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Umberto Nobile
Quello che ho visto nella Russia sovietica
Introduzione
Questo libro è stato scritto per rispondere alle innumerevoli domande che da ogni parte mi sono
state rivolte sulla Russia sovietica.
La curiosità attorno a quel paese è stata acuita dalla guerra. Il successo dell'esercito rosso è giunto
talmente imprevisto e la forza di resistenza di cui han dato prova i popoli sovietici è stata talmente
sorprendente, che è sorto in tutti il desiderio di saper qualche cosa di certo attorno alla loro vita.
L'ignoranza in proposito era così vasta e profonda che mi son sentito più volte ripetere le domande
più strane, ad esempio se in Russia esistesse o pur no una moneta come mezzo di scambio.
Il libro, che non ha nessuna tendenza politica, vuol esporre in maniera obiettiva e spassionata le
varie osservazioni da me falle durante i cinque anni e mezzo di soggiorno nella Russia sovietica, tra
il principio del 1926 e la fine. del 1936, nel decennio, cioè, che vide operare in quel paese le più
grandi trasformazioni sociali ed economiche e che, senza dubbio, fu il più decisivo per lo sviluppo e
il consolidamento del regime comunista.
Lo scopo principale del libro è quello, dunque, di contribuire alla conoscenza dell'Unione Sovietica.
Questo lavoro di informazione è quanto mai necessario dopo tutte le deformazioni e diffamazioni
della stampa nazi-fascista. La gente vuole soprattutto che le sia spiegato il segreto del successo
militare sovietico. Era stato con tanta sicumera assicurato che, al primo urto bellico, al primo
rovescio militare, le masse sovietiche, intolleranti del giogo bolscevico, si sarebbero sbarazzate di
esso, la leggenda del colosso dai piedi di argilla aveva fatto talmente presa negli animi, che si è
rimasti stupefatti a vedere che il crollo non avveniva nemmeno quando le armate tedesche erano
alle porte di Mosca o sulle pendici del Caucaso.
Da' qui è sorta un'insaziabile curiosità sulla Russia comunista.
* * *
Nel libro ho raccontato le cose così come le osservai, senza darmi alcun pensiero del come
potrebbero essere interpretate. Ma l'obiettività da sola non basterebbe a dar valore al libro, se non
fosse accompagnata anche da un'altra qualità: l'esattezza delle informazioni.
Migliaia di persone hanno visitato l'Unione Sovietica e vi hanno soggiornato, taluna anche a lungo.
Ma sulle altre io ho avuto il vantaggio di essermi trovato in contatto quotidiano con i giovani
bolscevichi, senza che vi fosse alcuna prevenzione da parte loro verso di me, e tanto meno mia
verso di loro. Dopo anni di questa vita in comune posso ben arrogarmi la pretesa di aver compreso
qualche cosa dello spirito che li animava.
* * *
Un avvertimento va dato. Non mi sono occupato di questioni politiche e sociali, se non come se ne
può occupare un uomo medio del mio tempo, che vuoi comprendere il mondo in cui vive e che
questo mondo desidera si muova verso un ordine che elimini le ingiustizie sociali presenti e,
soprattutto, elimini la guerra fra i popoli.
Sono convinto che per l'umanità l'avvento di un ordine mondiale sia- una necessità impellente. In
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questo seguo l'opinione degli uomini di pen¬siero anglosassoni che ritengono urgente un'opera di
adattamento delle comunità umane alle nuove condizioni create dalle scoperte scientifiche e dalle
invenzioni del secolo scorso e di quello attuale. Senza questo adattamento l'uomo è destinato a
soccombere.
La Russia più di qualunque altro paese al mondo sembra preparata per la concezione di un ordine
mondiale, giacchè è l'unico grande paese dove convivono pacificamente fra loro un gran numero di
popoli, di differenti nazionalità, lingue e costumi, in un sistema politico che fa appello alla unione
dei lavoratori di tutto il mondo, che è, praticamente, quanto dire l'unione di tutti gli uomini.
Ma vi è un'altra ragione di attrazione per la Russia sovietica, e consiste nel fatto che vi si trova in
atto un grandioso esperimento di economia sociale, dove la spinta del profitto individuale è stata
abolita e sostituita dal motivo del dovere da compiere verso la collettività e se stesso. Ad un si fratto
sistema, che costituisce un ordine sociale superiore, non può non volgersi con la simpatia più
profonda lo sguardo di tutti gli uomini di buona volontà, che riconoscono che l'ordine economico
dell'intero mondo si va lentamente muovendo, attraverso terribili crisi, verso la meta che la Russia
bolscevica persegue con tanta ostinazione e tanta risolutezza.
* * *
Per quanto possa sembrare paradossale, la obiettività raggiunta nelle mie osservazioni è dovuta
anche alla profonda simpatia che ho per l'Unione Sovietica: Quel mondo è così profondamente
diverso dal nostro, che chi si avvicini ad esso, fosse pure senza preconcetti politici, ma senza una
fondamentale simpatia, nulla può intenderne.
Abbarbicati come siamo alle nostre secolari tradizioni, ci sentiamo naturalmente ostili ad accettare
abitudini di vita completamente nuove. Al conservatore istintivo, che è nel fondo dell'animo di
ciascuno di noi, ripugna dover rinunziare di botto ad abitudini inveterate; e si è perciò, non solo
diffidenti, ma avversi al nuovo ambiente.
Con tale disposizione di spirito ogni obiettivi là di osservazione e di giudizio necessariamente vien
meno.
La simpatia che mi lega all'Unione Sovietica è di lunga data. Essa ebbe origine nel 1926, quando
per la prima volta mi recai in Russia per la preparazione di una spedizione polare. Il mio destino ha
voluto che all'Unione Sovietica fossero collegate due grandi vicende della mia vita: l'impresa del
Norge, che non avrebbe potuto effettuarsi senza l'aiuto porto con tanta larghezza dal Governo
sovietico, e quella dell'Italia, che vide accorrere i Russi al soccorso dei naufraghi con una prontezza,
uno slancio, di cui non si riscontra altro esempio nella storia delle spedizioni artiche.
Quando, sperduti alcuni miei compagni ed io nelle solitudini ghiacciate del deserto polare, la radio
ci portò la notizia del generoso accorrere dei Russi al nostro salvataggio, con due rompighiacci, il
Krassin ed il Malighin, la gratitudine traboccò dal nostro cuore. In quella circostanza memorabile,
raccolte dal fondo di una bussola magnetica poche gocce di alcool, brindammo all'Unione
Sovietica. La censura fascista soppresse nel mio libro l'accenno a quel brindisi augurale levatosi dai
ghiacci polari, ma non poteva certo sopprimere nel mio cuore il sentimento di gratitudine che
l'aveva ispirato; sentimento che si fece ancora più forte quando, due anni dopo, i Russi mi
invitarono a recarmi da loro a lavorare, proprio nel periodo più triste della mia vita, allorché il
vivere nel mio paese mi era divenuto estremamente penoso.
Tutti questi motivi di gratitudine, aggiungendosi ai motivi di attrazione intellettuale già accennati
avanti, servono a spiegare il sentimento che mi animava e mi anima verso l'Unione Sovietica.
Questo sentimento mi ha reso più facile, come dicevo avanti, di comprendere la vita che mi si
svolgeva attorno durante il soggiorno in Russia, ma non si creda con ciò che esso mi velasse gli
occhi impedendomi di vedere i difetti del sistema. Li vedevo chiaramente, ma non ne esageravo
l'importanza, e soprattutto non perdevo di vista, fermandomi a considerate questo o quel particolare,
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l'insieme del quadro grandioso che innanzi a me si svolgeva.
Lo scoppio della guerra fra la Germania e l'Unione Sovietica mi trovò in America, a Chicago.
Sapendosi del mio soggiorno in Russia, era naturale che giornalisti ed altri si rivolgessero a me per
conoscere la mia opinione sulla sorte della guerra.
Era quello il tempo in cui generalmente, in America ed altrove, si facevano le previsioni più
pessimistiche. I giornalisti, i diplomatici, gli informatori militari dei vari paesi avevano data per
certa la insufficienza della preparazione bellica sovietica. Lindbergh, di ritorno da un viaggio in
Russia, aveva proclamato nei circoli londinesi che sull'aviazione sovietica non vi era da fare alcun
assegnamento. Conseguenza di queste false informazioni fu l'opinione generalmente diffusa che la
Russia sarebbe stata presto messa fuori combattimento, anche più presto di quanto era avvenuto per
la Francia. Se la Francia, col suo poderoso esercito, il «primo del mondo », non aveva potuto
reggere all'urto ('ella terribile macchina bellica tedesca, come avrebbe potuto farlo l'Unione
Sovietica ? L'aspettativa del crollo militare sovietico era generale, anche da parte di chi avrebbe
dovuto esser meglio informato degli altri sulle cose di Russia. Un giornalista americano, W.
Stoneman, che aveva vissuto per alcuni anni a Mosca, nel luglio 1941 telegrafava da Londra al
Chicago Daily News che «i circoli militari londinesi si aspettavano che l'esercito sovietico potesse
reggere ai tedeschi un mese o poco più ! »
* * *
Io non fui di questo avviso. Certo non avevo la pretesa di esser informato sulla consistenza della
preparazione militare sovietica meglio dei servizi di informazione dei paesi dell'Asse o
dell'Intelligence service. Tutt'altro. Anzi, bisogna dire che durante il mio soggiorno nell’U.R.S.S .,
di proposito, non mi ero mai impicciato di cose militari. Non avevo mai messo piede in una officina
o in un ufficio militare, mai chiesto la minima informazione. Tutto ciò che sapevo di quella
preparazione era quello che potevano dirmi le parate del 1 maggio e del 7 novembre, quando sulla
Piazza Rossa sfilavano i carri armati e nel cielo volteggiavano centinaia di aeroplani. Ciò
nonostante, la mia convinzione era assoluta. I sovietici avrebbero tenuto duro. Si sarebbero fatti
uccidere a centinaia di migliaia, ma non avrebbero ceduto.
Ad un giornalista, direttore di un giornale locale in lingua tedesca, che mi chiedeva la mia opinione,
dichiarai che la guerra sarebbe stata lunga e sanguinosissima. Il giornalista tedesco rise di cuore. «
In sette o, al massimo, otto settimane, la Russia sarà schiacciata », mi assicurò nel modo più
categorico.
Il medesimo giornalista, incontrandomi un anno dopo, ebbe a dire: « Lei è stata una delle quattro o
cinque persone in tutto il mondo che han previsto la resistenza russa ».
Poteva aver esagerato; ma certamente dovevano essere assai poche le persone che avevano avuto in
quel tempo fiducia nella capacità dell'Unione Sovietica a resistere all'invasione germanica.
* * *
Su che cosa, dunque, era fondata la mia opinione ?
Sulla conoscenza che avevo della gioventù sovietica, del suo spirito di abnegazione, dell'entusiasmo
con il quale essa lavorava alla creazione di un nuovo ordine mondiale. Questo entusiasmo era
illimitato, irrefrenabile, contagioso. Costituiva il fenomeno più saliente della vita sovietica.
È vero che durante il mio lungo soggiorno in Russia alcune cose avevo osservato che mi avevano
ripugnato; è vero anche che il sistema aveva taluni difetti, che non avevo mancato di rilevare,tanto
più che essi incidevano gravemente sulla efficienza del lavoro a me affidato. Ma non avevo mai
commesso l'errore di generalizzare, di credere che in qualunque altro ambiente quei difetti si
facessero sentire nella stessa misura. Né avevo limitato le mie osservazioni alla vita tecnica del
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paese. Certamente questa era interessante. Interessante era lo sforzo che si faceva per
industrializzare il paese e renderlo indipendente dai paesi capitalistici. Ma di fronte alla creazione di
un nuovo ordine sociale quello sforzo, pur grandioso come era, passava per me in seconda linea. Mi
inte-ressavano assai più le varie manifestazioni della vita culturale, le nuove abitudini, le nuove
istituzioni. Le seguivo specialmente attraverso il teatro ed il cinema, di cui più che ogni altra mi
attirava la produzione che prendeva a soggetto i problemi attuali della vita sovietica. In questa vita
vi erano cose che mi esaltavano, tentativi di realizzazione che mi commovevano. Vi erano altresì
cose che mi indignavano, che provocavano la mia critica. Ma di tutte queste varie impressioni
quella che contava era la impressione risultante, l'impressione che portavo con me tutte le volte che
lasciavo la Russia per un viaggio in Italia, impressione che si delineava ed accentuava non appena,
valicato il confine, venivo a contatto col mondo che avevo lasciato da tempo. Nel contrasto le
impressioni si facevano più chiare, meglio definite, più evidenti. La Russia da lontano mi appariva,
quale effettivamente era, come un immenso cantiere, dove con lena, senza un attimo di riposo,
senza alcuna indulgenza per il vizio, milioni di persone lavoravano, con fede ed entusiasmo senza
pari, ad un grande compito. Al confronto della piccola vita quotidiana dei popoli dell'Europa
occidentale, la vita del popolo russo mi appariva quasi eroica. I suoi giovani avevano il senso di
partecipare ad un'opera grandiosa di creazione. Essi discutevano problemi di carattere universale.
Respiravano un'atmosfera ardente di idee. La loro vita individuale si trovava enormemente
arricchita da una intensa partecipazione alla vita collettiva. Per la gioventù sovietica, da anni
abituata alla lotta, una lotta titanica nella quale era guidata da uomini devoti ad un'idea fino al
fanatismo, cambiare armi ed obiettivi era cosa facile.Essa avrebbe difeso con accanimento il proprio
paese; si sarebbe fatta uccidere, ma non avrebbe ceduto. Mosca, il cuore del mondo sovietico, non
poteva cadere nelle mani dei nazisti; nè poteva cadere Stalingrado, che prendeva nome dal capo.
Furono per me facili previsioni: Mosca non cadde, nè cadde Stalingrado.
L'esser stato capace di sollevare questo entusiasmo è stato il successo più grande del partito
comunista sovietico. Senza quell'entusiasmo, in un regime economico dove l'iniziativa individuale
per nuove imprese non era eccitata dalla sete di guadagni, come nei paesi capitalistici, si sarebbe
avuto un fallimento completo del gigantesco esperimento.
* * *
Da alcune osservazioni contenute in questo libro risulta che la libertà individuale, entro i limiti
imposti dalla costituzione sovietica (che vieta lo sfruttamento del lavoro altrui a proprio beneficio),
era garantita, anzi, in certi casi, era perfino eccessiva.
Era anche garantita ai cittadini la libertà di parola, ed infatti la critica di carattere tecnico o
amministrativo era ammessa senza alcuna restrizione, anzi costituiva, come si vedrà dal mio libro,
un dovere dei cittadini. Vi era anche, nel seno del partito, la libertà di esprimere il proprio pensiero
politico, per cui avevano libero gioco le varie tendenze di sinistra o di destra. Ma restava tuttavia
una limitazione importante: non era lecito discutere le risoluzioni adottate dalla maggioranza del
partito stesso, nè potevasi all'infuori di esso esercitare alcuna critica politica. Tanto meno, poi,
potevano venir discussi i principi stessi della costituzione sovietica.
Questa restrizione della libertà di parola, di cui del resto si hanno esempi anche nei paesi
anglosassoni, è certamente cosa grave. Essa può ammettersi in casi di guerra, o in periodi
eccezionali di crisi, ma non può essere la norma permanente di una società civile. A lungo andare
una tale soppressione della discussione politica porta ad un isterilirsi delle forze di propulsione delle
comunità umane. La libertà di esprimere il proprio pensiero deve essere assoluta: la sola limitazione
ammissibile è per i casi in cui di tale libertà ci si voglia servire per tentare di sopprimere la libertà
stessa, o quando si voglia farne uso per minare le basi costitutive della comunità.
La limitazione della libertà di parola e di stampa in tempi normali di pace é una grave iattura. Ma
non si deve, forse, tener conto che la gigantesca opera compiuta dai sovietici si iniziò nel caos
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creato nel 1917 dalla disfatta militare e dovette proseguire fra le invasioni straniere, la carestia e
l'ostilità di tutto il mondo capitalistico ? I trenta anni di regime sovietico non possono, forse, essere
riguardati come trent'anni di guerra ? Churchill stesso lo riconobbe, or non è molto, in un discorso
ai Comuni.
Ma alcuni segni di ripristino della libertà intellettuale erano già evidenti prima di questa guerra. Vi
erano scrittori, come Zoscenko, che potevano metter impunemente in ridicolo le debolezze del
regime sovietico; e vi erano filmi dove si faceva una gaia caricatura dei dirigenti comunisti.
* * *
Il mio libro si riferisce alla Russia sovietica quale la conobbi prima della guerra, di quella Russia di
cui H. G. Wells, uno dei più autorevoli rappresentanti del pensiero moderno anglosassone,
concludendo una sua aspra critica, diceva che, « nonostante tutto, essa tiene in alto la bandiera della
collettività mondiale e rimane, nello spettacolo del genere umano, come qualche cosa di splendido e
pieno di speranze ».
Dalla guerra la Russia sovietica emerge più forte, più rispettata, più temuta che mai. Ma quali sono
le trasformazioni che colà, come in tutte le altre parti del mondo, avverranno per effetto della guerra
?
Nessuno può dirlo. La guerra ha precipitato l'umanità in un caos tremendo, non solo materiale, ma
morale ed intellettuale. La guerra moderna è una terribile distruttrice. Tutto essa corrompe e guasta,
e niente risolve. Non solo barriere di confini, ma odi profondi, implacabili separano i popoli della
terra. Miserie, carestie, migrazioni forzate di milioni di persone, crudeltà di ogni sorta sono lo
strascico della terribile calamità abbattutasi sul genere umano.
I popoli, decimati, affamati, demoralizzati, disorientati, aspettano qualche cosa che dia loro una
nuova speranza, attendono che da qualche angolo della terra si levi l'annunzio di nuove idee
costruttrici.
Di dove partirà il movimento che porterà alla liberazione finale dell'umanità dall'orrendo cataclisma
che è la guerra moderna? di dove partiranno le voci che guideranno gli uomini a realizzare sulla
terra l'ideale di fratellanza annunciato da Cristo or sono duemila anni?
Roma, ottobre 1945
UMBERTO NOBILE
Samocritica
NELL'AGOSTO 1931 presi parte alla spedizione del rompighiaccio Maliguin. Quando ne tornai,
nel settembre, mi fermai alcune settimane a Mosca, ospite del Governo Sovietico, essendo stato
richiesto, fra l'altro, di dare un parere su un progetto aeronautico che alcuni giovani ingegneri russi
avevano studiato. Alloggiavo al Grand Hòtel, presso la piazza Rossa, che divenne presto una delle
mie passeggiate preferite.
Questa piazza, lunga più di un chilometro, è certamente una delle più affascinanti che abbia visto
nelle mie peregrinazioni attraverso il mondo. La vista che se ne aveva entrandovi dal lato
dell'albergo era imponente: nel fondo spiccava la mole portentosa della cattedrale di San Basilio;
alla destra, lungo tutta la piazza, l'alta muraglia merlata del. Kremlino, dietro la quale si ergevano le
numerose guglie e la cupo I risplendente d'oro; ai piedi della muraglia, severo, solenne nella sua
geometrica semplicità, il mausoleo di Lenin. Nelle chiare e fredde giornate di quel settembre la
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piazza era particolarmente bella al tramonto quando il sole illuminava, indorandole, le cupole verdi
della basilica. Una volta la mia immaginazione fu colpita dall'aspetto che aveva assunto il
mausoleo. Il sole, basso sull'orizzonte, l'investiva di lato, riflettendosi sulle cupe lastre di marmo e
suscitandovi come un incendio. Sembrava che il mausoleo fiammeggiasse come un rogo.
La solennità di questo singolare monu¬mento era accresciuta dai due soldati che, rigidi sull'attenti,
immobili come statue, vi montavano permanentemente la guardia. Spesso una lunga fila di persone
si snodava serpeggiando per la piazza, aspettando in silenzio, per delle ore, che la porta si aprisse
per entrarvi. Una volta vi entrai anch'io. L'interno era altrettanto semplice ed austero come l'esterno:
lisce pareti di marmo rosso e nero, senza alcuna decorazione. Si discendeva giù nella cripta, ed in
silenzio, lentamente, si girava attorno all'urna di cristallo che conteneva il corpo imbalsamato. Non
era lecito fermarsi, ma i visitatori, pur procedendo, tenevano fisso lo sguardo sulla caratteristica
testa, dal volto cereo, affinato, la barbetta a punta. Terminato il giro dell'urna, si usciva dal lato
opposto a quello per cui si era entrati.
Uno spettacolo impressionante nella sua semplicità. Erano persone che venivano da tutte le parti
dell'Unione Sovietica a rendere omaggio al grande rivoluzionario. In seguito, durante il mio lungo
soggiorno in Russia, dovevo apprendere che questa venerazione era di tutti. Anche persone delle
vecchie generazioni, manifestamente ostili al regime sovietico, quando parlavano di Lenin,
esprimevano il più profondo rispetto.
Un giorno, dunque, attraversavo la piazza Rossa, accompagnato dalla guida che mi era stata data,
una signora ebrea, nata in Siberia da ricca famiglia di mercanti: parlava in italiano, non bene, ma in
modo da farsi capire. Giunti in prossimità del museo storico russo, la mia attenzione fu richiamata
da una donna che parlava concitatamente con altre persone, quasi gridando. La sentii pronunziare il
nome di Stalin. Incuriosito domandai che cosa dicesse : « Inveisce contro Stalin», rispose la mia
interprete. «E può farlo impunemente?» osservai. «Ma non vedete che è una contadina ? », replicò
ridendo la signora. « Chi volete che le dia fastidio per quello che dice ?».
Restai sorpreso da queste parole. I giornalisti, in Italia ed altrove, ci avevano sempre dipinto la
Russia come un paese, dove regnasse il più assoluto terrore, dove la gente non osasse dire la
minima cosa contro il governo, non dico in pubblico, ma nemmeno nel segreto della propria casa.
Ed ecco invece che nel centro di Mosca era possibile insolentire contro Stalin stesso. È vero che si
trattava di una contadina: ma che sarebbe accaduto di una contadina italiana che, a piazza Venezia,
si fosse messa a vituperare ad alta voce Mussolini ?
Ma non fu l'unico episodio di tal genere. Alcuni giorni dopo mi trovavo nella sala di lettura
dell'albergo ad aspettare qualcuno. Nella sala vi erano parecchie altre persone. In un angolo un
ragazzo di quindici o sedici anni se ne stava seduto con un giornale fra le mani. Ad un tratto,
rivolgendosi alla mia interprete, disse qualche cosa ad alta voce. Fra i due si intavolò una
discussione. Il ragazzo parlava vivacemente, con decisione. « Di che parla ? », domandai. « Critica
il piano quinquennale », rispose la signora. « Dice che è la causa per cui si soffrono ora tante
privazioni ».
Il ragazzo aveva ragione. L'esecuzione del piano quinquennale imponeva al popolo russo sacrifici
molto duri. Tutte le risorse, tutte le energie del paese erano assorbite dal grandioso programma di
industrializzazione cui Stalin aveva posto mano. In quel tempo, nelle strade di Mosca, la gente
appariva assai mal vestita, e vi era certo anche scarsezza di alimenti, se nelle vetrine di taluni negozi
si vedevano, in bella mostra,rotonde forme di formaggio colorate in rosso, del tipo che da noi
chiamano olandese, che non era formaggio, ma legno. Questo curioso particolare allora mi colpì,
ma non avrei mai pensato che precisamente la stessa cosa avrei rivisto undici anni dopo nelle
vetrine degli eleganti negozi di salumeria berlinesi. Ma, se i sacrifici imposti al popolo russo
dovessero dare i frutti che Stalin si aspettava, si è visto nella guerra attuale. Certo l'umanità deve
anche alle dure privazioni sofferte allora dai russi se si è potuta salvare dalla barbarie nazista.
I due episodi che ho riferito mi colpirono profondamente. Non bisogna dimenticare che venivo, non
da un paese libero come l'Inghilterra o la Svizzera, ma dall'Italia dove, ormai, da otto anni
imperversava il terrore fascista, e dove se, talvolta, due amici si arrischiavano a parlar male del
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regime fra di loro, tacevano di botto all'avvicinarsi di una terza persona, fosse pure amica.
Tornai in Russia il primo maggio del 1932, e da allora vi rimasi fino al Natale del 1936. Quasi
cinque anni di vita sovietica che costituiscono una delle esperienze più memorabili della mia vita
agitata. Ebbi così la ventura di assistere da vicino, ed in qualche modo partecipare con lo spirito, a
quel formidabile processo rivoluzionario che poneva le basi di una nuova società umana. Fui
testimone della profonda trasformazione che la rivoluzione andava operando nella enorme massa
della popolazione sovietica. Questa massa, che per secoli era stata inerte, passiva, subiva ora un tale
rimescolamento da mettere in libertà tutte le immense energie latenti in essa. Il talento naturale, così
grande nei russi, era stato risvegliato, lo spirito di iniziativa stimolato. L'intero paese era in un
fermento enorme. I giovani russi mangiavano e vestivano male, è verissimo, ma in compenso la loro
vita intellettuale aveva un ritmo ed una ampiezza sconosciuti alle altre gioventù europee. Essi
discutevano di grandi problemi, interessanti l'intera umanità, ed agivano per la loro soluzione. Al
sentir vantare le comodità materiali di cui si godeva in altre parti del mondo sorridevano con
disprezzo: a suo tempo quelle comodità le avrebbero acquistate anch'essi, ma ora avevano altro a
che pensare. Nell'atmosfera ardente in cui si muovevano, le necessità dello spirito avevano preso il
sopravvento su quelle materiali. Strano paradosso di un regime le cui norme di vita si dicevano
fondate su una filosofia materialistica.
Questo fervore di attività, questa vita spirituale così intensa, era certamente una delle ragioni del
fascino che la Russia esercitava sullo straniero che vi dimorasse a lungo, che avesse occasione di
stare a contatto dei giovani e che fosse capace di intendere la vita che gli si svolgeva attorno.
Qui, senza distinzione di razze, di colore, di nazionalità, tutti lavoravano alacremente a mettere le
fondamenta di una nuova, rivoluzionaria forma di convivenza sociale. Ci si sentiva ringiovanire. Si
tornava con la mente agli ideali di giustizia e fratellanza umana che ci avevano appassionato fin da i
primissimi anni della giovinezza quando il nostro poeta cantava « ell'è un'idea ful¬gente di giustizia
e di pietà ! ». Quegli ideali generosi erano, allora, stati tacciati e più tardi scherniti. Ma ecco che qui
in Russia si lottava aspramente perchè divenissero una realtà vivente.
Di estate, talvolta, mi recavo in vacanza in Italia. Appena oltrepassata la stazione di Niegoroloie e
messo piede in Polonia, lo sguardo era rallegrato dalla vista delle persone ben vestite e dei buffet
dei ristoranti rigurgitanti di ogni ben di Dio, ma non era più l'atmosfera pura ed ardente di Mosca.
In Germania, poi, lo spettacolo delle strade di Berlino, con i tanti segni di corruzione, mi disgustava
profondamente, contrapponendosi alla modestia, alla decenza della folla affaccendata che, a guisa
di fiumana, si riversava lungo i marciapiedi delle strade di Mosca.
Fuori di Russia, la gente si preoccupava solo di cose personali, ed io sentivo come restringersi
l'orizzonte del mio spirito. Il mio cerchio intellettuale, man mano che mi avvicinavo all'Italia, si
andava sempre più impiccolendo, dandomi come la sensazione di una crescente asfissia. Giunto a
Roma, esso si trovava circoscritto dalle pareti domestiche: nulla più interessava, nulla poteva
interessare, all'infuori della propria famiglia.
* * *
A promuovere quella profonda trasformazione delle popolazioni sovietiche da una massa amorfa,
inerte, ad una massa attiva, in pieno fermento, carica di energie, penso che abbia avuto gran parte la
politica della samocritica.
Certo sarebbe stupido pretendere che in quel periodo di costruzione rivoluzionaria fosse lecito al
privato cittadino discutere le idee fondamentali della politica sovietica o le direttive che venivano
dagli organi centrali del partito. Quelle idee, o diciamo pure quei dogmi, erano il presupposto stesso
della rivoluzione, rappresentavano quasi la carta costituzionale dello stato sovietico e si comprende
perciò che non ne fosse consentita la discussione. Ma era pienamente consentito discutere il modo
con cui quelle idee o direttive dovevano esser tradotte in pratica. Anzi la discussione era imposta
come dovere di ogni cittadino. In questo, per l'appunto, consisteva la politica della samocritica:
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autocritica, diremmo noi. In tutti gli uffici, in tutte le aziende, in tutte le istituzioni sovietiche,
qualunque fossero, da un laboratorio scientifico ad un'officina, da un ente pubblico ad una bottega,
da un teatro ad un ristorante, da un ospedale ad una farmacia, avevan luogo periodiche riunioni,
presiedute dai capi, dove si discutevano liberamente le varie questioni attinenti al servizio. Tutti gli
interessati a quel dato servizio vi prendevano parte. In questo modo anche il più modesto dei
collaboratori aveva la possibilità di rilevare errori, discutere programmi e suggerire idee o nuovi
metodi di lavoro. Queste riunioni cui si dava il nome di soviescianie o sobranie si tenevano quasi
giornalmente. Io stesso vi ho preso parte innumerevoli volte. Generalmente non veniva posto alcun
limite di tempo e perciò, di solito, duravano a lungo, spesso troppo a lungo. Il più delle volte si
tenevano di sera ed allora si protraevano fino alle più tarde ore della notte, senza che fossero
interrotte nemmeno all'arrivo dell'immancabile tè, che veniva portato in giro insieme a fettine di pan
di segala ricoperte di caviale.
Non è a dire, però, che il sistema non presentasse inconvenienti. La critica era spesso eccessiva,
talvolta anche fatta da persone che non avevano alcuna competenza a discutere degli argomenti da
esaminare o che, se pure competenti, non li avevano studiati preventivamente. Spesso anche il
timore delle critiche , paralizzava l'opera dei capi, o comunque ne diminuiva il senso di
responsabilità, spesso le conclusioni erano affrettate, prese senza una ponderazione sufficiente, e
perciò errate, specialmente nel caso abbastanza frequente che i capi non sapessero guidare
proficuamente la discussione o valutarne i risultati. Conseguenza inevitabile era un cambiar
frequente di programmi, di idee, di progetti. Si capisce, perciò, che nel mio proprio campo tecnico
assai spesso fossi intollerante di un tal sistema di critica così contrario alle abitudini dei paesi aventi
un'organizzazione tecnica già ben progredita, dove, scelta la persona capace di dirigere un'azienda o
una qualsiasi istituzione, la si lascia libera, entro i limiti fissati alle sue attribuzioni, di svolgere
sotto la sua responsabilità il compito che le è assegnato, e dove, anche quando sia prescritto di
ascoltare il giudizio di particolari organi consultivi, questo avviene limitatamente a questioni di
particolare importanza e seguendo norme ben definite. Un sistema di critica non disciplinato, quasi
da dilettanti, esteso a tutta l'opera quotidiana sarebbe stato per noi un inutile, anzi dannoso
impaccio. Ma questo non era il caso della Russia. In Russia era quasi tutto da fare di sana pianta.
Non vi erano abbastanza operai qualificati, nè ingegneri, nè amministratori provetti,nè soprattutto
capi sufficientemente preparati al loro compito. In quel tempo i quadri dell'industria erano ancora da
formare e, a conti fatti, si doveva riconoscere che quel sistema di disordinate discussioni in cui
spesso consisteva la samocritica era ancora, nelle condizioni della Russia, il miglior mezzo per
permetterne la formazione. Quella critica, sia pure eccessiva, di tutto ciò che formava l'oggetto del
lavoro quotidiano, permetteva alle persone più capaci di farsi avanti, e consentiva agli organi
centrali del governo di controllare l'operato dei capi comunisti prescelti a dirigere le varie aziende,
controllo indispensabile, data l'impossibilità di trovare in quel tempo un sufficiente numero di capi
sperimentati in cui si potesse aver fiducia. Ma è probabile che, una volta formati i quadri, a quel
sistema di critica convenisse sostituirne un altro più razionale ed efficace.
Ma sarebbe, a mio avviso, sminuire l'importanza dell'istituto della samocritica, considerarlo solo dal
punto di vista della sua immediata utilità pratica nello sviluppo delle varie attività della vita
sovietica. Che, nonostante i suoi gravi difetti, contribuisse al miglioramento della produzione è
certo, ma di gran lunga maggiore era, io credo, la sua importanza come mezzo di educazione
politica. Questo abituarsi del comune cittadino ad esaminare tutto e dare il suo parere su tutto,
questo abituarsi a ricercare le deficienze di un programma di lavoro o del modo come esso era
messo in esecuzione, costituiva davvero uno stimolo enorme di tutte le intelligenze. Lo spirito di
iniziativa ne risultava eccitato, la stessa dignità individuale accresciuta. Ecco un altro dei paradossi
della rivoluzione sovietica che pochi, credo, hanno rilevato. La propaganda ostile ci rappresentava
la Russia come un paese dove ogni iniziativa individuale fosse repressa, dove l'individuo fosse
ridotto a poco meno di uno schiavo in balìa di un tirannico potere statale, mentre invece la mia
esperienza di cinque anni mi portò alla conclusione che in Russia, almeno nel campo della
produzione, veniva lasciato al singolo individuo una libertà di scelta, di iniziativa, di critica, che in
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molti casi, a me straniero, pareva eccessiva, e lo era infatti. Tanto meno poi si può parlare di
abbassamento della dignità personale, se perfino lo sguattero della cucina di un albergo, o il
facchino che lustrava i pavimenti delle camere, poteva, nelle periodiche riunioni di servizio,
liberamente discutere di piani di lavoro e del modo come attuarli.Negli altri paesi ad un inserviente
si fissano il compito da eseguire ed il salario e basta .
In Russia nessuno poteva criticare i principii direttivi della politica sovietica, questo è verissimo.
Ma chiunque poteva libera¬mente rivolgersi alla Pravda o all'Izvestia per denunziare un sopruso od
un inconve¬niente. Nell'Italia fascista, per contrapposto, l'insincerità, la menzogna erano elevate a
regola di vita, e sotto il pretesto che costituisse una forma larvata di antifascismo ogni critica, anche
la più innocua, veniva soffocata, specialmente quando minacciava di ledere gli illeciti interessi di
qualcun delle cricche dominanti. Ricordo il caso tipico di un giornale di Roma, per giunta
ultrafascista, il quale venne sequestrato pei aver pubblicato alcune lettere di privati cittadini che
criticavano la progettata riforma del servizio auto-tramviario !
Che cosa sia oggi divenuto di quella politica della samocritica non so, ma qualunque trasformazione
abbia subito, sta il fatto che essa contribuì alla pienezza di vita dello gioventù sovietica. I giovani
russi erano chiamati a partecipare con tutte le loro forze alla costruzione della nuova società.
Ciascuno aveva la sensazione di essere non già uno strumento cieco, ma un artefice consapevole di
essa.
Questa gioventù era allegra, entusiasta, pur in mezzo a gravi preoccupazioni, pur dovendo
sopportare condizioni di vita durissime. Dalle mie finestre, all'angolo della Lubianca, vedevo
passare, nelle gran¬di ricorrenze della rivoluzione, il primo maggio, il sette novembre, cortei
intermi¬nabili di giovani che si dirigevano verso la piazza Rossa. Nelle soste del corteo essi
scherzavano, cantavano, ballavano, davano sfogo, decentemente, alla loro esuberanza di vita. Alla
fine del 1936, quando tornai in Italia, riassumendo le mie esperienze di cinque anni di vita sovietica,
espressi agli amici il mio pensiero su quella gioventù con queste parole: « se una guerra scoppiasse,
l'Eu¬ropa farà i conti con essa».
Ed ho avuto ragione.
Kremlioskaia Balnitza
ALLA fine del febbraio 1933 improvvisa¬mente mi ammalai. Un insospettato attacco di
appendicite, da me trattato come una banale indisposizione viscerale, condusse alla perforazione
della appendice e ad un inizio di peritonite.
A casa mi trovavo solo. Trascorsi la notte delirando per l'alta febbre. La mat¬tina seguente, appena
venne Niura, la mia domestica di quel tempo, feci telefonare per un medico.
Questi giunse dopo qualche ora. Era dell'ospedale del Kremlino. Visto di che si trattava, concluse
che non era affar suo. Avrebbe fatto venire un chirurgo.
Il chirurgo arrivò. Visitatomi scosse la testa, ed in russo, credendo che non com¬prendessi nulla,
annunziò a Niura che il caso era molto grave. Bisognava operare subito. Ma difficilmente sarei
sopravvissuto all'operazione. Andò via dicendo che avrebbe fatto venire il chirurgo primario
dell'ospedale. Così nel pomeriggio di quel giorno feci conoscenza col dott. Oc'kin.Oc'kin mi riuscì
subito simpatico. Era un uomo sulla quarantina. Faccia aperta, biondo, con gli occhi azzurri.
Vestiva bene, quasi con eleganza.
Mi visitò anche lui; poi sorridendo mi disse: « Faremo subito l'operazione ». E telefonò all'ospedale
per far venire l'autoambulanza.Ebbi appena il tempo di mettere un po' in ordine le mie cose con
l'aiuto degli ingegneri italiani, che frattanto eran venuti a casa. Ad uno di essi consegnai una lettera
per mia moglie e diedi istruzioni su ciò che vi era da fare nel caso che non fossi uscito vivo
dall'ospedale.
Giunta l'auto-ambulanza, fui adagiato su una barella e trasportato. Ricordo Niura sulla porta che mi
guardava costernata ed i vicini di casa nel cortile, che, in silenzio, facevano ala al passaggio.
Pochi minuti di tragitto e fummo al¬l'ospedale. Nell'entrarvi ebbi subito l'impressione di trovarmi in
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un ospedale mo¬dello, dove tutto era nitido e ben ordinato. Mi trasportarono nella camera
assegnatami, dove un medico venne a radere la parte che doveva essere operata. Poi, rimesso sulla
lettiga, fui portato nella sala operatoria.
Una gran sala, tutta bianca, illuminata a giorno. Vidi nel centro, attorno al tavolo operatorio, quattro
persone in fila, rivestite di camici di un biancore immacolato, con le mani inguantate, tese in alto.
Fui disteso sul tavolo. Poi qualcuno mi coprì la testa con qualche cosa. Sentii come una pioggia di
etere sul volto, ed ebbi l'impressione di sprofondare ed essere dolcemente assorbito in un abisso. E
fu tutto: non avvertii più nulla.
Quando riaprii gli occhi, vidi davanti a me le figure di Feldmann, il capo della Dirigiablestroi, e del
dottor Sander, il no¬stro medico. Ricordo di aver domandato loro « come stavano », ma le palpebre
erano pesanti e richiusi di nuovo gli occhi. Nè vidi più alcuno. Più tardi nella notte mi accorsi che
una piccola donna bruna mi teneva per le mani. Capii che non mi era consentito di muovermi.
* * *
L'operazione era stata grave. Alcuni giorni dopo Oc'kin mi parlò di un flemmo¬ne che si era
formato. Aperto l'addome sul davanti, l'aveva trovato pieno di pus, e subito si era deciso ad operare
un secondo taglio di dietro per fare il drenaggio. Terminata l'operazione, egli e gli altri chirurghi
conclusero che non sarei sopravvissuto. L'operazione era stata fatta troppo tardi.
I giornalisti, specie quelli americani, che si erano subito precipitati all'ospedale a chiedere notizie,
non vollero sentire altro. Era un annunzio sensazionale da comunicare subito ai loro giornali. Si
affrettarono a telegrafare in Europa ed in America che ero moribondo; ma uno di essi, per far più
presto ed esser certo di giungere prima degli altri a dar la notizia della mia morte imminente,
telegrafò addirittura che questa era già avvenuta. Così, qualche settimana più tardi, ebbi la
soddisfazione di leggere il mio necrologio in un giornale degli Stati Uniti.
