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1 Quando ci si vede vivere,… “unheimlich” e follia in Pirandello novelliere (In riferimento a Novelle per un anno) …avere coscienza è la più grande tragedia che si possa immaginare. Specie avere coscienza di essere, di esistere cioè, e di esistere come uomo. Enzo Lauretta «Mi sembra di vedere il mio Io attraverso una lente che lo rifranga e moltiplichi; tutte le figure che si agitano intorno a me sono altrettanti Io ed io mi adiro del loro modo di agire….» E.T.A. Hoffmann E allora? Moscarda, Uno nessuno centomila Il termine tedesco incluso nel titolo del presente articolo segna l’incidente che perturba il ritmo stereotipico della «vita impossibile» dei personaggi pirandelliani, e pare produrre effetti straordinari. Accorgendosi di uno «strappo» nel suo «cielo di carta», e patendo la pena di «vivere così», in un mondo che vede il
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Quando ci si vede vivere,… “unheimlich” e follia in Pirandello novelliere

May 02, 2023

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Omar Ellabban
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Page 1: Quando ci si vede vivere,… “unheimlich” e follia in Pirandello novelliere

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Quando ci si vede vivere,…

“unheimlich” e follia in Pirandello

novelliere

(In riferimento a Novelle per un anno)

…avere coscienza è la

più grande tragedia

che si possa

immaginare. Specie

avere coscienza di

essere, di esistere

cioè, e di esistere

come uomo.

Enzo Lauretta

«Mi sembra di vedere

il mio Io attraverso

una lente che lo

rifranga e moltiplichi;

tutte le figure che si

agitano intorno a me

sono altrettanti Io ed

io mi adiro del loro

modo di agire….»

E.T.A. Hoffmann

E allora?

Moscarda, Uno

nessuno centomila

Il termine tedesco incluso nel titolo del presente articolo segna

l’incidente che perturba il ritmo stereotipico della «vita

impossibile» dei personaggi pirandelliani, e pare produrre effetti

straordinari. Accorgendosi di uno «strappo» nel suo «cielo di

carta», e patendo la pena di «vivere così», in un mondo che vede il

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«crepuscolo» del sole di ogni autorità tradizionale e trascendentale,

il “personaggio-qualcuno”1 di Pirandello compie una ricerca

irrequieta della sua autenticità, della sua libertà. Oreste, ormai nudo

di tutti gli autoinganni, nega il mondo creduto finora vero e si nega

continuamente, cadendo nell’abisso di un’amletica perplessità e

dell’incertezza della ricerca cerebrale.

1. La «vita impossibile»

Le novelle pirandelliane, contrassegnate dalla

presenza di operai e piccoli borghesi che patiscono «il

mal di vivere», in un mondo frantumato e caotico,

affondano le loro radici nella società siciliana e in quella

cittadina romana. Le prime riflessioni sulla doppiezza che

regola la vita sociale, che sostiene spesso le istituzioni,

dimenticando le esigenze dell’individuo, sono suggerite a

Pirandello dalla gente che vive in campagna. In Ciàula

scopre la luna, l’autore descrive l’inferno degli uomini

miseri che lavorano nelle cave di zolfo, i luoghi più tristi

di Agrigento e Caltanissetta. Zì Scarda, il tipico

personaggio pirandelliano, scava giorno e notte,

sopportando una fatica enorme, per mantenere la nuora e

sette figli rimasti orfani in seguito alla morte del figlio,

per lo scoppio di una «mina». Piangendo, si disseta delle

sue lacrime, e non ne lascia scappare una:

Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla

sera laggiù, duecento o più metri sottoterra, col piccone in mano,

che a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto,

1 “Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un

personaggio ha veramente una vita sua, segnata da caratteri suoi, per cui è

sempre «qualcuno». Mentre un uomo- non dico Lei stesso- un uomo così in

genere può non essere nessuno”. LUIGI PIRANDELLO, Maschere nude, Milano,

Mondatori, 1936, p. 45.

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Zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua

bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.

Un gusto e un riposo.2

Rassegnato alla sua grande miseria, Zi’ Scarda finisce

quasi con il trovarla giusta:

Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga

gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una

carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce,

quasi con vergogna:- Dio gliene renda merito.-

Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non

poteva più lavorare bene. 3

Più miserabile di Scarda, è Ciàula, il caruso, che

può non appartenere più all’umanità, avendo già nel

nome, nella voce, nell’opaca coscienza, molto della

bestia. Subendo la paura di uscire dalla «mina» e trovarsi

nel «buio vano» della notte, scopre per la prima volta la

«chiarità d’argento» della luna. L’uomo miserabile si

conquista da una pace luminosa nei confronti dello

spettacolo della vastità dell’universo:

E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran

conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là,

mentr’ella saliva per cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce,

ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui,

che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella

notte ora piena del suo stupore.4

2 ID., Dal naso al cielo, Ciàula scopre la luna, Milano, Mondadori, 1969, p. 54. 3 Ivi., p, 55 4 Ivi., p. 56.

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Il cittadino pirandelliano «fuori di chiave»5 è

Belluca, il protagonista de Il treno ha fischiato. Chiuso

entro i limiti soffocanti della sua mansione impiegatizia, e

della famiglia costituita da tre donne cieche (la moglie, la

suocera, la sorella), e due figlie vedove con sette bambini,

giorno dopo giorno, senza fermarsi un attimo, diviene un

«vecchio somaro» che gira la stanga della noria d’un

vecchio mulino:

Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le

specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il

suo capo poteva anche essere naturalissimo […]. Perché uomo più

mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si

sarebbe potuto immaginare. Circoscritto... sì, chi l'aveva definito

così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero

Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di

computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di

partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e

impostazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via

dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che

tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la

carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio

somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per

il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli

almeno almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar

5 “La storia di quest’uomo di Pirandello, dai cento nomi, dalle cento facce, dai

cento comportamenti spesso sconcertanti, dai cento tic ma dall’unica pena di

vivere, è raccontata in duecentocinquanta modi, tutti riconducibili all’angoscia di

chi acquista coscienza di sé, si vede doppiato, frastornato, ingannato, solo,

sconfitto, deluso, con il cartellino di “ricercato” che la società ha attaccato sotto

la sua immagine, e perciò braccato e messo al muro, mentre gli altri mangiano,

bevono, dormono, piangono, ridono, fanno l’amore, defecano, allevano i figli,

lavorano e muoiono, passandogli accanto insensibili e senza vedere la sua

sofferenza di fondo, ciechi e sordi alla tragedia di quel personaggio sopraffatto

dalle incredibili ipocrisie e ingiustizie sociali”. ENZO LAURETTA, Luigi

Pirandello. Storia di un personaggio fuori di chiave, Milano, Mursia, 1980, p.

