1 UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTA' DI PSICOLOGIA tesi di laurea DE MORRA Ricerca etnografica sul gioco della morra in Val di Non e Val di Sole relatore Ch.mo Prof. ANTONIO MARAZZI laureando OSCAR de BERTOLDI matr. 444531 Anno Accademico 2003/2004
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Oscar de Bertoldi DE MORRA - Tesi di laurea 2003-2004
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTA' DI PSICOLOGIA
tesi di laurea
DE MORRA
Ricerca etnografica sul gioco della morra in Val di Non e Val di Sole
relatore
Ch.mo Prof. ANTONIO MARAZZI
laureando
OSCAR de BERTOLDI matr. 444531
Anno Accademico 2003/2004
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1.
PARTE TEORICA
L’antropologia del gioco
Il gioco è innegabile. Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco
Johan Huizinga, Homo Ludens
“L’uomo è veramente uomo solo quando gioca” dice Friedrich Schiller. “Nell’uomo autentico si nasconde un bambino” dice Friedrich Nietsche, e mia moglie ha aggiunto: “Come mai si nasconde?”
Konrad Lorenz, Die Rückseite des Spiegels
1.1. Il gioco in antropologia: il grande assente
Se aprendo un manuale di antropologia culturale1 si può rimanere
stupiti scoprendo che non un solo paragrafo sia stato dedicato al gioco (e di
questa mancanza si potrebbero “accusare” anche manuali di psicologia e di
sociologia), sicuramente non sorprenderà il ruolo di secondo (terzo, quarto,
…) piano in cui la ricerca antropologica aveva relegato questa pratica che
accomuna nelle forme più disparate tutti i tipi di civiltà.
1.1.1. L’attenzione al “testo”
Verso la fine dell’800 alcuni etnologi avevano cominciato a notare delle
affinità tra le attività ludiche primitive delle popolazioni “selvagge” e quelle
apparentemente più regolamentate delle popolazioni occidentali: una delle
dispute che ne nacquero riguardò pertanto la diffusione dei giochi.
Il fatto che vi fossero giochi uguali o perlomeno simili diffusi in diverse
culture sollevava la questione se questi avessero un’origine comune
(monogenesi) o indipendente (poligenesi). In questo senso venivano
1 Ember / Ember 2004 ne è un esempio ma la lista potrebbe essere più lunga.
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analizzate e confrontate tra loro regole e fasi di giochi geograficamente
lontani2.
A tal proposito l’antropologo Giuseppe Pitré ammoniva che “non v’è
cosa di tanto pericoloso […] quanto il voler determinare le genesi d’un
giuoco”3 sostenendo che fosse abbastanza improbabile che giochi che si
presentassero simili e in diversi luoghi fossero nati spontaneamente: è più
probabile che fossero stati trasmessi da un popolo a un altro come qualsiasi
altra forma di cultura.
Altra convinzione assai diffusa tra gli antropologi era che “tutto scade
nel gioco”4. Giochi e giocattoli sarebbero infatti residui di una cultura arcaica,
o prestiti da altre culture, svuotati o svestiti dei loro significati e funzioni
originari. Arco, fionda, cerbottana sarebbero vestigia degli strumenti di
caccia, mentre i giochi di probabilità (e i loro strumenti: carte, dadi,
conchiglie, astragali) una dissolvenza desacralizzata delle arti magiche e
divinatorie5.
1.1.2. Il gioco torna agli uomini: l’attenzione al “contesto”
Questo vivisezionare e analizzare i giochi per stabilire una loro origine e
data di nascita, con l’attenzione incentrata solamente sul “testo”, venne poi a
scontrarsi con le nuove istanze dell’antropologia novecentesca, più inclini ad
interrelarlo agli altri fenomeni culturali all’interno di un “contesto”. La nuova
concezione gestaltista (promossa dai diversi “funzionalismi” di Malinowski e
Radcliffe-Brown) di sistema come un tutto integrato e non come mera
somma delle parti permise lo studio del gioco in connessione con la cultura e
2 come ad esempio gli studi sulla famiglia del backgammon effettuati da Edward Tylor e riportati in De Sanctis Ricciardone 1994: 15-19. 3 Pitré 1883: XLIII-XLIV. 4 Caillois 1958: 75 e sgg. 5 cfr. Tylor e Pitré, citati in De Sanctis Ricciardone, 1994: 12; ma anche Bell 1975: 10.