Il contenuto non era spiacevole.
* * *
Rimasi una settimana fra vita e morte. Nei primi tre o quattro giorni, quando da un momento
all'altro si aspettava la fine, fu un accorrere al mio capezzale di amici, conoscenti, autorità, che
venivano ammessi liberamente, in qualunque ora, a darmi l'estremo saluto. Poi, visto che non
morivo, per alcuni giorni non si fece entrare più nessuno nella mia camera, all'infuori dei medici e
delle infermiere.
Fui curato, assistito, come non avrei potuto esserlo in nessuna altra parte del mondo. Medici,
infermiere, tutti si prodi¬garono attorno a me per tirarmi fuori di pericolo ed affrettare la mia
guarigione. Non fui lasciato solo un minuto, nè di giorno, nè di notte.
Mattina e sera, per molti giorni di se¬guito, si riunirono attorno al mio letto a consulto i migliori
chirurghi e medici di Mosca. Fra gli altri venne anche il medico di Gorki, il dottor Levin, che poi
nel 1938 fu processato insieme a Tukacewski e fucilato.
L'ospedale era attrezzatissimo. Gli ap¬parati medici di primissimo ordine e tenuti in modo perfetto.
Le sale, i corridoi, eran belli, ariosi, lucidi, eleganti. Le cure vi erano meticolose; ogni due o tre
giorni veniva un medico a prelevare il sangue per farne l'analisi. Al più piccolo disturbo ac¬correva
uno specialista. Così divenni fami¬liare con tutti i medici del reparto: il dottor Niesnievic, polacco,
il dottor Pogliaccik, il dottor Kotlaroff, il dottor Kantor, il dottore Ginsburg. Più simpatici di tutti
erano Oc'kin, che mi aveva operato, ed il professore Rosanof, quello stesso che ave¬va operato
Lenin.
Attorno al mio capezzale si alternavano due infermiere, siestrì (sorelle), come dicevano in Russia.
Gentili, premurose, affettuose come potrebbero essere delle persone di famiglia. Si chiamavano
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Veda e Elisa¬betta. Tutte e due erano maritate. Ad Eli¬sabetta ed a suo marito mi legai poi con
affettuosa amicizia.
La disciplina nell'ospedale era rigorosa e l'ordine assoluto. I visitatori erano ammessi solo in una
data ora del pomeriggio, tre volte la settimana. Prima di entrare si faceva loro obbligo di indossare
un camice, fresco di bucato, chiuso fino al collo.
La camera che occupavo era posta in uno degli angoli dell'edificio, tutta linda, tinta di verde in
basso, e bianco in alto. Dal mio letto vedevo un po' di cielo e la cupola di una chiesa vicina.
La mia giornata passava regolarmente. Tutto era stabilito ed eseguito con grande puntualità. Alle
sette del mattino comin¬ciavano le pulizie; la bocca, le mani, il volto, spesso gran parte del corpo
con acqua ed aceto aromatico. Quando fu possibile, il bagno. Seguiva la colazione con cascia, pane
bruscato, burro, caffè latte, caviale, marmellata. Poi veniva il barbiere. Alle dieci la medicazione.
Per il pranzo come per la cena mi veniva presentata una lunga li¬sta di vivande, da scegliere.
Alle cinque del pomeriggio veniva a visitarmi il sole, e dopo tanti mesi che non l'avevo visto, era
proprio una gioia sentirsi avvolto dai suoi raggi dorati.
Ai primi di aprile, dopo più di un mese trascorso all'ospedale, mi ero talmente abituato alla vita
tranquilla che vi si conduceva, che pensavo perfino con dispiacere al giorno in cui ne sarei uscito.
Avveniva come su un piroscafo, verso la fine di un viaggio, quando, avendo finito di conoscere un
po' tutti a bordo, dispiace di separar¬sene. Qui, all'ospedale, ormai conoscevo uno per uno medici,
infermieri, inservienti. Conoscevo anche molti ammalati e scam¬biavo visite con loro.
Non mancavano trattenimenti. Anzitutto il « Club », una sala, situata giusto in fac¬cia alla scala,
dove i convalescenti si riu¬nivano, mattina e sera, per giocare a scac¬chi o a carte. Poi, al quinto
piano, il Solarium, da cui si godeva la vista del cielo e delle guglie del Kremlino. Sdraiati
como¬damente su divani, vi si poteva leggere ed ascoltare la radio, ma spesso vi incontravo
ammalati che l'odiavano quanto me e si affrettavano a chiuderla. Nei rari giorni in cui vi era sole, o
in cui almeno non pio¬veva nè tirava vento forte, era lecito re¬carsi a passeggiare per un'ora sulla
terrazza. Là incontravo di solito un signore che parlava molte. lingue, ed un po' anche l'ita¬Iiano. Si
chiamava Abramof. Aveva fatto l'editore di Gorki, e perciò era stato molte volte in Italia. Con
Abramof facevamo lun¬ghe chiacchierate. Era un veterano dell'ospe¬dale, dove si trovava da
quattro mesi, e perciò era informato di tutto, e mi rac¬contava di questo o quell'ammalato, di questo
o quel caso straordinario. Faceva grandi elogi di Oc'kin, di cui diceva non esservi l'eguale per la
prontezza di deci¬sione nell'atto di operare.
Interessanti erano anche i miei compagni di scacchi. Uno di essi, operato di otite, bravo giocatore,
mi divertiva molto perchè, sapendo di avere una bella mano, la faceva volteggiare con gesti eleganti
sulla scacchiera nel muovere i pezzi. Di un altro, assai sim¬patico, con le mani grosse ed i capelli
arruffati, seppi che era un professore «ros¬so », come si diceva in Russia. Insegnava economia o
qualche cosa di simile all'univer¬sità; ma, quindici anni prima, non era stato altro che un semplice
operaio meccanico.
Le mie conoscenze erano sparse tra il secondo piano, dove mi trovavo io, ed il quarto, dove riuscivo
a salire anche senza ascensore. Fra gli altri, due bambini, l'uno di otto anni, che passava il suo
tempo a giocare, l'altro di undici, che non faceva altro che leggere. La camera numero 75 era
occupata da due donne. Di faccia a me vi eran, poi, due giovani, all'uno dei quali avevano amputato
una gamba congelata, all'altro un piede. Li vedevo continuamente in giro, gioviali, pieni di buon
umore, simpaticissimi.
Tutti i ricoverati erano membri impor¬tanti del partito comunista o, comunque, avevano acquistato
benemerenze pubbliche. Nessuno straniero era stato mai ammesso prima di me.
Un mese e mezzo dopo di esservi entrato lasciai l'ospedale. Ero guarito. Qualche giorno prima il
professore Rosanof, venuto a visitarmi per l'ultima volta, aveva esaminato le ferite che si
cicatrizzavano, e colpendomi con la mano sul ventre, aveva detto in russo: « Adesso ci si può
ballare sopra». Poi aveva aggiunto in francese:
«Vous étes un cas très intéressant ». Gli domandai perchè, ed egli rispose: «Parce que vous étiez
déjà un peu mort». E se ne era andato sorridente ed allegro, come sempre.
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Lasciai l'ospedale del Kremlino portando con me un ricordo incancellabile delle cure che così
amorevolmente e sapientemente mi erano state prodigate. Quell'ospedale di eccezione non aveva
forse l'eguale in tutta Europa e nemmeno in America per la perfezione dell'assistenza medica, ma
era certo unico al mondo per il modo affettuoso con cui medici ed infermieri assistevano gli
ammalati, pur non avendo alcun interesse materiale a farlo.
* * *
A Mosca ebbi occasione di visitare altri ospedali, dove erano stati ricoverati alcuni miei amici russi.
Non avevano il lusso dell'ospedale del Kremlino; però anch'essi erano ben attrezzati. L'assistenza,
del tutto gratuita, era quanto di meglio si poteva desiderare.
L'organizzazione dei servizi medici nell'Unione Sovietica è certamente una delle
più progredite del mondo. Specialmente mi parve che fossero organizzati bene gli am-bulatori per il
pronto soccorso. Ebbi ma¬niera di constatarlo di persona, una volta che in casa mia De Martino, un
tecnico venuto con me in Russia, fu colto da un improvviso malore. Tutti attorno rimanem¬mo
spaventati. Corsi a prendere acqua da spruzzargli sul volto, ma un amico russo pensò che la miglior
cosa fosse di telefo¬nare al più vicino posto di pronto soccorso (ve ne erano molti distribuiti nei
vari quar¬tieri della città). Cinque minuti dopo giun¬geva in casa il dottore: una donna, prov¬vista
di tutto ciò che poteva occorrere. De Martino, nel frattempo, si era riavuto; ma la medichessa, ad
ogni buon fine, gli fece un'iniezione di qualche cosa. Mentre stava per andar via, le domandai cosa
ci fosse da pagare. « Nulla», fu la risposta.
* * *
Vi erano in Mosca pronto-soccorsi perfino per le bestie, anch'essi gratuiti.
Ne visitai uno, e dovetti riconoscere che era più pulito e meglio arredato di taluni, da me incontrati
girando per il mondo, destinati non già a bestie ma ad esseri umani.
Partinaia cistka
QUANDO uscii dall'ospedale, trovai che il Constructor Biurò della Dirigiablestroi, men¬tre io ero
ammalato, si era trasferito alla galleria della Petrovka, una delle principali strade del Centro di
Mosca. Ivi rimase durante tutta l'estate.
Si accedeva agli uffici da un ballatoio che correva tutto intorno lungo i quattro lati interni. Dall'alto,
attraverso il lucer¬naio, il sole avvampava. L'estate a Mosca dura poche settimane ed è di solito
assai bella, specialmente nelle notti quasi com¬pletamente chiare fra giugno e luglio. In quel breve
periodo può fare molto caldo. Il sole, tanto sospirato durante i lunghi mesi invernali, finiva con
l'essere perfino fastidioso in quell'ultimo piano della galleria della Petrovka.
Una sera, nell'uscire dall'ufficio per recarmi a casa nel mio piccolo appartamento all'angolo della
Lubianca, passando davanti al quadro degli ordini di servizio appeso alla parete presso l'uscita, vi
scorsi un avviso piuttosto appariscente. Mi fermai a leggere quel poco che mi riusciva di
interpretare. Vi era una lista di nomi a me noti: ingegneri con i quali da oltre un anno avevo
dimestichezza: Paliniska, Matunin, Faxermann, ecc. A turno ciascuno di essi aveva ricoperta la
carica di mio sostituto, qualche cosa come vice direttore o forse un po' di più. In russo si diceva «
samiestitel». Era sempre scelto fra i membri del partito. Formalmente era subordinato a me, ma, in
pratica, per le cose amministrative di cui più particolarmente si occupava, prendeva istruzioni
diretta-mentre dal capo dell'organizzazione, che naturalmente era comunista anche lui.
A fianco di ciascun nome compariva una data. Seguivano parole che non comprendevo. Il russo
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riesce tremendamente difficile per un italiano. Perciò non è da meravigliarsi che, sebbene avessi già
trascorso due anni nell'Unione Sovietica, non balbettassi allora che poche parole di quella bella
lingua. Si aggiunga che le difficoltà ad essa intrinseche venivano accresciute con l'abitudine, invalsa
dopo la rivoluzione, di comporre nuovi vocaboli mettendo insieme le radici di varie parole. Per
decifrare completamente l'avviso, dovetti ricorrere alla mia segretaria. Si chiamava Mèla Savin, una
ragazza assai intelligente e svelta, che quando mi faceva da interprete aveva l'abilità di tradurre
quasi parola per parola ciò che si diceva, senza che chi parlava dovesse per questo interrompersi.
Mèla mi spiegò che si trattava della cistka del partito, epurazione, diremmo noi altri, ma io
preferirei la traduzione letterale della parola russa che in italiano suona « pulizia». Anche nelle case
meglio ordinate, dove si cerca di mantenere accuratamente pulita ogni cosa, è inevitabile che alla
fine un po' di sudiciume si accumuli qua e là. Di tanto in tanto bisogna pur decidersi a fare una
pulizia più a fondo. In Russia la ripulitura a fondo del partito comunista si faceva anche essa di
tanto in tanto, tutte le volte che Stalin lo credeva necessario.
Fin qui nulla di straordinario. Ma straordinario, e per me una sorprendente novità, era che questa
epurazione si facesse in pubblico. Proprio così: in pubblico. Mèla mi spiegò che da alcuni giorni
una commissione inviata dagli organi dirigenti del partito si era installata presso la Dirigiablestroi
per prendere in esame e discutere pubblicamente l'operato dei comunisti che lavoravano presso di
noi. Questi comunisti, nella nostra come nelle altre aziende, non erano molti, ma ne costituivano,
direi, lo stato maggiore, occupando i posti di più grande responsabilità. Commissioni analoghe, mi
diceva la segretaria, eseguivano un analogo lavoro di revisione presso tutte le organizzazioni,
officine ed uffici dell'Unione Sovietica.
« Posso assistere ad una di queste riunioni ?». «Ma certo », rispose Mèla. «L'accompagnerò io
stessa». Che fossi curioso di vedere come procedesse in pratica questa « cistka » si comprende; ma,
a dir il vero, la mia curiosità era acuita dal fatto che conoscevo personalmente i comunisti di cui
dovevano essere discusse pubblicamente le buone e le male fatte.
Sembrandomi strano, però, che uno, come me, non comunista e per giunta straniero, potesse venir
ammesso ad una riunione di carattere, direi, così intimo, volli farmi confermare dalla direzione
stessa della Dirigiablestroi il permesso di intervenirvi. Mi recai dal sostituto del capo. Si chiamava
Matson. Era stato, dicevano, un pezzo grosso della G.P.U., , da cui proveniva, preceduto dalla fama
di essere persona molto energica. « Tavarisch Matson (era il modo comune con cui ci si soleva
indirizzare alle persone in Russia), Tavarisch Matson, credete che possa intervenire alla riunione di
domani per la cistka del partito ? ». « Senza dubbio », rispose, «ne avete il pieno diritto. Qualunque
cittadino può assistere e prendervi parte, anche se non abbia nulla da fare col partito o con la nostra
organizzazione ». «Anche uno straniero ? ». « Si, anche uno straniero ».
Me ne andai soddisfatto. L'indomani, dopo il lavoro, nell'ora stabilita, mi recai nella sala delle
riunioni. Era la più spaziosa delle camere disponibili in quell'ultimo piano della galleria della
Petrovka. Quando entrai era già gremita. Vi erano tutti i giovani ingegneri con i quali già da oltre un
anno avevo consuetudine di lavoro e molte altre persone che vedevo per la prima
volta. Gentilmente mi fecero passare avanti. Due sedie vennero offerte, in una delle prime file, a me
ed alla segretaria. Ma la sala era talmente assiepata di persone che molte dovettero rimanere in
piedi.
Avanti a noi, dietro un lungo tavolo sopraelevato sul pavimento, siedevano i
membri della commissione: tutti volti sconosciuti. Ad un lato del tavolo, alla nostra sinistra, era una
specie di podio, sul quale, invitatovi dal presidente della commissione, salì Paliniska.
Conoscevo Paliniska da un anno e mezzo. Era stato mio sostituto per parecchi mesi.
Sulla trentina, alto, magro, ossuto, i capelli biondi, gli occhi chiari: un vero russo.
Non aveva, forse, una grande intelligenza, e nemmeno, credo, una adeguata preparazione per il
posto che aveva ricoperto, ma in compenso era semplice, diritto, schietto. Parlava sempre cori un
tono pacato di voce; un Paliniska eccitato, nervoso, non avrei saputo immaginarmelo.
Anche ora Paliniska era tranquillo. Senza enfasi, senza gesticolare, prese ad esporre
tutto quanto aveva fatto negli ultimi due anni. Parlò dei vari uffici tenuti, dei vari incarichi
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disimpegnati, delle difficoltà superate. Mentre egli parlava, Mèla mi andava man mano traducendo,
senza darsi alcun pensiero se il suo cicaleccio infastidisse o pur no i vicini, i quali pazientemente
tolleravano, con quella indulgenza che è così caratteristica dei russi.
Quando Paliniska ebbe finita la sua esposizione, il Presidente si rivolse all'assemblea: vi era alcuno
che volesse fare osservazioni, critiche o accuse contro il compagno Paliniska ? Altro se ve ne erano!
Qua e là nella sala si levarono in alto delle mani. Una dopo l'altra le persone parlarono, dal posto
stesso dove si trovavano. Taluni si limitavano a porre delle domande: « perchè il compagno
Paliniska in tale occasione aveva fatto così piuttosto che colà ? »; oppure, « perchè aveva omesso di
fare la tal cosa ? ». Altri contestavano degli errori; altri, più severi, formulavano accuse di cattiva
volontà o addirittura di inettitudine. Le critiche investivano non solo l'attività pubblica di Paliniska
come membro del partito, non solo la sua attività amministrativa o tecnica, ma la sua stessa vita
privata, familiare. L'intero procedimento mi dava l'impressione come di un tribunale popolare. Mi
colpiva, fra l'altro, la franchezza delle accuse, la mancanza di acrimonia con cui venivano espresse
e, ad un tempo, la calma con cui erano accolte dall'imputato, anche quando, come sembrava a me,
fossero eccessivamente personali. Tutta la vita privata e pubblica di Paliniska veniva messa allo
scoperto; tutte le sue azioni discusse e non solo le azioni ma talvolta anche l'inazione, la passività, la
mancanza di iniziativa. E probabile che non tutte le accuse fossero giuste, come ad esempio quella
di essere stato troppo indulgente con il proprio padre che, dalla discussione, risultò essere un
contadino refrattario alle idee comuniste. Ma Paliniska aveva modo di discolparsi, replicando.
Le accuse, le contestazioni, le repliche si protrassero a lungo, forse un'ora, forse più, e di tutto la
commissione prese nota. Dopo si passò alla parte del procedimento che direi più piacevole, quando
il presidente domandò ai presenti se vi fosse alcuno che volesse parlare in favore di Paliniska.
Anche stavolta si levarono in alto delle mani qua e là, nella sala. Paliniska venne difeso e le sue
benemerenze enunciate, dopo di che egli abbandonò il podio e un altro venne chiamato al suo posto.
Nell'uscire dalla sala domandai a Mèla: « Ebbene, quali sono state le conclusioni ? ».
« Non vi sono ancora conclusioni, rispose. La Commissione deciderà in altra sede, dopo che avrà
confrontato i fatti risultati dalla discussione di oggi con i rapporti e le segnalazioni dei vari organi
del partito, compresa la G.P.U. Forse dovrà indagare su qualcuno dei fatti. Soltanto dopo deciderà!
». « Ed in che cosa potrà consistere questa decisione ?».« Dipende », disse Mèla, « da ciò che in
definitiva sarà risultato sulla condotta pubblica e privata di Paliniska. Potrà essere riconfermato
membro del partito, oppure sospeso per un determinato tempo, od anche retrocesso a candidato. O
forse, anche, potrebbe essere rimosso dalla carica attuale. Se vi fossero contro di lui risultanze gravi
potrebbe essere espulso dal partito ».
Povero Paliniska! Fare il comunista in Russia non era così comodo come fare il fascista in Italia.
Alcuni anni fa vidi a Chicago un film molto divertente, edito dall'Unione Sovietica stessa, dove si
faceva una gustosa satira del capo comunista di un piccolo centro industriale russo. Ecco una cosa
che non sarebbe mai potuta avvenire nell'Italia fascista, e tanto meno poi nella Germania nazista,
dove ogni capo, grande o piccolo, era tabù!
Nel periodo eroico della costruzione in Russia, l'appartenere al partito non era niente affatto un
comodo espediente per procacciarsi cariche, ricchezze, onori. Non si trovavano perciò molti,
all'infuori dei giovanissimi, che aspirassero ad entrarvi. Avevo, fra i miei amici, un ebreo, piccolo,
grassotto, dalla bella faccia paffuta, rosea, gli occhi celesti. Era il marito di Elisabetta Simeovna,
ch'era stata mia infermiera all'ospedale. Occupava un posto amministrativo in una organizzazione
attinente a non so più quale industria di metalli. Era molto intelligente, e credo che facesse assai
bene il suo lavoro, a giudicare dallo stipendio che gli veniva corrisposto. Non apparteneva al partito,
ma era comunista convinto ed entusiasta, sempre pronto ad esaltare la immensa opera di
ricostruzione cui il partito aveva posto mano. Un giorno gli domandai: « Come mai, Abramo
Jacovic (così si chiamava), con tutto questo vostro entusiasmo, non siete entrato nel partito ? ». « Ci
ho pensato tante volte, mi disse, da anni, ma non ho saputo mai decidermi a farne domanda. Certo
se lo avessi fatto, a quest'ora avrei un posto di maggiore importanza di quello attuale. Ma non me la
son sentita di perdere la mia libertà. t una vita di duri sagrifici. Non si è mai padroni del proprio
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tempo. Se mi piacesse farlo, oggi stesso potrei abbandonare il posto che ho e cercarmene un altro,
trattando liberamente le condizioni del mio salario; potrei, se me ne venisse la voglia, lasciare
Mosca ed andare a stabilirmi a Leningrado o dove più mi piacesse. Non dovrei dar conto a nessuno.
Ma, se fossi membro del partito, tutto sarebbe diverso. Mi assegnerebbero un posto, e dovrei
restarci, volente o nolente. Mi si potrebbe all'improvviso ordinare di partire, questa sera stessa, ad
esempio, per Arcangelo, o per gli Urali, o per qualunque altro posto dove si credesse più utile la mia
opera. Dovrei ubbidire, senza fiatare. No, in verità, non me la sento ».
Abramo jacovic aveva ragione. In Russia chi voleva esser libero di scegliere l'occupazione e la
residenza più confacentiglisi, chi voleva disporre liberamente dei suoi periodi di riposo, chi voleva
vivere senza grattacapi, ed in santa pace, doveva rinunziare ad entrare nel partito. Del resto nessuno
lo sollecitava a farlo. Il partito costituiva una infima minoranza della nazione, una vera e propria
élite di persone, alle quali, se pure talvolta eran concessi piccoli privilegi, come a soldati, d'altra
parte veniva imposta una ben dura disciplina. Non si entra volontariamente in una milizia, in tempo
di guerra, se non si ha voglia di combattere e rischiare la vita; né si diventa sacerdoti, se non si ha
fede. Questo non vuol dire, però che non vi siano talvolta soldati traditori da punire o sacerdoti
indegni da espellere.
Aspetti della vita culturale
NEI sei anni che sono stato nell'Unione Sovietica ebbi occasione di parlare in pubblico una dozzina
di volte, senza contare alcune lezioni date in un istituto universitario di Mosca.
Una conferenza in Russia, qualunque ne fosse il tema, tecnico, letterario, artistico, era sempre una
cosa molto seria. Già il pubblico stesso cominciava con l'essere differente da quello che è di solito
negli altri paesi. L'enorme maggioranza erano giovani usciti allor allora dall'officina o -dal
laboratorio, vestiti alla buona, senza cravatta, spesso una blusa al posto della camicia, od una
tolstovka al posto della giacca. Non avrei potuto distinguere, almeno nei primi anni che mi trovavo
in Russia, un operaio da un ingegnere. Guai a giudicare dall'aspetto esteriore: vi eran da prendere
granchi solenni.
Poi c'era questo, che, mentre parlavate, tutti vi tenevano gli occhi addosso, né si lasciavano sfuggire
una sola parola di quello che dicevate. Di persone venute per sbadigliare non ve ne era neppure una.
Ed infine, e questa era la cosa più grave, la conferenza non durava un'ora, ma due o tre, spesso
anche di più, praticamente tutta la serata. Si andava ad una conferenza come da noi si va ad un
teatro.
Ricordo la prima che tenni a Mosca nel gennaio 1926, per invito dell' Ossoaviachim, una grande
associazione che si interessava di aviazione ed altre cose. Mi avevano invitato a parlare della
spedizione polare che allora andavo preparando, e per la quale appunto era andato a Mosca a
conferire con Litvinoff. La sala era gremitissima.
Mentre parlavo mi accorsi che, di tanto in tanto, qualcuno degli ascoltatori scriveva qualche cosa su
un pezzo di carta che, ripiegato in quattro, passava poi a qualcuno della fila avanti. Così di fila in
fila il biglietto arrivava ad una delle persone sedute avanti a me, che, ricevutolo, si alzava e
discretamente veniva a deporlo sul tavolo dietro il quale io parlavo.
Così vidi accumularmisi davanti una quarantina, forse, di tali biglietti. Che cosa contenessero non
sapevo immaginarmelo, ma la spiegazione l'ebbi quando, terminato che ebbi di parlare, Leteisen, il
giovane ingegnere russo che aveva tradotto brano a brano il mio discorso, mi disse:
« Ora faremo una pausa di alcuni minuti per prendere un bicchiere di tè. Dopo potrete rispondere
alle questioni».
Risposi a queste come meglio potevo. Le domande erano le più svariate. La maggior parte
rivelavano la competenza delle persone che le avevano fatte. La discussione durò un'ora, forse più.
Di conferenze, dopo quella prima, ne feci in Russia, come dicevo, molte altre: alla Società di
Ingegneri delle Comunicazioni, alla Società Geografica, al Club Dzerzhinskij, alla Università e
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perfino al Club degli inventori di Mosca. Il procedimento era sempre lo stesso: la conferenza, un
intervallo di alcuni minuti, e poi la pubblica discussione. E' chiaro che con questo sistema sarebbe
stato arrischiato presentarsi insufficientemente preparato davanti ad un uditorio di giovani russi. La
conferenza occupava, come dicevo avanti, praticamente l'intera serata, ma una volta alla M.A.I. a
Mosca, nel 1931, non avendo esaurito l'argomento, mi obbligarono a tornare per altre due sere di
seguito.
I bigliettini contenenti le questioni erano sempre in gran numero: talvolta così grande che alla fine
mi trovavo obbligato a dare risposte evasive e laconiche per potermi sbrigare. Spesso le domande
erano ingenue o uscivano fuori del tema o diventavano generiche; talvolta, anche, eran di carattere
personale, spesso anche divertenti. Ricordo una volta un biglietto che diceva: « Vi fascist ? ». Siete
fascista ?
* * *
L'avidità di sapere di questi giovani russi era veramente grande: una sete di conoscenza che non
aveva riscontro in nessun altro paese del mondo.
Nei primi mesi del mio soggiorno a Mosca, ogni qualvolta visitavo una fabbrica o un laboratorio
scientifico, terminata la visita, venivo sottoposto ad un fuoco di fila di domande: un vero e proprio
interrogatorio che aveva luogo nell'ufficio di uno dei capi della Azienda. Mi si domandava : « Come
fate questo in Italia ? e perchè ? e come ?»; e poi ancora: « Che pensate della nostra fabbrica ? quali
difetti vi trovate ? come credete si possano eliminare ? ». Insomma, sembrava, per così dire, che si
volesse estrarre dal mio cervello tutto ciò che vi era contenuto e che a loro potesse tornare utile.
Devo confessare che in nessun altro paese ho avuto tante occasioni, come in Russia, di misurare la
povertà delle mie conoscenze.
Con questi sistemi è chiaro che i Russi, in tutto ciò che si riferiva a scienza o tecnica, finivano
coll'essere al corrente di quello che si faceva all'estero assai più che noi si immaginasse. Le
informazioni che a loro
affluivano da tutte le parti del mondo sotto forma di libri, riviste, rapporti delle varie missioni
inviate all'estero, erano copiosissime. Nel mio ristretto campo, quando giunsi la prima volta in
Russia, ebbi la sorpresa di trovarvi tradotti e pubblicati la maggior parte dei miei studi. Credevo di
poter dir loro cose nuove ed invece già le conoscevano da un pezzo.
* * *
La diffusione dei libri in Russia è veramente enorme. Fin dalla mia prima visita a Leningrado, pur
in mezzo al desolante squallore che allora si notava nelle strade della bellissima città (si era alla fine
del 1925), venni colpito dal gran numero di librerie. A Mosca, poi, non si percorrevano cinquecento
metri senza imbattersi in una di esse. Ve ne era una grandissima a Kuznietskij Most, dove si
potevano comprare libri inglesi, francesi, italiani, tedeschi, a prezzi relativamente bassi. Quasi, poi,
a spiegare il perchè di questo gran numero di librerie, era cosa assai frequente, andando in autobus,
in tram o nel metro, imbattersi in giovani con un libro fra le mani, assorti nella lettura.
Si potrebbe pensare che questa grande quantità di libri messa a disposizione dei giovani russi si
riferisse quasi tutta a questioni tecniche, o sociali, o di propaganda politica. No: vi erano anche
classici della letteratura di tutto il mondo. Nel 1935, il giorno del mio compleanno, un amico russo,
l'ingegnere Gamber, venne ad offrirmi in dono l'Eneide tradotta e commentata in russo, in una bella
edizione « Academia » del 1933. Apparteneva ad una collezione che portava il titolo: Pamiatniki
mirovoi literaturi. Un'altra volta lo stesso amico mi disse : « Umberto Vikientievic, ho comprato
oggi un libro che vi interesserà», e me lo mostrò. Era un classico italiano del cinquecento, uno dei
minori, che, a dir la verità, non avevo mai sentito nominare, nonostante mi vantassi di essere stato a
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mio tempo fra i migliori allievi del miglior liceo di Napoli. Vi era ben ragione di arrossire davanti
ad un giovane russo che ora si accingeva a leggere la prosa di quel classico tradotta nella sua
propria lingua!
Ma i classici stranieri venivano non solo tradotti in russo, ma anche messi a disposizione degli
studiosi nelle loro lingue originali, in edizioni decorose, rilegate, ed a buon mercato. Io stesso ebbi
così occasione di acquistare alcuni classici francesi ed inglesi che ignoravo.
Questo, cui ho accennato, è un aspetto della società sovietica assai poco conosciuto, che certo
sorprenderà molto. Noi ci saremmo immaginato che questa ardente gioventù, tutta protesa nel suo
formidabile sforzo verso l'avvenire, avesse rinnegato completamente il passato. Ma in realtà il culto
per i classici in Russia è oggi vivo come, ed in un certo senso, anche più che altrove. Nei teatri di
Mosca tutti gli anni si davano centinaia di rappresentazioni di tragedie e commedie di Shakespeare,
di drammi di Schiller, di commedie di Goldoni, di fiabe di Carlo Gozzi. Quanti romani a Roma
hanno assistito ad una rappresentazione di «Re Lear » o della «Dodicesima notte» o dei «
Masnadieri » o della « Locandiera » o della «Principessa Turandot » ? A Mosca praticamente tutti, e
molti, forse, anche più di una volta. E con quanta cura queste opere classiche venivano interpretate!
La messa in scena, la recitazione, erano il risultato di studi e di prove che spesso duravano degli
anni. Gli artisti, avendo col loro salario fisso assicurato il necessario per vivere, potevano dedicarsi
completamente alla loro arte. Onde si raggiungeva tale perfezione che lo straniero, anche se non
avesse capito una sola parola di ciò che gli attori dicevano, era ugualmente avvinto dalla bellezza
dello spettacolo. Ho assistito io stesso, in queste condizioni, ad una rappresentazione del «Re Lear.
», data in lingua yiddish. Un esperto inglese, che vi assistette anche lui, dichiarò che in Inghilterra,
nel teatro shakespeariano, non si era mai raggiunta un'interpretazione così eccellente.
* * *
In Russia si aveva veramente quella che si chiama « uguaglianza di opportunità» per tutti. Non vi
erano privilegi di nascita (*). Ogni bambino aveva la stessa possibilità di accedere ai gradi più alti
dell'istruzione, in qualunque famiglia fosse nato, anche la più povera. Il figliolo del fattorino di
ufficio o di una donna di servizio aveva davanti a sé aperte le medesime strade che il figliolo di uno
scrittore o di un medico, per citare a caso qualcuna delle categorie sociali che, guadagnando più
delle altre, avevano anche la possibilità di disporre di più danaro per l'educazione dei propri figli.
Certo, i ragazzi di queste famiglie più agiate potevano vesti re meglio, e forse anche mangiare
meglio degli altri; ma non avevano maggiori facilitazioni dei ragazzi di famiglie povere
nell'accedere agli istituti di educazione superiore. Il solo vero grande privilegio, che poteva dar
luogo a differenziazioni sociali, era in realtà il talento naturale del bambino. Se questo talento
esisteva, sarebbe stato ben difficile che, col sistema di educazione vigente nell'Unione Sovietica,
rimanesse soffocato e non avesse la possibilità di svilupparsi.
(*) Devo qui ricordare che per alcuni anni in Russia fu vietato ai figli dell'antica borghesia ed
aristocrazia l'accesso alle Università. Ma qu7sta aberrazione ebbe termine, mentre mi trovavo
ancora in Russia. Se ricordo bene, fu la Krúpskaja, la vedova di Lenin, che molto si adoperò per far
abolire questo ingiusto divieto.
Questo mi fa tornare in mente un'osservazione fatta tante volte: quanti intelletti di prim'ordine,
quanti grandi talenti artistici rimangono nascosti o soffocati mancando I oro l'occasione di rivelarsi
e svilupparsi! Centinaia di genii come Platone, Aristotile, Dante, Michelangelo, Shakespeare,
Galilei, Einstein conterebbe oggi in più l'umanità se tutti i bambini nascendo avessero goduto delle
stesse possibilità di istruirsi e di sviluppare i propri talenti naturali. Il problema di dare a qualunque
fanciullo, dovunque sia nato, in un tugurio o in un palazzo, in un remoto villaggio sperduto fra le
montagne o in una grande città, l'opportunità di accedere alle fonti del sapere, indipendentemente
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dalle circostanze materiali della propria nascita, è certamente uno dei più importanti che si
presentino nella ricostruzione del mondo. La messe, per ogni generazione, di nuove scoperte
scientifiche, di nuove invenzioni, di nuove grandi opere d'arte, ne sarebbe enormemente accresciuta.
Si pensi, ad esempio, quale splendido contributo darebbero al progresso della civiltà umana i
settecento milioni di cinesi e indiani, oggi oppressi dalla miseria e dalla ignoranza, quando fosse
data ai loro bambini la possibilità di una conveniente educazione! Fra essi devono certo esistere allo
stato potenziale moltissimi grandi scienziati, artisti e filosofi.
* * *
A giudicare dalla cultura tecnica media dei molti giovani ingegneri posti alla mia dipendenza,
l'insegnamento tecnico universitario in Russia non era, allora, all'altezza delle Università europee.
Mi impressionava, però, il fatto che qualunque giovane, indipendentemente dalle condizioni
finanziarie dei genitori, fosse in grado di accedere alle università. L'insegnamento vi era gratuito;
anzi, era lo Stato a corrispondere allo studente una piccola somma di denaro, chiamata stipendium,
sufficiente a far fronte alle sue spese. In Russia, negli anni che vi sono stato io, ogni operaio che ne
avesse avuta la capacità poteva, dunque, diventare ingegnere. Lo Stato provvedeva a fornirgliene i
mezzi. Anzi, questa facilità era così eccessiva da causare talvolta seri inconvenienti al lavoro. Ad
esempio, nelle officine impiantate per le nostre costruzioni, i migliori nostri operai spesso ci
lasciavano per andare all'università, né era facile rimpiazzarli, perchè in quel tempo i bravi
meccanici scarseggiavano. Questo fatto, insieme all'altro che molti operai si licenziavano per andare
a cercare altrove migliori condizioni di lavoro, costituiva uno degli ostacoli più gravi alla
formazione di maestranze stabili esperte, ed incideva gravemente sul rendimento delle officine.
Giacchè, contrariamente a quello che si credeva in Europa, in Russia gli operai erano perfettamente
liberi di cercarsi lavoro dove meglio loro aggradisse, a meno che fossero stati membri del partito.
Si presentava, dunque, in Russia un problema nuovo: quello di mettere un limite al continuo esodo
di operai da una data officina, pur senza ledere sostanzialmente il diritto che ciascun operaio aveva
di migliorare le proprie condizioni.
* * *
Il sentire così spesso di operai che volevano diventare ingegneri mi faceva riflettere alla possibilità
che giungesse in Russia un momento in cui nessuno più avrebbe voluto far l'operaio.
Fortunatamente, nel mondo moderno, le macchine si vanno sempre più sostituendo all'uomo, specie
nei lavori di carattere puramente materiale, e si potrebbe anche pensare che un bel giorno gli operai
si riducano a pochissimi, e quei pochissimi siano così altamente qualificati da potersi comprendere
nella categoria degli ingegneri. Resterebbero pur sempre, però, da compiere certi lavori che non
richiedono uno sforzo di intelligenza, come avviene, ad esempio, nelle costruzioni in serie, dove
spesso un operaio ripete continuamente, come un automa, lo stesso movimento migliaia di volte.
Resterebbero altresì dei lavori penosi o sudici, come, ad esempio, il raccogliere spazzature o il
pulire luoghi immondi. Con la tendenza che vi è in Russia a elevarsi, potrebbe ben venire il tempo
in cui non si trovi più alcuno che voglia compiere quei lavori. Ed allora come si provvederebbe ?
L'unica soluzione possibile a tale problema sarebbe quella di istituire per tutti i giovani, maschi e
femmine, un servizio obbligatorio del lavoro, paragonabile a quello militare. Questa idea non è
nuova. E' stata già, almeno in parte, attuata durante la guerra, e non v'è alcuna ragione perchè non si
possa estendere anche al tempo di pace.
* * *
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In Russia, praticamente, non esisteva disoccupazione. Si potrà, forse, pensare che ciò fosse effetto
dei piani quinquennali. Certo, questi davan luogo a programmi enormi di lavoro, per i quali faceva
bisogno utilizzare l'opera di tutti, tanto più che il rendimento medio di lavoro di un lavoratore russo
era, in quei tempi, inferiore a quello di un lavoratore occidentale. Ma, a parte i piani quinquennali,
la disoccupazione poteva considerarsi un fenomeno definitivamente scomparso. Con un regime di
economia diretta e pianificata dallo Stato, si potevano sempre regolare produzione ed orari di lavoro
in maniera da evitarla.
Dal momento, dunque, che tutti, lavorando, potevano procacciarsi da vivere, si può in certo modo
ritenere che in Russia una delle quattro libertà della Carta Atlantica, quella dal bisogno, fosse già
realizzata. Con ciò non voglio dire che vi fosse abbondanza. Tutt'altro. Vi era scarsezza di
moltissime cose; e moltissime comodità, che pure erano di uso comune in occidente, mancavano del
tutto. Ma si guadagnava abbastanza da poter soddisfare i bisogni elementari della esistenza, e, quel
che è meglio, anche se si mangiava male e si vestiva peggio, non mancava la possibilità di istruirsi e
di progredire intellettualmente.
Avendo tutti un'occupazione, ed essendo assicurato a tutti il minimo indispensabile per l'esistenza,
non poteva accadere che una famiglia si trovasse nella dura necessità di dover mettere a lavorare un
figliuolo prima del tempo, troncandone così l'educazione. Alle spese di questa, provvedeva, per la
maggior parte, lo Stato.
* * *
Il diritto, anzi il dovere di un lavoratore sovietico di migliorare la propria « qualifica », si trovava
spesso in contrasto con l'interesse del lavoro collettivo. Ricordo un caso tipico capitatomi. Un
giorno si presentò da me un giovane ingegnere, che già da due anni trovavasi adibito alle
lavorazioni aerostatiche e che in quel lavoro aveva acquistato sufficiente esperienza, a domandarmi
di essere trasferito in un reparto di lavorazioni metalliche, per le quali non aveva alcuna
preparazione. Gli feci osservare il danno che ne sarebbe derivato al nostro lavoro, dovendosi
provvedere a sostituirlo nel reparto dove allora lavorava con un altro ingegnere privo di esperienza,
mentre egli stesso nel nuovo reparto, per molto tempo, non avrebbe potuto dare alcun rendimento,
perchè nuovo alla materia. « Appunto per questo mi rispose — desidero cambiare. Voglio imparare
altre cose. Voglio migliorare la mia qualifica».