220.

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segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio.

Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa

pace, sempre, senza neppure fiatare, come se gli toccassero, o

meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e

anni alle continue solenni bastonature della sorte. 6

L’io giudicante della novella si immerge nel passato alla

ricerca del «mostro» cui si deve attaccare «la coda», cioè

il gesto inconsueto di Belluca. Con tali condizioni di vita,

che non danno soddisfazione ai bisogni intimi

dell’individuo né ai suoi desideri, un incidente qualsiasi

può condurre alla ribellione. Le prospettive spaziali create

dal fischio del treno fanno emergere alla superficie l’«io

vero»7 del personaggio, capace di partire con

l’immaginazione per le varie parti di un cosmo

infinitamente grande. La scoperta della dimensione

cosmica non libera totalmente l’essere vero, mettendo in

crisi la dimensione angusta della «vita impossibile», ma

le si affianca per renderla più sopportabile:

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al

capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria.

Soltanto il capo-ufficio non doveva pretendere troppo da lui come

per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una

partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in

Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo..8

Gli stessi limiti angusti e bui della vita

circoscrivono il personaggio di Sopra e sotto, il vecchio

professore, marito imbelle di una donna che ha buttato

6 LUIGI PIRANDELLO, L’uomo solo. Il treno ha fischiato, Milano, Mondadori,

1955, p. 38. 7 ELIO GIOANOLA, Pirandello. La follia, Milano, Jaca Book, 1997, p. 116. 8 LUIGI PIRANDELLO, L’uomo solo, Il treno ha fischiato, op.cit., p. 40.

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alla perdizione le sue due figlie, riducendolo lui stesso

alla degradazione di accettare un po’ di denaro

mandatogli da una delle due ragazze. Un fine consolatorio

ha la coscienza cosmica del vecchio che si sente umiliato

dalla consapevolezza della grandezza del cosmo a

confronto della piccolezza umana. L’evocazione di uno

spazio cosmico interviene a pacificare l’angoscia del

personaggio che ha preso coscienza del proprio scacco

esistenziale. L’«io vero» del vecchio non può conciliare il

suo fallimento se non consapevole della sua piccolezza

nella vastità dell’universo:

E che conforto, che consolazione ti può venir da questo? Chiede il

vecchio professore, e la risposta del giovane coglie esattamente il

nucleo della situazione:

- Conforto? Consolazione? Voi cercate questo, Io so! Voi avete

bisogno di vedervi, di sapervi piccolo…

- Piccolo, sì… piccolo, piccolo…

- Piccolo, tra cose piccole e meschine…

- Sì… così…

- Su un crepuscolo infinitesimale dello spazio, è vero?

- Sì, sì… infinitesimale…

Ma perché? Per seguitare ad abbrutirvi, a incarognirvi!

Il professore Sabato non rispose: aveva in bocca di nuovo il

bicchiere, che già gli ballava in mano: accennò di sì col testone,

seguitando a bere.

- Vergognatevi! Vergognatevi!- inveì il Lamella.- […] Le stelle

sono grandi, io sono piccolo, e dunque m’ubriaco, è vero? Questa è

la vostra logica!9

Patendo la «pena di vivere così», nata dalla

mancanza o dalla perdita dell’identità nel rapporto fra l’io

e l’altro, l’individuo, chiuso solo in una prigione, elabora

vanamente strategie d’evasione, «nel tentativo di

9 ID., La rallegrata, Sopra e sotto, Milano, Mondadori, 1955, p. 52.

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ritagliarsi un minimo spazio espressivo, un angolo di

autonomia precaria, ove inscenare una sterile ribellione

contro il suo essere»10. Ma rimane sotto il peso dei

condizionamenti soffocanti del mondo, vincolato da varie

forme che cooperano alla sua fissità, togliendogli la

libertà e la vivacità. Con l’affermazione di tali forme, cioè

dei «falsi io», si rischia di perdere «l’io vero»11. «“Io

vero” e “io falso”- Gioanola esclama -funzionano come

un sistema per il quale il rafforzamento dell’uno equivale

a un rafforzamento dell’altro, in una libertà sempre più

vuota per il primo e in una schiavitù sempre più rigida per

l’altro».12

2. “unheimlich”

Freud, nel suo celebre articolo "Das Unheimlich"

pubblicato nel 1919, trattando per la prima volta il

termine, indica la contrapposizione di base tra gli

aggettivi helimlich o heimisch [familiare], e unheimlich

[straniero]:

La parola tedesca unheimlich, ovviamente è l’opposto di heimlich e

di heimisch [casalingo, familiare, nativo], ossia l’opposto di ciò che

è abituale, per cui tenderemmo a dedurne che una cosa

“perturbante” spaventa proprio per non essere nota e consueta. Però

è ovvio che non tutto ciò che è nuovo e inconsueto è anche

spaventoso. Si tratta di un rapporto che non può essere invertito.

Possiamo dire soltanto che ciò che è inconsueto può benissimo

diventare spaventoso e inquietante.

10 EMMA GRIMALDI, Il labirinto e il caleidoscopio. Percorsi di letture tra le

«Novelle per un anno» di Luigi Pirandello, Rubettino, Soveria Mannelli, 2007,

p. 29. 11 ELIO GIOANOLA, op.cit., p. 116. 12 Ibidem.

