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1 Percorsi migratori: Casalgrande, Scandiano e la Val di Secchia. Alcuni casi di emigrazione reggiana in Francia tra le due guerre mondiali.
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Percorsi migratori: Casalgrande, Scandiano e la Val di Secchia. Alcuni casi di emigrazione reggiana in Francia tra le due guerre mondiali

Feb 19, 2023

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Ida Karkiainen
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Page 1: Percorsi migratori: Casalgrande, Scandiano e la Val di Secchia. Alcuni casi di emigrazione reggiana in Francia tra le due guerre mondiali

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Percorsi migratori : Casalgrande, Scandiano e la Val di

Secchia. Alcuni casi di emigrazione reggiana in Francia

tra le due guerre mondial i .

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Indice

INDICE&...................................................................................................................&2!

PARTE&PRIMA:&&L’ITALIA&.........................................................................................&5!

INTRODUZIONE!........................................................................................................!5!DALLA!QUESTIONE!ROMANA!ALLA!PACE!DI!VERSAILLES!..........................................!8!IL!NORD!ITALIA!E!LA!TRADIZIONE!MIGRATORIA!ITALIANA!......................................!18!Il#Piemonte#..........................................................................................................#21!La#Lombardia#......................................................................................................#23!Il#Veneto,#l’America#e#le#differenti#correnti#migratorie#italiane#..........................#25!La#Toscana#e#l’Emilia#...........................................................................................#29!La#Romagna#e#la#Lorena#mineraria#.....................................................................#35!L’emigrazione#politica#.........................................................................................#39!

L’EMILIA!E!LA!PROVINCIA!DI!REGGIO!EMILIA!TRA!DIFFICOLTA’!ECONOMICHE!E!SOCIALISMO!...........................................................................................................!44!L’Emilia#Romagna,#regione#dalle#molte#anime#...................................................#44!La#cittadella#del#socialismo#.................................................................................#48!Emigrare#o#lottare?#.............................................................................................#56!

LA!VAL!DI!SECCHIA!DALL’UNITA’!AL!FASCISMO!.......................................................!59!La#Val#di#Secchia,#un#territorio#dalle#diverse#anime#............................................#60!Casalgrande#........................................................................................................#61!Scandiano#...........................................................................................................#63!La#situazione#politica#all’avvento#del#fascismo#...................................................#66!La#via#dell’esilio#volontario#.................................................................................#70!

PARTE&SECONDA:&&LA&FRANCIA&............................................................................&73!

LA!GARE!DE!LYON!...................................................................................................!73!DA!CASALGRANDE!!A!PARIGI!..................................................................................!85!Altri#esempi#di#emigrazione#................................................................................#89!Pietro#Grulli:#un’impresa#“multinazionale”#.........................................................#94!Gli#anni#’30#e#la#Lorena#.......................................................................................#98!

GLI!ANNI!DELLA!GUERRA!E!LE!CITTADELLE!REGGIANE!IN!BANLIEUE!.....................!103!MaisonsSAlfort#..................................................................................................#106!Charenton#.........................................................................................................#111!

CONCLUSIONI&.....................................................................................................&113!

BIBLIOGRAFIA&....................................................................................................&126!

FONTI!ARCHIVISTICHE!..........................................................................................!126!BIBLIOGRAFIA!GENERALE!.....................................................................................!127!

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Nel corso del nostro lavoro di ricerca ci si è avvalsi dell’utilizzo di alcune fonti

documentaristiche ricavate dalla consulta di diversi archivi, sia in Italia che in

Francia. In riferimento a queste, nel nostro elaborato faremo ricorso a delle

abbreviazioni che sono riportate in questa pagina.

Archivio Comunale di Casalgrande = ACC

Archivio Comunale di Castellarano = ACCT

Archivio della Provincia di Reggio Emilia = APRE

Archives de la Préfécture de Police de Paris = APP

Archives Nationals de Paris = ANP

Archives du Val-de-Marne = AVDM

Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale = ACS

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Parte prima: l’Italia

“Faut-il partir? Rester? Si tu peux rester, reste; Pars, s’il le faut”

Le Voyage, Charles Baudelaire

INTRODUZIONE

Nel settembre del 2010 il ministro dell’immigrazione francese Eric Bresson sollevò

un discreto polverone mediatico nel suo paese dopo aver dichiarato al quotidiano Le

Parisien che la missione del suo ministero era quella di “fabriquer des bons

français”1. Tra le varie conseguenze che questa dichiarazione implicava, una delle

più interessanti a nostro parere toccava il concetto di “identità”. Il modello

d’integrazione francese si basa sull’idea che chiunque intenda stabilirsi in modo

permanente sul territorio della Repubblica debba accettare in toto il modello culturale

francese, abbracciando l’ideale nazionale costruitosi a partire dalla Rivoluzione, e

giurare fedeltà alla Repubblica, erede della grande rottura di fine Settecento. Alcuni

hanno definito questo modello come una forma di “etnocentrismo assimilazionista”2

opponendolo al modello tedesco, fondato sullo ius sanguinis e quindi molto meno

inclusivo, o a quello americano, che pur avendo carattere inclusivo tende a

privilegiare alcune correnti migratorie rispetto ad altre3. Il modello francese in sintesi

si propone come il più aperto ad accogliere nuovi cittadini, a patto però che questi

accettino una determinata visione della cittadinanza, e soprattutto, un determinato 1 Le Parisien, 28 settembre 2010 2 Intervista di Cristiano Santori (collaboratore dell’agenzia ministeriale Italia-lavoro) a Fabio Massimo Parenti (geografo), curatore del volume su Gli spazi della globalizzazione, flussi finanziari, migrazioni e trasferimento di tecnologie, Diabasis, Reggio Emilia, 2004. 3 Segnatamente gli emigrati provenienti dai paesi di ceppo germanico, di religione protestante o di tradizione liberale.

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esito del percorso migratorio. Non tutti infatti sono disposti a rinunciare a una parte

della propria identità, e nemmeno a vedere la propria esperienza all’estero come una

soluzione a carattere permanente.

L’Italia e i suoi cittadini emigrati hanno recitato una grossa parte in ognuno di questi

differenti contesti. Ben ventisei milioni di persone4 hanno lasciato la penisola negli

ultimi 150 anni, e non si trattava solamente della stereotipata figura dell’emigrato

siciliano o campano, che è entrata nella leggenda grazie alla cinematografia

americana: il Nord Italia fu un protagonista assoluto in questo fenomeno,

contribuendo per circa il 50% del totale. La maggior parte dei migranti dello Stivale

non salpò infatti per inseguire il sogno americano, e, meno poeticamente, valicò le

alpi per raggiungere le pianure del sud-ovest, la Corsica, la Lorena, il Var, la Savoia,

o magari la città che allora era insignita del titolo di “capitale dell’Occidente”, cioè

Parigi.

Nel presente lavoro si è cercato di evidenziare partendo da una piccola, ma ben

definita e riconoscibile comunità, il percorso, le vicissitudini e i motivi che hanno

spinto queste persone a intraprendere un percorso migratorio che poi non sempre si è

concluso con “successo”.5 Negli ultimi anni e per ovvie ragioni, negli studi

sull’emigrazione si è cercato di privilegiare le esperienze positive, soprattutto da

parte di quei paesi come la Francia, che sono entrati in una fase di ridefinizione

storica del fenomeno; noi riteniamo però che per una migliore e più completa

comprensione di un processo sia utile allo stesso tempo studiare anche le esperienze

di coloro che hanno “fallito”. Sì, perché molti degli emigrati di cui ci siamo occupati 4 Patrizia Audenino, Maddalena Tirabassi, Migrazioni Italiane, Mondadori, Milano, 2008, p. 28 5 Gran parte della storiografia dell’emigrazione intende o ha inteso con “successo” l’integrazione/assimilazione completa dell’emigrato e il suo inserimento stanziale nel luogo d’immigrazione. Ora, come diversi studi recenti stanno evidenziando, i parametri di “successo” e “insuccesso” migratorio stanno decisamente perdendo forza come categorie interpretative del processo migratorio; sono ormai diversi i lavori che si muovono in direzione di una visione meno generalista e teleologica, più indirizzata a mostrare le peculiarità individuali e le ragioni personali dei soggetti studiati, rifiutando le dicotomie emigrazione permanente – integrazione, emigrazione temporanea – non integrazione. A questo proposito Antonio Canovi scrive: “La sostituzione del modello nazionalista - assimilazionista con un modello transnazionale – multiculturale costituisce,alla luce dei processi globalizzati contemporanei, un adeguamento necessario e tuttavia non sufficiente. Serve un cambio di scala, diciamo pure di palinsesto. Piuttosto che la partigianeria per l’uno o l’altro macroscenario sociologico, lo storico delle migrazioni ha da rintracciare sotto la pelle delle “dispersioni” di popolazione le ragioni soggettive del migrante”. V. A. Canovi “L’immagine degli italiani in Belgio. Appunti geostorici”, contenuto in Diacronie N°5 , I, 2011.

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sono rientrati in Italia tra la vigilia e l’indomani della seconda guerra mondiale,

terminando “negativamente”, secondo i canoni classici del tragitto migratorio, il loro

percorso di evoluzione identitaria, con un ritorno al milieu d’origine. Quello che a un

primo sguardo può sembrare un arresto, un abbandono di un percorso evolutivo, si è

rivelato però come un cammino all’insegna della continuità, con l’antifascismo a

costituire il minimo comune denominatore di percorsi e traiettorie differenti.

Per inquadrare e dare uno sfondo storico alla nostra ricerca, siamo partiti dalla

cospicua e ben articolata mole di studi, per lo più compiuti direttamente in Francia,

prodotta sotto il coordinamento del CEDEI (Centre d’étude et documentation de

l’émigration italienne) di Parigi, e li abbiamo integrati con i dati ricavati dalla

documentazione archivistica dei comuni italiani cui appartenevano gli emigrati che

abbiamo studiato. Abbiamo poi incrociato questa ricerca con i dati raccolti presso gli

archivi di Parigi e della Camera del Lavoro, impiegando anche fonti orali, ottenute

mediante le testimonianze dei figli, dei nipoti e di conoscenti di alcuni di questi

emigranti.

Il percorso si articola in due sezioni principali, la prima delle quali riguardante l’Italia

e la situazione del paese al tempo in cui migrare era una scelta comune. Si è tentato di

tracciare un quadro abbastanza preciso della situazione economica e sociale

dell’Italia del tempo, mostrando le differenti peculiarità delle comunità prese in

considerazione e le ragioni che spinsero i più a lasciare la terra natia per la Francia.

Naturalmente si è dato ampio spazio alla notevole influenza che la conquista del

potere da parte del fascismo ebbe sulla situazione dell’Emilia, in particolare della

provincia di Reggio Emilia, dove il socialismo e la forma cooperativa avevano avuto

uno straordinario e precoce sviluppo.

Nella seconda parte si è voluto ripetere il medesimo procedimento, questa volta

concentrandosi sul “milieu parisien” e sulla situazione degli italiani residenti in

Francia, in particolare nella capitale. Anche qui si è cercato di tracciare un quadro

piuttosto dettagliato del contesto socio-economico entro cui si ebbero a inserire i

nostri connazionali, prestando attenzione anche alle implicazioni politiche e

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all’influenza che le vicende francesi ebbero sull’inserimento degli immigrati. Infine,

nelle conclusioni si è tentato di trovare una risposta alle domande con cui si apre il

lavoro: perché partire? Perché restare? Perché tornare?

DALLA QUESTIONE ROMANA ALLA PACE DI VERSAILLES

E’ risaputo che la Francia di Napoleone III ebbe un ruolo fondamentale

nell’unificazione italiana, sia dal punto di vista diplomatico che materiale. Il Secondo

Impero fu infatti il padre putativo del processo unificatorio, pur mostrando in certi

frangenti un atteggiamento piuttosto controverso, che finì per ritardare di quasi dieci

anni l’annessione di Roma e del Lazio al neonato stato italiano. Ciononostante, negli

anni Cinquanta dell’800 lo stato francese fu il più attivo alleato del regno del

Piemonte e il più forte fautore della politica unitaria abbracciata da Cavour. In

seguito all’Unità però, il Regno cercò di darsi una politica di equilibrio, che non gli

inimicasse il concerto delle potenze europee e che gli permettesse nel lungo periodo

di trattare con queste in condizioni di parità; non come nei primi anni

dell’indipendenza, quando la Francia era la principale fornitrice di capitali, di merci e

in generale la vera eminenza grigia dietro cui si muovevano le scelte della monarchia

sabauda, per evidenti ragioni ancora piuttosto fredda nei rapporti con l’Austria-

Ungheria. Allo stesso tempo, i profondi legami con la Francia, che spesso avevano il

sapore della dipendenza, costringevano l’Italia a un’impasse nella questione romana

che, ancora prima di Trieste e Trento, era il principale obiettivo dell’irredentismo

risorgimentale.

Con l’altra grande protagonista della politica europea del tempo, ossia il noenato

regno di Germania, l’Italia cercò fin da subito di attuare una politica particolarmente

attenta, anche se nei primi anni dell’unificazione pareva assai improbabile una futura

alleanza con il Reich.

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“Per il momento, la parola alleanza non gli veniva ancora alle labbra; egli sembrava anzi

propendere per una politica di attesa, salvo a decidere secondo il futuro dettasse, o per una triplice

Austria-Italia-Francia, se proprio la nuova Germania mostrasse tendenze soverchiamente

espansionistiche, o per un’alleanza con la Germania, ove questa, paga dei suoi trionfi militari, si

adattasse a diventare “notre base d’opération continentale pour nos destinées futures dans le

Méditerranée, où la France, et même l’Autriche pour l’Adriatique, sont nos rivales naturelles.”6

Così lo Chabod riassume la visione del ministro degli esteri Alberto Blanc, che nel

1870, a Roma, confidava al Minghetti i suoi piani per l’Italia. Lo storico valdostano

sottolinea come l’atteggiamento italiano nei confronti dei cugini transalpini fosse

pesantemente influenzato dal debito, culturale e politico, che l’Italia aveva contratto a

mo di peccato originale nel momento della sua nascita verso la Francia:

“sentimentale” è l’aggettivo con cui egli riassume i toni e i caratteri della politica

italiana dei primi anni. La Francia era la patria della democrazia, il luogo in cui era

nata la moderna concezione della politica, ma anche dell’uomo; era altresì il

principale punto di riferimento in Europa, e quindi nel mondo, per tutti coloro che

non cercassero nei rapporti con gli alti stati solo meri fini commerciali (ma sia ben

chiaro, questi erano presenti, eccome), nel qual caso Londra era più di un passo

avanti. Parigi era la capitale dell’Occidente, e come se non bastasse il vivido ricordo

del ’93 e delle varie fiammate di giacobinismo che le rivoluzioni del 1830 e del 1848

aveva ravvivato, nel 1871 Parigi divenne teatro del primo trionfo del socialismo, la

Comune. Sia che si fosse nostalgici ammiratori del Bonaparte o delle sue un po’

meno riuscite reincarnazioni, liberali alla Thiers, cospiratori alla Blanqui (ma anche

alla Crispi, quello del primo periodo, ovviamente), la Francia era il presente, ma

soprattutto il futuro, il luogo in cui tutto aveva inizio, cresceva, dirompeva e faceva il

suo roboante ingresso nella Storia. Tutta la classe politica italiana era figlia della

Francia, per un verso o per l’altro; inoltre era stato grazie all’appoggio di Napoleone

III che l’Austria era stata cacciata da Milano, da Modena, dalla Toscana, che il

Veneto e il Friuli erano divenuti finalmente italiani, che si era potuta compiere

6 F. Chabod, “Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896”, Laterza, Roma, 1965, p. 25

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l’impresa dei Mille (ma forse in quel caso si sarebbero dovuti ringraziare

maggiormente gli inglesi) e i Borboni erano stati cacciati da Napoli. La grande sorella

francese aveva insomma proseguito il compito iniziato da Napoleone più di mezzo

secolo prima, liberando dal giogo dell’assolutismo e delle forze del passato la

penisola, rendendola libera e autonoma, affrancandola finalmente da quella

condizione di “campo di battaglia d’Europa”, che dai tempi di Carlo VIII l’aveva resa

terra da preda e bottino per tutte le potenze europee. Questa era l’immagine della

Francia, la quale aveva permesso all’Italia di uscire dal paradigma di Metternich e di

non essere più un’espressione geografica, ma Stato sovrano, unito e indipendente.

Ecco, in verità erano proprio a riguardo delle questioni dell’unità e dell’indipendenza

che nascevano i problemi nei confronti della “sorella latina”. Era vero che l’Austria

teneva in mano ancora Trento e Trieste, due ferite che sanguineranno nell’animo

degli italiani fino al 1918, ma ancora più grave, la Francia impediva con il proprio

veto e i propri soldati di riunire infine la testa, il cuore, l’anima della nazione, la casa

dell’Impero, la città eterna, Roma. Non Torino e nemmeno Firenze dovevano essere

la capitale ma Roma, posta al centro della penisola e al principio della storia della

nazione. Napoleone però aveva bisogno di tenersi strette le simpatie dei cattolici

francesi, gruppo molto influente a Parigi anche nei centri di potere, che vedevano

nella Chiesa il garante dell’ordine sociale e spirituale che tanto bene si confaceva alla

morale e agli affari dei vari Dambreuse7 , dei vari Picard, quella “banda di

avventurieri della politica e della finanza” come li definisce Marx8 che sotto il

Secondo Impero avevano fatto il bello e il cattivo tempo, legando sempre più lo

sviluppo del paese alle masse di operai che avevano contribuito a rendere la Francia

la seconda potenza industriale d’Europa. A dieci anni dall’unificazione Roma era

ancora lì, protetta dai dragoni e dagli ussari francesi, mentre l’Italia si legava ancora

più strettamente alla Francia dal punto di vista finanziario e commerciale.

Come evidenzia Pierre Milza nel suo lavoro sulle relazioni tra Italia e Francia nella

seconda parte dell’Ottocento:

7 Il banchiere la cui moglie diverrà l’amante di Frédéric nell’Éducation Sentimentale di Flaubert. 8 Karl Marx La guerra civile in Francia, edizioni LC, 2002, Milano, p. 14.

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“Le décennie qui a suivi l’intervention de Napoléon III en Italie a marqué l’apogée de la

pénétration du capital français dans la péninsule. […] La France occupe, pendant le second tiers

du XIXème siècle, le premier rang parmi le créanciers des petits états pré-unitaires –

essentiellement Piémont, Naples et États de l’Église – puis comme fournisseur de capitaux publics

du Royame d’Italie.”.9

Uno dei principali canali attraverso cui il capitale francese prese la via d’Italia fu

Napoli, dove aveva sede un “distaccamento” di quella che nell’800 fu l’assoluta

protagonista della finanza europea, la famiglia Rotschild. Tra il 1861 e il 1864 i titoli

emessi dal governo italiano sono accolti in Francia con un entusiasmo che non si

esaurirà se non negli ultimi anni dell’Impero.10 Per dare un’idea dell’entità del

fenomeno, 2/3 dei 500 milioni di franchi emessi in titoli dallo Stato italiano nel 1861,

furono forniti da capitali francesi.11 Due altre grandi emissioni di titoli di prestito si

succedettero a questa, la prima delle quali fu interamente sottoscritta dai Rotschild. Si

trattava di ben 700 milioni di franchi, che il banchiere riuscì a rivendere sul mercato

parigino nei successivi due anni. Per quanto riguarda l’ultima, il governo reale riservò

una somma di 160 milioni di lire a una sottoscrizione pubblica anche in Italia, mentre

Rotschild prese su di sé il carico dei restanti 425 milioni di franchi. Non tutti i titoli

furono piazzati sul mercato francese.12

Col passare degli anni il governo italiano cercò di prendere in mano i settori più

importanti almeno per quanto riguardava i servizi pubblici quali il gas, l’acqua e le

strade ferrate. Ciò lasciò meno spazio alle possibilità d’intervento da parte dei

francesi, che per questo videro i loro interessi nel regno declinare sempre più.

Tuttavia, all’indomani del 1870 la partecipazione del capitale francese nelle ferrovie

italiane restava piuttosto elevata. 13 Società francesi erano molto attive nelle opere di

modernizzazione delle città italiane, soprattutto nella costruzione di linee per il

9 P. Milza, Français et italiens à la fin du XIXème siècle, Ecole Français de Rome, 1981, Roma, p. 110 10H. Cozic, La bourse mise à la porte de tous, Paris, 1881, pp.321-322. 11 Milza, op. cit., pp.110-111 12 Ibidem 13 Nel 1873 il Regno decise di prendere il controllo diretto delle ferrovie, ma solo nel 1879 la decisione fu ratificata in parlamento ed entrò in vigore a partire dal 1881. V. Milza, op. cit. , p. 114

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trasporto pubblico, per l’approvvigionamento del gas e dell’acqua, ma anche per la

costruzione di mercati e di macelli pubblici. Questi legami si prolungarono fino a ben

oltre la crisi del 1881. Da Napoli, come detto il principale canale di penetrazione di

questi capitali, a Roma, passando per Venezia, Genova, Milano, Parma, Verona,

Bergamo e La Spezia lo zampino francese si ritrova un po’ ovunque.14 Solo nella

costruzione delle prime linee tramviere si osserva una prevalenza di capitale belga,

mentre per quanto riguarda la rete elettrica, ancora da scoprire, sarà la volta delle

società tedesche di prendere la leadership nel mercato. Anche l’installazione delle

prime compagnie d’assicurazione fu coadiuvata dal sostegno francese. È attorno al

1880 che la maggior parte delle compagnie di assicurazione francese fecero la loro

comparsa nella penisola. In questo novero si può inserire la Fondiaria di Firenze, il

cui capitale era composto in origine in maggioranza da capitali francesi.15

Per quanto riguarda il settore industriale, gli investimenti francesi, seppur presenti,

furono di minor entità, e si concentrano in alcune determinate aree geografiche, per lo

più in imprese di media grandezza a Milano, Livorno, lungo la frontiera francese e la

Toscana. Alcune compagnie minerarie francesi parteciparono nella conduzione e

nello sfruttamento di alcune miniere di ferro in Sardegna e in Toscana, dell’acciaio

all’Isola d’Elba. Diverse banche francesi, in primis Paribas e Société Genérale,

parteciparono poi alla fondazione di alcune banche come il Credito Italiano, la Banca

di Milano, il Credito Lombardo e la Banca di Torino.16

Il settore in cui però i legami tra i due paesi erano più stretti fu probabilmente quello

dei traffici commerciali. Nato in un clima di libero scambio trionfante, fu naturale per

il governo di Torino concludere all’indomani dell’Unità degli accordi destinati a

donare un quadro assai liberale ai rapporti tra Francia e Italia. Una convenzione di

navigazione è firmata il 13 giugno 1862, un trattato commerciale nel 1863. Il primo

consisteva in un trattato di libera navigazione per tutti i navigli francesi e italiani

14 Compagnie generali a Milano e Genova, Gas e acqua a Biella e San Remo, gas a Genova, Parma e Milano, reti idriche a Venezia, Bergamo, Verona e La Spezia. V. Milza, op. cit., p. 116 15 Ibidem 16 Ib., p. 118

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lungo i tratti di costa nel Mediterraneo, Algeria e isole comprese, ma le coste francesi

dell’Atlantico e della Manica restarono interdette al cabotaggio italiano. Questa

disparità era dovuta al fatto che l’Italia non intendeva penalizzare uno stato che aveva

contribuito così grandemente alla sua fresca unità, inoltre la marina italiana al tempo

era costituita ancora per la maggior parte da velieri; infine questo accordo avrebbe

contribuito almeno in parte a unificare le diverse regioni appena riunitesi, creando un

terreno comune di azione. Il fattore più positivo per l’Italia consisteva nell’apertura ai

prodotti agricoli dell’Italia meridionale nei porti della Francia mediterranea, mentre le

industrie francesi avrebbero potuto così trovare uno sbocco importante. Tout à fait, si

trattava di accordi non incentrati sulla parità di trattamento tra i due stati e anzi,

alcune clausole ricalcavano per certi aspetti i trattati coloniali del tempo. Fino alla

fine del Secondo Impero tuttavia questi accordi furono applicati senza problemi di

sorta, fino a che con lo scoppio della guerra franco-prussiana e la crisi congiunturale

del 1873 si produsse una rottura. A meno di dieci anni dalla ratifica dei suddetti

trattati, in entrambi i paesi si evidenziava una chiara tensione verso politiche

protezionistiche. Ciò provocò in Italia dei seri problemi per quel che concerneva le

industrie alimentari e agricole del sud, che videro chiudersi uno dei mercati più

importanti per le loro merci, mentre le industrie del nord ebbero delle difficoltà a

smerciare i loro prodotti al sud, dove il livello di vita della popolazione spesso non le

permetteva di indossare i panni del consumatore di prodotti non primari. Questa

politica tuttavia permise all’ancora debole apparato produttivo del Nord di svilupparsi

senza subire l’agguerrita concorrenza delle industrie straniere, maggiormente

avanzate e quindi capaci di realizzare prodotti più a buon mercato; al sud queste

tendenze furono molto meno apprezzate per ragioni opposte, visto che era proprio il

basso prezzo dei prodotti agricoli italiani a permettere la loro commercializzazione

all’estero. 17 Insomma, riprendendo le parole dell’allora primo ministro Crispi “In

tutte le guerre ci sono dei morti e dei feriti”, e in questa guerra doganiera l’Italia fu

quella che ne ebbe il maggior numero, soprattutto al sud.

17 Per una più chiara e dettagliata trattazione delle variazioni nella bilancia commerciale tra Italia e Francia fino alla rottura doganiera del 1888, v. Milza, op. cit., pp. 118-155

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Se, come detto, la Francia esercitava un’importante influenza sulla politica,

l’economia e l’opinione pubblica italiana, allo stesso tempo nella penisola era

presente una altrettanto riguardevole corrente di pensiero gallofoba, che aveva le sue

radici nell’ondata antinapoleonica diffusasi in Italia a seguito dell’occupazione

transalpina e della Restaurazione. Il Risorgimento ai suoi albori aveva infatti

individuato nella Francia del Gran Corso il tiranno da abbattere, il barbaro invasore

che aveva prima tradito e poi impedito all’anima della nazione di librarsi e trionfare

finalmente sulle forze disgregatrici che opprimevano l’inclita Italia. Vittorio Alfieri,

considerato uno dei padri della futura Italia unita, tributò alla Francia un’intera opera,

Il Misogallo,che già nel nome evidenziava con efficacia lo spirito con cui parte

dell’opinione pubblica italiana, soprattutto nella parte più colta, cominciò a vedere la

nuova Francia rivoluzionaria e bellicosa, sicuramente più vicina al barbaro invasore

che alla portatrice di democrazia quale si dipinse ella stessa in quegli anni.

Di sé parlando (che altro mai non fanno)

Osano i Galli dir: Nazïon grande.

Ove di ciò il perché tu lor domande

Che alleghin fatti aspetteresti l’anno.

Numerosa, dir debbono; e si spande,

Pur troppo inver di Libertade a danno,

Della genìa loro garrulo malanno,

Che in bei detti avviluppa ore nefande.

Grande fu Roma; Atene grande, e Sparta;

Perché amplissime egregie eccelse cose

Fer, con cuor grande, e suppelletil’arta:

Ma costor, che di arroganza han dose

Grave pur tanto, e si fan grandi in carta,

Turbe son di Pigmei fastidiose18

18 V. Alfieri, Il Misogallo, Sonetto XIV pt. II, Paravia e comp., 1903, Torino-Roma-Milano-Firenze-Napoli.

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Lo Stesso Mazzini era il più autorevole patriota e pensatore antifrancese: nella

Francia dell’Ottantanove egli non vedeva un inizio, ma la conclusione di un periodo

storico19. Il genovese, che pure in gioventù aveva visto nella Francia quella portatrice

di civiltà e democrazia che avrebbe potuto davvero incivilire il resto dei popoli

europei, aveva radicalmente mutato d’opinione in seguito alla svolta conservatrice

presa dalla monarchia di luglio; politica poi perseguita e portata ad un più alto e

pericoloso livello dal Secondo Impero dell’odiato despota Napoleone III.

“Gli animi – scriveva Mazzini nel 1848 – sono volti tutti alla Francia: tutti guardano alla Francia,

come a quella dalla quale pendono tutti i fati europei: concentramento altamente pericoloso:

indizio di servitù radicata ancora negli animi e nelle abitudini. Perché la Francia, per favore di

circostanze, per unità compatta, per lo spirito sociale, ivi più che altrove diffuso, e per intelletto

delle cose salito a più alto grado, è costituito senz’alcun dubbio centro potentissimo d’attività e di

incivilimento europeo: ma non esclusivo, non l’unico. L’Europa degli uomini liberi non riconosce

oggi mai dittature assolute di principe o di nazione […] La Francia si è addormentata in viaggio.

[…] E’ tempo di emanciparsi: tempo di dire a se stessi, e alla Francia, che la civiltà non può

rimanere, perché una nazione rimane… che altri popoli hanno levato la testa, e incominciano ad

intendere la propria missione”.20

La caduta del Secondo Impero e l’avvento della Repubblica spinsero però molti

esponenti della politica italiana, sia a destra che a sinistra, a riconsiderare la

posizione nei confronti della “grande maestra di democrazia”, come la definì

Garibaldi, il quale, assieme ad un gruppo di volontari partì di fatti in soccorso della

Repubblica (non appoggiato dal governo italiano) riportando anche qualche piccolo

successo sui prussiani nei dintorni di Dijon. Questa azione, di scarsa entità e di ancor

più debole efficacia in verità, ebbe ripercussioni molto più importanti in Francia che

non Italia, contribuendo a diffondere l’immagine dell’italiano, o meglio del

19 Impermeabile a ogni ideologia con derivazioni socialiste, e allo stesso tempo convinto che la caduta di Napoleone avesse chiuso definitivamente un’epoca della storia europea, il genovese non riteneva la Francia di Napoleone III capace di azioni positive per l’Italia in fieri; egli riteneva anzi che i transalpini avrebbero preferito che questa si costituisse a guisa di una debole confederazione, in modo da poter esercitare direttamente la propria influenza su di essa. V. G. Mazzini, Opere, Daelli Editore, Milano 1861, p. 389 20 G. Mazzini, da Dell’Ungheria, cit. in M. Scioscioli, Giuseppe Mazzini, i principi e la politica, Alfredo Giuda Editore, Napoli, 1995, pp. 131-132

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garibaldino combattente per la libertà e amico della Francia. Nella penisola invece,

l’iniziativa non godette di un grande appoggio, almeno da parte delle forze politiche,

in quanto fu giusto la guerra franco-prussiana a permettere all’Italia di riprendere la

futura capitale. Proprio Roma fu l’atto che permise all’Italia di liberarsi, almeno in

parte, da questa sorta di riconoscenza nei confronti della nazione francese, e con essa

si riaffermarono alcune questioni irredentistiche riguardanti le “terre italiane” che la

Francia controllava in base ad accordi “ingiusti”, strappati al Piemonte necessitoso di

appoggio militare e politico, cioè la Savoia e soprattutto Nizza, la città di Garibaldi.

Considerando che Nizza e il Var furono due dei luoghi prediletti dalla prima ondata

migratoria italiana, si può evincere quale clima attendesse gli emigrati cisalpini al

loro arrivo in quella vecchia provincia genovese, ove in pochi decenni la scuola

repubblicana e l’inquadramento amministrativo francese avevano trasformato

profondamente le coscienze di tanti cittadini italiani (più della metà dei nizzardi era

di origini italiane). Questi si trasformarono nei più accesi nemici degli “invasori”

italiani, accanendosi al contempo contro quella parte di sé che cercavano di rinnegare

in nome di una francesizzazione tanto più cruenta e forte proprio perché imposta e

sentita come unico mezzo d’integrazione a una nazione tutt’affatto estranea.

Il concetto di “nazione”, che nella questione nizzarda, trentina e triestina veniva

continuamente tirata in ballo, in Italia doveva ancora assumere una definizione ben

precisa. Insita nell’idea francese di “nazione inclusiva” vi era un evidente contrasto

con gli interessi italiani, in quanto proprio nel Mediterraneo questa pareva dover

spingere le proprie spinte espansionistiche; inoltre la questione alsaziana, e ancora,

quella corsa e nizzarda dimostravano come la Francia potesse annettere senza

problemi gruppi a tutti gli effetti “stranieri”, a patto di ottenere (verbo che può essere

sostituito in diversi casi dal termine “imporre”) da questi un’adesione al modello

culturale francese e la fedeltà alla Repubblica. Ideale che per un’Italia con lo sguardo

volto verso Trento e Trieste non poteva essere accettato. Vi era poi da pensare alla

grandezza della Patria, a quella gloria che l’Italia non era ancora riuscita a

conquistarsi sul campo di battaglia (anzi, c’era voluto l’aiuto proprio della Francia

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per cacciare gli austriaci dal Veneto) proprio quando l’esempio della Germania di

Bismark era piuttosto vivido negli occhi dei politici del tempo, soprattutto a seguito

della sinistra di Crispi. Piuttosto l’idea di nazione naturale, anch’essa un vecchio

concetto di derivazione francese e definita dai confini geografici naturali, pareva la

strada più sincera e autentica da percorrere. Quale nazione, infatti, aveva confini più

definiti dell’Italia, con la cintura alpina e il mare a delimitarla? L’autodeterminazione

andava bene quando si trattava del popolo romano all’indomani della presa di Porta

Pia, meno quando riguardava Trieste, l’Alto-Adige o la stessa Nizza, ove ormai un

paio di decenni di governo francese avevano scavato un solco molto profondo tra gli

autoctoni, pure di origine italiana in gran parte, e gli emigrati italiani che a partire

dagli anni Settanta dell’800 iniziarono ad accorrere in città e nella provincia come

stagionali agricoli o in cerca di lavoro nel settore alberghiero.

Questa la situazione per quanto riguarda le relazioni ufficiali tra i due stati. Quando

però si va a trattare della concreta storia degli uomini e delle persone bisogna tenere

conto anche della mentalità collettiva e dell’azione delle masse e dei gruppi

organizzati in grado di esercitare una qualche forma di pressione sulle stesse. I

medesimi eventi che hanno caratterizzato la prima difficile fase dell’emigrazione

italiana in Francia (i tumulti di Marsiglia del 1881, le uccisioni di Aigues-Mortes e gli

eccidi di Lione nel 1893 e 1894) si possono inscrivere entro un contesto di forte

tensione diplomatica tra i due paesi; allo stesso tempo però, era la stessa presenza

italiana e il conseguente malessere da parte degli operai francesi e dell’opinione

pubblica locale a creare quella situazione di tensione che sfociò in avvenimenti così

infausti per le comunità italiane di emigrati. Pure, non va dimenticata la solidarietà

mostrata dagli operai italiani nel 1901 durante gli scioperi marsigliesi, atto che

contribuì non poco a migliorare l’immagine degli emigrati del Regno e ad allentare la

tensione tra i due versanti delle Alpi. Si può dire dunque che il fenomeno migratorio

fu condizionato e condizionante per quanto riguarda le relazioni tra i due stati; la

stessa cosa si può affermare per quanto riguarda l’accoglienza che i nostri compratrici

ricevettero nell’Hexagone , dove la loro presenza produsse degli squilibri dal punto di

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vista sociale e lavorativo, ma allo stesso tempo permise alla Francia di far fronte alla

carenza di manodopera che già si avvertiva per quanto riguardava alcuni settori tra i

più dequalificanti e faticosi.

