1 Percorsi migratori: Casalgrande, Scandiano e la Val di Secchia. Alcuni casi di emigrazione reggiana in Francia tra le due guerre mondiali.
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Percorsi migratori : Casalgrande, Scandiano e la Val di
Secchia. Alcuni casi di emigrazione reggiana in Francia
tra le due guerre mondial i .
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Indice
INDICE&...................................................................................................................&2!
PARTE&PRIMA:&&L’ITALIA&.........................................................................................&5!
INTRODUZIONE!........................................................................................................!5!DALLA!QUESTIONE!ROMANA!ALLA!PACE!DI!VERSAILLES!..........................................!8!IL!NORD!ITALIA!E!LA!TRADIZIONE!MIGRATORIA!ITALIANA!......................................!18!Il#Piemonte#..........................................................................................................#21!La#Lombardia#......................................................................................................#23!Il#Veneto,#l’America#e#le#differenti#correnti#migratorie#italiane#..........................#25!La#Toscana#e#l’Emilia#...........................................................................................#29!La#Romagna#e#la#Lorena#mineraria#.....................................................................#35!L’emigrazione#politica#.........................................................................................#39!
L’EMILIA!E!LA!PROVINCIA!DI!REGGIO!EMILIA!TRA!DIFFICOLTA’!ECONOMICHE!E!SOCIALISMO!...........................................................................................................!44!L’Emilia#Romagna,#regione#dalle#molte#anime#...................................................#44!La#cittadella#del#socialismo#.................................................................................#48!Emigrare#o#lottare?#.............................................................................................#56!
LA!VAL!DI!SECCHIA!DALL’UNITA’!AL!FASCISMO!.......................................................!59!La#Val#di#Secchia,#un#territorio#dalle#diverse#anime#............................................#60!Casalgrande#........................................................................................................#61!Scandiano#...........................................................................................................#63!La#situazione#politica#all’avvento#del#fascismo#...................................................#66!La#via#dell’esilio#volontario#.................................................................................#70!
PARTE&SECONDA:&&LA&FRANCIA&............................................................................&73!
LA!GARE!DE!LYON!...................................................................................................!73!DA!CASALGRANDE!!A!PARIGI!..................................................................................!85!Altri#esempi#di#emigrazione#................................................................................#89!Pietro#Grulli:#un’impresa#“multinazionale”#.........................................................#94!Gli#anni#’30#e#la#Lorena#.......................................................................................#98!
GLI!ANNI!DELLA!GUERRA!E!LE!CITTADELLE!REGGIANE!IN!BANLIEUE!.....................!103!MaisonsSAlfort#..................................................................................................#106!Charenton#.........................................................................................................#111!
CONCLUSIONI&.....................................................................................................&113!
BIBLIOGRAFIA&....................................................................................................&126!
FONTI!ARCHIVISTICHE!..........................................................................................!126!BIBLIOGRAFIA!GENERALE!.....................................................................................!127!
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Nel corso del nostro lavoro di ricerca ci si è avvalsi dell’utilizzo di alcune fonti
documentaristiche ricavate dalla consulta di diversi archivi, sia in Italia che in
Francia. In riferimento a queste, nel nostro elaborato faremo ricorso a delle
abbreviazioni che sono riportate in questa pagina.
Archivio Comunale di Casalgrande = ACC
Archivio Comunale di Castellarano = ACCT
Archivio della Provincia di Reggio Emilia = APRE
Archives de la Préfécture de Police de Paris = APP
Archives Nationals de Paris = ANP
Archives du Val-de-Marne = AVDM
Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale = ACS
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Parte prima: l’Italia
“Faut-il partir? Rester? Si tu peux rester, reste; Pars, s’il le faut”
Le Voyage, Charles Baudelaire
INTRODUZIONE
Nel settembre del 2010 il ministro dell’immigrazione francese Eric Bresson sollevò
un discreto polverone mediatico nel suo paese dopo aver dichiarato al quotidiano Le
Parisien che la missione del suo ministero era quella di “fabriquer des bons
français”1. Tra le varie conseguenze che questa dichiarazione implicava, una delle
più interessanti a nostro parere toccava il concetto di “identità”. Il modello
d’integrazione francese si basa sull’idea che chiunque intenda stabilirsi in modo
permanente sul territorio della Repubblica debba accettare in toto il modello culturale
francese, abbracciando l’ideale nazionale costruitosi a partire dalla Rivoluzione, e
giurare fedeltà alla Repubblica, erede della grande rottura di fine Settecento. Alcuni
hanno definito questo modello come una forma di “etnocentrismo assimilazionista”2
opponendolo al modello tedesco, fondato sullo ius sanguinis e quindi molto meno
inclusivo, o a quello americano, che pur avendo carattere inclusivo tende a
privilegiare alcune correnti migratorie rispetto ad altre3. Il modello francese in sintesi
si propone come il più aperto ad accogliere nuovi cittadini, a patto però che questi
accettino una determinata visione della cittadinanza, e soprattutto, un determinato 1 Le Parisien, 28 settembre 2010 2 Intervista di Cristiano Santori (collaboratore dell’agenzia ministeriale Italia-lavoro) a Fabio Massimo Parenti (geografo), curatore del volume su Gli spazi della globalizzazione, flussi finanziari, migrazioni e trasferimento di tecnologie, Diabasis, Reggio Emilia, 2004. 3 Segnatamente gli emigrati provenienti dai paesi di ceppo germanico, di religione protestante o di tradizione liberale.
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esito del percorso migratorio. Non tutti infatti sono disposti a rinunciare a una parte
della propria identità, e nemmeno a vedere la propria esperienza all’estero come una
soluzione a carattere permanente.
L’Italia e i suoi cittadini emigrati hanno recitato una grossa parte in ognuno di questi
differenti contesti. Ben ventisei milioni di persone4 hanno lasciato la penisola negli
ultimi 150 anni, e non si trattava solamente della stereotipata figura dell’emigrato
siciliano o campano, che è entrata nella leggenda grazie alla cinematografia
americana: il Nord Italia fu un protagonista assoluto in questo fenomeno,
contribuendo per circa il 50% del totale. La maggior parte dei migranti dello Stivale
non salpò infatti per inseguire il sogno americano, e, meno poeticamente, valicò le
alpi per raggiungere le pianure del sud-ovest, la Corsica, la Lorena, il Var, la Savoia,
o magari la città che allora era insignita del titolo di “capitale dell’Occidente”, cioè
Parigi.
Nel presente lavoro si è cercato di evidenziare partendo da una piccola, ma ben
definita e riconoscibile comunità, il percorso, le vicissitudini e i motivi che hanno
spinto queste persone a intraprendere un percorso migratorio che poi non sempre si è
concluso con “successo”.5 Negli ultimi anni e per ovvie ragioni, negli studi
sull’emigrazione si è cercato di privilegiare le esperienze positive, soprattutto da
parte di quei paesi come la Francia, che sono entrati in una fase di ridefinizione
storica del fenomeno; noi riteniamo però che per una migliore e più completa
comprensione di un processo sia utile allo stesso tempo studiare anche le esperienze
di coloro che hanno “fallito”. Sì, perché molti degli emigrati di cui ci siamo occupati 4 Patrizia Audenino, Maddalena Tirabassi, Migrazioni Italiane, Mondadori, Milano, 2008, p. 28 5 Gran parte della storiografia dell’emigrazione intende o ha inteso con “successo” l’integrazione/assimilazione completa dell’emigrato e il suo inserimento stanziale nel luogo d’immigrazione. Ora, come diversi studi recenti stanno evidenziando, i parametri di “successo” e “insuccesso” migratorio stanno decisamente perdendo forza come categorie interpretative del processo migratorio; sono ormai diversi i lavori che si muovono in direzione di una visione meno generalista e teleologica, più indirizzata a mostrare le peculiarità individuali e le ragioni personali dei soggetti studiati, rifiutando le dicotomie emigrazione permanente – integrazione, emigrazione temporanea – non integrazione. A questo proposito Antonio Canovi scrive: “La sostituzione del modello nazionalista - assimilazionista con un modello transnazionale – multiculturale costituisce,alla luce dei processi globalizzati contemporanei, un adeguamento necessario e tuttavia non sufficiente. Serve un cambio di scala, diciamo pure di palinsesto. Piuttosto che la partigianeria per l’uno o l’altro macroscenario sociologico, lo storico delle migrazioni ha da rintracciare sotto la pelle delle “dispersioni” di popolazione le ragioni soggettive del migrante”. V. A. Canovi “L’immagine degli italiani in Belgio. Appunti geostorici”, contenuto in Diacronie N°5 , I, 2011.
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sono rientrati in Italia tra la vigilia e l’indomani della seconda guerra mondiale,
terminando “negativamente”, secondo i canoni classici del tragitto migratorio, il loro
percorso di evoluzione identitaria, con un ritorno al milieu d’origine. Quello che a un
primo sguardo può sembrare un arresto, un abbandono di un percorso evolutivo, si è
rivelato però come un cammino all’insegna della continuità, con l’antifascismo a
costituire il minimo comune denominatore di percorsi e traiettorie differenti.
Per inquadrare e dare uno sfondo storico alla nostra ricerca, siamo partiti dalla
cospicua e ben articolata mole di studi, per lo più compiuti direttamente in Francia,
prodotta sotto il coordinamento del CEDEI (Centre d’étude et documentation de
l’émigration italienne) di Parigi, e li abbiamo integrati con i dati ricavati dalla
documentazione archivistica dei comuni italiani cui appartenevano gli emigrati che
abbiamo studiato. Abbiamo poi incrociato questa ricerca con i dati raccolti presso gli
archivi di Parigi e della Camera del Lavoro, impiegando anche fonti orali, ottenute
mediante le testimonianze dei figli, dei nipoti e di conoscenti di alcuni di questi
emigranti.
Il percorso si articola in due sezioni principali, la prima delle quali riguardante l’Italia
e la situazione del paese al tempo in cui migrare era una scelta comune. Si è tentato di
tracciare un quadro abbastanza preciso della situazione economica e sociale
dell’Italia del tempo, mostrando le differenti peculiarità delle comunità prese in
considerazione e le ragioni che spinsero i più a lasciare la terra natia per la Francia.
Naturalmente si è dato ampio spazio alla notevole influenza che la conquista del
potere da parte del fascismo ebbe sulla situazione dell’Emilia, in particolare della
provincia di Reggio Emilia, dove il socialismo e la forma cooperativa avevano avuto
uno straordinario e precoce sviluppo.
Nella seconda parte si è voluto ripetere il medesimo procedimento, questa volta
concentrandosi sul “milieu parisien” e sulla situazione degli italiani residenti in
Francia, in particolare nella capitale. Anche qui si è cercato di tracciare un quadro
piuttosto dettagliato del contesto socio-economico entro cui si ebbero a inserire i
nostri connazionali, prestando attenzione anche alle implicazioni politiche e
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all’influenza che le vicende francesi ebbero sull’inserimento degli immigrati. Infine,
nelle conclusioni si è tentato di trovare una risposta alle domande con cui si apre il
lavoro: perché partire? Perché restare? Perché tornare?
DALLA QUESTIONE ROMANA ALLA PACE DI VERSAILLES
E’ risaputo che la Francia di Napoleone III ebbe un ruolo fondamentale
nell’unificazione italiana, sia dal punto di vista diplomatico che materiale. Il Secondo
Impero fu infatti il padre putativo del processo unificatorio, pur mostrando in certi
frangenti un atteggiamento piuttosto controverso, che finì per ritardare di quasi dieci
anni l’annessione di Roma e del Lazio al neonato stato italiano. Ciononostante, negli
anni Cinquanta dell’800 lo stato francese fu il più attivo alleato del regno del
Piemonte e il più forte fautore della politica unitaria abbracciata da Cavour. In
seguito all’Unità però, il Regno cercò di darsi una politica di equilibrio, che non gli
inimicasse il concerto delle potenze europee e che gli permettesse nel lungo periodo
di trattare con queste in condizioni di parità; non come nei primi anni
dell’indipendenza, quando la Francia era la principale fornitrice di capitali, di merci e
in generale la vera eminenza grigia dietro cui si muovevano le scelte della monarchia
sabauda, per evidenti ragioni ancora piuttosto fredda nei rapporti con l’Austria-
Ungheria. Allo stesso tempo, i profondi legami con la Francia, che spesso avevano il
sapore della dipendenza, costringevano l’Italia a un’impasse nella questione romana
che, ancora prima di Trieste e Trento, era il principale obiettivo dell’irredentismo
risorgimentale.
Con l’altra grande protagonista della politica europea del tempo, ossia il noenato
regno di Germania, l’Italia cercò fin da subito di attuare una politica particolarmente
attenta, anche se nei primi anni dell’unificazione pareva assai improbabile una futura
alleanza con il Reich.
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“Per il momento, la parola alleanza non gli veniva ancora alle labbra; egli sembrava anzi
propendere per una politica di attesa, salvo a decidere secondo il futuro dettasse, o per una triplice
Austria-Italia-Francia, se proprio la nuova Germania mostrasse tendenze soverchiamente
espansionistiche, o per un’alleanza con la Germania, ove questa, paga dei suoi trionfi militari, si
adattasse a diventare “notre base d’opération continentale pour nos destinées futures dans le
Méditerranée, où la France, et même l’Autriche pour l’Adriatique, sont nos rivales naturelles.”6
Così lo Chabod riassume la visione del ministro degli esteri Alberto Blanc, che nel
1870, a Roma, confidava al Minghetti i suoi piani per l’Italia. Lo storico valdostano
sottolinea come l’atteggiamento italiano nei confronti dei cugini transalpini fosse
pesantemente influenzato dal debito, culturale e politico, che l’Italia aveva contratto a
mo di peccato originale nel momento della sua nascita verso la Francia:
“sentimentale” è l’aggettivo con cui egli riassume i toni e i caratteri della politica
italiana dei primi anni. La Francia era la patria della democrazia, il luogo in cui era
nata la moderna concezione della politica, ma anche dell’uomo; era altresì il
principale punto di riferimento in Europa, e quindi nel mondo, per tutti coloro che
non cercassero nei rapporti con gli alti stati solo meri fini commerciali (ma sia ben
chiaro, questi erano presenti, eccome), nel qual caso Londra era più di un passo
avanti. Parigi era la capitale dell’Occidente, e come se non bastasse il vivido ricordo
del ’93 e delle varie fiammate di giacobinismo che le rivoluzioni del 1830 e del 1848
aveva ravvivato, nel 1871 Parigi divenne teatro del primo trionfo del socialismo, la
Comune. Sia che si fosse nostalgici ammiratori del Bonaparte o delle sue un po’
meno riuscite reincarnazioni, liberali alla Thiers, cospiratori alla Blanqui (ma anche
alla Crispi, quello del primo periodo, ovviamente), la Francia era il presente, ma
soprattutto il futuro, il luogo in cui tutto aveva inizio, cresceva, dirompeva e faceva il
suo roboante ingresso nella Storia. Tutta la classe politica italiana era figlia della
Francia, per un verso o per l’altro; inoltre era stato grazie all’appoggio di Napoleone
III che l’Austria era stata cacciata da Milano, da Modena, dalla Toscana, che il
Veneto e il Friuli erano divenuti finalmente italiani, che si era potuta compiere
6 F. Chabod, “Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896”, Laterza, Roma, 1965, p. 25
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l’impresa dei Mille (ma forse in quel caso si sarebbero dovuti ringraziare
maggiormente gli inglesi) e i Borboni erano stati cacciati da Napoli. La grande sorella
francese aveva insomma proseguito il compito iniziato da Napoleone più di mezzo
secolo prima, liberando dal giogo dell’assolutismo e delle forze del passato la
penisola, rendendola libera e autonoma, affrancandola finalmente da quella
condizione di “campo di battaglia d’Europa”, che dai tempi di Carlo VIII l’aveva resa
terra da preda e bottino per tutte le potenze europee. Questa era l’immagine della
Francia, la quale aveva permesso all’Italia di uscire dal paradigma di Metternich e di
non essere più un’espressione geografica, ma Stato sovrano, unito e indipendente.
Ecco, in verità erano proprio a riguardo delle questioni dell’unità e dell’indipendenza
che nascevano i problemi nei confronti della “sorella latina”. Era vero che l’Austria
teneva in mano ancora Trento e Trieste, due ferite che sanguineranno nell’animo
degli italiani fino al 1918, ma ancora più grave, la Francia impediva con il proprio
veto e i propri soldati di riunire infine la testa, il cuore, l’anima della nazione, la casa
dell’Impero, la città eterna, Roma. Non Torino e nemmeno Firenze dovevano essere
la capitale ma Roma, posta al centro della penisola e al principio della storia della
nazione. Napoleone però aveva bisogno di tenersi strette le simpatie dei cattolici
francesi, gruppo molto influente a Parigi anche nei centri di potere, che vedevano
nella Chiesa il garante dell’ordine sociale e spirituale che tanto bene si confaceva alla
morale e agli affari dei vari Dambreuse7 , dei vari Picard, quella “banda di
avventurieri della politica e della finanza” come li definisce Marx8 che sotto il
Secondo Impero avevano fatto il bello e il cattivo tempo, legando sempre più lo
sviluppo del paese alle masse di operai che avevano contribuito a rendere la Francia
la seconda potenza industriale d’Europa. A dieci anni dall’unificazione Roma era
ancora lì, protetta dai dragoni e dagli ussari francesi, mentre l’Italia si legava ancora
più strettamente alla Francia dal punto di vista finanziario e commerciale.
Come evidenzia Pierre Milza nel suo lavoro sulle relazioni tra Italia e Francia nella
seconda parte dell’Ottocento:
7 Il banchiere la cui moglie diverrà l’amante di Frédéric nell’Éducation Sentimentale di Flaubert. 8 Karl Marx La guerra civile in Francia, edizioni LC, 2002, Milano, p. 14.
11
“Le décennie qui a suivi l’intervention de Napoléon III en Italie a marqué l’apogée de la
pénétration du capital français dans la péninsule. […] La France occupe, pendant le second tiers
du XIXème siècle, le premier rang parmi le créanciers des petits états pré-unitaires –
essentiellement Piémont, Naples et États de l’Église – puis comme fournisseur de capitaux publics
du Royame d’Italie.”.9
Uno dei principali canali attraverso cui il capitale francese prese la via d’Italia fu
Napoli, dove aveva sede un “distaccamento” di quella che nell’800 fu l’assoluta
protagonista della finanza europea, la famiglia Rotschild. Tra il 1861 e il 1864 i titoli
emessi dal governo italiano sono accolti in Francia con un entusiasmo che non si
esaurirà se non negli ultimi anni dell’Impero.10 Per dare un’idea dell’entità del
fenomeno, 2/3 dei 500 milioni di franchi emessi in titoli dallo Stato italiano nel 1861,
furono forniti da capitali francesi.11 Due altre grandi emissioni di titoli di prestito si
succedettero a questa, la prima delle quali fu interamente sottoscritta dai Rotschild. Si
trattava di ben 700 milioni di franchi, che il banchiere riuscì a rivendere sul mercato
parigino nei successivi due anni. Per quanto riguarda l’ultima, il governo reale riservò
una somma di 160 milioni di lire a una sottoscrizione pubblica anche in Italia, mentre
Rotschild prese su di sé il carico dei restanti 425 milioni di franchi. Non tutti i titoli
furono piazzati sul mercato francese.12
Col passare degli anni il governo italiano cercò di prendere in mano i settori più
importanti almeno per quanto riguardava i servizi pubblici quali il gas, l’acqua e le
strade ferrate. Ciò lasciò meno spazio alle possibilità d’intervento da parte dei
francesi, che per questo videro i loro interessi nel regno declinare sempre più.
Tuttavia, all’indomani del 1870 la partecipazione del capitale francese nelle ferrovie
italiane restava piuttosto elevata. 13 Società francesi erano molto attive nelle opere di
modernizzazione delle città italiane, soprattutto nella costruzione di linee per il
9 P. Milza, Français et italiens à la fin du XIXème siècle, Ecole Français de Rome, 1981, Roma, p. 110 10H. Cozic, La bourse mise à la porte de tous, Paris, 1881, pp.321-322. 11 Milza, op. cit., pp.110-111 12 Ibidem 13 Nel 1873 il Regno decise di prendere il controllo diretto delle ferrovie, ma solo nel 1879 la decisione fu ratificata in parlamento ed entrò in vigore a partire dal 1881. V. Milza, op. cit. , p. 114
12
trasporto pubblico, per l’approvvigionamento del gas e dell’acqua, ma anche per la
costruzione di mercati e di macelli pubblici. Questi legami si prolungarono fino a ben
oltre la crisi del 1881. Da Napoli, come detto il principale canale di penetrazione di
questi capitali, a Roma, passando per Venezia, Genova, Milano, Parma, Verona,
Bergamo e La Spezia lo zampino francese si ritrova un po’ ovunque.14 Solo nella
costruzione delle prime linee tramviere si osserva una prevalenza di capitale belga,
mentre per quanto riguarda la rete elettrica, ancora da scoprire, sarà la volta delle
società tedesche di prendere la leadership nel mercato. Anche l’installazione delle
prime compagnie d’assicurazione fu coadiuvata dal sostegno francese. È attorno al
1880 che la maggior parte delle compagnie di assicurazione francese fecero la loro
comparsa nella penisola. In questo novero si può inserire la Fondiaria di Firenze, il
cui capitale era composto in origine in maggioranza da capitali francesi.15
Per quanto riguarda il settore industriale, gli investimenti francesi, seppur presenti,
furono di minor entità, e si concentrano in alcune determinate aree geografiche, per lo
più in imprese di media grandezza a Milano, Livorno, lungo la frontiera francese e la
Toscana. Alcune compagnie minerarie francesi parteciparono nella conduzione e
nello sfruttamento di alcune miniere di ferro in Sardegna e in Toscana, dell’acciaio
all’Isola d’Elba. Diverse banche francesi, in primis Paribas e Société Genérale,
parteciparono poi alla fondazione di alcune banche come il Credito Italiano, la Banca
di Milano, il Credito Lombardo e la Banca di Torino.16
Il settore in cui però i legami tra i due paesi erano più stretti fu probabilmente quello
dei traffici commerciali. Nato in un clima di libero scambio trionfante, fu naturale per
il governo di Torino concludere all’indomani dell’Unità degli accordi destinati a
donare un quadro assai liberale ai rapporti tra Francia e Italia. Una convenzione di
navigazione è firmata il 13 giugno 1862, un trattato commerciale nel 1863. Il primo
consisteva in un trattato di libera navigazione per tutti i navigli francesi e italiani
14 Compagnie generali a Milano e Genova, Gas e acqua a Biella e San Remo, gas a Genova, Parma e Milano, reti idriche a Venezia, Bergamo, Verona e La Spezia. V. Milza, op. cit., p. 116 15 Ibidem 16 Ib., p. 118
13
lungo i tratti di costa nel Mediterraneo, Algeria e isole comprese, ma le coste francesi
dell’Atlantico e della Manica restarono interdette al cabotaggio italiano. Questa
disparità era dovuta al fatto che l’Italia non intendeva penalizzare uno stato che aveva
contribuito così grandemente alla sua fresca unità, inoltre la marina italiana al tempo
era costituita ancora per la maggior parte da velieri; infine questo accordo avrebbe
contribuito almeno in parte a unificare le diverse regioni appena riunitesi, creando un
terreno comune di azione. Il fattore più positivo per l’Italia consisteva nell’apertura ai
prodotti agricoli dell’Italia meridionale nei porti della Francia mediterranea, mentre le
industrie francesi avrebbero potuto così trovare uno sbocco importante. Tout à fait, si
trattava di accordi non incentrati sulla parità di trattamento tra i due stati e anzi,
alcune clausole ricalcavano per certi aspetti i trattati coloniali del tempo. Fino alla
fine del Secondo Impero tuttavia questi accordi furono applicati senza problemi di
sorta, fino a che con lo scoppio della guerra franco-prussiana e la crisi congiunturale
del 1873 si produsse una rottura. A meno di dieci anni dalla ratifica dei suddetti
trattati, in entrambi i paesi si evidenziava una chiara tensione verso politiche
protezionistiche. Ciò provocò in Italia dei seri problemi per quel che concerneva le
industrie alimentari e agricole del sud, che videro chiudersi uno dei mercati più
importanti per le loro merci, mentre le industrie del nord ebbero delle difficoltà a
smerciare i loro prodotti al sud, dove il livello di vita della popolazione spesso non le
permetteva di indossare i panni del consumatore di prodotti non primari. Questa
politica tuttavia permise all’ancora debole apparato produttivo del Nord di svilupparsi
senza subire l’agguerrita concorrenza delle industrie straniere, maggiormente
avanzate e quindi capaci di realizzare prodotti più a buon mercato; al sud queste
tendenze furono molto meno apprezzate per ragioni opposte, visto che era proprio il
basso prezzo dei prodotti agricoli italiani a permettere la loro commercializzazione
all’estero. 17 Insomma, riprendendo le parole dell’allora primo ministro Crispi “In
tutte le guerre ci sono dei morti e dei feriti”, e in questa guerra doganiera l’Italia fu
quella che ne ebbe il maggior numero, soprattutto al sud.
17 Per una più chiara e dettagliata trattazione delle variazioni nella bilancia commerciale tra Italia e Francia fino alla rottura doganiera del 1888, v. Milza, op. cit., pp. 118-155
14
Se, come detto, la Francia esercitava un’importante influenza sulla politica,
l’economia e l’opinione pubblica italiana, allo stesso tempo nella penisola era
presente una altrettanto riguardevole corrente di pensiero gallofoba, che aveva le sue
radici nell’ondata antinapoleonica diffusasi in Italia a seguito dell’occupazione
transalpina e della Restaurazione. Il Risorgimento ai suoi albori aveva infatti
individuato nella Francia del Gran Corso il tiranno da abbattere, il barbaro invasore
che aveva prima tradito e poi impedito all’anima della nazione di librarsi e trionfare
finalmente sulle forze disgregatrici che opprimevano l’inclita Italia. Vittorio Alfieri,
considerato uno dei padri della futura Italia unita, tributò alla Francia un’intera opera,
Il Misogallo,che già nel nome evidenziava con efficacia lo spirito con cui parte
dell’opinione pubblica italiana, soprattutto nella parte più colta, cominciò a vedere la
nuova Francia rivoluzionaria e bellicosa, sicuramente più vicina al barbaro invasore
che alla portatrice di democrazia quale si dipinse ella stessa in quegli anni.
Di sé parlando (che altro mai non fanno)
Osano i Galli dir: Nazïon grande.
Ove di ciò il perché tu lor domande
Che alleghin fatti aspetteresti l’anno.
Numerosa, dir debbono; e si spande,
Pur troppo inver di Libertade a danno,
Della genìa loro garrulo malanno,
Che in bei detti avviluppa ore nefande.
Grande fu Roma; Atene grande, e Sparta;
Perché amplissime egregie eccelse cose
Fer, con cuor grande, e suppelletil’arta:
Ma costor, che di arroganza han dose
Grave pur tanto, e si fan grandi in carta,
Turbe son di Pigmei fastidiose18
18 V. Alfieri, Il Misogallo, Sonetto XIV pt. II, Paravia e comp., 1903, Torino-Roma-Milano-Firenze-Napoli.
15
Lo Stesso Mazzini era il più autorevole patriota e pensatore antifrancese: nella
Francia dell’Ottantanove egli non vedeva un inizio, ma la conclusione di un periodo
storico19. Il genovese, che pure in gioventù aveva visto nella Francia quella portatrice
di civiltà e democrazia che avrebbe potuto davvero incivilire il resto dei popoli
europei, aveva radicalmente mutato d’opinione in seguito alla svolta conservatrice
presa dalla monarchia di luglio; politica poi perseguita e portata ad un più alto e
pericoloso livello dal Secondo Impero dell’odiato despota Napoleone III.
“Gli animi – scriveva Mazzini nel 1848 – sono volti tutti alla Francia: tutti guardano alla Francia,
come a quella dalla quale pendono tutti i fati europei: concentramento altamente pericoloso:
indizio di servitù radicata ancora negli animi e nelle abitudini. Perché la Francia, per favore di
circostanze, per unità compatta, per lo spirito sociale, ivi più che altrove diffuso, e per intelletto
delle cose salito a più alto grado, è costituito senz’alcun dubbio centro potentissimo d’attività e di
incivilimento europeo: ma non esclusivo, non l’unico. L’Europa degli uomini liberi non riconosce
oggi mai dittature assolute di principe o di nazione […] La Francia si è addormentata in viaggio.
[…] E’ tempo di emanciparsi: tempo di dire a se stessi, e alla Francia, che la civiltà non può
rimanere, perché una nazione rimane… che altri popoli hanno levato la testa, e incominciano ad
intendere la propria missione”.20
La caduta del Secondo Impero e l’avvento della Repubblica spinsero però molti
esponenti della politica italiana, sia a destra che a sinistra, a riconsiderare la
posizione nei confronti della “grande maestra di democrazia”, come la definì
Garibaldi, il quale, assieme ad un gruppo di volontari partì di fatti in soccorso della
Repubblica (non appoggiato dal governo italiano) riportando anche qualche piccolo
successo sui prussiani nei dintorni di Dijon. Questa azione, di scarsa entità e di ancor
più debole efficacia in verità, ebbe ripercussioni molto più importanti in Francia che
non Italia, contribuendo a diffondere l’immagine dell’italiano, o meglio del
19 Impermeabile a ogni ideologia con derivazioni socialiste, e allo stesso tempo convinto che la caduta di Napoleone avesse chiuso definitivamente un’epoca della storia europea, il genovese non riteneva la Francia di Napoleone III capace di azioni positive per l’Italia in fieri; egli riteneva anzi che i transalpini avrebbero preferito che questa si costituisse a guisa di una debole confederazione, in modo da poter esercitare direttamente la propria influenza su di essa. V. G. Mazzini, Opere, Daelli Editore, Milano 1861, p. 389 20 G. Mazzini, da Dell’Ungheria, cit. in M. Scioscioli, Giuseppe Mazzini, i principi e la politica, Alfredo Giuda Editore, Napoli, 1995, pp. 131-132
16
garibaldino combattente per la libertà e amico della Francia. Nella penisola invece,
l’iniziativa non godette di un grande appoggio, almeno da parte delle forze politiche,
in quanto fu giusto la guerra franco-prussiana a permettere all’Italia di riprendere la
futura capitale. Proprio Roma fu l’atto che permise all’Italia di liberarsi, almeno in
parte, da questa sorta di riconoscenza nei confronti della nazione francese, e con essa
si riaffermarono alcune questioni irredentistiche riguardanti le “terre italiane” che la
Francia controllava in base ad accordi “ingiusti”, strappati al Piemonte necessitoso di
appoggio militare e politico, cioè la Savoia e soprattutto Nizza, la città di Garibaldi.
Considerando che Nizza e il Var furono due dei luoghi prediletti dalla prima ondata
migratoria italiana, si può evincere quale clima attendesse gli emigrati cisalpini al
loro arrivo in quella vecchia provincia genovese, ove in pochi decenni la scuola
repubblicana e l’inquadramento amministrativo francese avevano trasformato
profondamente le coscienze di tanti cittadini italiani (più della metà dei nizzardi era
di origini italiane). Questi si trasformarono nei più accesi nemici degli “invasori”
italiani, accanendosi al contempo contro quella parte di sé che cercavano di rinnegare
in nome di una francesizzazione tanto più cruenta e forte proprio perché imposta e
sentita come unico mezzo d’integrazione a una nazione tutt’affatto estranea.
Il concetto di “nazione”, che nella questione nizzarda, trentina e triestina veniva
continuamente tirata in ballo, in Italia doveva ancora assumere una definizione ben
precisa. Insita nell’idea francese di “nazione inclusiva” vi era un evidente contrasto
con gli interessi italiani, in quanto proprio nel Mediterraneo questa pareva dover
spingere le proprie spinte espansionistiche; inoltre la questione alsaziana, e ancora,
quella corsa e nizzarda dimostravano come la Francia potesse annettere senza
problemi gruppi a tutti gli effetti “stranieri”, a patto di ottenere (verbo che può essere
sostituito in diversi casi dal termine “imporre”) da questi un’adesione al modello
culturale francese e la fedeltà alla Repubblica. Ideale che per un’Italia con lo sguardo
volto verso Trento e Trieste non poteva essere accettato. Vi era poi da pensare alla
grandezza della Patria, a quella gloria che l’Italia non era ancora riuscita a
conquistarsi sul campo di battaglia (anzi, c’era voluto l’aiuto proprio della Francia
17
per cacciare gli austriaci dal Veneto) proprio quando l’esempio della Germania di
Bismark era piuttosto vivido negli occhi dei politici del tempo, soprattutto a seguito
della sinistra di Crispi. Piuttosto l’idea di nazione naturale, anch’essa un vecchio
concetto di derivazione francese e definita dai confini geografici naturali, pareva la
strada più sincera e autentica da percorrere. Quale nazione, infatti, aveva confini più
definiti dell’Italia, con la cintura alpina e il mare a delimitarla? L’autodeterminazione
andava bene quando si trattava del popolo romano all’indomani della presa di Porta
Pia, meno quando riguardava Trieste, l’Alto-Adige o la stessa Nizza, ove ormai un
paio di decenni di governo francese avevano scavato un solco molto profondo tra gli
autoctoni, pure di origine italiana in gran parte, e gli emigrati italiani che a partire
dagli anni Settanta dell’800 iniziarono ad accorrere in città e nella provincia come
stagionali agricoli o in cerca di lavoro nel settore alberghiero.
Questa la situazione per quanto riguarda le relazioni ufficiali tra i due stati. Quando
però si va a trattare della concreta storia degli uomini e delle persone bisogna tenere
conto anche della mentalità collettiva e dell’azione delle masse e dei gruppi
organizzati in grado di esercitare una qualche forma di pressione sulle stesse. I
medesimi eventi che hanno caratterizzato la prima difficile fase dell’emigrazione
italiana in Francia (i tumulti di Marsiglia del 1881, le uccisioni di Aigues-Mortes e gli
eccidi di Lione nel 1893 e 1894) si possono inscrivere entro un contesto di forte
tensione diplomatica tra i due paesi; allo stesso tempo però, era la stessa presenza
italiana e il conseguente malessere da parte degli operai francesi e dell’opinione
pubblica locale a creare quella situazione di tensione che sfociò in avvenimenti così
infausti per le comunità italiane di emigrati. Pure, non va dimenticata la solidarietà
mostrata dagli operai italiani nel 1901 durante gli scioperi marsigliesi, atto che
contribuì non poco a migliorare l’immagine degli emigrati del Regno e ad allentare la
tensione tra i due versanti delle Alpi. Si può dire dunque che il fenomeno migratorio
fu condizionato e condizionante per quanto riguarda le relazioni tra i due stati; la
stessa cosa si può affermare per quanto riguarda l’accoglienza che i nostri compratrici
ricevettero nell’Hexagone , dove la loro presenza produsse degli squilibri dal punto di
18
vista sociale e lavorativo, ma allo stesso tempo permise alla Francia di far fronte alla
carenza di manodopera che già si avvertiva per quanto riguardava alcuni settori tra i
più dequalificanti e faticosi.
