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4 Poesia didattico-morale e religiosa di Rosa Casapullo 1. Questioni preliminari La poesia religiosa racchiude in sé una grande varietà di generi e tradizioni scrittorie, di stili e di lingue che in alcune epoche hanno assunto autono- mi e ben riconoscibili statuti formali, la lauda o le rime spirituali in stile petrarcheggiante, per esempio, mentre in altre risultano stemperati nel più grande alveo della poesia (ciò vale, ad esempio, per la poesia religiosa in italiano e in dialetto del primo e del secondo Novecento). Nonostante le differenze interne, l’esistenza di un àmbito letterario ben individuabi- le, non soltanto per il comune orientamento religioso, è tradizionalmen- te riconosciuta. Nelle antologie, accomunate spesso da un vivace spirito militante, sono presenti sia ampi profili di lungo periodo (Papini, 1923; Lamanna, 1990; Ulivi, Savini, 1994) sia selezioni su base tematica o cro- nologica (Toschi, 1921; Montanari, 1984); nell’uno e nell’altro caso risalta la presenza della poesia contemporanea (Volpini, 1952; Apostoliti, 1957; Poeti religiosi, 1962; Uffreduzzi, 1969; Passerini Pignoni, 1977; Uffreduz- zi, 1979; Di Campli, 1991; Spartà, 1996; Maffeo, 2006). Generalmente le sezioni incluse nelle antologie generali si limitano a documentare alcuni generi ben consolidati (si vedano, in Segre, Ossola, 1997-99, i saggi di Mo- rini, Orlando, Orvieto, Prandi). Per quanto attiene agli studi, resta vero che, perlomeno in Italia, le indagini sulla poesia religiosa sono fondanti per la nostra lingua e let- teratura. Le ricerche specificamente storico-linguistiche, in particolare, hanno già da tempo indagato il ruolo fondamentale dei testi religiosi nella diffusione dell’italiano (Bruni, 1983; Librandi, 1989 e 2012a, pp. 57- 62; Vignuzzi, Bertini Malgarini, 2009). Ciò detto, sarebbe sbagliato con- cludere che negli ultimi anni non ci siano stati significativi mutamenti di orientamento negli studi. L’inversione di tendenza più rilevante è il
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Poesia didattico-morale e religiosa

Mar 03, 2023

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Luigi Di Cosmo
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4Poesia didattico-morale e religiosa di Rosa Casapullo

1. Questioni preliminari

La poesia religiosa racchiude in sé una grande varietà di generi e tradizioni scrittorie, di stili e di lingue che in alcune epoche hanno assunto autono-mi e ben riconoscibili statuti formali, la lauda o le rime spirituali in stile petrarcheggiante, per esempio, mentre in altre risultano stemperati nel più grande alveo della poesia (ciò vale, ad esempio, per la poesia religiosa in italiano e in dialetto del primo e del secondo Novecento). Nonostante le di&erenze interne, l’esistenza di un àmbito letterario ben individuabi-le, non soltanto per il comune orientamento religioso, è tradizionalmen-te riconosciuta. Nelle antologie, accomunate spesso da un vivace spirito militante, sono presenti sia ampi pro+li di lungo periodo (Papini, 1923; Lamanna, 1990; Ulivi, Savini, 1994) sia selezioni su base tematica o cro-nologica (Toschi, 1921; Montanari, 1984); nell’uno e nell’altro caso risalta la presenza della poesia contemporanea (Volpini, 1952; Apostoliti, 1957; Poeti religiosi, 1962; U&reduzzi, 1969; Passerini Pignoni, 1977; U&reduz-zi, 1979; Di Campli, 1991; Spartà, 1996; Ma&eo, 2006). Generalmente le sezioni incluse nelle antologie generali si limitano a documentare alcuni generi ben consolidati (si vedano, in Segre, Ossola, 1997-99, i saggi di Mo-rini, Orlando, Orvieto, Prandi).

Per quanto attiene agli studi, resta vero che, perlomeno in Italia, le indagini sulla poesia religiosa sono fondanti per la nostra lingua e let-teratura. Le ricerche speci+camente storico-linguistiche, in particolare, hanno già da tempo indagato il ruolo fondamentale dei testi religiosi nella di&usione dell’italiano (Bruni, 1983; Librandi, 1989 e 2012a, pp. 57-62; Vignuzzi, Bertini Malgarini, 2009). Ciò detto, sarebbe sbagliato con-cludere che negli ultimi anni non ci siano stati signi+cativi mutamenti di orientamento negli studi. L’inversione di tendenza più rilevante è il

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fatto che nei lavori recenti non circola più l’idea che la poesia religiosa sia poesia, benché a tema sacro e confessionale, ma che sia poesia proprio in quanto poesia religiosa. Questo assunto, a&ermato esplicitamente +n dalle prime indagini volte a investigare la circolazione delle nuove forme retoriche tardorinascimentali e barocche (Getto, 1967; Pozzi, 1993), ha sortito due importanti risultati: in primo luogo, generi, mode letterarie, singole personalità di autori e testi già da tempo noti sono stati esamina-ti da una prospettiva non pregiudicata dalla questione della confessione religiosa1; in secondo luogo, sono stati portati alla luce generi che, senza possedere in sé un grandissimo pregio letterario, hanno assolto, tuttavia, una importante funzione culturale (si pensi, per esempio, ai catechismi in versi: Librandi, 2012a, pp. 98-105). Inoltre, ricerche di rinnovata conce-zione hanno indagato sistematicamente generi e àmbiti tematici ancora poco noti, e comunque estranei al canone poetico tradizionale; per citare solo qualche caso, ricordo gli studi sulle traduzioni versi+cate dei salmi (Leri, 1994; 2007; 2008, pp. 119-55; 2011); sulla presenza del Vecchio e del Nuovo Testamento nella letteratura italiana (Gibellini, Di Nino, 2009b e 2009c; Gibellini, 2011; Bertazzoli, Longhi, 2011); sulle versi+cazioni, drammatiche e no, prodotte nei conventi femminili fra il Cinque e il Sei-cento (Serventi, 2000 e 2005; Graziosi, 2004; Weaver, 2002 e 2009; Li-brandi, 2012a, pp. 61-9).

Strettamente imparentata con la poesia religiosa, la poesia didattica, o meglio allegorico-didattica medievale è stata tradizionalmente codi+cata nella sua fattispecie settentrionale, occupando uno spazio consolidato nei manuali di storia della letteratura e nelle antologie (Levi, 1921a, 1921b e nella fondamentale selezione antologica di Contini, 1960, i, pp. 513-761 e ii, pp. 837-48; Tomasoni, 1997a e 1997b). Il discorso si fa più complesso nel caso della poesia didattica e morale centro-italiana, i cui con+ni sono assai più evanescenti sia nei generi metrici sia nei contenuti. La diFcoltà di indicare tratti di genere e di delimitarne almeno approssimativamente

1. Quondam (2005) ha richiamato l’attenzione sul madrigale spirituale per musica del tardo Cinquecento e del Seicento e, più in generale, sul ruolo centrale del libro di rime spirituali (indicazioni bibliogra+che sull’argomento, con repertori cartacei e in rete, ivi, pp. 130-1); dello stesso si veda la Bibliogra!a della poesia religiosa dal 1471 al 1600, che amplia quella raccolta in Quondam (1991b, pp. 283-9). Su speci+che tradizioni di scrittura religiosa che si formano fra il Tre e il Cinquecento, in prosa e in poesia: Delcorno, Doglio (2003); Doglio, Delcorno (2005 e 2007). Un bilancio ragionato sulla bibliogra+a degli ultimi anni in (Doglio, Delcorno, 2007, pp. 7-11).

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i con+ni emerge anche dalle scelte operate nelle storie letterarie e nelle antologie nelle quali, a di&erenza che per i poeti didattici settentrionali, sono possibili inclusioni ed esclusioni non univoche per testi dallo statuto particolarmente ambiguo (ambiguo, beninteso, in rapporto agli schemi interpretativi moderni).

2. Generi e lingue della poesia didattica medievale

La poesia didattica conobbe sviluppi particolarmente vivaci nei comuni centro-settentrionali del Duecento e del Trecento. Linguisticamente poli-centrico e parcellizzato nelle forme metriche, questo genere, se di genere si può parlare, fu identi+cato in base a criteri formali e contenutistici, sotto l’etichetta di «poesia allegorico-didattica», a partire dalla seconda metà del secolo xix. La poesia didattica settentrionale conobbe due principali centri propulsori: uno occidentale, di tipo ligure, l’altro, centrale e orienta-le, principalmente lombardo ma con signi+cative propaggini venete. Alla Liguria si ascrive l’Anonimo Genovese, mentre una più ricca schiera di po-eti, maggiori, minori e minimi, si incontra nell’area lombarda (il milanese Bonvesin da la Riva, di gran lunga l’autore più colto e originale, e i cremo-nesi Girardo Patecchio e Uguccione da Lodi) e veneta (con il veronese frate minore Giacomino, e i testi raccolti nel codice Saibante-Hamilton, di cui si dirà più oltre). Al di là delle di&erenze, che sono pure notevoli, si può indicare più d’una consonanza fra le singole personalità degli autori e fra i testi: il milieu comunale entro cui si iscrive l’attività poetica; l’estrazio-ne non di rado laica degli autori (il magister Bonvesin da la Riva, il notaio Girardo Patecchio, l’Anonimo Genovese) e la loro appartenenza all’uni-verso delle confraternite; il genere metrico, che è, tranne per l’Anonimo Genovese e in qualche altro caso, la quartina monorima di alessandrini. Utilizzata in Italia settentrionale anche nella poesia drammatica sulla Pas-sione di Cristo (De Cruce di Bonvesin da la Riva) e in alcune laude (cfr. oltre), la quartina monorima di alessandrini è adoperata preferibilmente nei testi didattici e morali, in cui esordì, probabilmente, col poemetto misogino intitolato da Gianfranco Contini Proverbia quae dicuntur super natura feminarum (ca. 1150-60, secondo la cronologia tradizionale; dopo il 1216, secondo una ipotesi più recente: Bianchini 1986), rifacimento in

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un volgare veneto frammisto a tratti lombardi del francese Chastiemusart, anch’esso in quartine di alessandrini. I Proverbia sono tramandati dal codi-ce berlinese Hamilton 390, già Saibante, dal nome della famiglia veronese che lo possedeva.