IL NORD ITALIA E LA TRADIZIONE MIGRATORIA ITALIANA

La figura del migrante italiano è spesso fatta coincidere con quella dell’italiano del

sud, proveniente da un ambiente estremamente povero e arretrato, il quale, una volta

sbarcato (perché quasi sempre si pensa all’America, e non all’Europa come alla terra

d’emigrazione privilegiata) nella nuova realtà si insedia presso i quartieri a più alta

concentrazione di emigrati suoi connazionali e riproduce in loco gli stessi

meccanismi sociali e culturali della propria madrepatria. Questo topos più

cinematografico che storiografico, non si confà granché alla situazione che si venne a

creare in Francia tra Ottocento e Novecento e che vede innanzitutto gli italiani

provenienti dalle regioni del nord assoluti protagonisti del fenomeno.

“Si l’on trace sur une carte de la péninsule une ligne allant de Rimini, sur l’Adriatique, à Grosseto

en Toscane, on constate que plus de 85% migrants viennent des provinces situées au nord de cette

limite. Les Piémontais à eux seuls représentent le 28% du total, les Toscans 22%, les Lombards

12%, les habitants del l’Émilie-Romagne 10%, les Vénètes 8%.”21

Prima che il fenomeno migratorio assumesse il carattere massivo che lo distinse

nell’ultimo quarto del secolo diciottesimo, vi era già, in alcune zone della penisola,

una tradizione di spostamenti a carattere per lo più stagionale e temporaneo, che

vedeva protagonisti in maggioranza le genti e le comunità originarie delle vallate

alpine e delle zone più isolate dell’Appennino settentrionale. La differenza

quantitativa e qualitativa tra l’emigrazione preunitaria e quella postunitaria sono 21 P. Milza, Voyage en Ritalie, Plon, Paris, 1993, p. 62

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piuttosto evidenti, ma certo, le radici di molti flussi migratori e l’exemplum costituito

da questi “pionieri” dell’emigrazione furono molto importanti nel determinare le

modalità e le vie che anche in seguito furono seguite dai gruppi di italiani diretti

oltralpe, in particolar modo verso la Francia. In sintesi, se cambiò il grado e

l’intensità del fenomeno, è indubbio che vi siano diversi aspetti di continuità tra i

collegamenti che videro protagonisti i mercanti, gli artigiani, gli artisti e alcune

comunità sparse per tutta la penisola (ma soprattutto al nord) durante l’età moderna e

che hanno radici fin entro il Medioevo. Il nostro studio infatti, come verrà

argomentato poi, ci ha portato a ritenere che proprio il valore di “tradizione” che

questi primi spostamenti assunsero si sia poi rivelato decisivo nello stabilire le

direttive e le modalità con cui, anche nel pieno della sua intensità, il fenomeno

migratorio si dispiegò. Non si trattò quindi di un’esplosione improvvisa, ma di

un’accelerazione di un’azione già da tempo presente nel territorio tricolore. Ma qual

era l’atteggiamento da parte del governo italiano a riguardo?

Nei primi decenni dell’Unità le politiche migratorie dello stato si basavano ancora

sulla visione mercantilista, che vedeva l’emigrazione essenzialmente come un

fenomeno negativo, che toglieva forze e professionisti qualificati alla nazione. Sino al

1873 non si presero provvedimenti concreti, fino alla cosiddetta “circolare Lanza”,

approvata su spinta dei circoli proprietari agrari che temevano uno spopolamento

delle campagne a seguito di un eccessivo numero di partenze. Nella circolare si dava

indicazione ai sindaci di negare il nulla osta non solo ai giovani in età di leva, ai

militari senza congedo definitivo e agli inabili, ma anche a chi era sprovvisto dei

mezzi necessari per affrontare il viaggio. Queste pratiche ebbero l’effetto paradossale

di permettere l’espatrio solo a chi riusciva a guadagnare da vivere a sud delle Alpi,

mentre negava il permesso di procacciarsi qualche soldo all’estero a chi ne aveva

davvero bisogno, impoverendo ulteriormente il paese. Abolita tre anni dopo su

pressione degli armatori genovesi, i principali beneficiari dei proventi del trasporto

degli emigrati via mare, questa riusciva sgradita anche agli industriali del nord, che

vedevano nell’emigrazione una possibilità di aumento della circolazione di

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manodopera oltre che un mezzo per permettere agli emigranti di accumulare

all’estero e riportare in Italia qualche ricchezza. Fautore di questa visione fu tra gli

altri il parlamentare bolognese Marco Minghetti, mentre un’altra parte del

parlamento, portavoce dei grandi proprietari terrieri del sud, ma anche del Veneto e

del Piemonte, vedeva con preoccupazione la diminuzione dell’offerta di braccia nei

campi, il che avrebbe significato un aumento dei salari dei braccianti. Anche tra i

favorevoli comunque il fenomeno migratorio era visto come una risorsa momentanea

e non positiva al di là di certi limiti: la prospettiva che incontrava il loro sostegno

infatti era quella dell’emigrazione temporanea, non definitiva. Fu Luigi Einaudi il

primo a teorizzare, col volgere del secolo, che la presenza di colonie d’italiani

all’estero avrebbe contribuito alla crescita del reddito nazionale permettendo una più

ampia circolazione di capitale da e verso l’Italia, creando diversi mercati nei luoghi di

raccolta degli italiani e contribuendo alla costruzione di una “Grande Italia” nel

mondo.22 Furono più i rappresentanti della destra liberale ad appoggiare l’idea

dell’emigrazione come possibile fonte di benessere per l’Italia, mentre i politici vicini

ad ambienti socialisti e sindacali non vedevano di buon occhio il fenomeno, ritenendo

che questa dispersione avrebbe ostacolato la formazione di un partito dei lavoratori a

carattere nazionale. La prima vera legge sull’emigrazione fu così quella targata

Crispi, entrata in vigore nel 1888 e che in sintesi si rivelò un compromesso tra le due

differenti correnti. Pur cercando di limitare le partenze attraverso una serie di vincoli,

questa sanciva di fatto la libertà di emigrare, cercando di tutelare i partenti attraverso

alcune forme di controllo sugli agenti di viaggio, imponendo loro di dotarsi di patenti

statali e agli armatori di fornire le navi di alcune minime forme di igiene e sicurezza.

La legge però non giungeva a tutelare i partenti né prima, né dopo il viaggio,

considerando quindi il fenomeno come una questione individuale e non politica. Fu la

legge Luzzatti, prorogata nel 1901, a introdurre per la prima volta alcune forme di

assistenza e tutela degli emigrati, per mezzo della creazione di un Commissariato

generale dell’Emigrazione,sotto l’egida del Ministero degli Esteri. Oltre ad una

22 P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni Italiane, op. cit., pp. 39-40

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maggior attenzione al rispetto delle norme d’igiene e sicurezza durante il viaggio,

questa legge voleva garantire una maggiore tutela degli emigrati anche nei porti di

arrivo, curandosi in particolare della situazione di donne e bambini. La pubblicazione

di un “Bollettino dell’emigrazione” poi forniva a coloro che desideravano emigrare

consigli e indicazioni sui luoghi di arrivo. In teoria a queste avrebbero dovuto

affiancarsi altre istituzioni di carattere assicurativo, assistenziale e bancario, dislocate

nei porti, nei luoghi di transito e nelle principali città straniere, ma i mezzi e gli

uomini a disposizione si rivelarono sempre insufficienti affinché queste funzionassero

realmente. Molto più efficaci sotto questo punto di vista furono le organizzazioni

sorte per iniziativa cattolica come l’Opera Bonomelli. Un ruolo di primo piano ebbe

poi un’organizzazione di stampo più vicino agli ideali socialisti come l’Umanitaria di

Milano23. Accanto a questi due istituti maggiori però, non bisogna dimenticare quelle

associazioni, le leghe e le fratellanze sorte per iniziativa privata su base per lo più

provinciale o cittadina, entro cui migliaia di emigrati trovarono sostegno, procurando

loro un lavoro, un alloggio e i mezzi per iniziare la loro nuova vita lontano dall’Italia.

Il#Piemonte#

La prima e la più importante regione, almeno per due terzi del periodo migratorio

intensivo verso la Francia, fu il Piemonte. Il vecchio territorio sabaudo aveva una

lunga storia di legami intessuti con la Francia, basti pensare che la stessa casa di

Savoia fu vassalla del regno transalpino. Nelle alte vallate della regione e della Valle

23 L’Umanitaria sorse nei primi anni del Novecento a Milano, con lo scopo di assistere coloro che intendevano emigrare gratuitamente. Famosa fu la casa dell’emigrato della stazione centrale di Milano, luogo ove chi intendeva partire poteva trovare informazioni sui luoghi di destinazione, l’alloggio per una notte e del cibo, fungendo così da ricovero per coloro che disponevano di scarsi mezzi. Nel 1911 questa toccò la cifra record di 92000 presenze. V’erano diverse sedi distaccate nelle principali località di emigrazione o di transito, oltre a succursali presenti all’arrivo, ove si provvedeva, quando possibile, a procurare un lavoro agli emigrati. L’Opera Bonomelli fu fondata dal vescovo di Cremona nel 1900. Con una funzione analoga a quella dell’Umanitaria, a differenza di questa aveva un carattere spiccatamente religioso e patriottico, e per questo intrattenne ottimi rapporti anche col governo fascista. Molto attiva al Nord, oltre alla funzione di assistenza offriva in molte occasioni agli emigrati anche un impiego, oltre a distribuire il giornale “La Patria”, bollettino fortemente antisocialista e dagli accesi toni nazionalistici. V. Il modello Umanitaria, a cura di Massimo della Campa, Ed. Raccolto Umanitaria, Milano, 2003 e E. Decleva, Etica del lavoro, socialismo, cultura popolare: Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Franco Angeli, Milano 1984. Per quanto riguarda l’Opera Bonemelli invece v. P. Cannitraro, Rosoli G., Emigrazione, chiesa, fascismo. Lo scioglimento dell’Opera Bonomelli, Studium, Roma, 1979.

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d’Aosta era d’uso la pratica di passare parte dell’anno in terra francese per portavi il

bestiame o per compiere alcuni lavori a carattere stagionale. La continuità territoriale

e la prossimità della lingua avevano facilitato il consolidarsi di queste tradizioni che

già in età moderna erano piuttosto diffuse. Vi era poi la questione di quei territori,

come Nizza, che avevano fatto parte del regno del Piemonte fino al 1859 e che erano

divenuti in seguito parte del territorio francese. Fosse perché la grande politica non

toccava molto le piccole e isolate comunità delle valli piemontesi, fosse perché per

loro i confini erano poca cosa, fatto sta che i montanari piemontesi continuarono a

rinnovare la pratica di sconfinare puntualmente quando la brutta stagione rendeva

difficile l’approvvigionamento del bestiame.24 Altro fenomeno molto importante, e

che accomuna le comunità originarie dell’area alpina piemontese a quella lombarda e

ticinese, è quello che ebbe le sue radici fin nei primi anni dell’età moderna, ossia

l’emigrazione di artigiani. I capimastri, gli artigiani e i muratori che avevano

partecipato alla costruzione della Firenze rinascimentale erano in gran parte originari

della provincia di Biella, e accoglievano nelle loro squadre anche uomini provenienti

dai dintorni del Lago Maggiore, dalla valle del Ticino e ancora a est fino al comasco.

Capimastri biellesi erano attivi nella fabbricazione del duomo di Milano.25 Anche la

situazione e il ruolo della componente femminile all’interno delle popolazioni citate

furono influenzati in modo decisivo dalle strategie familiari votate alla migrazione di

tipo circolare. Le donne a casa dovevano per forza di cose assumere funzioni prima

riservate dagli uomini, sia nel campo della gestione economica che della produzione:

il lavoro domestico doveva sostenere la famiglia e i figli, assieme ai mezzi lasciati dal

capofamiglia; inoltre erano esse stesse a doversi occupare dell’investimento e della

gestione dei surplus derivati dal lavoro lontano dal paese. Una delle occupazioni più

diffuse nella zona del biellese e del novarese era quella dell’industria tessile

casalinga. A questa attività partecipava intensamente tutta la famiglia, ed è così che

molte donne poterono inserirsi nel mercato del lavoro svolgendo un ruolo

24 M. Tirabassi, P. Audenino, Migrazioni italiane. Storia e storie dall’Ancien Régime a oggi, Mondadori, Milano 2008, p. 3 25 Ib., p.10

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fondamentale all’interno dei nuclei familiari. Questo era un settore che per secoli

aveva garantito buone entrate, permettendo ai mariti di partire senza doversi

preoccupare integralmente del sostentamento della prole, e consentendo così una

maggior durata del periodo speso all’estero da parte del capofamiglia. Con l’inizio

dell’800 il settore conobbe una crisi irreversibile, che costrinse queste donne a

orientarsi verso occupazioni differenti. Anche molti uomini, che prima svolgevano il

mestiere di tessitori come loro attività principale, e che sfruttavano le migrazioni

come un modo per integrare il proprio reddito, dovettero specializzarsi in

quest’ultimo campo per il declino inarrestabile di questo e degli altri mestieri

dell’artigianato. Anche in ragione di ciò l’edilizia assunse sempre più un ruolo di

primo piano nelle scelte occupazionali di buona parte degli uomini originari delle

valli alpine.

La#Lombardia#

Un discorso simile a quello stilato per il Piemonte può essere fatto per l’alta

Lombardia e le sue propaggini alpine, altro grande luogo di emigrazione con

un’importante tradizione alle spalle. Già nel Cinquecento, quando a Roma i cantieri

di San Pietro e della città papale fremevano di attività, numerosi artisti e artigiani

bergamaschi si trasferirono nel Lazio per prendere parte alla realizzazione di queste

opere. Anche le altre grandi città italiane del Rinascimento funsero da straordinario

polo d’attrazione, non solo per gli artisti, gli artigiani e i lavoratori provenienti da

queste zone e dal resto della penisola. I cantieri della Firenze dei Medici, di Venezia e

di Ferrara attirarono schiere di uomini provenienti da ogni parte dello Stivale, e la

Lombardia, soprattutto nella sua parte più settentrionale, fu tra le regioni più attive in

questo traffico di uomini. La stessa storia dell’arte testimonia come artisti quali

Caravaggio e Lorenzo Lotto non fossero certo dei pionieri nel loro vagabondare tra le

città della penisola, ma si rifacessero in ciò a una tradizione ben radicata in

Lombardia, la quale aveva le sue radici nelle pratiche delle botteghe artigianali che

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erano solite ricevere e inviare apprendisti in tutta la penisola. Per quanto riguarda i

mestieri più comuni, i muratori bergamaschi erano rinomati in tutti gli stati italiani

per la loro abilità e la loro mitezza di carattere; essi erano inoltre disposti a trascorrere

lunghi periodo lontani dalla famiglia e avevano fama di lavoratori instancabili.

Questa fama li contraddistinse non solo in tutti gli stati italiani, ma anche in Svizzera

e in Germania dove non era insolito nel corso dell’ultima parte dell’età moderna, ma

fin anche all’inizio dell’800, trovare qualche gruppo di specialisti edili originari della

città lombarda. Questo discorso può più in generale essere esteso a tutto l’arco di

territorio che dalle alti valli lombarde arriva sino alla regione cuneense, una zona che

per usi e costumi appare piuttosto uniforme. Con la somma dei diversi studi che, a

partire dagli anni settanta del secolo scorso hanno preso in esame diverse comunità

alpine, è stata individuata nella regione insubre il polo di emigrazione più importante

del Nord Italia; una zona in cui storicamente e per un lungo periodo di tempo

l’emigrazione, quasi sempre temporanea, è stata una componente abituale del

percorso lavorativo e di vita delle popolazioni locali. La prossimità territoriale con

paesi bisognosi di manodopera come la Svizzera, la Francia e la Germania,

l’isolamento delle comunità montanare, la costante sovrappopolazione delle regioni

d’origine e la loro altrettanto costante povertà e scarsità di lavoro erano le condizioni

“ideali” per creare una tradizione migratoria che fungesse da naturale valvola di

sfogo anticrisi per la struttura socio-economica locale, che in questo modo trovava il

modo di conservarsi. Non si trattava però solo di una soluzione attuata in tempo di

crisi. Per lo più si trattava di strategie familiari volte non tanto a liberarsi di bocche da

sfamare, ma di ottenere redditi aggiuntivi. Questa tradizione era ben radicata nelle

società insubri, e spesso, senza preoccuparsi troppo dell’estrazione regionale, questi

gruppi di lavoratori si riunivano in squadre per partire verso i cantieri di tutta Europa.

Basti citare l’esempio di San Pietroburgo, capitale voluta e realizzata da Pietro il

Grande nel Settecento ad opera per lo più di capimastri e artigiani biellesi, ticinesi e

lombardi. Si hanno traccia di squadre originarie delle medesime zone anche a Vienna

e nelle principali città austriache e bavaresi. È in relazione a questi fenomeni (cui

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vanno aggiunti gli omologhi tedeschi e francesi) che lo storico francese Fernand

Braudel ha definito le alpi come il “serbatoio di uomini per le pianure” dell’Europa

moderna26. Si trattava nella stragrande maggioranza dei casi di fenomeni migratori a

carattere circolare, com’è tipico anche per le altre regioni del Nord che abbiamo

preso in esame per questo periodo storico. Partendo da una più o meno ampia base

familiare, che spesso forniva gli effettivi delle diverse “squadre” di artigiani e operai

edili che partivano alla volta delle capitali Europee, si ripresentava nei rapporti

gerarchici lavorativi la situazione del villaggio: si venivano così a creare patronati e

affiliazioni che si mantenevano anche all’esterno della comunità di appartenenza. Il

villaggio era altresì il luogo in cui il “successo” della migrazione temporanea si

esternava, magari con la costruzione di una grande casa familiare o con

l’allargamento dell’appezzamento di terreno. Questo sistema, che a grandi linee può

essere applicato anche all’Emilia, al Piemonte e alle altre zone di emigrazione

stagionale di artigiani e operai edili, si incrinò solo nell’800, quando il valore dei

mestieri artigiani conobbe una crisi mortale e il capitalismo, con tutto il suo bagaglio

di condizionamenti sociali fece il suo ingresso anche tra le silenziose valli montane

dell’Italia settentrionale. Nonostante i cambiamenti e il modificarsi della situazione di

queste comunità nel corso del Novecento, questi meccanismi erano così consolidati

che si costituirono flussi consistenti di muratori bergamaschi anche in direzione

dell’Australia, il paese d’emigrazione più difficilmente raggiungibile e lontano

rispetto alla penisola.

Il#Veneto,#l’America#e#le#differenti#correnti#migratorie#italiane#

Per quanto riguarda il Veneto, il Friuli e le Venezie, sappiamo esistesse anche in

quelle terre una tradizione abbastanza importante di contatti e movimenti di uomini a

26 Cfr. Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1966, p. 46.

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carattere stagionale, soprattutto in area austriaca27 e germanica. Diversi abitanti delle

vallate alpine orientali erano soliti trasferirsi durante i mesi in cui c’era meno da fare

al paese in Austria e negli stati tedeschi del sud per compiere alcuni lavori di carattere

stagionale, vuoi come taglialegna, vuoi per lavori di riparazione vari o per le comuni

incombenze agricole; in queste aree in generale la manodopera italiana era impiegata

per lo più nei lavori pesanti e che richiedevano meno qualificazioni. Soprattutto nelle

alte vallate del Friuli la migrazione stagionale in area germanica divenne un’usanza

piuttosto radicata, che contribuì in maniera molto decisa a modificare le abitudini e la

struttura lavorativa delle comunità, che attraverso questi spostamenti riuscivano a

racimolare qualche soldo in più, oltre che a permettere alla famiglia di “liberarsi” per

qualche tempo di molte bocche da sfamare. Esemplare è il caso dei cramars

provenienti dalla Carnia, il cui nome derivava dalla crama, il bauletto piatto che

questi uomini portavano sulle spalle, riempito non solo di stoffe, vetri e cristalli, ma

anche di spezie e medicinali. Già a fine Seicento quest’attività coinvolgeva quasi il

30% degli uomini della regione che, sovente, a partire dagli anni a cavallo tra il

Seicento e il Settecento, convertirono il loro esodo stagionale in emigrazione

permanente, aprendo negozi fissi in diverse città dell’Impero asburgico.28

L’inasprirsi dei rapporti con gli imperi centrali, la crisi economica degli anni ottanta

dell’800 e in particolare in seguito al primo conflitto mondiale, moltissime comunità

si ritrovarono a dover languire a causa degli effetti delle devastazioni belliche, la

mancanza di mezzi, denaro e ora anche di sbocchi lavorativi temporanei, spingendo

diversi soggetti a percorrere la via dell’emigrazione transoceanica. Solo a seguito

delle nuove politiche migratorie adottate dagli Stati Uniti a partire dagli anni venti,

anche per le popolazioni venete e friulane la Francia divenne la prima destinazione in

ordine di preferenza. Il Johnson Act del 1924 infatti assegnava ad ogni stato una

percentuale di emigrati che avrebbero potuto sbarcare negli Stati Uniti. Questo

27 Dopo la pace di Aquisgrana del 1748 e fino all’Unità, diverse zone oggi italiane furono soggette direttamente o meno al dominio austriaco, il che favorì la circolazione di uomini e scambi. Questo naturalmente fu solo un ulteriore motivo di sviluppo di una pratica che si era radicata nelle pratiche locali attraverso i secoli. 28 M. Tirbassi, P. Audenino, Migrazioni Italiane, op. cit, p.8

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riduceva di molto le possibilità degli italiani, per cui allora la destinazione oltre-

oceanica era l’opzione principale, almeno per la più parte degli emigranti. Questa

politica rispecchiava in parte la nuova ideologia che si andava diffondendo nella

classe politica americana, la quale, bisogna dirlo, anche con qualche fosco risvolto

razzista (ma quale nazione europea può vantarsi di essere state immune a queste

pratiche?), affermava che vi erano immigrati più adatti ad uniformarsi alla cultura

americana e che era quindi preferibile favorire l’arrivo di genti tedesche, scandinave e

britanniche rispetto agli emigrati del sud Europa. La distanza culturale, si diceva, era

troppo ampia e questa credenza si appoggiava sull’oggettivo stato di arretratezza

delle economie delle nazioni mediterranee (Francia esclusa) oltre che dalla fin troppo

evidente povertà e limitatezza culturale delle schiere di disperati che ogni giorno

sbarcavano a Staten Island con valige di cartone e pochi stracci come bagaglio, senza

conoscere non solo l’inglese, ma spesso neppure l’italiano. Allora come oggi a

emigrare erano per lo più uomini provenienti dalle fasce più basse della piramide

sociale, spesso uomini senza risorse e istruzione, esponenti delle realtà più arretrate e

isolate della nazione. In effetti, di fronte alla benpensante borghesia della costa est,

quella più tradizionalista e legata agli “ideali delle origini”, la tipica figura del

siciliano con la coppola, il vestito nero, con a fianco la moglie nascosta dal fazzoletto

legato in testa, poteva comprensibilmente destare qualche remora. Tra gli strati

popolari invece, come spesso accade, l’arrivo di genti straniere è sempre avvertito

come una minaccia per l’integrità sociale e per la situazione lavorativa delle classi

operaie.

I figli degli italiani spesso erano lasciati crescere con scarse abitudini igieniche e

venivano lasciati a spasso per le strade delle Little Italys, dove parlavano una lingua

incomprensibile a quasi chiunque, e quivi trascorrevano la maggior parte del loro

tempo, lontani dalle scuole, le principali porte verso l’integrazione, fatta eccezione

forse per qualche istituto legato alle missioni cattoliche. La religione poi era un

ulteriore fattore di separazione, dato che i cattolici in America erano una minoranza, e

non certo quella che destava le maggiori simpatie, anche se la presenza di molti

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irlandesi in questo senso poteva costituire un fattore di avvicinamento29. Gli esempi

delle laboriose genti tedesche, così ben istallatesi su tutto il territorio, integratisi con

successo fin dalla prima generazione e che facevano parte della stessa grande

famiglia protestante a cui gli americani si sentivano intimamente legati, erano lì per

testimoniare che quello era il tipo di persone che meglio avrebbe potuto fare parte del

grande sogno americano. Gli italiani se ne stavano rinserrati nei loro quartieri, in

comunità piuttosto chiuse, finivano spesso al centro della cronaca per liti e reati ed

erano impiegati nelle occupazioni meno nobili. C’erano poi pregiudizi diffusi

ereditati dalla tradizione nordeuropea che aveva ereditato dalla cultura delle

popolazioni germaniche un senso di superiorità innata nei confronti delle genti latine,

non troppo diverso d’altronde da quello che ancora oggi contraddistingue realtà

differenti come Midi e Francia del centro nord, la nostra penisola, ma anche gli Stati

Uniti e l’America Latina. D’altronde nella stessa Italia gli emigrati del sud non

venivano accolti in modi molto diversi quando si recavano nelle grandi città della

Pianura Padana. Mia nonna, reggiana doc da innumerevoli generazioni, raccontava

spesso divertita di come a Milano, vedendola scendere in strada con un foulard in

testa (tradizione contadina piuttosto diffusa anche al Nord nel periodo invernale)

entro cui raccoglieva i suoi capelli neri, la vicina di casa avesse domandato a mio

nonno “Neh, la sarà minga siciliana la signora?”.

Tornando all’emigrazione veneta, questa situazione spinse così molte genti del nord-

est a cercare “nuove americhe” dove le porte erano ancora aperte per gli italiani: e

dove più della Francia si presentava una combinazione maggiormente favorevole? La

prima guerra mondiale aveva visto la Repubblica perdere 1.397.000 francesi, ossia il

27% degli uomini tra i 18-27 anni, pari a più del 12% della forza lavoro totale30 ; visti

gli ingenti danni provocati dalla guerra di posizione, in particolare nel nord-est, c’era

un evidente bisogno di manodopera per la ricostruzione che solo l’immigrazione

29 Cosa che in realtà non avvenne, anzi, i rapporti tra la comunità irlandese e quella italiana all’inzio non furono per nulla semplici. 30 M. Huber, La population de la France pendant la guerre, Presses Universitaires de France, Parigi, 1999 (1931 la prima edizione).

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poiteva offrire. Bisogna infatti considerare che sin dalla fine dell’800 la Francia

aveva un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa, il che, sommato a queste perdite la

costringeva ad aprire le porte ai giovani lavoratori stranieri affinché questi

lavorassero nelle sue industrie o nelle spopolate lande del sud-ovest, dove

l’agricoltura languiva a causa dell’abbandono dei campi da parte di giovani francesi

che preferivano tentare la ventura nelle grandi città o nelle industrie del nord-est.

Insomma, pur essendo fenomeno piuttosto diffuso quello dell’emigrazione, almeno in

alcune zone del Triveneto, la Francia divenne una meta privilegiata soltanto a partire

dagli anni venti dello scorso secolo. Prima di quella data i veneti si segnalarono come

i più attivi nell’alimentare soprattutto il flusso migratorio tricolore verso il Brasile,

dove costituirono il primi gruppo regionale di nazionalità italiana. Numerose però

sono anche le comunità provenienti dagli antichi territori della Serenissima che

scelsero l’Argentina come loro nuova casa, così come quelli che si stabilirono in

Sudafrica.

La#Toscana#e#l’Emilia#

Nella Toscana invece la tradizione migratoria era un fenomeno molto più recente. Gli

unici esempi in tal senso erano costituiti da alcuni mercanti del settore tessile, da

diversi commercianti, ma soprattutto dai venditori di statuette votive originari di

Lucca che in età moderna erano soliti partire alla volta della Francia per vendere la

loro merce come ambulanti presso i crocicchi, le strade e i mercati delle città francesi.

Queste popolazioni erano per lo più originarie della Garfagnana e della Lunigiana,

zone che avevano visto nel corso della loro millenaria storia numerosi esempi di

migrazione. Vi sono tracce di alcuni abitanti della Garfagnana che nel corso del

Seicento partirono per l’Isola d’Elba, dove vennero utilizzati come vignaioli o come

operai presso le miniere dell’isola. Altri si trasferirono in Corsica per lavorare come

carbonai e taglialegna. Questo fenomeno però, assieme a quello dei suonatori di

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organetti di barberia e agli ambulanti che dalla provincia di Parma31 si ritrovano un

po’ in tutta Europa nel corso dell’800, va inscritto entro il più ampio campo delle

tradizioni regionali degli abitanti dell’Appennino settentrionale, che nei secoli resero

una consuetudine queste frequenti e quasi stagionali calate verso le pianure per

svolgere le più diverse occupazioni. Anche la creazione e la vendita di statuette a

carattere religioso, che nel corso dei secoli vennero smerciate in tutto il continente,

dalla Russia sino all’Inghilterra e alla Francia, sono una tradizione che accomuna

tutte le popolazioni di origine ligure che popolano i due versanti della parte più

settentrionale dell’Appennino. L’industria lucchese però era particolarmente fiorente,

e nel XVII secolo si è trovata traccia di produzioni in Svezia, in Germania e in

Inghilterra, tutte sotto il patrocinio di artigiani originari della Repubblica di Lucca. La

fama dei “figurinai”, che si diffuse a partire dal Settecento in tutto il continente è da

addurre proprio ai lucchesi. Lo storico americano David Rovai ha descritto in un suo

lavoro il percorso di alcuni figurinai che da Lucca si recarono a Parigi, rigorosamente

a piedi32 ed ha individuato in questi uomini i fondatori della tradizione migrante

toscana e lucchese. Ercole Sori, nella sua opera sull’emigrazione italiana, rileva come

all’interno delle aree rurali di provenienza di questi uomini fosse prevalente la

piccola proprietà terriera e che la “strada” verso il lavoro di figurinaio all’estero fosse

aperta soprattutto ai figli di famiglia, i giovani maschi ai quali mancava un’immediata

prospettiva di emancipazione economica, dovuta all’estrema parcellizzazione delle

proprietà.33 Va segnalato come si abbiano notizie di un discreto numero di persone

che si diresse persino in California, già nei primi decenni dell’800. Di solito si

trattava di uomini che avevano alle spalle una tradizione migratoria familiare

piuttosto estesa, segno che l’esperienza migratoria si perpetuava e accresceva

all’interno dei gruppi familiari, segnandone l’identità.

La regione attraversò un periodo di crisi all’inizio del diciannovesimo secolo, a

seguito di alcuni processi economici negativi e della mancata trasformazione

31 V. P. Milza, Voyage en Ritalie, pp.18-30. 32 David Rovai, Lucchesia, terra di emigrazione, Lucca, Pacini Fazzi, 1993 33 Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla Seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 86.

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strutturale dell’economia, in particolare nelle regioni appenniniche. La crisi

dell’industria serica, assieme ad una ricorrenza di carestie produsse tra il 1870 e la

prima guerra mondiale un vero e proprio flusso migratorio in direzione delle pianure

toscane, della Liguria, ma anche della pianura padana. Non si trattava ormai più di

partenze casuali o senza un piano preciso, ma di un flusso autoalimentante sospinto

dall’ormai piuttosto diffusa rete di parenti, amici, conoscenti o corregionali che dalla

provincia lucchese e carrarese aveva ormai stabilito un tessuto connettivo collaudato,

il quale agevolava il prosieguo del fenomeno stesso. Proprio l’unità italiana e la

conseguente creazione di un mercato nazionale ruppero gli equilibri sui quali si era

finora basata l’economia della montagna. Anche nella Lucchesia, la rivoluzione del

sistema dei trasporti e il potenziamento delle infrastrutture di collegamento _

facilitando la mobilità _ spinsero la forza-lavoro dalle aree montane verso il

fondovalle. Contemporaneamente, il processo di trasformazione urbana e industriale

allargò il mercato internazionale del lavoro, richiamando braccia per l’edilizia,

piuttosto che l’artigianato, avendo quest’ultimo subito una forte marginalizzazione. È

all’interno di questo contesto economico in evoluzione che la tradizione migratoria

lucchese continua e si riadatta, consolidando rotte e modelli insediativi in un più

ampio scenario. Emigranti parzialmente qualificati (sarti, calzolai e muratori) si

affiancano ora a braccianti, boscaioli e figurinai in cerca di fortuna lontano da casa.

Da questo periodo in poi, l’abitudine lucchese agli spostamenti all’estero, in cerca di

risparmi da accumulare e riportare nella comunità di origine, aprì la strada a un flusso

migratorio che, in pochissime decadi, registrerà un così alto numero di emigranti _ in

Corsica, Francia, Stati Uniti, Argentina e Brasile in particolare _ da eguagliare

l’intera popolazione della provincia di Lucca.34 Si trattò dunque di un fenomeno

tutt’affatto nuovo, ampliato e a carattere regionale, quello dell’emigrazione di

migliaia di abitanti che dalle vallate a sud dell’Appennino si trasferirono in massa al

di là della alpi tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo seguente.

34 M. Paradisi, Emigrazione e assistenza: la Pia Casa di Beneficenza di Lucca in aiuto ai minori divenuti orfani o abbandonati a causa dell’emigrazione negli ultimi vent’anni dell’800 ,in Documenti e Studi, rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, n° 14-15, 1994, p.335.

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Ad aprire la strada però furono le comunità lucchesi, per lo più originarie delle

regioni montane e più isolate dell’ex Granducato. Il vero spartiacque fu la costruzione

della ferrovia Parma-La Spezia, che attirò un numero molto cospicuo di uomini da

tutte le provincie confinanti. Così molte persone che non avevano mai sentito

nemmeno parlare dell’America vennero a conoscenza del percorso che fino ad allora

solo pochi avevano intrapreso. Inoltre, la possibilità di raggiungere facilmente La

Spezia, e di lì Genova, permise un più facile collegamento tra la zona d’origine di

questi uomini, i luoghi di partenza e gli altri porti d’Italia. Stesso discorso per quanto

riguarda il versante parmigiano, tradizionale portale in direzione della Francia così

come Genova lo era per l’America. Gli unici altri legami intercorsi tra Francia e

Toscana possono essere fatti risalire ai contatti tra il porto di Livorno e le zone

circostanti con i porti francesi del sud, fenomeno però piuttosto trascurabile per

intensità e qualità. Le origini di questi contatti si situa al tempo dell’installazione dei

francos, ebrei di origine spagnola e francese che si insidiarono a Livorno in seguito ai

decreti dei sovrani francesi nel corso del Seicento.