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Secondo lui [Jentsch] il fattore essenziale per l’insorgenza della

sensazione di perturbamento risiede nell’incertezza intellettuale,

per cui il perturbante in effetti sarebbe qualcosa in cui non si sa

come raccapezzarsi13.

Il perturbante, l’«inconsueto»14, che ingenera angoscia e

orrore, nelle sue varie forme, fisiche o psicologiche, sorge

di fronte ad un'incertezza intellettuale, quando le

giustificazioni razionalistiche non garantiscono più

niente. Fra i principali fenomeni che hanno un effetto

perturbante ci sono le tematiche della morte, e le forme

del doppio.

Schelling, mettendo in risalto un altro principale

significato dell’aggettivo heimlich 15, conferma che «è

detto unheimlich tutto ciò che potrebbe restare segreto,

nascosto, e che è invece affiorato»16. I significati dei

contrari coincidono; il perturbante scaturirebbe

dall’incontro tra lo spaventoso e il familiare.

13 SIGMUND FREUD, Il perturbante, in Psicoanalisi dell'arte e della letteratura,

Roma, BUR, 1997, p. 150. 14 ERNEST JENTSCH, La narrazione fantastica (in appendice: Sulla psicologia

dell'Unheimliche, trad. di Zur Psychologie das Unheimlichen), Nistri-Lischi, Pisa

1983, P. 151. 15 Nel vocabolario tedesco (Freud fa riferimento al Dizionario di lingua tedesca

di Daniel Sanders, Hamburg: Hoffmann & Campe, 1871), alla voce heimlich

compaiono due significati principali:

1. appartenente alla casa, non straniero, familiare, domestico, fidato e

intimo.

2. tenuto lontano da occhi indiscreti, nascosto in modo da non farlo sapere

ad altri o da non far sapere la ragione per cui lo si intende celare.

(Heimlich è anche avvicinato al mondo della magia e al mondo

sotterraneo). 16 LILIANA CACIALLI, Tre eroi del pensiero: Nietzsche, Heidegger, Schelling,

Milano, Nuovi autori, 1992, p. 55.

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Nelle novelle pirandelliane l’evento eccezionale,

che appartiene alla sfera dello spaventoso, secondo Freud,

è sempre costituito dalla cosa più palese, più comune. Un

evento che accade ogni giorno fa che l’inconscio

approfitta «della temporanea vacanza della coscienza, che

ha letteralmente “abbassato la guardia” come una

sentinella vinta dal sonno, per prendersi la sua rivincita e

concedersi qualche effimera soddisfazione, qualche

strappo alle regole della ragione»17.

Il perturbante fa crollare il mondo apparentemente

compatto e intatto delle forme, porta il personaggio a

compiere un lungo e complesso processo di riflessione

sulle condizioni dalla sua vita misera. Ne L’umorismo,

Pirandello, gettando luce su tale processo, scrive:

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si

spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più

acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se

stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo

assaltare da una strana impressione come se in un baleno, ci si

chiarisce una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo,

una realtà vivente oltre la vita umana, fuori delle forme dell’umana

ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza

quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore,

ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci

appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché

tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini

si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i

limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano,

17 ALDO CAROTENUTO, Freud. Il perturbante, Milano, Bompiani, 2002, p. 9.

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come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio

interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. 18

Il piccolo impiegato de Il treno ha fischiato,

varcando i limiti dell’esistenza materiale, percepisce la

miseria della sua vita messa in confronto a quella del

resto del mondo. Toltogli il paraocchi, sente che «il

mondo gli era rientrato nello spirito». Inizia ad osservare

da fuori la sua vita, trovando una via di fuga

nell’immaginazione:

Firenze, Bologna, Torino, Venezia… Sì, sapeva che vi si viveva!

La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella

vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia

bendata, girava la stanga del molino. […] Ma ora, ecco, gli

rientrava, come per travaso violento, nello spirito. […] C’erano,

mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni

d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora,

nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne

solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti…

Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… E, dunque, lui ora che

il mondo gli era entrato nello spirito- poteva in qualche modo

consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere

con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. 19

Il perturbante, il fischio del treno, toglie il tappo a

un contenitore chiuso e stracolmo di energie mentali che

escono fuori e si materializzano in parole e gesti. Lo

stesso accade ne La carriola, dove l’incidente che

perturba l’apparente perfezione della vita del cittadino

modello, obbediente agli obblighi e severo osservatore del

livello di obbedienza degli altri, risulta lo spettacolo della

18 LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo, Milano, Garzanti, 1995, p. 139. 19 ID., Il treno ha fischiato, op.cit., pp. 41- 42.

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campagna umbra. Nei confronti delle ristrettezze della

propria esistenza, balena un orizzonte vasto, un mondo di

libertà assoluta, lo stesso balenato a Mattia Pascal al

momento di deporre la sua vecchia identità:

Restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e

strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi

alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena,

chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio

d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto essere sua, non

qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota,

che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli

alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di

desideri prima svaniti che sorti; con una pena di non essere,

angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non

han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da

vivere, là lontano, lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di

luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto

intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per

godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.20

Lo spirito sente «il brulichio» di una vita nuova, non

ancora nata. Si sente il rammarico di ciò che avrebbe

dovuto essere, e invece non è stato. Compiendo una lunga

riflessione sui desideri «prima svaniti che sorti», al

personaggio non pare importante che gli altri vivano

diversamente: l’importante è che gli altri vivano

veramente:

Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato

vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che

in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c'è stata mai. Mi

hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello,

un'anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a

20 ID., Candelora, La carriola, Milano, Mondadori, 1990, p. 555.

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piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti,

obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido,

l'anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata

mia: "Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai?". E ho

nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato

mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non

mi posso liberare.21

Nei confronti della sua lapide, l’individuo esce dal

suo corpo, rifiutando di riconoscersi nelle forme sociali

che assume:

Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con

la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai

miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi

a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non

riconoscermi e per non riconoscerla come mia. Spaventosamente

d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a

quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l’uomo che

abitava là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi

d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla

vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni

vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una

vita, intendo, che potessi riconoscere mia, da me voluta e sentita

come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso

improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve

estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata,

quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi

compiere in quella vita da cui ero stato sempre assente, atti di

presenza, nei quali ora, improvvisamente il mio spirito s’accorgeva

di non essersi mai trovato, mai, mai!22

Rinunciando ai ruoli, agli obblighi e al corpo che pare

ormai appartenente ad un altro sconosciuto, vive

21 ID., Candelora, La carriola, op.cit., p. 556 22Ibidem.

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l’avventura di essere “autentico”. Ma il diventare

“autentico” risulta, per l’io pirandelliano, «una purissima

probabilità, anteriore ad ogni possibile determinazione e

incompatibile con ciascuna di queste»23. Percepita

l’impossibilità della liberazione, a causa dei fatti compiuti

e innegabili dei «falsi io», l’animo rientra nella forma

dell’uomo insoffribile. L’«io vero» lascia il corpo come

luogo delle apparenze, cercandosi un’interiorità dove si

illude di essere salvata e svincolata da ogni segno di

riconoscimento esterno. L’unica via di fuga sarà

vendicare l’impossibilità di essere ciò che vuol essere,

dando libero corso alla bestialità umana con una vera

bestia, la vecchia cagna, con cui «non c’erano mai stati

buoni rapporti». Ogni giorno, per qualche momento prova

la «voluttà d’una divina, cosciente follia» prendendo la

cagna per le zampe posteriori e facendole fare la carriola.

Nel suo «falso io» rientra pure il protagonista

ragionatore di Quand'ero matto..., Il «riverito» signor

Fausto Bandini, che non riusciva ad aderire strettamente

alle norme della società egoistica, in seguito alla lettura

de I Fioretti di San Francesco, sentiva nascere nel suo

animo una vera intimità con tutte le creature:

Sul cadere della sera, in villa, mentre da lontano mi giungeva il

suono delle cornamuse che aprivano la marcia delle frotte dei

falciatori di ritorno al villaggio con le carrette cariche del raccolto,

mi pareva che l'aria tra me e le cose intorno divenisse a mano a

mano più intima; e che io vedessi oltre la vista naturale. L'anima,

intenta e affascinata da quella sacra intimità con le cose, discendeva

al limitare dei sensi e percepiva ogni più lieve moto, ogni più lieve

rumore. E un gran silenzio attonito era dentro di me, sicché un

23 ELIO GIOANOLA, op.cit., p. 114.

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frullo d'ali vicino mi faceva sussultare e un trillo lontano mi dava

quasi un singulto di gioja, perché mi sentivo felice per gli uccelletti

che in quella stagione non pativano il freddo e trovavano per la

campagna da cibarsi in abbondanza; felice, come se il mio alito li

scaldasse e io li cibassi di me24.

Penetrava nella vita delle piante, dei sassi, della

terra, e dei fiumi. Sentendo in sé la vita di tutti gli

elementi della natura, gli pareva che il suo petto

accogliesse tutto il mondo. Avendo coscienza delle realtà

uguali alla sua che tutti gli altri esseri devono avere,

metteva lo schema di un trattato sui generis che intendeva

titolare Fondamento della natura. Ma nessuno lo voleva

ascoltare; venne dichiarato matto, tradito e rubato:

Ahimè, sì. Ma mentre io per le mie terre camminavo in punta di

piedi e curvo per vedere di non calpestare qualche fiorellino o

qualche insetto, dei quali vivevo in me la tenue vita d'un giorno, gli

altri mi rubavano la campagna, mi rubavano le case, mi

spogliavano addirittura.

E ora, eccomi qua: ecce homo!25

Guarisce solo quando rimane indifferente a tutto tranne

che ai suoi bisogni. Finisce per rimanere povero ma

«savio», godendo il frutto della «previdenza» di un suo

vecchio e «povero» ladro.

Definitiva è, invece, la rinuncia al «falso io» del

giovane Tommasino Unzio, l’ex-suddiacono, protagonista

di Canta l’Epistola. Per «una sete d’anima che non riesce

più a saziarsi nel calice dell’altare e nel fonte dell’acqua

24 LUIGI PIRANDELLO, Quand’ero matto, Il vecchio Dio, Milano, Mondadori,

1955, p. 67. 25 Ivi., p. 71.

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benedetta»26, perde la fede, non sentendo di avere

guadagnato niente, e non lamentandosi di avere perduto

nulla. Il corpo si stacca dallo spirito; continua a vivere il

primo lasciando lo spirito fissato nel dolore. Nella ricerca

della sua vera identità, Tommasino si identifica

continuamente con gli elementi della natura,

spersonalizzandosi:

Non avere più coscienza d’essere, come una pietra; non ricordarsi

più neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di

vivere, come le bestie, come le pietre; senza più affetti, né desiderii,

né memorie, né pensieri, senza più nulla che désse senso e valore

alla propria vita.27

Svapora ogni carattere umano, ogni memoria, ogni

pensiero. Il protagonista, conquistato da un tedio

angoscioso, inizia una serie di riflessioni sull’origine

dell’esistenza dell’uomo e della natura, e sui motivi che

stanno dietro gli atti umani. Nei confronti della

provvisorietà e della vanità d’ogni desiderio umano, si

proclama l’eternità della natura:

Tutte le illusioni e tutti i disinganni e i dolori e le gioie e le

speranze e i desideri degli uomini gli apparivano vani e transitorii

di fronte al sentimento che spirava dalle cose che restano e

sopravanzano ad essi, impassibili. Quasi vicende di nuvole gli

apparivano nell’eternità della natura i singoli fatti degli uomini.

