Lezione 15-16 novembre 2010 PROF. ALFONSO GIORDANO ASPETTI GEOECONOMCI DEL MONDO: OLTRE LE VECCHIE DICOTOMIE PREMESSA Lo scopo perseguito in queste due lezioni è quello di fornire una panoramica dei processi storici e delle relative conseguenze prodotte sul sistema internazionale sul finire del bipolarismo. In particolare, in un corso come "Geografia dell'incertezza e dell'informazione" si è ritenuto fondamentale illustrare come il passaggio dall‟internalizzazione alla globalizzazione e l‟entrata di nuovi attori sempre più influenti sulla scena internazionale siano nozioni indispensabili per capire il complesso rapporto che esiste tra l‟analisi del territorio, i fenomeni politici e la diffusione (ed eventuali distorsioni) delle informazioni che le riguardano, spesso caratterizzate da un alone di incertezza. Con il superamento delle vecchie dicotomie (Nord-Sud o Centro – Periferie, così come interpretate da teorie e schemi esposti in classe e nelle slides) le relazioni internazionali non sono più appannaggio dei singoli Stati, ma sono determinate e a loro volta condizionano le azioni dei nuovi protagonisti della scena internazionale, quali organizzazioni internazionali e sovra-nazionali, multinazionali, ONG, etc. Le relazioni internazionali sono diventate sempre più complesse, si sono ampliate e velocizzate e il coinvolgimento di nuovi attori ha comportato nuove interdipendenze che rendono lo scenario internazionale sempre più incerto. In altre parole, il crollo del blocco sovietico ha determinato la fine di un sistema mondiale basato su due superpotenze e due sistemi economici e conseguentemente la fine o per lo meno l‟allentamento delle rispettive aree di influenza, portando quindi ad un sistema mondiale multiforme e difficile da interpretare e quindi, ancora una volta, incerto. Risulta dunque importante avere nuovi strumenti di lettura per poter interpretare e comprendere l‟attuale sistema-mondo e i possibili scenari futuri, anche in riferimento agli strumenti di informazione e al loro ruolo nella comunità internazionale. In particolare, il sistema di informazione è cresciuto in quantità, in fruibilità e in diffusione, ma allo stesso tempo è diminuita la sua sistematicità. L‟elevato afflusso di informazioni a cui oggi siamo esposti e la possibilità di accedere a più fonti (non sempre attendibili) rischia di confondere gli utenti, in quanto non provvisti dei corretti strumenti di lettura degli attuali eventi. Pertanto, in queste lezioni si è inteso fornire gli schemi interpretativi adatti per poter interpretare correttamente il complesso sistema di interdipendenze globali, attraverso l‟esame degli eventi storici, la loro evoluzione, i protagonisti internazionali di questo processo e i possibili, seppur incerti, scenari futuri.
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Lezione 15-16 novembre 2010
PROF. ALFONSO GIORDANO
ASPETTI GEOECONOMCI DEL MONDO: OLTRE LE VECCHIE DICOTOMIE
PREMESSA
Lo scopo perseguito in queste due lezioni è quello di fornire una panoramica dei processi storici e
delle relative conseguenze prodotte sul sistema internazionale sul finire del bipolarismo. In
particolare, in un corso come "Geografia dell'incertezza e dell'informazione" si è ritenuto
fondamentale illustrare come il passaggio dall‟internalizzazione alla globalizzazione e l‟entrata di
nuovi attori sempre più influenti sulla scena internazionale siano nozioni indispensabili per capire il
complesso rapporto che esiste tra l‟analisi del territorio, i fenomeni politici e la diffusione (ed
eventuali distorsioni) delle informazioni che le riguardano, spesso caratterizzate da un alone di
incertezza.
Con il superamento delle vecchie dicotomie (Nord-Sud o Centro – Periferie, così come interpretate
da teorie e schemi esposti in classe e nelle slides) le relazioni internazionali non sono più
appannaggio dei singoli Stati, ma sono determinate e a loro volta condizionano le azioni dei nuovi
protagonisti della scena internazionale, quali organizzazioni internazionali e sovra-nazionali,
multinazionali, ONG, etc. Le relazioni internazionali sono diventate sempre più complesse, si sono
ampliate e velocizzate e il coinvolgimento di nuovi attori ha comportato nuove interdipendenze che
rendono lo scenario internazionale sempre più incerto. In altre parole, il crollo del blocco sovietico
ha determinato la fine di un sistema mondiale basato su due superpotenze e due sistemi economici e
conseguentemente la fine o per lo meno l‟allentamento delle rispettive aree di influenza, portando
quindi ad un sistema mondiale multiforme e difficile da interpretare e quindi, ancora una volta,
incerto. Risulta dunque importante avere nuovi strumenti di lettura per poter interpretare e
comprendere l‟attuale sistema-mondo e i possibili scenari futuri, anche in riferimento agli strumenti
di informazione e al loro ruolo nella comunità internazionale. In particolare, il sistema di
informazione è cresciuto in quantità, in fruibilità e in diffusione, ma allo stesso tempo è diminuita la
sua sistematicità. L‟elevato afflusso di informazioni a cui oggi siamo esposti e la possibilità di
accedere a più fonti (non sempre attendibili) rischia di confondere gli utenti, in quanto non provvisti
dei corretti strumenti di lettura degli attuali eventi. Pertanto, in queste lezioni si è inteso fornire gli
schemi interpretativi adatti per poter interpretare correttamente il complesso sistema di
interdipendenze globali, attraverso l‟esame degli eventi storici, la loro evoluzione, i protagonisti
internazionali di questo processo e i possibili, seppur incerti, scenari futuri.