IL NORD ITALIA E LA TRADIZIONE MIGRATORIA ITALIANA
La figura del migrante italiano è spesso fatta coincidere con quella dell’italiano del
sud, proveniente da un ambiente estremamente povero e arretrato, il quale, una volta
sbarcato (perché quasi sempre si pensa all’America, e non all’Europa come alla terra
d’emigrazione privilegiata) nella nuova realtà si insedia presso i quartieri a più alta
concentrazione di emigrati suoi connazionali e riproduce in loco gli stessi
meccanismi sociali e culturali della propria madrepatria. Questo topos più
cinematografico che storiografico, non si confà granché alla situazione che si venne a
creare in Francia tra Ottocento e Novecento e che vede innanzitutto gli italiani
provenienti dalle regioni del nord assoluti protagonisti del fenomeno.
“Si l’on trace sur une carte de la péninsule une ligne allant de Rimini, sur l’Adriatique, à Grosseto
en Toscane, on constate que plus de 85% migrants viennent des provinces situées au nord de cette
limite. Les Piémontais à eux seuls représentent le 28% du total, les Toscans 22%, les Lombards
12%, les habitants del l’Émilie-Romagne 10%, les Vénètes 8%.”21
Prima che il fenomeno migratorio assumesse il carattere massivo che lo distinse
nell’ultimo quarto del secolo diciottesimo, vi era già, in alcune zone della penisola,
una tradizione di spostamenti a carattere per lo più stagionale e temporaneo, che
vedeva protagonisti in maggioranza le genti e le comunità originarie delle vallate
alpine e delle zone più isolate dell’Appennino settentrionale. La differenza
quantitativa e qualitativa tra l’emigrazione preunitaria e quella postunitaria sono 21 P. Milza, Voyage en Ritalie, Plon, Paris, 1993, p. 62
19
piuttosto evidenti, ma certo, le radici di molti flussi migratori e l’exemplum costituito
da questi “pionieri” dell’emigrazione furono molto importanti nel determinare le
modalità e le vie che anche in seguito furono seguite dai gruppi di italiani diretti
oltralpe, in particolar modo verso la Francia. In sintesi, se cambiò il grado e
l’intensità del fenomeno, è indubbio che vi siano diversi aspetti di continuità tra i
collegamenti che videro protagonisti i mercanti, gli artigiani, gli artisti e alcune
comunità sparse per tutta la penisola (ma soprattutto al nord) durante l’età moderna e
che hanno radici fin entro il Medioevo. Il nostro studio infatti, come verrà
argomentato poi, ci ha portato a ritenere che proprio il valore di “tradizione” che
questi primi spostamenti assunsero si sia poi rivelato decisivo nello stabilire le
direttive e le modalità con cui, anche nel pieno della sua intensità, il fenomeno
migratorio si dispiegò. Non si trattò quindi di un’esplosione improvvisa, ma di
un’accelerazione di un’azione già da tempo presente nel territorio tricolore. Ma qual
era l’atteggiamento da parte del governo italiano a riguardo?
Nei primi decenni dell’Unità le politiche migratorie dello stato si basavano ancora
sulla visione mercantilista, che vedeva l’emigrazione essenzialmente come un
fenomeno negativo, che toglieva forze e professionisti qualificati alla nazione. Sino al
1873 non si presero provvedimenti concreti, fino alla cosiddetta “circolare Lanza”,
approvata su spinta dei circoli proprietari agrari che temevano uno spopolamento
delle campagne a seguito di un eccessivo numero di partenze. Nella circolare si dava
indicazione ai sindaci di negare il nulla osta non solo ai giovani in età di leva, ai
militari senza congedo definitivo e agli inabili, ma anche a chi era sprovvisto dei
mezzi necessari per affrontare il viaggio. Queste pratiche ebbero l’effetto paradossale
di permettere l’espatrio solo a chi riusciva a guadagnare da vivere a sud delle Alpi,
mentre negava il permesso di procacciarsi qualche soldo all’estero a chi ne aveva
davvero bisogno, impoverendo ulteriormente il paese. Abolita tre anni dopo su
pressione degli armatori genovesi, i principali beneficiari dei proventi del trasporto
degli emigrati via mare, questa riusciva sgradita anche agli industriali del nord, che
vedevano nell’emigrazione una possibilità di aumento della circolazione di
20
manodopera oltre che un mezzo per permettere agli emigranti di accumulare
all’estero e riportare in Italia qualche ricchezza. Fautore di questa visione fu tra gli
altri il parlamentare bolognese Marco Minghetti, mentre un’altra parte del
parlamento, portavoce dei grandi proprietari terrieri del sud, ma anche del Veneto e
del Piemonte, vedeva con preoccupazione la diminuzione dell’offerta di braccia nei
campi, il che avrebbe significato un aumento dei salari dei braccianti. Anche tra i
favorevoli comunque il fenomeno migratorio era visto come una risorsa momentanea
e non positiva al di là di certi limiti: la prospettiva che incontrava il loro sostegno
infatti era quella dell’emigrazione temporanea, non definitiva. Fu Luigi Einaudi il
primo a teorizzare, col volgere del secolo, che la presenza di colonie d’italiani
all’estero avrebbe contribuito alla crescita del reddito nazionale permettendo una più
ampia circolazione di capitale da e verso l’Italia, creando diversi mercati nei luoghi di
raccolta degli italiani e contribuendo alla costruzione di una “Grande Italia” nel
mondo.22 Furono più i rappresentanti della destra liberale ad appoggiare l’idea
dell’emigrazione come possibile fonte di benessere per l’Italia, mentre i politici vicini
ad ambienti socialisti e sindacali non vedevano di buon occhio il fenomeno, ritenendo
che questa dispersione avrebbe ostacolato la formazione di un partito dei lavoratori a
carattere nazionale. La prima vera legge sull’emigrazione fu così quella targata
Crispi, entrata in vigore nel 1888 e che in sintesi si rivelò un compromesso tra le due
differenti correnti. Pur cercando di limitare le partenze attraverso una serie di vincoli,
questa sanciva di fatto la libertà di emigrare, cercando di tutelare i partenti attraverso
alcune forme di controllo sugli agenti di viaggio, imponendo loro di dotarsi di patenti
statali e agli armatori di fornire le navi di alcune minime forme di igiene e sicurezza.
La legge però non giungeva a tutelare i partenti né prima, né dopo il viaggio,
considerando quindi il fenomeno come una questione individuale e non politica. Fu la
legge Luzzatti, prorogata nel 1901, a introdurre per la prima volta alcune forme di
assistenza e tutela degli emigrati, per mezzo della creazione di un Commissariato
generale dell’Emigrazione,sotto l’egida del Ministero degli Esteri. Oltre ad una
22 P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni Italiane, op. cit., pp. 39-40
21
maggior attenzione al rispetto delle norme d’igiene e sicurezza durante il viaggio,
questa legge voleva garantire una maggiore tutela degli emigrati anche nei porti di
arrivo, curandosi in particolare della situazione di donne e bambini. La pubblicazione
di un “Bollettino dell’emigrazione” poi forniva a coloro che desideravano emigrare
consigli e indicazioni sui luoghi di arrivo. In teoria a queste avrebbero dovuto
affiancarsi altre istituzioni di carattere assicurativo, assistenziale e bancario, dislocate
nei porti, nei luoghi di transito e nelle principali città straniere, ma i mezzi e gli
uomini a disposizione si rivelarono sempre insufficienti affinché queste funzionassero
realmente. Molto più efficaci sotto questo punto di vista furono le organizzazioni
sorte per iniziativa cattolica come l’Opera Bonomelli. Un ruolo di primo piano ebbe
poi un’organizzazione di stampo più vicino agli ideali socialisti come l’Umanitaria di
Milano23. Accanto a questi due istituti maggiori però, non bisogna dimenticare quelle
associazioni, le leghe e le fratellanze sorte per iniziativa privata su base per lo più
provinciale o cittadina, entro cui migliaia di emigrati trovarono sostegno, procurando
loro un lavoro, un alloggio e i mezzi per iniziare la loro nuova vita lontano dall’Italia.
Il#Piemonte#
La prima e la più importante regione, almeno per due terzi del periodo migratorio
intensivo verso la Francia, fu il Piemonte. Il vecchio territorio sabaudo aveva una
lunga storia di legami intessuti con la Francia, basti pensare che la stessa casa di
Savoia fu vassalla del regno transalpino. Nelle alte vallate della regione e della Valle
23 L’Umanitaria sorse nei primi anni del Novecento a Milano, con lo scopo di assistere coloro che intendevano emigrare gratuitamente. Famosa fu la casa dell’emigrato della stazione centrale di Milano, luogo ove chi intendeva partire poteva trovare informazioni sui luoghi di destinazione, l’alloggio per una notte e del cibo, fungendo così da ricovero per coloro che disponevano di scarsi mezzi. Nel 1911 questa toccò la cifra record di 92000 presenze. V’erano diverse sedi distaccate nelle principali località di emigrazione o di transito, oltre a succursali presenti all’arrivo, ove si provvedeva, quando possibile, a procurare un lavoro agli emigrati. L’Opera Bonomelli fu fondata dal vescovo di Cremona nel 1900. Con una funzione analoga a quella dell’Umanitaria, a differenza di questa aveva un carattere spiccatamente religioso e patriottico, e per questo intrattenne ottimi rapporti anche col governo fascista. Molto attiva al Nord, oltre alla funzione di assistenza offriva in molte occasioni agli emigrati anche un impiego, oltre a distribuire il giornale “La Patria”, bollettino fortemente antisocialista e dagli accesi toni nazionalistici. V. Il modello Umanitaria, a cura di Massimo della Campa, Ed. Raccolto Umanitaria, Milano, 2003 e E. Decleva, Etica del lavoro, socialismo, cultura popolare: Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Franco Angeli, Milano 1984. Per quanto riguarda l’Opera Bonemelli invece v. P. Cannitraro, Rosoli G., Emigrazione, chiesa, fascismo. Lo scioglimento dell’Opera Bonomelli, Studium, Roma, 1979.
22
d’Aosta era d’uso la pratica di passare parte dell’anno in terra francese per portavi il
bestiame o per compiere alcuni lavori a carattere stagionale. La continuità territoriale
e la prossimità della lingua avevano facilitato il consolidarsi di queste tradizioni che
già in età moderna erano piuttosto diffuse. Vi era poi la questione di quei territori,
come Nizza, che avevano fatto parte del regno del Piemonte fino al 1859 e che erano
divenuti in seguito parte del territorio francese. Fosse perché la grande politica non
toccava molto le piccole e isolate comunità delle valli piemontesi, fosse perché per
loro i confini erano poca cosa, fatto sta che i montanari piemontesi continuarono a
rinnovare la pratica di sconfinare puntualmente quando la brutta stagione rendeva
difficile l’approvvigionamento del bestiame.24 Altro fenomeno molto importante, e
che accomuna le comunità originarie dell’area alpina piemontese a quella lombarda e
ticinese, è quello che ebbe le sue radici fin nei primi anni dell’età moderna, ossia
l’emigrazione di artigiani. I capimastri, gli artigiani e i muratori che avevano
partecipato alla costruzione della Firenze rinascimentale erano in gran parte originari
della provincia di Biella, e accoglievano nelle loro squadre anche uomini provenienti
dai dintorni del Lago Maggiore, dalla valle del Ticino e ancora a est fino al comasco.
Capimastri biellesi erano attivi nella fabbricazione del duomo di Milano.25 Anche la
situazione e il ruolo della componente femminile all’interno delle popolazioni citate
furono influenzati in modo decisivo dalle strategie familiari votate alla migrazione di
tipo circolare. Le donne a casa dovevano per forza di cose assumere funzioni prima
riservate dagli uomini, sia nel campo della gestione economica che della produzione:
il lavoro domestico doveva sostenere la famiglia e i figli, assieme ai mezzi lasciati dal
capofamiglia; inoltre erano esse stesse a doversi occupare dell’investimento e della
gestione dei surplus derivati dal lavoro lontano dal paese. Una delle occupazioni più
diffuse nella zona del biellese e del novarese era quella dell’industria tessile
casalinga. A questa attività partecipava intensamente tutta la famiglia, ed è così che
molte donne poterono inserirsi nel mercato del lavoro svolgendo un ruolo
24 M. Tirabassi, P. Audenino, Migrazioni italiane. Storia e storie dall’Ancien Régime a oggi, Mondadori, Milano 2008, p. 3 25 Ib., p.10
23
fondamentale all’interno dei nuclei familiari. Questo era un settore che per secoli
aveva garantito buone entrate, permettendo ai mariti di partire senza doversi
preoccupare integralmente del sostentamento della prole, e consentendo così una
maggior durata del periodo speso all’estero da parte del capofamiglia. Con l’inizio
dell’800 il settore conobbe una crisi irreversibile, che costrinse queste donne a
orientarsi verso occupazioni differenti. Anche molti uomini, che prima svolgevano il
mestiere di tessitori come loro attività principale, e che sfruttavano le migrazioni
come un modo per integrare il proprio reddito, dovettero specializzarsi in
quest’ultimo campo per il declino inarrestabile di questo e degli altri mestieri
dell’artigianato. Anche in ragione di ciò l’edilizia assunse sempre più un ruolo di
primo piano nelle scelte occupazionali di buona parte degli uomini originari delle
valli alpine.
La#Lombardia#
Un discorso simile a quello stilato per il Piemonte può essere fatto per l’alta
Lombardia e le sue propaggini alpine, altro grande luogo di emigrazione con
un’importante tradizione alle spalle. Già nel Cinquecento, quando a Roma i cantieri
di San Pietro e della città papale fremevano di attività, numerosi artisti e artigiani
bergamaschi si trasferirono nel Lazio per prendere parte alla realizzazione di queste
opere. Anche le altre grandi città italiane del Rinascimento funsero da straordinario
polo d’attrazione, non solo per gli artisti, gli artigiani e i lavoratori provenienti da
queste zone e dal resto della penisola. I cantieri della Firenze dei Medici, di Venezia e
di Ferrara attirarono schiere di uomini provenienti da ogni parte dello Stivale, e la
Lombardia, soprattutto nella sua parte più settentrionale, fu tra le regioni più attive in
questo traffico di uomini. La stessa storia dell’arte testimonia come artisti quali
Caravaggio e Lorenzo Lotto non fossero certo dei pionieri nel loro vagabondare tra le
città della penisola, ma si rifacessero in ciò a una tradizione ben radicata in
Lombardia, la quale aveva le sue radici nelle pratiche delle botteghe artigianali che
24
erano solite ricevere e inviare apprendisti in tutta la penisola. Per quanto riguarda i
mestieri più comuni, i muratori bergamaschi erano rinomati in tutti gli stati italiani
per la loro abilità e la loro mitezza di carattere; essi erano inoltre disposti a trascorrere
lunghi periodo lontani dalla famiglia e avevano fama di lavoratori instancabili.
Questa fama li contraddistinse non solo in tutti gli stati italiani, ma anche in Svizzera
e in Germania dove non era insolito nel corso dell’ultima parte dell’età moderna, ma
fin anche all’inizio dell’800, trovare qualche gruppo di specialisti edili originari della
città lombarda. Questo discorso può più in generale essere esteso a tutto l’arco di
territorio che dalle alti valli lombarde arriva sino alla regione cuneense, una zona che
per usi e costumi appare piuttosto uniforme. Con la somma dei diversi studi che, a
partire dagli anni settanta del secolo scorso hanno preso in esame diverse comunità
alpine, è stata individuata nella regione insubre il polo di emigrazione più importante
del Nord Italia; una zona in cui storicamente e per un lungo periodo di tempo
l’emigrazione, quasi sempre temporanea, è stata una componente abituale del
percorso lavorativo e di vita delle popolazioni locali. La prossimità territoriale con
paesi bisognosi di manodopera come la Svizzera, la Francia e la Germania,
l’isolamento delle comunità montanare, la costante sovrappopolazione delle regioni
d’origine e la loro altrettanto costante povertà e scarsità di lavoro erano le condizioni
“ideali” per creare una tradizione migratoria che fungesse da naturale valvola di
sfogo anticrisi per la struttura socio-economica locale, che in questo modo trovava il
modo di conservarsi. Non si trattava però solo di una soluzione attuata in tempo di
crisi. Per lo più si trattava di strategie familiari volte non tanto a liberarsi di bocche da
sfamare, ma di ottenere redditi aggiuntivi. Questa tradizione era ben radicata nelle
società insubri, e spesso, senza preoccuparsi troppo dell’estrazione regionale, questi
gruppi di lavoratori si riunivano in squadre per partire verso i cantieri di tutta Europa.
Basti citare l’esempio di San Pietroburgo, capitale voluta e realizzata da Pietro il
Grande nel Settecento ad opera per lo più di capimastri e artigiani biellesi, ticinesi e
lombardi. Si hanno traccia di squadre originarie delle medesime zone anche a Vienna
e nelle principali città austriache e bavaresi. È in relazione a questi fenomeni (cui
25
vanno aggiunti gli omologhi tedeschi e francesi) che lo storico francese Fernand
Braudel ha definito le alpi come il “serbatoio di uomini per le pianure” dell’Europa
moderna26. Si trattava nella stragrande maggioranza dei casi di fenomeni migratori a
carattere circolare, com’è tipico anche per le altre regioni del Nord che abbiamo
preso in esame per questo periodo storico. Partendo da una più o meno ampia base
familiare, che spesso forniva gli effettivi delle diverse “squadre” di artigiani e operai
edili che partivano alla volta delle capitali Europee, si ripresentava nei rapporti
gerarchici lavorativi la situazione del villaggio: si venivano così a creare patronati e
affiliazioni che si mantenevano anche all’esterno della comunità di appartenenza. Il
villaggio era altresì il luogo in cui il “successo” della migrazione temporanea si
esternava, magari con la costruzione di una grande casa familiare o con
l’allargamento dell’appezzamento di terreno. Questo sistema, che a grandi linee può
essere applicato anche all’Emilia, al Piemonte e alle altre zone di emigrazione
stagionale di artigiani e operai edili, si incrinò solo nell’800, quando il valore dei
mestieri artigiani conobbe una crisi mortale e il capitalismo, con tutto il suo bagaglio
di condizionamenti sociali fece il suo ingresso anche tra le silenziose valli montane
dell’Italia settentrionale. Nonostante i cambiamenti e il modificarsi della situazione di
queste comunità nel corso del Novecento, questi meccanismi erano così consolidati
che si costituirono flussi consistenti di muratori bergamaschi anche in direzione
dell’Australia, il paese d’emigrazione più difficilmente raggiungibile e lontano
rispetto alla penisola.
Il#Veneto,#l’America#e#le#differenti#correnti#migratorie#italiane#
Per quanto riguarda il Veneto, il Friuli e le Venezie, sappiamo esistesse anche in
quelle terre una tradizione abbastanza importante di contatti e movimenti di uomini a
26 Cfr. Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1966, p. 46.
26
carattere stagionale, soprattutto in area austriaca27 e germanica. Diversi abitanti delle
vallate alpine orientali erano soliti trasferirsi durante i mesi in cui c’era meno da fare
al paese in Austria e negli stati tedeschi del sud per compiere alcuni lavori di carattere
stagionale, vuoi come taglialegna, vuoi per lavori di riparazione vari o per le comuni
incombenze agricole; in queste aree in generale la manodopera italiana era impiegata
per lo più nei lavori pesanti e che richiedevano meno qualificazioni. Soprattutto nelle
alte vallate del Friuli la migrazione stagionale in area germanica divenne un’usanza
piuttosto radicata, che contribuì in maniera molto decisa a modificare le abitudini e la
struttura lavorativa delle comunità, che attraverso questi spostamenti riuscivano a
racimolare qualche soldo in più, oltre che a permettere alla famiglia di “liberarsi” per
qualche tempo di molte bocche da sfamare. Esemplare è il caso dei cramars
provenienti dalla Carnia, il cui nome derivava dalla crama, il bauletto piatto che
questi uomini portavano sulle spalle, riempito non solo di stoffe, vetri e cristalli, ma
anche di spezie e medicinali. Già a fine Seicento quest’attività coinvolgeva quasi il
30% degli uomini della regione che, sovente, a partire dagli anni a cavallo tra il
Seicento e il Settecento, convertirono il loro esodo stagionale in emigrazione
permanente, aprendo negozi fissi in diverse città dell’Impero asburgico.28
L’inasprirsi dei rapporti con gli imperi centrali, la crisi economica degli anni ottanta
dell’800 e in particolare in seguito al primo conflitto mondiale, moltissime comunità
si ritrovarono a dover languire a causa degli effetti delle devastazioni belliche, la
mancanza di mezzi, denaro e ora anche di sbocchi lavorativi temporanei, spingendo
diversi soggetti a percorrere la via dell’emigrazione transoceanica. Solo a seguito
delle nuove politiche migratorie adottate dagli Stati Uniti a partire dagli anni venti,
anche per le popolazioni venete e friulane la Francia divenne la prima destinazione in
ordine di preferenza. Il Johnson Act del 1924 infatti assegnava ad ogni stato una
percentuale di emigrati che avrebbero potuto sbarcare negli Stati Uniti. Questo
27 Dopo la pace di Aquisgrana del 1748 e fino all’Unità, diverse zone oggi italiane furono soggette direttamente o meno al dominio austriaco, il che favorì la circolazione di uomini e scambi. Questo naturalmente fu solo un ulteriore motivo di sviluppo di una pratica che si era radicata nelle pratiche locali attraverso i secoli. 28 M. Tirbassi, P. Audenino, Migrazioni Italiane, op. cit, p.8
27
riduceva di molto le possibilità degli italiani, per cui allora la destinazione oltre-
oceanica era l’opzione principale, almeno per la più parte degli emigranti. Questa
politica rispecchiava in parte la nuova ideologia che si andava diffondendo nella
classe politica americana, la quale, bisogna dirlo, anche con qualche fosco risvolto
razzista (ma quale nazione europea può vantarsi di essere state immune a queste
pratiche?), affermava che vi erano immigrati più adatti ad uniformarsi alla cultura
americana e che era quindi preferibile favorire l’arrivo di genti tedesche, scandinave e
britanniche rispetto agli emigrati del sud Europa. La distanza culturale, si diceva, era
troppo ampia e questa credenza si appoggiava sull’oggettivo stato di arretratezza
delle economie delle nazioni mediterranee (Francia esclusa) oltre che dalla fin troppo
evidente povertà e limitatezza culturale delle schiere di disperati che ogni giorno
sbarcavano a Staten Island con valige di cartone e pochi stracci come bagaglio, senza
conoscere non solo l’inglese, ma spesso neppure l’italiano. Allora come oggi a
emigrare erano per lo più uomini provenienti dalle fasce più basse della piramide
sociale, spesso uomini senza risorse e istruzione, esponenti delle realtà più arretrate e
isolate della nazione. In effetti, di fronte alla benpensante borghesia della costa est,
quella più tradizionalista e legata agli “ideali delle origini”, la tipica figura del
siciliano con la coppola, il vestito nero, con a fianco la moglie nascosta dal fazzoletto
legato in testa, poteva comprensibilmente destare qualche remora. Tra gli strati
popolari invece, come spesso accade, l’arrivo di genti straniere è sempre avvertito
come una minaccia per l’integrità sociale e per la situazione lavorativa delle classi
operaie.
I figli degli italiani spesso erano lasciati crescere con scarse abitudini igieniche e
venivano lasciati a spasso per le strade delle Little Italys, dove parlavano una lingua
incomprensibile a quasi chiunque, e quivi trascorrevano la maggior parte del loro
tempo, lontani dalle scuole, le principali porte verso l’integrazione, fatta eccezione
forse per qualche istituto legato alle missioni cattoliche. La religione poi era un
ulteriore fattore di separazione, dato che i cattolici in America erano una minoranza, e
non certo quella che destava le maggiori simpatie, anche se la presenza di molti
28
irlandesi in questo senso poteva costituire un fattore di avvicinamento29. Gli esempi
delle laboriose genti tedesche, così ben istallatesi su tutto il territorio, integratisi con
successo fin dalla prima generazione e che facevano parte della stessa grande
famiglia protestante a cui gli americani si sentivano intimamente legati, erano lì per
testimoniare che quello era il tipo di persone che meglio avrebbe potuto fare parte del
grande sogno americano. Gli italiani se ne stavano rinserrati nei loro quartieri, in
comunità piuttosto chiuse, finivano spesso al centro della cronaca per liti e reati ed
erano impiegati nelle occupazioni meno nobili. C’erano poi pregiudizi diffusi
ereditati dalla tradizione nordeuropea che aveva ereditato dalla cultura delle
popolazioni germaniche un senso di superiorità innata nei confronti delle genti latine,
non troppo diverso d’altronde da quello che ancora oggi contraddistingue realtà
differenti come Midi e Francia del centro nord, la nostra penisola, ma anche gli Stati
Uniti e l’America Latina. D’altronde nella stessa Italia gli emigrati del sud non
venivano accolti in modi molto diversi quando si recavano nelle grandi città della
Pianura Padana. Mia nonna, reggiana doc da innumerevoli generazioni, raccontava
spesso divertita di come a Milano, vedendola scendere in strada con un foulard in
testa (tradizione contadina piuttosto diffusa anche al Nord nel periodo invernale)
entro cui raccoglieva i suoi capelli neri, la vicina di casa avesse domandato a mio
nonno “Neh, la sarà minga siciliana la signora?”.
Tornando all’emigrazione veneta, questa situazione spinse così molte genti del nord-
est a cercare “nuove americhe” dove le porte erano ancora aperte per gli italiani: e
dove più della Francia si presentava una combinazione maggiormente favorevole? La
prima guerra mondiale aveva visto la Repubblica perdere 1.397.000 francesi, ossia il
27% degli uomini tra i 18-27 anni, pari a più del 12% della forza lavoro totale30 ; visti
gli ingenti danni provocati dalla guerra di posizione, in particolare nel nord-est, c’era
un evidente bisogno di manodopera per la ricostruzione che solo l’immigrazione
29 Cosa che in realtà non avvenne, anzi, i rapporti tra la comunità irlandese e quella italiana all’inzio non furono per nulla semplici. 30 M. Huber, La population de la France pendant la guerre, Presses Universitaires de France, Parigi, 1999 (1931 la prima edizione).
29
poiteva offrire. Bisogna infatti considerare che sin dalla fine dell’800 la Francia
aveva un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa, il che, sommato a queste perdite la
costringeva ad aprire le porte ai giovani lavoratori stranieri affinché questi
lavorassero nelle sue industrie o nelle spopolate lande del sud-ovest, dove
l’agricoltura languiva a causa dell’abbandono dei campi da parte di giovani francesi
che preferivano tentare la ventura nelle grandi città o nelle industrie del nord-est.
Insomma, pur essendo fenomeno piuttosto diffuso quello dell’emigrazione, almeno in
alcune zone del Triveneto, la Francia divenne una meta privilegiata soltanto a partire
dagli anni venti dello scorso secolo. Prima di quella data i veneti si segnalarono come
i più attivi nell’alimentare soprattutto il flusso migratorio tricolore verso il Brasile,
dove costituirono il primi gruppo regionale di nazionalità italiana. Numerose però
sono anche le comunità provenienti dagli antichi territori della Serenissima che
scelsero l’Argentina come loro nuova casa, così come quelli che si stabilirono in
Sudafrica.
La#Toscana#e#l’Emilia#
Nella Toscana invece la tradizione migratoria era un fenomeno molto più recente. Gli
unici esempi in tal senso erano costituiti da alcuni mercanti del settore tessile, da
diversi commercianti, ma soprattutto dai venditori di statuette votive originari di
Lucca che in età moderna erano soliti partire alla volta della Francia per vendere la
loro merce come ambulanti presso i crocicchi, le strade e i mercati delle città francesi.
Queste popolazioni erano per lo più originarie della Garfagnana e della Lunigiana,
zone che avevano visto nel corso della loro millenaria storia numerosi esempi di
migrazione. Vi sono tracce di alcuni abitanti della Garfagnana che nel corso del
Seicento partirono per l’Isola d’Elba, dove vennero utilizzati come vignaioli o come
operai presso le miniere dell’isola. Altri si trasferirono in Corsica per lavorare come
carbonai e taglialegna. Questo fenomeno però, assieme a quello dei suonatori di
30
organetti di barberia e agli ambulanti che dalla provincia di Parma31 si ritrovano un
po’ in tutta Europa nel corso dell’800, va inscritto entro il più ampio campo delle
tradizioni regionali degli abitanti dell’Appennino settentrionale, che nei secoli resero
una consuetudine queste frequenti e quasi stagionali calate verso le pianure per
svolgere le più diverse occupazioni. Anche la creazione e la vendita di statuette a
carattere religioso, che nel corso dei secoli vennero smerciate in tutto il continente,
dalla Russia sino all’Inghilterra e alla Francia, sono una tradizione che accomuna
tutte le popolazioni di origine ligure che popolano i due versanti della parte più
settentrionale dell’Appennino. L’industria lucchese però era particolarmente fiorente,
e nel XVII secolo si è trovata traccia di produzioni in Svezia, in Germania e in
Inghilterra, tutte sotto il patrocinio di artigiani originari della Repubblica di Lucca. La
fama dei “figurinai”, che si diffuse a partire dal Settecento in tutto il continente è da
addurre proprio ai lucchesi. Lo storico americano David Rovai ha descritto in un suo
lavoro il percorso di alcuni figurinai che da Lucca si recarono a Parigi, rigorosamente
a piedi32 ed ha individuato in questi uomini i fondatori della tradizione migrante
toscana e lucchese. Ercole Sori, nella sua opera sull’emigrazione italiana, rileva come
all’interno delle aree rurali di provenienza di questi uomini fosse prevalente la
piccola proprietà terriera e che la “strada” verso il lavoro di figurinaio all’estero fosse
aperta soprattutto ai figli di famiglia, i giovani maschi ai quali mancava un’immediata
prospettiva di emancipazione economica, dovuta all’estrema parcellizzazione delle
proprietà.33 Va segnalato come si abbiano notizie di un discreto numero di persone
che si diresse persino in California, già nei primi decenni dell’800. Di solito si
trattava di uomini che avevano alle spalle una tradizione migratoria familiare
piuttosto estesa, segno che l’esperienza migratoria si perpetuava e accresceva
all’interno dei gruppi familiari, segnandone l’identità.
La regione attraversò un periodo di crisi all’inizio del diciannovesimo secolo, a
seguito di alcuni processi economici negativi e della mancata trasformazione
31 V. P. Milza, Voyage en Ritalie, pp.18-30. 32 David Rovai, Lucchesia, terra di emigrazione, Lucca, Pacini Fazzi, 1993 33 Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla Seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 86.
31
strutturale dell’economia, in particolare nelle regioni appenniniche. La crisi
dell’industria serica, assieme ad una ricorrenza di carestie produsse tra il 1870 e la
prima guerra mondiale un vero e proprio flusso migratorio in direzione delle pianure
toscane, della Liguria, ma anche della pianura padana. Non si trattava ormai più di
partenze casuali o senza un piano preciso, ma di un flusso autoalimentante sospinto
dall’ormai piuttosto diffusa rete di parenti, amici, conoscenti o corregionali che dalla
provincia lucchese e carrarese aveva ormai stabilito un tessuto connettivo collaudato,
il quale agevolava il prosieguo del fenomeno stesso. Proprio l’unità italiana e la
conseguente creazione di un mercato nazionale ruppero gli equilibri sui quali si era
finora basata l’economia della montagna. Anche nella Lucchesia, la rivoluzione del
sistema dei trasporti e il potenziamento delle infrastrutture di collegamento _
facilitando la mobilità _ spinsero la forza-lavoro dalle aree montane verso il
fondovalle. Contemporaneamente, il processo di trasformazione urbana e industriale
allargò il mercato internazionale del lavoro, richiamando braccia per l’edilizia,
piuttosto che l’artigianato, avendo quest’ultimo subito una forte marginalizzazione. È
all’interno di questo contesto economico in evoluzione che la tradizione migratoria
lucchese continua e si riadatta, consolidando rotte e modelli insediativi in un più
ampio scenario. Emigranti parzialmente qualificati (sarti, calzolai e muratori) si
affiancano ora a braccianti, boscaioli e figurinai in cerca di fortuna lontano da casa.
Da questo periodo in poi, l’abitudine lucchese agli spostamenti all’estero, in cerca di
risparmi da accumulare e riportare nella comunità di origine, aprì la strada a un flusso
migratorio che, in pochissime decadi, registrerà un così alto numero di emigranti _ in
Corsica, Francia, Stati Uniti, Argentina e Brasile in particolare _ da eguagliare
l’intera popolazione della provincia di Lucca.34 Si trattò dunque di un fenomeno
tutt’affatto nuovo, ampliato e a carattere regionale, quello dell’emigrazione di
migliaia di abitanti che dalle vallate a sud dell’Appennino si trasferirono in massa al
di là della alpi tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo seguente.
34 M. Paradisi, Emigrazione e assistenza: la Pia Casa di Beneficenza di Lucca in aiuto ai minori divenuti orfani o abbandonati a causa dell’emigrazione negli ultimi vent’anni dell’800 ,in Documenti e Studi, rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, n° 14-15, 1994, p.335.
32
Ad aprire la strada però furono le comunità lucchesi, per lo più originarie delle
regioni montane e più isolate dell’ex Granducato. Il vero spartiacque fu la costruzione
della ferrovia Parma-La Spezia, che attirò un numero molto cospicuo di uomini da
tutte le provincie confinanti. Così molte persone che non avevano mai sentito
nemmeno parlare dell’America vennero a conoscenza del percorso che fino ad allora
solo pochi avevano intrapreso. Inoltre, la possibilità di raggiungere facilmente La
Spezia, e di lì Genova, permise un più facile collegamento tra la zona d’origine di
questi uomini, i luoghi di partenza e gli altri porti d’Italia. Stesso discorso per quanto
riguarda il versante parmigiano, tradizionale portale in direzione della Francia così
come Genova lo era per l’America. Gli unici altri legami intercorsi tra Francia e
Toscana possono essere fatti risalire ai contatti tra il porto di Livorno e le zone
circostanti con i porti francesi del sud, fenomeno però piuttosto trascurabile per
intensità e qualità. Le origini di questi contatti si situa al tempo dell’installazione dei
francos, ebrei di origine spagnola e francese che si insidiarono a Livorno in seguito ai
decreti dei sovrani francesi nel corso del Seicento.
Questi esempi di catena migratoria con radici ben radicate nel corso dell’età moderna,
paiono lo specchio delle vicende raccontate da Pierre Milza, Manuela Martini, Luigi
Taravella e François Cavanna per quanto riguarda l’Appennino Emiliano e le
provincie di Parma e Piacenza. Le mie ricerche mi hanno mostrato come in
corrispondenza del fiume Enza, che separa le province di Parma da quella di Reggio
Emilia, possa essere tracciata una linea di rottura che divide in maniera abbastanza
netta i percorsi migratori delle diverse comunità. Per quanto riguarda le province di
Reggio Emilia, e in parte anche Modena infatti, la stragrande maggioranza delle
persone che decisero di emigrare scelsero la strada dell’America o si fermarono in
Liguria, scendendo verso Genova e la provincia di La Spezia. La questione è
piuttosto curiosa perché si tratta di comunità che per origine etnica (anch’esse
discendono dagli antichi liguri che si rifugiarono sui monti dopo che i Romani
occuparono la regione poi definita Aemilia) e strutture sociali sono assolutamente
paragonabili. Anche i loro rapporti col centro urbano più importante sono
33
assolutamente comparabili. Piccoli insediamenti isolati, che avevano maggiori
contatti tra di loro che con la pianura, se non per pochi e scarsi incontri lavorativi a
carattere temporaneo, i quali avevano luogo nei periodi dell’anno in cui il rigido
clima montanaro non permetteva di svolgere quelle funzioni e quelle occupazioni che
in pianura era invece ancora possibile compiere. Come si spiega ciò?