Il codice Saibante-Hamilton rappresenta per la poesia didattica set-tentrionale del Duecento l’equivalente dei grandi canzonieri lirici toscani; è, in altre parole, il più importante monumento della poesia allegorico-didattica duecentesca, che tramanda molti testi moraleggianti, talora in unico esemplare. Copiato da una mano veneta della +ne del Duecento che ha assemblato testi in latino e in volgare con un intento antologico preciso (Vinciguerra, 2003; Meneghetti, Bertelli, Tagliani, 2012), il codice contie-ne, come si diceva, i testi canonici della tradizione didattica e moraleggian-te in volgare settentrionale (nell’ordine: i Disticha Catonis, alcuni exempla, il Libro di Uguccione da Lodi, lo Splanamento de li Proverbii de Salamone di Girardo Patecchio, i Proverbia quae dicuntur super natura feminarum), oltre al volgarizzamento del Pamphilus de amore, testo di tradizione ovi-diana. È stato osservato che l’impressione di omogeneità linguistica dei testi contenuti nel codice può essere attribuita a elementi stilistici e cultu-rali, cioè al comune intento didattico, alle fonti mediolatine e francesi, alla patina linguistica gallicizzante e latineggiante, piuttosto che a tratti fono-morfologici e sintattici, come vorrebbero i sostenitori dell’ipotesi di una consapevole koinè linguistica di area padano-veneta perseguita dagli auto-ri settentrionali già nel Duecento (Tomasoni, 1997a, p. 169). L’adozione di un volgare illustre dai tratti, peraltro, schiettamente municipali, nobilitato nel lessico e nello stile da parole e modi di dire ricercati di ascendenza latina o francese, muove da una coscienza identitaria e municipalistica, pienamente avvertibile nel milanese di Bonvesin da la Riva e nel genovese dell’Anonimo; meno esplicitamente, probabilmente per l’intervento dei copisti, nel cremonese di Girardo Patecchio, di Uguccione da Lodi e di altri (per non parlare della controversa attribuzione a Venezia o all’area trevigiana dei Proverbia: ibid.). Alla scelta del volgare locale, tuttavia, deve aver contribuito anche un forte orientamento nei confronti di un pubbli-co precisamente individuabile nella sua +sionomia linguistica e sociocul-turale: i lettori incapaci di comprendere i testi mediolatini edi+canti e di-dattici, o gli ascoltatori ignari di latino, se ci si accorda con le a&ermazioni presenti nei testi stessi circa la possibilità dell’esecuzione orale mediante il canto o la recitazione (Avalle, 1971). Lo scopo divulgativo dei testi è non di rado enunciato in modo esplicito, come nell’esordio dello Splanamento

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di Girardo Patecchio («Li savi no’m reprenda s’eu no dirai sì ben / com’ se vorave dir, o s’eu dig plui o men» ‘Non mi riprendano i sapienti se non parlerò bene come si dovrebbe parlare, o se dico di più o di meno’). Si trat-ta di un motivo topico, naturalmente, ma fondato su circostanze di fatto.

Una caratteristica molto appariscente che si ripresenta in tutti questi testi, così da farne se non un genere codi+cato, una tradizione testuale con un alto grado di coerenza interna, è l’a&abulazione giullaresca rinvenibile nelle frequenti allocuzioni al pubblico e nelle tecniche della versi+cazione canterina, con l’uso di formule e la reiteratività delle situazioni narrative; tipico del discorso morale, non solo in poesia, è, inoltre, l’uso dell’allego-ria, spesso direttamente ricavata da fonti mediolatine e francesi o mutuata dai testi biblici (il De contemptu mundi di Lotario Diacono, il già citato Chastiemusart, l’Apocalisse), e alcune tecniche compositive, come le sim-metrie, le antitesi e le giustapposizioni cumulative a climax (Tomasoni, 1997a, p. 168).

Meno compatta nelle forme metriche, nei contenuti, nello stile e +nan-che nello scopo dei testi, come si è accennato, è la poesia didattica duecente-sca sorta nei comuni dell’Italia centrale, dove campeggia l’opera di Brunetto Latini, di gran lunga la personalità più originale nel panorama didattico e moraleggiante centro-italiano. I tratti «di genere», tuttavia, in qualche mi-sura sussistono. Uno di essi è, ancora, l’allegoria, che raggiunge risultati di perspicuità a volte dubbia agli occhi dei lettori moderni2 ed è, in ogni caso, la strategia più potente cui fanno ricorso questi poeti (si pensi, per esempio alla battaglia spirituale, o psicomachia, illustrata nella Giostra delle virtù e dei vizi, di ignoto autore francescano). Un altro carattere comune è la pre-senza di elementi provenienti dalla tradizione dei bestiari, di&usisi in Italia soprattutto a séguito dell’interpretazione cortese datane dal clericus france-se Richart de Fornival nel suo Bestiaire d’Amours (Segre, 1957; Vuolo, 1962; Crespo, 1972; Casapullo, 1996; Morini, 1996). L’interpretazione +gurale dei comportamenti degli animali è illustrata sistematicamente nei sessantaquat-

2. Si pensi alle reiterate prove d’interpretazione del criptico Detto del gatto lupesco, nel cui protagonista si è vista una rappresentazione autoparodistica del giullare (Picone, 1995), o una parodia della lince (Borghi Cedrini, 1996), mentre del «viaggio allegorico ma con statuto parodistico» dell’io narrante (Tomasoni, 1997b, p. 238, sulla scorta di Contini, 1960, i) sono stati sottolineati di volta in volta i legami con la coeva lirica amorosa (Kleinhenz, 2000) e didattica (Carrega, 2000), o è stato rilevato un «carattere misto di epopea animale e di allegoria di tipo mistico-religioso» (Husić, 2008, p. 149).

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tro sonetti del Bestiario moralizzato umbro (Romano, 1978; Carrega, 1983; Tomasoni, 1997b, pp. 974-5). Complessivamente la letteratura centro-italia-na, rispetto a quella settentrionale, appare aFdata a circuiti che privilegiano la trasmissione scritta dei testi. Anche la lavorazione retorica (frequenza di chiasmi, antitesi, dittologie sinonimiche e altre +gure retoriche) e l’assenza della formularità sono tipiche di testualità aFdate più alla lettura che all’ese-cuzione orale di stile giullaresco. Fanno eccezione due raccolte di proverbi, i Proverbi attribuiti a Garzo e i Proverbia pseudo-iacoponici (in quartine di alessandrini monorimi, col primo emistichio sdrucciolo), che conservano uno stile parlato e spontaneo tipico della letteratura popolaresca (Tomasoni, 1997b, pp. 239-40).

Dal Trecento in avanti la poesia allegorica e didattica cambia comple-tamente in séguito alla di&usione dei testi delle Tre Corone. Nello stesso tempo la Toscana diviene il centro propulsore di opere originali e di volga-rizzamenti dal latino. Come era già in parte accaduto per la lirica d’amore, anche la poesia edi+cante comincia a perdere i tratti vigorosamente muni-cipali che l’avevano contraddistinta nel Duecento e nel primo Trecento, mentre il volgare di Firenze prende progressivamente il ruolo di pietra di paragone cui commisurare tutti gli altri volgari. Le esperienze duecente-sche, in un breve torno di decenni, sono completamente spazzate via. Fra i testi si può ricordare l’Intelligenza, un poemetto di anonimo +orentino che, se cade per cronologia nel Trecento, appartiene per struttura e tem-perie culturale all’universo +gurale e poetico duecentesco (Orlando, 1997, pp. 731-2; si veda inoltre Berisso, 2000, e la discussione seguita all’edizio-ne: Cappi, 2005a, 2005b, 2005c e Berisso, 2007), mentre la restante pro-duzione attinge al poema dantesco di volta in volta la struttura, il genere metrico, la tematica (viaggio allegorico nell’aldilà), i contenuti, operando per+no prelievi puntuali da luoghi memorabili della Commedia. A parte alcune prove minori o minime, che non hanno lasciato quasi traccia di sé nella tradizione successiva, si può ricordare almeno il Dittamondo del +orentino Fazio degli Uberti e il Quadriregio di Federico Frezzi, vescovo di Foligno, col quale, a +ne Trecento, i motivi danteschi sono contaminati coi Trion! di Petrarca e con l’Amorosa visione del Boccaccio. Sia pure per antitesi, è legato alla Commedia dantesca anche il poema intitolato Acer-ba, scritto dall’abruzzese Cecco d’Ascoli, alias Francesco Stabili (Orlando, 1997, cui si rinvia per ulteriori indicazioni)3.

3. Cfr. cap. 5.

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3. Frate Guittone

La poesia morale e religiosa di Guittone rappresenta, in epoca predantesca, un importante tentativo d’innesto della poesia d’ispirazione sacra sul tron-co del linguaggio lirico cortese. Le canzoni, le ballate e i sonetti di «frate Guittone» riutilizzano gran parte del tradizionale armamentario retorico del Guittone cortese. I sicilianismi e i gallicismi caratteristici della poesia d’amore ritornano risemantizzati nella poesia successiva alla conversione (Bruni, 1990, pp. 295-317 e 1995, pp. 91-102; Coletti, 1993, pp. 20-2; Leo-nardi, 1994, pp. xiii-lix e 1995). Sono frequentemente impiegati, quindi, antitesi e giochi di parole («O vera vertù, vero amore, / Tu solo se’ d’onne vertù vertù» 29.1-2), paronomasie («com fenice face» 26.12), allittera-zioni («pietoso padre» 26.16) e +gure etimologiche («amore quanto a morte vale a dire» 7.28). La veste metrica è altrettanto complessa: ricor-rono rime ricche (piagenza : agenza 23.15-16), equivoche (punto : punto nella canzone 25.6-7, rispettivamente avverbio di negazione e participio passato di pungere), frante (dormo : d’or mo 11.1-4), in de+nitiva, i procedi-menti retorici che, impiegati dai siciliani nelle loro produzioni più arti+-ciose, costituivano ancora il bagaglio formale dei poeti della generazione di Guittone. Nel prendere le distanze dalla sua vita precedente, Guittone si fa assertore, inoltre, di una necessaria oscurità semantica e di una dichia-rata arti+ciosità del dettato poetico (canzone xlix), entrambe, peraltro, già ampiamente sperimentate nel trobar clus provenzale di tipo morale e religioso. Cambiano, assieme ai temi, le fonti utilizzate, entro le quali si rinvengono alcuni testi canonici della cultura mediolatina (la Summa vir-tutum et vitiorum di Guglielmo Peraldo: Bruni, 1990, pp. 310-7).

