R EALIZZATO DA M ANLIO C AVANNA COORDINAMENTO B ERGAMASCO P ER L’I NTEGRAZIONE P ROGETTI DI V ITA E DISABILITA ’ S EMINARIO INTRODUTTIVO 11 GIUGNO 2009
REALIZZATO DA MANLIO CAVANNA
COORDINAMENTO BERGAMASCO
PER L’INTEGRAZIONE
PROGETTI DI V ITA
E DISABILITA ’
SEMINARIO INTRODUTTIVO
11 GIUGNO 2009
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 47
Modalità di realizzazione
Il seminario si articolerà in due parti.
Prima parte: 18,00 – 20,00
Nella prima parte verranno esposti alcuni contributi iniziali, messi a di-
sposizione sia da persone interne al CBI, sia da esterni, allo scopo di
avviare la riflessione.
Pausa buffet
Seconda parte: 20,45 – 22,00
Nella seconda parte si allargherà la riflessione e, a partire dal confronto
tra tutti i partecipanti, si metterà a punto un insieme di punti condivisi.
I contributi iniziali interni al CBI saranno a cura di:
Antonio Bianchi
Sauro Plebani
Olivia Osio
Adriano Bosio
I contributi esterni saranno a cura di :
Benvenuto Gamba ( U.D.P. Valcavallina)
Paolo Brevi ( Cooperazione Sociale )
Antonio Porretta ( Volontariato)
Carla Zappella ( Scuola)
Referenti esterni invitati
Al seminario verranno invitati, oltre che i genitori e le realtà che fanno
riferimento al CBI, anche alcuni interlocutori esterni ritenuti particolar-
mente rilevanti, appartenenti alle associazioni, all’ASL, alla neuropsi-
chiatria, alla cooperazione sociale, alle amministrazioni comunali e alla
scuola.
Coordinamento del seminario
Il seminario sarà coordinato da Maurizio Colleoni, esperto di politiche
per la disabilità, collaboratore del CBI.
COORDINAMENTO
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Famiglie con disabilità e “progetto di vita” nei Piani di Zona della
provincia di Bergamo
Seminario introduttivo
11 giugno 2009
Premessa
Questo momento costituisce l’avvio del percorso di lavoro attorno alla
partecipazione delle famiglie ai Piani di Zona, ed è pensato come una
occasione di confronto e riflessione, aperta sia alla componente familia-
re, sia ad interlocutori esterni, finalizzata alla messa a punto di un insie-
me di riflessioni e spunti condivisi che orientino il successivo lavoro di
esplorazione e analisi attorno agli elementi presenti all’interno dei diver-
si Piani di Zona della nostra provincia.
Partecipanti
Gruppo di lavoro sui Piani di Zona interno al CBI
Altri gruppi e/o singoli genitori afferenti al CBI
Referenti significativi di realtà del territorio
Obiettivi
Realizzare un momento di confronto allargato, che faccia spazio e
accolga il punto di vista delle famiglie e quello di altri interlocu-
tori significativi rispetto al tema oggetto di lavoro.
Raccogliere spunti, suggerimenti, indicazioni, esperienze, prove-
nienti da punti di vista e ruoli diversi, attorno a cosa è un pro-
getto di vita
Approfondire e condividere elementi ritenuti comuni e fondativi
della successiva fase di analisi e studio di esperienze in atto
all’interno dei diversi Uffici di Piano
LA SCALETTA DEL SEMINARIO
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SOMMARIO
Introduzione di Sauro Plebani pag. 4 Le domande di Antonio Bianchi pag. 7 Le riflessioni di Sergio Palazzo pag. 10 Olivia Osio: l’esperienza della uildm pag. 12 Adriano Bosio: Cos’è un progetto di vita non so, ma… pag. 17 Paolo Brevi: la semantica del progetto di vita pag. 19 Benvenuto Gamba: aspetti di senso pag. 21 Antonio Porretta: volontariato e progetti di vita pag. 23 Claudio Caggioni: alcune linee guida pag. 26 Carla Zappella: progetto di vita e scuola potenziata pag. 27 Sguazzi: tempo libero e progetti di vita pag. 29 Don Adriano Peracchi:da persone che chiedevano un favore a persone che costruiscono un progetto di vita pag. 32 Giuseppe Farina: imparare a stare insieme pag. 34 Cristina Borlotti: progetto di vita come progetto di comunità pag. 36 Renato Bresciani: il sistema dei servizi sociosanitari e la nuova idea di progetto di vita pag. 37 Giorgio Gotti: il ruolo del CSV pag. 39 Forum delle associazioni dell’isola: attrezzi per costruire il proprio Progetto di Vita pag. 41 Maurizio Colleoni: due note conclusive pag. 43
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INTRODUZIONE DI SAURO
Sauro Plebani introduce i lavori spiegando il motivo del seminario:
1. Dare concretezza all’idea del progetto di vita
2. Partire coi ragionamenti attraverso una visione il più ampia possibile, che coinvolga più punti di vista diversi.
Le persone invitate al seminario rappresentano la varietà dei soggetti che si occu-pano di disabilità e sono state chiamate perché la questione del progetto di vita è complessa e si vuole provare a guardarla da una complessità di sguardi.
Si vuole anche rappresentare il territorio della provincia e si vuole soddisfare il criterio della variante cronologica, ascoltando persone che lavorano con l’infanzia e con l’età adulta.
Sauro Plebani manifesta la volontà che questa esperienza assuma poi un valore fondativo, nel senso di poter essere utilizzata da altri soggetti. In tal senso, al ter-mine del percorso iniziato in questa serata, si realizzerà un testo.
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COORDINAMENTO
BERGAMASCO
Sono cittadini che curano un congiunto con delle difficoltà ed esercitano
una funzione civile, danno dignità ad una forma di esistenza dimostran-
do alla società come si può vivere e amare dentro la fragilità.
Sono persone con attese di cambiamento, con ideali e sogni attorno al
proprio luogo di vita, con energie e risorse, legami e relazioni, apparte-
nenza e coinvolgimento nelle trame della vita sociale.
In sintesi, sono degli interlocutori cruciali per allestire e regolare possi-
bilità di aiuto adeguato a sostenere progetti di vita
Non è un caso se in questi ultimi anni si è vista una crescita di esperien-
ze, progetti, servizi, avviati grazie alla collaborazione attiva e partecipe
tra famiglie e altri soggetti.
Certo, non sono mancate contraddizioni, sviste, incidenti di percorso,
cadute, cedimenti, ma sembra essersi aperta un strada, e sembrano sem-
pre più numerosi coloro che la percorrono.
E non è un caso se il seminario è stato realizzato da un soggetto di riferi-
mento delle famiglie, come il CBI. Non un soggetto legato a una parti-
colare forma di disabilità, ma legato ad una rappresentanza provinciale
di tutti coloro che convivono con la disabilità, ad un territorio quindi , e
ad un ideale, quello della lotta alla emarginazione della fragilità in tutte
le sue forme
Questo seminario, così come diverse altre recenti azioni del CBI, costi-
tuisce un esempio concreto di attenuazione della separazione rigida tra
le famiglie ed i titolari delle politiche locali per la disabilità.
Un esempio, un tentativo, una prova, non un modello consolidato, una
linea di lavoro acquisita e consolidata.
Accanto a questa prova occorrerà tentarne altre, arricchire questo campo
di nuove sperimentazioni, per poter dare solidità e stabilità a questa logi-
ca di fondo.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 44
Ed è una questione che, in questa particolare fase storica, mostra, accan-
to a lusinghieri risultati, anche delle problematiche aperte, almeno ri-
spetto a due nodi emblematici.
Una riguarda la continuità nelle transizioni che la persona con disabilità
percorre lungo la sua vita tra un servizio e l’altro, in particolare tra il
sistema scolastico e quello dei servizi educativi, e, poi tra i servizi edu-
cativi e quelli di tipo più residenziale.
Non sempre questa continuità è garantita. A volte vi sono “buchi” e frat-
ture pesanti per le persone e le loro famiglie.
La seconda riguarda la continuità tra servizi “dedicati e strutturati” e la
vita quotidiana.
La scuola, i servizi educativi, le residenzialità hanno fatto molti passi
avanti nell’accostare la domanda di vita della persona con disabilità; ma
da soli non possono rispondere a una domanda così ampia. La relazione
con l’esterno è una risorsa vitale. Molte sperimentazioni interessanti
sono in corso sui nostri territori, sperimentazioni che stanno offrendo
spunti di innovazione significativi.
Sono due terreni sui quali però si dovrà lavorare parecchio, nel prossimo
futuro.
Ma anche per quanto riguarda le titolarità sembra rilevante la disconti-
nuità col passato, in particolare per quanto riguarda il ruolo delle fami-
glie.
Le famiglie, come è stato detto durante il seminario, “escono
dall’angolo”, non sono più soltanto una categoria di portatori di bisogni
ai quali la politica, la società ed i servizi devono dare una qualche rispo-
sta.
Non sono più solo utenti che chiedono ( anche se, va detto per rispetto
di molte famiglie, in diversi casi non sono nemmeno utenti, nel senso
che vengono lasciate da sole).
Sono genitori, fratelli, parenti, che accettano una responsabilità attorno
ad un legame di cura con una persona che ha un suo particolare modo di
stare nel mondo ed accettano di assumerne la cura e l’educazione impa-
rando un po’ alla volta ad esercitare questa funzione.
Sono adulti che sviluppano delle competenze, un sapere, una cultura,
una curiosità, attorno alla fragilità ed alla convivenza con la fragilità,
dentro una famiglia, un paese, una città.
Durante il seminario dell’ 11 giugno abbiamo accennato tutti alla sensazione di
astrazione che si ha nel parlare del Progetto di Vita. Io ho avuto la percezione
che anche riferendoci alla famiglia abbiamo un riferimento generico che dovrà
essere approfondito.