Quello dell’emigrazione dall’Appennino Tosco-Emiliano è un fenomeno che è stato
ben studiato negli ultimi decenni35:come è ovvio, gli studiosi si sono concentrati su
quelle zone che è risaputo abbiano fornito la maggior parte dei contingenti migranti i
quali hanno dato vita al sorgere di comunità stabili e che nel tempo sono arrivate a
costituire delle vere e proprie petites Italies. Penso ovviamente alla Francia, a
Nogent-sur-Marne e ai quartieri parigini di Charonne, la cui componente italiana, e in
special modo piacentina e parmigiana è stata così ben studiata da Marie-Claude
Blanc-Chaléard nei suoi esemplari lavori36; o ancora alla tesi di Manuela Martini e al
magnifico Voyage en Ritalie di Pierre Milza, senza ovviamente dimenticare l’opera di
Cavanna, Les Ritals37, che è da considerarsi un po’ come il capostipite della
riscoperta dell’italianità, anzi, la specificità emiliana che ha caratterizzato diversi
insediamenti italiani a Parigi. Perché allora i casi di Reggio Emilia, riguardo cui gli
studi di Antonio Canovi e Giovanna Campani hanno contribuito a fare luce, e
Modena, appaiono differenti? Le mie ricerche mi hanno portato a ritenere che il peso
della tradizione38, spesso messo in ombra da considerazioni di carattere economico e
sociale, abbia rivestito un peso assolutamente fondamentale per dare il via_ e quindi
35 V. in proposito M. Martini, L’habitude de migrer. Variation dans les parcours migratoires depuis les montagnes des Apennins émiliens (Ferriere di Piacenza, Italie, 19-20èmes siècles), mémoire de DEA, doctorat d’Histoire et Civilisations EHESS, Parigi, 1992, ma anche C. Douki, Les$ mutations$ d’un$ espace$ régional$ au$ miroir$ de$l’émigration:$ l’Apennin$toscan$(1860;1914) , IEP, Paris, 1996 e G. Campani, Les Réseaux familiaux, villageois et régionaux des immigrés italiens en France, Nice, 1987, Thèse de doctorat. 36 Marie-Claude Blanc-Chaléard. Les italiens dans l'est parisien: Une histoire d'intégration (1880–1960), École française de Rome, Roma, 2000 e, Le Nogent des Italiens, Autrement, Parigi,1995. 37 F. Cavanna, Les Ritals, op. cit. 38 L’uso del termine “tradizione” può essere forse fuorviante, ma contiene in sé quel carattere di intima profondità e di rispetto che se non impone, invita all’emulazione in quanto avvertito come parte fondante della propria identità, quale è possibile cogliere anche nelle tradizioni socialiste diffuse nelle pianure emiliano-romagnole e in particolar modo nel Reggiano. Temporalmente piuttosto giovani al tempo, esse tuttavia contribuirono assieme a diverse altre pratiche derivate dalla tradizione contadina e non solo a plasmare l’immaginario delle migliaia di uomini che contribuirono a gonfiare i flussi migratori in uscita dalla regione nel “secolo migratorio” emiliano. Più avanti nel testo approfondiremo meglio questo cruciale argomento.
34
instaurare nella mente e nell’immaginario delle comunità protagoniste_ alla creazione
di questi percorsi migratori. Spesso iniziati per caso o per iniziativa di pochi e isolati
gruppi, alimentatisi poi attraverso le reti familiari, amicali e comunitarie, questi
fenomeni finirono per introdurre entro società di tipo tradizionale e costantemente
isolate nel tempo e nello spazio, un meccanismo che da risorsa materiale divenne
prima di tutto “tradizione” esso stesso, perpetuando quella che era una soluzione
individuale, temporanea e oggettivamente di difficile attuazione visto l’isolamento, la
precarietà e la lontananza delle destinazioni predilette dall’emigrazione
transnazionale. In una gigantesca azione di emulazione, le comunità montane
dell’Appennino parmense, piacentino e lucchese hanno trovato un modo per
perpetuare se stesse al di fuori delle piccole e grame vallate delle montagne del
Centro-Nord. Come hanno dimostrato gli studi succitati, in origine la quasi totalità
dei partenti lasciava la terra natia con il dichiarato scopo di ritornarvi dopo aver
messo da parte qualche soldo per “ingrandire il campicello dietro casa”. Si trattava
quindi di un tentativo di salvaguardare le strutture sociali e tradizionali della
comunità d’origine cercando all’esterno quelle risorse che la nuova congiuntura
economica e le nuove strutture sociali nazionali _ ormai non più regionali o
provinciali_ non potevano più garantire. Una “fuga temporanea” all’esterno, con un
atteggiamento piuttosto pionieristico, per permettere una cristallizzazione del tempo
storico nel paese di origine.
Non si può nemmeno affermare che queste popolazioni fossero isolate e non avessero
contatti le une con le altre. Come ho potuto costatare consultando gli archivi di
Ramiseto, Ligonchio e Busana, i tre comuni reggiani che confinano con le provincie
di Parma e Lucca, ho potuto osservare come moltissimi matrimoni, quasi la maggior
parte, videro coinvolti abitanti di Palanzano, Pontremoli e altri comuni lucchesi e
parmigiani confinanti che furono protagonisti delle migrazioni verso la Francia. Una
breve riflessione ci ha indotto a ritenere che in diversi casi erano proprio le famiglie
degli emigrati che cercavano di “colmare i vuoti” venutisi a creare con la partenza dei
giovani per la Francia; in questo modo si cercava di rimpolpare la popolazione locale
35
attingendo all’ancora fertile sponda reggiana dell’Enza, dove la tradizione migratoria
era meno intensa e riguardava un insieme di famiglie che nella grande maggioranza
scelsero l’America come destinazione del loro viaggio. Riguardo all’emigrazione da
questi comuni, è risaputo che diversi pastori e braccianti reggiani erano soliti
prendere la strada delle maremme toscane durante la stagione invernale, spingendosi
a volte sino a Grosseto nelle loro peregrinazioni. Da qui a prendere la via
dell’America però, il salto resta piuttosto grande. Perché allora il Brasile, o gli Stati
Uniti (questi furono i luoghi prediletti dai migranti originari delle zone appenniniche
più prossime alla Toscana della provincia di Reggio) e non Milano, Torino, Genova,
Reggio Emilia, Modena, o la Francia come gran parte degli amici e dei compaesani
aveva fatto? E perché così pochi scelsero la Francia? A questo cercheremo di
rispondere nei prossimi capitoli.
La#Romagna#e#la#Lorena#mineraria#
Per quanto riguarda il resto dell’Emilia-Romagna, anche qui è possibile concentrare
la propria attenzione soprattutto sulla zona appenninica, quella che vide il più alto
numero di emigrati lasciare le antiche terre della Romagna per la Francia, in
particolare la Lorena39, ma altresì per le Americhe, per lo più in direzione dei paesi
dell’emisfero australe. Tuttavia, rispetto alla parte occidentale della regione, la parte
orientale si è dimostrata più legata al territorio, iniziando a espatriare in modo
massiccio solo a partire dal 1895, quando la crisi agraria stava per terminare. Il
fenomeno crebbe con l’avvio del secolo e venne rafforzato dal fatto che la
sindacalizzazione massiccia di un gran numero degli operai e dei braccianti della
pianura precluse ai lavoratori della montagna buona parte dei tradizionali sbocchi 39 V. in proposito M. L. Antenucci, Parcours d’Italie en Moselle. Histoire des immigrations italiennes, 1870-1940, Metz, Serpenoise, 2004, S. Bonnet, C. Santini, H. Barthelemy, Les Italiens dans l’arrondissement de Briey avant 1914, «Annales de l’Est», 1 (1962), 48n, e soprattutto A. Ronsart, L’agglomération de Villerupt-Thel-Audin-Le Tiche. Étude urbaine”, Nancy, 1964
36
lavorativi. Assieme proprio ai lavoratori non sindacalizzati, molti montanari partirono
così per la Lorena e il Sud America, dove si specializzarono come “carriolanti” nelle
costruzioni edili e nelle industrie estrattive. In regione le pratiche estrattive erano
praticamente sconosciute, fatta eccezione per le cave di sabbia vicino al Po, zona
piuttosto lontana comunque dai paesi di origine dei sopraccitati abitanti
dell’Appennino romagnolo. Viene da pensare alla polivalente figura dell’immigrato
italiano come si è tramandata nel pensiero comune francese. In ogni modo, il caso più
emblematico è quello riguardante alcuni paesi del Montefeltro, dove si ha notizia di
casi in cui più di metà della popolazione si portò in Francia, attuando oltralpe un vero
e proprio transfert della comunità del villaggio di origine.40 Un percorso migratorio,
questo seguito dagli abitanti del Montefeltro, che si dimostra differente rispetto a
quello della grande maggioranza dei migranti dell’Emilia, in particolar modo di
Parma e Piacenza, ove la tradizione migratoria si evolse attraverso i decenni,
partendo da un piano che aveva nel ritorno, nella cura e nel mantenimento della casa
natale, l’obiettivo primario, e che solo col tempo si spostò in direzione di una
permanenza continuativa nel luogo di immigrazione. Una delle caratteristiche degli
emigrati da questi territori è infatti la unilateralità del percorso migratorio41. Si tratta
di casi isolati, che hanno più in comune con i medesimi processi che videro coinvolti
i marchigiani che si mossero in direzione dell’Argentina, ma che nondimeno invitano
a riflettere sulle peculiarità che, affiancando e superando i modelli generali o
regionali, caratterizzano ogni filiera migratoria, e dell’importanza che le strutture
sociali, economiche e lavorative rivestono nel modificare o nel plasmare il progetto di
migratorio, sia alla partenza che all’arrivo42.
40 “On assiste alors à une transplantation de villages italiens dans le département. Ainsi Mercato-Saraceno, Gualdo Tadino, Cesena, Arcevio, Pergola, Sassoferrato, Gubbio, se retrouvent dans le nord de la Moselle, à Audin-Le-Tiche et Ottange”. M.L. Antenucci, op.cit. p.299 41 Per una più approfondita trattazione della questione migratoria monfeltrina rimandiamo al capitolo curato da Amoreno Martellini in Emigrazione e storia d’Italia, a cura di Matteo Sanfilippo, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2003 42 In questa direzione si è mossa tra gli altri anche Flavia Cumoli nel corso del suo lavoro sulle realtà operaie di Sesto San Giovanni e de La Luvière in Belgio. “L’ipotesi dalla quale siamo partiti è che sebbene la nuova vita operaia dei migranti debba essere analizzata come risultante delle strategie individuali e familiari, queste si elaborano in un ambito più o meno ristretto di possibilità determinato dalle strutture dei rapporti sociali […] è necessario analizzare innanzitutto, al di là dei flussi e dei riflussi di popolazione, delle strategie migratorie sviluppate da individui o gruppi, delle condizioni di lavoro trovate nei contesti di arrivo, le condizioni di esistenza materiale e la natura e le modalità del
37
In Lorena43 il primo dopoguerra fu un periodo di grande mobilitazione lavorativa: la
zona fu ovviamente tra le più colpite dalla durezza del conflitto e c’era moltissimo
lavoro sia nella prospera industria mineraria che in quella chimica, così come
nell’edilizia. Lo spopolamento della regione poi, per molti versi comparabile a quello
che colpì il sud ovest agricolo studiato da Laure Teulières44 , unito alla poca
inclinazione mostrata dai francesi nei confronti delle occupazioni nelle miniere e
nell’industria, contribuì a incrementare la domanda di manodopera straniera, che fino
a quel tempo era stata abbastanza ridotta e limitata a poche migliaia di italiani, un
numero minore di polacchi e soprattutto di belgi. Bisogna considerare infatti che era
l’Alsazia45 la parte della regione più sviluppata sino ai primi anni del Novecento,
visto che la vena mineraria lorenese fu individuata solo nell’ultimo decennio del
diciannovesimo secolo, e che la regione era stata per secoli un luogo a forte
tradizione contadina. Gli originari della regione non amavano l’invasione di stranieri
che caratterizzò il boom minerario, ma allo stesso tempo amavano ancora meno la
prospettiva di farsi proletari e divenire operai, status che lasciavano volentieri agli
allogeni. Con la fine della Grande Guerra e la riunificazione del territorio all’Alsazia,
la regione divenne il vero fulcro dell’industria francese, ma anche una “grande
caserma” dove l’esercito e gli ingegneri militari andavano e venivano per costruire
fortificazioni, strade, collegamenti e concentravano apparati militari in vista di una
nuova e non impossibile guerra con la Germania. Vi era quindi moltissimo lavoro per
uomini che, come gli emigrati italiani del tempo, erano abituati alle fatiche del lavoro
manuale e che non avevano molte riserve nel farsi operai, abbandonando una
condizione contadina che non offriva loro molte migliori possibilità.
Per la gran parte degli emigranti romagnoli tuttavia, per molti anni, il percorso
migratorio era stato una soluzione temporanea, con un viaggio di andata ma anche un
viaggio di ritorno in direzione del villaggio d’origine, dove ad attendere gli uomini
rapporto instauratosi tra i migranti e lo spazio”. V. Flavia Cumoli, Periferie e mondi operai: immigrazioni, spazi sociali e ambiti culturali negli anni ’50, tesi di dottorato in Storia d’Europa, Bologna-Bruxelles, 2009, p.15 43 La fonte principale per la storia lorenese, qui e più avanti nel corso della trattazione è Gérard Noiriel con il suo Longwy, immigrés et prolétaires (1880-1890), Presses Universitaires de France, Paris, 1984 44 L. Teulières, Immigrès d’Italie et paysans de France 1920-1944, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse, 2002 45 Dal 1870 al 1918 territorio tedesco.
38
restavano le mogli, la famiglia e i figli. Fu solo verso la fine degli anni venti del
secolo scorso e soprattutto negli anni trenta che diverse famiglie cominciarono a
trasferirsi nelle città che erano sorte per ospitare gli operai italiani. Villerupt,
Thionville, Briey, erano tutte poco più che villaggi alla fine dell’800, ma erano
cresciute a dismisura con l’arrivo degli operai stranieri e la costruzione di alloggi e
servizi per questi. Ormai si trattava di città piuttosto grandi, dove l’elemento italiano
era ben inserito visto i diversi decenni di permanenza in loco. Anche rapportati
all’altra grande comunità immigrata presente, cioè quella polacca, gli italiani erano
meglio inseriti, i matrimoni misti più frequenti, e i nostri compatrioti iniziavano a
salire nel collocamento sociale, accedendo a professioni più “nobili” quali la
ristorazione, il commercio al dettaglio, la gestione di locali. Importante anche la forte
presenza di italiani all’interno della CGTU, il principale sindacato francese, dove un
buon numero di originari della penisola era direttamente coinvolto, ricoprendo anche
cariche di prestigio ed esercitando una sensibile influenza su larga parte di operai che
di lì a pochi anni sarebbero divenuti cittadini francesi e avrebbero preso parte alle
sollevazioni operaie che agitarono la regione durante la crisi del 1932 e negli anni
seguenti46. In sintesi l’installazione dei romagnoli in Francia, ricalca in parte il
“modello appenninico” valido per la parte occidentale della regione e la Toscana, in
parte si differenzia da esso, in particolare per quanto riguarda le zone del Montefeltro,
storicamente e culturalmente più legate agli altri abitanti della stessa comunità trans-
regionale, e quindi più simili nelle loro strategie ai gruppi di migranti marchigiani.
Inoltre, per quanto riguarda i romagnoli, rispetto agli emiliani l’entità e il numero dei
loro effettivi che partirono per la Francia fu inferiore e si concentrò soprattutto
nell’est dello stato transalpino, in particolare nella zona mineraria lorenese.
46 Vedere anche Gérard Noiriel, Le fascisme italien dans le bassin de Longwy pendant l'entre-deux-guerres, actes du « Colloque International de Luxembourg Le rôle politique de l'immigration italienne dans les pays de l'Europe du Nord-Ouest (1861-1945) », 4-5 mars 1983, Risorgimento, n°1-2, pp. 139-145, e dello stesso autore, Les immigrés italiens en Lorraine pendant l'entre-deux-guerres: du rejet xénophobe aux stratégies d'intégration, contenuto in Les Italiens en France de 1914 à 1940, a cura di Pierre Milza, Ecole Française de Rome, Roma, 1986, pp. 609-632
39
L’emigrazione#politica#
Bisogna infine spendere qualche parola sull’emigrazione politica. Classicamente si fa
risalire all’epoca napoleonica l’avvio di un fenomeno che rivestì una discreta
importanza a livello nazionale nel consolidare la presenza e la figura degli italiani
nell’Esagono. In seguito, durante il risorgimento questa tradizione si rafforzò, e la
Francia inizio ad essere vista come la terra della libertà, erede della tradizione
rivoluzionaria. Un’accelerazione importante si ebbe naturalmente durante le guerre di
unificazione, quando i francesi affiancarono i soldati piemontesi e italiani sui campi
della Lombardia e del Veneto. Va sottolineata ancora una volta l’importanza che
l’intervento di Garibaldi a fianco della neonata seconda repubblica rivestì per tutto il
periodo che va da Sedan alla Grande Guerra. L’eroe dei due mondi infatti dopo la
caduta di Napoleone III si schierò a fianco della repubblica e si mosse, assieme ai due
figli per formare un battaglione di italiani. “Ieri vi dicevo, abbasso la Francia del
tiranno Napoleone III. Oggi vi dico, viva la Francia, terrà di libertà!”, questo il
motto con cui il nizzardo sbarcò a Marsiglia nell’autunno del 1870, ricordiamolo,
senza l’appoggio del governo italiano. Il battaglione de l’Argonne, così vennero
ribattezzate le 5000 camicie rosse che il sessantenne generale guidò contro il meglio
equipaggiato esercito prussiano nei dintorni di Dijon. Nonostante le sorti della guerra
fossero ormai segnate, la vittoria, probabilmente di piccola entità, che Garibaldi
riportò contro un battaglione tedesco presso la vecchia capitale della Borgogna fu un
momento importante per i futuri sviluppi nelle relazioni tra i “combattenti per la
libertà” di varia natura politica che decisero di emigrare in Francia e la nazione
transalpina. Da segnalare la presenza di numerosi volontari emiliani nelle file dei
garibaldini.47 È sempre nelle file dei garibaldini che nel 1914 si forma il battaglione
d’immigrati italiani che, sulla spianata degli Invalides si offre di combattere a fianco
della Francia nonostante l’Italia fosse allora alleata formalmente con gli imperi
centrali. Sotto il comando di Ricciotti Graibaldi, uno dei figlii dell’eroe, il quale dal
1870 aveva continuato a vivere in Francia, si radunano ancora una volta circa 5000 47 P. Milza, Voyage en Ritalie, op. cit., pp 265-267
40
uomini, che avrebbero potuto essere molti di più se il governo francese non avesse
scoraggiato l’iniziativa, diffidente verso questi battaglioni di stranieri. Non se ne fece
nulla, ma nel 1918, quando in Italia gli austriaci erano stati ormai ricacciati oltre
quelli che sono ancora i confini nordorientali della penisola, non si contano le
migliaia di soldati italiani che soccorsero l’armata francese ancora alle prese con il
ben più duro avversario teutonico sulla Marna. I grandi cimiteri di guerra del nord-est
della Francia però sono tutt’ora lì a testimoniare per gli italiani caduti in soccorso
della Francia.
Nella regione emiliano-romagnola fu soprattutto durante il periodo successivo
all’Unità che il fenomeno dell’emigrazione politica assunse un carattere importante.
Negli archivi della Préfécture de Police di Parigi vi è traccia di un buon numero di
italiani su cui verteva il sospetto di propagandare idee socialiste e soprattutto
anarchiche. Senza voler scomodare i vari Andrea Costa, e gli altri grandi leader
progressisti che a cavallo tra i due secoli svolsero parte della loro opera politica in
Francia, basta dare un’occhiata alle cartelle riguardanti la Concentrazione
Antifascista, la Ligue Italienne pour les Droits de l’Homme (LIDU), o le società di
mutuo soccorso attive nella capitale sin dagli ultimi anni del secolo decimo nono, per
trovarvi un gran numero di attivisti, politici o semplici lavoratori originari della
regione. A titolo di esempio, possiamo segnalare una cartella concernente il Circolo
Operaio Italiano, società di soccorso mutuale costituita per decreto prefettuale del 27
luglio 1881, con sede in boulevard Voltaire 99. Si trattava di un’organizzazione di ex
garibaldini che si prefiggeva il compito di trovare un alloggio agli immigrati appena
giunti a Parigi e di fornire loro cure mediche o aiuti nella cura dei figli in caso di
malattia o incidenti sul lavoro. Presidente e fondatore della società era Joseph
Cavalli, al secolo Giuseppe Cavalli, ex combattente originario della provincia di
Parma. Egli verrà espulso tre anni dopo per manifeste simpatie socialiste, ma la
società gli sopravvivrà diversi anni.48 Anche Reggio Emilia è nominata più di una
volta (oltre ad essere confusa un paio di volte con l’altra Reggio, Reggio Calabria) e i
48 A.P.P., Dossiers diverses, Italiens, Ba 2168, b.1
41
nomi di Bellelli, anarchico-socialista (non vi erano distinzioni, entrambi erano
sinonimo di facinorosi e agitatori) e Vezzani, anarchico anch’egli49, hanno un sapore
inequivocabilmente reggiano.
Non tratteremo in questa sede della tradizione migratoria del centro e del sud Italia.
Con questa ricerca si vuole mettere in evidenza come i percorsi migratori studiati
possano essere inscritti nella tradizione migratoria del Nord, caratterizzandosi come
un fenomeno peculiare di alcune zone della Cisalpina e delle regioni montuose; una
tradizione importante, che contribuì in modo pregnante a segnare i successivi intensi
fenomeni migratori, condizionando anche le scelte delle comunità reggiane che
abbiamo preso in esame. I percorsi migratori che hanno coinvolto diverse regioni del
centro e del sud della penisola presentano strutture e modalità per diversi aspetti
differenti, che pur incrociandosi alle volte con gli itinerari intrapresi dai connazionali
a nord dell’appennino settentrionale, prendono il via in contesti e ambienti che
differiscono da quelli che abbiamo tentato di analizzare nel nostro studio. Le
comunità protagoniste del nostro studio si inseriscono evidentemente in un quadro cui
fa da cornice la tradizione migratoria del nord Italia. Inoltre ci teniamo a uniformarci
alla tipologia di analisi seguita dal gruppo del CEDEI che ha individuato alcune zone
di “continuità” a partire da cui ogni ricercatore ha poi svolto le proprie indagini. Gli
esempi e le tradizioni alpina e appenninica costituiscono non tanto un fattore di
condizionamento endogeno rapportato alle abitudini migratorie italiane, quanto validi
esempi delle prassi attraverso cui diversi tragitti migratori si sono espletati, e il loro
studio ha permesso per analogia di individuare dei modelli che si sono rivelati molto
utili nel comprendere i meccanismi tramite cui la migrazione è divenuta un percorso
comune da un percorso individuale e isolato quale era in principio nella stragrande
maggioranza dei casi. Per quel che concerne la nostra ricerca, questi modelli ci sono
stati di fondamentale aiuto sia per quanto riguarda il percorso metodologico che
quello cognitivo di ricerca. Tra i Ritals di Cavanna e i casalgrandesi, gli arcetani e gli
49 A.P.P., Dossiers diverses, Italiens, Ba 2168, b3-4
42
scandianesi, ci sono tante somiglianza, dalle abitudini alla lingua, ma anche alcune
differenze che sono in parte da imputare alle caratteristiche specifiche della provincia
di Reggio Emilia, una delle culle del socialismo, del sindacalismo e del
corporativismo italiano, ma anche ai diversi rapporti che queste comunità ebbero con
la realtà provinciale e italiana. Fattore fondamentale di distinzione ad esempio è la
mancanza di un punto di riferimento nell’immaginario _ ma anche ben presente nella
realtà _ come la “via Francigena”; un percorso viario e di comunicazione che fin dai
tempi dei Longobardi aveva tenuto in contatto questi sperduti villaggi di montagna
con la pianura e con l’Europa del Nord, la Francia avanti a tutti. Nell’800
naturalmente, vista anche la situazione economica non certo raggiante della penisola,
a cui va aggiunta la netta diminuzione del peso che la religione50 occupava ormai
nell’influenzare le scelte migratorie delle persone, questo percorso aveva perso molto
della sua antica importanza, ma restava ancora vivo nella memoria collettiva di
queste popolazioni come queste strada, che Pierre Milza descrive come “chemin de
poussière ou de boue, qu’avaient empruntée durant des siècles les hommes de ce
terroir niché au creux de la montagne appennine […] les paysages quasi déserts qui
avaient été la toile de fond de leur jeunesse et de leur misère”. 51
Regione tradizionalmente meno propensa a percorrere la soluzione migrante,
l’Emilia-Romagna risulta pur sempre la quarta regione per ordine di importanza nella
storia dell’emigrazione verso la Francia. Reggio Emilia è la terza provincia, dopo
50 La via Francigena venne, secondo la tradizione, riattata dai Longobardi negli ultimi anni del VIII secolo e divenne in breve una delle strade meglio tenute e più battute della penisola. Questa era anche la via di comunicazione principale tra i ducati toscani e la capitale longobarda, Pavia. I Franchi in seguito continuarono a utilizzare questo percorso, che poteva mettere in comunicazione Roma con il centro Europa in un periodo in cui non vi era un’altra via di pari importanza. Nel Medioevo divenne dunque il principale percorso che non solo gli eserciti, ma anche i commercianti e i pellegrini seguivano per attraversare la penisola o per uscirne, seguendo magari la via dello Champagne e delle sue fiere o il cosiddetto “cammino di Santiago”, fino alla Spagna nord-occidentale. Questa strada dimostra di mantenere ancora una certa importanza in età moderna, se è vero che Carlo VIII la percorse nella sua venuta in Italia nel 1494. Finché l’Italia, i suoi mercanti e i suoi banchieri, mantennero un ruolo di prim’ordine a livello continentale questo percorso continuò a rivestire una grande importanza. La mutata situazione economica e politica evidenziatasi con l’inizio del Cinquecento e le guerre d’Italia (dove ancora questo percorso è utilizzato dagli eserciti stranieri) portò gli staterelli italiani e la via Francigena sulla strada della decadenza, senza però decretarne la morte. Infatti i girovaghi e gli ambulanti italiani, di cui si è parlato nelle pagine precedenti la continuarono a percorrere nel loro cammino verso il Nord Europa, tenendo viva questa tradizione sino all’età contemporanea. Per un quadro più storico completo v. R. Stopani, La via Francigena. Una strada europea nell’Italia del medioevo, Le Lettere, Firenze, 1988, oppure La via Francigena, a cura di R. Greci, CLUEB, Bologna, 2002. 51 P. Milza, Voyage en Ritalie, p.30
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Parma e Piacenza, in questa classificazione52. Ma cosa c’è di così particolare in
questa trascurabile striscia di terra, stretta tra i fiumi Enza e Secchia, tra il grande
corso del Po e l’Appennino?
52 ISTAT Annuario statistico dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925, Roma, 1926
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L’EMILIA E LA PROVINCIA DI REGGIO EMILIA TRA DIFFICOLTA’ ECONOMICHE E SOCIALISMO Nel volume curato da Patrizia Audenino e Maddalena Tirabassi53, le autrici si
sforzano di porre l’accento sul carattere polidirezionale dell’emigrazione italiana.
Come disse Primo Levi “In ogni angolo del globo è possibile trovare un napoletano
che fa le pizze e un biellese che fa i muri”, una frase che ben sintetizza il carattere
globale dell’emigrazione italiana, la quale si è calcolato ammonti a circa 26 milioni di
effettivi tra l’Unità e il 1970. Allo stesso tempo però è vero che gli studi a carattere
regionale compiuti in questi ultimi anni hanno evidenziato come si siano sviluppate
delle “specializzazioni regionali” e come alcune regioni e provincie abbiano
privilegiato alcune destinazioni rispetto ad altre. Per quanto riguarda le regioni
settentrionali è poi possibile individuare alcune macroregioni come l’Insubria, a
cavallo tra Piemonte, Lombardia e Svizzera italiana, che dal biellese arriva a
comprendere le terre dei laghi sino al comasco; questa macroregione si specializzò
nell’emigrazione di uomini impiegati per lo più nei mestieri edili. Il Triveneto, che fu
protagonista per quanto riguarda l’emigrazione in Brasile (tre quinti del totale del
milione e più d’italiani emigrati nella terra scoperta da Vespucci). Il Canavese in
Piemonte e la sua tradizione di contatti col sud della Francia, e diverse altre, tra cui la
zona appenninica settentrionale che ha il suo centro nella parte meridionale delle
provincie parmense e piacentina, ma che era unita come accennato nel capitolo
precedente alla provincia lucchese e carrarese dalla via Francigena.
L’Emilia#Romagna,#regione#dalle#molte#anime# Per quanto riguarda l’ambito da noi studiato, ossia la provincia di Reggio Emilia, non
è possibile includerla completamente in quest’ultima “microregione migratoria”.
Ragioni storiche si sommano a fattori eminentemente contingenti e ad alcune 53 P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni Italiane, op. cit.
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peculiarità che la differenziano dalle confinanti provincie di Parma e Lucca. Prima di
occuparcene però è necessario fare una premessa circa la caratterizzazione della
regione emiliano-romagnola, e a certe sue peculiarità da cui derivano alcune delle
differenze che la contraddistinguono rispetto al resto del nord Italia.
Risale ormai a più di un secolo fa l’inizio del dibattito riguardante la dimensione
monadica della regione, che pur vantando un’origine addirittura risalente ai tempi
della ristrutturazione provinciale italiana di Augusto, nel tempo si è contraddistinta
più per il suo carattere policentrico che per la sua unitarietà. Secoli di frazionamento
in ducati e piccoli regni d’altronde non hanno solo confuso la testa di migliaia di
studenti, che sulle cartine dell’Italia moderna dimenticavano sempre un ducato o lo
attribuivano all’influenza della nazione sbagliata; le differenti provincie hanno avuto
cammini propri, i cui retaggi ancora fino ai nostri giorni si sono ripercossi sulla loro
evoluzione socio-economica54. Nell’Emilia ad esempio si è sviluppata una sorta di
dicotomia tra i due ducati di Parma e Modena, che ha visto il primo attirare a sé
Piacenza e il suo territorio, mentre il secondo ha esercitato un’influenza analoga su
Reggio Emilia. Vi è poi la più netta differenzazione tra Emilia e Romagna, che ha
radici non solo politiche, ma che rimontano a ben prima del medioevo. L’Emilia-
Romagna è divisa in maniera abbastanza netta in due zone, che seppur abitate dalle
medesime genti (ma questo non è del tutto esatto perché nelle zone più interne
dell’Appennino vivono popolazioni di origine ligure, anche se da due millenni ormai
unite alle vicende dei discendenti dei Boi che popolano la pianura), hanno
lungamente costituito due realtà distinte. La pianura, infatti, sin dai tempi dei romani
ha costituito una realtà produttiva caratterizzata da un’economia integrata a carattere
prevalentemente agricolo, gravitante attorno ai centri urbani. Un discorso simile può
essere esteso a tutta la regione per quanto riguarda le città nate sulla via Emilia, da
Piacenza a Rimini, con differenze minime da caso a caso. Attorno ai castra sorsero
diversi insediamenti che, vista la latitanza dei vecchi centri di potere romani nella
54 Questa e altre questioni inerenti la regione sono presentate con maggiore precisione e ampiezza nel libro di Massimo Montanari, M. Ridolfi, R. Zangheri, Storia dell’Emilia Romagna, Laterza, Roma-Bari, 2004. Nella stessa direzione si muove lo studio di Augusto Vasina nel suo Comuni e signorie in Emilia e in Romagna, UTET, Torino, 1986
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pianura, assunsero un’importanza e un’influenza sempre crescente per tutta la parte
finale dell’alto medioevo. A seguito della vicenda canossana, le città tornarono pian
piano ad assumere la loro funzione di centro di potere per le varie provincie,
arrivando a poco a poco a controllare tutte le zone del contado in pianura, fino a
includere quegli stessi castelli in cui prima si esercitava il potere effettivo. È noto
però di come occorsero diversi decenni, a volte secoli, alle città, poi divenute comuni,
per esercitare un effettivo controllo anche sulle zone montuose dei loro dominî.
Questa situazione si ripresentò puntualmente in età moderna, anche se nel corso del
medioevo i contatti e gli scambi tra pianura e montagna s’intensificarono
nuovamente, soprattutto per merito del lascito culturale longobardo, che influenzò
profondamente la cultura alimentare e non solo delle popolazioni delle pianure.55 In
ogni caso la cesura tra le comunità contadine o cittadine della pianura e quelle della
montagna si mantenne sino alla tarda età moderna. Per quanto riguarda le provincie
di Parma e Piacenza, la presenza di un asse viario importante come la via Francigena
consentì agli abitanti di Bettola, Farini dell’Olmo, Ferriere, Bardi e delle altre realtà
montane di mantenere un costante, seppur sporadico, punto di contatto non solo con
la pianura, ma con l’Italia e il resto dell’Europa, visto l’importante traffico di uomini
e merci che le attraversavano. Leggermente inferiore per importanza, ma con
un’analoga funzione, si può considerare anche l’asse viario che da Bologna giungeva
a Pistoia e da lì poi proseguiva verso Firenze (attraverso il passo della Futa). Per
quanto riguarda la provincia di Reggio Emilia invece, l’unica via di una certa
importanza presente è la via del Cerreto56. Promessa dal duca di Modena già nel ‘500,
quando Reggio Emilia divenne un importante centro della produzione serica italiana,
questa fu realizzata solo negli anni dell’Unità, quando ormai l’economia reggiana si
barcamenava tra la sussistenza e la produzione di surplus agricolo. Discorso simile
anche per Modena57, dove l’asse cittadino era nettamente orientato verso nord, in
55 V. M. Montanari, La fame e l’abbondanza, storie dei alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1993 e dello stesso autore Storia dell’Emilia Romagna, Laterza, Roma-Bari, 1999. 56 V. O. Rombaldi, Dall’Emilia al mar Tirreno, in “Gli Appunti”, n° 14, 2002. 57 La via Giardini-Ximenes, anche conosciuta come via dell’Abetone, dal passo montano che attraversa, e che permetteva di raggiungere la Toscana dal Brennero venne terminata solo a metà Ottocento. Questa come la stessa via del Cerreto, vide la luce dopo una gestazione plurisecolare solo quando le esigenze militari austriache la resero un affare
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direzione di Ferrara, Mantova e Verona, mentre comunità come quelle del Frignano
possedevano un alto grado di autonomia58 e avevano creato un circuito economico
per larghi tratti autarchico59 e che spesso li portava ad emigrare in direzione delle
maremme toscane e delle pianure del Lazio60. Ciò non impedì comunque a diverse
centinaia di uomini delle montagne di scendere in pianura a più riprese per
partecipare ai lavori di bonifica, al riattamento degli assi viari, all’abbattimento delle
mura cittadine o a quelle occupazioni a carattere più o meno occasionale che
attirarono sempre un buon numero di muntanér. Come detto però, si trattava per lo
più di occupazioni temporanee, che richiedevano qualche mese di lavoro, magari
distribuiti su diverse annate, ma ad ogni estate la maggior parte di queste persone
rientrava presso la comunità di origine per partecipare ai lavori agricoli tradizionali.
