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Enrico Fenzi Petrarca, Dante, Ulisse Note per una interpretazione della Fam. XXI 15 a Giovanni Boccaccio Non avea le qualità della forza, la virtú dell’indignazione, la profondità dell’odio, la magnanimità del disprezzo, la santa ira di Dante, le buone e le caive qualità delle nature ener- giche. Gentile, temperato, elegante, facile a sdegnarsi ed a placarsi, inchinevole alla tenerezza, alla malinconia, natura impressionabile e delicata. Ebbe anche le caive qualità de’ caraeri deboli. L’orgoglio è la forza, la vanità è la debolezza. L’ambizione è la forza, la cupidigia è la debolezza. L’emula- zione è la forza, l’invidia è la debolezza. Il Petrarca fu vano, cupido, invidioso. Fu vano, si compiaceva delle lodi, e a pro- vocarle era il primo a lodare ; faceva la corte a’ principi, e i principi facevano la corte a lui ; gli amici lo incensavano, i popoli lo festeggiavano ; con un’aria di modestia si lagna spesso di tanti onori che lo perseguono fino nella sua solitu- dine, compiacendosi però di dirlo e di farlo sapere ; l’elogio era la via piú diria al suo cuore, e sapevanselo i principi, che per questa via mai non ricorrevano invano al Petrarca : serviva d’istrumento, e non se ne avvedeva, e credeva di regolare lui il mondo. Fu cupido di denaro e di onori, difeo di cui s’ac- cusa e si scusa ne’ suoi colloqui con santo Agostino. Salito al pontificato Urbano V, si lamenta con Bruni suo amico di non aver niente ancora ricevuto da lui. E fu satisfao : piovvero su di lui canonicati, priorati, ambascerie ; confidente di prin- cipi, beniamino di popoli. Fu invidioso. Ebbe la rara felicità di non avere eguali durante la vita, di essere superiore all’in- vidia, e di poter fare il proteore degli uomini di leere con la stessa ostentazione con la quale i principi proteggevano lui. Ma l’ombra di Dante si drizzava innanzi alla sua immagi- 197
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Petrarca Dante Ulisse

Jan 28, 2023

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Enrico Fenzi

Petrarca, Dante, UlisseNote per una interpretazione della Fam. XXI 15

a Giovanni Boccaccio

Non avea le qualità della forza, la virtú dell’indignazione, la profondità dell’odio, la magnanimità del disprezzo, la santa ira di Dante, le buone e le cattive qualità delle nature ener-giche. Gentile, temperato, elegante, facile a sdegnarsi ed a placarsi, inchinevole alla tenerezza, alla malinconia, natura impressionabile e delicata. Ebbe anche le cattive qualità de’ caratteri deboli. L’orgoglio è la forza, la vanità è la debolezza. L’ambizione è la forza, la cupidigia è la debolezza. L’emula-zione è la forza, l’invidia è la debolezza. Il Petrarca fu vano, cupido, invidioso. Fu vano, si compiaceva delle lodi, e a pro-vocarle era il primo a lodare ; faceva la corte a’ principi, e i principi facevano la corte a lui ; gli amici lo incensavano, i popoli lo festeggiavano ; con un’aria di modestia si lagna spesso di tanti onori che lo perseguono fino nella sua solitu-dine, compiacendosi però di dirlo e di farlo sapere ; l’elogio era la via piú diritta al suo cuore, e sapevanselo i principi, che per questa via mai non ricorrevano invano al Petrarca : serviva d’istrumento, e non se ne avvedeva, e credeva di regolare lui il mondo. Fu cupido di denaro e di onori, difetto di cui s’ac-cusa e si scusa ne’ suoi colloqui con santo Agostino. Salito al pontificato Urbano V, si lamenta con Bruni suo amico di non aver niente ancora ricevuto da lui. E fu satisfatto : piovvero su di lui canonicati, priorati, ambascerie ; confidente di prin-cipi, beniamino di popoli. Fu invidioso. Ebbe la rara felicità di non avere eguali durante la vita, di essere superiore all’in-vidia, e di poter fare il protettore degli uomini di lettere con la stessa ostentazione con la quale i principi proteggevano lui. Ma l’ombra di Dante si drizzava innanzi alla sua immagi-

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nazione, come uno spettro nero. Assicura di non averlo mai letto ; e, quando il Boccaccio lo prega di voler pur dire alcuna parola in favore di Dante, e rimuovere da sé il sospetto di portargli invidia, egli vi si rifiuta, protestando di non poter essere tacciato d’invidia verso di un uomo, il quale non tro-vava ammiratori che presso il volgo. Che amarezza ! e come scoppia d’invidia, nel punto stesso che vuol nasconderla !

Sono, queste, le inconfondibili parole di De Sanctis, nel suo Saggio critico sul Petrarca¹, che hanno avuto assai piú duraturo successo di tante altre nel definire l’immagine dell’uomo Petrarca, quale risulta da un cosí impie-toso confronto con Dante². Non penso infatti si possa sbagliare dicendo che proprio esse abbiano dato origine alla « vulgata » responsabile per tanta parte di quella certa aria di antipatia che la figura di Petrarca ancora trascina con sé. Non è tuttavia di questo che voglio parlare (tra l’altro, sarebbe allora da andare indietro, sino agli Essays di Foscolo), ma solo prendere di qui l’avvio per osservare che un ingrediente per nulla secon-dario di un simile ritratto finisce inevitabilmente per essere l’altrettanto famosa lettera di Petrarca a Boccaccio, Fam. XXI 15, che senza dubbio ha molto contribuito a sollevare varie perplessità sulla labirintica e talvolta sconcertante personalità del suo autore. Sulla lettera, si sa, è stato scritto molto, ora con toni di forte critica, come appunto ha fatto De Sanctis ; ora con l’aperto scopo di « difendere » Petrarca, come ha fatto Giovanni Melodia ; ora con la volontà di arrivare a un’interpretazione equilibrata e accettabile di un testo in ogni caso importante, come ha fatto il Carducci,

1. Francesco De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca [1869], a cura di N. Gallo con introdu-zione di Natalino Sapegno, Torino, Einaudi, 1964, p. 39 sq.2. La citazione è lunga, ma non esaurisce il lungo confronto diretto che si dovrebbe rileggere tutto intero, o almeno sino alla bella mossa : « Disdegnoso e vendicativo, volle dei nemici, e li ebbe degni di sé, grandi e implacabili ; ma il Petrarca aveva un po’ il desiderio femminile di piacere a tutti, e piacque a tutti. E, se volete veder la differenza che corre tra questi due uomini, guardateli in faccia. Quel viso bruno e asciutto, con quelle guance inca-vate, con quella fronte scura, con quegli occhi infossati e divorati da un fuoco interiore, è Dante. E quella faccia bianca da canonico, quelle guance pienotte, con quella fronte serena, con quegli occhi dolcemente pensosi, è Petrarca » (ibid., p. 41). Cita ancora queste parole Vinicio Pacca (Petrarca, Bari, Laterza, 1998, p. 185) aggiungendo che si tratta di una querelle ormai superata — il che io non credo. Del resto, essa si riapre súbito dopo, seppur in altra forma, quando il medesimo studioso scrive che, a parte le indubbie differenze caratteriali, era in gioco tra i due un insanabile contrasto tra diverse concezioni della letteratura e con-clude : « Forse Petrarca ammirava Dante e riconosceva d’istinto la sua grandezza, ma certo non era in grado di comprenderlo né di amarlo ».

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e dopo di lui lo Zingarelli³. Molto ma evidentemente mai abbastanza, com’è destino di certi specialissimi nodi della nostra storia culturale, se è vero che in tempi piú recenti, dopo la messa a punto di Michele Feo, si sono aggiunti gli importanti contributi di Carlo Paolazzi, di Gennaro Sasso e, recentissimo, quello di Emilio Pasquini⁴. E non basta, ché alcune altre cose possono essere ulteriormente precisate, per andare piú a fondo nella comprensione di questa lettera che sfida e probabilmente continuerà a sfidare la piena comprensione dei lettori, imbarazzati dalle sue calcolate ambiguità e reticenze e infine vere e proprie bugie.

3. Di Foscolo si vedano i suoi Essays on Petrarch (1820-1821), ora in Opere : Edizione nazio-nale, X : Saggi e discorsi critici, Edizione critica a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1953, p. 3-210 (e p. 213-297 per la traduzione di Camillo Ugoni). Nel t. II delle Opere, a cura di F. Gavazzeni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1981, p. 1753-1807, sono riprodotti testo e tra-duzione del quarto degli Essays, il Parallel between Dante and Petrarch. Giovanni Melodia, Difesa del Petrarca (1896), Firenze, Le Monnier, 1902 ; Giosuè Carducci, Della varia fortuna di Dante (1867), in Opere : Edizione nazionale, Bologna, Zanichelli, 1936, X, p. 253-420, in partico-lare p. 370-408 ; Le rime di Francesco Petrarca, con saggio introduttivo e commento di Nicola Zingarelli, Bologna, Zanichelli, 1963 [edizione postuma, sul ms. lasciato dallo Zingarelli alla sua morte, nel 1935], in part. il cap. XXIX dell’« Introduzione » : « L’invidia per Dante », p. 224-241. A inquadrare la sostanziale « difesa » di Petrarca ch’è in Carducci, occorre ricor-dare come a partire dagli anni ‘60 egli appaia sempre piú orientato ad esaltarlo anche a parziale danno di Dante. Si legga al proposito quanto scriveva al Pelosini nel maggio del 1962 : « All’Università do ad intendere […] chi era il Petrarca, e perché scriveva cosí, e come qualmente e’ non fosse un canonico che faceva all’amore […] ma sí veramente fosse un gran pensatore e un gran cittadino, superiore a Dante pel concetto politico, il solo degli italiani che imponesse al suo secolo la venerazione per l’arte e l’ingegno, il solo avanti la Francia del sec. XVIII che della letteratura si servisse come istrumento di civiltà su tutta l’Europa » (Lettere : Edizione nazionale, III, p. 150 sq. ; ricavo la citazione da Stefania Martini, Dante e Petrarca : Mutamento di primati all’inizio degli anni sessanta, cap. V del volume Dante e la Com-media nell’opera di Carducci giovane (1846-1865), Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1999, p. 245-287 [p. 273], al quale rimando).4. Michele Feo, « Petrarca », in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia ita-liana, IV, 1973, p. 450-458 [p. 451 sq.] ; Carlo Paolazzi, « Petrarca, Boccaccio e il Trattatello in laude di Dante », in Studi danteschi, LV, 1983, p. 165-249 ; Gennaro Sasso, « A proposito di Inferno XXVI 94-98 : Variazioni biografiche per l’interpretazione », in La Cultura, III, 2002, p. 377-396 ; Emilio Pasquini, « Dantismo petrarchesco : Ancora su Fam. XXI 15 e dintorni », in Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca, Gargnano del Garda (2-5 ottobre 2002), a cura di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2003, p. 21-38. Bastino per ora questi essenziali rin-vii entro una bibliografia amplissima, come si è accennato, anche perché una piú o meno veloce considerazione della lettera fa parte, in genere, degli studi che considerano gli echi danteschi entro l’opera di Petrarca (si vedano per esempio le brevi ma dense osservazioni di Paolo Trovato, Dante in Petrarca : Per un inventario dei dantismi nei Rerum vulgarium frag-menta, Firenze, Olschki, 1979, p. 18 sq., e di Marco Santagata, Per moderne carte : La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1990, p. 26-28).

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Ma ecco ancora una volta, prima di proseguire, i dati di fatto : tra il 1351 e il 1353 Boccaccio manda a Petrarca un’esemplare della Commedia, che entra dunque ufficialmente a far parte della sua biblioteca. Il codice, l’attuale Vat. 3199, si apriva, sul verso del foglio di guardia iniziale, con un carme dello stesso Boccaccio, Ytalie iam certus honos, che invitava l’amico, con qual-che cautela, a pronunciarsi su tanto capolavoro. Ma Petrarca tace, sí che Boccaccio, durante e dopo il periodo trascorso con lui a Milano, nel marzo del 1359, torna a sollecitarlo mandandogli il carme in una veste lievemente ritoccata e il Trattatello in laude di Dante, nella sua prima versione, insieme a una lettera ch’è andata perduta : a questo punto Petrarca risponde, nell’es-tate, con la Fam. XXI 15, che ancora nel 1367 Boccaccio dichiara di non aver mai ricevuta : in modo tale, però, da lasciar aperta la piú che ragionevole possibilità ch’egli avesse avuto in ogni caso modo di leggerla⁵.

Le lettera di Petrarca, ripeto, ha suscitato vari imbarazzi, e debbo pre-mettere, per onestà, che li suscita anche a me, che non riesco a passare sopra a tanta arroganza e improntitudine petrarchesca. Di piú, immagino il povero Boccaccio costretto a non vedere, prima, quanti e quali materiali Petrarca avesse estratto dalla miniera dantesca (non basterebbero, da sole, le ses-tine ?), e ad accontentarsi poi delle concessioni, tanto piú altezzose quanto piú larghe, dell’amico-padrone. Quegli imbarazzi tuttavia si ridurrebbero di molto se solo fosse colmata la piú sbandierata e probabilmente la piú criticata delle sue reticenze, quella che ci nega il nome di Dante, l’Innomi-nato designato dalla continua declinazione del pronome ille, e da una serie di perifrasi : « conterranei nostri » (§ 1) ; « ille dux et prima fax » (§ 2) ; « inge-nii tui facem » (§ 3) ; « laudatum vatem » (§ 4) ; « viri illius » (§ 6) ; « hominem michi semel monstratum » (§ 7) ; « in hoc nostro » (§ 15) ; « huius de quo loqui-

5. Per la data della lettera di Petrarca, sollecitata dai nuovi invii di Boccaccio, si veda Giuseppe Billanovich, Petrarca letterato, I : Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edd. di Storia e Letteratura, 1947 [= ibid., 1995, con indici a cura di P. Garbini], p. 234, n. 1, e p. 269 sq. Il carme del Boccaccio in Carmina, a cura di G. Velli, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, Milano, Mon-dadori, 1992, V/1, p. 430-433 (e, per le note, p. 476-480 ; ma si veda anche l’importante « Introdu-zione » di Velli, in particolare p. 386-391). Boccaccio scrive a Petrarca di non aver mai ricevuto la sua lettera su Dante e varie altre il 1º luglio 1367, nell’Epist. XV : Ut te viderem, § 19, in Epistole, a cura di G. Auzzas, in Tutte le opere di G. Boccaccio, V/1, op. cit., p. 634-641 [p. 640 : ma ch’egli ne conoscesse il testo (letto forse a Venezia nel 1363, quando fu per tre mesi ospite di Petrarca ?) è piú che convincente tesi di C. Paolazzi, « Petrarca, Boccaccio… », op. cit., [p. 232 sq.]. Questo lungo saggio è in gran parte dedicato a documentare come la lettera di Petrarca costituisca una risposta sostanzialmente positiva al Trattatello, letto nella sua prima redazione, e come Boccaccio l’abbia poi utilizzata per correggerlo nelle due successive versioni.

