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Anno IV - N° 5, novembre/dicembre 2009
Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito
dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina
Anno IV
- N
° 5, novem
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rib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - D
istribuzione gratuita
B U O N E F E S T E
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Vite straordinarie
ALFONSO COLOSSO
di Rino DUMA
4
Historia Nostra
FORCA E GHIGLIOTTINA
di Mauro DE SICA 9
Scrittori pugliesi
TOMMASO FIORE
di Maurizio NOCERA 12
Terra noscia
LU DITTÈRIU
di Piero VINSPER 14
Natale e dintorni
TARZANETTO E LO STRACCIAROLO
di Antonio MELE ‘MELANTON’
16
C’era una volta...
L’INGENUITÀ DI ‘UCCIU’
di Emilio RUBINO18
Iniziative culturali
L’UNIVERSITÀ POPOLARE
di Gianluca VIRGILIO
20
Poeti salentini
RAFFAELE CARRIERI
di Augusto BENEMEGLIO 22
Una finestra sul passato
INFANZIA SALENTINA
di Antonio MELLONE 24
Musica e arte sacra
GIORNATA INTERNAZIONALE DI MUSICA MEDIOEVALE
di Luigi MANGIA 27
Sul filo della memoria
LU DIAVULICCHIU
di Pippi ONESIMO 28
Da Palazzo Orsini
GALATINA COMUNICA
a cura dell’Ufficio Cultura 30
SOMMARIO
Mio padre era lì.Nel suo regno di grano,piccolo e immenso come
un paradiso.Il suo cappello sovrastava la pianuraDa qualunque parte
dell’orizzonte arrivassi.
D’estate somigliava al sole.Ma non facevi fatica a guardarlo:il
suo riso lampeggiava come una carezzain quel mare di spighee di
silenzio caldo,le braccia erano nere e fortile sue mani erano rami
d’ulivo,i suoi occhi andavano oltre il cielo,e avresti detto che
sopra di luipassava in ogni momentola storia di tutti gli
uomini.
Mio padre era lì.Anche quando non c’era.A tenere il tempo
lontano,a seminare e a cogliere chissà quali sognidi ragazzo o di
vecchio.
E forse è ancora lì.Come sempre è stato,giorno dopo giorno.Come
ieri.Come domani.
Antonio Mele ‘Melanton’Galatina
COPERTINA: Botticelli - Natività mistica (particolare)
Redazione Il filo di Aracne
Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito
dal Circolo Cittadino “Athena”
Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220
info: www.circolocittadinoathena.com - e-mail:
[email protected]
Autorizzazione del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006.
Distribuzione gratuita
Direttore responsabile: Rossano Marra
Direttore: Rino Duma
Collaborazione artistica: Melanton
Distribuzione: Giuseppe De Matteis
Redazione: Tonio Carcagnì, Salvatore Chiffi, Piero Duma, Antonio
Mele ‘Melanton’, Mariateresa Merico,
Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Tommaso Turco, Piero Vinsper,
Gianluca Virgilio
Impaginazione e grafica: Salvatore Chiffi
Stampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013
Galatina73013 Galatina.
Mio padre era l ìMio padre era l ì
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Una delle figure salentine più rappresentative edemblematiche
degli ultimi due secoli è, senza al-cun dubbio, quella del cav.
Adolfo Colosso daUgento. Uomo di grandi vedute e dalla mentalità
vivace edinamica, ha applicato alle tecniche agricole
dell’epoca,basate su procedure e concezioni piuttosto antiquate,
si-stemi innovativi che hanno trasformato in poco più di undecennio
l’agricoltura nel basso Sa-lento.
Vita ed opereAdolfo, secondogenito di sette fi-
gli, nasce a Ugento l’11 agosto 1854da Luigi e Rosa Rovito. Vive
un’in-fanzia dorata tra gli affetti dei ge-nitori, le premure della
servitù edei contadini che frequentano il pa-lazzo. Dopo aver
portato a terminela scuola primaria nel suo paese,prosegue gli
studi a Lecce e, suc-cessivamente, s’iscrive alla RealeScuola
Superiore di Agricoltura diPortici. Qui alloggia in un
apparta-mento di Villa Cocozza, insieme alcugino Domenico Bacile,
ai salenti-ni Alfonso e Raffaele Veris e all’in-separabile Emanuele
Consiglio diGallipoli, con il quale manterrà fra-terni rapporti per
tutta la vita. Ne-gli anni universitari, Adolfo profonde il massimo
impegnonegli studi, tanto da meritarsi numerosi encomi e la
pub-blica stima da parte dei professori. Quello di chimica
scri-verà: “Era in lui presente l’innata gentilezza dei figliuoli
di Terrad’Otranto”.
In quegli anni è letteralmente preso dall’interesse per
labotanica, la zootecnia e l’agronomia in genere. Si raccontache,
durante le ore di svago e nei giorni festivi, preferissesalutarsi
dagli amici per vagare nei boschi e studiare lepiante, gli insetti,
i funghi, per poi catalogarli. Una verapassione la sua. Si laurea,
insieme a Emanuele Consiglio,con il massimo dei voti il 25 gennaio
1880 e torna nella suaUgento con un carico di idee, di progetti
innovativi e conil fermo desiderio di dare una svolta decisiva
all’agricoltu-
ra del paese.Si adopera con grande entusiasmo e slancio alle
varie
tecniche di produzione agricola, ma, ahilui, incontra
im-mediatamente ostacoli e diffidenze da parte di tutti, anchedei
suoi stessi familiari. Alfonso, che ha animo tenace e pa-ziente,
non rinuncia al progetto, anzi insiste e convince suopadre a
concedergli qualche opportunità. Papà Luigi lo as-seconda, anche se
malvolentieri. Allora il giovane dottore
lega a un aratro di nuova concezio-ne una coppia di buoi e, con
l’osti-nazione tipica del cafone incallito,ara in profondità, per
ore ed ore,una vasta superficie di terreno in-colto, sotto lo
sguardo attonito dinumerosi contadini, alcuni dei qua-li,
nonostante tutto, continuano amanifestare qualche scetticismo.
Al-la fine, però, la differenza tra il vec-chio sistema d’aratura e
il nuovo ètalmente evidente da indurre queipochi “sapientoni” ad
ammetteregli enormi vantaggi. La strada è or-mai aperta e i
miglioramenti posso-no essere introdotti. Papà Luigi,finalmente, si
schiera dalla sua par-te. Ora Adolfo ha la possibilità di la-vorare
a 360 gradi. Dapprima cam-bia il sistema di rotazione
agraria,basato su tecniche che, come il mag-
gese, sono largamente superate, e introduce stabilmente lepiante
foraggere, come l’erba medica, la barbabietola, il fa-vino, le rape
da foraggio, che sono del tutto sconosciute.Utilizza, al posto del
vecchio ma pur sempre valido stalla-tico, i nuovi concimi chimici,
su tutti il solfato di potassioe d’ammonio, il nitrato di potassio,
di calcio e di ammo-nio, ed anche qui, tra lo stupore generale, i
risultati sonosorprendenti. Ma Adolfo non intende fermarsi. Ha
vogliadi innovare anche le attrezzature agricole e i sistemi di
ara-tura, di semina, di concimazione e di raccolto, i quali, a
suodire, sono ancorati al Medioevo. Soppianta ogni cosa conaratri
moderni, erpici, falciatrici, trebbiatrici e altre mac-chine di
nuova generazione che rivoluzionano totalmentela vita nei campi,
sono fonte di enormi guadagni e, quel
4 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
Adolfo Colosso
Uomo talentuoso e intraprendente
ADOLFO COLOSSOADOLFO COLOSSOVissuto tra l’800 e il ‘900, ha
introdotto efficaci innovazioni nelle colture e nelle
tecniche agricole del Salento. Per quattordici anni sindaco di
Ugento, si è sempre
adoperato per migliorare le sorti della gente, riscattandola
dalle antiche sofferenze
di Rino Duma
VITE STRAORDINARIE
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che più conta, di lavoro sicuro per tantissimi braccianti. Edè
proprio su quest’ultimo aspetto che Adolfo Colosso vin-ce la
scommessa.
Va precisato che, a quei tempi, i vasti poderi non sonolavorati
direttamente dai proprietari, bensì vengono fram-
mezzati in piccole particelle e ceduti in affitto o in
mezza-dria ai contadini. Questi, non avendo grandi
disponibilitàfinanziarie, si limitano a coltivarli, utilizzando le
tradizio-nali tecniche produttive e apportando soltanto qualche
in-significante miglioria.
Adolfo, spinto da un grande entusiasmo e determinazio-ne, decide
di rischiare in proprio e parte per un’avventuramolto audace,
sapendo bene che il tempo gli avrebbe da-to ragione. Lavora in
proprio gran parte dell’immen-sa proprietà terriera, che si aggira
intorno aisettemila ettari; assume centinaia e centinaia di
brac-cianti e, nel contempo, introduce le innovazioni agri-cole. Il
risultato, come d’altronde era nelleaspettative, è
stupefacente.
Non sono soltanto le colture agricole a beneficiaredell’ingegno
e della perspicacia di Adolfo. L’agrono-mo intravede la possibilità
di migliorare anche lecondizioni di vita degli animali da stalla,
come gliequini, i bovini, gli ovini e i suini. Per tale motivo
co-struisce degli ambienti spaziosi, sani e confortevoli,alimenta
gli animali con fieno e granaglie prodotti sui pro-pri terreni e li
sottopone periodicamente a visite veterina-rie. In poco tempo,
grazie all’introduzione di nuove razze
e a un’attenta selezione degli animali, realizza una fattoriadi
primo ordine, che richiama l’attenzione del governocentrale.
Infatti, non a caso emissari della Commissionegovernativa
dell’Esercito ogni anno si recano ad Ugentoper acquistare centinaia
di puledri.
Adolfo Colosso non si accontenta dei successi ottenuti.Sa che la
sua azienda è all’avanguardia tra quelle salenti-ne, ma sa anche
che, rispetto a quelle dell’Italia del nord, èancora indietro. Per
tale motivo, anche l’olivicoltura e laviticoltura entrano a far
parte del grande progetto del-l’agronomo, che costruisce, pur tra
tanti sacrifici, dei mo-derni frantoi per la produzione di olio
finissimo e unostabilimento per la lavorazione e conservazione di
preli-bati vini (tra cui lo Zagarese e l’Ozantino1), dotato di
am-bienti molto ventilati e freschi.
I prodotti ottenuti nei vari settori agricoli non puntanopiù
sulla quantità, come quelli di un tempo, bensì sullaqualità, in
modo da poter competere con molte aziende econquistare mercati
d’ogni parte d’Italia. In breve tempoCasa Colosso si afferma nelle
varie fiere nazionali e inter-nazionali, ricevendo premi, diplomi,
medaglie e numero-si riconoscimenti, anche d’oltre oceano.
Insomma, tutto ciò che Adolfo ha appreso a Portici, loapplica
pari pari nella sua azienda agricola, che diventaben presto un
punto di riferimento nell’intero Meridione.
A distanza di appena un ventennio dal suo primo diffi-cile e
contestato esperimento, i contadini di Ugento ora sischierano con
lui e lo seguono in ogni iniziativa. Si forma
spontaneamente unasorta di connubio: dauna parte vi è il
“con-dottiero” che in conti-nuazione escogitaprogetti,
incoraggia,consiglia, impartisceistruzioni e dall’altra visono
numerosi contadi-ni e braccianti che lavo-rano alacremente,
forsepiù del necessario, per-
ché sanno di essere ben guidati e, soprattutto, accolti,
ca-piti, protetti. A Ugento e dintorni non vi è ombra di un
solodisoccupato. Se Adolfo incontra per strada un uomo incu-pito
dalla cattiva sorte e senza lavoro, lo porta nella suaazienda e gli
offre la possibilità di lavorare. A quei tempi,infatti, considerato
lo stato d’infinita miseria delle genti sa-lentine, lo scopo
principale di ogni padre di famiglia èesclusivamente quello di
portare un pezzo di pane a casaper sfamare i propri figli. Per tale
motivo sono in tanti a ri-verirlo, a benedirlo e a pregare il buon
Dio perché gli pre-servi la salute.