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1. Dall’internazionalizzazione alla globalizzazione
Il concetto di globalizzazione è emerso per la prima volta attorno al 1960 quando lo studioso
canadese Marshall McLuhan coniò il termine “villaggio globale”1 per descrivere l‟impatto delle
nuove tecnologie delle comunicazioni sulla vita sociale e culturale. I due termini dellʹenunciato si
contraddicono a vicenda, il “villaggio” esprime qualcosa di piccolo, mentre “globale” sta a
significare l‟intero pianeta. Le due scale geografiche estreme naturalmente contrapposte si ritrovano
unificate. La globalizzazione può essere definita come un processo (o un insieme di processi)
consistente in una trasformazione nell‟organizzazione spaziale delle relazioni e delle transazioni
sociali che produce flussi e reti transcontinentali o interregionali di attività, interazioni e potere. In
via generale, si può sostenere che la globalizzazione consiste nell‟accumulo di legami tra le
principali regioni del mondo e tra svariati ambiti di attività: più che un singolo processo, essa
implica almeno quatto diversi tipi di cambiamento:
‐ essa estende attività sociali, politiche ed economiche attraverso le frontiere politiche, le regioni e i
continenti;
‐ intensifica la dipendenza reciproca con il progressivo aumento dei flussi di commercio,
investimenti, finanza, migrazione e cultura;
‐ accelera il mondo: l‟introduzione di nuovi sistemi di trasporto e comunicazione implica un più
rapido movimento di idee, beni,informazioni, capitali e persone;
‐ determina un maggiore impatto degli eventi remoti sulla nostra vita.
Quando si parla di globalizzazione si fa riferimento in genere a quella di natura economica, ciò
anche perché i suoi effetti sono maggiormente evidenti. Gli ambiti nei quali, a livello economico, il
fenomeno globalizzante si manifesta riguardano sia la sfera dell‟economia reale (cioè la produzione,
distribuzione e consumo di beni e servizi) che quella dell‟economia finanziaria (monete e capitali).
Questo fenomeno è però in atto da secoli e non è affatto una novità degli ultimi decenni.
L‟interconnessione tra varie aree del mondo è sempre esistita ed è nata appunto sin dai primi
movimenti di persone con i relativi traffici. Questa interconnessione è stata tradizionalmente
chiamata “internazionalizzazione”. La globalizzazione però è molto probabilmente qualcosa di
diverso e di più rispetto all‟internazionalizzazione sia per quanto riguarda gli attori coinvolti, che
per l‟intensità del processo e, infine, per l‟estensione geografica.
La globalizzazione coinvolge, infatti, oltre che gli Stati‐nazione (l‟internazionalizzazione prevedeva
invece relazioni tra “nazioni”), anche altri soggetti non statuali quali le multinazionali (o
1 MCLUHAN M. (1964), Understanding Media: The Extensions of Man, Routledge, London
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transnazionali), le Organizzazioni Internazionali, le ONG ecc. Il processo di globalizzazione è
inoltre più intenso in quanto maggiormente pervasivo nella vita dell‟individuo (toccando diversi
aspetti della vita umana, non solo quello economico quindi) ed enormemente più rapido (si pensi
alle tecnologie dell‟informazione quali internet). Infine, la globalizzazione comporta una estensione
geografica maggiore perché giunge in aree del pianeta prima non interessate dal fenomeno
dell‟internazionalizzazione, rendendole così parte del sistema.
Tabella 1: Internazionalizzazione e globalizzazione
Fonte: Adattata da Conti S., Dematteis G., Lanza C., Nano F. (2006), Geografia dell’economia
mondiale, UTET, Torino, pag. 194
Tre fattori su tutti hanno contribuito alla “esplosione” della globalizzazione:
Il mutamento della situazione geopolitica ed economica verificatosi alla fine degli anni 80‟;
L‟evoluzione tecnologica;
Lo sviluppo della telematica degli ultimi decenni.
