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>elementi cosmo aristotelico + >qualitá >particelle in movimento nuova scienza (Galileo) >in base a leggi matematiche >secolarizzazione della societá fra il 1660 e il 1700 >esaltazione del lavoro manuale (etica protestante) sperimentale >approccio la cultura europea accetta matematico la nuova filosofia allo studio della natura
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Feb 18, 2019

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>elementi cosmo aristotelico + >qualitá >particelle in movimento nuova scienza (Galileo) >in base a leggi matematiche >secolarizzazione della societá fra il 1660 e il 1700 >esaltazione del lavoro manuale (etica protestante) sperimentale >approccio la cultura europea accetta matematico la nuova filosofia allo studio della natura

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Il XVII secolo è caratterizzato da un fiorire di studi e di nuove scoperte in ambito scientifico, che rivoluzionarono le conoscenze del tempo, influenzando molti campi del sapere, tra i quali anche la medicina.

Il movimento innovatore prese l’avvio da nuove dottrine filosofiche, che sostituirono definitivamente il dogmatismo medievale, già peraltro scardinato durante il Rinascimento, e privilegiarono un approccio empirico e razionale alla realtà e alla conoscenza.

La corrente di pensiero che si definisce Empirismo fu avviata dall’inglese Francis Bacon, noto con il nome italianizzato di Francesco Bacone (1561-1626), al quale si deve l’elaborazione di un metodo di conoscenza della natura che possiamo definire scientifico.

Bacone propose un procedimento induttivo, che non fosse basato esclusivamente sull’osservazione dei fenomeni tipica della filosofia aristotelica, ma che fosse supportato dalla realizzazione di esperimenti e dalla registrazione accurata dei dati ottenuti.

IL SEICENTO

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L’altra corrente di pensiero che si affermò in questo periodo è il Razionalismo, di cui si fece promotore il francese René Descartes, noto come Cartesio (1596-1650), considerato il primo pensatore moderno ad aver proposto un sistema filosofico di riferimento per la scienza, che allora si stava sviluppando in senso moderno.

Nella ricerca di un metodo che possa portare ad una conoscenza certa della realtà, Cartesio individuò nella ragione l’elemento che permette di superare il dubbio e di giungere ad una realtà cognitiva, concetto che espresse nel celebre “cogito ergo sum”; la base della conoscenza deve essere fondata dunque sul ragionamento.

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Un ulteriore impulso agli studi venne dal pensiero e dall’opera di Galileo Galilei (1564-1642), il vero fondatore della scienza moderna, al quale si deve l’introduzione del metodo sperimentale.

Il metodo scientifico da lui proposto, che rappresentò una vera rivoluzione, consisteva nella raccolta dell’evidenza empirica attraverso l’osservazione e l’esperimento, seguita dalla formulazione di un’ipotesi da vagliare nuovamente con la sperimentazione.

Ritenendo che la natura sia regolata da leggi matematiche e che i suoi fenomeni siano il risultato di queste leggi, lo scienziato moderno può riprodurre i fenomeni scoprendone le leggi che lo regolano.

Attraverso il sistema galileiano l’uomo di scienza divenne in grado di raggiungere una conoscenza oggettiva, verificabile e condivisibile della realtà.

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Lo sperimentalismo di Galileo ebbe notevoli riflessi anche nel campo della medicina, che si esplicarono essenzialmente nell’utilizzo di uno strumentario scientifico in grado di valutare le funzioni biologiche in maniera più precisa e soprattutto più obiettiva.

In questo senso un posto di rilievo è occupato dal microscopio, che aprì orizzonti inesplorati agli studi medici, la cui paternità tuttavia è oggetto di dibattito.

Sembra che il principio del microscopio sia stato ideato, alla fine del XVI secolo, da Zaccaria Jansen, fabbricante di occhiali di Middelburg, in Olanda, che pose due lenti all’interno di un tubo, scoprendo che, regolandone la distanza e la grandezza, si ottenevano immagini ingrandite degli oggetti osservati.

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Si deve tuttavia a Galileo Galilei l’introduzione di questo strumento in ambito scientifico nel 1616, che egli chiamò “occhialino”.

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Fu invece l’olandese Antony van Leeuwenhoek (1632-1723) a costruire il primo microscopio semplice costituito da una sola lente biconvessa, fabbricandone poi numerosi esemplari.

Fu grazie all’applicazione di questo strumento che si aprì la strada per un nuovo campo di ricerca, l’anatomia microscopica, rendendo possibili scoperte fondamentali per la medicina, come quella dei capillari ad opera di Marcello Malpighi.