La poesia di Guittone restò senza continuatori, diversamente da al-tre esperienze coeve, che diedero luogo a tradizioni testuali di maggiore persistenza (si pensi, ad esempio, alla lauda iacoponica). Ciò nonostan-te, essa propose istanze assai moderne, che si direbbero precorritrici della più so+sticata poesia religiosa novecentesca (si pensi a Clemente Rebora o, ben oltre, a un Luzi oppure a un Turoldo). D’altro canto alcuni concet-ti sembrano anticipare movimenti tipici del Canzoniere di Petrarca, che non è escluso li abbia in parte da lui derivati (Pierantozzi, 1948; Santa-gata, 1990, pp. 128-37). Restano marche del suo stile l’intellettualismo, la ricerca formale a tratti esasperata, la distanza programmatica dalla rimeria facile e devozionale, l’immissione, sia pure ride+nita, di generi e stili della

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precedente esperienza profana, un’esibizione quasi maniacale del mezzo linguistico, un’oscurità a tratti compiaciuta.

Come si è accennato, nel Trecento la Commedia dantesca e il Canzo-niere di Petrarca inaugurarono una stagione poetica radicalmente mutata, che spazzò via, o rivitalizzò, rinnovandole completamente nella lingua e nello stile, le esperienze precedenti. La Commedia costituì un serbatoio inesauribile di stilemi, rime e forme metriche per i poeti dei secoli suc-cessivi (visioni in terza rima, capitoli ternari ecc.) ma, nella sua interezza, restò un modello inattingibile. Il Canzoniere e i Trion! petrarcheschi, in-vece, consegnarono ai posteri un paradigma di poesia meditativa, colta, linguisticamente purgata da ogni elemento locale e stilisticamente scevra dai registri troppo alti o troppo bassi, cui attinsero, nel Cinquecento e nel Seicento, poeti dalla vena genuinamente religiosa o versi+catori sensibili alla moda penitenziale, della lode a Dio e della preghiera.

4. La lauda

Se si escludono i primi testi religiosi in volgare, originatisi nell’area cassine-se gravitante intorno all’abbazia di Montecassino (Ritmo cassinese, Ritmo di sant’Alessio, Elegia giudeo-italiana in caratteri ebraici) e il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi, il più importante genere religioso, desti-nato a una duratura fortuna, fu la lauda (< laudem ‘lode’). Le laudi era-no composizioni salmodiate o cantate durante le manifestazioni religiose delle confraternite che aFancavano gli ordini mendicanti, francescani e domenicani, prima di tutto, ma anche agostiniani o serviti, cioè Servi di Maria. La gran parte delle laudi è anonima o d’autore incerto. Recitavano laudi i devoti appartenenti ai vari movimenti penitenziali che si succedet-tero per tutto il Duecento e il Trecento: dai Flagellanti (anche Battuti o Disciplinati, originatisi a Perugia a opera di Ranieri Fasani verso il 1260), ai Laudesi (la prima compagnia di laudesi fu quella di Santa Maria delle Laude, fondata a Siena nel 1267), +no al movimento dei Bianchi, nato nel 1399. Pur non esistendo una precisa specializzazione delle competenze, fu-rono soprattutto i laudesi a praticare sistematicamente l’orazione median-te il canto delle laudi e a raccoglierle entro i grandi collettori detti «lauda-ri», due dei quali dotati di notazione musicale. Si tratta dei due laudari più antichi, il laudario Cortonese (ms. 91 della Biblioteca Comunale, sec. xiii

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ex.), appartenuto alla confraternita di Santa Maria delle Laude, presso la chiesa di San Francesco a Cortona, e il laudario trecentesco della +orenti-na confraternita dello Spirito Santo (Firenze, Biblioteca Nazionale, Banco Rari 18), paragonabili per importanza ai grandi canzonieri lirici del Due e del Trecento che tramandano la poesia d’amore (Varanini, Ban+, Ceruti Burgio, 1981; Wilson, Barbieri, 1995; Guarnieri, 1991; Gozzi, 2010).

Oltre che alla Madonna, le laude sono dedicate alle principali ricorren-ze celebrate nel calendario liturgico, Natale, Pasqua, Pentecoste e feste dei santi, ivi compresi i nuovi santi degli Ordini Mendicanti, san Francesco e san Domenico, canonizzati a poca distanza dalla morte (1228 e 1234). Nell’ultimo Trecento laude celebrative furono composte in morte di santa Caterina da Siena (1380) da Neri Pagliaresi e, in onore del beato Giovanni Colombini, dal gesuato Bianco da Siena.

La struttura metrica più frequentemente impiegata per la lauda è la bal-lata, sussunta direttamente dalla lirica d’amore profana. La lauda-ballata, caratteristica per la ripresa di un ritornello che si ripresenta alla +ne di ogni strofa, si presta a un gran numero di soluzioni metriche; una delle più fre-quenti è la strofa «zagialesca», un tipo di strofa arcaica (aaax, bbbx…) dipendente da schemi liturgici latini (Roncaglia, 1962; per l’aspetto mu-sicale Cattin, 1991, pp. 174-82). Non soltanto la forma metrica, ma anche alcuni temi tipicamente lirici e il lessico sono mutuati dalla coeva poesia d’amore e reindirizzati verso sovrasensi spirituali4. Sono rivolti a Dio o alla Vergine espressioni tipiche della fraseologia cortese, come aulente !ore, 1esc’aurora, amor diletto, !na amanza, tradizionalmente riferite all’amata; si ritrovano serie binarie e ternarie come letizia, gaudio e diporto, solazzo, gaudio e dolcezza o solazzo, gioi’ e sapienzia. Le immagini amorose rag-giungono i toni più caldi e familiarmente a&ettuosi nelle laudi mariane (si veda oltre). Come nella lirica, ma anche come nella preghiera, sono carat-teristiche della tradizione laudistica, specialmente nei punti emotivamen-te più intensi, le interrogative retoriche e le apostro+. Nei tempi e nei modi verbali la tensione emotiva e, più in generale, il ricorrente tono esortativo

4. L’immagine del cuore separato dal corpo è uno dei motivi più frequenti nella prima lirica d’amore romanza (Bruni, 1988), e sarà riutilizzato e variato a lungo nella poesia religiosa (per esempio, da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, per cui cfr. par. 7). Sulla ricchissima iconogra+a del cuore in età medievale e moderna cfr. Pozzi (1993, pp. 383-422).

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si esprime mediante l’imperativo («Da’mi conforto, madre de l’amore», «Piangete meco, sponse inamorate»)5, mentre nelle laude celebrative e di-dattiche prevale il presente dichiarativo («tu sé la via ch’a vita ci mena»)6, o i tempi narrativi del passato7. Le Sacre Scritture, e specialmente i Salmi, sono, naturalmente, il più importante serbatoio cui attingere immagini ed espressioni. La critica più recente ha riconosciuto, in particolare, una profonda in{uenza dei testi davidici, citati, parafrasati o variati, in compo-sitori tre-quattrocenteschi come il Bianco da Siena e Feo Belcari (Serventi, 2009; Cremonini, 2009; Arioli, 2012).

Le caratteristiche elencate sopra sono accentuate nelle laude iacopo-niche, la cui latitudine spirituale comprende componimenti mistici; mo-rali, didattici e ragionativi; drammatici e narrativi. Le composizioni di Iacopone da Todi si fondano su una sintassi estremamente duttile, a volte vicina al parlato spontaneo e popolare, talaltra modellata sui registri più elevati della predicazione e della prosa argomentativa di tipo scolastico (Bruni, 1990, pp. 139-42; Battaglia Ricci, 2007; Librandi, 2012a, pp. 30-3. Per l’edizione delle laude si veda Ageno, 1953b; Bettarini, 1969; Manci-ni F., 1974; Bettarini, 1997; Canettieri, 2009). I costrutti più vicini alla spontaneità del parlato, in particolare la tendenza alla giustapposizione e allo stile nominale, ricorrono nelle laude umbre informate al modello iacoponico, divenendo, se non tratti «di genere», perlomeno strutture largamente condivise (Tomasin, 2000). Similmente, nel lessico iacopo-nico sono reperibili i tratti del natio volgare umbro ma anche i latinismi peregrini della +loso+a scolastica, con signi+cative immissioni desunte dai lessici settoriali del diritto e del linguaggio notarile (so!smi, silloismi ‘sillo-gismi’, allegare ‘addurre prove’: Bettarini, 1969, pp. 223-4; Bruni, 1990, p. 136), della culinaria e della medicina (pesce en peverata ‘pesce in salsa pic-cante’, squinanzia ‘angina’, parlasia ‘paralisi’, !stelle ‘piaghe’); del linguag-gio mistico incentrato sulla contraddizione e sull’ossimoro (nella lauda 92, Sopr’onne lengua amore, quasi un trattato sull’amore mistico: En!gurabel luce v. 17 ‘luce non rappresentabile’, notte veio ch’è dia ‘vedo una notte che è giorno’ v. 25, Luce li pare obscura v. 113,: altri ess. in Casapullo, 1999, pp. 213-

5. Rispettivamente, in «Fa’mi cantar l’amor de la beata», v. 3 e «Da’mi conforto, Dio, ed alegranza», v. 27 (Guarnieri, 1991, pp. 51-4 e 108-10).6. Nella lauda «Altissima luce col grande splendore», v. 24 (ivi, pp. 45-50).7. «Quando eravate a cena, / del tradimento era mena: / ciaschedun avea gran pena / de te k’er’ consoladore» («Ogn’om canti novel canto», vv. 11-14; ivi, pp. 239-44).

