa la mia ipotesi, il più adeguato per costituzionalizzare il
Territorio così da dotarlo di una sua specifica identità differente sia da quella delle istituzioni
dello Stato sia da quella delle organizzazioni del mercato (Prandini e Teubner 2011).
Nel nostro caso è un territorio che cerca il suo ordine costituzionale poliarchico. Il territorio,
proprio perché non è più identificabile con confini politici o amministrativi, deve trovare una
nuova forma di rappresentazione unitaria capace di includere tutti i “costituenti” che se ne
prendono responsabilità. Tra questi ci saranno “anche” gli attori istituzionali politico-
amministrativi – la Regione, la Provincia, il Comune, etc. – ma in realtà i protagonisti saranno
molti di più e posti in una configurazione fortemente orizzontale. Per specificare meglio
questa idea, propongo la figura 5.5 che traggo da miei lavori di ricerca precedenti. In
orizzontale metto la variabile che descrive i tipi di attore e di organizzazione che vanno
volontariamente a costituire un territorio. Questi possono essere attori di provato for profit (e
loro rappresentanti), di privato non for profit (e loro rappresentanti) e, infine, regimi
164
pubblico/privati. In orizzontale pongo il grado di regolazione, meglio di giuridicizzazione, del
loro accordo/legame di territorio. A seconda della logica di interpolazione tra le due variabili,
si strutturano tipi di costituzionalizzazione del territorio molto diverse. Alcune hanno un
carattere estremamente informale e semplice, come quelle della casella 1 che vede la presenza
di soli attori for profit legati da una cooperazione informale poco strutturata giuridicamente:
altre, invece, si costituzionalizzano in modo più strutturato come le realtà della casella 7 che
includono diversi attori pubblici, privati, for e non for profit, regolati attraverso una
giuridificazione particolarmente stretta. Centrale in questo contesto è la costruzione di
partnership tra attori diversi che servono a sviluppare nel tempo e senza una specificazione
troppo restrittiva, progetti comuni. La rilevanza di questa tipologia sta nel sottolineare che i
territori possono rappresentarsi unitariamente “eccedendo” la loro regolazione politico-
amministrativa, costituendo “sovraintendenti” complessi dove vige la logica di una
rappresentanza funzionale invece che politica. Detto in altri termini, il governo del territorio
può andare ben oltre la configurazione moderna dell‟ente pubblico, andandosi ad auto-
costituire mediante una pluralità di attori che hanno identità, risorse, capacità operative, molto
diversificate. Si tratta davvero di “politicizzare” in modo nuovo il territorio, uscendo da una
logica politico-amministrativa angusta che non riesce più a governare processi simultanei di
delocalizzazione, rilocalizzazione, generazione di partnership pubblico-private e sociali,
l‟ibridazione di forme imprenditoriali, la formazione di nuove entità amministrative che
superano i vecchi confini.
165
TIPO DI
ATTORE
Grado di formalizzazione del legame
Basso Medio Alto
Privato for
profit
1
Distretti
Cluster
Distretti economici
emiliani
(Ceramico; tessile;
biomedicale, etc.)