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mur » (§ 17). La rimozione del nome⁶ costituisce in effetti la prima difficoltà che la lettera ci provoca, sia per sé, sia perché il ripetuto meccanismo di una perifrasi che rimuove e però insieme rimanda in maniera univoca e costante al proprio oggetto crea una sorta di tensione innaturale, e artificio-samente immerge l’intero testo in una atmosfera di inutile mistero. Di piú, l’incerta natura di questa trasparente convenzione allusiva è aggravata da almeno due circostanze. La prima è costituita dalla spiegazione che Petrarca medesimo dà della rimozione del nome : di lui non faccio intenzionalmente (scienter) il nome, « ne illud infamari clamitans cunta audiens nichil intelligens vulgus obstreperet » (§ 19), che a tutta prima si lascia intendere solo come ammissione che il testo, a una superficiale e « volgare » lettura, possa effet-tivamente parere malintenzionato verso Dante. La seconda sta nel fatto che non riusciamo a dimenticare che la censura del nome, in Petrarca, è segno pressoché costante di aggressione o quanto meno di intenzione polemica, come egli stesso si premura di spiegare in piú occasioni : nella pagina di congedo del Contra medicum, per esempio, egli chiarisce bene che s’inganna il vecchio medico, se spera di veder fatto il suo nome e dunque di diventare famoso litigando con lui ; nella Sen. V 2, di nuovo, tace il nome di alcuni avversari per non attribuire loro una fama che non hanno e che non meri-tano ; nella Sen. XV 14, ancora contro un famoso medico, scrive : « Et de hoc quidem hactenus, cuius sciens nomen occului : soleo enim eorum contra quos loquar nominibus abstinere, ne vel fame vel infamie illis sim », etc⁷. Il caso nostro appare

6. Sulla quale ben insiste E. Pasquini, « Dantismo petrarchesco… », op. cit., p. 35 sq., rile-vando che « perfino la Commedia è innominata e innominabile ». Al proposito, Foscolo scrive nel citato Parallel, ed. Foligno, op. cit., p. 111 : « This letter lengthened out by contra-dictions, ambiguities, and indirect apologies, points out the individual by circumlocutions, as if the name was withheld through caution or through awe ».7. Invective contra medicum, IV, in Opere latine, a cura di A. Bufano, con la collaborazione di Basile Aracri e Clara Kraus Reggiani, introduzione di Manlio Pastore Stocchi, Torino, UTET, 1975, vol. II, p. 978-980. Le due Seniles rispettivamente in F.P., Opera quæ extant omnia, Basileæ, excudebat Henrichus Petri, 1554 [= Ridgewood (N.J.), The Gregg Press Inc., 1965], p. 880 e p. 1043. Ma quelli che ho fatto non sono che alcuni esempi di una pratica conclamata piú volte sin dai titoli : Invectiva contra quemdam magni status hominem, Contra eum qui male-dixit Italie, Ad convitiatorem quemdam innominatum e Ad invidum rursus innominatum (Epyst., II 10 e 17, in Poesie minori del Petrarca […], [a cura di] D. Rossetti, Milano, Società Tip. de’ Classici Italiani, 1831, vol. II, p. 214-240 e p. 242-246). Si veda anche il caso dei quattro aris-totelici presi di mira nel De ignorantia, ove la rimozione del nome ha una ragione piú sottile e per qualche verso forse piú vicina al nostro caso :  : « quorum nominibus nec tu eges, gnarus omnium, nec in amicos quamvis unum aliquid non amice agentes nominatim dici lex inviolabilis sinit amicitie » (ed. a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1999, § 11, e n. 28, p. 331 sq.).

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diverso, è vero, ma pure è contaminato da una siffatta ampia casistica. Con le parole di Feo, « In tutta l’epistola il nome di D. non è fatto mai ; solo una volta è chiamato poeta, nessuna sua opera è direttamente menzionata : questi particolari sono stati meticolosamente curati e non sono facilmente concilia-bili con le proteste di ammirazione e di amore per Dante »⁸.

Né le cose cambiano quando si ricordi che altrove egli nomina Dante senza particolari problemi. Lo fa — com’è ben noto — tre volte. Nelle Res memorande, per cominciare, II 83, ove Petrarca racconta due aneddoti che ne confermano il carattere spigoloso e mordace ; poi in RVF CCLXXXVII 9-10, il sonetto scritto nel 1349 per la morte di Sennuccio : « Ma ben ti prego che ’n la terza spera/ Guitton saluti, et messer Cino, et Dante » ; e infine nel Tr. Cupidinis IV 30 sq. : « ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,/ ecco Cin da Pistoia, Guitton d’Arezzo/ […] ». Ma s’aggiunga che nel « codice degli abbozzi », il Vat. Lat. 3196, in Tr. Cupidinis III 99 a tutta prima si leggeva : « ecco qui Dante co la sua Beatrice », invece del definitivo : « ché tutti siam macchiati d’una pece », ove la primitiva lezione è importante perché a mio parere potrebbe conservare la traccia di un progetto presto abbandonato che prevedeva l’incontro entro il corteo del dio d’Amore di tre coppie : Cino e Selvaggia, Dante e Beatrice, Petrarca e Laura⁹. Ma sia come sia : perché dunque ne tace il nome proprio nella lettera che lo riguarda — la nostra

8. M. Feo, « Petrarca », op. cit., p. 452.9. Il testo dell’abbozzo Vaticano in F.P., Il codice degli abbozzi : Edizione e storia del manoscritto Vaticano latino 3196, a cura di L. Paolino, Milano-Napoli, Ricciardi, 2000, p. 275-279 — ma anche, con ampio commento, in Angelo Romanò, Il codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma, Bardi, 1955, p. 250-272. La questione delle tre coppie meriterebbe un discorso a sé, che cercherò di fare altrove : M. Feo, « Petrarca », op. cit., p. 450, immagina piú semplicemente che la correzione volesse eliminare il doppione con Tr. Cupidinis IV 31, mentre Marco Ariani, nel suo commento (F.P., Triumphi, a cura di M.A., Milano, Mursia, 1988, p. 149) sospetta « un diverso progetto narrativo rimasto senza seguito […]. P. voleva inserire una presenza, o simbolica o diegetica, che in un secondo momento gli è risultata ingombrante o imbarazzante ». Tutto sommato vicino ad Ariani appare anche Dennis Duts-chke, « Triumphus Cupidinis III », in Lectura Petrarce, XII, 1992, p. 257-298 [p. 286]. Va poi aggiunto che Giuseppe Billanovich (« Tra Dante e Petrarca », in Italia medioevale e umanistica, VIII, 1965, p. 1-44) ha scoperto una solitaria traccia di Dante entro le postille petrarchesche al De chorographia di Pomponio Mela : là dove (I 13 76) il geografo parla di uno speco nominato Tifone, situato in Cilicia, Petrarca scrive : « Nota contra Dantem », avendo in mente la col-locazione di Tifeo in Sicilia, in Par. VIII 67-70. La postilla non è autografa, ma trascritta nel codice Ambrosiano H 14 inf., al fº 8vº, apografo fedele di una raccolta postillata da Petrarca. Per questo e per altri particolari che non è qui il caso di ripetere, si veda anche la messa a punto di Luca Carlo Rossi, « Petrarca dantista involontario », in Studi petrarcheschi, n.s., V, 1988, p. 301-316, in particolare nella prima parte.

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Familiare ? E perché ricorre di nuovo a una perifrasi, per altro perfettamente elogiativa, chiamando Dante, nella Sen. V 2 15 al Boccaccio, del 1365-1366 : « ille nostri eloquii dux vulgaris », chiaro prolungamento di quanto già aveva scritto nella Familiare, § 13 : « ut facile sibi vulgaris eloquentie palman dem »¹⁰ ? Sono due le osservazioni, piú che le risposte, che sembra di poter fare súbito. La prima, che Petrarca non ha problemi a nominare Dante come personag-gio, si tratti del titolare di una serie di aneddoti sul suo cattivo carattere o si tratti del lirico innamorato di Beatrice ; ne ha, invece, quando affronta il problema della sua complessiva grandezza e scende sul terreno del giudi-zio. La seconda, che in qualche modo è un aspetto della prima : Petrarca è disposto a restituire il nome al Dante lirico d’amore, ma non lo è altret-tanto quando è di Dante tutto intero, e dunque soprattutto del Dante della Commedia, che deve parlare. Sono osservazioni, come ho detto, che da sole non valgono molto, per quanto paiano implicare un principio di limita-zione che non sapremmo tuttavia collocare in un contesto adeguato. Per-ciò, preso atto che la rimozione del nome si è immediatamente presentata come un elemento perturbante e contraddittorio agli occhi di ogni lettore, cerchiamo di prendere la diversa via di una considerazione della lettera nel suo insieme, e in particolare di aggiungere qualcosa di nuovo e, si spera, di utile alle molte cose che già sono state dette.

Sin qui, a quanto ne so, non è stato dato rilievo al fatto che il giudizio (il mancato, il reticente giudizio…) che Petrarca dà di Dante poggia le sue fondamenta nell’altro, anch’esso famoso, che Quintiliano dà di Seneca, in Inst. orat. X 1 125-131¹¹. Né la cosa è dissimulata : al contrario, Petrarca la dichiara a tutte lettere introducendo il suo discorso proprio con le parole

10. Della Senile V 2 abbiamo l’edizione critica a cura di M. Berté, Firenze, Le Lettere, 1998 (qui, § 30, r. 121, per le parole citate), ma ora la si può leggere anche in Pétrarque, Lettres de la vieillesse/Rerum senilium, édition critique d’Elvira Nota, traduction de Frédérique Castelli et alii, présentation, notices et notes de Ugo Dotti mises en français par Frank La Brasca, Paris, Les Belles Lettres, 2003, t. II : Livres IV-VII/Libri IV-VII, p. 126-147.11. Il passo di Quintiliano è ricordato anche in Sen. XVI 1, a Luca della Penna (Opera…, ed. cit., p. 1048), dopo averne citato un giudizio su Cicerone : « hoc in eo libro dicit in quo de eloquentia deque oratoribus agens libero iuditio, summi viri Annei Senecæ, tunc placentem omnibus, stylum damnat ». Anche le postille apposte da Petrarca sul suo codice delle Institutiones, il Par. Lat. 7720, mostrano che il passo ha fermato la sua attenzione : cfr. Maria Accame Lanzillotta, « Le postille del Petrarca a Quintiliano (Cod. Parigino Lat. 7720) », in Quaderni petrarcheschi, V, 1988, p. 90 sq., n. 760-776. Ma si veda anche Fam. XXIV 7 e De ignorantia 215, ed. cit., p. 312, e n. 662, p. 532 sq. ; nonché il saggio molto bello di Carla Maria Monti, « Seneca preceptor morum incomparabilis ? La posizione di Petrarca (Fam. XXIV 5) », in Motivi e forme delle Familiari…, op. cit., p. 189-228 [p. 195 sq.].

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di Quintiliano : « […] libet insistere, ut non tantum falso, sicut de se ipso et Seneca Quintilianus ait, sed insidiose etiam penitusque malivole apud multos de me vulgatam opinionem de iudicio viri illius apud te unum et per te apud alios expurgem » (Fam., XXI 15 6), che sono evidente calco di Inst. orat. X 1 125 : « Ex industria Senecam in omni genere eloquentiæ distuli propter vulgatam falso de me opinionem, qua damnare eum et invisum quoque habere sum creditus ». Ed è di nuovo evidente, in modo particolare, in quella frase-chiave ove si concede che l’ingegno di Dante gli avrebbe consentito di fare qualsiasi cosa, ma che quello che ha fatto è però sotto gli occhi di tutti : « Nam quod inter laudes dixisti, potuisse illum si voluisset alio stilo uti, credo edepol — magna enim michi de ingenio eius opinio est — potuisse eum omnia quibus intendisset ; nunc quibus intenderit, palam est » (Fam., XXI 15 22). La sfumatura negativa implicita in simile giudizio, infatti, è chiaramente espressa, senza reticenze, in Quintiliano, che cosí conclude il passo dedicato a Seneca : « digna enim fuit illa natura, quæ meliora vellet : quod voluit effecit » (Inst. orat., X 1 131). È vero che, nel considerare la corrispondenza tra i due giudizi, occorre tener conto della sottile ambiguità di cui è colorato l’altro stile cui Petrarca allude. Quale avrebbe dovuto essere tale stile è immediatamente definibile per opposizione a quello popolare che Dante ha preferito (§ 1 : « popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem hauddubie nobilis poete »), e che pure si concede sia « in suo genere optimus » (§ 9) : si tratterà dunque, a norma di Fam. XIII 5 16, e di Sen. II 1 80-81, dello stile medium, se non proprio del grandiloquum, contrapposto all’humile o populare, e in tale direzione staranno appunto i « meliora » che Dante non ha voluto. Ma la questione dello stile, per quanto ne vada tenuta distinta, è indubbiamente implicata nell’altra relativa alla scelta del volgare (con le parole del carme del Boc-caccio, il sermo patrius e il metrum vulgare modernum), sí che livello stilistico e sermo si sommano nel definire un limite che finisce per avere una por-tata assoluta, quella che Petrarca esprime benissimo quando afferma che, stante la palese inferiorità delle opere latine rispetto alle volgari, Dante non fu « pari a se stesso » (Fam., XXI 15 24 : « fuisse illum sibi imparem »), e quando da ciò deriva la conseguenza perfettamente simmetrica dell’in-feriorità del tipo di successo che Dante s’è meritato, di nuovo con ripresa delle linee di fondo del giudizio di Quintiliano, per il quale la « moda » di Seneca, specie tra i giovani, è l’esatta controprova dei suoi difetti.

Sullo stile e sul sermo dovrò tornare poco avanti : ora, mi preme conclu-dere che l’aggancio a Quintiliano non è qualcosa di limitato e occasio-nale, ma investe l’intera struttura del discorso critico, finendo addirit-

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tura per suggerire che il non-detto di Petrarca debba essere completato e illuminato mediante il ritorno alla fonte. Uguale è il punto di partenza : « debbo parlare per smentire un’opinione errata e calunniosa, secondo la quale sarei vittima di un pregiudizio personale », e uguale è il punto di arrivo : « nessun pregiudizio, dunque, perché in effetti le cose sono quelle che sono, sotto gli occhi di tutti […] ». Un punto d’arrivo, insomma, ch’è riuscito a confermare il pregiudizio trasformandolo in giudizio. E che impone qualche revisione al tradizionale approccio secondo il quale, in nome della sua supposta « fioca potenza speculativa », Petrarca sarebbe stato sempre e comunque sulla difensiva, in difficoltà se non propriamente in soggezione rispetto al grande predecessore. La solidità strutturale del rapporto con i giudizi di Quintiliano, di là dall’indubbia intelligenza della manovra, potrebbe persino far sospettare il contrario : un Petrarca non già sulla difensiva, ma dotato di sufficiente lucidità da passare all’offensiva, positivamente, motivatamente critico rispetto a Dante, e semmai da altre ragioni impedito ad esprimersi in termini piú radicali¹². Ma si osservi in ogni caso la sottigliezza e la pregnanza di quel « non fu pari a se stesso » ch’è forse il nucleo decisivo del modello critico offerto da Quintiliano : un nucleo che permette di criticare mentre si elogia, e di elogiare mentre si critica, impostando un rapporto infinitamente ambiguo e ricco di sfu-mature tra le qualità della persona e quelle dell’auctor, secondo un gioco assai fine, e che però non può non approdare alla necessaria e fattuale autonomia dell’opera (« nunc quibus intenderit, palam est ») come già, nel modello antico (« quod voluit effecit ») e all’altrettanto necessaria e fattuale autonomia di chi giudica l’opera, appunto, per quello che essa è.