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4). Particolarmente notevole, in+ne, la formazione delle parole, in cui si notano rare neoconiazioni (cantuzìo ‘canzonetta di scherno’ < cantuziare ‘canticchiare’; pastile ‘pasto, eucarestia’), neologismi (nichilitate ‘nullità’ < nichil ‘nulla’), transcategorizzazioni (tormentato ‘tormento’, tentato ‘tenta-zione’; si veda Dardano, 2007 e 2009; Librandi, 2012a, p. 30), talché si può sostenere che la creatività lessicale esibita da Iacopone nel suo laudario sia il più importante esperimento di forzatura del lessico a +ni espressionistici in epoca predantesca. L’oltranzismo verbale delle laude iacoponiche non avrà séguito, perlomeno nei termini con cui era stato concepito dal frate tudertino. Nei secoli xiv e xv, tuttavia, la poesia francescana osservante si alimentò delle parole arcaiche del frate, le cui laude vivranno una stagione di grande successo, come testimonia il capillare lavoro di riproduzione dei componimenti e le non poche attribuzioni spurie, ben al di là del secolo xv (Librandi, 2012a, pp. 61, 84).

Nel tardo Trecento e nel Quattrocento i centri più importanti nell’elabo-razione e riproduzione di laude erano situati prevalentemente in Toscana. Riprodotte in un gran numero di copie, le laude furono uno dei canali attra-verso i quali tratti linguistici toscani cominciarono a circolare in tutta la Pe-nisola. Toscani furono perlopiù anche gli autori di laude maggiormemente noti del Trecento, Ugo Panziera (Prato, ? – 1330 ca.), Giovanni Colombini, il fondatore dei Gesuati (Siena, 1304 – Acquapendente, 1367), e il suo disce-polo e biografo Bianco da Siena (Lanciolina, 1350 ca. – Venezia, 1412)8.

L’Umanesimo rielaborò profondamente l’antico genere medievale, immettendo nel contenitore tradizionale le più moderne ri{essioni +lo-so+che e teologiche fuse con suggestioni dantesche e petrarchesche9. Le laude di Lorenzo de’ Medici, per esempio, realizzarono una originalissi-ma commistione fra i temi tradizionali e le teorie neoplatoniche divulga-te da Marsilio Ficino, tenuti assieme dalla raFnata propensione del colto uomo politico +orentino per i generi popolari e arcaici. Più tradizionali le

8. Composero laudi, tuttavia, anche autori laici che in tarda età, o in séguito a vicende dolorose, si ritirarono a vita religiosa, attratti specialmente dal magistero +orentino di santa Caterina da Siena, come Maestro Antonio da Ferrara (Antonio Beccari), Franco e Giannozzo Sacchetti, Jacopo del Pecora (cfr. Chiari, 1936; Sapegno, 1952, ad indicem; Bellucci, 1972).9. Queste ultime, in particolare, divennero esclusive nella generazione di poeti nati intorno alla metà del Quattrocento, come Girolamo Benivieni (Firenze, 1453-1542), che visse i sommovimenti politici e sociali del primo Cinquecento e, per quanto attiene alla lingua, la progressiva a&ermazione del classicismo bembiano nella lingua poetica.

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composizioni del domenicano Giovanni Dominici (Firenze, 1356-1419), ispirate alla spiritualità di santa Caterina da Siena, quelle di Feo Belcari (Firenze, 1410-1484), operante a stretto contatto con la corte medicea e in particolare con la madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, e di Girolamo Savonarola, nelle cui composizioni si rinvengono tratti ancora pienamen-te medievali. Fuori Firenze la lauda fu assai popolare a Venezia, dove fu rinnovata nei temi e nel linguaggio da un altro colto umanista, Leonardo Giustinian, fratello del patriarca di Venezia Lorenzo.

Il genere laudistico sopravviverà, con funzioni mutate, oltre il Concilio di Trento, quando fu rifondato con la speci+ca funzione di facilitare agli incolti l’apprendimento della dottrina cattolica grazie alla sua accattivante cantabilità e alla programmatica semplicità dei concetti (Rostirolla, Zar-din, Mischiati, 2001; Østrem, Petersen, 2008; Librandi, 2012a, p. 83). A quest’altezza il modello iacoponico risulta ancora pienamente operante, anche per il tramite di iniziative editoriali che rilanciano le composizioni del frate di Todi10.

La poesia religiosa a funzione didattica destinata al pubblico degli incolti (catechismi in versi, lauda), dai toni improntati a una familiare a&ettività (canzoncine e inni religiosi per l’esecuzione comunitaria), fu messa in cir-colazione dai nuovi ordini riformati usciti dal Concilio di Trento. Alcuni di questi, come i Gesuiti, i Somaschi, i Barnabiti, esercitarono una in{uen-za rilevante sulle istituzioni scolastiche del tempo, in particolare su quelle indirizzate ai più umili. L’esperienza forse più originale in tale direzione fu condotta da san Filippo Neri (1515-1595), la cui vocazione era rivolta in modo particolare all’educazione di fanciulli poveri del proletariato urbano. A san Filippo e ai frati della congregazione dell’Oratorio (1575), da lui stesso fondata, sono ascritte canzoncine educative, modellate sull’antica lauda ia-coponica, il cui scopo era quello di insegnare la dottrina della fede attraver-so un’attività ricreativa come il canto (Librandi, 2012a, p. 88). Dall’attività dell’Oratorio di san Filippo nacque un genere nuovo, chiamato, appunto, “oratorio”, che diede i suoi risultati più originali nel Seicento (cfr. par. 6).

10. La princeps delle laude iacoponiche uscì a Brescia nel 1495; seguì nel 1514 un’edizione veneziana. Nel 1617 il frate minore osservante Francesco Tresatti raccolse e annotò composizioni originali e apocrife del frate tudertino: Varanini (1994); Jori (1998); Serventi (2005, p. 41). L’in{uenza delle laude iacoponiche, o attribuite a Iacopone, è ritenuta probabilmente operante anche nell’ultimo Tasso: Ferretti (2005, pp. 162-3, n 11).

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5. La lirica spirituale

Con la lirica sacra di matrice petrarchista le distanze fra la poesia d’amore profana e quella di argomento devoto furono praticamente annullate: i petrarchisti spirituali, infatti, riutilizzarono, «+no a renderle autonome, le componenti “spirituali” che strutturano l’archetipo dei Rerum vulgarium 1agmenta» (Quondam, 2005, p. 169), per la messa in forma di una lirica religiosa che per alcuni poeti fu adesione occasionale a una moda corrente, mentre per altri rappresentò lo sbocco di una vocazione letteraria esclusi-va. Gli studiosi che hanno indagato da più punti di vista i generi e i pro-dotti editoriali del Cinquecento spirituale hanno individuato nelle +gure di Girolamo Malipiero e Vittoria Colonna i primi, consapevoli rappresen-tanti di questa espressione della fede religiosa in forma poetica, consona ai gusti e alla cultura di lettori avvezzi a una lingua più selettiva ed elegante rispetto a quella di un passato anche prossimo (Quondam, 1991b; Auzzas, 2005, pp. 219-20). Converrà, intanto, fare qualche precisazione sull’acce-zione dell’aggettivo «spirituale»: se nel primo Cinquecento quest’attri-buto conferisce ai testi una sfumatura riformatrice, che allude al processo di rinnovamento interno della Chiesa auspicato da molti, nella seconda metà del secolo diviene semplicemente sinonimo di «religioso» (Quon-dam, 2005, p. 140).

Sotto il pro+lo metrico il sonetto, da sempre forma deputata all’espres-sione delle ri{essioni intellettuali e delle meditazioni morali, fu il veicolo privilegiato di questa poesia, più della canzone, dal respiro ampio confe-ritole da una sintassi articolata ma, per ciò stesso, assai meno pregnante e stilisticamente più dispendiosa. Se poi ci si volge a considerare i nuovi auc-tores della lirica religiosa moderna, col Petrarca spirituale di Girolamo Ma-lipiero (1536) è esplicitata la grammatica e la retorica di un’integrale riscrit-tura in chiave spirituale del Canzoniere petrarchesco, ma solo con Vittoria Colonna la lirica spirituale assume i connotati di un genere riconoscibile, cui impresse una decisiva accelerazione la pubblicazione postuma delle sue Rime spirituali nell’edizione Valgrisi di Venezia (1548)11. Il petrarchismo religioso della Colonna è contraddistinto da una so&erta ricerca interiore

11. In vita, la poetessa aveva sempre centellinato la di&usione delle sue poesie, riservandola a un piccolo circolo di sodali e amici e a circuiti editoriali ristretti. Per questo motivo acquistano una particolare rilevanza le edizioni a stampa e i mss. allestiti sotto la sua diretta supervisione (Toscano, 1998; Carboni, 2002; Scarpati, 2004).

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espressa mediante una severa ascesi della parola. La lirica spirituale di Vit-toria Colonna è quella che rappresenta nel modo più genuino i caratteri tipici della rimeria spirituale12, anche in termini di autenticità di espressio-ne e vocazione, oltre che di coinvolgimento personale nel movimento di riforma ecclesiale del primo Cinquecento. Per i temi trascelti, si caratteriz-za come una poesia fortemente cristocentrica e, secondariamente, per una netta propensione verso i temi mariani (Brundin, 2008, pp. 110-22). In particolare è stata riconosciuta alla poetessa una conoscenza tutt’altro che occasionale della Bibbia, determinante per la formazione della sua lirica religiosa e per lo stile ragionativo, a tratti teologizzante, che la contrad-distingue, mai incline alla facile emotività (Forni, 2009). L’immaginario lirico, pur fondato sul Canzoniere e sui Trion!, accoglie dantismi tipici nel lessico e nelle +gure (s’interna; «l’aere spesso e nero»; «sente / lo spirto un raggio de l’ardor beato»)13. L’espressione della percezione sensoriale (immagini visive e auditive, la bellezza esterna, i suoni ecc.) generalmente risulta sacri+cata a vantaggio di concetti e immagini astratti: il mondo re-ale è descritto, o alluso, in termini negativi, di assenza, di mancanza, di pe-santezza (Forni, 2005, pp. 76-7), e d’altro canto l’immaginario legato alla luce (che s’intona con la sinfonia luminosa di certi canti del Paradiso dan-tesco) proietta direttamente l’io lirico in una dimensione ultramondana.