2
Contratto di rete
esempi
- Rete Giunca di Varese
- Associazione imprese
modenesi per la RSI
Privato non
for profit e
for profit
3
Distretti socio-economici
4
Partnership privato/privato
Pubblico/
privato
5
Contratto di area/Patto
territoriale/
Piani di Zona (come
documenti di
programmazione
territoriale)
6
Partnership
pubblico/private
Esempi
- contratti di secondo
livello:
- partnership per la
realizzazione di servizi di
cura (es. asili aziendali)
- accordo collettivo di
Prato
7
Distretti sociali e
Alleanze
Esempi
- Distretti Family Friendly
Trentino
- Alleanza per le Famiglie
del Comune di Schio
Fig. 5.5. Tipi di costituzionalizzazione del territorio
5.4. La sfida delle Alleanze territoriali per lo sviluppo socio-economico: un territorio che
si costituisce e si attiva per generare benessere comune
Un ultima riflessione la vogliamo dedicare ad un esempio di auto-costituzione territoriale che
ha al centro il tema del benessere familiare, ma che potrebbe generalizzarsi ad altre
problematiche emergenti. Per svolgere il punto dobbiamo distinguere almeno tre diverse
questioni, prendendo come esempio ciò che sta realizzando la Provincia di Trento con il suo
Distretto-famiglia:
1) le politiche sociali, in generale, e quelle per la famiglia, in particolare, rappresenteranno nel
prossimo futuro dispositivi di investimento pubblico estremamente rilevanti poiché finalizzati
alla generazione di capitale umano e sociale di qualità, due risorse sempre più necessarie ad
166
uno sviluppo socio-economico equilibrato (Hemerijk 2012);
2) il Distretto-famiglia della Provincia di Trento rappresenta, in Italia, il primo e più
importante esperimento di ri-territorializzazione di benessere socio-economico: è
caratterizzato, in questo momento, da processi di “ri-attivazione“ di attori territoriali e da una
logica generativa plurale capace di ridefinire l‟identità e il senso di appartenenza territoriale
(Magnaghi 2010);
3) Il Distretto-famiglia possiede potenzialità che, se ben orientate, portano alla realizzazione
di una Alleanza locale per la famiglia, intesa come messa in rete sinergica e riflessiva di tutti
gli attori ri-attivati sul territorio. L‟Alleanza locale per la famiglia ci porta oltre il meridiano
della sussidiarietà moderna, e verso il nuovo orizzonte della policontesturalità sociale
riflessiva (Malfer 2011).
Queste tre fenomenologie, già in atto nella Provincia di Trento che qui prendiamo come
esempio di ri-territorializzaione delle politiche per uno sviluppo socio-economico integrato, si
dipanano all‟interno di un processo più ampio e di lungo periodo: la riscoperta del territorio
come luogo di vita capace di fornire senso di appartenenza comune e risorse per una qualità di
vita elevata. La ri-territorializzazione degli spazi che la prima globalizzazione sembrava aver
reso “astratti, senza qualità e senza storia“, è un movimento di medio termine che porterà a
una competizione tra luoghi dell‟abitare per l‟acquisizione delle migliori risorse umane,
economiche, politiche, sociali, culturali, etc. Solo i territori che saranno capaci di auto-
condursi in modo equilibrato, sostenibile e generativo, rimarranno luoghi del con-vivere bene,
mentre chi non riuscirà in questo esercizio socio-politico, si trasformerà in uno spazio di
flusso (dove nessuno vuole davvero vivere e fermarsi) o in una zona emarginata e di
esclusione (da dove non si riesce più ad uscire). La sfida è appena iniziata, ma la geo-politica
della seconda globalizzazione è già ben visibile. Si pensi solo all‟idea di riconfigurare
l‟Europa non in termini di Stati nazionali ma di macro regioni socio-economiche qualificate
da peculiari modalità di fare società, economia e sviluppo. Il caso della Provincia autonoma di
Trento va dunque considerato come un esperimento di nuovo sviluppo sociale che potrebbe
essere copiato e riadattato anche ad altre zone dell‟Italia.
5.4.1. Le politiche familiari come investimenti generazionali per lo sviluppo socio-economico
del territorio
La prima tesi che intendo sostenere, pertiene il cambiamento delle logiche che sottendono lo
167
sviluppo dei modelli di welfare. I dispositivi di welfare, da meccanismi generali e
prevalentemente impersonali di assicurazione contro rischi tipici dei corsi di vita moderni, si
trasformano in dispositivi specifici e personalizzati di investimento socio-economico. I
programmi di welfare tradizionali, basati su assicurazioni standard calcolate su base attuariale
e per un tipo di cittadino lavoratore, maschio, capace di lavorare per un massimo di quaranta
anni, in una stessa occupazione per tutta la vita, con una carriera interrotta solo per incidenti
come la malattia oppure la disoccupazione (che però era correlata ai cicli economici), non
rispondono più né a i vecchi né ai nuovi bisogni dei cittadini. Molte categorie di persone che
nella Modernità erano escluse dal mercato del lavoro - donne, disabili, anziani, madri sole -
sono ora sempre più centrali in esso, mentre altre che erano concepite come incluse sono
sempre più escluse - per esempio i giovani. L‟immigrazione, il cambiamento delle forme
familiari, l‟entrata massiccia delle donne nel mercato del lavoro, ha messo fine al panorama
sociale dei Trent‟anni gloriosi.