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Il XVII secolo vide il fiorire di una serie di Accademie scientifiche, sorte per iniziativa di studiosi che sentivano l’esigenza di riunirsi per scambiare le proprie idee o per discutere di importanti tematiche, sganciandosi però dai dogmatismi e dal conservatorismo che ancora permeavano le Università e da pregiudizi di vario tipo, come quello religioso.

Sorsero così, in Italia, l’Accademia dei Lincei (1603) e l’Accademia del Cimento (1657), in Inghilterra la Royal Society di Londra (1662) e, in Francia, l’Académie Royale des Sciences (1666).

Sala riunioni dell’Accademia dei Lincei, Roma

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WILLIAM HARVEY

La scoperta della circolazione sanguigna sistemica, preparata dalle scoperte di Serveto, Realdo Colombo, Andrea Cesalpino e Girolamo Fabrici d’Acquapendente nel XVI secolo, si deve all’inglese William Harvey (1578-1657) .

Dopo i primi studi a Cambridge, Harvey si trasferì a Padova, dove conseguì la laurea nel 1602, per poi ritornare in Inghilterra; qui divenne membro del College of Physicians di Londra ed ebbe la cattedra di anatomia e chirurgia, che tenne per trent’anni.

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Fu Harvey a chiarire, sebbene in maniera non definitiva, il meccanismo della circolazione sistemica, attraverso un ragionamento di tipo quantitativo.

Secondo la dottrina galenica, infatti, il sangue, formatosi con la digestione del cibo, verrebbe versato nei diversi organi e assorbito e “consumato” per il loro nutrimento.

Harvey calcolò che, se questo fosse vero, occorrerebbe una enorme quantità di sangue, stimata intorno ai 30 kg all’ora, e di conseguenza una corrispondente quantità di cibo, per garantire il suo costante rinnovamento.

L’inconsistenza di tale supposizione lo portò a dedurre che il sangue presente nel corpo umano fosse sempre lo stesso e che circolasse.

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Non usando ancora il microscopio, inventato da poco, non poté vedere i capillari e comprendere come avvenisse il passaggio del sangue tra le arterie e le vene, che tuttavia intuì attraverso un esperimento di legatura.

Harvey applicò a un braccio una legatura, tanto stretta che il sangue arterioso non poteva scorrere al di sotto di questa; allentò poi la legatura, in modo che il sangue arterioso potesse nuovamente scorrere nel braccio, ma tenendola però stretta abbastanza per impedire il normale flusso venoso al di sopra della legatura.

In questo modo poté osservare che le vene del braccio al di sotto della legatura erano gonfie, segno che il sangue aveva superato le arterie ed era poi giunto nel braccio tramite le vene.

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Harvey riconobbe inoltre che il cuore è un muscolo che si contrae, spingendo il sangue nelle arterie, le quali pulsano non in virtù di una proprietà intrinseca, come si credeva nella concezione galenica, ma a seguito della contrazione cardiaca che ne dilata le pareti.

Secondo la teoria di Harvey il sangue dalle arterie passerebbe agli organi, verrebbe riassorbito dalle vene e da lì ritornerebbe al cuore, per poi riprendere nuovamente l’intero ciclo, in un continuo movimento dal centro alla periferia e dalla periferia al centro.

Egli comprese inoltre la funzione delle valvole venose, scoperte da Girolamo Fabrici d’Acquapendente, suo maestro all’Università di Padova, che era quella di favorire il movimento centripeto del sangue.

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Harvey spiegò le sue nuove scoperte, effettuate tramite esami autoptici e anche, come Realdo Colombo, con vivisezioni su diverse specie di animali.

Nell’ Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus del 1628 demolì definitivamente il sistema di Galeno, suscitando molte critiche da parte dei galenisti, i quali giunsero a sostenere che se il dato autoptico non si accordava al testo di Galeno, ciò non era imputabile ad un errore dell’autorità antica, ma piuttosto ad un cambiamento intervenuto nel corpo umano.

Harvey rispose a questi attacchi con la Exercitatio anatomica secunda de circulatione sanguinis del 1649 e, nella seconda metà del XVII secolo, le sue teorie vennero riconosciute come valide dai suoi contemporanei.

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La teoria di Harvey, spostando definitivamente il centro delle funzioni vitali dal fegato al cuore, di cui venne riconosciuta la natura muscolare e la funzione di pompa, rivoluzionava la conoscenza del corpo umano.