Le mie obbiezioni non valsero a nulla. Le regole sovietiche gli davano il diritto di ottenere il
cambiamento che aveva richiesto e l'ottenne.
Di casi simili ne occorsero parecchi. In generale una delle difficoltà più gravi che incontrai nel mio
lavoro fu, come ho già accennato avanti, per l'appunto questa: che non potevo fare assegnamento
sulla collaborazione stabile dell'uno o dell'altro ingegnere, di questo o quell'operaio. Da un giorno
all'altro essi potevano abbandonare i nostri uffici od officine per andare a lavorare in un altro posto
che a loro piacesse di più. Questa abitudine costituiva, senza dubbio, l'ostacolo più forte alla
formazione di una tradizione tecnica, pure così necessaria in certi generi di lavoro.
* * *
Le conferenze di tre ore con le conseguenti discussioni, gli operai che volevano diventare ingegneri,
gli ingegneri che volevano migliorare la loro qualifica, il gran numero di librerie, i libri stampati e
venduti a milioni di copie, le interminabili file ai botteghini dei teatri per assistere alla
rappresentazione di commedie e tragedie classiche, le file alle edicole dei giornali, erano tutti aspetti
di un solo fenomeno: l'inesauribile, immensa avidità dei giovani sovietici di apprendere, di sapere.
Quando io ripenso a questi giovani, avidi di libri e di informazioni, ammiratori assai più che non si
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pensi delle grandi opere e dei grandi uomini del passato, mi piace soprattutto ricordarli nell'atto in
cui, nei giorni di vacanza, con i piedi ricoperti da soprascarpe di tela per non insudiciare i
pavimenti, e rispettosi di tutte le regole stabilite per la cura delle opere d'arte, visitavano i musei di
pittura e di scultura, ascoltando attentamente le illustrazioni che intelligenti esperti andavano loro
facendo di quelle opere.
Magazzini
AL primo sentirlo sembrerà strano, ma è un fatto che in Russia, mentre vi ero io, anche nel tempo
della peggiore carestia, non esisteva per le merci alcun mercato clandestino. Ed era naturale, perchè
tutto il commercio si trovava nelle mani dello Stato. Il solo mercato nero possibile era quello della
valuta, e questo, infatti, esisteva.
La moneta sovietica, il rublo, non era esportabile, nè si poteva dall'estero introdurre nel territorio
russo. Anche in questo campo, come in tanti altri, la Russia sovietica ha, dunque, anticipato un
fenomeno che, più tardi, è accaduto altrove, specialmente in Germania ed in Italia.
Ma, nonostante il divieto di esportazione ed il rigore che si usava alle frontiere per farlo osservare,
una certa quantità di rubli riusciva a passare il confine e veniva venduta alla borsa nera di Varsavia
o di Harbin. Qui essi venivano comprati per conto degli addetti alle varie ambasciate, legazioni e
consolati residenti nell'Unione Sovietica, e trasportati a Mosca a mezzo dei corrieri diplomatici. Il
prezzo che così si pagava per il rublo era enormemente inferiore a quello che si sarebbe dovuto
pagare alla Banca di Stato a Mosca. Basti dire che questa, in cambio di un dollaro, dava meno di
due rubli, esattamente 1.94, mentre a Varsavia per un dollaro si ricevevano da quaranta a cinquanta
rubli, ed anche più. Per una lira italiana si avevano due o tre rubli, mentre il cambio ufficiale era di
circa dieci lire per rublo. A Harbin i cambi erano anche più vantaggiosi.
Ma il valore reale di acquisto del rublo in Russia non corrispondeva affatto al cambio della borsa
nera; era superiore, e di molto. Onde avveniva che, per ogni dollaro convertito in rubli nella
proporzione che ho detto, gli stranieri ricevessero nei magazzini di Mosca assai più di quello che
con un dollaro avrebbero potuto comprare in qualunque altro magazzino di Europa o di America.
Questo spiega perchè in quei tempi, i primi anni del mio soggiorno
in Russia, i diplomatici, ed anche i giornalisti, riuscissero a vivere con grande larghezza, spendendo
somme irrisorie non solo per mantenersi, ma anche per fare acquisti di cose pregevoli nei magazzini
di antiquari, che abbondavano in tutte le grandi città sovietiche.
Per farsi un'idea di quanto realmente fosse basso il costo della vita in Russia per uno straniero che
cambiasse la propria valuta al mercato nero (e questo lo facevano in generale tutti gli stranieri che,
al contrario di me, non avevano fonti di guadagno in rubli), farò qualche esempio concreto: un
pranzo al Club Dzerzhinskij dove, qualunque forestiero poteva essere ammesso, costava, al cambio
di due rubli per lira, appena settantacinque centesimi; alla Casa degli Scienziati una lira; in un
ristorante di lusso sette od otto lire. Una poltrona di prima fila al Teatro dell'Opera costava nove
lire; un libro di quattrocento pagine con numerose incisioni, di carta abbastanza buona e rilegato in
tela, cinque lire; un paio di galoches mezza lira; un abito in lana, di discreta qualità, sessanta o
settanta lire; un disco di grammofono da venticinque a cinquanta centesimi. Una corsa in taxi, a
Mosca, veniva a costare una o due lire al massimo. La benzina si pagava da dieci a quindici
centesimi al litro. Il salario mensile di una donna di servizio si aggirava dalle dieci alle venti lire.
Il fatto di poter acquistare il rublo alla borsa nera a prezzo tanto inferiore a quello ufficiale farebbe
pensare che fosse in corso un processo di inflazione della moneta sovietica. Credo che una tale
conclusione sarebbe erronea. Lo Stato Sovietico controllava la propria moneta nel modo più
completo, fissandone l'emissione in relazione alla produzione prevista per i piani quinquennali. Il
valore di acquisto del rublo era regolato dallo Stato, ed esclusivamente dallo Stato, giacchè in
ultima analisi era esso che fissava sia i prezzi delle merci che i salari. Dal 1931 al 1936 vidi i prezzi
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salire, ma in corrispondenza aumentarono anche i salari.
Se il cambio del rublo fatto alla borsa nera era eccessivamente vantaggioso, il contrario si poteva
dire del cambio ufficiale. Con cento lire italiane si ricevevano alla Banca di Stato dieci rubli circa.
A questo cambio una poltrona all'Opera sarebbe costata quasi duecento lire, prezzo molto caro,
perchè all'Opera di Roma, in quel tempo, non se ne spendevano più di cinquanta o sessanta. Per
questa ragione i turisti che, non essendo iniziati ai misteri della borsa nera, cambiavano la loro
valuta al tasso ufficiale, trovavano che Mosca era la città più cara di Europa.
Ma a rendere molto meno costoso il soggiorno in Russia degli stranieri che visitassero il paese, o di
quelli che per il loro ufficio vi dovessero permanere a lungo, senza avere una fonte di guadagno in
rubli, come i diplomatici ed i giornalisti, provvedevano due grandi organizzazioni create dal
Governo Sovietico, l'Inturist e il Torgsin.
L'Inturist, di cui fino a pochi anni fa noi di Roma abbiamo veduto un'agenzia a piazza di Spagna,
serviva, come si sa, a regolare il viaggio ed il soggiorno nell'U.R.S.S. degli stranieri che avevano
chiesto ed ottenuto il permesso di visitare l'Unione Sovietica. La parola derivava da innostrannii
turism, turismo straniero. I turisti pagavano in anticipo, nella propria valuta, presso le agenzie di
quell'organizzazione tutte le spese di viaggio e di soggiorno in Russia. Restavano solo le piccole
spese accessorie del viaggio, alle quali provvedevano, in Russia, cambiando la loro moneta al
cambio ufficiale.
Per gli stranieri residenti in Russia che, non guadagnando con il proprio lavoro rubli, dovevano per
vivere cambiare sul posto la propria moneta, era stata creata un'altra grande organizzazione, il
Torgsin, parola derivata da Torgovlia s'innostranzami, commercio con gli stranieri.
Quest'organizzazione aveva magazzini, alberghi e ristoranti sparsi in tutta l'Unione Sovietica. I suoi
magazzini erano ricchissimi. Vi si trovava di tutto, anche generi importati dall'estero. I prezzi erano
fatti in rubli, ed erano bassi, ma bisognava pagarli in una valuta straniera al cambio fissato
ufficialmente. A conti fatti la roba vi costava parecchio meno che in qualunque altra città europea.
Chiunque poteva accedere ai magazzini del Torgsin. Essi erano frequentati più specialmente da
stranieri, diplomatici, giornalisti e turisti, ma vi potevano liberamente fare le proprie spese anche i
cittadini sovietici che possedessero valuta straniera. Questa, in alcuni casi, perveniva loro da parenti
all'estero; ma, più comunemente, era procurata, in cambio di rubli, da conoscenti stranieri in Russia.
Ma, a parte questa via illegale, ai cittadini sovietici che volessero fare spese nei magazzini del
Torgsin un'altra via, legalissima, era aperta : quella di portare a vendere ai magazzini stessi i loro
oggetti d'oro e di argento. A questo scopo vi era, in quei magazzini, un apposito reparto ai cui
sportelli i cittadini sovietici affluivano con i loro oggetti preziosi. Un impiegato riceveva gli oggetti,
li pesava, li stimava, ed in cambio dava buoni in rubli, validi per acquistare merci in qualsiasi
magazzino del Torgsin, in qualunque città dell'Unione.
La funzione di quest'organizzazione, come del resto anche dell'Inturist, era, dunque, di raccogliere
le valute estere ed i metalli preziosi di cui lo Stato Sovietico aveva bisogno per il commercio estero.
Questo bisogno si fece maggiormente sentire nei primi anni dell'industrializzazione sovietica,
quando occorreva acquistare in Europa e in America grandi quantità di macchinario. Ma con
l'attuazione dei piani quinquennali l'importazione di macchine andò sempre più diminuendo, mentre
d'altra parte andò aumentando la produzione dell'oro sovietico. In conseguenza, l'importanza dei
magazzini del Torgsin, quali centri di raccolta di valute straniere e di oro, andò rapidamente
scemando, tanto che, alla fine, non ve ne fu più bisogno e vennero soppressi. Nel settembre 1936,
quando partii dalla Russia, essi erano scomparsi da un pezzo, ma in quello stesso anno l'Unione
Sovietica era già al secondo posto nella produzione mondiale dell'oro, e si avviava ad occupare il
primo.
Con l'abolizione del Torgsin la richiesta di valute estere alla borsa nera di Mosca diminuì
grandemente, e corrispondentemente crebbe il costo del rublo e con esso il costo della vita per gli
stranieri, specialmente diplomatici e giornalisti. Al posto dei magazzini soppressi, altri, non meno
grandi e sontuosi, ne sorsero, dove i cittadini sovietici poterono comprare, pagando rubli di carta,
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quasi tutte le cose che prima ricercavano nei magazzini del Torgsin. Essi, perciò, non ebbero alcuna
ragione di dolersi della scomparsa di quei magazzini, che danneggiò solo gli stranieri.
* * *
A parte gli speciali magazzini dei quali ho parlato finora, i magazzini in Russia si dividevano in due
grandi categorie: magazzini chiusi, ai quali potevano accedere solo i dipendenti di una data azienda,
e magazzini liberi, aperti indistintamente a tutti. Questi ultimi, come già dissi, andarono sempre più
crescendo di importanza e di numero.
Si intende che tutti i magazzini, di qualunque tipo fossero, erano di gestione collettiva, a forma
statale o parastatale o cooperativa. Magazzini privati in Russia non esistevano, e mancava, perciò,
l'occasione di indignarsi per le speculazioni esose che, altrove, così spesso vi si fanno a danno dei
consumatori, nei tempi di crisi. Tutto il commercio interno era, direttamente od indirettamente,
controllato dallo Stato. L'ultimo magazzino privato che vidi nell'U.R. S.S. fu a Leningrado, nel
1926, ed era un piccolo negozio di gioielleria tenuto da un ebreo, alla ex Perspectiva Newski. Dopo,
non ne ho visti altri.
I magazzini chiusi erano su per giù tanti quante le aziende esistenti: così, ad esempio, vi erano i
magazzini della G.P.U. molto ben forniti, quelli della Flotta Aerea Civile, quelli della
Dirigiablestroi, ecc. Essi venivano gestiti dalle aziende stesse ai cui dipendenti dovevano servire. In
sostanza funzionavano, ad un dipresso, come le nostre cooperative di consumo. I prezzi vi erano
molto più bassi che nei magazzini liberi.
All'inizio, nel 1931, vi erano magazzini speciali chiusi anche per i diplomatici ed i giornalisti; ma
l'anno dopo vennero soppressi. Rimasero aperti ancora per qualche tempo quelli che servivano per
gli specialisti tecnici stranieri, ma anch'essi, qualche anno più tardi, vennero aboliti. Questi
magazzini, insieme con quelli del Torgsin, costituivano per gli stranieri un privilegio, che
giustamente si fece scomparire quando, con il crescere di numero e l'arricchirsi di merci dei
magazzini ordinari, gli stranieri poterono acquistare in questi le cose di cui abbisognavano, sia pure
pagando più di quanto usavano pagare una volta.
* * *
Esistevano in Russia, ed erano assai numerosi, anche i cosiddetti magazzini di commissione. A
Mosca, nel centro, non vi era strada importante dove non se ne incontrassero uno o due. Ve ne
erano di modesti e di ricchissimi. Ad essi la vecchia aristocrazia zarista e la borghesia dei tempi
andati portavano a vendere, quando si trovavano nella penosa condizione di doverlo fare, oggetti
artistici, tappeti, quadri, mobili antichi, antiche stoffe, merletti, porcellane, ecc. Stabilito con i
dirigenti del magazzino il valore approssimativo delle cose da vendere, queste venivano lasciate in
deposito, in attesa di chi le comprasse. A vendita effettuata il magazzino, che era naturalmente
anche esso di emanazione statale, prelevava sul ricavato una parte per sè, generalmente il 3o per
cento, e rimetteva il rimanente della somma al proprietario dell'oggetto venduto.
Questi magazzini, specialmente nei primi anni, erano molto frequentati dagli stranieri, che spesso,
servendosi dei rubli comprati alla borsa nera, vi acquistavano a poco prezzo cose di grande pregio.
L'importanza di questi magazzini andò scemando col generale progredire dell'economia sovietica.
Nei primissimi anni del mio soggiorno in Russia essi rigurgitavano di oggetti di ogni specie, anche
di gran valore. Ma non era più così nel 1935 e nel 1936. I segni della loro diminuita importanza già
allora erano evidenti. Dovettero a ciò contribuire non solo la minor disponibilità di cose da vendere,
ma anche il miglioramento nelle condizioni economiche dei singoli, anche di quelli appartenenti a
famiglie dell'antica aristocrazia o borghesia.
La guerra ultima con i suoi terribili sconvolgimenti economici ha, purtroppo, fra le altre sciagure,
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obbligato, anche qui da noi, in Italia, talune categorie di persone a vendere le cose ritenute non
indispensabili per procurarsi il danaro necessario a far fronte ai bisogni elementari dell'esistenza.
Sono le categorie a proventi fissi, che hanno visto giorno per giorno ridursi sempre più il potere di
acquisto della lira. Ma tra il fenomeno che aveva luogo in Russia ed il fenomeno che si presenta
oggi da noi vi è, tuttavia, una grande differenza. In Russia le vendite nei magazzini di commissione
non rappresentavano un passaggio di ricchezza da una categoria all'altra di cittadini. Tutt'al più di
queste vendite si avvantaggiava lo Stato. Da noi, invece, le categorie di cittadini che dicevo sopra,
certo tra le più degne ed oneste, si vanno impoverendo a beneficio non dello Stato ma di una classe
di speculatori, grossi e piccini, che scandalosamente si vanno arricchendo
in mezzo al generale depauperamento.
* * *
Ma nonostante tutto il grande progresso da me notato, nei magazzini di Mosca mancavano tante
cose, che pur sono di uso comune negli altri paesi del mondo. Faceva soprattutto difetto la qualità; e
non vi era nessuna possibilità di scelta. Bisognava contentarsi di quello che c'era. Certo la libertà
concessa nei paesi capitalistici a singoli individui di creare con un proprio capitale nuove intraprese
industriali ha il vantaggio di spingere automaticamente alla creazione di prodotti industriali che
soddisfano ai bisogni della collettività. Si guardi, ad esempio, al meraviglioso progresso realizzato
con tale sistema nella ricca America. Sotto l'impulso della concorrenza e mossi dal desiderio di forti
guadagni gli industriali americani cercano di andare incontro ai gusti del pubblico per
accaparrarsene la clientela. L'americano che deve comprare un'automobile, un refrigeratore, una
radio, una macchina per lavare, un rasoio, delle lamette per radersi ha la scelta fra diecine di
prodotti similari. Le ditte costruttrici fanno a gara per cercare di accontentarlo in tutte le sue
esigenze, in tutti i suoi desideri. Talvolta sono essi stessi ad eccitarle. Il risultato è una fioritura di
mille comodità, sempre più perfezionate, sempre più a buon mercato, che finora mancano
nell'Unione Sovietica, dove i capi di aziende non devono aguzzare l'intelligenza per trovare qualche
cosa di nuovo e di meglio, o a prezzo più basso, per mantenere o conquistarsi un mercato. Da
questo derivava la esasperante uniformità di vestiario che tutti i visitatori dell' U. R. S. S. potevano
notare nelle strade di Mosca negli anni che precedettero la guerra. Ma rappresenta, forse, questo
risultato negativo un argomento contro il sistema sovietico ?
E' difficile sostenerlo. Non si vede alcun motivo serio perchè non si possa riuscire a stimolare la
immaginativa inventrice degli uomini in qualche altra maniera che non sia quella di prospettargli la
possibilità di grandi guadagni, lasciandolo libero di sfruttare più o meno a suo talento il lavoro
altrui. In Russia al mio tempo esistevano inventori di professione, le cui proposte venivano prese in
considerazione, anche troppo facilmente. Non è dunque la fantasia inventrice che può venir meno.
Si tratta solo di disciplinarla. Il problema è esclusivamente un problema di tecnica. Se in Russia non
si producevano le mille comodità che abbondano nei paesi capitalistici, questo, forse, provava
soltanto che vi erano problemi di maggior importanza da risolvere. Non si poteva pensare a
occuparsi dell'estetica del vestiario, allorquando si doveva pensare a creare l'industria pesante.
Ma, quando anche non si riuscisse ad ottenere da un sistema quale è il sovietico tutti i vantaggi
materiali di un sistema di libere intraprese industriali, resterebbe pur sempre la sua superiorità etica.
Di progresso materiale l'uomo ne ha realizzato fin troppo. Quello che gli occorre è mettersi a pari
col progresso morale. Si pensi a tutta la rete di loschi interessi, di azioni criminose, di inganni, di
frodi, che fioriscono là dove si lascia libero campo alla speculazione individuale. Ne ebbi un
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esempio impressionante nel 194o in America, apprendendo che nei dintorni di Chicago era stato
scoperto uno stabilimento industriale, dove si fabbricavano arnesi per ladri. Il colmo era che quella
ditta si serviva della pubblicità per diffondere i suoi prodotti fra i suoi singolari clienti. La Chicago
Tribune documentò questo fatto pubblicando un'intera pagina di fotografie di cotesti avvisi
pubblicitari, dove si decantava la bontà degli ultimi arnesi ideati per scassinare una cassaforte!
Carestia ed abbondanza
La bellezza di Mosca è che a pochi chilometri dall'abitato già comincia la foresta. Questa mi
attraeva sempre molto. Una sera di estate, che faceva molto caldo, proposi a mia figlia di andare a
dormire all'aperto.Caricammo sull'automobile una tenda, di recente portata da Berlino, alcune
coperte, un velo contro i moscerini che di estate infestano la campagna di Mosca, alcune provviste
per mangiare, e partimmo: io, mia figlia, Amabile e tre cani. Amabile era una giovane tedesca,
piccola, rotonda, dai capelli rosso oro, che da molti anni stava con noi in Italia. Aveva
accompagnato mia figlia a Mosca a passarvi le vacanze estive. I cani erano Titina, quella che era
stata due volte al Polo, e due sue figliuole, Totoska e Ziganka, ambedue moscovite. Totoska,
poverina, morì sei anni dopo in America; Ziganka, battezzata così, perchè nera, da Polia, una delle
mie donne di servizio russe che l'avevano vista nascere, vive tuttora con noi a Roma.
Ce ne andammo lungo la strada che porta a Nisgnii Novgorod, quella stessa che al tempo degli zar
veniva percorsa dagli esiliati che si recavano in Siberia. Era di quelle che più amavo per la grande
distesa di boschi e di foreste che la fiancheggiavano, e che si vedevano nereggiare all'orizzonte,non
appena fuori della città. Nella luce ancor viva del tramonto oltrepassammo un accampamento di
zingari. Alcuni chilometri più avanti, trovato un posto adatto al margine della foresta, ci fermammo.
Piantata la tenda, distendemmo il velo per proteggerci dai moscerini, e con foglie e rami secchi
accendemmo un bel fuoco per riscaldare le vivande. Dopo cena, mentre mia figlia ed Amabile si
trattenevano presso il fuoco a parlottare, io, stanco, mi ritirai a dormire.Avevo appena preso sonno,
quando fui risvegliato da mia figlia: « Papà, alzati; c'è un lupo ». Ero talmente insonnolito che mi
seccava di levarmi. « Tenete vivo il fuoco » risposi. «Il lupo non si avvicinerà». E mi rivoltai
dall'altro lato.Ma quelli che alle due ragazze erano sembrati ululati si ripetettero; anzi alla loro
fantasia eccitata parvero anche più vicini.Mia figlia entrò di nuovo a chiamarmi. Allora mi
rassegnai ad alzarmi, ed uscii fuori.
Nella notte regnava un silenzio profondo; non si sentiva che il crepitio dei rami secchi che
bruciavano. Ma capii che ormai, con il pensiero del lupo, Maria non avrebbe dormito, nè mi
avrebbe lasciato dormire; e perciò accolsi il suo savio suggerimento di tornarcene a casa. Così, alle
due di notte, rientrammo, mogi mogi, nel nostro appartamentino alla Miasnitzkaja.
Quando il giorno dopo raccontai ai giovani ingegneri russi del mio ufficio l'avventura notturna del
lupo, essi risero. « Ma, signor (*), non può essere. Se vi fossero lupi nei dintorni di Mosca, i
cacciatori lo saprebbero. Sarà stata una vacca o, forse anche, il fischio di una locomotiva lontana».
Quando riferii questo a mia figlia, essa protestò vivacemente. Si era proprio trattato di un lupo.
***
Fallito in modo così miserevole il primo esperimento di dormire nella foresta, per qual che
settimana non vi pensammo più. Ma un giorno, vigilia di quello di vacanza ( allora in Russia alla
settimana di cinque giorni che avevo trovato nel 1931, era stata sostituita quella di sei), si unirono a
noi due nostri amici, Elisabetta Simeovna e suo
(*) Cosi erano saliti indirizzarsi a me i Russi; ma vi era perfino taluno (un portiere di
Dolgabrudnaja) che mi chiamava addirittura: « Tavarisch signor » !
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marito Abramo, per una seconda spedizione che fu preparata con ogni cura, perchè intendevamo
passare nella foresta due giornate consecutive. Anche questa volta ci dirigemmo lungo la strada di
Nisgnii Novgorod. Raggiunta la foresta prescelta, ad una ventina di chilometri dall'abitato, v i ci
inoltrammo con la nostra Fiat, senza darci troppo pensiero delle inevitabili ammaccature che
sarebbero capitate ai parafanghi.
Sostammo, per attendarci, in uno spiazzo che si apriva nel folto degli alberi. A breve distanza era
uno stagno di acqua dove l'indomani avremmo potuto lavarci.
Non posso affermare che sull'erba, per quanto soffice fosse, dormissi così comodamente come nel
mio letto a casa; ma, certo, la libertà che si godeva in quella solitudine, a così breve distanza dalla
capitale, era cosa molto piacevole. La mattina ci risvegliammo al cinguettio degli uccelli. Preso il
caffè (in Russia, anche allora, se ne poteva comprare a pochissimo prezzo), ci recammo allo stagno,
in parte ricoperto dalle larghe foglie delle piante che vi crescevano nel fondo.
Dopo il bagno Abramo Jacovic mi propose di andare al villaggio più vicino a comprare del latte.
Acconsentii, e, mentre le donne scomparivano fra gli alberi per raccogliere fragole, io ed Abramo,
in automobile, ci recammo al villaggio.
Ci indicarono un casolare dove avremmo trovato una donna che possedeva una vacca. Abramo vi
entrò a comprare il latte, ma dopo qualche minuto tornò a mani vuote dicendo: « Tolko sa klieb ».
Soltanto se le dessimo in cambio del pane».Ma non avevamo pane da dare e così dovemmo
rinunziare al latte.
* * *
In quel tempo, dunque, nelle campagne attorno a Mosca i contadini erano tornati al sistema del
baratto. La carestia durava ancora, in quell'anno 1933, ed i contadini, od almeno quelli di essi che
non avevano la tessera di razionamento,' non sapevano che farsi di una carta moneta con cui non
riuscivano ad acquistare le cose di cui avevano bisogno. Venivano in città a barattare i loro scarsi
prodotti, e di solito chiedevano in cambio del pane. Le mie domestiche lo sapevano bene. Bastava
che si recassero all'angolo della strada per trovare chi desse loro latte invece del pane che le nostre
tessere ci procuravano in misura abbondante.
Vi eran, dunque, domestiche in Russia ? Ma certo che ve ne erano. Le poche famiglie russe che io
conoscevo avevano quasi tutte al loro servizio una donna che, fosse pure soltanto per alcune ore al
giorno, aiutava nelle faccende di casa. Non differivano da quelle di altri paesi, se non forse per una
certa maggior dignità con cui si presentavano ed agivano. Avevano le loro associazioni, e,
naturalmente, tenevano spesso riunioni per discutere dei loro interessi. Si chiamavano « lavoratrici
domestiche », damascnaie rabotnizi. Si corrispondeva loro un salario variabile da trenta a sessanta
rubli, a seconda del servizio che prestavano.
La mia domestica, in quel tempo, era una giovane greca, un po' zoppicante, occhi e capelli
nerissimi, di carattere molto duro. Sbrigava le faccende di casa alla perfezione. La sua cucina era
eccellente, purchè non intervenissi io a correggerla. I suoi « borsh », una delle zuppe tipiche russe,
erano squisiti, specialmente se vi si aggiungeva una cucchiaiata di crema acida, la smetana; e certo
fa melanconia ricordarsene ai tempi di oggi, qui in Italia. Benchè le lasciassi completa libertà e non
esercitassi alcun controllo, tuttavia Nastia conteneva la spesa giornaliera in limiti modesti : quindici
rubli al giorno le bastavano per far da mangiare a cinque persone.
Una spesa giornaliera di tre rubli a testa era veramente poca cosa in proporzione di ciò che
guadagnava in Russia un tecnico straniero. Ma per farsi un'idea più adeguata di ciò che
comunemente rappresentasse una tale spesa, devo ricordare che in quel tempo il salario di un
comunista, membro del partito, per quanto alta fosse la carica che occupasse, non poteva superare i
30o rubli al mese. Tale appunto era il salario dello stesso Stalin. In quell'anno un buon operaio
guadagnava press'a poco altrettanto; ma un operaio, come del resto qualsiasi altro lavoratore o
lavoratrice, prendeva il suo pasto principale, a mezzogiorno, sul posto del lavoro, alla mensa
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'dell'azienda dove lavorava, e per quel pasto pagava meno di un rublo, sessanta o al massimo
settanta copeki. Questo pasto era semplice, servito molto alla buona, spesso anche con poca
proprietà, ma più che sufficiente. Esso consisteva in una zuppa, un piatto di carne con legumi, e tè o
caffè. Spesso vi si aggiungevano paste dolci, le cosiddette pirósg'noie, oppure frutta. La tenuità
della spesa fa comprendere -come fosse possibile ad un fattorino di ufficio, il cui guadagno mensile
non superava novanta o cento rubli, o ad uno studente universitario che riceveva dallo Stato per il
suo mantenimento uno stipendium di settantacinque rubli, sbarcare il lunario. Si tenga poi presente
che in Russia lavoravano e guadagnavano non solo gli uomini, ma anche le donne. Le donne che si
occupassero esclusivamente di faccende domestiche, all'infuori delle donne di servizio, erano
rarissime: la massima parte avevano un lavoro fuori casa e prendevano anch'esse il loro pasto
principale sul posto del lavoro. Ma di ciò che era la vita domestica in Russia e delle sue analogie
con quella americana, parlerò in seguito.
* * *
Nei primi tempi del mio soggiorno in Russia, fino a tutto il 1933 ed anche nel principio del 1934, i
segni della carestia e della generale povertà erano evidenti. I negozi alimentari erano semivuoti.
Nelle vetrine ben poco si vedeva esposto: tutt'al più vi si potevano ammirare, a guisa di
decorazione, forme di formaggio in legno dipinto di rosso. Davanti ai magazzini sostavano
lunghissime file di persone, che talvolta, come ho visto io stesso per l'acquisto di carne o di petrolio,
cominciavano a formarsi la sera avanti. Nel centro di Mosca i mendicanti erano numerosi; uno
specialmente mi è rimasto impresso nella mente che, seduto a terra sul marciapiedi davanti al Gran
Hótel, esibiva una gamba piagata. Nel cortile di casa mia, molte volte, di sera, sorpresi una donna
che furtivamente veniva dal di fuori a cercare qualche cosa da mangiare nei cassoni dove si
riponevano le immondizie e i rifiuti di cucina. Miserevole era lo spettacolo di un piccolo mercato
libero esistente nelle vicinanze dell'Arbàt, una delle piazze più note di Mosca. Vi si vedevano
contadini offrire piccoli pezzi di carne, qualche mezza bottiglia di latte, un po' di verdura.
La gente vestiva poveramente. Camicie non se ne vedevano, e tanto meno cravatte, reputate, non
ingiustamente, cosa del tutto superflua nell'abbigliamento maschile; ed i tipi di vestiario erano così
poco variati, che lo stesso indumento, del medesimo taglio, della medesima stoffa, si poteva veder
riprodotto in centinaia di esemplari addosso alle persone che si incontravano per strada.
Ma già verso la metà del 1934 la situazione cominciò a cambiare. La carestia si attenuò. I segni di
una generale ripresa economica apparvero chiarissimi. Nel mercato libero, in seguito anche ad un
decreto del governo che consentiva ai contadini di possedere qualche animale e coltivare per
proprio conto un orto, vendendone liberamente i prodotti, ricomparvero all'improvviso, con una
certa abbondanza, generi che da un pezzo erano quasi totalmente scomparsi, come il burro e le
uova. Presto non ci fu più bisogno di barattare. La mia domestica trovò a comprare al mercato
libero il latte (in più di quello spettante con la tessera) che occorreva per i bisogni della casa. Le
vetrine dei negozi si riempirono. Le file cominciarono a diminuire.
Nel 1935, e più ancora nel 1936, la situazione era talmente mutata, che della terribile carestia degli
anni precedenti non rimase più che il ricordo. I segni di una crescente prosperità si moltiplicarono.
Le file davanti ai negozi scomparvero quasi totalmente. Molti nuovi e grandi negozi si aprirono al
pubblico, messi su con eleganza e proprietà e serviti da personale in uniforme di tela bianca,
secondo tutte le regole dell'igiene. Questi magazzini rigurgitavano di generi alimentari di ogni sorta.
Caviale rosso e grigio, siomga, balik,, salmone e tante altre varietà di pesci secchi ed affumicati, di
cui la Russia è ricchissima, si allineavano su nitidi banchi di marmo, protetti dalla polvere e dagli
insetti da lucide vetrine. Carni di ogni sorta; formaggi non più di legno, ma veri, e di molte varietà,
chè a Mosca funzionava un istituto superiore universitario, dove italiani insegnavano a fabbricarlo.
Il grande emporio che sorgeva al centro di Mosca era pieno di ogni genere di roba: stoffe, abiti,
biancheria, oggetti casalinghi. La folla vi si pigiava per comprare. Dai tipi di vestiario era
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scomparsa, od almeno si era molto attenuata, quella terribile uniformità che mi aveva colpito
durante i primi anni del mio soggiorno in Russia. Le donne, che nei tempi cattivi avevano fatto
miracoli di eleganza con le poche cose di cui disponevano, erano adesso molto meglio vestite. Nei
ritrovi, a teatro, nelle conferenze, ai concerti, nei caffè, gli uomini, rasati di fresco, apparivano
vestiti con accuratezza, talvolta anche con distinzione. Le camicie erano riapparse, e con esse
perfino le cravatte, cosa che, a dir la verità, fu per me motivo di disappunto piuttosto che di
compiacenza, perchè, in fondo, mi faceva comodo farne a meno.
La trasformazione che, sotto i miei occhi, ebbe luogo in quei tre anni nell'aspetto esteriore di Mosca
fu veramente sorprendente. Nuovi eleganti caffè e ristoranti vennero aperti, taluni di tipo
modernissimo; e ancora nuovi magazzini, sempre più ricchi. Vi furono perfino tentativi, direi, di
superamericanizzazione. Così, ad esempio, quando fu aperto nei pressi della Lubianca un grande
negozio di generi alimentari, dove si poteva ordinare per telefono qualunque cosa si volesse,
indicando l'ora più comoda per il recapito a casa delle cose ordinate. Nè importava informarsi se
quel dato prodotto ci fosse o pur no, perchè, anche se non vi fosse stato in magazzino, sarebbe stato
procurato altrove, a cura del negozio stesso cui veniva dato l'ordine.
I salari
LA propaganda avversaria era solita dipingere l'Unione Sovietica come il paese dell'esasperante
uniformità. Salari tutti uguali, uguali condizioni di vita, nessun incentivo che spingesse il singolo
individuo a far meglio, a progredire, ad elevarsi. Ed in realtà, da principio, così era stato: vi era poca
o nessuna differenza fra la paga di un operaio abile e quella di un principiante, ed in conseguenza
mancava qualsiasi stimolo che muovesse quest'ultimo a migliorare la propria qualifica. Gli uomini
sono ancora troppo ineducati, perchè possano esser spinti ad operare soltanto dal sentimento di un
dovere da compiere. I Bolscevichi, che in un primo tempo avevano creduto il contrario, ammisero
francamente il loro errore, ed ebbero il coraggio di cambiar metodo. Infatti, quando nel 1931 arrivai
a Mosca, trovai che la differenziazione dei salari era già in atto. Stalin, nel suo discorso del 23
giugno di quell'anno, aveva dato la nuova parola d'ordine: fissare il salario a seconda dell'abilità del
lavoratore e del rendimento del suo lavoro. Lo Stato sovietico esigeva dagli operai « duro lavoro,
disciplina e mutua emulazione ».
Questo storico discorso segna una svolta importante nello sviluppo della rivoluzione sovietica. Esso
iniziò una nuova fase del grandioso esperimento. L'applicazione del nuovo principio fu, senza
dubbio, il fattore più importante del successo dei piani quinquennali. L'iniziativa e l'attività della
massa vennero stimolate dalla prospettiva di un maggior guadagno, ma questo, provenendo
esclusivamente dal proprio lavoro, non era affatto in contrasto col principio fondamentale della vita
sovietica, che vieta di arricchirsi a spese del lavoro altrui.
* * *
La gigantesca lotta intrapresa per la creazione dell'industria sovietica era concepita, starei per dire,
in termini quasi militari. Si sentiva dovunque parlare non solo di piani da eseguire, ma anche di
udarnik, gli operai di urto o di assalto, ai quali nelle officine e negli uffici era affidato il compito di
incitare gli altri con l'esempio ad affrettarne l'esecuzione. In compenso questi lavoratori erano
meglio trattati: ricevevano paghe più alte, e di estate, nel periodo di vacanze, ottenevano a titolo di
premio il permesso di recarsi a soggiornare un mese o più in una delle case di riposo del Caucaso o
della Crimea.
Nel 1932 il salario medio mensile di un operaio si aggirava fra i cento e i duecento rubli, somma
che, in relazione ai prezzi di allora, era largamente sufficiente ad assicurare il mantenimento di una
singola persona. Si rammenti che un pasto sostanzioso, preso alla mensa collettiva dell'azienda dove
si lavorava, costava poco più di mezzo rublo e che, per l'alloggio, un operaio pagava pochissimi
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rubli al mese. Sicchè, fra alloggio e vitto, se ne andava per ogni persona una piccola parte del
salario medio mensile.
Più caro era il vestiario, soprattutto le scarpe, la cui produzione in quegli anni era insufficiente. Un
paio di scarpe, nei magazzini chiusi, costava da cinquanta a sessanta rubli. Nei magazzini liberi si
giungeva a duecento o trecento.
* * *
Dal 1931 al 1936 la produzione, sia dell'industria che dell'agricoltura, crebbe assai rapidamente, ed i
salari aumentarono anche essi, fino a raddoppiarsi; ma i costi del vitto e dell'alloggio non salirono
nella stessa proporzione: essi crebbero in misura molto minore. Sicchè si ebbe un effettivo, grande
miglioramento nel tenore di vita di tutti i lavoratori.
Durante quegli anni la differenziazione dei salari si andò accentuando in modo tale che, già
nell'anno 1934, a fianco dell'operaio che guadagnava centocinquanta rubli al mese si trovava quello
che guadagnava due o tre volte tanto. Ma lo scarto fra il minimo ed il massimo salario crebbe
enormemente dopo che Stakanov, un operaio minatore, ebbe mostrato che si poteva eseguire il
lavoro in modo da accrescere di molto la produzione. Stalin colse al balzo l'occasione offertagli da
questo operaio per promuovere quel gran movimento che prese nome di stacanovismo. Esso
consistette, in sostanza, nell'incitare gli operai a produrre sempre più e sempre meglio, lasciando
che in cambio realizzassero guadagni molto elevati. I lavoratori che seguirono il movimento si
chiamarono stacanovisti. Vi erano stacanovisti che guadagnavano mensilmente fino a duemila o
tremila rubli, cioè otto o dieci volte di più del salario medio di un operaio comune.
Per gli ingegneri ebbe luogo la medesima differenziazione. Nel 1932 i giovani ingegneri russi che
lavoravano alla mia dipendenza avevano salari variabili dai duecento ai trecento rubli mensili;
quattro anni dopo i loro salari partivano da un minimo di duecento cinquanta rubli per giungere a
quattro o cinquecento, e nei posti direttivi anche settecento o ottocento.
Si vede bene dalle cifre che ho dato che in Russia vi era tutt'altro che quella uniformità di salari di
cui blateravano gli avversari dell'Unione Sovietica !
Un minimo per vivere era assicurato a tutti, un minimo tanto più facile ad ottenersi in quanto, com'è
risaputo, in Russia non vi era disoccupazione. Proprio negli anni in cui la disoccupazione più
infieriva in America ed in Europa, nell'Unione Sovietica non vi era neppure un disoccupato. Ma, a
parte il minimo necessario per vivere, la formula che si applicava in Russia non era: « a ciascuno
secondo il suo bisogno », ma piuttosto: « a ciascuno secondo il suo merito ». Fare altrimenti
avrebbe significato incoraggiare la infingardaggine proprio nel momento in cui si richiedeva da tutti
i cittadini il massimo sforzo per la costruzione della nuova società.
La stessa cosa avveniva per le varie categorie di lavoratori intellettuali, ad esempio per i medici.
Questi avevano tutti un impiego stabile presso un ospedale o un istituto medico statale, od una casa
di cura cooperativa che assicurava loro un salario sufficiente per vivere. Ma in più potevano
esercitare la professione privatamente, ed è qui dove avevano libero gioco l'abilità ed il valore
individuali. Vi erano a Mosca medici modesti che guadagnavano tre o quattrocento rubli al mese;
ma vi erano di quelli che ne guadagnavano parecchie migliaia. Né più nè meno di quello che
avviene altrove.