6. Poesia “delle lacrime” e altri generi colti

I libri “spirituali” in prosa e in poesia arrivarono a rappresentare, tra la +ne del Concilio di Trento e gli ultimi anni del Cinquecento, una fetta co-spicua del mercato editoriale italiano14. Fino agli anni settanta, cioè nel

12. Che, peraltro, ebbe un amplissimo séguito, per imitazione delle poesie religiose del Canzoniere petrarchesco, come nelle liriche devote (di pentimento o di argomento sacro) di Pietro Bembo, o per in{uenza personale della Colonna, come accade per le rime di Michelangelo.13. Nell’ordine, nei sonetti «Mosso ’l pensier talor da un grande ardore», v. 5; «Quando io dal caro scoglio guardo intorno» vv. 13-14; «Sovra del mio mortal, leggera e sola», v. 2. Per qualche altro esempio si scorrano le note di commento in Prandi (1998, pp. 772-9).14. Si passa dalle 113 unità prodotte fra il 1500 e il 1550 alle 655 edite durante la seconda metà del secolo, con una prevedibile secca maggioranza dell’industria editoriale veneziana, dove primeggia Giolito de’ Ferrari coi suoi eredi (Quondam, 2005, pp. 148-66).

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periodo di più intensa produzione di rime spirituali, i poeti si servirono di un italiano letterario che coincideva nella sostanza col petrarchismo lirico profano. Verso la +ne del secolo, tuttavia, la lirica religiosa di matrice colta prese direzioni non sempre collimanti con il rigore formale e la sobrietà dei poeti di prima generazione. Si di&usero, infatti, tipi testuali scaturiti dall’accentuazione estrema di forme e temi del petrarchismo, mentre la lingua fu modellata su un registro fortemente patetico ed emotivo. In que-sta fase si di&use la cosiddetta poesia “delle lacrime”. Quello delle lacrime è un genere praticato da poeti colti, come Jacopo Sannazaro, Luigi Tansillo, Angelo Grillo e Torquato Tasso, che si servivano di un raFnato italiano petrarcheggiante per una lirica di scavo interiore e di meditazione, aFdata a generi metrici vari: il sonetto, il madrigale, l’ottava narrativa o il capitolo ternario. I temi preferiti erano, appunto, il lamento e le lacrime (di dolore, di pentimento, di commozione e devozione ecc.), ribaditi quasi ossessiva-mente da un lessico gravitante nell’area semantica del pianto e del dolore, e da metafore “acquatiche” spinte +no al limite del dicibile (mare, +ume / rio, pioggia di lacrime ecc.: Piatti, 2007). Fu il venosino Luigi Tansillo (1510-1568) a sancire la fortuna della poesia “lacrimosa”, col poema intitolato Le lagrime di San Pietro (1585)15. Ma se Tansillo fu l’interprete più accessibile e leu della nuova poesia religiosa, è il Tasso, con le sue rime sacre, a rappre-sentarne l’anima so+sticata, il trobar clus, per così dire.

Torquato Tasso è senza dubbio la personalità poetica più signi+cativa della poesia post-tridentina, della quale rifondò la lingua, le forme, i temi e i generi, in{uenzando gli esiti della poesia barocca16. Nelle sue rime re-ligiose egli rinnovò la poesia “lacrimosa”, imprimendole un pathos e una profondità inediti. A ciò si aFanca il recupero di alcuni fra i generi tra-dizionali della spiritualità medievale, come il «pianto della Vergine», proposto nell’inno in ottave Stava appresso la Croce, parafrasi dello Stabat mater iacoponico. Un testo particolarmente signi+cativo è poi la canzone Alma inferma e dolente (1590), nella quale le meditazioni teologiche e le ri{essioni personali sono strettamente intrecciate alla rievocazione della

15. Il poema, che si compone di 15 canti (= pianti) in ottave, fu pubblicato postumo e incompiuto nel 1585. Sulla sua travagliata tradizione testuale si veda Toscano (1987) e Torre (2010) in cui è anche una trascrizione sinottica delle due principali edizioni antiche.16. Col Mondo creato, in particolare, egli propose un nuovo modello di poema epico e narrativo, religioso nell’ispirazione e informato ai modelli dell’Exameron di san Gi-rolamo.

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Passione di Cristo secondo modalità “teatrali” in cui è stata rintracciata l’in{uenza degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (Föcking, 1994, pp. 171-99; Ardissino, 1996, pp. 171-7; Ferretti, 2005)17. Sul piano stilistico nelle rime religiose si osserva l’uso insistito dell’anafora e, più in generale, della ripetizione, mentre nella sintassi si manifesta una caratteristica del Tasso “epico”, cioè l’associazione di immagini slegate, la soppressione dei legamenti sintattici o la preferenza accordata a nessi generici e polivalenti, modalità espressive teorizzate dal poeta negli anni precedenti (il «parlar disgiunto») che adombrano, secondo un’ipotesi suggestiva, un rapporto con le tecniche retoriche esperite press’a poco negli stessi anni da celebri predicatori come Francesco Panigarola (1548-1594) e Cornelio Musso (1511-1574; Ferretti, 2005, pp. 164-6; Piatti, 2010, pp. 107-10; Librandi, 2012a, pp. 84-7 e 202-5)18. Alla +ne del Cinquecento, dunque, il poema in terzine o, più spesso, l’ottava narrativa costituiscono una parte rilevan-te del panorama letterario e testuale sacro della prima età moderna, quasi fungendo da contraltare ai romanzi in versi di materia laica (Quondam, 2005, pp. 204-7). Se si prescinde da pochi nomi di alto pro+lo letterario, tuttavia, quella del genere lacrimoso è una moda, praticata da «poeti pro-fessionisti e dilettanti di poesia, in grado di impiegare un ampio reperto-rio di forme metriche (capitoli, stanze/ottave, laudi, odi, versi sciolti, ma soprattutto canzoni e sonetti, cioè quanto concorre a de+nire lo statuto classicistico delle rime)» (ivi, p. 206). Non si trattava soltanto di poesia letta o recitata, d’altronde: il madrigale spirituale, infatti, diviene il genere per eccellenza della musica polifonica italiana d’àmbito religioso, partico-larmente dagli ultimi decenni del secolo, assieme a svariati generi metrici «della polifonia religiosa cinquecentesca, funzionale a ben diversi+cate occasioni performative: canzoni spirituali a tre quattro cinque sei voci, canzonette spirituali a tre quattro voci, laudi spirituali a tre quattro voci, laudi e canzoni spirituali, stanze spirituali a sei voci, madrigali spirituali a tre quattro cinque sei sette voci, mottetti spirituali a cinque voci, napole-tane spirituali a tre voci, villanelle spirituali» (ivi, p. 143).

17. La canzone è riprodotta in appendice a Ferretti (2005, pp. 202-4); per una brevissima disamina +lologica si veda ivi (pp. 160-1, n 8). Altre rime sacre si leggono nell’edizione critica di Gavazzeni, Martignone (2006).18. Nel sonetto A San Giovanni Evangelista, per esempio, la congiunzione e apre sei versi e collega cinque sostantivi, con un macroscopico e&etto di accumulo (Librandi, 2012a, p. 203): «E la gloria su ’l monte a noi descrisse / E ’l monte e la sua cena e la colonna / E la corona e ’l sacro e fero legno» (vv. 7-11; ivi, p. 205).

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Un genere nato in età controriformistica è l’oratorio, in voga, origina-riamente, presso la congregazione omonima fondata da san Filippo Neri, ma ben presto di&usosi nell’intera Europa. Della lauda drammatica del Cinquecento l’oratorio ampli+ca la dimensione polifonica: pur non essen-do propriamente una rappresentazione, infatti, l’azione narrativa è aFdata a vari personaggi che si avvicendano sulla scena. L’oratorio è un genere colto che si rivolgeva al popolo per insegnare e per sollecitarne la devo-zione. Vi si trovano, infatti, i temi, le immagini, i personaggi e le parole che i fedeli ascoltavano o leggevano nei testi devoti, nella liturgia, nelle litanie e nelle preghiere quotidiani. La popolarità di questo genere e il fa-vore che esso incontrò presso il pubblico risiedono nella programmatica semplicità dei testi e nella piacevolezza accattivante delle melodie. Erano caratteristiche dei testi una certa varietà metrica, assecondata dalla musica; la presenza dei ritornelli, che favorivano l’ascolto e la comprensione della storia narrata; la chiarezza del lessico e della sintassi, fondati sulla ricorren-za delle parole e sulla lineare brevità delle frasi (Ste&an, 2006; Librandi, 2012a, p. 88).

7. La poesia mariana

La poesia dedicata alla Vergine contempla una notevole varietà di generi letterari e un’ampia escursione stilistica19. Il registro espressivo oscilla, in-fatti, dal tono caldo e familiare tipico dei testi della devozione popolare allo stile sublime e raFnato della lirica teologica. Intorno ad alcuni luoghi evangelici riguardanti la Vergine Maria, corrispondenti generalmente ad altrettanti momenti dell’anno liturgico, si salda, inoltre, un universo inter-testuale fatto di elementi iconici, visivi e auditivi che si richiamano gli uni gli altri come un ipertesto ante litteram, fatto di tradizioni iconogra+che, drammatiche e musicali, che hanno da sempre interagito profondamen-te con la poesia intorno a temi come l’Annunciazione, la Visita a santa Elisabetta, la Deposizione dalla Croce, la Dormitio Virginis. Questo uni-verso pluridimensionale, intessuto di segni fortemente connotati, di cui

19. La bibliogra+a mariologica si è notevolmente arricchita, nell’ultimo decennio (cfr. Maggiani, 2012). Un ricco {orilegio è stato raccolto nella monumentale antologia intito-lata Testi mariani del secondo millennio, che seguono i Testi mariani del primo millennio. Si veda in particolare Castelli (2002), con una selezione di testi letterari europei.