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col sistema sociale, e anzi spettava all’antropologo scoprirne funzioni e
interrelazioni. Bisognava restituire il gioco agli uomini.
Un buon precursore di questa istanza viene generalmente indicato nel
biologo tedesco Karl Groos, autore di due testi, uno sul gioco degli animali
(1896) e uno sul gioco dell’uomo (1899), che aveva parlato del gioco come di
un’attività libera e gratuita, connessa ad una propensione istintiva e
spontanea, presente negli animali come nell’uomo. Egli, come riporta
Caillois6, era giunto al singolare paradosso di ribaltare un diffuso luogo
comune: “Gli animali non giocano perché sono giovani, sono giovani perché
devono giocare”. In questo senso il gioco, attività libera, senza costrizioni e di
per sè soddisfacente può diventare una proficua palestra di vita ed è quindi
“funzionale” all’apprendimento e alla perpetuazione dell’ordine sociale.
In quest’ottica Malinowski (1931) sosteneva che i giochi “strappano
l’uomo alla consuetudine ed eliminano la tensione e la disciplina della vita
quotidiana, assolvendo la funzione di ricreare l’uomo, di reintegrarlo nella
sua piena capacità di lavoro”7. L’identità di gioco e tempo libero è ben
esemplificata dagli hobby8 che strappano l’uomo al lavoro restituendogli una
diversa vena creativa. Differenti sono i giochi in circolo, gli sport, le danze
profane, che sono improduttivi ma creano forti sentimenti di coesione sociale
fuori dalla sfera ordinaria del lavoro e della famiglia.
Essi creano nuovi legami e forti sentimenti di appartenenza e rivalità.
Nelle società primitive questo è utile poiché può facilitare all’antropologo il
riconoscimento delle strutture sociali. Nei giochi cerimoniali si compie spesso
una temporanea “ricristallizzazione” sociologica, “il sistema dei clan emerge
nella sua preminenza, la distribuzione in famiglie e gruppi locali è cancellata;
si sviluppano nuovi rapporti di fedeltà su base non territoriale”9. In entrambi
6 1958: 190 7 Malinowski 1931: 184 8 Caillois (1958) li definisce una “compensazione alla mutilazione della personalità causata dal lavoro alla catena di montaggio, automatico e parcellizzato” (1958: 51). 9 Malinowski 1931: 187
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i casi nel gioco si evidenzia la funzione di fucina creativa di innovazioni
tecnologiche, artistiche e comportamentali.
A conclusioni simili era giunto un anno prima anche Raymond Firth,
studiando il Tika, una sorta di lancio del giavellotto giocata dai polinesiani
Tikopia, nel quale egli aveva riconosciuto dei legami indistricabili tra gioco,
economia, società e culto10.
In altre ricerche di quel periodo, come ad esempio quella di Radcliffe-
Brown sulle “parentele di scherzo”11 o la proposta di Malinowski di sostituire
lo sport alla guerra12 o ancora il tentativo di esportare gli sport occidentali
nelle popolazioni colonizzate, come in molte delle ricerche successive (questo
ovviamente quando il gioco viene considerato) è evidente una sua concezione
come accidente, come attività di ricreazione importante e feconda, ma
decisamente assecondato alla vita ordinaria e produttiva, alla vita “seria”.