Non si hanno dati precisi su queste pratiche, ma cenni sono presenti in diversi
documenti risalenti sino all’epoca dell’instaurarsi del ducato estense a Reggio Emilia,
quando il duca, per imbonirsi i nuovi sudditi e per far fronte alla disoccupazione
reclutò diverse migliaia di persone per i lavori di bonifica nella zona della bassa. In
generale, al di là di queste iniziative estemporanee, è possibile affermare che la
frammentarietà territoriale e la mancanza di contatti commerciali e non solo fosse
una caratteristica del territorio ducale, almeno sino al diciannovesimo secolo61.
di stato. A proposito scrive Gino Badini che “ormai lo stato estense si andava estinguendo nelle sue radici modenesi e gravitava nell’orbita della politica austriaca, alla quale, premeva di avere in Italia strade facilmente percorribili dai suoi eserciti, che dalle Alpi raggiungessero facilmente la Toscana”. In G. Badini, Il Cerreto e la sua strada: un futuro con radici antiche, Provinci di Reggio Emilia, Reggio Emilia, 2006, p. 20 58 Secondo gli statuti del 1392 gli abitanti del Frignano “[…] sint populi de per se, Territorium de per se, et commoda aut incommoda sint unicuique particularia, divisa et propria”. In Armeno Fontana, “Il Frignano nello Stato di Modena” in Lo Stato di Modena. Una capitale, una dinastia, una civiltà nella storia d’Europa, Atti del convegno di Modena, 25-28 marzo 1998, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, Modena, 2001, p. 501 59 “[…] quei mondi delle montagne a cavaliere dello spartiacque appenninico che si mantennero lungamente e ostinatamente ai margini dello stato”. Marco Cattini, “Per un profilo dell’economia modenese nei secoli XVII e XVIII”, in Lo Stato di Modena…, op. cit., p. 67. Vedere anche Pierpaolo Bonacini, Terre d’Emilia. Distretti pubblici, comunità locali e poteri signorili nell’esperienza di una regione italiana (secoli VII-XII), CLUEB, Bologna, 2001 60 V. A. Fontana, Il Frignano nello Stato di Modena, op. cit., p. 509 61 “Davvero ogni comunità, ogni feudo era un mondo economico a parte, contraddistinto da una stretta autarchia produttiva e consuntiva. Le gabelle statali, comunali e feudali scoraggiavano movimenti di merci sia in uscita che in entrata, attuando di fatto una politica iperprotezionistica a vantaggio delle produzioni agricole e manifatturiere locali. Nello stato estense, insomma, non v’era alcuna parvenza d’un mercato unico, il che intralciava non poco i movimenti di merci ed era freno agli scambi. Esisteva, dunque, un vero e proprio arcipelago di mercati locali […]” M. Cattini, “Per un profilo dell’economia modenese nei secoli XVII e XVIII”, in Lo Stato di Modena…, op. cit., p. 49
48
La#cittadella#del#socialismo#
Queste differenze di carattere storico finirono per influire in maniera diretta sui
successivi sviluppi delle vicende e delle attitudini delle diverse “fasce abitative” in
regione. Con l’Unità, le cose migliorarono leggermente, se non altro perché gli
spostamenti tra un luogo e l’altro della nazione divennero più agevoli. Non pare però,
almeno a giudicare dai dati consultabili presso gli archivi di Reggio Emilia, che molti
montanari fossero soliti superare il Po per recarsi nelle risaie di Piacenza, quelle della
provincia di Pavia o di Vercelli, dove invece era molto facile trovare diversi reggiani
provenienti dai comuni della bassa.62 In effetti le comunità montane della provincia
reggiana dimostrarono una scarsa tendenza alla mobilità se paragonate a quelle dei
comuni confinanti di Lucca e Parma. Più simili in questo, ancora una volta, ai
corrispettivi della provincia Modenese e sintomo che oltre quattrocento anni di
accorpamento avevano creato più di un legame tra le due comunità provinciali.
Un altro aspetto assolutamente fondamentale per inquadrare l’ambito entro cui la
Grande Migrazione toccò anche l’area emiliano-romagnola è contesto politico. È
risaputo, infatti, che la regione fu una delle più suscettibili all’iniziativa
propagandistica socialista, che in Italia iniziò a prendere piede a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento. Già in questo periodo fu la Francia il tramite per mezzo di cui le
idee socialiste fecero il loro ingresso nella penisola. A onor del vero, il terreno si
dimostrò fin da subito particolarmente fertile, almeno per quel che riguardava la città
e le zone della bassa. Qui la crisi agraria aveva colpito duramente un sistema di
produzione che per secoli si era retto sul binomio “famiglia e podere, in cui gran
parte delle relazioni economico-produttive e sociali trovavano compiutezza”.63 La
crisi aveva costretto numerosi agricoltori a contrarre dei debiti per cercare di far
fronte al drastico calo dei prezzi delle derrate agricole, il frumento in particolare, il
quale era la coltura nettamente predominante nella regione. Diversi piccoli
62 F. Cazzola, Strutture agricole e crisi sociale nella Valle Padana del secondo Ottocento, Annali dell’Istituto Alcide Cervi n° 5, 1983, p. 31. 63 F. Cazzola, Le campagne emiliane dall’Unità alla prima guerra mondiale. Note storiografiche, Annali dell’Istituto Gramsci, n° 7, 1985, pp. 181-182
49
proprietari, non potendo far fronte ai debiti, si videro così costretti a vendere l’ultima
loro proprietà, ossia la loro forza lavoro, divenendo così braccianti e lavoratori a
giornata. Altri invece, più fortunati, puntarono su un’altra risorsa di cui ancora
potevano disporre, ossia il bestiame, nella fattispecie le vacche. Queste presero nel
corso dei decenni il posto che prima era stato dei bovi, svolgendo assieme ai lavori di
aratura anche quello di produttrici di latte e vitelli, prodotti che assunsero una
posizione sempre più importante nell’economia della provincia. La riconversione a
latte ebbe successo, ma fu proprio la situazione venutasi a creare con la crisi agraria,
che ridusse molto i proventi derivati dalla cerealicoltura, a spingere i piccoli
proprietari in questa direzione. È sempre in questi anni che presero piede molte leghe
contadine, le quali si proposero di riunire gli agricoltori cercando di proteggere coloro
che si trovavano in difficoltà economiche, ma soprattutto, unì il fronte dei lavoratori
della terra, conferendogli un carattere di classe che riuscì poi a fronteggiare i tentativi
da parte del padronato di trasformare, sull’esempio del modello lombardo, i rapporti
di produzione presenti64. A differenza di quello che avvenne in diverse altre zone
d’Italia, anche durante la crisi questi uomini non scelsero in massa la strada
dell’emigrazione per cercare altrove quel lavoro che la madrepatria non era più in
grado di offrirgli, ma confortati dall’opera delle leghe cercarono di resistere alla crisi
combattendo per ottenere, o nel peggiore dei casi mantenere, un trattamento degno da
parte della classe proprietaria.
Questa diffusa presenza di leghe contadine costituì un importante fattore di
limitazione per quanto riguarda l’emigrazione. Cifre alla mano infatti, la regione
risulta decisamente meno protagonista rispetto a quelle confinanti: uno studio
compiuto da John Macdonald65 sulle campagne italiane ha evidenziato come le
regioni ove la classe contadina era più unita, e la presenza di leghe contadine riusciva
a contrastare almeno in parte la pressione della classe dei proprietari, si rivolsero in
misura minore all’emigrazione come soluzione del conflitto sociale. Regioni come la
64 Ossia la diminuzione dei poderi, sostituiti da grandi possedimenti a conduzione indiretta, retti da pochi proprietari che vi applicavano un sistema di produzione votato alla massimizzazione dei profitti e all’esportazione. 65 John Stuart Macdonald, Agricultural Organization, Migration and Labour Militancy in Rural Italy, “The Economic History Review”, 16 n.s., 1, 1963
50
Calabria invece, ove gran parte della classe contadina viveva in condizioni di estrema
povertà e non si risolse alla creazione di un numero significativo di associazioni e
leghe agricole, furono caratterizzate da un ampio ricorso all’emigrazione come mezzo
per sfuggire alla durissime condizioni di vita che attanagliavano gran parte della
popolazione. Come afferma Antonio Canovi nella sua tesi di dottorato presso l’École
des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi66 o nel suo studio sulle “piccole
russie” della provincia67, i reggiani cercarono di costruire a Reggio la patria del
socialismo, e non avevano quindi bisogno di fuggire o cercare altrove quelle
condizioni sociali e politiche che sembravano così lontane invece in altri contesti
italiani.
Reggio Emilia si era segnalata già nel periodo dei moti nazionali come una delle città
italiane più caratterizzate da una forte componente anarchica e anticlericale, in un
periodo in cui, potremmo dire, tra le dottrine che sarebbero poi state sostenute da
Bakunin e Marx non v’era una differenza troppo netta. Nelle nostre ricerche presso
gli archivi di Parigi abbiamo trovato diversi nomi di reggiani nelle liste dei soggetti
ritenuti potenzialmente pericolosi o propugnatori di ideali sovversivi a stampo
anarchico-socislista. Insomma, pur essendo una zona a bassissima concentrazione
industriale, sicuramente se paragonata a zone come la Lorena, la cintura parigina, ma
anche alla Lombardia, la Liguria o Torino, l’Emilia fu caratterizzata da un forte
impronta “rossa” che divenne parte del bagaglio identitario, ancor prima che
strettamente politico, di buona parte della classe contadina. Questo fu un altro fattore
di divisione rispetto alla parte montana della regione, dove le idee socialiste ebbero
molta minor presa sulle masse per lungo tempo.
Dopo l’unificazione, l’assetto produttivo della provincia reggiana fu contraddistinto
da una serie di eredità e consuetudini passatiste che rendevano l’apparato industriale
del vecchio ducato di Reggio una realtà in cui un’industria agricola primitiva
66 A. Canovi, Parcours migratoires et typologies d'installation dans la Region parisienne ; la sociabilite politique des "reggiani" et le cas de Cavriago-Argenteuil (XIX-XX siecles), Ecole des Hautes etudes en Sciences Sociales, Paris, 1996. 67 A. Canovi M. Fincardi. M. Mietto, M.G. Ruggerini, Memoria e parola: le «piccole Russie» emiliane. Osservazioni sull'utilizzo della storia orale, in Rivista di Storia Contemporanea, vol. 3, 1995, pp. 385-404
51
manteneva segni di vistose strozzature anti modernizzanti.68 Il territorio provinciale
poteva essere diviso in tre fasce (la montagna, la collina o colle piano, e la pianura,
quest’ultima a sua volta divisa in alta e bassa pianura), dove l’agricoltura era praticata
da differenti tipologie di soggetti economici: i piccoli proprietari particellari della
zona montuosa e i piccoli affittuari, i mezzadri, i boari e gli avventizi, concentrati
soprattutto nella bassa. La mezzadria era senza dubbio il rapporto contrattuale più
diffuso, di gran lungo il preferito da un ceto proprietario molto restio a modernizzare,
ma anche scevro da adeguate cognizioni agronomiche69, e in sostanza soddisfatto
della stabilità sociale che garantiva il contratto mezzadrile. Ad eccezione della fascia
pedecollinare, dove l’estensione delle foraggere consentiva già una discreta attività di
allevamento e di trasformazione in prodotti latto-caseari, l’agricoltura reggiana era
imperniata decisamente sulla coltura promiscua di cereali e vigneti, mentre nei terreni
della bassa, naturalmente molto fertili, si era diffusa la coltivazione del riso, pratica
avviata ai tempi dell’occupazione napoleonica.
La grande crisi degli anni ottanta fu la miccia che fece esplodere la situazione: i
prezzi dei cereali calarono anche del 30-40% su scala nazionale, mentre il vino e i
prodotti latto-caseari furono esenti da questi terribili deprezzamenti. La crisi finì per
innescare un processo di razionalizzazione produttiva, spingendo un buon numero di
aziende a orientarsi su un complesso di produzione ad alto contenuto zootecnico,
puntando dunque su un ampliamento delle foraggere (importante in questo senso
l’introduzione del trifoglio) che consentisse un incremento della quantità di bestiame
da latte, riducendo nel contempo le produzioni di frumento e riso. 70 In questo
contesto la provincia fu investita, anche se in misura minore rispetto al nucleo di
diffusione mantovano, dal movimento di protesta del la boje!71, una sorta di rivolta da
68Vedere S. Jacini, Inchiesta agraria, Einaudi, Torino, 1977. 69 L’istituto A. Zanelli divenne un centro importante di documentazione e diffusione di tecnologie agronomiche per Reggio e provincia solo a partire dalla fine del secolo decimo nono. 70 Da 88.932 che erano nel 1881, i bovini passarono a 137.795 nel 1908. Cfr. F. Cazzola, Le campagne emiliane, in Annali dell’Istituto Cervi, n° 7 del 1985, p.197, Reggio Emilia. 71 Il fenomeno, partito dalle campagne del Polesine e che prende il nome dal grido dei braccianti in rivolta “La boje, la boje e de boto la va de fora!”, si diffuse velocemente anche nella vicina provincia mantovana, e da lì nelle zone confinanti del reggiano e del modenese e del cremonese. Alcuni contadini mantovani presero la guida del movimento, contribuendo a conferirgli una risonanza e una portata che allarmò parecchio le istituzioni e la classe padronale, tanto che i ventidue contadini mantovani processati dalla corte di Assise di Venezia nel 1886 vennero accusati di aver
52
parte di un bracciantato sempre più relegato nel fondo delle categorie salariali ma
pure sempre più numeroso e organizzato. Nel Reggiano comunque il fenomeno
rimase circoscritto ad alcune aree della bassa, dove maggiori erano i contatti con
l’universo contadino mantovano. Nel frattempo nell’ex ducato andava maturando
quell’originale intreccio tra situazione contadina, questione agraria, strategia
socialista e orientamento socialdemocratico che caratterizzerà il pensiero
prampoliniano.72 In estrema sintesi, lotta di classe, collettivismo e abolizione della
proprietà privata confluirono in una prassi nella quale lo scontro sociale non doveva
circoscriversi all’esclusiva contrapposizione padrone-salariato, senza cioè turbare
l’ordine sociale, ma solo quello economico e dei rapporti di proprietà.
Il movimento cooperativo reggiano vide il suo battesimo nel principio degli anni
ottanta dell’Ottocento, con la fondazione della Società Generale Cooperativa e di
mutuo soccorso tra i muratori e i braccianti di terra della provincia di Reggio Emilia.
La camera del lavoro vide la luce invece nel 1901, quando già erano numerosissime
le società sorte con la medesima impostazione e intenti della primigenia associazione.
Il formarsi di leghe contadine, che vide uniti mezzadri, braccianti, coloni, affittuari e
piccoli proprietari contribuì non poco a connotare di un forte carattere unitario il
movimento contadino reggiano, che cercò di risolvere in sé i contrasti tra la
conduzione mezzadrile e il bracciantato. Anzi, con il passare degli anni, fu proprio la
mezzadria a conduzione per lo più familiare (con l’aiuto di braccianti o giornalieri nei
periodi di massimo sforzo) la soluzione che si impose come la più ricercata dagli
agricoltori reggiani. Questo fu possibile proprio grazie all’adozione della forma
cooperativa che permise anche ai piccoli proprietari _ tra l’altro incoraggiati dai
grandi possidenti, che preferivano un insieme di piccoli proprietari a un esercito di
proletari _ di far fronte alle difficoltà, e di prosperare con l’adozione di un nuovo
sistema di produzione maggiormente incentrato sull’allevamento e lo sfruttamento
dei bovini.
attentato alla sicurezza dello Stato. V. Vittorio Tomasin, Il moto polesano de “la boje” del 1884, in “Annali Istituto A. Cervi”, V, Bologna, Il Mulino,1984, pp.221-246 72 M.L. Betri, Origini e consolidamento della Camera del Lavoro e delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici a Reggio Emilia, Inchiesta, XXXI, n. 134-135, luglio-dicembre 2001, p.77
53
La Camera del lavoro, uno degli organismi che più influenzarono lo sviluppo delle
attività produttive post-crisi in regione, ebbe a Reggio Emilia un ruolo diverso
rispetto al resto della regione: essa, infatti, emerse come spontanea esigenza degli
organismi cooperativi, sorti autonomamente un po’ ovunque nella fascia collinare e
pianeggiante del territorio, che abbisognavano di un’opera di coordinamento
generale; quindi in un certo senso con una “spinta dal basso verso l’alto”. Era usuale
invece, come accadde quasi ovunque nella regione e in Italia, che l’istituto della
camera del lavoro nascesse come una “trasformazione delle società di mutuo
soccorso e delle leghe di resistenza, sul modello delle chambres du travail francesi73.
Esse non presupponevano un’organizzazione territoriale preesistente, ma la
determinavano: al contrario a Reggio Emilia il modello cooperativo autoctono,
fortemente improntato degli ideali prampoliniani, ebbe un ruolo fondamentale nel
tracciare le linee di condotta della stessa camera del lavoro. Nel reggiano si era così
radicata una cultura di regole organizzative e istituzionali affiancate
dall’autopromozione del modello economico cooperativo.74
Nonostante questi importanti cambiamenti che caratterizzarono il sistema produttivo
reggiano e che contribuirono a risollevarlo dalla terribile situazione che si era venuta
a creare in seguito alla grande crisi cominciata negli anni ottanta del secolo
precedente, l’Emilia-Romagna continuava a costituire il fanalino di coda nell’Italia
settentrionale per quanto riguarda la produttività agricola; anche l’industrializzazione
e la situazione di gran parte del proletariato agricolo erano tutt’altro che buone. “Il
pescatore reggiano”, curiosa rivista annuale a metà strada tra il manuale del buon
cittadino e il prontuario di astrologia applicata all’agricoltura, scriveva ancora nel
1927:
“La provincia di Reggio Emilia, fertile ed eminentemente agricola, non produce grano a sufficienza
per tutti i suoi abitanti. Noi coltiviamo a frumento circa 50 mila ettari con una produzione media di
4,70 quintali per biolca: non basta.”75
73 S. Cofferati, intervista pubblicata su Inchiesta, XXXVI, n° 133-134, luglio-dicembre 2001, p.2 74 M.L. Betri Origini e consolidamento…, op. cit., pag. 77 75 Il pescatore reggiano, anno LXXXI, 1927, p.104
54
Bisogna dire che la rivista a quel tempo rientrava già pienamente sotto l’orbita
fascista e si proponeva ovviamente di promuovere la cosiddetta “battaglia del grano”
che Mussolini aveva introdotto nel tentativo di “liberare” l’Italia dal fabbisogno di
prodotti stranieri, in una corsa verso l’autarchia che non favorì di certo la già difficile
situazione dell’Italia postbellica. In ogni caso questa testimonianza è significativa per
la nostra ricerca perché mette in evidenza l’impostazione che il fascismo diede alla
politica economica dell’Emilia, e soprattutto a Reggio Emilia, dove la cooperazione
aveva trovato con le sue sole forze la strada dell’innovazione e della trasformazione
produttiva. Una più attenta analisi della struttura produttiva reggiana negli anni venti
del Novecento però, mostra come, se rapportata alle altre provincie della regione,
Reggio Emilia potesse vantarsi di essere tra le più prospere. Se sul piano
dell’industrializzazione il Reggiano era un territorio innegabilmente povero di
imprese, per quanto riguarda il settore agricolo e in particolare nel campo dei latticini
e dei prodotti caseari, si trattava di una provincia piuttosto ricca, anche se questo non
bastava per sopperire ai problemi di occupazione e per colmare le sacche di povertà
che punteggiavano la provincia. Il pensiero a ciò che è avvenuto nella seconda metà
del secolo può fuorviare colui che intenda indagare la situazione reggiana nella prima
metà del secolo scorso: si rischia infatti di guardare al passato con gli occhi del
presente, perdendo così di vista il contesto sociale e organizzativo della provincia a
quel tempo. Fatta eccezione per le Officine Reggiane, la fabbrica di spazzole Agazzi
e della produzione di calzature non vi erano altre fabbriche veramente importanti in
provincia. La tradizionale produzione di seta, pratica di cui Reggio fu maestra nella
prima età moderna, era in decadenza da secoli ormai, così come la lavorazione dei
trucioli di legno. Mentre l’industria vinicola e quella casearia prosperavano, l’altro
settore trainante dell’economia reggiana nel dopoguerra, ossia la ceramica, era
confinato ancora ad un piano locale e del tutto secondario: la qualità dei prodotti era
piuttosto bassa e la produzione era per lo più caratterizzata da imprese famigliari con
55
interessi quasi sempre locali. 76 Argille e cave alimentavano una serie di fornaci, ma
la merce prodotta non superava l’Enza e il Secchia.77 La produzione di macchinari
agricoli, introdotta da qualche anno, non lasciava assolutamente presagire i successivi
importanti sviluppi. Insomma, Reggio non sembrava destinata a divenire un distretto
industriale e soprattutto, non pareva intenzionata a volerlo essere. Si sono avanzate
diverse teorie a riguardo, alcune delle quali vedono nella frenata causata dalle
restrizioni e dal dirigismo fascista una possibile spiegazione; altri invece trovano già
in nuce nell’orientamento della camera del lavoro e della direzione cooperativa di
marca socialista un importante fattore di condizionamento del non sviluppo
industriale reggiano negli anni venti, al di fuori dei settori classici legati alla
produzione di latte, formaggio, burro e cereali. I socialisti cercarono di impiantare
nella provincia, l’unica in cui godevano di un così ampio sostegno78, un piano
produttivo alternativo ai modelli capitalistici altrove in via di instaurazione e quale
poteva essere quello lombardo, cercando di evitare una proletarizzazione delle masse
contadine e il sorgere di una nutrita classe di grandi proprietari e gestori di capitali;
anzi, si cercò di estendere capillarmente la piccola-media proprietà contadina,
valorizzando al massimo l’autonomia dei singoli, contentandosi di dirigere la
pianificazione tramite le centinaia di cooperative che sorsero un po’ ovunque. 79 In
questo modo non si andava a urtare la storica suscettibilità dei contadini, che come
primo pensiero avevano la proprietà della terra in mente, ma allo stesso tempo,
tramite le direzione delle cooperative, si inseriva nel mercato su ampia scala la loro
produzione. Non vi era un’alternativa al metodo capitalista di industrializzazione, 76 Vedere l’articolo di Roberto Romano su Inchiesta, op. cit., pp. 80-83 77 Come spiega Lidia Righi nel suo saggio Note sulla produzione ceramica del Settecento nel Ducato Estense, la produzione di ceramica fu un’attività presente nella regione fin dall’antichità, ma per quanto riguarda il territorio del ducato estense, non raggiunse dimensione cospicue sino al tardo Settecento, quando a Sassuolo venne impiantata la prima fabbrica di grosse dimensioni, grazie all’iniziativa di Giovanni Andrea Ferrari. A Reggio vi erano piccoli nuclei produttivi in città, a Scandiano e a Castellarano, dove si produceva “una terraglia bianca, terracotta coperta con una base bianca e vernice trasparente. Un prodotto povero, come quelli ricavati dalla lavorazione dell’argilla alla Veggia.” In L. Righi, Note sulla produzione ceramica del Settecento nel Ducato Estense, Atti della deputazione di storia patria, serie XI, vol. II, 1980, Modena. 78 Alcuni dati: nelle elezioni tenutesi nel novembre del 1919 il PSI ottenne il controllo di 38 comuni su 45 (tutti e sette in montagna) con 42.840 voti favorevoli, a fronte degli 11.783 dei popolari, degli 8766 dei liberali e dei 1300 del fascio. Nella capoluogo il PSI ottenne 48 seggi su 60. In C. Grazioli, Il movimento cattolico reggiano dal primo dopoguerra al fascismo, Ricerche Storiche, a XVI, n° 46, luglio 1982. 79 L. Righi Note sulla produzione ceramica…, op. cit.
56
così questa fu una soluzione per così dire “interlocutoria”, che però contribuì non
poco a cementare attorno agli ideali socialisti le masse reggiane. Nel dicembre del
1920 vi erano nella provincia 200 cooperative aderenti alla Cdl e un terzo della
popolazione della provincia si serviva in cooperative di consumo. Questi dati non
hanno equivalenti in nessun altro luogo in Italia.80 Come spiega Antonio Canovi nel
suo saggio sulle “piccole russie”81, l’ideale messianico del comunismo veniva
attraverso queste pratiche sottratto alla sfera futura e si concretava nel presente, o
almeno, questo era quello che avvertiva la maggior parte della gente. In addizione a
ciò, sempre gravi erano i problemi derivanti dalla disoccupazione, della condizione
dei braccianti e delle genti della montagna, oltre che di numerosi cittadini, che
continuavano a vivere ai margini della comunità lavorativa e che la camera del lavoro
faticava a collocare nel nuovo sistema provinciale. Qui sì che si avvertiva la
mancanza di un settore industriale importante, ed è anche per queste contraddizioni
che Gramsci, nei suoi Quaderni, si schiera contro l’esperienza riformista reggiana.82
Emigrare#o#lottare?#
Sì è cercato di evidenziare in queste poche pagine come nonostante persistessero, a
partire dalla crisi degli anni ottanta, e si fossero manifestati nuovamente quando si
avvertirono i prodromi della crisi del ’29, difficoltà oggettive dal punto di vista
economico e occupazionale, la provincia di Reggio Emilia e con essa quelle zone
della regione in cui le organizzazioni di stampo socialista riuscirono a fare presa sulle
masse contadine, si trovò in una situazione del tutto particolare rispetto alle altre zone
d’Italia che furono interessate dal fenomeno migratorio. In particolare l’immaginario
e l’orizzonte delle idee di molto reggiani fu costellato dalla presenza, dall’azione e
dall’impronta del socialismo, un’ideale che debordava i confini del politico
lambendo, o piuttosto, inondando molti altri aspetti primari dell’organizzazione
80 C. Grazioli, Il movimento cattolico reggiano, op. cit. 81 A. Canovi, M. Fincardi, M. Mietto, M.G. Ruggerini, Memoria e parola: le “piccole russie” emiliane”…, op. cit. 82 A. Gramsci Quaderni dal carcere, Q 19 (X9) 1934-35, pp. 1985-1986
57
sociale ed economica dell’esistenza. Come sostiene ancora Canovi nella sua tesi83
piuttosto che cercare all’estero un mondo nuovo, una vita e un avvenire migliori, i
reggiani, tramite l’esperienza cooperativa tinta degli ideali dell’utopia socialista,
avevano “a casa propria” la possibilità di lavorare per un futuro profondamente
differente, un futuro di uguaglianza, benessere e lavoro. Il socialismo si avvertiva
sulla pelle, era lì, si stava realizzando, che bisogno c’era di andarsene?
Quando si affronta una questione delicata come la storia della mentalità di un gruppo
bisogna sempre tenere presente la sfasatura che si produce tra la percezione di un
fenomeno e il suo contenuto empirico: la persistenza in provincia di una
strutturazione del lavoro e della società agricola che per molti versi si scontravano
con la visione socialista della proprietà, le difficoltà e le contraddizioni di un sistema
che dopotutto non era basato sull’uguaglianza di tutti, ma solo dei soggetti produttori
(il mezzadro decideva su tutto, senza dimenticare che persisteva la figura
dell’affittuario), erano avvertite come eredità di un passato di impronta pseudo-
capitalista da combattere, in nome di una uguaglianza futura in cui tutti sarebbero
stati proprietari della terra e non vi sarebbero più stati padroni o speculatori. Dove si
poteva aspirare, nel corso della propria vita, entro pochi anni quindi, a trovare queste
condizioni? A Parigi? A New York? A Londra? No di certo. Il futuro era qui, tra i
campi di casa, e bisognava proseguire nella lotta per la sua costruzione. Perché
emigrare dunque?
L’avvento del fascismo fu un trauma sotto diversi punti di vista per la provincia.
Oltre alle violenze e alle angherie cui furono sottoposti un numero piuttosto cospicuo
di cittadini, questo fu avvertito come un blocco, un ostacolo che si interpose nel
mezzo di un cammino che si stava dimostrando sempre più positivo e che era vissuto
dalle masse contadine non solo come un mezzo di riscatto e affermazione economica,
ma sociale e ideale. Nel film di Bernardo Bertolucci Novecento, è possibile ritrovare
tracce di questo sentimento di sogno e cammino interrotto, in un contesto in cui la
83 A. Canovi, Parcours migratoires…, op. cit.
58
politica, il lavoro e la “sociabilità” erano arrivati a un connubio mai raggiunto prima.
Le incursioni delle squadre fasciste, spesso foraggiate e incoraggiate dai grandi
proprietari o da quelle forze politiche che vedevano nella “marea rossa” una minaccia
per l’ordine e la struttura sociale così come si erano concepiti fino ad allora, furono
l’inizio della fine del sogno di moltissimi cittadini e contadini.
È il 1921 la data cardine nel cambiamento di rotta nella provincia. Alle elezioni
comunali il PSI reggiano si pronuncia in favore dell’astensionismo di massa (a
differenza di quanto avvenuto nelle province di Modena e Parma) e il fascismo riesce
ad assumere il controllo di tutti gli organi di potere. È il tramonto di un’epoca,
l’inizio di una notte che durerà venticinque anni. Per molti, un periodo di tempo
troppo lungo.
59
LA VAL DI SECCHIA DALL’UNITA’ AL FASCISMO
Nei capitoli precedenti si è cercato di donare un quadro generale della situazione
economica e sociale dell’Emilia, partendo dall’Unità, attraversando la grande crisi,
fino a giungere alla guerra e all’arrivo della marea nera del fascismo, che tanto segnò
il paese, la regione e la provincia di Reggio in particolar modo. Se in città e nei
luoghi in cui la forza del movimento cooperativo, a braccetto con la declinazione
prampoliniana del socialismo riformistico, aveva lasciato la sua impronta e trascinato
con sé nel pieno della grande battaglia dell’epoca migliaia di cittadini e contadini,
non in tutta la provincia vi era stata una tale partecipazione da parte delle masse.
Come abbiamo tentato di illustrare in precedenza, le province emiliane sono
contraddistinte da una tripartizione abbastanza marcata tra la zona della bassa e
dell’alta pianura, la zona pedemontana e infine la montagna vera e propria. Nelle
zone di montagna la penetrazione delle idee socialiste fu meno forte per ragioni
diverse, prime fra tutte quelle economiche: quivi, infatti, regnava un tipo di
produzione imperniata sui piccoli proprietari, che avevano scarsi contatti con la realtà
della piana e vedevano nella proprietà e nella conduzione diretta del proprio terreno
l’unico orizzonte percorribile. Essendo in sostanza assenti vasti appezzamenti di
terreno o attività industriali che potessero coinvolgere un elevato numero di persone,
si trattava di una realtà molto frazionata e chiusa, che non vedeva di buon occhio il
moltiplicarsi del numero dei braccianti confederati nelle leghe contadine e che anzi, si
veniva spesso a trovare d’accordo con la classe dei grandi proprietari. Insomma,
diversamente dalla pianura, sull’Appennino non ci fu una costante e radicata coesione
tra forze cooperativistiche e piccoli proprietari, e da questo conseguì un minor
coinvolgimento delle masse nell’attività politica, che come abbiamo spiegato, nelle
provincia era legata in maniera quasi indissolubile alla struttura produttiva. Nella
scelta dell’area da noi studiata, questa tripartizione si mostra in maniera evidente, con
differenze che non si sono rivelate solamente sotto l’aspetto economico, ma si sono
anche ripercosse sui destini politici e sulle vicende migratorie degli stessi soggetti
60
presi in esame. Questa caratteristica è da tenere a mente nel prosieguo dell’analisi.
Per quanto riguarda i casi di Casalgrande, Arceto e in buona parte anche Scandiano
questa situazione si ripresenta abbastanza fedelmente, e anzi, nei casi di Arceto e
Casalgrande ci sforzeremo di dimostrare come la motivazione politica abbia concorso
in maniera preponderante a spingere centinaia di cittadini reggiani a emigrare, e che il
paradigma politica-emigrazione messo in luce da Canovi si possa applicare anche a
diverse altre aree della provincia reggiana. La realtà di Castellarano invece differisce
in parte da queste aree e questa sua peculiarità si riflette anche sul tipo di emigrazione
che ha visto protagonisti i suoi abitanti, i quali possono essere inseriti al confine della
zona collinare e nell’immediato inizio della zona montanara per strutture sociali e
quadro economico d’inserimento.
La#Val#di#Secchia,#un#territorio#dalle#diverse#anime#
La scelta di privilegiare un approccio pluricentrico è stata adottata nel tentativo di
evidenziare la diversa strutturazione di un territorio pure dotato di una certa
continuità, la Val di Secchia, dalle sue propaggini in pianura alla sua parte montuosa.
Un luogo che potrebbe definirsi liminale all’interno del contesto provinciale, a
cavallo tra la zona montuosa, la pianura e orientato sì verso il capoluogo, ma pure con
diversi legami con la parte modenese che si stende al di là del fiume Secchia. Quella
che oggi è a tutti gli effetti un’unica grande isola industriale, che da Vignola (ma
potremmo spingerci fino a Bologna e ancora oltre) arriva sino alla montagna
reggiana, passando per Scandiano, Castellarano e Casalgrande, sino a una sessantina
di anni fa era un luogo che nessuno si sarebbe azzardato a definire ricco, almeno nella
sua parte reggiana, e anzi, nel contesto economico nord italiano si trattava di una
realtà piuttosto arretrata e ancora molto legata ad ataviche pratiche contadine. Era
veramente il luogo dove il Nord si esauriva, ed è questa realtà che funge da cornice
alle nostre ricerche. Era qui che si trovava la linea di demarcazione tra la pianura, nel
pieno della sua evoluzione modernizzatrice, e la montagna, con le sue difficoltà
61
economiche e la sua relativa lentezza a recepire il messaggio collettivista e i suoi
contenuti progressisti dal punto di vista politico e sociale. Qui, tra i mezzadri e i
piccoli proprietari, ma soprattutto tra le schiere operaie e dei braccianti, sono partiti i
contingenti di hommes à tout faire che abbiamo seguito e rintracciato a Parigi e in
diversi altri luoghi della Francia. Eppure, realtà così vicine e simili hanno rivelato
differenze anche profonde e intrapreso cammini diversi. Come diceva Braudel, non
sono i mari a dividere gli uomini, ma le distese di terra, e nel nostro caso esistono
molto più contatti tra le due sponde del fiume Secchia rispetto a quanti ve ne siano tra
l’alta val di Secchia e le sue prime propaggini settentrionali. Realtà vicine, ma
profondamente diverse, che non comunicavano se non per necessità e che la crisi
economica contribuì ad allontanare ancora di più.