Anche i giornali dell’epoca s’interessano del
“miracolo”dell’azienda Colosso. “Il Presta”, in modo particolare,
esal-ta a più riprese il coraggio e l’intraprendenza di
AdolfoColosso, additandolo ai proprietari terrieri come esempioda
emulare.
La “Gazzetta delle Puglie” pubblica alcune sue ricerchesulle
varie problematiche e sulle tecniche agrarie; inoltredà ampio
risalto alle malattie delle piante, soffermandosi
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 5
Torchi dell’oleificio
Ugento 1914 - Adolfo Colosso (1° a sin.) con amici
Esposizione Universale di Saint Louis (USA)
Diploma per la medaglia di bronzo
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ad analizzare la peronospora e la fillossera, che in queglianni
distruggono buona parte dei vigneti salentini, e ne in-dica i
rimedi da adottare.
Nel 1889 entra in politica ed è immediatamente elettoconsigliere
della Deputazione Provinciale di Lecce, dovesi distingue per
chiarezza di idee, per la bontà di intentie per l’impegno profuso a
favore del suo Salento. Dap-prima ricopre la carica di segretario e
in seguito quella divice-presidente. Nonostante sia stato eletto
nella lista deimoderati, Adolfo preferisce più volte mettersi al di
so-pra delle parti e si schiera con coloro che hanno a cuorele
sorti della gente salentina.
Nel 1893, a Lecce, sposa Antonietta Massa dei baroni diGalugnano
e dalla loro unione nascono ben nove figli.La moglie è nipote del
famoso rivoluzionario salentinoche prese parte ai moti della breve
Repubblica Napoleta-na del 1799 e che fu fucilato da re Ferdinando
I a Napo-li il 24 agosto 1799.
Nel 1896 progetta e realizza la bonifica di una parte deiterreni
paludosi lungo il litorale ionico, ricavando ben qua-ranta ettari
di terreno fertile. Nel 1901 costituisce ilConsorzio Antifillossera
in difesa della viticoltura.
Una volta eletto sindaco, al posto del fratello Massimo,morto
improvvisamente, ristruttura l’intero sistema viariodi Ugento e le
strade vicinali, costruisce il Mercato coper-
to e la Torre del-l’Orologio, accol-landosi, di que-st’ultima,
buonaparte delle spese.
È membro anchedella società del-l’Acquedotto Pu-gliese e
s’interessafattivamente per-ché siano iniziatele opere di
canaliz-
zazione e distribuzione delle acque. Una delle migliori
iniziative realizzata da Adolfo è com-
piuta nel 1912. Si tratta dell’installazione di un potente
mo-tore a olio pesante per generare energia elettrica etrasmetterla
alle cantine (enopolio), all’oleificio, al saponifi-cio, alle
stalle, al molino e ai vari edifici dell’azienda, palaz-zo di
famiglia compreso. Grazie a questa fenomenaleiniziativa, è
possibile far funzionare anche il cinematografo,uno dei primissimi
in provincia. L’agronomo ha anche in ani-mo di potenziare
l’impianto e di elettrificare l’intera città.
Adolfo non conosce riposo: ha in mente due grandi pro-getti. Il
primo riguarda la costruzione di una rada nellamarina di Torre San
Giovanni; con il secondo intende ulti-mare la bonifica delle paludi
costiere. Ci sarebbe senz’altroriuscito in queste due grandiose
imprese, se non fosse so-praggiunta inaspettata la morte, che lo
strappa prematura-mente, all’età di sessantuno anni, all’affetto
dei familiari,dei suoi inconsolabili contadini e di molti
salentini.
È la mattina del 14 novembre 1915. L’Italia è entrata dapoco in
guerra. Tantissimi giovani hanno ricevuto la carto-lina-precetto
per partire al fronte e servire la patria. Anchea Luigi Colosso è
recapitato quel maledetto avviso. Nel
leggerlo, Adolfo accusa un’emozione intensa e devastante,che lo
turba profondamente. Il figlio cerca in ogni modo disollevarlo,
rassicurandolo che avrebbe fatto di tutto per es-sere destinato
nelle retrovie, lontano dalle prime linee. Per
schiodarlo dal tormento, Luigilo invita a fare un giretto
in calesse per le campa-gne. In breve tempo idue raggiungono
unacasina di loro proprietàe qui si mettono a pas-seggiare in lungo
e inlargo, discutendo delprogetto relativo alla ra-da e di altri
imminentilavori. Luigi, che ha in-tuito la crisi interiore incui è
precipitato il padre,tenta in ogni modo didistoglierlo, ma lui
pun-
tualmente ritorna suldiscorso iniziale. Il do-
lore di Adolfo è troppo grande: la paura che a suo figlio pos-sa
accadere qualcosa di brutto gli ha corroso, come uninstancabile
tarlo, il cuore e la mente. A un tratto l’uomo silamenta,
impallidisce, gli compare una smorfia di sofferen-za sul viso,
avverte una fitta al petto e un forte dolore albraccio, che lo
fanno piegare su stesso. Il figlio gli presta im-mediatamente
soccorso, ma lui lo rassicura dicendogli chenon è gli accaduto
niente di particolare e che già si sente me-glio. Con il
trascorrere dei minuti, però, Adolfo riprende acontorcersi dal
dolore e a respirare a fatica. I due tornanoimmediatamente a casa,
ma le condizioni dell’uomo vannosempre più peggiorando. Alle cinque
e trenta pomeridiane,la sua nobile anima decide di salutarsi per
sempre dalla suaamata terra e di involarsi verso le aure
celesti.
Ugento, il Salento e l’intero Meridione piangono la scom-parsa
di un uomo straordinario. I funerali sono solenni: lemassime
autorità pugliesi porgono l’estremo e deferentesaluto all’homo
novus, all’uomo che ha stravolto il basso Sa-lento in pochi anni, e
una folla traboccante e compunta, diquasi diecimila unità, segue in
silenzio il rito funebre. Dapiù parti d’Italia giungono telegrammi
di cordoglio, tratutti va ricordato quello dell’on.le Antonio
Salandra, Pre-sidente del Consiglio deiMinistri.
La collezione ar-cheologica di Adol-fo Colosso
Oltre ad essere unpreparato agronomo, unabile e intraprendente
im-prenditore, un politicoonesto e irreprensibile,Adolfo Colosso
colleziona re-perti archeologici che rinvienenelle campagne
del-l’ugentino e che gli
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 7
Antiche etichette dei vini prodotti
Napoli 1900 - Esposizione d’Igiene
Diploma di menzione onorevole
Collezione Colosso
Cratere con anse a fascia
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studiosi fanno risalire ai Messapi. Tra i tanti oggetti che
og-gi si possono ammirare nel Museo Colosso a Ugento, ci-tiamo le
belle monete bronzee e argentee, sul cui verso èriprodotto il dio
Zeus2. Non meno importanti sono gli
splendidi vasi dalle grandi orecchie,il vasellame in genere, le
sculture,
le iscrizioni messapiche su co-lonne e pietre, alcuni
capitel-
li arcaici, gli utensilidomestici, i gioielli inoro e la
bellissima statuabronzea di Zeus, che og-
gi si trova a Taranto nelMuseo ArcheologicoNazionale.
ConclusioniUna vita straordi-
naria quella di Al-fonso Colosso, unavita costantemente
de-dicata al migliora-mento della suaazienda, della sua cit-
tà, dell’intero Salento,grazie a un’innata passione,
a una meticolosa com-petenza professio-
nale, a uno spirito
imprenditoriale straordinario e mai arrendevole, a unospiccato
senso comune della vita.
Purtroppo, dopo la sua morte, nessuno ha raccolto il te-stimone
per realizzare il progetto del “Grande Salento”.Tutto s’è fermato,
ogni cosa è rientrata nell’antico alveo.
Adolfo Colosso ha lasciato una grande eredità a noi sa-lentini,
ci ha fatto capire che con la competenza, la condi-visione di
progetti, la determinazione e un pizzicod’orgoglio e di amor
proprio si possono raggiungere tra-guardi insperati.
Solo con uomini di tale spessore, umano e professiona-le, il
Salento attuale può sperare di venir fuori dalle sueantiche
letargie e da quel senso di rassegnazione, di fatali-smo e
d’indifferenza, che ancor oggi è presente in molti sa-lentini.
Auguriamoci che qualche altro Adolfo Colossoquanto prima appaia sul
proscenio della vita pubblica, ma,intanto adoperiamoci perché
questa Terra abbandonil’anonimato e si metta al passo di altre
regioni più moti-vate e organizzate. •
NOTE1 Questi due vitigni sono quasi del tutto scomparsi. Si
continua ancora aprodurli, in poche quantità, nei vigneti di
proprietà del nipote di AdolfoColosso, che porta lo stesso nome. Si
badi attentamente che il termine“Ozantino” è riconducibile
all’antico nome della città di Ugento “O Zancton”, che
letteralmente significa “Terra di Zeus”.2 Si precisa che all’epoca
Ugento era una florida cittadina di ben cinquan-tamila abitanti e
batteva moneta propria per l’importante posizione geo-grafica.
8 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
Zeus
Rino Duma
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Ad eccezione degli storici e di qualche appassiona-to di vicende
meridionali, sono in poche le perso-ne che conoscono i tragici
fatti legati alla cadutadella Repubblica Napoletana del 1799, che
durò poco me-
no di sei mesi. Pertanto, prima di en-
trare nel vivo della trat-tazione, è necessariofare un po’ di
chiarezzaal fine di presentare be-ne la situazione storicae non
ingenerare confu-sione e fraintendimentinel lettore.
Sull’onda della Guer-ra di IndipendenzaAmericana (1775-83)
edella Rivoluzione Fran-cese (1789) nasce spon-taneamente in tutto
ilcontinente europeo unmovimento di idee libe-
rali e repubblicane, che sconvolgono non poco la vita
son-nacchiosa nella quale sono immersi i vari Stati. Isovrani
intervengono reprimendo ovunque foco-lai d’insurrezione.
Tra il 1796 e il 1799 le truppe francesi dilaganoin gran parte
dell’Italia e riportano importantisuccessi; nel nord proclamano la
loro indipen-denza la Repubblica Ligure e quella Cisalpina,mentre
al centro la Repubblica Romana e, in se-guito, quelle Tiberina e
Anconitana. Lungo l’in-tero stivale, i repubblicani rumoreggiano,
rad-doppiano le loro forze eversive e puntano al ro-vesciamento dei
sovrani.
Nel Regno delle Due Sicilie ben presto filtra ilpensiero
giacobino e si afferma soprattutto nellefasce medie della
popolazione, costituita da in-tellettuali, artigiani, commercianti,
uomini di media cultu-ra, mentre il popolino, ignorante e
facilmente influen-zabile, rimane in disparte e continua a subire
passivamen-te le prevaricazioni della classe dominante. Questa
discra-
sia tra i due strati della popolazione sarà importante
ecomporterà, in seguito, il fallimento della Repubblica
Na-poletana.
Si costituiscono due sette segrete: la prima è chiamataLomo
(Libertà o Morte), la seconda Romo (Repubblica oMorte). Entrambe
creano non pochi problemi alla gendar-meria borbonica, che fa
fatica a contenerle.
Sul finire del 1798, il Regno delle Due Sicilie entra inguerra
contro i francesi e trova negli inglesi, guidati dal-l’ammiraglio
Horatio Nelson, validi alleati. L’obiettivo èdi rovesciare la
Repubblica Romana e riportare papa PioVI sul soglio di Pietro.
Forte di un esercito di 70.000 uomi-ni, i Borbone entrano a Roma e
ristabiliscono l’ordine, sen-za incontrare eccessive resistenze. La
loro è però unavittoria effimera, poiché dopo pochi giorni i
francesi si rior-ganizzano e ricacciano i Borbone, costringendoli
ad unaprecipitosa ritirata. Rientrando a Napoli, re Ferdinandotrova
un clima ostile e pericoloso, per cui preferisce prose-guire per
Palermo.