Emerge sempre più l’importanza della famiglia che deve esserci, vuole esserci
e deve essere risorsa per il proprio figlio o figlia e assieme potranno essere
risorsa per la Comunita che abitano.
Ma la famiglia non è un’entità univoca e normalizzata, siccome composta da
persone uniche è unica, ognuna ha le proprie caratteristiche, il proprio bagaglio
culturale, le proprie risorse e fatiche, caratteristiche dinamiche destinate a
variazioni nel tempo.
Ci sono famiglie che si sentono adeguate con risorse ed energie per essere a
fianco del proprio famigliare e capaci di affrontare le inevitabili fatiche. Altre
Famiglie si sentono inadeguate o tanto stanche da non riuscire ad esserlo.
La Famiglia è uno dei titolari del Progetto di Vita? È elemento di continuità
indispensabile? Direi proprio di si ma perchè tutte possano esserlo e continuare
ad esserlo nel tempo devono essere aiutate.
Guardando ad alcune esperienze di vita autonoma si nota che sono i genitori a
fare più fatica al distacco mentre spesso i figli sembra non aspettassero altro;
“Finalmente liberi!”.
Mi sto accorgendo quanto sia vero quanto emerso nel seminario: Non si può
pensare di aiutare una persona a compiere il suo progetto di vita senza mettere
mano al nostro.
Una famiglia che accoglie una persona con fragilità, non necessariamente con
disabilità, attiva delle dinamiche di adattamento che la rendono unica e la
possono arricchire. Alcune riescono a riequilibrare la quotidianità considerando
i bisogni di tutti i suoi componenti , altre no, si concentrano solo sulla persona
d’aiutare e accumulano fatiche. .
Anche una comunità che accoglie persone fragili bisognose d’aiuto deve
modificare le proprie dinamiche e cogliere l’occasione per crescere e
migliorarsi.
La nostra società all’inizio del terzo millennio più preoccupata per le perdite
dell’economia che per la perdita di valori che la causano, può arrivare a
comprendere il dovere di aiutare a compiere il loro progetto di vita quelle
persone che non hanno l’autonomia per farlo?
Può pensare che quanto serve possa essere un investimento per migliorarsi
piuttosto di una spesa di mantenimento di altri?. La chiave di volta sarà proprio
che si deve portare l’Altro nel proprio progetto di vita? Sarà che per migliorare il
nostro progetto di vita sia indispensabile migliorare anche quello degli altri?.
Un’altra riflessione:
“Minor autonomia corrisponde a maggior delega”?.
Esiste una sorta di equazione per cui la delega a assumere la determinazione del
progetto di vita di altri è inversamente proporzionale alla loro autonomia con il
rischio di assumerne completamente la determinazione.
È vero questo o si deve pensare che la minor autonomia ci deve obbligare
quotidianamente ad un maggior sforzo per comprendere non solo quello che serve
ma anche quello che piace alla Persona che guardiamo negli occhi.
Possiamo non assumere deleghe ma solo attenzioni?.
Uno degli errori che tendono a fare i genitori è quello di guidare i figli a
perseguire i propri sogni e le proprie ambizioni. Per fortuna arriva l’adolescenza
con la sua voglia d’indipendenza. A quella età i figli ci chiedono di starcene in
disparte, ci fanno capire di non stargli troppo addosso e che qualche volta serve
sbagliare in proprio per crescere. L’adolescenza cosi critica e ribelle serve a far
crescere loro e noi verso una vita autonoma ed autodeterminata.
I figli con disabiltà spesso non riescono a ribellarsi e a prendersi la responsabilità
di staccare il cordone ombelicale, non ci dicono di “non rompere” e perciò ci
lasciano nella possibilità di sbagliare e continuare a tenerci la delega di pensare
per loro. È vero, spesso succede, minore autonomia maggiore la delega che ci
assumiamo. Mi sa che nel nostro percorso dovremo fare una riflessione sulle
aspettative della famiglia. Cosa si deve fare per capire se stiamo perseguendo le
nostre o le loro aspettative?. Come capire se la fatica piuttosto che l’ambizione ci
fanno avere aspettative troppo basse o troppo alte?.
Riusciamo da soli ad essere obiettivi in questo? “Solo io so quello che serve a mio
figlio” è sempre così vero?.
L’amore che è alla base dell’essere risorsa e continuarlo ad essere anche oltre alle
fatiche, ci lascia obiettivi ? Ci permette di essere aiutati? Di chiedere aiuto?. O
diventa l’impedimento ad esperienze di relazione e di vita autonoma?.
Cosa ne pensate?.
Sauro Plebani Genitore
PAGINA 43
Vorrei sottolineare il fatto che il seminario ha costituito un piccolo e
significativo segnale attorno a come sta evolvendo il modo di parlare e
di operare attorno alla disabilità.
Una evoluzione rilevante che riguarda sia la prospettiva con la quale
affrontare questa tematica sia le titolarità che entrano in campo per trat-
tarla concretamente.
Per quanto riguarda la prospettiva, il seminario ha affrontato la questio-
ne della disabilità nell’ottica, delicata e affascinante, del progetto di vita.
È un orientamento che fino a pochi anni fa non veniva preso in conside-
razione.
Qualche anno fa si sarebbe parlato di autonomia, di riabilitazione, po-
tenziamento delle abilità, integrazione… tutte questioni reali e pregnan-
ti, intendiamoci, e attualissime.
Ma introdurre l’ottica del progetto di vita significa porre come premessa
a ogni interventi nell’ambito della disabilità il riconoscimento della per-
sona e della sua domanda di vita, del suo diritto ad una biografia origi-
nale e dignitosa, delle sue possibilità di autorealizzazione e di crescita,
entro i limiti e le potenzialità che caratterizzano la sua condizione sog-
gettiva e sociale.
Non è poco, come evoluzione: è un approccio che porta con sé conse-
guenze rilevanti, sul piano ideativo e progettuale.
Assumere il progetto di vita come orizzonte culturale, come fonte di
senso all’agire, comporta il pensare in termini longitudinali alla qualità
della vita di una persona ed alle sue possibilità reali di protagonismo,
comporta il rappresentarsi la globalità e la ricchezza esistenziale, com-
porta attenzione alle possibilità di varietà e di discontinuità nelle espe-
rienze e nelle relazioni.
È una questione che chiama in gioco, come è evidente nelle riflessioni
offerte dai vari partecipanti al seminario, il contributo di molti: delle
famiglie, innanzitutto, di chi opera professionalmente così come di chi
sviluppa rapporti di vicinanza empatica, amicale; degli Amministratori e
dei semplici cittadini.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO
Maurizio Colleoni: Psicologo collaboratore del CBI
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 42
Sfruttare le risorse del territorio significa individuare le competenze pro-
fessionali adeguate a formare le famiglie sulla evoluzione competente e
responsabile dei propri progetti di vita.
In quale contesto di vita è più utile che la persona in difficoltà possa
spendere le sue abilità di autonomia personale, di comunicazione?
Con chi la persona in difficoltà deve poter esprimere la propria affettivi-
tà?
Chi deve saper spronare l’indipendenza della persona in difficoltà?
La sua famiglia.
Se è vero che la famiglia ha il maggiore interesse alla formazione del
progetto della propria vita, deve essere formata a prendersene cura, pena
la scarsa attenzione al divenire esistenziale della persona diversamente
abile; pena la discontinuità delle relazioni significative all’interno del
proprio territorio di appartenenza.
La nostra proposta di riflessione riguarda l’analisi e la presa in carico
professionale della formazione della famiglia nel saper cogliere gli a-
spetti significativi del proprio percorso di vita, essendo la famiglia
l’istituzione sociale più interessata a non perdere i pezzi della propria
storia nei passaggi da un servizio ad un altro.
Ci pare che questo tema abbia molto a che fare con la minore fatica nel-
la gestione di rete dei progetti di vita , con la loro utilità sociale, con la
loro continuità di realizzazione, con la razionalizzazione delle risorse ,
perché quando la famiglia non è capace di riconoscersi nel proprio pro-
getto di vita, non c’è un progetto di vita utilizzabile dalla famiglia
LE DOMANDE DI ANTONIO
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 7
.
Antonio, genitore del CBI, svolge un intervento che si propone di aprire dei
ragionamenti. Per questo motivo la modalità comunicativa prescelta è quella
dell’interrogazione, senza offrire risposte o punti di vista che orientino.
I punti su cui Antonio rivolge il ragionamento sul tema del progetto di vita sono :
Titolarità
Modelli possibili
Ruolo del contesto
Continuità
Aspettative e libertà
Rapporto tra progetto di vita del disabile e progetto di vita della persona
PAGINA 8
LA TITOLARITÁ DEL PROGETTO DI VITA
La titolarità del progetto di vita spetta ad una persona o ad una funzio-
ne?
La titolarità del progetto di vita è singolare o plurale?
La famiglia è in affiancamento o è titolare?
La titolarità del progetto di vita è statica o dinamica?
I MODELLI
I modelli del progetto di vita proposti da Roberto Medeghini1 sono 3:
modello cronologico
modello dei servizi
modello dei desideri della persona
Quale pensiero abbiamo su questi 3 modelli: ne vale uno; valgono tutti?
Sono interagenti, e se sono interagenti, come immaginiamo questa inte-
razione?
Ivo Lizzola2 propone il modello dinamico del progetto di vita, inteso
come uno spazio di espressione e di ascolto dove i servizi raccolgono e
restituiscono alla persona disabile, creando dinamicamente nuovi e dif-
ferenti spazi di raccolta e di ascolto.
Questo modello ci convince?
Riteniamo che possa interagire coi servizi o è solo un modello culturale?
IL CONTESTO
Va inteso come complesso di elementi che forniscono prestazioni?