Casalgrande#
“Attorno alle loro belle rocche medievali erano “circondate da stupende colline, con orizzonti che
spaziano dagli appennini ai Colli Euganei […] L’industria, all’infuori dell’agricoltura si può dire
quasi nulla. Qualche traffico di bestiame grosso e minuto, e commercio di legna di una certa
importanza”.84
Così Don Margini descrive i due comuni più di un secolo fa. A Casalgrande, oltre alle
tipiche produzioni vinicole e cerealicole, andava segnalata anche una discreta
consuetudine nelle pratiche d’allevamento, eredità della tradizione medievale e di
quando la zona del Secchia era cosparsa di macchie e riserve boschive, ove la caccia
e l’allevamento suino prosperavano. Col passare dei secoli, la progressiva scomparsa
delle macchie verdi lungo il fiume e la perdita d’importanza che l’allevamento subì
nell’economia della zona rese piuttosto poco vantaggiose queste pratiche, che furono
gradualmente abbandonate o continuarono a sussistere solo come integrazione ai
proventi ricavati dalla terra. Disponiamo di alcune statistiche abbastanza dettagliate
84 P. Camellini (a cura di), Reggio Emilia antica e moderna e i suoi comuni, vol II, Centro Studi di Storia Regionale per l’Emilia Romagna, Reggio Emilia, 1971, p 148
62
riguardo la situazione di Casalgrande grazie ad una relazione stesa per conto del
comune di Reggio Emilia da E.U. Rossi, il quale nel 1928 censì le attività produttive
di quasi tutti i comuni della provincia.85 Nel 1911 egli calcolava 2805 addetti al
settore agricolo contro i soli 217 addetti alle “arti e all’industria”. In questo novero
non sono presenti però coloro che si occupavano in via diretta del proprio terreno, né
tantomeno i braccianti e i giornalieri, che risultano presenti sotto la categoria di
“persone ad occupazione saltuaria”. Allora la popolazione totale del comune
ammontava a 5813 persone, divisa tra le varie frazioni di Salvaterra, San Donnino,
Villalunga, Sant’Antonino, Veggia e Dinazzano, con l’agglomerato di Boglioni a
fungere da centro politico ed economico, contrapposto a Casalgrande Alto, sede degli
antichi poteri e della chiesa. Nel 1931 la popolazione era salita a 7637 individui, con
un aumento che si aggirava attorno al 20%. Ciò fu possibile grazie ad un aumento del
tasso di natalità, cui corrispose un’opposta tendenza del tasso di mortalità, che si
abbassò notevolmente. La struttura occupazionale però nella sostanza non si
modificò, rimanendo ancora molto sbilanciata verso la cura della terra, com’era d’uso
in tutta la provincia. Circa il 71% della popolazione attiva era, infatti, occupato nel
settore agricolo. 86 In cifre totali 5285 persone, questa volta compresi anche i
giornalieri e i mezzadri. Questi ultimi erano aumentati sino a divenire la categoria
principale dell’occupazione agricola, seguendo una tendenza generale della provincia
reggiana, che vide in tutte le zone della bassa e della collina rafforzarsi la piccola-
media proprietà, accanto alla crescita del suo sistema cooperativistico di gestione
della distribuzione e della vendita. Gli addetti all’industria, questa volta da intendere
anche come industria vera e propria, legata alla lavorazione dei prodotti agricoli, ma
anche alla ceramica, del legno e della siderurgia, erano saliti a 447. In questa cifra
vanno inseriti un discreto numero di operai nel settore edile, che favoriti dalle
politiche socialiste di costruzione di alloggi popolari, proliferarono nei primi anni
venti, specializzandosi in un settore che anche in Francia li avrebbe visti
85 E.U. Rossi, Commissione di vigilanza per il censimento degli esercizi industriali e commerciali, Reggio Emilia, 1928 86 I. Basenghi, S. Pastorini, M. Storchi, Ugo Farri nella storia di Casalgrande 1900-1946, Comune di Casalgrande, 1970, pp. 21-22
63
particolarmente attivi, rendendoli così perfettamente assimilabili a una delle tipologie
più diffuse di emigrato italiano, quella cioè dell’operaio edile. Le pratiche agricole
però, continuavano a farla da padrone in termini occupazionali e non solo: su 749
nuclei famigliari presenti nel territorio del comune collinare, esistevano ben 685
aziende agricole, segno che la piccola-proprietà dominava nettamente sulle altre
forme di conduzione. L’ampiezza media degli appezzamenti per famiglia era di 2.9
ettari, molto bassa anche rispetto alle non elevate cifre della provincia reggiana.87
Questa, per certi aspetti, si rivelò una situazione favorevole in tempi di difficoltà
economiche, in particolare nel 1931, quando la crisi del ’29 si abbatté violenta anche
sulla grande proprietà dell’Italia settentrionale. La quasi totale mancanza d’industrie88
e l’esistenza di tante piccole aziende a conduzione familiare, con la conseguente
mancanza di un significativo numero di braccianti, le prime vittime della crisi nel
settore, permise a molte famiglie di resistere abbastanza bene anche in tempi di
ristrettezze. Anche qui, come già detto in relazione al resto della provincia, si assisté
a una tendenza nell’evoluzione del sistema produttivo, che si incentrò maggiormente
sulle pratiche di allevamento e verso la produzione latteo - casearia. Il dato più
eclatante è la diminuzione del numero di bovini, che da oltre 5000 che erano nel 1911
passarono a 3450 circa, con una diminuzione evidente nel numero totale dei bovi, ma
con un significativo raddoppio del numero delle vacche totale. Si trattò però
solamente dei primi passi, bisogna dirlo, verso un percorso che trovò il proprio
compimento solo nel secondo dopoguerra.
Scandiano#
Il medesimo discorso può essere applicato alla realtà di Scandiano, comune per molti
versi simili a Casalgrande per caratteristiche morfologiche e strutture produttive,
anche se, rispetto al village confinante i suoi livelli di produttività e la sua situazione
87 Scandiano aveva una media di 5.9. v. R. Cavandoli, A. Paderni, Scandiano 1915-1946, lotte antifasciste e democratiche, Comune di Scandiano, p. 26 88 Facevano eccezione qualche fabbrica artigianale diffusa nei centri di Dinazzano e Sant’Antonino, oltre alle antiche ceramiche della Veggia.
64
economica erano certamente migliori. La presenza di larghi tratti pianeggianti nel suo
territorio, superiori per numero e qualità a quelli di Casalgrande, spiegano in parte
questa differenza, unita al fatto che la sua tradizione di centro cittadino era
incomparabilmente più importante rispetto all’insieme di borghi, in procinto di
trasformarsi in paesi, che contraddistinguevano Casalgrande. A Scandiano la
produzione vinicola era la più importante, per quantità e qualità, dell’intera
provincia89, ed erano presenti alcune attività industriali, anche se per lo più
sviluppatesi attorno alla lavorazione dei prodotti agricoli. Era presente anche qualche
fabbrica di lavorazione della ceramica e del legno, ma si trattava d’impianti non
paragonabili ai corrispettivi che già erano presenti nel territorio di Sassuolo: anzi, si
può dire che queste imprese nacquero come propaggine occidentale della realtà
sassolese. Bisogna menzionare poi le industrie che si occupavano dell’estrazione e
della lavorazione del gesso, della calce e del cemento. Fiorenti nell’anteguerra, tanto
da poter essere considerate il vero “centro industriale” della provincia, esse davano
lavoro a molti operai, ma anche a contadini o braccianti in cerca di occupazioni
temporanee, e quindi non registrate in questi dati. Da notare pure la presenza di
un’importante industria della concia, dei salumi, e una filanda che dava da lavorare a
ben 150 donne, cifra piuttosto importante per l’epoca, data la scarsa vocazione
industriale della provincia e la poco diffusa consuetudine di impiegare manodopera
femminile in campo industriale, almeno nella zona. Le statistiche raccolte dalla
commissione di vigilanza per le attività industriali90 _ già utilizzate per Casalgrande _
parlano di 906 addetti all’industria nel 1927, impiegati in 127 esercizi; più di metà del
totale dei lavoratori era però impiegato nell’industria estrattiva (che si confonde alle
occupazioni edilizie in queste statistiche), mentre gli altri erano per lo più impiegati
in esercizi a carattere familiare e artigianale.91 Le “Officine per la fabbricazione del
cemento, della calce idraulica e del gesso in Ca’ de’ Caroli” con i suoi 567 operai
89 Si è calcolato che nel quadrilatero Albinea-Scandiano-Casalgrande, il reddito della vigna raggiungeva in parecchi casi la metà del reddito del fondo. U. Bellocchi, B. Fava, F. Moleterni, Un secolo di economia reggiana, Reggio Emilia, 1962, p. 133 90 E.U. Rossi, Commissione di vigilanza per il censimento degli esercizi industriali e commerciali, op. cit. 91 R. Cavandoli, A. Paderni, Scandiano 1915-1946, op. cit. pp. 31-34
65
erano la realtà industriale più degna d’interesse della zona e furono certamente
un’importante “scuola” per gli emigrati che lasciarono Scandiano negli anni venti e
trenta, sotto diversi aspetti.
Come gli altri comuni della provincia, la “battaglia del grano” vide Scandiano
rispondere in maniera non molto positiva per il regime, tanto che la produzione
cerealicola diminuì addirittura in quantità totale rispetto a prima della guerra. Anche
il mercato vinicolo, che abbiamo visto, occupava una posizione di primo piano
nell’economia della zona, subì un declino abbastanza accentuato, che si protrasse dai
primi anni venti sino alla fine degli anni trenta. Grazie alla creazione di alcune
cantine sociali (provvedimento che rimandava alle vecchie pratiche socialiste di
inizio secolo) la situazione migliorò a partire dal 1937, quando però l’economia della
zona era decaduta fortemente e molti lavoratori avevano cercato fortuna altrove. In
questo quadro di decadenza e difficoltà la disoccupazione fu una realtà ben presente,
che dopo la salita al potere del fascismo si mantenne sempre su cifre piuttosto
elevate. Rispetto alla media di 800 disoccupati stimata nell’inverno 1921 e ai 400
circa non occupati della primavera e del settembre, si sale agli oltre 1000 dell’inverno
successivo.92 Le statistiche ufficiali poi tacciono, ma i registri comunali sono pieni di
lagnanze e richieste di aiuto da parte d’intere famiglie. A differenza di altre realtà più
piccole, dove l’agricoltura assorbiva quasi totalmente l’ambito occupazionale,
Scandiano soffrì maggiormente gli effetti di una congiuntura economica non
favorevole. Sempre nel decennio preso in considerazione in precedenza, abbiamo
trovato traccia di documenti che parlano di circa 500 famiglie che si trovavano nella
più assoluta indigenza e che abbisognavano di pasti offerti dal comune per
sopravvivere.93 Allo stesso tempo, fioccano i comunicati in cui veniva sottolineato
che “in caso di carenza di lavoro i militi dovranno essere gli ultimi a essere
licenziati”, come riportato anche su “Il solco fascista”.94 In questo quadro, la
prospettiva dell’emigrazione appare legata non solo alle difficoltà economiche, ma
92 Ibidem 93 Ib. 94 Il solco fascista, 10 luglio 1930.
66
anche all’appartenenza politica dei diversi soggetti. Non si trattava più di ideali, di
simpatie, di visione della società o di conduzione della cosa pubblica, ma della
sopravvivenza: per lavorare c’era bisogno della “tessera”, altrimenti si rischiava di
morire di fame anche a casa propria. L’emigrazione per alcuni così non divenne più
un’opzione, ma la sola possibilità.
La#situazione#politica#all’avvento#del#fascismo#
Per quanto riguarda la situazione politica generale, Scandiano fu uno dei comuni più
pronti ad abbracciare le pratiche socialiste della provincia, e allo stesso tempo uno dei
luoghi ove gli scontri tra forze democratiche e fascismo furono più aspri. Si contano
decine di episodi di violenze e atti criminali ai danni di esponenti più o meno
importanti del socialismo locale: il 15 marzo del 1922 muore Alfredo Incerti Rinaldi,
sarto della frazione di Iano, noto sostenitore del socialismo scandianese , trovato
senza vita in seguito ad un agguato compiuto da quattro fascisti. Come i suo fratelli
era iscritto al PSI. Il 4 agosto 1922 vi fu uno scontro tra il sindaco Ghiacci,
l’assessore Taddei e un numero non precisato di fascisti ai quali i due risposero con le
armi. Un fascista rimase ucciso e l’assessore dovette fuggire. Nel novembre dello
stesso anno venne ucciso l’ex assessore Umberto Romoli e l’assassino, un militante
fascista, identificato e scagionato. Si trattava di Pellegrino Bottazzi, fratello del
segretario del fascio locale, che insieme a due fratelli aveva risposto allo “sguardo di
sfida del Romoli”, come si legge nel verbale del processo. Negli atti si legge anche
che il prefetto ritenne accidentale la morte dell’ex assessore, aggiungendo ch’egli
“aveva disgraziatamente abbracciato il socialismo”. Non meno eloquenti risultano le
parole dell’avvocato difensore Cucchi, il quale concluse la sua arringa affermando
che “quando, pur esorbitando dal limite della legalità, l’azione dei singoli è ispirata
da un nobile fine, non si può parlare di reato”.95
95 G. Anceschi, La fine dell’amministrazione socialista e l’affermarsi del fascismo a Scandiano 1920-1922, Comune di Scandiano, 1972, pp. 7-9
67
Tornando a occuparci di Casalgrande, è possibile anche qui ricostruire gli ultimi anni
prima dell’avvento del fascismo sotto l’amministrazione socialista del sindaco Farri.
Eletto nel 1920, in pieno biennio rosso, quando in provincia ben trentotto comuni su
quarantacinque passarono in mano ai socialisti96, il sindaco varò una politica votata
ad una municipalizzazione dei servizi, unita alla realizzazione di diverse opere
pubbliche e di costruzioni per far fronte alla disoccupazione e per fornire il comune
di quegli edifici, come le scuole, che ancora mancavano o erano in condizioni
pessime. A ciò si aggiunse un’imposta sul reddito che andava a colpire gli strati più
abbienti della popolazione, ma che incontrò già in camera di consiglio diverse
opposizioni. Erano questi i provvedimenti che contraddistinsero la maggior parte dei
comuni ad amministrazione socialista, ed è facile capire perché tanta parte della
popolazione sostenne con sì vivo fervore la causa progressista: si trattava a tutti gli
effetti delle prime vere azioni politiche che avevano come principale destinatario le
classi meno abbienti. La costruzione di case popolari permise a diverse imprese a
conduzione cooperativa di dare lavoro a un numero elevato di uomini, per lo più di
estrazione contadina, i quali iniziarono a specializzarsi così anche in mestieri che fino
ad allora erano praticati da una piccola parte della popolazione. Allo stesso tempo si
creò lavoro per diverse società private locali, come l’impresa di Pietro Grulli, che più
avanti sarà tra i protagonisti del nostro studio. Con l’acuirsi delle tensioni e con la
salita al potere del fascismo, però la situazione cambiò profondamente. Gli attacchi
squadristi, a partire dalla primavera del 1921 aumentarono di settimana in settimana
per intensità e qualità, anche se, bisogna sottolinearlo, all’inizio ci fu bisogno del
supporto delle sezioni di Carpi e Correggio perché la nuova ideologia non sembrò
attecchire con molta efficacia nel comune, almeno fino al 1922. Gli archivi comunali
riportano diversi episodi di violenze verso persone e non solo. Lo stesso sindaco, in
qualità di socialista di vecchia data, fu tra le prime vittime di questi attacchi: si legge
in una delibera comunale
96 A Scandiano il primo sindaco socialista, Storchi, venne eletto nel 1913. A Casalgrande e Castellarano si dovette attendere le elezioni del 1920 per vedere trionfare per la prima volta il PSI. Considerando che i primi circoli videro la luce attorno al 1902 in quasi tutti principali centri urbani dei comuni, si tratta di un risultato che rispecchia il generale andamento a “scalare” man mano che si sale verso l’appennino, della presa socialista sulle masse.
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Ci informano da Casalgrande che lunedì verso le ore 17 giunse in paese – località Boglioni – un
gruppo di fascisti regolarmente inquadrati ed equipaggiati, al canto dei loro inni… Il comandante
della squadra si dette alla ricerca del sindaco, compagno Farri Umberto, che venne infatti
affrontato da un gruppo di tricolorati sulla soglia di un’abitazione prossima al palazzo municipale.
Gli venne chiesto se fosse lui il sindaco ed avutane risposta affermativa uno dei fascisti […]
vibrava con veemenza un colpo di mazza ferrata in pieno viso al nostro compagno, producendogli
la frattura del labbro superiore e la rottura di qualche dente. I fascisti si diressero verso la frazione
di Salvaterra. Colà giunti si dettero alla caccia al sovversivo percuotendo violentemente i seguenti
operai: Scalabrini Prospero, Monti Aldo97, Germano Rossi, Casi Alfredo. Fu pure colpita da una
bastonata la signora Mammi Emilia, conduttrice dell’osteria Cappone.”98
Insomma, il clima profondamente ostile che si venne a creare con l’avvento del
fascismo colpì diversi aspetti della vita di molte persone. Non solo l’ambito politico e
della socialità pubblica subì ampie censure e restrizioni, ma anche gli aspetti più
semplici e vitali quali la sfera lavorativa videro i loro meccanismi assoggettati alla
macchina di controllo e arruolamento fascista. Se la soluzione più semplice fu quella
di piegare il capo e seguire le direttive dei nuovi gerarchi di stato, parimenti
l’emigrazione assunse con il passare degli anni, un peso ragguardevole, che anche se
non può essere paragonata a fenomeni di realtà anche vicine quali l’appennino
parmense e piacentino, fu senza dubbio tra le più corpose se comparata ad analoghi
fenomeni a carattere politico verificatisi in altre province e regioni italiane. Per lo più,
infatti, l’emigrazione politica fu un fenomeno che coinvolse individui isolati o piccoli
gruppi di persone, almeno nei primi anni in cui il fascismo assunse il potere: le grandi
masse furono toccate solo in parte da questo fenomeno e i motivi della partenza erano
spesso legati a ragioni prettamente economiche o a pratiche ormai entrate di diritto
negli usi e nelle tradizioni di alcune popolazioni. Come abbiamo già detto, il
fenomeno migratorio era più intenso quando s’inscriveva in realtà isolate e in cui le 97 Aldo Monti sarà uno degli emigrati protagonisti del nostro studio. Il suo nome figura nelle liste del Casellario Politico Centrale, organo di controllo e repressione creato dal regime mussoliniano per monitorare e segnalare i sovversivi e gli oppositori del partito all’interno e all’esterno dei confini nazionali. ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Aldo Monti, b3377 98 A.C.C., verbali giunta 27-8-1921. Boglioni è l’antico nome del borgo che oggi costituisce il centro di Casalgrande Bassa.
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condizioni sociali ed economiche si dimostravano ben poco allettanti, spingendo
molti uomini ad abbandonarle senza grandi rimpianti. Eppure, la decisione di lasciare
il proprio paese difficilmente può ridursi in toto a queste sole ragioni/necessità99, per
quanto esse siano senza dubbio importanti: la situazione nel territorio reggiano, come
ci sforzeremo di mostrare in queste pagine, assume una fisionomia piuttosto
differente.
In provincia di Reggio Emilia, e in particolar modo nella zona di Scandiano e
Casalgrande le cooperative furono il tramite per mezzo di cui anche le masse
entrarono nel circuito della politica, tanto che divenne praticamente impossibile
distinguere tra opera della Cdl da quella del P.S.I. In sostanza il lavoro era divenuto
uno dei luoghi della politica, e la stessa struttura produttiva era in diversi casi
indissolubile dal tessuto politico che la contraddistingueva. Cercando di sradicare il
sistema cooperativo non solo si andava a intaccare un tessuto economico e produttivo
che si era intersecato perfettamente alle pratiche tradizionali locali, assecondandone
l’evoluzione verso una ristrutturazione organizzativa, ma si andava necessariamente a
recidere un legame che univa persone, territorio e pratica sociale in maniera
strettissima, più stretta che in qualsiasi altro luogo d’Italia. Insomma, il fascismo qui
andò a interferire con un sistema che si era così profondamente fuso con le pratiche
sociali della zona da non potere essere modificato senza destabilizzare fortemente
l’ambiente.
“Où se situe la spécifité de Reggio Emilia? Si la dimension du village est commune aux autres
curante migratoires, dans le cas de cette province le cadre de reconaissance collective prend
facilement une connotation poltique. Se presenter comme antifascistes, et pour le plus comme des
rouges, semble ainsi devenir une carte d’identité communautaire, plus que les réseaux parentaux et
de metier.”100
99 È una questione molto delicata quella legata al rapporto tra le ragioni economiche e le ragioni di ordine politico dei migranti: spesso questi due aspetti concorsero in misura più o meno variabile nell’alimentare il fenomeno del fuoriuscitismo e sarebbe errato separarle o attribuire in toto all’una o all’altra la preponderanza assoluta. Quello che ci preme sottolineare in questa opera è che in una realtà come quella reggiana il fattore politico abbia rivestito un ruolo di assoluta rilevanza nell’orizzonte sociale dei protagonisti del nostro studio, e che, in misura decisamente maggiore che altrove, l’aspetto politico si rivelò decisivo nel direzionare le scelte individuali, o addirittura comunitarie, delle persone che lasciarono la provincia reggiana tra le due guerre. Ritorneremo più avanti su questo punto. 100 A. Canovi, Parcours migratoire…, op.cit., p. 84
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È solo tenendo presente questo concetto che si può comprendere come una zona che
per larga parte del “secolo migratorio”101 italiano non fu protagonista, lo divenne
quasi di colpo a partire dalla prima metà degli anni ’20, quando più di tre quinti del
totale dei suoi migranti lasciò la regione per trasferirsi all’estero, con la Francia (non
un caso visto la tradizione di paese di accoglienza per i rifugiati politici che aveva
assunto, come spiegato poc’anzi) a guidare la lista dei paesi di accoglienza.
La#via#dell’esilio#volontario#
Sebbene gli archivi comunali italiani, spesso non possano essere considerati tra i
meglio organizzati d’Europa, soprattutto se paragonati ai loro corrispettivi d’oltralpe,
nel corso del nostro studio siamo riusciti a venire a conoscenza di un buon numero di
evidenze e documenti che si sono rivelati fondamentali poi per tracciare il nostro
percorso di ricerca, sia in Italia che in Francia. In particolare, essendo quasi sempre
assente un’apposita cartella riguardante le pratiche migratorie, è stato lo sfoglio delle
pratiche contenute nella categoria XIV a rivelarci la maggior parte dei dati di cui
siamo venuti in possesso. Qui sono contenuti infatti i fascicoli relativi al rilascio dei
“nulla osta” che i sindaci dovevano vagliare per permettere ai loro soggetti di partire
per l’estero, almeno a partire dalla nuova regolamentazione italiana del 1918. Prima,
a danno anche della ricerca e dall’analisi storica, non sempre era richiesto il possesso
di un passaporto per lasciare il paese, così ci è stato difficile, se non del tutto
impossibile di ricostruire con sufficiente chiarezza i percorsi migratori precedenti alla
prima guerra mondiale, almeno nel dettaglio. I dati su cui abbiamo potuto contare,
infatti, sono quelli concernenti le pratiche di emigrazione regolare, dove sono
registrati comunemente solo le cifre totali relative agli “assenti” o emigrati nel
periodo in cui erano effettuati i censimenti: più dettagliati i dati ricavabili dalle
inchieste familiari che poi confluivano negli “stati di famiglia”, che però non sempre
101 Con questo termine si indica il periodo che dall’Unità arriva sino al 1974, data in cui il saldo migratorio italiano fece risultare un valore positivo per la prima volta da circa un secolo.
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sono stati conservati sino ai nostri giorni102. Purtroppo nei documenti relativi al
rilascio di passaporti non si fa distinzione tra emigrazione temporanea, emigrazione
definitiva e spesso, quando non è del tutto assente, la destinazione indicata è molto
generica: nel nostro caso, in più del 50% dei casi “Francia” è l’indizio più dettagliato
di cui abbiamo potuto disporre. Ecco una delle ragioni per cui abbiamo deciso di
integrare le nostre ricerche con alcune inchieste orali, che però, per ragioni di tempo e
difficoltà a rintracciare i soggetti studiati (quando questi non sono passati a miglior
vita), non possono essere considerate sufficienti a tracciare una mappa dettagliata e
precisa di questi percorsi migratori. Inoltre, data la particolare natura delle fonti orali,
abbiamo deciso di seguire solo le fonti cui avevamo trovato riscontro anche negli
archivi o in altre opere dedicate. In questo ci siamo attenuti alla prassi seguita fra gli
altri da Marie-Claude Blanc-Chaléard nella sua capitale opera sull’immigrazione
italiana nell’est parigino.103 Per fortuna le fonti francesi che abbiamo consultato si
sono rivelate ricche di informazioni e dettagli, il che ci ha permesso di trovare
conferma delle piste che avevano seguito in Italia. Questo, in generale, il percorso di
lavoro che abbiamo seguito per Casalgrande, il paese qui studiato con maggior
attenzione.
Per quanto riguarda Scandiano, causa anche l’impossibilità di consultare per lungo
tempo l’archivio comunale104, si è studiato con particolare attenzione il caso di
Arceto, frazione con un passato piuttosto importante e con una tradizione di
autonomia di lunga data;105 che per la sua posizione costituisce un po’ la frontiera tra
la realtà e le vicende della Bassa, in cui è a tutti gli effetti assorbita, e la zona 102 E che non ci è stato permesso di consultare per questioni legate alla privacy. Fortunatamente, nella stessa categoria XIV sono conservate lettere e documenti relative alla situazione degli emigrati, spesso indirizzate da un ente pensionistico, da un’azienda o da un comune francese. Incrociando questi dati con le richieste di passaporto abbiamo potuto accertarci dell’effettiva partenza dei soggetti che poi abbiamo preso in esame. 103 “L’usage de sources orales est des plus délicats, le récit que les personnes font de leur passé n’ayant guère de valeur historyque à l’état brut. Notre travail critique s’est appuyé sur le croisement entre le discours de témoins et les sources dont nous venons de parler, sur le receupement entre les témoignes également au bout de compte sur la validité pouvait leur donner le contexte historique que nous avions réussi à mettre en evidence.” In M.C. Blanc-Chaléard, Les italiens dans l’est parisien, une histoire d’intégration (1880-1960), École française de Rome. Roma, 2000. p. 24 104 Il quale è tutt’ora inutilizzabile fino a data da destinarsi causa un restauro che prosegue da due anni ormai. 105 Paese con una forte impronta identitaria, situato su un importante asse viario che da Reggio Emilia arriva sino a Sassuolo, vi si parla un dialetto diverso rispetto a quello di Scandiano, cui appartiene politicamente. La presenza di un castello vescovile permise alla cittadina di restare per lungo tempo un’isola ecclesiastica tra i possedimenti dei Fogliani e delle altre famiglie di derivazione più o meno estense o canossana che si contesero il dominio delle provincie di Modena e Reggio in età moderna.
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collinare, di cui è per certi versi una porta e un punto di raccordo. Inoltre il paese fu
duramente colpito dalla repressione fascista, e un numero importante dei suoi abitanti
fu costretto a prendere la strada dell’esilio, scegliendo proprio la Francia come rifugio
e luogo in cui riorganizzarsi e partecipare attivamente alla resistenza. Per quanto
riguarda infine Castellarano, comune che per alcuni versi è già stato al centro delle
attenzioni degli storici, anche se in via indiretta, avendo dato i natali a Elgina Pifferi,
eroina della resistenza francese e reggiana e il più perfetto esempio di
“eccezionalismo reggiano” in ambito migratorio106, ci si è limitati ad analizzare il
contesto locale e, confortati dai dati degli archivi, a individuare le linee dei percorsi
migratori locali, che si sono rivelati profondamente differenti rispetto a quelli di
Scandiano e Arceto. L’indirizzo migratorio di questa realtà, per consuetudini tout à
fait facente parte dell’universo della montagna, nonostante la presenza di nuclei
isolati dalle caratteristiche “tipicamente reggiane”, si è mostrato molto più simile a
quello delle vicine realtà appenniniche reggiane e modenesi: in questi luoghi il
fascismo ebbe un impatto diverso sul contesto sociale, così come il socialismo prima,
e questo sostrato crediamo abbia pesato anche sul definirsi di questi percorsi
migratori, come tenteremo di dimostrare nelle prossime pagine.
106 Ossia, nel caso della Pifferi ci troviamo di fronte a un personaggio piuttosto importante a livello politico, che assunse ruoli e gradi di assoluto rilievo, prima e durante la Resistenza in Francia. Nella maggioranza dei casi invece i reggiani hanno contribuito fornendo non i “quadri”, ma un buon numero di esponenti al livello più semplice nelle organizzazioni politiche e sindacali d’oltralpe. Vedere in proposito A. Canovi, Roteglia, Paris. L'esperienza migrante di Gina Pifferi, Istoreco, Reggio Emilia, 1998 e, A. Zambonelli, Elgina Pifferi: storia di una donna, in "Ricerche storiche", a. XVII, n. 50-51, dicembre 1983, pp. 89-102
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Parte Seconda: La Francia
“Le Rêve? - C’est bon Quand on
L’achève…
En vérité, la vie est bien brève, Le Rêve bien long.”
Avant-dernier mot, Jules Laforgue
LA GARE DE LYON
Per chiunque voglia raggiungere Parigi via treno, partendo dallo Stivale, la porta
della Ville Lumière è per forza di cose costituita dalla gare de Bercy. Questa antica
cittadina alle porte della città è col tempo entrata a far parte dell’arcipelago urbano
della capitale, divenendo uno dei quartieri più moderni e ricchi di attrazioni della
città. Una delle cose che potrebbe colpire i turisti e i visitatori italiani muovendo i
primi passi nella stazione, è la presenza di numerose segnalazioni nella lingua di
Dante. Quella che a tutti gli effetti potrebbe sembrare una quantomeno insolita
cortesia linguistica da parte francese è in realtà figlia di più di cento anni di storia
dell’emigrazione italiana a Parigi: sì, perché quando la stazione di Bercy altro non era
che una parte della gare de Lyon _ la porta della Francia una volta, ora solo la
seconda stazione per importanza della capitale francese _ era qui che la marea di
immigrati provenienti dal sud, e quindi anche dall’Italia, veniva a contatto per la
prima volta con il territorio metropolitano.
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“Me lo ricordo molto bene quando sono arrivata, perché è una cosa che mi aveva molto colpita. E’
stato nel ’36 […] mio papà mi aveva dato da portare a mio cugino ad Argenteuil due bottiglie di
lambrusco, dentro una borsa nera […] vai a vedere com’è, una si è rotta in treno. Così quando
sono arrivata alla stazione con una bottiglia sola, tutta bagnata di vino, coi cocci dentro. E poi
quando scendo alla stazione, c’è un omone grosso che sale su, prende una valigia e dice: “Merde,
alors!”. Allora io ho guardato con un po’ di ottimismo e ho detto: “Beh, se questo è il francese, lo
imparerò anch’io presto…!” C’era mia cugina. Suo padre e sua mamma erano fratello e sorella.
[…] E abbiamo preso un autobus che veniva _ queste cose le ho capite dopo _ che veniva dalla
Gare de Lyon per andare alla Gare Saint-Lazare. Allora abbiamo attraversato tutti i grands
boulevards, abbiamo attraversato tutte queste grandi strade e io ero impressionata a vedere i taxi
[…]”107
Questa colorita descrizione dell’arrivo a Parigi da parte della futura presidentessa
della Fratellanza Reggiana, Elgina Pifferi, è un efficace esempio di quello che deve
essere stato per i nostri connazionali l’impatto con Parigi. La gare de Lyon per gli
italiani era l’unica vera porta della Ville Lumière, il luogo in cui si immergevano,
spesso per la prima volta, in un mondo completamente diverso rispetto alla realtà
italiana di fine Ottocento o di inizio Novecento da cui provenivano. Essendo poi
buona parte degli immigrati originari di piccole cittadine a forte carattere rurale o
addirittura contadini provenienti dalle più sperdute valli dell’Appennino e delle Alpi,
non c’è da stupirsi che l’impatto con le maestose arcate di acciaio in stile liberty, il
viavai dei facchini e di valigie, la confusione e il vociare di migliaia di persone in
lingue diverse, lasciassero a bocca aperta anche i nostri compatrioti meno
impressionabili. Come in un romanzo di Zola, la città della luce apriva le sue fauci
per inghiottire la nuova marea di uomini che vi si avventurava, spesso senza
conoscere nemmeno una parola di francese e a volte senza nessuna idea precisa sul
proprio futuro. In quella che non sempre poteva definirsi una situazione fortunata,
solitamente questi uomini non avevano bisogno di percorrere molta strada per
imbattersi in un connazionale: sì, perché il XIIème arrondissement era una delle zone 107 Testimonianza di Elgina Pifferi, intervistata da Antonio Canovi, in A. Canovi, Roteglia, Paris. L’esperienza migrante di Gina Pifferi, RS Libri, Reggio Emilia, 1999, p. 20.
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in cui la presenza degli italiani era più diffusa e radicata. Nei primi anni del
ventesimo secolo la stazione era colma di sedicenti “capimastri”, reclutatori e diverse
declinazioni parigine dei “cumenda”: uomini la cui morale, a volte, era un gradino
sopra a quella del trafficante di uomini, quando non coincideva perfettamente con
essa. Facile immaginare come individui isolati, senza lavoro, contatti e senza alcuna
conoscenza del luogo e della lingua, si gettassero nelle loro braccia. Per coloro che
invece arrivavano a Parigi già con qualche contatto, e si trattava della maggioranza,
non restava che cercare un proprio parente, un amico, un compaesano o fare qualche
passo al di fuori della stazione per dare così inizio alla propria esperienza parigina.