A ben vedere, questo ripetuto movimento dalla persona all’opera anima con un fitto gioco di specchi la nostra lettera, e ne definisce l’arcatura princi-pale, che comprende l’iniziale lasciapassare nei confronti dell’atteggiamento devoto di Boccaccio, autorizzato a proseguire nell’esaltazione della sua « guida e lume » che già ha preso corpo nella prima stesura del Trattatello, oltre che nel carme Ytalie iam certus honos ; che prosegue con la protesta di

12. Mi sembra che quanto vado dicendo suoni come una conferma di quanto Marco San-tagata (« Introduzione » a F.P., Canzoniere, Edizione commentata a cura di M.S., Milano, Mondadori, 1996, p. LXVI) ha scritto, quando osserva che a partire dai primi anni cinquanta « con l’ideazione del Canzoniere e dei Triumphi, Petrarca abbandona in effetti l’atteggia-mento difensivo che sembrava aver tenuto sino ad allora nei confronti dell’illustre concit-tadino e si mette, per cosí dire, in atto di sfida. Si sente pronto a gareggiare con Dante sul terreno in cui egli è dux ».

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Petrarca circa il suo atteggiamento scevro da ogni traccia d’invidia, e arriva infine alla rievocazione, assolutamente centrale nell’economia della lettera, della persona di Dante, prima nei rapporti che ha avuto con il compagno d’esilio ser Petracco, padre di lui, Petrarca, e poi a quelle che sono le costanti fondamentali, etiche e psicologiche, del suo animo, dal quale discendono i suoi comportamenti. Impossibile sottovalutare il passo (§ 7-8) :

In primis quidem odii causa prorsus nulla est erga hominem nunquam michi nisi semel, idque prima pueritie mee parte, monstratum. Cum avo patreque meo vixit, avo minor, patre autem natu maior, cum quo simul uno die atque uno civili turbine patriis finibus pulsus fuit. Quo tempore inter parti-cipes erumnarum magne sepe contrahuntur amicitie, idque vel maxime inter illos accidit, ut quibus esset preter similem fortunam, studiorum et ingenii multa similitudo, nisi quod exilio, cui pater in alias curas versus et familie solicitus ces-sit, ille obstitit, et tum vehementius cepto incubuit, omnium negligens soliusque fame cupidus. In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret […],

che richiede una sosta, magari non lunga quanto si vorrebbe, per metterne a fuoco le interne tensioni e i valori. Súbito, la prima frase ha tono e intenzione fortemente limitativi : « non ho motivi d’odio con uno che ho visto una volta sola, e per di più nella mia prima infanzia ». Poi, con uno di quei passaggi sottilmente e volutamente contraddittori che caratterizzano tutta la lettera, Petrarca recupera quanto ha appena negato, e rivendica la grande amicizia che ha stretto Dante a suo nonno, ser Parenzo, e a suo padre, ser Petracco, cementata dal comune destino dell’esilio¹³. Lo scopo è chiaro. Egli vuole cose diverse : tenersi le mani libere e garantirsi indipendenza e autonomia di

13. Nel passo citato, Petrarca parla dell’incontro con Dante, avvenuto probabilmente a Pisa (secondo Foresti a Genova) o nel luglio 1311, mentre la famiglia era sulla via dell’esilio avi-gnonese, oppure nel marzo-aprile dell’anno seguente. Cfr. Arnaldo Foresti, « Peregrinazioni di Francesco Petrarca fanciullo : ove gli fu fatto conoscere Dante », in Id., Aneddoti della vita di Francesco Petrarca (1928), Nuova edizione corretta e ampliata dall’autore, a cura di A. Tissoni Benvenuti, con una premessa di Giuseppe Billanovich, Padova, Antenore, 1977, p. 1-7 (ma si veda pure, ibid., il capitolo successivo : « L’età di Dante e di ser Petracco », p. 8-12) ; Giorgio Petrocchi, Vita di Dante (1983), Bari, Laterza, 1986, p. 152 ; Paolo Viti, « Ser Petracco, padre del Petrarca, notaio dell’età di Dante », in Studi petrarcheschi, II, 1985, p. 1-14.

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giudizio, e insieme stabilire un legame privilegiato con Dante — una sorta di appartenenza comune — ben piú profondo di quello che potrà mai avere il volgo che tanto lo ammira. E infatti, in questo senso la rivendicazione di quel legame corrisponde perfettamente, sul piano biografico, all’altra suc-cessiva affermazione, relativa al fatto che egli, Petrarca, è il solo che davvero capisca la grandezza di Dante, che tanti altri esaltano senza comprenderne affatto le qualità. Le vie dei vecchi amici si sono però presto divaricate pro-prio dinanzi al discrimine costituito dall’esilio : ser Petracco all’esilio si è adattato, dedicandosi al lavoro e alla famiglia, mentre Dante non gli ha mai ceduto, non si è piegato, ed ha continuato con ostinazione, sino all’ultimo, la sua battaglia. Il primo « exilio […] cessit, ille obstitit » : e nell’immediata frizione dei verbi pare proprio di cogliere almeno un’eco dell’ideale autori-tratto dantesco di Par. XVII 23-24 : « avvegna ch’io mi senta/ ben tetragono ai colpi di ventura ». In tutto ciò, direi che si possa súbito escludere l’ipotesi che pure in passato è stata fatta, che Petrarca in nome della saggia scelta del padre condanni quella dura e radicale di Dante. Semmai, a stare al testo, tra Petracco e Dante è quest’ultimo che viene esaltato, mentre un sottile filo di rimpianto — non di rimprovero — investe l’altro, come assicura la Sen. XVI 1 a Luca della Penna, là dove Petrarca rievoca la sua giovanile pas-sione per Cicerone, e insieme quella del padre, « qui auctoris illius venerator ingens fuit, facile in altum evasurus nisi occupatio rei familiaris nobile distraxis-set ingenium, et virum patria pulsum onustumque familia curis aliis intendere coegisset »¹⁴. Dante invece è andato per tutt’altra via : non ha voluto che la ferita dell’esilio si chiudesse, e dunque l’ha tenuta aperta e ne ha fatto la sua bandiera, ed è rimasto, in questo caso, « pari a se stesso », all’altezza del suo impegno e delle sue ambizioni. E in ciò, dice Petrarca, « illum satis mirari et laudare vix valeam », e non vedo come, sul punto, non gli si possa credere, anche alla luce di quel che segue : « quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret ».

Petrarca abbozza qui un profilo di Dante che chiaramente deriva da quello del Trattatello boccaccesco : « Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de’ publici ofici, né il miserabile esilio, né la intollerabile povertà giammai

14. Opera…, ed. cit., p. 1046. Rimanda opportunamente a questo testo, entro un discorso in gran parte ancora condivisibile e sempre utile, N. Zingarelli, « Introduzione » a Le rime di Francesco Petrarca, op. cit., p. 229 sq.

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con le lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da’ sacri studi » (I red., § 82 ; vedi anche II red., § 60), ma che pure rinvia diret-tamente a Dante stesso, o meglio, come ognuno vede, alla sua piú discussa e controversa creatura, Ulisse :

né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‘l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer poter dentro da me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore [Inf., XXVI 94 sq.],

come giustamente prima Bosco e poi Feo hanno osservato¹⁵. Con straordina-rio colpo di genio, dunque, proprio qui, nella discussa e criticatissima lettera che finalmente mal si concede a parlare di Dante, Petrarca coglie al volo lo spunto che Boccaccio gli offre e ne delinea un ritratto che anticipa quanto poi confermeranno tanti moderni lettori, tutti convinti, con le parole di Fubini, che « Ulisse è, come tutti sanno, anche un ritratto del poeta, una di quelle figure nelle quali Dante si è compiaciuto di riconoscere se medesimo e che hanno perciò tra gli altri personaggi della Commedia un singolare rilievo »¹⁶.

15. Cfr. Umberto Bosco, « Né dolcezza di figlio… », in Id., Dante vicino, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1966, p. 173-185 ; Michele Feo, « Un Ulisse in Terrasanta », in Rivista di Cultura classica e medioevale, XIX, 1977 : Miscellanea di studi in memoria di Marino Barchiesi, p. 383-388 [p. 386 : « Il recupero allusivo entro il proprio discorso di affermazioni dell’interlocutore è eleganza tipicamente petrarchesca, e, non fosse altro che per questa ragione, non si può escludere nella familiare l’omaggio della citazione del Trattatello. Ma la pietas e l’amor, parole che il Boccaccio non usa, rinviano direttamente a Dante »].16. Mario Fubini, « Inferno : Canto XXVI », in Letture dantesche, a cura di G. Getto, Firenze, Sansoni, 1955, p. 513 (ma, dello stesso Fubini, si veda « Il peccato di Ulisse », in Id., Due studi danteschi, Firenze, Sansoni, 1951, p. 5-53, e la voce « Ulisse », nell’Enciclopedia dantesca, op. cit., V, 1976, p. 803-809). Nel merito, ricco di rimandi e suggerimenti è il commento della Chiavacci Leonardi, che scrive, nell’« Introduzione » al canto : « Nella voce di Ulisse risuona — tutti lo hanno osservato — la voce stessa di Dante ». Che il rapporto Ulisse/ Dante cos-tituisca un nodo interpretativo impossibile da eludere è un dato del tutto acquisito : è però aperto a soluzioni diverse, come emerge dagli studi sin qui citati, e da molti altri tra i quali segnalo, anche per integrare attraverso di essi queste scarse indicazioni bibliografiche, Peter S. Hawkins, Dante’s testaments : Essays in scriptural imagination, Stanford (Ca.), Stanford University Press, 1999, in particolare p. 270 sq., che ripropone l’immagine di Ulisse come l’anti-tipo di Dante (p. 274 : « There can be no doubt that the Comedia intends the reader to see Dante’s voyage as an explicit correction of the wanderer, as the triumph of pilgri-mage over sheer exploration », etc.) ; Patrick Boyde, Human vices and human worth in Dante’s Comedy, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, per l’ultimo importante capitolo,

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Ma al proposito, e in via preliminare, vanno precisate alcune cose. La prima : Petrarca davvero oltrepassa Boccaccio e torna intenzionalmente ad attingere alla fonte, cioè a Dante ? O non si limiterà piuttosto a variare, in ossequio alle regole dello scambio epistolare, quanto l’amico stesso gli proponeva ? Il dubbio va sciolto perché esiste appunto la tesi secondo la quale Petrarca si sarebbe limitato a riecheggiare la frase di Boccaccio senza avvedersi che, cosí facendo, finiva per citare Dante medesimo… Di questo parere era per esempio Carducci, il quale scrive che le parole della lettera « certamente a caso, ricordano i versi di colorito omerico posti dall’Allighieri in bocca a Ulisse », e lo è, con particolare forza, Pasquini, che scrive a sua volta : « Che egli [sc. Petrarca] fosse del tutto inconsapevole di reiterare nella sua missiva a Boccaccio l’inconfondibile mossa stilistica di un canto dantesco, è acqui-sito agli atti della storia : non si potrebbe immaginare un Petrarca che si prende gioco dell’amico. Inconsapevole e tutta d’istinto, anche la conquista critica di una sovrapposizione fra Dante e il personaggio di Ulisse : ben diverso e ben altrimenti consapevole il proprio identificarsi autobiografico con Ulisse, in nome della categoria dell’inquietudine o del non trovar pace in uno stesso luogo »¹⁷.

« The worth and vices of Ulysses : A case-study », p. 231-272 (significativamente, anche qui il primo paragrafo s’intitola « Ulysses the voyager and Dante the pilgrim », mentre in fine Boyde parla di un Dante/Ulisse come di un Dr. Jekyll/Mr. Hyde). Ma si veda anche la n. che segue. Non tratta della questione, ma offre ora un eccellente quadro di riferimento Zyg-munt G. Barański, « L’iter ideologico di Dante », primo capitolo del suo vol. Dante e i segni : Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli, Liguori, 2000, p. 9-39.17. G. Carducci, Della varia fortuna…, op. cit., p. 377 ; E. Pasquini, « Dantismo petrar-chesco… », op. cit., p. 36. Ma si veda ibid. l’argomentazione svolta a p. 25, dalla quale mi pare si ricavi che l’ipotesi preferita da Pasquini sarebbe quella di una doppia derivazione da Dante, involontaria e autonoma sia in Boccaccio e, con maggior risolutezza, in Petrarca (« quella inequivocabile derivazione dal XXVI dell’Inferno esclude una frequentazione tardiva o sal-tuaria ; rientra, in altre parole, nell’àmbito degli echi ritmico-timbrici propri di una memoria involontaria »). Ma non troppo involontaria e autonoma, se è vero, come ha finito di dimos-trare Paolazzi, che Petrarca aveva sotto gli occhi il Trattatello… Sul punto, con rinvio a Pao-lazzi, si veda anche L.C. Rossi, « Petrarca dantista involontario », op. cit., p. 301 : « Le recenti acquisizioni filologiche sull’epistola […] indicano il vero oggetto della missiva, il Trattatello di Boccaccio », etc. (ma anche G. Velli, « Introduzione » ai Carmina, op. cit., p. 391 : « Carlo Paolazzi […] molto opportunamente ha fatto vedere che nella Familiare si discute proprio del Trattatello »). Né vedo dove si nasconda il « prendersi gioco », dal momento che (cito di nuovo Feo) « il recupero allusivo entro il proprio discorso di affermazioni dell’interlocutore è eleganza tipicamente petrarchesca ». È invece vero che Petrarca stesso mostra di riconoscersi nella figura di Ulisse, come argomenta ora con finezza Stefano Carrai, « Il mito di Ulisse nelle Familiari », in Motivi e forme delle Familiari…, op. cit., p. 167-173.

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Ora, queste affermazioni mi creano qualche imbarazzo, perché sotto-lineano che in quel che dirò è implicito il rischio di una grossa forzatura interpretativa : ma in tutta sincerità debbo dire che a parer mio è inamis-sibile, nel caso, qualsiasi anche minimo sospetto di « inconsapevolezza », e che, per contro, Petrarca ha perfettamente colto il punto ed ha restituito a Boccaccio la versione perfezionata del suo spunto dantesco (come ha osservato una volta per tutte Feo, « la pietas e l’amor, parole che il Boccac-cio non usa, rinviano direttamente a Dante »), avendola inserita con piena coscienza critica entro il proprio sottile ed equilibristico discorso su Dante. Rifiuto insomma l’idea che solo il caso, o la « memoria involontaria », abbiano fatto sí che Petrarca rispondesse a Boccaccio restaurandone con mano da virtuoso il calco dantesco, e mi rafforza in questa convinzione il suo rapporto con la figura di Ulisse. E su questo rapporto credo infatti sia opportuno fermarsi, perché è di lí che possiamo ricavare lo sfondo adatto per cogliere la portata di quell’importante definizione.