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Con la fine della Guerra Fredda ed il crollo delle economie pianificate e dei connessi sistemi
socio‐politici (avvenuto simbolicamente con la caduta del Muro di Berlino nel 1989) - che
caratterizzavano l‟Europa orientale e una parte dell‟Asia - insieme all‟apertura della Cina
all‟economia di mercato, ha favorito l‟imporsi di un unico tipo di sistema economico, basato sul
libero commercio tra gli stati. Così gli intensi scambi di capitali e di merci, che già riguardavano
buona parte della Terra, si sono estesi a tutto il pianeta. L‟affermazione della globalizzazione è stata
poi favorita anche da altri due fattori e cioè l‟evoluzione tecnologica e lo sviluppo della telematica.
L‟evoluzione della tecnologia ha permesso la messa a punto di sistemi di trasporto molto più veloci,
facilmente accessibili e poco costosi, così da rendere sempre più conveniente e rapido lo
spostamento delle persone e delle merci da un capo all‟altro del mondo. Lo sviluppo della
telematica (telecomunicazioni legate all‟informatica) ha visto un progresso tale da permettere lo
scambio di un enorme volume di informazioni, in tempo reale, fra i popoli di tutti i paesi della
Terra. Pertanto, la riduzione delle distanze e le più strette interrelazioni fra tutti i Paesi del mondo
che ne conseguono, impongono un nuovo modo di porsi nei confronti dei grandi problemi
contemporanei. Gli squilibri demografici, la mobilità delle persone, l‟organizzazione del lavoro,
l‟inquinamento ambientale, il tipo di risorse utilizzate e la questione della loro esauribilità sono temi
che non possono essere considerati separatamente nelle singole entità territoriali. Il modo nel quale
questi temi saranno affrontati da un gruppo di paesi, ma anche da un singolo Stato, avrà
ripercussioni su tutti gli altri.
2. Le teorie interpretative dei sistemi economici mondiali
L‟interpretazione del sistema economico mondiale in chiave, “globale” si deve allo sociologo e
storico e americano Immanuel Wallerstein e alla sua teoria detta dell‟economia‐mondo, la cui prima
elaborazione risale al 19746. Alla base della teoria di Wallerstein c‟è l‟idea che l‟organizzazione
degli spazi geografici derivi da lungo processo storico basato non tanto su singoli Stati, quanto
invece su costruzioni sociali più vaste e articolate munite di una propria base
“economico‐materiale” e culturale indipendente, tali cioè da costruire dei veri e propri “mondi”, che
egli chiama appunto “sistemi‐mondo”. I sistemi‐mondo possono essere suddivisi in due tipologie:
gli imperi‐mondo e le economie‐mondo. Gli imperi‐mondo si caratterizzano come sistemi
particolarmente gerarchizzati in senso verticale, dove il momento politico primeggia su quello
economico e il cui funzionamento è fondato su meccanismi di produzione della ricchezza di tipo
“ridistribuitivo‐tributario” e sull‟espansionismo territoriale. La ridotta elasticità interna e l‟elevata
conflittualità esterna è allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza di questi sistemi. Le
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economie‐mondo sono invece agglomerati di tipo orizzontale, dove non esiste un centro o un unico
vertice politico, ma dove risaltano piuttosto fattori e legami di ordine culturale, sociale ed
economico di rilevanza territoriale più vasta rispetto a quella governabile da un‟entità politica.
Tradizionalmente le economie‐mondo pre‐moderne si sono frequentemente sviluppate intorno alle
grandi vie dʹacqua (ad es.: il Mediterraneo, il Golfo Persico, l‟Oceano Indiano), ma anche alle
grandi arterie commerciali terrestri, mostrando, tuttavia, anch‟esse una accentuata instabilità
intrinseca e tendendo perciò a trasformarsi o ad essere inglobate in imperi o a disintegrarsi.
Un mutamento radicale avviene con l‟affermarsi dell‟economia‐mondo europea, che a tutti gli
effetti rappresenta le origini del sistema economico mondiale odierno. Si tratta del risultato di un
processo plurisecolare che inizia nell‟Europa nel XVI secolo, quando, in concomitanza con
l‟espansione coloniale seguita alla scoperta dell‟America, prende forma il capitalismo mercantile, la
cui peculiarità consiste nella capacità di espandersi in modo praticamente illimitato attraverso la
diffusione e l‟allargamento del mercato. Differentemente da quanto accade nelle altre
economie‐mondo, il nuovo sistema usa i meccanismi dell‟accumulazione del capitale per infilarsi in
ogni spazio dell‟economia sociale, e riesce ad assorbire le aree esterne (imperi‐mondo, altre
economie‐mondo, minisistemi), arrivando a creare sulla fine del XIX secolo uno spazio economico
unico sulla Terra. Un successo di tale rilevanza non è spiegabile se non si prende in considerazione
anche un‟altra peculiarità dell‟economia‐mondo capitalistica: la sua capacità, cioè, a funzionare e a
consolidarsi attraverso la separazione tra sfera economica e sfera politica. In tal modo la nuova
economia‐mondo si è potuta sviluppare non solo evitando la sua trasformazione in un
impero‐mondo, ma anche ottenendo vantaggio dall‟esistenza di più centri politici, potendo anzi
utilizzare le discontinuità politico‐territoriali e le varietà di modalità operative locali come fattori di
ulteriore espansione.