Nonostante queste scoperte Harvey non poteva ancora comprendere definitivamente il modo in cui il sangue passasse dalle arterie alle vene; questo rimase l’unico punto ancora non chiarito nella sua teoria della circolazione sanguigna.

Si rifece infatti alla teoria galenica, pensando ad una sorta di risucchio operato dalle vene sul sangue presente nei tessuti e qui portato dalle arterie.

Fu solo con Marcello Malpighi che la circolazione sanguigna venne compresa nella sua totalità, grazie alla scoperta dei capillari, con cui venne spiegato il collegamento tra il sistema arterioso e quello venoso, che Harvey non aveva potuto dimostrare, pur avendolo intuito.

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IATROCHIMICA E IATROMECCANICA

Sebbene nel XVII secolo la fisiologia non si fosse ancora delineata come disciplina autonoma e fosse ancora strettamente legata all’anatomia, il metodo sperimentale fece sentire il suo influsso anche in questo ambito, con lo sviluppo di due distinte correnti di pensiero: la iatrochimica che, sulla scia del pensiero di Paracelso, interpretava i fenomeni biologici in chiave chimica, e la iatromeccanica, che invece riconduceva tali fenomeni a procedimenti meccanici e si basava sull’astrazione matematica.

Queste due correnti di pensiero ebbero il merito di apportare concetti innovatori nel campo della medicina che, durante il XVII secolo, si trovò a rielaborare ed ordinare nuove conoscenze derivanti da numerose scoperte in altri campi del sapere, in particolare della fisica.

Con la iatrochimica e la iatromeccanica si verificò un tentativo di interpretare i fenomeni fisiologici e patologici attraverso le scienze esatte, tramite misurazioni oggettive e prove sperimentali.

Entrambe le dottrine, che sottolinearono l’importanza dei fattori chimico e fisico nei fenomeni biologici, andarono declinando con la fine del XVII secolo.

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Rappresentante della iatrochimica nel XVII secolo, che interpretava la malattia come il frutto di reazioni chimiche tra i diversi componenti dell’organismo, fu Jean Baptiste van Helmont (1579-1644), originario di Bruxelles.

Van Helmont, laureatosi in medicina, coltivò interessi nel campo dell’alchimia e della chimica, e fu colpito dal nuovo indirizzo della scienza, che si basava sull’osservazione sperimentale.

Partendo dalle teorie di Paracelso, van Helmont se ne differenziò, negando l’assoluta corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo e soprattutto criticando la dottrina dei tre principi (sale, zolfo mercurio), che egli modificò attribuendo maggiore importanza all’acqua, che considerava la sostanza fondamentale.

Inoltre, egli vedeva nella fermentazione uno dei processi fisiologici principali, grazie al quale tutti gli esseri viventi crescono.

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Van Helmont concepiva la malattia come dovuta ad un cattivo funzionamento degli archei, che presiedevano ai singoli organi ed erano coordinati da un principio spirituale, l’archeus principale, di origine divina.

La manifestazione materiale della malattia, ossia i sintomi, che rappresentano la reazione dell’organismo, è invece imputabile ad un’alterazione dei processi chimici che avvengono nel corpo.

In quanto tali, i sintomi non andrebbero combattuti attraverso la terapeutica tradizionale, basata sul salasso e sull’evacuazione, quanto sulle proprietà delle sostanze tramite la chimica.

Si dedicò anche a studi riguardanti la digestione, di cui descrisse diversi stadi, sostenendo che essa sarebbe promossa da un reagente chimico, o fermento, presente nello stomaco, e non solo imputabile al calore innato del corpo, come affermava la dottrina galenica.

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Grazie all’opera di van Helmont e degli iatrochimici la patologia umorale classica venne messa in discussione radicalmente, in quanto non si fece più riferimento ai quattro umori fondamentali, ma a qualità chimiche.

La chimica entrò a far parte delle materie di insegnamento universitario, con l’istituzione di cattedre in molte facoltà di medicina, sebbene l’attenzione fosse incentrata piuttosto sulla farmaceutica e quindi sulla preparazione di nuovi medicinali.

La iatrochimica, fiorita con Paracelso, e in auge fino alla seconda metà del XVII secolo, continuò a sopravvivere fino al XVIII secolo inoltrato, ma andò incontro ad un progressivo declino, favorito dalla diffusione dell’approccio meccanico in seguito all’opera di Galileo Galilei e di Isaac Newton.

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Nella iatromeccanica, corrente di pensiero sviluppatasi con il XVII secolo, e che entrò in contrasto con la iatrochimica, la chiave di lettura della medicina era rappresentata dall’astrazione matematica e i fenomeni biologici erano spiegati con procedimenti meccanici.