Interessante mi sembrava il modo come venivano rimunerati gli artisti di teatro. Un attore o un
tenore, anche di gran fama, un direttore di orchestra, anche se celebre, una grande ballerina,
ricevevano dal teatro dove erano stabilmente impiegati un salario che variava, naturalmente, a
seconda della bravura dell'artista, ma che tuttavia era sempre relativamente modesto, e, certo, niente
affatto paragonabile con le paghe, spesso assai esagerate, che altrove si corrispondono ad artisti
famosi. Questo permetteva di tenere relativamente bassi prezzi dei biglietti per i teatri, nonostante la
perfezione con la quale gli spettacoli venivano dati. Ma l'artista poteva disporre a suo talento del
tempo che gli rimaneva libero per dare concerti o rappresentazioni presso istituzioni private, con le
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quali poteva liberamente contrattare la somma da pagargli; cosicchè, con questa attività secondaria,
i migliori di essi riuscivano a guadagnare due o tremila rubli al mese.
Una categoria privilegiata mi parve fosse quella degli scrittori e dei giornalisti. Essi guadagnavano
molto. Di un giornalista, mio conoscente, sentii dire che giungesse a guadagnare fino a quattromila
rubli al mese !
Questi grossi guadagni, tanto al disopra della media, eran permessi a tutti, tranne, però, che ai
membri del partito comunista. Per questi, come ho già detto, il massimo salario consentito era, nel
1932, di trecento rubli al mese, comunque importante fosse la carica da essi tenuta. Negli anni
successivi questo minimo, almeno per quanto riguarda gli ingegneri (di cui so più particolarmente
per conoscenza diretta), fu elevato, e presso a poco, io credo, in proporzione dell'aumentato costo
della vita; ma tuttavia i salari massimi dei comunisti furono mantenuti sempre ad un livello assai
basso in confronto di quelli di un operaio stacanovista o di un intellettuale delle categorie citate
sopra. Non era ammissibile che un membro del partito fosse spinto a compiere il proprio dovere dal
desiderio di guadagnare. Una tal cosa sarebbe stata assurda per un partito, che voleva essere, ed era
effettivamente, una élite di costruttori della nuova società, entusiasti e disinteressati. Si ricordi che i
membri del partito comunista costituivano in Russia, in quel tempo, una esigua minoranza, di
appena l'un per cento, della popolazione. Ad essi non era in alcun modo concesso accumulare
denaro, come poteva fare con i propri risparmi qualsiasi bravo operaio o contadino, o qualsiasi
medico primario o scrittore. Questo però non vuol dire che non fosse loro assicurato il modo di
vivere decentemente. Tutt'altro. I miei amici solevano raccontarmi delle cure che si avevano per i
comunisti che tenevano posti di grande responsabilità, perchè potessero attendere tranquillamente al
loro lavoro, liberi da ogni preoccupazione di carattere materiale. Ma in cambio di questa libertà dal
bisogno concessa ai membri del partito, quali sacrifici e quale abnegazione si richiedessero a
ciascun di essi ho già accennato in un'altro capitolo.
In sostanza il partito costituiva una vera e propria milizia. Di essa si aveva la stessa cura materiale
che lo Stato Sovietico prendeva dei soldati dell'esercito rosso, che erano anche essi ben vestiti e ben
nutriti, pur nel tempo della più dura carestia. Ma, precisamente come ai soldati, si richiedeva ai
comunisti disciplina e spirito di sacrificio.
* * *
Tali erano le condizioni economiche in Russia nel tempo che vi fui io.
Certo il periodo che va dal 1932 al 1936 rappresenta nella storia della costruzione socialista russa
un periodo di rapida ascesa in tutti i campi. Mentre negli altri paesi la crisi economica non poteva
ancora dirsi del tutto superata, l'economia sovietica era in pieno sviluppo. Alla fine del 1936 la
produzione industriale rispetto a quella del 1933 era raddoppiata; quella agricola era anch'essa in
piena ascesa. Parallelamente alla produzione anche il tenore di vita delle masse sovietiche era
andato rapidamente innalzandosi.
La stessa città di Mosca, come ho già notato altra volta, subì esteriormente un grande mutamento.
Le strade vennero quasi tutte asfaltate; nuovi grandi edifici furono costruiti, sorsero nuovi quartieri
di abitazione. Divenute all'enorme traffico cittadino insufficienti le linee tranviarie, comparvero i
trolley-bus e fu costruita la metropolitana.
La costruzione di questa ferrovia sotterranea, iniziatasi verso la fine del 1932, ebbe luogo con una
rapidità che solo in America avrebbe potuto esser sorpassata. La sua costruzione mi causò, invero, il
dispiacere di veder demolita la piccola bella chiesa che sorgeva proprio davanti a casa mia, ma
quando vidi ultimate ed aperte all'esercizio le prime linee della metropolitana, dimenticai il mio
disappunto. Vi si accedeva da eleganti stazioni, ciascuna di un tipo architettonico diverso, di uno
stile moderno non privo di decoro artistico. Vi si discendeva su scale mobili che rotolavano
silenziosamente senza interruzione. Le gallerie spaziose, ricche di marmi, sfolgoravano di luce. Qua
e là, si vedevano eleganti chioschi di vendita. Ed una folla alacre, composta, decentemente vestita,
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che entrava ed usciva dai modernissimi treni che velocemente giungevano e ripartivano a brevi
intervalli di tempo.
La proprietà
MA esiste la proprietà in Russia ? Ecco una domanda fattami centinaia di volte. Esiste: con grandi
limitazioni, ma esiste.
Il padre di Elisabetta Simeovna possedeva una casa di campagna, una dacia, ed erano tanti quelli
che ne possedevano. Si poteva possedere l'appartamento che si abitava cd ogni sorta di beni mobili,
da un'opera (l'arte ad un'automobile. Si potevano avere depositi di denaro presso la Banca di Stato o
le Casse di risparmio postali. Si potevano possedere titoli di stato, come quelli dei prestiti fatti per
l'esecuzione dei piani quinquennali. E tutte queste cose si potevano, morendo, trasmettere ai propri
figli.Non si poteva possedere la terra, perchè questa era dichiarata proprietà nazionale. Nessuno
poteva accamparvi diritto di proprietà, e ciò sembrava tanto naturale, come è naturale che nessuno
accampi diritti sull'atmosfera di cui abbiamo bisogno per respirare: la terra dà da vivere a tutti gli
umani. Ciò non impediva però che appezzamenti di terreno venissero dati in uso personale ai
contadini delle Kolkose (Kollectivnoie Kasiajstvo).
I depositi presso le banche e gli uffici postali fruttavano interessi, che al mio arrivo nell'U.R.S.S.
erano molto alti: si riceveva il sette per cento, e sui prestiti dei piani quinquennali si era arrivati
perfino al dieci. Dai depositi si potevano liberamente prelevare somme servendosi del sistema degli
assegni.
Il principio fondamentale della vita sovietica è che ognuno lavorando deve dare secondo la propria
capacità e ricevere secondo il proprio lavoro. L'applicazione di tale principio portava ad una grande
differenziazione dei salari, per cui, come ho detto avanti, vi era chi guadagnava novanta rubli
mensili, come il fattorino del mio ufficio, e chi invece ne guadagnava due o tre mila come un
operaio stacanovista.
All'atto pratico, però, le grandi differenze di guadagno venivano attenuate col far variare i prezzi
delle cose di prima necessità a seconda delle categorie stesse. Per l'abitazione, ad esempio, una
camera a Mosca, se assegnata ad un operaio o un ingegnere della Dirigiablestroi, costava sei rubli al
mese; assegnata invece ad un giornalista, ne costava trenta o quaranta. In sostanza, per ciò che
concerneva le cose indispensabili alla vita, esisteva una scala di prezzi variabile con quella dei
salari. Ma tuttavia, a certe categorie come, ad esempio, scrittori, artisti, giornalisti, ecc., rimaneva
pur sempre, sui grandi guadagni che facevano, un largo margine, con cui potevano migliorare il
proprio tenore di vita, oppure risparmiare nel modo che ho detto.
* * *
La regola era: « Chi non lavora non mangia ». Ciò nonostante si potevano avere, e si ebbero
specialmente nei primi tempi, curiose eccezioni.
Un caso di questo genere occorse a Leningrado dove la polizia, una volta, appurò che un certo
cittadino, pur non avendo alcuna occupazione redditizia, viveva con lusso nel suo appartamento. Un
ispettore, mandato al domicilio di quel tale a chiedere spiegazioni, si vide, con suo grande stupore,
aprire la porta da un servo in livrea, che lo introdusse dal padrone di casa. Questi lo ricevette con
grande dignità. Informato di che cosa si volesse da lui, forni le spiegazioni richieste: « Sono un
buon cittadino », disse, « rispettoso delle leggi dello Stato. Quando fu emanato l'ordine di
consegnare tutto l'oro che si possedeva, vi adempii scrupolosamente, ed investii i rubli, che ricevetti
in cambio del mio oro, in prestito del piano quinquennale. La rendita di quel prestito mi fornisce i
mezzi per vivere».
Non vi era nulla da replicare. L'uomo era perfettamente a posto con le leggi sovietiche. Nessuno
poteva disturbarlo, e nessuno lo disturbò.
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* * *
Del denaro guadagnato si faceva in Russia l'uso che se ne fa dovunque nel mondo. Una sola
restrizione importante: non si poteva con esso comprare della terra nè impiegarlo in imprese in cui
si sfruttasse a proprio beneficio il lavoro altrui. Così pure non era lecito servirsene per costruire un
fabbricato per abitazioni con l'idea di fittarne gli appartamenti a scopa di speculazione. Nè si
sarebbe potuto adoperarlo a mettere su un'officina dove sarebbero stati assoldati degli operai.
Queste cose erano rigorosamente vietate; ma non era vietato, ad esempio, che un gruppo di medici
ed infermieri mettessero insieme le proprie risorse per fondare una casa di cura.
* * *
Uno scrittore francese di economia, Joseph Dubois, in un libro comparso nel principio del 1932 col
titolo: Une nouvelle Humanité, scriveva a proposito della proprietà in Russia delle cose interessanti,
di cui mi piace riportare qualche brano.
Devo premettere che il Dubois si professa avversario dichiarato del regime sovietico. Infatti in un
punto del libro dichiara: « Personalmente ho per il regime sovietico una profonda avversione a
causa dell'assassinio che ha commesso della libertà individuale ». E più avanti, in un altro punto del
libro: « Vi è tanta differenza fra il nostro regime e quello sovietico, quanta ve ne è tra una
passeggiata sotto un bel sole lungo la Senna e una corsa fatta nel Metro durante le ore di maggior
traffico ».
Eppure la medesima persona che ha scritto tali cose, non certo complimentose per il regime
sovietico, quando parla della proprietà in Russia, si esprime così:
« Sembrerebbe che alla rivoluzione sovietica si possa applicare una definizione celebre, di cui
autore è quel Polibio che, sicuramente, è il più interessante dei quattro storici greci: In tutte le
rivoluzioni la sola cosa che conta è quella di spostare la proprietà: di qui la necessità di
ricominciarle spesso.
« Orbene la rivoluzione sovietica non appena entrata nella frase di Polibio si è affrettata ad uscirne;
essa non ha perseguito, in effetti, una ridistribuzione della proprietà, ma più semplicemente si è
preoccupata di dimostrarne l'inutilità. Una rivoluzione, la quale ha liquidata la proprietà senza
ridistribuirla, ha acquistato per questo stesso fatto un carattere talmente definitivo, che non ha
bisogno più di essere ricominciata ».
Quando si ridistribuisce la proprietà, osserva il Dubois, si crea un nuovo diritto, che in qualche
modo ravviva l'antico. Ma il regime sovietico non ha spostata la proprietà, perchè nessuno si è
impossessato dei beni degli antichi proprietari. Di guisa che, se per caso quel regime un giorno
crollasse, gli antichi possessori non troverebbero installato sulle loro terre di una volta un altro
proprietario, cui potessero rivolgersi per rivendicare l'antica proprietà.
« La virtù sovietica ha potuto realizzare », dice il Dubois, « un caso completo e definitivo di
spodestamento ».
Si aggiunga che sotto il regime sovietico il rendimento delle terre è di gran lunga cresciuto rispetto
a quello che era al tempo degli zar. Con qual diritto potrebbe allora un emigrato russo reclamare la
proprietà di una terra, che non solo non appartiene più a nessuno, ma che per giunta frutta oggi alla
collettività dieci volte più di quanto era capace di farla fruttare lui quando la possedeva ?
« Il regime sovietico », conclude lo scrittore, «è realmente fondato su una virtù ostinata e feroce, di
cui guardiano è il partito comunista. Può darsi che questa constatazione obiettiva non piaccia a
molti; ma bisogna pur farla, perchè non solo è l'espressione della verità, ma il fondamento della
conoscenza, nel senso cartesiano della parola, per tutto ciò che concerne l'U.R.S.S. ».
* * *
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Tolta la terra agli antichi proprietari, essa venne affidata alle Kolkhoz, che sono aziende
direttamente gestite dallo Stato. Nel 1933 oltre i 3/4 dell'area totale seminativa dell'U.R.S.S. era
nelle loro mani; oggi dai 3/4 si è passato al 93%, il che vuol dire che la quasi totalità della terra
coltivabile è affidata alle aziende collettive o statali. Le aree a cultura seminativa tecnica, quelle
cioè che servono alla produzione di cotone, lino, semi oleosi e barbabietola, sono, poi, tutte ad
economia socialista. Il progresso realizzato è dimostrato da poche cifre. Nel 1936, quando lasciai la
U.R.S.S., l'area totale seminativa era cresciuta del 3o% circa rispetto a quella dei tempi zaristici
(1913) ed anche la produzione globale era cresciuta, sebbene in misura minore. Ancora più forte,
poi, fu il progresso delle terre a colture tecniche, la cui produzione nel 1938 raggiunse il triplo circa
di quella del 1913.
Le aziende agricole socialiste sono attrezzate modernamente con trattori, macchine trebbiatrici ed
autocarri. Rapido fu il progresso di questa meccanizzazione negli anni del mio soggiorno. I trattori,
che nel 1933 erano quattrocentoventiseimila, si trovavano raddoppiati nel 1936; le trebbiatrici da
venticinquemila passarono ad ottantottomila. L'ascesa continuò negli anni successivi, tanto che nel
1938 i trattori eran triplicati di numero e le trebbiatrici sestuplicate.
A conti fatti non si può mettere in dubbio che il grandioso esperimento sovietico di agricoltura
socializzata sia riuscito, e che esso rappresenti un gran passo verso la modernizzazione del mondo.
Specialmente interessanti sono a questo riguardo le aziende agricole statali, le sovkhoz. Esse
costituiscono delle grandi organizzazioni, progettate scientificamente e dirette con criteri moderni. I
suoi lavoratori sono disciplinati e ben preparati. Un modello se ne ebbe nel « Gigante» del Caucaso,
la più grande azienda granaria del mondo, coprente un'area di oltre cinquemila chilometri quadrati.
Oggi si può dire che tecnicamente l'agricoltura sovietica, sebbene non dia ancora il rendimento che
si dovrebbe aspettarne, rappresenta una delle più progredite del mondo, essendo la più
industrializzata e la più meccanizzata.
Questa ricostruzione dell'agricoltura russa, la sua trasformazione da un'economia quasi medievale
ad una modernissima, non poteva aver luogo senza incontrare ostacoli formidabili, di cui la tenacia
di Stalin ebbe ragione. Vi furono anche periodi di violenza, quando si trattò di vincere la resistenza
opposta dai contadini ricchi, i kulakì. Furono anche commessi errori, soprattutto per l'impazienza e
l'eccesso di zelo dei giovani comunisti incaricati di dirigere la trasformazione. Così, ad esempio,
quando fu dato l'ordine ai kulaki di consegnare il bestiame, che essi preferirono, invece, di uccidere.
Fu questo il periodo di tempo in cui, tra l'altro, i mercati russi si trovarono inondati da una quantità
di pollame a poco prezzo. Ma, riparati gli errori e vinta definitivamente la resistenza dei kulakì, la
nuova economia agricola finì con lo stabilirsi su solide basi.
La famiglia
QUANDO giunsi a Mosca nel 1931, tutto accennava ad una completa disgregazione dell'istituto
familiare. L'esortazione stessa a preferire la mensa comune a quella di famiglia, che appariva scritta
sulle pareti del ristorante della stazione ferroviaria di Niegoroloje, sembrava dare allo straniero, che
entrava nell'U.R.S.S., l'annuncio della scarsa considerazione in cui allora era tenuta in Russia la vita
familiare.
Infatti l'abitudine di prendere il pasto principale della giornata fuori casa era generale. Tutte le
officine, tutti gli uffici erano provvisti di stalovaje, dove a prezzo assai basso si poteva avere il
pranzo. La donna, uscendo la mattina di casa per recarsi al lavoro, non aveva affatto da pensare alla
spesa e alla preparazione del desinare. Tutta la sua fatica culinaria si riduceva a preparare, la sera, il
tè a guisa di cena. All'infuori di questo non doveva provvedere ad altro, perchè, al pari di lei, marito
e figliuoli avrebbero mangiato fuori casa.
Quando si pensa che le nostre donne in Italia occupano molte ore per far la spesa, preparar da
mangiare e rassettare la cucina, si vede subito quale enorme risparmio di tempo e di fatica
rappresentassero per le donne sovietiche le cucine collettive. Ma bisogna aggiungere che in Russia
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il lavoro domestico veniva di molto complicato dalla scarsezza di alloggi. In una città
sovrappopolata come Mosca convivevano quasi sempre in un medesimo appartamento più famiglie
con un'unica cucina in comune, e si comprende, perciò, come la donna fosse ben contenta di non
dover allestire il pranzo per i suoi familiari.
La politica sovietica di quel tempo aveva come mira di liberare la donna dalle sue occupazioni
domestiche per darle la possibilità di partecipare con tutte le sue forze alla grande opera di
industrializzazione intrapresa da Stalin. Per questa ragione nelle nuove città industriali non erano
previste cucine individuali, ma collettive. A Dnieprostroi, ad esempio, ve ne era in media una per
ogni trecento persone. La donna, liberata così da questo pesante dovere domestico, poteva dedicare
tutto il suo tempo all'officina e all'ufficio.
Da questo punto di vista l'analogia di quello che avviene in Russia con ciò che succede in America
è grande. Anche in America il desinare del mezzogiorno, il lunch, viene generalmente consumato
sul posto del lavoro. Anche in America la
donna, liberata da buona parte degli usuali lavori domestici (che del resto le vengono resi molto
facili dall'uso dell'elettricità, del telefono e dell'automobile) ha assai più tempo da dedicare alle sue
occupazioni fuori casa.
Ma negli Stati Uniti sono ancora molte le donne che hanno come occupazione principale quella di
badare alla casa ed accudire alla famiglia. Non così in Russia, dove l'uguaglianza dei sessi è
assoluta, e dove non vi sono compiti affidati ad uomini che non possano anche, e spesso con
migliori risultati, venir affidati a donne.
Le donne partecipano alla vita economica, sociale, culturale, politica del paese nella stessa misura
degli uomini. Anzi, vi sono campi dove esse portano un'intelligenza, uno spirito d'iniziativa,
un'energia superiori all'uomo, per cui finiscono con l'esercitarvi un'influenza preponderante. Sono
molte le aziende o imprese, alle quali sono preposte delle donne, che spesso riescono là dove gli
uomini han fallito. Nella Dirigiablestroi più di un reparto era diretto da donne, le quali del resto, in
quella azienda, venivano impiegate perfino in compiti altrove riservati esclusivamente agli uomini,
come, ad esempio, quello di motorista a bordo di dirigibili.
In sostanza era ben raro in Russia trovare una donna che non avesse un lavoro fuori casa e non
potesse, col frutto di quel lavoro, bastare a se stessa. L'indipendenza economica dall'uomo le era
assicurata nel modo più completo.
In tali condizioni di cose è naturale che i vincoli familiari si fossero assai rallentati.
La stessa cosa avviene anche in America, benchè in misura minore che in Russia dove la libertà
reciproca dell'uomo e della donna, che convivono insieme come marito e moglie, è assai più grande,
e dove anche i figliuoli costituiscono un vincolo piuttosto tenue, visto che la maggior parte delle
responsabilità della loro educazione ricade sullo Stato.Uguaglianza assoluta di diritti per l'uomo e la
donna, partecipazione di questa a tutte le attività della vita sociale, riduzione al minimo della vita
familiare in comune, eran tutte cause queste che minavano le basi dell'istituto familiare. Ma oltre
queste, ve ne erano altre più gravi.Anzitutto l'estrema facilità di stabilire e sciogliere un vincolo
matrimoniale. Nessuna cerimonia, nessuna formalità solenne. Una semplice registrazione della
dichiarazione fatta dai due sposi o anche da uno solo di essi. Ma molte volte non aveva luogo
nemmeno tale dichiarazione. Esisteva cioè anche il matrimonio di fatto; bastava che due
convivessero insieme come marito e moglie perchè l'unione fosse legalmente riconosciuta.Il solo
vero vantaggio che il matrimonio registrato presentava su quello non registrato, era che, nel caso di
contestazione a chi spettasse di provvedere agli alimenti di un bambino, il giudice, se il matrimonio
era stato registrato, presumeva senz'altro che il padre del bambino fosse il marito denunziato.
Facilissimo era il divorzio. Se l'unione era registrata bastava la denunzia di uno dei due, fatta anche
a mezzo di una semplice cartolina postale. Se l'unione non era stata registrata, bastava rompere la
convivenza.
Anche in questa estrema facilità di contrarre e sciogliere un vincolo matrimoniale la Russia mi
richiamava in mente l'America. Ma in America, almeno, è obbligatorio andare davanti ad un giudice
che esamina i motivi addotti per il divorzio (*). E vero, però, che spesso questi motivi sono ridicoli,
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e ciò nonostante il divorzio viene accordato lo stesso. Da tal punto di vista è difficile di dire quale
sia, in ultima analisi, il peggiore dei due sistemi.
* * *
Secondo le idee che in quei primi tempi prevalevano in Russia, il bambino essenzialmente
apparteneva alla madre. Il padre
(*) Vedi nota successiva
sembrava non avesse altro dovere che dare il danaro necessario per allevarlo.
La ricerca della paternità era permessa. Spesso, nei casi dubbi, avveniva che i tribunali ripartissero
la somma che si doveva corrispondere per il mantenimento del bambino fra diverse persone. Mi fu
raccontato che una volta l'uomo, che la donna aveva citato quale padre del bambino, non volle
ammettere di esserlo, adducendo il motivo che nello stesso tempo la donna aveva avuto rapporti
anche con altri due uomini. Il giudice interrogò questi, ed avuta la conferma di quanto aveva
asserito il primo, nell'impossibilità di stabilire chi fosse il padre, li condannò tutte e tre a pagare gli
alimenti al bambino, la qual cosa equivaleva ad ammettere che fossero egualmente responsabili
della sua nascita. Una triplice paternità, dunque, la quale però, all'infuori del dover pagare
mensilmente trenta o quaranta rubli che sarebbero stati trattenuti sul salario, non importava, da parte
dei tre uomini, altri obblighi verso la donna e il suo bambino.
* * *
Mosca al mio tempo era sovrappopolata, e probabilmente lo è ancora adesso. Per quanto si
costruissero nuove case, non si riusciva mai a provvederne abbastanza per la popolazione che
andava rapidamente aumentando. Credo che in media non vi fossero disponibili più di tre metri
quadrati di spazio per ogni abitante. Questa ristrettezza costituiva un altro ostacolo allo sviluppo
della vita familiare.
Essa dava luogo a casi curiosi come quello capitato a due coniugi conoscenti di Elisabetta
Simeovna, che abitavano a Mosca. Un giorno essi ricevettero la visita di due amici, marito e moglie,
provenienti dalla Crimea. Il senso dell'ospitalità, come tutti sanno, è vivissimo in Russia. Non vi è
nemmeno bisogno di preavvertire l'amico del vostro arrivo. Vi presentate a casa sua, ed in un modo
o nell'altro egli vi darà alloggio e da mangiare. Nulla di straordinario, dunque, che gli amici di
Elisabetta cedessero ai due ospiti metà della camera dove alloggiavano.
Ma la visita si prolungò. I due venuti dalla Crimea finirono col trovare lavoro a Mosca e con lo
stabilirvisi. La ospitalità da temporanea divenne duratura, e le due coppie, occupando ciascuna metà
della camera, continuarono a vivere insieme indefinitamente.
Col passare del tempo un giorno si scoprì che il marito dell'una coppia si era innamorato della
moglie dell'altra. Che fare ? Da noi sarebbe nato un dramma sanguinoso, ma in Russia certe
situazioni si risolvono più pacificamente, anche se vi siano violente discussioni. In questo caso non
vi fu nemmeno discussione. Le due coppie furono subito d'accordo: si scambiarono fra loro mariti e
mogli, e proseguirono a vivere tranquillamente nella medesima camera.
Questo modo di reagire dei russi, in certe situazioni imbarazzanti, mi fa ricordare di aver assistito
una volta nella strada della Petrovka ad una scena veramente divertente. Due uomini fermi su]
marciapiede discutevano fra loro vivacemente. Ad un tratto l'uno di essi allungò all'altro un calcio
nel sedere. Mi aspettavo che ne sarebbe seguita una zuffa, ma invece l'uomo che aveva ricevuto il
calcio compostamente si allontanò senza nemmeno voltarsi.
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* * *
Si sbaglierebbe chi da episodi come quello narratomi da Elisabetta o da altri analoghi traesse la
conclusione che in Russia le coppie unite stabilmente fossero rare. Tra i cento ingegneri che
lavoravano con me, tutti quelli che sapevo ammogliati mantenevano, dopo cinque anni, intatta la
loro unione. Si rifletta, per spiegarsi questa stabilità, che nell'Unione Sovietica a far unire insieme
due giovani non poteva generalmente esservi altra ragione che l'attrazione reciproca. Le
considerazioni di carattere economico erano quasi completamente escluse, perchè la donna, avendo
la sua occupazione e potendosi mantenere da sè, non sentiva alcun bisogno di appoggiarsi ad un
uomo. Con ciò non voglio dire, però, che non vi fossero eccezioni a questa regola. Anche in Russia
vi erano donne ambiziose o vanitose che miravano, ad esempio, a sposare un comunista influente od
un ufficiale della G.P.U. per godere di alcuni vantaggi di carattere materiale o anche per conquistare
un maggior prestigio personale. Bisogna riconoscere che, a questo riguardo, tutto il mondo è paese.
La stessa cosa avviene, ad esempio, in America, dove spesso matrimoni e divorzi sono suggeriti alla
donna solo dal desiderio di conseguire una migliore posizione sociale.
* * *
Le condizioni assai spesso precarie della vita in quegli anni, la politica, seguita dal Governo, di
liberare la donna per quanto era possibile dalle occupazioni domestiche, la ristrettezza degli alloggi,
l'enorme facilità del divorziare, eran tutte cause che avevano condotto alla decadenza dell'istituto
familiare.
Vi erano, però, talune famiglie che meglio delle altre avevano resistito alla disgregazione, ed erano
quelle ebraiche.
Un esempio si aveva nella famiglia di Elisabetta Simeovna, nella quale, dopo venti anni di
rivoluzione, i legami familiari permanevano intatti o quasi. Questa famiglia continuava ad abitare
da sola l'appartamento nel quale aveva sempre vissuto; l'unica differenza era che, legalmente
l'appartamento, si trovava ora suddiviso fra i singoli membri della famiglia: una camera per i due
vecchi genitori, un'altra per Elisabetta, un'altra per il fratello con la moglie, ecc.
Nel gennaio 1932 visitai a Mosca una piccola famiglia costituita dal marito — un ingegnere ebreo
— dalla moglie russa e da due bambini, uno di sette anni, l'altro di nove o dieci.
Essa avrebbe potuto esser presa a modello in qualunque altra parte del mondo.
* * *
Vi era in Russia, nel 1931, e durò ancora per qualche anno, una grande diffusione delle operazioni
di aborto, che venivano eseguite in appositi ospedali. Benchè fossero sconsigliate, esse, con certe
limitazioni, erano allora ammesse dalla legge sovietica. Le donne ne parlavano apertamente senza
alcuna reticenza, tanto che una volta una delle ragazze che lavoravano nel mio ufficio mi avvertì
tranquillamente che avrebbe dovuto chiedermi otto giorni di permesso per recarsi a quello scopo
all'ospedale. Dopo mi fu spiegato che la cosa era del tutto normale. Una donna aveva diritto, in quel
caso, di ottenere dall'ufficio dove lavorava i giorni di permesso necessari.
* * *
Contribuiva in quei tempi a minare le basi della famiglia un'altra circostanza. L'educazione dei
bambini, completamente nelle mani dello Stato, scavava spesso un abisso profondo fra genitori e
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figliuoli. I fanciulli, abituati a scuola alla vita in comune e ad agire e parlare secondo i principii
comunisti, tornando a casa, si accorgevano che i loro genitori, ancora delle vecchie generazioni,
parlavano ed agivano diversamente. Ne seguiva che, pur senza alcuna intenzione di far da delatori,
essi riferivano al maestro parole e gesti dei genitori, che suonavano critica ai sistemi ed alle idee
comuniste. Poteva in conseguenza avvenire che i genitori fossero molestati a motivo di ciò che
avevano detto alla presenza dei figliuoli; donde una causa di scissione e di disaccordo. Ma più tardi,
a dir il vero, le critiche dei ragazzi non furono più in alcun modo adoperate contro i parenti, ma solo
considerate come una riprova della bontà dell'educazione che ad essi era stata impartita.
* * *
Tutte le cose cui ho accennato: l'assenza della donna da casa per la maggior parte della giornata, e la
conseguente scarsezza di cure che essa poteva dedicare al marito e ai figliuoli, il solco profondo
scavato fra i genitori e i figliuoli dalla educazione comunista, la facilità estrema di distruggere un
vincolo matrimoniale, e infine lo scarso senso di responsabilità del padre verso il figlio portavano
inevitabilmente ad una grande rilassatezza dei vincoli familiari, minando le basi stesse della
famiglia.Si aggiunga l'ammissione legale dell'aborto, e si avrà il quadro della situazione in cui,
durante i primi anni del mio soggiorno in Russia, si trovava l'istituto familiare.
Poi la politica del Governo cambiò. L'aborto venne proibito con pene severissime, ed il divorzio
reso assai meno facile (*). Meglio di tutto, poi, ebbe inizio una vasta, intensa propaganda, fatta
anche a mezzo del teatro, per richiamare i padri ai loro doveri verso i figliuoli, incitare le mogli ad
occuparsi del benessere dei propri mariti e protestare contro i facili divorzi. Con grande stupore di
noi stranieri vi fu perfino una campagna demografica perchè le donne sovietiche avessero più
bambini.
Il curioso è che di quest'ultima propaganda non sembrava proprio vi fosse bisogno in un paese che,
sotto il regime
(*) Furono aumentate le tasse. Ma un ulteriore passo è stato fatto con la legge del 18 giugno 1944:
secondo cui il divorzio deve essere pronunciato dalle corti giudiziarie dopo pubblica discussione. È
proprio di questi giorni la notizia, diramata da Mosca dall'Associated Press, secondo cui, in
seguito all'applicazione della nuova legge, in sedici mesi il numero dei divorzi è diminuito di due
terzi.
sovietico, aveva veduto la sua popolazione accrescersi di un quarto, e dove in certi distretti rurali
l'aumento annuo aveva raggiunto il 12 %.
Ma la campagna vi fu ed attivissima. Che portasse i suoi frutti me ne accorsi dal differente parlare
di Mèla, la mia colta ed intelligente segretaria, che a ventisei anni si maritava per la terza volta.
Questa volta, essa mi diceva, doveva essere l'ultima, la definitiva. Mèla, fino a poco tempo prima,
mi aveva confessato di non aver voluto bambini perchè, nei tempi duri che correvano, non poteva
assumere la responsabilità di un'altra vita. Ma ora all'improvviso cambiò parere.
Virtù di una propaganda che fra l'altro metteva in mostra, dovunque, fotografie di Stalin nell'atto di
accarezzare una fanciullina, o di prendere fra le braccia un bambino incontrato nel Parco di Cultura
e Riposo.
La religione
GIUNGENDO a Mosca ero talmente convinto che non vi fosse alcuna chiesa cattolica aperta al
culto che non mi presi nemmeno la briga di domandarne. Un giorno, però, conversando con Maria
Andreievna, la mia segretaria di allora, seppi che di chiese ve ne erano due, proprio vicino a casa
mia, dietro la piazza della Lubianka, una francese, l'altra polacca.Alla prima domenica mi ci recai.
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Le trovai gremite. Chiunque, naturalmente, poteva entrarci. Si intende che una parte del pubblico
era di stranieri, ma vi erano anche molti russi.Ricordarsi della domenica non era cosa facile in
Russia, a meno che ci si fosse trovati ad abitare in un villaggio dove i contadini ancora la
rispettassero. Nel 1931 la settimana (così si continuava a chiamare l'intervallo di tempo che correva
tra un giorno e l'altro di riposo) era di cinque giorni appena. Uno di essi era giorno di vacanza
(vicannoi dien), e si faceva variare da azienda ad azienda per evitare una eccessiva calca ai teatri ed
ai cinema, già troppo affollati. Il vicannoi dien coincideva con la domenica ogni trentacinque
giorni,ma nel 1932, quando la settimana fu portata a sei giorni, la coincidenza ebbe luogo soltanto
ogni quarantacinque giorni.
Con 'la settimana così ridotta si era presto perduta ogni abitudine di indicare i giorni con i nomi
tradizionali, il che avrebbe, del resto, creato una inutile confusione. Si diceva semplicemente:
primo, secondo, terzo giorno, ecc. Perciò, vivendo in mezzo ai russi, presto si finiva col non saper
più in che giorno si fosse, e la domenica il più delle volte passava inavvertita, anche quando si era
fatto il proposito di non dimenticarsene.
Per questa ragione Maria, mia figlia, quando giungeva a Mosca a passarvi le vacanze estive,
pensava subito a prepararsi dei grandi cartelli dove scriveva i giorni della settimana: lunedì,
martedì, mercoledì, ecc. Ogni mattina attaccava al muro, in un posto ben in vista, il cartello della
giornata. Così non avrebbe dimenticato di andare a messa, la domenica.
* * *
Le chiese ortodosse a Mosca, la città dalle diecimila cupole, erano moltissime, ma quelle aperte al
pubblico erano assai poche in verità. Ne domandai la ragione ai miei amici russi. Mi fu risposto che,
non dando il Governo alcuna sovvenzione per il mantenimento delle chiese e dei preti, ad esso
dovevano provvedere da soli i fedeli. Questi, pesò, non solo si andavano riducendo di numero, ma,
quel che è peggio, non riuscivano più, in quei tempi di carestia, a dare un obolo che bastasse a
coprire le spese del culto.
Conseguenza inevitabile di questo stato di cose era che molte chiese venivano abbandonate. Se esse
avevano un valore artistico, le si trasformava in musei, altrimenti erano demolite per far posto a
nuove costruzioni, oppure adibite ad usi civili come era accaduto, ad esempio, di una piccola chiesa
all'Arbat dove la Dirigiablestroi custodiva le sue automobili, e con esse anche la mia.
Una chiesa assai bella era quella del Salvatore (Kram Krist Spassitelia) elevata in ricordo della
liberazione della Russia dall'invasione francese. Era la più grande di Mosca e poteva contenere
diecimila persone. Delle sue cinque belle cupole, la maggiore, quella centrale, misurava 102 metri
di altezza. La visitai nel 1926. Sei anni dopo, nel 1931, non la trovai più. Al suo posto si lavorava
per la fondazione del grande palazzo dei Sovieti.
* * *
La curiosità più di una volta mi spinse ad entrare in qualcuna delle chiese ortodosse aperte al culto.
Erano decorate sfarzosamente. Con altrettanto fasto e grande solennità vi avevano luogo le funzioni
religiose. Notai che erano frequentate prevalentemente da persone di mezza età od anziane. Di
giovani se ne vedevano ben pochi, anzi direi, nessuno. Meno raro era il caso di vedervi dei ragazzi
accompagnati dalle madri.
Due di queste chiese sorgevano sulla piazza della Lubianka, una presso le mura cinesi, l'altra
proprio vicino alla casa dove io abitavo, all'angolo della Mjasnitzkaja. Questa si chiamava di S.
Antonio: era piccola, quadrata, con una bella cupola che la sormontava. Dicevano che fosse antica.
Quando la mattina mi alzavo da letto, affacciandomi dalle finestre che davano sul cortile, me la
vedevo davanti agli occhi a pochi metri di distanza. Era la sola bellezza artistica, per così dire, di
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cui potessi godere senza muovermi di casa, giacchè le altre finestre che davano sulla Mjasnitzkaja
non avevano di faccia altro che il massiccio, brutto palazzo della G.P.U. Un giorno la bella cupola
scomparve. La chiesa era stata demolita, per praticare al suo posto un pozzo della ferrovia
sotterranea. Poco dopo scomparve anche l'altra, più grande, sotto le mura cinesi. Al suo posto si
costruì una stazione della Metro.
* * *
Di « Popi », con la loro lunga zimarra nera, i capelli lunghissimi e la gran barba fluente, se ne
incontravano spesso nelle strade centrali di Mosca, magari sulla stessa piazza Rossa dove, sul
frontone dei fabbricati prospicienti al Kremlino, si leggeva scritto a caratteri cubitali: « La religione
è l'oppio dei popoli». Mi sembrava così strana la loro apparizione in piena capitale comunista, che
mi fermavo a bella posta ad osservare il contegno che avrebbero avuto i passanti nell'incontrarli. Ma
i russi non mostravano nemmeno di accorgersi della loro presenza.
* * *
A Leningrado visitai una volta il museo antireligioso della cattedrale di Sant'Isacco, la bella chiesa
dalla grande cupola dorata, al cui centro oscillava un pendolo che riproduceva la esperienza di
Foucault. Sulle pareti, nelle navate sorrette da colonne di granito, erano in mostra documenti e
fotografie riguardanti alcune strane sette religiose che anche allora pullulavano in Russia,
specialmente nei dintorni di Leningrado. Non notai nulla di indecente. Ma ad Arcangelo, nel 1931,
girando un giorno per la strada principale, lessi su una cantonata scritto in russo: « Museo
antireligioso ». Entrai: una piccola camera a pianterreno con le pareti ricoperte di figure, iscrizioni,
disegni. Mi avvicinai ad uno di questi: un quadro osceno che si riferiva alla Annunciazione, una
cosa bassamente volgare e disgustosa. Nauseato, mi affrettai ad uscire.Mi apparve evidente che il
museo di Arcangelo fosse fatto per un genere di visitatori del tutto diversi da quelli di
Leningrado.Quel giorno stesso, ad Arcangelo, notai una rubizza contadina che passando davanti ad
una chiesa posta fuori mano si faceva il segno della croce.
* * *
A Mosca, nel 1932, una ragazza di venticinque anni che mi faceva da interprete, mi mostrò la
tessera dell'Associazione degli atei. « Perchè ne fate parte ? » domandai. « Che attività vi svolgete ?
». Si strinse nelle spalle. Non lo sapeva nemmeno lei.
* * *
A chi in Russia dirigeva la lotta antireligiosa credo dovesse assai poco importare se un uomo o una
donna delle passate generazioni praticasse l'uno o l'altro culto religioso. Durante gli anni che io fui
in Russia, per quello che mi consta, nessuna persecuzione ebbe luogo contro un cittadino sovietico
per il solo fatto che frequentasse una chiesa. Quello che importava era che nell'educazione dei
bambini (posta quasi completamente nelle mani dello Stato) lo spirito religioso dei genitori non
avesse alcuna influenza. Per questa ragione si può ben dire che le nuove generazioni, quelle che
hanno fatto la guerra, sono cresciute in un'atmosfera di assoluta antireligiosità.