1 Professore di Pedagogia Speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di
Bergamo
2 Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Bergamo
PAGINA 41
Forum dell’isola: attrezzi per costruire il proprio progetto di vita
L’attenzione rivolta alle persone diversamente abili negli ultimi decenni
è progressivamente cresciuta.
Si lavora oggi per favorire la partecipazione della persona diversamente
abile e della sua famiglia ad una vita normale nel proprio territorio di
appartenenza.
Nelle associazioni di familiari si incontrano famiglie con diverse pro-
spettive: famiglie più avanti negli anni che desiderano sostegno in termi-
ni di percorsi di sollievo e di preparazione al “dopo di noi”; famiglie più
giovani che desiderano percorsi formativi per meglio rispondere alle
esigenze educative nel proprio concreto ecositema di vita.
La nostra forza e la nostra competenza, come associazioni di familiari,
sono quelle di accogliere le prospettive e le aspettative concrete delle
famiglie e restituirle al pensiero sociale che si preoccupa della disabilità.
Le famiglie cercano di adeguarsi alle logiche della partecipazione, ma lo
fanno oggi solo con mezzi propri. Ne deriva una partecipazione che a
volte è poco numerosa; a volte poco competente; a volte conflittuale.
Come famiglie accogliamo questo dato, ma non possiamo farcene inte-
gralmente carico.
Sicuramente è un dato che riflette una necessità formativa da parte delle
famiglie, sia sulle logiche e i linguaggi della partecipazione alla rete dei
servizi, sia sulla migliore delineazione del proprio ruolo nella elabora-
zione dei progetti di vita individuali.
La sensazione diffusa e che dalle famiglie si pretenda e da subito, una
competenza diffusa che chi opera nei servizi ha maturato in anni di for-
mazione e di esperienza sul campo.
Il sostegno alle famiglie si misura anche sulla capacità di spiegare loro
cosa si dovrebbe fare e perché si dovrebbe farlo, affidando questo com-
pito a professionisti formati a svolgerlo nei vari settori.
Un aspetto importante chiama in causa il contesto territoriale in cui le
fragilità si manifestano e con il quale la persona e la famiglia interagi-
scono costantemente. Si tratta quindi di individuare iniziative per sensi-
bilizzare i cittadini intorno ai temi della disabilità ricercando nello stesso
tempo relazioni con ambiti privilegiati: la scuola, gli oratori, i luoghi di
aggregazione ecc… In quest’ottica CSV può mettere a disposizione le
competenze acquisite nei percorsi formativi di sensibilizzazione ai temi
del disagio e delle relazioni territoriali.
Un’azione di sostegno alle relazioni tra reti di volontariato e istituzioni
locali per far crescere la partecipazione alle fasi di progettazione dei
servizi (come previsto dalla legge 328/2000) e individuare con gli enti
locali buone prassi per migliorare le condizioni di vita delle persone con
disabilità. Sulla base dell’esperienza acquisita in questi anni, riteniamo
necessario l’avvio di una nuova fase di contrattazione per esplicitare e
condividere modalità e regole della partecipazione delle OdV alla defi-
nizione delle politiche sociali ed in particolare della loro partecipazione
ai tavoli zonali.
Un ultimo aspetto ma non meno importante riguarda il ruolo politico, di
pressione nei confronti delle istituzioni perchè i problemi delle persone
con disabilità trovino adeguate soluzioni normative. La stessa legge qua-
dro del volontariato cita espressamente il ruolo di advocacy delle orga-
nizzazioni, cioè di quell’insieme di azioni/attività che si propongono di
prendersi carico del problema e si fanno portatrici del bisogno al più alto
livello politico.
I volontari sono cittadini per eccellenza, sanno guardare avanti, prender-
si cura delle persone e dell’ambiente in cui le stesse vivono, sanno esse-
re attivi, responsabili e solidali e proprio per questo possono essere i
migliori alleati delle istituzioni.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 40
LA CONTINUITÁ
La continuità in genere è presentata come un valore.
La continuità va intesa come una fissità o ci possono essere dei passag-
gi?
E questi passaggi, come vanno gestiti?Come passaggi di informazioni o
ci deve essere un’invasione di campo tra il prima e il dopo.
LE ASPETTATIVE E LA LIBERTÁ
Le aspettative sul progetto di vita sono importanti perché stimolano le
azioni. C’è la libertà del disabile, che può essere fortemente limitata dal
progetto di vita.
E le libertà dei diversi soggetti coinvolti nel progetto di vita?
Rispetto al nostro progetto di vita, quanto siamo disposti a condividerlo
con la persona disabile e con gli altri operatori?
Quanto siamo disposti a coinvolgerli nel progetto di vita?
Antonio Bianchi Genitore
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 10
Le Riflessioni di Sergio: Progetto di vita:sogno o realtà?
E’ opinione diffusa,che quando si parla di “Progetto di vita”sconfiniamo
nella pura astrazione e compito non facile del percorso che stiamo ini-
ziando è proprio quello di tradurre in termini più concreti un concetto
che,a mio parere,con fatica si riesce a separare dall’aggettivo “astratto”.
La disabilità rappresenta un mondo così complesso e variegato,al punto
di non trovare risposte spesso adeguate all’infinità di bisogni che emer-
gono. Non credo sia possibile individuare la “ricetta magica”e tracciare
schemi pre-definiti entro i quali muoverci. Cerchiamo almeno di trovare
risposte coerenti,utilizzando gli strumenti che ci vengono messi a dispo-
sizione e servendoci delle strategie più opportune.
Il Seminario dell’11 giugno ha raccolto una serie di opinioni,frutto di
testimonianze e di sguardi diversi tra loro,espressione di pensieri anche
profondi e condivisibili,che hanno prodotto spunti di riflessione.
Tuttavia ho la sensazione che a volte ci si compiaccia del “pensiero pro-
fondo”,correndo il rischio di cadere nell’esercizio puramente accademi-
co o di inaridirsi entro contesti del tutto personali e/o particolari,senza
quindi raggiungere alcun risultato pratico. Perciò mi limito a fare consi-
derazioni sull’esistente, da cui dobbiamo partire in maniera molto prag-
matica.
Il “Progetto di vita” va costruito dalla nascita al “Dopo di noi”attraverso
una serie di passaggi,che vanno attentamente monitorati da diversi sog-
getti,di volta in volta co-titolari del progetto stesso. La titolarità spetta
principalmente alla famiglia e alla persona con disabilità, di cui si pren-
de cura,quanto meno alla persona che è in grado di esprimere aspettati-
ve,nella logica di progettare “con loro”e non “per loro”.
La famiglia deve essere affiancata da chi,nelle varie tappe del percorso
di vita,si prende in carico la persona con disabilità: istituzioni (assistenti
sociali),neuropsichiatria infantile,scuola,formazione professionale fina-
lizzata o meno all’inserimento lavorativo,servizi diurni,centri residen-
ziali. La famiglia sovente non è in grado di affrontare tale percor-
so,comunque faticoso e a volte doloroso.
Il Centro Servizi Bottega del Volontariato (CSV) opera in provincia da
oltre dieci anni al servizio dei volontari e delle comunità locali attraver-
so:
la realizzazione di iniziative e l’erogazione di servizi finalizzati alla pro-
mozione e al sostegno delle organizzazioni di volontariato (OdV);
l’attivazione di percorsi a sostegno della crescita della cultura della soli-
darietà e dell’impegno civile attraverso la sensibilizzazione dei cit-
tadini.
CSV non è una organizzazione di rappresentanza del volontariato nelle
relazioni con le istituzioni e gli enti locali, ma un soggetto di service e di
facilitazione nella costruzione di relazioni e connessioni dentro i conte-
sti locali.
La sua funzione si manifesta nell’individuazione dei bisogni e nella ri-
sposta alle sollecitazioni che emergono dal confronto e dalla collabora-
zione quotidiana con i volontari attraverso l’erogazione di servizi; il la-
voro di supporto alle OdV prosegue con la realizzazione di attività di
formazione, consulenza e promozione pensate e strutturate con le stesse
organizzazioni che, intorno alle loro finalità, sanno esprimere competen-
ze e risorse adeguate mediate e agite dai volontari nelle relazioni quoti-
diane con le persone e le situazioni di fragilità, di disagio e di emargina-
zione.
E’ in questo quadro di riferimento che possiamo collocare il contributo
che il CSV può fornire al percorso del “Progetto di vita”, consapevoli
che la qualità della vita delle persone dipende dalle condizioni del sog-
getto, dalla famiglia accudente e da un contesto territoriale accogliente
che si prende carico delle persone fragili.
Una prima azione riguarda il consolidamento del processo già avviato
con le associazioni che fanno riferimento al CBI nell’ottica di un conti-
nuo sviluppo delle relazioni tra OdV e di consolidamento delle reti terri-
toriali e/o tematiche al fine di condividere buone prassi e ottimizzare le
energie disponibili.
PAGINA 39
Giorgio Gotti Presidente CSV Bergamo
Appare sempre più urgente e necessario costruire una maggiore flessibi-
lità (commistione) fra servizi e famiglie e nello stesso tempo promuove-
re più integrazione fra professionisti e non professionisti
La provincia è diventata come una unica grande città: ciò che 20/30 anni
fa era lontano e separato adesso è collegato/collegabile, vicino/
avvicinabile; dobbiamo riconoscere le differenze che ancora ci sono ( e
spesso sono un valore) ma dobbiamo riuscire a “tenerle insieme”.
Il cambiamento che ci attende sembra rivolto ad un Welfare societario; è
necessario lavorare di più sul micro-comunitario perché è da li che si
rintracciano e si costruiscono gli spazi e le opportunità per il progetto di
vita delle persone: più o meno abili.