Secondo questa corrente di pensiero il corpo vivente è concepito come una macchina, a sua volta costituita da macchine più piccole, il cui funzionamento è regolato da rapporti di quantità puramente meccanici di causa ed effetto che escludono qualsiasi finalità.

Compito del medico è di comprendere il funzionamento di queste diverse macchine, per ristabilire lo stato di salute.

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Il fondatore della iatromeccanica è considerato Santorio Santorio (1561-1636), originario di Capodistria, e poi professore di medicina all’Università di Padova, che comprese appieno l’importanza del metodo sperimentale per i fenomeni biologici.

A lui si deve l’introduzione in campo medico di una serie di strumenti che determinavano con esattezza matematica alcuni parametri vitali, riducendo la soggettività dell’osservazione personale.

Inventò il pulsilogium, congegno che misurava la frequenza ed il ritmo del battito cardiaco, basato sul principio del pendolo, e il primo termometro clinico.

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Santorio fu autore di un importante studio sperimentale sul metabolismo, riguardante la traspirazione cutanea, che valutò misurando costantemente il peso di un uomo e registrandone le variazioni in rapporto agli alimenti assunti e alle evacuazioni prodotte.

Per effettuare queste misurazioni ideò una grande bilancia che poteva ospitare una persona, con oggetti di arredo che ne permettessero la pesatura anche durante il sonno.

Tramite questo esperimento verificò che la perdita di liquidi non avveniva solo attraverso il sudore, ma costantemente attraverso una traspirazione invisibile (perspiratio insensibilis).

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Uno de principali rappresentanti della iatromeccanica in Italia fu il napoletano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679).

Di formazione matematica, volle applicare i principi meccanici all’ambito biologico, nella convinzione che il metodo galileiano di elaborazione geometrico-matematica potesse spiegare anche i fenomeni fisiologici.

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La sua opera principale in questo ambito è il De motu animalium, pubblicato postumo tra il 1680 e il 1681, nel quale spiegava il movimento dei corpi animali sulla base di principi meccanici: egli paragonava il corpo ad una macchina, formata da una serie di leve e regolata dai principi della geometria.

Studiando l’attività dei muscoli, singolarmente e per gruppi, comprese che la loro azione è imputabile alla contrazione, aprendo nuove vie di ricerca sperimentale sull’anatomia funzionale dell’apparato motorio.

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IL NEOIPPOCRATISMO

Tra le diverse correnti di pensiero sviluppatesi in ambito medico nel corso del XVII secolo si annovera anche un ritorno alla dottrina ippocratica, che si basava sull’osservazione del malato e sulla valutazione dei sintomi e che implicava una grande cautela nel trattamento delle malattie con l’impiego di rimedi “dolci”.

Portavoce di un ritorno alla concezione ippocratica, tanto da essere chiamato “l’Ippocrate inglese”, fu Thomas Sydenham (1624-1689), medico formatosi ad Oxford e a Montpellier, che esercitò la professione a Londra diventando uno dei maggiori clinici del suo tempo.

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Ritenendo la malattia come una entità estranea, che penetrava nell’organismo dall’esterno e da cui il corpo tendeva a liberarsi naturalmente, Sydenham era convinto che il compito del medico fosse quello di favorire la guarigione attraverso l’utilizzo di pochi e semplici rimedi, che individuò nella dieta, nei purganti e nel salasso, in contrasto con le complesse terapie in voga ai suoi tempi.

Considerava la malattia come un complesso di sintomi, che dovevano costituire l’oggetto principale di interesse del medico, rispetto alle speculazioni sulle cause della malattia.

Raccogliendo i dati dei casi singoli, arrivò ad una catalogazione dei diversi quadri nosologici, attribuendo le diverse malattie a precise categorie di riferimento.

Nelle Observationes medicae circa morborum acutorum historiam et curationem del 1676 descrisse accuratamente una serie di malattie, che classificò secondo i principi della botanica sistematica, offrendo spunti alla diagnostica differenziale.

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In Italia il neoippocratismo fu sostenuto dal croato Giorgio Baglivi (1668-1707), che tenne la cattedra di anatomia e poi di medicina all’Università di Roma, e fu medico di Innocenzo XII, succedendo al Malpighi di cui era stato allievo, e poi di Clemente XI.

Inizialmente convinto sostenitore della dottrina iatromeccanica, Baglivi paragonava il corpo ad una serie di congegni meccanici.