1.2. Il ludocentrismo: la rivoluzione copernicana di Huizinga
1.2.1. Tutto nasce in gioco
Appare chiaro come gli antropologi, pur avendo allargato il tiro al
“contesto” dei giochi e così restituito il gioco agli uomini, volassero basso nel
portare esempi ludici nelle tenzoni fra teorie.
Mentre molti discutevano su quanto il gioco potesse essere utile alla
società o a una teoria o quanto potesse “riflettere” di una data cultura, lo
storico olandese Johan Huizinga (1938) costruiva in Homo Ludens la sua
teoria sulla nascita e lo sviluppo della cultura proprio sul gioco13 e preparava
10 cfr. De Sanctis Ricciardone 1994 : 36-40. 11 cfr. De Sanctis Ricciardone 1994: 40 12 ibid.: 45 13 “Nel 1933 dedicai a quel soggetto la mia orazione di rettore dell’Università di Leida, col titolo: Sui limiti del gioco e del serio nella cultura. Quando in seguito adattai e rinnovai quel discorso due volte, prima per conferenze a Zurigo e a Vienna (1934), poi per un’altra a
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quella che sarebbe stata la sua personale (e “oltraggiosa” secondo Eco)
rivoluzione “copernicana” dell’antropologia:
“La concezione chiarita qui sotto è la seguente: la cultura sorge in forma
ludica, la cultura è dapprima giocata. […] Nei giochi e con i giochi la vita
sociale si riveste di forme sopra-biologiche che le conferiscono maggior
valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita
e del mondo. Dunque ciò non significa che il gioco muta o si converte in
cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il
carattere di un gioco”14.
Tale concezione si contrappone nettamente a quella “tolemaica”, che
vede il gioco gravitare assieme ad altri elementi nell’universo-cultura. Il gioco
per Huizinga ne diviene il centro e dà la luce a tutti gli altri “pianeti” culturali:
arte, letteratura, teatro, diritto, scienza, religione, filosofia. Il sole-gioco
quindi non solo dà vita e ordine al sistema di pianeti culturali ma essi stessi
vivono, convivono e progrediscono alimentandosi della fonte fecondatrice che
li ha creati.
Nelle attività umane il gioco è “il fatto primario, oggettivo,
percettibile”15, la cultura invece è una sorta di epifenomeno, di illusione
oggettiva, essa è “la qualifica applicata dal nostro giudizio storico al dato
caso”.
Tutte le attività originali della società umana sono “intessute di gioco”16:
è giocoso lo spirito creatore della lingua che distingue e definisce, che passa
continuamente dal materiale allo spirituale, così come il mito che trasfigura
Londra (1937), vi posi il titolo: Das Spielelement der Kultur, The Play Element of Culture. Tutte e due le volte i miei ospiti corressero: - in der Kultur, in Culture - e ogni volta io cancellai di nuovo la preposizione e ristabilii il genitivo. Infatti per me non si trattava di domandare qual posto occupi il gioco tra i rimanenti fenomeni culturali, ma in qual misura la cultura stessa abbia carattere di gioco” (Huizinga 1938: XXXI-XXXII). 14 Huizinga 1938: 55, corsivo mio. 15 ibid, corsivo mio. 16 ibid.: 7.
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la realtà nel divino, e il culto17, con le sue elaborate cerimonie e azioni sacre. E
sorgono dal mito e dal culto tutte le altre attività culturali quali giustizia e
ordine, traffico e industria, artigianato e arte, poesia, filosofia e scienza.
Quindi sono anch’esse radicate in tale base di azione giocosa.
1.2.2. Irriducibilità del concetto di gioco
Il concepire la cultura, cosa estremamente seria, sub specie ludi, trova
però un primo ostacolo già nella nostra coscienza, dove il gioco si oppone alla
serietà18. Tuttavia, se lo andiamo ad analizzare, questo giudizio risulta
immediatamente precario: se dicessimo “il gioco è non-serietà” o “il gioco
non è serio” come potremmo spiegare l’assoluta serietà con cui il giocatore si
abbandona al gioco19? Come spiegare altre categorie fondamentali della vita
classificabili come non-serie ma pure non corrispondenti al gioco? Il comico,
il riso, la follia, lo scherzo, non sono serietà, né sono gioco, ma hanno in
comune l’irriducibilità di concetto che dovremmo assegnare al gioco.