Questi esempi di catena migratoria con radici ben radicate nel corso dell’età moderna,

paiono lo specchio delle vicende raccontate da Pierre Milza, Manuela Martini, Luigi

Taravella e François Cavanna per quanto riguarda l’Appennino Emiliano e le

provincie di Parma e Piacenza. Le mie ricerche mi hanno mostrato come in

corrispondenza del fiume Enza, che separa le province di Parma da quella di Reggio

Emilia, possa essere tracciata una linea di rottura che divide in maniera abbastanza

netta i percorsi migratori delle diverse comunità. Per quanto riguarda le province di

Reggio Emilia, e in parte anche Modena infatti, la stragrande maggioranza delle

persone che decisero di emigrare scelsero la strada dell’America o si fermarono in

Liguria, scendendo verso Genova e la provincia di La Spezia. La questione è

piuttosto curiosa perché si tratta di comunità che per origine etnica (anch’esse

discendono dagli antichi liguri che si rifugiarono sui monti dopo che i Romani

occuparono la regione poi definita Aemilia) e strutture sociali sono assolutamente

paragonabili. Anche i loro rapporti col centro urbano più importante sono

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assolutamente comparabili. Piccoli insediamenti isolati, che avevano maggiori

contatti tra di loro che con la pianura, se non per pochi e scarsi incontri lavorativi a

carattere temporaneo, i quali avevano luogo nei periodi dell’anno in cui il rigido

clima montanaro non permetteva di svolgere quelle funzioni e quelle occupazioni che

in pianura era invece ancora possibile compiere. Come si spiega ciò?

Quello dell’emigrazione dall’Appennino Tosco-Emiliano è un fenomeno che è stato

ben studiato negli ultimi decenni35:come è ovvio, gli studiosi si sono concentrati su

quelle zone che è risaputo abbiano fornito la maggior parte dei contingenti migranti i

quali hanno dato vita al sorgere di comunità stabili e che nel tempo sono arrivate a

costituire delle vere e proprie petites Italies. Penso ovviamente alla Francia, a

Nogent-sur-Marne e ai quartieri parigini di Charonne, la cui componente italiana, e in

special modo piacentina e parmigiana è stata così ben studiata da Marie-Claude

Blanc-Chaléard nei suoi esemplari lavori36; o ancora alla tesi di Manuela Martini e al

magnifico Voyage en Ritalie di Pierre Milza, senza ovviamente dimenticare l’opera di

Cavanna, Les Ritals37, che è da considerarsi un po’ come il capostipite della

riscoperta dell’italianità, anzi, la specificità emiliana che ha caratterizzato diversi

insediamenti italiani a Parigi. Perché allora i casi di Reggio Emilia, riguardo cui gli

studi di Antonio Canovi e Giovanna Campani hanno contribuito a fare luce, e

Modena, appaiono differenti? Le mie ricerche mi hanno portato a ritenere che il peso

della tradizione38, spesso messo in ombra da considerazioni di carattere economico e

sociale, abbia rivestito un peso assolutamente fondamentale per dare il via_ e quindi

35 V. in proposito M. Martini, L’habitude de migrer. Variation dans les parcours migratoires depuis les montagnes des Apennins émiliens (Ferriere di Piacenza, Italie, 19-20èmes siècles), mémoire de DEA, doctorat d’Histoire et Civilisations EHESS, Parigi, 1992, ma anche C. Douki, Les$ mutations$ d’un$ espace$ régional$ au$ miroir$ de$l’émigration:$ l’Apennin$toscan$(1860;1914) , IEP, Paris, 1996 e G. Campani, Les Réseaux familiaux, villageois et régionaux des immigrés italiens en France, Nice, 1987, Thèse de doctorat. 36 Marie-Claude Blanc-Chaléard. Les italiens dans l'est parisien: Une histoire d'intégration (1880–1960), École française de Rome, Roma, 2000 e, Le Nogent des Italiens, Autrement, Parigi,1995. 37 F. Cavanna, Les Ritals, op. cit. 38 L’uso del termine “tradizione” può essere forse fuorviante, ma contiene in sé quel carattere di intima profondità e di rispetto che se non impone, invita all’emulazione in quanto avvertito come parte fondante della propria identità, quale è possibile cogliere anche nelle tradizioni socialiste diffuse nelle pianure emiliano-romagnole e in particolar modo nel Reggiano. Temporalmente piuttosto giovani al tempo, esse tuttavia contribuirono assieme a diverse altre pratiche derivate dalla tradizione contadina e non solo a plasmare l’immaginario delle migliaia di uomini che contribuirono a gonfiare i flussi migratori in uscita dalla regione nel “secolo migratorio” emiliano. Più avanti nel testo approfondiremo meglio questo cruciale argomento.

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instaurare nella mente e nell’immaginario delle comunità protagoniste_ alla creazione

di questi percorsi migratori. Spesso iniziati per caso o per iniziativa di pochi e isolati

gruppi, alimentatisi poi attraverso le reti familiari, amicali e comunitarie, questi

fenomeni finirono per introdurre entro società di tipo tradizionale e costantemente

isolate nel tempo e nello spazio, un meccanismo che da risorsa materiale divenne

prima di tutto “tradizione” esso stesso, perpetuando quella che era una soluzione

individuale, temporanea e oggettivamente di difficile attuazione visto l’isolamento, la

precarietà e la lontananza delle destinazioni predilette dall’emigrazione

transnazionale. In una gigantesca azione di emulazione, le comunità montane

dell’Appennino parmense, piacentino e lucchese hanno trovato un modo per

perpetuare se stesse al di fuori delle piccole e grame vallate delle montagne del

Centro-Nord. Come hanno dimostrato gli studi succitati, in origine la quasi totalità

dei partenti lasciava la terra natia con il dichiarato scopo di ritornarvi dopo aver

messo da parte qualche soldo per “ingrandire il campicello dietro casa”. Si trattava

quindi di un tentativo di salvaguardare le strutture sociali e tradizionali della

comunità d’origine cercando all’esterno quelle risorse che la nuova congiuntura

economica e le nuove strutture sociali nazionali _ ormai non più regionali o

provinciali_ non potevano più garantire. Una “fuga temporanea” all’esterno, con un

atteggiamento piuttosto pionieristico, per permettere una cristallizzazione del tempo

storico nel paese di origine.

Non si può nemmeno affermare che queste popolazioni fossero isolate e non avessero

contatti le une con le altre. Come ho potuto costatare consultando gli archivi di

Ramiseto, Ligonchio e Busana, i tre comuni reggiani che confinano con le provincie

di Parma e Lucca, ho potuto osservare come moltissimi matrimoni, quasi la maggior

parte, videro coinvolti abitanti di Palanzano, Pontremoli e altri comuni lucchesi e

parmigiani confinanti che furono protagonisti delle migrazioni verso la Francia. Una

breve riflessione ci ha indotto a ritenere che in diversi casi erano proprio le famiglie

degli emigrati che cercavano di “colmare i vuoti” venutisi a creare con la partenza dei

giovani per la Francia; in questo modo si cercava di rimpolpare la popolazione locale

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attingendo all’ancora fertile sponda reggiana dell’Enza, dove la tradizione migratoria

era meno intensa e riguardava un insieme di famiglie che nella grande maggioranza

scelsero l’America come destinazione del loro viaggio. Riguardo all’emigrazione da

questi comuni, è risaputo che diversi pastori e braccianti reggiani erano soliti

prendere la strada delle maremme toscane durante la stagione invernale, spingendosi

a volte sino a Grosseto nelle loro peregrinazioni. Da qui a prendere la via

dell’America però, il salto resta piuttosto grande. Perché allora il Brasile, o gli Stati

Uniti (questi furono i luoghi prediletti dai migranti originari delle zone appenniniche

più prossime alla Toscana della provincia di Reggio) e non Milano, Torino, Genova,

Reggio Emilia, Modena, o la Francia come gran parte degli amici e dei compaesani

aveva fatto? E perché così pochi scelsero la Francia? A questo cercheremo di

rispondere nei prossimi capitoli.

La#Romagna#e#la#Lorena#mineraria#

Per quanto riguarda il resto dell’Emilia-Romagna, anche qui è possibile concentrare

la propria attenzione soprattutto sulla zona appenninica, quella che vide il più alto

numero di emigrati lasciare le antiche terre della Romagna per la Francia, in

particolare la Lorena39, ma altresì per le Americhe, per lo più in direzione dei paesi

dell’emisfero australe. Tuttavia, rispetto alla parte occidentale della regione, la parte

orientale si è dimostrata più legata al territorio, iniziando a espatriare in modo

massiccio solo a partire dal 1895, quando la crisi agraria stava per terminare. Il

fenomeno crebbe con l’avvio del secolo e venne rafforzato dal fatto che la

sindacalizzazione massiccia di un gran numero degli operai e dei braccianti della

pianura precluse ai lavoratori della montagna buona parte dei tradizionali sbocchi 39 V. in proposito M. L. Antenucci, Parcours d’Italie en Moselle. Histoire des immigrations italiennes, 1870-1940, Metz, Serpenoise, 2004, S. Bonnet, C. Santini, H. Barthelemy, Les Italiens dans l’arrondissement de Briey avant 1914, «Annales de l’Est», 1 (1962), 48n, e soprattutto A. Ronsart, L’agglomération de Villerupt-Thel-Audin-Le Tiche. Étude urbaine”, Nancy, 1964

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lavorativi. Assieme proprio ai lavoratori non sindacalizzati, molti montanari partirono

così per la Lorena e il Sud America, dove si specializzarono come “carriolanti” nelle

costruzioni edili e nelle industrie estrattive. In regione le pratiche estrattive erano

praticamente sconosciute, fatta eccezione per le cave di sabbia vicino al Po, zona

piuttosto lontana comunque dai paesi di origine dei sopraccitati abitanti

dell’Appennino romagnolo. Viene da pensare alla polivalente figura dell’immigrato

italiano come si è tramandata nel pensiero comune francese. In ogni modo, il caso più

emblematico è quello riguardante alcuni paesi del Montefeltro, dove si ha notizia di

casi in cui più di metà della popolazione si portò in Francia, attuando oltralpe un vero

e proprio transfert della comunità del villaggio di origine.40 Un percorso migratorio,

questo seguito dagli abitanti del Montefeltro, che si dimostra differente rispetto a

quello della grande maggioranza dei migranti dell’Emilia, in particolar modo di

Parma e Piacenza, ove la tradizione migratoria si evolse attraverso i decenni,

partendo da un piano che aveva nel ritorno, nella cura e nel mantenimento della casa

natale, l’obiettivo primario, e che solo col tempo si spostò in direzione di una

permanenza continuativa nel luogo di immigrazione. Una delle caratteristiche degli

emigrati da questi territori è infatti la unilateralità del percorso migratorio41. Si tratta

di casi isolati, che hanno più in comune con i medesimi processi che videro coinvolti

i marchigiani che si mossero in direzione dell’Argentina, ma che nondimeno invitano

a riflettere sulle peculiarità che, affiancando e superando i modelli generali o

regionali, caratterizzano ogni filiera migratoria, e dell’importanza che le strutture

sociali, economiche e lavorative rivestono nel modificare o nel plasmare il progetto di

migratorio, sia alla partenza che all’arrivo42.

40 “On assiste alors à une transplantation de villages italiens dans le département. Ainsi Mercato-Saraceno, Gualdo Tadino, Cesena, Arcevio, Pergola, Sassoferrato, Gubbio, se retrouvent dans le nord de la Moselle, à Audin-Le-Tiche et Ottange”. M.L. Antenucci, op.cit. p.299 41 Per una più approfondita trattazione della questione migratoria monfeltrina rimandiamo al capitolo curato da Amoreno Martellini in Emigrazione e storia d’Italia, a cura di Matteo Sanfilippo, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2003 42 In questa direzione si è mossa tra gli altri anche Flavia Cumoli nel corso del suo lavoro sulle realtà operaie di Sesto San Giovanni e de La Luvière in Belgio. “L’ipotesi dalla quale siamo partiti è che sebbene la nuova vita operaia dei migranti debba essere analizzata come risultante delle strategie individuali e familiari, queste si elaborano in un ambito più o meno ristretto di possibilità determinato dalle strutture dei rapporti sociali […] è necessario analizzare innanzitutto, al di là dei flussi e dei riflussi di popolazione, delle strategie migratorie sviluppate da individui o gruppi, delle condizioni di lavoro trovate nei contesti di arrivo, le condizioni di esistenza materiale e la natura e le modalità del

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In Lorena43 il primo dopoguerra fu un periodo di grande mobilitazione lavorativa: la

zona fu ovviamente tra le più colpite dalla durezza del conflitto e c’era moltissimo

lavoro sia nella prospera industria mineraria che in quella chimica, così come

nell’edilizia. Lo spopolamento della regione poi, per molti versi comparabile a quello

che colpì il sud ovest agricolo studiato da Laure Teulières44 , unito alla poca

inclinazione mostrata dai francesi nei confronti delle occupazioni nelle miniere e

nell’industria, contribuì a incrementare la domanda di manodopera straniera, che fino

a quel tempo era stata abbastanza ridotta e limitata a poche migliaia di italiani, un

numero minore di polacchi e soprattutto di belgi. Bisogna considerare infatti che era

l’Alsazia45 la parte della regione più sviluppata sino ai primi anni del Novecento,

visto che la vena mineraria lorenese fu individuata solo nell’ultimo decennio del

diciannovesimo secolo, e che la regione era stata per secoli un luogo a forte

tradizione contadina. Gli originari della regione non amavano l’invasione di stranieri

che caratterizzò il boom minerario, ma allo stesso tempo amavano ancora meno la

prospettiva di farsi proletari e divenire operai, status che lasciavano volentieri agli

allogeni. Con la fine della Grande Guerra e la riunificazione del territorio all’Alsazia,

la regione divenne il vero fulcro dell’industria francese, ma anche una “grande

caserma” dove l’esercito e gli ingegneri militari andavano e venivano per costruire

fortificazioni, strade, collegamenti e concentravano apparati militari in vista di una

nuova e non impossibile guerra con la Germania. Vi era quindi moltissimo lavoro per

uomini che, come gli emigrati italiani del tempo, erano abituati alle fatiche del lavoro

manuale e che non avevano molte riserve nel farsi operai, abbandonando una

condizione contadina che non offriva loro molte migliori possibilità.

Per la gran parte degli emigranti romagnoli tuttavia, per molti anni, il percorso

migratorio era stato una soluzione temporanea, con un viaggio di andata ma anche un

viaggio di ritorno in direzione del villaggio d’origine, dove ad attendere gli uomini

rapporto instauratosi tra i migranti e lo spazio”. V. Flavia Cumoli, Periferie e mondi operai: immigrazioni, spazi sociali e ambiti culturali negli anni ’50, tesi di dottorato in Storia d’Europa, Bologna-Bruxelles, 2009, p.15 43 La fonte principale per la storia lorenese, qui e più avanti nel corso della trattazione è Gérard Noiriel con il suo Longwy, immigrés et prolétaires (1880-1890), Presses Universitaires de France, Paris, 1984 44 L. Teulières, Immigrès d’Italie et paysans de France 1920-1944, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse, 2002 45 Dal 1870 al 1918 territorio tedesco.

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restavano le mogli, la famiglia e i figli. Fu solo verso la fine degli anni venti del

secolo scorso e soprattutto negli anni trenta che diverse famiglie cominciarono a

trasferirsi nelle città che erano sorte per ospitare gli operai italiani. Villerupt,

Thionville, Briey, erano tutte poco più che villaggi alla fine dell’800, ma erano

cresciute a dismisura con l’arrivo degli operai stranieri e la costruzione di alloggi e

servizi per questi. Ormai si trattava di città piuttosto grandi, dove l’elemento italiano

era ben inserito visto i diversi decenni di permanenza in loco. Anche rapportati

all’altra grande comunità immigrata presente, cioè quella polacca, gli italiani erano

meglio inseriti, i matrimoni misti più frequenti, e i nostri compatrioti iniziavano a

salire nel collocamento sociale, accedendo a professioni più “nobili” quali la

ristorazione, il commercio al dettaglio, la gestione di locali. Importante anche la forte

presenza di italiani all’interno della CGTU, il principale sindacato francese, dove un

buon numero di originari della penisola era direttamente coinvolto, ricoprendo anche

cariche di prestigio ed esercitando una sensibile influenza su larga parte di operai che

di lì a pochi anni sarebbero divenuti cittadini francesi e avrebbero preso parte alle

sollevazioni operaie che agitarono la regione durante la crisi del 1932 e negli anni

seguenti46. In sintesi l’installazione dei romagnoli in Francia, ricalca in parte il

“modello appenninico” valido per la parte occidentale della regione e la Toscana, in

parte si differenzia da esso, in particolare per quanto riguarda le zone del Montefeltro,

storicamente e culturalmente più legate agli altri abitanti della stessa comunità trans-

regionale, e quindi più simili nelle loro strategie ai gruppi di migranti marchigiani.

Inoltre, per quanto riguarda i romagnoli, rispetto agli emiliani l’entità e il numero dei

loro effettivi che partirono per la Francia fu inferiore e si concentrò soprattutto

nell’est dello stato transalpino, in particolare nella zona mineraria lorenese.

46 Vedere anche Gérard Noiriel, Le fascisme italien dans le bassin de Longwy pendant l'entre-deux-guerres, actes du « Colloque International de Luxembourg Le rôle politique de l'immigration italienne dans les pays de l'Europe du Nord-Ouest (1861-1945) », 4-5 mars 1983, Risorgimento, n°1-2, pp. 139-145, e dello stesso autore, Les immigrés italiens en Lorraine pendant l'entre-deux-guerres: du rejet xénophobe aux stratégies d'intégration, contenuto in Les Italiens en France de 1914 à 1940, a cura di Pierre Milza, Ecole Française de Rome, Roma, 1986, pp. 609-632

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L’emigrazione#politica#

Bisogna infine spendere qualche parola sull’emigrazione politica. Classicamente si fa

risalire all’epoca napoleonica l’avvio di un fenomeno che rivestì una discreta

importanza a livello nazionale nel consolidare la presenza e la figura degli italiani

nell’Esagono. In seguito, durante il risorgimento questa tradizione si rafforzò, e la

Francia inizio ad essere vista come la terra della libertà, erede della tradizione

rivoluzionaria. Un’accelerazione importante si ebbe naturalmente durante le guerre di

unificazione, quando i francesi affiancarono i soldati piemontesi e italiani sui campi

della Lombardia e del Veneto. Va sottolineata ancora una volta l’importanza che

l’intervento di Garibaldi a fianco della neonata seconda repubblica rivestì per tutto il

periodo che va da Sedan alla Grande Guerra. L’eroe dei due mondi infatti dopo la

caduta di Napoleone III si schierò a fianco della repubblica e si mosse, assieme ai due

figli per formare un battaglione di italiani. “Ieri vi dicevo, abbasso la Francia del

tiranno Napoleone III. Oggi vi dico, viva la Francia, terrà di libertà!”, questo il

motto con cui il nizzardo sbarcò a Marsiglia nell’autunno del 1870, ricordiamolo,

senza l’appoggio del governo italiano. Il battaglione de l’Argonne, così vennero

ribattezzate le 5000 camicie rosse che il sessantenne generale guidò contro il meglio

equipaggiato esercito prussiano nei dintorni di Dijon. Nonostante le sorti della guerra

fossero ormai segnate, la vittoria, probabilmente di piccola entità, che Garibaldi

riportò contro un battaglione tedesco presso la vecchia capitale della Borgogna fu un

momento importante per i futuri sviluppi nelle relazioni tra i “combattenti per la

libertà” di varia natura politica che decisero di emigrare in Francia e la nazione

transalpina. Da segnalare la presenza di numerosi volontari emiliani nelle file dei

garibaldini.47 È sempre nelle file dei garibaldini che nel 1914 si forma il battaglione

d’immigrati italiani che, sulla spianata degli Invalides si offre di combattere a fianco

della Francia nonostante l’Italia fosse allora alleata formalmente con gli imperi

centrali. Sotto il comando di Ricciotti Graibaldi, uno dei figlii dell’eroe, il quale dal

1870 aveva continuato a vivere in Francia, si radunano ancora una volta circa 5000 47 P. Milza, Voyage en Ritalie, op. cit., pp 265-267

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uomini, che avrebbero potuto essere molti di più se il governo francese non avesse

scoraggiato l’iniziativa, diffidente verso questi battaglioni di stranieri. Non se ne fece

nulla, ma nel 1918, quando in Italia gli austriaci erano stati ormai ricacciati oltre

quelli che sono ancora i confini nordorientali della penisola, non si contano le

migliaia di soldati italiani che soccorsero l’armata francese ancora alle prese con il

ben più duro avversario teutonico sulla Marna. I grandi cimiteri di guerra del nord-est

della Francia però sono tutt’ora lì a testimoniare per gli italiani caduti in soccorso

della Francia.

Nella regione emiliano-romagnola fu soprattutto durante il periodo successivo

all’Unità che il fenomeno dell’emigrazione politica assunse un carattere importante.

Negli archivi della Préfécture de Police di Parigi vi è traccia di un buon numero di

italiani su cui verteva il sospetto di propagandare idee socialiste e soprattutto

anarchiche. Senza voler scomodare i vari Andrea Costa, e gli altri grandi leader

progressisti che a cavallo tra i due secoli svolsero parte della loro opera politica in

Francia, basta dare un’occhiata alle cartelle riguardanti la Concentrazione

Antifascista, la Ligue Italienne pour les Droits de l’Homme (LIDU), o le società di

mutuo soccorso attive nella capitale sin dagli ultimi anni del secolo decimo nono, per

trovarvi un gran numero di attivisti, politici o semplici lavoratori originari della

regione. A titolo di esempio, possiamo segnalare una cartella concernente il Circolo

Operaio Italiano, società di soccorso mutuale costituita per decreto prefettuale del 27

luglio 1881, con sede in boulevard Voltaire 99. Si trattava di un’organizzazione di ex

garibaldini che si prefiggeva il compito di trovare un alloggio agli immigrati appena

giunti a Parigi e di fornire loro cure mediche o aiuti nella cura dei figli in caso di

malattia o incidenti sul lavoro. Presidente e fondatore della società era Joseph

Cavalli, al secolo Giuseppe Cavalli, ex combattente originario della provincia di

Parma. Egli verrà espulso tre anni dopo per manifeste simpatie socialiste, ma la

società gli sopravvivrà diversi anni.48 Anche Reggio Emilia è nominata più di una

volta (oltre ad essere confusa un paio di volte con l’altra Reggio, Reggio Calabria) e i

48 A.P.P., Dossiers diverses, Italiens, Ba 2168, b.1

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nomi di Bellelli, anarchico-socialista (non vi erano distinzioni, entrambi erano

sinonimo di facinorosi e agitatori) e Vezzani, anarchico anch’egli49, hanno un sapore

inequivocabilmente reggiano.

Non tratteremo in questa sede della tradizione migratoria del centro e del sud Italia.

Con questa ricerca si vuole mettere in evidenza come i percorsi migratori studiati

possano essere inscritti nella tradizione migratoria del Nord, caratterizzandosi come

un fenomeno peculiare di alcune zone della Cisalpina e delle regioni montuose; una

tradizione importante, che contribuì in modo pregnante a segnare i successivi intensi

fenomeni migratori, condizionando anche le scelte delle comunità reggiane che

abbiamo preso in esame. I percorsi migratori che hanno coinvolto diverse regioni del

centro e del sud della penisola presentano strutture e modalità per diversi aspetti

differenti, che pur incrociandosi alle volte con gli itinerari intrapresi dai connazionali

a nord dell’appennino settentrionale, prendono il via in contesti e ambienti che

differiscono da quelli che abbiamo tentato di analizzare nel nostro studio. Le

comunità protagoniste del nostro studio si inseriscono evidentemente in un quadro cui

fa da cornice la tradizione migratoria del nord Italia. Inoltre ci teniamo a uniformarci

alla tipologia di analisi seguita dal gruppo del CEDEI che ha individuato alcune zone

di “continuità” a partire da cui ogni ricercatore ha poi svolto le proprie indagini. Gli

esempi e le tradizioni alpina e appenninica costituiscono non tanto un fattore di

condizionamento endogeno rapportato alle abitudini migratorie italiane, quanto validi

esempi delle prassi attraverso cui diversi tragitti migratori si sono espletati, e il loro

studio ha permesso per analogia di individuare dei modelli che si sono rivelati molto

utili nel comprendere i meccanismi tramite cui la migrazione è divenuta un percorso

comune da un percorso individuale e isolato quale era in principio nella stragrande

maggioranza dei casi. Per quel che concerne la nostra ricerca, questi modelli ci sono

stati di fondamentale aiuto sia per quanto riguarda il percorso metodologico che

quello cognitivo di ricerca. Tra i Ritals di Cavanna e i casalgrandesi, gli arcetani e gli

49 A.P.P., Dossiers diverses, Italiens, Ba 2168, b3-4

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scandianesi, ci sono tante somiglianza, dalle abitudini alla lingua, ma anche alcune

differenze che sono in parte da imputare alle caratteristiche specifiche della provincia

di Reggio Emilia, una delle culle del socialismo, del sindacalismo e del

corporativismo italiano, ma anche ai diversi rapporti che queste comunità ebbero con

la realtà provinciale e italiana. Fattore fondamentale di distinzione ad esempio è la

mancanza di un punto di riferimento nell’immaginario _ ma anche ben presente nella

realtà _ come la “via Francigena”; un percorso viario e di comunicazione che fin dai

tempi dei Longobardi aveva tenuto in contatto questi sperduti villaggi di montagna

con la pianura e con l’Europa del Nord, la Francia avanti a tutti. Nell’800

naturalmente, vista anche la situazione economica non certo raggiante della penisola,

a cui va aggiunta la netta diminuzione del peso che la religione50 occupava ormai

nell’influenzare le scelte migratorie delle persone, questo percorso aveva perso molto

della sua antica importanza, ma restava ancora vivo nella memoria collettiva di

queste popolazioni come queste strada, che Pierre Milza descrive come “chemin de

poussière ou de boue, qu’avaient empruntée durant des siècles les hommes de ce

terroir niché au creux de la montagne appennine […] les paysages quasi déserts qui

avaient été la toile de fond de leur jeunesse et de leur misère”. 51

Regione tradizionalmente meno propensa a percorrere la soluzione migrante,

l’Emilia-Romagna risulta pur sempre la quarta regione per ordine di importanza nella

storia dell’emigrazione verso la Francia. Reggio Emilia è la terza provincia, dopo

50 La via Francigena venne, secondo la tradizione, riattata dai Longobardi negli ultimi anni del VIII secolo e divenne in breve una delle strade meglio tenute e più battute della penisola. Questa era anche la via di comunicazione principale tra i ducati toscani e la capitale longobarda, Pavia. I Franchi in seguito continuarono a utilizzare questo percorso, che poteva mettere in comunicazione Roma con il centro Europa in un periodo in cui non vi era un’altra via di pari importanza. Nel Medioevo divenne dunque il principale percorso che non solo gli eserciti, ma anche i commercianti e i pellegrini seguivano per attraversare la penisola o per uscirne, seguendo magari la via dello Champagne e delle sue fiere o il cosiddetto “cammino di Santiago”, fino alla Spagna nord-occidentale. Questa strada dimostra di mantenere ancora una certa importanza in età moderna, se è vero che Carlo VIII la percorse nella sua venuta in Italia nel 1494. Finché l’Italia, i suoi mercanti e i suoi banchieri, mantennero un ruolo di prim’ordine a livello continentale questo percorso continuò a rivestire una grande importanza. La mutata situazione economica e politica evidenziatasi con l’inizio del Cinquecento e le guerre d’Italia (dove ancora questo percorso è utilizzato dagli eserciti stranieri) portò gli staterelli italiani e la via Francigena sulla strada della decadenza, senza però decretarne la morte. Infatti i girovaghi e gli ambulanti italiani, di cui si è parlato nelle pagine precedenti la continuarono a percorrere nel loro cammino verso il Nord Europa, tenendo viva questa tradizione sino all’età contemporanea. Per un quadro più storico completo v. R. Stopani, La via Francigena. Una strada europea nell’Italia del medioevo, Le Lettere, Firenze, 1988, oppure La via Francigena, a cura di R. Greci, CLUEB, Bologna, 2002. 51 P. Milza, Voyage en Ritalie, p.30

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Parma e Piacenza, in questa classificazione52. Ma cosa c’è di così particolare in

questa trascurabile striscia di terra, stretta tra i fiumi Enza e Secchia, tra il grande

corso del Po e l’Appennino?

52 ISTAT Annuario statistico dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925, Roma, 1926

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L’EMILIA E LA PROVINCIA DI REGGIO EMILIA TRA DIFFICOLTA’ ECONOMICHE E SOCIALISMO Nel volume curato da Patrizia Audenino e Maddalena Tirabassi53, le autrici si

sforzano di porre l’accento sul carattere polidirezionale dell’emigrazione italiana.

Come disse Primo Levi “In ogni angolo del globo è possibile trovare un napoletano

che fa le pizze e un biellese che fa i muri”, una frase che ben sintetizza il carattere

globale dell’emigrazione italiana, la quale si è calcolato ammonti a circa 26 milioni di

effettivi tra l’Unità e il 1970. Allo stesso tempo però è vero che gli studi a carattere

regionale compiuti in questi ultimi anni hanno evidenziato come si siano sviluppate

delle “specializzazioni regionali” e come alcune regioni e provincie abbiano

privilegiato alcune destinazioni rispetto ad altre. Per quanto riguarda le regioni

settentrionali è poi possibile individuare alcune macroregioni come l’Insubria, a

cavallo tra Piemonte, Lombardia e Svizzera italiana, che dal biellese arriva a

comprendere le terre dei laghi sino al comasco; questa macroregione si specializzò

nell’emigrazione di uomini impiegati per lo più nei mestieri edili. Il Triveneto, che fu

protagonista per quanto riguarda l’emigrazione in Brasile (tre quinti del totale del

milione e più d’italiani emigrati nella terra scoperta da Vespucci). Il Canavese in

Piemonte e la sua tradizione di contatti col sud della Francia, e diverse altre, tra cui la

zona appenninica settentrionale che ha il suo centro nella parte meridionale delle

provincie parmense e piacentina, ma che era unita come accennato nel capitolo

precedente alla provincia lucchese e carrarese dalla via Francigena.

L’Emilia#Romagna,#regione#dalle#molte#anime# Per quanto riguarda l’ambito da noi studiato, ossia la provincia di Reggio Emilia, non

è possibile includerla completamente in quest’ultima “microregione migratoria”.

Ragioni storiche si sommano a fattori eminentemente contingenti e ad alcune 53 P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni Italiane, op. cit.

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peculiarità che la differenziano dalle confinanti provincie di Parma e Lucca. Prima di

occuparcene però è necessario fare una premessa circa la caratterizzazione della

regione emiliano-romagnola, e a certe sue peculiarità da cui derivano alcune delle

differenze che la contraddistinguono rispetto al resto del nord Italia.

Risale ormai a più di un secolo fa l’inizio del dibattito riguardante la dimensione

monadica della regione, che pur vantando un’origine addirittura risalente ai tempi

della ristrutturazione provinciale italiana di Augusto, nel tempo si è contraddistinta

più per il suo carattere policentrico che per la sua unitarietà. Secoli di frazionamento

in ducati e piccoli regni d’altronde non hanno solo confuso la testa di migliaia di

studenti, che sulle cartine dell’Italia moderna dimenticavano sempre un ducato o lo

attribuivano all’influenza della nazione sbagliata; le differenti provincie hanno avuto

cammini propri, i cui retaggi ancora fino ai nostri giorni si sono ripercossi sulla loro

evoluzione socio-economica54. Nell’Emilia ad esempio si è sviluppata una sorta di

dicotomia tra i due ducati di Parma e Modena, che ha visto il primo attirare a sé

Piacenza e il suo territorio, mentre il secondo ha esercitato un’influenza analoga su

Reggio Emilia. Vi è poi la più netta differenzazione tra Emilia e Romagna, che ha

radici non solo politiche, ma che rimontano a ben prima del medioevo. L’Emilia-

Romagna è divisa in maniera abbastanza netta in due zone, che seppur abitate dalle

medesime genti (ma questo non è del tutto esatto perché nelle zone più interne

dell’Appennino vivono popolazioni di origine ligure, anche se da due millenni ormai

unite alle vicende dei discendenti dei Boi che popolano la pianura), hanno

lungamente costituito due realtà distinte. La pianura, infatti, sin dai tempi dei romani

ha costituito una realtà produttiva caratterizzata da un’economia integrata a carattere

prevalentemente agricolo, gravitante attorno ai centri urbani. Un discorso simile può

essere esteso a tutta la regione per quanto riguarda le città nate sulla via Emilia, da

Piacenza a Rimini, con differenze minime da caso a caso. Attorno ai castra sorsero

diversi insediamenti che, vista la latitanza dei vecchi centri di potere romani nella

54 Questa e altre questioni inerenti la regione sono presentate con maggiore precisione e ampiezza nel libro di Massimo Montanari, M. Ridolfi, R. Zangheri, Storia dell’Emilia Romagna, Laterza, Roma-Bari, 2004. Nella stessa direzione si muove lo studio di Augusto Vasina nel suo Comuni e signorie in Emilia e in Romagna, UTET, Torino, 1986

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pianura, assunsero un’importanza e un’influenza sempre crescente per tutta la parte

finale dell’alto medioevo. A seguito della vicenda canossana, le città tornarono pian

piano ad assumere la loro funzione di centro di potere per le varie provincie,

arrivando a poco a poco a controllare tutte le zone del contado in pianura, fino a

includere quegli stessi castelli in cui prima si esercitava il potere effettivo. È noto

però di come occorsero diversi decenni, a volte secoli, alle città, poi divenute comuni,

per esercitare un effettivo controllo anche sulle zone montuose dei loro dominî.