La pratica clinica lo portò a cercare un compromesso tra i nuovi indirizzi della medicina e la dottrina ippocratica.

Si convinse che il medico avrebbe dovuto dimenticare tutte le teorie quando si trovava al letto del malato e prestare attenzione solamente all’indagine clinica.

Baglivi espresse questa convinzione nella sua opera fondamentale, il De praxi medica del 1696, in cui critica i sistemi medico-filosofici e sostiene un ritorno ai principi ippocratici, basati sull’attenta osservazione del malato e sul ragionamento, diventando così un rappresentante del neoippocratismo.

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Baglivi si dedicò anche a ricerche di fisiologia, individuando nella “fibra” l’unità elementare alla base della struttura e dei movimenti delle parti solide del corpo umano, a cui andavano ricondotti i fenomeni fisiologici e patologici.

In questa dottrina solidista riconduceva le malattie acute ad una eccessiva tensione delle fibre e le malattie croniche alla loro lassità.

Con la sua teoria della fibra Baglivi rifiutava le vecchie concezioni sulla costituzione dell’uomo, proponendo una visione materialistica di essa, che conobbe una grande risonanza in Europa ed ebbe sostenitori fino alla metà del XVIII secolo.

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MARCELLO MALPIGHI

L’impiego del microscopio negli studi di biologia e medicina trovò il suo massimo rappresentante in Marcello Malpighi (1628-1694), considerato a buon diritto il fondatore dell’anatomia microscopica.

Nato a Crevalcore, si formò presso l’Università di Bologna, ma a causa dell’ambiente troppo conservatore, Malpighi accettò l’invito a insegnare all’Università di Pisa, che risentiva invece dei venti riformatori della scienza galileiana.

Qui fu introdotto dall’amico Giovanni Alfonso Borelli alla iatromeccanica, e conobbe l’uso di un nuovo strumento scientifico, il microscopio, che rese possibile molte delle sue scoperte.

Tornato a Bologna nel 1659, assunse la cattedra di medicina teorica e iniziò le sue osservazioni microscopiche, applicate alla struttura dei polmoni della rana.

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Secondo la concezione galenica tradizionale, i polmoni erano considerati costituiti da sangue coagulato e di natura caldo-umida.

Malpighi invece li descrisse come un aggregato di alveoli simili ad un favo d’ape, all’interno dei quali si apriva un bronco nel quale si immetteva l’aria.

Grazie a questa scoperta Malpighi pose le basi per la comprensione della respirazione, dimostrando che il contatto tra aria e sangue non avveniva direttamente.

Inoltre scoprì l’esistenza della rete di capillari nel mesentere, che permise di chiarire definitivamente il sistema della circolazione sanguigna di Harvey, con la dimostrazione del collegamento tra arterie e vene.

La struttura microscopica dei polmoni di una rana, che mostra l’esistenza dei capillari dall’Opera omnia di Malpighi, Londini: Robertum Littlebury, 1686-87. Courtesy of the National Library of Medicine

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Tra il 1662 e il 1666 si recò presso l’Università di Messina, dove approfondì lo studio della struttura microscopica degli organi di senso, studiò l’aspetto microscopico della milza, scoprendo quelli che oggi sono chiamati corpuscoli del Malpighi, dei reni, di cui vide i glomeruli, e del sangue, di cui scoprì i globuli rossi, dimostrando che questo non era solo un liquido costituito di elementi “cotti” e di spirito vitale.

Successivamente iniziò un periodo di collaborazione con la Royal Society di Londra, che promuoveva studi anatomici sperimentali.

Indagò infatti la struttura degli insetti, e applicò gli studi microscopici anche all’anatomia dei vegetali.

Malpighi arrivò ad affermare che tutti gli organismi viventi, dall’uomo, agli animali, ai vegetali, sono costituiti da un insieme di minute cellette, che egli denominò “otricoli”, intuendo così l’esistenza della cellula.

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Nel 1687 la Royal Society pubblicò la sua Opera omnia, decretandone la fama di scienziato, anche se le sue scoperte trovarono molti oppositori, soprattutto nell’ambiente conservatore bolognese.

Trascorse gli ultimi anni a Roma, chiamato da papa Innocenzo XII, che lo aveva conosciuto quando era cardinale a Bologna, e qui morì nel 1694; tre anni più tardi uscì la sua Opera posthuma.

Il merito di Malpighi è stato quello di dimostrare, attraverso un’ indagine puramente sperimentale, che la natura è indagabile anche nei suoi aspetti più nascosti.