Cacciati i Borbone, il 23 gennaio 1799 è proclamata
uffi-cialmente la Repubblica Napoletana. Nel governo provvi-sorio
troviamo il fasanese Ignazio Ciaia con mansioni diprim’ordine. La
Repubblica Napoletana, non essendo frut-
to di una totale insurrezione popola-re, stenta ad affermarsi e
a radicarenella società. Il popolino, infatti, nondà mai il suo
completo appoggio, an-che perché è continuamente mano-vrato e
ricattato dai vescovi, daiprelati e dai tanti uomini di chiesa,
iquali ovviamente stanno dalla partedei Reali deposti. Oltretutto,
il cardi-nale Fabrizio Dionigi Ruffo organiz-za nelle campagne
della Calabria edella bassa Campania numerose scor-rerie per opera
della setta dei “Sanfe-disti”1 e di bande di briganti asser-vitesi
alla corona, tra cui quella fami-
gerata di Fra Diavolo. L’intento è di aizzare le masse
deicontadini contro i repubblicani e creare una controrivolu-zione.
L’organizzazione è perfetta e si fa sentire. Con unamanovra di
accerchiamento, i Borbone costringono i re-
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 9
Ferdinando IV di Borbone
Horatio Nelson
Non dimenticate, ragazzi, non dimenticate!
Dopo la caduta della Repubblica Napoletana del 1799,
sono in molti i repubblicani giustiziati dai Borbone.
Tra costoro vanno ricordati alcuni eroici personaggi
salentini
di Mauro De Sica
HISTORIA NOSTRA
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pubblicani a indietreggiare verso Napoli. Inoltre, si dà ilcaso
che le truppe francesi, distaccate a Napoli, siano ri-chiamate da
Napoleone Bonaparte in altre zone di guerra,per cui la capitale
partenopea rimane indifesa e, quindi,esposta a facili attacchi. Di
ciò, ovviamente, approfittano iBorbone e gli inglesi per sferrare
un’azione di guerra rapi-da e risolutiva.
I rivoluzionari napoletani riescono amalapena a contenere i
furiosi attacchidei Realisti, ma, dopo alcuni giorni distrenua
difesa, sono costretti ad asserra-gliarsi nel castello di Sant’Elmo
e lì mori-re da uomini liberi.
Il cardinale Ruffo, essendo un uomo dichiesa e non volendo
spargere ulterioresangue, offre loro una resa onorevole,promettendo
un salvacondotto per l’este-ro a ciascuno degli assediati. I
rivoluzio-nari accettano la proposta, sicuri che ilcardinale
onorerà l’impegno assunto, equindi si arrendono, deponendo le armi
eaprendo le porte del castello. HoratioNelson, che è un acerrimo
nemico dei giacobini e dei lorosostenitori, propone con insistenza
a re Ferdinando di re-vocare la promessa del cardinale. Il re, in
un primo mo-mento, non accetta per non contrariare l’alto prelato,
ancheperché gli ha conferito massimi poteri. Poi, su
istigazionedella moglie Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, la cui
so-rella Maria Antonietta era stata ghigliottinata qualche an-no
prima a Parigi, finisce col cedere alle pressioni edichiara gli
insorti colpevoli di alto tradimento. I rivolu-zionari vengono
incarcerati, torturati e sottoposti a som-mari processi.
Finiscono nelle carceri di mezza Campania ben
ottomilarepubblicani, dei quali molti saran-no liberati, però messi
sotto strettasorveglianza. Infatti, queste perso-ne sono obbligate
a non allonta-narsi dal luogo di residenza eperiodicamente a
presentarsi alcomando zonale di gendarmeria.
I personaggi di spicco sonocondannati alla pena capitale,per
impiccagione o per ghigliotti-na, in qualche circostanza ancheper
fucilazione. I nobili e gli altiufficiali sono ghigliottinati,
men-tre la gente comune è impiccata esolo alcuni militari fucilati.
Con il
diverso tipo di esecuzione capi-tale si vuole dare al nobile
oall’alto ufficiale la possibilità
di trapassare senza accorgerse-ne.
Nel giro di un anno sonogiustiziati ben 124 repubblica-ni,
mentre 222 sono condanna-
ti all’ergastolo, 288 alladeportazione, 67 in esi-
lio, 322 a pene minori, 6 graziati.Le condanne a morte sono
eseguite a Procida, nell’attua-
le Piazza dei Martiri, e a Napoli nella Piazza Mercato,
ce-lebre, nella storia partenopea, per le tante
esecuzionicapitali.
La gloriosa Repubblica Napoletana, nata il 23 gennaio1799, cessa
ufficialmente di vivere l’8 lu-glio dello stesso anno: sono
trascorsi sol-tanto cinque mesi e mezzo.
I Borbone regneranno a Napoli sino al1806. In seguito sarà
Gioacchino Murat agovernare per quasi dieci anni. Dopo ifatti di
Waterloo, i Borbone ritornerannoa Napoli per poi essere
definitivamentecacciati, a seguito della famosa (?) spedi-zione dei
Mille.
Tra i giustiziati spiccano i nomi di gran-di personaggi
dell’epoca come l’ammira-glio Francesco Caracciolo, prima amico
epoi acerrimo rivale di Nelson, e, per que-sta ragione, impiccato
(si badi bene nonghigliottinato) all’albero di bompresso
della nave inglese Minerva. Il corpo rimane appeso per ol-tre un
giorno e poi gettato in acqua con dei pesi legati aipiedi perché
vada a fondo. Il cadavere, strano a dirsi, ri-torna a galla dopo un
giorno. La mano pietosa di un pretelo sottrae a quell’ulteriore
ludibrio.
Ricordiamo, inoltre,l’esecuzione di altre im-portanti figure,
comequella di Michele Nata-le, vescovo di VicoEquense; di
RaffaeleMontemayor, tenente divascello; quella di Luigide Cesbron,
cavaliere ecomandante di fregata;quella di Pasquale Baffi,docente
di Letteraturagreca all’Università diNapoli, e, su tutti, quelladi
Raffaele Lossa, ungiovane di appena diciott’anni anni.
Non vanno sottaciuti i casi di Luisa Sanfelice de Molinae di
Eleonora Fonseca Pimentel. La prima è una nobildon-na napoletana,
amica dei Reali. È l’ultima repubblicana adessere giustiziata,
perché dichiara di essere incinta, graziead alcuni medici
compiacenti, che confermano il suo statointeressante. Svelato
l’arcano, è ghigliottinata a Napoli, inPiazza Mercato, l’11
settembre 1800, nonostante le conti-nue suppliche di grazia rivolte
da numerosi nobili. Gioac-chino Toma le dedica un bel dipinto,
mentre AlessandroDumas un romanzo.
La seconda, d’origini romane, è direttrice del periodico“Il
Monitore napoletano” e viene impiccata il 20 agosto 1799.
Tra i giustiziati ci sono, purtroppo, anche cinque perso-naggi
salentini.
Francesco Antonio ASTORE, nato a Casarano il 28 ago-sto 1742,
dotto in letteratura, retorica e lingua greca, si lau-
10 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
Maria Carolina d’Asburgo
Francesco Caracciolo
Procida
Monumento ai giustiziati del 1799
-
rea a Napoli in giurisprudenza. Durante la breve Repub-blica
Napoletana svolge l’incarico di Giudice di Cassazio-ne e di membro
del Comitato di Polizia. Viene giustiziatoa Napoli il 30 settembre
1799.
Ignazio CIAIA, nasce a Fasano il 24 ottobre 1762 ed è at-tratto,
sin dall’infanzia, dalla poesia e dagli ideali di giusti-zia e
libertà. Viene chiamato dal generale francese JeanÉtienne
Championnet quale membro della rappresentan-za nazionale nel primo
go-verno provvisorio dellaRepubblica Napoletana, ca-rica che
manterrà per oltreun mese, per poi entrarenella Commissione
Esecuti-va della Difesa. È giustizia-to a Napoli il 29
ottobre1799.
Ignazio FALCONIERI,nasce a Monteroni di Lecceil 16 febbraio
1755, sacerdo-te, è nominato rettore delSeminario di Nola e, in
seguito, docente universitario dieloquenza. Il 31 ottobre 1799,
dopo aver additato per mol-ti anni ai giovani allievi la via della
saggezza e della virtù,dà esempio di fierezza e di coraggio ed
affronta la forca in-neggiando alla libertà.
Oronzo MASSA, duca di Galugnano, nasce a Lecce il 18agosto 1760,
maggiore di artiglieria, viene fucilato dall’am-miraglio Horatio
Nelson a Napoli il 14 agosto 1799.
Antonio SARDELLI, nasce il 18 aprile 1776 a S. Vito de’Normanni,
studioso, viene impiccato a Napoli il 7 dicem-bre 1799.
Le drammatiche vicende appena narrate non sono statemai studiate
dagli studenti salentini, perché non hannomai fatto parte dei libri
storia, se non sommariamente. Ha
ben ragione Serena Viva quando afferma, in un suo recen-te
articolo, che ci è stata negata gran parte della nostra storia.Ed
io aggiungo che il popolo che non ha una memoria storicaè destinato
a rimanere ai margini della stessa storia e a subirla,non
certamente a scriverla. In questa situazione si è trovato e sitrova
tuttora il Meridione d’Italia.
Quest’articolo, pertanto, è dedicato esclusivamente
alledistratte e fuorviate menti dei giovani d’oggi, perché si
fer-
mino a riflettere su quantosia difficile vivere da uomi-ni
liberi e su quanto sia dif-ficile mantenere integra lalibertà di
cui oggi godiamoe che è stata costruita, nelcorso dei secoli,
grazie alsacrificio di tanti martiri,subito dimenticati o fatti
di-menticare.
Siate vigili e solerti, ra-gazzi, non trascurate la li-bertà,
difendetela a denti
stretti, non rinunciate ad essa, se non volete ritrovarvi a
vi-vere una vita piena di sofferenze, di umiliazioni, di
prepo-tenze, allo stesso modo di come furono costretti a vivere
inostri antichi Padri. Siate gli artefici della vostra vita e
nonpermettete che siano gli altri a decidere per voi.
Non dimenticate, ragazzi, non dimenticate: la Storia, ilpiù
delle volte, si ripete! •
NOTE1 I “Sanfedisti” sono una forza paramilitare voluta dal
cardinale FabrizioDionigi Ruffo, completamente finanziata da re
Ferdinando. E’ anche chia-mato Esercito della Santa Fede in Nostro
Signore Gesù Cristo. Un’organizza-zione del genere fa presa
facilmente sulle coscienze dei contadini, i qualil’appoggiano senza
battere ciglio, anche perché , rifiutandosi, temono diincappare
nella possibile “vendetta eterna di Nostro Signore”.
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 11
Il cadavere di Francesco Caracciolo (a sin.) torna a galla
Mauro De Sica
-
Negli “Scritti sparsi di fine millennio” (Galatina, Gra-fiche
Panico 2001), il mai dimenticato Carlo Cag-gia scrive due
interessanti ricordi di TommasoFiore: il primo è “Ricordo di
TommasoFiore” (pp. 21-23); il secondo è “Tomma-so Fiore
interventista” (pp. 33-35).
Il primo “Ricordo”, Caggia lo scrissenel giugno 1973 sul
periodico «il Gala-tino» ed è appunto un ricordo che l’au-tore fa
del Tommaso Fiore di “Un popolodi formiche”, libro che egli
definisce «ca-polavoro» perché, leggendolo, rimase«particolarmente
colpito tanto […] da con-siderarlo ancora oggi il più bello fra
quan-to è stato scritto sulle cose del Sud».Nell’articolo, Carlo ci
dice come conob-be «il grande protagonista, il cafone di Pu-glia,
il “cafone all’inferno” [...] il cantoredell’umile bracciante del
sud, l’intellettua-le pugnace e combattivo che non prostituìil suo
genio alle classi dominanti e che ri-mase fedele, per tutta la vita
agli umili ed aiderubati del loro sudore». Poi
raccontadell’incontro, avvenuto nel 1967, in ca-sa Fiore a Bari,
invitato dallo stesso me-ridionalista per sollecitarlo a
pubblicarealcuni suoi articoli pubblicati su «Il Nuovo Cittadino»
ga-latinese.