Perché così tanti italiani si stabilirono in questa zona? La ragione più semplice è che i
primi immigrati non si spinsero lontani dal luogo del loro arrivo, ossia i quartieri che
circondavano la stazione, anche perché questi erano tra le zone più popolari della
capitale, le meno care, e in cui era più semplice trovare una sistemazione a buon
prezzo, senza troppi formalismi. La Parigi delle barricate, della colonna di Luglio, la
Parigi delle piccole fabbriche e delle botteghe artigianali, era questa la prima
immagine che gli italiani avevano della capitale del diciannovesimo secolo. Non solo
il dodicesimo, ma anche il XIIIème e l’XIème videro, a poco a poco, i loro caseggiati,
le loro impasses e le loro cîtés “colonizzate” da un numero sempre maggiore di
italiani: i nuovi arrivati infatti solevano stabilirsi vicino ai propri parenti o ai propri
compaesani già da qualche tempo presenti nella capitale, e in tal modo davano vita a
veri e propri insediamenti a prevalenza italiana. Più che in arrondissements, la gente
del luogo e gli italiani stessi solevano ragionare in termini di quartieri propriamente
detti, e nel tredicesimo, due erano i quartieri che sono diventati vere proprie
roccaforti italiane: Sainte-Marguerite e Charonne. In queste vie, in questi vicoli, tra i
più poveri della capitale, ma anche tra i più vivi, laboriosi e brulicanti di vita, era
possibile ogni giorno, a ogni ora, sentire qualcuno salutare, discutere, gridare in
italiano, o meglio, nei vari dialetti del nord Italia, la parte dello Stivale da cui
provenivano la maggior parte degli emigrati. Panifici, pizzerie, negozi di alimentari
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(épiceries italiennes), calzolai, impagliatori di sedie, trôleurs108, idraulici, manovali e
operai non specializzati ma abituati a muoversi tra un mestiere e l’altro; muratori,
imbianchini, ma anche artigiani e artisti di fama, gli italiani fecero il loro ingresso un
po’ in tutti gli ambiti professionali che dall’artigianato ai commerci caratterizzavano
la zona. Nell’immaginario parigino essi erano stimati come hommes à tout faire ,
uomini tuttofare, e la loro figura era legata soprattutto ai mestieri delle costruzioni e a
quelli del piccolo artigianato: oltre alla figura dell’operaio e del manoeuvre non
specializzato, tra gli immigrati italiani non era raro trovare dei falegnami e degli
ebanisti, e in generale alcuni piccoli imprenditori nel settore dei lavori domestici,
quali gli scaldini109, gli imbianchini, i restauratori, che popolavano con le loro
piccole officine e i loro caratteristici negozi le strade del faubourg Saint-Antoine.
Prima ancora che questi si insediassero a Parigi, nella mente dei francesi la figura
dell’italiano era stata soprattutto legata a quell’insieme di mestieri entrati poi a far
parte della mitologia della Parigi fin de siècle, dalla vetreria ambulante110 ai gelatai,
sino alla figura dei “girovaghi”, artisti di strada che animavano i caffè e i crocicchi
delle vecchie vie cittadine. Questi ultimi sono per lungo tempo stati il vero prototipo
dell’italiano migrante (almeno per quanto riguarda gli strati sociali meno abbienti),
spostandosi per mezza Europa con i loro folkloristici organetti di barberia, le loro
fisarmoniche, i loro sonagli. Come tanti Pierrot, i loro malinconici viaggi hanno avuto
108 I trôleurs erano i fabbricanti di mobili di bassa qualità che divennero una vera e propria figura dell’immaginario parigino all’inizio del secolo scorso. Mestiere che i francesi della province introdussero in città nel tentativo di ricavarsi un mercato parallelo a quello dei mobilieri e ai falegnami di alta e media qualità del faubourg Saint-Antoine, questi ambulanti del mobile non erano visti di buon occhio da questi in quanto con le loro merci messe insieme alla bell’e meglio facevano abbassare di molto i prezzi, e quindi i salari degli operai di un settore che dava da lavorare a una parte importante della popolazione del quartiere. Gli italiani, sebbene non fossero tra i pionieri del mestiere, ci misero poco a emulare i corrispettivi francesi, arrivando ben presto a superarli nel numero. Installati tra la Nation e Montreuil, fuori dalle mura, non era insolito trovarli per le strade dei quartieri popolari con le loro sedie legate in spalla. Fu partendo da qui che diversi piémontaises, come i francesi chiamavano tutti gli italiani del nord, riuscirono a costruirsi una nicchia di mercato arrivando anche a fondare imprese artigianali di qualità, le cui insegne si possono ammirare tuttora lungo rue Saint-Antoine. 109 È questo il nome con cui si definivano gli addetti alle caldaie dei grandi condomini parigini. Mestiere monopolizzato da alcuni abitanti di Bardi, esso consisteva nell’occuparsi della fornitura e della manutenzione della caldaie a carbone che alimentavano il riscaldamento centralizzato delle abitazioni parigine nei sei mesi freddi. Ancora oggi i tecnici delle caldaie e gli addetti agli impianti di riscaldamento della capitale sono in buona parte discendenti di quegli emiliani, come ha documentato Giovanna Campani nel suo saggio. Un discorso simile può essere fatto per le imprese edili. In, G Campani (a cura di), L’emigrazione emiliano-romagnola in Francia. Gli scaldini, i reggiani, i rocchesi, , Bologna, Consulta per l’emigrazione e l’immigrazione nella regione Emilia-Romagna, 1987 110 C’è una breve ma toccante descrizione di questa figura nel racconto “Le mauvais vitrier” di Baudelaire, contenuto nella sua opera in prosa Lo spleen de Paris.
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termine quando la moda, le disposizioni contro gli ambulanti adottate dal governo
francese e la forza del tempo, li ha spinti nell’album dei ricordi, aprendo la strada a
un nuovo tipo di emigrazione, ben più legata a pratiche produttive che artistiche o
culturali. Un nuovo mondo stava nascendo, e gli immigrati italiani vi avrebbero
recitato un ruolo di primo piano, contribuendo alla crescita, alla costruzione e alle
ricostruzioni post-belliche della nazione francese, affamata di braccia e di
manodopera Come dice père Cavanna nel libro del figlio:
“En France il y a toujours eu plus de travail que de bras pour travailler. L’émigration, il sert à la
France, ecco.” 111
Rues aux italiens, le strade degli italiani, così François Cavanna definisce le strade
centrali di Nogent-sur-Marne, comune della banlieue est, situato a circa sei chilometri
dalla Nation, ma lo stesso discorso può farsi per i quartieri a est di place de la
Bastille, e a sud est fino a Charenton , proseguendo poi per Maisons-Alford, Nogent,
Fontenoy-sous-Bois, etc… Come ha messo in luce in maniera esemplare Marie-
Claude Blanc-Chaléard nella sua tesi pubblicata sotto la direzione di Pierre Milza e
del CEDEI, tutto l’est parigino, banlieue compresa, divenne una zona a forte presenza
italiana. Nella mappa che segue, si può vedere come la presenza italiana fosse
significativa un po’ in ogni quartiere, con insediamenti sparsi in tutto l’arco della
banlieue e con ampie concentrazioni quali quella di Boulogne a ovest, Saint-Denis a
nord, Clichy a nord-ovest, oltre a diverse colonie d’importanza notevole in
corrispondenza del diciassettesimo e degli altri arrondissements esterni. Quello che
però colpisce maggiormente è l’alta concentrazione di italiani presenti nella zona est,
che dal dodicesimo arrondissements si dipana fino a circondare il bois de Vincennes e
a comprendere quasi tutta la banlieue est, con Montreuil a costituire il centro di
maggior consistenza numerica della colonia italiana.
111 F. Cavanna, Les Ritals, op. cit., p 51
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“À la veille de la Première Guerre Mondiale, il existe un territoire italien bien visible dans l’Est
parisien. Dans le quartiers de la Capitale, il se cache en arrière des grandes rues dans les passages
et les cîtés, mais il est déja bien implanté sur l’axe majeure rue de Montreuil – rue d’Avron, qui
court vers Montreuil. Dans toutes les communes de la banlieue est les Italiens sont présents, de
Vincennes à Montreuil en passant par Fontenay-sous-Bois. Le pole nogentaise sert de centre de
l’ensemble.112
113
112 M.C. Blanc-Chaléard, Les Italens dans l’est parisien…, op. cit., p. 187 113M.C. Blanc-Chaléard, Les Italiens dans l’Est parisien…, op. cit. p. 16. Mappa realizzata utilizzando i dati del censimento della popolazione del dipartimento della Senna del 1926. A.P. Dénombrement de la population par quartier, e A.V.D.M. Dénombrement de la population par quartier.
Gli italiani nel dipartimento della Seine nel 1926 (in valori assoluti per quartiere o comune)
79
Durante le nostre ricerche abbiamo potuto osservare sulle liste dei censimenti, che in
Francia avevano luogo ogni cinque o sei anni in forma regolare dalla fine
dell’Ottocento, come intere vie, spesso interi caseggiati o palazzi fossero abitati da
italiani più o meno imparentati tra di loro, o quando non vi fossero presenti legami di
sangue ecco che la provenienza regionale, e ancora più spesso il comune o la frazione
di origine fungessero da calamita e permettessero la concentrazione di vere e proprie
comunità paesane, trasferite nel contesto residenziale popolare di Parigi e della sua
banlieue.114 A volte capitava che intere famiglie, o più nuclei parentali uniti tra loro si
trasferissero un po’ alla volta nella zona urbana parigina; in altre occasioni, come nel
caso dei comuni piacentini di Ferriere e Bettola a Nogent, o di Cavriago ad
Argenteuil, quasi un intero paese si insediava in qualche angolo di Parigi o della
banlieue, portandosi dietro le sue reti sociali, le sue tradizioni, le sue consuetudini e le
sue gerarchie. 115 Come spiega Canovi:
“L’émigrant se nourrit surtout par le bas, grâce à un ample recours aux chaînes de liens
personnels mettant en contact des immigrés déjà établis de l’autre côté de la frontière et des
individus qui, en Italie, souhaitaient émigrer et utilisent précisément de tel liens pour ce faire. Ainsi
il est possible de déduire, des filières migratoires, des chaînes précises de comportement. Les
généalogies constituent en système de signes dont les correspondances et la réciprocité attendant
d’être saisies, dans leur dynamique, par l’étude des phénomènes migratoires.”116
È di fondamentale importanza per il nostro studio specificare il concetto di catena
migratoria: teoria che ha iniziato a prendere corpo a partire dal lavoro
sull’emigrazione italiana in Australia di John e Leatrice Macdonald117 risalente al
1964, poi rafforzato da diversi altri studi tra cui un saggio sui migration networks di
114 Ad esempio a Charenton, comune della banlieue prossimo all’XIème arrondissement, abbiamo riscontrato la presenza di quattro famiglie (i Masoni, i Menozzi, i Braghini e i Marzaghi) che, divisi in una decina di nuclei familiari, tutti, tranne uno, composti esclusivamente da emigrati reggiani o emiliani, occupavano tutti gli appartamenti di tre case contigue, presso rue des Carrières. In diversi casi tra queste famiglie, tutte provenienti da Scandiano o da altri comuni della provincia reggiana, si formarono legami parentali. Si potrebbero citare molti altri casi analoghi a questo. 115 E’ il caso dei Grands Cavanna di Nogent, dove il ramo più prospero della famiglia piacentina, controllava un po’ tutti i lavori edili eseguiti dagli italiani in città. Cfr. F. Cavanna, Les Ritals, op. cit. 116 A. Canovi, Creuset d’une petite Italie, Le temps des cerises éditeurs, Pantin, 2000, p. 34 117 John S. Macdonald and Leatrice D. Macdonald, Chain Migration, Ethnic Neighborhood Formation, and Social Networks, Milbank Memorial Fund Quarterly 42, Sidney, 1964
80
M. Granovetter del 1973118. Questi è divenuto uno dei meccanismi cardine per
comprendere e analizzare i fenomeni migratori, le loro dinamiche nel tempo, la loro
evoluzione e le variabili che li caratterizzano. Tramite la formula di “rete o catena
migratoria” si vuole indicare il meccanismo attraverso il quale i futuri emigranti
vengono a conoscenza delle opportunità, sono messi in condizione di viaggiare e
ottengono la loro dimora iniziale e il primo impiego nella località d’arrivo “ per
mezzo delle relazioni sociali primarie con gli emigrati precedenti”119. Insomma, la
partenza non era un salto nel vuoto, e per buona parte degli emigranti, non era guidata
da meccanismi impersonali di reclutamento e di assistenza. Al contrario, si basava
sulle relazioni sociali primarie, vale a dire di conoscenza diretta che ciascun
emigrante aveva con qualcuno che lo aveva preceduto. 120 Si assisteva così a quello
che potrebbe essere definito un fenomeno di socializzazione anticipata, tramite cui
l’emigrato riusciva a inserirsi nel nuovo ambiente grazie a un sistema, per così dire,
“fiduciario” che gli derivava dall’appartenenza a determinate comunità o gruppi nel
luogo d’origine. In tal senso vanno intese le numerosissime associazioni a carattere
regionale, ma più spesso provinciale o a livelli ancora più circoscritti che sorsero un
po’ ovunque in America, in Francia e negli altri paesi d’immigrazione. Nel nostro
caso ad esempio, quello dei reggiani, grande importanza rivestì la “Fratellanza
Reggiana”, associazione a carattere mutuale, ma non solo, che funse un po’ da
mediatrice e anello di congiunzione tra le diverse comunità reggiane e la realtà
parigina. Data il ruolo del tutto eccezionale che il gradiente politico ebbe nel caso
dell’emigrazione reggiana, è naturale che anche la Fratellanza assumesse un carattere
fortemente politicizzato, come vedremo meglio in seguito, e che anche l’adesione o
meno ad essa possa venir letta non solo come un indicatore dell’appartenenza politica
dei vari emigrati, ma anche di un loro preciso atteggiamento nei confronti della
pratica attiva della politica, vista come segno di riconoscimento identitario.
118 M.S. Granovetter, 'The Strength of Weak Ties', American Journal of Sociology 78 (6), New York, 1973. 119 P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni italiane…, op. cit., pp. 44-45 120 Ibidem
81
Perché dunque l’est? Zona tradizionalmente ad alta concentrazione d’immigrati, in
origine provenienti dalla provincia transalpina,121 e poi di belgi, olandesi,
lussemburghesi e naturalmente italiani, è qui che le prime colonie si stabilirono,
dando il via a quelle catene migratorie, che tramite una continua iniezione di nuovi
immigrati, alimentarono e contribuirono ad espandere la colonia italiana; questa, se
nel 1896 era solo la quarta per numero dietro a quella belga, l’olandese e a quella
tedesca, già nel 1911 era divenuta la colonia più numerosa a Sainte-Marguerite e a
Charonne.122 Fino al 1914 sono queste strade, rue Keller, rue Thière, rue de la Lappe,
rue Sainte-Marguerite, rue de Montreuil, rue des Vignoles, rue d’Avron, a ospitare la
più numerosa, concentrata e organizzata comunità italiana della capitale. Allo stesso
tempo però non bisogna dimenticare che, come riportano i censimenti e come
evidenziato nella cartina precedente, un po’ tutti i quartieri di Parigi, in particolare
nella cosiddetta couronne de la petite banlieue (gli arrondissements dall’undicesimo
al ventesimo) e nella banlieue vera e propria, era presente un buon numero di italiani,
che costituivano in media il 5% della popolazione totale. Questa “nebulosa”, come la
definisce Canovi123, subì diverse evoluzioni con il passare del tempo, tanto che
diviene difficile poter definire in maniera assolutamente precisa lo schema
insediativo adottato dai nostri connazionali, in particolare nel caso dei reggiani e
degli emigrati politici. Se, infatti, per le comunità che avevano una ormai vecchia
consuetudine di emigrazione in Francia, come quelle della montagna piacentina e
parmense, ma pure Cavriago, l’azione della catene migratorie fu molto forte e poté,
per così dire, funzionare a massimo regime per un lungo periodo di tempo, per una
provincia a scarsa tradizione migratoria come Reggio Emilia non è sempre possibile
seguire gli sviluppi di queste filiere. Spesso l’emigrazione reggiana, quando assunse
dimensioni considerevoli, coinvolse gruppi piuttosto circoscritti di persone, ossia
quelli che avevano avuto maggiori problemi col nuovo regime, che partirono in tempi
121 E’ stato calcolato che nel 1881 il 30% dei parigini non era nata a Parigi. Cifre destinate ad aumentare sino alla prima guerra mondiale. Cfr, Recensement de la Ville de Paris, 1881, source statistique réalizée par l’INED, Ined, Parigi, 1881 122 In A.M. Blanc-Chaléard, Les italiens…, op. cit. Gli italiani divengono nel 1911 il primo gruppo straniero per numero nel dipartimento della Seine, con 33.000 individui registrati, cui andrebbero aggiunti almeno tre o quattro migliaia di persone che ci stima siano sfuggite ai controlli ufficiali. 123 A. Canovi, Parcours migratoires…, op. cit., p. 35
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e modalità differenti a seconda del tempo, del luogo di provenienza e delle particolari
circostanze in cui maturarono la decisione di lasciare l’Emilia. Ecco perché abbiamo
deciso di utilizzare un metodo di ricerca a base multipla, che si appoggiasse su
diverse fonti. Lo spoglio degli archivi comunali ha costituito il sostrato della nostra
ricerca, ma senza altri dati su cui appoggiarci, difficilmente avremmo potuto
ricostruire il percorso dei migranti che abbiamo seguito. Fruttuosa si è dimostrata la
scelta di controllare le liste degli aderenti stranieri alle organizzazioni sindacali
presenti a Parigi presso gli archivi della Prefettura di Polizia, così come le cartelle
speciali contenenti fascicoli sugli individui ritenuti pericolosi o che avevano contatti
con le organizzazioni sovversive a carattere socialista, comunista o anarchico. Non
solo tra le carte delle ormai note organizzazioni antifasciste come la LIDU, Giustizia
e Libertà, la Concentrazione Antifascista, che tra i loro membri annoveravano un
elevato numero di emiliani e reggiani in primis ( anche se pochi ebbero un ruolo
importante come quadri o a livello dirigenziale), ma rimontando fino agli anni ottanta
dell’Ottocento, quando veramente l’emigrazione italiana era ancora al suo stato
pionieristico, abbiamo potuto osservare come diversi reggiani fossero già presenti a
Parigi. Questo era un periodo in cui solo poche decine gli individui lasciavano le terre
della provincia e di loro si sa pochissimo, se non proprio nulla. Nelle cartelle degli
archivi parigini si può vedere come diversi tra questi fossero attivi nella costituzione
di leghe operaie o di mutuo soccorso, e di come la polizia li seguisse con
un’attenzione molto viva. È qui forse che vanno ricercati quei legami con la
tradizione che altrimenti non sussisterebbero, e che negli anni ’20 poterono fungere
da base, se non materiale, quantomeno “mitologica”, allorché il fenomeno migratorio
si esplicò in tutta la sua intensità anche nella provincia reggiana. Questi esempi
avrebbero potuto continuare a vivere nell’immaginario comune di alcuni gruppi, poi
tramandati attraverso quelle forme di acculturazione tipiche delle società
contadine.124 L’idea è verosimile perché, sempre nelle carte della prefettura parigina,
abbiamo potuto vedere come quasi tutti questi “anarchistes”, come li definisce senza
124 Si può pensare ad esempio alle feste paesane, le celebrazioni del primo maggio o i “racconti della stalla” che tanto contribuirono a trasmettere la cultura delle masse agricole sino alla prima metà del secolo scorso.
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dare troppa importanza all’effettiva matrice politica degli stessi la polizia francese,
siano stati espulsi e abbiano fatto ritorno in Italia125. Purtroppo la scarsa precisione e
l’organizzazione degli archivi italiani, unita alla difficoltà di seguire gli spostamenti
di questi uomini al tempo, non ci hanno permesso di poter stabilire con assoluta
certezza se questi soggetti siano tornati o meno presso le loro cittadine. Quel che
sappiamo è che molti dei reggiani presenti Saint-Denis, antico comune a forte
impronta industriale e operaia e sede dei alcuni tra i primi nuclei reggiani presenti a
Parigi tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900126, si distinsero tra i principali attivisti del
movimento sindacale nel settore delle costruzioni, quando questo fu aperto anche agli
stranieri, cioè a partire dal primo dopoguerra.127 In ogni caso è del tutto plausibile
ritenere che questi uomini condivisero con i loro concittadini parte della loro
esperienza francese, instillando forse un germoglio destinato a crescere, sotterraneo,
negli anni, per poi riemergere ai tempi delle lotte contadine e dell’emigrazione
antifascista.
Sebbene difficile da isolare dunque, l’emigrazione reggiana mantiene una certa
visibilità nelle carte d’archivio proprio grazie ai suoi forti connotati politici. È anche
grazie a questi dati che siamo riusciti a ricostruire il percorso migratorio della
comunità di Casalgrande, la più studiata nel corso delle nostre ricerche. Non bisogna
però nemmeno commettere l’errore di identificare totalmente il fenomeno migratorio
con le vicende politiche dei soggetti in questione. Bisogna, infatti, sempre tenere
presente che comunemente l’emigrazione tocca gli strati sociali più bassi e che
sebbene vi fossero alcuni personaggi dall’eccezionale carisma e capacità di trascinare
le masse, in Francia, non si andava solo per fare politica. In Francia ci si andava per
lavorare e per vivere, quando in Italia questo era ormai molto difficile, in particolare
125 APP Ba 2168, fascicoli I-II. 126 Anche un emigrato reggiani famoso, Sergio Reggiani, meglio conosciuto come Serge, abitò a Saint-Denis durante il suo primo periodo parigino. “Arrivati a Parigi, e dopo diversi impieghi da parrucchieri ebrei o greci della rue de Charonne, a Tolbiac, e nella comunità italiana, Ferruccio atterrò dopo rue d’Avron _ ghetto italiano _ al Faubourg. Sergio era adesso vicino alla P. di Saint-Denis, ai magnaccia della prigione Saint-Lazare, e alla concentrazione socialista emiliana del n° 103 del quartiere”. V. Serge Reggiani, Autoritratto, Magis Book, Reggio Emilia, 1995 (1990), p. 165 127 APP, Ba 2387, fascicolo III “Comités prolétaires antifscistes et les Syndacats du Bâtiment”
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in una provincia ove i provvedimenti presi dal governo fascista avevano reso ormai
difficilmente percorribili quel connubio tra lavoro e politica che in Emilia aveva
raggiunto una commistione così profonda. Infine, bisogna tenere presente che
sebbene nelle realtà prese in esame il tasso di politicizzazione medio fosse molto
elevato, non sarebbe affatto corretto pensare che tutti coloro che decidevano di
lasciare il paese fossero convinti sostenitori del socialismo e oppositori del regime
fascista. Anzi, sia attraverso la documentazione italiana, che nel nostro lavoro di
ricerca a Parigi, abbiamo avuto modo di appurare come diversi emigrati fossero in
buoni rapporti con il fascio locale128, partecipassero agli eventi organizzati dalla
Maison D’Italie, e a tutti gli effetti paressero se non sostenitori, perfettamente
integrati con le reti associative e le direttive imposte dal governo italiano anche
all’estero. Inoltre la notizia di alcune pratiche di emigrazione o espatrio avvenute nel
pieno degli anni ’30 pare indicativa: per ottenere il passaporto per l’estero in questi
anni infatti era necessario godere di conoscenze davvero ben inserite nella struttura
burocratica provinciale, o di grande disponibilità economica, altrimenti solamente
coloro che godevano di un ineccepibile curriculum fascista potevano ottenere i
documenti necessari per espatriare.
128 APP, Ba 2165, Fascistes italiens à Paris. In due di questi fascicoli abbiamo trovato tracce di comunicazioni tra il fascio locale e la polizia francese, nelle quali si indicava come “bons italiens” alcuni degli emigrati di cui ci siamo occupati, i quali prendevano regolarmente parte alle feste e alle iniziative benefiche della Casa del Fascio. Si tratta a onor del vero di pochi elementi, di cui per altro non è riportato il passato politico. Che si trattasse di comportamenti dovuti all’effettiva adesione all’ideologia o dettati dal bisogno materiale (si organizzavano distribuzioni di viveri, doni per i bambini e vestiti)?
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DA CASALGRANDE A PARIGI Alfonso Barbieri, era uno tra i tanti lavoratori agricoli che, con l’arrivo dell’inverno,
vedevano ridursi notevolmente le possibilità d’impiego. In una società in cui non si
lavorava per guadagnare denaro, ma per mangiare, un lungo periodo di inattività
significava un periodo di fame. A Casalgrande di terra da lavorare ce n’era, ma da
qualche anno il numero delle braccia richieste era diminuito, vuoi perché era
aumentato il numero dei mezzadri, i quali conducevano l’appezzamento assieme alla
famiglia, vuoi perché alcuni avevano iniziato a convertire le proprie colture in
foraggere, il tutto per concentrarsi sulla cura delle vacche, che stavano poco alla volta
divenendo il principale mezzo di sostentamento per le famiglie contadine della
provincia. Siamo nell’inverno del 1920, il “biennio rosso” volge ormai al termine e a
Reggio e provincia si può dire siano stati anni di grandi successi per i socialisti.
Barbieri era stato piuttosto attivo nel movimento e poteva dirsi decisamente
soddisfatto del momento politico nella sua provincia e non solo. Alle elezioni
dell’ottobre del 1919 il PSI era riuscito a controllare ben 38 comuni su 45, tra cui
Casalgrande, dove sindaco era l’amico Farri, e Scandiano, il centro politico di
riferimento per tutti gli abitanti della zona. Lui c’era, in giunta, quando Farri era stato
nominato sindaco, e aveva partecipato alle sedute del consiglio ogni settimana.129 Di
cose da fare però ce n’erano ancora molte: la disoccupazione aleggiava ancora su
diverse zone delle provincia, anche se Casalgrande se la cavava ancora discretamente
bene; la guerra aveva lasciato in eredità molti problemi, alcune famiglie ne erano
uscite decimate, e le attività produttive non riuscivano a coprire il fabbisogno
lavorativo di tutti. Farri aveva dato il via a un significativo programma di lavori
pubblici, che per qualche tempo avrebbe fornito una fonte di reddito importante per
tanta gente, oltre a migliorare le condizioni di chi, come Barbieri, non aveva potuto
studiare per mancanza di strutture e insegnanti130. Anche sul piano dell’iniziativa
129 ACC, Delibere del consiglio comunale, 7-10-1920. 130 La costruzione di una scuola media, e la ristrutturazione dell’edificio ospitante le scuole elementari a Boglioni erano in cima alla lista di opere pubbliche a cui voleva dedicarsi il sindaco.
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individuale qualche impresa si era mostrata molto attiva. Pietro Grulli, il capo mastro,
aveva messo assieme una bella squadra, che rinverdendo gli antichi fasti della
tradizione di costruzioni della famiglia, era tornato a farsi un nome in tutto il
comune131. Intanto Barbieri era preoccupato: quelle bande di manganellatori ed ex
combattenti che da Carpi avevano cominciato ad aggirarsi per le campagne non gli
piacevano. Per nulla. Al momento erano pochi, avevano l’appoggio di qualche
piccolo borghese, di qualche ex patriota che aveva iniziato a odiare tutti quei
socialisti, quei contadini, quei rivoluzionari che avevano vinto le elezioni e che non
voleva abbassarsi a credere che i propri diritti fossero gli stessi di quegli analfabeti
che avevano dalla loro parte solo la forza del numero. Eppure, qualcuno dei pochi
grandi proprietari, come i conti Spalletti di San Donnino, sembravano prenderli molto
in simpatia,132 così come alcuni studenti di Scandiano, e diversi pubblici funzionari
che si erano distinti durante la guerra e che al rientro in patria non avevano visto di
buon occhio l’affermarsi di Farri e dei socialisti; questi si erano dimostrati attenti alle
questioni locali, ma pochissimo impegnati ad onorare loro, i difensori della patria.
D’altronde, erano i socialisti quelli che avevano spinto per la neutralità alla vigilia del
conflitto, e poi per la strana formula del “non aderire, né sabotare”. Non erano veri
patrioti. Intanto, anche nella Bassa, le notizie degli scontri si facevano sempre più
allarmanti: a Correggio si diceva vi fossero state due vittime, uccise a colpi di
manganello da un gruppo di sconosciuti con le camicie nere.133
Barbieri, forse grazie a uno dei suoi viaggi in città per riferire alla sede provinciale
del partito, o per partecipare a una manifestazione alle Reggiane, poteva aver sentito
dire da qualche cittadino o da qualche cavriaghese134 che al di là delle alpi, in
Francia, di lavoro ce n’era in abbondanza e che già tanti reggiani erano partiti, divisi
tra una città che si chiamava Argenteuil, un’altra chiamata Montreuil, e naturalmente 131 Nel corso di un’intervista telefonica, realizzata con il nipote Aldo Grulli, siamo venuti a sapere che Pietro possedeva oltre all’impresa due magazzini, uno dei quali a Scandiano, e il mulino di Boglioni, allora l’unico fornitore di energia elettrica del paese, oltre ad alcuni appezzamenti di terra. 132 In un documento riservato del 1935 è attestato che il giovane conte Spalletti fosse da diversi anni un funzionario del fascio locale. Nel documento in questione si cerca di accomodare la difficile questione di una sua paternità fortuita, che vede coinvolto un’operaia di Barcellona, ove il conte era in congedo. ACC, Cat XIV, a. 1935 133Basenghi, Pastorini, Storchi, Umberto Farri…, op. cit, p.58 134 Erano piuttosto numerosi gli operai originari di Cavriago che lavoravano alle Officine Meccaniche Reggiane nel primo quarto del secolo scorso.
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a Parigi135. Anche alcuni suoi concittadini avevano già fatto le valige, come Agenore
Ricchetti, il giovane Pedretti, il “tedesco” Botti136, Pini137, e altri ancora, tutti in
Francia, una buona metà dei quali era finita a Parigi, dove lavorano come operai,
manovali o in piccole imprese private. Questi restavano al di là delle Alpi qualche
mese, per lo più nella stagione invernale e primaverile, poi ritornavano, con qualche
soldo in più in tasca_ ma non troppi_ raccontando molte meraviglie della “città della
luce”. Per ora si trattava di un pensiero, di una fantasticheria, c’era tanto da fare qui, a
Reggio, a Casalgrande, e con Farri in sella c’erano tutte le condizioni per migliorare
le cose anche qui, a casa. Col passare dei mesi però, la situazione politica peggiorava:
le incursioni dei fascisti crescevano per numero e intensità in tutta la provincia, alcuni
compagni erano stati picchiati, presi a bastonate e addirittura, a Scandiano, qualcuno
aveva rischiato di rimetterci la vita. Il movimento degli Arditi del Popolo, sorto
spontaneamente in provincia e non solo per difendere i contadini e le istituzioni dalle
incursioni squadriste, era stato disconosciuto dalla direzione del partito, che
predicava la pazienza, in attesa che le tensioni calassero e che i cosiddetti fascisti si
disperdessero, una volta che la rabbia e la sete di vendetta di coloro che avevano
guardato con terrore e odio al Biennio Rosso si fosse appagata. Dopo l’estate invece,
le cose peggiorarono ulteriormente, fino a che un giorno di fine ottobre, da Roma
arrivò la notizia, inaspettata, terribile: il re aveva concesso a Mussolini pieni poteri
per ricostituire il parlamento. I fascisti avevano preso Roma. Negli occhi di Barbieri
c’è ancora il viso sanguinante dell’amico Umberto Farri, preso a manganellate da una
squadra il 27 agosto del 1921, sotto la porta di casa.138 La situazione rischiava di
diventare insostenibile. Bisognava fare qualcosa, ma cosa? La sua stessa incolumità 135 Sappiamo che in realtà a Casalgrande era presente una corrente più o meno regolare di emigrazione diretta verso la Francia, attiva già nel 1900, e che arrivò a contare una cinquantina di partenze all’anno dal 1905 e il 1913. Ma si tratta di una corrente migratoria diretta in buona parte verso le regioni meridionali della nazione transalpina: Bouches-du-Rhône, Savoie e Haute-Savoie in primis. Siamo a conoscenza di questi dati grazie alla presenza di diversi Prospetti trimestrali dell’emigrazione, che annotano genere, quantità e nazione di destinazione dei migranti, oltre a specificare nelle note sul retro che si trattava di emigrazione temporanea, di 6-8 mesi. I nomi degli uomini che abbiamo potuto esaminare però non sembravano avere relazioni parentali con i soggetti da noi studiati e che si diressero verso Parigi in un contesto molto differente, improntato da un forte e imprescindibile carattere politico. Visti gli scopi di questo lavoro, si è scelto di non trattare nel dettaglio questa pur non trascurabile componente della storia migratoria di Casalgrande. 136 Così erano soprannominati coloro che si trasferivano in Alsazia-Lorena, fino alla seconda guerra mondiale territorio del Reich tedesco. 137 ACC, Cat. XIV, 1920 e ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Armando Pini, b 3982 138 ACC, Verbali di Giunta, 27-8-1921
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era a rischio. Più volte era stato minacciato, lui, la sua famiglia, e la sua carriera
politica, pareva al capolinea. I fascisti lo tenevano d’occhio139, e aspettavano
l’occasione buona per colpirlo. Nelle elezioni del 1921 i socialisti reggiani si
astennero, e tutti gli uffici più importanti caddero in mano fascista. Nei mesi seguenti
dalla capitale e dalla città arrivarono ordini di mettere pressione agli organi politici
affinché fossero insediati dei buoni fascisti in giunta e nelle principali organizzazioni
pubbliche. Persino la Cdl, fino ad allora braccio organizzativo del PSI, sembrava
ormai in mano alle camicie nere. Barbieri fu costretto a dimettersi, così come altri
suoi compagni di partito, mentre la giunta diveniva sempre più fascistizzata. Da
quello che ci dicono le nostre fonti, sembra che Barbieri partì una prima volta per
Parigi nel corso dell’estate del ’21, o almeno, il sindaco gli concedette il nulla osta
per il ritiro del passaporto: lo ritroviamo poi in Francia nel 1923, ove restò per tutto il
quindicennio seguente. Siccome la durata dei passaporti era triennale, e il primo
rinnovo è confermato nel gennaio del 1924,140 non possiamo essere certi che Barbieri
sia rimasto continuativamente in Francia in quegli anni e anzi, non sappiamo
nemmeno se vi si fosse recato con certezza. Allo stesso tempo però, tutte le
indicazioni lasciano intendere che la sua presenza a Casalgrande non fosse gradita
alla nuova classe politica, e che la sua stessa incolumità potesse essere messa a
rischio. Perché restare dunque, e rischiare di venire arrestati, o peggio, di subire le
vendette dei fascisti? Il buon senso farebbe propendere per la permanenza all’estero.
A toglierci ogni dubbio o quasi v’è un episodio che pare decisivo. Si era nell’ultimo
scorcio di un’estate che per alcuni dei socialisti reggiani sarebbe stata l’ultima, ed è
una lettera del sindaco Farri, conservata presso gli archivi comunali e indirizzata a
Barbieri all’indomani della Liberazione, a darci notizia di un episodio che vide
protagonista l’ex membro della giunta. Alcune camicie nere, nell’accompagnare la
venuta del commissario del prefetto presso il palazzo del Comune a Boglioni, vollero
bruciare la bandiera rossa che capeggiava fuori dal Comune dal tempo della salita al
potere della giunta socialista: con una sortita che resterà nella memoria del paese e
139 ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Alfonso Barbieri, busta 325. 140 ACC, Cat. XIV, prot. n° 178 del 5-1-1924
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non solo, Barbieri mise in salvo lo stendardo141. I fascisti non gli perdoneranno
questo affronto.