Utilizzò il microscopio, strumento innovativo, per esplorare le strutture più fini dell’anatomia e della fisiologia che fino ad allora erano rimaste sconosciute, aprendo nuovi campi di ricerca, sia nello studio del corpo umano che del mondo animale e vegetale.

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Oltre al contributo dato all’anatomia microscopica ad opera di Marcello Malpighi, il Seicento vide proseguire gli studi anatomici fioriti nel secolo precedente, con una serie di nuove scoperte di grande importanza, di cui ricordiamo le principali.

A Gaspare Aselli (1581-1626), professore di anatomia e chirurgia all’Università di Pavia, si deve la scoperta dei vasi chiliferi, i vasi linfatici presenti nei villi dell’intestino tenue, che hanno la funzione di trasportare il chilo in un unico tronco linfatico intestinale.

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Fu il francese Jean Pecquet (1622-1674) a descrivere l’intero percorso dei vasi chiliferi, scardinando definitivamente il sistema galenico basato sulla centralità del fegato nella fisiologia, già fortemente compromesso dalle scoperte di Harvey sulla circolazione sanguigna.

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Il fiorentino Lorenzo Bellini (1643-1704), che tenne la cattedra di anatomia all’Università di Pisa e poi divenne medico personale del Granduca Cosimo III de’ Medici e di Papa Clemente XI, condusse importanti studi sulla struttura del rene, scoprendo i tubuli e i canali collettori, noti anche come “dotti di Bellini”.

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Il religioso danese Niels Stensen (Stenone) (1628-1686) scoprì il dotto escretore della ghiandola parotide, che da lui prese il nome di “dotto di Stenone”, e identificò i dotti lacrimale, palatino e sublinguale, dimostrando che le sierosità di tutte le parti del corpo provengono dai dotti delle ghiandole conglomerate e comprendendo la corretta interpretazione della funzione ghiandolare.

Si applicò anche allo studio del cervello, interpretando correttamente le circonvoluzioni cerebrali come sede delle funzioni cognitive superiori, e a quello delle ovaie, intuendone la funzione.

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Il tedesco Johan Georg Wirsung (1600-1643), che studiò a Padova, ricoprendo poi l’incarico di prosettore, descrisse per la prima volta il dotto pancreatico principale, che viene ancora oggi chiamato “dotto di Wirsung”.

L’olandese Regnier de Graaf (1641-1673) diede un contributo alla conoscenza dell’apparato riproduttivo attraverso studi comparativi condotti su molte specie animali; in particolare, a lui si deve la scoperta dei follicoli ovarici, che presero il nome di “follicoli di Graaf”.

L’inglese Thomas Willis (1621-1675) condusse ricerche sull’anatomia del cervello e sul sistema nervoso, gettando le basi della nomenclatura neuroanatomica e della neuroanatomia comparativa, e individuando le basi patologiche di molte malattie dall’osservazione delle alterazioni morfologiche cerebrali. A lui si deve la scoperta del poligono arterioso anastomotico alla base del cervello, che porta il suo nome (poligono del Willis).

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Merita di essere ricordato Théophile Bonet (1620-1689), autore di una notevole casistica condotta attraverso tremila autopsie e pubblicata nel Sepulcretum, sive anatomia pratica, ex cadaveribus morbo denatis del 1679, che costituisce un ulteriore passo verso l’anatomia patologica, anche se manca ancora una correlazione tra storia clinica e reperto autoptico.

Infine Antonio Maria Valsalva (1666-1723), allievo di Malpighi all’Università di Bologna e poi maestro di Morgagni, che già si colloca agli inizi del XVIII secolo, a cui si deve in particolare uno studio approfondito sull’ anatomia dell’orecchio.

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LA CHIRURGIA NEL SEICENTO

Mentre nel campo degli studi anatomici il XVII secolo è costellato di una serie di scoperte di fondamentale importanza per il progresso della medicina, la chirurgia sembra conoscere un periodo di stasi e di generale ristagno delle conoscenze, le cui cause sono da ricercare in fattori diversi a seconda dei diversi paesi europei.

In Francia, dove la chirurgia aveva avuto un grande impulso nel secolo precedente, grazie all’opera di illustri rappresentanti come Ambroise Paré, la lotta della Facoltà di Medicina di Parigi contro il Collegio dei chirurghi di San Cosma portò ad un decreto emanato nel 1660, con il quale i barbieri e i chirurghi venivano allontanati dall’Università e relegati all’attività più umile nell’ambito delle corporazioni operaie.