Questa situazione si ripresentò puntualmente in età moderna, anche se nel corso del

medioevo i contatti e gli scambi tra pianura e montagna s’intensificarono

nuovamente, soprattutto per merito del lascito culturale longobardo, che influenzò

profondamente la cultura alimentare e non solo delle popolazioni delle pianure.55 In

ogni caso la cesura tra le comunità contadine o cittadine della pianura e quelle della

montagna si mantenne sino alla tarda età moderna. Per quanto riguarda le provincie

di Parma e Piacenza, la presenza di un asse viario importante come la via Francigena

consentì agli abitanti di Bettola, Farini dell’Olmo, Ferriere, Bardi e delle altre realtà

montane di mantenere un costante, seppur sporadico, punto di contatto non solo con

la pianura, ma con l’Italia e il resto dell’Europa, visto l’importante traffico di uomini

e merci che le attraversavano. Leggermente inferiore per importanza, ma con

un’analoga funzione, si può considerare anche l’asse viario che da Bologna giungeva

a Pistoia e da lì poi proseguiva verso Firenze (attraverso il passo della Futa). Per

quanto riguarda la provincia di Reggio Emilia invece, l’unica via di una certa

importanza presente è la via del Cerreto56. Promessa dal duca di Modena già nel ‘500,

quando Reggio Emilia divenne un importante centro della produzione serica italiana,

questa fu realizzata solo negli anni dell’Unità, quando ormai l’economia reggiana si

barcamenava tra la sussistenza e la produzione di surplus agricolo. Discorso simile

anche per Modena57, dove l’asse cittadino era nettamente orientato verso nord, in

55 V. M. Montanari, La fame e l’abbondanza, storie dei alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1993 e dello stesso autore Storia dell’Emilia Romagna, Laterza, Roma-Bari, 1999. 56 V. O. Rombaldi, Dall’Emilia al mar Tirreno, in “Gli Appunti”, n° 14, 2002. 57 La via Giardini-Ximenes, anche conosciuta come via dell’Abetone, dal passo montano che attraversa, e che permetteva di raggiungere la Toscana dal Brennero venne terminata solo a metà Ottocento. Questa come la stessa via del Cerreto, vide la luce dopo una gestazione plurisecolare solo quando le esigenze militari austriache la resero un affare

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direzione di Ferrara, Mantova e Verona, mentre comunità come quelle del Frignano

possedevano un alto grado di autonomia58 e avevano creato un circuito economico

per larghi tratti autarchico59 e che spesso li portava ad emigrare in direzione delle

maremme toscane e delle pianure del Lazio60. Ciò non impedì comunque a diverse

centinaia di uomini delle montagne di scendere in pianura a più riprese per

partecipare ai lavori di bonifica, al riattamento degli assi viari, all’abbattimento delle

mura cittadine o a quelle occupazioni a carattere più o meno occasionale che

attirarono sempre un buon numero di muntanér. Come detto però, si trattava per lo

più di occupazioni temporanee, che richiedevano qualche mese di lavoro, magari

distribuiti su diverse annate, ma ad ogni estate la maggior parte di queste persone

rientrava presso la comunità di origine per partecipare ai lavori agricoli tradizionali.

Non si hanno dati precisi su queste pratiche, ma cenni sono presenti in diversi

documenti risalenti sino all’epoca dell’instaurarsi del ducato estense a Reggio Emilia,

quando il duca, per imbonirsi i nuovi sudditi e per far fronte alla disoccupazione

reclutò diverse migliaia di persone per i lavori di bonifica nella zona della bassa. In

generale, al di là di queste iniziative estemporanee, è possibile affermare che la

frammentarietà territoriale e la mancanza di contatti commerciali e non solo fosse

una caratteristica del territorio ducale, almeno sino al diciannovesimo secolo61.

di stato. A proposito scrive Gino Badini che “ormai lo stato estense si andava estinguendo nelle sue radici modenesi e gravitava nell’orbita della politica austriaca, alla quale, premeva di avere in Italia strade facilmente percorribili dai suoi eserciti, che dalle Alpi raggiungessero facilmente la Toscana”. In G. Badini, Il Cerreto e la sua strada: un futuro con radici antiche, Provinci di Reggio Emilia, Reggio Emilia, 2006, p. 20 58 Secondo gli statuti del 1392 gli abitanti del Frignano “[…] sint populi de per se, Territorium de per se, et commoda aut incommoda sint unicuique particularia, divisa et propria”. In Armeno Fontana, “Il Frignano nello Stato di Modena” in Lo Stato di Modena. Una capitale, una dinastia, una civiltà nella storia d’Europa, Atti del convegno di Modena, 25-28 marzo 1998, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, Modena, 2001, p. 501 59 “[…] quei mondi delle montagne a cavaliere dello spartiacque appenninico che si mantennero lungamente e ostinatamente ai margini dello stato”. Marco Cattini, “Per un profilo dell’economia modenese nei secoli XVII e XVIII”, in Lo Stato di Modena…, op. cit., p. 67. Vedere anche Pierpaolo Bonacini, Terre d’Emilia. Distretti pubblici, comunità locali e poteri signorili nell’esperienza di una regione italiana (secoli VII-XII), CLUEB, Bologna, 2001 60 V. A. Fontana, Il Frignano nello Stato di Modena, op. cit., p. 509 61 “Davvero ogni comunità, ogni feudo era un mondo economico a parte, contraddistinto da una stretta autarchia produttiva e consuntiva. Le gabelle statali, comunali e feudali scoraggiavano movimenti di merci sia in uscita che in entrata, attuando di fatto una politica iperprotezionistica a vantaggio delle produzioni agricole e manifatturiere locali. Nello stato estense, insomma, non v’era alcuna parvenza d’un mercato unico, il che intralciava non poco i movimenti di merci ed era freno agli scambi. Esisteva, dunque, un vero e proprio arcipelago di mercati locali […]” M. Cattini, “Per un profilo dell’economia modenese nei secoli XVII e XVIII”, in Lo Stato di Modena…, op. cit., p. 49

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La#cittadella#del#socialismo#

Queste differenze di carattere storico finirono per influire in maniera diretta sui

successivi sviluppi delle vicende e delle attitudini delle diverse “fasce abitative” in

regione. Con l’Unità, le cose migliorarono leggermente, se non altro perché gli

spostamenti tra un luogo e l’altro della nazione divennero più agevoli. Non pare però,

almeno a giudicare dai dati consultabili presso gli archivi di Reggio Emilia, che molti

montanari fossero soliti superare il Po per recarsi nelle risaie di Piacenza, quelle della

provincia di Pavia o di Vercelli, dove invece era molto facile trovare diversi reggiani

provenienti dai comuni della bassa.62 In effetti le comunità montane della provincia

reggiana dimostrarono una scarsa tendenza alla mobilità se paragonate a quelle dei

comuni confinanti di Lucca e Parma. Più simili in questo, ancora una volta, ai

corrispettivi della provincia Modenese e sintomo che oltre quattrocento anni di

accorpamento avevano creato più di un legame tra le due comunità provinciali.

Un altro aspetto assolutamente fondamentale per inquadrare l’ambito entro cui la

Grande Migrazione toccò anche l’area emiliano-romagnola è contesto politico. È

risaputo, infatti, che la regione fu una delle più suscettibili all’iniziativa

propagandistica socialista, che in Italia iniziò a prendere piede a partire dalla seconda

metà dell’Ottocento. Già in questo periodo fu la Francia il tramite per mezzo di cui le

idee socialiste fecero il loro ingresso nella penisola. A onor del vero, il terreno si

dimostrò fin da subito particolarmente fertile, almeno per quel che riguardava la città

e le zone della bassa. Qui la crisi agraria aveva colpito duramente un sistema di

produzione che per secoli si era retto sul binomio “famiglia e podere, in cui gran

parte delle relazioni economico-produttive e sociali trovavano compiutezza”.63 La

crisi aveva costretto numerosi agricoltori a contrarre dei debiti per cercare di far

fronte al drastico calo dei prezzi delle derrate agricole, il frumento in particolare, il

quale era la coltura nettamente predominante nella regione. Diversi piccoli

62 F. Cazzola, Strutture agricole e crisi sociale nella Valle Padana del secondo Ottocento, Annali dell’Istituto Alcide Cervi n° 5, 1983, p. 31. 63 F. Cazzola, Le campagne emiliane dall’Unità alla prima guerra mondiale. Note storiografiche, Annali dell’Istituto Gramsci, n° 7, 1985, pp. 181-182

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proprietari, non potendo far fronte ai debiti, si videro così costretti a vendere l’ultima

loro proprietà, ossia la loro forza lavoro, divenendo così braccianti e lavoratori a

giornata. Altri invece, più fortunati, puntarono su un’altra risorsa di cui ancora

potevano disporre, ossia il bestiame, nella fattispecie le vacche. Queste presero nel

corso dei decenni il posto che prima era stato dei bovi, svolgendo assieme ai lavori di

aratura anche quello di produttrici di latte e vitelli, prodotti che assunsero una

posizione sempre più importante nell’economia della provincia. La riconversione a

latte ebbe successo, ma fu proprio la situazione venutasi a creare con la crisi agraria,

che ridusse molto i proventi derivati dalla cerealicoltura, a spingere i piccoli

proprietari in questa direzione. È sempre in questi anni che presero piede molte leghe

contadine, le quali si proposero di riunire gli agricoltori cercando di proteggere coloro

che si trovavano in difficoltà economiche, ma soprattutto, unì il fronte dei lavoratori

della terra, conferendogli un carattere di classe che riuscì poi a fronteggiare i tentativi

da parte del padronato di trasformare, sull’esempio del modello lombardo, i rapporti

di produzione presenti64. A differenza di quello che avvenne in diverse altre zone

d’Italia, anche durante la crisi questi uomini non scelsero in massa la strada

dell’emigrazione per cercare altrove quel lavoro che la madrepatria non era più in

grado di offrirgli, ma confortati dall’opera delle leghe cercarono di resistere alla crisi

combattendo per ottenere, o nel peggiore dei casi mantenere, un trattamento degno da

parte della classe proprietaria.

Questa diffusa presenza di leghe contadine costituì un importante fattore di

limitazione per quanto riguarda l’emigrazione. Cifre alla mano infatti, la regione

risulta decisamente meno protagonista rispetto a quelle confinanti: uno studio

compiuto da John Macdonald65 sulle campagne italiane ha evidenziato come le

regioni ove la classe contadina era più unita, e la presenza di leghe contadine riusciva

a contrastare almeno in parte la pressione della classe dei proprietari, si rivolsero in

misura minore all’emigrazione come soluzione del conflitto sociale. Regioni come la

64 Ossia la diminuzione dei poderi, sostituiti da grandi possedimenti a conduzione indiretta, retti da pochi proprietari che vi applicavano un sistema di produzione votato alla massimizzazione dei profitti e all’esportazione. 65 John Stuart Macdonald, Agricultural Organization, Migration and Labour Militancy in Rural Italy, “The Economic History Review”, 16 n.s., 1, 1963

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Calabria invece, ove gran parte della classe contadina viveva in condizioni di estrema

povertà e non si risolse alla creazione di un numero significativo di associazioni e

leghe agricole, furono caratterizzate da un ampio ricorso all’emigrazione come mezzo

per sfuggire alla durissime condizioni di vita che attanagliavano gran parte della

popolazione. Come afferma Antonio Canovi nella sua tesi di dottorato presso l’École

des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi66 o nel suo studio sulle “piccole

russie” della provincia67, i reggiani cercarono di costruire a Reggio la patria del

socialismo, e non avevano quindi bisogno di fuggire o cercare altrove quelle

condizioni sociali e politiche che sembravano così lontane invece in altri contesti

italiani.

Reggio Emilia si era segnalata già nel periodo dei moti nazionali come una delle città

italiane più caratterizzate da una forte componente anarchica e anticlericale, in un

periodo in cui, potremmo dire, tra le dottrine che sarebbero poi state sostenute da

Bakunin e Marx non v’era una differenza troppo netta. Nelle nostre ricerche presso

gli archivi di Parigi abbiamo trovato diversi nomi di reggiani nelle liste dei soggetti

ritenuti potenzialmente pericolosi o propugnatori di ideali sovversivi a stampo

anarchico-socislista. Insomma, pur essendo una zona a bassissima concentrazione

industriale, sicuramente se paragonata a zone come la Lorena, la cintura parigina, ma

anche alla Lombardia, la Liguria o Torino, l’Emilia fu caratterizzata da un forte

impronta “rossa” che divenne parte del bagaglio identitario, ancor prima che

strettamente politico, di buona parte della classe contadina. Questo fu un altro fattore

di divisione rispetto alla parte montana della regione, dove le idee socialiste ebbero

molta minor presa sulle masse per lungo tempo.

Dopo l’unificazione, l’assetto produttivo della provincia reggiana fu contraddistinto

da una serie di eredità e consuetudini passatiste che rendevano l’apparato industriale

del vecchio ducato di Reggio una realtà in cui un’industria agricola primitiva

66 A. Canovi, Parcours migratoires et typologies d'installation dans la Region parisienne ; la sociabilite politique des "reggiani" et le cas de Cavriago-Argenteuil (XIX-XX siecles), Ecole des Hautes etudes en Sciences Sociales, Paris, 1996. 67 A. Canovi M. Fincardi. M. Mietto, M.G. Ruggerini, Memoria e parola: le «piccole Russie» emiliane. Osservazioni sull'utilizzo della storia orale, in Rivista di Storia Contemporanea, vol. 3, 1995, pp. 385-404

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manteneva segni di vistose strozzature anti modernizzanti.68 Il territorio provinciale

poteva essere diviso in tre fasce (la montagna, la collina o colle piano, e la pianura,

quest’ultima a sua volta divisa in alta e bassa pianura), dove l’agricoltura era praticata

da differenti tipologie di soggetti economici: i piccoli proprietari particellari della

zona montuosa e i piccoli affittuari, i mezzadri, i boari e gli avventizi, concentrati

soprattutto nella bassa. La mezzadria era senza dubbio il rapporto contrattuale più

diffuso, di gran lungo il preferito da un ceto proprietario molto restio a modernizzare,

ma anche scevro da adeguate cognizioni agronomiche69, e in sostanza soddisfatto

della stabilità sociale che garantiva il contratto mezzadrile. Ad eccezione della fascia

pedecollinare, dove l’estensione delle foraggere consentiva già una discreta attività di

allevamento e di trasformazione in prodotti latto-caseari, l’agricoltura reggiana era

imperniata decisamente sulla coltura promiscua di cereali e vigneti, mentre nei terreni

della bassa, naturalmente molto fertili, si era diffusa la coltivazione del riso, pratica

avviata ai tempi dell’occupazione napoleonica.

La grande crisi degli anni ottanta fu la miccia che fece esplodere la situazione: i

prezzi dei cereali calarono anche del 30-40% su scala nazionale, mentre il vino e i

prodotti latto-caseari furono esenti da questi terribili deprezzamenti. La crisi finì per

innescare un processo di razionalizzazione produttiva, spingendo un buon numero di

aziende a orientarsi su un complesso di produzione ad alto contenuto zootecnico,

puntando dunque su un ampliamento delle foraggere (importante in questo senso

l’introduzione del trifoglio) che consentisse un incremento della quantità di bestiame

da latte, riducendo nel contempo le produzioni di frumento e riso. 70 In questo

contesto la provincia fu investita, anche se in misura minore rispetto al nucleo di

diffusione mantovano, dal movimento di protesta del la boje!71, una sorta di rivolta da

68Vedere S. Jacini, Inchiesta agraria, Einaudi, Torino, 1977. 69 L’istituto A. Zanelli divenne un centro importante di documentazione e diffusione di tecnologie agronomiche per Reggio e provincia solo a partire dalla fine del secolo decimo nono. 70 Da 88.932 che erano nel 1881, i bovini passarono a 137.795 nel 1908. Cfr. F. Cazzola, Le campagne emiliane, in Annali dell’Istituto Cervi, n° 7 del 1985, p.197, Reggio Emilia. 71 Il fenomeno, partito dalle campagne del Polesine e che prende il nome dal grido dei braccianti in rivolta “La boje, la boje e de boto la va de fora!”, si diffuse velocemente anche nella vicina provincia mantovana, e da lì nelle zone confinanti del reggiano e del modenese e del cremonese. Alcuni contadini mantovani presero la guida del movimento, contribuendo a conferirgli una risonanza e una portata che allarmò parecchio le istituzioni e la classe padronale, tanto che i ventidue contadini mantovani processati dalla corte di Assise di Venezia nel 1886 vennero accusati di aver

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parte di un bracciantato sempre più relegato nel fondo delle categorie salariali ma

pure sempre più numeroso e organizzato. Nel Reggiano comunque il fenomeno

rimase circoscritto ad alcune aree della bassa, dove maggiori erano i contatti con

l’universo contadino mantovano. Nel frattempo nell’ex ducato andava maturando

quell’originale intreccio tra situazione contadina, questione agraria, strategia

socialista e orientamento socialdemocratico che caratterizzerà il pensiero

prampoliniano.72 In estrema sintesi, lotta di classe, collettivismo e abolizione della

proprietà privata confluirono in una prassi nella quale lo scontro sociale non doveva

circoscriversi all’esclusiva contrapposizione padrone-salariato, senza cioè turbare

l’ordine sociale, ma solo quello economico e dei rapporti di proprietà.

Il movimento cooperativo reggiano vide il suo battesimo nel principio degli anni

ottanta dell’Ottocento, con la fondazione della Società Generale Cooperativa e di

mutuo soccorso tra i muratori e i braccianti di terra della provincia di Reggio Emilia.

La camera del lavoro vide la luce invece nel 1901, quando già erano numerosissime

le società sorte con la medesima impostazione e intenti della primigenia associazione.

Il formarsi di leghe contadine, che vide uniti mezzadri, braccianti, coloni, affittuari e

piccoli proprietari contribuì non poco a connotare di un forte carattere unitario il

movimento contadino reggiano, che cercò di risolvere in sé i contrasti tra la

conduzione mezzadrile e il bracciantato. Anzi, con il passare degli anni, fu proprio la

mezzadria a conduzione per lo più familiare (con l’aiuto di braccianti o giornalieri nei

periodi di massimo sforzo) la soluzione che si impose come la più ricercata dagli

agricoltori reggiani. Questo fu possibile proprio grazie all’adozione della forma

cooperativa che permise anche ai piccoli proprietari _ tra l’altro incoraggiati dai

grandi possidenti, che preferivano un insieme di piccoli proprietari a un esercito di

proletari _ di far fronte alle difficoltà, e di prosperare con l’adozione di un nuovo

sistema di produzione maggiormente incentrato sull’allevamento e lo sfruttamento

dei bovini.

attentato alla sicurezza dello Stato. V. Vittorio Tomasin, Il moto polesano de “la boje” del 1884, in “Annali Istituto A. Cervi”, V, Bologna, Il Mulino,1984, pp.221-246 72 M.L. Betri, Origini e consolidamento della Camera del Lavoro e delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici a Reggio Emilia, Inchiesta, XXXI, n. 134-135, luglio-dicembre 2001, p.77

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La Camera del lavoro, uno degli organismi che più influenzarono lo sviluppo delle

attività produttive post-crisi in regione, ebbe a Reggio Emilia un ruolo diverso

rispetto al resto della regione: essa, infatti, emerse come spontanea esigenza degli

organismi cooperativi, sorti autonomamente un po’ ovunque nella fascia collinare e

pianeggiante del territorio, che abbisognavano di un’opera di coordinamento

generale; quindi in un certo senso con una “spinta dal basso verso l’alto”. Era usuale

invece, come accadde quasi ovunque nella regione e in Italia, che l’istituto della

camera del lavoro nascesse come una “trasformazione delle società di mutuo

soccorso e delle leghe di resistenza, sul modello delle chambres du travail francesi73.

Esse non presupponevano un’organizzazione territoriale preesistente, ma la

determinavano: al contrario a Reggio Emilia il modello cooperativo autoctono,

fortemente improntato degli ideali prampoliniani, ebbe un ruolo fondamentale nel

tracciare le linee di condotta della stessa camera del lavoro. Nel reggiano si era così

radicata una cultura di regole organizzative e istituzionali affiancate

dall’autopromozione del modello economico cooperativo.74

Nonostante questi importanti cambiamenti che caratterizzarono il sistema produttivo

reggiano e che contribuirono a risollevarlo dalla terribile situazione che si era venuta

a creare in seguito alla grande crisi cominciata negli anni ottanta del secolo

precedente, l’Emilia-Romagna continuava a costituire il fanalino di coda nell’Italia

settentrionale per quanto riguarda la produttività agricola; anche l’industrializzazione

e la situazione di gran parte del proletariato agricolo erano tutt’altro che buone. “Il

pescatore reggiano”, curiosa rivista annuale a metà strada tra il manuale del buon

cittadino e il prontuario di astrologia applicata all’agricoltura, scriveva ancora nel

1927:

“La provincia di Reggio Emilia, fertile ed eminentemente agricola, non produce grano a sufficienza

per tutti i suoi abitanti. Noi coltiviamo a frumento circa 50 mila ettari con una produzione media di

4,70 quintali per biolca: non basta.”75

73 S. Cofferati, intervista pubblicata su Inchiesta, XXXVI, n° 133-134, luglio-dicembre 2001, p.2 74 M.L. Betri Origini e consolidamento…, op. cit., pag. 77 75 Il pescatore reggiano, anno LXXXI, 1927, p.104

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Bisogna dire che la rivista a quel tempo rientrava già pienamente sotto l’orbita

fascista e si proponeva ovviamente di promuovere la cosiddetta “battaglia del grano”

che Mussolini aveva introdotto nel tentativo di “liberare” l’Italia dal fabbisogno di

prodotti stranieri, in una corsa verso l’autarchia che non favorì di certo la già difficile

situazione dell’Italia postbellica. In ogni caso questa testimonianza è significativa per

la nostra ricerca perché mette in evidenza l’impostazione che il fascismo diede alla

politica economica dell’Emilia, e soprattutto a Reggio Emilia, dove la cooperazione

aveva trovato con le sue sole forze la strada dell’innovazione e della trasformazione

produttiva. Una più attenta analisi della struttura produttiva reggiana negli anni venti

del Novecento però, mostra come, se rapportata alle altre provincie della regione,

Reggio Emilia potesse vantarsi di essere tra le più prospere. Se sul piano

dell’industrializzazione il Reggiano era un territorio innegabilmente povero di

imprese, per quanto riguarda il settore agricolo e in particolare nel campo dei latticini

e dei prodotti caseari, si trattava di una provincia piuttosto ricca, anche se questo non

bastava per sopperire ai problemi di occupazione e per colmare le sacche di povertà

che punteggiavano la provincia. Il pensiero a ciò che è avvenuto nella seconda metà

del secolo può fuorviare colui che intenda indagare la situazione reggiana nella prima

metà del secolo scorso: si rischia infatti di guardare al passato con gli occhi del

presente, perdendo così di vista il contesto sociale e organizzativo della provincia a

quel tempo. Fatta eccezione per le Officine Reggiane, la fabbrica di spazzole Agazzi

e della produzione di calzature non vi erano altre fabbriche veramente importanti in

provincia. La tradizionale produzione di seta, pratica di cui Reggio fu maestra nella

prima età moderna, era in decadenza da secoli ormai, così come la lavorazione dei

trucioli di legno. Mentre l’industria vinicola e quella casearia prosperavano, l’altro

settore trainante dell’economia reggiana nel dopoguerra, ossia la ceramica, era

confinato ancora ad un piano locale e del tutto secondario: la qualità dei prodotti era

piuttosto bassa e la produzione era per lo più caratterizzata da imprese famigliari con

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interessi quasi sempre locali. 76 Argille e cave alimentavano una serie di fornaci, ma

la merce prodotta non superava l’Enza e il Secchia.77 La produzione di macchinari

agricoli, introdotta da qualche anno, non lasciava assolutamente presagire i successivi

importanti sviluppi. Insomma, Reggio non sembrava destinata a divenire un distretto

industriale e soprattutto, non pareva intenzionata a volerlo essere. Si sono avanzate

diverse teorie a riguardo, alcune delle quali vedono nella frenata causata dalle

restrizioni e dal dirigismo fascista una possibile spiegazione; altri invece trovano già

in nuce nell’orientamento della camera del lavoro e della direzione cooperativa di

marca socialista un importante fattore di condizionamento del non sviluppo

industriale reggiano negli anni venti, al di fuori dei settori classici legati alla

produzione di latte, formaggio, burro e cereali. I socialisti cercarono di impiantare

nella provincia, l’unica in cui godevano di un così ampio sostegno78, un piano

produttivo alternativo ai modelli capitalistici altrove in via di instaurazione e quale

poteva essere quello lombardo, cercando di evitare una proletarizzazione delle masse

contadine e il sorgere di una nutrita classe di grandi proprietari e gestori di capitali;

anzi, si cercò di estendere capillarmente la piccola-media proprietà contadina,

valorizzando al massimo l’autonomia dei singoli, contentandosi di dirigere la

pianificazione tramite le centinaia di cooperative che sorsero un po’ ovunque. 79 In

questo modo non si andava a urtare la storica suscettibilità dei contadini, che come

primo pensiero avevano la proprietà della terra in mente, ma allo stesso tempo,

tramite le direzione delle cooperative, si inseriva nel mercato su ampia scala la loro

produzione. Non vi era un’alternativa al metodo capitalista di industrializzazione, 76 Vedere l’articolo di Roberto Romano su Inchiesta, op. cit., pp. 80-83 77 Come spiega Lidia Righi nel suo saggio Note sulla produzione ceramica del Settecento nel Ducato Estense, la produzione di ceramica fu un’attività presente nella regione fin dall’antichità, ma per quanto riguarda il territorio del ducato estense, non raggiunse dimensione cospicue sino al tardo Settecento, quando a Sassuolo venne impiantata la prima fabbrica di grosse dimensioni, grazie all’iniziativa di Giovanni Andrea Ferrari. A Reggio vi erano piccoli nuclei produttivi in città, a Scandiano e a Castellarano, dove si produceva “una terraglia bianca, terracotta coperta con una base bianca e vernice trasparente. Un prodotto povero, come quelli ricavati dalla lavorazione dell’argilla alla Veggia.” In L. Righi, Note sulla produzione ceramica del Settecento nel Ducato Estense, Atti della deputazione di storia patria, serie XI, vol. II, 1980, Modena. 78 Alcuni dati: nelle elezioni tenutesi nel novembre del 1919 il PSI ottenne il controllo di 38 comuni su 45 (tutti e sette in montagna) con 42.840 voti favorevoli, a fronte degli 11.783 dei popolari, degli 8766 dei liberali e dei 1300 del fascio. Nella capoluogo il PSI ottenne 48 seggi su 60. In C. Grazioli, Il movimento cattolico reggiano dal primo dopoguerra al fascismo, Ricerche Storiche, a XVI, n° 46, luglio 1982. 79 L. Righi Note sulla produzione ceramica…, op. cit.

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così questa fu una soluzione per così dire “interlocutoria”, che però contribuì non

poco a cementare attorno agli ideali socialisti le masse reggiane. Nel dicembre del

1920 vi erano nella provincia 200 cooperative aderenti alla Cdl e un terzo della

popolazione della provincia si serviva in cooperative di consumo. Questi dati non

hanno equivalenti in nessun altro luogo in Italia.80 Come spiega Antonio Canovi nel

suo saggio sulle “piccole russie”81, l’ideale messianico del comunismo veniva

attraverso queste pratiche sottratto alla sfera futura e si concretava nel presente, o

almeno, questo era quello che avvertiva la maggior parte della gente. In addizione a

ciò, sempre gravi erano i problemi derivanti dalla disoccupazione, della condizione

dei braccianti e delle genti della montagna, oltre che di numerosi cittadini, che

continuavano a vivere ai margini della comunità lavorativa e che la camera del lavoro

faticava a collocare nel nuovo sistema provinciale. Qui sì che si avvertiva la

mancanza di un settore industriale importante, ed è anche per queste contraddizioni

che Gramsci, nei suoi Quaderni, si schiera contro l’esperienza riformista reggiana.82

Emigrare#o#lottare?#

Sì è cercato di evidenziare in queste poche pagine come nonostante persistessero, a

partire dalla crisi degli anni ottanta, e si fossero manifestati nuovamente quando si

avvertirono i prodromi della crisi del ’29, difficoltà oggettive dal punto di vista

economico e occupazionale, la provincia di Reggio Emilia e con essa quelle zone

della regione in cui le organizzazioni di stampo socialista riuscirono a fare presa sulle

masse contadine, si trovò in una situazione del tutto particolare rispetto alle altre zone

d’Italia che furono interessate dal fenomeno migratorio. In particolare l’immaginario

e l’orizzonte delle idee di molto reggiani fu costellato dalla presenza, dall’azione e

dall’impronta del socialismo, un’ideale che debordava i confini del politico

lambendo, o piuttosto, inondando molti altri aspetti primari dell’organizzazione

80 C. Grazioli, Il movimento cattolico reggiano, op. cit. 81 A. Canovi, M. Fincardi, M. Mietto, M.G. Ruggerini, Memoria e parola: le “piccole russie” emiliane”…, op. cit. 82 A. Gramsci Quaderni dal carcere, Q 19 (X9) 1934-35, pp. 1985-1986

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sociale ed economica dell’esistenza. Come sostiene ancora Canovi nella sua tesi83

piuttosto che cercare all’estero un mondo nuovo, una vita e un avvenire migliori, i

reggiani, tramite l’esperienza cooperativa tinta degli ideali dell’utopia socialista,

avevano “a casa propria” la possibilità di lavorare per un futuro profondamente

differente, un futuro di uguaglianza, benessere e lavoro. Il socialismo si avvertiva

sulla pelle, era lì, si stava realizzando, che bisogno c’era di andarsene?

Quando si affronta una questione delicata come la storia della mentalità di un gruppo

bisogna sempre tenere presente la sfasatura che si produce tra la percezione di un

fenomeno e il suo contenuto empirico: la persistenza in provincia di una

strutturazione del lavoro e della società agricola che per molti versi si scontravano

con la visione socialista della proprietà, le difficoltà e le contraddizioni di un sistema

che dopotutto non era basato sull’uguaglianza di tutti, ma solo dei soggetti produttori

(il mezzadro decideva su tutto, senza dimenticare che persisteva la figura

dell’affittuario), erano avvertite come eredità di un passato di impronta pseudo-

capitalista da combattere, in nome di una uguaglianza futura in cui tutti sarebbero

stati proprietari della terra e non vi sarebbero più stati padroni o speculatori. Dove si

poteva aspirare, nel corso della propria vita, entro pochi anni quindi, a trovare queste

condizioni? A Parigi? A New York? A Londra? No di certo. Il futuro era qui, tra i

campi di casa, e bisognava proseguire nella lotta per la sua costruzione. Perché

emigrare dunque?

L’avvento del fascismo fu un trauma sotto diversi punti di vista per la provincia.

Oltre alle violenze e alle angherie cui furono sottoposti un numero piuttosto cospicuo

di cittadini, questo fu avvertito come un blocco, un ostacolo che si interpose nel

mezzo di un cammino che si stava dimostrando sempre più positivo e che era vissuto

dalle masse contadine non solo come un mezzo di riscatto e affermazione economica,

ma sociale e ideale. Nel film di Bernardo Bertolucci Novecento, è possibile ritrovare

tracce di questo sentimento di sogno e cammino interrotto, in un contesto in cui la

83 A. Canovi, Parcours migratoires…, op. cit.

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politica, il lavoro e la “sociabilità” erano arrivati a un connubio mai raggiunto prima.

Le incursioni delle squadre fasciste, spesso foraggiate e incoraggiate dai grandi

proprietari o da quelle forze politiche che vedevano nella “marea rossa” una minaccia

per l’ordine e la struttura sociale così come si erano concepiti fino ad allora, furono

l’inizio della fine del sogno di moltissimi cittadini e contadini.

È il 1921 la data cardine nel cambiamento di rotta nella provincia. Alle elezioni

comunali il PSI reggiano si pronuncia in favore dell’astensionismo di massa (a

differenza di quanto avvenuto nelle province di Modena e Parma) e il fascismo riesce

ad assumere il controllo di tutti gli organi di potere. È il tramonto di un’epoca,

l’inizio di una notte che durerà venticinque anni. Per molti, un periodo di tempo

troppo lungo.

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LA VAL DI SECCHIA DALL’UNITA’ AL FASCISMO

Nei capitoli precedenti si è cercato di donare un quadro generale della situazione

economica e sociale dell’Emilia, partendo dall’Unità, attraversando la grande crisi,

fino a giungere alla guerra e all’arrivo della marea nera del fascismo, che tanto segnò

il paese, la regione e la provincia di Reggio in particolar modo. Se in città e nei

luoghi in cui la forza del movimento cooperativo, a braccetto con la declinazione

prampoliniana del socialismo riformistico, aveva lasciato la sua impronta e trascinato

con sé nel pieno della grande battaglia dell’epoca migliaia di cittadini e contadini,

non in tutta la provincia vi era stata una tale partecipazione da parte delle masse.

Come abbiamo tentato di illustrare in precedenza, le province emiliane sono

contraddistinte da una tripartizione abbastanza marcata tra la zona della bassa e

dell’alta pianura, la zona pedemontana e infine la montagna vera e propria. Nelle

zone di montagna la penetrazione delle idee socialiste fu meno forte per ragioni

diverse, prime fra tutte quelle economiche: quivi, infatti, regnava un tipo di

produzione imperniata sui piccoli proprietari, che avevano scarsi contatti con la realtà

della piana e vedevano nella proprietà e nella conduzione diretta del proprio terreno

l’unico orizzonte percorribile. Essendo in sostanza assenti vasti appezzamenti di

terreno o attività industriali che potessero coinvolgere un elevato numero di persone,

si trattava di una realtà molto frazionata e chiusa, che non vedeva di buon occhio il

moltiplicarsi del numero dei braccianti confederati nelle leghe contadine e che anzi, si

veniva spesso a trovare d’accordo con la classe dei grandi proprietari. Insomma,

diversamente dalla pianura, sull’Appennino non ci fu una costante e radicata coesione

tra forze cooperativistiche e piccoli proprietari, e da questo conseguì un minor

coinvolgimento delle masse nell’attività politica, che come abbiamo spiegato, nelle

provincia era legata in maniera quasi indissolubile alla struttura produttiva. Nella

scelta dell’area da noi studiata, questa tripartizione si mostra in maniera evidente, con

differenze che non si sono rivelate solamente sotto l’aspetto economico, ma si sono

anche ripercosse sui destini politici e sulle vicende migratorie degli stessi soggetti

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presi in esame. Questa caratteristica è da tenere a mente nel prosieguo dell’analisi.

Per quanto riguarda i casi di Casalgrande, Arceto e in buona parte anche Scandiano

questa situazione si ripresenta abbastanza fedelmente, e anzi, nei casi di Arceto e

Casalgrande ci sforzeremo di dimostrare come la motivazione politica abbia concorso

in maniera preponderante a spingere centinaia di cittadini reggiani a emigrare, e che il

paradigma politica-emigrazione messo in luce da Canovi si possa applicare anche a

diverse altre aree della provincia reggiana. La realtà di Castellarano invece differisce

in parte da queste aree e questa sua peculiarità si riflette anche sul tipo di emigrazione

che ha visto protagonisti i suoi abitanti, i quali possono essere inseriti al confine della

zona collinare e nell’immediato inizio della zona montanara per strutture sociali e

quadro economico d’inserimento.

La#Val#di#Secchia,#un#territorio#dalle#diverse#anime#

La scelta di privilegiare un approccio pluricentrico è stata adottata nel tentativo di

evidenziare la diversa strutturazione di un territorio pure dotato di una certa

continuità, la Val di Secchia, dalle sue propaggini in pianura alla sua parte montuosa.