Le parole chiave con le quali accompagnarci nei prossimi anni possono
essere simili a queste:
da risposta standard a progetto di vita (inevitabilmente personalizza-
to).
assumere le differenze come un valore che arricchisce la comunità e
l’idea di persona.
individuare la famiglia della persona disabile come titolare di un
progetto di vita “allargato” che possa includere il progetto di vita del
proprio componente più fragile.
accompagnare e sostenere le famiglie che intendono muoversi in
questa direzione valorizzando la loro capacità di protagonismo che uti-
lizza i servizi come una delle possibili opzioni per sviluppare un proget-
to di vita “allargato”.
tenere insieme le risorse familiari e quelle pubbliche (del sistema
sociosanitario accreditato) creando occasioni di “contaminazione” che
aumenta la flessibilità e l’individualizzazione dei percorsi dentro il pro-
getto di vita.
questo approccio che appare sotto la “luce della disabilità” è in realtà
espandibile in qualsiasi altra aree di intervento per le fragilità e per le
“normalità”.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 38
Nasce allora l’esigenza di un supporto psicologico a sostegno sia della
famiglia che della persona con disabilità. Ma è anche indispensabile da-
re continuità a questa serie di passaggi, affinché tra una fase e l’altra del
percorso di vita il cambio degli “attori”che accompagnano i nostri ra-
gazzi non porti alla lettura di “copioni”sempre nuovi o da ricostruire,al
prezzo di ulteriori difficoltà e frustrazioni. Tutto ciò è realizzabile in
virtù di un’azione sempre più coordinata e osmotica negli interventi.
Per la gioia di Antonio ripropongo il concetto a me caro di “Banca della
memoria”,che ritengo fondamentale alla luce dei vari passaggi e alla
luce delle dinamiche psicologiche e funzionali,che sviluppano i nostri
ragazzi.
Le famiglie sono quindi chiamate a svolgere un ruolo di co-
progettazione, ma anche di stimolo verso i vari partners che istituzional-
mente prendono in carico la disabilità. Ad essi si chiede maggior atten-
zione ai bisogni,senso di responsabilità e provvedimenti concreti. E’
importante che le Associazioni e quindi il CBI assumano la funzione di
vigilare,nonché di essere di essere propositivi,muovendosi su diversi
piani che vado brevemente ad elencare:
confronto costante con le Istituzioni,attraverso un atteggiamento
non rivendicativo ma incline al dialogo costruttivo
sostegno alle famiglie che si trovano in situazioni di solitudine e di
particolare disagio per aiutarle a ritrovare un minimo di speran-
za e di dignità per loro stesse e per i loro figli
impegno a livello politico,con una costante presenza ai vari tavoli
presso i quali siamo chiamati ad operare,che sia in grado di de-
clinare proposte anche forti ma sostenibili
Per concludere ribadisco che il “Progetto di vita”si deve porre due obiet-
tivi primari:
migliorare fin dove è possibile il grado di autonomia delle persone
con disabilità
rendere più ricca possibile la loro vita di relazione
Sono risorse fondamentali per ragionare in termini di “benessere” e per
puntare il nostro sguardo al “dopo di noi”.Solo raggiungendo questi o-
biettivi il “Progetto di vita”avrà veramente un senso
Sergio Palazzo Presidente del CBI
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 12
L’ESPERIENZA DELLA UILDM.
Si parte da un approccio al progetto di vita che è aperto e dinamico;
che può assumere delle deviazioni rispetto alla programmazione teori-
ca.
Nel passato recente la uildm ha svolto 2 progetti: “Cosa farò da gran-
de?” e “Abitare il territorio”.
Gestendo questi progetti a contatto con le famiglie si sono incrociati
temi come quelli dell’autonomia, dell’indipendenza,
dell’autodeterminazione,e ci si è resi conto che questi sono temi caldi
per le famiglie.
E si aveva la sensazione che per le famiglie dei disabili adulti, i temi
venissero affrontati a giochi ormai fatti, senza la possibilità di una rica-
duta operativa concreta sulle loro vite.
Per questo motivo si è voluto lavorare sull’aiutare le famiglie con ra-
gazzi in età evolutiva , per fornire loro strumenti progettuali. Tra le al-
tre cose è emerso che la creatività non guasta.
Si è cercato di affiancare la famiglia perché progressivamente divenisse
capace di attivare risorse sul territorio.
Il contesto di appartenenza della persona disabile e della sua famiglia è
la comunità in cui si vive; è il luogo in cui si incrociano relazioni. Qui è
necessario condividere i significati del progetto di vita.
Determinante per la buona riuscita del progetto di vita è la condivisione
con la persona che lo vive. Il significato del progetto di vita deve essere
fatto proprio da chi lo vive: dalla persona disabile.
PAGINA 37
Renato Bresciani: Asl di Bergamo
Quello che adesso chiamiamo il sistema dei servizi, non è nato come
sistema, lo è diventato sommando e collegando pezzi nati in tempi di-
versi e per motivi diversi, quando il pubblico e il privato sociale e sog-
getti profit erano nettamente separati.
Nel frattempo il pubblico si è opportunamente ritirato in un ruolo di
governo, i gestori sono quasi solo privato sociale o privato e i cittadino
sono sempre più maturi come veri committenti dei servizi.
L’ASL sta cercando di osservare le qualità dentro i servizi anche “a no-
me” dei cittadini, sta cercando di fare esprimere di più il punto di vista
dei cittadini e delle famiglie; ciò accade anche negli Ambiti territoriali,
attraverso gli Uffici di Piano e i loro tavoli di confronto e raccordo con
la società civile.
I servizi per Disabili, ma anche per anziani, sono nati come contenitori e
dal punto di vista dell’offerta a cui la domanda si è dovuta adattare.
Ora stiamo dicendo, perché lo abbiamo capito, che ogni persona è diver-
sa dall’altra, che la standardizzazione della risposta non è più sufficiente
alle persone; adesso i servizi possono crescere ancora solamente insie-
me alle persone cui si rivolgono (“che servono”).
La domanda di dignità che è emersa dalle famiglie e dagli operatori che
stanno con le persone disabili in realtà ci riguarda direttamente perché
dalla loro condizione estrema ci consente di osservare il tema della no-
stra dignità nella quotidianità in cui siamo presi.
Quindi lavorare per una comunità accogliente è ciò che ci accomuna ai
disabili.
Abbiamo la responsabilità di pensare insieme e di decidere insieme co-
me delineare il futuro. Avendo percorso sentieri che ci hanno avvicina-
to, ora, il cambiamento possiamo agirlo anziché subirlo.
Paradossalmente ci occupiamo del progetto di vita di persone che ci ap-
paiono limitate e non di quelle “più abili” ma dobbiamo cercare di avvi-
cinare questo pensiero ai pensieri che fanno gli altri “mondi normali”.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 36
Cristina Borlotti: Asl di Bergamo
Sottolineo l’importanza di questo momento di confronto tra le istituzio-
ni, che sono chiamate a programmare i servizi nell’ambito della disabili-
tà e i familiari, come portatori diretti di bisogni e di riflessioni. Quando
si parla di progetto di vita dei disabili ritengo che un ruolo significativo
venga giocato anche dalle unità d’offerta presenti sul nostro territorio,
che stanno riflettendo su questa tematica. Emerge la necessità di apertu-
ra all’esterno in modo che l’ospite non “sia della struttura” ma deve es-
sere attivata una rete di diversi soggetti che concorrono alla costruzione
del suo progetto di vita. A fianco delle unità d’offerta bisogna pensare
anche ad altre risposte più territoriali evitando di alimentare la logica
secondo la quale l’unica risposta è un “collocamento” del soggetto; cer-
to questo comporta una mobilitazione notevole della rete, un continuo
monitoraggio, mentre l’inserimento in strutture risponde di più anche a
bisogni e timori “sociali”….”è sistemato”. In questa logica il progetto di
vita diventa un progetto della comunità , a partire da ciò che il soggetto
stesso esprime come richiesta di realizzazione della propria vita.
PAGINA 13
Il tema “progetto di vita” è stato al centro della riflessione condotta
dalla uildm negli ultimi anni dettata dalla volontà di affiancare le
famiglie nell’adozione di una prospettiva lungimirante e, appunto,
progettuale.
Il progetto, infatti, è una proiezione in avanti, rappresenta il tentativo di
prospettare ciò che ancora non è; richiede un approccio aperto, dinamico
e pronto a rimodulare i propri obiettivi.
Progettare non è sinonimo di pianificare.
Ognuno è portatore e promotore di un proprio “progetto di vita” che ha
le basi nella storia personale e familiare, che è intessuto di pensieri, di
sentimenti e di immaginari, che comporta una serie di prefigurazioni
grazie alle quali alcuni passi vengono ritenuti più adatti di altri al
raggiungimento di certi obiettivi e, sulla base di tali prefigurazioni, si
orientano le scelte. Un progetto, pertanto, richiede intenzionalità. Come
accade, però, al progetto di ognuno di noi, esso deve essere aperto ad
accogliere, o per lo meno a “fare i conti”, con gli imprevisti che
intervengono, con i cambiamenti che eventi inattesi apportano alla
possibilità di raggiungere gli obiettivi che ci si è prefigurati oppure agli
obiettivi stessi. Ciò potrà comportare di dover abbandonare alcune
strategie per adottarne altre oppure di dover abbandonare alcuni
obiettivi che ci si era posti a favore di altri.
Un progetto richiede la capacità di accogliere i cambiamenti e
governarli e non può essere pensato in modo rigido. Non ha senso
pensare ad un progetto confondendolo con un “piano”. La progettualità
richiede, innanzitutto, la capacità di attribuire significato e senso alle
esperienze e ai vissuti, richiede la capacità di orientare le scelte, richiede
intenzionalità e l’adozione di prospettive e di sguardi ampi.