3. Sviluppo Sostenibile e Impatto ambientale
L‟aumento della popolazione mondiale in relazione alle risorse ha sollevato, non solo in tempi
recenti, discussioni legate alla capacità di portata del Pianeta. Questa è data capacità di un ambiente
(o ecosistema, o pianeta) e delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui. Esiste una
quantità massima di popolazione che un dato ambiente può sopportare, superata la quale le sue
capacità di sostenere future generazioni sono messe a repentaglio. Il limite della capacità di carico
di un territorio non è fisso, ma può innalzarsi con l‟introduzione di nuove tecnologie in grado di
accrescere la capacità produttiva dell‟ambiente.
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Fra i più noti studiosi che si sono dedicati al rapporto popolazione‐risorse rientra l‟inglese Thomas
Malthus, che nel 1798 pubblicò il suo “Saggio sui principi della popolazione”. La sua analisi si basa
sull‟ipotesi che la ʺla popolazione ha la costante tendenza ad aumentare al di là dei mezzi di
sussistenzaʺ. La soluzione avanzata da Malthus per evitare il collasso mondiale consiste in un
rigoroso controllo delle nascite, basato sull‟astensione dal matrimonio e dalle pratiche sessuali.
Negli anni ʹ60 e ʹ70 del 1900 il pensiero di Malthus fu ripreso e rielaborato dai neomalthusiani, che
ammonivano sulle disastrose conseguenze derivanti dalla crescita della popolazione e
dell‟esaurimento delle risorse. Nel 1968 il biologo americano Paul Ehrlich pubblicò un volume dal
titolo “The population bomb”, nel quale prevedeva di lì a dieci anni l‟inevitabile morte per fame di
milioni di persone.
La maggiore attenzione agli evidenti problemi ambientali ha fatto evolvere il dibattito sulla
ricchezza del mondo industrializzato e sul divario nei consumi delle risorse da un piano spesso
eccessivamente moralista a quello di reali questioni di sopravvivenza del Pianeta. L‟attenzione sulla
portata di carico della Terra ha come corollario una riflessione sull‟attuale sistema economico
prevalente e sulla sua capacità di soddisfare i bisogni della popolazione attuale senza nulla togliere
alle generazioni future. In altri termini la capacità di portata è data da:
– la grandezza della popolazione di riferimento;
– l‟attività economica, i suoi ritmi e il consumo di risorse pro capite;
– la tecnologia usata per mantenere quell‟attività, quei ritmi e quei
– consumi;
– la quantità di risorse disponibili.
Fra gli indici ideati più recentemente per misurare l‟impatto e la richiesta umani nei confronti della
natura vi è l‟Impronta ecologica. Questo indice statistico ideato dal WWF mette in relazione il
consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle. In pratica, rappresenta
ʺil pesoʺ che ogni popolazione ha sullʹambiente. Tre fattori determinano l‟Impronta di un Paese:
popolazione, consumi pro capite e quantità di risorse necessarie a sostenere quei consumi. Il calcolo
dell‟Impronta ecologica, in definitiva, può determinare se una nazione, una regione o il mondo
intero sta o meno vivendo entro i propri limiti ecologici.
Più articolato è l‟Indice di Sostenibilità Ambientale ESI sviluppato dalla Yale University e dalla
Columbia University in collaborazione con il Forum economico mondiale e il Centro comune di
ricerca della Commissione europea. LʹESI è un indice aggregato che si propone di valutare la
capacità delle nazioni di proteggere il proprio ambiente nei prossimi decenni, tenendo conto di una
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serie di variabili di tipo socio‐ economico, ambientale ed istituzionale. LʹESI dovrebbe dare gli
strumenti per una razionale politica ambientale, e fornire unʹalternativa al PIL e allʹIndice di
Sviluppo Umano nella misura del progresso di un paese. Ad un alto valore dellʹindice
corrispondono i paesi che hanno maggiore probabilità di mantenere il proprio ambiente in buone
condizioni nel lungo periodo.
§ 3.1 segue: Lo sviluppo sostenibile dell’ecosistema “uomo - terra” come paradigma per il 21°
secolo
Il rapporto Brundtland ha ispirato, comunque, importanti conferenze delle Nazioni Unite,
documenti di programmazione economica e legislazioni, sia nazionali che internazionali, e qualsiasi
discussione effettuata in questi ultimi anni su temi economici e/o ecologici2.