Non è possibile ricostruire esattamente il percorso di Barbieri, ma sappiamo che nel
giugno del 1921 a Parigi142 avrebbe potuto ospitarlo il parente Primo Barbieri, un
lavoratore alla giornata iscritto alla Cooperativa Bracciantile di Casalgrande e
Castellarano, già emigrato nella primavera dello stesso anno143 . Poi, per i successivi
due anni, le nostre fonti tacciono, ed è qui che verosimilmente si colloca l’episodio
della bandiera. Nel 1923 lo ritroviamo a Lille, mentre due anni dopo è di nuovo a
Parigi. Sappiamo che aderì al movimento antifascista “Italia Libera”, il cui segretario
era il futuro deputato Pacciardi, toscano, che era emigrato a Parigi nel 1925.
L’associazione aveva sede al 32 di rue de Babylone, nel settimo arrondissement. La
politica quindi, non aveva smesso di interessarlo. Sappiamo dai documenti d’archivio
dell’associazione presenti in Francia, che al tempo della Liberazione, risiedeva a
Montreuil, al 37 di rue Lefebvre, e che nello stesso periodo aveva aderito alla
Fratellanza Reggiana. In seguito lo ritroviamo in Italia, membro del Comitato di
Liberazione Nazionale, giunto assieme a Campioli e agli altri circa 500 reggiani che
da Parigi lo accompagnarono in Emilia, dopo che già in Francia avevano contribuito
alla vittoria degli Alleati e alla cacciata dei tedeschi.
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Altri#esempi#di#emigrazione#
Il caso di Barbieri non è isolato, anche se il suo non può costituire a tutti gli effetti il
tipico esemplare dell’emigrato casalgrandese. La sua appartenenza ai quadri avanzati
della politica locale lo differenzia da molti altri suoi concittadini, che pur aderendo a
diverse cooperative agricole o di lavoro, e pur avendo anche appoggiato i socialisti a 141 ACC, Cat. XV, prot. n° 806, 1946 . Il sindaco Farri, rieletto nel 1946, invia a Barbieri, residente in rue Lefebvre 37, una copia dell’Ordine del giorno del consiglio comunale del 10 aprile 1946, in cui si stabilisce che la bandiera rossa venga esposta fuori dal balcone della sala del consiglio del municipio. Qui fa cenno all’episodio di quasi venticinque anni prima. 142 ACC, Cat. XIV, prot. n° 704, del 10-6-1921 143 ACC, Cat. XIV, prot. n° 506, del 24-2-1921
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partire dal dopoguerra, o magari da un tempo ancora maggiore, non possono dirsi
altrettanto addentro alle vicende politiche locali. Lo stesso cugino Primo, non pare
abbia avuto un ruolo molto importante nelle iniziative socialiste riguardanti il paese,
anche se era iscritto al sindacato. Infine, il suo peregrinare, con destinazione finale a
Montreuil, costituisce una tipologia di percorso differente rispetto a quella seguita
dalla maggior parte dei suoi concittadini. Un buon numero degli emigrati
casalgrandesi che siamo riusciti a seguire attraverso il loro percorso migratorio in
Francia infatti, si concentrò in altre zone della capitale e dell’Esagono144.
Un caso più vicino all’idealtipo dell’emigrato casalgrandese è forse quello della
famiglia Ricchetti. Il primo a partire fu Agenore: sappiamo che assieme a una certa
Toni Luigia, modenese, egli aveva richiesto due passaporti per Parigi nella primavera
del 1921. Ricchetti aveva allora trent’anni e non era quindi più giovanissimo. Era già
sposato da diverso tempo, e il padre Augusto era un operaio con trascorsi socialisti.
Non sappiamo se quest’ultimo fosse già stato in Francia prima della Grande Guerra,
ma è molto probabile che Agenore, al tempo del nostro primo riscontro nella
primavera del 1921, fosse già stato oltralpe e che disponesse di un lavoro sicuro;
diversamente è difficile credere che avrebbe portato con sé la moglie, soprattutto con
le nuove politiche migratorie vigenti in Francia, che consentivano l’immigrazione
solo a coloro che dimostravano di essere in possesso di un regolare contratto di
lavoro. I due si stabiliscono a Parigi, non sappiamo dove, ma qualche anno dopo, nel
1932 li troviamo in banlieue est, a Maisons-Alfort, in rue de la Concorde 69.145 Nel
1926 un Ricchetti Arnoldo è segnalato a Parigi146, due anni dopo gli viene rinnovato
il passaporto e viene confermato l’adempimento dei suoi obblighi di leva. A Ricchetti
Marcello, operaio, classe 1902, viene rinnovato il passaporto nel 1927.147 Nel 1929
veniamo a sapere che Augusto Ricchetti, il padre di Agenore, è in Francia, attraverso
144 Le fonti archivistiche ci danno notizia di emigrati presenti nella zona di Nizza, nella Savoia e nel sud ovest agricolo, oltre che in Corsica. Proprio nell’isola che diede i natali al Bonaparte era presente un folta colonia proveniente da Castellarano, il che, unito alle evidenze relative agli emigrati scandianesi, testimonia di come la zona dell’alta Val di Secchia avesse seguito percorsi migratori simili, che potremmo addirittura azzardarci a definire unitari. 145 ACC, Cat. XIV, prot. n° 605, del 9-9-1932 146 ACC, Cat. XIV, prot, n° 127 del 25-1-1926 147 ACC, Cat. XIV, prot. n° 458 del 10-3-1927
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una lettera di richiamo indirizzata alla figlia Carmelina,148 che è invitata a
raggiungerlo.
Dunque due generazioni della famiglia Ricchetti sono a Parigi, con un nucleo, quello
più importante, situato a Maisons-Alfort, nella banlieue est. Sappiamo anche che un
altro parente, tale Ricchetti Anselmo149, era partito per la Lorena assieme ad una
squadra di circa 30 operai tutti provenienti dal comune di Casalgrande. Parleremo più
avanti di questa squadra di operai diretta in quello che era a quel tempo il bacino
minerario più importante d’Europa. Nel marzo dello stesso anno, Agenore richiama la
moglie, Orpini Berenice, affinché lo segua in Francia. Com’è tipico del periplo
migratorio dei partenti provenienti dal nord della penisola, dopo un periodo di
qualche anno, l’emigrato richiama presso di sé la moglie, segno che dall’iniziale
carattere stagionale e temporaneo, il processo migratorio si era evoluto verso una
soluzione a carattere permanente. D’altronde, molti suoi familiari erano già in
Francia, e da quel che appare, il nucleo costituito dalla famiglia Ricchetti sembrava
ormai ben impiantato nel nuovo contesto della banlieue parigina, dove era stato
ricreato il piccolo universo familiare già presente a Casalgrande, inserito in un
contesto ad alta presenza italiana, in particolare di emiliani, come vedremo meglio
nel prossimo capitolo. L’arrivo della moglie è un importante passo in avanti verso
questo transfert, che avrà il suo compimento due anni dopo, quando la signora
Orpini, scriverà al sindaco per richiamare presso di sé i suoi due figli. Veniamo a
sapere che i due bambini avevano, nel 1932 rispettivamente sette e nove anni: questo
ci permette di fare altra luce sul percorso migratorio della famiglia. Essendosi recato
in Francia per la prima volta non più tardi del 1921, Agenore deve essere ritornato a
Casalgrande almeno due volte per poter concepire i due neonati, non essendovi
testimonianza dell’espatrio della moglie. Questo sembrerebbe confermare l’ipotesi
dell’evoluzione della tipologia di emigrazione seguita da Agenore, che all’inizio
dovette passare in Francia solo alcuni brevi periodi, probabilmente tra i sei e i nove
148 ACC, Cat. XIV, prot. n° 1571 del 7-9-1929 149 E il suo nome, oltre che nell’archivio di Casalgrande, figura anche nell’elenco del Casellario Politico. ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo di Anselmo Ricchetti, b. 4298
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mesi (questa era la durata tipica dei contratti stagionali offerti agli operai italiani); in
seguito la sua permanenza in Francia deve essersi prolungata e i suoi rapporti di
lavoro fatti più stabili e continuativi. Da qui la decisione di portare con sé il padre, i
fratelli, e infine, la moglie e i figli. È più che ragionevole congetturare che il Ricchetti
si sia avvalso dell’aiuto di una rete non solo parentale, ma a carattere comunale e
regionale, che gli abbia permesso di sopportare, almeno nel primo periodo le spese
necessarie per rilevare l’appartamento di Maisons-Alfort, e mantenere la famiglia
intanto che questa non avesse trovato altre fonti di reddito. Osservando la fitta
corrispondenza tra il consolato italiano di Parigi e il comune di Casalgrande, veniamo
a scoprire che i figli torneranno a casa (in Francia) con la madre, ridiscesa in Italia
per partorire il piccolo Giovanni. Questa scelta era figlia delle politiche di
“fascistizzazione” delle colonie italiane all’estero, dove i fasci locali cercavano di
incoraggiare le partorienti a dare alla luce in patria la prole, conferendole così la
cittadinanza per ius soli: fossero nati in Francia, infatti, i “figli d’italico seme”
sarebbero divenuti francesi, o meglio avrebbero potuto decidere di diventarlo al
compimento del diciottesimo anno d’età, cosa che puntualmente accadeva. Per
occuparsi della questione era stato creato un organismo apposito, l’ “Opera nazionale
per la protezione della maternità”, che assistette l’Orpini in prima persona,
finanziando il viaggio e consentendole di riportare con sé i figli a Parigi. Si trattò di
un gesto di alto patriottismo quindi, o un mezzo per poter godere dei benefici forniti
dall’Opera? Non possiamo saperlo con certezza, ma non vi è notizia, presso gli
archivi francesi, di partecipazione a qualsivoglia attività organizzata dal fascio di
Parigi da parte della famiglia Ricchetti. Veniamo poi a scoprire che al nostro
Agenore, divenuto Agenez anche nei documenti italiani, erano occorse diverse
difficoltà nel rinnovare il passaporto, cosa che solitamente accadeva agli emigrati non
graditi al regime. Di lui in seguito non si avranno più notizie. Quando abbiamo
controllato presso gli Archives du Val-du-Marne di Créteil, al numero 69 di rue de la
Concorde abbiamo riscontrato la presenza di moltissimi italiani, buona parte dei quali
93
proveniente dai comuni di Casalgrande, Scandiano e Castellarano, ma non vi era
traccia della famiglia Ricchetti, almeno nel censimento del 1936.150
150 AVDM, Maisons-Alfort, Listes du recensement par quartiers du 1936, rue de la Concorde
94
!
#
#
Pietro#Grulli:#un’impresa#“multinazionale”#
Un altro caso interessante per sottolineare le diverse sfaccettature nella tipologia di
emigrazione che caratterizzò il comune di Casalgrande è quello dell’imprenditore
edile Pietro Grulli. Sfogliando i fascicoli contenuti in quel vaso di Pandora che è la
categoria XIV dell’archivio comunale di Casalgrande, entro cui confluivano tutti i
protocolli a carattere eccezionale o particolare riguardanti il comune e i suoi cittadini,
il nome di Grulli è forse il più presente per tutti gli anni ’20. Titolare di un’impresa di
costruzioni, restauri e riattamento di strade e ponti, è tra i primi beneficiari delle
politiche imperniate sulla costruzione di alloggi popolari e di fornitura dei servizi alla
cittadinanza che la giunta socialista di Farri attua in paese. È lui a occuparsi del
riassestamento della strada centrale di Boglioni, dell’interramento del canale, della
costruzione del cinema, o meglio, del restauro dell’edificio che lo ospiterà e di molti
altri lavoretti di minore entità. Il nome Grulli in paese è da sempre sinonimo di
costruttori. Risalgono alla fine del Settecento i primi documenti relativi alla famiglia
e alle pratiche edili che essa praticava in paese e nel circondario. Sappiamo che nei
primi anni del dopoguerra nella sua squadra sono impiegati tra i dieci e i venti uomini
di età compresa tra i quindici (ma verremo a scoprire che erano impiegati anche
ragazzi di tredici e quattordici anni) e i quarant’anni. In paese è una piccola
“celebrità”, sicuramente uno tra i lavoratori più attivi. Grulli pare in ottimi rapporti
con il sindaco e l’amministrazione socialista, che gli affida molti lavori, anche di
importanza notevole, e si dichiara soddisfatta del fatto ch’egli utilizzi manodopera
proveniente dal comune, in un momento in cui il lavoro nei campi non riesce ad
assorbire tutta la forza lavoro. Con l’avvento al potere dei fascisti Grulli non pare
perdersi d’animo, anzi, le commissioni affidategli aumentano: è forse il segno che
quelle che parevano essere sincere simpatie socialiste erano pragmatici
95
ammiccamenti degni del miglior bottegaio di fronte a un potenziale cliente? Non
possiamo saperlo, ma certo è che per l’impresa Grulli le cose, sotto il fascismo,
andranno sempre meglio151. D’inverno però anche per i muratori e per i costruttori il
lavoro non abbonda. Ecco allora che Grulli fa domanda per un passaporto per la
Francia nel marzo del 1924152. Siccome la pratica richiedeva circa un paio di mesi
prima di concedere il nulla osta, è probabile che la richiesta risalisse addirittura al
dicembre precedente: sebbene marzo e febbraio fossero tra i mesi con la più alta
percentuale di partenze, non solo nel comune, ma in tutto il nord Italia, non era così
di solito per i lavoratori edili, che prediligevano l’autunno, visto che in Francia il
lavoro poteva svolgersi anche durante i mesi più freddi, magari concentrandosi sui
restauri, sulla pittura delle pareti interne, nei lavori pubblici. Non possiamo stabilire
con certezza se il costruttore si sia recato o meno in Francia: la richiesta di un
passaporto non equivale automaticamente alla certezza di un viaggio, ma testimonia
soltanto l’intenzione o il bisogno di compiere questo passo. Visti i possedimenti in
paese dell’imprenditore non crediamo che Pietro avesse bisogno di recarsi in Francia
per necessità, a meno che non siano implicate in questa scelta ragioni che sono
estranee al semplice fatto economico. Un motivo politico? Non lo sappiamo, ma
possiamo supporlo153.
L’anno precedente Grulli aveva lavorato duecentodieci giorni, come riportato nella
sua “Denunzia di esercizio”, in cui dichiarava di avere sotto di sé dodici operai di età
superiore ai quindici anni, e uno di età inferiore, come garzone. Pur non sapendo se il
viaggio si sia effettivamente compiuto, sappiamo che l’anno successivo Grulli era di
nuovo in Italia, dove aveva messo assieme addirittura due squadre, affidandone una
al fratello. Le nostre convinzioni comunque sono rafforzate dalla notizia del viaggio
da parte di un impresario non ben precisato, il quale aveva passato più di due terzi
151 Sempre grazie all’intervista realizzata al nipote Aldo siamo venuti a sapere che l’impresa arrivò a contare fino a 60 operai negli anni ’30. 152 ACC, Cat. XIV, prot. n° 596 del 1-3-1924 153 Il nipote Aldo si è mostrato sorpreso nel sentire parlare di un viaggio in Francia del nonno: non esclude però che per un qualche motivo a lui sconosciuto questo possa essere effettivamente avvenuto prima della sua nascita, il che non contraddirebbe un’effettiva partenza, a carattere temporaneo, negli anni ’20.
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dell’annata lavorativa oltralpe, accompagnato da una squadra di trentadue operai154. È
plausibile che Grulli avesse svolto quantomeno il ruolo dell’intermediario, fornendo
magari ad un conoscente un gruppo di lavoratori qualificati che altrimenti sarebbe
rimasto senza occupazione per alcuni mesi. Non sono registrati i nomi di questi
lavoratori, ma tra l’anno seguente e il successivo è segnalato il rimpatrio di una
decina di operai, “rimasti in Francia oltre la scadenza del permesso di soggiorno e
senza contratto”.155 Nello stesso anno _ siamo nel 1927 _ il fratello di Pietro, riceve
l’incarico di ricostruire il cinema cittadino.
Intanto in paese l’amministrazione fascista iniziava a stringere le maglie sulla rete
dell’emigrazione. A partire dal 1926 vennero concessi sempre meno passaporti, e le
difficoltà per ottenerli aumentarono notevolmente. Ora, oltre alla presenza di un
contratto di lavoro, era necessario dimostrare di possedere un curriculum fascista
senza macchia, oltre a non aver aderito in passato a organizzazioni socialiste o
comuniste. L’emigrazione era vista dal regime come una perdita di preziosa
manodopera in un periodo in cui l’Italia stava lottando per l’autarchia e l’autonomia
economica. Le liste di proscrizione circolavano, se non pubblicamente, tra le
scrivanie delle autorità. Ad Aldo Ficarelli (poi partigiano) il rinnovo del passaporto
venne rifiutato per irregolarità relative al contratto di lavoro; Boccedi Giuseppe e
Rabitti Enzo non poterono emigrare per ragioni di “pubblica sicurezza”156 Coralli
Delfino, zio dell’emigrato Lotrini Ennio157, non poté lasciare il paese perché
denunciato e latitante da parecchi mesi.158 E gli esempi potrebbero essere ancora
molti.
Sebbene l’opera di controllo da parte fascista159 paia sortire i suoi effetti, alcune
evidenze sembrano mostrare che, a livello di presa effettiva sulle masse, la nuova
ideologia non abbia riscontrato un gran successo, almeno a un livello non 154 ACC, Cat. XIV, prot. n° 345 del 4-3-1926 155 ACC, Cat. XIV, prot. n° 468 del 2-11-1927 156 ACC, Cat. XIV, prot. n° 593 del 26-3-1928 157 Lotrini, originario di Casalgrande, emigrò negli anni ’20 e dopo varie peripezie si stabilì nella banlieue parigina dove si creò una famiglia senza però tagliare mai ponti con la sponda emiliana della famiglia, come dimostra tra l’altro la sua decisione di unirsi alla Fratellanza Reggiana. Proprio come membro dell’organizzazione fu intervistato da Antonio Canovi durante una delle sue inchieste orali, svolte in preparazione al suo lavoro su Argenteuil. 158 ACC, Cat. XIV, prot. n° 325 del 22-2-1929 159 In totale sono 13 i casalgrandesi di cui abbiamo trovato traccia nelle liste del Casellario Politico Centrale.
97
superficiale. Una circolare inviata dalla sede reggiana de “Il Popolo d’Italia”, uno dei
giornali ufficiali del regime, chiede al sindaco di “compiere un gesto patriottico e
sottoscrivere l’abbonamento al giornale”; si domanda altresì di ovviare alla lacuna
fornendo l’edicolante del paese di qualche copia dello stesso, dato che “in base ai
nostri dati non si vende alcuna copia del nostro giornale e l’edicolante ha smesso di
richiederne a causa di ciò”.
E Grulli? Non sappiamo più nulla della sua attività, ma data la mancanza di
documenti relativi al rinnovo del suo passaporto, e la mancanza di attestazioni
concernenti la sua azienda, non possiamo affermare nulla di certo. Secondo le
testimonianze la sua impresa raggiunse il suo apogeo proprio negli anni ’30. Difficile
però pensare che in un periodo di crisi come quello che colpì l’Italia in quegli anni la
sua impresa non ne ricevesse qualche colpo. D’altronde, come si tramanda anche
nella coscienza popolare, quando le cose vanno male, l’edilizia è tra le prime attività
a risentirne. Quello che sappiamo è che in paese le cose, dal punto di vista
occupazionale almeno, non andavano bene. Una circolare spedita dal comune
all’Ufficio di Statistica della Provincia registra che nel mese di ottobre del 1930
(quindi dopo la vendemmia) il 40% dei braccianti e il 50% delle donne impiegate in
agricoltura si trovava senza un’occupazione160. Erano i mezzadri coloro che
riuscivano in qualche modo a “tirare avanti”, mentre per quelli che erano costretti a
vendere la propria forza lavoro si prospettavano tempi parecchio difficili. Era una
tendenza comune a tutta la provincia, che coinvolse anche le attività secondarie come
l’artigianato e la piccola imprenditoria. Per i costruttori come Grulli non furono certo
tempi d’oro, e gli effetti più nefasti della crisi del ’29 erano ancora là da venire.161
Anche l’amministrazione fascista non poté che fare i conti con questi dati, e così
160 ACC, Cat. XIV, prot. n° 1079 del 22-120-1930 161 Sappiamo che Grulli morì negli ultimi mesi della guerra, nel 1945, quando già le sue fortune economiche avevano preso una piega negativa. La sua vicenda migratoria, forse mai avvenuta in forma diretta, ma “presente” attraverso i legami e il ruolo che egli rivestì nella vicenda della squadra di operai, ci mostra un altro aspetto dell’emigrazione e un’altra figura tipica di questo processo ossia quella del mediatore. Come hanno sottolineato Nora Sigman e Antonio Canovi nei loro lavori su Modena, questi personaggi rivestirono un ruolo tutt’altro che secondario nel direzionare e nel governare i tragitti migratori di intere comunità o categorie di mestiere, anche se nel caso da noi presentato si tratterebbe di un episodio e non di una prassi ben radicata, a giudicare dalle testimonianze e dai dati che abbiamo raccolto. Per quanto riguarda i casi modenesi rimandiamo a A. Canovi, N. Sigman, L’Emilia Romagna e le grandi migrazioni, Niccolò Teti Editore, Milano, 2010
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l’emigrazione, tanto vituperata e denigrata pubblicamente, divenne un mezzo efficace
per ridurre la disoccupazione e il malcontento che agitava sempre più la popolazione.
Il comune compilò alcune liste di operai disoccupati e le affidò alla Cdl provinciale _
ora divenuta Camera delle Corporazioni Fasciste _ che aveva il compito di fungere da
tramite tra le imprese straniere e i lavoratori. Sono più di un centinaio i cittadini che
si dichiararono disponibili a trasferirsi all’estero per qualche anno, tutti uomini, senza
contare le decine di persone scartate per motivi politici. Il numero degli emigrati
tornò così a crescere, ma va tenuto presente che negli anni precedenti, quando solo un
paio di decine di persone aveva lasciato il comune, non si teneva conto degli emigrati
irregolari, il cui numero può essere solo ipotizzato. Anche a livello ufficiale, è
difficile trovare riscontri affidabili per un periodo in cui gli istituti di statistica
governativi non avevano particolare interesse a sottolineare il fenomeno migratorio.
Gli#anni#’30#e#la#Lorena#
La Lorena sembra, nel decennio successivo, il nuovo polo di concentrazione
privilegiato dell’emigrazione casalgrandese. Numerose sono le circolari in cui si
spiegava agli operai che solo gli iscritti alle liste e in possesso di un regolare contratto
di lavoro potevano emigrare: questi, usufruivano del treno gratuitamente fino a
Torino, e da qui, erano condotti, sempre via treno, sino a Modane, in Alta Savoia. Da
lì poi proseguivano il loro cammino fino alle miniere di Thionville, Villerupt e
Mézières, dove erano inquadrati da una delle grandi aziende locali, la cui
manodopera era composta per più del 50% da stranieri. Si trattò di un vero e proprio
“piccolo esodo”, che coinvolse più di 100 operai in due anni per la sola Casalgrande,
ma che raccolse almeno un altro paio di centinaia di persone tra i comuni di
Scandiano e Castellarano162. Essendoci concentrati sul polo parigino, per mancanza di
tempo e mezzi non abbiamo potuto indagare in modo approfondito questa importante
162 Come abbiamo accennato in una nota precedente, i dati archivistici ci danno notizia della presenza di una significativa e costante corrente migratoria in direzione della Francia orientale e meridionale, attiva in paese sin dagli albori del Novecento. Possiamo supporre che questa tradizione sia alla base dei contatti che la Cdl della provincia intraprese con alcune imprese d’oltralpe e il comune reggiano.
99
direttrice dell’emigrazione casalgrandese: difficile è stabilire i luoghi in cui questi
operai si siano trasferiti, anche perché gli archivi italiani tacciono riguardo al loro
destino una volta che questi uomini superavano i confini nazionali. Molti di loro sono
tornati, ma di altrettanti si sono perse le tracce. Il consolato italiano di Nancy,
sebbene abbia evidenze relative a questa pratica di arruolamento da parte della Cdl
italiana e di alcune grandi ditte lorenesi, non ha saputo indicarci la destinazione di
questi uomini. Le nostre inchieste orali ci hanno indicato Villerupt e Thionville come
le città in cui almeno una parte di questi emigrati si trasferì e visse alcuni anni, ma
non si tratta di fonti dirette, bensì di racconti di conoscenti o nipoti, che non sono
andati oltre la conferma del loro viaggio, aggiungendo in qualche caso che gli
emigrati hanno poi partecipato alla Liberazione in Italia. Anche per la porosità e
l’esiguo numero di queste testimonianze abbiamo deciso di accantonare, almeno per
il momento questo percorso di ricerca, con il proposito di approfondirlo non appena
possibile.
Ad ogni modo, esclusa la pista lorenese, l’emigrazione ufficiale verso la Francia e in
particolare, verso Parigi e la sua banlieue, nel finire degli anni ’30 si atrofizza sempre
di più, almeno in via ufficiale. Non è raro nei documenti ufficiali leggere di lagnanze
e di lamentele da parte dei cittadini senza lavoro che chiedevano al comune di fare
qualcosa per migliorare la loro condizione, mentre il rilascio di passaporti è quasi del
tutto interrotto. Le statistiche ufficiali del comune però mostrano come, rispetto ai
circa 200 emigrati registrati in via ufficiale (non sono inclusi i rinnovi) tra il 1922 e il
1931, vi sia un passivo di più di 400 persone, senza che vi sia una corrispondente e
significativa riduzione del tasso di natalità, o un incremento del tasso di mortalità,
anzi: ciò significa che l’emigrazione irregolare è proseguita, sotterranea ma continua
attraverso gli anni.
100
Popolazione ed emigrati da Casalgrande 1922-1931
Anno Popolazione
totale
Passaporti
concessi
Rifiuti e Rimpatri
1920 3751 1 0
1921-23 “ 25+32* 4
1924-1929 “ 55 11+8
1930 “ 75 ?
1931-32 3313 24 3+5
& -338 211 31
*Questi trentadue passaporti corrispondono alla squadra di operai partita con Grulli (?).
Nel valutare la tabella bisogna tenere presente che la popolazione totale include
anche coloro che sono registrati come assenti negli stati di famiglia, ma pure che i
rimpatri non sono sempre segnalati dai registri. Allo stesso tempo non sono incluse le
statistiche di natalità e mortalità perché non significative, in quanto il numero totale
delle nascite è leggermente superiore a quello dei decessi.163 Infine il numero di
emigrati, di cui abbiamo avuto evidenza, che ha scelto una destinazione diversa dalla
Francia non supera la decina, e per lo più si trattava di ex emigrati in Francia che si
trasferirono in Svizzera164. Si tratta per la maggior parte di commercianti importatori
ed esportatori di liquori all’ingrosso, una categoria sociale che non può essere inserita
in senso stretto nel gruppo di migranti che abbiamo seguito. Non è dunque possibile
ottenere un quadro al 100% preciso della mobilità del comune. Allo stesso tempo
però, risulta evidente come le statistiche ufficiali non possano essere considerate
attendibili perché vi è una discrepanza di circa un centinaio di persone che risulta non
inclusa nelle statistiche. A questi vanno aggiunti gli emigrati in forma clandestina e
chi uscì dal territorio del comune restando sul suolo italiano.
163I dati riportati sono stati ottenuti basandosi sui censimenti ufficiali della popolazione, trasmessi all’ufficio della Provincia di Reggio Emilia, e dal conteggio dei protocolli riguardanti il rilascio di nulla osta per la consegna di passaporti, oltre ai fascicoli riguardanti i rientri. Vedere ACC, Censimento della popolazione 1920, Cat. XIV, 1920, e ACC, Censimento della popolazione 1931, Cat. XIV, 1931. 164 Nei due decenni antecedenti al periodo isolato dalla nostra ricerca, alcune decine di uomini usarono recarsi per alcuni mesi ogni anno in Svizzera. Probabilmente questo fenomeno è un lascito di quella tradizione.
101
Negli anni seguenti, mentre il numero degli emigrati verso la Francia si mantenne più
o meno stabile attorno alla decina di partenti per ogni anno, iniziarono a essere
piuttosto numerosi coloro che scelsero la Svizzera come destinazione. Si tratta in
qualche caso di uomini con un passato migratorio già denso, spesso con trascorsi in
Francia: sempre a proposito di questo fenomeno, numerose sono le segnalazioni
d’irregolari fermati presso la frontiera a Luino. Anche la Germania inizierà a contare
qualche emigrato casalgrandese, quando per anni il solo Giuseppe Botti, muratore a
cavallo tra la sponda francese e tedesca del Reno, era stato l’unico esponente della
corrente teutonica. Nello stesso periodo giunsero cattive notizie anche da Genova,
dove un buon numero di operai aveva trovato un’occupazione stagionale nella
costruzione della strada che congiungeva il capoluogo ligure a Serravalle: i lavori
erano terminati, e si richiedeva ai comuni di richiamare presso di sé i numerosi operai
disoccupati che erano rimasti in Liguria. Nel 1934 iniziarono i reclutamenti delle
squadre di operai italiani verso le colonie, l’Eritrea in primis. Le richieste da parte dei
datori di lavoro erano chiare: operai tra i 20 e i 40 anni, senza lavoro, senza famiglia a
carico e in buone condizioni di salute. Questi dovevano portare con sé “gli attrezzi di
lavoro, un indumento adatto al cantiere, un piatto, un cucchiaio, una forchetta e una
coperta”. I tempi dei viaggi pagati sino a Parigi erano lontani, così come ben diversi
erano lo stato economico dell’Italia e quello della Francia. Una ventina di
casalgrandesi partì così per l’Africa, per un periodo di tempo compreso tra i sei mesi
e un anno, assieme ad altri venticinque operai della vicina Castellarano165. Siamo nel
1938.
Per quanto riguarda la Francia, il flusso di uomini tra i due versanti delle alpi si era
assai ridotto: vi è notizia ormai solamente di qualche lettera di richiamo per parenti,
qualche visita di poche settimane, qualche viaggio al santuario di Lourdes e niente
più. I rapporti tra i due stati si erano di molto deteriorati con l’avvicinamento italiano
alla Germania e con la salita al potere del Fronte Popolare in Francia. Nell’Esagono,
a partire dal 1932, la crisi si era abbattuta, tremenda, provocando quello che è
165 ACC, Cat. XIV, Affari vari, 1938, e ACCT, Cat. XIV, Affari Vari, 1938.
102
conosciuto come il grand chômage , la grande disoccupazione, che dal 1932 colpì il
paese in tutti i settori produttivi. Leggi particolari vennero prorogate a tutela della
forza lavoro nazionale e a danno dei lavoratori stranieri: molti italiani vennero
rimpatriati e molti altri vissero mesi di terrore da disoccupati, con lo spettro della
scadenza della carta verde e del conseguente annullamento del permesso di
soggiorno. Nessuno tra gli emigrati casalgrandesi è segnalato come rimpatriato per
queste ragioni, ma è evidente che la mancanza di dati era ormai una costante riguardo
alla questione emigrazione-immigrazione, soprattutto in un periodo in cui non era
nell’interesse degli emigrati passare per le vie legali.
Scorrendo i pochi documenti per noi utili in questi anni, abbiamo rinvenuto diverse
lettere e richieste d’informazioni riguardanti persone non segnalate come espatriate o
addirittura, la cui partenza era antecedente agli anni che abbiamo preso in
considerazione. Tolosa, Nizza, le Bouche-du-Rhone, Savoia, Nord-Pas-de-Calais,
Nancy, Longwy, c’è un casalgrandese per ogni regione migratoria della Francia,
anche se si tratta a volte di pochi individui isolati. Abbiamo anche notizia di qualche
rientro, come quello di Antonio Gasparini, emigrato prima della Grande Guerra, poi
rientrato, ed emigrato nuovamente negli anni ’20. Si sa che egli era stato assunto
presso la ditta di costruzione “Pierre Vie” , di Parigi, e che i suoi viaggi stagionali tra
l’Italia e la Francia erano ormai divenuti una consuetudine, anche se con l’avvento
del fascismo egli incontrò più di un problema per ottenere il rinnovo del proprio
passaporto. In una circolare, il sindaco conferma che “il Gasparini ha sempre
professato idee antifasciste e non v’è alcun motivo per cui gli si debba concedere il
passaporto”166 In qualche modo Gasparini riesce a ripartire per la Francia, dopo però
ben due anni di battaglie con l’amministrazione e la burocrazia di regime. Un amico
di Parigi gli aveva trovato un lavoro presso la ditta “Dufessez Gaston”, che
produceva cemento e altro materiale edile, con sede nella banlieue est, presso Saint-
Maur-des-Fossés. Nel 1937 Gasparini risulta in pensione: ha dei problemi nel
ricevere il pagamento dalla Caisse Central Rétraites pour la Vieillesse , l’INPS
166 ACC, Cat. XIV, prot. 2987 del 1924
103
francese, e alla fine è costretto a coinvolgere il consolato francese di Bologna per
poterne godere. Anche Agenore Ricchetti, che invia il denaro ai familiari rimasti in
Italia, ha dei problemi col cambio tra franchi e lire.
Il 1938 fu l’anno del boom dell’emigrazione in Germania, in seguito agli accordi
stipulati tra le due potenze dell’Asse. I casalgrandesi che emigrano nel Reich sono 38,
ma da tutta la provincia furono più di 500 persone a partire alla volta del Reich, per
contribuire alla costruzione di strade, ponti e per lavorare nelle attivissime industrie
tedesche. L’anno seguente ritroviamo Pietro Grulli: scomparso quasi otto anni prima
dai documenti ufficiali, gli viene concesso di partire con una squadra di imprenditori
edili per l’Eritrea. Ancora una volta non abbiamo notizie delle sua effettiva partenza,
ma certo, se mai fosse partito, non restò molto in Africa. Intanto circa una quindicina
di casalgrandesi è arrestata ad Aosta mentre si dirigeva illegalmente verso il confine
francese. Sempre scorrendo i pochi documenti disponibili per quest’ultima parte del
decennio, vediamo che le partenze per la Germania proseguono, ma si trattò solo una
dozzina di persone, mai coinvolte in pratiche migratorie prima. Dal 1940 le statistiche
sull’emigrazione tacciono completamente. Sono segnalati un buon numero di
rimpatri. È la guerra.
GLI ANNI DELLA GUERRA E LE CITTADELLE REGGIANE IN BANLIEUE Se per diversi motivi risulta difficile ricostruire il periodo della guerra, almeno stando
alle fonti documentarie, più semplice è stato tentare di completare il percorso
migratorio dei gruppi che abbiamo seguito fuori dei confini nazionali. Ci siamo mossi
partendo dalle evidenze ottenute in Italia, cercando di individuare i network migratori
più densi e ricchi, seguendo le indicazioni sulle destinazioni e sulle esperienze degli
emigrati; in seguito, negli archivi francesi, abbiamo cercato di completare il quadro di
queste traiettorie migratorie, in modo da chiudere il cerchio sul destino di queste
persone, una parte del quale risultava invisibile o quasi nelle fonti italiane.