L’altro “Ricordo”, Caggia lo scrisse su «Il Corriere di
Ga-latina» (24 dic. 1977). Si tratta di una recensione scritta
aproposito della ripubblicazione del libro di Tommaso Fio-re,
curato di Enzo Panareo, dal titolo “Uccidi. Taccuino diuna recluta”
(Cavallino, Capone editore 1977). Carlo spie-ga in esso le ragioni
che spinsero Fiore ad essere socialistainterventista nella prima
grande guerra (1914-18). In en-trambi i ricordi è esplicita la
stima profonda che l’intellet-tuale galatinese aveva per Tommaso
Fiore, l’antifascistacoerente, il perseguitato politico, lo
scrittore pugliese cheaveva tradotto Erasmo da Rotterdam, Tommaso
Moro,Sainte-Beuve, e soprattutto il suo capolavoro di letteratu-ra
di riferimento, “Un popolo di formiche”, una sorta di os-servazioni
di viaggio di una Puglia ancora agrico-lo-pastorale, che Piero
Godetti, da Torino, gli aveva solle-citato a scrivere in forma di
lettere alla sua rivista, la «Ri-
voluzione Liberale».Qualche anno fa, l’editore Palomar decise di
ristampare
“Un popolo di formiche” (Bari 2001), e chiese a Giuseppe
Gia-covazzo, per decenni direttore de «LaGazzetta del Mezzogiorno»,
di scriverela presentazione. Così, l’attento giorna-lista barese si
assunse il compito con uninteresse quasi di parte, avendo
eglipersonalmente conosciuto e frequentatoTommaso Fiore. Intitolò
la sua presen-tazione “Un inviato molto speciale”, rife-rendosi
appunto al tipo di “reportage”fatto dal “formicone di Puglia”.
Giuseppe Giacovazzo scrive: «PerchéTommaso Fiore scelse di
raccontare la Pu-glia attraverso un viaggio? Sarebbe statopiù
agevole a lui trattarne da studioso, daletterato di vasta cultura
storica. Avrebbepotuto fare un libro sull’esempio di tanti
il-lustri storici […ma egli] non si muove inquella direzione. Sente
soprattutto il biso-gno di cogliere dal vivo le condizioni del
suopopolo. […] La scelta di Fiore rispetta i da-ti e le cifre ma
non vuol essere un’arida ri-levazione statistica. E se la storia
maiuscolaè scoraggiata da Croce, gli rimane la strada
delle microstorie attinte personalmente alla fonte, a contatto
conle persone, viaggiando da un paese all’altro» (pp. 7-8).
Come si sa si tratta di quattro lettere che Fiore scrisse trail
1925 e il 1926 a Gobetti, più altre due scritte alla
rivista«Conscientia». Giacovazzo ha care espressioni per
questolibro, e scrive che «si resta ancora oggi affascinati dal
modo co-me Fiore si accosta al mondo degli umili: facendosi umile
comeloro» (p. 14).
Altro passaggio importante è Giacovazzo quando scri-ve: «Uno dei
pregi di “Un popolo di formiche” sta nel supe-ramento della
polemica astiosa tra Nord e Sud, che avevacoinvolto più
generazioni. […] In Fiore non c’è mai livore né ac-canimento.
Passione sì, tanta. Veleni mai. Anche in questo il suostile è
coerente con lo spirito dell’inchiesta, rigoroso quanto esi-ge una
seria ricerca. Sullo sfondo del suo viaggio c’è sempre la
co-scienza dei tanti mali cronici del Sud, così radicati, così
complessida non poter essere ascritti semplicisticamente a una sola
causa»(pp. 16-17).
12 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
TOMMASO FIORETOMMASO FIOREE IL SUOE IL SUO
““UN UN POPOLO DI FORMICHE”POPOLO DI FORMICHE”di Maurizio
Nocera
Tommaso Fiore
SCRITTORI PUGLIESI
-
E ancora poco oltre: «”Un popolo di formiche” non è ope-ra di
sociologo in cerca di conferme. Fiore non si concede mai al-la
fredda analisi. Le poche cifre che di tanto in tanto riporta
stannosempre nel vivo di un contesto appassionato, nel cuore dei
proble-mi, delle lotte di popolo […] Tommaso Fiore non era l’arido
cal-colatore, il Nicodemo alla finestra, disponibile a tutte le
stagioni,pronto a imprestare una cultura senz’anima» (pp.
18-19).
E per finire, questo di Giuseppe Giacovaz-zo è il giudizio più
bello su Tommaso Fiore:«Libero da vincoli di partito e di
consorterie, Fio-re si mette in viaggio, come un frate
francescano,senza cavalcatura. È il più povero di tutti gli
in-viati speciali, rischia in proprio, senza rete. Ma hadentro
l’ansia di conoscere, la sete di raccontare.Sa già molto dai libri,
ma sa che non basta. Sa chebisogna dimenticare ciò che si sa per
cogliere ilnuovo, il palpito delle cose vere, il loro
incessantemutare. Io lo vedo novello Ulisse, nato per raccon-tare»
(p. 19).
“Un popolo di formiche” è una pagina moltobella, un pezzo di
storia letteraria sicuramen-te antologizzata nella grande
letteratura me-ridionale del Novecento, quella scritta da
GaetanoSalvemini, Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Luigi Piran-dello,
Carlo Levi, Elio Vittorini, Corrado Alvaro, IgnazioButtitta, Rocco
Scotellaro, Ignazio Silone, Giuseppe Iovi-ne, Domenico Rea,
Giuseppe Bonaviri, Aldo De Jaco, Giu-seppe Dessì, Danilo Dolci,
Leonardo Sciascia, lo stessoVittore Fiore, figlio di Tommaso, e
civilissimo poeta di “Eronato sui mari del tonno”. Ma a questo
elenco mancano sicu-
ramente molti altri nomi, di letterati e poeti, alcuni
addirit-tura molto vicini a noi, che sicuramente altri
elencheranno.
Ecco, è da tale constatazione che nasce in noi la necessi-tà di
scrivere che il diario di Puglia di Tommaso Fiore èuna lettura
obbligata per la crescita di una coscienza me-ridionalista, perché
“Un popolo di formiche” descrive la no-stra terra e lo fa con amore
e profondità di analisi, che non
è mai sterile o distaccata ma profondamentepartecipativa. Le
riflessioni di Tommaso Fioresono al tempo stesso politiche e ricche
di ri-chiami storici, notizie archeologiche, cronacaminuta e
puntuale. Si tratta di un libro che cifornisce una vasta massa di
informazioni adulteriore convalida dell’indicazione più pre-ziosa
che sta a cuore all’autore: la formazionedi una sensibilità
sinceramente democratica.
Si tratta di bellissime ed appassionate pagi-ne che descrivono
paesaggi, uomini, città; chedescrivono come insulso il burocratismo
cen-tralista dello Stato, con Tommaso Fiore che in-vece si dichiara
a favore delle libertà mu-nicipali. Egli, anche se con
un’impostazione
ideologica differente da quella di Gramsci e dello
stessoGobetti, come loro però indica nell’alleanza delle classi
su-balterne la possibilità di migliorare le condizioni di vita edi
lavoro delle genti del sud.
È ancora valida oggi la lettura di “Un popolo di formiche”?Non
solo è valida, ma è assolutamente necessaria per capi-re il paese
in cui viviamo e gli orizzonti verso cui il nostroMezzogiorno va.
•
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 13
Via Metauro, 101 - 73013 GALATINA (LE)Tel. 0836.522030 -
0836.527724 - 0836.563141 - Fax 0836.522612
[email protected]
-
L’argomento che stiamo per trattare potrebbe urtare
lasuscettibilità di qualche persona. Però, se noi accen-diamo la
televisione, assistiamo, quotidianamente,a tante scempiaggini, a
tante nefandezze, a tanti sproloqui,a linguaggi d’angiporto, che ci
fanno arricciare il naso. Siparla di escort, di lucciole, di
passeggiatrici, di peripateti-che, di trans, di etero, ma in
sostanza, mutatis mutandis,sempre di puttane o pseudo tali si
tratta, siano esse di altoe medio borgo o semplici bagasce.
Il lettore avrà capito, di certo, che prenderemo in
consi-derazione le puttane, o meglio, i proverbi galatinesi in
cuicompare il termine bbuttana. Ne ho raccolto dalla viva vo-ce del
popolo una settan-tina e spero, nella miapaziente ricerca, di
ag-giungere degli altri.
Probabilmente qualchepuritano potrebbe fare lespallucce, in
senso di di-sgusto; ma a lui replicocon i versi del Giusti:“Che
vuol ella, Eccellenza?Il pezzo è bello, / poi nostro,e poi suonato
come va; / e,coll’arte di mezzo, e col cer-vello / dato all’arte,
l’ubbiesi buttan là”.
Si badi bene che il po-polo con il termine bbutta-na non indica
solo ladonna che esercita l’arte più antica di questo mondo,
lamantenuta, la convivente, l’amante, bensì colei che, perproprio
vantaggio, cambia comportamento, opinione, par-tito, a seconda
delle circostanze e con estrema leggerezza,colei che va contro i
crismi della buona educazione e cheassume atteggiamenti non consoni
alla morale.
Ci porta la mujere a ogni festinu e face vivire lu cavaddhru
aogni funtana, an capu all’annu lu cavaddhru è mburzu e la mu-jere
bbuttana.
I lettori sanno che nel periodo del dopoguerra c’erano,
aGalatina, molti locali in cui si organizzavano feste da bal-lo. I
festini più rinomati erano quelli de lu Bomba, tra ViaCavazza e
l’incrocio con Via Buozzi; de lu Pitteddhra e, inVia Scalfo, quello
che si svolgeva sotta a llu Cuncertu.
È chiaro che - sostiene il popolo – il marito, che porta la
propria moglie a ballare sempre nei festini, gioca con il
fuo-co. E lo stesso rischio corre lu thrainieri, che fa bere
acquaal suo cavallo ad ogni fontana. Non trascorre un anno e
ac-cade che il cavallo diventa bolso e la moglie donna di
ma-laffare. Come dire: il fuoco vicino alla paglia non ci
puòstare.
Quandu alla fèmmana lu culu li bballa, se nunn è bbuttana
lupruverbiu falla.
Certe donne, camminando, per farsi notare, muovonocon passi ben
precisi e cadenzati le natiche per mettere inmostra le loro
fattezze. Se queste non sono delle battone,vuol dire che il
proverbio sbaglia.
La fèmmana ca mena l’an-ca, se nunn è bbuttana pocummanca.
Questo ditteriu va acompletare ciò che si èdetto prima. La
donnache, nell’incedere, an-cheggia e sgambetta vi-stosamente,
sculettando,se non è una prostitutapoco manca.
Quandu singata è la cam-pana, a ddhru la tuzzi tuzzifazza sona;
cusì ‘na fija debbuttana nu’ ppote fare mai‘na ‘ssuta bbona.
Se la fusione di unacampana non è perfetta e
la campana presenta della piccolissime crepe, quando
lapercuotiamo con il battaglio, emette un suono sgraziato,stridulo,
sgradevole, e quindi falso. Nella stessa manierauna figlia che ha
per madre una bacchettona non può ave-re mai un avvenire migliore.
Noi diciamo anche: “L’arte delu tata è mmenza ‘mparata”,
figuriamoci poi l’arte della ma-dre! Meno male, però, che a questa
regola ci stanno moltis-sime eccezioni.
Vasa, vasa, vucca de mele: tie bbuttana iu mujiere.Ho ascoltato
proprio io, in prima persona, quest’espres-
sione, quando avevo l’età di circa sei anni. Mi trovavo
neipressi di una fontana, dove c’erano molte donne intentead aquam
hauriendam. Non riuscii ad afferrare ciò che dis-se una signora nei
riguardi di un’altra che passava per lavia, rasentando i muri delle
abitazioni. Ma mi rimase im-
14 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia
terra noscia terra no
Esempio tangibile della saggezza popolare
Lu dittèriuIl popolo, quando parla, sentenzia
di Piero Vinsper
-
pressa la risposta: “Bacia, bacia, bocca di miele! Tu
restisempre una mantenuta, io sono la moglie!”.