Il concetto di “sviluppo sostenibile” è stato dunque assurto come paradigma di una crescita
economica, culturale e sociale rispettosa dei tempi della natura e delle generazioni future. Va detto
che gli stati – ma anche le culture, i gruppi, gli individui ‐ interpretano il concetto di “sviluppo
sostenibile” nel modo che più si adatta ai propri bisogni. Così alcuni enfatizzano la sostenibilità
economica per aumentare il loro livello di consumi, altri la sostenibilità ambientale per proteggere
specie a rischio. Sintetizzando, possiamo identificare tre aspetti universalmente riconosciuti come
sfaccettature del concetto di “sviluppo sostenibile:
- Sviluppo sostenibile della natura: non consumare risorse più velocemente di quanto esse non
possano rinnovarsi.
- Sviluppo sostenibile dell‟economia: lavoro per tutti e sempre più elevati standard di vita.
- Sviluppo sostenibile della società: pari opportunità di vita per tutti.
4. Le rappresentazioni della strutturazione dello spazio globale
Il sistema economico e politico mondiale così come è strutturato oggi non è, come abbiamo visto
quando si è accennato all‟economia‐mondo capitalistica, un “dato” naturale scaturente da
un‟evoluzione più o meno lineare del mondo nel suo complesso o dall‟incontro autonomo di civiltà,
culture, formazioni politiche ed economiche diverse. Il sistema mondiale corrente è soprattutto il
frutto della prevalenza su scala globale di un unico modello di organizzazione socio‐economica e
politica, il “modello europeo”, o, più generalmente, “occidentale”, che nel corso del suo processo
2 Agenda 21 nel 1992, Protocollo di Kyoto nel 1997, Dichiarazione del Millennio nel 2000
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d‟affermazione ha destrutturato, assorbito, omogeneizzato e riorganizzato in modo strumentale a sé
ogni altra realtà preesistente o “diversa”. Tale evoluzione ha attraversato vari periodi, ciascuno dei
quali ha lasciato un proprio segno di riconoscimento sugli assetti mondiali attuali.
Fino a tutto il XVII secolo è l‟Europa che vede lo sviluppo del sistema capitalistico. I fenomeni
economici vengono organizzati secondo una bipartizione fra uno spazio interno europeo, con
colonie americane comprese, e uno spazio esterno extraeuropeo. E‟ quindi il sistema europeo con le
sue dipendenze coloniali ad assistere ad una polarizzazione dello spazio. Il centro del sistema si
colloca dapprima in Spagna, successivamente nell‟Europa nordoccidentale, dove si formano le
precondizioni dell‟economia industriale fondata sul libero lavoro (Nord Francia, Inghilterra, Paesi
Bassi). La periferia è invece fatta dall‟Europa orientale e dall‟America a dominazione iberica, poi
anche da quella anglofrancese, dove a prevalere sono le attività primarie, e quelle agricola ed
estrattiva, basate più che altro sul lavoro forzato e sulla schiavitù. La semiperiferia comprende la
Francia meridionale, l‟Italia settentrionale, poi anche Svezia, il Brandeburgo‐Prussia, dove
primeggiano la mezzadria e forme intermedie di lavoro. La guerra dei trent‟anni, conclusa nel 1648,
decreta, insieme con la nascita del sistema degli Stati, anche il manifestarsi del primo conflitto tra le
potenze centrali per l‟egemonia sulla nuova economia‐mondo. Il sistema europeo si estende poi
gradualmente tra il XVIII e il XIX sul resto del mondo, assorbendo dentro il proprio circuito
economico gli spazi esterni (gli imperi persiano, cinese e ottomano, il subcontinente indiano, il
Sudest asiatico, l‟Africa Sub‐Sahariana), e ciò sia direttamente quali colonie di sfruttamento, sia
indirettamente in qualità di partner commerciali, ultimando così il proprio sistema di colonie di
popolamento (Australia, Nuova Zelanda). Viene proiettata in questo modo su scala globale anche la
polarizzazione dello spazio geografico venutasi a formare in Europa nei precedenti due secoli e
testata nelle colonie e semicolonie d‟oltremare dell‟area atlantica fin dal „600 mediante il cosiddetto
“commercio triangolare”. Le relazioni tra centro e periferia traslate fuori dall‟Europa vengono
organizzate a partire dal principio fondato sul binomio dominanza - dipendenza, che prevede una
subordinazione e riconversione sempre più forti delle strutture socio‐economiche delle periferie
extra‐europee secondo le esigenze proprie dei mercati e dei processi produttivi delle metropoli
continentali (economia di piantagione, monocoltura, fornitura di manodopera ecc.). A questo
vigoroso meccanismo non si sottraggono neppure le ex‐colonie americane, che si allacciano, come
gli Stati Uniti, ai processi di trasformazione economica in atto nella madrepatria al fine di
convergere verso il centro del sistema mondiale, oppure come l‟America Latina, non riuscendo però
a venir fuori dalla loro situazione di subalternità e restando quindi confinate in uno spazio
marginale. L‟europeizzazione del mondo si universalizza e in qualche modo si rende indipendente a