Per questi e per molti altri motivi, il valore della solidarietà sociale che nel vecchio welfare
era espresso dal patto generazionale, tacito, tra lavoratori e pensionati e che era basato su
meccanismi di redistribuzione di denaro, sta radicalmente cambiando. Sempre più i rischi che
debbono essere affrontati non sono attuarializzabili: sono rischi così imprevedibili che è
impossibile dire chi e quanto si dovrebbe pagare per creare una massa di assicurazioni tale da
indennizzare chi incorre davvero nelle perdite. Da qui la necessità di una strategia a lungo
termine dove il welfare diventi un fattore di produzione cioè di investimento per il benessere
del territorio. Si tratta di un welfare dove i sevizi devono permettere alle persone di navigare
meglio tra i contesti più diversi delle loro vite (Prandini 2012). Al centro di questo welfare sta
la partecipazione al mercato del lavoro, il diritto delle giovani generazioni di poter maturare e
prepararsi all‟ingresso nella società degli adulti e, infine le garanzie per le generazioni anziane
di poter godere di benessere anche una volta usciti dal mondo del lavoro.
Un welfare siffatto, fattore di crescita per le società europee, deve poter sostenere le persone e
le loro relazioni lungo tutto il ciclo di vita cosicché esse possano essere messe nelle
condizioni di realizzare al massimo le loro potenzialità individuali e sociali. Centrali per il
nuovo welfare sono le aree di policy che concernono: la capacitazione e professionalizzazione
occupazionale lungo tutto il ciclo di vita; la life-long learning; servizi per l‟infanzia di elevata
qualità per una adeguata inclusione nella società; servizi per l‟adolescenza finalizzati a una
coerente entrata nella società e nei ruoli da adulti; la conciliazione tra tempi di vita e di
168
lavoro; servizi per gli anziani che li motivino a rimanere in attività se non lavorativa, di tipo
sociale; servizi e politiche per l‟integrazione degli immigrati e dei loro figli; politiche per la
disabilità, etc..
I nuovi servizi, in sintesi, vanno: finalizzati alla piena inclusione delle persone e delle loro
relazioni sociali fondamentali; cuciti sulle caratteristiche delle persone per renderle
pienamente capaci di attuare i loro potenziali; integrati al ciclo di vita; resi policontesturali,
cioè capaci di allacciare relazioni tra contesti di politiche sociali diverse.
In altri termini il nuovo welfare si indirizza verso l‟erogazione di servizi relazionali e
personalizzati (Prandini 2008): più che mantenimento e compensazione (la vecchia assistenza
sociale) si parla di capacitazione. Quando l‟aggregazione dei rischi fallisce, allora occorre
aiutare gli individui e le famiglie ad auto-assicurarsi contro i rischi rendendoli capaci di
acquisire le capacità di cui hanno bisogno per affrontare i problemi. Il nuovo orizzonte è
quello dei beni relazionali, beni che necessitano di relazioni sociali coesive per essere prodotti
e goduti. Il bene comune necessita di cittadini impegnati per la coesione sociale; per
trasformare gli individui in cittadini impegnati servono servizi personalizzati sui bisogni e sui
progetti personali, tali che vadano a stimolare la crescita del capitale umano e sociale di
ciascuno e che contrastino la trappola della dipendenza, dell‟isolamento sociale e della de-
responsabilizzazione o peggio della depressione (con erosione del capitale umano). Questa
nuova filosofia dei servizi personalizzati non può funzionare con la vecchia idea
compartimentale dell‟organizzazione pubblica dei servizi. È infatti sempre più evidente che i
problemi non possono essere affrontati e risolti “a pezzi“ - lavorando a compartimenti stagni -
ma debbono essere posti in un ordine relato: ecco perché occorre sviluppare “fasci o
pacchetti“ di servizi: per esempio tra politiche attive del lavoro e servizi per la relazione
familiare, per la salute e l‟istruzione. L‟efficacia dei servizi personalizzati, tra l‟altro, non è
indipendente dalla risposta dell‟utente. Il dispositivo dei nuovi servizi personalizzati è basato
sulle logiche della fioritura e della attivazione delle risorse personali e sociali dell‟utente.