Un luogo che potrebbe definirsi liminale all’interno del contesto provinciale, a

cavallo tra la zona montuosa, la pianura e orientato sì verso il capoluogo, ma pure con

diversi legami con la parte modenese che si stende al di là del fiume Secchia. Quella

che oggi è a tutti gli effetti un’unica grande isola industriale, che da Vignola (ma

potremmo spingerci fino a Bologna e ancora oltre) arriva sino alla montagna

reggiana, passando per Scandiano, Castellarano e Casalgrande, sino a una sessantina

di anni fa era un luogo che nessuno si sarebbe azzardato a definire ricco, almeno nella

sua parte reggiana, e anzi, nel contesto economico nord italiano si trattava di una

realtà piuttosto arretrata e ancora molto legata ad ataviche pratiche contadine. Era

veramente il luogo dove il Nord si esauriva, ed è questa realtà che funge da cornice

alle nostre ricerche. Era qui che si trovava la linea di demarcazione tra la pianura, nel

pieno della sua evoluzione modernizzatrice, e la montagna, con le sue difficoltà

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economiche e la sua relativa lentezza a recepire il messaggio collettivista e i suoi

contenuti progressisti dal punto di vista politico e sociale. Qui, tra i mezzadri e i

piccoli proprietari, ma soprattutto tra le schiere operaie e dei braccianti, sono partiti i

contingenti di hommes à tout faire che abbiamo seguito e rintracciato a Parigi e in

diversi altri luoghi della Francia. Eppure, realtà così vicine e simili hanno rivelato

differenze anche profonde e intrapreso cammini diversi. Come diceva Braudel, non

sono i mari a dividere gli uomini, ma le distese di terra, e nel nostro caso esistono

molto più contatti tra le due sponde del fiume Secchia rispetto a quanti ve ne siano tra

l’alta val di Secchia e le sue prime propaggini settentrionali. Realtà vicine, ma

profondamente diverse, che non comunicavano se non per necessità e che la crisi

economica contribuì ad allontanare ancora di più.

Casalgrande#

“Attorno alle loro belle rocche medievali erano “circondate da stupende colline, con orizzonti che

spaziano dagli appennini ai Colli Euganei […] L’industria, all’infuori dell’agricoltura si può dire

quasi nulla. Qualche traffico di bestiame grosso e minuto, e commercio di legna di una certa

importanza”.84

Così Don Margini descrive i due comuni più di un secolo fa. A Casalgrande, oltre alle

tipiche produzioni vinicole e cerealicole, andava segnalata anche una discreta

consuetudine nelle pratiche d’allevamento, eredità della tradizione medievale e di

quando la zona del Secchia era cosparsa di macchie e riserve boschive, ove la caccia

e l’allevamento suino prosperavano. Col passare dei secoli, la progressiva scomparsa

delle macchie verdi lungo il fiume e la perdita d’importanza che l’allevamento subì

nell’economia della zona rese piuttosto poco vantaggiose queste pratiche, che furono

gradualmente abbandonate o continuarono a sussistere solo come integrazione ai

proventi ricavati dalla terra. Disponiamo di alcune statistiche abbastanza dettagliate

84 P. Camellini (a cura di), Reggio Emilia antica e moderna e i suoi comuni, vol II, Centro Studi di Storia Regionale per l’Emilia Romagna, Reggio Emilia, 1971, p 148

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riguardo la situazione di Casalgrande grazie ad una relazione stesa per conto del

comune di Reggio Emilia da E.U. Rossi, il quale nel 1928 censì le attività produttive

di quasi tutti i comuni della provincia.85 Nel 1911 egli calcolava 2805 addetti al

settore agricolo contro i soli 217 addetti alle “arti e all’industria”. In questo novero

non sono presenti però coloro che si occupavano in via diretta del proprio terreno, né

tantomeno i braccianti e i giornalieri, che risultano presenti sotto la categoria di

“persone ad occupazione saltuaria”. Allora la popolazione totale del comune

ammontava a 5813 persone, divisa tra le varie frazioni di Salvaterra, San Donnino,

Villalunga, Sant’Antonino, Veggia e Dinazzano, con l’agglomerato di Boglioni a

fungere da centro politico ed economico, contrapposto a Casalgrande Alto, sede degli

antichi poteri e della chiesa. Nel 1931 la popolazione era salita a 7637 individui, con

un aumento che si aggirava attorno al 20%. Ciò fu possibile grazie ad un aumento del

tasso di natalità, cui corrispose un’opposta tendenza del tasso di mortalità, che si

abbassò notevolmente. La struttura occupazionale però nella sostanza non si

modificò, rimanendo ancora molto sbilanciata verso la cura della terra, com’era d’uso

in tutta la provincia. Circa il 71% della popolazione attiva era, infatti, occupato nel

settore agricolo. 86 In cifre totali 5285 persone, questa volta compresi anche i

giornalieri e i mezzadri. Questi ultimi erano aumentati sino a divenire la categoria

principale dell’occupazione agricola, seguendo una tendenza generale della provincia

reggiana, che vide in tutte le zone della bassa e della collina rafforzarsi la piccola-

media proprietà, accanto alla crescita del suo sistema cooperativistico di gestione

della distribuzione e della vendita. Gli addetti all’industria, questa volta da intendere

anche come industria vera e propria, legata alla lavorazione dei prodotti agricoli, ma

anche alla ceramica, del legno e della siderurgia, erano saliti a 447. In questa cifra

vanno inseriti un discreto numero di operai nel settore edile, che favoriti dalle

politiche socialiste di costruzione di alloggi popolari, proliferarono nei primi anni

venti, specializzandosi in un settore che anche in Francia li avrebbe visti

85 E.U. Rossi, Commissione di vigilanza per il censimento degli esercizi industriali e commerciali, Reggio Emilia, 1928 86 I. Basenghi, S. Pastorini, M. Storchi, Ugo Farri nella storia di Casalgrande 1900-1946, Comune di Casalgrande, 1970, pp. 21-22

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particolarmente attivi, rendendoli così perfettamente assimilabili a una delle tipologie

più diffuse di emigrato italiano, quella cioè dell’operaio edile. Le pratiche agricole

però, continuavano a farla da padrone in termini occupazionali e non solo: su 749

nuclei famigliari presenti nel territorio del comune collinare, esistevano ben 685

aziende agricole, segno che la piccola-proprietà dominava nettamente sulle altre

forme di conduzione. L’ampiezza media degli appezzamenti per famiglia era di 2.9

ettari, molto bassa anche rispetto alle non elevate cifre della provincia reggiana.87

Questa, per certi aspetti, si rivelò una situazione favorevole in tempi di difficoltà

economiche, in particolare nel 1931, quando la crisi del ’29 si abbatté violenta anche

sulla grande proprietà dell’Italia settentrionale. La quasi totale mancanza d’industrie88

e l’esistenza di tante piccole aziende a conduzione familiare, con la conseguente

mancanza di un significativo numero di braccianti, le prime vittime della crisi nel

settore, permise a molte famiglie di resistere abbastanza bene anche in tempi di

ristrettezze. Anche qui, come già detto in relazione al resto della provincia, si assisté

a una tendenza nell’evoluzione del sistema produttivo, che si incentrò maggiormente

sulle pratiche di allevamento e verso la produzione latteo - casearia. Il dato più

eclatante è la diminuzione del numero di bovini, che da oltre 5000 che erano nel 1911

passarono a 3450 circa, con una diminuzione evidente nel numero totale dei bovi, ma

con un significativo raddoppio del numero delle vacche totale. Si trattò però

solamente dei primi passi, bisogna dirlo, verso un percorso che trovò il proprio

compimento solo nel secondo dopoguerra.

Scandiano#

Il medesimo discorso può essere applicato alla realtà di Scandiano, comune per molti

versi simili a Casalgrande per caratteristiche morfologiche e strutture produttive,

anche se, rispetto al village confinante i suoi livelli di produttività e la sua situazione

87 Scandiano aveva una media di 5.9. v. R. Cavandoli, A. Paderni, Scandiano 1915-1946, lotte antifasciste e democratiche, Comune di Scandiano, p. 26 88 Facevano eccezione qualche fabbrica artigianale diffusa nei centri di Dinazzano e Sant’Antonino, oltre alle antiche ceramiche della Veggia.

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economica erano certamente migliori. La presenza di larghi tratti pianeggianti nel suo

territorio, superiori per numero e qualità a quelli di Casalgrande, spiegano in parte

questa differenza, unita al fatto che la sua tradizione di centro cittadino era

incomparabilmente più importante rispetto all’insieme di borghi, in procinto di

trasformarsi in paesi, che contraddistinguevano Casalgrande. A Scandiano la

produzione vinicola era la più importante, per quantità e qualità, dell’intera

provincia89, ed erano presenti alcune attività industriali, anche se per lo più

sviluppatesi attorno alla lavorazione dei prodotti agricoli. Era presente anche qualche

fabbrica di lavorazione della ceramica e del legno, ma si trattava d’impianti non

paragonabili ai corrispettivi che già erano presenti nel territorio di Sassuolo: anzi, si

può dire che queste imprese nacquero come propaggine occidentale della realtà

sassolese. Bisogna menzionare poi le industrie che si occupavano dell’estrazione e

della lavorazione del gesso, della calce e del cemento. Fiorenti nell’anteguerra, tanto

da poter essere considerate il vero “centro industriale” della provincia, esse davano

lavoro a molti operai, ma anche a contadini o braccianti in cerca di occupazioni

temporanee, e quindi non registrate in questi dati. Da notare pure la presenza di

un’importante industria della concia, dei salumi, e una filanda che dava da lavorare a

ben 150 donne, cifra piuttosto importante per l’epoca, data la scarsa vocazione

industriale della provincia e la poco diffusa consuetudine di impiegare manodopera

femminile in campo industriale, almeno nella zona. Le statistiche raccolte dalla

commissione di vigilanza per le attività industriali90 _ già utilizzate per Casalgrande _

parlano di 906 addetti all’industria nel 1927, impiegati in 127 esercizi; più di metà del

totale dei lavoratori era però impiegato nell’industria estrattiva (che si confonde alle

occupazioni edilizie in queste statistiche), mentre gli altri erano per lo più impiegati

in esercizi a carattere familiare e artigianale.91 Le “Officine per la fabbricazione del

cemento, della calce idraulica e del gesso in Ca’ de’ Caroli” con i suoi 567 operai

89 Si è calcolato che nel quadrilatero Albinea-Scandiano-Casalgrande, il reddito della vigna raggiungeva in parecchi casi la metà del reddito del fondo. U. Bellocchi, B. Fava, F. Moleterni, Un secolo di economia reggiana, Reggio Emilia, 1962, p. 133 90 E.U. Rossi, Commissione di vigilanza per il censimento degli esercizi industriali e commerciali, op. cit. 91 R. Cavandoli, A. Paderni, Scandiano 1915-1946, op. cit. pp. 31-34

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erano la realtà industriale più degna d’interesse della zona e furono certamente

un’importante “scuola” per gli emigrati che lasciarono Scandiano negli anni venti e

trenta, sotto diversi aspetti.

Come gli altri comuni della provincia, la “battaglia del grano” vide Scandiano

rispondere in maniera non molto positiva per il regime, tanto che la produzione

cerealicola diminuì addirittura in quantità totale rispetto a prima della guerra. Anche

il mercato vinicolo, che abbiamo visto, occupava una posizione di primo piano

nell’economia della zona, subì un declino abbastanza accentuato, che si protrasse dai

primi anni venti sino alla fine degli anni trenta. Grazie alla creazione di alcune

cantine sociali (provvedimento che rimandava alle vecchie pratiche socialiste di

inizio secolo) la situazione migliorò a partire dal 1937, quando però l’economia della

zona era decaduta fortemente e molti lavoratori avevano cercato fortuna altrove. In

questo quadro di decadenza e difficoltà la disoccupazione fu una realtà ben presente,

che dopo la salita al potere del fascismo si mantenne sempre su cifre piuttosto

elevate. Rispetto alla media di 800 disoccupati stimata nell’inverno 1921 e ai 400

circa non occupati della primavera e del settembre, si sale agli oltre 1000 dell’inverno

successivo.92 Le statistiche ufficiali poi tacciono, ma i registri comunali sono pieni di

lagnanze e richieste di aiuto da parte d’intere famiglie. A differenza di altre realtà più

piccole, dove l’agricoltura assorbiva quasi totalmente l’ambito occupazionale,

Scandiano soffrì maggiormente gli effetti di una congiuntura economica non

favorevole. Sempre nel decennio preso in considerazione in precedenza, abbiamo

trovato traccia di documenti che parlano di circa 500 famiglie che si trovavano nella

più assoluta indigenza e che abbisognavano di pasti offerti dal comune per

sopravvivere.93 Allo stesso tempo, fioccano i comunicati in cui veniva sottolineato

che “in caso di carenza di lavoro i militi dovranno essere gli ultimi a essere

licenziati”, come riportato anche su “Il solco fascista”.94 In questo quadro, la

prospettiva dell’emigrazione appare legata non solo alle difficoltà economiche, ma

92 Ibidem 93 Ib. 94 Il solco fascista, 10 luglio 1930.

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anche all’appartenenza politica dei diversi soggetti. Non si trattava più di ideali, di

simpatie, di visione della società o di conduzione della cosa pubblica, ma della

sopravvivenza: per lavorare c’era bisogno della “tessera”, altrimenti si rischiava di

morire di fame anche a casa propria. L’emigrazione per alcuni così non divenne più

un’opzione, ma la sola possibilità.

La#situazione#politica#all’avvento#del#fascismo#

Per quanto riguarda la situazione politica generale, Scandiano fu uno dei comuni più

pronti ad abbracciare le pratiche socialiste della provincia, e allo stesso tempo uno dei

luoghi ove gli scontri tra forze democratiche e fascismo furono più aspri. Si contano

decine di episodi di violenze e atti criminali ai danni di esponenti più o meno

importanti del socialismo locale: il 15 marzo del 1922 muore Alfredo Incerti Rinaldi,

sarto della frazione di Iano, noto sostenitore del socialismo scandianese , trovato

senza vita in seguito ad un agguato compiuto da quattro fascisti. Come i suo fratelli

era iscritto al PSI. Il 4 agosto 1922 vi fu uno scontro tra il sindaco Ghiacci,

l’assessore Taddei e un numero non precisato di fascisti ai quali i due risposero con le

armi. Un fascista rimase ucciso e l’assessore dovette fuggire. Nel novembre dello

stesso anno venne ucciso l’ex assessore Umberto Romoli e l’assassino, un militante

fascista, identificato e scagionato. Si trattava di Pellegrino Bottazzi, fratello del

segretario del fascio locale, che insieme a due fratelli aveva risposto allo “sguardo di

sfida del Romoli”, come si legge nel verbale del processo. Negli atti si legge anche

che il prefetto ritenne accidentale la morte dell’ex assessore, aggiungendo ch’egli

“aveva disgraziatamente abbracciato il socialismo”. Non meno eloquenti risultano le

parole dell’avvocato difensore Cucchi, il quale concluse la sua arringa affermando

che “quando, pur esorbitando dal limite della legalità, l’azione dei singoli è ispirata

da un nobile fine, non si può parlare di reato”.95

95 G. Anceschi, La fine dell’amministrazione socialista e l’affermarsi del fascismo a Scandiano 1920-1922, Comune di Scandiano, 1972, pp. 7-9

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Tornando a occuparci di Casalgrande, è possibile anche qui ricostruire gli ultimi anni

prima dell’avvento del fascismo sotto l’amministrazione socialista del sindaco Farri.

Eletto nel 1920, in pieno biennio rosso, quando in provincia ben trentotto comuni su

quarantacinque passarono in mano ai socialisti96, il sindaco varò una politica votata

ad una municipalizzazione dei servizi, unita alla realizzazione di diverse opere

pubbliche e di costruzioni per far fronte alla disoccupazione e per fornire il comune

di quegli edifici, come le scuole, che ancora mancavano o erano in condizioni

pessime. A ciò si aggiunse un’imposta sul reddito che andava a colpire gli strati più

abbienti della popolazione, ma che incontrò già in camera di consiglio diverse

opposizioni. Erano questi i provvedimenti che contraddistinsero la maggior parte dei

comuni ad amministrazione socialista, ed è facile capire perché tanta parte della

popolazione sostenne con sì vivo fervore la causa progressista: si trattava a tutti gli

effetti delle prime vere azioni politiche che avevano come principale destinatario le

classi meno abbienti. La costruzione di case popolari permise a diverse imprese a

conduzione cooperativa di dare lavoro a un numero elevato di uomini, per lo più di

estrazione contadina, i quali iniziarono a specializzarsi così anche in mestieri che fino

ad allora erano praticati da una piccola parte della popolazione. Allo stesso tempo si

creò lavoro per diverse società private locali, come l’impresa di Pietro Grulli, che più

avanti sarà tra i protagonisti del nostro studio. Con l’acuirsi delle tensioni e con la

salita al potere del fascismo, però la situazione cambiò profondamente. Gli attacchi

squadristi, a partire dalla primavera del 1921 aumentarono di settimana in settimana

per intensità e qualità, anche se, bisogna sottolinearlo, all’inizio ci fu bisogno del

supporto delle sezioni di Carpi e Correggio perché la nuova ideologia non sembrò

attecchire con molta efficacia nel comune, almeno fino al 1922. Gli archivi comunali

riportano diversi episodi di violenze verso persone e non solo. Lo stesso sindaco, in

qualità di socialista di vecchia data, fu tra le prime vittime di questi attacchi: si legge

in una delibera comunale

96 A Scandiano il primo sindaco socialista, Storchi, venne eletto nel 1913. A Casalgrande e Castellarano si dovette attendere le elezioni del 1920 per vedere trionfare per la prima volta il PSI. Considerando che i primi circoli videro la luce attorno al 1902 in quasi tutti principali centri urbani dei comuni, si tratta di un risultato che rispecchia il generale andamento a “scalare” man mano che si sale verso l’appennino, della presa socialista sulle masse.

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Ci informano da Casalgrande che lunedì verso le ore 17 giunse in paese – località Boglioni – un

gruppo di fascisti regolarmente inquadrati ed equipaggiati, al canto dei loro inni… Il comandante

della squadra si dette alla ricerca del sindaco, compagno Farri Umberto, che venne infatti

affrontato da un gruppo di tricolorati sulla soglia di un’abitazione prossima al palazzo municipale.

Gli venne chiesto se fosse lui il sindaco ed avutane risposta affermativa uno dei fascisti […]

vibrava con veemenza un colpo di mazza ferrata in pieno viso al nostro compagno, producendogli

la frattura del labbro superiore e la rottura di qualche dente. I fascisti si diressero verso la frazione

di Salvaterra. Colà giunti si dettero alla caccia al sovversivo percuotendo violentemente i seguenti

operai: Scalabrini Prospero, Monti Aldo97, Germano Rossi, Casi Alfredo. Fu pure colpita da una

bastonata la signora Mammi Emilia, conduttrice dell’osteria Cappone.”98

Insomma, il clima profondamente ostile che si venne a creare con l’avvento del

fascismo colpì diversi aspetti della vita di molte persone. Non solo l’ambito politico e

della socialità pubblica subì ampie censure e restrizioni, ma anche gli aspetti più

semplici e vitali quali la sfera lavorativa videro i loro meccanismi assoggettati alla

macchina di controllo e arruolamento fascista. Se la soluzione più semplice fu quella

di piegare il capo e seguire le direttive dei nuovi gerarchi di stato, parimenti

l’emigrazione assunse con il passare degli anni, un peso ragguardevole, che anche se

non può essere paragonata a fenomeni di realtà anche vicine quali l’appennino

parmense e piacentino, fu senza dubbio tra le più corpose se comparata ad analoghi

fenomeni a carattere politico verificatisi in altre province e regioni italiane. Per lo più,

infatti, l’emigrazione politica fu un fenomeno che coinvolse individui isolati o piccoli

gruppi di persone, almeno nei primi anni in cui il fascismo assunse il potere: le grandi

masse furono toccate solo in parte da questo fenomeno e i motivi della partenza erano

spesso legati a ragioni prettamente economiche o a pratiche ormai entrate di diritto

negli usi e nelle tradizioni di alcune popolazioni. Come abbiamo già detto, il

fenomeno migratorio era più intenso quando s’inscriveva in realtà isolate e in cui le 97 Aldo Monti sarà uno degli emigrati protagonisti del nostro studio. Il suo nome figura nelle liste del Casellario Politico Centrale, organo di controllo e repressione creato dal regime mussoliniano per monitorare e segnalare i sovversivi e gli oppositori del partito all’interno e all’esterno dei confini nazionali. ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Aldo Monti, b3377 98 A.C.C., verbali giunta 27-8-1921. Boglioni è l’antico nome del borgo che oggi costituisce il centro di Casalgrande Bassa.

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condizioni sociali ed economiche si dimostravano ben poco allettanti, spingendo

molti uomini ad abbandonarle senza grandi rimpianti. Eppure, la decisione di lasciare

il proprio paese difficilmente può ridursi in toto a queste sole ragioni/necessità99, per

quanto esse siano senza dubbio importanti: la situazione nel territorio reggiano, come

ci sforzeremo di mostrare in queste pagine, assume una fisionomia piuttosto

differente.

In provincia di Reggio Emilia, e in particolar modo nella zona di Scandiano e

Casalgrande le cooperative furono il tramite per mezzo di cui anche le masse

entrarono nel circuito della politica, tanto che divenne praticamente impossibile

distinguere tra opera della Cdl da quella del P.S.I. In sostanza il lavoro era divenuto

uno dei luoghi della politica, e la stessa struttura produttiva era in diversi casi

indissolubile dal tessuto politico che la contraddistingueva. Cercando di sradicare il

sistema cooperativo non solo si andava a intaccare un tessuto economico e produttivo

che si era intersecato perfettamente alle pratiche tradizionali locali, assecondandone

l’evoluzione verso una ristrutturazione organizzativa, ma si andava necessariamente a

recidere un legame che univa persone, territorio e pratica sociale in maniera

strettissima, più stretta che in qualsiasi altro luogo d’Italia. Insomma, il fascismo qui

andò a interferire con un sistema che si era così profondamente fuso con le pratiche

sociali della zona da non potere essere modificato senza destabilizzare fortemente

l’ambiente.

“Où se situe la spécifité de Reggio Emilia? Si la dimension du village est commune aux autres

curante migratoires, dans le cas de cette province le cadre de reconaissance collective prend

facilement une connotation poltique. Se presenter comme antifascistes, et pour le plus comme des

rouges, semble ainsi devenir une carte d’identité communautaire, plus que les réseaux parentaux et

de metier.”100

99 È una questione molto delicata quella legata al rapporto tra le ragioni economiche e le ragioni di ordine politico dei migranti: spesso questi due aspetti concorsero in misura più o meno variabile nell’alimentare il fenomeno del fuoriuscitismo e sarebbe errato separarle o attribuire in toto all’una o all’altra la preponderanza assoluta. Quello che ci preme sottolineare in questa opera è che in una realtà come quella reggiana il fattore politico abbia rivestito un ruolo di assoluta rilevanza nell’orizzonte sociale dei protagonisti del nostro studio, e che, in misura decisamente maggiore che altrove, l’aspetto politico si rivelò decisivo nel direzionare le scelte individuali, o addirittura comunitarie, delle persone che lasciarono la provincia reggiana tra le due guerre. Ritorneremo più avanti su questo punto. 100 A. Canovi, Parcours migratoire…, op.cit., p. 84

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È solo tenendo presente questo concetto che si può comprendere come una zona che

per larga parte del “secolo migratorio”101 italiano non fu protagonista, lo divenne

quasi di colpo a partire dalla prima metà degli anni ’20, quando più di tre quinti del

totale dei suoi migranti lasciò la regione per trasferirsi all’estero, con la Francia (non

un caso visto la tradizione di paese di accoglienza per i rifugiati politici che aveva

assunto, come spiegato poc’anzi) a guidare la lista dei paesi di accoglienza.

La#via#dell’esilio#volontario#

Sebbene gli archivi comunali italiani, spesso non possano essere considerati tra i

meglio organizzati d’Europa, soprattutto se paragonati ai loro corrispettivi d’oltralpe,

nel corso del nostro studio siamo riusciti a venire a conoscenza di un buon numero di

evidenze e documenti che si sono rivelati fondamentali poi per tracciare il nostro

percorso di ricerca, sia in Italia che in Francia. In particolare, essendo quasi sempre

assente un’apposita cartella riguardante le pratiche migratorie, è stato lo sfoglio delle

pratiche contenute nella categoria XIV a rivelarci la maggior parte dei dati di cui

siamo venuti in possesso. Qui sono contenuti infatti i fascicoli relativi al rilascio dei

“nulla osta” che i sindaci dovevano vagliare per permettere ai loro soggetti di partire

per l’estero, almeno a partire dalla nuova regolamentazione italiana del 1918. Prima,

a danno anche della ricerca e dall’analisi storica, non sempre era richiesto il possesso

di un passaporto per lasciare il paese, così ci è stato difficile, se non del tutto

impossibile di ricostruire con sufficiente chiarezza i percorsi migratori precedenti alla

prima guerra mondiale, almeno nel dettaglio. I dati su cui abbiamo potuto contare,

infatti, sono quelli concernenti le pratiche di emigrazione regolare, dove sono

registrati comunemente solo le cifre totali relative agli “assenti” o emigrati nel

periodo in cui erano effettuati i censimenti: più dettagliati i dati ricavabili dalle

inchieste familiari che poi confluivano negli “stati di famiglia”, che però non sempre

101 Con questo termine si indica il periodo che dall’Unità arriva sino al 1974, data in cui il saldo migratorio italiano fece risultare un valore positivo per la prima volta da circa un secolo.

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sono stati conservati sino ai nostri giorni102. Purtroppo nei documenti relativi al

rilascio di passaporti non si fa distinzione tra emigrazione temporanea, emigrazione

definitiva e spesso, quando non è del tutto assente, la destinazione indicata è molto

generica: nel nostro caso, in più del 50% dei casi “Francia” è l’indizio più dettagliato

di cui abbiamo potuto disporre. Ecco una delle ragioni per cui abbiamo deciso di

integrare le nostre ricerche con alcune inchieste orali, che però, per ragioni di tempo e

difficoltà a rintracciare i soggetti studiati (quando questi non sono passati a miglior

vita), non possono essere considerate sufficienti a tracciare una mappa dettagliata e

precisa di questi percorsi migratori. Inoltre, data la particolare natura delle fonti orali,

abbiamo deciso di seguire solo le fonti cui avevamo trovato riscontro anche negli

archivi o in altre opere dedicate. In questo ci siamo attenuti alla prassi seguita fra gli

altri da Marie-Claude Blanc-Chaléard nella sua capitale opera sull’immigrazione

italiana nell’est parigino.103 Per fortuna le fonti francesi che abbiamo consultato si

sono rivelate ricche di informazioni e dettagli, il che ci ha permesso di trovare

conferma delle piste che avevano seguito in Italia. Questo, in generale, il percorso di

lavoro che abbiamo seguito per Casalgrande, il paese qui studiato con maggior

attenzione.

Per quanto riguarda Scandiano, causa anche l’impossibilità di consultare per lungo

tempo l’archivio comunale104, si è studiato con particolare attenzione il caso di

Arceto, frazione con un passato piuttosto importante e con una tradizione di

autonomia di lunga data;105 che per la sua posizione costituisce un po’ la frontiera tra

la realtà e le vicende della Bassa, in cui è a tutti gli effetti assorbita, e la zona 102 E che non ci è stato permesso di consultare per questioni legate alla privacy. Fortunatamente, nella stessa categoria XIV sono conservate lettere e documenti relative alla situazione degli emigrati, spesso indirizzate da un ente pensionistico, da un’azienda o da un comune francese. Incrociando questi dati con le richieste di passaporto abbiamo potuto accertarci dell’effettiva partenza dei soggetti che poi abbiamo preso in esame. 103 “L’usage de sources orales est des plus délicats, le récit que les personnes font de leur passé n’ayant guère de valeur historyque à l’état brut. Notre travail critique s’est appuyé sur le croisement entre le discours de témoins et les sources dont nous venons de parler, sur le receupement entre les témoignes également au bout de compte sur la validité pouvait leur donner le contexte historique que nous avions réussi à mettre en evidence.” In M.C. Blanc-Chaléard, Les italiens dans l’est parisien, une histoire d’intégration (1880-1960), École française de Rome. Roma, 2000. p. 24 104 Il quale è tutt’ora inutilizzabile fino a data da destinarsi causa un restauro che prosegue da due anni ormai. 105 Paese con una forte impronta identitaria, situato su un importante asse viario che da Reggio Emilia arriva sino a Sassuolo, vi si parla un dialetto diverso rispetto a quello di Scandiano, cui appartiene politicamente. La presenza di un castello vescovile permise alla cittadina di restare per lungo tempo un’isola ecclesiastica tra i possedimenti dei Fogliani e delle altre famiglie di derivazione più o meno estense o canossana che si contesero il dominio delle provincie di Modena e Reggio in età moderna.

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collinare, di cui è per certi versi una porta e un punto di raccordo. Inoltre il paese fu

duramente colpito dalla repressione fascista, e un numero importante dei suoi abitanti

fu costretto a prendere la strada dell’esilio, scegliendo proprio la Francia come rifugio

e luogo in cui riorganizzarsi e partecipare attivamente alla resistenza. Per quanto

riguarda infine Castellarano, comune che per alcuni versi è già stato al centro delle

attenzioni degli storici, anche se in via indiretta, avendo dato i natali a Elgina Pifferi,

eroina della resistenza francese e reggiana e il più perfetto esempio di

“eccezionalismo reggiano” in ambito migratorio106, ci si è limitati ad analizzare il

contesto locale e, confortati dai dati degli archivi, a individuare le linee dei percorsi

migratori locali, che si sono rivelati profondamente differenti rispetto a quelli di

Scandiano e Arceto. L’indirizzo migratorio di questa realtà, per consuetudini tout à

fait facente parte dell’universo della montagna, nonostante la presenza di nuclei

isolati dalle caratteristiche “tipicamente reggiane”, si è mostrato molto più simile a

quello delle vicine realtà appenniniche reggiane e modenesi: in questi luoghi il

fascismo ebbe un impatto diverso sul contesto sociale, così come il socialismo prima,

e questo sostrato crediamo abbia pesato anche sul definirsi di questi percorsi

migratori, come tenteremo di dimostrare nelle prossime pagine.

106 Ossia, nel caso della Pifferi ci troviamo di fronte a un personaggio piuttosto importante a livello politico, che assunse ruoli e gradi di assoluto rilievo, prima e durante la Resistenza in Francia. Nella maggioranza dei casi invece i reggiani hanno contribuito fornendo non i “quadri”, ma un buon numero di esponenti al livello più semplice nelle organizzazioni politiche e sindacali d’oltralpe. Vedere in proposito A. Canovi, Roteglia, Paris. L'esperienza migrante di Gina Pifferi, Istoreco, Reggio Emilia, 1998 e, A. Zambonelli, Elgina Pifferi: storia di una donna, in "Ricerche storiche", a. XVII, n. 50-51, dicembre 1983, pp. 89-102

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Parte Seconda: La Francia

“Le Rêve? - C’est bon Quand on

L’achève…

En vérité, la vie est bien brève, Le Rêve bien long.”

Avant-dernier mot, Jules Laforgue

LA GARE DE LYON

Per chiunque voglia raggiungere Parigi via treno, partendo dallo Stivale, la porta

della Ville Lumière è per forza di cose costituita dalla gare de Bercy. Questa antica

cittadina alle porte della città è col tempo entrata a far parte dell’arcipelago urbano

della capitale, divenendo uno dei quartieri più moderni e ricchi di attrazioni della

città. Una delle cose che potrebbe colpire i turisti e i visitatori italiani muovendo i

primi passi nella stazione, è la presenza di numerose segnalazioni nella lingua di

Dante. Quella che a tutti gli effetti potrebbe sembrare una quantomeno insolita

cortesia linguistica da parte francese è in realtà figlia di più di cento anni di storia

dell’emigrazione italiana a Parigi: sì, perché quando la stazione di Bercy altro non era

che una parte della gare de Lyon _ la porta della Francia una volta, ora solo la

seconda stazione per importanza della capitale francese _ era qui che la marea di

immigrati provenienti dal sud, e quindi anche dall’Italia, veniva a contatto per la

prima volta con il territorio metropolitano.

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“Me lo ricordo molto bene quando sono arrivata, perché è una cosa che mi aveva molto colpita. E’

stato nel ’36 […] mio papà mi aveva dato da portare a mio cugino ad Argenteuil due bottiglie di

lambrusco, dentro una borsa nera […] vai a vedere com’è, una si è rotta in treno. Così quando

sono arrivata alla stazione con una bottiglia sola, tutta bagnata di vino, coi cocci dentro. E poi

quando scendo alla stazione, c’è un omone grosso che sale su, prende una valigia e dice: “Merde,

alors!”. Allora io ho guardato con un po’ di ottimismo e ho detto: “Beh, se questo è il francese, lo

imparerò anch’io presto…!” C’era mia cugina. Suo padre e sua mamma erano fratello e sorella.

[…] E abbiamo preso un autobus che veniva _ queste cose le ho capite dopo _ che veniva dalla

Gare de Lyon per andare alla Gare Saint-Lazare. Allora abbiamo attraversato tutti i grands

boulevards, abbiamo attraversato tutte queste grandi strade e io ero impressionata a vedere i taxi

[…]”107

Questa colorita descrizione dell’arrivo a Parigi da parte della futura presidentessa

della Fratellanza Reggiana, Elgina Pifferi, è un efficace esempio di quello che deve

essere stato per i nostri connazionali l’impatto con Parigi. La gare de Lyon per gli

italiani era l’unica vera porta della Ville Lumière, il luogo in cui si immergevano,

spesso per la prima volta, in un mondo completamente diverso rispetto alla realtà

italiana di fine Ottocento o di inizio Novecento da cui provenivano. Essendo poi

buona parte degli immigrati originari di piccole cittadine a forte carattere rurale o

addirittura contadini provenienti dalle più sperdute valli dell’Appennino e delle Alpi,

non c’è da stupirsi che l’impatto con le maestose arcate di acciaio in stile liberty, il

viavai dei facchini e di valigie, la confusione e il vociare di migliaia di persone in

lingue diverse, lasciassero a bocca aperta anche i nostri compatrioti meno

impressionabili. Come in un romanzo di Zola, la città della luce apriva le sue fauci

per inghiottire la nuova marea di uomini che vi si avventurava, spesso senza

conoscere nemmeno una parola di francese e a volte senza nessuna idea precisa sul

proprio futuro. In quella che non sempre poteva definirsi una situazione fortunata,

solitamente questi uomini non avevano bisogno di percorrere molta strada per

imbattersi in un connazionale: sì, perché il XIIème arrondissement era una delle zone 107 Testimonianza di Elgina Pifferi, intervistata da Antonio Canovi, in A. Canovi, Roteglia, Paris. L’esperienza migrante di Gina Pifferi, RS Libri, Reggio Emilia, 1999, p. 20.

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in cui la presenza degli italiani era più diffusa e radicata. Nei primi anni del

ventesimo secolo la stazione era colma di sedicenti “capimastri”, reclutatori e diverse

declinazioni parigine dei “cumenda”: uomini la cui morale, a volte, era un gradino

sopra a quella del trafficante di uomini, quando non coincideva perfettamente con

essa. Facile immaginare come individui isolati, senza lavoro, contatti e senza alcuna

conoscenza del luogo e della lingua, si gettassero nelle loro braccia. Per coloro che

invece arrivavano a Parigi già con qualche contatto, e si trattava della maggioranza,

non restava che cercare un proprio parente, un amico, un compaesano o fare qualche

passo al di fuori della stazione per dare così inizio alla propria esperienza parigina.