partire dalla rivoluzione industriale inglese a cavallo tra „700 e „800, passando attraverso la
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rivoluzione francese dell‟89, arrivando fino al ʹ900 avanzato. L‟organizzazione politica degli spazi
geografici si uniforma al modello di Stati nazione di matrice europea, mentre il modo di concepire
la produzione industriale diffonde il lavoro salariato, eliminando o assimilando ogni forma residua
forma “altra” di organizzazione del lavoro. I rapporti gerarchici centro‐periferia restano
sostanzialmente immutati nel corso del tempo. A cambiare sono invece la collocazione dei poli
economici centrali e le relazioni egemoniche tra gli Stati al potere. Fino all‟inizio del „900 tocca
all‟Europa nordatlantica il ruolo cardine dell‟economia‐mondo, in un primo momento sotto il
faticoso condominio franco‐britannico, successivamente sotto l‟egemonia della sola Gran Bretagna,
focolaio della rivoluzione industriale. Negli anni „70 dell‟800 si affacciano però alla ribalta nuovi
concorrenti: la Germania e, per la prima volta un paese non europeo, gli Stati Uniti. La lotta per il
predominio provoca, come noto, due guerre mondiali e si risolve con lo spostamento del centro di
gravità del mondo al di fuori dell‟Europa, per l‟appunto negli Stati Uniti. La nuova egemonia
statunitense garantisce quanta anni circa di stabilità in Europa, a fronte del prezzo di una crescente
conflittualità col nuovo antagonista eurasiatico, l‟URSS. Quando dopo il 1991 questa conflittualità
bipolare viene meno, le altre conflittualità si moltiplicano sia in periferia, sia al centro, in Europa,
ma soprattutto tra centro (in Nord) e la periferia (il Sud). Contemporaneamente si assiste alla
crescita di un nuovo colosso economico, il Giappone, e di quello demografico, la Cina. Ciò, in un
certo senso, preannuncia lo spostamento del centro in una nuova area, quella del Pacifico.
Il mondo ha visto quindi, nelle sue diverse fasi storiche il prevalere di questa o quell‟altra visione
politica, socio‐economica, culturale e/o ideologica. Ogni campo disciplinare ha cercato di
interpretare queste visioni secondo le proprie peculiarità di indagine scientifica. Le discipline
geografiche, in linea con quanto premesso all‟inizio di questa trattazione, prediligono un approccio
allo stesso tempo sistemico, cioè tenendo conto delle diverse componenti del quadro d‟insieme, e
concreto, a partire quindi dagli elementi realmente verificabili sul territorio. Avvalendosi della sua
modalità principe di indagine, e cioè l‟analisi spaziale (i fatti umani, così come si manifestano in
relazione allo spazio terrestre) e multiscalare, la geografia tende a dare dello spazio globale una (o
più) rappresentazioni della sua struttura. Ciò avviene in genere gerarchizzando lo spazio e
verificandone le posizioni, le differenze, e le variazioni. Dovendo rappresentare lo spazio, il
discorso geografico si esprime quindi anche attraverso immagini e metafore (ma anche con
indicatori quantitativi) che per quanto semplificanti la realtà delle cose, possono mettere in luce
elementi nuovi, far rilevare relazioni non considerate prima, porre in evidenza continuità e rotture.
Come fatto rilevare poco prima, anche la metafora proposta dall‟immagine Nord‐Sud tende a
semplificare la realtà dei fatti: è facile far rilevare che non tutti i paesi in via di sviluppo si trovano
nella parte sud del mondo. Così come la tradizionale prospettiva interpretativa dei rapporti tra
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economie a livello di sistema mondiale basata sul dualismo centro‐periferia è discutibile3. La realtà
è molto più articolata e complessa: ci sono infatti paesi non ricchi appartenenti al sud del mondo
che non sono affatto periferici e che partecipano attivamente ai cicli produttivi e, allo stesso tempo,
paesi del centro che rischiano l‟esclusione. Tuttavia, pur con tutti i limiti descrittivi della realtà, una
immagine aiuta a contestualizzare i concetti teorici e a calarli nella probabile realtà. Le
rappresentazioni geografiche hanno quindi tentato di descrivere le gerarchie politico ed economiche
mondiali, che nell‟arco degli ultimi cinquant‟anni sono venute in parte mutando. All‟epoca del
bipolarismo prende forma la ripartizione geopolitica del pianeta in Primo, Secondo, Terzo e Quarto
mondo. A partire dagli anni „80 del Novecento il problema Nord‐Sud emerge come disequilibrio
principale degli assetti geo‐economici mondiali. Nell‟ultimo decennio del secolo, con il collasso del
mondo comunista appaiono nuove gerarchie. Occorre notare infine che il legame tra
rappresentazioni e teorie non è univoco e lineare: se per un verso è evidente che alcune
rappresentazioni riflettano le ideologie, le teorie e gli orientamenti politici nelle quali vengono alla
luce e si sviluppano, è più difficile stabilire se e quando le immagini geografiche abbiano fornito
spunti per la formulazione di teorie e ideologie.