Bbuttana pe’ ‘na fava, bbuttana pe’ ‘nu vùngulu. Quando qualcuno
commette un’azione illecita e lo fa per
procurarsi grandi o piccoli vantaggi, ilgiudizio di condanna non
cambia.
Vùngulu, nel nostro dialetto, è il bac-cello di fava con dentro
il frutto.
Può, forse, derivare dalla forma gre-ca γογγύλος (rotondo);
infatti il baccel-lo, con dentro le fave, ha una formatondeggiante
nella sua lunghezza.
Bbuttane e cannarute Ddiu le juta.Cannaruta è la donna ghiotta,
avida,
golosa, vorace, la donna che vuoletutto per sé come la gran
baldraccavorrebbe accaparrarsi i proventi dellesue prestazioni
senza fare i conticon… l’oste.
Comunque, questo proverbio èl’amara considerazione che si fa
quan-do gente che vive nel vizio e nell’agia-tezza viene baciata
dalla fortuna.
La furtuna è bbuttana tutta, se ‘nnamu-ra de ci la sfrutta.
Spesso accade che la fortuna non ar-rida a chi la merita, ma a
chi riesce aprenderla per i capelli, a chi l’abbindo-la e a chi la
sfrutta.
La furtuna ede bbuttana e accorta, a llu poverieddhru nu’
lliapre mai la porta.
Al povero disgraziato ogni via è preclusa, anche se ten-ta di
migliorare la sua condizione di vita; è povero e deverestare
povero. Figuriamoci poi se la fortuna gli spalancala porta. È come
dire: “Ci nasce pòveru e sfurtunatu, li chio-ve an culu puru se ste
ssettatu”.
A volte lu ditteriu mette in guardia i giovani, per
tenerlilontani da situazioni incresciose, scabrose, che
potrebberodanneggiare il corso della loro vita, oppure cerca di
esor-tarli a desistere da certi ammiccamenti.
Comu ede la spica vene la canija: de mamma bbuttana nu’ spu-sare
fija.
Come cresce la spiga, così vien fuori la crusca durante
lamolitura del grano; se la spiga è vuota la crusca non è buo-na
neanche a fare il pastone per le galline. Di conseguen-za di una
grande zoccola non devi sposare la figlia.
E, per essere più esplicito, cito quest’altro proverbio: “De‘na
cavalla càmbara fija nunn ha’ pijare; se nunn è tutta càmba-ra alla
mamma have ssamijare”. In altre parole: dove salta lacapretta? La
capretta salta dove salta la capra.
Nu’ tte mbicinare a ‘nvitu de taverna, a carizzi de cane e
aamore de bbuttane.
Stai alla larga di chi t’invita a entrare in una bettola perbere
vino e fare baldoria; sii prudente a fare carezze a uncane, perché,
in un batter d’occhio, potrebbe azzannarti; enon credere affatto
all’amore di una prostituta, perchéquell’amore è di breve durata, è
un amore fittizio, di circo-stanza.
Quàrdate de ci si sente do’ messe la matina, de cantina nova,
de
bbuttana vecchia, de ommu ca nu’ parla e de cane ca nu’
bbaja.Bada a non prestar fede alla pizzoca, che ascolta due
mes-
se ogni mattina, a chi ha aperto una nuova cantina, a put-tana
old style, all’uomo suturnu, che non parla, e al cane che
non abbaia. Da tutti prenderai sicura-mente delle grandi
fregature.
Pure i venti, nel nostro dialetto, han-no a che fare con il
termine bbuttana.
Punente fetente; e cce ss’have ddire de lathramunatana, ddhra
grande fija de bbutta-na?
Ponente fetente: quando spira questovento è un gran da fare per
i pescatoriche si trovano in mezzo al mare; se poisubentra la
tramontana, quella gran fi-glia di ndròcchia, succede il
finimondo.Si scatena il maestrale, che è un granpericolo per i
naviganti.
Sciaroccu chiaru, thramuntana thrubba ebbuttana vecchia, lu
Signore cu nni quar-da.
I pescatori, in virtù della loro grandeesperienza, si
raccomandano l’anima aDio e implorano la sua protezione, nonsolo se
hanno a che fare con una vec-chia baldracca, ma soprattutto
quando,durante la navigazione, scorgono che ascirocco il tempo è
chiaro e a tramon-
tana il cielo è nuvolo. Questo è presagio di una imminen-te
burrasca. •
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 15
a noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia
terra noscia terra noscia terra noscia terra
-
16 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
Potrebbe somigliare alla storia di uno dei tanti “monelli”
dipaese – di qualsiasi paese dell’Italia povera e affamata di
cinquan-t’anni fa, quindi anche della nostra Galatina – la piccola
storiache qui mi piace riproporre, ambientata fra le strade della
vec-chia borgata del Pigneto, nella periferia romana dei primi
anni’60 del secolo scorso: quella epica e tragica di “Accattone”,
perintenderci, tanto cara a Pier Paolo Pasolini, oggi purtroppo
(oper fortuna, secondo alcuni) dispersa quasi del tutto, ma
nonsenza un po’ di nostalgia.
È una cronaca vera, un piccolo epi-sodio di vita vissuta, che
per il suo pu-ro e umanissimo messaggio ha quasi ilsapore di un
racconto di Natale, nar-rato personalmente e sapidamente
dalprotagonista (nome di battaglia: “Tar-zanetto”, oggi vispo
ultrasessantenne)in un lessico qui appena riadattato peresigenze
giornalistiche, che mantieneun’incredibile e vivida freschezza,
eche ci fa riscoprire lo schietto profumo
d’altri tempi.Il Pigneto, come Torpignattara, Pietralata,
Testaccio o Cento-
celle, erano i quartieri-simbolo di una Capitale ancora
proletaria,ingegnosa e caciarona, pervasa di inquietudini e
contraddizioni,tra i primi sfavillanti bagliori della Dolce Vita e
i mille fantasio-si espedienti, generati dalla necessità di
sopravvivere in un su-burbio indigente (ma anche vivacissimo),
affollato di improbabilinegozietti, di mirabolanti botteghe
artigiane e di gente svegliaed arguta, dove tutti conoscevano
tutti, sentendosi in qualchemodo affratellati.
In queste periferie emarginate, lontane anni-luce dalle
lucimondane di Via Veneto, la quotidianità era fatta di
avventurosistratagemmi, tenendo un corso tutto sommato semplice e
roman-tico, in un universo esuberante ma ancora a margine del
‘mira-colo economico’, e ancora a misura d’uomo, che
soprattuttolasciava ampi spazi alla comune partecipazione e
complicità.
Va infine doverosamente precisato che lo spunto per questo
‘af-fresco di vita’ – rielaborato in esclusiva per “Il filo di
Aracne” –mi è stato fornito dalla giornalista Daniela Molina del
periodicoromano “Viavai”, che ringrazio con viva cordialità
congiunta-mente al mitico “Tarzanetto”, il quale con la sua
colorita testi-monianza ha saputo offrire un omaggio in qualche
misura‘storico’ a quella Roma che fu, e di riflesso alla nostra
piccola Ita-lia d’una volta, sicuramente più povera ma a suo modo
forse per-fino più bella.
Auguri cordiali a tutti i nostri Lettori. (Roma, dicembre
2009).
Ai primi anni Sessanta il Pigneto era completamentediverso da
com’è adesso: c’era prato dovunque, edera pieno de baracche, con
poche case nuove e i “vil-lini” delle Ferrovie. A Via Ignazio Danti
ce stava uno strac-ciarolo, Spizzichino, il nipote del quale, ch’è
amico mio,ancora oggi prosegue quella stessa attività a
Pietralata.
Un giorno andiedi da Spizzichino – che era na specie
deMangiafuoco, e a noi pischelli (ma anche a quelli più gran-di de
noi) ce faceva paura puro a guardallo – per doman-dargli come
potevo fà pe racimolà quarche quatrino co lecose usate:
- “Che te prendi, de solito?”, je chiedo.
- “‘A regazzì, lo sai, no?Io prendo un po’ de tutto:alluminio,
ferro, rame,piombo. E li vestiti de la-na... Ma li maglioni devono
da esse sani, sennò valgono demeno”.
- “Io ci ho un po’ d’alluminio e un po’ de lana”, je dico.
Ma lui manco me risponne. Volevo andare al cinema, che costava
120 lire. Co-
sì torno a casa, ci avevo dodici anni, e prendo de ni-scosto de
mì madre l’unica cazzarola de alluminioche ci avevamo. E per giunta
prendo pure un ma-glione de lana de mì padre, che gliel’aveva
regalatola sorella maglierista. Poi vado dallo Spizzichino,che
guarda storto sia a me che alla roba. Però alla fi-ne se la prende,
e mi dà 150 lire.
Tutto contento, m’avvio co ‘sti soldi in mano. Ma, arriva-to
all’angolo, me pija la paura, anzi proprio er terore, chemì padre
me pistasse, me sorvegliasse de niscosto... Allo-ra, che te faccio?
Torno indietro, salgo su una scaletta defero che dava su un
terrazzo che stava dentro ar vicoletto,salto il muro dello
Spizzichino e so’ già dentro il depositode la roba usata. Così, me
ripijo sia la cazzarola che er ma-glione, e scappo via.
Quando che passo davanti al sor Adelmo er tabaccaro, luime dice:
- “Guarda che lo Spizzichino t’ha visto che je pren-devi la roba.
Gira de qua che vai a sortì a via Casilina...”.
Allora giro de là, e me metto a corre che nimmanco Ber-ruti
all’Olimpiadi.
Come che arrivo a via Casilina esce fora dar negozio sorTullio
er barbiere co’ tutto er pennello ‘nsaponato, che stril-la: - “Er
Tarzanetto sta a corre!”, e subito dopo la sora Lel-la, che era poi
la sorellastra de mì madre, che ci aveva lì
TARZANETTO E LO S
Roma - Via Casilina, anni ‘60
Roma - Bar Necci
Pier Paolo Pasolini
Cronache dalla Roma popo
di Antonio Mele ‘Mel
Quasi un racconto d
NATALE E DINTORNI
-
vicino un negozio de ferra-menta, che strilla pur’essa: -“Mì
nipote scappa!... Che haicombinato, bello de zia?”.
Io corro ancora più svelto, e passo davanti al sor Ciciode le
biciclette, che me dice: - “A Tarzane’, che te corri costa
cazzarola in mano? Che ce fai?”. Quando che passo da-vanti ar
cromatore, pure lui me dice: - “A Tarzane’, ma‘ndo vai co quella
roba?”. E pure er fabbro: - “A Tarzane’,che te corri?...”.
Io, pe risposta, continuo a correre e non me filo nisuno. Ma le
ragazze che stavano davanti alla fabbrica de li car-
ciofini sott’olio se mettono a schiamazzà come cornacchie:- “C’è
uno che scappa!... C’è uno che scappa!...”. E subitodopo passo
davanti a Elvira, la mia prima ragazza, che ciaveva dodici anni
come me, che stava dalla sorella tinto-ra, che me fa segno. Ma non
me fermo nimmanco lì, tirosparato pe dritto, e passo davanti
all’orefice del banco deipegni, e poi al bombolaro che vendeva le
bombole d’ossi-geno pei fabbri: - “A Tarzane’, entra qui dentro che
te di-
fendo io!”, me dice er bombolaro, mentre dall’altraparte de la
strada, er Pacioni, quello che vendeva limotorini usati, me urla: -
“A Tarzane’, viè qua chestai sicuro!”.
Ma io continuo a corre più forte de prima, e volovia davanti ar
meccanico, e poi ar garagista Oreste erBurino, che se mette a ride
e a fa casino come er so-lito suo: - “A’nvedi Tarzanetto come se la
corre, sta-matina! A Tarzane’, che t’è preso?”.