Perché così tanti italiani si stabilirono in questa zona? La ragione più semplice è che i

primi immigrati non si spinsero lontani dal luogo del loro arrivo, ossia i quartieri che

circondavano la stazione, anche perché questi erano tra le zone più popolari della

capitale, le meno care, e in cui era più semplice trovare una sistemazione a buon

prezzo, senza troppi formalismi. La Parigi delle barricate, della colonna di Luglio, la

Parigi delle piccole fabbriche e delle botteghe artigianali, era questa la prima

immagine che gli italiani avevano della capitale del diciannovesimo secolo. Non solo

il dodicesimo, ma anche il XIIIème e l’XIème videro, a poco a poco, i loro caseggiati,

le loro impasses e le loro cîtés “colonizzate” da un numero sempre maggiore di

italiani: i nuovi arrivati infatti solevano stabilirsi vicino ai propri parenti o ai propri

compaesani già da qualche tempo presenti nella capitale, e in tal modo davano vita a

veri e propri insediamenti a prevalenza italiana. Più che in arrondissements, la gente

del luogo e gli italiani stessi solevano ragionare in termini di quartieri propriamente

detti, e nel tredicesimo, due erano i quartieri che sono diventati vere proprie

roccaforti italiane: Sainte-Marguerite e Charonne. In queste vie, in questi vicoli, tra i

più poveri della capitale, ma anche tra i più vivi, laboriosi e brulicanti di vita, era

possibile ogni giorno, a ogni ora, sentire qualcuno salutare, discutere, gridare in

italiano, o meglio, nei vari dialetti del nord Italia, la parte dello Stivale da cui

provenivano la maggior parte degli emigrati. Panifici, pizzerie, negozi di alimentari

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(épiceries italiennes), calzolai, impagliatori di sedie, trôleurs108, idraulici, manovali e

operai non specializzati ma abituati a muoversi tra un mestiere e l’altro; muratori,

imbianchini, ma anche artigiani e artisti di fama, gli italiani fecero il loro ingresso un

po’ in tutti gli ambiti professionali che dall’artigianato ai commerci caratterizzavano

la zona. Nell’immaginario parigino essi erano stimati come hommes à tout faire ,

uomini tuttofare, e la loro figura era legata soprattutto ai mestieri delle costruzioni e a

quelli del piccolo artigianato: oltre alla figura dell’operaio e del manoeuvre non

specializzato, tra gli immigrati italiani non era raro trovare dei falegnami e degli

ebanisti, e in generale alcuni piccoli imprenditori nel settore dei lavori domestici,

quali gli scaldini109, gli imbianchini, i restauratori, che popolavano con le loro

piccole officine e i loro caratteristici negozi le strade del faubourg Saint-Antoine.

Prima ancora che questi si insediassero a Parigi, nella mente dei francesi la figura

dell’italiano era stata soprattutto legata a quell’insieme di mestieri entrati poi a far

parte della mitologia della Parigi fin de siècle, dalla vetreria ambulante110 ai gelatai,

sino alla figura dei “girovaghi”, artisti di strada che animavano i caffè e i crocicchi

delle vecchie vie cittadine. Questi ultimi sono per lungo tempo stati il vero prototipo

dell’italiano migrante (almeno per quanto riguarda gli strati sociali meno abbienti),

spostandosi per mezza Europa con i loro folkloristici organetti di barberia, le loro

fisarmoniche, i loro sonagli. Come tanti Pierrot, i loro malinconici viaggi hanno avuto

108 I trôleurs erano i fabbricanti di mobili di bassa qualità che divennero una vera e propria figura dell’immaginario parigino all’inizio del secolo scorso. Mestiere che i francesi della province introdussero in città nel tentativo di ricavarsi un mercato parallelo a quello dei mobilieri e ai falegnami di alta e media qualità del faubourg Saint-Antoine, questi ambulanti del mobile non erano visti di buon occhio da questi in quanto con le loro merci messe insieme alla bell’e meglio facevano abbassare di molto i prezzi, e quindi i salari degli operai di un settore che dava da lavorare a una parte importante della popolazione del quartiere. Gli italiani, sebbene non fossero tra i pionieri del mestiere, ci misero poco a emulare i corrispettivi francesi, arrivando ben presto a superarli nel numero. Installati tra la Nation e Montreuil, fuori dalle mura, non era insolito trovarli per le strade dei quartieri popolari con le loro sedie legate in spalla. Fu partendo da qui che diversi piémontaises, come i francesi chiamavano tutti gli italiani del nord, riuscirono a costruirsi una nicchia di mercato arrivando anche a fondare imprese artigianali di qualità, le cui insegne si possono ammirare tuttora lungo rue Saint-Antoine. 109 È questo il nome con cui si definivano gli addetti alle caldaie dei grandi condomini parigini. Mestiere monopolizzato da alcuni abitanti di Bardi, esso consisteva nell’occuparsi della fornitura e della manutenzione della caldaie a carbone che alimentavano il riscaldamento centralizzato delle abitazioni parigine nei sei mesi freddi. Ancora oggi i tecnici delle caldaie e gli addetti agli impianti di riscaldamento della capitale sono in buona parte discendenti di quegli emiliani, come ha documentato Giovanna Campani nel suo saggio. Un discorso simile può essere fatto per le imprese edili. In, G Campani (a cura di), L’emigrazione emiliano-romagnola in Francia. Gli scaldini, i reggiani, i rocchesi, , Bologna, Consulta per l’emigrazione e l’immigrazione nella regione Emilia-Romagna, 1987 110 C’è una breve ma toccante descrizione di questa figura nel racconto “Le mauvais vitrier” di Baudelaire, contenuto nella sua opera in prosa Lo spleen de Paris.

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termine quando la moda, le disposizioni contro gli ambulanti adottate dal governo

francese e la forza del tempo, li ha spinti nell’album dei ricordi, aprendo la strada a

un nuovo tipo di emigrazione, ben più legata a pratiche produttive che artistiche o

culturali. Un nuovo mondo stava nascendo, e gli immigrati italiani vi avrebbero

recitato un ruolo di primo piano, contribuendo alla crescita, alla costruzione e alle

ricostruzioni post-belliche della nazione francese, affamata di braccia e di

manodopera Come dice père Cavanna nel libro del figlio:

“En France il y a toujours eu plus de travail que de bras pour travailler. L’émigration, il sert à la

France, ecco.” 111

Rues aux italiens, le strade degli italiani, così François Cavanna definisce le strade

centrali di Nogent-sur-Marne, comune della banlieue est, situato a circa sei chilometri

dalla Nation, ma lo stesso discorso può farsi per i quartieri a est di place de la

Bastille, e a sud est fino a Charenton , proseguendo poi per Maisons-Alford, Nogent,

Fontenoy-sous-Bois, etc… Come ha messo in luce in maniera esemplare Marie-

Claude Blanc-Chaléard nella sua tesi pubblicata sotto la direzione di Pierre Milza e

del CEDEI, tutto l’est parigino, banlieue compresa, divenne una zona a forte presenza

italiana. Nella mappa che segue, si può vedere come la presenza italiana fosse

significativa un po’ in ogni quartiere, con insediamenti sparsi in tutto l’arco della

banlieue e con ampie concentrazioni quali quella di Boulogne a ovest, Saint-Denis a

nord, Clichy a nord-ovest, oltre a diverse colonie d’importanza notevole in

corrispondenza del diciassettesimo e degli altri arrondissements esterni. Quello che

però colpisce maggiormente è l’alta concentrazione di italiani presenti nella zona est,

che dal dodicesimo arrondissements si dipana fino a circondare il bois de Vincennes e

a comprendere quasi tutta la banlieue est, con Montreuil a costituire il centro di

maggior consistenza numerica della colonia italiana.

111 F. Cavanna, Les Ritals, op. cit., p 51

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“À la veille de la Première Guerre Mondiale, il existe un territoire italien bien visible dans l’Est

parisien. Dans le quartiers de la Capitale, il se cache en arrière des grandes rues dans les passages

et les cîtés, mais il est déja bien implanté sur l’axe majeure rue de Montreuil – rue d’Avron, qui

court vers Montreuil. Dans toutes les communes de la banlieue est les Italiens sont présents, de

Vincennes à Montreuil en passant par Fontenay-sous-Bois. Le pole nogentaise sert de centre de

l’ensemble.112

113

112 M.C. Blanc-Chaléard, Les Italens dans l’est parisien…, op. cit., p. 187 113M.C. Blanc-Chaléard, Les Italiens dans l’Est parisien…, op. cit. p. 16. Mappa realizzata utilizzando i dati del censimento della popolazione del dipartimento della Senna del 1926. A.P. Dénombrement de la population par quartier, e A.V.D.M. Dénombrement de la population par quartier.

Gli italiani nel dipartimento della Seine nel 1926 (in valori assoluti per quartiere o comune)

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Durante le nostre ricerche abbiamo potuto osservare sulle liste dei censimenti, che in

Francia avevano luogo ogni cinque o sei anni in forma regolare dalla fine

dell’Ottocento, come intere vie, spesso interi caseggiati o palazzi fossero abitati da

italiani più o meno imparentati tra di loro, o quando non vi fossero presenti legami di

sangue ecco che la provenienza regionale, e ancora più spesso il comune o la frazione

di origine fungessero da calamita e permettessero la concentrazione di vere e proprie

comunità paesane, trasferite nel contesto residenziale popolare di Parigi e della sua

banlieue.114 A volte capitava che intere famiglie, o più nuclei parentali uniti tra loro si

trasferissero un po’ alla volta nella zona urbana parigina; in altre occasioni, come nel

caso dei comuni piacentini di Ferriere e Bettola a Nogent, o di Cavriago ad

Argenteuil, quasi un intero paese si insediava in qualche angolo di Parigi o della

banlieue, portandosi dietro le sue reti sociali, le sue tradizioni, le sue consuetudini e le

sue gerarchie. 115 Come spiega Canovi:

“L’émigrant se nourrit surtout par le bas, grâce à un ample recours aux chaînes de liens

personnels mettant en contact des immigrés déjà établis de l’autre côté de la frontière et des

individus qui, en Italie, souhaitaient émigrer et utilisent précisément de tel liens pour ce faire. Ainsi

il est possible de déduire, des filières migratoires, des chaînes précises de comportement. Les

généalogies constituent en système de signes dont les correspondances et la réciprocité attendant

d’être saisies, dans leur dynamique, par l’étude des phénomènes migratoires.”116

È di fondamentale importanza per il nostro studio specificare il concetto di catena

migratoria: teoria che ha iniziato a prendere corpo a partire dal lavoro

sull’emigrazione italiana in Australia di John e Leatrice Macdonald117 risalente al

1964, poi rafforzato da diversi altri studi tra cui un saggio sui migration networks di

114 Ad esempio a Charenton, comune della banlieue prossimo all’XIème arrondissement, abbiamo riscontrato la presenza di quattro famiglie (i Masoni, i Menozzi, i Braghini e i Marzaghi) che, divisi in una decina di nuclei familiari, tutti, tranne uno, composti esclusivamente da emigrati reggiani o emiliani, occupavano tutti gli appartamenti di tre case contigue, presso rue des Carrières. In diversi casi tra queste famiglie, tutte provenienti da Scandiano o da altri comuni della provincia reggiana, si formarono legami parentali. Si potrebbero citare molti altri casi analoghi a questo. 115 E’ il caso dei Grands Cavanna di Nogent, dove il ramo più prospero della famiglia piacentina, controllava un po’ tutti i lavori edili eseguiti dagli italiani in città. Cfr. F. Cavanna, Les Ritals, op. cit. 116 A. Canovi, Creuset d’une petite Italie, Le temps des cerises éditeurs, Pantin, 2000, p. 34 117 John S. Macdonald and Leatrice D. Macdonald, Chain Migration, Ethnic Neighborhood Formation, and Social Networks, Milbank Memorial Fund Quarterly 42, Sidney, 1964

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M. Granovetter del 1973118. Questi è divenuto uno dei meccanismi cardine per

comprendere e analizzare i fenomeni migratori, le loro dinamiche nel tempo, la loro

evoluzione e le variabili che li caratterizzano. Tramite la formula di “rete o catena

migratoria” si vuole indicare il meccanismo attraverso il quale i futuri emigranti

vengono a conoscenza delle opportunità, sono messi in condizione di viaggiare e

ottengono la loro dimora iniziale e il primo impiego nella località d’arrivo “ per

mezzo delle relazioni sociali primarie con gli emigrati precedenti”119. Insomma, la

partenza non era un salto nel vuoto, e per buona parte degli emigranti, non era guidata

da meccanismi impersonali di reclutamento e di assistenza. Al contrario, si basava

sulle relazioni sociali primarie, vale a dire di conoscenza diretta che ciascun

emigrante aveva con qualcuno che lo aveva preceduto. 120 Si assisteva così a quello

che potrebbe essere definito un fenomeno di socializzazione anticipata, tramite cui

l’emigrato riusciva a inserirsi nel nuovo ambiente grazie a un sistema, per così dire,

“fiduciario” che gli derivava dall’appartenenza a determinate comunità o gruppi nel

luogo d’origine. In tal senso vanno intese le numerosissime associazioni a carattere

regionale, ma più spesso provinciale o a livelli ancora più circoscritti che sorsero un

po’ ovunque in America, in Francia e negli altri paesi d’immigrazione. Nel nostro

caso ad esempio, quello dei reggiani, grande importanza rivestì la “Fratellanza

Reggiana”, associazione a carattere mutuale, ma non solo, che funse un po’ da

mediatrice e anello di congiunzione tra le diverse comunità reggiane e la realtà

parigina. Data il ruolo del tutto eccezionale che il gradiente politico ebbe nel caso

dell’emigrazione reggiana, è naturale che anche la Fratellanza assumesse un carattere

fortemente politicizzato, come vedremo meglio in seguito, e che anche l’adesione o

meno ad essa possa venir letta non solo come un indicatore dell’appartenenza politica

dei vari emigrati, ma anche di un loro preciso atteggiamento nei confronti della

pratica attiva della politica, vista come segno di riconoscimento identitario.

118 M.S. Granovetter, 'The Strength of Weak Ties', American Journal of Sociology 78 (6), New York, 1973. 119 P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni italiane…, op. cit., pp. 44-45 120 Ibidem

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Perché dunque l’est? Zona tradizionalmente ad alta concentrazione d’immigrati, in

origine provenienti dalla provincia transalpina,121 e poi di belgi, olandesi,

lussemburghesi e naturalmente italiani, è qui che le prime colonie si stabilirono,

dando il via a quelle catene migratorie, che tramite una continua iniezione di nuovi

immigrati, alimentarono e contribuirono ad espandere la colonia italiana; questa, se

nel 1896 era solo la quarta per numero dietro a quella belga, l’olandese e a quella

tedesca, già nel 1911 era divenuta la colonia più numerosa a Sainte-Marguerite e a

Charonne.122 Fino al 1914 sono queste strade, rue Keller, rue Thière, rue de la Lappe,

rue Sainte-Marguerite, rue de Montreuil, rue des Vignoles, rue d’Avron, a ospitare la

più numerosa, concentrata e organizzata comunità italiana della capitale. Allo stesso

tempo però non bisogna dimenticare che, come riportano i censimenti e come

evidenziato nella cartina precedente, un po’ tutti i quartieri di Parigi, in particolare

nella cosiddetta couronne de la petite banlieue (gli arrondissements dall’undicesimo

al ventesimo) e nella banlieue vera e propria, era presente un buon numero di italiani,

che costituivano in media il 5% della popolazione totale. Questa “nebulosa”, come la

definisce Canovi123, subì diverse evoluzioni con il passare del tempo, tanto che

diviene difficile poter definire in maniera assolutamente precisa lo schema

insediativo adottato dai nostri connazionali, in particolare nel caso dei reggiani e

degli emigrati politici. Se, infatti, per le comunità che avevano una ormai vecchia

consuetudine di emigrazione in Francia, come quelle della montagna piacentina e

parmense, ma pure Cavriago, l’azione della catene migratorie fu molto forte e poté,

per così dire, funzionare a massimo regime per un lungo periodo di tempo, per una

provincia a scarsa tradizione migratoria come Reggio Emilia non è sempre possibile

seguire gli sviluppi di queste filiere. Spesso l’emigrazione reggiana, quando assunse

dimensioni considerevoli, coinvolse gruppi piuttosto circoscritti di persone, ossia

quelli che avevano avuto maggiori problemi col nuovo regime, che partirono in tempi

121 E’ stato calcolato che nel 1881 il 30% dei parigini non era nata a Parigi. Cifre destinate ad aumentare sino alla prima guerra mondiale. Cfr, Recensement de la Ville de Paris, 1881, source statistique réalizée par l’INED, Ined, Parigi, 1881 122 In A.M. Blanc-Chaléard, Les italiens…, op. cit. Gli italiani divengono nel 1911 il primo gruppo straniero per numero nel dipartimento della Seine, con 33.000 individui registrati, cui andrebbero aggiunti almeno tre o quattro migliaia di persone che ci stima siano sfuggite ai controlli ufficiali. 123 A. Canovi, Parcours migratoires…, op. cit., p. 35

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e modalità differenti a seconda del tempo, del luogo di provenienza e delle particolari

circostanze in cui maturarono la decisione di lasciare l’Emilia. Ecco perché abbiamo

deciso di utilizzare un metodo di ricerca a base multipla, che si appoggiasse su

diverse fonti. Lo spoglio degli archivi comunali ha costituito il sostrato della nostra

ricerca, ma senza altri dati su cui appoggiarci, difficilmente avremmo potuto

ricostruire il percorso dei migranti che abbiamo seguito. Fruttuosa si è dimostrata la

scelta di controllare le liste degli aderenti stranieri alle organizzazioni sindacali

presenti a Parigi presso gli archivi della Prefettura di Polizia, così come le cartelle

speciali contenenti fascicoli sugli individui ritenuti pericolosi o che avevano contatti

con le organizzazioni sovversive a carattere socialista, comunista o anarchico. Non

solo tra le carte delle ormai note organizzazioni antifasciste come la LIDU, Giustizia

e Libertà, la Concentrazione Antifascista, che tra i loro membri annoveravano un

elevato numero di emiliani e reggiani in primis ( anche se pochi ebbero un ruolo

importante come quadri o a livello dirigenziale), ma rimontando fino agli anni ottanta

dell’Ottocento, quando veramente l’emigrazione italiana era ancora al suo stato

pionieristico, abbiamo potuto osservare come diversi reggiani fossero già presenti a

Parigi. Questo era un periodo in cui solo poche decine gli individui lasciavano le terre

della provincia e di loro si sa pochissimo, se non proprio nulla. Nelle cartelle degli

archivi parigini si può vedere come diversi tra questi fossero attivi nella costituzione

di leghe operaie o di mutuo soccorso, e di come la polizia li seguisse con

un’attenzione molto viva. È qui forse che vanno ricercati quei legami con la

tradizione che altrimenti non sussisterebbero, e che negli anni ’20 poterono fungere

da base, se non materiale, quantomeno “mitologica”, allorché il fenomeno migratorio

si esplicò in tutta la sua intensità anche nella provincia reggiana. Questi esempi

avrebbero potuto continuare a vivere nell’immaginario comune di alcuni gruppi, poi

tramandati attraverso quelle forme di acculturazione tipiche delle società

contadine.124 L’idea è verosimile perché, sempre nelle carte della prefettura parigina,

abbiamo potuto vedere come quasi tutti questi “anarchistes”, come li definisce senza

124 Si può pensare ad esempio alle feste paesane, le celebrazioni del primo maggio o i “racconti della stalla” che tanto contribuirono a trasmettere la cultura delle masse agricole sino alla prima metà del secolo scorso.

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dare troppa importanza all’effettiva matrice politica degli stessi la polizia francese,

siano stati espulsi e abbiano fatto ritorno in Italia125. Purtroppo la scarsa precisione e

l’organizzazione degli archivi italiani, unita alla difficoltà di seguire gli spostamenti

di questi uomini al tempo, non ci hanno permesso di poter stabilire con assoluta

certezza se questi soggetti siano tornati o meno presso le loro cittadine. Quel che

sappiamo è che molti dei reggiani presenti Saint-Denis, antico comune a forte

impronta industriale e operaia e sede dei alcuni tra i primi nuclei reggiani presenti a

Parigi tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900126, si distinsero tra i principali attivisti del

movimento sindacale nel settore delle costruzioni, quando questo fu aperto anche agli

stranieri, cioè a partire dal primo dopoguerra.127 In ogni caso è del tutto plausibile

ritenere che questi uomini condivisero con i loro concittadini parte della loro

esperienza francese, instillando forse un germoglio destinato a crescere, sotterraneo,

negli anni, per poi riemergere ai tempi delle lotte contadine e dell’emigrazione

antifascista.

Sebbene difficile da isolare dunque, l’emigrazione reggiana mantiene una certa

visibilità nelle carte d’archivio proprio grazie ai suoi forti connotati politici. È anche

grazie a questi dati che siamo riusciti a ricostruire il percorso migratorio della

comunità di Casalgrande, la più studiata nel corso delle nostre ricerche. Non bisogna

però nemmeno commettere l’errore di identificare totalmente il fenomeno migratorio

con le vicende politiche dei soggetti in questione. Bisogna, infatti, sempre tenere

presente che comunemente l’emigrazione tocca gli strati sociali più bassi e che

sebbene vi fossero alcuni personaggi dall’eccezionale carisma e capacità di trascinare

le masse, in Francia, non si andava solo per fare politica. In Francia ci si andava per

lavorare e per vivere, quando in Italia questo era ormai molto difficile, in particolare

125 APP Ba 2168, fascicoli I-II. 126 Anche un emigrato reggiani famoso, Sergio Reggiani, meglio conosciuto come Serge, abitò a Saint-Denis durante il suo primo periodo parigino. “Arrivati a Parigi, e dopo diversi impieghi da parrucchieri ebrei o greci della rue de Charonne, a Tolbiac, e nella comunità italiana, Ferruccio atterrò dopo rue d’Avron _ ghetto italiano _ al Faubourg. Sergio era adesso vicino alla P. di Saint-Denis, ai magnaccia della prigione Saint-Lazare, e alla concentrazione socialista emiliana del n° 103 del quartiere”. V. Serge Reggiani, Autoritratto, Magis Book, Reggio Emilia, 1995 (1990), p. 165 127 APP, Ba 2387, fascicolo III “Comités prolétaires antifscistes et les Syndacats du Bâtiment”

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in una provincia ove i provvedimenti presi dal governo fascista avevano reso ormai

difficilmente percorribili quel connubio tra lavoro e politica che in Emilia aveva

raggiunto una commistione così profonda. Infine, bisogna tenere presente che

sebbene nelle realtà prese in esame il tasso di politicizzazione medio fosse molto

elevato, non sarebbe affatto corretto pensare che tutti coloro che decidevano di

lasciare il paese fossero convinti sostenitori del socialismo e oppositori del regime

fascista. Anzi, sia attraverso la documentazione italiana, che nel nostro lavoro di

ricerca a Parigi, abbiamo avuto modo di appurare come diversi emigrati fossero in

buoni rapporti con il fascio locale128, partecipassero agli eventi organizzati dalla

Maison D’Italie, e a tutti gli effetti paressero se non sostenitori, perfettamente

integrati con le reti associative e le direttive imposte dal governo italiano anche

all’estero. Inoltre la notizia di alcune pratiche di emigrazione o espatrio avvenute nel

pieno degli anni ’30 pare indicativa: per ottenere il passaporto per l’estero in questi

anni infatti era necessario godere di conoscenze davvero ben inserite nella struttura

burocratica provinciale, o di grande disponibilità economica, altrimenti solamente

coloro che godevano di un ineccepibile curriculum fascista potevano ottenere i

documenti necessari per espatriare.

128 APP, Ba 2165, Fascistes italiens à Paris. In due di questi fascicoli abbiamo trovato tracce di comunicazioni tra il fascio locale e la polizia francese, nelle quali si indicava come “bons italiens” alcuni degli emigrati di cui ci siamo occupati, i quali prendevano regolarmente parte alle feste e alle iniziative benefiche della Casa del Fascio. Si tratta a onor del vero di pochi elementi, di cui per altro non è riportato il passato politico. Che si trattasse di comportamenti dovuti all’effettiva adesione all’ideologia o dettati dal bisogno materiale (si organizzavano distribuzioni di viveri, doni per i bambini e vestiti)?

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DA CASALGRANDE A PARIGI Alfonso Barbieri, era uno tra i tanti lavoratori agricoli che, con l’arrivo dell’inverno,

vedevano ridursi notevolmente le possibilità d’impiego. In una società in cui non si

lavorava per guadagnare denaro, ma per mangiare, un lungo periodo di inattività

significava un periodo di fame. A Casalgrande di terra da lavorare ce n’era, ma da

qualche anno il numero delle braccia richieste era diminuito, vuoi perché era

aumentato il numero dei mezzadri, i quali conducevano l’appezzamento assieme alla

famiglia, vuoi perché alcuni avevano iniziato a convertire le proprie colture in

foraggere, il tutto per concentrarsi sulla cura delle vacche, che stavano poco alla volta

divenendo il principale mezzo di sostentamento per le famiglie contadine della

provincia. Siamo nell’inverno del 1920, il “biennio rosso” volge ormai al termine e a

Reggio e provincia si può dire siano stati anni di grandi successi per i socialisti.

Barbieri era stato piuttosto attivo nel movimento e poteva dirsi decisamente

soddisfatto del momento politico nella sua provincia e non solo. Alle elezioni

dell’ottobre del 1919 il PSI era riuscito a controllare ben 38 comuni su 45, tra cui

Casalgrande, dove sindaco era l’amico Farri, e Scandiano, il centro politico di

riferimento per tutti gli abitanti della zona. Lui c’era, in giunta, quando Farri era stato

nominato sindaco, e aveva partecipato alle sedute del consiglio ogni settimana.129 Di

cose da fare però ce n’erano ancora molte: la disoccupazione aleggiava ancora su

diverse zone delle provincia, anche se Casalgrande se la cavava ancora discretamente

bene; la guerra aveva lasciato in eredità molti problemi, alcune famiglie ne erano

uscite decimate, e le attività produttive non riuscivano a coprire il fabbisogno

lavorativo di tutti. Farri aveva dato il via a un significativo programma di lavori

pubblici, che per qualche tempo avrebbe fornito una fonte di reddito importante per

tanta gente, oltre a migliorare le condizioni di chi, come Barbieri, non aveva potuto

studiare per mancanza di strutture e insegnanti130. Anche sul piano dell’iniziativa

129 ACC, Delibere del consiglio comunale, 7-10-1920. 130 La costruzione di una scuola media, e la ristrutturazione dell’edificio ospitante le scuole elementari a Boglioni erano in cima alla lista di opere pubbliche a cui voleva dedicarsi il sindaco.

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individuale qualche impresa si era mostrata molto attiva. Pietro Grulli, il capo mastro,

aveva messo assieme una bella squadra, che rinverdendo gli antichi fasti della

tradizione di costruzioni della famiglia, era tornato a farsi un nome in tutto il

comune131. Intanto Barbieri era preoccupato: quelle bande di manganellatori ed ex

combattenti che da Carpi avevano cominciato ad aggirarsi per le campagne non gli

piacevano. Per nulla. Al momento erano pochi, avevano l’appoggio di qualche

piccolo borghese, di qualche ex patriota che aveva iniziato a odiare tutti quei

socialisti, quei contadini, quei rivoluzionari che avevano vinto le elezioni e che non

voleva abbassarsi a credere che i propri diritti fossero gli stessi di quegli analfabeti

che avevano dalla loro parte solo la forza del numero. Eppure, qualcuno dei pochi

grandi proprietari, come i conti Spalletti di San Donnino, sembravano prenderli molto

in simpatia,132 così come alcuni studenti di Scandiano, e diversi pubblici funzionari

che si erano distinti durante la guerra e che al rientro in patria non avevano visto di

buon occhio l’affermarsi di Farri e dei socialisti; questi si erano dimostrati attenti alle

questioni locali, ma pochissimo impegnati ad onorare loro, i difensori della patria.

D’altronde, erano i socialisti quelli che avevano spinto per la neutralità alla vigilia del

conflitto, e poi per la strana formula del “non aderire, né sabotare”. Non erano veri

patrioti. Intanto, anche nella Bassa, le notizie degli scontri si facevano sempre più

allarmanti: a Correggio si diceva vi fossero state due vittime, uccise a colpi di

manganello da un gruppo di sconosciuti con le camicie nere.133

Barbieri, forse grazie a uno dei suoi viaggi in città per riferire alla sede provinciale

del partito, o per partecipare a una manifestazione alle Reggiane, poteva aver sentito

dire da qualche cittadino o da qualche cavriaghese134 che al di là delle alpi, in

Francia, di lavoro ce n’era in abbondanza e che già tanti reggiani erano partiti, divisi

tra una città che si chiamava Argenteuil, un’altra chiamata Montreuil, e naturalmente 131 Nel corso di un’intervista telefonica, realizzata con il nipote Aldo Grulli, siamo venuti a sapere che Pietro possedeva oltre all’impresa due magazzini, uno dei quali a Scandiano, e il mulino di Boglioni, allora l’unico fornitore di energia elettrica del paese, oltre ad alcuni appezzamenti di terra. 132 In un documento riservato del 1935 è attestato che il giovane conte Spalletti fosse da diversi anni un funzionario del fascio locale. Nel documento in questione si cerca di accomodare la difficile questione di una sua paternità fortuita, che vede coinvolto un’operaia di Barcellona, ove il conte era in congedo. ACC, Cat XIV, a. 1935 133Basenghi, Pastorini, Storchi, Umberto Farri…, op. cit, p.58 134 Erano piuttosto numerosi gli operai originari di Cavriago che lavoravano alle Officine Meccaniche Reggiane nel primo quarto del secolo scorso.

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a Parigi135. Anche alcuni suoi concittadini avevano già fatto le valige, come Agenore

Ricchetti, il giovane Pedretti, il “tedesco” Botti136, Pini137, e altri ancora, tutti in

Francia, una buona metà dei quali era finita a Parigi, dove lavorano come operai,

manovali o in piccole imprese private. Questi restavano al di là delle Alpi qualche

mese, per lo più nella stagione invernale e primaverile, poi ritornavano, con qualche

soldo in più in tasca_ ma non troppi_ raccontando molte meraviglie della “città della

luce”. Per ora si trattava di un pensiero, di una fantasticheria, c’era tanto da fare qui, a

Reggio, a Casalgrande, e con Farri in sella c’erano tutte le condizioni per migliorare

le cose anche qui, a casa. Col passare dei mesi però, la situazione politica peggiorava:

le incursioni dei fascisti crescevano per numero e intensità in tutta la provincia, alcuni

compagni erano stati picchiati, presi a bastonate e addirittura, a Scandiano, qualcuno

aveva rischiato di rimetterci la vita. Il movimento degli Arditi del Popolo, sorto

spontaneamente in provincia e non solo per difendere i contadini e le istituzioni dalle

incursioni squadriste, era stato disconosciuto dalla direzione del partito, che

predicava la pazienza, in attesa che le tensioni calassero e che i cosiddetti fascisti si

disperdessero, una volta che la rabbia e la sete di vendetta di coloro che avevano

guardato con terrore e odio al Biennio Rosso si fosse appagata. Dopo l’estate invece,

le cose peggiorarono ulteriormente, fino a che un giorno di fine ottobre, da Roma

arrivò la notizia, inaspettata, terribile: il re aveva concesso a Mussolini pieni poteri

per ricostituire il parlamento. I fascisti avevano preso Roma. Negli occhi di Barbieri

c’è ancora il viso sanguinante dell’amico Umberto Farri, preso a manganellate da una

squadra il 27 agosto del 1921, sotto la porta di casa.138 La situazione rischiava di

diventare insostenibile. Bisognava fare qualcosa, ma cosa? La sua stessa incolumità 135 Sappiamo che in realtà a Casalgrande era presente una corrente più o meno regolare di emigrazione diretta verso la Francia, attiva già nel 1900, e che arrivò a contare una cinquantina di partenze all’anno dal 1905 e il 1913. Ma si tratta di una corrente migratoria diretta in buona parte verso le regioni meridionali della nazione transalpina: Bouches-du-Rhône, Savoie e Haute-Savoie in primis. Siamo a conoscenza di questi dati grazie alla presenza di diversi Prospetti trimestrali dell’emigrazione, che annotano genere, quantità e nazione di destinazione dei migranti, oltre a specificare nelle note sul retro che si trattava di emigrazione temporanea, di 6-8 mesi. I nomi degli uomini che abbiamo potuto esaminare però non sembravano avere relazioni parentali con i soggetti da noi studiati e che si diressero verso Parigi in un contesto molto differente, improntato da un forte e imprescindibile carattere politico. Visti gli scopi di questo lavoro, si è scelto di non trattare nel dettaglio questa pur non trascurabile componente della storia migratoria di Casalgrande. 136 Così erano soprannominati coloro che si trasferivano in Alsazia-Lorena, fino alla seconda guerra mondiale territorio del Reich tedesco. 137 ACC, Cat. XIV, 1920 e ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Armando Pini, b 3982 138 ACC, Verbali di Giunta, 27-8-1921

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era a rischio. Più volte era stato minacciato, lui, la sua famiglia, e la sua carriera

politica, pareva al capolinea. I fascisti lo tenevano d’occhio139, e aspettavano

l’occasione buona per colpirlo. Nelle elezioni del 1921 i socialisti reggiani si

astennero, e tutti gli uffici più importanti caddero in mano fascista. Nei mesi seguenti

dalla capitale e dalla città arrivarono ordini di mettere pressione agli organi politici

affinché fossero insediati dei buoni fascisti in giunta e nelle principali organizzazioni

pubbliche. Persino la Cdl, fino ad allora braccio organizzativo del PSI, sembrava

ormai in mano alle camicie nere. Barbieri fu costretto a dimettersi, così come altri

suoi compagni di partito, mentre la giunta diveniva sempre più fascistizzata. Da

quello che ci dicono le nostre fonti, sembra che Barbieri partì una prima volta per

Parigi nel corso dell’estate del ’21, o almeno, il sindaco gli concedette il nulla osta

per il ritiro del passaporto: lo ritroviamo poi in Francia nel 1923, ove restò per tutto il

quindicennio seguente. Siccome la durata dei passaporti era triennale, e il primo

rinnovo è confermato nel gennaio del 1924,140 non possiamo essere certi che Barbieri

sia rimasto continuativamente in Francia in quegli anni e anzi, non sappiamo

nemmeno se vi si fosse recato con certezza. Allo stesso tempo però, tutte le

indicazioni lasciano intendere che la sua presenza a Casalgrande non fosse gradita

alla nuova classe politica, e che la sua stessa incolumità potesse essere messa a

rischio. Perché restare dunque, e rischiare di venire arrestati, o peggio, di subire le

vendette dei fascisti? Il buon senso farebbe propendere per la permanenza all’estero.