E tanto più tentassimo di separare il gioco da altre forme di vita affini,
tanto più si rivelerebbe la sua indipendenza. Né tantomeno possiamo isolarlo
dalle grandi antitesi categoriche, poiché sta al di là della distinzione saggezza-
follia, sia da quella verità-falsità. Benché attività dello spirito, non contiene
funzione morale, né virtù, né peccato, quindi si trova anche al di là del bene e
del male.
17 “Il culto è dunque uno spettacolo, una rappresentazione drammatica, una raffigurazione, una realizzazione supplente. Nelle sagre, che si ripetono con le stagioni, la collettività festeggia gli avvenimenti importanti della natura con rapppresentazioni sacre. Esse mostrano il variare delle stagioni raffigurando levate e tramonti di stelle, crescita e maturazione dei prodotti campestri, nascita, vita e morte tanto dell’uomo quanto dell’animale. L’umanità gioca (è l’espressione di Leo Frobenius) l’ordine della natura come questa le si è palesata.” (Huizinga 1938: 20, corsivo mio) 18 cfr. Huizinga 1938: 4; ma anche Jünger 1953: 257-258; Mongardini 1989: 57; Dallago, Rovatti 1993: 9. Per Sigmund Freud invece “il contrario del gioco non è la cosa seria, ma la realtà” (1908: 130). 19 tanto che Friedrich Hegel afferma che “il gioco, nella sua grandissima frivolezza, è contemporaneamente la più sublime e l’unica vera serietà” (citato in Fink 1960: 27).
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L’unica categoria con cui il gioco si potrebbe collegare è l’estetica. La
bellezza non è inerente al gioco come tale, ma la bellezza del corpo umano in
movimento trova la sua massima espressione nel gioco. I termini stessi con
cui possiamo definirne gli elementi provengono in gran parte dalla sfera
dell’estetica: tensione, equilibrio, oscillamento scambio di turno, contrasto,
variazione, intreccio e soluzione20. Inoltre nelle sue forme più evolute come le
danze, le musiche, i giochi sociali e l’arte il gioco è intessuto di ritmo e
armonia, le doti più nobili della facoltà percettiva estetica dell’uomo.
L’esistenza del gioco non è legata a nessun grado di civiltà, a nessuna
concezione di vita, né possiamo negare il suo essere una delle più alte forme
dello spirito, né la sua utilità biologica, “gli animali non giocano perché sono
giovani, dispongono di un periodo giovanile perché devono giocare”21.
Proprio per questo è necessario fare un passo indietro, perché il gioco non è
una prerogativa umana. Esso è innanzitutto logicamente e cronologicamente
più antico della cultura: gli animali, sin dalle forme più semplici, non hanno
certo aspettato l’uomo per imparare a giocare. Evidentemente si tratta di
qualche cosa di più che un fenomeno fisiologico o una reazione psichica
fisiologicamente determinata. Oltrepassa, anche negli animali, “i limiti
dell’attività biologica”22, non è connesso a finalità di sopravvivenza o di mera
sussistenza: “è una funzione che contiene senso”23.
1.2.3. Caratteristiche del gioco
Risulta più digeribile a questo punto l’incipit “oltraggioso”24 di Homo
Ludens “il gioco è più antico della cultura”25. E per chiarire ulteriormente
questa continuità nel gioco, per di-mostrarla Huizinga si affida a una
sequenza quasi filmica, che immediatamente offre al lettore una metafora per
immagini dei ”tratti fondamentali” del gioco. Osserviamo, dice Huizinga,
l’“allegro ruzzare”26 di due cuccioli che giocano:
“Essi s’invitano al gioco con certi gesti e atteggiamenti cerimoniosi;
osservano la regola che non si ha da mordere a sangue l’orecchio del
compagno; fingono di essere arrabbiatissimi. E si noti soprattutto che a far
così essi provano evidentemente in massimo grado piacere e gusto”27.