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* * *
Ai membri del partito era, naturalmente, fatto divieto di praticare qualsiasi culto religioso. Ogni
manifestazione di tal genere avrebbe costituito un motivo di indegnità di appartenenza al partito.
Fui molto divertito, una volta; dall'ingenua insistenza con la quale, in un eccesso di zelo
antireligioso, un giovane comunista di mia conoscenza tentò di catechizzarmi. Ciò avvenne a casa
mia, una sera che l'avevo invitato a pranzo insieme ad altri quattro o cinque ingegneri del mio
ufficio. Fu solo dopo qualche occhiataccia rivoltagli dai compagni che si decise a smettere.
* * *
Nel marzo 1933, quando dopo l'operazione di appendicite fui dichiarato spacciato dai medici
dell'Ospedale del Kremlino, Ester Josefovna mi domandò: «Volete un prete ? ».
Il giorno dopo Elisabetta Simeovna, una delle mie infermiere, spalancò la porta della camera, dove
giacevo moribondo, per lasciar passare un'alta, imponente figura di prelato, solennemente rivestito
di paramenti sacri. Era Monsignor Neveu, il vescovo che alloggiava presso l'Ambasciata di Francia,
che veniva ad amministrarmi i sacramenti.
Qualche mese dopo, Elisabetta commentando la visita del vescovo mi disse: « Bila balsciaia
sensazio ». Fu una grande sensazione per tutti, personale ed ammalati, veder entrare un prete
nell'ospedale del Kremlino. Una cosa simile non si era mai vista.
E non si poteva vedere, perché in quell'ospedale eran curati solo i «grandi» comunisti. Fu dunque
un avvenimento memorabile l'entrata di un vescovo in quell'edificio, ma bisogna riconoscere che
nessuna delle cinquecento persone che vi si trovavano si permise di far commenti men che
rispettosi.
* * *
Di una cosa sentivo la mancanza in Russia, ed era il suono delle campane. Forse per chi va esule per
il mondo, avendo vissuto da fanciullo in un piccolo centro od in campagna, non vi è nulla che
riporti il pensiero alla patria ed alle persone care come quella musica sonora che ci ha accompagnati
fin dalla infanzia.
Una sera, al Teatro d'Arte in Mosca, dove si rappresentava un dramma -storico russo, ad un tratto la
scena si aprì davanti ad una cattedrale. Nell'atto in cui lo zar scendeva gli scalini della chiesa, le
campane cominciarono a suonare. Uno scampanio a festa, che andò sempre più crescendo, e che
riempiva gli orecchi ed il cuore. La riproduzione del suono, come tutto il resto della
rappresentazione, era perfetto. Ritornai ad assistere a quello spettacolo soprattutto per riudire il
suono di quelle campane.
Ma una volta a Leningrado, andando lungo la Perspectiva Newski per visitare la fabbrica di
porcellane, fui colpito da un suono familiare. Stavolta eran proprio le campane di una chiesa, ed il
suono metteva come una festa nell'aria e nello spirito.
Cene funerarie
Ho assistito una volta, a Mosca, ad una cremazione. Vi fui invitato da un celebre aviatore, cui dopo
una lunga malattia era morta la moglie.
Mi ci recai insieme con mia figlia e con Elisabetta Simeovna.Raggiunto in automobile il corteo
funerario, proseguimmo a piedi per un chilometro o più. Infine giungemmo all'edificio dove
avrebbe avuto luogo la cremazione: un edificio di forma semplicissima, di pianta quasi quadrata,
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con una gran sala a livello del suolo, nuda, fredda, squallida, rivestita di marmi.In questa sala fu
trasportata la salma, ed ebbe luogo una funzione funebre con suoni, fiori e bandiere. Di là,
attraverso una botola, la salma fu fatta discendere al piano sottostante, dove era il forno.Aperti gli
sportelli di questo, la salma vi venne introdotta. Il gesto mi colpì. Senza volerlo mi richiamava
quello del fornaio che spinge entro il forno una palata di pane.Mentre la cremazione avveniva,
fummo invitati a guardare attraverso uno sportellino di cristallo. Il cadavere, investito dalle fiamme,
si contraeva.Così terminò la macabra cerimonia. Le ceneri sarebbero state poi consegnate alla
famiglia in una cassettina.L'impressione che provai non fu piacevole. Ero andato alla cerimonia con
una certa curiosità, avendone sentito parlare da Elisabetta Simeovna come di uno spettacolo assai
bello. Ma rimasi deluso ; dirò di più, disgustato. La cerimonia mi apparve, come realmente era,
fredda, brutale, direi quasi cinica.
* * *
Al ritorno il marito della morta ci invitò ad andare a casa sua a prendere il tè.
Non ero mai stato ad una cena funeraria. Ne ebbi un esempio.Il marito faceva gli onori di casa. Ci
fece visitare l'appartamento. La camera da letto della morta era stata già disfatta. Ci annunziò che
avrebbe comprato un nuovo letto. « Nuova vita, nuovo letto ».Giunsero man mano gli invitati.
Quando ci furono tutti, il padrone di casa ci invitò a sedere davanti alle due tavole apparecchiate, e
ci esortò a bere e mangiare. Passava da un tavolo all'altro dicendo: « Sgisn sgisn» (Vita, vita !) « Un
po' di allegria! ».Si mangiò e si bevve. Io e mia figlia non prendemmo quasi nulla e ad una certa ora
ce ne andammo. Rimase Elisabetta Simeovna, che poi ci raccontò che il festino era durato fino ad
ora tarda della notte, e che si era continuato a bere e mangiare allegramente.
In questo modo il marito, gli amici e le amiche della povera defunta ne commemorarono la morte !
* * *
Ma di un'altra cena funeraria seppi, interrotta in condizioni drammatiche.
Il caso mi fu raccontato dal dottor Pohl, l'ex ambasciatore di Austria in Russia, direttore di un
giornale in lingua tedesca che allora si pubblicava a Mosca.
In un'officina elettrica, a causa di un corto circuito, due operai eran rimasti fulminati. Il medico
dell'officina, constatatane la morte, aveva redatto il relativo certificato. Dopo di che le due salme
erano state portate al cimitero per la tumulazione. Ora si dava il caso che uno dei due operai
fulminati, venuto da poco tempo dall'America, indossasse nel momento dell'accidente un abito
quasi nuovo.
Un compagno di lavoro pensò (si era allora in Russia in un periodo di estrema scarsezza di
indumenti) che in fondo era un peccato che un così buon vestito fosse messo a marcire sotto terra,
mentre poteva servire a lui a proteggerlo dal freddo. Decise di recarsi al cimitero per portarlo
via.Era una notte rigida d'inverno. Il freddo pungeva. Il camposanto era tutto ricoperto di
neve.Ritrovato il posto dove era stata depositata la cassa funebre, il ladro la forzò. Il cadavere era là,
disteso, rigido. Sollevatone il torso, il ladro tolse la giacca, poi il corpetto. Si accingeva ora a tirar
via i pantaloni, quando ad un tratto, il cadavere fece un movimento, ed aprì gli occhi. Atterrito, il
disgraziato afferrò tutto e scappò via di corsa.Era un caso di morte apparente, di quelli così
frequenti nelle fulminazioni da corrente elettrica. Sotto il morso dell'aria fredda il creduto morto
aveva ripreso i sensi, e si trovava ora nudo, all'aperto, nella notte gelata, disteso in una cassa
funebre !
Si alzò, uscì dal cimitero. Alla prima casa che trovò, si fermò a chiedere in prestito una coperta. Gli
fu data. Vi si avvolse ed a piedi si recò a casa sua, dove la moglie, il fratello di lei e gli amici, si
trovavan riuniti per la rituale cena funeraria.
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Bussò. Venne la moglie ad aprire. A vedere il marito avvolto nella coperta, gettò un grido di terrori,
e richiuse a precipizio la porta, correndo dentro, pallida e tremante, a narrare agli ospiti che lo
spettro del marito era là che voleva entrare. Gli ospiti credettero ad una allucinazione, ma ecco
bussare di nuovo violentemente. Il fratello si decise ad andar lui a vedere di che si trattasse; e così
potette convincersi che non sì trattava di uno spettro, ma di suo cognato in carne ed ossa, che
tornava a casa.
Un particolare raccapricciante. La mattina dopo, si andò al cimitero con la speranza di trovar vivo
anche l'altro fulminato. Ma era già cadavere da alcune ore. Il disgraziato era rinvenuto anche lui, ed
aveva tentato inutilmente di rompere la cassa in cui era chiuso. Fu trovato con la faccia rivolta
all'ingiù, tutto contorto per lo sforzo tremendo che aveva fatto.
* * *
Ebbi la curiosità di sapere se, la giovane moglie di Stalin fosse stata cremata o sepolta.
Era stata inumata, e mi fu un giorno indicato il cimitero dove era seppellita.
Case di lavoro per donne
NELL'AMPIA sala del ristorante del Metropole, sfarzosamente decorata ed illuminata, gli zingari
avevano interrotto i loro canti e le loro danze per andare anch'essi a cenare. La sala era semivuota.
Solo pochi stranieri sedevano qua e là, chè in quel tempo al Metropole bisognava pagare in valuta
forestiera, e perciò il ristorante non poteva essere frequentato da cittadini sovietici. Mi trovavo
seduto ad un tavolo del centro, presso la gran vasca dove guizzavano dei pesci dorati, e dal mio
posto scorgevo il bar, davanti al cui banco alcuni giornalisti americani erano seduti a bere: fra gli
altri Stoneman, il corrispondente del Chicago Daily NEWS, che conoscevo da molti anni.
Ora che il melanconico canto degli zingari si era taciuto, avevo ripreso a conversare con Leteisen, il
giovane ingegnere comunista che il Capo della Flotta Area Civile aveva messo a mia disposizione
come interprete. Venuto a parlarmi del programma della riunione fissata per il pomeriggio del
giorno dopo, si era trattenuto a lungo, ma come al solito aveva rifiutato di cenare con me.
Leteisen mi piaceva molto. Aveva modi gentili e fini. Alto, magro, con due occhi scuri che
guardavano in faccia mentre parlava con tono di voce tranquillo e pacato. Indossava una casacca
militare. Parlava indifferentemente in italiano, francese e inglese. ma conosceva bene anche il
tedesco, e non so più quale lingua orientale. Rispondeva sempre di buon grado a tutte le domande
che gli ponevo sui vari problemi della vita sovietica. Una volta scrisse su un foglio di carta una serie
di idee e di principii comunisti, e me lo diede, ma il giorno dopo mi pregò di restituirglielo.
Quella sera si era finito col discorrere di quelle disgraziate che si vedono in giro per le strade di
Parigi, di Berlino, o di Londra ad allettare i passanti, ma che a Mosca non si vedevano più. Leteisen
mi parlò a lungo della lotta che il partito aveva intrapresa per estirpare il terribile male. Quelle
povere donne venivano avvicinate nella strada ed indotte con la persuasione a lavorare. Vi erano,
per questo, a Mosca appositi stabilimenti, dove esse venivano ricoverate.
Mentre il mio compagno terminava di raccontarmi queste cose, gli zingari rientravano e
riprendevano posto sul palcoscenico in fondo alla sala. Erano una ventina fra uomini e donne, di
tutte le età. Il più vecchio sembrava essere il loro capo. Vestivano i loro pittoreschi costumi
nazionali; le donne con un lungo scialle che ricopriva loro le spalle scendendo lungo i fianchi. Eran
tutti di carnagione molto scura, tranne una ragazza con gli occhi chiari, che dicevano fosse figlia di
un generale zarista.
Sul palcoscenico si disposero a semicerchio, le donne sedute, gli uomini in piedi dietro di loro; poi,
ad un cenno del vecchio, cominciarono a cantare in coro.
Ad un tratto una delle giovani si levò di scatto e con un lieve passo di danza si mise a girare in
tondo, suonando un tamburello con la mano destra e piegando in graziose movenze, al ritmo del
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canto e dei suoni, il corpo alto, snello, flessuoso. Gli altri continuavano a cantare scandendo il ritmo
della danza col battere delle palme delle mani, come per eccitare la giovane danzatrice. Di tanto in
tanto ella si arrestava e si metteva a scuotere le spalle ed il petto, cosi rapidamente da sembrare che
tremasse. Si faceva allora più forte e concitato il batter di mani del coro.
Cessata la danza ci alzammo per uscire. Era già tardi.
Avviandoci alla porta Leteisen domandò: E che farà nella mattinata ? Vuole che la accompagni in
un museo ? ». « No », risposi, «di musei in Italia ne abbiamo tanti. Qui in Russia mi interessano più
le cose vive: Andiamo piuttosto a visitare una di quelle case di lavoro di cui ha parlato ».
Leteisen mi guardò un po' sorpreso. «Le interessa tanto questo argomento ?, mi domandò ». «
Perchè no ? » risposi.
« Bene », disse Leteisen. « Domani alle dieci verrò a prenderla al Grand Hotel ». E ci separammo.
* * *
Fuori faceva freddo. Si era in pieno inverno. Il termometro sulla porta segnava venticinque gradi
sotto zero. Il gelo aveva dipinto su vetri dell'albergo fantastici, meravigliosi arabeschi, quali solo a
Mosca ne ho visti. La grande piazza Sverdlov era tutta ricoperta di neve. A destra, nel fondo, il
teatro dell'Opera era ancora illuminato, e potevasi scorgere chiaramente la quadriga che sovrasta la
facciata. La fontana del Vitali era tutta gelata e quasi scompariva sotto la neve. Ma la nota più
pittoresca era data dai grandi fuochi accesi qua e là per liquefare la neve sulle rotaie del tram.Mosca
d'inverno è veramente bella.
Rialzai il bavero del cappotto, ma il freddo era così pungente che mi costrinse ad abbassare sulle
orecchie il risvolto di pelliccia del berretto di Alaska, ricordo della spedizione del Norge. Mi
inoltrai nella piazza per accostarmi ad uno dei fuochi. Il contrasto fra la bella fiamma rossa ed il
biancore della neve che ricopriva la piazza come una coltre, era impressionante. L'attrazione era
irresistibile. Ne ero come affascinato.Quattro anni più tardi, al tempo del terribile processo in cui fu
implicato anche il dottor Levin, uno dei medici che mi curò all'ospedale del Kremlino, appresi che
Massimo Gorki, di cui il Levin era il medico, amava come me Io spettacolo di quei fuochi accesi
nel mezzo della neve, e restava a lungo a contemplarli, noncurante del mal di petto di cui soffriva.
* * *
La mattina dopo, puntualmente, Leteisen venne a prendermi. Una corsa di pochi minuti e ci
arrestammo davanti ad un grande edificio dall'apparenza modesta. « Occupano tutta questa casa»,
disse il mio compagno.
Bussammo. Una donnetta ci aprì, lasciandoci entrare. L'interno era di aspetto piuttosto povero.
Attraverso una porta, a destra, intravidi alcune donne curve davanti a telai. Sulla parete una tabella
indicava la ripartizione dei locali: al primo piano i laboratori, al secondo i dormitori, al terzo le
cucine e le mense.
Ci venne incontro il direttore, un giovane di aspetto simpatico, vestito assai modestamente. Poi che
Leteisen ebbe spiegato chi ero e lo scopo della visita, egli ci accompagnò nel suo ufficio, ed
invitatici a sedere si disse pronto a dare tutte le informazioni che desideravo.
« Di istituti come questo ne abbiamo a Mosca una settantina, con circa settemila donne. Spesso
vengono a noi spontaneamente, convinte dalle compagne che le hanno precedute. Ma durante la
notte una commissione va in giro per le strade per avvicinarle e persuaderle a venire a lavorare.
Prima della rivoluzione avevamo a Mosca trentamila di queste disgraziate; oggi son ridotte a quattro
o cinquecento ».
« Le considerate come recluse ? », domandai.
« No, sono tenute nella massima libertà. Lavorano sei ore al giorno ed hanno un giorno di riposo
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ogni cinque. La sera possono uscire. Guadagnano 125 rubli al mese, e ne versano a noi per il
mantenimento soltanto 25. Il resto è per loro; possono farne quello che vogliono. Dopo un anno, se
hanno tenuto buona condotta, vengono inviate a lavorare in una fabbrica».
« Capita mai che qualcuna torni alla vita di prima ?»
« No, mai. Del resto, hanno tutti i vantaggi a stare qui a lavorare. Se non lavorassero, dovrebbero
pagare molto di più per l'alloggio e per comprare le cose essenziali per vivere ».
Chiesi delle loro condizioni di salute. « Le curiamo prima di ammetterle. L'assistenza medica è
assai rigorosa. Alcune di esse si maritano anche ed hanno figlioli».
Entriamo a visitare uno dei laboratori. Una lunga fila di telai a cui lavorano a fare calze una
cinquantina di donne. Esprimo il desiderio di parlare con qualcuna di esse. Vicino alla porta è una
ragazza bruna, dalle fattezze un pò rozze, una espressione di sempliciona nel volto. La interrogo. A
tredici anni, rimasta senza genitori, aveva dovuto mendicare. Poi si era data alla mala vita. Qui è
contenta. Le piace di starci, e non ha alcun desiderio di andare a lavorare in fabbrica.
Passo ad interrogare una ragazza bionda, delicata, giovanissima, molto seria in volto, quasi schiva
di parlare. Ha diciotto anni. La madre era una guardiana. Essa l'abbandonò. Ora è felicissima di
stare qui.
Ancora un'altra. Sui venticinque anni, fiorente, dal volto roseo, piena di vita, allegra. Si è maritata
da poco; sta per diventare madre.
Passiamo ad un altro laboratorio. « Ecco un tipo interessante », dice il direttore, indicandomi una
donna di mezza età, con una faccia grossolana e rossastra, lineamenti duri.
Parla. Ha una voce un po' roca. Dice che per diciotto anni ha fatto quella vita, ed era un'ubbriacona.
Anche ora beve, ma poco. E contenta di lavorare.
Oso fare una domanda: « Quando guadagnava allora ? Più o meno di adesso ?» Si mette a ridere.
Interloquiscono le compagne, ridendo anch'esse. « Cinquanta copeki, qualche volta un rublo; spesso
soltanto percosse».
Ringrazio ed usciamo. Nel vestibolo troviamo una ragazza bruna, belloccia, dell'età, forse, di venti
anni. Essa si rivolge piangendo al direttore. Domando la ragione. « E' andata a trovare il suo amico,
ed è rimasta assente per tre giorni. Secondo i regolamenti non può più essere riammessa».
La ragazza è disperata. Fra le lacrime spiega: « Ma come potevo fare ? Egli doveva partire e non ho
potuto lasciarlo ». Mosso a compassione, intervengo presso il direttore pregandolo di essere
indulgente per questa volta. Il direttore, da principio inflessibile, alla fine cede alle preghiere. Ma la
ragazza non crede al perdono e continua a piangere. Poi, quando vede che il direttore scrive su un
foglio l'autorizzazione a rientrare, si acquieta.
Ora appare tutta felice nel volto.
* * *
Ridotto al minimo il numero di queste donne girovaghe, si trovava in Russia ridotta anche la
criminalità che fiorisce attorno ad esse; e penso che soprattutto questa sia la ragione per cui a
Mosca, a Leningrado, non esistevano quartieri dove fossero concentrati i bassifondi sociali, come ve
n'è a Parigi, a Londra, a Berlino, a New York, a Roma. A Mosca non esistevano case malfamate, nè
strade o locali pubblici dove una persona dabbene si dovesse vergognare di entrare. Si poteva girare
di giorno e di notte per qualsiasi strada senza imbattersi in spettacoli disgustosi. Una fanciulla
poteva liberamente andare in giro dovunque, sicura di non essere molestata da alcuno, o di fare
incontri che potessero offendere la sua modestia.
* * *
Una grande decenza era nella fiumana di popolo che continuamente si riversava nelle strade di
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Mosca. E tuttavia, nei primi anni della vita sovietica, vi erano state strane aberrazioni.
Mi raccontavano gli amici russi di aver visto una volta un corteo di donne completamente nude, che
portavano in giro dei cartelli dov'era scritto: «Abbasso il pudore ». « Il pudore è un pregiudizio
borghese ».
Si era perfino costituita una «lega contro il pudore », i cui soci si abbandonarono alle manifestazioni
più grottesche fino a che, un bel giorno, il Governo Sovietico, perduta la pazienza, intervenne per
reprimere energicamente quelle stupide aberrazioni.Ciò non ostante, nell'estate del 1931 i giovani
sovietici, sulle spiagge dei mari e dei fiumi, si bagnavano ancora del tutto nudi.
II primo di questi spettacoli mi fu offerto ad Arcangelo, nel mese di luglio di quell'anno. Sulla
spiaggia, a pochi metri di distanza da me, vidi una donna grassa e brutta togliersi tranquillamente i
panni d'addosso, e poi, completamente nuda, tuffarsi nell'acqua della Dvina.L'estate successiva a
Mosca, ancora una volta fui colpito dalla disinvoltura con cui centinaia di uomini e donne, pur in
separati recinti, si bagnavano nudi nelle acque della Moskova. Quell'esposizione di carni era
certamente fatta senza alcuna apparente sfacciataggine, e forse era causata da mancanza di
indumenti adatti più che voluta espressamente. Ma non per questo era meno ripugnante. Lo
spettacolo mi ricordava molto da vicino quello dei bagni giapponesi dove avevo visto, in
un'indecente promiscuità, uomini, donne, bambini, vecchi, tutti completamente nudi.
Nel 1933 le ultime vestigia di nudità scomparvero anche dalle rive della Moskova . che cosa avesse
provocato il cambiamento non saprei dire; ma certo dovette esservi un ordine dall'alto. Comunque,
da quell'anno in poi, in fatto di castigatezza di costumi, le città russe offrirono uno spettacolo
piuttosto raro nel mondo.
Le donne, in istrada, eran tutte vestite decentemente, senza scollacciature, senza esibizione di
gambe e braccia nude. Esse eran troppo occupate nella grande opera di costruzione sovietica per
tollerare che il loro prestigio di fronte agli uomini venisse abbassato da qualsiasi manifestazione di
civetteria o di inverecondia.
Nell'atmosfera ardente di lavoro, di iniziative, di nuove imprese creata dall'attuazione dei piani
quinquennali, non vi era posto per depravazioni del gusto e degenerazioni intellettuali del genere di
quelle che avevano inspirato le prime manifestazioni contro il pudore. I giovani sovietici, maschi e
femmine, dovevano dedicare tutte le loro forze alla lotta per la industrializzazione. Non era
permessa nè tollerata alcuna indulgenza verso il vizio. Giornali pornografici, libri osceni, film
indecenti, spettacoli teatrali scurrili eran tutte cose sconosciute in Russia, al tempo in cui vi sono
stato io.
I giovani russi nelle strade, nei parchi, nei teatri, nei cinematografi, nei caffè di Mosca si
comportavano con la più grande decenza e la maggiore serietà. I giornalisti che con una visita di
due o tre settimane, credevano di aver scoperto l'Unione Sovietica , raramente si accorgevano di
questo lato pur così caratteristico della nuova Russia, ed ancora più raramente lo mettevano in
rilievo. Ma un osservatore acuto e profondo quale André Gide, che venne a Mosca nel 1936, tornato
in patria, narrando la sua visita al Parco di Cultura e Riposo, scriveva queste parole:
« Non appena varcata la porta ci si sente disorientati. In questa folla di giovani, uomini e donne,
dovunque una grande serietà, un'assoluta decenza: giammai il minimo accenno di scherzo stupido o
volgare, di facezie oscene, di parole o di atti licenziosi, nemmeno di flirt. Si respira dovunque una
aria di fervore gioioso ».
Bies-prisornik
IN un pomeriggio d'estate, qualche mese dopo che mi ero stabilito a Mosca, mentre passavo davanti
all'albergo Metropole, la mia attenzione fu richiamata da un ragazzo, tutto lacero e sporco, che se ne
stava buttato a terra in un cantuccio. Mi fermai a guardarlo. Poteva avere sedici o diciassette anni.
Gli occhi aveva arrossati. Sembrava stanchissimo, come chi abbia compiuto lungo cammino.
Servendomi del pochissimo russo che allora conoscevo, cercai di interrogarlo. Riuscii a capire che
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giungeva a piedi da Leningrado e che non aveva casa, nè parenti, nè amici. Solo. Un ragazzo senza
tetto, un bies-prisornik.
Mi sembrava cosa indegna proseguire tranquillamente per la mia strada senza aver fatto nulla per
quel povero fanciullo che non aveva dove ricoverarsi, mentre io, in una città dove vi era tanto poco
spazio per alloggiare, disponevo da solo di un appartamento di quattro camere. Decisi di condurlo
con me. Avevo delle scarpe da dargli, ed anche qualche indumento. L'avrei fatto ben ripulire e
rifocillare, finchè
Non fossi riuscito a trovargli un'occupazione. Non mi sembrava difficile farlo assumere al servizio
della Dirigiablestroi.
* * *
Mentre cercavo di far intendere al fanciullo il mio proposito, si era formato attorno a noi un piccolo
capannello di persone, che stavano incuriosite ad ascoltare. Sentii che dicevano fra loro qualche
cosa che non comprendevo. Ad un tratto una giovane donna, che faceva parte del gruppo, mi si
avvicinò a dirmi: « These men ask me to tell you that the boy is not worthy of your attention ».
(Questi uomini desiderano che vi dica che il ragazzo non merita la vostra attenzione).
La giovane, una ragazza alta, bionda, dal volto rotondo, usciva proprio allora da una scuola serale di
lingue. Mi spiegò che non vi era nulla di buono da aspettarsi dal fanciullo. Sarebbe stato assai
pericoloso condurlo con me a casa.
Tale fu il mio primo incontro con un bies-prisornik in Russia.
* * *
Quanti erano questi disgraziati ? Un numero enorme. Centinaia di migliaia. Una terribile piaga
sociale, frutto dell'intervento straniero e delle invasioni di Kolciatk, Denikin e Wrangel, ma più
ancora della carestia del 1921, la più tremenda che la storia dell'umanità ricordi.In quella carestia le
popolazioni di intere città e villaggi perirono. La gente si ridusse a cibarsi di fieno, e perfino a
scavare nelle tombe per alimentarsi della carne dei recenti cadaveri. Morirono milioni di persone.
Quello spaventoso flagello ebbe un terribile strascico, che durava ancora dopo undici anni: i bies-
prisornik.
* * *
La loro storia mi era stata rivelata in modo commovente da uno dei più bei film prodotti in Russia
in quegli anni, Il foglio della vita, che avevo visto a Mosca nel 1931. Nella prima parte il film
mostrava questi giovanissimi vagabondi in azione, nella loro vita randagia di ladruncoli dediti ad
ogni sorta di vizi. « Vodka, tabacco e ragazze»: così, cinicamente, uno di essi riassumeva le proprie
aspirazioni. Poi era intervenuta la polizia a dar loro la caccia, ed infine l'opera di redenzione.
Un'opera paziente, umana, commovente di persuasione che aveva a poco a poco mutato l'animo di
quei piccoli, terribili delinquenti.
Liberati dal vizio, molti di quei disgraziati ragazzi si eran trasformati in buoni, spesso esemplari
operai della grandiosa impresa di costruzione sovietica.
* * *
Un esempio vivente dei risultati ottenuti con questa rieducazione dei bies-prisornik l'avevo davanti
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ai miei occhi, senza saperlo, alla Dirigiablestroi, fra i miei ingegneri. L'appresi più tardi. Si
chiamava Biliukof:
un giovane bruno, piccolo di statura ma robusto, intelligentissimo. Uno dei migliori calcolatori
dell'ufficio progetti, anzi il migliore. Faceva parte dei komsomol, la gioventù comunista. Nelle
riunioni che si tenevano nel mio ufficio si era già fatto notare da me per il modo reciso, secco, aspro
con cui esprimeva la sua opinione. Credo che talvolta formulasse anche critiche che mi toccavano
da vicino, ma non gli volevo male per questo. Lo stimavo appunto per la sua franchezza e per la sua
essenziale onestà. Molte volte lo invitai a casa insieme con un altro giovane ingegnere, suo
inseparabile amico, Fiodorof, che aveva però un carattere del tutto opposto: timido e gentile.
* * *
La rieducazione dei bies-prisornik non è che un caso particolare dell'opera di rieducazione che si
faceva in Russia dei criminali comuni.
Alla base del sistema repressivo sovietico era la concezione che essi non fossero dei reietti da
punire, ma piuttosto dei disgraziati che la società aveva il dovere di rieducare al più presto possibile,
ricuperandoli come membri utili della comunità, e perciò venivano trattati con umanità ed aiutati in
tutti i modi a riabilitarsi. Il massimo della prigionia era di dieci anni e mentre essa durava si cercava
di interessare i condannati ai problemi della vita sovietica mediante il cinema ed il teatro. Si
giungeva al punto da conceder loro, come a tutti gli altri operai, un giorno di vacanza ogni
settimana. Venivano impiegati a lavorare in grandi imprese, come, ad esempio, la costruzione del
canale da Leningrado al Mar Bianco e quello da Mosca al Volga, sotto la direzione della G.P.U., la
temutissima organizzazione di polizia politica, che in Russia aveva compiti così vasti e variati.
Molti di quei condannati, liberati alla fine dai lavori e decorati per le benemerenze acquistate,
finirono col conseguire posizioni importanti nella vita sovietica, fornendo con il loro esempio la
prova che l'assetto sociale, allo stesso modo come può formare dei delinquenti, può anche redimerli.
Una specie di mostra, direi così, dei brillanti risultati ottenuti nella rieducazione dei criminali era
offerta da Bòlcevo, una località vicino a Mosca, sorta per iniziativa di Massimo Gorki. Bòlcevo era
una piccola città fondata da ex criminali, ladri ed assassini. Si dirigevano da loro stessi. Avevano
delle officine modello, un circolo, una biblioteca. Si istruivano, facevano dello sport. Nel loro
aspetto esteriore, nel linguaggio, nei modi, nella mentalità nessuna traccia della burrascosa vita
passata.
Nicevò
NICEVÒ è una parola russa che ha molti significati. Domandate ad un amico come sta, ed egli vi
risponde: « Nicevò!» (non c'è male). Gli chiedete che cosa ha fatto, e vi risponde: « Nicevò»: non
ha fatto nulla. Infine vi è un nicevò detto con tono particolare di voce, quasi un po' cantando,
accompagnato talvolta da significative contrazioni del volto o da un lieve scuotere del capo, che
significa press'a poco: «Non importa ». Ma l'equivalente esatto si trova nell'espressione napoletana:
« Non te ne incaricare», cioè non darvi importanza, passaci sopra, non vale la pena di pensarci.
Tutto il temperamento russo è nel nicevò adoperato secondo l'ultimo dei tre significati, un
temperamento che prende filosoficamente il mondo come viene. Esso è agli antipodi di quello
tedesco, che prende tutto sul serio; e, forse, questa è la ragione per cui fra i tedeschi che dimoravano
a Mosca ed i russi non correva buon sangue,mentre invece vi era gran simpatia di questi verso gli
italiani. Ma bisogna dire che di tutti gli stranieri che si trovavano in Russia i tedeschi erano, senza
dubbio, i più brontoloni ed intolleranti.
La disposizione a prendere le cose della vita così come vengono, senza un'eccessiva reazione, è una
virtù che i russi hanno in comune con i napoletani; ma comuni a questi due popoli sono anche taluni
difetti, ad esempio, la mancanza di precisione e di puntualità, che, a dir il vero, però, nei secondi
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non è così esagerata come nei primi.La concezione che i russi hanno del tempo è assai larga. Se
invitate un russo a pranzo per mezzogiorno, è probabile che giunga alle due. Se vi promette di fare
una data cosa « siciàs », cioè subito, potete ragionevolmente aspettarvi che non la farà prima di
domani o dopo domani ; ma se vi dice « domani» siate sicuro che vi toccherà aspettare alcuni
giorni. Non dico, poi, quanti mesi passeranno prima che compia una cosa che abbia promesso di
fare entro una settimana !La spiegazione che mi son data di questa mancanza di puntualità è che il
temperamento artistico dei russi mal si adatta alle pedanterie di una precisione e di una puntualità di
tipo tedesco.La stessa pittoresca imprecisione si nota nel modo di parlare. Infatti per dar calore di
veridicità a ciò che dice, il russo sente il bisogno di aggiungere: « cestniislova», parola d'onore. Se
non rafforza le sue affermazioni con tale intercalare, avete tutto il diritto di dubitare dell'esattezza di
ciò che vi dice.Quando si pensi che da un popolo siffatto, noncurante della puntualità non inclinato
alla precisione, i bolscevichi hanno ottenuto il più grande sforzo di costruzione che la storia
moderna ricordi, ci si rende conto delle enormi difficoltà che han dovuto superare e della
grandiosità del successo riportato.
* * *
Queste qualità del temperamento russo pure, nonostante tutto, cosi simpatico ed attraente —
valgono, forse, a spiegare lo spirito di tolleranza di cui tanto spesso quel popolo dà prova, e di cui si
hanno le manifestazioni più inaspettate.
Una volta mia figlia, trovandosi con me a Mosca, si fece portare da un operaio italiano, che si era
recato a Roma a passarvi le vacanze, dei dischi da grammofono. Fra gli altri capitò anche quello di
« Giovinezza », forse a caso, forse perchè il ritmo di quella vecchia canzone goliardica piaceva a
mia figlia. E, a dir il vero, piaceva anche a me, nonostante le melense parole che vi erano state
aggiunte per farne un inno fascista. E piacque, come ora si vedrà, anche ai russi. Al confine, alla
stazione di Niegorolje, i doganieri sovietici, trovati i dischi nel bagaglio del viaggiatore italiano, ne
vollero, come era prescritto, controllare il contenuto facendoli suonare su un grammofono. Quando
fu la volta di « Giovinezza» l'operaio, seduto in un angolo, stava con l'animo sospeso ad attendere
che cosa avrebbero (letto i doganieri, e già si immaginava, il poveretto, di venir arrestato come un
pericoloso propagandista fascista. Ma non avvenne nulla di tutto questo. Agli agenti sovietici la
canzone piacque, e vollero risentirla. Poi presero a cantarla in coro.
E piacque anche ai miei amici di Mosca, che, comunisti o non comunisti, qualche volta prendevano
in prestito quel disco, insieme ad altri di canzoni napoletane, per farlo sentire agli amici, e che,
appena giungevano in casa mia a passarvi la serata, chiedevano a gran voce che venisse messo sul
grammofono « Giovinezza», senza darsi alcun pensiero della G.P.U., la famosa polizia politica che,
pure, era là a due passi di distanza, proprio di fronte alla mia abitazione. Nella Germania nazista un
fatto analogo avrebbe dato luogo ad una tragedia. In Russia la gente ci si divertiva.
Ma l'esempio più clamoroso di tolleranza russa era, in quel tempo, la libertà che si concedeva a
Pavlow di dire tutto il male che gli piacesse del regime sovietico, senza che ad alcuno venisse in
mente di dargli per questo fastidio.
A Pavlow, fisiologo di fama mondiale, il Governo Sovietico aveva dato tutti i mezzi da lui richiesti
per condurre le sue esperienze di biologia. Fra l'altro aveva fatto costruire secondo le sue
indicazioni un grande istituto nei dintorni di Leningrado, l'Istituto di genetica psicologica.
Pavlow, ad ottanta anni, era rimasto attaccato alle tradizioni del tempo zarista. Andava regolarmente
in chiesa, e non aveva voluto saperne di chiamare al modo nuovo i giorni della settimana. Ma
questo era nulla: il peggio era che si permetteva di insolentire pubblicamente contro il regime
sovietico. Alla presenza stessa dei suoi assistenti comunisti derideva il materialismo dialettico e
affermava, senza che alcuno lo contraddicesse, che fino a quel momento il nuovo regime non aveva
conseguito alcun risultato degno di menzione.Che importanza potevano mai avere gli sfoghi
antibolscevichi di Pavlow, quando egli col suo lavoro continuava a far crescere all'estero il prestigio
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dell'Unione Sovietica ?
Di questo spirito di tolleranza si avevano in Russia questa e cento altre manifestazioni. Io stesso ne
ho ricordate talune nel corso di questo libro. Il contrasto con lo spirito settario, ancora oggi così
vivo perfino in uno dei paesi più liberali e progrediti del mondo, è sconcertante. E' proprio di questi
giorni l'assurdo divieto fatto dalla associazione Daughters of American Revolution ad Hazel Scott,
una pianista famosa negli Stati Uniti, di adoperare per un concerto la « Constitution Hall » di
Washington.
Ragione del diniego: Hazel Scott é una negra !
Segretari ed interpreti
In Russia ogni capo aveva una segretaria o un segretario. Era, dunque, giusto l'avessi anch'io. Però,
a differenza di ciò che sarebbe avvenuto altrove, la segretaria non me la sceglievo da me. Ci
pensava la direzione della Flotta Aerea Civile a trovarmene una. A dirla chiaramente, la mia
segretaria, o segretario che fosse, non era una persona di fiducia mia, ma delle autorità sovietiche
politiche, della G.P.U. forse, cui credo avesse l'obbligo di riferire sulla mia attività e sul mio modo
di pensare. Devo dire che, benchè avessi il sospetto di ciò, anzi la certezza, non me ne meravigliavo,
e tanto meno me ne dolevo. Trovavo assolutamente naturale che, avendo affidato a me un incarico
importante in una posizione esecutiva che mi metteva alla testa di un'organizzazione sovietica
tecnica (posizione che, ritengo, non era stata mai data ad altri specialisti stranieri prima di me), le
autorità sovietiche volessero in qualche modo assicurarsi che mi comportassi nei loro riguardi con
quella lealtà che era doverosa. Non bisogna dimenticare che provenivo da un paese fascista, e che
molti, non conoscendomi intimamente, potevano anche dubitare dei miei sentimenti di simpatia
verso il paese che mi ospitava.
Sta però il fatto che bastava il contatto con me di qualche mese perchè un nuovo segretario mi si
affezionasse e diventasse devoto. La mia condotta era così aperta e la mia simpatia verso la Russia
così evidente, che ben presto essi si accorgevano non esservi nulla di spiacevole da riferire sul mio
conto, e mi diventavano amici.
Cambiai segretario tre volte.
La mia prima segretaria fu Maria Andréievna, una piccola signora anziana dai capelli grigi, che da
giovane aveva fatto l'attrice con Stanislavski. Le piaceva ricordare con me quei suoi bei tempi. Mi
diceva che aveva appreso a parlare l'italiano per meglio recitare talune parti affidatele. Raccontava
che Stanislavski era molto severo con i suoi attori. Esigeva che recitassero alla perfezione. Era così
meticoloso, che una volta, mentre la sua compagnia si trovava a Berlino, dovendo affidare a Maria
Andreievna una parte di ragazzo, l'obbligò a vestirsi da tale ed a girare per Berlino durante un mese
intero, acciòcchè acquistasse meglio i modi del personaggio che doveva rappresentare.
Maria Andreievna era una cattolica fervente, che frequentava regolarmente la chiesa. Fu proprio
essa ad indicarmi, come ho narrato altrove, dove si trovassero le chiese cattoliche a Mosca. Restò
con me circa un anno. Venne licenziata nell'estate del 1933.
La nuova segretaria entrò in funzione, quando il mio ufficio si trovava al secondo piano della
galleria della Petrovka: una ragazza dai capelli rossicci, graziosa, svelta, intelligentissima. Si
chiamava Mèla. Parlava il francese perfettamente, ma sapeva anche d'inglese, essendo stata per
qualche mese in America con una missione sovietica.