Con tale atto la chirurgia venne definitivamente separata dalla medicina e degradata ad un rango subalterno, con conseguenze negative per il progresso di entrambe le discipline.

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Fu con il regno di Luigi XIV (1638-1715) che prese avvio il processo di riabilitazione della chirurgia, grazie alla benevolenza che il sovrano mostrò nei confronti del proprio chirurgo, il quale gli aveva trattato con esito positivo una fistola anale.

Intervento di trapanazione del cranio

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Tra i rappresentanti francesi della disciplina nel XVII secolo ricordiamo François Mauriceau (1637-1709), attivo presso l’Hôtel-Dieu, il più importante ospedale di Parigi, dove praticò la chirurgia ostetrica, che allora non costituiva una disciplina autonoma, ma era praticata dai membri del Collegio di San Cosma.

Mauriceau raccolse le conoscenze del tempo sulle malattie delle donna, occupandosi in particolare delle più comuni complicazioni del parto spontaneo.

I suoi studi sul feto, sull’utero in gravidanza, sulle tecniche del parto, tra le quali si annovera “la manovra di Mauriceau” da lui inventata per i casi di presentazione podalica, lo resero uno degli ostetrici più famosi del tempo, tanto da farlo considerare il fondatore della moderna ostetricia.

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Entrò in conflitto con la famiglia dei Chamberlen, che tenevano segreta, tramandandola di padre in figlio senza divulgarla, l’invenzione del forcipe.

Gli scritti di Mauriceau, tra i quali il più importante è il Traité des maladies des femmes grosses et accouchées pubblicato nel 1668 e tradotto poi in molte lingue, sono basati sull’esperienza clinica diretta e contengono la descrizione di un gran numero di patologie ostetriche.

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In Italia la crisi economica, le guerre e il conservatorismo delle università furono le concause alla base del ristagno della disciplina, che continuò ad essere praticata da quelle figure di scarsa preparazione e bassa cultura che erano i chirurghi empirici.

Per il XVII secolo maggiori progressi nel campo della chirurgia si registrarono in Olanda, grazie alle fiorenti condizioni economiche e all’attività delle stamperie, che facilitarono la circolazione di testi scientifici. In particolare Leida fu un centro molto attivo e tollerante, che attirava studenti e professori da ogni parte d’Europa.

Qui fu attivo come chirurgo Nicolaus Tulp (1593-1674), ritratto da Rembrandt nel celebre dipinto "Lezione di anatomia del Dottor Tulp" del 1632, in cui esegue una dissezione sul cadavere di un giustiziato.

Anche in Germania la chirurgia progredì notevolmente, soprattutto in ambito militare a seguito dello sviluppo dell’esercito prussiano.

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FRANCESCO REDI E LA GENERAZIONE SPONTANEA

Un ulteriore passo verso la demolizione delle antiche dottrine fu compiuto da Francesco Redi (1626-1697).

Dopo aver studiato a Firenze e a Pisa, dove si laureò in medicina, divenne archiatra del Granduca Ferdinando II de’ Medici, carica che denota la sua fama di medico, e partecipò alla fondazione dell’Accademia del Cimento, aderendo allo sperimentalismo avviato da Galileo.

La sua opera più importante, che segnò una tappa fondamentale nella storia della medicina moderna, è Esperienze intorno alla generazione degl'insetti, pubblicata nel 1667, in cui confutò la teoria della generazione spontanea di ascendenza aristotelica, allora ancora accettata, secondo la quale la vita poteva nascere da elementi inanimati come il fango delle paludi o i corpi in putrefazione, perché dotati di influssi vitali.

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Attraverso inconfutabili studi sperimentali condotti sulle mosche, in cui utilizzò carne in decomposizione deposta in una serie di recipienti, dei quali alcuni erano stati chiusi e altri vennero lasciati aperti, dimostrò che le larve di questi insetti nascevano solamente nei recipienti lasciati aperti e dove quindi erano state deposte le uova.

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Diede un notevole contributo all’individuazione dell’eziologia acarica e contagiosa della scabbia, il cui merito fu comunque del farmacista marchigiano Giacinto Cestoni (1637-1718) e del medico livornese Giovanni Cosimo Bonomo (1666-1696), invertendo la normale credenza, basata sulla dottrina umorale, che vedeva nella malattia l’origine del parassita e dimostrando invece che era il parassita a rappresentare la causa della malattia.

Tuttavia questa scoperta, che apriva nuove strade terapeutiche basate su misure di prevenzione e norme igieniche, anziché sui complessi rimedi interni della medicina umoralistica, fu presto dimenticata e “riscoperta” solo nel XIX secolo.