§ 4.1 segue: Una lettura politico‐ideologica: la metafora dei Quattro Mondi
I termini “sottosviluppo” e “Terzo Mondo” fanno parte del gergo politico della fase iniziale della
Guerra Fredda, essendo comparsi per la prima volta a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del
Novecento. La denominazione “Terzo Mondo” fu coniata nel 1952 dal demografo e economista
francese Alfred Sauvy in un articolo del giornale “L‟Observateur”, nel quale la situazione politica
mondiale dell‟epoca è paragonata a quella della Francia pre‐rivoluzionaria. Il parallelismo che
Sauvy fa rilevare riguarda la situazione della società francese alla vigilia della Rivoluzione, ripartita
com‟era in “tre stati”, l‟ultimo dei quali, il “Terzo stato”, che includeva la massa della popolazione,
sarebbe insorto e avrebbe preso il sopravvento, come sempre secondo Sauvy, il mondo si poteva
frazionare in “Tre Mondi”, l‟ultimo dei quali, il Terzo appunto, comprendente i due terzi
dell‟umanità, sarebbe stato destinato a sollevarsi e imporre un nuovo ordine internazionale.
A partire da tale parallelismo, il Primo Mondo era assimilato con le vecchie e nuove potenze
coloniali (potenza “neocoloniale” erano considerati gli Stati Uniti), e più in generale, con i paesi a
regime di economia di mercato, vale a dire capitalistica. Il Secondo Mondo era composto
dall‟insieme dei paesi socialisti, in parte appartenenti al blocco sovietico. Il Terzo Mondo, infine,
3 Per una critica al modello centro-periferia si veda VANOLO A. (2006), Geografia economica del sistema-mondo. Territori e reti
nello scenario globale, UTET, Torino.
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radunava la massa dei paesi ex coloniali e dei movimenti di liberazione nazionale, in prevalenza
presenti in Asia e in Africa, accomunati oltre che dalla posizione economica e politica di
subalternità, dal fatto di non identificarsi in nessuno dei primi due mondi.
Nel corso degli anni, la distinzione fra i Tre Mondi ha assunto una connotazione più marcatamente
economica e, correlata col termine “sottosviluppo” nella sua versione meno dura e più politically
correct di “in via di sviluppo”, fu recepita dalle stesse organizzazioni internazionali. L‟espressione
“Primo Mondo” diventò così equivalente di paesi industrializzati a economia di mercato (Market
Economies), quella “Secondo Mondo” continuò a individuare i paesi socialisti a economica
pianificata (Central Planned Economies), e quella “Terzo Mondo” cominciò a collimare con i paesi
in via di sviluppo, sigla PVS (Developing Economies). Ma vi è da aggiungere il “Quarto Mondo”,
che viene in effetti viene visto come il “quarto stato” della Francia pre‐rivoluzionaria, che non esiste
a livello nominale, ma che, di fondo, segnala di fatto il mondo degli esclusi.
L‟espressione compare per la prima volta sulla stampa negli anni „70 per indicare la porzione più
misera dei paesi del Terzo Mondo, i paesi sottosviluppati veri e propri, quasi del tutto, se proprio
non del tutto, privi di risorse naturali di qualche rilievo o di capacità industriali.
§ 4.2 segue: Una visione economico‐sociale: lo schema Nord‐Sud
La ridefinizione delle gerarchie mondiali odierne, lette non più tanto in chiave politico‐ideologica,
quanto piuttosto in una prospettiva economicosociale, si deve a una Commissione dell‟ONU
presieduta dall‟ex cancelliere dell‟allora Germania Ovest, Willy Brandt, le cui conclusioni sono
sintetizzate nell‟ormai conosciuto Rapporto sullo sviluppo mondiale, edito nel 1980 sotto il titolo
emblematico Nord/Sud. L‟argomento chiave del Rapporto è incentrato sulla rottura ancora più
profonda e radicale che si è venuta ad aggravare negli ultimi decenni all‟ombra della
contrapposizione Est‐Ovest e mentre tutti i commentatori internazionali erano concentrati su questo
confronto. Questa nuova divisione, suscettibile di compromettere in maniera irreversibile gli
equilibri mondiali, è quella che contrappone i paesi ricchi e industrializzati dell‟emisfero Nord e il
resto del mondo che è invece costretto soventemente a vivere ai limiti della sussistenza, che è
caratterizzato da una crescita economica lentissima, se non stazionaria, ed è appesantito da profondi
problemi demografici, etnici e socio‐culturali. Nella visione proposta dal Rapporto Brandt, il Nord
del mondo comprende non solo i paesi avanzati dell‟emisfero nord geograficamente inteso
(l‟America settentrionale, Messico escluso, l‟Europa, inclusa l‟URSS, e il Giappone), ma anche
alcuni paesi industrializzati dell‟emisfero sud, come lʹAustralia, la Nuova Zelanda. In questa
Lezione 15-16 novembre 2010
visione, la parte sud del mondo finisce col coincidere con la vasta area del sottosviluppo comunque
essa venga classificata (paesi in via di sviluppo, Terzo e Quarto Mondo).