Mèla mostrò subito di essere una segretaria di primo ordine. Quando mi faceva da interprete nei
colloqui con i capi della Dirigiablestroi o con gli ingegneri sovietici miei dipendenti, era di una
sveltezza ed una rapidità sorprendente. Come già ho detto, essa traduceva fedelmente, periodo per
periodo, senza che per questo fosse necessario fare una sosta. Restò con me circa due anni. Alla fine
di questo periodo mi domandò se acconsentivo a lasciarla libera per recarsi a lavorare presso
l'Ambasciata degli Stati Uniti, di recente istituita a Mosca. Dagli americani essa avrebbe ricevuto un
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salario mensile di settantacinque dollari, ed in quel tempo poter disporre di valuta straniera era un
gran vantaggio; potendosi con essa acquistare nei magazzini del Torgsin molte cose che non si
trovavano nei magazzini ordinari.
Andata via Mèla, restai per qualche tempo senza segretario. Potendo ora esprimermi alla men
peggio in lingua russa, un segretario non era più così indispensabile come nei primi tempi, ma
qualcuno che traducesse i miei rapporti era pur necessario, e perciò alla fine chiesi che Mèla fosse
sostituita. Questa volta fu un uomo : Frcek. Matunin, l'ingegnere comunista mio samistitiel, venne a
presentarmelo, dicendomi che, dopo avergli parlato, gli riferissi se mi convenisse o pur no. Era un
giovane cecoslovacco, che parlava correntemente il francese, piccolo, biondo, con gli occhi azzurri
un po' sporgenti. La prima impressione fu sfavorevole, perchè mentre parlava non mi guardava in
faccia. Non mi trattenni dal dirlo a Matunin, che non replicò; ma qualche giorno dopo mi pregò di
ricevere nuovamente il giovane cecoslovacco. Frcek tornò, e questa volta mentre mi parlava stette a
guardarmi ben fisso in volto, sicchè non ebbi più ragione di insistere nel rifiuto. Fu assunto come
mio segretario.
Le prime conversazioni che ebbe con me furono, come mi aspettavo, di carattere, dirò così,
indagatore. Cominciò col raccontarmi di una sua zia, proprietaria una volta di terre in Crimea, che
naturalmente aveva perdute con la rivoluzione. Da questa passò ad altre cose e finalmente finì
coll'insinuare che in Russia non tutto andava bene. Fu l'unico tentativo fatto dal buon Frcek nella
parte di agente provocatore. Era molto intelligente. Si accorse subito che in Russia stavo per
lavorare, e non già per impicciarmi delle cose sovietiche e criticarle, e che, comunque, avevo troppa
simpatia per quel paese, perché non vedessi il bene assai più facilmente che il male. Presto Frcek mi
divenne devotissimo; credo anche che mi si affezionasse, cosi come io mi affezionai a lui. Era un
lavoratore coscienzioso ed infaticabile. Imparò in poco tempo a parlare e leggere l'italiano tanto
bene da poter tradurre in russo un mio libro. Quando lasciai Mosca, egli era alla stazione insieme
con una sua sorella a salutarmi. Conservo di lui il ricordo più grato.
* * *
Di segretari ne ebbi tre soltanto, ma di interpreti, uomini e donne, a bizzeffe, specialmente nei primi
tempi.
La prima interprete, quella che mi accompagnò fin dal 1931 nei miei giri a Mosca e Leningrado, fu
Ester Josefovna, una ebrea, figlia di ricchi mercanti siberiani: una donna di mezza età, assai piccola
di statura, con un gran naso aquilino e due occhietti neri vivaci, che facevano agli angoli mille
piccole grinze. Parlava l'italiano a questo modo: « Lei, vedete, fa freddo e tutti i russi, anche i
poveri, portano il cappotto e voi no. Questo è proprio un guaio. Per piacere, Lei dovete scrivere a
vostra moglie che sto molto male a casa vostra, per via del mangiare e del cappotto e del cappello ».
Ed ancora:
«Quando andrete in Italia, dite alla sua signora che io son tanto amica degli italiani; che se lei verrà
qui, si troverà benissimo. Vi sono tanti curòs (case dì cura), specialmente nel Caucaso. In un anno
certamente guarirà !».
Come si vede, Ester Josefovna aveva ricevuto l'incarico di occuparsi del mio benessere materiale, e
certo essa faceva del suo meglio per rendermi facile e confortevole il soggiorno nell' U.R.S.S. Fu
essa a curare l'arredamento del mio appartamento alla Mjasnitzkaja: mobili antichi, tappeti orientali,
stoviglie fini, e tutto ciò che si poteva avere di meglio a Mosca.
Aveva una particolarità: quella di cambiare continuamente alloggio. Da principio, nel 1931, quando
aveva con sè una sua figliuoletta di tredici anni, abitava una camera tutta per sè, per la quale pagava
soltanto tre rubli al mese. Ma, essendo rimasta sola, dopo che la figlia era partita per raggiungere
alcuni parenti in Argentina, Ester Josefovna passò ad abitare con una coppia di amici, marito e
moglie, pagando per la metà di una camera quaranta rubli. Non restò a lungo in quell'alloggio, e se
ne andò ad abitare insieme con una sua amica, alla quale pagava, per la metà di una camera, venti
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rubli al mese. Quando vi si fu installata mi disse: « Ora posso anche invitarvi a pranzo. Cucinerò i
maccheroni ed anche un pollo ». Le risposi che era meglio lasciare il pollo vivo e fargli mangiare i
maccheroni insieme con noi ; ma non mi diede retta.
* * *
In Russia le lingue che più si studiavano erano il tedesco e l'inglese. Il francese, tanto in voga al
tempo degli zar, specialmente nell'aristocrazia, era ormai quasi caduto in disuso. Tuttavia fra i miei
interpreti ebbi due ragazze che lo parlavano correttamente. L'una era Margherita Miragova, una
bella armena dagli occhi neri ed i capelli ricciuti, di carattere chiuso, riservatissimo. Negli ultimi
anni si ammalò di petto, e dovette essere ricoverata in un sanatorio. L'altra fu Nina, una ragazza
bionda di Mosca, che dopo pochi mesi si licenziò per andare a frequentare una scuola di teatro.
Riuscì così bene che l'anno successivo già recitava con una compagnia di giovani russi in un teatro
di Mosca.
Ma il più caratteristico dei miei interpreti fu Vankowski, un bel signore dalla figura imponente, la
barba a pizzo. Parlava l'italiano.
« Dove l'avete imparato ?» domandai.
« In Italia », rispose. «Vi ho viaggiato per circa due anni. Sono stato a Venezia, a Firenze, a Roma,
a Napoli ».
« Per affari ? ».
« No, per piacere ».
« Eravate, dunque, ricco ? ».
« Sì, ero ricco ».
A questo punto della conversazione non seppi trattenermi dal fare una do-manda indiscreta :
« Avete, dunque, perduta la vostra ricchezza con la rivoluzione. Ve ne rammaricate ? ».
Fino a quel momento il volto di Vankowski era stato serio e grave. Ma a quella domanda inaspettata
si illuminò di un largo, raggiante sorriso.
« No, disse, non ho perduto nulla. I miei amici sì, perdettero tutto e se ne dolsero. Ma io,
fortunatamente, quando scoppiò la rivoluzione, mi ero già mangiato i miei averi. Non avevo più
nulla da perdere ».
Questo Vankowski era un tipo veramente originale e simpatico. Lo invitai una sera a casa insieme
ad una quarantina di altre persone che lavoravano con me, in occasione del compleanno di mia
figlia, Venne, indossando un abito nero a coda, residuo dei tempi in cui aveva dissipato così
felicemente il suo patrimonio. Il contrasto con gli abiti dimessi di tutti gli altri, me compreso, era
stridente. Ma egli non se ne mostrò per niente imbarazzato, nè il suo abito fu oggetto di motteggi da
parte dei giovani ingegneri intervenuti alla piccola festa familiare, come certamente sarebbe
avvenuto da noi.
Un processo a Mosca
No. Non si tratta di uno di quei terribili processi davanti al Tribunale Supremo Sovietico, con
conseguenze da far accapponare la pelle. Questo di cui mi accingo a parlare fu un processo innanzi
a un tribunale ordinario, ed il processato fui proprio io. Me la cavai, si vede, a buon mercato, se
posso oggi parlarne. Ecco come andarono le cose.
Abitavo nel centro di Mosca in un angolo della gran piazza della Lubianca, all'estremità della
Miasnitzkaia, una lunga tortuosa strada fra le più affollate di Mosca, che, più tardi, dopo l'uccisione
di Kirov, fu chiamata Ulitza Kírova.
Per quella strada passava, allora, il tram che poi, qualche anno dopo, venne soppresso, quando al
ciottolato fu sostituito l'asfalto. E qui dirò tra parentesi che l'asfaltatura dell'intera strada, lunga più
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di due chilometri, fu compiuta in soli tre o quattro giorni : cose che avvenivano in Russia, dove si
stava dei mesi, degli anni talvolta, prima di decidersi a fare un lavoro, e poi, all'improvviso, lo si
eseguiva con una rapidità sbalorditiva.
Dunque, vi era, allora, il tram nella Miasnitzkaia, ed una fermata si trovava proprio davanti al
cancello di casa mia, sicchè spesso il passaggio era ingombrato da gruppi di persone che stavano ad
aspettare per montarvi.
Un giorno uscivo dal cortile, conducendo una « Fiat» che avevo portata dall'Italia con l'idea di
guadagnar tempo nei viaggi che frequentemente dovevo fare per recarmi da Mosca a
Dolgabrudnaia, che era il posto dove si costruivano le nostre officine. Idea sbagliata perchè quella
benedetta vettura mi causò una serie innumerevole di noie e di piccole peripezie, che mi fecero
perdere una quantità di tempo, e che sarebbe spassoso raccontare.
Al mio lato, nella vettura, sedeva uno dei miei collaboratori italiani: Nicola de Martino, che poi fece
da testimone al processo.
Uscivo adagio dal cortile e mi ero quasi fermato poco oltre il cancello, quando, facendosi strada fra
le persone che stavano lì ferme in attesa del tram, passò correndo un taxi. L'urto fu inevitabile. La
mia vettura, investita sul davanti, ebbe il paraurti tutto contorto. Cosa spiacevole perchè la vettura
era nuova, ma non mi parve valesse la pena di perdere tempo a reclamare la riparazione del danno
dalla cooperativa cui apparteneva il taxì ; e perciò, senza curarmi di altro, riportai la vettura nel
cortile per distaccare il para-urti e riprendere la strada.
Ma è proprio vero che chi si fa pecora il lupo se lo mangia. Questa volta il lupo si presentò sotto le
spoglie del conducente del taxì: un pezzo di giovane, alto, robusto, le spalle tarchiate. Costui, visto
che non reclamavo, pensò di reclamar lui. Mi si avvicinò, mentre con De Martino staccavo il para-
urti, e mi disse con calma qualche cosa che non capii, perchè allora niente sapevo della lingua russa.
Tuttavia non esitai a rispondergli con altrettanta calma, in lingua italiana, che la colpa invece era
tutta sua. Avremmo continuato per un pezzo il nostro dialogo, senza che l'uno capisse che cosa
diceva l'altro, se, terminato il lavoro, non mi fossi deciso a stringermi nelle spalle e risalire sulla
vettura per riprendere la marcia interrotta.
Ma il mio interlocutore non approvò la mia saggia risoluzione. Seppi, dopo, che protestava per
alcuni graffi riportati dal suo taxi nell'urto. Manifestò la sua opposizione, piantandosi con le gambe
allargate, davanti alla vettura con l'intenzione evidente di non farmi proseguire. Non gli diedi retta e
continuai ad avanzare, facendogli cenno di scostarsi. Si scostò, infatti, ma lo fece solo per andare a
chiudere il cancello. Dovette probabilmente pensare « Questo bursgiui sembra deciso a passare
sopra il mio corpo, ma sul cancello non passerà di certo ».
Il gesto dell'ostinato uomo mi fece perdere la calma olimpica che fin allora avevo conservato.
Ridiscesi dalla vettura, e senza star lì a pensarci due volte, nè tenendo conto dell'evidente
sproporzione fra i miei muscoli e quelli del mio avversario, lo afferrai per le larghe spalle, e con una
certa violenza — non posso negarlo — lo spinsi fuori nella strada, riaprendo il cancello. Sorpreso
dalla rapidità della mia azione, l'omone non oppose alcuna resistenza, il che mi permise di
riprendere il mio posto nella vettura ed andarmene con De Martino per i fatti miei.
Questo incidente mi era uscito affatto di mente, quando alcuni giorni dopo si presentò nel mio
ufficio una guardia con un foglio che mi intimava di presentarmi il tal giorno, alla tal ora, davanti al
tal tribunale, in via tal dei tali, per rispondere del reato di maltrattamenti inflitti ad un cittadino
sovietico. Era il conducente del taxì che si era querelato. Uomo pacifico, avrebbe potuto, volendo,
mettere in moto i suoi pugni, quando io l'avevo afferrato per le spalle, e non so come me la sarei
cavata se l'avesse fatto, ma, fortunatamente per me, aveva preferito ricorrere alla legge per punire la
mia violenza.
Andai al tribunale accompagnato da De Martino e da una signorina che parlava l'inglese. Questa
doveva fare da interprete.
Nell'aula non grande, vi erano alcune file di banchi come in una scuola. Nel fondo, alla sinistra di
chi entrava, un tavolo con tre sedie.
Non vi era nessuno, salvo l'uomo che mi aveva fatto citare. Appena mi vide entrare, s'alzò da
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sedere, e mi venne incontro tutto sorridente a stringermi la mano. Un atto di cavalleria che allora
non apprezzai come si meritava. A me parve che costui avesse una bella faccia tosta a venirmi a
fare dei complimenti dopo avermi rotto il para-urti e causata per giunta la seccatura di quel
processo. Risposi al suo largo e cordiale sorriso con un sorrisetto un po' acidulo. Dopo di che ci
mettemmo a sedere tutti e quattro: io, il querelante, il testimone e l'interprete; ed aspettammo che
comparissero i giudici.
Questi comparvero all'ora stabilita: erano tre, un giudice di professione, che presiedeva, e due
operai che funzionavano da giudici assistenti. Sentirono il querelante, poi me ed infine il testimone:
l'interprete traduceva le nostre dichiarazioni, la mia direttamente, quella di De Martino attraverso la
mia traduzione in inglese. Ma, ahimè, ci accorgemmo che per ogni dieci parole da noi pronunziate
la signorina ne diceva per lo meno cento. Era evidente che, con l'intenzione di giovare alla mia
causa andava colorendo ed abbellendo le nostre deposizioni; ma il risultato fu ben diverso da quello
che essa si riprometteva.
Finiti gli interrogatori, i tre giudici si ritirarono nella camera adiacente. Alcuni minuti dopo
rientrarono a leggere la sentenza. Il giudizio fu quanto mai saggio, anzi direi salomonico addirittura.
Ambedue avevamo torto, avendo ambedue messo in pericolo l'incolumità pubblica. Conclusione:
eravamo condannati io a cento rubli di ammenda, il mio avversario a due mesi di lavori forzati.
Lavoro forzato significava che il condannato sarebbe stato tenuto a fare un certo ammontare di
lavoro il cui salario sarebbe andato a beneficio dell'erario dello Stato. Il giudice presidente,
rivolgendosi a me, aggiunse che avevo quaranta giorni per appellarmi, se volevo, contro la sentenza.
Al mio avversario il diritto di appello non era concesso, la qual cosa mi sembrò giustissima.
Lasciai il tribunale piuttosto mortificato. Non già che mi desse gran pena l'idea di dover pagare
quell'ammenda di cento rubli, che in verità allora non valevano più di trenta o quaranta lire, ma era
questione di giustizia. Ero convinto di aver ragione, e mi meravigliavo che i giudici non se ne
fossero accorti anche loro. Colpa della loquacità dell'interprete ? Può darsi.
Tornato in ufficio dissi alla mia segretaria di prendere nota del termine di tempo per l'appello.
Quando fummo al quarantesimo giorno essa mi avvertì che il termine stava per scadere.
Questa volta, francamente, ero deciso a fare a meno di qualsiasi interprete. Pensai che la miglior
cosa fosse di scrivere un chiaro e succinto rapporto sull'incidente, corredandolo di un certo numero
di schizzi. Poi che l'ebbi preparato, ne feci fare la traduzione in russo. Questa volta non era proprio
possibile essere frainteso.
« Devo andare alla Corte oggi stesso ? ». « Non occorre andare di persona », mi rispose Leteisen,
che era in quel tempo il mio sostituto; « basterà mandare questa dichiarazione a mezzo della
segretaria ».
Due ore dopo la segretaria tornò tutta soddisfatta, ad informarmi che la Corte aveva accolto il mio
appello ed aveva cancellato la sentenza, assolvendomi.
Cosi mi fu risparmiata la vergogna di avere la fedina penale macchiata di una condanna riportata
nell'Unione Sovietica.
Morale ?
Ebbene, una morale, forse, c'è ed è questa: che la giustizia in Russia era molto sbrigativa: niente
formalità superflue, niente discussioni prolisse ed oziose, niente perditempi, niente avvocati ed alla
fine, a giudicare dal mio caso, sembrava facesse giustizia sul serio.
Avvocati a Mosca ve ne erano, senza dubbio, ma bisognava andare a consultarli nei loro studi se si
aveva bisogno di un parere. Ma, grazie a Dio, non venivano ad ingarbugliare le cause davanti ai
giudici.
Gli scacchi in Russia
ALL'ETÀ di nove anni già giocavo a scacchi, e questo basta a spiegare la mia passione per il nobile
gioco. Fin da allora giungevo, perfino, a trascurare il pranzo per terminare una partita iniziata.
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Continuai così fino agli anni di liceo e di università; ma più tardi, preso dalle cose della vita, non
ebbi più tempo da dedicare agli scacchi, e giocai assai raramente. Ripresi in pieno, con la passione
di una volta, molti anni dopo, in Russia.
Non è che in Russia avessi meno da fare che in Italia e potessi perciò dedicare molte ore di tempo
agli scacchi. No, la ragione era un'altra. In Russia si respira, direi, un'atmosfera scacchistica alla
quale è difficile sottrarsi. Si gioca a scacchi dovunque, e giocano a scacchi tutti, uomini, donne,
vecchi, ragazzi. In un'atmosfera simile era ben difficile che non rispuntasse la vecchia passione, e
infatti ripresi a giocare con ardore. Del resto, per chi vive solo, in terra straniera, la compagnia più
facile a procurarsi ed anche la più innocua, è quella di uno scacchista. Potete passare molte ore con
il vostro compagno anche se non capite un'acca della sua lingua, nè lui della vostra.
Le prime partite le giocai fra i ghiacci della Terra Francesco Giuseppe, nel 1931, a bordo del
Malighin. Fra i russi che partecipavano a quella spedizione artica vi erano molti bravi giocatori, ma
il più valente di tutti era Romm, un giornalista che in altri tempi aveva fatto l'istruttore di ginnastica,
un pezzo di uomo, alto, robusto, che era stato in Italia e parlava un po' la nostra lingua. Ma che il
gioco degli scacchi non solo tenesse un posto di onore fra i passatempi dei giovani sovietici, ma
fosse popolarissimo e diffuso dovunque, me ne accorsi solo più tardi, quando, qualche mese dopo,
tornai in Russia per rimanervi alcuni anni.
A Mosca si giocava in pubblico non solo al Parco di Cultura e Riposo, dove un apposito grande
recinto era riservato agli scacchi, ma spesso anche in posti dove uno meno se lo sarebbe aspettato.
Un giorno, entrato in una rimessa di automobili pubbliche, vi trovai due conducenti assorti in una
partita a scacchi. Aspettai che la partita terminasse prima di pregarli di accompagnarmi. In treno, fra
Mosca ed il piccolo villaggio di Dolgabrudnaja dove sorgevano le nostre officine, mi capitava
spesso vedere alcuni dei giovani ingegneri da me dipendenti estrarre dalle tasche una minuscola
scacchiera e mettersi a giocare: la scacchiera era di quelle che nel centro di ogni casa portano un
foro per conficcarvi i pezzi, affinchè essi non cadano nel movimento del veicolo. Una volta mi
accadde perfino veder giocare nella sala di aspetto di un cinematografo del centro di Mosca !
Quando vi entrai, la sala era gremita di pubblico che aspettava l'inizio del nuovo spettacolo, perchè
in Russia anche al cinema i posti son numerati. Lungo le pareti della sala eran disposti dei tavoli
dove si giocava a scacchi. Trovato un compagno, mi misi a giocare anch'io, ma, poco dopo, il
segnale che lo spettacolo s'iniziava venne ad interrompere la partita. La partita mi interessava, ma
mi interessava anche il film, che era uno di quelli dove i Russi, con il grande talento artistico che li
distingue, danno la prova che si può fare dell'arte anche quando si fa propaganda politica, come ad
esempio: « Il foglio della vita », « La corazzata Potemkin », « Le tre canzoni di Lenin ».
La sera, al termine del lavoro, nelle officine e negli uffici della Dirigiablestroi si giocava a scacchi.
Frequenti erano i tornei, frequenti anche le sfide fra i giocatori di un'azienda e quelli di un'altra. Una
volta fui prescelto anche io, con altri cinque, a rappresentare la Dirigiablestroi in un match che
doveva aver luogo fra essa ed un'altra organizzazione aeronautica. I fatti provarono che non
meritavo l'onore della scelta. E' vero che il mio avversario aveva giocato più debolmente di me, e
che le cose eran procedute bene sin quasi alla fine, ma fu proprio allora che, ritenendomi certo della
vittoria, rallentai l'attenzione e commisi degli errori. Perdetti.
* * *
Non so se l'enorme popolarità del gioco degli scacchi in Russia si debba spiegare come effetto di
una speciale inclinazione che i Russi abbiano per esso, o piuttosto come risultato degli sforzi fatti
dal partito comunista per diffonderlo. Forse è vera l'una cosa e l'altra. Il gioco degli scacchi doveva
essere abbastanza conosciuto in Russia anche al tempo degli zar; ma è certo che la sua diffusione fu
voluta da Lenin, che doveva, io ritengo, esser convinto che la pratica di questo gioco influisca
favorevolmente sulla formazione del carattere della gioventù. Il fatto è che il governo centrale
sovietico prendeva un interesse veramente grande a tutte le manifestazioni scacchistiche.
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Nel 1935 si tenne a Mosca un torneo internazionale con l'intervento di molti celebrati maestri.
Ricordo fra gli altri Capablanca, Lasker e Flor. I giocatori russi eran tutti giovanissimi. Alla testa di
essi era Botvinik, un ingegnere di Leningrado di appena venti anni, che riuscì secondo nel torneo
dopo Capablanca, allora campione del mondo.
Il torneo ebbe luogo nelle sale di un palazzo del centro di Mosca, dove di solito si tenevano grandi
manifestazioni culturali o politiche. Si giocava nel grande salone centrale, che all'uopo era stato
diviso in due parti: una per i giocatori, l'altra per il pubblico. Appena un giocatore aveva fatta la sua
mossa, un uomo appositamente incaricato andava a ripeterla su una delle grandi scacchiere attaccate
alla parete, in modo che anche il più lontano spettatore poteva, standosene comodamente seduto,
seguire le varie partite. Il torneo durò molti giorni, e tutti i giorni il salone era gremito di una folla
attenta e silenziosa. Mi par di ricordare che per entrare si pagasse una piccola tassa.
Emozionanti furono le ultime partite. Botvinik nella classifica seguiva molto da vicino Capablanca,
e forti erano le speranze dei russi che egli riuscisse a prendere il primo posto od almeno a
pareggiare. A Capablanca non restava da giocare che una sola partita, precisamente con Botvinik.
Questi invece doveva terminarne anche un'altra con un russo. Di questa partita, sospesa in una
situazione tale da far ritenere più che probabile una patta, era stata rimandata la continuazione a
dopo che fosse terminata la partita Botvinik-Capablanca. Questa circostanza diede occasione ad
alcuni maligni di insinuare che la partita fra i russi fosse stata sospesa di proposito, affinchè, nel
caso che Botvinik fosse riuscito a vincere Capablanca, l'altro russo potesse giocare in modo da far
guadagnare la partita a Botvinik, assicurando così ai Russi il primo posto nel torneo Ma la partita
fra Capablanca ed il campione russo riuscì patta, e quindi non vi fu l'occasione di accertare se la
maligna insinuazione avesse fondamento oppur no. Ma è probabile che l'avesse.
Certa cosa è che il governo sovietico seguiva con estremo interessamento l'andamento del torneo.
Tanto è vero che i risultati di ciascuna partita gli venivano immediatamente comunicati per
telefono.
* * *
A Mosca in tutti i circoli si giocava a scacchi e si tenevano tornei. A stimolare l'emulazione fra i
giocatori molto serviva il sistema della classificazione. I giocatori eran divisi in sette categorie, e
norme precise regolavano il passaggio da una categoria all'altra. Al di sopra della prima categoria vi
erano i « maestri» e più sopra ancora i « grandi maestri». Ad ogni giocatore veniva rilasciata una
tessera con l'indicazione della categoria cui apparteneva.
Nel 1935 venne aperto a Mosca un elegante circolo scacchistico di cui divenni socio. Non solo vi si
giocava, ma vi si discuteva e vi si tenevano conferenze serali su questioni teoriche.
L'ambiente era messo con molto decoro, quasi, direi, con lusso. Vi era anche un bar dove si poteva
prendere l'immancabile dai con panini spalmati di caviale e burro. La segretaria del circolo era una
giovane signora, forte giocatrice.
* * *
Il ricordo degli scacchi in Russia è legato nella mia memoria particolarmente a quello di tre giovani
con i quali ebbi consuetudine di giocare: Borìs Miliukóff, che avevo avuto occasione di conoscere a
Leningrado nella sua qualità di meteorologo dell'Aeronautica Civile, l'ingegnere Gamber e Michail
Ivanovic.
Miliukoff era un giovane di vasta cultura, che parlava molto bene il francese. Uno spilungone
magro, bruno, con i capelli lunghi, spioventi. Non aveva altri parenti che la madre, una vecchia
gentile signora, che parlava molte lingue, ed anche un po' l'italiano, essendo stata in Italia da
giovane. Madre e figlio si amavano molto e vivevano insieme in un piccolo appartamento posto a
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pianterreno, in fondo al cortile di una vecchia casa presso l'Arbat. Miliukoff era appassionato di
libri, e ne comprava sempre. Conosceva uno per uno tutti i buchinisti di Mosca e di Leningrado. Fu
proprio lui che mi fece prendere l'abitudine di passare molte ore dei miei giorni di vacanza visitando
le librerie antiquarie, ed a Mosca, di tali librerie, ve ne erano molte. Miliukoff era riuscito a
formarsi con i suoi risparmi una considerevole biblioteca di libri antichi e moderni, taluni di
edizione assai pregiata o rara. Le due camerette dove egli viveva con la madre ne erano piene
zeppe. Gli alti scaffali che correvano attorno alle pareti ne rigurgitavano, e non vi era angolo che
non ne fosse ingombro. Mi diceva di averne seimila, ma forse eran più.
Miliukoff soleva di tanto in tanto venire a casa mia a giocare a scacchi. Era un forte giocatore, assai
più abile di me. L'ultima volta che venne mi disse che il giorno dopo sarebbe partito per Leningrado
per tenervi una conferenza. Lo pregai di ricercarmi presso i buchinisti di quella città alcuni libri che
non ero riuscito a trovare a Mosca, ed egli promise di tarlo; ma era destinato che non lo vedessi mai
più. Scomparve per sempre.
Aveva detto che si sarebbe trattenuto a Leningrado quattro o cinque giorni; ma un mese trascorse
senza che sentissi più di lui. Finalmente, un giorno, venne la madre da me. La povera signora era in
grande agitazione; mi disse di non sapere nulla di preciso del figliolo. Solo, le era giunta una lettera
con cui una sua amica l'avvertiva che il figliolo era stato arrestato a Leningrado insieme con altri
meteorologhi.
Molte dicerie si sparsero tra i conoscenti a spiegare questo arresto, talune anche assai strane. Si
accennò tra l'altro a un preteso sabotaggio che quei meteorologhi avrebbero fatto, dando
intenzionalmente notizie errate sul tempo che avrebbero provocato dei danni ad un piroscato sulla
Neva. L'indole apparentemente leale di Boris Miliukoff, il suo carattere mite e gentile, non mi
fecero prestar fede a tali dicerie. Più tardi, quando la vecchia signora venne a vedermi, mi parve di
comprendere dai suoi discorsi che il motivo vero dell'arresto fosse da mettere in relazione con la
frequenza assidua del giovane in casa di una signora moscovita, dove pare si cospirasse contro il
regime sovietico. Comunque stessero le cose, fatto è che egli venne condannato a cinque anni di
lavori forzati.
Passarono mesi senza che avessi altre notizie. Poi un giorno mamma Miliukoff ricomparve. Questa
volta aveva un volto sereno. Era stata a visitare il figliolo nel posto dove era detenuto, una colonia
di condannati adibiti ai lavori di costruzione del canale del Volga. « Sta proprio bene, mi diceva la
signora; si è perfino ingrassato. Non porta più i capelli lunghi come una volta; ma non importa. E
non dovete pensare che faccia lavori materiali. Oh, no. Tiene dei corsi agli altri detenuti ».
Rividi spesso la signora Miliukoff. Talvolta andavo io a casa sua a prendere notizie. Più spesso
veniva essa da me. La poverina, rassegnata, continuava a vivere in mezzo ai libri del figliolo
custodendoli amorosamente in attesa del suo ritorno. L'ultima volta che mi vide mi annunziò, tutta
contenta, che presto il figlio sarebbe stato liberato.
Un giorno, impensierito dal fatto che da molto tempo non si faceva più vedere, mandai Amabile a
chiedere notizie. Quando ella bussò alla porta in fondo al cortile, le fu aperto da una donna
sconosciuta.
« La signora Miliukoff? ».
La signora Miliukoff non c'era più. Era morta senza aver potuto vedere il figlio.
I libri erano stati presi in consegna dalla polizia.
Un anno dopo ebbi notizie anche del figliolo. Pare che si fosse ammalato di petto. Era morto poco
dopo la madre.
* * *
Dell'altro mio compagno di scacchi, l'ingegnere Gamber, il ricordo è assai meno triste. Gamber era
un bel giovane elegante, molto intelligente. Nato nei paesi baltici aveva vissuto per alcuni anni a
Varsavia ed a Parigi. Narrandomi del suo soggiorno in questa ultima città, si compiaceva parlarmi
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delle partite da lui giocate al « Cafe de la Régence ».
Sapevo che viveva solo in un piccolo, nitido appartamento di un quartiere nuovo di Mosca. Perciò
restai meravigliato quando un giorno mi accennò ad un suo bambino che viveva lontano da lui. « E
dove è vostra moglie?» domandai. Gamber rimase un momento silenzioso, poi disse: « Vedete,
Umberto Vikientievic, qui in Russia abbiamo distrutta la vecchia morale ma ad essa non ne
abbiamo ancora sostituita un'altra ». Nè aggiunse altro. Più tardi seppi da amici comuni che la
moglie l'aveva abbandonato e se ne era partita col bambino. Casi simili avvenivano allora assai
frequentemente in Russia e non era da meravigliarsene. Le cose cambiarono più tardi.
Del resto l'ingegnere Gamber non rimase a lungo solo. Un bel giorno comparve a casa mia con una
bella, giovane signora siberiana: la sua nuova moglie.
* * *
Nei miei ricordi di Russia il tipo più divertente di scacchista che ebbi a conoscere fu un giovane
scrittore: Michaíl Ivanovic. Di lui non ho mai saputo il nome di famiglia.
Michail Ivanovic mi era stato presentato dal mio segretario Frcek. Era un tipo veramente originale.
Romantico, direi. Come giocatore di scacchi valeva anche meno di me e per giunta era di una
lentezza esasperante. Ma, a parte gli scacchi, la sua compagnia era interessante e piacevole. Soleva
venire da me di sera senza preavvisarmi, e si tratteneva fino all'ora dell'ultima corsa della
metropolitana, che andava a prendere sulla piazza della Lubianca presso la mia casa. Una sera
comparve all'improvviso all'ora di cena. Terminata questa, ci mettemmo a giocare, e seguitammo
per tutta la serata. Michail Ivanovic questa volta non si curava affatto di guardare l'orologio per
vedere se fosse giunta l'ora di andarsene, e la mezzanotte passò senza che mostrasse di
accorgersene. Gli domandai come avrebbe fatto a tornare a casa. Mi rispose che sarebbe andato a
piedi e continuò a giocare. Si fecero così le quattro del mattino. Giunti ad una tale ora, non vi era
altro da fare che aggiustargli alla meglio un letto; ciò che feci. La mattina dopo, giorno di vacanza,
riprendemmo a giuocare. Una vera scorpacciata di scacchi da farne un'indigestione ! Ma nemmeno
la sera, quando già ormai la visita durava da venti quattro ore, il mio ospite accennava a volersene
andare.
Alle otto il telefono squillò. Dall'altro capo della linea una voce femminile domandava: « Scusate,
signor Nobile, Michail Ivanovic è da voi? ». Era la moglie del mio compagno di gioco, che, dopo
aver ricercato dovunque suo marito, rivolgendosi perfino alla polizia, finalmente si era ricordata di
me.
Qualche giorno dopo il mio segretario mi informò che la sera in cui Michail Ivanovic era venuto da
me, aveva litigato con la moglie. Pare che avesse preso l'abitudine di venirsene a casa mia a giocare
a scacchi tutte le volte che succedeva una simile cosa.
In un paese come l'Unione Sovietica, dove il gioco degli scacchi aveva un'importanza così grande
da destare l'interessamento del governo, non può far meraviglia che vi fosse perfino chi ne avesse
fatto oggetto di poesia. Conobbi uno di questi poeti. Era una signora della vecchia aristocrazia: una
contessa o qualche cosa di simile, che, beninteso, non faceva sfoggio alcuno di tal titolo, anzi
cercava di far dimenticare di averlo un giorno posseduto.
Questa signora viveva di poesia scacchistica nel senso che da essa traeva i mezzi materiali per
vivere. Pubblicava i suoi poemi nei giornali, che glieli pagavano. Quanto non so dire, ma è certo
che glieli pagavano, il che prova che trovavano dei lettori.
La signora venne a casa da me e mi concesse l'onore di fare una partita, che ad un certo punto, a sua
richiesta, per ragioni di cavalleria, acconsentii a dichiarare patta. Manifestandole io la mia
meraviglia che gli scacchi potessero ispirare della poesia, ella a sua volta si meravigliò della mia
meraviglia. Mi parlò degli scacchi nella letteratura. Tra l'altro appresi che anche Leone Tolstoi era
stato un appassionato, benchè mediocre giocatore di scacchi.
Nell'Unione Sovietica le relazioni degli scacchi con le belle arti non si limitavano alla poesia. Nel
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Parco di Cultura e di Riposo, il bellissimo parco di Mosca, assistetti una volta ad una partita
veramente singolare dove ogni pezzo era rappresentato da una donna o da un uomo, ciascuno in
appropriati costumi. Lo spettacolo era per me veramente nuovo e piacevole. I due giocatori, dall'alto
di due palchi, dirigevano le mosse di questi scacchi viventi. I movimenti venivano accompagnati da
suoni e danze eseguite dal pezzo mosso. Così si vedeva, ad esempio, una pedina fare, a suon di
musica, una danza nella sua casa prima di passare in un'altra, nella quale si arrestava dopo aver fatto
un altro giro di ballo.
Un pezzo che ne prendeva un altro accompagnava naturalmente la presa con canti di vittoria.
Il leone ed il ladro
NON è il titolo di una favola di Esopo, ma di un fatto realmente avvenuto a Mosca.
In Russia non ho mai visto maltrattare un cavallo (non parlo di asini perchè di asini non ve ne sono)
od altri animali. Gli isvoscik non erano nemmeno provvisti di frusta. Anche gli uccelli erano lasciati
in pace dai fanciulli. Ma che l'amore per le bestie potesse spingersi al punto da tenersi in casa un
giovane leone, questo non l'avrei creduto. Eppure il caso si diede a Mosca proprio al tempo mio. Ne
parlarono i giornali.
La padrona del leone era una giovane donna impiegata allo Zoo, dove probabilmente occupava una
posizione importante, a giudicare dal fatto che le avevano permesso di portarsi a casa uno dei
leoncini, che aveva essa stessa allevato, ed al quale si era particolarmente affezionata.
Il leoncino col tempo era cresciuto. Non era più uno di quei cuccioloni, dal pelo morbido e fine, che
fa tanto piacere prendere fra le braccia, quando si va a visitare un giardino zoologico, ma un vero e
proprio leone che la signora portava a spasso al guinzaglio per le vie di Mosca, e lasciava libero di
girare dall'una all'altra camera del piccolo appartamento che occupava insieme con suo marito.
Ora, un giorno in cui marito e moglie si trovavano fuori casa per le loro faccende, un ladro penetrò
nell'appartamento con l'intenzione di rubarvi. Il poveretto non poteva certo pensare che avrebbe
trovato in casa un leone; si immagini, perciò, il suo spavento nel vedersi venire incontro la belva.
Fu precisamente a questo punto che il ladro scoprì di possedere una agilità da scoiattolo. In un
attimo si trovò, tremante di paura, sull'alto di un armadio che, fortunatamente per lui, si trovava
nell'ingresso della casa. Ai piedi dell'armadio si mise di guardia il leone, risoluto a non lasciarsi
sfuggire il ladro, se per caso si fosse deciso a discendere.
Furono ore di attesa ansiosa, durante le quali il malcapitato non dovette, io penso, cessare un attimo
dall'invocare il Cielo, perchè facesse tornare subito a casa gli inquilini dell'appartamento che era
venuto a svaligiare. Egli non sapeva che un leone, per prendere lo slancio per un salto, ha bisogno
di un certo spazio, che nell'angusto ingresso di quella casa mancava. Se l'avesse saputo, è probabile
che si sarebbe alquanto rincorato.
Alla fine i padroni di casa sopraggiunsero e lo sfortunato ladro, finalmente liberato, potette
discendere dall'armadio ed andarsene per i fatti suoi.
Ebbi la curiosità di conoscere il leone e la sua padrona e stavo sul punto di far loro visita, quando
venni avvertito che era troppo tardi: le autorità sovietiche, saggiamente giudicando che tenere un
leone in casa costituisce un pericolo eccessivo per i ladri, avevano ordinato di riportarlo al giardino
zoologico.
* * *
Come si chiamasse quell'antico direttore di circo equestre al quale il Governo sovietico concedeva
di tenere a casa molte delle sue bestie, non ricordo più, ma era uno assai famoso. Andai a visitarlo
con mia figlia.
Aveva fra l'altro, nella corte della casa, un elefante, ai piedi del quale giaceva accovacciato un
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grosso cane da pastore.
Il direttore del circo mi disse: « Sono molto amici, elefante e cane. Stanno sempre insieme. Provi un
po' a maltrattare il cane e vedrà come l'elefante si infuria ». E me ne diede la prova, fingendo di
voler percuotere il cane con un bastone. L'elefante cominciò ad agitarsi, muovendo furiosamente la
proboscide ed alzando ora l'una ora l'altra delle sue massiccie zampe. Alla fine, per non vederlo
infuriato sul serio, dovemmo smettere di molestare il suo amico.
Le file a Mosca
Le file in Russia, ai magazzini, ai botteghini dei teatri, alle edicole dei giornali, agli sportelli delle
stazioni ferroviarie, alle porte dei musei, al mausoleo di Lenin, erano una delle cose che più mi
impressionavano nei primi tempi che ero a Mosca.
In pieno centro della città, al principio di Kusnictzki-most, dov'era una agenzia di viaggi, si vedeva
nel 1931, ed ancora nel 1932, una fila lunghissima di persone che aspettavano per acquistare i
biglietti ferroviari. In quel tempo un enorme numero di persone viaggiava in Russia, spostandosi da
una città all'altra. Le stazioni ferroviarie erano gremite di viaggiatori di ogni razza, di ogni
nazionalità.