Sul modo di porsi di Petrarca nei confronti di Ulisse, qualcosa resta ancora da dire, anche se sembra di sapere che in ogni caso l’Ulisse di Petrarca sarebbe essenzialmente l’Ulisse di Dante, o almeno, visto attraverso Dante¹⁸. ma visto anche attraverso la personale rilettura delle fonti di Dante, natu-ralmente. Proviamo dunque a partire di qui, ed entriamo immediatamente in argomento osservando che Petrarca, nel Virgilio Ambrosiano, non dedica alcuna postilla ai luoghi del poema che contengono apprezzamenti nega-tivi nei confronti di Ulisse, verso il quale Enea non è certamente tenero, e appena ne ha l’occasione, invece, ne pronuncia un impegnativo elogio attraverso la testimonianza di Apuleio, nel capitolo finale, XXIV, del De deo Socratis (che cita a sua volta il Filottete di Accio : ma in lode di Ulisse Petrarca da Apuleio citerà ancora — vedremo — Met., IX 13). Ciò avviene in due riprese. Prima, c. 93vº, a proposito dei laertia regna di Æn. III 272, Petrarca trascrive nel margine superiore quasi tutta la prima metà del capi-tolo (tra parentesi quadre, le varianti notevoli del testo critico) :

Nichil alienum in laudibus tuis audias, sed ut qui te volet nobilitare eque laudet ut Accius Ulixem laudavit in Phylotete

18. Cfr. M. Feo, « Un Ulisse in Terrasanta », op. cit., passim. Aggiungo che per questa parte, dedicata all’Ulisse petrarchesco, mi rifaccio soprattutto a quanto ne ho scritto nel vol. Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 2003, cap. XIV : « Tra Dante e Petrarca : il fantasma di Ulisse », p. 493-517 [p. 506 sq.].

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suo, in eius tragedie principio : — Inclite — inquit — parva [prodite om.] patria,/ nomine celebri claroque potens/ pectore, achivis classibus auctor,/ gravis dardaniis gentibus ultor Laer-tiade-. Novissime patrem memorat. Ceterum omnes laudes eius viri audisti, nichil inde nec Laertes sibi nec Anticlia nec Narcissus [Arcisius] vendicat. Tota, ut vides, laudis huius pro-pria Ulixi possessio est. Apuleius de deo Socratis ad finem.

Poi, a c. 100rº, a proposito di Æn. III 628-629, trascrive nel margine infer-iore la parte restante del capitolo, ch’è tutta ad esaltazione di Ulisse :

Homerus Ulixi suo semper [Nec aliud te in eodem Ulixe Home-rus docet qui semper ei] comitem voluit esse prudentiam, quam poetico ritu Minervam nuncupavit. Igitur hac eadem comi-tante [comite] omnia horrenda subiit, omnia adversa superavit. Quippe ea adiutrice Cyclopis specus introiit sed egressus est ; Solis boves vidit sed abstinuit ; ad inferos demeavit et ascen-dit. Eadem sapientia comite Scylla preternavigavit nec erep-tus est ; Carybdi conseptus est nec retentus est ; Cyrce pocu-lum bibit nec mutatus est ; ad Lotofagos accessit nec remansit ; Syrenas audiit nec accessit. Apuleio de deo Socratis in fine.

Petrarca, dunque, non solo condivide il giudizio di Apuleio¹⁹, ma si serve delle sue parole per correggere l’effetto negativo dei ricorrenti giudizi nega-tivi del testo virgiliano²⁰. Ma già i Rerum memorandarum libri testimoniano questa aperta simpatia per la figura di Ulisse. In III 21 Petrarca ricorda Cicerone, De off. III 97 (vedi anche Servio, a Æn. II 81, c. 75rº) secondo il quale Ulisse si sarebbe in un primo tempo finto pazzo per non partecipare alla guerra di Troia e vivere in Itaca « otiose cum parentibus cum uxore cum filio », ma al proposito cita anche la precisazione dello stesso Cicerone, che correttamente avverte come « apud Homerum optimum auctorum, talis

19. Nel suo codice di Apuleio (e Frontino, Vegezio, Palladio), il Vaticano Lat. 2193, a c. 4rº, Petrarca nota prima il giudizio di Accio (« Actius de Ulixe »), poi quello di Omero (« Home-rus de eodem ») all’altezza di « Nec aliud te […] nuncupavit », e approva infine l’ultima parte : « Pulcer finis ». Cfr. Carmela Tristano, « Le postille del Petrarca nel Vat. Lat. 2193 (Apuleio, Frontino, Vegezio, Palladio) », in Italia medioevale e umanistica, XVII, 1974, p. 379, n. 99-101.20. Ancora una sottigliezza. A proposito di Ulisse « infelice », detto da Enea in III 691 (c. 101rº), Servio, piú realista del re, si preoccupa di osservare : « epitheton ad implendum versum, positum more greco sine respectu negocii ». E Petrarca, in margine : « Attende », per-ché — mi piace pensare — non è del tutto convinto della funzione meramente formulare dell’aggettivo, e ha colto una sfumatura nuova nell’atteggiamento di Enea.

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de Ulixe suspitio nulla sit »²¹. Ma Ulisse è esaltato soprattutto nel cap. 87 dei Rerum memorandarum, insieme ad Enea, per aver fatto del « viaggio » l’indispensabile condizione che apre all’esperienza, si noti, del sapere :

Homerus Ulixem suum, sub cuius nomine virum fortem ac sapientem vult intelligi, terra marique iactatum fecit et car-minibus suis toto pene orbe circumtulit. Quod imitatus vates noster Eneam quoque suum per diversa terrarum circumdu-cit. Uterque consulto : vix enim fieri potest ut aut sapientia contingat inexperto aut experientia ei qui multa non vide-rit. Vidisse autem multa herenti in uno terrarum angulo vix potest evenire.

Colpisce qui un particolare. Omero ha fatto di Ulisse un modello di forza e sapienza, e per questo l’ha mosso per mare e per terra attraverso peripezie di ogni genere, perché nessuno può dimostrarsi davvero forte e sapiente se non affrontando una pluralità affatto eccezionale di esperienze. Ora, nella sua apparente ovvietà, la notazione di Petrarca fornisce la perfetta cornice strutturale, entro la quale egli terrà sempre il proprio giudizio, che comporta, innanzi tutto, il rigetto di tutta quella parte della tradi-zione, anche medievale, che caratterizzava Ulisse come maestro di frodi e inganni. Lo confermano le piú tarde parole della Fam. XV 4, inviata nel 1352 al doge Andrea Dandolo, § 5, che ripetono sostanzialmente quelle dei Rerum memorandarum :

Illud quoque non me preterit, quod sepe dixi et dicere ite-rum delectat, grecum poetam et illius per vestigia nostrum quoque, quibus nemo philosophorum altius res hominum conspicatus est, dum perfecti viri habitum moresque descri-bunt, toto illum orbe vagum et ubique novi aliquid addiscen-tem facere ; neque enim crediderunt qualem stilo formabant virum, fieri posse loci unius perpetuo incolatu.

21. Servio racconta i particolari di tale finta pazzia (Ulisse si sarebbe messo ad arare aggiogando animali diversi e seminando sale, ma Palamede, opponendo il figlio di Ulisse all’aratro, l’avrebbe costretto a fermarsi…), e da Servio deriva alla lettera Boccaccio, Geneal., X 60 1 (ma anche XI 40 3). Di nuovo, è notevole che Petrarca non rilevi in alcun modo la notizia, sui margini dell’Ambrosiano — ma egli ricorda questa simulata pazzia in Fam. XIII 4 10-11 (si tratta di un testo importante, sul quale dovrò tornare) e XXII 5 11, contrap-ponendola ad altri antichi casi di simulazioni celebri.

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Di nuovo, dunque, Omero e Virgilio hanno elaborato, in Ulisse ed Enea, il modello dell’uomo perfetto²², e a questo fine l’hanno strappato dalla prigionia di un’unica dimora e fatto errare per il mondo, a contatto con avventure sempre nuove. E l’idea-base che guida questa osservazione la ritroviamo anche in Seneca, che probabilmente suggerisce a Petrarca le parole appena citate, quando scrive che la natura ci ha dato i venti per farci navigare e allargare le nostre conoscenze, mentre saremmo solo degli animali ignoranti e inesperti se ce ne restassimo rinchiusi nei confini della terra natia : « Dedit ventos ad ulteriora noscenda : fuisset enim imperitum ani-mal et sine magna experientia rerum homo, si circumscriberetur natali soli fine » (Nat. quæst., V 18 14).

Ma tutte queste queste affermazioni si basano soprattutto su un testo di Orazio, l’Epistola seconda del primo libro, a Massimo Lollio. Qui Orazio, dopo aver affermato di avere riletto Omero, che insegna meglio dei filosofi « quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non » (v. 3 : sopra, abbiamo appena visto come Petrarca ripeta la stessa cosa), prosegue spiegando quale sia il significato da attribuire alla figura di Ulisse (v. 17 sq.) :

Rursus, quid virtus et quid sapientia possit, utile proposuit nobis exemplar Ulixen, qui domitor Troiæ multorum providus urbes, et mores hominum inspexit, latumque per æquor, dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa pertulit, adversis rerum immersabilis undis.

Il quale Ulisse, se avesse ceduto al canto delle Sirene e agli infusi di Circe, « vixisset canis immundus vel amica luto sus », cioè proprio come viviamo noi :

Nos numerus sumus et fruges consumere nati, sponsi Penelopæ nebulones Alcinoique.

Non occorre allegare anche Ars poet. 141-142 : « Dic mihi, Musa, virum, captæ post tempora Troiæ/ qui hominum mores multorum vidit et urbes », per vedere che questo è anche l’Ulisse di Petrarca (e, per la sua parte, anche

22. Questo ribadito parallelismo tra i due eroi eponimi autorizza ad allargare ad Ulisse buona parte di quello che Petrarca dirà di Enea, quando spiegherà tra il 1365 e il 1367, al giovane Federico d’Arezzo, i significati allegorici dell’Eneide, nella Sen., IV 5. Su di essa, si veda in particolare il cap. « L’ermeneutica petrarchesca », nei miei Saggi petrarcheschi, op. cit., p. 553-587, con la bibliografia allegata.

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di Dante, naturalmente). Basti ancora, tra altri testi, l’Epist. II 10, diretta nel 1343-1344 a Brizio Visconti, in particolare 238-242 (II, p. 236 ed. Rossetti) :

[Omero] mores populique ducumque pinxit, et e numero plebis secrevit Ulixen, quem mihi non vana circumtulit arte Charibdim Scilleosque canes ut sperneret atque Cyclopem Syrenumque modos et amantis pocula Circes.

Di là da questo quadro generale naturalmente non è difficile trovare nelle opere di Petrarca una serie di allusioni e rimandi piú o meno occasionali a Ulisse : in Fam. I 1 21, Petrarca paragona i viaggi di Ulisse ai suoi, meno famosi ma altrettanto lunghi e variati ; nella XXIV 12 1 (l’epistola a Omero), egli scrive al poeta greco di aver aspettato i suoi testi, nella traduzione di Leonzio, piú a lungo di quanto Penelope aspettò Ulisse ; nell’invettiva Contra medicum (II, r. 195-198, p. 44 ed. Ricci), sulla base della nota di Ser-vio a Æn. I 378, l’esempio di Ulisse, insieme a quello di Enea, autorizza, in certe occasioni, il parlare di sé ; nella Sen. XII 1 (in Opera…, p. 998), il Dondi è avvertito che neppure con l’astuzia di Ulisse sarebbe riuscito a convincerlo a cambiare dieta ; nel De remediis I 62 (in Opera…, p. 70 sq.), consiglia di tapparsi le orecchie come fece Ulisse con le Sirene, per non sentire l’orrendo strepito che fanno i pavoni, e ancora allo stesso episodio ricorre in II 97, De auditu perdito (ibid., p. 216 sq.) — si sa che per tutto il medioevo l’episodio di Ulisse e le Sirene aveva goduto di speciale fortuna, perché si prestava a una facile allegorizzazione²³ —, etc.

23. Si veda per ciò Maria Corti, « Le metafore della navigazione, del volo e della lingua di fuoco nell’episodio di Ulisse (Inferno XXVI) », in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, Modena, Mucchi, 1989, t. II, p. 479-491 [p. 483-485], che si rifà a Pierre Courcelle, « Quelques symboles funéraires du néo-platonisme : Le vol de Dédale, Ulysse et les Sirè-nes », in Revue des Études anciennes, XLVI, 1944, p. 65-93. Ma si veda soprattutto, dello stesso Pierre Courcelle, Conosci te stesso, da Socrate a san Bernardo (1974-1975), Presentazione di Giovanni Reale, Milano, Vita e Pensiero, 2001, cap. 14 : « Sirene e adescamenti », p. 345 sq., e Hugo Rahner, L’ecclesiologia dei padri : Simboli della Chiesa, Roma, Edd. Paoline, 1971, in par-ticolare i § « La tentazione delle sirene », p. 415-435, e « Il cristiano come Ulisse », p. 435-445. Di qui, a proposito di Ulisse come figura del perfetto cristiano, traggo questa significativa citazione di Onorio di Autun, Speculum Ecclesiæ, in Patrologia latina, vol. 172, col. 857a : « Ulixes dicitur sapiens. Hic illæsus præternavigavit, quia christianus populus vere sapiens in navi Ecclesiæ mare huius sæculi superenatat. Timore Dei se ad arborem navis, id est ad crucem Christi ligat. Sociis cera, id est incarnatione Christi, auditum obsigillat, ut a vitiis et concupiscentiis cor avertant et sola cælestia appetant. Sirenes submerguntur, quia concupiscentiæ ab eis vigore spiritus præmunitur. Ipsi illæsi evadunt periculum, quia per victoriam ad Sanctorum perveniunt gaudia ».