A toglierci ogni dubbio o quasi v’è un episodio che pare decisivo. Si era nell’ultimo

scorcio di un’estate che per alcuni dei socialisti reggiani sarebbe stata l’ultima, ed è

una lettera del sindaco Farri, conservata presso gli archivi comunali e indirizzata a

Barbieri all’indomani della Liberazione, a darci notizia di un episodio che vide

protagonista l’ex membro della giunta. Alcune camicie nere, nell’accompagnare la

venuta del commissario del prefetto presso il palazzo del Comune a Boglioni, vollero

bruciare la bandiera rossa che capeggiava fuori dal Comune dal tempo della salita al

potere della giunta socialista: con una sortita che resterà nella memoria del paese e

139 ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Alfonso Barbieri, busta 325. 140 ACC, Cat. XIV, prot. n° 178 del 5-1-1924

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non solo, Barbieri mise in salvo lo stendardo141. I fascisti non gli perdoneranno

questo affronto.

Non è possibile ricostruire esattamente il percorso di Barbieri, ma sappiamo che nel

giugno del 1921 a Parigi142 avrebbe potuto ospitarlo il parente Primo Barbieri, un

lavoratore alla giornata iscritto alla Cooperativa Bracciantile di Casalgrande e

Castellarano, già emigrato nella primavera dello stesso anno143 . Poi, per i successivi

due anni, le nostre fonti tacciono, ed è qui che verosimilmente si colloca l’episodio

della bandiera. Nel 1923 lo ritroviamo a Lille, mentre due anni dopo è di nuovo a

Parigi. Sappiamo che aderì al movimento antifascista “Italia Libera”, il cui segretario

era il futuro deputato Pacciardi, toscano, che era emigrato a Parigi nel 1925.

L’associazione aveva sede al 32 di rue de Babylone, nel settimo arrondissement. La

politica quindi, non aveva smesso di interessarlo. Sappiamo dai documenti d’archivio

dell’associazione presenti in Francia, che al tempo della Liberazione, risiedeva a

Montreuil, al 37 di rue Lefebvre, e che nello stesso periodo aveva aderito alla

Fratellanza Reggiana. In seguito lo ritroviamo in Italia, membro del Comitato di

Liberazione Nazionale, giunto assieme a Campioli e agli altri circa 500 reggiani che

da Parigi lo accompagnarono in Emilia, dopo che già in Francia avevano contribuito

alla vittoria degli Alleati e alla cacciata dei tedeschi.

#

Altri#esempi#di#emigrazione#

Il caso di Barbieri non è isolato, anche se il suo non può costituire a tutti gli effetti il

tipico esemplare dell’emigrato casalgrandese. La sua appartenenza ai quadri avanzati

della politica locale lo differenzia da molti altri suoi concittadini, che pur aderendo a

diverse cooperative agricole o di lavoro, e pur avendo anche appoggiato i socialisti a 141 ACC, Cat. XV, prot. n° 806, 1946 . Il sindaco Farri, rieletto nel 1946, invia a Barbieri, residente in rue Lefebvre 37, una copia dell’Ordine del giorno del consiglio comunale del 10 aprile 1946, in cui si stabilisce che la bandiera rossa venga esposta fuori dal balcone della sala del consiglio del municipio. Qui fa cenno all’episodio di quasi venticinque anni prima. 142 ACC, Cat. XIV, prot. n° 704, del 10-6-1921 143 ACC, Cat. XIV, prot. n° 506, del 24-2-1921

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partire dal dopoguerra, o magari da un tempo ancora maggiore, non possono dirsi

altrettanto addentro alle vicende politiche locali. Lo stesso cugino Primo, non pare

abbia avuto un ruolo molto importante nelle iniziative socialiste riguardanti il paese,

anche se era iscritto al sindacato. Infine, il suo peregrinare, con destinazione finale a

Montreuil, costituisce una tipologia di percorso differente rispetto a quella seguita

dalla maggior parte dei suoi concittadini. Un buon numero degli emigrati

casalgrandesi che siamo riusciti a seguire attraverso il loro percorso migratorio in

Francia infatti, si concentrò in altre zone della capitale e dell’Esagono144.

Un caso più vicino all’idealtipo dell’emigrato casalgrandese è forse quello della

famiglia Ricchetti. Il primo a partire fu Agenore: sappiamo che assieme a una certa

Toni Luigia, modenese, egli aveva richiesto due passaporti per Parigi nella primavera

del 1921. Ricchetti aveva allora trent’anni e non era quindi più giovanissimo. Era già

sposato da diverso tempo, e il padre Augusto era un operaio con trascorsi socialisti.

Non sappiamo se quest’ultimo fosse già stato in Francia prima della Grande Guerra,

ma è molto probabile che Agenore, al tempo del nostro primo riscontro nella

primavera del 1921, fosse già stato oltralpe e che disponesse di un lavoro sicuro;

diversamente è difficile credere che avrebbe portato con sé la moglie, soprattutto con

le nuove politiche migratorie vigenti in Francia, che consentivano l’immigrazione

solo a coloro che dimostravano di essere in possesso di un regolare contratto di

lavoro. I due si stabiliscono a Parigi, non sappiamo dove, ma qualche anno dopo, nel

1932 li troviamo in banlieue est, a Maisons-Alfort, in rue de la Concorde 69.145 Nel

1926 un Ricchetti Arnoldo è segnalato a Parigi146, due anni dopo gli viene rinnovato

il passaporto e viene confermato l’adempimento dei suoi obblighi di leva. A Ricchetti

Marcello, operaio, classe 1902, viene rinnovato il passaporto nel 1927.147 Nel 1929

veniamo a sapere che Augusto Ricchetti, il padre di Agenore, è in Francia, attraverso

144 Le fonti archivistiche ci danno notizia di emigrati presenti nella zona di Nizza, nella Savoia e nel sud ovest agricolo, oltre che in Corsica. Proprio nell’isola che diede i natali al Bonaparte era presente un folta colonia proveniente da Castellarano, il che, unito alle evidenze relative agli emigrati scandianesi, testimonia di come la zona dell’alta Val di Secchia avesse seguito percorsi migratori simili, che potremmo addirittura azzardarci a definire unitari. 145 ACC, Cat. XIV, prot. n° 605, del 9-9-1932 146 ACC, Cat. XIV, prot, n° 127 del 25-1-1926 147 ACC, Cat. XIV, prot. n° 458 del 10-3-1927

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una lettera di richiamo indirizzata alla figlia Carmelina,148 che è invitata a

raggiungerlo.

Dunque due generazioni della famiglia Ricchetti sono a Parigi, con un nucleo, quello

più importante, situato a Maisons-Alfort, nella banlieue est. Sappiamo anche che un

altro parente, tale Ricchetti Anselmo149, era partito per la Lorena assieme ad una

squadra di circa 30 operai tutti provenienti dal comune di Casalgrande. Parleremo più

avanti di questa squadra di operai diretta in quello che era a quel tempo il bacino

minerario più importante d’Europa. Nel marzo dello stesso anno, Agenore richiama la

moglie, Orpini Berenice, affinché lo segua in Francia. Com’è tipico del periplo

migratorio dei partenti provenienti dal nord della penisola, dopo un periodo di

qualche anno, l’emigrato richiama presso di sé la moglie, segno che dall’iniziale

carattere stagionale e temporaneo, il processo migratorio si era evoluto verso una

soluzione a carattere permanente. D’altronde, molti suoi familiari erano già in

Francia, e da quel che appare, il nucleo costituito dalla famiglia Ricchetti sembrava

ormai ben impiantato nel nuovo contesto della banlieue parigina, dove era stato

ricreato il piccolo universo familiare già presente a Casalgrande, inserito in un

contesto ad alta presenza italiana, in particolare di emiliani, come vedremo meglio

nel prossimo capitolo. L’arrivo della moglie è un importante passo in avanti verso

questo transfert, che avrà il suo compimento due anni dopo, quando la signora

Orpini, scriverà al sindaco per richiamare presso di sé i suoi due figli. Veniamo a

sapere che i due bambini avevano, nel 1932 rispettivamente sette e nove anni: questo

ci permette di fare altra luce sul percorso migratorio della famiglia. Essendosi recato

in Francia per la prima volta non più tardi del 1921, Agenore deve essere ritornato a

Casalgrande almeno due volte per poter concepire i due neonati, non essendovi

testimonianza dell’espatrio della moglie. Questo sembrerebbe confermare l’ipotesi

dell’evoluzione della tipologia di emigrazione seguita da Agenore, che all’inizio

dovette passare in Francia solo alcuni brevi periodi, probabilmente tra i sei e i nove

148 ACC, Cat. XIV, prot. n° 1571 del 7-9-1929 149 E il suo nome, oltre che nell’archivio di Casalgrande, figura anche nell’elenco del Casellario Politico. ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Anselmo Ricchetti, b. 4298

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mesi (questa era la durata tipica dei contratti stagionali offerti agli operai italiani); in

seguito la sua permanenza in Francia deve essersi prolungata e i suoi rapporti di

lavoro fatti più stabili e continuativi. Da qui la decisione di portare con sé il padre, i

fratelli, e infine, la moglie e i figli. È più che ragionevole congetturare che il Ricchetti

si sia avvalso dell’aiuto di una rete non solo parentale, ma a carattere comunale e

regionale, che gli abbia permesso di sopportare, almeno nel primo periodo le spese

necessarie per rilevare l’appartamento di Maisons-Alfort, e mantenere la famiglia

intanto che questa non avesse trovato altre fonti di reddito. Osservando la fitta

corrispondenza tra il consolato italiano di Parigi e il comune di Casalgrande, veniamo

a scoprire che i figli torneranno a casa (in Francia) con la madre, ridiscesa in Italia

per partorire il piccolo Giovanni. Questa scelta era figlia delle politiche di

“fascistizzazione” delle colonie italiane all’estero, dove i fasci locali cercavano di

incoraggiare le partorienti a dare alla luce in patria la prole, conferendole così la

cittadinanza per ius soli: fossero nati in Francia, infatti, i “figli d’italico seme”

sarebbero divenuti francesi, o meglio avrebbero potuto decidere di diventarlo al

compimento del diciottesimo anno d’età, cosa che puntualmente accadeva. Per

occuparsi della questione era stato creato un organismo apposito, l’ “Opera nazionale

per la protezione della maternità”, che assistette l’Orpini in prima persona,

finanziando il viaggio e consentendole di riportare con sé i figli a Parigi. Si trattò di

un gesto di alto patriottismo quindi, o un mezzo per poter godere dei benefici forniti

dall’Opera? Non possiamo saperlo con certezza, ma non vi è notizia, presso gli

archivi francesi, di partecipazione a qualsivoglia attività organizzata dal fascio di

Parigi da parte della famiglia Ricchetti. Veniamo poi a scoprire che al nostro

Agenore, divenuto Agenez anche nei documenti italiani, erano occorse diverse

difficoltà nel rinnovare il passaporto, cosa che solitamente accadeva agli emigrati non

graditi al regime. Di lui in seguito non si avranno più notizie. Quando abbiamo

controllato presso gli Archives du Val-du-Marne di Créteil, al numero 69 di rue de la

Concorde abbiamo riscontrato la presenza di moltissimi italiani, buona parte dei quali

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proveniente dai comuni di Casalgrande, Scandiano e Castellarano, ma non vi era

traccia della famiglia Ricchetti, almeno nel censimento del 1936.150

150 AVDM, Maisons-Alfort, Listes du recensement par quartiers du 1936, rue de la Concorde

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!

#

#

Pietro#Grulli:#un’impresa#“multinazionale”#

Un altro caso interessante per sottolineare le diverse sfaccettature nella tipologia di

emigrazione che caratterizzò il comune di Casalgrande è quello dell’imprenditore

edile Pietro Grulli. Sfogliando i fascicoli contenuti in quel vaso di Pandora che è la

categoria XIV dell’archivio comunale di Casalgrande, entro cui confluivano tutti i

protocolli a carattere eccezionale o particolare riguardanti il comune e i suoi cittadini,

il nome di Grulli è forse il più presente per tutti gli anni ’20. Titolare di un’impresa di

costruzioni, restauri e riattamento di strade e ponti, è tra i primi beneficiari delle

politiche imperniate sulla costruzione di alloggi popolari e di fornitura dei servizi alla

cittadinanza che la giunta socialista di Farri attua in paese. È lui a occuparsi del

riassestamento della strada centrale di Boglioni, dell’interramento del canale, della

costruzione del cinema, o meglio, del restauro dell’edificio che lo ospiterà e di molti

altri lavoretti di minore entità. Il nome Grulli in paese è da sempre sinonimo di

costruttori. Risalgono alla fine del Settecento i primi documenti relativi alla famiglia

e alle pratiche edili che essa praticava in paese e nel circondario. Sappiamo che nei

primi anni del dopoguerra nella sua squadra sono impiegati tra i dieci e i venti uomini

di età compresa tra i quindici (ma verremo a scoprire che erano impiegati anche

ragazzi di tredici e quattordici anni) e i quarant’anni. In paese è una piccola

“celebrità”, sicuramente uno tra i lavoratori più attivi. Grulli pare in ottimi rapporti

con il sindaco e l’amministrazione socialista, che gli affida molti lavori, anche di

importanza notevole, e si dichiara soddisfatta del fatto ch’egli utilizzi manodopera

proveniente dal comune, in un momento in cui il lavoro nei campi non riesce ad

assorbire tutta la forza lavoro. Con l’avvento al potere dei fascisti Grulli non pare

perdersi d’animo, anzi, le commissioni affidategli aumentano: è forse il segno che

quelle che parevano essere sincere simpatie socialiste erano pragmatici

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ammiccamenti degni del miglior bottegaio di fronte a un potenziale cliente? Non

possiamo saperlo, ma certo è che per l’impresa Grulli le cose, sotto il fascismo,

andranno sempre meglio151. D’inverno però anche per i muratori e per i costruttori il

lavoro non abbonda. Ecco allora che Grulli fa domanda per un passaporto per la

Francia nel marzo del 1924152. Siccome la pratica richiedeva circa un paio di mesi

prima di concedere il nulla osta, è probabile che la richiesta risalisse addirittura al

dicembre precedente: sebbene marzo e febbraio fossero tra i mesi con la più alta

percentuale di partenze, non solo nel comune, ma in tutto il nord Italia, non era così

di solito per i lavoratori edili, che prediligevano l’autunno, visto che in Francia il

lavoro poteva svolgersi anche durante i mesi più freddi, magari concentrandosi sui

restauri, sulla pittura delle pareti interne, nei lavori pubblici. Non possiamo stabilire

con certezza se il costruttore si sia recato o meno in Francia: la richiesta di un

passaporto non equivale automaticamente alla certezza di un viaggio, ma testimonia

soltanto l’intenzione o il bisogno di compiere questo passo. Visti i possedimenti in

paese dell’imprenditore non crediamo che Pietro avesse bisogno di recarsi in Francia

per necessità, a meno che non siano implicate in questa scelta ragioni che sono

estranee al semplice fatto economico. Un motivo politico? Non lo sappiamo, ma

possiamo supporlo153.

L’anno precedente Grulli aveva lavorato duecentodieci giorni, come riportato nella

sua “Denunzia di esercizio”, in cui dichiarava di avere sotto di sé dodici operai di età

superiore ai quindici anni, e uno di età inferiore, come garzone. Pur non sapendo se il

viaggio si sia effettivamente compiuto, sappiamo che l’anno successivo Grulli era di

nuovo in Italia, dove aveva messo assieme addirittura due squadre, affidandone una

al fratello. Le nostre convinzioni comunque sono rafforzate dalla notizia del viaggio

da parte di un impresario non ben precisato, il quale aveva passato più di due terzi

151 Sempre grazie all’intervista realizzata al nipote Aldo siamo venuti a sapere che l’impresa arrivò a contare fino a 60 operai negli anni ’30. 152 ACC, Cat. XIV, prot. n° 596 del 1-3-1924 153 Il nipote Aldo si è mostrato sorpreso nel sentire parlare di un viaggio in Francia del nonno: non esclude però che per un qualche motivo a lui sconosciuto questo possa essere effettivamente avvenuto prima della sua nascita, il che non contraddirebbe un’effettiva partenza, a carattere temporaneo, negli anni ’20.

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dell’annata lavorativa oltralpe, accompagnato da una squadra di trentadue operai154. È

plausibile che Grulli avesse svolto quantomeno il ruolo dell’intermediario, fornendo

magari ad un conoscente un gruppo di lavoratori qualificati che altrimenti sarebbe

rimasto senza occupazione per alcuni mesi. Non sono registrati i nomi di questi

lavoratori, ma tra l’anno seguente e il successivo è segnalato il rimpatrio di una

decina di operai, “rimasti in Francia oltre la scadenza del permesso di soggiorno e

senza contratto”.155 Nello stesso anno _ siamo nel 1927 _ il fratello di Pietro, riceve

l’incarico di ricostruire il cinema cittadino.

Intanto in paese l’amministrazione fascista iniziava a stringere le maglie sulla rete

dell’emigrazione. A partire dal 1926 vennero concessi sempre meno passaporti, e le

difficoltà per ottenerli aumentarono notevolmente. Ora, oltre alla presenza di un

contratto di lavoro, era necessario dimostrare di possedere un curriculum fascista

senza macchia, oltre a non aver aderito in passato a organizzazioni socialiste o

comuniste. L’emigrazione era vista dal regime come una perdita di preziosa

manodopera in un periodo in cui l’Italia stava lottando per l’autarchia e l’autonomia

economica. Le liste di proscrizione circolavano, se non pubblicamente, tra le

scrivanie delle autorità. Ad Aldo Ficarelli (poi partigiano) il rinnovo del passaporto

venne rifiutato per irregolarità relative al contratto di lavoro; Boccedi Giuseppe e

Rabitti Enzo non poterono emigrare per ragioni di “pubblica sicurezza”156 Coralli

Delfino, zio dell’emigrato Lotrini Ennio157, non poté lasciare il paese perché

denunciato e latitante da parecchi mesi.158 E gli esempi potrebbero essere ancora

molti.

Sebbene l’opera di controllo da parte fascista159 paia sortire i suoi effetti, alcune

evidenze sembrano mostrare che, a livello di presa effettiva sulle masse, la nuova

ideologia non abbia riscontrato un gran successo, almeno a un livello non 154 ACC, Cat. XIV, prot. n° 345 del 4-3-1926 155 ACC, Cat. XIV, prot. n° 468 del 2-11-1927 156 ACC, Cat. XIV, prot. n° 593 del 26-3-1928 157 Lotrini, originario di Casalgrande, emigrò negli anni ’20 e dopo varie peripezie si stabilì nella banlieue parigina dove si creò una famiglia senza però tagliare mai ponti con la sponda emiliana della famiglia, come dimostra tra l’altro la sua decisione di unirsi alla Fratellanza Reggiana. Proprio come membro dell’organizzazione fu intervistato da Antonio Canovi durante una delle sue inchieste orali, svolte in preparazione al suo lavoro su Argenteuil. 158 ACC, Cat. XIV, prot. n° 325 del 22-2-1929 159 In totale sono 13 i casalgrandesi di cui abbiamo trovato traccia nelle liste del Casellario Politico Centrale.

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superficiale. Una circolare inviata dalla sede reggiana de “Il Popolo d’Italia”, uno dei

giornali ufficiali del regime, chiede al sindaco di “compiere un gesto patriottico e

sottoscrivere l’abbonamento al giornale”; si domanda altresì di ovviare alla lacuna

fornendo l’edicolante del paese di qualche copia dello stesso, dato che “in base ai

nostri dati non si vende alcuna copia del nostro giornale e l’edicolante ha smesso di

richiederne a causa di ciò”.

E Grulli? Non sappiamo più nulla della sua attività, ma data la mancanza di

documenti relativi al rinnovo del suo passaporto, e la mancanza di attestazioni

concernenti la sua azienda, non possiamo affermare nulla di certo. Secondo le

testimonianze la sua impresa raggiunse il suo apogeo proprio negli anni ’30. Difficile

però pensare che in un periodo di crisi come quello che colpì l’Italia in quegli anni la

sua impresa non ne ricevesse qualche colpo. D’altronde, come si tramanda anche

nella coscienza popolare, quando le cose vanno male, l’edilizia è tra le prime attività

a risentirne. Quello che sappiamo è che in paese le cose, dal punto di vista

occupazionale almeno, non andavano bene. Una circolare spedita dal comune

all’Ufficio di Statistica della Provincia registra che nel mese di ottobre del 1930

(quindi dopo la vendemmia) il 40% dei braccianti e il 50% delle donne impiegate in

agricoltura si trovava senza un’occupazione160. Erano i mezzadri coloro che

riuscivano in qualche modo a “tirare avanti”, mentre per quelli che erano costretti a

vendere la propria forza lavoro si prospettavano tempi parecchio difficili. Era una

tendenza comune a tutta la provincia, che coinvolse anche le attività secondarie come

l’artigianato e la piccola imprenditoria. Per i costruttori come Grulli non furono certo

tempi d’oro, e gli effetti più nefasti della crisi del ’29 erano ancora là da venire.161

Anche l’amministrazione fascista non poté che fare i conti con questi dati, e così

160 ACC, Cat. XIV, prot. n° 1079 del 22-120-1930 161 Sappiamo che Grulli morì negli ultimi mesi della guerra, nel 1945, quando già le sue fortune economiche avevano preso una piega negativa. La sua vicenda migratoria, forse mai avvenuta in forma diretta, ma “presente” attraverso i legami e il ruolo che egli rivestì nella vicenda della squadra di operai, ci mostra un altro aspetto dell’emigrazione e un’altra figura tipica di questo processo ossia quella del mediatore. Come hanno sottolineato Nora Sigman e Antonio Canovi nei loro lavori su Modena, questi personaggi rivestirono un ruolo tutt’altro che secondario nel direzionare e nel governare i tragitti migratori di intere comunità o categorie di mestiere, anche se nel caso da noi presentato si tratterebbe di un episodio e non di una prassi ben radicata, a giudicare dalle testimonianze e dai dati che abbiamo raccolto. Per quanto riguarda i casi modenesi rimandiamo a A. Canovi, N. Sigman, L’Emilia Romagna e le grandi migrazioni, Niccolò Teti Editore, Milano, 2010

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l’emigrazione, tanto vituperata e denigrata pubblicamente, divenne un mezzo efficace

per ridurre la disoccupazione e il malcontento che agitava sempre più la popolazione.

Il comune compilò alcune liste di operai disoccupati e le affidò alla Cdl provinciale _

ora divenuta Camera delle Corporazioni Fasciste _ che aveva il compito di fungere da

tramite tra le imprese straniere e i lavoratori. Sono più di un centinaio i cittadini che

si dichiararono disponibili a trasferirsi all’estero per qualche anno, tutti uomini, senza

contare le decine di persone scartate per motivi politici. Il numero degli emigrati

tornò così a crescere, ma va tenuto presente che negli anni precedenti, quando solo un

paio di decine di persone aveva lasciato il comune, non si teneva conto degli emigrati

irregolari, il cui numero può essere solo ipotizzato. Anche a livello ufficiale, è

difficile trovare riscontri affidabili per un periodo in cui gli istituti di statistica

governativi non avevano particolare interesse a sottolineare il fenomeno migratorio.

Gli#anni#’30#e#la#Lorena#

La Lorena sembra, nel decennio successivo, il nuovo polo di concentrazione

privilegiato dell’emigrazione casalgrandese. Numerose sono le circolari in cui si

spiegava agli operai che solo gli iscritti alle liste e in possesso di un regolare contratto

di lavoro potevano emigrare: questi, usufruivano del treno gratuitamente fino a

Torino, e da qui, erano condotti, sempre via treno, sino a Modane, in Alta Savoia. Da

lì poi proseguivano il loro cammino fino alle miniere di Thionville, Villerupt e

Mézières, dove erano inquadrati da una delle grandi aziende locali, la cui

manodopera era composta per più del 50% da stranieri. Si trattò di un vero e proprio

“piccolo esodo”, che coinvolse più di 100 operai in due anni per la sola Casalgrande,

ma che raccolse almeno un altro paio di centinaia di persone tra i comuni di

Scandiano e Castellarano162. Essendoci concentrati sul polo parigino, per mancanza di

tempo e mezzi non abbiamo potuto indagare in modo approfondito questa importante

162 Come abbiamo accennato in una nota precedente, i dati archivistici ci danno notizia della presenza di una significativa e costante corrente migratoria in direzione della Francia orientale e meridionale, attiva in paese sin dagli albori del Novecento. Possiamo supporre che questa tradizione sia alla base dei contatti che la Cdl della provincia intraprese con alcune imprese d’oltralpe e il comune reggiano.

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direttrice dell’emigrazione casalgrandese: difficile è stabilire i luoghi in cui questi

operai si siano trasferiti, anche perché gli archivi italiani tacciono riguardo al loro

destino una volta che questi uomini superavano i confini nazionali. Molti di loro sono

tornati, ma di altrettanti si sono perse le tracce. Il consolato italiano di Nancy,

sebbene abbia evidenze relative a questa pratica di arruolamento da parte della Cdl

italiana e di alcune grandi ditte lorenesi, non ha saputo indicarci la destinazione di

questi uomini. Le nostre inchieste orali ci hanno indicato Villerupt e Thionville come

le città in cui almeno una parte di questi emigrati si trasferì e visse alcuni anni, ma

non si tratta di fonti dirette, bensì di racconti di conoscenti o nipoti, che non sono

andati oltre la conferma del loro viaggio, aggiungendo in qualche caso che gli

emigrati hanno poi partecipato alla Liberazione in Italia. Anche per la porosità e

l’esiguo numero di queste testimonianze abbiamo deciso di accantonare, almeno per

il momento questo percorso di ricerca, con il proposito di approfondirlo non appena

possibile.

Ad ogni modo, esclusa la pista lorenese, l’emigrazione ufficiale verso la Francia e in

particolare, verso Parigi e la sua banlieue, nel finire degli anni ’30 si atrofizza sempre

di più, almeno in via ufficiale. Non è raro nei documenti ufficiali leggere di lagnanze

e di lamentele da parte dei cittadini senza lavoro che chiedevano al comune di fare

qualcosa per migliorare la loro condizione, mentre il rilascio di passaporti è quasi del

tutto interrotto. Le statistiche ufficiali del comune però mostrano come, rispetto ai

circa 200 emigrati registrati in via ufficiale (non sono inclusi i rinnovi) tra il 1922 e il

1931, vi sia un passivo di più di 400 persone, senza che vi sia una corrispondente e

significativa riduzione del tasso di natalità, o un incremento del tasso di mortalità,

anzi: ciò significa che l’emigrazione irregolare è proseguita, sotterranea ma continua

attraverso gli anni.

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Popolazione ed emigrati da Casalgrande 1922-1931

Anno Popolazione

totale

Passaporti

concessi

Rifiuti e Rimpatri

1920 3751 1 0

1921-23 “ 25+32* 4

1924-1929 “ 55 11+8

1930 “ 75 ?

1931-32 3313 24 3+5

& -338 211 31

*Questi trentadue passaporti corrispondono alla squadra di operai partita con Grulli (?).

Nel valutare la tabella bisogna tenere presente che la popolazione totale include

anche coloro che sono registrati come assenti negli stati di famiglia, ma pure che i

rimpatri non sono sempre segnalati dai registri. Allo stesso tempo non sono incluse le

statistiche di natalità e mortalità perché non significative, in quanto il numero totale

delle nascite è leggermente superiore a quello dei decessi.163 Infine il numero di

emigrati, di cui abbiamo avuto evidenza, che ha scelto una destinazione diversa dalla

Francia non supera la decina, e per lo più si trattava di ex emigrati in Francia che si

trasferirono in Svizzera164. Si tratta per la maggior parte di commercianti importatori

ed esportatori di liquori all’ingrosso, una categoria sociale che non può essere inserita

in senso stretto nel gruppo di migranti che abbiamo seguito. Non è dunque possibile

ottenere un quadro al 100% preciso della mobilità del comune. Allo stesso tempo

però, risulta evidente come le statistiche ufficiali non possano essere considerate

attendibili perché vi è una discrepanza di circa un centinaio di persone che risulta non

inclusa nelle statistiche. A questi vanno aggiunti gli emigrati in forma clandestina e

chi uscì dal territorio del comune restando sul suolo italiano.

163I dati riportati sono stati ottenuti basandosi sui censimenti ufficiali della popolazione, trasmessi all’ufficio della Provincia di Reggio Emilia, e dal conteggio dei protocolli riguardanti il rilascio di nulla osta per la consegna di passaporti, oltre ai fascicoli riguardanti i rientri. Vedere ACC, Censimento della popolazione 1920, Cat. XIV, 1920, e ACC, Censimento della popolazione 1931, Cat. XIV, 1931. 164 Nei due decenni antecedenti al periodo isolato dalla nostra ricerca, alcune decine di uomini usarono recarsi per alcuni mesi ogni anno in Svizzera. Probabilmente questo fenomeno è un lascito di quella tradizione.

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Negli anni seguenti, mentre il numero degli emigrati verso la Francia si mantenne più

o meno stabile attorno alla decina di partenti per ogni anno, iniziarono a essere

piuttosto numerosi coloro che scelsero la Svizzera come destinazione. Si tratta in

qualche caso di uomini con un passato migratorio già denso, spesso con trascorsi in

Francia: sempre a proposito di questo fenomeno, numerose sono le segnalazioni

d’irregolari fermati presso la frontiera a Luino. Anche la Germania inizierà a contare

qualche emigrato casalgrandese, quando per anni il solo Giuseppe Botti, muratore a

cavallo tra la sponda francese e tedesca del Reno, era stato l’unico esponente della

corrente teutonica. Nello stesso periodo giunsero cattive notizie anche da Genova,

dove un buon numero di operai aveva trovato un’occupazione stagionale nella

costruzione della strada che congiungeva il capoluogo ligure a Serravalle: i lavori

erano terminati, e si richiedeva ai comuni di richiamare presso di sé i numerosi operai

disoccupati che erano rimasti in Liguria. Nel 1934 iniziarono i reclutamenti delle

squadre di operai italiani verso le colonie, l’Eritrea in primis. Le richieste da parte dei

datori di lavoro erano chiare: operai tra i 20 e i 40 anni, senza lavoro, senza famiglia a

carico e in buone condizioni di salute. Questi dovevano portare con sé “gli attrezzi di

lavoro, un indumento adatto al cantiere, un piatto, un cucchiaio, una forchetta e una

coperta”. I tempi dei viaggi pagati sino a Parigi erano lontani, così come ben diversi

erano lo stato economico dell’Italia e quello della Francia. Una ventina di

casalgrandesi partì così per l’Africa, per un periodo di tempo compreso tra i sei mesi

e un anno, assieme ad altri venticinque operai della vicina Castellarano165. Siamo nel

1938.

Per quanto riguarda la Francia, il flusso di uomini tra i due versanti delle alpi si era

assai ridotto: vi è notizia ormai solamente di qualche lettera di richiamo per parenti,

qualche visita di poche settimane, qualche viaggio al santuario di Lourdes e niente

più. I rapporti tra i due stati si erano di molto deteriorati con l’avvicinamento italiano

alla Germania e con la salita al potere del Fronte Popolare in Francia. Nell’Esagono,

a partire dal 1932, la crisi si era abbattuta, tremenda, provocando quello che è

165 ACC, Cat. XIV, Affari vari, 1938, e ACCT, Cat. XIV, Affari Vari, 1938.

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conosciuto come il grand chômage , la grande disoccupazione, che dal 1932 colpì il

paese in tutti i settori produttivi. Leggi particolari vennero prorogate a tutela della

forza lavoro nazionale e a danno dei lavoratori stranieri: molti italiani vennero

rimpatriati e molti altri vissero mesi di terrore da disoccupati, con lo spettro della

scadenza della carta verde e del conseguente annullamento del permesso di

soggiorno. Nessuno tra gli emigrati casalgrandesi è segnalato come rimpatriato per

queste ragioni, ma è evidente che la mancanza di dati era ormai una costante riguardo

alla questione emigrazione-immigrazione, soprattutto in un periodo in cui non era

nell’interesse degli emigrati passare per le vie legali.

Scorrendo i pochi documenti per noi utili in questi anni, abbiamo rinvenuto diverse

lettere e richieste d’informazioni riguardanti persone non segnalate come espatriate o

addirittura, la cui partenza era antecedente agli anni che abbiamo preso in

considerazione. Tolosa, Nizza, le Bouche-du-Rhone, Savoia, Nord-Pas-de-Calais,

Nancy, Longwy, c’è un casalgrandese per ogni regione migratoria della Francia,

anche se si tratta a volte di pochi individui isolati. Abbiamo anche notizia di qualche

rientro, come quello di Antonio Gasparini, emigrato prima della Grande Guerra, poi

rientrato, ed emigrato nuovamente negli anni ’20. Si sa che egli era stato assunto

presso la ditta di costruzione “Pierre Vie” , di Parigi, e che i suoi viaggi stagionali tra

l’Italia e la Francia erano ormai divenuti una consuetudine, anche se con l’avvento

del fascismo egli incontrò più di un problema per ottenere il rinnovo del proprio

passaporto. In una circolare, il sindaco conferma che “il Gasparini ha sempre

professato idee antifasciste e non v’è alcun motivo per cui gli si debba concedere il

passaporto”166 In qualche modo Gasparini riesce a ripartire per la Francia, dopo però

ben due anni di battaglie con l’amministrazione e la burocrazia di regime. Un amico

di Parigi gli aveva trovato un lavoro presso la ditta “Dufessez Gaston”, che

produceva cemento e altro materiale edile, con sede nella banlieue est, presso Saint-

Maur-des-Fossés. Nel 1937 Gasparini risulta in pensione: ha dei problemi nel

ricevere il pagamento dalla Caisse Central Rétraites pour la Vieillesse , l’INPS

166 ACC, Cat. XIV, prot. 2987 del 1924

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francese, e alla fine è costretto a coinvolgere il consolato francese di Bologna per

poterne godere. Anche Agenore Ricchetti, che invia il denaro ai familiari rimasti in

Italia, ha dei problemi col cambio tra franchi e lire.

Il 1938 fu l’anno del boom dell’emigrazione in Germania, in seguito agli accordi

stipulati tra le due potenze dell’Asse. I casalgrandesi che emigrano nel Reich sono 38,

ma da tutta la provincia furono più di 500 persone a partire alla volta del Reich, per

contribuire alla costruzione di strade, ponti e per lavorare nelle attivissime industrie

tedesche. L’anno seguente ritroviamo Pietro Grulli: scomparso quasi otto anni prima

dai documenti ufficiali, gli viene concesso di partire con una squadra di imprenditori

edili per l’Eritrea. Ancora una volta non abbiamo notizie delle sua effettiva partenza,

ma certo, se mai fosse partito, non restò molto in Africa. Intanto circa una quindicina

di casalgrandesi è arrestata ad Aosta mentre si dirigeva illegalmente verso il confine

francese. Sempre scorrendo i pochi documenti disponibili per quest’ultima parte del

decennio, vediamo che le partenze per la Germania proseguono, ma si trattò solo una

dozzina di persone, mai coinvolte in pratiche migratorie prima. Dal 1940 le statistiche

sull’emigrazione tacciono completamente. Sono segnalati un buon numero di

rimpatri. È la guerra.