Per la sua opera Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi del 1684, in cui descrisse numerose specie di vermi parassiti dell’uomo e degli animali, pur senza alcun intento di classificazione, può essere considerato il fondatore della moderna parassitologia.

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EPIDEMIE E LEGISLAZIONE SANITARIA

Anche il XVII secolo fu attraversato da una serie di epidemie che falcidiarono la popolazione europea, favorite dalle frequenti guerre, delle quali la più lunga fu la cosiddetta Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), che ebbe varie vasi e coinvolse molti paesi dell’Europa centrale, causando perdite economiche e un forte calo demografico.

Tra le malattie infettive più diffuse vi furono il vaiolo, che colpì soprattutto l’Europa occidentale e l’Inghilterra, e il morbillo e la varicella, che vennero distinte dalla scarlattina e dal vaiolo ad opera di Sydenham.

Anche la malaria dominò il XVII secolo, soprattutto in Italia, che appare la regione più colpita, provocando lo spopolamento di aree molto vaste.

Ma tra le epidemie più diffuse, che si propagavano al seguito degli eserciti e dei flussi di profughi ed erano favorite dal concentramento degli sfollati nelle città, dalle cattive condizioni igieniche e dalle carestie, si annoverano la dissenteria bacillare, il tifo esantematico e la peste.

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Le febbri intestinali, caratterizzate dalla presenza di diarrea, erano probabilmente forme di origine bacillare, ed accompagnarono costantemente gli eserciti per tutto il XVII e il XVIII secolo, determinando talvolta l’esito degli eventi bellici.

Il tifo, detto anche petecchiale, trasmesso dal pidocchio, è caratterizzato da febbre elevata e dalla comparsa di un esantema cutaneo; si trasmette da individuo ad individuo attraverso la morsicatura del pidocchio che trasmette l’agente patogeno, la Rickettsia prowazeki, di cui costituisce il vettore. La malattia può avere un decorso benigno, ma nel caso delle epidemie del passato la mortalità poteva raggiungere livelli anche molto elevati.

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La peste si ripresentò anche nel corso del XVII secolo con ondate successive, delle quali la più violenta fu quella verificatasi in Lombardia nel 1630, conosciuta anche come “peste del Manzoni”, perché ampiamente descritta nei Promessi Sposi.

I rimedi contro queste epidemie erano limitati, appunto, alla quarantena e all’isolamento dei malati, o all’utilizzo del fuoco per distruggere le masserizie infette, in quanto se ne attribuiva l’origine ad una corruzione dell’aria dovuta a miasmi ed esalazioni.

Nel caso della peste si diffuse proprio in questo periodo l’uso per i medici di indossare una particolare veste costituita da una lunga tunica cerata, un cappello e una maschera da apporre sul viso caratterizzata da un lungo becco, nel quale venivano poste sostanze aromatiche ritenute in grado di neutralizzare i miasmi pestiferi.

Il medico della peste in un’illustrazione tratta da Historiarum anatomicarum... di Thomas Bartholin (Hafniae, 1654-1661). Courtesy of the National Library of Medicine

La peste a Napoli (1630)

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Per quanto riguarda la nozione di contagio, dopo l’intuizione di Fracastoro, l’idea dei seminaria, che trasmettevano la malattia da un individuo all’altro, fu ripresa dopo la scoperta del microscopio.

Antony van Leeuwenhoek, che non aveva una formazione medica, osservò i protozoi attraverso gli strumenti da lui fabbricati, ma non arrivò a comprendere che questi animacula potessero avere dei rapporti con le malattie, come fece invece l’anatomista olandese Govaert Bidloo (1649-1713), che suggerì questa idea in una lettera a van Leeuwenhoek.

Athanasius Kircher (1602-1680) ebbe l’intuizione di cercare i morbi pestiferi semina nei cadaveri dei morti di peste nell’epidemia di Roma del 1656, sostenendo addirittura di averli visti; tuttavia permane il dubbio che il microscopio da lui utilizzato possa avergli consentito di scoprire i batteri.

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Nel XVII secolo comunque si era fatto strada il concetto che esistevano esseri invisibili ad occhio nudo e che alcune malattie potevano essere trasmesse da un individuo all’altro attraverso il contagium vivum, anche se si era ancora molto lontani dalle scoperte della microbiologia più recenti.

Emblematica a questo proposito fu la scoperta dell’eziologia acarica della scabbia, le cui conseguenze furono infatti pienamente recepite solo due secoli più tardi.