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Qualcosa si potrebbe ancora aggiungere²⁴, ma sono altri i passi che ci portano al cuore del complesso, intrigante atteggiamento di Petrarca e, attraverso di lui, a Dante. Poco sopra, ho citato Cicerone, De officiis 97-98, ove egli riferisce come, secondo una tradizione minore, Ulisse si sarebbe finto pazzo per non partecipare alla guerra di Troia, e per « regnare et Ithacæ vivere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio »²⁵. Ma poi ha rinunciato alla sua finzione, preferendo la gloria a un ozio di tal genere, che certo non l’avrebbe reso famoso (« Quid enim auditurum putas fuisse Ulixem, si in illa simulatione perseverasset ? »). Ora, questo passo Petrarca l’ha letto con atten-zione, e l’ha ripreso non solo nei Rerum memorandarum, ma, in seguito, anche nella Fam. XIII 4, diretta al napoletano Francesco Calvo nel 1352. Qui (§ 10-11), egli spiega appunto come Ulisse (come Achille, del resto) non fosse riuscito a protrarre l’inganno : infatti, « non possunt viri insignes nisi ut excelsi montes occultari ». Egli avrebbe potuto, è vero, vivere in pace, « nisi inexplebile desiderium multa noscendi cuntis illum litoribus terrisque rap-taret ; laboriosa virtus que possessores suos quiescere non sinit, laboriosa, inquam,

A queste pagine di Onorio rinvia anche Ruedi Imbach, nel paragrafo del bel cap. « Ulysse, figure de philosophe », del suo Dante, la philosophie et les laïcs : Introduction à la philosophie médiévale 1, Fribourg (Suisse), Édd. Universitaires & Paris, Cerf, 1996, p. 223-226. E vi rinvia, da ultimo, Lino Pertile, « Ulisse, Guido e le sirene », in Studi danteschi, LXV, 2000, p. 101-118, che rifà la storia dell’Ulisse quale figura del « cristiano » che nel mare della vita vince le tentazioni delle sirene e torna alla patria celeste, attraverso una serie di testi, da Ambrogio a Massimo il Confessore, Gunther il Cisterciense, Gerhoh di Reichersberg e Onorio di Autun (e propone una propria interpretazione dell’episodio dell’Inferno, alla base del quale sta-rebbe proprio questa tradizione allegorica che Dante avrebbe, per dir cosí, letteralizzato).24. Un’osservazione a margine. In Africa, III 375-377, Petrarca paragona Lelio seduto alla mensa di Siface con Ulisse alla mensa di Alcinoo, cosí : « Talis apud mensas — nisi testem spernis Homerum —/ cena fit Alcinoi : sedet illic blandus Ulixes,/ Lelius hic hospes mellito affabilis ore ». Agostino Pertusi (Leonzio Pilato fra Petrarca e Boccaccio, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1964, p. 398 sq.) sospetta che si tratti di un’inserzione assai tarda, fatta dopo la lettura dell’Odissea, quindi dopo il 1368, per la precisione del riferimento a Od. VII 167 sq., nella traduzione di Leonzio (che egli allega). Ma anche in Fam. IX 13 25, si può forse vedere qualcosa di simile, dal momento che la redazione ultima, alfa, tra altre cose, aggiunge rispetto alla primitiva, gamma, a proposito dei viaggi di Ulisse : « easque difficultates rerum ac locorum que legentis quoque animum fatigent » : parole, queste, che insinuano l’idea di una personale e completa esperienza di lettura dell’Odissea. Ricordo che la lettera è stata mandata a Philippe de Vitry nel febbraio 1350 (ne parlerò piú avanti : la versione originale, gamma, è nell’ed. Rossi, vol. II, p. 267-275) : se l’ipotesi fosse giusta, avremmo allora un ter-mine oltre il quale porre la revisione del testo.25. Poco avanti, nel § 100, Cicerone afferma qualcosa di simile anche a proposito di Attilio Regolo, che rispettò i patti e tornò a Cartagine per esservi ucciso : « ipse Carthaginem rediit, neque eum caritas patrie retinuit nec suorum ».

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virtus, sed gloriosa, clara et que ut laborem sic amorem admirationemque conci-liet »²⁶. C’è qui una significativa novità rispetto all’originale di Cicerone : il dovere di Ulisse-soldato è sostituito da un dovere di tutt’altra qualità, quello dettato dall’inexplebile desiderium multa noscendi, che essendo radice ed essenza della natura umana deve prevalere su qualsiasi altro affetto. Per la verità, nella lettera non si parla della famiglia di Ulisse, ma vi si allude, per esempio, nella Fam. XXIII 2, diretta nel 1361 a Carlo IV di Boe-mia, ove, con Alessandro e Scipione c’è, in trasparenza, anche Ulisse. Ecco il passo, particolarmente interessante (§ 31-32) :

Si Alexander se intra fines Macedonie tenuisset, non tam notum Macedonum nomen esset. Quis putas magis amet uxo-rem, an qui omnium negligens die noctuque in illius heret amplexibus, an qui ut illam honeste ubertimque educet, nul-lam peregrinationem refugit nullum renuit laborem ? Est ubi magnus amor odium sit. Numquam Romam magis amavit Africanus quam dum illa relicta adiit Carthaginem. Molles affectus et externi monitus coniugum natarumque ac vulga-rium amicorum altis consiliis semper adversi sunt ; obserande aures ulixeum in morem, ut in portum glorie sirenum inter scopulos evadamus.

Non si poteva essere piú chiari. Se le circostanze lo richiedono, occorre sacrificare gli affetti domestici, che con le loro seduzioni ora « molli » e ora « volgari » diventano altrettanti ostacoli sulla difficile via della virtú, men-tre il loro richiamo è direttamente paragonato al canto ingannatore delle Sirene : per contro, è l’amore stesso che s’esalta nel sacrificio di sé, anche se immediatamente può addirittura apparire come odio. E ancora piú radi-cale, se possibile, Petrarca è nell’importante epistola in versi diretta all’amico Gugliemo da Pastrengo che si rifiuta di seguirlo a Roma per il Giubileo

26. Il tema della lettera è che una grande gloria la si ottiene solo con grandi fatiche, e a prezzo di una vita inquieta e tormentata (inquieta e turbida). Per quanto riguarda la fatica inerente alla fama, torna il discorso e insieme l’esempio di Ulisse nel De remediis, II 56, De gravi negotio ac labore, in Opera…, ed. cit., p. 175 (sulla traccia di Cicerone : Ulisse, se fosse rimasto nell’ozio, a dispetto di tutta la sua capacità di calcolo, sarebbe rimasto uno sconosciuto). Nel Secretum, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992, III, p. 252, Petrarca cita dall’Africa VII 292 un suo verso, ripetuto anche in Fam. VII 7 5-6 : « Non queritur gratis clarum nomen nec servatur quidem : Magnus enim labor est magne custodia fame ». Ma il concetto torna spesso ; si veda per altri rimandi De ignorantia, 53, ed. cit., p. 210, e n. 213 e 216, p. 386 sq. (e Giuseppe Velli, « Il proemio dell’Africa », in Id., Petrarca e Boccaccio : Tradizione Memoria Scrittura, Padova, Antenore, 1979 e 19952, p. 47-59 [p. 52], n. 16).

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(Epyst., III 34 : II, p. 204-209, ed. Rossetti) ; e poco importa che Ulisse non sia qui nominato. All’amico già si mostrava una via gloriosa (v. 9 sq.), ma :

[…] sed frena domus studiumque tuorum et patrie stringebat amor. Nunc maior in altum cura vocat : cessas ?

Proprio lui, Guglielmo, se ne starà inerte, quando da tutto il mondo i pel-legrini si muovono verso Roma, attratti da ciò che è lontano e diverso ? E ancora (v. 25-33), con ampio sviluppo retorico, all’amico è ordinato di non cedere a una « mentita pietas » (« dolentum » è un genitivo oggettivo), cioè a una pietas che non sarebbe altro che una forma di falsa coscienza, che nasconde opportunismo e viltà :

[…] Neu te mentita dolentum impediat pietas. Offusam in limine matrem despice, nec teneri moveant te dulcia nati oscula, grandevum fugiens sine flere parentem, et sine ventus agat suspiria tristis amici. Non nate seu forma virens seu nubilis etas, non germanus amans, trepide non verba sororis candida, nec blando teneat te murmure coniux. Cuncta tibi calcanda simul […]

« Cuncta tibi calcanda simul » ! Di nuovo, non si può certo dire che Petrarca non sia chiaro. Cosí come lo è anni dopo, nell’Itinerarium ad sepulcrum Domini, scritto per Giovanni Mandelli nei primi mesi del 1358. A un certo punto (§ 60), Petrarca immagina che l’amico, giunto a Gerusalemme, senta la voglia piú che naturale di tornarsene a casa. Ma :

Sed nullus est acrior stimulus quam virtutis. Ille nunc per omnes difficultates generosum animum impellit, nec con-sistere patitur, nec retro respicere cogitque non voluptatum modo sed honestorum pignorum atque affectuum oblivisci, nichil aliud quam virtutum speciem optare, nichil velle, nichil denique cogitare. Hic stimulus qui Ulixem Laertis et Penelo-pes et Telemachi fecit immemorem, te nobis nunc vereor abs-trahet diutius quam vellemus.

Qui, tanti motivi si sono ricomposti in una visione che ammette i moti della comune affettività — è ovvio che chi da tempo sta viaggiando senta la nos-talgia di casa, e che gli amici rimasti ne sollecitino il ritorno — ma che non

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deroga dai propri principi, anche a costo, come Petrarca già ha scritto, di pagare un alto prezzo personale, e di trasformare l’amore in odio.

Ma, tornando un poco indietro, il testo piú importante è probabil-mente la Fam. IX 13 a Philippe de Vitry, che abbiamo anche nella redazione gamma, del 1350, mentre la definitiva, alfa, è forse assai piú tarda²⁷. La let-tera dovrebbe essere considerata tutt’intera con attenzione, ma al nostro fine basterà forse dire che il titolo ben ne compendia il contenuto, disposto a mo’ di trattato : Increpatur eorum mollities qui sic uni terrarum angulo sunt astricti, ut gloriosam licet absentiam infelicem putent, e che la celebrazione del viaggio e del mutamento opposti all’immobilità comprende un bell’elogio di Ulisse, condotto secondo parametri di giudizio già visti. Ecco il passo che interessa (§ 24-27), che è bene riferire per intero (nel testo alfa, met-tendo in corsivo le aggiunte rispetto a gamma)²⁸ :

[…] ivit et ad Troiam atque inde longius Ulixes, maria lustravit ac terras, nec ante substitit quam urbem sui nominis occidentis ultimo fundasset in litore ; et erat illi domi decrepitus pater, infans filius, uxor iuvenis et procis obsessa, cum ipse interea circeis poculis, Sirenum cantibus, Cyclopum violentiis, pelagi monstris ac tempestatibus decertaret. Vir erroribus suis cla-rus, calcatis affectibus, neglecto regni solio et tot pignori-bus spretis, inter Scyllam et Caribdim, inter nigrantes Averni vertices easque difficultates rerum ac locorum que legentis quo-que animum fatigent, senescere maluit quam domi, nullam aliam ob causam quam ut aliquando senex doctior in patriam remearet. Et revera si experientia doctos facit, si mater est artium, quid artificiosum quid ve alta laude dignum speret, qui paterne domus perpetuus custos fuit ? Boni villici est in proprio rure consistere […]. At nobilis inque altum nitentis animi est, multas terras et multorum mores hominum vidisse atque observasse memoriter ; verissimumque est quod apud Apuleium legisti : — non immerito — enim, inquit — prisce poetice divinus auctor apud Graios, summe prudentie virum monstrare cupiens multarum civitatum obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit —. Quod

27. Cfr. supra, n. 17.28. C’è anche una serie di varianti, che per completezza riporto (in corsivo, la lezione di gamma) : maria lustravit ac terras : per omnes terras ac maria ; uxor iuvenis : coniux adolescens ; violentiis : violentie ; doctos facit : artem facit ; speret : sperare relinquitur illi ; proprio : avito ; At […] inque : Contra […] et in ; animi : ingenii ; poeta noster : poeta quidem n. ; scis : nosti.

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poeta noster imitatus, suum Eneam scis quot urbibus atque litoribus circumducit.

Tra altre cose che occorre notare²⁹, osserviamo che anche qui Petrarca contrappone nettamente la vita limitata dall’ambiente e dai legami fami-liari e quella liberamente votata alla « errante » e sublime avventura della conoscenza. Forte è anche l’eco delle parole già sopra citate di Seneca, Nat. quæst. V 18 14 : « Dedit ventos ad ulteriora noscenda […] » : Ulisse non è un « buon villico », che nasce e muore sul suo campo e solo quello conosce, ma l’eroe che, con le parole di Orazio qui appena variate, « multorum providus urbes,/ et mores hominum inspexit », e poco conta che, mentre egli andava affrontando Circe e le Sirene e i Ciclopi e i mostri e le tempeste marine³⁰, l’aspettassero a casa « decrepitus pater, infans filius, uxor iuvenis ». Il trittico degli affetti è qui caratterizzato, dunque, sulla falsariga della prima Eroide di Ovidio, Penelope Ulixi, ove Penelope ricordava tra l’altro al marito : « Tres sumus imbelles numero, sine viribus uxor/ Laertesque senex Telemachusque puer » (v. 97-98), ma ancora una volta Petrarca dichiara senza incertezze che tali affetti non devono trasformarsi in ostacolo, quando sia in gioco

29. Intanto, la città fondata da Ulisse sull’estremo lembo dell’occidente è Olisippo/Olis-sipona, o Ulyxippo, cioè Lisbona : si veda Solino, Coll., 23 ; Pomponio Mela, Chor., III 1 8 ; Marziano Capella, De nuptiis, VI 629 ; Isidoro, Etym., XV 1 70 (da Solino deriva Fazio degli Uberti, Dittamondo, IV 27 28-33 : « Noi fummo dove anticamente fisse/ Ercules le colonne, per un segno/ ch’alcun d’andar piû innanzi non ardisse./ Non lungi qui Ulissipon disegno,/ ch’edificò Ulisse per mostrare/ ch’egli era stato al fin di questo regno »). Al proposito, mi sembrano fuori luogo i dubbi di Maria Corti, « La favola di Ulisse : invenzione dantesca ? », in Ead., Percorsi dell’in-venzione : Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi, p. 113-145 [p. 118]. La finale citazione di Apuleio è da Metam., IX 13.30. Non sono infatti i rischi che si possono correre, per gravi che siano, a poter giustificare scelte diverse : meglio rischiare il naufragio, che star fermi… Contrapponendo l’esperienza del viaggio all’ozio, lo spiega Boccaccio, tornando ad accennare alle ragioni sulle quali la fama di Ulisse si fonda : « Nemo quidem, nisi torpens hebesque, preeliget desidia in campestribus solvi, quam assidua etiam extuantis pelagi fluctuum inquietatione agitari ; et si non aliter detur, etiam continue scopulis allidi, quam Sardanapali plumis sonno fovere perpetuo […] Longe notior per maria agitatus Ulixes, ocioso Egysto sub celo patrio lasciviente, cuius libidinosam damnamus desidiam, ubi illius laudamus et admiramus errores » (De casibus, III 13 9). Si noti quel « si non aliter detur », che rimanda alle posizioni non perfettamente ortodosse, dal punto di vista della dottrina stoica, di Seneca, che giudica ovviamente sciocco chi va in cerca dei pericoli, ma d’altra parte sostiene che è in ogni caso preferibile affrontarli e rischiare, pur di mettere alla prova e affinare la virtú, piuttosto che evitarli sistematicamente in nome di un atteg-giamento di distacco che ha poco di filosofico, ed è invece dettato dal desiderio del quieto vivere. Il punto mi sembra ben messo in luce, con corredo di citazioni, da Giuseppe Cam-biano, « Seneca e le contraddizioni del sapiens », in Incontri con Seneca : Atti […], a cura di G. Garbarino e I. Lana, Bologna, Pàtron, 2001, p. 49-60.

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un destino di conoscenza vissuto con la consapevolezza e la forza di un superiore imperativo etico.