Sul marciapiede de fronte c’era pure Cesare er
Matto, che per me non era matto ma un grande professo-re che
poteva ‘nsegnà ar liceo, e pare che ci avesse proprioinsegnato per
davero, il quale me guarda co’ le mani a bi-
nocolo sull’occhi, e me saluta ridendo. Ma io corro sempre:
Nazzareno er tornitore me guarda
co l’occhi de fora mentre lo supero de volata, poi passo
da-vanti alla fabbrica de divani, alla pasticceria, al calzolaio,al
forno del pane, a lo stagnaro, al negozio de vini e oli delsor
Remo...
E alla fine entro proprio lì, dar sor Remo. Che subito mechiede:
- “Ch’hai fatto, Tarzane’? Che t’è successo?”.
Appena che riprendo fiato, je spiego tutta la situazione,e je
dico pure che a casa ci abbiamo solo quella cazzaro-la che avevo
venduta e che me so’ ripreso. Ma lui me ti-ra da na parte e
m’avvisa: - “Attento, che ce so’ icarabinieri. Nascòndite!”. Allora
io me niscondo, e sentoer sor Remo che per non fasse sgamà fa er
finto co leguardie: - “’A sor Brigadiè... Ma che, alle volte, state
percaso a cercà un regazzino co na cazzarola e na majetta delana?”.
- “E che ce mettemo a cercà i regazzini co le caz-zarole, noi?
Stamo a cercà uno che s’è grattato na moto-cicletta, na moto
Guzzi...”.
A quel punto, io me tranquillizzo e finalmente torno acasa,
sudato fracico come un pedalino lavato.
Ma quand’erano passati un po’ de giorni, e per di
piùs’avvicinava Natale, me riservivano un po’ de soldi. Allo-ra, me
fo’ coraggio de novo, e facendo l’ignorante decidode riportà la
cazzarola e il maglione dallo stracciarolo.
Quando che me rivede co’ cazzarola e maglione, lo Spiz-zichino
nun batte ciglio: storce solo un po’ er naso, strignela mascella,
se rigira la roba pe le mano, e quando la trema-rella me se stava a
rosicà, alla fine se la pija e la sistema arsolito posto. Poi me dà
150 lire e me saluta.
Io, tranquillo. Quand’è un po’, dopo manco un quartod’ora, giro
ner vicolo, salgo su per la scaletta come quell’al-tra volta, me
calo dar muretto, e arrivo di nuovo nel depo-sito pe riprendermi la
roba che j’avevo dato allostracciarolo.
Ed ecco la sorpresa: vedo subito il maglione de mì pa-dre che
era stato tajato in quattro e buttato dentro na sca-tola de
cartone. E là vicino la cazzarola tutta acciaccata
einservibile.
Come se nun bastasse, e prima ch’avessi realizzato
per-fettamente la situazione, ecco che dall’ammasso de roba,co no
zompo tremendo, salta fori lo Spizzichino, sbatten-do li piedi pe
terra e sghignazzando co la faccia feroce: - “ATarzane’, t’ho
fregato!”.
Allora io nun so che fare, ma poi me ripijo subito e je di-co: -
“E mo’ a casa, come famo a magnà? Quella è la solacazzarola che ci
abbiamo”.
Così lo Spizzichino me prende pe na recchia, e m’accom-pagna
dietro la catasta der materiale ammucchiato.
E qui c’è la seconda sorpresa. Pija un paiolo che stava
lìvicino, e me lo regala: un callaro de rame quasi novo, mol-to più
grande de la cazzarola mia. Poi entra ed esce velo-ce dallo
sgabuzzino con un maglione de lana quasi novopure quello: - “Sennò,
tu’ padre te mena fino a stasera”, medice. E pe ultimo me mette in
saccoccia altre 1.000 lire, cheio nun l’avevo mai viste tutte sane
in vita mia...
Perché lo Spizzichino, alla fine, era proprio così. Un ve-ro omo
de core.
Solo che nun se voleva fa fregà!». •
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 17
E LO STRACCIAROLO
ma - Bar Necci
Franco Citti in una scena di “Accattone”
Roma popolare di Pasolini
onio Mele ‘Melanton’
n racconto di Natale
-
Era un carissimo ragazzo, amico di tutti, poi, percause ai più
rimaste ignote, scomparve prematura-mente il 28 ottobre 1966,
all’età di appena trenta-quattro anni.
Noi lo chiameremo “Ùcciu” (che poi è il diminutivo ab-breviato
di “Antonucciu”, da Antonio), senza indicare ilcognome, perché i
fatti, che più innanzi racconteremo, po-trebbero, in qualche modo,
essere un pochino lesivi dellasua memoria. Soltanto“Ùcciu”, quindi,
perchécosì lo abbiamo conosciu-to e frequentato, quandolui, ancora
studente licea-le, si univa a noi, di qual-che anno più
gran-dicelli, che già ci confron-tavamo coi ponderosi te-sti delle
varie facoltàuniversitarie.
Era un bravo ragazzo,“sanu-sanu” – come si di-ce a Nardò – come
l’ave-va fatto “màmmasa”, unragazzo cioè assai inge-nuo e senza
furberia al-cuna, amante della veri-tà, anche se ciò spesso
glicostava incomprensionied ostilità. Ùcciu si tene-va ben distante
dall’assumere comportamenti che non fos-sero sorretti dai principi
della lealtà e del rispetto. Per talemotivo, dopo essersi iscritto
alla Democrazia Cristiana, chelui riteneva fosse frequentata da
persone umili ed oneste,ebbe a scontrarsi di continuo con gli
affiliati e i maggioren-ti di questo partito, che, a differenza dei
suoi nobili ideali,miravano unicamente a conservare i privilegi
derivanti dalpotere.
Politicamente quelli di Ùcciu erano tempi di accesissimae
velenosa contrapposizione ideologica, che portava
al-l’esasperazione della lotta politica. I Democristiani,
adesempio, predicavano che i Comunisti fossero l’incarna-zione del
Male, rivolto alla conquista del potere anche con
la violenza, e se necessaria “a manu armata”. I Comunisti,dal
loro canto, descrivevano la Democrazia Cristiana unpartito di
corrotti e di ladri.
Data la sua collocazione politica, Ùcciu, nonostante
l’in-discussa onestà intellettuale che lo caratterizzava,
respira-va inconsapevolmente l’aria malsana che circolava per
lacittà, fatta di invettive, di accuse, di calunnie (il più
dellevolte pretestuose e non vere) lanciate contro la parte av-
versa. Anche Ùcciu finìcol cadere nel vorticeimpetuoso del
“botta erisposta” tra i due ver-santi politici,
ritenendoinnocentemente che i“suoi” si trovassero dal-la parte
giusta.
Se, per esempio, si di-ceva in giro che in Rus-sia i Comunisti
avesserotrasformato le chiese inluoghi di crapula e goz-zoviglie,
il nostro, cre-dulone per natura,finiva con
l’accettarequell’obbrobrioso spro-loquio.
Addirittura Ùcciu,tormentato dal dubbio,volle scrivere in
Russia
ad un suo conoscente per conoscere l’esatta verità. Dopoqualche
tempo dall’Urss quell’amico gli rispose negandoogni cosa e
accludendo alla missiva una serie di foto a co-lori (in quei tempi
circolavano soltanto foto in bianco e ne-ro), dalle quali appariva
in maniera inequivocabile come iPopi celebrassero liberamente le
Messe e impartissero i sa-cramenti ai fedeli, così come veniva
fatto a Nardò.
L’uomo, perciò, ravvedutosi di quanto ingannevolmentesostenuto
dai suoi dirigenti politici, fece pubblica mostra ditali
fotografie, facendo così incavolare (usiamo un eufemi-smo) un
dirigente della DC locale, il quale non mancò, pre-so da una rabbia
incontenibile, di apostrofarlo con parolaccedi inaudita bassezza e
di lacerargli in faccia le foto, addu-
18 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
C’ERA UNA VOLTA...
I creduloni sono sempre esistiti
L’ ingenu i tàL’ ingenu i tàd id i “Ucc iu”“Ucciu”
Riteneva che ogni persona dovesse essere sincera
e che le bugie fossero dettate dal Maligno
di Emi l io Rubino
-
cendo che quelle erano state scattate oltre vent’anni
primadell’ascesa dei bolscevichi in Russia. Insomma erano
fotorisalenti ai tempi dell’ultimo zar.
Se in giro circolava la voce che i Comunisti arrivasseropersino
a mangiare i bambini, se colti da improvvisa fame,lui, il nostro
Ùcciu, anche se inizialmente turbato da simi-le grave atto, finiva
coll’ingoiare la calunniosa diceria e,perfino, ad accusare
pubblicamente gli avversari politici.
Era un onesto, ma l’onestà di Ùcciu spesso confinava
conl’ingenuità, sicché era portato a credere anche alle più
gros-solane corbellerie, come quando, sull’onda di una propa-ganda
politica velenosa e senza esclusione di colpi, un tizioebbe a
dirgli, scherzosamente, che nella sezione del PCIcittadino, posta
al primo piano di Via Vittorio EmanueleIII, fossero occultate armi
da guerra e perfino un carro ar-mato. Il nostro Ùcciu, preso
stavolta da un grosso dubbio,non disdegnò di fermare il segretario
politico di quella se-zione e di domandargli se quella notizia
corrispondesse alvero. Apriti cielo: per poco non scoppiò la terza
guerramondiale.
Ùcciu si iscrisse alla Democrazia Cristiana perché eral’unico
partito in Italia a coniugare le idee politiche con ivalori
cristiani, in cui lui credeva ciecamente.
Che la sua fede nella religione fosse un fatto connatura-to al
suo essere cristiano, non c’era alcun dubbio, perché dasincero ed
onesto qual era, credeva fermamente nei dogmidella fede e, perciò,
anche nei miracoli operati dai santi.Miracoli che potevano essere
compiuti, secondo la sua opi-nione, solo da coloro che dedicavano
l’intera vita all’amo-re e ai principi cristiani. Ùcciu credeva in
queste cose e sisforzava di rispettare i dettami del Vangelo in
ogni mo-
mento della giornata e di attuarli. Lo si vedeva frequenta-re la
chiesa, aiutare i poveri e i sofferenti, recitare le pre-ghiere del
mattino e della sera. Insomma pensava di essereun santo
vivente.
Era consuetudine per lui, soprattutto durante i mesi esti-vi,
recitare all’imbrunire il santo Rosario coi vicini di casadi Via
Baracca, dov’è egli abitava coi suoi. Raccontava lo-ro le parabole,
i miracoli operati direttamente da Gesù Cri-sto, come quello della
moltiplicazione dei pani e dei pesci,della resurrezione di Lazzaro,
quelli di Padre Pio, di San-t’Antonio da Padova, ecc.
Una sera, poi, volle dar prova di come San Giuseppe daCopertino
si librasse in aria e volasse per le vie del paese.Salito su un
ammezzato, ad alcuni metri di altezza, iniziòad agitare le braccia,
come a voler imitare gli uccelli e spic-cò il volo… ma, ahi ahi,
cadde rovinosamente per terra,fratturandosi, buon per lui, la gamba
e lanciando grida didolore.
Forse quella caduta gli fu salutare, perché, da allora e si-no
alla sua prematura morte, non si sentì più parlare in gi-ro di
Ùcciu.
Peccato, un vero peccato, perché la nostra inquieta e
son-nacchiosa Nardò avrebbe senz’altro avuto bisogno di unaltro San
Giuseppe per abbonire i suoi cittadini, come nonmai dediti a tutti
i vizi capitali e dimentichi delle buonemaniere e virtù.