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la poesia è stata solo una delle componenti, ha modellato la percezione dei fedeli, che vi erano come sensorialmente immersi, almeno +n verso l’inizio dell’età contemporanea (ma probabilmente la sua dissoluzione è cominciata già nel corso del xviii secolo). La poesia ne è scaturita, quindi, pregna di potenti signi+cazioni, in un modo che oggi possiamo solo vaga-mente tentare di ricostruire. Un ulteriore elemento che contraddistingue la poesia mariana è il fatto che nelle litanie, nelle preghiere in versi, nelle liriche colte e nelle laudi dedicate alla Vergine, temi attinenti all’origine stessa della vita umana (il concepimento, la gravidanza, il parto, l’allat-tamento) intersecano senza collidervi i misteri della più elevata ri{essio-ne teologica (l’incarnazione di Dio, la maternità virginale, la divinità di Cristo, la presenza di Dio nella storia umana), costituendo i capitoli di una teologia familiare e quotidiana, o, come è stato detto, una «teologia mariana popolare» (Maggiani, 2012, p. 19), tradotta in parole che hanno forzato le proprie intrinseche possibilità semantiche, pur restando entro i con+ni del concretamente dicibile.

Il «Pianto» è uno fra i generi drammatici più antichi e rappresentativi della poesia mariana20. Il più antico Pianto pervenutoci è il frammento di un Pianto della Vergine in volgare mediano, che chiude una Passione in latino (Passione cassinese, secc. xii ex.-xiii in.) con la punta di massi-mo pathos, l’esclamazione della Vergine davanti al +glio morto, recitata, o forse salmodiata, in volgare: «Eo te portai nillu meu ventre; / quando te beio, moro presente; / nillu teu regnu agime a mmente» (‘Io ti portai nel mio ventre; quando ti vedo muoio subito; nel tuo regno ricordati di me’). Il frammento consta di tre quinari doppi monoassonanzati, che do-vevano costituire in origine una quartina (Varanini, 1972, pp. 3-4). Que-sto genere arcaico, nato nell’alveo della cultura monastica benedettino-cassinese, nel xiii secolo incrociò il genere della lauda-ballata. Il risultato della fusione fu un genere nuovo, una lauda-ballata che aveva come tema il lamento della Madonna sul +glio deposto dalla croce, gemmata metri-camente dagli antichi quinari doppi mediante l’inserimento di un verso-cerniera, la rima «chiave» tipica della ballata profana due-trecentesca (Baldelli, 1981 e 1987, pp. 44-51). Le nuove composizioni, a strofe non più assonanzate ma rimate, conobbero uno sviluppo lirico e uno drammatico.

20. Il topos del lamento della Vergine sul +glio morto è presente nella tradizione bizantina e mediolatina; per una breve rassegna di testi e studi si veda Piatti (2007, pp. 55-6) e Cattin (2005).

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Fra le laude drammatiche più note si ricordano, in particolare, lo Stabat mater attribuito a Iacopone da Todi e, dello stesso Iacopone, la lauda a più voci Donna de Paradiso, che assume la +sionomia di un vero e proprio dramma sacro. Intorno alla metà del xiv secolo ebbe una grande di&usio-ne areale e una notevole persistenza cronologica un Planto de la Verzene Maria in volgare trevigiano attribuito al frate agostiniano Enselmino da Montebelluna21. Il Planto di Enselmino è profondamente radicato nell’i-conogra+a tradizionale della Deposizione, tanto da ri{etterne più di un motivo (Crema, 2002, pp. 45-55). È notevole, peraltro, che accanto ai pre-lievi dagli auctores tradizionali e ai tratti tematici e retorici “di genere”22, il Planto di Enselmino rechi traccia nel suo stesso tessuto testuale della Commedia dantesca, la cui di&usione in Veneto è stata ampiamente in-dagata. Il legame con la Commedia si manifesta prima di tutto attraverso il metro prescelto (il poemetto consta di 11 capitoli in terzine dantesche, che si concludono, a di&erenza dei canti della Commedia, con un distico a rima baciata), ma poi anche con la ripresa di formule di trapasso, di mo-duli ritmici e di similitudini tipici, prima ancora che attraverso prelievi puntuali, che pure vi ricorrono frequenti23. A dimostrazione della lunga durata del genere, si può citare, in+ne, una ulteriore metamorfosi: nella seconda metà del Cinquecento l’antico planctus medievale fu rinnovato con apporti della più recente poesia “delle lacrime”. Il genere testuale che ne risultò conservò la centralità mariana, la topica, gli stilemi formulari del planctus, mediati da un colto italiano letterario di matrice petrarchi-sta, rinnovato nel lessico, nella retorica e nei generi metrici da versi+catori modesti, ma anche da letterati di maggior calibro, come il Tasso e, nel Seicento, Giovanbattista Basile.

Oltre al pianto, anche le laude sono un genere in cui ricorrono di fre-quente temi mariani. Una fra le più antiche è la Lauda dei Servi di Maria Rayna possentissima (‘Regina potentissima’), conservata da vari mano-scritti in veste linguistica mediana, settentrionale o toscana e contraddi-stinta da una struttura metrica arcaica: la lassa monorima di alessandrini, con il primo emistichio sempre sdrucciolo («Rayna possentissima, so-

21. Andreose (2010). La di&usione del testo è comprovata, oltre che dal gran numero di manoscritti (Moschella, 1993; Andreose, 2001), dagli stralci riformulati nella Passione di Revello in volgare piemonese (Cornagliotti, 1976; Crema, 2002).22. Primo fra tutti il Liber de Passione Domini dello Pseudo-Bernardo e Donna de paradi-so di Iacopone: Moschella (1993); Crema (2002, pp. 39-41).23. La cosa è stata notata da tempo; si veda, da ultimo: Crema (2005, pp. 34-9).

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vr’el cel siti asaltaa. / Sovra la vita ançelica vu sij sancti+caa»; Contini, 1960, ii, pp. 7-10 e 862; Stella, 1968, pp. 228-9; Varanini, 1972, pp. 20-7; 1973, pp. 31-9). Fra Due e Trecento si sviluppa una poesia mariana colta che in{uenzerà per secoli l’espressione letteraria della devozione alla Ma-donna. I momenti più alti si trovano nei testi dei poeti che hanno mag-giormente condizionato gli sviluppi dei generi poetici in italiano, Dante e Petrarca. I versi della celebre preghiera di san Bernardo alla Vergine (Pd xxxiii, 1-45), con la loro pregnanza espressiva («Vergine madre, +glia del tuo Figlio, / umile ed alta più che creatura / termine +sso d’etter-no consiglio»…), si sono impressi nella memoria dei lettori, +orentini e no, costituendo una sorta di dna linguistico che in{uenzerà per secoli l’italiano24. La canzone Vergine bella di Francesco Petrarca (RVF 366), d’altronde, per la forza modellizzante del Canzoniere, ha esercitato la sua in{uenza su tutta la lirica a tema mariologico (per la Colonna cfr. Forni, 2005). Entrambi i testi sono diventati l’espressione antonomasica della poesia-preghiera in un italiano di registro sublime e, accogliendo suggestioni tradizionali, hanno costituito essi stessi il luogo privilegiato di imitazione della poesia mariana più raFnata.

Tralasciando le rime spirituali e i poemi umanistici in latino25, ricorde-rei che nella fase cruciale del primo Cinquecento sono apparse sulla scena

24. Le parole-rima !glio : consiglio, cui si associa giglio, possiedono un’antica potenza suggestiva: l’immagine del giglio, associata alla descrizione della Sposa nel Cantico dei Cantici, è stata ripresa dalla lirica cortese del Duecento, rilanciata, attraverso una con+gu-razione topica, da Iacopone nella già citata Donna de Paradiso («O +glio, +glio, +glio, / +glio, amoroso giglio! / Figlio, chi dà consiglio / al me’ cor angustiato?»), e canonizzata da Dante Alighieri. Queste stesse parole-rima attraverseranno tutta la storia della nostra lirica, religiosa e no (ricorrono, per esempio, nelle rime del “dantesco” Giovanni Quirini) +no ai recuperi novecenteschi di Biagio Marin (Le litanie de la Madona: «Alta nel sol como un bel gilio») e persino della canzone d’autore (Fabrizio De André, La città vecchia: gigli : !gli). Per Giovanni Quirini (edito da Duso, 2002) rinvio a Folena (1978); si veda-no inoltre i nn. 424-429 della bibliogra+a di Quondam (2005), con edizioni delle laude iacoponiche dal 1493 al 1558; al n. 44, inoltre, è documentato un Cantico ad imitazione di quelli del beato Iacopone da Todi di Giovanni Giovenale Ancina, edito a San Severino Marche nel 1558. Inoltre: Maiolini (2011, pp. 222-3, 232-5).25. Il più importante di essi, il De partu virginis di Jacopo Sannazaro, è solo la punta dell’iceberg; si vedano i testi citati in Quondam (2005, p. 204, n 146). Occasional-mente furono tradotti in latino testi rappresentativi della poesia in lingua volgare; alla +ne del Quattrocento, per esempio, Filippo Beroaldo il Vecchio tradusse in latino la canzone alla Vergine del Petrarca, dandole il titolo di Peanes Beatae Virginis (Forni, 2005, pp. 69-70).

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letteraria nuove tipologie di testi sacri, molte delle quali a tema mariano, generalmente originatesi dal rilancio e dall’ammodernamento di opere più antiche (cfr. par. 4). Il punto di svolta fra le rielaborazioni tardoquat-trocentesche o cinquecentesche di antichi luoghi tematici mariani, come i miracoli della Vergine, e forme testuali moderne è la Vita della glorio-sissima Vergine Maria, un poemetto in terza rima del ferrarese Antonio Cornazzano (1429-1484), che riscosse un grande successo editoriale. È stato osservato, inoltre, che a parte alcuni componimenti di grande rilie-vo, come la canzone tassiana A la beatissima Vergine di Loreto e Il nome di Maria del Manzoni, la poesia mariana non ha conosciuto, fra la Riforma cattolica e l’Ottocento, se non una rimeria devozionale di qualità lette-raria piuttosto modesta (Lacchini, 2009, p. 369). Le liriche religiose di Giambattista Marino e dei marinisti restano nei limiti ben consolidati di alcuni temi noti (la Visitazione, la Deposizione, la preghiera d’intercessio-ne), di generi metrici e di un linguaggio poetico conformi alla tradizione. Un genere devoto particolarmente apprezzato e nuovo, invece, viene fuori dall’a&ollata congerie di poemetti e raccolte di più modesti versi+catori: si tratta del tema, tipicamente controriformistico, legato al rosario. La de-vozione al rosario, risalente al Medioevo ma riportato in auge in epoca post-tridentina, diede luogo a un «microsegmento tematico» espresso nella forma metrica del sonetto o delle ottave (Quondam, 2005, p. 208). Si tratta di un fenomeno di modesta caratura letteraria che, però, per la gran mole di scritti e le numerose edizioni, spesso opuscoli di poche carte, ha rivestito un’importanza cruciale per la di&usione dell’italiano letterario nel Cinque-Seicento (ivi, pp. 207-8).