Ancora una sosta, prima di tornare alla lettera a Boccaccio. Una volta defi-nite le coordinate fondamentalmente positive entro le quali Petrarca consi-dera la figura di Ulisse, resta infatti da capire meglio se e quanto l’Ulisse di Petrarca sia stato condizionato da quello dantesco, e soprattutto quale sia la chiave ultima, il senso profondo di quel parallelo ch’egli istituisce tra alcuni tratti rilevanti di quella figura e Dante medesimo. Per farlo, ripi-gliamo dal modo di porsi di Ulisse rispetto agli affetti familiari, ricordando ancora che Orazio ne esalta le peregrinazioni, ma tuttavia precisa che tutto ciò avvenne : « dum sibi, dum sociis reditum parat » (Epist., I 2 21), e cioè sot-tolinea che il ritorno restava pur sempre l’obiettivo finale rispetto al quale deve essere apprezzata la capacità dell’eroe di cavarsi ogni volta d’impac-cio. E in Ovidio ? Nella sua lettera Penelope, abbiamo visto, mette avanti con forza la condizione sua, « sine viribus uxor », e quella del vecchio Laerte e di Telemaco fanciullo : ma l’epistola, che s’immagina scritta il giorno in cui Telemaco è tornato da Sparta (v. 63-65), ricava un sapore speciale dal fatto che il lettore sa che è stata scritta poco prima che Ulisse, già rientrato nascostamente in Itaca, si riveli alla moglie e riprenda il suo posto. In altri termini, l’accento posto sui legami familiari non si contrappone ad eventuali opposte scelte di Ulisse ma prelude al ritorno, né vi si contrap-pone, nelle Metamorfosi, il racconto di Macareo, pur cosí importante per Dante : abbandonando Circe, dopo la programmata deviazione verso il paese dei morti per interrogare Tiresia, che altro avrebbe potuto fare Ulisse per tornare in Itaca, se non affrontare ancora una volta il mare ? È vero — Picone in particolare lo sottolinea —, Macareo non parla di ritorno, ma non per questo l’esclude : semplicemente, è il rimettersi in mare che in ogni caso egli ormai assolutamente rifiuta, né davvero gli importa verso dove e attraverso quali avventure i suoi compagni se ne partano. Questo è ciò che Ovidio vuol dire. Ma anche Seneca, nel noto passo dell’Epist. LXXXVIII 7-8, spesso citato a proposito di Dante, finisce per porre lo stesso Ulisse che tanto ha errato come il modello positivo di un ritorno alla patria e alla famiglia particolarmente meritevole per l’ostinazione con la quale è stato perseguito in mezzo a tante avversità :

Quæris Ulixes ubi erraverit potius quam efficias ne nos sem-per erremus ? Non vacat audire utrum inter Italiam et Siciliam

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iactatus sit an extra notum nobis orbem (neque enim potuit in tam angusto error esse tam longus) : tempestates nos animi cotidie iactant et nequitia in omnia Ulixis mala impellit […]. Hoc me doce, quomodo patriam amem, quomodo uxorem, quomodo patrem, quomodo ad hæc tam honesta vel naufra-gus navigem […].

E questa implicita ma forte valenza delle parole di Seneca, che ben corris-pondono con l’altro passo nel quale egli esalta l’amor di patria di Ulisse (Epist., LXV 26), finisce per rendere ben ragione del fatto che, con le parole di Ruedi Imbach : « selon une vénérable tradition, Ulysse symbolise le retour après une longue et pénible errance ; du même coup il représente le désir de retrouver sa patrie, le lieu d’origine ; c’est pourquoi le retour chez soi après de longues tribulations symbolise un retour heureux aux origines […] », e che in questa chiave la sua figura è stata interpretata dal neoplatonismo³¹. Ma tutto ciò è, appunto, in insanabile contrasto con la versione di Dante proprio per quanto riguarda la scelta dell’eroe greco di non tornare mai piú in patria : scelta fatta, una volta per sempre, là, nel preciso momento nel quale abbandona Circe e si rimette in mare.

Di fronte a questa invenzione (che tale è e rimane, a dispetto di tutti gli sparsi suggerimenti che la tradizione, anche quella a Dante piú vicina, poteva offrire) è interessante osservare che Petrarca manifesta sino alla fine la sua sostanziale fedeltà alla versione dantesca, come ancora mostra, per esempio, il Tr. Fame II 17-18, ove Ulisse è caratterizzato come colui « che desiò del mondo veder troppo », con scoperto rinvio, di là dall’Amo-

31. R. Imbach, « Ulysse, figure de philosophe », op. cit., p. 230. Vale forse la pena di ricor-dare che il « vero » Ulisse « had never wished to leave home. His sole aim in the Trojan campaign was to finish it successfully as soon as possible. He had never wished to be a wanderer, ot traveller, or explorer. The early Greeks had no romantic illusion about the delights of voyaging to unexplored regions across the seas […] in the Odyssey the force of Odysseus’s heart and mind is essentially homeward bound, centripetal, towards Ithaca and Penelope » (William Bedell Stanford, The Ulysses theme : A study in the adaptability of a tradi-tional hero [1963], Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1968, p. 86-89). Qualcosa del genere scrive ora François Hartog, Memoria di Ulisse : Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia [1996], Torino, Einaudi, 2002, p. 44 : « Ciò che […] farà diventare emblematico Ulisse non è tanto la sua esperienza del mondo quanto la sua capacità di sottrarvisi : non il viag-gio, ma la traversata e i suoi pericoli fino alla liberazione finale », etc. A margine, va ancora osservato che è prova del genio di Dante l’aver collocato la « rottura » dello schema del ritorno proprio nel momento in cui, nell’Odissea, Ulisse si allontana da Circe e salpa verso il paese dei morti : che è precisamente, durante il ritorno, l’unica meta alternativa ch’egli si propone di raggiungere, interrompendo volontariamente il viaggio verso Itaca.

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rosa visione, a Dante³². Insomma, Petrarca non smentisce mai la versione di Dante, e invece ripetutamente la considera come una sorta di archetipo della « scelta virtuosa » libera da condizionamenti e debolezze. Fa anche qualcosa di piú perché, nel famoso passo che torno a citare, fa di Dante una sorta di nuovo Ulisse. Risentiamolo :

[…] exilio, cui pater in alias curas versus et familie solicitus cessit, ille obstitit, et tum vehementius cepto incubuit, omnium negligens soliusque fame cupidus. In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret.

Cosí, Petrarca è il primo nel lungo elenco di coloro che hanno sottolineato l’esistenza di uno stretto rapporto tra Dante e la figura di Ulisse da Dante stesso creata, e che in modi diversi se non addirittura opposti hanno cer-cato di interpretarlo. Personalmente, mi sento di concordare con la Barolini (ma non, come mi sembra risulti chiaro, dall’interpretazione solo negativa data, sulle orme di Bosco, alla frase di Petrarca), la quale si dice convinta « che Ulisse rifletta una consapevole preoccupazione di Dante. Anche la percezione di un profondo allineamento autobiografico fra il poeta e la sua creazione sembra avere radici antiche ; Umberto Bosco ha mostrato come l’intransigenza di Dante di non accettare i termini proposti dai fio-rentini per un suo ritorno a Firenze, nonostante la sofferenza inflitta alla sua famiglia, avesse provocato le reazioni contrastanti di Boccaccio, che ne prese le difese, e di Petrarca, il cui giudizio critico l’accusa implicita-mente di non essere come Ulisse. In conclusione, dunque, il Dante coin-volto nella figura di Ulisse non è solo il Dante del Convivio, un Dante del passato, ma anche il Dante della Commedia. Con il Dante della Commedia non mi riferisco al pellegrino che, come molti studiosi hanno dimostrato, è una sorta di doppio negativo di Ulisse. Mi riferisco piuttosto al poeta che si è imbarcato in un viaggio di cui riconosce la componente ulissiana, la teme e non la supera mai completamente. Ulisse è il parafulmine che Dante piazza nel suo poema per attirare e respingere la consapevolezza

32. L’ha ribadito Pacca, in giusto disaccordo con chi ha voluto negare questo evidente rap-porto. Non sarei però cosí sicuro che Petrarca « biasima il temerario che ha osato superare i limiti fissati all’uomo ed è colpito dalla vendetta divina » (Petrarca, op. cit., p. 399) : la sua mi sembra piú una presa d’atto che un giudizio.

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della propria presunzione nel presentarsi come uno scriba di Dio. In altre parole, Ulisse documenta l’autoconsapevolezza di Dante […] »³³. È vero : lo stesso rimando a Ulisse ha un valore diverso in Boccaccio e in Petrarca, presso il quale acquista sfumature piú ambigue, entro la trama assai deli-cata dei giudizi detti e di quelli solo allusi e insinuati che attraversa tutta la discussa epistola, nella quale Petrarca propone tra l’altro, attraverso Ulisse, una intrigante connessione tra se stesso e Dante³⁴.

Ma una cosa è certa. Alla luce di quanto Petrarca pensa di Ulisse, aver fatto di Dante un suo « doppio » suona come un elogio tutt’affatto speciale, che consacra il poeta nell’Olimpo degli eroi di virtute e conoscenza. La cosa è importante, perché influisce sull’interpretazione complessiva della lettera, e perché immediatamente porta l’attenzione sulla dimen-sione personale dell’esperienza di Dante, e stabilisce un forte legame tra la sua vicenda umana, anche politica, e la sua vicenda intellettuale. E di questa vicenda coglie la linea fondamentale di crescita, e il rigore e la fedeltà alle proprie premesse. Ancora, fa della metafora del « viaggio » il campo semantico entro il quale l’equazione Dante-Ulisse sviluppa tutte le sue potenzialità di significato : ma lo fa in un senso tutto particolare, dal momento che, nel caso, Ulisse non è quello della tradizione, ma, appunto, quello di Dante. Cioè, essenzialmente, quello che non ritorna. Il punto è decisivo. C’è infatti qualcosa che qui Petrarca riconosce per sempre a Dante : gli riconosce d’aver spezzato la struttura del ritorno che caratteriz-

33. Teodolinda Barolini, La Commedia senza Dio : Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 80 sq. — ed. orig. : The undivine Comedy : Detheologizing Dante, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1992, p. 52 : ma si veda tutto il capitolo, p. 48 sq. Per il rinvio a Bosco, si veda supra, n. 18. L’accenno al Convivio rimanda alla tesi di John Freccero, Dante : La poetica della conversione (1986), Bologna, il Mulino, 1989, p. 205, il quale vede nell’episodio di Ulisse la palinodia dell’atteggiamento filosofico espresso nel Convivio, colpevole di un’eccessiva fiducia nei poteri della ragione umana.34. Cosí, comprensibilmente, quelle parole non hanno cessato di stupire, come ancora testimonia, per esempio, Emilio Pasquini, nell’intervento sulla relazione di Piero Boitani, « Dall’ombra di Ulisse all’ombra d’Argo », in Dante : Mito e poesia : Atti […], a cura di M. Picone e T. Crivelli, Firenze, Cesati, 1999, p. 232 sq. Ma lo stesso Emilio Pasquini (« Per Dante nel terzo millennio », in Id., Dante e le figure del vero : La fabbrica della Commedia, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 266 sq.) scrive : « Petrarca è il primo intellettuale europeo ad aver letto nell’episodio dantesco la denuncia o la confessione di una paternità carente, di un venir meno — per brama di conoscenza o ambizione di gloria — ai piú irrinunciabili doveri verso gli affetti familiari » (rifacendosi al volume di Luigi Zoia, Il gesto di Ettore : Preistoria, storia e attualità del padre, Torino, Bollati Boringhieri, 2000). Ma questa spiegazione mi sem-bra contraddetta dagli altri passi di Petrarca sopra citati (per es., Fam., XXIII 2).

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zava la vicenda ulissiaca nella sua versione tradizionale, e dunque di aver spezzato la nozione circolare e pagana del tempo e di averla raddrizzata e infine ordinata all’unicità e irripetibilità del tempo cristiano. Se il « viag-gio » è il tempo della vita, e se tale viaggio coincide con quello della conos-cenza (solo in questo senso Ulisse è l’archetipo non pagano né cristiano, ma semplicemente umano, di questa possibilità : a suo modo, agli occhi di Petrarca, è un altro Magone…), e se la meta ultima della conoscenza — la salvezza — è quella medesima verso la quale la stessa freccia del tempo si dirige, ebbene, nessun ritorno è possibile. A meno di non negare la storicità stessa del viaggio, ridotto all’insignificante ed infinitamente elastica somma del suoi accidenti. Ecco perché Petrarca, impregnato di spiritualità agostiniana e pronto di lí a poco a polemizzare, nel De ignoran-tia, con le dottrine pagane circa l’eternità del mondo e la concezione ciclica del tempo (i « vuoti e stupidi cicli » dei pagani, sui quali tanto ironizza Agostino nel dodicesimo del De civitate Dei, e contro i quali, nel corso del ‘200, si è scagliato addirittura con ferocia san Bonaventura), non può e non vuole scontrarsi con l’iniziativa di Dante. In discussione, infatti, non c’è solo una mera questione di fedeltà o meno a una vulgata romanzesca e alle sue fonti antiche, ma qualcosa di ben piú sostanzioso, che non è possibile revocare in dubbio. Se Ulisse è la figura riassuntiva, totalizzante, dell’uomo che, in quanto tale, naturalmente desidera conoscere e che per questa via ben si offre a rappresentare un aspetto fondante dell’ideologia dantesca (onde il forte valore ermeneutico dell’iniziativa di Petrarca), a cosa e a chi avrebbe mai dovuto ritornare ? e perché ? Solo un obiettivo infinito può corrispondere a un desiderio infinito, e solo la trascendenza della Verità può dare senso all’immanenza di una ricerca che non si ferma mai perché non arriva mai alla meta verso la quale si muove. Petrarca, in questo, sta tutto dalla parte di Dante, e capisce profondamente le ragioni che l’hanno portato a inventare che, staccandosi da Circe, Ulisse abbia deciso che il destino di quell’uomo che egli era non stava piú nel tornare, ma nell’andare… Sul punto, occorre almeno ricordare che il vero scontro con il pensiero pagano si era giocato nel secolo precedente, quando i libri di Aristotele avevano invaso l’occidente e avevano costretto il cristianesimo a fare i conti con un universo concettuale e morale radicalmente diverso, che negava la creazione, presupponeva l’eternità del mondo e inevitabilmente, in una forma o nell’altra, approdava a una concezione ciclica del tempo. Fu chiaro, allora, che proprio qui passava il discrimine tra due mondi, e quello pagano con i suoi uomini e le sue opere venne, per dir cosí, gettato

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nel tempo cristiano : il tempo che va in una sola direzione e nel quale ogni cosa avviene una volta sola e per sempre (« Semel enim Christus mortuus est pro peccatis nostris », già scriveva Agostino, De civ. Dei XII 14, citando Paolo, ad Rom. 6 10)³⁵. Questa battaglia cominciava ad essere ormai alle spalle, ma restava ancora vicina e coinvolgente : e proprio Petrarca s’era impegnato con passione e intelligenza non già a cristianizzare i testi dei suoi autori, come avevano fatto i medioevali, ma a comprenderli e a ordi-narli lungo l’asse del tempo cristiano per quello che essi erano, con la loro indubitabile parte di verità. Egli non poteva dunque rinnegare un modo di essere e di pensare che era propriamente e intimamente suo, e incrinare i fondamenti stessi del suo approccio al mondo antico. Del resto, non è in qualche modo simile a Ulisse il suo Platone, « che ‘n quella schiera [dei filosofi] andò piú presso al segno/ al qual aggiunge cui dal cielo è dato »³⁶ ? E non lo sono, in fondo, i grandi moralisti antichi, insuperabili maestri di etica, ma fermi, tutti, di qua dal limite che non hanno potuto oltrepassare ? Si leggano le pagine finali del De otio, per esempio, e si vedrà immediata-mente che l’idea che le guida sta proprio in questo « mettere in fila », lungo