GLI ANNI DELLA GUERRA E LE CITTADELLE REGGIANE IN BANLIEUE Se per diversi motivi risulta difficile ricostruire il periodo della guerra, almeno stando

alle fonti documentarie, più semplice è stato tentare di completare il percorso

migratorio dei gruppi che abbiamo seguito fuori dei confini nazionali. Ci siamo mossi

partendo dalle evidenze ottenute in Italia, cercando di individuare i network migratori

più densi e ricchi, seguendo le indicazioni sulle destinazioni e sulle esperienze degli

emigrati; in seguito, negli archivi francesi, abbiamo cercato di completare il quadro di

queste traiettorie migratorie, in modo da chiudere il cerchio sul destino di queste

persone, una parte del quale risultava invisibile o quasi nelle fonti italiane.

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La prima delle piste da noi seguita è quella che ci ha condotto presso gli archivi della

Prefettura di Polizia di Parigi. Qui, contando sulla politica di buon vicinato che i

governi francesi che avevano preceduto il Fronte Popolare avevano adottato nei

confronti del vicino italiano, abbiamo rinvenuto diversi soggetti di ricerca

interessanti. Le prime notizie le abbiamo ricavate sfogliando i fascicoli concernenti

gli individui che il governo francese riteneva politicamente eversivi tra la fine del

secolo decimo nono e la seconda guerra mondiale167. Moltissimi reggiani, in

particolare provenienti dalla città di Reggio Emilia e da Cavriago, erano quivi

segnalati come elementi di spicco nel Syndicat du Bâtiment, il sindacato dei

lavoratori dell’edilizia; gruppo che si segnalò come tra i più attivi nei vari movimenti

che confluirono nella Concentrazione Antifascista, il movimento politico italiano che

ebbe il maggior seguito in Francia a partire dal 1929. Sebbene mancassero tra i quadri

dirigenti membri della nostra comunità, abbiamo potuto individuare una mappa

abbastanza precisa della presenza di questi reggiani nel cuore di Parigi: Saint-Denis,

il XIIIème,, il XIIème arrondissements e i comuni più prossimi della banlieue est

erano i quartieri in cui questi uomini risiedevano, dove erano più attivi sia sotto il

profilo lavorativo che sociale ed erano sempre questi i luoghi ove avevano sede le

organizzazioni politiche, il sindacato, o le aziende per cui essi lavoravano. Questi dati

corrispondevano a quelli che avevamo ritrovato in Italia, ma in più ci hanno fornito

una localizzazione abbastanza precisa riguardo all’inserimento di questi uomini nel

contesto parigino in alcuni degli ambienti urbani in cui la presenza italiana era più

forte e di antica data.

I fascicoli relativi alla guerra di Spagna168 e ai volontari, francesi e italiani, che

partirono dalla Francia per soccorrere la Repubblica dal tentativo di golpe dei

generali, non ci hanno, come invece speravamo, fornito molti altri dati. Dei circa 500-

600 italiani che partirono alla volta della Catalunya nel 1936, non sono riportati i

nomi, se non quelli di coloro che erano considerati i capi della spedizione. Tra di essi

vi è quello di Michel Centroni, nato nel 1879 a Castellarano; qualche altro cognome

167 APP, Le Nations, Italie, Activiés politiques des ressortissants, les regroupements anti-fascistes, Ba 2387 168 APP, Révolution Espagnole, Ba 1666

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sembrerebbe indicare una provenienza se non emiliana, quasi sicuramente

riconducibile al nord Italia, ma nulla di più specifico. In uno dei colloqui che

abbiamo avuto con M.me Spallanzani abbiamo accennato alla questione spagnola, e

sebbene l’ex presidentessa della Fratellanza Reggiana ricordasse la presenza di

qualche reggiano di Parigi nella spedizione, non è stata in grado di confermarci o

meno la presenza di qualche cittadino di Scandiano o Casalgrande.

Nella lista degli italiani che hanno invece richiesto la visa169 nel 1932, ossia il

permesso di soggiorno supportato da un contratto di lavoro, abbiamo ritrovato alcuni

casalgrandesi, che assieme ad una mezza dozzina di abitanti di Scandiano,

risiedevano tra il dodicesimo e il tredicesimo arrondissement. Si trattava di operai,

impiegati presso una ditta che forniva attrezzature e materiale per l’edilizia, di cui

però non abbiamo trovato tracce né negli archivi nazionali, né tra le carte d’imprese,

e nemmeno nelle liste dei censimenti, almeno nei quartieri di cui ci siamo occupati170.

Per alcuni dei soggetti però, abbiamo evidenze riguardo a un loro periodo d’impiego

presso “une entreprise qui produisait ciment à Scandiane”, impresa segnalata come

“pleine d’anarchistes e communistes”171.

Tralasciando gli altri frammentari dati riguardanti reggiani o emiliani, di non ben

definita provenienza, implicati più o meno in attività ritenute sovversive o pericolose

dal governo francese, ci limiteremo ora a esporre i dati relativi alla banlieue est, in

relazione a cui le nostre ricerche si sono mostrate maggiormente fruttuose.

169 APP, Dossiers différents, Italiens, Ba 2168 170 Ancora una volta, per questioni di tempo non abbiamo potuto compiere un’analisi completa dell’insediamento degli emigrati che abbiamo studiato, limitandoci ai due arrondissements in cui, secondo i dati a nostra disposizione, risiedeva il maggior numero di emigrati da noi studiato. Quando si parla di emigrazione italiana a Parigi bisogna tenere presente che i francesi non avevano interesse a segnalare la provenienza regionale degli immigrati italiani, quindi non è semplice rintracciarli nella sterminata mole di dati a disposizione. Si parla infatti di centinaia di migliaia di nomi. 171 APP, Dossiers différents, Italiens, Ba 2168

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MaisonsJAlfort#

!

!!

Nella tabella che segue riportiamo i dati relativi al comune di Maisons-Alfort, centro

della banlieue est che fa parte della cintura periferica più antica, dopo l’assorbimento

della petite ceinture di metà Ottocento. A differenza di Nogent-sur-Marne o

Fontenay-sous-Bois però, fu solo negli anni ’20 e ’30 che si assistette a una

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consistente crescita dell’immigrazione, processo in cui gli italiani, e tra essi i nostri

emigrati, ebbero un ruolo primario.

Abbiamo scelto di concentrarci sui venti anni circa che vanno dal 1921, anno del

primo censimento del dopoguerra, al 1946, anno del primo censimento successivo al

1936, indicativo per “testare” il compimento o meno del progetto migratorio dei

soggetti da noi studiati. La guerra infatti fu un discrimine fondamentale nel definire le

scelte degli immigrati italiani. Fin dai tempi della neutralità, fino al famoso coup de

poignard dans le dos, non fu semplice per i moltissimi emigrati italiani vivere la loro

condizione di sudditi di un regno nemico in territorio francese, anche se molti di

questi erano arrivati in Francia proprio per fuggire dal fascismo. Inoltre, il richiamo

della Patria, sentimento che dopo la Grande Guerra era divenuto parte integrante

dell’identità di tanta parte del popolo italiano, anche all’estero, si faceva pressante,

ponendo gli emigrati di fronte una difficile e in ogni caso lacerante scelta: restare e

combattere per la Francia, la nazione che li aveva accolti e che aveva offerto loro un

lavoro, a volte anche la possibilità di crearsi una famiglia, o tornare in Italia e

combattere per la propria madrepatria contro la Francia? In realtà, la questione è più

complessa, e le risposte degli uomini di cui ci siamo occupati furono molteplici e

condizionate da diversi fattori, come illustreremo più avanti.

Popolazione di Maisons-Alfort

Anno 1921 1931 1946

Popolazione 20.824 31.012 36.485

Stranieri residenti ? 1377 632

Italiani 208 1196 267

Reggiani 21* 64* 14* Fonti: AVDM, Listes des récensements par quartier, Maisons Alfort, ans 1921, 1931, 1946 * Queste cifre corrispondono agli emigrati per cui abbiamo potuto accertare la provenienza da Casalgrande, Scandiano, Castellarano o da altri comuni della provincia di Reggio Emilia. Le cifre potrebbero essere superiori, considerando che il paese o il comune di origine non erano quasi mai annotati.

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Come si può osservare è attorno al 1931 che il numero degli italiani presenti nel

comune si fa decisamente importante, arrivando a costituire quasi il 4% della

popolazione totale e il 90% della popolazione straniera residente. Nell’analizzare

questi dati però, bisogna considerare che non abbiamo tenuto conto degli italiani

naturalizzati, il cui cognome spesso era mutato con l’acquisizione della nazionalità

francese. In ogni caso, la pratica della naturalizzazione divenne piuttosto comune solo

a partire dal 1932, quando la disoccupazione e i relativi problemi di rinnovo del visto

spinsero molti nostri connazionali ad assicurarsi, con questo atto, la permanenza in

quella che per molti era divenuta la nuova casa. Ecco in parte spiegato il non troppo

elevato numero di presenze italiane nel 1946, anche se, naturalmente non bisogna

dimenticare la grande discriminante della guerra, con il suo residuo di morte, rancore,

ma anche la nuova situazione creatasi in patria.

L’origine della maggior parte degli emigrati può essere fatta risalire all’Italia

settentrionale, con una grande concentrazione di lombardi, in particolare provenienti

dalla zona di Bergamo, e di piemontesi. Gli emiliani non sono moltissimi, poco meno

di duecento circa, in buona parte originari delle tradizionali zone di emigrazione

nell’appennino parmense e piacentino: Bardi, Bettola, Begonia, etc... I reggiani, se

rapportati al numero totale degli emigrati non sono tra i gruppi più numerosi, ma

rispetto al rapporto che in generale si instaura tra la loro componente e quella dell’ex

ducato di Parma, il loro numero è abbastanza elevato, costituendo circa un terzo del

totale. Accanto ad alcuni originari di Cavriago e di Albinea (questi ultimi erano in

massima parte gli stessi reggiani insediatisi nel comune già nel 1921), è Scandiano

assieme ai comuni che la circondano a farla da padrona. Possiamo osservare che le

zone a maggior concentrazione sono quelle della rue de Sapins, dove vive la famiglia

Jenni (Genni, negli archivi italiani), guidata dal capofamiglia Giuseppe, cimentier,

con a fianco la moglie e i cinque figli. Due di questi hanno la nazionalità francese, e

sono quindi nati in Francia, il che segnala un’installazione piuttosto stabile e di una

certa durata, seppur posteriore al 1921. I Genni abitavano al numero 16, mentre al

numero 26 vivevano i Ferreri, cinque anche loro, cui andava aggiunta la moglie del

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capofamiglia, nata a Cernobbio, ma anch’essa di origine scandianese. Nel vicinato si

parlava molto italiano, basti dire che su ventisei immobili, una decina erano abitati da

famiglie provenienti dallo Stivale o di chiara origine cisalpina.

Non lontano, al numero 16 della rue du 14 Juillet, viveva la famiglia Bizzocchi: il

capofamiglia Giuseppe era di Scandiano, mentre la moglie, Clotilde, era originaria di

Casalgrande. Tra figli, fratelli e sorelle erano in nove a dividersi i due appartamenti

che la famiglia occupava nello stesso immobile. Giuseppe era un sarto, e gli affari

non dovevano andargli troppo male se poteva permettersi di dare da lavorare anche a

due garzoni francesi, oltre ad avvalersi dell’aiuto della moglie e di una delle figlie.

Un altro figlio, Guerino, faceva invece il muratore, occupazione piuttosto usuale per i

giovani italiani della banlieue che erano privi di una specializzazione di mestiere.

Nello stesso quartiere viveva anche la famiglia Ghidini, originaria dell’alta Val di

Secchia: sposato con una francese, Ghidini lavorava come garzone di bottega presso

un venditore di alimentari italiano. Nella stessa via, rue de l’Opéra, viveva la famiglia

Cugini: i tre uomini, due fratelli e il figlio del capofamiglia, si occupavano di caldaie,

mentre la moglie, francese, poteva permettersi di non lavorare e accudire i cinque

figli, anch’essi nati e cresciuti in Francia. A pochi metri vivevano Luciano Fusari, di

Castellarano, e la moglie francese, che lavorava come contabile, occupazione

piuttosto inconsueta per una donna al tempo. In rue Crapelle viveva Giovanni Gozzi,

aiuto muratore, e i Meloni, provenienti da Villerupt, in Lorena, dove i due fratelli

lavoravano come operai presso un’acciaieria. Nella rue Grande, Cortesi lavorava

come autista, mentre il suo vicino di casa, Castelli era un muratore, così come Gian

Mecarini, il suo vicino. In rue de la Concorde, oltre alla famiglia Ricchetti, di cui

abbiamo giù parlato alcuni capitoli fa e che resiedeva al numero 69, sono presenti

diverse altre famiglie originarie di Casalgrande, Arceto, Scandiano e Roteglia, il

paese nel comune di Castellarano da cui proveniva anche Elgina Pifferi, la futura

presidentessa della Fratellanza Reggiana. Erano tutti impiegati come muratori o nella

pratica della cementificazione, i due lavori più diffusi tra i nostri emigrati. È

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segnalato anche qualche modenese, proveniente da comuni che si affacciavano

sull’altra riva della Secchia, così come gli onnipresenti muratori bergamaschi.

Maisons-Alfort era un comune che potremmo definire a media intensità migratoria,

che, come abbiamo spiegato ha cominciato ad attirare una quantità rilevante di

manodopera straniera solo a partire dalla metà degli anni ’20. Abbiamo visto che già

nel 1921 erano presenti alcuni reggiani, originari per lo più dal comune di Albinea,

anch’esso facente parte di quella cintura di comuni situati nella prima fascia collinare

dell’appennino, come Casalgrande e Scandiano. Forse proprio il fatto che solo negli

anni venti le attività industriali, e soprattutto l’edilizia, si fossero sviluppate così

fortemente fu all’origine della scelta da parte di un gruppo di emigrati che, come

abbiamo spiegato nei capitoli precedenti, non aveva una grande tradizione alle spalle

e quindi scarsi collegamenti e appoggi con la realtà parigina. In ogni caso, possiamo

osservare che gli emigrati dei comuni di Scandiano, Casalgrande e Castellarano

tesero a installarsi secondo un sistema d’inclusione che potremmo definire

concentrico, il quale partendo dal nucleo familiare si espandeva andando a

comprendere gli altri abitanti del proprio paese, poi del comune e dei comuni

contigui, allargandosi successivamente agli abitanti della stessa provincia o regione,

quelli originari del nord Italia e considerando solo come ultima forma di legame, la

carta della nazionalità. Non abbiamo purtroppo evidenze riguardo le simpatie

politiche dei migranti. In effetti, il relativamente piccolo insieme di emigrati

proveniente dalla Puglia, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia, sembra essere

quasi completamente separato dalla restante parte degli italiani presenti, almeno sul

piano spaziale, mentre accadeva praticamente sempre che un bergamasco, un

cuneense o un trevigiano abitasse accanto a un reggiano. Addirittura, non è raro

osservare la presenza di diversi corsi accanto a degli emigrati liguri, ma anche a

gruppi di italiani originari delle zone settentrionali del paese; molto meno frequente è

vedere questi mischiarsi agli originari del meridione.

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Charenton#

Un discorso simile può essere esteso anche a Charenton, l’altro comune della

banlieue est di cui ci siamo occupati. Prosecuzione naturale del tredicesimo

arrondissement, occupa il territorio compreso tra la vecchia cinta di mura di Thiers, il

Bois de Vincennes e l’ultima ansa della Marna, che lo delimita a est, dove

cominciano poi i comuni di Maisons-Alfort e di Saint-Maurice. Sui 21.011 residenti

rilevati nel 1931 gli stranieri erano 861, di cui 467 italiani172. Ancora una volta gli

italiani si confermano nettamente la comunità straniera più rappresentata; i reggiani,

o almeno coloro che siamo riusciti ad individuare, erano circa una trentina, tutti

originari dei comuni della bassa Val di Secchia. Il casalgrandese Giuseppe Dotti,

classe 1877, lavorava come cimentier nonostante i suoi cinquantacinque anni, e

viveva assieme alla figlia Giuseppina, in rue Barthélot. Nel loro stesso immobile

vivevano alcuni operai lombardi e dei manovali di probabile origine emiliana, ma di

cui non era riportato il luogo di nascita. Rispetto a Maisons-Alfort, dove, anche a

causa dell’ampiezza dell’agglomerato urbano, al tempo ancora in piena espansione,

gli insediamenti italiani erano piuttosto dispersi, a Charenton osserviamo la presenza

di vere e proprie rues aux italiens , strade italiane, dove gli originari dello Stivale

occupavano fino ai due terzi di tutti gli alloggi presenti. Essendo una zona

d’immigrazione più anziana, anche per il suo carattere di primissima periferia

parigina e prosecuzione naturale del quartiere di Bercy (ancora oggi buona parte del

comune è attraversata dai binari che conducono alla gare de Bercy e alla gare de

Lyon), Charenton ospitava una maggior varietà regionale e nazionale d’immigrati,

con una forte presenza, oltre agli immancabili insubri di Lombardia e Piemonte,

anche di toscani, della zona di Lucca, Massa e Pistoia, ma anche di marchigiani,

veneti e friulani. I parmigiani e i piacentini pure non mancavano, ma in quantità

minore rispetto ad altri comuni della banlieue est. I reggiani si inserirono in questo

ambiente dove, per forza di cose, era la nazionalità a contraddistinguere agli occhi dei

francesi, ma anche degli stessi italiani, la componente immigrata. Si può notare qui la 172 AVDM, Récensements de la population par quartier, Charenton, 1931

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presenza di accorpamenti di polacchi, russi e spagnoli, ben distinti e separati da quelli

delle strade in cui vivevano e lavoravano gli italiani. Questa caratteristica si può

osservare un po’ in tutte le zone ad alta percentuale di emigrati nella corona parigina

ma anche in altri luoghi della Francia. Proprio il confronto con questa significativa

componente straniera sarà il più importante viatico alla nascita di un senso di

nazionalità tra gli italiani.

La famiglia Masoni, la famiglia Menozzi, e la famiglia Gasparini, tutte originarie di

Scandiano, abitavano in rue des Carrières, la strada che come si evince dal nome era

la sede delle famose cave di gesso che fino alla fine dell’800 costellavano il comune

lungo la Senna. In seguito alla chiusura delle cave, queste furono utilizzate come

deposito di merci, non perdendo però il carattere fortemente proletario della

popolazione che abitava il quartiere. In questa strada che costeggiava la Senna stretta

tra i binari della ferrovia e i vecchi depositi, vivevano nel 1931 ben sessantanove

famiglie d’italiani, divise in poco meno di quaranta immobili. Molti di questi

lavoravano come manovali presso alcune aziende francesi per conto delle quali si

occupavano del trasporto di mobili, del legno, ma anche di costruzioni, della

riparazione di attrezzature meccaniche, così come dello stoccaggio e del trasporto

delle merci tra Parigi e la banlieue, in un tempo in cui la ferrovia non aveva ancora

sostituito del tutto il trasporto fluviale. Tra questi era altresì presente un discreto

numero di falegnami che gestivano in proprio la loro attività. Si può osservare che i

matrimoni misti fossero una pratica piuttosto diffusa, com’era tipico nella seconda

generazione d’immigrati italiani, e in quei luoghi ove i cisalpini risiedevano ormai da

diverso tempo: i Menozzi, i Masoni e i Gasparini non facevano eccezione. Da notare

anche la presenza della famiglia Croci, che gestiva un banco di verdura

sull’importante asse della rue de Paris, la strada attorno cui si era sviluppato il centro

urbano e che molti degli immigrati percorrevano ogni giorno per recarsi nella zona

est della cittadina, verso i cantieri edili della profonda banlieue. Sono le zone più

esterne, quelle vicine alla Senna, al parco di Vincennes e all’ospedale di Saint-

Maurice le zone che ospitavano il maggior numero d’italiani: anche tra questi si

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assiste a una differente collocazione urbana a seconda della consistenza temporale del

loro insediamento. Gli emigrati di Casalgrande a Parigi sono quasi tutti emigrati di

prima generazione e devono perciò inserirsi in un contesto in cui era già presente un

importante nucleo insediativo italiano, più legato e coeso con l’ambiente della

cittadina. Non abbiamo potuto controllare le cartelle della prefettura di polizia173, ma

non crediamo che vi siano stati particolari problemi tra le due componenti italiane:

più che altro quella che vogliamo evidenziare è la divisione spaziale tra le diverse

scaglie dell’emigrazione, divisione che è più figlia del tempo di insediamento che di

altre peculiarità dei migranti. Come per ogni comune della banlieue, ma il discorso è

valido per la stessa Parigi, l’integrazione e l’inserimento nel contesto sociale e urbano

parte da lontano, e non è tanto il soggetto urbano o umano ad avvicinarsi al cuore

della città, ma è la città ad allontanarsi, a spostarlo verso il suo cuore, accrescendosi

sempre più. È questa la sensazione che traspare anche dai racconti dei cavriaghesi di

Argenteuil raccolti da Canovi174, arrivati nel comune del nord-ovest parigino quando

questo era ancora per metà un’oasi verde e la città era ancora ben lontana; un paio di

decenni dopo, Argenteuil era divenuto uno dei comuni della banlieue nord, e la città

non solo lo aveva raggiunto, ma lo aveva superato.

Conclusioni

Come abbiamo visto, anche in un piccolo comune come quello di Casalgrande, il

periodo che va dagli anni ’20 alla Seconda Guerra Mondiale fu un tempo di grandi

cambiamenti. L’esperienza prampoliniana aveva avuto come esito la creazione di

tante isole socialiste “ alla reggiana” entro il territorio provinciale, separando in un

certo senso sul piano ideologico e materiale questa parte di Italia dal resto dello

Stivale. Sebbene l’intero territorio nazionale, in particolare nel primo dopoguerra,

fosse costellato dai fermenti progressisti e dalle rivendicazioni del proletariato 173 Gli Archivi della Val-du-Marne, contenenti anche quelli realtivi a Charenton e Maisons-Alfort erano inagibili causa il restauro dell’edificio ospitante gli archivi al momento della nostra visita. Ci è stato possibile consultare solo le liste dei censimenti, precedentemente informatizzate. 174 A. Canovi, Roteglia, Paris…, op. cit. Le interviste, registrate e trascritte, sono incluse al termine di ogni capitolo.

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organizzato, nel caso reggiano si percepisce un diffuso senso di eccezionalità, che

contribuì ad alimentare il mito delle “piccole russie” e della via cooperativa. Eppure,

anche Reggio Emilia fu investita dagli eventi che seguirono la nascita e la successiva

presa del potere da parte del fascismo: questo trauma, che è vissuto da molti come la

fine di un sogno o di “un sogno spezzato”, costrinse gli uomini di cui ci siamo

occupati a uscire dal loro isolamento, aprendosi alle dinamiche nazionali e

internazionali di cui l’emigrazione fu un veicolo primario.

Nei primi capitoli abbiamo cercato di ricostruire il contesto sociopolitico dell’Italia

settentrionale tra la fine dell’Ottocento e la prima parte del secolo successivo,

tratteggiando lo sfondo entro cui si svolse gran parte del tragitto migratorio italiano,

che ebbe nella Francia la sua meta principale. Seguendo un percorso convergente ci

siamo poi concentrati sull’Emilia Romagna, in particolare sulla sua propaggine più

occidentale, l’Emilia, che a sua volta si è rivelata possedere diverse anime a seconda

della sua strutturazione geografica, dell’eredità storica e infine di quelle peculiarità

che non si spiegano se non con il carattere irriducibile a un nesso di causa-effetto che

a volte si rivelano determinanti nel dispiegarsi del percorso di un soggetto storico175.

È in questo scenario che si svolsero le vicende migratorie di cui ci siamo occupati.

Successivamente abbiamo tentato di analizzare nel dettaglio la situazione reggiana,

provincia caratterizzata da una forte impronta rurale e da un’economia arretrata sino

agli ultimi decenni del secolo decimo nono. A differenza delle provincie confinanti di

Parma, Lucca e la micro regione della Garfagnana, a Reggio Emilia non ebbe luogo

un massiccio ricorso all’emigrazione per contrastare queste difficoltà oggettive.

Grazie alla contemporanea diffusione del socialismo tra le masse e il gruppo dei

piccoli-medi proprietari (la maggioranza dei possidenti sul territorio), unita alla

crescita nella gestione scientifica della produzione che virò sull’allevamento bovino,

175 Ossia quella dimensione casuale della Storia, che non può essere semplicemente riconducibile a un processo diacronico. Perché, ad esempio, territori tanto simili per storia e costumi come l’appennino parmense e quello reggiano non seguirono percorsi migratori simili? Perché i migranti di Bettola e Palanzano finirono quasi tutti a Parigi e la sua banlieue e quelli di Ramiseto in America o in Algeria, quando c’era solo l’Enza a dividerli? Perché a Reggio Emilia si creò un così stretto rapporto tra l’azione della Cdl e del Partito Socialista? Queste peculiarità, sebbene abbiano alle spalle una dinamica storica ricostruibile razionalmente, non possono essere totalmente spiegate tramite un procedimento scientifico di ricostruzione, ma sono in parte uguale la risultante di eventi non legati tra di loro. Per una migliore definizione del concetto di casualità nella storia vedere E.H. Carr, Sei lezioni sulla Storia, Einaudi, Torino, 1966

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si giunse, negli anni precedenti e immediatamente successivi alla prima guerra

mondiale, a un’ampia diffusione delle cooperative di produzione e di consumo che

favorì un sensibile miglioramento delle rendite agricole e una più razionale gestione

della proprietà e della forza lavoro. Il frazionamento dei possedimenti e l’insolita

presenza di mezzadri nella Bassa e nella zona pedecollinare, promosse una

mediazione tra le rivendicazioni proletarie e bracciantili e le esigenze produttive dei

piccoli possidenti; questa evoluzione escluse di fatto la contrapposizione di classe,

favorendo quella cordiale conduzione cooperativa della produzione che è la sintesi

del credo di Prampolini. Questo contribuì a imprimere una forte impronta identitaria

al socialismo reggiano, che non solo a livello ideologico, ma anche a quello

dell’immanenza, contraddistinse la prassi politica e la dimensione sociale della vita di

ogni giorno. Creare a casa propria, con le proprie mani e con una formula originale il

futuro: ecco il credo dei socialisti reggiani. Non c’era dunque bisogno di cercare

altrove una patria del socialismo, una messianica Terra Promessa, in grado di offrire

quel benessere e quella sicurezza che in patria mancavano. Reggio Emilia, Cavriago,

Casalgrande, Scandiano, eccole le terre promesse, inserite nel microcosmo inquadrato

tra le colline e le sponde del Grande Fiume che da sempre chiudevano l’orizzonte

della realtà reggiana.

Questo sogno però fu interrotto proprio all’indomani di quello che sembrava l’inizio

del trionfo, ossia le elezioni del 1919, quando trentotto comuni su quarantacinque

della provincia elessero un’amministrazione socialista. Il fascismo aveva

bruscamente risvegliato tutti dal sogno; con le sue violenze, il suo appoggiarsi sui

grandi possidenti, la sua pianificazione che rispondeva a esigenze di natura nazionale

e autarchica, ma soprattutto, la strozzatura che determinò a livello politico eleggendo

il socialismo a nemico pubblico numero uno. Esso provocò una rottura che nel

quadro reggiano si rivelò ben più grave della semplice limitazione delle libertà. Col

socialismo si oscurava il futuro nell’immaginario dei tanti simpatizzanti e sostenitori

della causa nella zona: a un livello ancora più profondo questa prassi costrinse a

rinnegare una parte molto importante dell’identità personale e collettiva di un gran

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numero di persone. Ecco allora che emigrare divenne non solo una risorsa ultima,

un’ammissione di una sconfitta morale oltre che politica, ma una necessità.

Il caso della provincia di Reggio Emilia e di Casalgrande in particolare, ci è parso

significativo perché pur non avendo fornito molti quadri direzionali nei movimenti

politici internazionali o personalità eccezionali176 alla cultura e alla storia

dell’emigrazione, proprio attraverso la “sorprendente normalità” di una così grande

parte della sua componente migrante costituisce la cifra esemplare e un saggio molto

significativo a nostro parere, sulle modalità e le tipologie di emigrazione che hanno

segnato la provincia reggiana e non solo. È infatti l’apparente linearità di questi

percorsi che evidenzia al contempo l’eccezionalità della storia migratoria reggiana, e

il salto qualitativo che contraddistinse l’emigrazione italiana negli anni venti del

secolo scorso.

Nella seconda parte del nostro lavoro abbiamo voluto ricostruire le esperienze di

diversi soggetti a partire dai dati ricavati dalla consultazione dell’archivio comunale

di Casalgrande, affiancandoli in una fase successiva ad alcune fonti orali.

Nell’articolare la nostra ricerca abbiamo voluto privilegiare la prima categoria di

fonti, integrandola solo in un secondo momento alle informazioni ricavate da alcune

inchieste effettuate tra i discendenti di alcuni emigrati. Purtroppo lo scarto temporale

(di solito due generazioni) tra il periodo da noi isolato e la “memoria sensibile” degli

intervistati era troppo ampio per poterci permettere di ricavare indicazioni complete e

totalmente attendibili: spesso la figura dell’emigrato è legata indissolubilmente a

quella dell’antifascista e del combattente della Resistenza, sia al di qua che al di là

delle Alpi, proiettandolo in alcuni casi più nella sfera mitologica che in quella storica.

Tuttavia questa evoluzione della memoria comune offre un’indicazione abbastanza

significativa dello sfondo entro cui si svolse la vicenda migratoria, e di come,

possiamo supporre, gli stessi migranti vollero trasmettere la propria vicenda: ossia,

guidata dalla bandiera dell’antifascismo militante.

176 Anche se personaggi quali Cesare Campioli ed Elgina Pifferi non sono esattamente figure comuni nel panorama dell’emigrazione italiana.

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Naturalmente non tutti i soggetti che migrarono svolsero una parte attiva nelle

vicende politiche del tempo, almeno sino all’ultima fase della guerra. Sono questi

soggetti, i quali costituiscono una parte importante dei casi che abbiamo individuato,

a non fornirci che scarse indicazioni sulle loro vicende. Immersi anch’essi

nell’universo prampoliniano e, volenti o nolenti, trascinati nelle lotte che opposero le

parti socialiste con quelle fasciste, le loro voci non ci sono pervenute con sufficiente

dovizia di particolari. È stato proprio questo limite della nostra ricerca che ci ha

spinto a studiare con maggior attenzione quella “zona grigia” tra attori passivi e

politici di professione, per i quali la spinta a lasciare il paese venne in maniera

principua dalla sfera politica. Come nel caso di Barbieri o Gasperini, anche oltralpe si

trasferì quel sentimento identitario che trascendendo il carattere regionale o comunale

unì molti altri reggiani agli antifascisti italiani e francesi.

È sulla messa in questione dell’identità infatti che lo studio dei processi migratori si

rivela particolarmente interessante. L’emigrazione è spesso vista come una sconfitta,

una fuga, un’ammissione della propria incapacità o del proprio senso di

inadeguatezza alla realtà che si rifugge. Alcuni dei soggetti che abbiamo intervistato

hanno ribadito come i loro antenati “non avessero avvertito il bisogno di emigrare”,

intendendo con questo sottolineare l’aspetto economico legato alla circostanza. La

dimensione politica è tenuta in secondo piano o addirittura negata in alcuni casi,

anche quando esistono documenti che testimonierebbero il contrario; eppure, vicende

come quella di Barbieri e Gasperini testimoniano di come la dimensione politica

abbia costituito se non l’unico, il più frequente aspetto comune di una rottura che

spesso si cerca di celare o di ricucire non appena tornati in Italia. Difficilmente si

spiegherebbe un così elevato aumento della quantità, e ancora di più, della qualità dei

percorsi migratori a partire dalla metà degli anni ’20.

Si potrebbe forse obiettare riguardo alla mancanza di una consapevolezza, che in

molti casi contraddistingue questi attori storici, e di una chiara visione dei processi e

delle trasformazioni cui essi hanno preso parte. L’utilizzo di fonti orali o di lavori di

autori che proprio su queste hanno basato i loro studi, potrebbe forse indurre a

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scorgere una mancanza di oggettività e di “autorità” in una parte dei nostri dati, nel

senso di un’assenza di quella parziale revisione e legittimazione che ogni storia

subisce nel passaggio dalla sua dimensione contemporanea a quella generale.

Crediamo però che la storia contemporanea, in particolare nel caso della microstoria,

senza queste voci sia per lo più muta, o ancorata all’interpretazione generale. Non per

questo vogliamo tacere sulle lacune che il nostro lavoro possiede. Si sarebbe dovuta

prestare una maggiore attenzione a quel fenomeno migratorio legato alla matrice

fascista, che pure ha costituito una parte sensibile del processo nel suo complesso,

anche dalla provincia di Reggio Emilia. Inoltre, l’inevitabile connessione tra il

fenomeno della Resistenza e quello dell’emigrazione a carattere politico può, a volte,

gettare un’ombra teleologica su di un fenomeno che, in diversi casi, era indipendente

o almeno egualmente dovuto a esigenze di carattere economico, sociale, culturale e

politico. Siamo infine ben consci che la disamina di un maggior numero di fonti orali,

soprattutto in Francia, avrebbe potuto offrire spunti più ampi e precisi alla nostra

ricerca, e ci riserviamo di proseguire le indagini in tal senso nel prossimo futuro.

Essendoci concentrati per ragioni di reperibilità delle fonti sulla sponda italiana del

flusso migratorio, abbiamo cercato di ricostruire, oltre al contesto storico e alla

situazione sociale ed economica in cui ebbero luogo le vicende da noi studiate, la

parte meno tangibile dell’universo degli emigrati, ossia il loro “immaginario”. Nel

caso da noi studiato, quello cioè di un tipico comune della provincia reggiana nella

prima metà del Novecento, non si può fare a meno di avvertire lo spirito che aleggia

sotto quasi ognuna delle vicende che ivi hanno avuto luogo; una tensione verso quel

futuro che l’ideale del socialismo nella sua declinazione prampoliniana in un primo

momento, e quello di stampo sovietico poi, sembravano non solo promettere, ma

realizzare a poco a poco, e che il fascismo ha bruscamente interrotto. È questa

tensione politica, prima esogena nel periodo dittatoriale, e poi, con la Liberazione, di

nuovo endogena, che ci è parsa contraddistinguere non solo i percorsi migratori, ma

anche il cammino storico più significativo della realtà casalgrandese nella prima metà

del Novecento.

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Rue de Charonne, XIIème arrondissement, Paris,2010

Charenton, rue des Carrières negli anni ’20

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Eugène Atget, rigattiere di Sainte-Marguerite, 1904

Casalgrande, la Borgata di Boglioni all’inizio del secolo scorso

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