Queste riflessioni sono state centrali nella definizione di due progetti
recentemente ideati dalla uildm: Cosa farò da grande? e Abitare il
territorio.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 14
Cosa farò da grande? nasce come proposta formativa rivolta a genitori
(e volontari che li affianchino) di bambini e ragazzi per accompagnarli
verso l’adozione di una prospettiva progettuale che li avvicini ad alcuni
temi (quale quello dell’autonomia e del progetto di vita) quando i figli
sono in età evolutiva. La ragione che ci ha mossi verso questa scelta
risiede in ciò che il progetto Per bene incominciare, svolto un paio di
anni prima e con il quale si è affrontato il tema della residenzialità, ave-
va consentito di osservare. Alcuni temi approcciati in età adulta (il con-
cetto di “vita adulta autonoma”, “il progetto di vita”, il “dopo di noi du-
rante noi”) rendevano evidenti delle resistenze sia nei figli sia nei loro
genitori, come se la “cura” (per chi l’aveva prestata come per chi ne era
stato beneficiario) protratta per lungo tempo avesse segnato fortemente
le relazioni familiari al punto che esse apparivano ormai
“immodificabili”.
Risultava, pertanto, difficile affrontare dei temi che scatenavano ansie e
timori negli adulti che, per le ragioni più diverse, si dicevano non ancora
pronti ad approfondire. E’ nata, pertanto, l’idea di provare a “seminare”
alcune riflessioni nei genitori di bambini e ragazzi affinché il pensiero
sul “progetto di vita” e “l’autonomia” dei loro figli li guidasse
nell’adozione di alcune scelte, nel modo di guardare le relazioni con i
diversi contesti, nel costruire alcune proposte, nel cogliere meglio il loro
ruolo accanto a quello rivestito da altri attori.
Il progetto, finanziato dal Csv e svoltosi nei mesi di settembre e ottobre
2008, è stato la premessa ad un progetto intitolato Spazio incontri
tutt’ora in svolgimento e focalizzante l’idea di autonomia.
Abitare il territorio è nato, invece, come tentativo di elaborare una nuo-
va forma di supporto alle famiglie nei luoghi in cui esse vivono, guidan-
dole nella costruzione di reti relazionali. Alla base vi era il desiderio di
superare un approccio assistenzialistico - presente in molte famiglie che,
vivendo una situazione problematica, si rivolgevano alla uildm alla ri-
cerca di una soluzione – a favore di un approccio che stimolasse la capa-
cità delle famiglie di trovare in sé stesse e nel territorio le risposte di cui
avevano bisogno. Il progetto è mosso dalla convinzione che sia preferi-
bile offrire alle persone non tanto delle risposte o delle soluzioni quanto
la disponibilità ad affiancarle nell’acquisizione della capacità di costrui-
re le risposte e le soluzioni. La scelta va nella direzione di privilegiare
delle acquisizioni durature e di favorire lo sviluppo di nuove relazioni
significative.
PAGINA 35
Da qui poi si possono affrontare tutti i problemi che ne conseguono.
Passare dall’idea solamente assistenzialistica del seguire le tappe evolu-
tive del disabile nel suo percorso di vita, ad un idea più “del prendersi
cura” del soggetto disabile affinché in ogni sua tappa evolutiva il sog-
getto disabile possa trovare integrazione con le realtà che egli vuole af-
frontare, sia essa la famiglia, la scuola (di ogni ordine e grado), il lavo-
ro, il tempo libero, l’età adulta vista anche nelle sue evoluzioni di di-
stacco dalla famiglia di origine (esperienze di vita familiare autonoma,
appartamenti protetta, esperienze matrimoniali, sollievi in strutture socio
-sanitarie, ricoveri ospedalieri, inserimento in centri protetti, residenzia-
lità definitive, ecc. ecc).Quindi non solo un accompagnamento assisten-
ziale, ma un vero e proprio ingaggio/investimento che contribuisca alla
realizzazione del soggetto disabile in quanto persona.
La progettualità del “progetto di vita” non può quindi prescindere dal
soggetto interessato, che in qualche modo deve concorrere alla sua defi-
nizione tendo conto quindi del suo trascorso storico, familiare, clinico,
psicologico, ma anche delle sue attitudini, dei suoi desideri di realizza-
zione, delle sue potenzialità di intrapresa nel realizzare il proprio percor-
so di vita
Ringrazio per le cose che ho ascoltato perché la dimensione
dell’imparare a stare accanto ai propri figli è emersa prima di ogni pre-
occupazione su cosa succederà dopo, non perché il dopo non sia impor-
tante, ma perché non deve sostituire un presente che ha in sé un valore
inestimabile.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 34
Giuseppe Farina: ASL-tavolo terzo settore
L’incontro segnala un desiderio di protagonismo da parte delle famiglie:
si tratta di un cambiamento culturale significativo.
E’ interessante incontrare associazioni e famiglie che si interrogano sul
futuro dei propri figli portatori di una disabilità senza l’accento rivendi-
cativo verso le istituzioni per ottenere più servizi, più risorse ecc, ma
affrontando - interrogandosi in prima persona - sul “come” stare accanto
ai propri cari che vivono una situazione di difficoltà. Questo senza to-
gliere l’importanza dell’interpellare le istituzioni per avere dei supporti,
ma oggi mi pare che l’accento sia rivolto più su di sé e questo apre a
dialoghi interessanti anche con le istituzioni.
Il compito dell’ASL in questo periodo non è più di tipo erogativo, ma di
governo dei processi. Il governo della rete dei servizi deve però essere
visto in senso partecipativo. Tutto secondo il principio di sussidiarietà
Le nuove normative regionali si muovono tutte in questa direzione
Centralità del cittadino e della famiglia quali soggetti protagonisti della
società civile. In particolare, per quanto mi riguarda, il tavolo del terzo
settore istituito presso l’ASL è un organo attraverso il quale si intende
promuovere la programmazione, la progettazione e realizzazione della
rete delle unità di offerta sociali e socio-sanitarie in ambito sia regionale
che locale (Legge regionale 3/2008)
Per questo è importante per noi ascoltare non solo i problemi ma le pos-
sibili soluzioni con chi i problemi li affronta nel quotidiano ed è a mag-
gior ragione in grado di suggerirle.
Il progetto di vita non è mettere un vestito addosso a un altro, non è dare
una risposta, ma imparare a stare insieme, imparare a fare un pezzo di
strada insieme. Questa dimensione di rapporto proietta il mettersi insie-
me, il fare rete.
La dimensione del camminare insieme implica una capacità di “stare”
con il soggetto portatore di disabilità che va al di là delle sue stesse disa-
bilità, è un rapporto tra persone. Allora una domanda alla quale ritengo
importante rispondere è: posso vivere felice accanto ad una persona an-
che con una grave disabilità? Come?
PAGINA 15
Il progetto, per il quale godiamo della collaborazione delle cooperative
L’impronta di Seriate, In cammino di San Pellegrino, Sottosopra di Clu-
sone e Contesto di Treviglio, è in svolgimento.
Il “progetto di vita” ha caratterizzato l’ideazione dei due progetti soprat-
tutto per il riconoscimento del valore e della centralità di due elementi:
il contesto ed il protagonismo degli individui e delle famiglie.
Non può, infatti, essere condotta alcuna tematizzazione del “progetto di
vita” senza una immersione nel sociale, senza il coinvolgimento del
contesto di cui si è parte con il quale dare vita ad alleanze volte a favori-
re l’autonomia delle persone con disabilità, entro il quale cercare aiuti e
supporti, e con cui condividere dei significati.
Al contempo, il “progetto di vita” non può che riconoscere e promuove-
re il protagonismo delle persone con disabilità, nella capacità di attivare
le loro risorse e nei significati che esso riveste per le loro vite.
OLIVIA OSIO progettista sociale UIDLM
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 16
ADRIANO BOSIO: COS’E’ UN PROGETTO DI VITA DI
UN DISABILE? NON LO SO.
Parlando di progetto di vita occorre considerare:
degli obiettivi.
All’inizio del percorso di vita, quando il ragazzo è più giovane, occorre
una diagnosi precisa, che metta in condizione di far partire un lavoro
adeguato. Spesso oggi i genitori brancolano a lungo nel buio sulla que-
stione della diagnosi.
un contesto, che faccia star bene la persona disabile e la sua fami-
glia.
che la famiglia impari ad apprezzare le capacità del disabile.
saper trasformare i problemi in risorse.
La sensibilità acquisita dai genitori di persone diversamente abili deve
essere considerata come una risorsa ed è una risorsa la capacità dei
ragazzi diversamente abili di creare relazioni. Sono bravissimi in que-
sto.
Se non si riesce a rendere attiva la famiglia non si va da nessuna parte.
essere disposti a percorrere strade sconosciute, non pensando che per
ogni progetto di vita si debba necessariamente cambiare strada, perché
le risorse non sono infinite.
Mi sembra più che mai necessario e urgente che chi ha sviluppato con-
sapevolezza e responsabilità nel costruire pezzi di società civile finora,
non si stanchi di pensare, attorno ai bisogni della persona e del cittadi-
no, a come mantenere una capacità di progettare insieme una conviven-
za nella diversità.
Punto di forza è anche la volontà dei genitori di ragionare sul loro pro-
getto di vita e quello dei figli, con tutti gli interlocutori che a diverso
titolo sono già coinvolti
Già siamo colti impreparati culturalmente dal fenomeno della immi-
grazione. La diversità ancora ci fa paura. Fino al punto che proprio in
nome della paura , ci troviamo una legge che discrimina, fino al punto di
dichiarare delinquenti chi non è in possesso del permesso di soggiorno.
Rischio di strabismo. Mentre si riconosce, anche se spesso, nominal-
mente, piena cittadinanza “ ai nostri” , si legittima la discriminazione di
chi proviene da fuori.
Si dimentica che la titolarità di cittadino gli spetta in quanto esiste su
questa terra , che è una e non ce ne sono altre. I confini nazionali pon-
gono giustamente delle regole , ma non tolgono legittimità al suo essere
cittadino.