Per noi, però, che l’abbiamo conosciuto e, per certi ver-si,
amato e stimato, rimarrà come un santo mancato… omeglio, come un
santo particolare, del tutto nuovo. E per-ciò, d’ora in poi, noi
neritini, il 28 ottobre di ogni anno fe-steggeremo Sant’Ùcciu,
protettore… dei creduloni. •
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 19
-
Comunità è sempre una cosa buona, scrive ZygmuntBauman. Che cosa
vuol dire questa frase così sem-plice eppure così profonda? Secondo
me vuol direche stare insieme è un bene, serve per farci stare
bene. Na-turalmente, ognuno di noi può scegliersi la comunità
chepreferisce (sicché il brav’uomo andrà con il brav’uomo,
ilmalfattore andrà con il malfattore). La comunità, comel’amicizia,
è un fatto elettivo. L’amico si sceglie, perché losi sente affine a
se stessi, si condivide con lui qualcosa. Edal poco o dal molto che
si condivide dipende l’intensità eil grado dell’amicizia. Bastano
due amici perché ci sia ami-cizia, ma per fare una comunità occorre
che molte personesi incontrino e parlino tra loro, scambiandosi la
parola. Co-munità deriva dal lat. communis (cum + munus), e
richiamal’idea del dono (munus) che va messo in comune e scam-biato
(cum) tra coloro che fanno parte diuna comunità. Oggi viviamo un
vuotodi comunità, dovuto alle condizioni divita regolate dal
sistema capitalisticoavanzato e fondate
sull’individualismoesasperato, che la politica ha ampliato,negando
la propria originaria vocazio-ne comunitaria. Pertanto, è facile
accor-gersi che oggi la forma più diffusa dicomunità sono i
comitati d’affari, bene omal dissimulati. In realtà, il vuoto
co-munitario è colmabile soltanto frequen-tando i luoghi dove è
possibile loscambio della parola, dei gesti, dellosguardo, al di
fuori di ogni logica utili-taristica, i luoghi dove ci si ritrovi
fisi-camente a contatto, gomito a gomito,dentro uno spazio animato
dai discorsipiù vari, che riguardino la nostra vita.
Ecco perché ho accolto con grande favore la proposta, ri-voltami
da alcuni amici, di collaborare alla realizzazionedel programma
annuale dell’Associazione Università Po-polare “Aldo Vallone” che,
come si sa, opera a Galatina dal1992, per merito e per il fattivo
interessamento di Zeffiri-no Rizzelli e di Pietro Giannini. A me
pare che le attivitàsvolte da questa associazione costituiscano una
delle po-che realtà, senza la quale la nostra città sarebbe
defrauda-ta di un importante luogo di elaborazione culturale
e,dunque, perfino della possibilità di definirsi una comuni-tà. E
che oggi noi tutti corriamo un simile pericolo, basta
uno sguardo alla politica locale per averne contezza. Masu
questo è meglio stendere il proverbiale velo pietoso.
Ho avuto modo di seguire le lezioni dell’Università ga-latinese
già al tempo di Zeffirino Rizzelli, quando l’auladel Palazzo della
Cultura era gremita di gente anziana, in-curiosita dalle parole dei
relatori e accolta sempre congrande affabilità dal Presidente
Rizzelli. Ebbene, già allo-ra mi sono sempre chiesto: perché
destinare quelle lezionicosì interessanti solo alla cosiddetta
Terza Età, perché nonaprirle a tutte le fasce di età, senza
preclusioni di sorta? Epoi, ancora, perché non invitare il mondo
della scuola, glistudenti e gli insegnanti, che avrebbero trovato
in quellelezioni un’occasione di approfondimento e di
aggiorna-mento? Probabilmente ci si era mossi anche in questa
dire-zione, ma le resistenze erano state molte, forse troppe e
alla
fine vincenti. Che sia anche oggi la stes-sa cosa?
Verificheremo!
Così, accogliendo l’invito degli amicidell’Associazione, mi sono
prefisso ilpreciso intento di operare in una dimen-sione
comunitaria a 360 gradi, favoren-do la frequenza delle lezioni di
tutticoloro che mi riuscirà di contattare. E’certo, infatti, che
non si smette mai di im-parare e che tutte le età della vita
debba-no essere coinvolte in un processocontinuo di educazione
permanente.Non solo: ritengo che sia anche impor-tante cercare
forme di collaborazione conaltre associazioni presenti in città,
chenell’Università Popolare potranno trova-re un luogo di
espressione della propriavocazione: il Circolo Athena con il
suobimestrale “Il filo di Aracne” di Rino
Duma, il quindicinale “Il Galatino” di Rossano Marra,
laFondazione “Popoli e Costituzioni Salento” di Tony Tun-do, i
Dialoghi di Noha e l’“Osservatore Nohano” di An-tonio Mellone e
Marcello D’Acquarica, l’AssocazioneBoys, Cultura e Sport di Luigi
Mangia, il sito galatina.blogolandia.it di Raimondio Rodia, per
citare so-lo alcune associazione e gruppi culturali che già
collabora-no con l’Università Popolare, e che qui
vivamenteringrazio.
Un ringraziamento particolare va al direttore del porta-le
informatico di Galatina, Galatina2000.com, Tommaso
20 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
INIZIATIVE CULTURALI
I cittadini di Galatina rilanciano l’Università Popolare “Aldo
Vallone”
L’Università PopolareL’Università PopolareIl dono della
comunitàIl dono della comunità
di Gianluca Virgilio
Il prof. Boero in conferenza
-
Moscara, che, con rara sensibilità rispetto ai fatti
culturalidella nostra città, assicura a chi sia impossibilitato a
fre-quentare le lezioni ed abbia un computer, di seguirle sulcanale
Inondazione tv, dove va costituendo un Archiviodelle lezioni. È una
gran bella cosa,che impedirà la dispersione dei ma-teriali di
studio, e favorirà la loroconservazione e migliore fruizioneda
parte di un più largo pubblico,anche extracittadino.
Scrivo queste righe dopo i primiincontri avvenuti nel mese di
no-vembre 2009. Credo che le persone,intervenute numerose, abbiano
bencompreso quale nuovo corso si voglia dare a questa Univer-sità.
In qualche misura, si aspettavano tutto questo, e il con-senso
manifestatomi da più parti me lo conferma. Davantiallo sfacelo
della politica, la voglia di stare insieme, di farecomunità, rimane
saldamente come volontà di non arren-dersi all’esistente.
Per finire, ringrazio la Dirigente Scolastica, dott.ssa An-na
Antonica, che ha messo a disposizione dell’UniversitàPopolare
l’Aula Magna del 1° Circolo Didattico da lei di-retto, dimostrando
un’apertura mentale e una disponibili-tà verso questo tipo di
attività che non sempre trova
l’eguale nelle Istituzioni scolastiche, sempre troppo atten-te a
sopravvivere all’incalzare quotidiano della burocraziaministeriale.
Ed è, dunque, a queste Istituzioni che va ri-volto un appello
perché collaborino con l’Università Po-
polare, in una logica di vera (e non stru-mentale) apertura al
territorio, alle sueesigenze di incontro e di scambio cultura-le. A
questo fine, tutte le Scuole di Galati-na sono state invitate a
presentare allacittà, in una lezione a loro dedicata, quel-lo che
esse reputano il loro miglior proget-to. Così pure sono invitati
gli studenti afrequentare l’Università Popolare, perchéessa offre
loro, attraverso l’incontro con
numerosi professori dell’Università di Lecce (e non solo)delle
più varie discipline, preziose occasioni di orienta-mento
universitario, che spesso la scuola non riesce a da-re. Inoltre
l’Associazione rilascerà, al termine delle lezioni,una
certificazione della frequenza, spendibile come credi-to formativo
a fine anno scolastico.
Ma l’invito alla frequenza è rivolto all’intera città e aipaesi
vicini, a tutti indistintamente. Venite numerosi, dun-que, e
frequentate le lezioni dell’Università Popolare diGalatina, perché
Bauman, in definitiva, ha proprio ragione:“Comunità è sempre una
cosa buona”! •
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 21
Lunedì, 11 gennaio 2010, ore 18,00*Relatore: Guglielmo Forges
Davanzati“Lo stato attuale della crisi economico-finanziaria”.
Mercoledì, 13 gennaio 2010, ore 18,00 Relatore: Maria Concetta
Cataldo“La poesia di Giovanna Scaramella nel panorama dellapoesia
dialettale salentina” (con letture della poetessa).
Lunedì, 18 gennaio 2010, ore 18,00 *Relatore: Michele
Carducci“La personalizzazione del potere nelle democrazie
rap-presentative”.
Lunedì, 25 gennaio 2010, ore 18,00 *Relatore: Aldo Cormio“Alle
origini della Repubblica, per capire l’oggi”.
Mercoledì, 27 gennaio 2010, ore 18,00 *Relatore: Giovanni
Marchese“Il sostrato greco-bizantino nel dialetto di Aradeo e
Galatina”.
Lunedì, 1 febbraio 2010, ore 18,00 Relatore: Antonio
Quarta“L’idea di Europa nel pensiero filosofico contemporaneo”.
Lunedì, 8 febbraio 2010, ore 18,00 Relatore: Giorgio De
Giuseppe“Ricordi politici dell’Italia repubblicana”.
Lunedì, 15 febbraio 2010, ore 18,00 (in collaborazionecon i
Dialoghi di Noha de “L’Osservatore Nohano”) Relatore: Antonio
Mellone“Lectura Dantis, Inferno, canto V” (Paolo e Francesca).
Lunedì, 22 febbraio 2010, ore 18,00Relatore: Carmela
Massaro“Economia e società in una “quasi città” del Mezzogior-no
tardomedievale: San Pietro in Galatina”.
Venerdì, 26 febbraio 2010, ore 18,00Relatore: Nicola
Magrone“Stiamo davvero difendendo e attuando la costituzione?”.
* L’asterisco segnala che la lezione è stata ideata in
collaborazione con la Fondazione “Popoli e Costituzioni”
Salento.Corso di lavorazione artistica della terracotta
Mercoledì 13 gennaio 2010, presso il 1° Circolo Didattico di
Galatina, Piazza Fortunato Cesari 14, avrà inizio un corso di
lavorazio-ne artistica della terracotta tenuto dal Prof: Vincenzo
Congedo. Il corso si articolerà in 10 lezioni di due ore ciascuna,
dalle 16.00 al-le 18.00 di ogni mercoledì. La partecipazione è
gratuita. Per le iscrizioni rivolgersi a Gianluca Virgilio nei
giorni di lezione.NOTA BENE: Tutte le lezioni si tengono presso
l’Aula Magna del 1° Circolo Didattico, Piazza F. Cesari, con inizio
alle ore 18.00
UNIVERSITA’ POPOLARE "Aldo Vallone" - GALATINAUNIVERSITA’
POPOLARE "Aldo Vallone" - GALATINAIstituita dal Distretto
Scolastico nel 1992
Anno Accademico 2009 - 2010
PROGRAMMA
GENNAIO 2010 FEBBRAIO 2010
Rino Rizzelli nella vecchia sede
-
Raffaele Carrierie il carrubo di Gallipoli
Della rigogliosa flora antica e di tutte le enormi fo-reste che
ricoprivano il Salento (c’erano oltre due-centomila ettari di
boschi, nel principio dell’Ot-tocento, in Terra d’Otranto, oggi ce
ne sono meno di dieci-mila), sono rimaste solo tracce: il “Bosco di
Rauccio” , gliulivi millenari nelle campagne di Vernole, la quercia
vallo-nea di Tricase (oltre 700 anni), la quercia virgiliana
della“Masseria Macrì”, nelle campagne di Supersano, e il mae-stoso
Carrubo della “Masseria Paccianna” di Gallipoli, unodei più
importanti esemplari dell’area mediterranea, su-periore perfino al
tanto celebrato carrubo marocchino di“Moulay Idriss”.
Sotto quel carrubo glorioso veniva, un tempo, a sostareil “poeta
gabelliere”, Raffaele Carrieri, conscio del fatto che“noi siamo i
naufraghi di un’altra civiltà” e che il compito
di un poeta è quello di aprire i muri e ciò che sta
intor-no/Sopra e sotto./Il chiuso voglio aprire/In ogni luogo
personacosa:/Il chiuso che sta in me, in te./Il sangue voglio
aprire/Perfuggire/E l'anima per tornare/Più aperto altrove.