In ogni caso, ancora oggi, questo schema rappresenta un utile paradigma di riferimento per
analizzare le grandi dinamiche geoeconomiche globali. Lo schema Nord‐Sud ha infatti il merito di
mettere in luce le distorsioni connaturate ai meccanismi di fondo che caratterizzano lo sviluppo
economico mondiale: dominio delle economie più forti (quelle identificate come “centro”), scambio
ineguale tra paesi ricchi e paesi poveri (un rapporto che va sempre peggiorando), indebitamento in
aumento e costante impoverimento dei paesi più deboli. Tuttavia, come ogni modello a carattere
descrittivo‐generalista, corre il rischio, se non rinnovato e adattato ai continui mutamenti della
complessa realtà di oggi, di perdere in capacità esplicativa e rendere più confusa l‟analisi dei
processi che vuole interpretare.
§ 4.3 segue: La Triade e i paesi emergenti e in transizione
Di recente nuovi elementi tendono a ridisegnare la fisionomia geoeconomica e politica del mondo.
Da un lato, vi è da segnalare la tradizionale versione interpretativa che individua nella cosiddetta
“Triade”, formata da USA, Unione Europea e Giappone, i paesi dominanti sullo scacchiere
internazionale. Si tratta di una definizione utilizzata spesso nel commercio internazionale per
indicare appunto il trittico dei paesi/aree più industrializzate del mondo: il primo gruppo è
rappresentato dagli Stati Uniti, il secondo dai paesi dellʹEuropa Occidentale (sostanzialmente l‟UE)
e il terzo gruppo è rappresentato dal Giappone. Sono in pratica le classiche potenze economiche
“occidentali”, che nel mercato globale vengono identificate in raffronto ad altri gruppi economici
indiscutibilmente più deboli oppure ad altri nuovi gruppi economici emergenti, sui quali gruppi
economici però, grazie al suo potere politico ed economico la Triade proietta la sua grande
influenza. Per altro verso però, si ha un graduale ma durevole processo di differenziazione e
riallocazione delle gerarchie interne ai paesi che fanno parte del cosiddetto del Terzo Mondo (si
pensi per esempio a Israele, che da tempo viene annoverato tra i paesi industriali). D‟altra parte, un
processo per alcuni aspetti analogo sta avvenendo nei paesi dell‟emisfero nord, le cosiddette
“economie in transizione”, investiti dalla turbolente situazione post‐comunista.
Relativamente al Terzo Mondo, mentre si estende la lista dei paesi più poveri del Quarto Mondo
(che va detto, sono meno poveri che in passato, ma più poveri in relazione ai più ricchi), va notato
però che stanno anche man mano emergendo almeno tre categorie di Stati i cui livelli di sviluppo si
avvicinano a quelli delle economie più avanzate. Questi risultati sono incoraggianti fino al punto
tale che si può arrivare a configurare quello che si potrebbe definire, il Nord del Sud del mondo.
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Una prima categoria di questi paesi riguarda gli Stati a rendita petrolifera (Algeria, Arabia Saudita,
Bahrein, Brunei, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Iran, Iraq, Indonesia, Kuwait, Libia, Oman, Nigeria,
Venezuela ecc.).
Una seconda categoria è quella denominata come “nuovi paesi industriali” o NIE (Newly
Industrialized Economies), così chiamati a partire dalla metà degli anni ʹ80. Si tratta delle “quattro
tigri” dellʹAsia orientale (Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore), tutte caratterizzate da
sostenuti ritmi di crescita economica e da una intensa presenza sul mercato internazionale. Alla
stessa categoria, pur con tassi di crescita meno brillanti, sono da ascrivere anche Filippine,
Indonesia, Malaysia e Thailandia, definiti dalla stampa di settore come i “quattro dragoni“ del
Sud‐Est asiatico. Il paese senza dubbio a più rapida industrializzazione dell‟Asia, ma anche del
mondo, è la Cina, con un tasso di crescita costantemente a due cifre per oltre un decennio e in
procinto di ricoprire un ruolo leader mondiale non solo in campo economico ma anche
politico‐strategico.
La terza categoria di paesi emergenti è parecchio variegata, comprendendo Stati di grandi
dimensioni che dispongono di una forte base agricola e/o mineraria e di un apprezzabile apparato
industriale (per es.: Argentina, Brasile, India, Messico e Sudafrica), o che si trovano in una fase di
decollo industriale più o meno avanzato (Bangladesh, Egitto, Pakistan, Turchia), piccoli Stati con
reddito elevato (Cile, Uruguay), ma anche mini‐stati e dipendenze con un pronunciato sviluppo nel