35. Per quanto qui si accenna troppo rapidamente, si veda l’ampia discussione condotta da Petrarca, De ignorantia, ed. cit., § 114-117 e § 127-135, p. 248-250 e p. 256-262 (ma ibid. anche l’« Introduzione », p. 20-33, e le note che accompagnano i passi citati). Per la biblio-grafia in merito, amplissima, mi limito a ripetere pochissimi titoli : Luca Bianchi, L’errore di Aristotele : La polemica contro l’eternità del mondo nel XIII secolo, Firenze, La Nuova Italia, 1984 ; Richard C. Dales, Medieval discussions of the eternity of the world, Leiden, Brill, 1990 ; Id., Medieval Latin texts on the eternity of the world, Leiden, Brill, 1991, ai quali s’aggiunga, per un aggiornamento, Anna Rodolfi, « “Ex nihilo id est post nihilum” : Alberto Magno e il dibattito sull’eternità del mondo », in Studi medioevali, s. III, XL, 1999, p. 681-704 ; Jacob H.J. Schneider, « The eternity of the world : Thomas Aquinas and Boethius of Dacia », in Archives d’Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge, LVI, 1999, p. 121-141. Per la topica contrapposi-zione tra moto/tempo circolare dei pagani, e moto/tempo lineare cristiano, riferita al viaggio di Ulisse e alla sua versione dantesca, si vedano le suggestive indicazioni di J. Freccero, Dante…, op. cit., p. 195-210, e, in generale, il libro assai bello di Remo Bodei, Ordo amoris : Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, il Mulino, 1991, in part. p. 68 sq. Ma si veda anche, in prospettiva diversa, P. Boitani, L’ombra di Ulisse…, op. cit., p. 59 : « Questo modello poe-tico, insopportabilmente tragico, mette in questione passate e presenti visioni del mondo, le considera come “alterità” : rompe lo spazio circolare dell’Odissea e il “mondo chiuso” del Medioevo e li trasforma in un itinerario lineare […] ». In questa chiave, trovo anch’io assai belle le parole di Georges Seféris (Essais : Hellénisme et création, Paris, Mercure de France, 1987, p. 264 : devo la citazione a F. Hartog, Memoria di Ulisse…, op. cit., p. 49), quando scrive che il naufragio dell’Ulisse dantesco gli lasciava « una specie di profonda e incancellabile cicatrice della definitiva scomparsa del mondo antico ».36. Tr. Fame, III 4-5. Per una analisi piú approfondita di questi versi, si veda il capitolo « Pla-tone, Agostino, Petrarca » , in E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, op. cit., p. 519-522 [p. 547 sq.].

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il viaggio verso la verità e la salvezza, pagani e cristiani, e nel misurare dove sono arrivati quelli, e dove questi possono arrivare. I migliori dei pagani, infatti, hanno fondato la felicità nella virtú, è vero e non è poco, ma oltre non sono andati, il loro viaggio lí si è fermato, come dinanzi a una barriera invalicabile : « gressum ibi philosophica figit inquisitio et velut apprehenso termino conquiescit. At nos […] ubi illi desinunt incipimus, neque enim ad virtutem quasi finem, sed ad Deum per virtutes nitimur ». Come si fa, dunque, a dirsi felici, quando ci si mette per via ignorando quale sia la meta alla quale si deve arrivare ? « Quisquam ne igitur se beatum dicere aude-bit tot casibus expositus tamque sue sortis nescius, quia scilicet interim secundum mortalem virtutem videatur incedere, quo iter suum referat aut ubinam desinat ignarus, quasi quisquis iter amenum ingressus et de fine quoque iam certus ideo felix sit aut omnino viatorem via non terminus compotire possit […] ». E ancora, poche pagine avanti, con l’esempio di quel Cicerone altrove definito quasi un apostolo (De ignorantia, 76) : « Deus ille, qui velocitatem ingenii dedit, veri aditum preclusit, quem nobis tardiusculis aperire dignatus est. Itaque, ubi Cice-ronis et comitum velox ingenium heret, nostrum segne pedetentim prodit […] »³⁷. Come non vedere, dietro queste parole, proprio Ulisse, questo « viaggia-tore » pagano che fidando nella propria intelligenza e virtú consuma la vita nell’andare « quo iter suum referat aut ubinam desinat ignarus » ?

Ma ecco. Non c’è dubbio che si debba muovere dal fatto che Petrarca, facendo di Dante un nuovo Ulisse, abbia voluto esaltarlo, fissandone il destino umano e intellettuale entro una formula tanto felice quanto sug-gestiva. L’elogio, tuttavia, appena lo si consideri piú da vicino e lo si riporti meglio entro le coordinate di giudizio petrarchesche, rivela d’avere in sé il proprio limite. Impone, infatti, che ci si chieda : Dante/Ulisse, ha raggiunto la propria meta, o è naufragato prima di averla raggiunta ? e poteva, poi, raggiungerla ? Mi sono espresso in modo forse un po’ brutale, ma sono convinto che nel gran capitolo sull’ambiguità che ha tra i suoi eroi pro-prio Ulisse debba rientrare di diritto anche Dante : il Dante di Petrarca, s’intende, e quello che emerge dalla lettera al Boccaccio in particolare.

37. De otio, in Opere latine, ed. cit., rispettivamente p. 778, 780 e p. 794. Nella seconda delle citazioni ho mantenuto il testo già fissato da Giuseppe Rotondi, p. 93 della sua edizione, fondata soprattutto sull’Urb. Lat. 333, anche se, in un punto, credo si debba intervenire, cor-reggendo quel « de fine quoque iam certus » in « d. f. q. incertus », che corrisponde assai meglio al chiaro contenuto del passo. Per Cicerone, che solo per poco ha mancato l’appuntamento con la Rivelazione, della quale sarebbe stato preco maximus (Fam., XXI 10 13), si veda De ignorantia, 72 sq., ed. cit., p. 224 sq. e n. relative.

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Petrarca ne pronuncia un altissimo elogio, ripeto, ma le parole stesse dell’elogio hanno due facce, ed entrambe le facce traggono la loro ragion d’essere dall’ambiguità originaria che Dante ha conferito a un Ulisse che ora è diventato il suo « doppio »… Non so quanto utilmente, ma certo si potrebbe discorrere a lungo dell’intelligente mossa petrarchesca che colpisce il grande rivale con le sue stesse armi, ribaltando sul creatore la sublime ambiguità della sua piú controversa creatura. Tuttavia, è meglio restare alla sostanza del discorso, e osservare che l’operazione di Petrarca trasforma ma però essenzialmente ancora s’affida al vecchio e però effi-cace topos che recita : « Aristotele fu un uomo e poté errare », sul quale Luca Bianchi ha scritto importanti pagine³⁸. Topos che Petrarca usa, per esempio, non solo nei confronti di Aristotele (De ignorantia, cit., § 63 e 154, p. 216 e p. 272), ma anche di Cicerone : « si homo fuit, errasse profecto potuit et erravit » (Fam., XXIV 2 10), e addirittura di san Bernardo : « Nonne abbas homo est ? […] Homo erat et, in carne positus, passionibus subiacere poterat », e degli stessi apostoli : « Nam etsi sancti sunt, homines tamen sunt : etsi vinci a carne non possunt, quasi iam spirituales, tamen percuti possunt, quasi adhuc car-nales », citando rispettivamente Berengario e Giovanni Crisostomo (Contra eum…, cit., § 13, p. 84). La valenza riduttrice dell’argomento è infatti evi-dente, nel momento che invoca una comune misura umana, e libera l’og-getto del giudizio dalla corazza di una supposta infrangibile sacralità. Lo stesso Petrarca che si è paragonato a Ulisse, ora paragona Dante a Ulisse, nel segno di una larga definizione delle rispettive vocazioni e dei rispettivi meriti, e insinua un giudizio di massima al quale nessun uomo può sottrarsi, quasi dicesse : « né Ulisse né Dante né io — né alcun altro, per la verità — per quanto ci siamo avvicinati, abbiamo raggiunto la meta trascendente e però irrinunciabile del nostro viaggio ». Ma ciò comporta (questo è, se si vuole, il velen dell’argomento) una speciale pregnanza di significato nei confronti di Dante, che si presenta sulla scena come colui che, unico tra gli uomini sui quali si erge giudice, l’ha raggiunta… Ma no, ché neppure Dante è realmente sbarcato ai piedi di quella montagna che Ulisse ha solo intravvisto, e tanto meno è davvero salito sino all’Empi-reo. Dante, insomma, è un uomo, e come uomo, con i suoi meriti e le sue deficienze e in base a ciò che concretamente ha fatto, può e deve essere

38. Luca Bianchi, « Aristotele fu un uomo e poté errare » : sulle origini medievali della critica al “principio di autorità”, in Filosofia e Teologia nel Trecento : Studi in ricordo di Eugenio Randi, a cura di L.B., Louvain-la-Neuve, FIDEM, 1994, p. 509-533.

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giudicato (e ciò che ha fatto è sotto gli occhi di tutti, « quibus intenderit, palam est », abbiamo visto) : con rispetto e reverenza, certo, ma pur sem-pre entro l’àmbito della comune e partecipata esperienza umana che tutti comprende e dalla quale non c’è chi davvero possa uscire. Per ripetere le parole del Triumphus Fame dedicate a Platone, la differenza non sta tra chi ha raggiunto la meta e chi no, visto che essa è in ogni caso irraggiungibile, ma tra chi, a quella meta, si è piú o meno avvicinato. Che è appunto il modo, sulla base della comune esperienza dell’umana insufficienza, di rimettere in mani umane la possibilità e la legittimità stesse del giudizio, con le sue luci e le sue ombre, come la lunga parte restante della lettera al Boccaccio s’incarica di dimostrare. Da questo punto di vista, l’aver posto quella generale equivalenza tra Dante e Ulisse come una specie di cappello all’ombra del quale albergano considerazioni piú precise costituisce una fondamentale mossa strategica, che incanala il caso critico entro la dimen-sione del viaggio piú che della meta, e insomma del tentativo, radicale e generoso quanto si voglia, piuttosto che del risultato. Ovvero — dicia-mola tutta — sottolinea l’apprezzamento per l’uomo piú che per l’opera, e, dell’opera, non la qualità del risultato ma semmai la grandiosità del fallimento. Non che l’articolata trama della lettera si limiti a questo, ma certo l’ipoteca è forte e sembra riemergere, tra tante altre cose, ogni volta che Petrarca accentua gli elementi di discontinuità : tra lo stile « popo-lare » e la nobiltà del contenuto (§ 1 : « popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem hauddubie nobilis poete ») ; tra l’ammirazione per la sua poesia e il disprezzo verso coloro che la ammirano ; tra il riconoscimento di quella nobiltà e però la sua relativizzazione all’interno di un possibile diverso percorso (§ 21 : « Quam tandem veri faciem habet ut invideam illi qui in his etatem totam posuit, in quibus ego vix adolescentie florem primitiasque posuerim ? »). Il discorso sullo « stile », abbinato a quello sull’opposizione volgare/latino, è un po’, lo si vede bene, il cavallo di Troia che permette ogni volta di porre riserve che sottintendono una valenza piú generale. Lo avvertiamo specialmente in quel punto delicato nel quale Petrarca afferma che il fatto di eccellere nel volgare a scapito del latino ha reso Dante « sibi imparem » (§ 24) : « inferiore a se stesso », quindi, e perciò incompiuto, irrealizzato. Tutto mostra, infine, che l’indiretto rimando alla figura di Ulisse non è né casuale né irrelato, ma catalizza, invece, una serie di altre affermazioni e le fissa in un’immagine riassuntiva di inesauribile ambiguità. Come l’Ulisse di Dante, anche il Dante di Petrarca si è messo in gioco sino in fondo, tutto ha dedicato al viaggio intrapreso,

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ed è forse arrivato a vedere la meta alla quale tendeva, cosí alta che riesce persino difficile esprimerla in parole. In ogni caso, se l’ha vista, non l’ha raggiunta, come Ulisse non ha raggiunto la sua. Ma, insinua Petrarca ai suoi lettori, forse lo poteva ?

È il momento di concludere, ripetendo che l’aver assomigliato Dante a Ulisse è stata una mossa geniale, ricca di valenze ermeneutiche che non risultano meno forti per essere piú suggerite che dette. Ma è anche signi-ficativo che talvolta Petrarca proietti se stesso sulla figura di Ulisse, sí che, seppur ancora in modo estremamente cauto e indiretto, egli finisce per gettare un qualche ponte tra sé e il predecessore. Le direzioni alle quali egli piega il modello sono però sensibilmente diverse, ché, come ha mostrato Carrai analizzando la dedicatoria delle Familiares³⁹. Ulisse vale nel suo caso quale archetipo dell’irrequietezza e della varietà dei luoghi e dei rapporti, mentre nel caso di Dante, non direi all’opposto ma certo con sensibile divergenza, Ulisse è semmai l’archetipo dell’ostinazione, della fermezza. Dante all’esilio non concede nulla, abbiamo visto, e tra mille difficoltà pro-segue il cammino intrapreso con quella stessa inflessibile determinazione che ha trascinato Ulisse « per l’alto mare aperto », sino al naufragio. Ulisse, insomma, è posto da Petrarca al centro del discorso quale possibile imma-gine riassuntiva di un giudizio assai complesso, ricreando, come ho già cercato di dire, un’ambiguità analoga a quella che avvolge il personaggio dantesco, nella sua insolubile mistura di ammirazione e condanna⁴⁰.

Il vero mistero sta probabilmente qui, in questa immagine che Petrarca rinnova e della quale conserva l’efficacia : e direi ancora che le conside-razioni fatte sin qui probabilmente ridimensionano la centralità del tema

39. S. Carrai, « Il mito di Ulisse nelle Familiari », op. cit., p. 170 : celebrando l’eroe greco Petrarca in realtà mira « alla sua propria esperienza e alla sua propria personalità di intel-lettuale che aveva saputo superare i confini ristretti di una sola regione per maturare conos-cenze ampie e diverse, in realazione anche ai vari spostamenti cui il destino lo aveva cos-tretto ». E ancora, p. 173, a proposito della prima lettera delle Familiares : « In confronto al colloquio epistolare degli antichi, l’odissea finiva per configurarsi […] quasi come metafora della conversazione epistolare dei moderni, di necessità obbligati ad avere destinatari plu-rimi e a mutare stile col mutare degli interlocutori, cosí come l’eroe antico aveva sperimen-tato lingue e stratagemmi diversi col mutare dei luoghi visitati e degli antagonisti ».40. Al tema dell’ambiguità insita nella figura dell’Ulisse dantesco ho dedicato alcune con-siderazioni alle quali rimando : Enrico Fenzi, « Seneca e Dante : da Alessandro Magno a Ulisse », in Studi sul canone letterario del Trecento : Per Michelangelo Picone, a cura di J. Bartus-chat e L. Rossi, Ravenna, Longo, 2003, p. 67-78.