Bastava guardare quegli alti monti di là dalla valle tiberina, lontani

lontani, sfumanti all’orizzonte, lievi e quasi aerei nel tramonto.28

26 ID., La Rallegrata, Canta l’Epistola, Milano, Mondatori, 1955, p. 19. 27 Ivi., p. 20. 28 Ivi., p. 22.

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16

Preso da una forte pietà per tutte le forme di vita

più tenui e più inconsistenti che «nascono alla vita e vi

durano alcun poco, senza saper perché, in attesa del

deperimento e della morte»29, il personaggio si identifica

in un filo d’erba, perdendo totalmente la sua identità.

Seguendolo fin dal suo nascere, lo attrae, lo lega alla vita

con il suo fascino di presenza indifesa:

E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la

vita, aveva con esso tentennato a ogni più lieve alito d’aria;

trepidando era accorso in qualche giorno di forte vento, o per paura

di non arrivare a tempo a proteggerlo da una greggiola di capre, che

ogni giorno, alla stess’ora, passava dietro la chiesetta e spesso

s’indugiava un po’ a strappare fra i macigni qualche ciuffo d’erba.

Finora, così il vento come le capre avevano rispettato quel filo

d’erba. E la gioia di Tommasino nel ritrovarlo intatto lì, col suo

spavaldo pennacchietto in cima, era ineffabile. Lo carezzava, lo

lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva con l’anima e

col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle che

spuntavano nel cielo crepuscolare, perché con tutte le altre lo

vegliassero durante la notte.30

Divenuto un membro della famiglia della natura,

gli viene strappata l’anima dalla signorina Fanelli che

mette fine alla vita del filo d’erba in un momento di

distrazione. Si annienta l’«io vero» finalmente trovato. Il

giovane insulta la signorina, e poi accetta di riparare

l’ingiuria con un duello che non gli dà possibilità di

scampo. La vita perde ogni significato e ogni valore;

Tommasino accetta la morte, anzi la cerca.

29 Ivi., p. 25. 30 Ivi., p. 26.

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17

Fissato in un dolore non meno forte è rimasto

l’avvocato Tullio Buti, il protagonista de Il lume

dell’altra casa. L’esperienza dolorosa di un’infanzia

terribile in cui il padre picchiava la madre e i figli gli ha

bruciato «ogni germe di vita», impedendogli il flusso

vitale;

Né un gesto involontario, né una anche minima contrazione dei

lineamenti del volto, né un cenno degli occhi o delle labbra

tradivano mai i pensieri in cui pareva assorto, la doglia cupa in cui

stava così tutto chiuso. La devastazione, che quei pensieri e questa

doglia gli dovevano aver fatto nell'anima, era evidentissima nella

fissità spasimosa degli occhi chiari, acuti, nel pallore del volto

disfatto, nella precoce brizzolatura della barba incolta. Non

scriveva e non riceveva mai lettere; non leggeva giornali; non si

fermava né si voltava mai a guardare, qualunque cosa accadesse per

istrada, che attirasse l'altrui curiosità; e se talvolta la pioggia lo

coglieva alla sprovvista, seguitava ad andare dello stesso passo,

come se nulla fosse31.

Conduce una vita di solitudine e isolamento totale, non

sapendo la ragione della sua vita, e non pensando di

vivere diversamente, tanto che niente può alleggerire la

sua tristezza.

Una sera, la sua cameretta buia si illumina per la

luce della casa dirimpetto; «l'alito d'una vita estranea»

entra a «stenebrare il bujo, il vuoto, il deserto della sua

esistenza»32, a perturbare la sua non-vita. Tullio,

spiando, vede una famiglia di tre bambini, il padre e la

madre cenare. La scena di «dolce» intimità e armonia

familiare lo libera dalla prigione della propria esperienza,

31 ID., Il viaggio, Il lume dell’altra casa, Torriana, Orsa maggiore, 1993, p. 169. 32 Ibid.

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sciogliendo quella «tetraggine attonita, in cui lo spirito di

lui era rimasto per tanti anni sospeso»33;

Aspettò ogni sera che il bujo della sua cameretta s'inalbasse

soavemente del lume dell'altra casa, e stette lì, dietro ai vetri, come

un mendico, ad assaporare con infinita angoscia quell'intimità dolce

e cara, quel conforto familiare, di cui gli altri godevano, di cui

anch'egli, bambino, in qualche rara sera di calma aveva goduto,

quando la mamma... la mamma sua... come quella...

E piangeva34.

Il lume dell’altra casa gli riapre gli occhi sulla

realtà della sua vita fredda e misera, nei confronti del

calore familiare che gli altri godono, e che egli stesso

godeva una volta. Piangendo la sua passata non-vita, e le

sue condizioni misere, ritorna ad assaporare i piccoli

piaceri:

Quella sera stessa, allorché il lume di là fu spento, ed egli,

piombato nella tenebra, dopo avere atteso ancora un poco che la

famigliuola fosse andata a letto, si recò ad aprire cautamente la

vetrata della finestra per rinnovare l'aria, vide anche aperta la

finestra di là; vide poco dopo (e ne ebbe nel bujo un tremore di

sgomento) vide affacciarsi a quella finestra la donna, forse

incuriosita di quanto avevano detto di lui le Nini, mamma e

figliuola.

[…]

Eppure, prima di ritirarsi, prima di richiudere la vetrata, ella gli

bisbigliò:

- Buona sera!

L'uno di faccia all'altra, benché avessero entrambi schivato di

guardarsi e avessero quasi finto davanti a se stessi d'essere alla

finestra senza alcuna intenzione, tutti e due - ne era certo - avevano

33 Ivi., p. 170. 34 Ibid.

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vibrato dello stesso tremito d'ignota attesa, sgomenti del fascino

che così da vicino li avvolgeva nel bujo35.

Tullio si innamora voracemente della donna che

porta felicità e serenità alla famiglia che gli abita accanto.

E la signora Masci, diventandone l’amante, fugge con lui,

abbandonando la famiglia. Crolla definitivamente il

sogno di pace e di intimità familiare. La novella si

conclude con i due amanti, ormai pentiti, che aspettano

nel buio la luce della casa dirimpetto, a spiare la scena

triste dei bambini «sbigottiti» seduti a tavola per la cena.