Anche qui davvero abbiamo bisogno di capacità progettuale nel pensa-
re a una convivenza nella diversità. Percorsi di integrazione che già
muovono nei vari ambiti della società, sono più che mai una opportunità
storica per aprire un futuro alla nostra convivenza.
E questo a partire dalla titolarità e dall’identità della persona ricono-
sciuta come tale, che è sempre in relazione a tanti elementi esterni e
interni alla sua condizione di vita, con tutti i cambiamenti che interven-
gono nel corso della vita.
Riprendendo il tema dalla progettualità di vita nel e con il disabile, ci
chiediamo quanto siamo capaci di riconoscere questi tratti di storia co-
munitaria e di fare spazio alla sua peculiarità.
Il punto di innesto del discorso attinge a una domanda di fondo del di-
sabile e della sua famiglia:
posso esistere in modo dignitoso in questo mondo? Posso avere una
storia, un futuro? Un mio progetto?
Pensare insieme , a più voci, a questo progetto, ci restituisce senso al
vivere.
PAGINA 33
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 32
DON ADRIANO PERACCHI: CARITAS
Oggi, in questa sede, prendo atto con piacere di un pezzo di storia ber-
gamasca fatta insieme in questi anni dalla metà degli anni 70 fino ai no-
stri giorni. In questo forum, sono i genitori dei disabili a convocare sog-
getti istituzionali e componenti della società civile, a discutere del pro-
getto di vita dei figli , componendo dimensioni di vita molteplici.
Nel clima culturale di forte tensione al cambiamento nella società degli
anni 70 i genitori esprimevano forti perplessità a lasciare uscire di casa
i propri figli. Era allora più rassicurante la scuola speciale o i pochi ser-
vizi esistenti . Poi seguì la rivendicazione nell’esercizio dei diritti pri-
mari individuali e quindi la conquista dei diritti di cittadinanza, smon-
tando di volta in volta con fatica consuetudini latenti e consolidate nel
tessuto della società, e aprendo percorsi nuovi di convivenza impensabi-
li nella città. Quanta strada è stata fatta.
Usando una espressione forte: “da persone che chiedevano un favore, a
persone che costruiscono un progetto di vita”. Questo significa autoco-
scienza e responsabilità culturale e civica.
Una felice contaminazione tra bisogni e desideri di cittadini e assetti
organizzativi, legislativi e quindi politici. La tutela della qualità della
vita di persone più fragili si è rivelata nel tempo come opportunità per
dispiegare impensabili dimensioni di qualità di vita per tutti.
L’handicap come provocazione pedagogica per costruire la società e la
sua civiltà è il risultato di un processo frutto di un lavoro di 30 anni.
Oggi ci chiediamo in quale clima politico e culturale ci troviamo?
Mi sembra di essere in presenza di un pensiero politico debole e fram-
mentario che manifesta il fiato corto a fare sintesi tra le diverse istanze
della società civile, I forti riprendono il primo posto e i deboli, se tutto
va bene, si devono accontentare di quello che c’è sul mercato. Mi riferi-
sco a questo termine non a caso. In presenza di un deresponsabilizzazio-
ne delle istituzioni pubbliche e di residue risorse economiche, si delega
alla società civile la responsabilità di adempiere a compiti sociali, in
assenza di regole condivise.
.
PAGINA 17 Ho sentito le cose più disparate, ma….
riguarda solo lui? , anche la sua famiglia? , anche la comunità che lo
accoglie?
Può essere un percorso con degli obiettivi specifici? ne ho individuati
alcuni, non so se vanno bene, sicuramente ce ne sono tanti altri.
far emergere le abilità residue del soggetto in modo particolare
nella fase dell’infanzia e della scuola. dicono che si impara
tanto nei primi anni di vita. ma per intervenire in modo cor-
retto bisogna avere una diagnosi precisa.
creare un contesto che faccia star bene lui e la sua famiglia. bi-
sogna fare in modo che la famiglia (per quanto possibile)
viva serenamente e in modo realistico la situazione per non
creare tensioni e/o aspettative non reali, ma fare in modo di
apprezzare tanti piccoli successi. Quante delusioni abbiamo
avuto, come genitori, per aspettative fuori luogo.
costruire relazioni con la società civile per trasformare un pro-
blema in una risorsa
dicono che la qualità della vita non è data dalle ricchezze o
dai soldi che abbiamo in banca, ma dalle qualità della rela-
zioni sociali. come son bravi i nostri figli a creare relazioni
sociali senza pregiudizi o preconcetti di sorta.
chi e’ titolare del progetto di vita?
famiglia in senso lato?
servizi sociali?
specialisti?
educatori/operatori e volontari?
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 18
il motore del progetto deve essere sicuramente la famiglia e i servizi
sociali (comunali o sovrazonali) che supportati da specialisti (se neces-
sari) devono coinvolgere tutti gli altri attori
ogni soggetto deve dare il proprio contributo di idee, di conoscenze, di
esperienze, di vita vissuta.
facile a dirsi ma… più difficile da realizzare. bisognerebbe creare una
procedura che garantisca il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati,
e non affidarsi solo alla “buona volontà” di alcune persone.
potrebbe essere come un percorso
rete stradale x Roma
autostrade
strade provinciali
strade comunali
strade di campagna
bisogna scegliere la strada più adatta per ogni soggetto, disposti a cam-
biare strada se i “referenti” lo ritengono più’ utile
mission ed esperienze del nostro gruppo :
sperimentare risposte diverse a problemi comuni
attività di tempo libero
avvicinamento graduale alla residenzialità
vacanze con la famiglia
queste cose che facciamo interessano il progetto di vita? voi che ne
dite?
cosa si potrebbe fare di meglio
Adriano Bosio genitore
Le persone stanno perdendo l’abitudine alla fatica, alla sofferenza, alla
presenza della morte; la fragilità è considerata una presenza estranea
della dimensione umana da estirpare con atti medici e non un elemento
costitutivo necessario alla maturazione sociale. La classe medica ha
molte responsabilità in questa deriva, ma è evidente che alla società fa
comodo delegare la relazione con la fragilità a altri, rimandarla il più
possibile.
L’incapacità di aprire dibattiti reali nei diversi ambiti in cui la fragilità si
esprime oggi (malattia, fine e inizio vita, disagio giovanile, senilità, im-
migrazione, comunicazione, povertà solo per citare alcuni esempi) sono
il risultato naturale di questa delega della società. In questo contesto,
ideare un progetto di vita per la persona disabile può essere possibile
mettendo insieme persone con abilità e fragilità diverse che riprogettino
un territorio e una città accogliente insieme alle istituzioni, sulla base
dei bisogni attuali e di quelli che verranno e delle poche risorse econo-
miche disponibili, affinché la disabilità diventi occasione di cambiamen-
to e inclusione sociale. Perseguire un cambiamento individuale e sociale
per un progetto che oggi non ci riguarda direttamente significa promuo-
vere una cultura di ricerca: per la convivenza di spensieratezza e empati-
a, per la diffusione del gusto della responsabilità.
E’ l’ardua sfida che attende Sguazzi per il futuro.
PAGINA 31
Con il passare degli anni abbiamo cominciato a interessarci anche di
altri progetti apparentemente distanti dalla disabilità: organizzazione di
tornei sportivi, di eventi mondani e culturali, sostegno a progetti di coo-
perazione internazionale, assistenza post-scolastica a alunni in difficoltà.
Questa diversificazione delle attività segnò una tappa fondamentale nel-
la ricerca del “progetto di vita di Sguazzi per la persona con disabilità”:
non occuparsi specificamente di “handicappati” ma esplorare l’universo
degli handicap che ogni persona può sperimentare. Sul proprio corpo,
sulla propria mente, nella vita di relazione, nella partecipazione. Azzar-
dare soluzioni, inseguire innovazioni, affinché la fragilità delle persone
non venga usata per creare ghetti di rivendicazione e una cultura del
bisogno e della delega, ma per trovare risposte strutturate e coese, utili a
tutta la società e generatrici di una cultura del gusto della responsabilità.
Oggi Sguazzi si interroga sul proprio futuro e si chiede se i cambiamenti
che ha generato nella storia personale di alcuni dei propri soci possano
essere propulsori sufficienti di cambiamenti sociali che consentano di
inserire il progetto di vita nell’agenda politico-istituzionale. Il dibattito è
aperto: paure, tensioni, entusiasmi, incertezze si intrecciano. Sguazzi ha
sperimentato la forza e la debolezza associativa attraverso i suoi proget-
ti. La forza di essere indipendente, di non aver nulla da perdere, di agire
nel campo dei bisogni “hic et nunc”, che consente di pungolare le istitu-
zioni e trovare partner a tutti i livelli. La debolezza insita nello status
associativo che non conferisce il potere di mediazione e di lobbyng ne-
cessari per sollecitare risposte politico-istituzionali puntuali ai problemi
che la fragilità umana propone.
Parlare di progetto di vita significa, a mio avviso, andare oltre la spen-
sieratezza, interrogarsi sull’evoluzione della società e della disabilità
negli anni che verranno, mettersi in relazione con il territorio per acqui-
sire forza istituzionale. Sguazzi è carente in tutto ciò; la dimensione vo-
lontaria dei soci pone limiti temporali e strutturali all’acquisizione di
nuove capacità. In questi anni ho cercato, da medico, di cogliere
l’evoluzione della salute nella società. La società e il buon senso sono
stati medicalizzati.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 30
PAGINA 19
Paolo Brevi Cooperazione Sociale
Ciò che si intende con la locuzione “progetto di vita” è, allo stato attua-
le, ancora un concetto astratto e generico, da precisare sotto il profilo
teorico e da concretizzare nella sua applicabilità.
Ciò è naturale se si tiene conto della relativa novità che esso rappresenta
nell’ambito dei servizi alla persona. D’altro canto è assolutamente op-
portuno approfondire e favorire il dibattito intorno ad un tema che pro-
mette di introdurre interessanti innovazioni nelle metodologie di lavoro
a favore delle persone disabili
Per prima cosa occorre chiedersi quali sono le premesse da cui partia-
mo.