In conclusione, il welfare del nuovo millennio sarà concepito come un mezzo di investimento
per lo sviluppo equilibrato della società. Equilibrato significa qui: rispettoso delle diverse
“ecologie“ che danno energia e risorse alla società. La prima e più fondamentale di queste
ecologie è la famiglia, intesa qui precisamente come “attore fiduciario“ della società, ossia
come relazione tra i sessi e le generazioni dove originalmente vengono elaborate e fatte fiorire
risorse fondamentali per la società: la fiducia, la capacità di donare, la reciprocità, la
169
socializzazione a ruoli adulti e la generazione di motivazioni positive per partecipare alla
società (Prandini 2012). Il welfare come capacitazione personale e investimento sociale, sarà
dunque un dispositivo generazionale, nel duplice significato di: a) saper generare risorse
decisive per la società; 2) relazione adeguata tra generazioni diverse di cittadini che si legano
in nuovi patti sociali.
5.4.2. Il dispositivo “Distretto“ e l’attivazione familiare di un territorio
Dentro a questa enorme trasformazione dei sistemi di welfare, sta l‟elaborazione di nuove
politiche territorializzanti. Il Distretto-famiglia della Provincia autonoma di Trento ne è uno
dei primi esempi. Come si può vedere analiticamente nella fig. 6, il Distretto ha una struttura
e una logica generativa molto precisa e innovativa.
1 - Seguendo visivamente il disegno, si osserva al suo centro il significato fondamentale del
Distretto: l‟orientamento o ri-orientamento di beni e servizi dagli attori del territorio, in modo
da far ri-entrare nelle loro specifiche logiche operative il valore della famiglia. In pratica ogni
attore del territorio (servizi ai cittadini, esercizi commerciali, enti amministrativi, scuole, etc.)
deve prevedere almeno una azione che prenda in considerazione la cura della famiglia. In tal
senso ogni attore, con le sue diverse logiche funzionali, svolge un compito rivolto a creare
agio familiare. Qui il termine “agio“ sta precisamente a significare il rapporto tra la famiglia e
il suo intorno sociale in termini di comodità, cioè di “adeguatezza alla misura della famiglia“.
Il territorio viene così attivato “familiarmente“, ri-orientando la sua operatività al benessere
famigliare.
2 - Questo “cuore“ del distretto, confina in alto e in basso con due funzioni politiche: quella
dello sviluppo socio-economico e quella dello sviluppo dell‟agio familiare. L‟intenzionalità
del distretto è perciò duplice e capace di regolare le proprie operazioni sia dal lato economico
che familiare. Si noti come questo modo di procedere è fondamentale, per fare un esempio,
nel campo delle politiche di conciliazione famiglia-lavoro, riviste in termini non
semplicenmente di compensazione, bensì di sviluppo socio-economico.
3 - La bi-focalità verso politiche socio-economiche e familiari viene sviluppata in modo
duplice, come è chiarito dal disegno. Dal lato delle politiche per l‟agio familiare troviamo
l‟elaborazione di: i) politiche sussidiarie e capacitative; ii) politiche riflessive e
personalizzanti. Le prime sostengono una governance orizzontale del sistema di servizi che
dovrebbe capacitare i membri delle famiglie; le seconde dovrebbero esercitare riflessività per
170
gestire le relazioni tra i diversi attori e personalizzare i servizi di capacitazione. Dal lato delle
politiche di sviluppo socio-economico, troviamo invece: i) politiche di sviluppo locale e ii)
politiche di sviluppo sostenibile. Qui si tratta di policies che fanno del territorio non una
superficie “liscia“, senza storia e identità, da sfruttare per motivi economici, bensì una vera e
propria ecologia abitativa da riprodurre e da fruire nel rispetto dei diversi ambienti, anche a
fini economici, ma non solo (anche sociali, politici, culturali, sanitari, etc.).