Caratteristiche erano le file ai teatri. I teatri in Russia erano affollatissimi, sempre. Per comprare un
biglietto bisognava a volte andarsi a mettere in fila davanti al botteghino del teatro una settimana
prima dello spettacolo. L'ho fatto io stesso tante volte, ma Ester Josefovna mi aveva detto: « Voi
non avete bisogno di stare in fila; siete straniero; la gente vi lascerà passare avanti». Ed infatti mi
lasciavano passare, non senza però aver bonariamente brontolato.
Ci fu un tempo in cui il .petrolio a Mosca era assai scarso. Una sera, passando per l'Arbat, vidi
ferma davanti ad un negozio una fila di persone, ma il negozio era chiuso. Domandai che facesse
quella gente a quell'ora. Mi dissero che avrebbe passata la notte all'aperto per poter la mattina
seguente comprare il petrolio. Non vi sono che i Russi a esser così pazienti.
Uun giornalista americano, che incontrai a Mosca, raccontava che, essendosi messo una volta in
viaggio, si era procurato una raccomandazione della G.P.U. che lo dispensava dal far la fila nelle
stazioni per acquistare i biglietti di viaggio. Recatosi un giorno, per tale bisogna, alla stazione di
Odessa, o non so quale altra città, venne da un agente della ferrovia, al quale aveva mostrato la
lettera della G.P.U., diretto ad uno sportello davanti al quale sostava una lunga fila di persone.
Avvalendosi del diritto che gli dava la dichiarazione, fece l'atto di passare davanti agli altri; ma
questi protestarono: « Perchè volete passare avanti ? ». « Ne ho il diritto », rispose il giornalista
mostrando la lettera.
« Ma l'abbiamo anche noi una dichiarazione simile », fu la risposta.
Era la fila di quelli che avevano il diritto di non fare la fila !
Ma le file col passar degli anni si andarono diradando, ed in certi periodi scomparvero del tutto,
specialmente davanti ai negozi alimentari.
Dovevo rivederle in Italia, alcuni anni dopo, durante la nostra infelicissima guerra.
* * *
In fatto di file il colmo occorse in casa nostra stessa a Mosca, e si crederebbe ad uno scherzo se non
aggiungessi che al fatterello che sto per raccontare erano presenti mia figlia Maria ed Amabile, una
nostra familiare.
Avevamo in casa tre gattini. Nessuna meraviglia di ciò, perchè mia figlia soleva raccogliere per
istrada tutti i micini che credeva abbandonati.
Orbene un giorno, mentre stavo lavorando, sentii grandi esclamazioni provenire dalla camera
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attigua, che era quella d'ingresso della casa. E mia figlia che chiamava: « Papà, vieni a vedere ».
Accorsi.
Nell'angolo, dove era un cestino pieno di segatura, si vedevano ì tre micini : l'uno di essi nel centro
del cestino nell'atto di soddisfare ad un suo bisogno fisiologico e gli altri due ad aspettare in fila il
loro turno !
Storia di un vagone di burro e di un cesto di mele
Da qualche giorno ero a letto ammalato d'influenza, e proprio quella mattina avevo chiesto un
medico per farmi visitare.
L'indisposizione non era così grave da impedirmi di lavorare, e profittavo perciò del riposo cui ero
obbligato per terminare i calcoli, piuttosto laboriosi, di uno studio che avevo allora per le mani. Mi
aiutava nella bisogna un giovane italiano a nome Roberto, disegnatore del Constructor Biurò della
Dirigiablestroi.
Nàstia (una delle mie donne di servizio) entrò ad avvertirmi che alla porta vi era un uomo che
voleva visitarmi. Pensai che fosse il medico. « Lasciatelo passare», dissi. Si presentò un individuo
alto, magro, vestito abbastanza bene. Mi salutò con effusione: « Sdrastuitie, Umberto Vikientievic.
Kak vi sgiviote ?» (Salute, Umberto di Vincenzo, come state ?).
Sorpreso da tanta cordialità, lo guardai. « Vi doctor ? », (Siete il medico ?) domandai.
L'individuo parve lievemente offeso dalla mia domanda. Prontamente rispose: « Ja, doctor ? Niet. Ja
professor ». (Io dottore ? no; son professore).
Non replicai. Capii che non si trattava del medico che aspettavo. Ma chi mai era costui che si
rivolgeva a me come se fossimo vecchie conoscenze ? Cercavo di ricordare dove e quando l'avessi
conosciuto; ma non riuscivo ad identificare l'individuo.
In casi come questi si è sempre un po' imbarazzati. Come si fa a domandare « Chi siete?» ad uno
che vi saluta così cordialmente come se fosse un vostro amico ? Decisi di aspettare. Il mistero forse
si sarebbe chiarito nel seguito della conversazione.
« Umberto Vikientievic », riprese l'individuo, « giungo dalla Crimea e mi reco a Leningrado. Non
ho voluto, passando per Mosca, mancare di venire a salutarvi. Vi ho portato in regalo un cesto di
mele. Mele grandi così ». E con i pollici e gli indici delle due lunghe mani, riuniti a formare un
cerchio, me ne indicava la grandezza.
Vidi uno spiraglio di luce : Leningrado... professore... Costui probabilmente era qualcuno che avevo
conosciuto in casa del professor Samoilovic a Leningrado; dove mi ero recato qualche tempo
addietro. Feci un tentativo:
« Conoscete a Leningrado il professor Samoilovic ? ».
« Samoilovic ? » fece lo sconosciuto «Kak I Ja scevu v' tomsge samom domie » (E .come ! vivo
nella stessa sua casa).
Mi cominciai a sentire un po' più a mio agio. Era, dunque un professore amico di Samoilovic. Ora
potevo proseguire nella conversazione con minor incertezza. Cominciavo ad orientarmi.
Ma avevo un dubbio da chiarire.
« E come avete fatto a trovare il mio indirizzo ? », domandai.
« Semplicissimo », rispose l'interpellato. « Vi è un chiosco d'informazioni qui vicino, alla
Mjasnitzkaja. Ho domandato di voi, e mi han detto subito dove abitavate ».
Questo chiosco d'informazioni esisteva veramente, ma fino ad allora non ne avevo saputo nulla.
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La conversazione proseguì : senza entusiasmo da parte mia, perchè avevo fretta di tornare al mio
lavoro, mentre l'individuo, da parte sua, non mostrava alcuna fretta di andarsene.
«Umberto Vikientievic », riprese, «vengo, come vi ho detto, dalla Crimea. Sono stato incaricato di
scortare un vagone di burro a Leningrado, destinato ad esser esportato in Finlandia ».
Sostò un attimo. Poi, come colto da una improvvisa idea:
« Ma, Umberto Vikientievic, certo voi avete bisogno di burro. Ne volete ?
Posso darvene quanto ne volete ed a buon prezzo. Sono proprio felice di potervi esser utile. So bene
quanto sia difficile procurarsene qui a Mosca ».
Infatti, in quei tempi il burro era assai scarso. Se ne trovava a comprare soltanto al Torgsin; però
bisognava pagare in valuta straniera.
Ma di quelle faccende domestiche io non mi interessavo affatto; perciò accolsi l'offerta dello
sconosciuto con una certa freddezza.
Chi invece si entusiasmò fu Roberto, il mio giovane collaboratore, che già, al solo sentir parlare di
vagoni di burro, aveva sgranato tanto di occhi. Ora, all'offerta del professore mi tirò per un braccio.
« Accetti », mi disse sottovoce. «Ne prenderò anche io per casa».
« Bene », dissi all'individuo, « datemene allora due chili ».
« Due chili ? e che ve ne fate di così poco ? Ma prendetene di più, caro Umberto Vikientievic. Vi
prego, non fate complimenti. Dite liberamente. Quanto ve ne occorre ? ».
Così dicendo, cacciava fuori della tasca un taccuino ed un lapis, e se ne stava lì col lapis per aria
aspettando che dicessi una cifra decente.
Finalmente raddoppiai la richiesta precedente. Allora il professore decise lui per me. « No, è troppo
poco. Faremo tredici chili, va bene?» e fece il conto dell'importo.
Concluso, con grande soddisfazione di Roberto, l'affare, bisognava ora vedere se in casa vi fosse
abbastanza denaro per pagare. Chiamai Nastia per domandarle quanti rubli avesse. A sentir tale
richiesta il mio visitatore mi interruppe. « Ma, Umberto Vikientievic, non occorre pagare subito. Lo
farete con vostro comodo. Anzi se vi occorre del denaro, ve ne posso dare io ». E così dicendo
metteva fuori di tasca il portafogli, e taceva finta di metter mano al denaro.
Come si vede, la mia mente era talmente ottenebrata dai troppi calcoli di quella mattina, che lì per lì
non tui nemmeno colpito dalla strana prodigalità di questo sconosciuto che veniva ad offrirmi mele,
burro e perfino danaro !
Ringraziai, rifiutando cortesemente l'offerta.
« Allora », concluse l'individuo, accomiatandosi, « dite alla vostra domestica di accompagnarmi
all'albergo. Le consegnerò il cesto delle mele ed il burro ».
E si avviò all'uscita insieme con Nastia. Riprendemmo i calcoli.
Dopo mezz'ora Nastia tornò indietro infuriata.
« Sapete che ha fatto quell'uomo ? Per la strada mi ha domandato quanto danaro avevo portato con
me. Gli ho risposto che non ne avevo portato affatto. Allora, giunto all'angolo della strada, mi ha
detto: "Aspettatemi qui. Vado a prendere le mele ed il burro, e ve lo porto subito,,. Ho aspettato
finora, ma non è venuto ».
Così avvenne che il tentativo di truffa del simpatico lestofante andasse a vuoto. Ma a dir la verità, la
sola ragione per cui esso non riuscì fu che realmente danaro in casa quel giorno non ve ne era.
LETTERE DALLA RUSSIA
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Quale testimonianza viva ed immediata delle impressioni riportate sulla vita sovietica, mi è parso
interessante raccogliere qui alcuni brani di lettere da me scritte a casa dalla Russia, lasciandoli nella
forma originaria. Altri brani sono tolti da lettere di mia figlia Maria,- altri da lettere di una nostra
familiare, a nome Amabile.
Notti bianche
Leningrado, r4 luglio 1931. — Queste notti bianche di Leningrado, ora che il tempo è sereno, sono
di una grande bellezza.
Vado spesso la sera tardi a passeggiare lungo la Neva, dove sono quei bei palazzi costruiti da
architetti italiani. In quel punto il fiume è molto largo ed assume un andamento maestoso. Dalla
quiete della notte scende nell'animo una grande serenità.
Leningrado, 22 agosto 1932. — Qui l'estate è finita, e la campagna ingiallisce. A Mosca il caldo
non si sente più; e a Leningrado fa freddo, tanto che sono pentito di non aver portato un cappotto
pesante.
Oggi sono stato a Gkcina. La campagna, pure un po' triste per il giallo del grano, è sempre assai
bella. Vorrei proprio che tu vedessi.
Autunno
Mosca, 21 ottobre 123 2. — Il tempo cattivo non ci impedisce di andar fuori di Mosca, lontano, nei
giorni di vacanza. La campagna è così bella qui, anche ora che l'autunno ha ingiallito molti alberi.
Non sono colori vivi, ma vi è tanta armonia di luci, ed il verde cupo dei pini fa risaltare il giallo oro
degli alberi che il freddo ha intristito.
Mosca d'inverno
Dolgaprudnaja, 3 dicembre 1934. — Qui il freddo è venuto. Ieri erano venti gradi sotto zero.
Dolgaprudnaja, tutta coperta di neve, si è come per incanto trasformata da quella sudicia
pozzanghera che era in un accampamento pittoresco, tutto candido di neve. L'ultimo giorno di
vacanza siamo andati con Amabile ed i cani fino al laghetto. Il cielo era tutto azzurro, ed i boschi
avevano una colorazione straordinaria fra blu, rosa e bianco. Una cosa magnifica, che si può vedere
soltanto in questi paesi nordici, quando fa freddo e l'aria è limpida ed il cielo sereno.
Mosca, 14 dicembre 1933 (da Amabile). -- Come son belle le nostre finestre I Tutti i giorni il
ghiaccio disegna dei fiori sui vetri, e quelli di una camera sono diversi da quelli dell'altra. Oggi, ad
esempio, i vetri della stanza da pranzo sembrano di damasco, con tante foglie grandi messe alla
stessa distanza l'una dall'altra. Nessun pittore le potrebbe fare così. Nello studio tutte stelline e
ramoscelli di stelline. Se Lei, signora, potesse vedere, che bellezza!
Mosca, I gennaio 1936. — Quest'anno in Russia il capodanno è stata festa grande. Il giorno di
vacanza del 3o dicembre è stato soppresso, e si è ufficialmente riconosciuto come giorno di festa il
primo dell'anno. Questo è stato un bene, perchè gli altri anni la gente festeggiava ugualmente
l'arrivo del nuovo anno, ed avendo passato tutta la notte in bagordi, la mattina dopo in ufficio non si
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reggeva in piedi dal sonno. Ora invece tutto è in regola. La notte scorsa si è mangiato, bevuto e
danzato fino alle quattro o cinque di mattina, e quest'oggi i miei ingegneri possono tranquillamente
rimanersene a casa a dormire.
Abbiamo un tempo stranissimo quest'inverno: il più caldo che abbia osservato qui. La temperatura
non è mai scesa al disotto di una dozzina di gradi, mentre l'anno scorso a novembre già avevamo
trenta gradi. Qualche settimana fa vi fu una grande nevicata: non avevo mai visto tanta neve nelle
strade di Mosca, ed era uno spettacolo molto piacevole. Ma stamattina, all'improvviso, la
temperatura si è elevata tanto che si è messo a piovere, e tutta la neve si è disciolta.
Mosca, 4 gennaio 1932. — D'inverno, le finestre a doppie vetrate vengono all'interno chiuse
ermeticamente e suggellate con mastice, salvo una piccola portella, in alto, anche essa a doppi vetri,
che serve a ricambiare l'aria. La neve si accumula avanti, sui davanzali, ed il gelo forma sui vetri
disegni ad arabeschi, assai belli.
Mi piace la notte fermarmi in istrada a contemplare gli uomini che lavorano a spazzar via il grosso
della neve, affinchè non si accumuli eccessivamente. L'ammonticchiano qua e là, e dopo la
squagliano in una specie di forno a carbone. Più bello ancora quando, per liberare i binari del tram,
vi accendono sopra un bel fuoco di legna. La bella fiamma rossa sullo sfondo della neve, nelle
strade tutte bianche e nel freddo pungente della notte, è una cosa gradevolissima. Ieri sera sarei
rimasto ore ed ore a guardare.
Mosca, 21 gennaio 1932. — La mattina in cui arrivai, durante il viaggio dal confine russo a Mosca,
mentre ero nella mia cabina intento a leggere, sentii canticchiare un'aria che somigliava vagamente
a « O' sole mio ». Credetti di aver frainteso, e seguitai a leggere. Ma, dopo alcuni minuti, ecco
affacciarsi alla porta del compartimento un giovanotto bruno, che dopo avermi salutato mi disse di
essere portoghese. « Ma », aggiunse, «il mio cuore è italiano, perchè vi è tanto sole in Italia». Capii
che si era messo a canticchiare per richiamare la mia attenzione, e non essendoci riuscito, si era
fatto coraggio e si era presentato alla porta del mio compartimento.
Il bravo giovane non aveva torto a pensare al sole. Qui da molti giorni non lo si vede più. Peggio
ancora, fa caldo (zero gradi) e la neve è tutta disciolta, sicchè le strade sono ricoperte da una
fanghiglia nerastra.
Mosca, 26 gennaio 1932. — Il tempo è sempre cattivo. La temperatura è attorno allo zero, ma fa
umido, e sembra che faccia freddo. Stasera il cielo pareva volesse rasserenarsi, e sulla grande piazza
Sverdlov volteggiavano in alto stormi immensi di uccelli. Erano migliaia.
Mosca, 2 febbraio 1932. — Continua il freddo e con il freddo la neve. Ormai tutte le strade sono
bianche, e miriadi di aghi di ghiaccio brillano sotto la luce delle lampade elettriche. Così Mosca è
vera mente bella.
Mosca, 3 febbraio 1932. — ... stamattina, quando mi son levato, il sole inondava di luce le strade
avanti alle finestre, e faceva allegria nelle mie camere. Mi sono sentito sollevato. Il cattivo umore
dei giorni scorsi è scomparso d'incanto. Fa freddo: diciotto gradi sotto zero.
Mosca, 3 febbraio 1932. — Alcune settimane di pieno inverno qui a Mosca sarebbero divertenti
anche per te. Gli isvoscik imbacuccati nelle loro pelliccie, con le slitte trainate da questi buoni e
massicci cavalli, le strade ghiacciate, la neve accumulata qua e là, l'aria frizzante, tutto questo è
molto piacevole. Nei tram i vetri sono tutti ricoperti di ghiaccio, fino come polvere, prodotto dalla
condensazione del vapor d'acqua emesso con la respirazione delle persone, sicchè non si riesce a
veder fuori.
A proposito di cavalli, ieri per istrada, mentre parlavo con Ester Josefovna di animali, le osservavo
che gli asini sono molto intelligenti. Essa mi guardò tutta meravigliata (qui asini non se ne vedono),
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e mi disse: «Ma allora perchè li chiamano asini ? ». Risposi che sempre gli uomini chiamano asini
quelli che sono buoni.
Mosca, 6 febbraio 1932. — Il freddo aumenta sempre più. Questa notte alle due era di ventisette
gradi sotto zero.
Stamattina di diciannove gradi. Ma è molto piacevole. Naturalmente ho dovuto mettere un abito
pesante; ma finchè non tira vento non si sente la mancanza di una pelliccia. 11 cappotto è più che
sufficiente.
Oggi si vede perfino un po' di sole. Ma se vedessi che specie di sole ! Si potrebbe anche farne a
meno. Mi diceva stamani Leteisen che vi è un proverbio russo che dice: il sole d'inverno riscalda
male, così come una matrigna riscalda male il figliastro.
Dolgaprudnaja, 9 febbraio 1936. — Oggi il cielo era sereno. L'aria limpidissima e fredda. Nel
pomeriggio siamo andati a sciare. Di lontano i campi di neve apparivano lievemente tinti di azzurro.
Nel cielo strisce di verde...
Mosca, 12 febbraio 1933— Qui nevica che è una bellezza da molti giorni, ma non fa freddo. La
neve è tanta che è difficile giungere con l'automobile fino a Dolgaprudnaja. Ieri fui obbligato ad
abbandonarla presso il lago, e continuare a piedi. Poi sopraggiunse una slitta, sulla quale montai, e
Titina con me. Marianna restò a piedi, ma, seccata, correva avanti al cavallo, abbaiandogli per farlo
fermare.
Il prof. Kaniceff sta bene; soltanto ha una mano un po' bruciacchiata. Ha insistito molto per farmi
conoscere uno scultore che da tempo desiderava fare il mio busto. Alla fine l'ho accontentato, ed
oggi sono andato nel suo studio. Come puoi immaginare, esso non è così grande e luminoso come
quello del nostro Hendrik a Roma (*). In compenso, però vi sono cose divertenti. Ogni tanto il
pavimento, che è di catrame, si screpola, ed attraverso il pezzo che si stacca viene fuori un fungo. E
sono Lunghi buoni a mangiare ! Avresti mai pensato che un fungo potesse riuscire a rompere un
pavimento solido, spesso due o tre centimetri ? Eppure l'ho visto con i miei occhi questa mattina.
Mosca, 21 febbraio 1933. — Di tanto in tanto compare un bel cielo azzurro ed il sole, ed allora è
una festa, specialmente se ci si trova in campagna. Dovresti vedere questi bei boschi inargentati, su
un piano uguale di neve indorata dal sole, che bellezza che sono.
(*) Lo scultore americano Hendrik Cristian Andersen, di origine norvegese, uno dei precursori
dell'idea di unificazione del mondo, che dedicò la sua vita ed i suoi averi ad un nobile progetto per
la fondazione di un centro di coltura mondiale, A World centre, come egli lo chiamò.
Bambini russi
Mosca, 21 gennaio 1932. --- Ieri sera visitai una piccola famiglia russa: marito, moglie e due
bambini, uno di sette anni,l'altro di nove o dieci. I bambini erano nella stanza attigua, già a letto, ma
quando han saputo che io ero là, si son messi a far chiasso perchè volevano conoscermi. Aperta la
porta, il più piccolo, in maniche di camicia, mi è venuto attorno a sgambettare. Il secondo, magro ed
alto, con i capelli rossi, ha pregato la mamma di domandarmi « quale tipo di maschera contro i gas
asfissianti si adopera in Italia ». Sono rimasto a bocca aperta, e gli ho detto di non saperlo; chè anzi,
per quello che ne so io, non se ne adopera nessuna, perchè non ve ne è bisogno, grazie a Dio.
Allora, trionfante, è andato a prendere in qualche posto due maschere e me le ha mostrate. Come
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vedi, qui i ragazzi si occupano di cose molto serie...
Mosca, 24 gennaio 1932. — Ieri sera fui ad un concerto. Dopo, tornai in casa di quella piccola
famiglia russa dove ero già stato due sere prima: un ingegnere ebreo, la moglie russa e due bambini.
La signora, che la volta precedente era rimasta un po' mortificata per non aver avuto nulla da
offrirmi, aveva preparato il tè con biscotti, paste, marmellate, ecc. Sulla tavola la porcellana più fine
che aveva.
Nell'insieme una serata piacevole. Il ragazzo maggiore, di dieci anni, stava a guardarmi con grande
attenzione, e si faceva tradurre tutto ciò che andavo dicendo. Quando, in seguito alle esortazioni
della madre, si decise ad andare a letto, volle prima mostrarmi la sua stanzetta, cioè la piccola
porzione di stanza che egli chiamava la sua stanza. Le pareti erano tutte ricoperte di fogli, illustrati
con soldati e maschere contro i gas asfissianti.
Chiese
Mosca, i o agosto 1933 (da Maria). — Ti dirò subito perchè il giorno 3o non sono andata a messa.
La messa comincia alle undici ed un quarto, ma prima vi è la predica, la confessione, ecc., sicchè la
gente va in chiesa un'ora prima. Quando arrivo io, è già piena zeppa, e devo rimanere in piedi per
un'ora, in un'aria che spesso è irrespirabile. Dopo cinque minuti la testa mi comincia a girare e devo
uscir fuori.
Mosca, 11 agosto 1933 (da Amabile). Maria è rimasta molto addolorata a leggere il rimprovero che
Lei le ha fatto. Lei ha ragione a dire che non bisogna mancare ai propri doveri di cristiano, ma non è
stato per poltroneria se essa per due domeniche non è andata in chiesa. Una volta faceva un caldo
tremendo, ed approfittammo che era giorno di vacanza per il signore, per andare tutti insieme, di
buon mattino, a Nuova Gerusalemme, una chiesa bellissima, che ora è un museo. L'altra volta fu a
causa di un raffreddore che la tenne a letto.
« Deve anche tenere conto, cara Signora, che in quella chiesa, se non si va un paio di ore prima, non
si trova posto, e bisogna starsene in piedi. E col caldo che fa e gli odori che vi sono non è un piacere
».
Mosca, 17 agosto 1933 (da Maria). L'altro ieri, Madonna dell'Assunta, andammo in chiesa. Vi fu
anche la processione. Seguivano il Santissimo tante bambine vestite di bianco con un mantello
rosso ed un nastrino in testa pure rosso. Ognuna portava tra le mani un cuscinetto, e su questo o la
colonna sulla quale fu flagellato Gesù, o la corona di spine, o la croce, o i chiodi ed il martello.
Tutte queste cose erano di legno. Altre bambine gettavano continuamente fiori al Santissimo.
La chiesa era piena nonostante che fosse giorno di lavoro.
Teberdà, 2 settembre 1933 (da Maria). --- Qui di chiese non vi è nemmeno l'ombra. Tutti mi
guardano come una bestia rara, perchè porto una crocetta al collo.
Mosca, 26 ottobre 1933 (da Amabile). — Passando vicino ad una chiesa ortodossa vi sono entrata.
Era molto piccola, ma bella. Accanto ad un tavolino stava un prete, che pregava ad alta voce, anzi
cantava. Quattro o cinque donne gli stavano vicino, facendosi continuamente il segno della croce.
Qui i preti portano un lungo cappotto nero, con maniche molto larghe, che somigliano a quelle di un
kimono giapponese. I capelli sono assai lunghi e scendono giù per le spalle, ed hanno una gran
barba. Al collo portano una catena d'oro, con una gran croce anche d'oro.
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Teatri
Leningrado, 3 settembre 1931. — Sono a Leningrado da ieri mattina. Il piacere di tornarvi non è
stato così grande come avevo immaginato. Ormai mi sono abituato a Mosca, e desidero tornarvi
presto, anche per poter avere notizie tue.
Ieri fui all'inaugurazione del Congresso sismologico, e naturalmente vi incontrai la signora
Tolmaceff, la figliuola del vecchio Karpinski, il presidente dell'Accademia delle Scienze. Sempre
chiacchierona e piena di vita. Era felice di vedermi. Mi portò in giro proclamando a destra e sinistra
che ero il « suo ragazzo », che mi trovavo sotto la sua protezione materna, ecc., ecc.
Al Congresso sismologico ho trovato tedeschi e francesi, ma nemmeno un italiano: cosa strana,
trattandosi di vulcani e terremoti.
Ieri sera fui a teatro, all'Opera. Spesso vi ero stato invitato, ma ero talmente occupato che avevo
dovuto sempre rifiutare. Ieri sera mi decisi ad accettare e ne fui contento, perchè lo spettacolo era
veramente bello. Si rappresentava il « Principe Igor ». Artisti, orchestra, messa in scena, tutto era
eccellente, ed un pubblico di facce intelligenti. Qui l'Opera non è fatta solo per i ricchi: un operaio
ottiene uno dei migliori posti pagando un rublo o poco più. Noi ne abbiamo pagati sei.
Mosca, II novembre 1932 (da Maria). — E un po' di tempo che non andiamo a teatro, perchè verso
la fine di ottobre quando papà andò a comprare i biglietti, gli dissero che erano stati venduti tutti,
fino al 12 novembre, ed in tutti i teatri di Mosca!
Mosca, 14 novembre 1933 (da Maria).
..abbiamo un nuovo chauffeur; si chiama Sascia. E’ molto servizievole, ma anche un tipo curioso.
Spesso mangia a casa, e quando ha finito va da Amabile in cucina, e comincia : « Amabile,
pascaluista, daite mniè papirosu. Amabile, pasciàluista, daite mniè ciaiu ». (Amabile,per
piacere,datemi delle sigarette.Amabile, per piacere, datemi del tè). Non ci pensa su due volte
quando vuol chiedere qualche cosa.
... In questi giorni vado a teatro molto spesso. Sabato andai ad una rappresentazione di « Madame
Butterfly ». Mi piacque moltissimo. Ho già visto due volte il «Barbiere di Siviglia », una volta
«Faust », « Borls Godunof», e tante altre opere.
Cortei
Mosca, 9 novembre 1933. — Da ieri abbiamo neve e una temperatura di parecchi gradi sotto zero.
Della neve sono contento; essa cade giù tanto fitta da coprire tutte le immondizie che si sono andate
accumulando nel cortile. Per una casa che è proprio nel centro di Mosca, non si dovrebbe tollerare
un cortile così sudicio.
Vi sono stati tre giorni di festa, 6, 7 e 8, per celebrare l'anniversario della rivoluzione di ottobre. La
mattinata del 6, sino alle tre del pomeriggio, fui occupato in una conferenza tecnica, a prepararmi
alla quale avevo dovuto lavorare tutta la notte precedente fino alle cinque del mattino. Il giorno 7
trascorremmo quasi tutta la giornata in casa perchè circolare per le strade era difficilissimo. La
parata che in queste occasioni ha luogo sulla Piazza Rossa richiama sempre interminabili cortei di
persone. Senza esagerare,credo che per le strade vi fossero almeno due milioni di persone. Dalle
nostre finestre si vedeva passare il corteo: uno spettacolo unico al mondo. Abbondavano i cartelloni
con scritte, e poi grandi ritratti di Lenin, Stalin, Kaganovic ed altri capi. La gente era allegra, gaia,
soprattutto i giovani che approfittavano delle soste del corteo per mettersi a danzare.
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La sera in automobile siamo andati in giro a vedere le luminarie, ma queste non avevano nulla di
straordinario per uno che fin da fanciullo ne ha viste tante nel mezzogiorno d'Italia.
Mosca, 7 novembre 1933 (da Maria). Oggi gran festa: l'anniversario della rivoluzione. Nelle strade
fino alle sei di sera non si può nè camminare, nè andare in giro in automobile. Dalla finestra si
vedono passare migliaia e migliaia di persone, con bandiere, stendardi, ecc. Ognuno vuol avere
qualche cosa di rosso in mano, qualunque essa sia. Proprio in questo momento è passato un gruppo
di gente che portava dei palloncini rossi.
Mense collettive
Mosca, 22 maggio 1932. — Ieri sera tenni una conferenza alla Casa degli scienziati. Mi avevano
avvertito soltanto il giorno prima, e perciò non avevo avuto molto tempo per prepararla. Si protrasse
fino a dopo le undici. Come al solito fu servito il tè, con sandwiches di caviale e siòmga.
Questa degli scienziati è veramente una bella casa, con sale magnifiche, eleganti, tutte messe a
nuovo. Vi è anche una gran sala da pranzo, dove i soci possono avere un buon pasto per due rubli.
Mi sono iscritto anche io. La quota annua è di venticinque rubli.
Nastia si dà gran pena per prepararmi bene da mangiare, e se non fa meglio è perchè nessuno glielo
ha insegnato (prima lavorava in una fabbrica). Non è certo la roba che manca: nel magazzino vi è
tanto da comprare. Del resto per evitarmi il fastidio di portare da casa la colazione, finirò col
decidermi a prendere il pasto di mezzogiorno alla mensa comune degli operai ed ingegneri che è nel
cortile dell'ufficio. Ogni pasto costa appena sessanta copeki, cioè presso a poco la nona parte di
quello che è qui il salario medio giornaliero di un operaio. E vi è ancora chi si ostina a dire che qui
la vita è carissima !
Banchetti
Mosca, 20 ottobre 1932 (da Maria). — Ho trascorso molto piacevolmente il giorno del mio
compleanno. Papà da parecchio tempo desiderava invitare a casa gli ingegneri del suo ufficio, e così
ha scelto questa occasione per farli venire. Immagina che ne ha invitati trenta, ma, per maggior
consolazione di noi che dovevamo fare i preparativi per riceverli, ne sono venuti quaranta. Abbiamo
dovuto comprare posate e bicchieri, perchè quelli che erano in casa non potevano bastare. Per
fortuna costavano assai poco.
Ester Josefovna ha avuto da fare tutto il giorno per preparare da mangiare a tanta gente. Devi sapere
che in Russia, a una persona che inviti a prendere una tazza di tè (lo prendono dalla mattina alla
sera), si intende che darai un mezzo pranzo: prosciutto, salame, caviale, formaggio, storione,
aringhe, pasticcini, frutta e tè. Naturalmente tutta questa roba deve essere abbondantemente
innaffiata da vino e vodka.
Tutti i nostri invitati, appena arrivati, avevano un po' di soggezione, ma la voga e il vino la fecero
presto passare. Mentre si mangiava, ogni cinque minuti si alzava qualcuno a fare un brindisi. Credo
che ne abbiano fatto una cinquantina. Il più bello è che quando si è invitati a bere, bisogna farlo per
forza, altrimenti si offendono. Dopo il pranzo (si può ben chiamarlo così) cominciarono a cantare e
fare balletti russi molto divertenti. Poi presero papà e gli fecero fare « kacciat », cioè dieci o dodici
persone lo sollevarono sulle braccia e lo buttarono parecchie volte in alto (così in alto che papà
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toccava il lume sospeso al soffitto), gridando « urrah ». Toccò anche a me ed a Ester Josefovna, che
strillava come un'aquila. Anche De Martino ebbe la sua parte, ma da principio non riuscivano a
sollevarlo…
I russi sono molto allegri, soprattutto dopo aver bevuto vodka. Diedero fondo a tutte le nostre
provviste di vermut, rum, ecc. E così passammo allegramente la serata.
Mi dimenticavo di dirti che mi portarono un grandissimo mazzo di fiori, molto belli.
Mosca, 18 luglio 1933 (da Amabile). Ieri abbiamo preso parte, in Dolgaprudnaja, ad una piccola
festa tenuta dal personale della «Dirigiablestroi». Saranno stati in tutto una ottantina, fra ingegneri
ed impiegati. Il pranzo non finiva mai. Prima caviale e burro, poi prosciutto, pesce, insalata russa
(ma qui la chiamano insalata italiana 1); poi ancora pesce con balsamella. E, quando sembrava che
fosse finito, si è cominciato da capo con brodo, carne di maiale, dolci, biscotti e fragole. A tavola vi
erano moltissime bottiglie di vino, ma presto furono vuotate. Alle undici ed un quarto si pose
termine al pranzo, perchè era l'ora del treno che doveva ricondurci a Mosca. La strada per giungere
alla stazione era così infangata che bisognava farsi aiutare per camminare. Io ero accompagnata da
un generale così brillo che non si reggeva bene in piedi. Parlava alquanto tedesco, e lungo la strada
non fece che cantare e ridere, e faceva ridere anche gli altri.
Mosca, 3 O luglio 1933. — Giorno di vacanza oggi, ed è tornato il sole, dopo due o tre giornate di
pioggia, quasi fredde. Abbiamo perciò deciso di passare la giornata fuori, in campagna. Amabile,
fin dal mattino presto, ha preparato da mangiare; ma Maria fa la poltrona a letto, ed Elisabetta ed il
marito saranno pronti solo fra un'ora e mezzo. Ho quindi il tempo di scriverti.
Amabile mi ha detto di averti già raccontato della festa a Dolgaprudnaja, ma certamente avrà
omesso alcuni particolari, ad esempio che anch'essa bevve. In sostanza trascorremmo la serata
molto allegramente, e Maria potette avere un'idea di ciò che è un pranzo tipico russo, che, preceduto
com'è da una interminabile serie di antipasti di ogni genere, dura quattro o cinque ore almeno. La
sola cosa che mancava era la vodka, ma in compenso vi erano vini di ogni sorta. Alcuni miei vicini,
mentre mangiavano, bevevano cognac a guisa di vino !
Durante tutto il pranzo vi furono, naturalmente, molti discorsi, e fui costretto a parlare anch'io.
Cominciai in russo, ma mi accorsi che era troppo difficile andare avanti e proseguii in francese,
incoraggiato dal commensale che mi sedeva di fronte e che, mentre parlavo, faceva grandi segni di
consenso, come se capisse tutto ciò che andavo dicendo. Ma dopo, tornando insieme a Mosca, mi
accorsi che di francese non intendeva nulla, e che i segni di approvazione gli erano inspirati soltanto
dalla affettuosa disposizione verso di me suscitata dal vino che aveva bevuto.
Nozze
Mosca, 18 giugno 1934. — Stamattina abbiamo avuto in casa una coppia di sposi. Il fratello di
Barbara è venuto a Mosca da Cascira con la fidanzata per sposarsi. Dopo la chiesa sono venuti a
casa. La sposa vestita di bianco ed inghirlandata; lo sposo con l'abito di festa ed una grande
coccarda all'occhiello della giacca. Li ho trovati nello studio, a sedere sul divano, impalati, seri seri.
Quando li ho salutati, mi hanno appena risposto per la vergogna. Poi Amabile ha preparato la
colezione: sprotti, silodka, della carne avanzata di ieri, vino, tè e biscotti. Li abbiamo lasciati soli
con la madre, con Barbara e la piccola Lina. Dopo il vino hanno cominciato a parlare. Frattanto si
suonava il grammofono, e così ci è stata un po' di allegria. Poi è cominciata la conversazione con
Amabile, e ricordando il
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paese, i nonni ed altro, gli sposi si sono commossi fino alle lagrime. Finito di mangiare, gli sposi
hanno ringraziato e, accompagnati da Amabile, si son messi in automobile per andare dal fotografo,
e di là al giardino zoologico, che sembra li attragga molto. Alle quattro ripartiranno per Cascira.
Mosca, í luglio 1936 (da Amabile). Ieri ci fu lo sposalizio di Barbara (*).
Quando uscii nel pomeriggio, domandai a Margherita se sarebbe andata a festeggiare le nozze della
figlia. Mi rispose di sì. Però, la sera, quando rientrai, trovai che era già a casa. Non mi disse nulla.
Nell'atto di entrare nella piccola stanza sentii chiamarmi: « Tante, tante » (Zia, zia!).
Accesi la luce e mi guardai attorno, ma non vidi nulla. « Chi è ?» domandai ad alta voce.
« Tante, sono io, Barbara, sotto il letto ». « Ma che fai là sotto ? », chiesi. « Alzati ». « Mi vergogno
di uscire ».
Alla fine, cedendo alle mie insistenze, si decise a venir fuori, e mi spiegò l'accaduto.
La mattina insieme col marito si era recata all'ufficio dove si registrano i matrimoni. Avevano fatto
iscrivere i loro nomi,
(*) Barbara era stata una nostra domestica ; al suo posto più tardi venne la madre, Margherita.
Provenivano da Cascira nel Volga. Parlavano, oltre il russo, anche una specie di dialetto tedesco.
poi si eran separati; e Barbara si era recata al lavoro.
Nel pomeriggio, tornata a casa dall'officina aveva trovato il marito a gozzovigliare insieme con gli
amici, per festeggiare le nozze. Erano tutti ubriachi, a tal punto che Barbara, spaventata, era fuggita
e venuta a rifugiarsi a casa, da noi.
Le dissi che doveva tornare dal marito; ma non voleva. Infine, a furia di insistere, riuscii a
persuaderla, e se ne andò, accompagnata dalla madre.
Vodka
Mosca, 14 ottobre 1933 — Di vodka questi russi ne bevono tanta. L'altro ieri, a pranzo del
professore di storia (il marito della cantante del Balsciói Tedtr, di cui ti scrissi) davanti ad ogni
commensale era posta una piccola bottiglia di vodka, di forse un quarto di litro.
La cosa più divertente è quando invitano uno dei commensali a berne. Mettono su un piatto un gran
bicchiere colmo della bevanda, e poi uno di essi, che fa come da presidente (da noi a casa è sempre
il professore Kaniceff a disimpegnare questa parte), intona una canzone :
Cidruska majd seriébrennaja,
na sólotom blúdie postddennaja, kamg cidru pit ? kamú ?
(Calice mio d'argento, posto su un piatto d'oro, chi berrà la coppa ? chi la tracannerà ?)
E designata per nome la vittima, la si fa alzare in piedi, mettendole in mano il piatto, mentre il coro
di tutti i commensali intona il ritornello :
Pèj do dna' Pèj do dna' !
(Bevi fino in fondo, bevi fino in fondo !)
Nè ristanno, fintantochè non si sia vuotato di un fiato tutto il bicchiere. E toccato anche me...
Tempo di carestia a Mosca
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Mosca, 3 aprile 1934 (da Amabile). Se lei vedesse, Signora, il mercato ! Non posso tenere in mano
per due minuti il pesce appena comprato, che subito dieci persone mi si affollano attorno a
domandare come lo vendo o se voglio fare a cambio con pane. Certe donne vengono a vendere
pezzi di carne, che fanno vedere sulla mano; è ormai verde, nera, eppure tutti la vogliono comprare.
Qualcuno vende una cipolla, un altro un bicchiere di riso, un altro un piccolo pesce salato, un altro
una pasta dolce. Qualche volta vien da ridere a vedere tanta gente mettersi attorno a quella pasta.
Il più divertente sono le file che fa la gente. Per comprare la carne stanno talvolta in fila fino a
quattrocento persone, due o trecento per il pane, quaranta o cinquanta per i giornali. Bisogna a volte
stare ad aspettare quattro o cinque ore per comprare le patate. Per fortuna a me non occorre fare la
fila; se no, si mangerebbe un giorno sì e tre no.