Nel Settecento la lirica mariana più colta non oltrepassa i con+ni di una lingua poetica raFnata, arricchita dagli apporti della poesia greca e latina, dai classici italiani (Petrarca, Ariosto e Tasso) e dal contempora-neo Metastasio. I sonetti della poetessa Fidalma Partenide, pseudonimo arcadico di Petronilla Paolini (1663-1726; Croce, 1948), per esempio, sono variazioni dei più triti stilemi petrarcheschi («Quando di sé, più che del Sol, vestita, / L’alta Madre di Dio nel Cielo ascese») associati alla memoria di alcuni testi canonici: il Cantico dei Cantici, la già citata preghiera di san Bernardo del Paradiso dantesco e, ancora, i versi “mistici” che chiudono il poema26. Non molto diversa, se non per una più consi-

26. Rime (1820, p. 51; le rime della Paolini sono alle pp. 36-52). Alcuni testi sono riportati in Ulivi, Savini (1994, pp. 432-4).

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stente immissione di suggestioni classiche, la poesia del ferrarese Alfonso Varano, più noto per aver seguito le orme dantesche nelle sue Visioni sacre e morali (Verzini, 2003). Non esce dal più mediocre conformismo devo-to anche la poesia del modenese Giuliano Cassiani, arcade col nome di Acasto Larissiano, o quella di Francesco Cassoli. Anche autori ben altri-menti noti non si sottraggono ai limiti di un’educata rimeria devozionale, sollecitata spesso dalle richieste di committenti (tali i sonetti mariani di Giambattista Vico e di Giuseppe Parini).

Non mancano, tuttavia, esperienze la cui originalità è da ricercare su di un piano diverso da quello esclusivamente letterario. La personalità poetica più interessante, sotto questo pro+lo, è senza dubbio quella di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Le sue canzoncine spirituali attingono alla spontaneità e alla freschezza della devozione popolare e della religiosità infantile, ma sono modellate dal gusto colto del predicatore e del letterato. L’impasto che ne scaturisce è uno dei risultati più originali della poesia re-ligiosa italiana. L’apparente innocenza del nitido italiano di sant’Alfonso, generalmente preferito al dialetto napoletano, è l’approdo di una ricercata operazione di sfrondamento della lingua letteraria dagli orpelli concre-sciuti attorno all’immaginario mariano e alla sue espressioni versi+cate. Le canzoncine di sant’Alfonso vivi+cano, in forme, modi e generi di&erenti, l’antica tradizione laudistica del canto e della recitazione corale. Colpisce, accanto alla genuinità del dettato, la straordinaria varietà delle forme me-triche, vivacizzate da rime e assonanze che, se non sono particolarmente originali, compongono nel loro insieme strutture assai mosse (si veda, per esempio: «La più bella verginella, / cara mia Maria, sei tu: / creatu-ra così pura / come te mai non vi fu»). In questo modo sant’Alfonso opera un vero e proprio rilancio a +ni divulgativi della poesia spirituale, rinnovando le metafore attinte al Canzoniere di Petrarca («In questo mar del mondo / tu sei l’amica stella, / che puoi la navicella / dell’alma mia salvar»), rovesciando topoi tradizionalmente cortesi, come quello della donna che spregia l’amante («Io amante di quella Signora, / che ha un sì dolce e sì tenero core, / che vedendo chi cerca il suo amore, / benché indegno sprezzarlo non sa»), o servendosi di immagini forti e inconsuete nella poesia religiosa, ma non inusitate nella lirica d’amore barocca27, che,

27. Si veda la penultima strofa della canzoncina L’anima amante di Maria («Stendi dun-que tua mano, o Maria, / cara mia dolce ladra d’amore, / stendi, e togli dal petto il mio core, / che sospira e languisce per te»: Ulivi, Savini, 1994, p. 442), che richiamano i versi

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accanto al melodramma rappresenta un altro potente serbatoio di rime e giochi di parole sentimentali e accattivanti cui attingere espressioni atte a rinverdire la poesia devozionale e favorirne la circolazione anche presso gli strati più umili della popolazione (Bertini Malgarini, Vignuzzi, 1999; Librandi, 2012a, pp. 102-5).

Sullo scorcio del Settecento si ricordano i versi dello scienziato ed economista Agostino Paradisi, teologicamente densi, poco inclini al sen-timentalismo estatico e originali nella ricerca di metri, suoni e lessico, tanto da essere indicato fra i precursori degli Inni sacri del Manzoni (A. Paradisi, Per la concezione di Maria, in Ulivi, Savini, 1994, pp. 462-5, a p. 465). Nell’Ottocento la novità costituita dagli Inni sacri ha oscurato la presenza di altre esperienze, come quella del Monti scrittore religioso o dei meno noti Cesare Arici e Giovanni Torti, che pure hanno dedicato molte delle proprie liriche alla Madonna28. La poesia mariana ottocen-tesca molto spesso è tributaria della lingua e del metro degli Inni29. Gli echi manzoniani si fondono ai sedimenti testuali strati+catisi per secoli, in aggiunta a un impegno politico e civile che si esprime attraverso toni esplicitamene risorgimentali, in Silvio Pellico, Giuseppe Borghi, Nicco-lò Tommaseo, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Arnaldo Fusinato. Alla +ne dell’Ottocento la poesia mariana ri{ette le antinomie di una società in cui la scienza fa balenare il mito dell’autonomia dell’uomo, laddove l’esaltazione della Vergine valorizza le radici terrene e +nite degli esse-ri umani; tutto ciò si traduce in una poesia dalla vena intimista e pro-fondamente individualizzata (Lacchini, 2009). Nei poeti nati alla +ne dell’Ottocento o nei primi decenni del Novecento la poesia mariana è

del madrigale vi di Gilles Ménage, da cui non è improbabile sia stata tratta anche l’immagi-ne del cuore rubato, antico topos della poesia cortese (Bruni, 1988): «Bellissima Laverna, / dolce ladra d’amore, / che mi rubasti il core, / tosto che mi mirasti, / Deh, perché me ’l rubasti? / Ch’a te, dolce ben mio, / seguendo il mio desire, / non l’avrei negat’io. / Deh, perché preferire / vuol la man tua divina / al dono la rapina?» (Ménage, 1680, p. 290).28. Un componimento giovanile in sestine di ottonari del Monti è dedicato all’Addolorata (Sopra i Dolori di Maria Vergine; Lacchini, 2009, pp. 375-6); Cesare Arici (1782-1836) scrisse nello stesso metro un poemetto d’imitazione manzoniana dedicato pure all’Addolorata (Ulivi, Savini, 1994, pp. 478-83). Giovanni Torti (1774-1852), patriota liberale amico del Parini, nel componimento in terzine dantesche La vecchiarella mette in versi frasi del Salve Regina (ivi, 1994, pp. 475-7).29. Dipendono strettamente dagli Inni sacri manzoniani, tanto per citare un esempio, il volgarizzamento delle Litanie della Vergine e gli Inni ecclesiastici del Belli (Gibellini, Di Nino, 2009a, pp. 248-53).

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caratterizzata da una grande varietà di scelte retoriche, metriche e lingui-stiche, fondate generalmente sull’attitudine allocutoria della tradizione, che privilegia la preghiera e l’invocazione al racconto. La lingua, in par-ticolare, si apre alle sperimentazioni più ardue, associando recuperi tra-dizionali (Dante e Petrarca, ma anche Iacopone) alle scelte più ardite della lirica novecentesca, assemblando espressionismo, simbolismo ed ermetismo, come avviene in Clemente Rebora o Mario Luzi, o, ancora, oltrepassando i con+ni che separano prosa e poesia e sperimentando un linguaggio potentemente +gurale attinto ai Vangeli, come nella poesia di Marco Beck e David Maria Turoldo.

8. Gli Inni Sacri del Manzoni

Con gli Inni sacri Manzoni avviò un ciclo di poesie dedicate ai momen-ti più importanti dell’anno liturgico. È noto che dopo i primi quattro inni (La Risurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione), tutti pubblicati nel 1815, il progetto si arenò per alcuni anni. Solo nel 1822, infatti, fu dato alle stampe La Pentecoste, l’inno teologicamente più impegnativo, difforme per scelte linguistiche e poetiche da tutti gli altri, cui non fece séguito nessun altro, dei dodici originariamente pre-visti (Toscani, 2009, pp. 536-57; Giappi, 2009; Bellio, 2009; Langella, 2009a, pp. 142-5 e 2009b, p. 78; Librandi, 2012a, pp. 107-14. Gli Inni sacri si leggono nell’edizione di Gavazzeni, 1997). Negli Inni un ruolo di primo piano è assegnato alla Vergine Maria. Protagonista dell’inno dedicato al suo nome (Il nome di Maria), la Vergine compare anche nel Natale e nella Risurrezione come figura centrale nella storia della salvezza. Nel Nome di Maria, in particolare, Manzoni recupera stilemi antichi (citazioni dal Magnificat, dalla poesia medievale, dalle Litanie) per potenziare temi tipicamente romantici, letti alla luce dell’esperien-za cristiana (l’esaltazione degli umili, l’esercizio poetico come itinera-rio d’impegno morale, la funzione civile e politica del cattolicesimo; Lacchini, 2009, pp. 377-8).

Le composizioni manzoniane rappresentano il tentativo più in-teressante di poesia religiosa consapevolmente situata entro la grande tradizione innogra+ca dei primi secoli della Chiesa. Gli inni composti da sant’Ambrogio (sec. iv) e le più tarde sequenze (dai secc. viii-ix in

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avanti), infatti, hanno costituito per secoli gli archetipi di una poesia religiosa con una funzione non meramente celebrativa, ma didattica e teologica. In virtù di un’adesione profonda ai modi del latino di registro umile, nella sintassi e nell’accorta selezione e collocazione delle parole, la poesia innologica può essere considerata il modello della poesia ecu-menica. Benché scritti in latino, agli inni e alle sequenze può ben essere riconosciuta la marca d’immediatezza popolare meditata e programma-tica del sermo humilis di ascendenza agostiniana.