4 – L‟area delle politiche per l‟agio familiare, si apre a destra e a sinistra, mediante logiche di
generazione di legami sociali. Sulla sinistra si osservano politiche per lo sviluppo della
coesione e inclusione sociale; sulla destra politiche di prevenzione del disagio e per la
promozione sociale. L‟area delle politiche di sviluppo socio-economico, si aprono in alto e a
destra verso politiche di attrattività territoriale, mentre in alto e a sinistra verso politiche per lo
sviluppo e la crescita sostenibile del territorio.
5 - Ancora più a lato, incastonate in quattro rombi, troviamo i processi di generazione-
creazione delle nuove risorse del welfare. Dall‟alto e da sinistra, girando in senso orario e
verso il basso, incontriamo: 1) i processi di catalizzazione e di aggregazione degli attori per la
crescita sostenibile del territorio; 2) i processi di promozione e generazione delle risorse per
l‟attrattività territoriale; 3) i processi di creazione capitale umano mediante servizi di
capacitazione; 4) i processi di creazione di legame e capitale sociale per lo sviluppo di
coesione e inclusione sociale.
6 - Gli attori e gli strumenti del sistema che sono richiesti dal Distretto sono quelli posti nei
due grandi contenitori rettangolari che chiudono in alto e in basso la figura. Si noti che gli
attori includono sia realtà istituzionali politiche ed economiche, sia di terzo settore e le
famiglie. Gli strumenti sono principalmente dispositivi di standardizzazione, audit,
certificazione, disciplinari. Si tratta di una nuova ondata di metodologie normo generative di
grande interesse, perché tentano di dare una regolazione a modi di operare estremamente
peculiari e diversificati. Non è questa la sede per riflettere su questa nuova metodologia di
lavoro, molto interessante (S. Ponte, P. Gibbon e J. Vestergaard 2012).
7 - Infine ai lati estremi della figura, troviamo gli outcome che dovrebbero derivare dal
funzionamento del distretto. Sempre dall‟alto al basso in senso orario, processi di
valorizzazione del:
a) circuito economico e culturale che crea, collega e distribuisce una pluralità di capitali per
creare l‟effetto emergente di un territorio ricco e pieno di qualità
171
b) attrazione e accoglienza di famiglie e dei cittadini, senso di appartenenza, identità locale,
pratiche di radicamento e territorializzazione, creazione di reti;
c) mezzi, beni e servizi finalizzati alla fioritura delle giovani generazione e al sostegno per
l‟invecchiamento attivo;
d) legame sociale ricco e differenziato che crea fiducia e reciprocità per generare stili di vita
civici e civili.
Si noti, infine, come questa architettura che traggo dal Distretto, ha al suo interno la
possibilità di svilupparsi come dispositivo per la creazione di una filiera territoriale family
friendly. Mi pare infatti evidente che se ogni attore del territorio deve operare riorientandosi
all‟agio della famiglia, allora dovrà riflessivamente richiederlo anche ai suoi fornitori o
clienti. In tal senso “esplode“ la corsa verso la regolazione di modi di operare family friendly
che vanno a creare la filiera delle nuove politiche territoriali a sostegno della famiglia
(Prandini 2013b). Un buon sistema pubblico-amministrativo di premialità e di marchi di
qualità (come Family in Trentino) per chi fa parte della filiera dovrebbe dare incentivi alla
catalizzazione di nuovi attori intorno ai beni e servizi familiari.