Mosca, 4 marzo 1934 (da Amabile.) Ho comprato all'Insnab una bella tovaglia di lino, a colori,
ricamata a mano, con sei salviettine, per centoquattordici rubli, che è come se fossero
cinquantacinque lire. Ho comprato pure una gonna pieghettata per Barbara. L'ho pagata diciassette
rubli.
Mosca, 10 maggio 1934 (da Amabile). — Vi sono case dove alloggiano due o tre famiglie.
Gli operai hanno ottocento grammi di pane al giorno, quelli che lavorano pesante; gli altri
quattrocento grammi. Il sopravanzo lo vendono.
Ogni operaio ha dodici chili di patate al mese, più un chilo di gruppi, che è una specie di farina
gialla, e seicento grammi di zucchero. Barbara ha la metà di tutte queste cose.
Si può comprare al mercato libero; ma chi ha il danaro per farlo ? Un operaio guadagna cento o
centocinquanta rubli al mese, e stamattina ho comprato venti uova (fresche, però, bisogna dire) per
sedici rubli, ed un chilo di carne per lo stesso prezzo. Un litro dí latte costa tre rubli, un po' di agli
due rubli, le cipolle cinque rubli al chilo.
Si vedono nella strada molti poveri e storpi. Bambini abbandonati, stracciati, sporchi, si attaccano ai
tram e tante volte cadono sotto. Pochi giorni fa ne ho visto uno morto sotto il tram. Mi ha fatto
piangere, ma d'altra parte pensavo: ha finito di soffrire.
I tram sono sempre tanto affollati. A volte mi schiacciano talmente che mi sembra dover morire,
specialmente adesso col caldo che fa e la puzza del sudore.
Gli uomini bevono vodka con lo stomaco vuoto, e si ubriacano. Li si trova distesi sui marciapiedi
come se fossero morti, e la gente ci sputa sopra.
Una casa di riposo nel Caucaso
Teberdà, 3 i agosto 1933 (da Maria). Partimmo da Mosca il giorno 24. Abbiamo viaggiato bene. I
nostri posti nella vettura letto erano in alto. In basso era un giovanotto, che si è comportato molto
educatamente. Ha aspettato di fuori che Elisabetta ed io fossimo a letto; poi ha chiesto permesso di
entrare e si è messo a dormire. La mattina si è alzato per tempo, assai prima di noi, per lasciarci
libere.
Il viaggio è durato due giorni e mezzo. Abbiamo dovuto cambiar treno due volte. Nelle stazioni
dove il treno si fermava avresti dovuto vedere le centinaia di persone, che aspettavano di trovare un
posto ! Ci han detto che vi eran di quelli che stavano là da due o tre giorni !
A Batalpashinsk prendemmo l'autobus per Teberdà che fa servizio quasi tutti i giorni. Partimmo alle
tre e mezzo. In principio la veduta non era molto bella, ma due ore prima che giungessimo qui
divenne interessante e piacevole : rassomiglia molto alla Svizzera ; solo che questi posti sono assai
selvatici in confronto.
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Siamo arrivati ieri sera alle nove. Appena giunte ci condussero in un padiglione isolato a farci
prendere una doccia e cambiare i panni che avevamo addosso. Poi ci accompagnarono in una
camera all'ultimo piano, dove siamo come relegate. Tra poco dovremo recarci dal medico per la
visita. Solo dopo che avranno constatato che siamo sane, l'isolamento cesserà e saremo ammesse
nella Casa.
Teberdà, 4 settembre 1933 (da Maria).
Il posto è molto bello. Siamo a 1300 metri. Nei dintorni molte escursioni: un laghetto a quattro
chilometri, poi una cascata. Siamo nel mezzo dei boschi.
Nelle vicinanze vi sono altri edifizi, adibiti a sanatori. Nel bosco, proprio in mezzo agli alberi, ho
visto dei lettini, con coperte rosse, con qualcuno a riposare e godere dell'aria e del sole.
I medici e le altre persone sono con noi molto gentili. Quando arriva una lettera vengono subito a
portarcela. Uno dei medici (il capo, credo) quando arrivammo non si mostrò affatto premuroso con
noi; ma ora non sa più che fare per renderci gradevole il soggiorno. Mi domanda sempre se il vitto
mi piace o no. Stamattina mi ha detto che, quando vi è il gelato, posso prenderlo anche due volte ed
anche marmellata, se voglio, e le altre cose.
Teberdà, 9 settembre 1933 (da Maria). Vuoi sapere come passiamo la giornata ? Alle sette suona la
campana e bisogna alzarsi. Poi vi è la ginnastica. Alle otto colazione con carne, cetrioli, caffè, ecc.;
ma di mattina non mi riesce proprio mangiare queste cose, ed allora mi danno due uova. All'una il
pranzo, alle quattro e mezzo tè, ed alle otto cena. In conclusione si mangia troppo.
Dopo cena vi sono talvolta concerti di musica e canto, e sono gli stessi ospiti ad organizzarli ed
eseguirli, perchè devi sapere che le centocinquanta persone, che sono qui, quasi tutte sono artisti.
Fra essi i cantanti ed i musicisti abbondano, e ve ne è di famosi, di quelli che in Russia vengono
decorati col titolo di « Artista del popolo ». Uno di essi mi ha detto di conoscere personalmente
Toscanini.
Vi è anche un professore di geografia.
Voli
Mosca, 9 novembre 1934.— E' molto tempo che non ti scrivo; ma devi credere che non ho avuto un
minuto di , calma per farlo, in mezzo a tanti pensieri per portare a termine la costruzione del
dirigibile, e farlo volare. Tutto è andato bene nei primi due voli, sebbene le condizioni del tempo
non fossero favorevoli. Dopo quattro mesi di lavoro intenso, ci siamo ora concesse due giornate di
riposo. Domani si riprenderà il lavoro per portare a termine le esperienze. Sono sicuro che tutto
andrà bene.
Il dirigibile, di forma, è venuto più bello dell'Italia e credo che sarà altrettanto buono. I Russi sono
molto contenti, ed io più di loro avendo visto alla fine il risultato di due anni di lavoro. Abbiamo
fatto anche abbastanza presto. Tolti i mesi durante i quali l'anno scorso non si potè far nulla, fra
progetto, costruzione e montaggio abbiamo impiegato quattordici mesi, meno di quanto
impiegammo in Italia a progettare e costruire l'N1.
A comandare il dirigibile ero io stesso, con un equipaggio del tutto nuovo, che per giunta si trovava
impacciato nei movimenti dai paracadute che, secondo le regole di qui, tutti han dovuto indossare
(ma indossare non è la parola giusta, perchè li portavano sul davanti). Ma tutto andò benissimo.
Volammo per un'ora e quaranta minuti. Quando scendemmo a terra, era già buio, e sul campo non
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vi erano proiettori.
L'altro ieri compimmo il secondo volo. Vi era vento forte, ma in compenso anche un bel sole che
rallegrava lo spirito. Questa volta mi sentivo sicuro e tranquillo, anche perchè i paracadute erano
scomparsi (naturalmente nel primo volo io l'avevo categoricamente rifiutato). Volammo bassi su
Mosca, a duecentocinquanta o trecento metri di altezza. La piazza Rossa, il Kremlino, il fiume, la
piazza Sverdlov, la piazza della Lubianca erano magnifiche. Mi apparvero subito le novità edilizie
preparate durante la mia assenza. La piazza della Lubianca si è enormemente ingrandita, e la
piccola strada che a sinistra della nostra casa portava al giardino è divenuta un viale larghissimo.
Mosca dall'alto, sotto il sole, era molto bella, assai più bella di come la vedemmo insieme, quando
la sorvolammo in aeroplano, in quella giornata così grigia di estate.
Mosca, 19 maggio 1935. — Abbiamo fatto un altro bel volo : questa volta lontano, fino ad
Arcangelo sul Mar Bianco dove, come sai, mi imbarcai, quattro anni fa, per il viaggio alla Terra di
Francesco Giuseppe. Arcangelo dall'alto è molto meno brutta che vista da terra. Direi, anzi, che è
bella.
Partimmo da Dolgaprudnaja la sera del giorno 16, alle dieci. Il vento contrario, da quaranta a
cinquanta chilometri all'ora, ci ostacolò il cammino, tanto che arrivammo ad Arcangelo, distante in
linea d'aria da Mosca mille chilometri, soltanto il giorno dopo alle quattordici.
Era ragionevole aspettarsi che al ritorno il vento ci sarebbe stato favorevole, ma manco a farlo
apposta cambiò direzione e ce lo trovammo di nuovo contro. A Dolgaprudnaja giungemmo ieri alle
due del pomeriggio, dopo quaranta ore di volo. Al suolo imperversava un vento a raffiche da dieci a
dodici metri al secondo. Ma all'atterraggio tutto andò perfettamente bene.
Un'ora più tardi ero a casa a Dolgaprudnaja. Amabile aveva preparato da mangiare. Ero stanco
morto (durante il volo avevo potuto chiudere gli occhi solo per una ventina di minuti). Dopo pranzo
mi misi a letto e dormii profondamente.
Il naufragio del « Celiuskin »
Mosca, 17 marzo 1934.— I giornali continuano ad annoiarmi con le interviste per il Celiuskin; ma
io ho ben poco da dir loro. Fortunatamente le condizioni dei novanta naufraghi del Celiuskin sono
molto migliori di quelle in cui ci trovavamo noi. Noi non avevamo quasi nulla. Essi, invece,
riuscirono a sbarcare sui ghiacci tutte le provviste che avevano a bordo, e tutti gli attrezzi. Perciò
non mancano di nulla.
Qui fanno tutto ciò che possono per affrettare il salvataggio. Si son mossi rompighiacci, aeroplani e
perfino dirigibili. Sono perciò convinto che fra un paio di mesi tutti saranno stati salvati.
L'essenziale è di evitare l'errore, tante volte commesso nel caso nostro, di far volare sul pack, a
soccorrere i naufraghi, un aeroplano per volta. Dovrebbero sempre mandarne due di conserva, di
modo che, se l'uno è costretto a discendere, l'altro possa subito informare in qual luogo è disceso,
perchè si vada in suo aiuto.
Mosca, 12 aprile 1934. — Da ieri sono sotto l'impressione delle grandi notizie giunte circa il
salvataggio del Celiusckin: sessanta persone, o presso a poco, salvate in pochissimi giorni,
compreso Schmidt, il capo della spedizione. Sono rimaste sul pack, ancora ventotto persone, ma
saranno presto salvate anch'esse, e così quest'altro grande dramma artico sarà chiuso.
Gli aviatori russi si sono comportati da bravi, come sempre. E gente di fegato e generosa, che non
sta a misurare i rischi. Bisogna anche dire che il Governo sovietico non ha risparmiato alcun mezzo
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per soccorrere le novanta persone rimaste sul pack. Diecine di aeroplani, un rompighiacci come il
Krassin, e perfino due piccoli dirigibili sono stati messi in moto. Questi probabilmente arriveranno
tardi, ma non importa: era giusto mobilitare tutti i mezzi disponibili, anche quelli che hanno poche
probabilità di riuscire. L'aver mandato anche il Krassin prova come si sia pensato a tutto, perfino al
caso che gli aeroplani falliscano o, per circostanze avverse, giungano troppo tardi.
Ti dissi già come, appena giunto a Mosca, fui assalito dai giornalisti, che domandavano le mie
impressioni, specialmente riguardo all'impiego dei dirigibili. Risposi che questi sarebbero giunti sul
posto troppo tardi, quando già i naufraghi sarebbero stati portati a' salvamento dagli aeroplani. La
previsione era facile, ed i fatti son venuti a darmi ragione.
Come puoi immaginarti, in questi giorni rivivo il dramma della spedizione dell'Italia. La bravura di
cui fanno mostra gli aviatori sovietici nel caso del Celiuskin, mi richiama alla mente quella di Penzo
e di Maddalena. Penso con amarezza che se essi avessero avuto attorno un'atmosfera diversa da
quella creata dalla preconcetta ostilità di Balbo, non vi sarebbe stato bisogno di aviatori stranieri e
nemmeno del Krassin. Essi avrebbero portato a termine, da soli, l'impresa di salvare i nove italiani
sperduti fra i ghiacci.
Più specialmente rivivo gli orribili giorni vissuti sulla Città di Milano, dopo che, con una gamba ed
un braccio rotti, vi fui portato dagli aviatori svedesi ad assumervi la direzione delle opere di
soccorso. Schmidt, 1 capo della spedizione del Celiuskin, aveva annunziato che avrebbe lasciato per
ultimo il campo, e qualche giornale scandinavo aveva già pubblicato la notizia, quasi per richiamare
indirettamente alla memoria la mia partenza dal pack. Ma che cosa diranno ora che il Governo
sovietico ha dato ordine di trasportare Schmidt, ammalato, mentre ancora ventotto persone sono sul
pack ?
Mosca, 18 giugno 1934. — Domani arriverannò quelli del Celiuskin, e tutta Mosca è in agitazione.
Vi sarà una folla enorme. Oggi hanno insistito perchè dicessi qualche cosa alla radio.
Mosca, 19 giugno 1934. — I naufraghi del Celiuskin sono giunti. Schmidt è stato accolto in trionfo,
come un eroe.
La pletora di Ingegneri
Al mio arrivo nell'U.R.S.S., nell'agosto 1931, non esisteva nulla che permettesse di iniziare la
costruzione dei dirigibili: nè officine, nè laboratori, nè operai che fossero esperti in questo genere
così speciale e complesso di costruzioni aeronautiche. Ma in compenso si era già pensato ad istruire
un gran numero di ingegneri, tutti giovanissimi, i quali, avendo compiuto studi affrettati,
generalmente non avevano, nè potevano avere, una preparazione teorica sufficiente. Tanto meno,
poi, avevano esperienza pratica, fatta eccezione di pochi ex-operai che costituivano senza dubbio í
migliori elementi tra essi.
È un fatto caratteristico che in quel tempo i capi della Dirigiablestroi fossero assolutamente convinti
che la cosa più importante ed essenziale per costruire dirigibili era di disporre di un gran numero di
codesti giovani ingegneri. Che mancassero poi macchine, materiali, locali, operai, costituiva per
loro una difficoltà secondaria che sì sarebbe superata nel giro di poche settimane. Infatti essi
ammettevano come cosa certa ed indiscutibile che nell'Unione Sovietica i « tempi» potessero
accelerarsi a piacere: se nei paesi capitalistici occorrevano, mettiamo, sei mesi, nell'Unione
Sovietica potevano e dovevano bastare sei settimane.
Di questo eccessivo, non giustificato ottimismo peccavano tutti i giovani ingegneri che lavoravano
con me. Esso era dovuto non tanto alla loro inesperienza tecnica, quanto all'abito mentale, che
avevano acquistato, di ritenere che nell'Unione Sovietica tutto potesse farsi meglio che altrove.
Questo loro « complesso» di superiorità, notato anche da altri, provocava il più delle volte il sorriso
degli stranieri. Ma un osservatore intelligente che fosse andato più in fondo alla cosa, avrebbe
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dovuto finire col considerarlo piuttosto come un segno dell'entusiasmo incondizionato che quei
giovani avevano per il regime politico che li governava. La presunzione nei giovani può talvolta
irritare, ma, alla fine, è preferibile al difetto opposto di non aver alcuna confidenza nelle proprie
forze.
Il numero di giovani ingegneri messi a mia disposizione per collaborare nei progetti di dirigibili era
veramente eccessivo: più che ottanta ! Il curioso era che, contrariamente a quello che avveniva da
noi in Italia, i disegnatori erano assai pochi: in media appena uno per ogni tre ingegneri, e la stessa
proporzione si aveva nelle officine fra questi e gli operai. Per rendersi conto di quanto eccessivo
fosse tal numero di ingegneri, ricordo che nello Stabilimento di Costruzioni Aeronautiche di Roma,
che io ho diretto per nove anni, e dove pur si progettavano, costruivano e collaudavano in media
due o tre dirigibili all'anno, non disponemmo mai più di otto ingegneri in tutto, distribuiti fra
direzione, ufficio progetti, officine, laboratori e cantiere di montaggio. Nella Dirigiablestroi, invece,
gli ingegneri superavano di gran lunga il centinaio. Nel solo Constructor Biurò (Ufficio progetti) ve
ne erano ottanta. Essi erano stati preparati presso un istituto superiore chiamato DUK
(Dirigiablestroi Uccennii Kombinat), che contava ben cinquecento allievi !
Lo stragrande numero d'ingegneri addetti al Constructor Biurò, finiva, come si può immaginare,
coll'essere talvolta di ostacolo anzichè d'aiuto nel lavoro che m'era affidato. Spesso notavo in essi
un eccessivo sentimento individualistico in contrasto coll'interesse del lavoro comune. Ciascuno
aveva nuove idee e faceva pressioni per vederle attuate, con la conseguenza che spesso, senza
volerlo, l'uno intralciava il lavoro dell'altro.
Fra tanta moltitudine di giovani non ne mancavano naturalmente di grande ingegno e di buona
cultura tecnica, e sarebbe stato perciò molto facile operare una rigorosa selezione che permettesse di
utilizzare i migliori, formando con essi un quadro stabile di ingegneri, capaci di dare un indirizzo
serio ai lavori. Ma questa selezione veniva ostacolata vuoi dalla diffidenza che, talvolta, nei capi
comunisti si notava verso gli ingegneri non membri del partito, vuoi dalle piccole gelosie che anche
in Russia, come altrove, si stabilivano fra gli ingegneri stessi. Onde spesso avveniva che la
selezione si operasse perfino alla rovescia coll'allontanamento di qualcuno dei migliori elementi.
Questo fenomeno, insieme con l'eccessiva importanza che in Russia si dava agli ingegneri in
confronto dei tecnici subalterni e degli operai qualificati, costituiva certamente l'impedimento più
grave alla formazione di quella tradizione tecnica che nelle costruzioni aeronautiche, e soprattutto
nel ramo di cui allora mi occupavo, è assolutamente indispensabile.
In generale devo dire che, al tempo del mio soggiorno in Russia, non solo nell'organismo tecnico
cui io ero preposto, ma anche altrove, il numero delle persone addette ad un dato lavoro era molto
superiore a quello che avremmo impiegato noi. Questa pletora si spiega col fatto che, dovendosi
nell'industria sovietica creare tutto, o quasi tutto, di sana pianta, si pensava, mancando lavoratori già
sperimentati, di poter sopperire con il numero alla qualità. Senza dubbio, il fenomeno si è andato
gradualmente eliminando.
Un'altra causa di minor rendimento del personale tecnico russo in confronto del nostro era dovuta al
fatto che molti di quegli ingegneri, pur nell'intento di procacciarsi un maggior guadagno, si
procuravano una occupazione suppletiva, che li distraeva dal loro lavoro principale. Sarebbe stato,
certo, assai più razionale ridurne il numero e trattarli meglio economicamente, assicurando loro una
certa stabilità nell'impiego ed un progressivo miglioramento economico e morale, da far procedere
di pari passo col merito e coll'esperienza personale.
E' curioso notare che, pur essendovi nella Dirigiablestroi, come in tutte le altre aziende industriali
sovietiche, un reparto chiamato di « razionalizzazione », dove un numeroso gruppo di ingegneri
studiavano per l'appunto il modo razionale di organizzare il lavoro, non si diede mai il caso che da
esso venissero rilevati gli inconvenienti cui ho accennato innanzi.
Le riunioni tecniche
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Altrove ho parlato del sistema dell'autocritica mettendone in rilievo i grandi vantaggi. Come già
asserii, questo sistema era senza dubbio necessario nei primordi dell'immensa opera di costruzione
sovietica, quando il governo centrale, o per esso il partito, aveva molte ragioni per non fidarsi delle
capacità tecniche ed amministrative dei capi preposti a questa o quella azienda. Invitando la massa
dei lavoratori a criticare non solo l'organizzazione generale del lavoro, ma anche ogni particolare di
esso, gli organi superiori del regime sovietico si mettevano in condizione di venire informati delle
deficienze, e di poter in conseguenza provvedere ad eliminarle.
Ma anche dissi, parlando di essa, che io stesso, avendo avuto occasione di sperimentare il sistema
nell'ambiente dove lavoravo, avevo constatato che le critiche, spesso esagerate o del tutto infondate,
avevano a volte come risultato di paralizzare l'attività dei capi di buona volontà.
Avendo già messo in evidenza i vantaggi del sistema, mi sembra ora istruttivo esaminarne più da
vicino gli inconvenienti. Dirò, perciò, qualche cosa dell'esperienza che ne feci io stesso.
L'autocritica, come già dissi, si esercitava in quelle riunioni del personale che si chiamavano
soviescianj e o sobratye . Queste riunioni, nella Dirigiablestroi, avevano luogo quasi tutti i giorni, e
duravano a lungo, perchè vi prendevano la parola la maggior parte degli intervenuti e, talvolta,
anche tutti, pur se non avevano cose importanti da dire. Oggetto delle riunioni era quasi sempre
l'esame dei risultati di uno speciale lavoro o di un particolare studio compiuto da questo o quel
gruppo di ingegneri.
Orbene, persone che non conoscevano affatto il soggetto in discussione, o lo conoscevano solo
superficialmente, si alzavano a criticare le idee, od i fatti esposti, con sproloqui talmente lunghi, a
volte, da dar l'impressione che approfittassero dell'occasione, più che per altro, per esercitare le loro
qualità oratorie.
Si aggiunga a questo che spesso il Capo che presiedeva la riunione (quasi sempre un membro del
partito) non aveva competenza specifica dell'argomento, e perciò non era in grado di valutare i vari
pareri espressi e le varie idee sostenute da questo o quell'ingegnere, idee e pareri in contrasto fra di
loro. Ne seguiva che al momento di prendere una decisione il Capo, non sapendo che pesci pigliare,
più spesso, per prudenza, finiva col non decidere alcunchè, col procrastinare, col perdere tempo.
Ecco perchè certe questioni dopo cinque anni non avevano trovato ancora la loro soluzione.
Che la mancanza di dirigenti competenti fosse l'impedimento più grave al compimento della
colossale opera di ricostruzione intrapresa nell'Unione Sovietica, apparve ben presto chiaro a Stalin.
che negli ultimi anni del mio soggiorno in Russia lanciò la nuova parola d'ordine; « Formare i
quadri ».
Onde avvenne che gli inconvenienti da me constatati si andassero gradualmente eliminando.
Il continuo mutare dei capi
A mio avviso una delle ragioni più serie che in quei primi anni ostacolavano una buona
organizzazione di alcune aziende industriali sovietiche era la difficoltà di trovare dei comunisti che
avessero la capacità e la competenza necessarie a dirigerle. Di qui il frequente mutare dei capi, tutte
le volte che si credeva poter addebitare ad essi la mancanza del successo di un piano di lavoro
preparato con eccessivo ottimismo.
Nel caso della Dirigiablestroi la scelta del capo spettava all'Aeroflot che, nel farla, badava più alle
qualità politiche della persona che alle sue doti di amministratore.
Il Capo veniva mutato quasi sempre in conseguenza di ripetute critiche, venute dal basso; che gli
attribuivano la colpa di un insuccesso, le cui cause erano invece molteplici. Questo spiega perchè,
all'annunzio dell'arrivo di un nuovo capo, una ondata di ottimismo si diffondesse in tutta la
Dirigiablestroi. Si attribuivano al nuovo venuto grandi qualità, quasi delle virtù taumaturgiche. In
tutti era la convinzione che in qualche mese tutto sarebbe andato a posto: le deficienze
dell'ordinamento sarebbero state eliminate e le officine e gli hangar sorti come per incanto.
Ocen sdarov, era la frase che sentivo ripetere anche da ingegneri intelligenti all'arrivo di un nuovo
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capo; come per dire: « E una persona assai in gamba ». Tutto, da allora in avanti, sarebbe proceduto
ottimamente.
La prima cura del nuovo capo era quella di preparare un nuovo schema di ordinamento delle varie
parti della Dirigiablestroi, al quale si attribuiva una virtù di toccasana per i mali dell'azienda. Questi
schemi erano caratterizzati dalla molteplicità dei legami e delle interdipendenze stabilite fra le varie
parti dell'organismo, onde assai spesso un medesimo ufficio finiva col dipendere da più capi, ciò
che certo non costituiva la condizione ideale per assicurare un ordinato andamento delle cose e
poter individuare responsabili in caso di disordine.
S'intende che, a simiglianza di quanto avviene anche da noi in casi analoghi, il nuovo ordinamento
metteva sottosopra il precedente anche in ciò che conteneva di buono, ispirandosi il nuovo capo al
concetto che tutto ciò che aveva fatto il predecessore era mal fatto. Se a questo si aggiunge che col
capo venivano generalmente cambiati anche i sottocapi, si può facilmente comprendere quale
confusione nascesse, almeno temporaneamente, ad ogni mutamento di direzione.
Merita di essere ricordato il metodo assolutamente originale con cui si procedeva al cambiamento
del capo. Il provvedimento non veniva mai in forma brusca. Di solito si annunciava ufficialmente
che il Capo aveva bisogno di riposo, e doveva perciò partire per una licenza. Durante la licenza era
provvisoriamente sostituito dal nuovo prescelto, che poi, dopo qualche mese, diventava il capo
effettivo.
Nei primi quattro anni del mio soggiorno in Russia, dal 1931 al 1935, la direzione della
Dirigiablestroi mutò, con il procedimento che ho detto, ben sei volte. Ecco i nomi dei vari capi
succedutisi: Purmal, Feldmann,Matson, Flaxermann, Pauloff, Carchoff, tutte persone eccellenti e
ben intenzionate, che tentarono di fare il meglio che potevano nelle difficili condizioni in cui il loro
lavoro si svolgeva alla Dirigiablestroi, e che, all'infuori di questa organizzazione, certamente ente
avevano acquistato pubbliche benemerenze. Tra essi il solo che avesse una competenza specifica
era il Flaxermann, ma anch'egli non durò a lungo alla direzione della nostra azienda.
I piani di lavoro
Come dicevo, con ogni nuovo capo vi era anche un nuovo piano di lavoro per la costruzione di
dirigibili, officine, hangars, piloni di ormeggio ed accessori. Ma questi piani, pur essendo compilati,
come ho detto avanti, con la collaborazione di qualcuno degli ingegneri comunisti dipendenti, non
avevano, nei primi tempi, alcuna base nelle reali condizioni in cui il lavoro doveva svolgersi.
Ricorderò, per dare un esempio tipico, il piano compilato nel gennaio 1932, nel quale figurava la
cifra, niente di meno, di quattrocentocinque dirigibili di tutti i tipi di cubature, da costruirsi in un
periodo di cinque anni. L'ottimo ingegnere Leteisen, che allora era uno dei sottocapi della
Dirigiablestroi, nel presentarmelo, soggiunse : « Sapete, vi è la coda (« Ocieried», in russo) nel
nostro ufficio. Ogni giorno vengono nuove aziende a chiederci dirigibili per soddisfare i loro
bisogni. Vogliono impiegarli anche per seminare, in certe regioni impervie.
Il programma di produzione che abbiamo preparato basta a mala pena a soddisfare tutte le richieste
che ci sono finora pervenute ».
Lo guardai stupefatto. Gli domandai se avesse un'idea dei mezzi occorrenti per costruire in cinque
anni un così enorme numero di dirigibili, tanto più che si doveva partire dal niente. « Avete fatto un
conto sommario della spesa occorrente ? ». « No », mi rispose. «Lo faccia lei ».
Non era facile fare un tale calcolo su due piedi, ma così, ad occhio e croce, indicai una somma che
ammontava a molte e molte centinaia di milioni di rubli. Leteisen osservò: « Il danaro non conta.
Ne troveremo quanto ne vorremo ». Nè apparve scosso dalla mia riflessione che non si trattava solo
di danaro, ma di ciò che esso rappresentava: impianti di officine, laboratori, hangar, formazione di
operai specializzati, di piloti, di motoristi, ecc., ecc.
È probabile che le mie obbiezioni, ripetute al capo della Dirigiablestroi, che era allora il
simpaticissimo Purmal, dovettero ingenerare qualche dubbio, perchè di quel piano non sentii più
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parlare. Ma il nuovo piano comunicatomi il 24 maggio 1932, poco dopo che ebbi assunto la
direzione tecnica della Dirigiablestroi, se pur non era così sbalorditivo come quello del 1931,
nondimeno era altrettanto irrealizzabile.
Ad un profano le cifre non direbbero gran che; ma per farsi un'idea concreta dell'audacia di quel
programma basti dire che noi in Italia, e la Zeppelin in Germania, che pur disponevamo di
stabilimenti assai bene attrezzati e di maestranze espertissime, non ne avremmo potuto eseguire, nel
medesimo intervallo di tempo, nemmeno la decima o la quindicesima parte.
Quando feci le mie obbiezioni al compagno Purmal egli mi rispose che ciò che era impossibile nei
paesi capitalistici, era perfettamente realizzabile nell'Unione Sovietica, dove i tempi potevano venir
accelerati a piacere.
Questa sicurezza di sè, quest'eccessiva fiducia nelle proprie capacità, che tante volte ebbi occasione
di notare nei giovani ingegneri sovietici, era evidentemente un riflesso dell'atmosfera di entusiasmo
che allora pervadeva tutta la gioventù sovietica nel suo immenso sforzo di costruzione. Di quella
smodata ambizione, che portava a compilare piani così grandiosi, si poteva ben sorridere nel caso
particolare di costruzioni complesse e delicate quali erano quelle dei dirigibili, ma erano pur sempre
la medesima ambizione, il medesimo entusiasmo, il medesimo ottimismo, che in altri campi hanno
condotto la gioventù sovietica alle splendide conquiste dei piani quinquennali di Stalin.
Gli inizi della « Dirigiablestroi »
Certo il compito che s'era proposto la Dirigiablestroi nell'autunno del 1931, quando mi fu proposto
di assumere la direzione delle costruzioni dei dirigibili sovietici, era assai grave, perchè in quel
tempo non esistevano nè officine, nè hangar, nè materiali da costruzione. Vi era tutto da fare, tutto
da organizzare. Tutto ciò di cui si disponeva era costituito da una ottantina di ingegneri che,
coadiuvati da una trentina di disegnatori e lucidatori, lavoravano nel Constructor Biurò. Ma in
questo ufficio mancavano le cose più essenziali per lavorare, tanto che dovetti far venire dei tavoli
da disegno dalla Germania. Mancando perfino la carta, si era costretti a disegnare sul rovescio di
vecchie carte geografiche, cavate fuori chi sa da quale magazzino.
Mancavano anche locali adatti. L'ufficio di costruzioni, nel maggio 1932, era provvisoriamente
allogato in una grossa casa di legno, posta alla periferia di Mosca. Vi occupava due piani: al piano
superiore era una gran sala dove si disegnava e calcolava, in quella inferiore una specie di
primordiale officina, con una o due macchine utensili. Si accedeva all'ufficio progetti attraverso un
lurido cortile ed una scala ancora più sudicia. Ci volle non poco per ottenere il rispetto delle più
rudimentali regole igieniche; ma in questo, come in tante altre cose piccole e grandi, dovevo
assistere ai cambiamenti più profondi durante i cinque anni di soggiorno nell'Unione Sovietica !
Basti accennare all'abitudine di radersi assai raramente che avevano, nei primi tempi, i giovani con
cui lavoravo. La cosa continuò per alcuni anni, ma nel 1935 non so più quale capo sovietico invitò i
giovani ad avere più cura della propria persona. Come per incanto l'aspetto esteriore dei giovani
russi si trasformò, ed i miei ingegneri apparvero accuratamente rasati, se non tutti i giorni, quasi.
* * *
La sede definitiva delle nostre officine e dei nostri uffici doveva sorgere in Dolgaprudnaja, una
località posta a venticinque chilometri da Mosca, dove era uno stagno che le dava il nome. Quando
nell'autunno del 1931 fui condotto a visitare il posto, vi trovai un folto bosco: cinque anni dopo, al
posto del bosco, sorgeva un intero villaggio con una popolazione di forse 2000 abitanti fra ingegneri
ed operai, e le loro famiglie !
Ma prima di giungere a tale risultato, attraverso quante peripezie si dovette passare !
Il nostro Constructor Biurò cambiò sede a Mosca tre volte nel giro di due anni, passando da un
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locale all'altro della periferia, e andando poi a finire in una delle gallerie della Petrovka, in mezzo al
frastuono dei magazzini. Di là venne trasferito a Dolgabrudnaj a, dove già da un anno e mezzo
funzionava un'officina meccanica provvisoria, molto mal messa. In Dolgaprudnaja l'ufficio tecnico
venne installato in una baracca di legno, dove spesso, d'inverno, veniva a mancare il riscaldamento.
La scelta della località di Dolgaprudnaja per impiantarvi le officine, i laboratori, gli hangar e gli
uffici, necessari alla costruzione dei dirigibili, non era stata felice, data la difficoltà di accedervi, e
data anche la natura argillosa del terreno che, quando pioveva, faceva del campo di atterraggio e del
terreno circostante un pantano di melma attaccaticcia, dove ogni passo diventava di una difficoltà
estrema. Da principio, per un anno o due, per recarsi dall'uno all'altro edificio si dovette camminare
su tavole di legno, fino a che queste vennero sostituite da strade.
Dolgaprudnaja si trova a tre o quattro chilometri dalla via di Dimitrov, una delle strade maestre che
si irradiano da Mosca. Lungo questa strada, nei primi anni, non erano ancora disposti quei ripari
marginali che servono a impedire alla neve di accumularsi sulla carreggiata per effetto del vento.
Perciò assai spesso durante l'inverno alcuni tratti della strada si ingombravano talmente di neve, da
rendere impossibile all'automobile di procedervi. Ancora peggio, poi, avveniva quando dalla strada
principale si passava alla stradetta che conduceva alle officine. La neve d'inverno ed il fango dì
estate la rendevano quasi impraticabile.
In tali condizioni è chiaro che la prima cosa da farsi avrebbe dovuto essere una buona strada
d'accesso, per rendere più rapidi e meno costosi i trasporti dei materiali di costruzione. La strada
invece venne costruita da ultimo, nei primi mesi del 1935, quando già erano state costruite le
officine, gli hangar e buona parte degli edifici. La impazienza, direi quasi giovanile, di voler subito
giungere a risultati concreti spiega questo ed altri errori. Noterò qui di passaggio che la costruzione
della strada pare presentasse speciali difficoltà, forse di indole burocratica, a superare le quali
inutilmente si cimentarono i vari capi succedutisi in questo ramo degli impianti. Solo quando
l'impresa fu affidata ad una donna, la strada venne costruita.
Si comprende come la pretesa di voler cominciare subito a costruire dirigibili prima ancora che
fossero costruite officine adeguate, complicò assai il lavoro. Si pensi che nel primo anno si lavorò a
Dolgaprudnaja in una baracca di legno dove erano stati installati alla meglio un paio di vecchi torni
e qualche altra macchina più o meno in ordine. In quella primordiale officina si compì il miracolo di
costruire in qualche mese le parti metalliche di un piccolo dirigibile, ricorrendo a mille ripieghi per
sopperire alla mancanza di macchine e materiali adatti. Si aggiunga che, a causa dell'insufficiente
sistema di riscaldamento, il più delle volte gli operai furon costretti a lavorare con una temperatura
prossima allo zero. Il montaggio, poi, del dirigibile venne eseguito in pieno febbraio, in un hangar
provvisorio, di legno, sprovvisto di ogni attrezzo, e con una temperatura di quindici o venti gradi
sotto zero. Il quadro sarà completo, quando si dirà che in quel tempo gli operai a Dolgaprudnaja
eran costretti a vivere in condizioni assai primitive, mancando alloggi e magazzini alimentari
adeguati, con acqua potabile sudicia ed un pessimo servizio di stalovaia (ristorante). Per questi
motivi era difficile trovare bravi operai che acconsentissero a venire a lavorare con noi.
Eppure l'entusiasmo, il desiderio di realizzare presto qualche cosa, furono tali che, nonostante tutte
le grandi difficoltà alle quali ho accennato, i giovani sovietici, con l'aiuto dei pochi italiani che
avevo condotto con me, giunsero a costruire e montare in appena sei mesi un primo piccolo
dirigibile. A questo seguirono poi altri più grandi man mano che le condizioni andarono
migliorando.
Il fatto è che alla fine del 1936, quando lasciai la Russia, grazie agli sforzi degli ingegneri della
Dirigiablestroi, il cantiere di Dolgaprudnaja si era già assai sviluppato. Vi erano due hangars
metallici, uno grande, l'altro piccolo; molte officine discretamente attrezzate; edifici in muratura per
uffici e alloggi; magazzini alimentari ben forniti, e parecchi chilometri di strada. Per mancanza di
locali i laboratori di esperienza (NIUO) si trovavano ancora a Mosca, e l'istituto superiore, dove
venivano preparati gli ingegneri dirigibilistici (DUK), era tuttora installato a Túcceno.
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Conclusioni di un'esperienza
Quando lasciai l'Unione Sovietica, l'organizzazione della Dirigiablestroi aveva conseguito
miglioramenti decisivi. Di piani di lavoro senza una base reale, come quelli dei primi tempi, non ne
apparivano più. Negli ingegneri che dovevano compilarli alla primitiva faciloneria era subentrato un
senso di realismo, che faceva loro vedere le pratiche difficoltà che potevano intralciare il piano.
Molti dei gravi difetti iniziali dell'organizzazione erano stati eliminati in seguito alle dure
esperienze fatte. Tuttavia non vi era ancora abbastanza disciplina tecnica; nè si era ancora del tutto
formata una « élite» dirigente, sufficientemente competente, che avesse idee chiare su ciò che
dovesse farsi; nè ancora si avevan capi veramente esperti, nei quali i dipendenti potessero avere
piena fiducia, e che a loro volta avessero fiducia nei dipendenti. Soprattutto, poi, mi pareva che vi
fosse ancora un eccessivo feticismo per l'ingegnere, ed assai poca considerazione tecnica per
l'operaio, che non era, come secondo me avrebbe dovuto essere, il collaboratore del progettista o del
costruttore, ma semplicemente un esecutore materiale, che il più delle volte ignorava perfino a che
cosa dovesse servire il pezzo che costruiva. Questo certamente era un errore.
Il successo delle nostre costruzioni di dirigibili in Italia si doveva per l'appunto al fatto che,
attraverso una rigorosa selezione pratica, si era costituito un nucleo di intelligenti operai,
espertissimi e tecnicamente colti, ai quali l'ingegnere progettista lasciava grande libertà di iniziativa
per quanto concerneva minuti particolari di costruzione e di montaggio. In sostanza essi
partecipavano, spesso in misura notevole, al lavoro di creazione del progettista, e perciò lavoravano
con una soddisfazione ed un entusiasmo, che facevano passare in seconda linea la considerazione
del compenso materiale ricevuto. Collaborazione che spiega perchè a dirigere il lavoro di seicento
operai, quanti eran quelli dello Stabilimento di Costruzioni Aeronautiche, bastassero soltanto cinque
o sei ingegneri.
Ma la costruzione dei dirigibili nell'Unione Sovietica, nel periodo iniziale dal 1931 al 1936, si deve
intendere e valutare come una fase sperimentale, la cui importanza consisteva non tanto nel
giungere a risultati costruttivi concreti, che pure vi furono, quanto nel preparare ed allenare i
giovani sovietici. Questi, quando con l'esperienza fatta fossero riusciti ad eliminare i difetti del
sistema, sarebbero giunti indubbiamente a risultati non solo uguali ai nostri, ma anche superiori.
I difetti da me riscontrati, e che ho voluto ricordare più sopra, erano in fondo i difetti naturali della
crescita di un organismo giovanissimo, esuberante di vitalità. Con l'esperienza acquisita furono
certamente eliminati, specialmente dopo che l'ordine di Stalin di procedere alla formazione dei
quadri divenne un fatto compiuto.