Per rinverdire un linguaggio poetico logorato e ridare forza a una tradizione corale che era andata persa, Manzoni si rivolse, dunque, alle fonti classiche della tradizione cristiana più antica, che rappresentava-no, assieme alla Bibbia, la più ricca riserva di lessico e costrutti dalla ri-sonanza potentemente evocativa. Tra le fonti individuate dagli studiosi vi sono lo Stabat mater, il Dies irae di Tommaso da Celano, gli inni e le sequenze composti da sant’Ambrogio a san Tommaso d’Aquino, ol-tre alle preghiere in latino recitate quotidianamente dai fedeli, come il Salve Regina (Langella, 2009b, pp. 145-58). Ne risulta una poesia slega-ta dalla personalità dell’autore, aliena da toni intimisti e familiari (ivi, pp. 140-1), ma nello stesso tempo programmaticamente tesa a esprimere il massimo grado di complessità dottrinale attraverso una lingua quasi completamente disancorata dal tradizionale canone lirico, e piuttosto modellata recuperando autori poco o niente a&atto usurati, come il Metastasio della poesia in musica. La ripresa della tradizione settecen-tesca era funzionale anche all’accompagnamento musicale degli Inni, la cui destinazione era, come si è detto, paraliturgica e corale; sul versante sintattico e lessicale, invece, prevale un dettato a un dipresso prosastico, che provoca un’opposizione ricercata con la facile cantabilità dei metri e delle rime (Leri, 1991, pp. 52-3; Librandi, 2012a, pp. 108-11). La frattura con la tradizione petrarchesca, che anche nel campo della poesia reli-giosa aveva continuato a fornire modelli, sia pure variamente adattati (si pensi a sant’Alfonso), si avverte nella prevalenza di prelievi lessicali estranei al serbatoio lirico. Entro questo progetto profondamente in-novativo risulta funzionale la ripresa di motivi, parole e stilemi diret-tamente provenienti dalle Sacre Scritture, che Manzoni segue così da vicino da fornire spesso una traduzione volgarizzata del testo sacro, un lavorio del quale restano tracce plurime, fatte di annotazioni e rinvii alla Bibbia conservati negli autogra+ manzoniani (Leri, 1990; Langella, 2009b, pp. 146-9).

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9. Poesia in dialetto e in italiano

A parte esperienze dialettali in zone relativamente isolate, dove il modello italiano tardò ad a&ermarsi, la poesia religiosa in dialetto cominciò a essere praticata nel sec. xviii, come scelta episodica di autori ben più proli+ci nei versi in italiano. La «canzoncina» Quanno nascette Ninno a Bettalemme di sant’Alfonso Maria dei Liguori, per esempio, riproduce in un dialetto napoletano ricco di diminutivi e vezzeggiativi i toni a&ettuosi di una nenia popolare, allo scopo di «creare una complicità gioiosa tra i pastori adoran-ti e i fedeli, che rivivono con loro il miracolo della natività»; il successo più stabile e duraturo, tuttavia, arrise alle composizioni in italiano, come la famosa Tu scendi dalle stelle, che è diventata un classico del repertorio na-talizio popolare (Librandi, 2012a, p. 104). I dialetti locali, insomma, erano generalmente troppo compromessi con i registri letterari espressionistici e caricaturali, con un’oltranza espressiva che s+orava a volte la blasfemia e la bestemmia, con uno stile distante dal tono medio e pacato richiesto dalla versi+cazione religiosa (Gibellini, 2011, p. 21). È assai signi+cativo il fatto che uno dei maggiori poeti dialettali dell’Ottocento, il romano Giuseppe Gioachino Belli, abbia sconfessato nell’ultima parte della vita i sonetti in dialetto romanesco (sonetti che, peraltro, furono serbati dal suo colto ami-co e protettore, il vescovo di Terni Vincenzo Tizzani), quando abbandonò il dialetto e i temi satirici per dedicarsi esclusivamente alla poesia religiosa in lingua italiana (Orioli, 1965; Gibellini, Di Nino, 2009a).

È invece nei poeti del primo e del secondo Novecento che la poesia religiosa in dialetto attraversa la sua stagione più vitale. Se nei poeti nati a fine Ottocento il dialetto è ancora il codice privilegiato per esprimere concetti semplici, mediante l’equazione dialetto = lingua schietta degli umili, nei poeti attivi dagli anni Cinquanta del Novecento in poi il dia-letto, più che descrivere, cela o anche evoca sentimenti religiosi quasi mai confessionali né, ancor meno, istituzionali. Attraverso l’uso del dialetto di volta in volta i poeti manifestano adesione alla vita della gente comu-ne, o più spesso forzano le barriere della memoria individuale o, ancora, esprimono un so&erto itinerario interiore. Non è possibile dare conto del-le singole personalità di poeti che hanno a&rontato in modo episodico o sistematico temi religiosi nei più disparati dialetti della Penisola. Resta-no alcuni temi comuni, come la centralità di Cristo uomo e della Vergine Maria, una potente umanizzazione dei personaggi e delle vicende delle Sacre Scritture e specialmente dei Vangeli e, più generalmente, l’aderenza

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a un mondo piccolo e umile, spesso legato all’infanzia; sopra tutto ciò, l’assunzione dei dialetti locali manifesta l’esigenza di recuperare un codice poetico primigenio, potenziato con l’immissione di stilemi ermetici che piegano a inedite esigenze espressive lingue vive da sempre solo nell’ora-lità, al +ne di recuperare quella pienezza espressiva che l’italiano sembra aver perso di pari passo con l’avanzare della standardizzazione linguistica.

La distanza fra i poeti del primo e quelli del secondo Novecento, così come delineata a proposito della poesia dialettale novecentesca, è più o meno la distanza che separa il romano Trilussa (pseud. di Carlo Alber-to Salustri, 1871-1950), in un certo senso l’erede della tradizione “classica” che fa capo al Belli, dal poeta, pure romano, Mario Dell’Arco (1905-1996). Trilussa scrive in dialetto una poesia di denuncia morale contro le ipo-crisie del Vaticano e delle alte gerarchie ecclesiastiche o rivisita poetica-mente i testi sacri. Il romanesco di Dell’Arco, invece, coi suoi arcaismi e un’endemica polimor+a, è quanto mai distante dal versante schietto, ma plebeo +no al turpiloquio, della poesia tradizionale in vernacolo (D’Achil-le, 2006; Serianni, 2006). Profondo conoscitore e studioso della poesia in dialetto, Dell’Arco è il primo poeta che fonde le esperienze ermetiche e i risultati stilisticamente più so+sticati della poesia novecentesca in lingua italiana con un dialetto come il romanesco, tradizionalmente carente di un registro lirico e serio.

I dialetti del secondo Novecento sono reperti di un mondo arcaico e contadino, distanti dai dialetti letterari poggianti su una salda tradizio-ne scritta. Il tursitano di Albino Pierro, il dialetto di S. Stino di Livenza praticato da Romano Pascutto o il gradese di Biagio Marin sono lingue “vergini”, pregne ancora delle potenzialità dei codici linguistici situati al di qua della standardizzazione linguistica (Mengaldo, 2000a, pp. 3-14) e che, in quanto tali, costituiscono strumenti in+nitamente più duttili per ricreare un linguaggio adeguato alla sensibilità religiosa contemporanea e alla sua espressione poetica (per Pascutto, in particolare, rinvio all’edizio-ne di Daniele, 1990). Anche dialetti dotati di un’antica e salda tradizione letteraria scritta sono stati riformati, adattati e forzati, in modo da acqui-sire possibilità espressive inedite, come il veneziano di Giacomo Noventa, per il quale la fede in un Dio incarnato e storico acquista senso unicamen-te nell’«assunzione di responsabilità morale da parte del civis, senza na-scondimenti e compromessi» (Vercesi, 2009, pp. 66-8; la cit. è a p. 68). Attraverso il recupero di idiomi non ancora compromessi con il mondo contemporaneo, i poeti del Novecento che si sono interrogati su Dio, che

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hanno riscritto i Vangeli o rivisitato passi dell’Antico Testamento espri-mono il senso di una religione che è anche impegno sociale. Signi+cativa a questo proposito la produzione dei siciliani Ignazio Buttitta, Santo Calì, Alessio Di Giovanni (ivi, p. 77).

Nella poesia religiosa contemporanea è proseguita quell’opera di pro-gressiva sliricizzazione, di mescolanza di registri linguistici, di a&ranca-mento dalle marche poetiche tradizionali, di assottigliamento del con+-ne tra prosa e poesia in atto in tutta la lirica novecentesca. Un esempio è nella lingua poetica di Marco Beck, «che varia tra la scrittura narrativa o argomentativa, di taglio realistico o fantastico, di impostazione alta o colloquiale» (Bellio, 2009, p. 480). Non è possibile qui documentare il numero e la varietà delle esperienze contemporanee. Ricordo, fra le voci forse più originali, quelle di David Maria Turoldo e Mario Luzi che, con diverse tastiere liriche, hanno interpretato in modo originale e del tutto privo di sentimentalismi una tradizione antica e potentemente sedimenta-ta. Nella poesia di Luzi, in particolare, la sliricizzazione sintattica del det-tato poetico, comune a tanta poesia del secondo Novecento, è accentuata dagli enjambements («Ora falcia le reste grigie, il triste / velo a perdita d’occhio delle spighe»)30; ma il tasso di poeticità è incrementato grazie al recupero di strategie poetiche tradizionali, fatte implodere con un lessico tradizionalmente non lirico, o poco lirico: rime ricche («e tocca il mare, / volano creature pazze ad amare»), rime interne («ma ci potremo un gior-no librare / esilmente piegare sul seno divino»), rime grammaticali (inu-midita : annerita), assonanze («come rose dai muri nelle strade odorose : sul bimbo che le chiede senza voce»). Più in generale, la struttura stro+ca è sottolineata da rintocchi sonori e cadenze ritmiche e dissonanti che ma-terializzano la disarmonica tragicità della condizione umana31.

30. Né il tempo, in Tutte le poesie, Il giusto della vita (si cita da Giappi, 2009, p. 303).31. Nella poesia-manifesto Alla vita, dalla raccolta La barca (ivi, p. 302).