3. Follia

La definizione della follia, fatta da Basaglia, il noto

psichiatra italiano, nel secondo volume degli Scritti, sottolinea l’aspetto indicibile della malattia mentale:

Voce confusa con la miseria, l’indigenza e la delinquenza, parola

resa muta dal linguaggio razionale della malattia, messaggio

stroncato dall’internamento e reso indecifrabile dalla definizione di

pericolosità e dalla necessità sociale dell’invalidazione, la follia

non viene mai ascoltata per ciò che dice o verrebbe dire.36

Nello stesso anno, 1979, rispondendo ad un

intervento del pubblico in una conferenza in Brasile,

afferma:

Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o

niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente

come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile,

dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa

35 Ivi., p. 171. 36 FRANCO BASAGLIA, Scritti, II, a cura di Franca Ongaro Basaglia, Torino,

Einaudi, 1981, p. 430.

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società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla

ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di

eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa

diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra

in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato.

Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere

questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là

dove essa ha origine, come dire, nella vita.37

L’individuo pirandelliano viaggia sempre al limite

dell’inesprimibile, dell’abisso dell’irrazionale. Presa la

coscienza della vanità delle forme, si trova incapace di

continuare a vivere entro i limiti della ragione comune, o

di vivere fuori di essi. Il vacillare del personaggio fra il

recupero di una vita apparentemente perfetta e armoniosa

e il superamento del vecchio stato «attraverso la

dissoluzione, il collasso della persona perfetta»,38 ha,

come conseguenza, o morire o compiere gesti folli e

inconsueti:

Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la

coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete

relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi,

al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee

riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più

prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno

per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può

affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire39.

37 ID., Conferenze brasiliane, a cura di Franca Ongaro Basaglia, Milano, R.

Cortina, 2000, p. 28. 38 LUCIO LUGNANI, L’infanzia felice e altri saggi su Pirandello, Napoli, Liguori

Editore, 1986.p. 182. 39 LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo, op.cit., p. 140.

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Non è un caso che i folli pirandelliani sono portatori di

una realtà che nessuno vuol ascoltare perché intollerabile

e tragica. I folli, «più “figurali” che patologici, […]

sembrano perennemente sprofondati in questi «momenti

di silenzio interiore», in una sorta di epoké straniante e

lucidissima, che scardina il sistema […] di convinzioni e

di norme»40, opponendosi al processo di

spersonalizzazione che compie la «macchinetta

infernale»:

La chiamano LOGICA i signori filosofi. Il cervello pompa con essa

i sentimenti dal cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il

sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido: si refrigera, si

purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così, destato da un

caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa,

pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta,

diviene idea astratta generale; e che ne segue? Ne segue che noi

non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di quella

contingenza passeggera; ma dobbiamo anche attossicarci la vita con

l'estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione

logica. E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di

cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, pompano e filtrano,

finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il

loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei

barattolini che portano su l'etichetta nera un teschio fra due stinchi

in croce e la leggenda: VELENO.41

La follia appare come dimensione autentica di

fronte all’inautenticità delle convinzioni. Il personaggio,

godendo di perfette capacità logiche, fuoriesce dalle

norme capovolgendo i valori consueti: fa apparire malato

40 GRAZIELLA CORSINOVI, Il corpo e la sua ombra. Studi pirandelliani, Bastogi,

Foggia, 1996, p. 23. 41 LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo, op.cit. p. 159.

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ciò che viene dichiarato sano, e viceversa. «I personaggi-

Gioanola scrive- non hanno a che fare col mondo della

follia in modo tangenziale, perché sono “un po’ matti”,

ma sono dei “sani” al limite di rottura, impegnati in una

lotta di salvezza assoluta e senza possibilità di

distrazioni»42.

Ne Il treno ha fischiato il gesto sorprendente del

piccolo impiegato non consiste solo nell’arrivare in

ritardo in ufficio e rispondere male al capoufficio, ma nel

giustificarsi di fronte a questi atti, che riconosce essere

anormali, affermando che dopo che il treno ha fischiato

non si può pretendere troppo da lui come in passato:

Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato

all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i

registri, le carte:

- E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria

d'impudenza, aprendo le mani.

- Che significa? - aveva allora esclamato il capo-ufficio,

accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo.

- Ohé, Belluca!

- Niente, - aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra

d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere.

- Il treno? Che treno?

- Ha fischiato.

- Ma che diavolo dici?

- Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...

- Il treno?

42 ELIO GIOANOLA, op.cit., p. 97.

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- Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure

oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor

Cavaliere!43

La nuova consapevolezza viene acquisita solo dalla sua

mente mentre gli altri, vedendo soltanto la coda del

mostro che spunta fuori all’improvviso, non trovano

alcuna accettabile spiegazione, e lo ritengono pazzo.

La stessa coscienza delle vaste prospettive spaziali

acquisisce il protagonista di Rimedio: la geografia.

Patendo l’esperienza dolorosa della lunga agonia materna,

e pensando alla madre che «non capiva più niente; una

balla di carne, che ansimava e si reggeva appena, pesante

e traballante», si sente prigioniero del suo corpo. Fra la

delusione, l’invincibile stanchezza, e la rabbia

dell’indifferenza dei familiari, «tutelati dal tepore di una

normalità imperturbata»44, si vede nello specchio, mentre

sta spiando «in quasi allegro spavento la liberazione». Lo

specchio, consueto correlato simbolico della coscienza,

riflette una realtà che suscita nell’animo dell’individuo

orrore e spavento. Cercando di fuggire se stesso in una

mappa geografica aperta su l’emme di Giamaica, si trova

fra le Montagne Azzurre, sotto il sole e accanto alle acque

chiare del mare. Pensare ad un’altra realtà lontana vince

le sofferenze del personaggio. Pure la morte di un figlio,

la sciagura più grande della vita, la calamità più forte,

sembra assolutamente niente «guardando in cielo Sirio o

l’Alpha del Centauro»:

43 LUIGI PIRANDELLO, L’uomo solo, Il treno ha fischiato, p. 41. 44 EMMA GRIMALDI, op.cit., p. 14.

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Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove,

lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà

presente che v’opprime; ma così, senza alcun nesso, neppure di

contrasto, senz’alcun intenzione, come una cosa che è perché è, e

che voi non potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi

consiglio, amici miei.45

La via ideale di fuga dall’alienazione quotidiana è la

geografia. La certezza dell’alternativa possibile,

solidamente esistente in quanto realtà si oppone alla reale

miseria. L’applicazione di tale rimedio investe

naturalmente il solito ambito familiare della moglie e dei

figli. Umoristico si rivela il dialogo con cui si conclude la

novella: alla moglie assegna la Lapponia; così quando

inizia a parlare lei, egli pensa ad una realtà totalmente

opposta:

- Umèa, Lulèa, Pitéa, Sklleftéa…

- Ma che dici?