104
La prima delle piste da noi seguita è quella che ci ha condotto presso gli archivi della
Prefettura di Polizia di Parigi. Qui, contando sulla politica di buon vicinato che i
governi francesi che avevano preceduto il Fronte Popolare avevano adottato nei
confronti del vicino italiano, abbiamo rinvenuto diversi soggetti di ricerca
interessanti. Le prime notizie le abbiamo ricavate sfogliando i fascicoli concernenti
gli individui che il governo francese riteneva politicamente eversivi tra la fine del
secolo decimo nono e la seconda guerra mondiale167. Moltissimi reggiani, in
particolare provenienti dalla città di Reggio Emilia e da Cavriago, erano quivi
segnalati come elementi di spicco nel Syndicat du Bâtiment, il sindacato dei
lavoratori dell’edilizia; gruppo che si segnalò come tra i più attivi nei vari movimenti
che confluirono nella Concentrazione Antifascista, il movimento politico italiano che
ebbe il maggior seguito in Francia a partire dal 1929. Sebbene mancassero tra i quadri
dirigenti membri della nostra comunità, abbiamo potuto individuare una mappa
abbastanza precisa della presenza di questi reggiani nel cuore di Parigi: Saint-Denis,
il XIIIème,, il XIIème arrondissements e i comuni più prossimi della banlieue est
erano i quartieri in cui questi uomini risiedevano, dove erano più attivi sia sotto il
profilo lavorativo che sociale ed erano sempre questi i luoghi ove avevano sede le
organizzazioni politiche, il sindacato, o le aziende per cui essi lavoravano. Questi dati
corrispondevano a quelli che avevamo ritrovato in Italia, ma in più ci hanno fornito
una localizzazione abbastanza precisa riguardo all’inserimento di questi uomini nel
contesto parigino in alcuni degli ambienti urbani in cui la presenza italiana era più
forte e di antica data.
I fascicoli relativi alla guerra di Spagna168 e ai volontari, francesi e italiani, che
partirono dalla Francia per soccorrere la Repubblica dal tentativo di golpe dei
generali, non ci hanno, come invece speravamo, fornito molti altri dati. Dei circa 500-
600 italiani che partirono alla volta della Catalunya nel 1936, non sono riportati i
nomi, se non quelli di coloro che erano considerati i capi della spedizione. Tra di essi
vi è quello di Michel Centroni, nato nel 1879 a Castellarano; qualche altro cognome
167 APP, Le Nations, Italie, Activiés politiques des ressortissants, les regroupements anti-fascistes, Ba 2387 168 APP, Révolution Espagnole, Ba 1666
105
sembrerebbe indicare una provenienza se non emiliana, quasi sicuramente
riconducibile al nord Italia, ma nulla di più specifico. In uno dei colloqui che
abbiamo avuto con M.me Spallanzani abbiamo accennato alla questione spagnola, e
sebbene l’ex presidentessa della Fratellanza Reggiana ricordasse la presenza di
qualche reggiano di Parigi nella spedizione, non è stata in grado di confermarci o
meno la presenza di qualche cittadino di Scandiano o Casalgrande.
Nella lista degli italiani che hanno invece richiesto la visa169 nel 1932, ossia il
permesso di soggiorno supportato da un contratto di lavoro, abbiamo ritrovato alcuni
casalgrandesi, che assieme ad una mezza dozzina di abitanti di Scandiano,
risiedevano tra il dodicesimo e il tredicesimo arrondissement. Si trattava di operai,
impiegati presso una ditta che forniva attrezzature e materiale per l’edilizia, di cui
però non abbiamo trovato tracce né negli archivi nazionali, né tra le carte d’imprese,
e nemmeno nelle liste dei censimenti, almeno nei quartieri di cui ci siamo occupati170.
Per alcuni dei soggetti però, abbiamo evidenze riguardo a un loro periodo d’impiego
presso “une entreprise qui produisait ciment à Scandiane”, impresa segnalata come
“pleine d’anarchistes e communistes”171.
Tralasciando gli altri frammentari dati riguardanti reggiani o emiliani, di non ben
definita provenienza, implicati più o meno in attività ritenute sovversive o pericolose
dal governo francese, ci limiteremo ora a esporre i dati relativi alla banlieue est, in
relazione a cui le nostre ricerche si sono mostrate maggiormente fruttuose.
169 APP, Dossiers différents, Italiens, Ba 2168 170 Ancora una volta, per questioni di tempo non abbiamo potuto compiere un’analisi completa dell’insediamento degli emigrati che abbiamo studiato, limitandoci ai due arrondissements in cui, secondo i dati a nostra disposizione, risiedeva il maggior numero di emigrati da noi studiato. Quando si parla di emigrazione italiana a Parigi bisogna tenere presente che i francesi non avevano interesse a segnalare la provenienza regionale degli immigrati italiani, quindi non è semplice rintracciarli nella sterminata mole di dati a disposizione. Si parla infatti di centinaia di migliaia di nomi. 171 APP, Dossiers différents, Italiens, Ba 2168
106
MaisonsJAlfort#
!
!!
Nella tabella che segue riportiamo i dati relativi al comune di Maisons-Alfort, centro
della banlieue est che fa parte della cintura periferica più antica, dopo l’assorbimento
della petite ceinture di metà Ottocento. A differenza di Nogent-sur-Marne o
Fontenay-sous-Bois però, fu solo negli anni ’20 e ’30 che si assistette a una
107
consistente crescita dell’immigrazione, processo in cui gli italiani, e tra essi i nostri
emigrati, ebbero un ruolo primario.
Abbiamo scelto di concentrarci sui venti anni circa che vanno dal 1921, anno del
primo censimento del dopoguerra, al 1946, anno del primo censimento successivo al
1936, indicativo per “testare” il compimento o meno del progetto migratorio dei
soggetti da noi studiati. La guerra infatti fu un discrimine fondamentale nel definire le
scelte degli immigrati italiani. Fin dai tempi della neutralità, fino al famoso coup de
poignard dans le dos, non fu semplice per i moltissimi emigrati italiani vivere la loro
condizione di sudditi di un regno nemico in territorio francese, anche se molti di
questi erano arrivati in Francia proprio per fuggire dal fascismo. Inoltre, il richiamo
della Patria, sentimento che dopo la Grande Guerra era divenuto parte integrante
dell’identità di tanta parte del popolo italiano, anche all’estero, si faceva pressante,
ponendo gli emigrati di fronte una difficile e in ogni caso lacerante scelta: restare e
combattere per la Francia, la nazione che li aveva accolti e che aveva offerto loro un
lavoro, a volte anche la possibilità di crearsi una famiglia, o tornare in Italia e
combattere per la propria madrepatria contro la Francia? In realtà, la questione è più
complessa, e le risposte degli uomini di cui ci siamo occupati furono molteplici e
condizionate da diversi fattori, come illustreremo più avanti.
Popolazione di Maisons-Alfort
Anno 1921 1931 1946
Popolazione 20.824 31.012 36.485
Stranieri residenti ? 1377 632
Italiani 208 1196 267
Reggiani 21* 64* 14* Fonti: AVDM, Listes des récensements par quartier, Maisons Alfort, ans 1921, 1931, 1946 * Queste cifre corrispondono agli emigrati per cui abbiamo potuto accertare la provenienza da Casalgrande, Scandiano, Castellarano o da altri comuni della provincia di Reggio Emilia. Le cifre potrebbero essere superiori, considerando che il paese o il comune di origine non erano quasi mai annotati.
108
Come si può osservare è attorno al 1931 che il numero degli italiani presenti nel
comune si fa decisamente importante, arrivando a costituire quasi il 4% della
popolazione totale e il 90% della popolazione straniera residente. Nell’analizzare
questi dati però, bisogna considerare che non abbiamo tenuto conto degli italiani
naturalizzati, il cui cognome spesso era mutato con l’acquisizione della nazionalità
francese. In ogni caso, la pratica della naturalizzazione divenne piuttosto comune solo
a partire dal 1932, quando la disoccupazione e i relativi problemi di rinnovo del visto
spinsero molti nostri connazionali ad assicurarsi, con questo atto, la permanenza in
quella che per molti era divenuta la nuova casa. Ecco in parte spiegato il non troppo
elevato numero di presenze italiane nel 1946, anche se, naturalmente non bisogna
dimenticare la grande discriminante della guerra, con il suo residuo di morte, rancore,
ma anche la nuova situazione creatasi in patria.
L’origine della maggior parte degli emigrati può essere fatta risalire all’Italia
settentrionale, con una grande concentrazione di lombardi, in particolare provenienti
dalla zona di Bergamo, e di piemontesi. Gli emiliani non sono moltissimi, poco meno
di duecento circa, in buona parte originari delle tradizionali zone di emigrazione
nell’appennino parmense e piacentino: Bardi, Bettola, Begonia, etc... I reggiani, se
rapportati al numero totale degli emigrati non sono tra i gruppi più numerosi, ma
rispetto al rapporto che in generale si instaura tra la loro componente e quella dell’ex
ducato di Parma, il loro numero è abbastanza elevato, costituendo circa un terzo del
totale. Accanto ad alcuni originari di Cavriago e di Albinea (questi ultimi erano in
massima parte gli stessi reggiani insediatisi nel comune già nel 1921), è Scandiano
assieme ai comuni che la circondano a farla da padrona. Possiamo osservare che le
zone a maggior concentrazione sono quelle della rue de Sapins, dove vive la famiglia
Jenni (Genni, negli archivi italiani), guidata dal capofamiglia Giuseppe, cimentier,
con a fianco la moglie e i cinque figli. Due di questi hanno la nazionalità francese, e
sono quindi nati in Francia, il che segnala un’installazione piuttosto stabile e di una
certa durata, seppur posteriore al 1921. I Genni abitavano al numero 16, mentre al
numero 26 vivevano i Ferreri, cinque anche loro, cui andava aggiunta la moglie del
109
capofamiglia, nata a Cernobbio, ma anch’essa di origine scandianese. Nel vicinato si
parlava molto italiano, basti dire che su ventisei immobili, una decina erano abitati da
famiglie provenienti dallo Stivale o di chiara origine cisalpina.
Non lontano, al numero 16 della rue du 14 Juillet, viveva la famiglia Bizzocchi: il
capofamiglia Giuseppe era di Scandiano, mentre la moglie, Clotilde, era originaria di
Casalgrande. Tra figli, fratelli e sorelle erano in nove a dividersi i due appartamenti
che la famiglia occupava nello stesso immobile. Giuseppe era un sarto, e gli affari
non dovevano andargli troppo male se poteva permettersi di dare da lavorare anche a
due garzoni francesi, oltre ad avvalersi dell’aiuto della moglie e di una delle figlie.
Un altro figlio, Guerino, faceva invece il muratore, occupazione piuttosto usuale per i
giovani italiani della banlieue che erano privi di una specializzazione di mestiere.
Nello stesso quartiere viveva anche la famiglia Ghidini, originaria dell’alta Val di
Secchia: sposato con una francese, Ghidini lavorava come garzone di bottega presso
un venditore di alimentari italiano. Nella stessa via, rue de l’Opéra, viveva la famiglia
Cugini: i tre uomini, due fratelli e il figlio del capofamiglia, si occupavano di caldaie,
mentre la moglie, francese, poteva permettersi di non lavorare e accudire i cinque
figli, anch’essi nati e cresciuti in Francia. A pochi metri vivevano Luciano Fusari, di
Castellarano, e la moglie francese, che lavorava come contabile, occupazione
piuttosto inconsueta per una donna al tempo. In rue Crapelle viveva Giovanni Gozzi,
aiuto muratore, e i Meloni, provenienti da Villerupt, in Lorena, dove i due fratelli
lavoravano come operai presso un’acciaieria. Nella rue Grande, Cortesi lavorava
come autista, mentre il suo vicino di casa, Castelli era un muratore, così come Gian
Mecarini, il suo vicino. In rue de la Concorde, oltre alla famiglia Ricchetti, di cui
abbiamo giù parlato alcuni capitoli fa e che resiedeva al numero 69, sono presenti
diverse altre famiglie originarie di Casalgrande, Arceto, Scandiano e Roteglia, il
paese nel comune di Castellarano da cui proveniva anche Elgina Pifferi, la futura
presidentessa della Fratellanza Reggiana. Erano tutti impiegati come muratori o nella
pratica della cementificazione, i due lavori più diffusi tra i nostri emigrati. È
110
segnalato anche qualche modenese, proveniente da comuni che si affacciavano
sull’altra riva della Secchia, così come gli onnipresenti muratori bergamaschi.
Maisons-Alfort era un comune che potremmo definire a media intensità migratoria,
che, come abbiamo spiegato ha cominciato ad attirare una quantità rilevante di
manodopera straniera solo a partire dalla metà degli anni ’20. Abbiamo visto che già
nel 1921 erano presenti alcuni reggiani, originari per lo più dal comune di Albinea,
anch’esso facente parte di quella cintura di comuni situati nella prima fascia collinare
dell’appennino, come Casalgrande e Scandiano. Forse proprio il fatto che solo negli
anni venti le attività industriali, e soprattutto l’edilizia, si fossero sviluppate così
fortemente fu all’origine della scelta da parte di un gruppo di emigrati che, come
abbiamo spiegato nei capitoli precedenti, non aveva una grande tradizione alle spalle
e quindi scarsi collegamenti e appoggi con la realtà parigina. In ogni caso, possiamo
osservare che gli emigrati dei comuni di Scandiano, Casalgrande e Castellarano
tesero a installarsi secondo un sistema d’inclusione che potremmo definire
concentrico, il quale partendo dal nucleo familiare si espandeva andando a
comprendere gli altri abitanti del proprio paese, poi del comune e dei comuni
contigui, allargandosi successivamente agli abitanti della stessa provincia o regione,
quelli originari del nord Italia e considerando solo come ultima forma di legame, la
carta della nazionalità. Non abbiamo purtroppo evidenze riguardo le simpatie
politiche dei migranti. In effetti, il relativamente piccolo insieme di emigrati
proveniente dalla Puglia, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia, sembra essere
quasi completamente separato dalla restante parte degli italiani presenti, almeno sul
piano spaziale, mentre accadeva praticamente sempre che un bergamasco, un
cuneense o un trevigiano abitasse accanto a un reggiano. Addirittura, non è raro
osservare la presenza di diversi corsi accanto a degli emigrati liguri, ma anche a
gruppi di italiani originari delle zone settentrionali del paese; molto meno frequente è
vedere questi mischiarsi agli originari del meridione.
111
Charenton#
Un discorso simile può essere esteso anche a Charenton, l’altro comune della
banlieue est di cui ci siamo occupati. Prosecuzione naturale del tredicesimo
arrondissement, occupa il territorio compreso tra la vecchia cinta di mura di Thiers, il
Bois de Vincennes e l’ultima ansa della Marna, che lo delimita a est, dove
cominciano poi i comuni di Maisons-Alfort e di Saint-Maurice. Sui 21.011 residenti
rilevati nel 1931 gli stranieri erano 861, di cui 467 italiani172. Ancora una volta gli
italiani si confermano nettamente la comunità straniera più rappresentata; i reggiani,
o almeno coloro che siamo riusciti ad individuare, erano circa una trentina, tutti
originari dei comuni della bassa Val di Secchia. Il casalgrandese Giuseppe Dotti,
classe 1877, lavorava come cimentier nonostante i suoi cinquantacinque anni, e
viveva assieme alla figlia Giuseppina, in rue Barthélot. Nel loro stesso immobile
vivevano alcuni operai lombardi e dei manovali di probabile origine emiliana, ma di
cui non era riportato il luogo di nascita. Rispetto a Maisons-Alfort, dove, anche a
causa dell’ampiezza dell’agglomerato urbano, al tempo ancora in piena espansione,
gli insediamenti italiani erano piuttosto dispersi, a Charenton osserviamo la presenza
di vere e proprie rues aux italiens , strade italiane, dove gli originari dello Stivale
occupavano fino ai due terzi di tutti gli alloggi presenti. Essendo una zona
d’immigrazione più anziana, anche per il suo carattere di primissima periferia
parigina e prosecuzione naturale del quartiere di Bercy (ancora oggi buona parte del
comune è attraversata dai binari che conducono alla gare de Bercy e alla gare de
Lyon), Charenton ospitava una maggior varietà regionale e nazionale d’immigrati,
con una forte presenza, oltre agli immancabili insubri di Lombardia e Piemonte,
anche di toscani, della zona di Lucca, Massa e Pistoia, ma anche di marchigiani,
veneti e friulani. I parmigiani e i piacentini pure non mancavano, ma in quantità
minore rispetto ad altri comuni della banlieue est. I reggiani si inserirono in questo
ambiente dove, per forza di cose, era la nazionalità a contraddistinguere agli occhi dei
francesi, ma anche degli stessi italiani, la componente immigrata. Si può notare qui la 172 AVDM, Récensements de la population par quartier, Charenton, 1931
112
presenza di accorpamenti di polacchi, russi e spagnoli, ben distinti e separati da quelli
delle strade in cui vivevano e lavoravano gli italiani. Questa caratteristica si può
osservare un po’ in tutte le zone ad alta percentuale di emigrati nella corona parigina
ma anche in altri luoghi della Francia. Proprio il confronto con questa significativa
componente straniera sarà il più importante viatico alla nascita di un senso di
nazionalità tra gli italiani.
La famiglia Masoni, la famiglia Menozzi, e la famiglia Gasparini, tutte originarie di
Scandiano, abitavano in rue des Carrières, la strada che come si evince dal nome era
la sede delle famose cave di gesso che fino alla fine dell’800 costellavano il comune
lungo la Senna. In seguito alla chiusura delle cave, queste furono utilizzate come
deposito di merci, non perdendo però il carattere fortemente proletario della
popolazione che abitava il quartiere. In questa strada che costeggiava la Senna stretta
tra i binari della ferrovia e i vecchi depositi, vivevano nel 1931 ben sessantanove
famiglie d’italiani, divise in poco meno di quaranta immobili. Molti di questi
lavoravano come manovali presso alcune aziende francesi per conto delle quali si
occupavano del trasporto di mobili, del legno, ma anche di costruzioni, della
riparazione di attrezzature meccaniche, così come dello stoccaggio e del trasporto
delle merci tra Parigi e la banlieue, in un tempo in cui la ferrovia non aveva ancora
sostituito del tutto il trasporto fluviale. Tra questi era altresì presente un discreto
numero di falegnami che gestivano in proprio la loro attività. Si può osservare che i
matrimoni misti fossero una pratica piuttosto diffusa, com’era tipico nella seconda
generazione d’immigrati italiani, e in quei luoghi ove i cisalpini risiedevano ormai da
diverso tempo: i Menozzi, i Masoni e i Gasparini non facevano eccezione. Da notare
anche la presenza della famiglia Croci, che gestiva un banco di verdura
sull’importante asse della rue de Paris, la strada attorno cui si era sviluppato il centro
urbano e che molti degli immigrati percorrevano ogni giorno per recarsi nella zona
est della cittadina, verso i cantieri edili della profonda banlieue. Sono le zone più
esterne, quelle vicine alla Senna, al parco di Vincennes e all’ospedale di Saint-
Maurice le zone che ospitavano il maggior numero d’italiani: anche tra questi si
113
assiste a una differente collocazione urbana a seconda della consistenza temporale del
loro insediamento. Gli emigrati di Casalgrande a Parigi sono quasi tutti emigrati di
prima generazione e devono perciò inserirsi in un contesto in cui era già presente un
importante nucleo insediativo italiano, più legato e coeso con l’ambiente della
cittadina. Non abbiamo potuto controllare le cartelle della prefettura di polizia173, ma
non crediamo che vi siano stati particolari problemi tra le due componenti italiane:
più che altro quella che vogliamo evidenziare è la divisione spaziale tra le diverse
scaglie dell’emigrazione, divisione che è più figlia del tempo di insediamento che di
altre peculiarità dei migranti. Come per ogni comune della banlieue, ma il discorso è
valido per la stessa Parigi, l’integrazione e l’inserimento nel contesto sociale e urbano
parte da lontano, e non è tanto il soggetto urbano o umano ad avvicinarsi al cuore
della città, ma è la città ad allontanarsi, a spostarlo verso il suo cuore, accrescendosi
sempre più. È questa la sensazione che traspare anche dai racconti dei cavriaghesi di
Argenteuil raccolti da Canovi174, arrivati nel comune del nord-ovest parigino quando
questo era ancora per metà un’oasi verde e la città era ancora ben lontana; un paio di
decenni dopo, Argenteuil era divenuto uno dei comuni della banlieue nord, e la città
non solo lo aveva raggiunto, ma lo aveva superato.
Conclusioni
Come abbiamo visto, anche in un piccolo comune come quello di Casalgrande, il
periodo che va dagli anni ’20 alla Seconda Guerra Mondiale fu un tempo di grandi
cambiamenti. L’esperienza prampoliniana aveva avuto come esito la creazione di
tante isole socialiste “ alla reggiana” entro il territorio provinciale, separando in un
certo senso sul piano ideologico e materiale questa parte di Italia dal resto dello
Stivale. Sebbene l’intero territorio nazionale, in particolare nel primo dopoguerra,
fosse costellato dai fermenti progressisti e dalle rivendicazioni del proletariato 173 Gli Archivi della Val-du-Marne, contenenti anche quelli realtivi a Charenton e Maisons-Alfort erano inagibili causa il restauro dell’edificio ospitante gli archivi al momento della nostra visita. Ci è stato possibile consultare solo le liste dei censimenti, precedentemente informatizzate. 174 A. Canovi, Roteglia, Paris…, op. cit. Le interviste, registrate e trascritte, sono incluse al termine di ogni capitolo.
114
organizzato, nel caso reggiano si percepisce un diffuso senso di eccezionalità, che
contribuì ad alimentare il mito delle “piccole russie” e della via cooperativa. Eppure,
anche Reggio Emilia fu investita dagli eventi che seguirono la nascita e la successiva
presa del potere da parte del fascismo: questo trauma, che è vissuto da molti come la
fine di un sogno o di “un sogno spezzato”, costrinse gli uomini di cui ci siamo
occupati a uscire dal loro isolamento, aprendosi alle dinamiche nazionali e
internazionali di cui l’emigrazione fu un veicolo primario.
Nei primi capitoli abbiamo cercato di ricostruire il contesto sociopolitico dell’Italia
settentrionale tra la fine dell’Ottocento e la prima parte del secolo successivo,
tratteggiando lo sfondo entro cui si svolse gran parte del tragitto migratorio italiano,
che ebbe nella Francia la sua meta principale. Seguendo un percorso convergente ci
siamo poi concentrati sull’Emilia Romagna, in particolare sulla sua propaggine più
occidentale, l’Emilia, che a sua volta si è rivelata possedere diverse anime a seconda
della sua strutturazione geografica, dell’eredità storica e infine di quelle peculiarità
che non si spiegano se non con il carattere irriducibile a un nesso di causa-effetto che
a volte si rivelano determinanti nel dispiegarsi del percorso di un soggetto storico175.
È in questo scenario che si svolsero le vicende migratorie di cui ci siamo occupati.
Successivamente abbiamo tentato di analizzare nel dettaglio la situazione reggiana,
provincia caratterizzata da una forte impronta rurale e da un’economia arretrata sino
agli ultimi decenni del secolo decimo nono. A differenza delle provincie confinanti di
Parma, Lucca e la micro regione della Garfagnana, a Reggio Emilia non ebbe luogo
un massiccio ricorso all’emigrazione per contrastare queste difficoltà oggettive.
Grazie alla contemporanea diffusione del socialismo tra le masse e il gruppo dei
piccoli-medi proprietari (la maggioranza dei possidenti sul territorio), unita alla
crescita nella gestione scientifica della produzione che virò sull’allevamento bovino,
175 Ossia quella dimensione casuale della Storia, che non può essere semplicemente riconducibile a un processo diacronico. Perché, ad esempio, territori tanto simili per storia e costumi come l’appennino parmense e quello reggiano non seguirono percorsi migratori simili? Perché i migranti di Bettola e Palanzano finirono quasi tutti a Parigi e la sua banlieue e quelli di Ramiseto in America o in Algeria, quando c’era solo l’Enza a dividerli? Perché a Reggio Emilia si creò un così stretto rapporto tra l’azione della Cdl e del Partito Socialista? Queste peculiarità, sebbene abbiano alle spalle una dinamica storica ricostruibile razionalmente, non possono essere totalmente spiegate tramite un procedimento scientifico di ricostruzione, ma sono in parte uguale la risultante di eventi non legati tra di loro. Per una migliore definizione del concetto di casualità nella storia vedere E.H. Carr, Sei lezioni sulla Storia, Einaudi, Torino, 1966
115
si giunse, negli anni precedenti e immediatamente successivi alla prima guerra
mondiale, a un’ampia diffusione delle cooperative di produzione e di consumo che
favorì un sensibile miglioramento delle rendite agricole e una più razionale gestione
della proprietà e della forza lavoro. Il frazionamento dei possedimenti e l’insolita
presenza di mezzadri nella Bassa e nella zona pedecollinare, promosse una
mediazione tra le rivendicazioni proletarie e bracciantili e le esigenze produttive dei
piccoli possidenti; questa evoluzione escluse di fatto la contrapposizione di classe,
favorendo quella cordiale conduzione cooperativa della produzione che è la sintesi
del credo di Prampolini. Questo contribuì a imprimere una forte impronta identitaria
al socialismo reggiano, che non solo a livello ideologico, ma anche a quello
dell’immanenza, contraddistinse la prassi politica e la dimensione sociale della vita di
ogni giorno. Creare a casa propria, con le proprie mani e con una formula originale il
futuro: ecco il credo dei socialisti reggiani. Non c’era dunque bisogno di cercare
altrove una patria del socialismo, una messianica Terra Promessa, in grado di offrire
quel benessere e quella sicurezza che in patria mancavano. Reggio Emilia, Cavriago,
Casalgrande, Scandiano, eccole le terre promesse, inserite nel microcosmo inquadrato
tra le colline e le sponde del Grande Fiume che da sempre chiudevano l’orizzonte
della realtà reggiana.
Questo sogno però fu interrotto proprio all’indomani di quello che sembrava l’inizio
del trionfo, ossia le elezioni del 1919, quando trentotto comuni su quarantacinque
della provincia elessero un’amministrazione socialista. Il fascismo aveva
bruscamente risvegliato tutti dal sogno; con le sue violenze, il suo appoggiarsi sui
grandi possidenti, la sua pianificazione che rispondeva a esigenze di natura nazionale
e autarchica, ma soprattutto, la strozzatura che determinò a livello politico eleggendo
il socialismo a nemico pubblico numero uno. Esso provocò una rottura che nel
quadro reggiano si rivelò ben più grave della semplice limitazione delle libertà. Col
socialismo si oscurava il futuro nell’immaginario dei tanti simpatizzanti e sostenitori
della causa nella zona: a un livello ancora più profondo questa prassi costrinse a
rinnegare una parte molto importante dell’identità personale e collettiva di un gran
116
numero di persone. Ecco allora che emigrare divenne non solo una risorsa ultima,
un’ammissione di una sconfitta morale oltre che politica, ma una necessità.
Il caso della provincia di Reggio Emilia e di Casalgrande in particolare, ci è parso
significativo perché pur non avendo fornito molti quadri direzionali nei movimenti
politici internazionali o personalità eccezionali176 alla cultura e alla storia
dell’emigrazione, proprio attraverso la “sorprendente normalità” di una così grande
parte della sua componente migrante costituisce la cifra esemplare e un saggio molto
significativo a nostro parere, sulle modalità e le tipologie di emigrazione che hanno
segnato la provincia reggiana e non solo. È infatti l’apparente linearità di questi
percorsi che evidenzia al contempo l’eccezionalità della storia migratoria reggiana, e
il salto qualitativo che contraddistinse l’emigrazione italiana negli anni venti del
secolo scorso.
Nella seconda parte del nostro lavoro abbiamo voluto ricostruire le esperienze di
diversi soggetti a partire dai dati ricavati dalla consultazione dell’archivio comunale
di Casalgrande, affiancandoli in una fase successiva ad alcune fonti orali.
Nell’articolare la nostra ricerca abbiamo voluto privilegiare la prima categoria di
fonti, integrandola solo in un secondo momento alle informazioni ricavate da alcune
inchieste effettuate tra i discendenti di alcuni emigrati. Purtroppo lo scarto temporale
(di solito due generazioni) tra il periodo da noi isolato e la “memoria sensibile” degli
intervistati era troppo ampio per poterci permettere di ricavare indicazioni complete e
totalmente attendibili: spesso la figura dell’emigrato è legata indissolubilmente a
quella dell’antifascista e del combattente della Resistenza, sia al di qua che al di là
delle Alpi, proiettandolo in alcuni casi più nella sfera mitologica che in quella storica.
Tuttavia questa evoluzione della memoria comune offre un’indicazione abbastanza
significativa dello sfondo entro cui si svolse la vicenda migratoria, e di come,
possiamo supporre, gli stessi migranti vollero trasmettere la propria vicenda: ossia,
guidata dalla bandiera dell’antifascismo militante.
176 Anche se personaggi quali Cesare Campioli ed Elgina Pifferi non sono esattamente figure comuni nel panorama dell’emigrazione italiana.
117
Naturalmente non tutti i soggetti che migrarono svolsero una parte attiva nelle
vicende politiche del tempo, almeno sino all’ultima fase della guerra. Sono questi
soggetti, i quali costituiscono una parte importante dei casi che abbiamo individuato,
a non fornirci che scarse indicazioni sulle loro vicende. Immersi anch’essi
nell’universo prampoliniano e, volenti o nolenti, trascinati nelle lotte che opposero le
parti socialiste con quelle fasciste, le loro voci non ci sono pervenute con sufficiente
dovizia di particolari. È stato proprio questo limite della nostra ricerca che ci ha
spinto a studiare con maggior attenzione quella “zona grigia” tra attori passivi e
politici di professione, per i quali la spinta a lasciare il paese venne in maniera
principua dalla sfera politica. Come nel caso di Barbieri o Gasperini, anche oltralpe si
trasferì quel sentimento identitario che trascendendo il carattere regionale o comunale
unì molti altri reggiani agli antifascisti italiani e francesi.
È sulla messa in questione dell’identità infatti che lo studio dei processi migratori si
rivela particolarmente interessante. L’emigrazione è spesso vista come una sconfitta,
una fuga, un’ammissione della propria incapacità o del proprio senso di
inadeguatezza alla realtà che si rifugge. Alcuni dei soggetti che abbiamo intervistato
hanno ribadito come i loro antenati “non avessero avvertito il bisogno di emigrare”,
intendendo con questo sottolineare l’aspetto economico legato alla circostanza. La
dimensione politica è tenuta in secondo piano o addirittura negata in alcuni casi,
anche quando esistono documenti che testimonierebbero il contrario; eppure, vicende
come quella di Barbieri e Gasperini testimoniano di come la dimensione politica
abbia costituito se non l’unico, il più frequente aspetto comune di una rottura che
spesso si cerca di celare o di ricucire non appena tornati in Italia. Difficilmente si
spiegherebbe un così elevato aumento della quantità, e ancora di più, della qualità dei
percorsi migratori a partire dalla metà degli anni ’20.
Si potrebbe forse obiettare riguardo alla mancanza di una consapevolezza, che in
molti casi contraddistingue questi attori storici, e di una chiara visione dei processi e
delle trasformazioni cui essi hanno preso parte. L’utilizzo di fonti orali o di lavori di
autori che proprio su queste hanno basato i loro studi, potrebbe forse indurre a
118
scorgere una mancanza di oggettività e di “autorità” in una parte dei nostri dati, nel
senso di un’assenza di quella parziale revisione e legittimazione che ogni storia
subisce nel passaggio dalla sua dimensione contemporanea a quella generale.
Crediamo però che la storia contemporanea, in particolare nel caso della microstoria,
senza queste voci sia per lo più muta, o ancorata all’interpretazione generale. Non per
questo vogliamo tacere sulle lacune che il nostro lavoro possiede. Si sarebbe dovuta
prestare una maggiore attenzione a quel fenomeno migratorio legato alla matrice
fascista, che pure ha costituito una parte sensibile del processo nel suo complesso,
anche dalla provincia di Reggio Emilia. Inoltre, l’inevitabile connessione tra il
fenomeno della Resistenza e quello dell’emigrazione a carattere politico può, a volte,
gettare un’ombra teleologica su di un fenomeno che, in diversi casi, era indipendente
o almeno egualmente dovuto a esigenze di carattere economico, sociale, culturale e
politico. Siamo infine ben consci che la disamina di un maggior numero di fonti orali,
soprattutto in Francia, avrebbe potuto offrire spunti più ampi e precisi alla nostra
ricerca, e ci riserviamo di proseguire le indagini in tal senso nel prossimo futuro.
Essendoci concentrati per ragioni di reperibilità delle fonti sulla sponda italiana del
flusso migratorio, abbiamo cercato di ricostruire, oltre al contesto storico e alla
situazione sociale ed economica in cui ebbero luogo le vicende da noi studiate, la
parte meno tangibile dell’universo degli emigrati, ossia il loro “immaginario”. Nel
caso da noi studiato, quello cioè di un tipico comune della provincia reggiana nella
prima metà del Novecento, non si può fare a meno di avvertire lo spirito che aleggia
sotto quasi ognuna delle vicende che ivi hanno avuto luogo; una tensione verso quel
futuro che l’ideale del socialismo nella sua declinazione prampoliniana in un primo
momento, e quello di stampo sovietico poi, sembravano non solo promettere, ma
realizzare a poco a poco, e che il fascismo ha bruscamente interrotto. È questa
tensione politica, prima esogena nel periodo dittatoriale, e poi, con la Liberazione, di
nuovo endogena, che ci è parsa contraddistinguere non solo i percorsi migratori, ma
anche il cammino storico più significativo della realtà casalgrandese nella prima metà
del Novecento.
120
Eugène Atget, rigattiere di Sainte-Marguerite, 1904
Casalgrande, la Borgata di Boglioni all’inizio del secolo scorso
126
Bibliografia
FONTI ARCHIVISTICHE
Archivio Comunale di Casalgrande, Categoria XIV, Affari Vari, documenti relativi al
rilascio di passaporti per gli anni 1900-1946
Archivio Comunale di Casalgrande, Categoria XIV, Affari Vari, anni 1900-1946:
lettere e corrispondenza documentaria tra l’Ufficio del Sindaco e la Camera del
Lavoro di Reggio Emilia, la Camera delle Corporazioni Fasciste, il Consolato italiano
a Parigi, Lille, Nizza, Metz, lettere di convocazione da parte d’imprese francesi,
documenti relativi al rilascio di pensioni e assicurazioni sugli infortuni sul lavoro,
lettere degli emigrati ai familiari e al Comune.
Archivio Comunale di Casalgrande, Categoria XIII, Pratiche giudiziarie e di polizia,
documenti relativi alla condotta politica per gli anni 1920-1940
Archivio Comunale di Casalgrande, Emigrazione e Immigrazione, cartelle relative
agli anni dal 1931 al 1936
Archivio Comunale di Castellarano, Categoria XIV, Affari Vari, documenti relativi al
rilascio di passaporti per gli anni 1920-1940
Archivio della Provincia di Reggio Emilia, Emigrazione, fascicoli vari
Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, fascicoli relativi a
Richetti Anselmo, b. 4298; Pedretti Giuseppe, b. 3887; Barbieri Alfonso, b. 325; Pini
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