Qui veniva “a incidere dispersi richiami, sulle spessecortecce
del sughero della storia, che lievi ondeggiavanoal vento, come un
nulla di cui si possa parlare“, un poetaquasi dimenticato nella sua
terra natìa, Taranto, dove nac-que nel 1905. Parliamo di un
eccezionale poeta nato den-tro la tradizione della migliore poesia
italiana del Nove-cento, quella dei Montale, dei Luzi, dei Sereni,
dei Capro-ni, quella dei Bodini, dei Pagano, ma anche quella
deigrandi autori francesi, da Apollinaire a Valery, o dei
surrea-listi spagnoli come Lorca, un poeta che per tutta la vita
vis-se nomade e disordinato, che fece tutti i mestieri
possibili,pastore di pecore in Albania e in Montenegro, legionario
aFiume vicino a D’Annunzio, riportandone anche una feri-ta al
braccio destro, che da allora in poi potè usare poco emale; un
poeta che divenne marinaio su navi da carico eandò girovago per
tutti i mari, i porti e i bordelli del mon-do; poi fece il
gabelliere in Sicilia (“La notte il gabelliere/ èpiù povero di
Giobbe/La lepre ha la tana/ la pecora la …il gabel-liere sconta il
peggio”) e si fermò (e , direi, si formò) a Pa-rigi, allora
capitale universale della cultura , dove conobbei maggiori artisti
del tempo e fece tutte le esperienzed’avanguardia subendone tutte
le suggestioni e fascina-zioni possibili; scelse i suoi modelli
“eroici” in Rimbaud,Eluard, Esenin e di Federico Garcia Lorca, di
cui fu gran-de amico.
Un poeta che disse che la poesia “non si fa”, la poesiasiamo
noi, quello che avremmo voluto essere e non siamo.“Alla malora le
carte / cartigli e scartoffie/ che potevano darmi lagloria…E’
follia, follia, restare chiuso in un calamaio/ come laseppia nel
mare / che fa macchie d’angoscia e le sparpaglia”.
Per Carrieri, che se ne andava in giro nudo, con i suoipensieri,
ma libero (“Non più gabella, non più barrie-ra…/senza sonno e senza
frontiera”) come un girovago, il ri-torno nella terra dei suoi avi,
nella Magna Grecia, a contat-to con il Grande Carrubo, era un modo
per rigenerarsi.
C’è ancora chi lo ricorda settantenne col suo basco, le te-le e
i pennelli (sì, perché fu anche pittore oltrechè criticod’arte di
notevole e riconosciuto valore) andarsene al soli-to posto, sulla
pietra glabra caotica e rocciosa, butterata esilente quinta
teatrale del Grande Carrubo della Paccianna,si poggiava lì seduto
come una “nuvola in calzoni neri” eaccarezzava il fondo campestre
ora sfigurato da una or-renda edificazione, e il volo della vespa
solitaria, gli sfilac-
22 Il filo di Aracne Novembre/dicembre 2009
POETI SALENTINI
di Augusto Benemeglio
-
ciati sentieri, la sinfonia della mosche, i terreni nudi, le
ac-que paludose; aspirava il profumo del mirto e il fragore
deipapaveri e delle margherite di campo. “La poesia non è
scri-vania / e tanto meno carta… La poesia è in alto e anche in
basso/ dove crescono semi / fiumi e vermi”.
Raffaele Carrieri si faceva sacerdoteantico dinanzi al
Carrubo-tempio voti-vo. “Tremano gli indovini / a leggere nelletue
mani / i miei profili oscillanti”.
Da vecchio poeta tarantino-spartano,da “alchimista fuggiasco /
dalle remo-te ginestre / di Finisterre”, egli avevadentro di sé
echi di guerrieri nudi, pie-ni di coraggio e d’avventura, e filtri,
emagìe d’antico stregone. Nella sua bi-saccia di nomade si portava
la favolalunga, inesauribile, che non ha inizio,né fine, ma nel cui
sottofondo è possibi-le avvertire un senso sottile di sofferen-za e
di tensione; ricreava, quasi per istinto, la sua terrad’origine,
quella Magna Grecia vitale e preziosa, di laminemetalliche, di mare
e fantasia, miti e riti che alla fine gli la-sciava un retaggio di
malinconie (“I tuoi rami sono lunghemani di ragazze more… / il tuo
profumo è una scala di tondi li-sci gradini / alla fine se ne vanno
i cavalli / sentendo da lontanoil mare / come gli zingari il
rame”). Alla sua Patria antica, Ta-ranto, la Puglia, che lo ha
trascurato, che lo trascura, ha la-sciato un linguaggio immaginoso
ed epigrammatico, oraermetico, ora surreale, con dei versi che
“sono degli orolo-gi, regolati sulla vita e sul calcolo” .
Un poeta che segna i tempi dell’indugio e le antiche ca-denze,
ma anche un grande critico d’arte stimato da DeChirico, Savinio,
Picasso, a cui aveva detto: “Pablo, hai piùsguardi tu che pesci il
mare”, un pittore e un musicologo, un
vero artista che conosceva il canto di-sperato dei “pompili” e
attraversò tuttii boulevard di Parigi assieme a Preverte ai
clochards dei ponti della Senna, unuomo che fu tutto e il contrario
di tut-to: raffinato e trascurato, semplice e im-prevedibile,
generoso e implacabile,lucido e malinconico giocatore di
pre-stigio, equilibrista del calembour, ine-sausto bevitore di
Pernod, consolatoredi puttane e mistico sacerdote delGrande Carrubo
di Gallipoli. Lo abbia-mo davanti agli occhi, assorto intensocon lo
sguardo lontano, come nel ritrat-to che gli fece Giorgio De
Chirico, pur
– ahimè – non avendolo mai incontrato, né mai veduto invita
nostra (“Anche a noi capita talvolta d’essere guardato co-sì, come
si guarda uno che non dovrebbe esserci, uno che non c’èmai stato“)
e potremmo salutarlo così, con un ciao di sorri-so e coi versi del
suo amico poeta milanese Giovanni Ra-boni, che lo vide morire, nel
1984, a pochi passi da casasua: “E noi davanti agli occhi non
avremo che la calma distesadel passato / a ripassare senza fretta /
fermando ogni tanto l’im-maginazione, / tornando un po’ indietro,
ogni tanto / per capiremeglio qualcosa, / per assaporare un volto,
un vestito… un albe-ro antico”. •
Novembre/dicembre Il filo di Aracne 23
FRESCHI DI STAMPA
GIOVANNI VINCENTI“GALATINA tra Storia dell’Arte e Storia delle
cose”Mario Congedo Editore – Galatina – pagg. 240 – € 20,00
“È un viaggio affascinante quello effettuato dall’autore
galatinese, che si muove concompetenza rara e con un mai sazio
spirito di ricerca tra le chiese minori di Galatina,l’edilizia
civile cittadina e alcune importanti epigrafi del Settecento. Nel
lavoro sono an-che ri-portate interessanti notizie riguardanti gli
architetti, le maestranze e i manipolidi Galatina nel diciottesimo
secolo e un’inedita descrizione di Piazza Fontana.”
FEDERICO NATALI“GALLIPOLI nel regno di Napoli - Dai Normanni
all’Unità d’Italia”Mario Congedo Editore – Due tomi per un totale
di 1.060 pagine - 1 tomo € 30,00
Un’opera eccezionale per tematiche storiche, contenuti e
commenti, frutto di una ricerca meti-colosa, sempre documentata e
riccamente formulata. L’autore rinverdisce le memorie e i fasti,
co-me pure i momenti bui e tristi, in cui si è trovata Gallipoli
nel corso dei secoli, con l’abilità deltessitore provetto e con
l’impassibile distacco del figlio che racconta la madre, alla quale
rivol-ge rimproveri e, al tempo stesso, elogi. I due volumi
rappresentano un utile viatico per appro-priarsi di un’importante
fetta di storia salentina.Un’opera che non dovrebbe mancare nello
scaffale degli storici.
Raffaele Carrieri
-
Avevo poco più (o poco meno) l’età di cinque anni.Quella mattina
verso le otto, mentre ero pronto perandare alla scuola materna che
frequentavo, nonricordo come (forse mia madre mi ci aveva portato
mezzoaddormentato all’alba), mi trovavo nella casa della nonna,ad
un fischio dalla mia,sempre a Noha.
Quella mattina mia ma-dre prendendomi in di-sparte mi disse:
“Oggi lanonna è andata in cielo”.
Io corsi subito sulla ter-razza di quella casa - allo-ra una
delle pocheabitazioni nohane al pri-mo piano, essendo le altrequasi
tutte al piano terra -alzai lo sguardo per scru-tare il cielo,
cercando diavvistare mia nonna.
Era primavera, il cieloera terso, azzurrissimo.Ma mia nonna non
la vidi punto.
Rientrai in casa un po’ confuso. Ci pensò mia madre stes-sa -
che dall’espressione sembrava volermi dire: stupidi-no! - ad
indicarmi in anteprima, cioè prima che iniziasserole visite di
parenti e amici per le condoglianze, la mammadi mio padre composta
nella sua bara.
Sembrava dormisse, ed io non avevo realizzato ancorache mia
nonna (quella brava donna che, prima di chieder-ti se ne volevi,
aveva già preparato la fetta di panetto conpomodoro olio e sale)
non c’era più. Non avevo cioè com-preso che mia nonna era morta.
Tanto che alla scuola ma-terna (mi ci mandò comunque mia madre in
quellamattinata di trambusto) le suore chiesero a me ed a miocugino
se la nonna fosse ritornata dall’ospedale.
Mio cugino era all’oscuro delle ultime novità. Infatti miazia
Giovanna, sua madre, non l’aveva reso edotto di “tut-to”. E rispose
alle suore che nonna Maria Scala (proprioquesto era il suo nome,
mentre il cognome era Tundo) eraancora in ospedale; io invece che
ormai sapevo “tutto” dis-si subito che era ritornata, e che l’avevo
addirittura vista in
carne ed ossa in mattinata. Ma non precisai che l’avevo vi-sta
in una bara, né che, come m’era stato riferito, se ne fos-se volata
in cielo. Non avevo ancora preso coscienza delconcetto di bara e
soprattutto di un accadimento che, comein seguito capii, era (ed è)
cosa molto frequente: la dipar-tita di una persona.
Questa è una delle mille storie che mi sono frullate per latesta
mentre leggevo il bellissimo affresco di una genera-zione:
“Infanzia Salentina” di Gianluca Virgilio (Edit San-toro, Galatina,
2009, 172 pagg.).
Sì, perché leggere questo volumetto significa pensare atanti
accadimenti, tante coincidenze, tante storie affini odopposte,
tanti ricordi.
Come ancora ad esempio il tempo delle vacanze, cheGianluca,
figlio di professore, trascorreva a Santa Maria diLeuca, mentre io,
figlio di contadino, trascorrevo (lavoran-do!) in campagna, nel
mare del tabacco le cui foglie ed icui taraletti si aggrappavano
alla mia infanzia per non stac-carsene più. O come il fatto delle
giostre che nel corso del-la festa di San Michele venivano montate
fin nei pressi delportone di casa mia (l’ingresso più utilizzato
coincideva ecoincide anche oggi con il garage), tanto da consentire
ap-pena il nostro accesso pedonale, ma non quello della no-stra 500
Bianchina, cherimaneva fuori allo sco-perto per i tre giorni
dellafesta. Ma nonostante iborbottii dei miei, io neero contento,
perché mitrovavo nel centro delpaese dei balocchi, ed an-che perché
i giostrai a vol-te mi facevano omaggiodi qualche gettone per
leauto-scontro, forse qualeforma di risarcimento peril loro
disturbo (che perme non lo era affatto).
O come l’amicizia con lafamiglia Papadia: quei Papadia che
vantano nel loro albe-ro genealogico messer Baldassarre Papadia,
autore delleMemorie storiche della città di Galatina nella Japigia,
ma an-
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UNA FINESTRA SUL PASSATO
Noha - La “tròzzula”
-
che la (contemporanea) gentile signora Maria Cristina, cu-stode
gelosa della stupenda biblioteca paterna, che ho piùvolte