5.4.3. Le Alleanze locali come drivers di investimento socio-economico sostenibile e inclusivo
A partire dalla innovazione del Distretto-famiglia e avendone valorizzato le strutture, i
processi e le logiche generative che ne fanno uno dei dispositivi di politica socio-economica e
familiare più interessanti al momento attuale, possiamo chiudere questa breve riflessione
rilanciando il tema delle Alleanze locali. A mio parere, queste Alleanze (di derivazione
tedesca) sono qualcosa di diverso, ma compatibile e addirittura complementare alla logica del
Distretto. Le Alleanze locali sono reti di attori provenienti dall‟ambito dell‟economia, della
politica e della società civile. I diversi partner si ritrovano nel territorio di appartenenza su
base volontaria, e mirano a migliorare le condizioni di vita e dei loro cittadini tramite progetti
mirati ai bisogni specifici. I progetti possono riferirsi a temi i più diversi intervenendo in una
pletora di campi di attività. I partner delle Alleanze territoriali si impegnano in base alle
rispettive possibilità, offrendo il contributo del proprio know how. Tematiche fondamentali
possono essere sono la conciliazione famiglia e lavoro, assistenza ai minori, infrastrutture
family friendly, la conciliazione tra attività professionale e cura familiare e l‟assistenza ai non
autosufficienti: ma anche lo sviluppo di infrastrutture comuni, la creazione di collaborazioni
tra aziende, la firma di un contratto di rete, la realizzazione di formazione al lavoro per
172
giovani e disoccupati, etc.. Tra gli attori protagonisti possono essere presenti: i rappresentanti
dei Comuni, gli imprenditori, le aziende for profit, le Camere del lavoro e i sindacati, le
agenzie del lavoro, associazioni, Fondazioni, Università, Ospedali, Chiese e operatori
nell‟ambito dell‟assistenza ai minori e ai giovani.
Le Alleanze locali, rispetto al Distretto-famiglia, si specificano per almeno tre motivi
fondamentali:
1) non sono necessariamente attivate dall‟amministrazione pubblica, ma in prevalenza si auto-
attivano. L‟amministrazione fornisce solo sostegno tecnico-operativo mediante una società di
consulenza specializzata. Non è necessario che l‟amministrazione finanzi con denaro, essendo
il suo sostegno molto più rilevante in termine di infrastrutturazione regolativa e di sostegno
alla creazione di reti;
2) operano mediante reticolazione, cioè legando i diversi attori a un progetto comune che deve
essere perseguito insieme;
3) si rivolgono a progettualità estremamente specifiche, a partire dai bisogni presenti sul
territorio e quindi sono meno legate ai processi di standardizzazione.
In buona sostanza potremmo affermare che nel nostro Paese le Alleanze locali possono
rappresentare uno sviluppo coerente del Distretto, ampliandone la portata in termini di attori e
di progettualità. Il Distretto, incrociandosi con la logica più bottom-up delle Alleanze, si
arricchirebbe di progettualità condivise e reticolari. In pratica gli attori che il Distretto ha
prima attivato e poi orientato a progettualità comuni, verrebbero messi in una relazione più
stretta andando così a “costituire” proprio quella rete sociale fortemente informale prospettata
dal Distretto. Sarebbe possibile anche lo sviluppo delle due prospettive l‟una
indipendentemente dall‟altra.
A differenza dalla Germania dove le Alleanze locali sono rivolte alla creazione di risorse per
le famiglia, nel nostro Paese e in assenza di un vero impulso del Governo centrale a fare delle
Alleanze una politica strutturale (ben comunicata, finanziata e sostenuta a livello locale),
come è avvenuto nel caso tedesco, è evidente che iniziare con il Distretto pare più semplice ed
efficace. In realtà anche in Germania almeno i due terzi dei progetti locali è sostenuto e
finanziato dalle amministrazioni locali. In Italia potrebbero essere le Regioni a prendere
l‟iniziativa per le Alleanze locali sostenendo i Comuni che a loro volta sosterrebbero la
società civile. Le Regioni potrebbero gestire la costituzione di Distretti-economici e questi
fare uso di metodologie generative di Alleanze locali a livello comunale. La logica non
173
dovrebbe essere quella del finanziamento diretto, che tende a “drogare“ l‟offerta, ma di un
sostegno alle progettualità in termini di know-how. Si andrebbero così a innervare i territori
mediante logiche sussidiarie di investimento intergenerazionale, volte a rigenerare il tessuto
sociale ed economico, orientandosi al benessere dei cittadini (Prandini 2012d). Esattamente i
nuovi e antichi valori del welfare coniugati alla necessità di sostenere una crescita economica
altamente inclusiva e innovativa.
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