Da questo punto di vista la locuzione progetto-di-vita può rimandare a
due significati a seconda se al genitivo si attribuisce valenza soggettiva
o oggettiva.
Il primo senso rimanda all’azione progettuale che ha come contenuto la
vita di una persona. Secondo questa ottica si opera per definire gli ele-
menti e i fattori che favoriscono il perseguimento degli obiettivi. Pro-
grammare la vita è esattamente lo scopo del progetto; i cicli di vita e le
fasi esistenziali rappresentano le sequenze della programmazione; gli
eventi significativi della la vita come incontri, progressi, involuzioni,
successi, errori, sono gli ambiti di applicazione del programma e gli ele-
menti in ingresso per la valutazione.
Sebbene applicato ad un concetto nuovo la struttura dell’intervento è
quella classica: da una parte il professionista dall’altro l’utente in una
relazione, tipicamente asimmetrica, tra chi insegna/cura e chi apprende
o beneficia della prestazione professionale.
Senza nulla togliere alla necessità del lavoro sociale tradizionale ed
anzi in modo complementare ad esso, è possibile però intravedere un
nuovo punto di vista secondo il quale la vita non è tanto oggetto di pro-
grammazione ma diventa essa stessa in grado di progettarsi.
COORDINAMENTO
BERGAMASCO PAGINA 20
Paolo Brevi Cooperazione Sociale
In questo secondo significato la persona disabile (ma anche i suoi fami-
liari) viene messa nelle condizioni di progettarsi come persona. La logi-
ca precedente viene ribaltata: qui è la persona che avendo la necessità e
il diritto ad una vita dignitosa è sostenuta, in relazione alle proprie capa-
cità, nel costruirsi un’esistenza il più possibile autodeterminata, libera e
socialmente soddisfacente.
Il ruolo dei servizi non è soddisfare le esigenze sanitarie, assistenziali,
culturali in forme standardizzate e separate ma di inquadrare tali presta-
zioni in un quadro di insieme co-progettato.
Invece che oggettivare la vita di un altro, la tensione si sposta verso il
tentativo di costruire condizioni economiche, sociali, logistiche, che
possano rendere possibile gli obiettivi di autonomia, indipendenza e si-
curezza.
Si passa quindi dalla funzione riparatoria/riabilitativa a quella promo-
zionale e di tutela delle garanzie dei diritti delle persone.
Le leve operative per ottenere risultati sono non tanto la professionalità
degli operatori quanto la valorizzazione del protagonismo della persona,
e la promozione del coinvolgimento del contesto come ambiente vitale.
Per rendere il progetto di vita una innovativa forma di intervento sociale
occorre pensare nei termini di un progetto sostenibile, e de-
ideologizzare la questione economica come una questione innominabile.
Tutti noi siamo portatori di un patrimonio anche economico che può
diventare un investimento per i nostri figli, ma occorre che si creino
condizioni fiduciarie.
Il capitale sociale non è altro che il legame creato da tali relazioni di
fiducia, tramite le quali le dimensioni umane, finanziarie e culturali ven-
gono patrimonializzate, cioè trasformare in patrimonio comune.
Il progetto di vita di chi è giovane oggi si gioca su quello che sapremo
investire e sperimentare per realizzare nuove e inedite forme di mutua-
lità tra 15 anni
PAGINA 29
Mirco Nacoti: associazione gli sguazzi
E’ difficile, per l’associazione Sguazzi, parlare di “progetto di vita per la
persona con disabilità” a dei genitori che hanno il terrore di ammalarsi
con un figlio che non può cavarsela da solo, perché Sguazzi non nasce
da un’esperienza personale di disabilità. Il rapporto quotidiano con la
disabilità ti inchioda alla fatica continua del presente e all’ansia per un
futuro oscuro. Il volontario spensierato di Sguazzi può essere attraente
perché offre l’occasione preziosa di un tempo libero. Ma quella spensie-
ratezza può essere una barriera alla relazione, quando non è seguita
dall’empatia.
“La disabilità come svantaggio riducibile: un’ora di gioco in acqua con
persone diversamente abili”.
In questo slogan è sintetizzata la storia della nascita di Sguazzi ONLUS.
Quindici anni fa un gruppo di giovani cominciò a sperimentare forme di
riduzione dell’handicap in piscina; col tempo maturò la consapevolezza
che la disabilità, in quanto espressione di fragilità umana, riguarda la
vita di ogni persona.
La diffusione dell’ICF (International Classification of Functioning, Di-
sability and Healt), diede forza a questa consapevolezza. La classifica-
zione dell’ICF fu pubblicata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) e riconosciuta da 191 Paesi. Ha rivoluzionato il mo-
do di intendere e misurare la salute e disabilità delle popolazioni, in
quanto considera “disabilità” ogni condizione transitoria o permanente
di oggettiva limitazione funzionale dell’esistenza umana, cui concorro-
no fattori personali e fisici, ma anche ambientali, architettonici e rela-
zionali. Sono proprio questi fattori che sono misurabili e modificarli può
significare ridurre gli svantaggi determinati dalla condizione di disabili-
tà. In un contesto caratterizzato dalla disgregazione partitica, da illegali-
tà crescente e rigidità sociale, costituirsi associazione nel 2004 rappre-
sentò forse la modalità attraverso la quale decidemmo di alzare testa e
voce all’unisono. Occuparsi di disabilità significò appropriarsi di un
luogo “privilegiato” di osservazione della realtà per cercare di modifi-
carla.
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A tal fine si cercherà di rispettare l’età anagrafica corrispondente
alla classe di riferimento.
Il passaggio dovrà avvenire in modo graduale e sarà finalizzato allo
STARE e allo STAR BENE con gli altri.
La sezione Potenziata alla scuola secondaria di primo grado avrà
soprattutto la funzione di raccordo con il territorio, con l’S.T.H.,
con l’oratorio, con il C.D.D. …
Il tempo di permanenza degli alunni con disabilità alla scuola media
potrebbe variare dai tre ai cinque anni o anche più in relazione al
progetto di vita che si crea intorno a ciascun ragazzo e in relazione
alla rete costruita con le altre agenzie del territorio.
L’apertura in senso orizzontale con il territorio è funzionale al fatto
di non ricadere nell’errore di trasformare la sezione potenziata in
una struttura isolata e “ghettizzante”.
Ci si è resi conto che ( nonostante lo sforzo intenso di ogni attore
del tavolo, Scuola, Comune, Agenzie Educative, Famiglie …) a
volte è difficile unire i tasselli, o manca l’energia. L’assenza di un
solo tassello, però, può paralizzare un progetto di vita … momenta-
neamente, creare il panico, il dolore, il pianto nelle famiglie e nella
scuola ( la potenziata per noi maestre è una casa-famiglia allargata)
Poi la vita continua: i tasselli si modificano, o vengono sostituiti e il
percorso del progetto cambia, ma per fortuna, continua .
Benvenuto Gamba (Ufficio di Piano Valcavallina)
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Il progetto di vita richiede, necessariamente, un progetto di comunità. Il
progetto di vita è innanzitutto un progetto di una comunità più acco-
gliente: è importante che la comunità impari a riconoscersi come una
comunità disabile, perché questo è anche un valore.
Oggi è difficile parlar di progetto di vita perché quello che succede nei
fatti è un assemblaggio di progetti settoriali, realizzati da soggetti diver-
si che non si parlano tra di loro, ma deve partire dal progetto di vita pos-
sibile e desiderato dal soggetto diversamente abile. La centralità è sulla
biografia di una persona, la persona per come è incarnata nel quotidiano.
Non è quello della famiglia e nemmeno quello delle istituzioni. Occorre
fare attenzione al rischio che le famiglie corrono di avere sogni o troppo
alti o troppo bassi.
Occorre allora superare le singole autoreferenzialità dei diversi servizi,
per costruire relazioni significative e significanti, in modo da salvaguar-
dare la possibilità di una reale relazione con il mondo da parte della per-
sona disabile. Occorre chiedersi “quale è la relazione di questa persona
con il suo territorio”? ; “quale diritto di cittadinanza riesce ad esprime-
re”?
Attenzione al rischio di costruire politiche per una disabilità a-sessuata.
E’ necessario promuovere politiche sociali non centrate sulla genialità,
ma sulla sessualità: luogo del de-siderio, del sogno, che spinge le perso-
ne ad essere migliori perché aperte all’altro nella sua diversità. Ma cosa
vogliono realmente le persone diversamente abili. Spesso ci troviamo
noi ad interpretare i loro desideri-bisogni, ma siamo sicuri, noi servizi e
voi famiglie, di essere interpreti fedeli e autentici dei desiderata dei sog-
getti di cui siamo chiamati a prenderci cura.
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Superare le singole autoreferenzialità per costruire una rete che ha come
finalità non la produzione di servizi, ma la promozione di comunità che
si prende “cura”, in termini non solo terapeutici, ma promozionali…
Questa prospettiva richiede ai servizi uno sforzo verso una maggiore
flessibilità: la vita è un processo dinamico, è un continuo adattamento,
ed i servizi rischiano di essere troppo rigidi. Si potrebbe sperimentare la
possibilità per la persona disabile di abitare i diversi servizi, e la possibi-
lità per i servizi di abitarsi reciprocamente.
Occorre anche costruire strumenti condivisi: ad esempio il PEI non può
essere solo lo strumento della scuola. Il Pei è uno strumento formativo
alla vita, non è solo didattico.
Il tempo della persona disabile non coincide con quello dei servizi
Allora, se è vero quanto sopra, la nostra “mission” non è solo quella di
rendere possibile la realizzazione di un progetto di vita, ma di costruire
le condizioni per un progetto di “vita buona”.