- Niente, cara. I fiumi della Lapponia.

- E che centrano i fiumi della Lapponia?

- Niente, cara. Non c’entrano per niente affatto. Ma ci sono, e

né tu né io possiamo negare che in questo preciso momento

sboccano là nel golfo di Botania. E vedessi, cara, vedessi come

vedo io la tristezza di certi salici e di certe betulle, là… D’accordo,

sì, non c’entrano neanche i salici e le betulle; ma ci sono anch’essi,

cara, e tanto tanto tristi attorno ai laghi gelati tra le steppe. Lap o

Lop, sai? È un’ingiuria. I Lapponi da sé si chiamano Sami. Sudici

nani, cara mia! Ti basti sapere…

- Sì, lo so, tutto questo veramente non c’entra- ma ti basti

sapere che, mentr’io ti tengo così cara, essi tengono così poco alla

fedeltà coniugale, che offrono la moglie e le figliuole al primo

45 LUIGI PIRANDELLO, Lo scialle nero, Rimedio: la geografia, Milano, Arnoldo

Mondadori, 1954, p. 207.

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forestiero che capita. Per conto mio, puoi stare sicura: non son

tentato per nulla, cara, a profittarne.

- Ma che diavolo dici? Sei pazzo? Io ti stia domandando…

- Sì, cara. Tu mi stai domandando, non dico di no. Ma che

triste paese, la Lapponia!...46

L’onnipotenza del pensiero è la follia del

protagonista di Se…La novella, che inizia con un

paragone tra uno stato attuale e un altro immaginato,

propone una probabilità infinita di vite costruite

mentalmente:

- Griffi? Ah…- fece il Valdoggi, confuso, vieppiù smarrito,

cercando nella memoria un’immagine che gli si ravvivasse a quel

nome.

- Lao Griffi… tredicesimo reggimento fanteria… Potenza…

- Griffi!... tu?- esclamò il Valdoggi a un tratto, sbalordito.

Tu?... così… […]

- Proprio io… così! Irriconoscibile, è vero?

- No… non dico… ma t’immaginavo…47

I puntini di sospensione si riferiscono ad un’altra vita

opposta al così vissuto. Il protagonista, desiderando

vivere ciò che avrebbe potuto avere, se tutto fosse andato

come pensava, si sente straniero alla propria esistenza:

Tutto ciò che avviene doveva dunque fatalmente avvenire? Falso!

Poteva non avvenire, se… E qui mi perdo: in questo se! Una mosca

ostinata che ti molesti, un movimento che tu fai per scacciarla,

46 Ivi., p. 214. 47 ID., lo scialle nero, Se…, Milano, Mondatori, 1954, p. 198.

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possono di qui a sei, a dieci, a quindici anni, divenir causa per te di

chi sa quale sciagura.48

Tornando un giorno a casa, trovò sua moglie con il

suo ex-fidanzato. Non intendeva ucciderla, voleva «solo

sapere come avesse fatto», e invece la uccise. Divenendo

omicida, si sente libero, perché non piange nulla, ma

rimane, nello stesso tempo, prigioniero di quello che

sarebbe dovuto essere, se tutto fosse andato diversamente.

Il personaggio cade vittima del naufragare nel mare delle

tante vite solo fantasticate:

Se quello sciocco non si fosse allontanato per un anno da Potenza,

dando marito e moglie, e probabilmente felici… Sì, li conoscevo

bene tutti e due: erano fatti per intendersi a meraviglia. Posso

benissimo, guarda, immaginarmi la vita che avrebbero vissuto

insieme. Me l’immagino, anzi, posso crederli la casa dove

sarebbero andati ad abitare, appena sposi. Non ho che da metterci

Margherita, viva come tante volte, figurati, nelle varie occorrenze

della vita l’ho veduta… Chiudo gli occhi e la vedo per quelle

stanze, con le finestre aperte al sole; vi canta con la sua vocina tutta

trilli e scivoli. Come cantava! Teneva, così, le manine intrecciate

sul capo biondo. «Buon dì, sposa felice!» -Figli non ne avrebbero,

sai? Margherita non poteva farne… Vedi? Se follia c’è, è questa la

mia follia…49

In seguito ad un omicidio inizia pure La distruzione

dell’uomo. Nicola Petix che, meditando per anni sulla vita

degli uomini, non ne vede né scopo né ragione. Non

trovando la ragione per cui la coppia Porcella, ormai

vecchia, insiste di avere un figlio che vive per vivere,

senza saper nessun scopo della vita, Petix decide di

48 Ivi., p. 202. 49 Ivi., p. 204.

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uccidere la donna e l’uomo che sta per portare al mondo.