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critico relativo all’uso del volgare, in genere largamente privilegiato da chi ha considerato la lettera. Su di esso conviene tuttavia fermarsi, anche se brevemente. Al proposito, isoliamo, per comodità, i tre punti sui quali Petrarca insiste : lo stile di Dante è « popolare », ancorché ottimo nel suo genere ; nell’uso del latino egli è stato inferiore rispetto al volgare ; il Dante esplicitamente ricordato da Petrarca è il lirico, non l’autore della Comme-dia. Abbiamo già visto come i primi due punti siano tra loro implicati, ma occorre anche aggiungere che Petrarca li tiene distinti. In altre parole egli evita di fare oggetto del suo giudizio la scelta del volgare, e semmai pre-ferisce insinuare obliquamente il limite ch’essa ha comportato attraverso la forma dell’elogio, precisamente là dove afferma che il Dante migliore è stato incontestabilmente quello volgare, dopo aver però premesso che proprio per questo egli non è stato « pari a se stesso », e insomma dise-guale, non perfetto… : « Unum est quod scrupulosius inquirentibus aliquando respondi, fuisse illum sibi imparem, quod in vulgari eloquio quam carminibus aut prosa clarior atque altior assurgit » (§ 21). La critica suona dunque abbastanza indiretta e sottile : proprio come l’altra, del resto, relativa al livello stilistico. Nel senso che Petrarca non mostra di avere nulla da eccepire circa lo « stile popolare » nel quale Dante sarebbe stato eccellente, ma di fatto riesce a farlo responsabile del tipo di successo che questo stesso stile gli ha meritato : un successo popolare e volgare, appunto, ottenuto presso un pubblico di tessitori, di osti e di facchini : « aut cui tandem invideat qui Virgilio non invidet, nisi forte sibi fullonum et cauponum et lanistarum ceterorum ve, qui quos volunt laudare vituperant, plausum et raucum murmur invideam, quibus cum ipso Virgi-lio cumque Homero carere me gratulor ? » (§ 22). Certo, la parola che piú volte ci viene alle labbra : perfidia, torna anche qui prepotente, solo che si osservi come Petrarca dichiari e insieme dissimuli il proprio gioco. Da una parte (e lasciamo pure da parte la menzione, proprio in questo contesto, di Virgilio) egli ostenta di voler salvare Dante dalla pessima qualità dei suoi estimatori, ma dall’altra assume tale pessima qualità come una sorta di verifica che illumina i limiti di Dante medesimo, e queste due diverse letture egli intrec-cia strettamente in quella frase, perfida, appunto : « qui quos volunt laudare vituperant » (quei tali « oltraggiano coloro che vogliono lodare », ma anche « denunciano i difetti », « infamano »).

Il discorso di Petrarca è dunque tramato di eleganti sottigliezze pole-miche, ma la statura stessa dell’oggetto le eccede di troppo perché possa filare via liscio, senza palesi contraddizioni. E infatti sul terzo punto s’in-ceppa, e mostra vistose crepe. Prendiamola un po’ alla larga. Abbiamo

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parlato, all’inizio, della rimozione del nome : ora, potremmo forse dire che essa acquista una qualche pallida parvenza di legittimità. Nel senso che evitando di pronunciare quel nome Petrarca marca nel modo piú forte possibile il suo rifiuto di entrare in polemica con chicchessia, e quindi di farsi trascinare in un dibattito inevitabilmente « popolare » e inqui-nato da sentimenti popolari, del quale non avrebbe avuto il completo controllo : la spiegazione che egli fornisce, del resto, va in questo senso, perché punta il dito contro un fanatismo volgare che diffida del ragio-namento e delle sue distinzioni e cautele, e che non sopporterebbe un approccio intimamente desacralizzante come il suo. La rimozione del nome, allora, è invocata per difendere l’integrità dell’oggetto liberandolo dall’identità pubblica che al nome è inchiodata, e riconsegnandolo per contro (una volta liberato Dante da Dante, diremmo) in mani esperte. Che sono naturalmente le mani di lui, Petrarca, le uniche che per ragioni storiche e competenze culturali siano in grado di accoglierlo e di rico-noscerne il valore : « Mentiuntur igitur me illius famam carpere, cum unus ego forte, melius quam multi ex his insulsis et immedicis laudatoribus, sciam quid id est eis ipsis incognitum quod illorum aures mulcet […] » (§ 14). Ma resta un dubbio. Se è vero, infatti, che la rimozione del nome appare un elemento particolarmente sgradevole, dotato di un significato simbolico che male si concilia con le varie proteste di stima e d’affetto sparse per la lettera, è altrettanto vero che essa copre altre e forse piú sostanziali rimozioni, che vivono nell’ombra e come protette da quella, e sono per-ciò piú inquietanti. Ricordiamo allora una cosa già detta : nel sonetto 287 dei RVF e nel terzo del Triumphus Cupidinis Dante è nominato come poeta d’amore, e insomma, con ogni evidenza, come l’autore delle rime e della Vita nova. Né si dimentichi che nella canzone delle « citazioni », RVF LXX 30, Petrarca chiude la terza stanza con l’incipit della petrosa (almeno, sino alla recente edizione De Robertis) Cosí nel mio parlar voglio esser aspro, che suona come ulteriore citazione e atto di omaggio a Dante quale grande lirico : del resto, come ho velocemente accennato sopra, la stessa pratica petrarchesca della sestina è in ogni caso anche la ripetuta e aperta conferma di un tale omaggio. Ma ciò non fa che rendere ancor piú evidente il fatto che il Dante di Petrarca, infine, non è mai l’autore della Commedia. Né lo è qui, nella lettera. O meglio, se ne proiettiamo le parole su quanto sappiamo o crediamo di sapere, possiamo pure dare per scontato che il Dante di cui Petrarca parla sia in effetti l’autore della Commedia : ci induce a pensarlo il suo ruolo di « primus studiorum dux et

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prima fax » del giovane Boccaccio (§ 2 sq.), e quanto si dice sulla sua dedi-zione agli studi (§ 7), e soprattutto quanto si dice dello stile « popolare » e del suo successo « inter ydiotas in tabernis et in foro » (§ 15, etc.), e del modo deformato e corrotto con il quale i suoi versi risuonavano nelle bocche del volgo (§ 16 sq.), che è cosa sulla quale, si sa, esiste una discreta serie di aneddoti, riferiti ovviamente tutti alla Commedia, e cosí via. Ma in verità non c’è nulla di esplicito, ed è semmai il linguaggio allusivo di Petrarca che ci fa credere a qualcosa che egli si guarda bene dal dire. E che addirit-tura contraddice. Quando spiega di aver voluto evitare nella giovinezza la lettura di Dante per non esserne soggiogato e perdere la propria ori-ginalità, si premura infatti di aggiungere : di Dante e di altri (§ 11 : « sed verebar ne si huius aut alterius dictis imbuerer », e ancora, § 12 : « Hoc unum non dissimulo, quoniam siquid in eo sermone a me dictum illius aut alterius cuiusquam dicto simile […] », corsivi miei), e questo piccolo, in apparenza trascurabile allineamento taglia via senza parere proprio ciò che nessun altro ha in comune con Dante, la Commedia. Che non si tratti di una inter-pretazione troppo sottile e maliziosa, s’incarica di dimostrarlo un passo che sempre ha suscitato sconcerto (§ 21) :

Quam tandem veri faciem habet ut invideam illi qui in his etatem totam posuit, in quibus ego vix adolescentie florem primitiasque posuerim ? ut quod illi artificium nescio an uni-cum, sed profecto supremum fuit, michi iocus atque solatium fuerit et ingenii rudimentum ? Quis hic, precor, invidie locus, que ve suspitio est ?

Ora, io non voglio tornare su parole cosí antipatiche e bugiarde (almeno qui, Petrarca è indifendibile) se non per osservare che in esse è evidente la volontà intimamente contraddittoria rispetto alla premesse di limitare l’opera di Dante alle rime e alla Vita nova, cancellando sin l’esistenza della Commedia : quello che, dalla parte di Petrarca, è il « gioco e il sollazzo » della giovinezza (che le cose non stiano poi cosí, qui non importa) non può che identificare le rime amorose, i fragmenta volgari, e proprio e solo ad esse Dante avrebbe dunque dedicato tutta la vita… Ma è altrettanto evidente che la lirica di Dante non può in alcun caso giustificare tutto il discorso dello stile « popolare », e ancor meno quello relativo al pubblico che per le piazze e nelle taverne al poeta ha decretato tanto successo. Solo la Commedia può farlo : ma la Commedia è la grande innominata, proprio come innominato è il suo autore. Nella lettera Petrarca le gira attorno, la

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sfiora, in qualche suo contorto e sfuggente modo la giudica, ma non la nomina mai, né mai ne parlerà altrove, in tutta la sua opera⁴¹.

In questa luce risentiamo il parere di Paolo Trovato, che già ha pun-tato il dito su quella riduzione di Dante alla sola esperienza lirica, con la conseguente rimozione « dell’esperienza dantesca piú decisiva » (e piú decisiva, come lo studioso ben documenta, soprattutto per Petrarca), e però aggiunge : « Cfr. le frasi : “popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem hauddubie nobilis poetæ”, “stilus in suo genere optimus”. Le osserva-zioni petrarchesche dovevano però sembrare, a norma delle allora vigenti teorie stilistiche, freddine ma assolutamente corrette »⁴². Giustissimo : ma appunto, esse hanno senso e appaiono storicamente e culturalmente « cor-rette » se applicate alla Commedia. Il che sta a dire che del tutto corrette non sono, o almeno che non è corretto il contesto nel quale sono collocate, che volutamente ignora proprio la Commedia.

Per chiarire ulteriormente questo aspetto potremmo anche aggiungere, infine, che il caso della Familiare XXI 15 sembra, ma in verità non è della stessa qualità di quello offerto dalla Senile XVII 3, cioè dalla lettera con la quale Petrarca accompagnò al Boccaccio la traduzione latina della Griselda. Del Decameron proprio all’inizio si parla con un tono e con espressioni che già ci pare di aver ascoltato : « Librum tuum quem nostro materno eloquio, ut opinor, olim iuvenis edidisti, nescio quidem, unde vel qualiter ad me delatum vidi : nam si dicam “legi” mentiar, siquidem ipse magnus valde ut ad vulgus et soluta scriptus oratione et occupatio mea maior et tempus angustum erat », etc.⁴³,

41. Per la verità, farebbe eccezione una lettera perduta, Ne te laudasse peniteat, nella quale Petrarca avrebbe dichiarato di non vedere la ragione del titolo Commedia, come riferisce Fran-cesco da Buti nel suo commento a Inf., XXI 2 : « Sarebbe dubbio, se questo poema dell’autore si dee chiamare comedia o no ; ma poi che li piacque chiamarla comedia debbalisi concedere. Messer Francesco Petrarca in una sua epistola che comincia Ne te laudasse pœniteat etc., muove questa questione e dice : Nec cur comœdiam vocet video » (Commento di Francesco da Buti sopra la Divina commedia di Dante Alighieri, per cura di C. Giannini, Pisa, Nistri, 1858-1862, vol. I, p. 543). Si veda Gian Carlo Alessio, « Hec Franciscus de Buiti », in Italia medioevale e umanis-tica, XXIV, 1981, p. 104 ; C. Paolazzi, « Petrarca, Boccaccio… », op. cit., p. 246.42. P. Trovato, Dante in Petrarca…, op. cit., p. 18 sq. e n. 27. Per una sostanziale e impor-tante accettazione delle categorie petrarchesche, Trovato rimanda a Benvenuto da Imola, che ripete alcune espressioni della lettera : per ciò, si veda in particolare C. Paolazzi, « Petrarca, Boccaccio… », op. cit., p. 241 sq.43. Sen., XVII 3, in Opera…, ed. cit., p. 600. Qui, la lettera e la traduzione sono stampate a sé, con il titolo De obedientia et fide uxoria : per maggiori notizie e indicazioni bibliografiche, rimando a F.P., De insigni obedientia et fide uxoria : Il codice Riccardiano 991, a cura di G. Alba-nese, Alessandria, Edd. dell’Orso, 1998 (con eccellente riproduzione fotografica del codice).

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e questo atteggiamento di superiore distacco verso un’opera segnata dalla giovane età dell’autore, dallo stile « comico », dall’idioma volgare e dalla qualità del pubblico al quale si rivolge è riecheggiato anche avanti. Ma qui davvero Petrarca è incomparabilmente piú corretto nell’uso delle sue cate-gorie, e sa aprirsi persino a un elogio sincero giustificando la sua traduzione proprio con l’ammirazione nei confronti di una novella che aveva apprez-zato al punto d’averla imparata a memoria, e con il desiderio che fosse letta da tutti coloro — per lo piú stranieri, si immagina — che non conoscevano il volgare del Boccaccio. Se dunque alcuni prevedibili criteri retorici e lin-guistici possono rendere la Senile affine alla Familiare, del tutto diverso è l’atteggiamento di fondo, in quella privo di imbarazzanti censure e contrad-dizioni, ed anzi segnato da forte simpatia. Il caso di Dante e della Commedia fa dunque caso a sé, e crea problemi del tutto speciali. Invidia ? paura ? ina-deguatezza ? condanna ? La situazione è indubbiamente schizofrenica, e da una siffatta schizofrenia non sembra facile disincagliare la lettera, tanto piú che la Commedia è di gran lunga il testo piú frequentato da Petrarca (anche piú delle pur amatissime Rime, le petrose in testa), come ormai si sa bene, specie dopo le indagini sistematiche di Santagata e Trovato. E su questo mi fermo. Non senza ripetere, ancora, che è probabilmente per questo che a me appare cosí importante che Petrarca appoggi il suo discorso a Quintiliano, e che collochi in posizione strategica quel suo paragone tra Dante e Ulisse. Nei due casi, infatti, s’aprono due difficili varchi che sembrano portarci al cuore della questione altrimenti elusa : come se egli s’impegnasse a par-larci della Commedia pur senza nominarla, prima sul piano del linguaggio e dello stile assolutamente considerato, di là della stessa questione latino-vol-gare ; poi sul piano intellettuale ed etico, attraverso Ulisse e le implicazioni ricchissime di significato legate alla sua immagine. Ma infine, si deve pur dire che il discorso resta aperto, e presumibilmente lo resterà, data la sua natura in gran parte indiziaria. Sono tuttavia convinto che qualche lume in piú potremmo averlo (e mi scuso di concludere con un « salto » siffatto) se considereremo attentamente il fatto che il viaggio di Dante passa per l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, mentre la piú alta e chiara esperienza dantesca di Petrarca, i Triumphi, prevedono un viaggio affatto diverso, dal trionfo d’Amore a quelli della Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo e dell’Eternità. Sono due modelli irriducibili l’uno all’altro : due immagini alternative dell’uomo e del suo destino, e si può dunque immaginare che capiremmo qualcosa di piú circa il rapporto che Petrarca instaura con la figura di Dante quando avremmo capito in maniera piú profonda sia quello che unisce, ma soprattutto quello che divide Commedia e Triumphi.

enrico fenzi

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