IL TEMPO PASSA. I BAMBINI CRESCONO E LE SEZIONI PO-
TENZIATE …. PERCHE’ NO?.
Attualmente la sezione potenziata di Palosco ospita 5 alunni, 3 dei quali
di età compresa tra i 16 e 17 anni.
Per loro si avvicina il momento delle dimissioni, ed è in questo frangen-
te che sorgono alcune riflessioni sul percorso da loro seguito nell’ultimo
periodo e sulle difficoltà riscontrate nelle attività di raccordo con i com-
pagni della scuola elementare. I bambini del primo biennio della scuola
primaria non conoscono gli utenti della sezione potenziata e anche dopo
essere entrati in relazione con loro, la differenza di età è tale da non
permettere rapporti di condivisione e collaborazione tra pari. I vecchi
compagni inoltre sono passati alle scuole medie e tutto ciò non permette
di mantenere i rapporti che un tempo si erano instaurati. Perchè quindi
non pensare ad una sezione della potenziata anche nella scuola media?.
Tale riflessione muove da diverse esigenze:
Dall’aspettativa e dalla richiesta dei genitori di veder crescere i pro-
pri figli insieme ai coetanei in un ambiente comunque adeguato alle loro
esigenze e potenzialità e favorevole ad un maggior inserimento ne tessu-
to sociale;
Dalla necessità di garantire ai ragazzi un ulteriore momento di cre-
scita nel vivere un ambiente nuovo capace di dare nuovi stimoli;
Dal bisogno di evitare la vanificazione delle relazioni sociali co-
struite con e sul territorio, in quanto usciti dalla scuola primaria , vengo-
no destinati a strutture extraterritoriali;
Dalla necessità di una reale integrazione: le scuole medie conoscono
poco la realtà della sezione potenziata e non sempre facilmente riescono
ad entrare in relazione con essa;
Dal desiderio degli insegnanti della scuola primaria/potenziata di
non veder svanire l’approccio professionale e lo stile di lavoro costruito
nel tempo con i ragazzi.
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Carla Zappella: psicopedagogista
Claudio Caggioni: Associazione “amici di Giovanni”
Il progetto di vita non può essere basato solo sulla famiglia ma su spazi
che consentono a tutti di parlarsi: famiglia, servizi, istituzioni…
I servizi non possono arrivare dappertutto, ma le risorse non devono
essere dedicate tutte a servizi strutturati
Serve un’area di flessibilità nel lavoro educativo con la disabilità, non
per accontentare le famiglie, ma per dare risposta ai bisogni di relazione,
e servono risorse dedicate a questo
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ANTONIO PORRETTA A.V.V.S.
Il “progetto di vita” va inteso e costruito come luogo della possibilità e
della creatività e deve prendere le mosse dal rispetto della centralità e
unicità della persona: in questa prospettiva il volontariato può svolgere
una funzione determinante, per la sua capacità di innovare e di esprime-
re vicinanza e sussidiarietà.
Ma il “progetto di vita” apre una prospettiva che, per essere perseguita,
necessita di una alleanza tra i soggetti differenti che gravitano e appar-
tengono, a livelli diversi, al mondo della vita delle persone disabili, in
vista sia di una costruzione della conoscenza della persona disabile, sia
della predisposizione di occasioni di esperienza che permettano alla per-
sona in situazione di handicap di comprendere e di divenire chi può ef-
fettivamente divenire. Se il contesto è allora la chiave attorno alla quale
definire il “progetto di vita”, allora al volontariato, che del contesto di
vita di una persona disabile è parte integrante e fondamentale, va rico-
nosciuta pari dignità e autorevolezza nella costruzione dei “progetti di
vita”, anche responsabilizzando le istituzioni a offrire ai volontari occa-
sioni formative che consentano loro di affrontare questo compito in mo-
do consapevole.
Il “progetto di vita” non può essere progettare la vita: è fondamentale
tutelare spazi di autonomia e protagonismo, perché la persona disabile
possa pensare il suo futuro, possa garantirsi una possibilità di scelta. Per
questo è altrettanto fondamentale riconoscere alla persona disabile, a
partire dai comportamenti agiti, dalle parole pronunciate, lo statuto di
soggetto attivo in una relazione, qualunque sia la sua condizione psicofi-
sica: ancora una volta il volontariato, e soprattutto il volontariato giova-
nile, inteso come luogo privilegiato della relazione, riconosce la centra-
lità e l’unicità della persona disabile, che non è altresì omologata nel
ruolo di utente, cui restituisce spazi di libertà e autodeterminazione.
L’Associazione Volontariato Valle Seriana è un gruppo è attivo da di-
verso tempo e si occupa principalmente di organizzare campi estivi con
ragazzi portatori di handicap, ma anche semplici giornate di svago o
uscite serali in compagnia
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Ho detto di proposito “con ragazzi portatori di handicap” e non “per
ragazzi portatori di handicap” in quanto già in questo deve emergere con
forza come l’attività della nostra associazione, e in generale il nostro
modo di intendere il volontariato, non possa prescindere dalla dimensio-
ne dell’“insieme”, della “reciprocità”, dello “scambio relazionale e in-
terpersonale”: l’approccio con il disabile non è un approccio program-
matico, ma è improntato a spontaneità e autenticità.
Al concetto di “dono” subentra cioè quello di “scambio”. La sua specifi-
cità diviene la costruzione di nessi fra persone: il “fare con” sostituisce
così il “fare per” e l’identità propria dell’azione volontaria finisce per
esplicarsi proprio in questo scambio che genera incontro e relazioni.
Dentro un “progetto di vita” ciò di cui si occupa l’Avvs è il tempo libe-
ro, il tempo delle relazioni e dell’occuparsi di sé: se è vero che questa
finalità è condivisa tanto dalle persone disabili quanto dai volontari, al-
lora proprio in un contesto di tal genere i disabili vengono valorizzati
per una delle loro abilità maggiori, ovvero la capacità di creare relazio-
ni, di essere collante dello stare insieme, di permettere ad una associa-
zione come la nostra di vivere e funzionare.
Ciò finisce con l’aprire inattese possibilità di simmetria fra “volontari” e
“utenti”, che, soprattutto all’interno di progetti specifici (come il Che
Gruppo, complesso musicale composto da disabili e da normodotati, nel
quale sono stati i primi a consentire ai secondi di trovare l’opportunità
per soddisfare il desiderio di suonare in un gruppo: è l’handicap che di-
venta risorsa!), hanno le stesse attese ma anche le stesse responsabilità
rispetto alla possibilità di “tenere in piedi” l’associazione.
Il rapporto fra volontari e ragazzi disabili, di 2/3 a uno, ampia-
mente sbilanciato cioè dalla parte dei soggetti normodotati, dice
chiaramente di come questa esperienza nasca come spazio rela-
zionale aperto, improntato a legami amicali, “normali”, e non su
basi assistenziali e infermieristiche .
Quello che si vuole proporre è quindi una concezione di volon-
tariato indissolubilmente legato alla quotidianità, alle cose di
tutti i giorni, alla pizza e alla piscina: al centro della relazione
fra volontario e utente, o per lo meno al centro di quella propo-
sta da associazioni come la mia, c’è la vita comune, lo stare in-
sieme, l’immediatezza e la semplicità del gruppo che vive e agi-
sce il proprio territorio a livello spaziale, culturale, relazionale.
Durante le vacanze estive, i disabili sono chiamati a essere protagonisti
della gestione dei propri spazi e a collaborare alla gestione della vita
comune dei “campi”: la logica è quella di provare ad amplificare gli spa-
zi di vita delle persone disabili, moltiplicando le opportunità, ma anche
garantendo loro la possibilità di scegliere e di essere protagonisti della
loro vita (o per lo meno del loro tempo libero): i “ragazzi” si attivano
per autodefinire i propri desideri e i propri interessi, creando così spazi
per l’autonomia, la libertà, la capacità di scelta e rendendo possibile ac-
quisire capacità e abilità.
Ciò permette di aprire spazi di autorealizzazione delle persone attraver-
so la relazione oltre che di agire sull’innalzamento dei livelli di autono-
mia e autodeterminazione.
Quello che si vuole proporre è un tipo di volontariato assolutamente
spontaneo, gratuito, che vive di relazioni, di divertimento, di coinvolgi-
mento e scambio emotivo: l’improvvisazione, la genuinità dei gesti e dei
rapporti possono concorrere ad offrire proprio quelle occasioni di nor-
malità che altrimenti sarebbero impossibili da assicurare.
In un fenomeno di questo genere sono assolutamente frequenti, e anzi
finiscono per diventare strutturali, quei diversi livelli di consapevolezza
e di coinvolgimento che altro non riproducono nel fare volontariato che
quei diversi livelli di consapevolezza e di coinvolgimento presenti nelle
cose di tutti i giorni: se la nostra azione vuole mantenere come fulcro la
quotidianità del momento relazionale, necessariamente ne deve ripro-
durre pregi e difetti.
Questo comporta anche un salto di qualità delle famiglie, chiamate ad
affidarsi, prima ancora che a fidarsi, ai volontari, che spesso cambiano e
che talvolta rappresentano per i genitori un “salto nel buio”,
l’accettazione del rischio e dell’adultità dei propri figli. Ciò significa
aprirsi a quel contesto che, come si diceva, è chiamato a determinare il
“progetto di vita” dei loro figli, ma significa anche sperimentare forme
di distacco che, ovvie per genitori di ragazzi “abili”, non lo sono altret-
tanto per genitori di ragazzi “disabili”.
Tanto più allora diventa significativo offrire spazi di accompagnamento
al volontariato nell’approccio al “progetto di vita”, perché questo per-
mette alla persona disabile di vivere esperienze diverse.
Se rifiutiamo di costruire spazi specifici per la disabilità, allora possia-
mo creare l’opportunità di vivere realmente il mondo che abitiamo.
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