Aspetta che la gravidanza stia per arrivare al suo

compimento, poi si vendica di tutti quelli che abitano il

casone brutto e lercio:

Se non che, adesso, in qualcuna di queste grandi e miserabili case,

pur tra cotali inquilini rimasti a compir l’opera di distruzione sulle

pareti e sugli usci e sui pavimenti, qualche famiglia decaduta o di

ceto medio, d’impiegati o di professori, ha cominciato a cercar

ricovero, o per non averlo trovato altrove o per bisogno o amor di

risparmio, vincendo il ribrezzo di tutto quel lerciume e più della

mescolanza con quello che sì, Dio mio, prossimo è, non si nega, ma

che pur certamente, poco poco che si ami la pulizia e la buona

creanza, dispiace aver troppo vicino; e non si può dire del resto che

il dispiacere non sia contraccambiato; tanto vero che questi nuovi

venuti sono stati in principio guardati in cagnesco, e poi, a poco a

poco, se han voluto esser visti men male, han dovuto acconciarsi a

certe confidenze piuttosto prese che accordate.50

Un processo- di passaggio dall’«eteroaggressività»

all’«autoagressività»51- si compie nella novella La casa

dell’agonia. L’anonimo visitatore, che attende in un

salotto da tempo indefinito, dimenticato ormai dal

padrone di casa, guarda un gatto, che, dando la caccia a

un nido di rondini costruito proprio sotto il davanzale,

minaccia ogni momento di spingere giù un vaso di gerani.

La volontà aggressiva del visitatore è tradita dal

dispiacere per l’eventuale arrivo del padrone:

Ma lui non aspettava più adesso il padrone di casa. Se anzi questo

fosse finalmente sopravvenuto, lui ne avrebbe provato dispiacere.

50 ID., La mosca, la distruzione dell’uomo, Milano, Arnoldo Mondatori, 1955,

pp. 221- 2. 51 ROBERTO ALONGE, Pirandello tra realismo e mistificazione, Guida Editore,

Napoli, 1972, p. 284.

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Lì confuso con la poltrona su cui sedeva, con una fissità spasimosa

negli occhietti aguzzi e un'angoscia di punto in punto crescente che

gli toglieva il respiro, lui aspettava un'altra cosa, terribile: un grido

dalla strada: un grido che gli annunziasse la morte di qualcuno; la

morte d'un viandante qualunque che al momento giusto, tra i tanti

che andavano giù per la strada, uomini, donne, giovani, vecchi,

ragazzi, di cui gli arrivava fin lassù confuso il brusio, si trovasse a

passare sotto la finestra di quel salotto al quinto piano.52

Nella casa tutta chiusa e silenziosa, simile ad un

carcere, si scatenano gli umani istinti aggressivi

inutilmente mascherati dall’angoscia e dal timore.

L’attesa della morte di qualcuno si rivela insopportabile:

Gli era talmente insopportabile lo spasimo di quell’attesa, che gli

era perfino passato per la mente il pensiero diabolico d’andar cheto

e chinato, con un dito teso, alla finestra, a dar lui l’ultima spinta a

quel vaso, senza più stare ad aspettare che lo facesse il gatto.53

«Il rifiuto dell’eteroaggressività si traduce in

autoaggressività»54; l’anonimo si precipita giù per le

scale, avendo «l’idea che sarebbe arrivato giusto in tempo

a ricevere sul capo il vaso di geranii che proprio in

quell’attimo cadeva dalla finestra».55

Si uccide pure la giovane Dreetta, la protagonista di

Pubertà, buttandosi dal «cornicione del villino» ai piedi

del suo maestro di inglese. La fanciulla, prigioniera

dell’abito alla marinara che non le è più adatto, e della

casa con le finestre «ermeticamente chiuse» anche in

52 LUIGI PIRANDELLO, La giornata, Casa dell’agonia, Milano, Mondadori,

1955, p. 33 53 Ivi., p. 35. 54 ROBERTO ALONGE, op.cit., p. 285. 55 LUIGI PIRANDELLO, La giornata, Casa dell’agonia, op.cit., p. 36.

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estate, sente forte «l’avvertimento della fragrante

esuberanza del suo corpo», e si lacera tra vergogna,

rabbia, disgusto e ebbrezza:

Appena sola, in casa, si lasciava cader di mano i libri di scuola o i

guanti, apposta per chinarsi a raccattarli. Chinandosi, dalla

scollatura si sbirciava il seno. Non aveva però finito

d'intravvederselo e d'avvertirne appena il peso, che s'acchiappava il

grosso nodo del fazzoletto nero di seta sotto il bavero della

giubbetta alla marinara e se lo strappava subito in su, in su, fino

agli occhi, disgustatissima.

Un momento dopo, raccoglieva con l'una e con l'altra mano da

ambo le parti la stoffa di quella giubbetta; se la stirava in giù,

perché le aderisse al busto eretto; andava davanti allo specchio. si

compiaceva anche della promettente curva dei fianchi:

- Seducentissima signorina!

E scoppiava a ridere56.

Entro i limiti angusti imposti dalla nonna dal «viso

di cartilagine» e gli occhi «torbidi», l’unica via di fuga

sarà mirare alla liberazione sulle mani di un signore

inglese o americano che ella possa incontrare un giorno,

per strada, e andare via con lui come figlia, o come

moglie. Rivedendo il maestro di inglese con occhi nuovi,

Dreetta trova in lui il suo salvatore. Ma si rivela

impossibile la liberazione; percepita la contraddizione tra

la sua ansia e vergogna, e «la placidità estranea e

pensante» di Mr. Walston che legge «col polpaccio

scoperto come un qualunque marito già sordo a tutte le

sensibilità della moglie»57, la giovane si conquista da una

invincibile delusione che scatta in un grido. Presa da un

56 ID., Il viaggio, Pubertà, Torriana, Orsa maggiore, 1993, p. 37. 57 Ivi., p. 39.

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lampo di follia, rivela il suo più intimo pensiero prima di

cadere vittima dei suoi «fremiti e guizzi»:

Ebbe appena il tempo d'alzare il capo a uno strillo che veniva

dall'alto:

- Professore, mi prenda!

Intravide un corpo penzolante dal cornicione del villino: Dreetta

scarmigliata, con gli occhi lampeggianti di follia, che serrava i

denti, per terrore, e s'agitava come per riprendersi, pentita: poi, un

riso lacerante, che rimaneva un attimo nell'aria, scia dell'orribile

tonfo di quel corpo che s'abbatteva sfragellandosi ai suoi piedi58.

58 Ivi., p. 40.

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