In questa sequenza già troviamo molto di quello che andrà a esplicitare
subito dopo28:
1) il gioco è un’attività libera, cui l’individuo aderisce per scelta: “il
gioco comandato non è più gioco”.
2) Il gioco instaura una realtà fittizia, diversa dalla vita “ordinaria” o
“vera”, una sfera di realtà del tutto temporanea alla quale però bisogna
assoggettarsi con consapevolezza. Anche i bambini e i cuccioli sono coscienti
di giocare soltanto, ma questo non esclude che tutto avvenga con la massima
serietà, anzi con un abbandono che in termini sociali va oltre la seria
compostezza, “ogni gioco può in qualunque momento impossessarsi
completamente del giocatore”.
3) Non essendo “vita ordinaria” si situa all’esterno del processo di
immediata soddisfazione dei bisogni, anzi lo interrompe e vi si introduce
come un’azione provvisoria, fine a se stessa, eseguita solo per la sua
soddisfazione intrinseca.29
Proprio per essere una divaricazione tra i momenti di vita ordinaria, il
gioco si fa “accompagnamento, complemento e parte della vita in
generale”30. Esso adorna la vita e la completa, per questo è indispensabile. È
indispensabile per l’individuo per la sua funzione biologica, ed è
26 Ibid. 27 ibid, corsivo mio. 28 cfr. ibid.: 10-12. 29 “anche il tempo, all’interno del tempo di gioco, perde il valore economico che esso possiede nella vita reale” (Mongardini 1989: 60). 30 Huizinga 1938: 12.
10
indispensabile per la collettività per il senso che contiene, per i legami
spirituali e sociali che crea, cioè in quanto funzione culturale31. Questa
divaricazione, avendo uno svolgimento proprio e un senso in sé, ha bisogno
di una precisa dimensione spazio-temporale32. Tali limitazioni di tempo e di
spazio risultano essere “particolarmente feconde”33.
4) Il gioco comincia e a un certo punto è finito. Tale limitazione
temporale permette che il gioco “giocato una volta” permanga nella memoria
come “tesoro dello spirito”, venga tramandato e possa essere ripreso e
ripetuto in qualunque momento. In tal modo il gioco “si fissa subito come
forma di cultura”34. Questa possibilità di ripresa è una delle sue qualità
essenziali e vale non solo per il gioco in sé ma anche per la sua struttura
interna, essendo la ripetizione, il ritornello e il cambio di turno elementi tipici
di quasi tutte le forme più sviluppate di gioco.
5) La sua limitazione nello spazio è ancor più degna di nota. Il gioco
come il rito (dal quale il gioco non si discosta formalmente35, secondo
Huizinga) ha bisogno di ac-cadere nel suo ambito, in un luogo che sia
mentalmente o fisicamente separato e delimitato: l’arena, il tavolino da gioco,
il cerchio magico, il tempio, la scena, lo schermo cinematografico, il
tribunale, sono tutti, per le loro qualità formali, dei “luoghi di gioco”36,
31 Cfr. Huizinga 1938: 12, ma anche Groos (1896: 65) nonché Eco (1973) secondo cui il gioco è “il momento della salute sociale, è il momento della massima funzionalità in cui la società fa, per così dire, scaldare i cilindri, marciare il motore in folle, per pulire le candele, disingolfarsi, scaldare i cilindri, far circolare l’olio, tenersi in assetto. E dunque il gioco è il momento della più grande e più preoccupata serietà” (Eco 1973: XXV, corsivo mio). 32 cfr. Huizinga 1938: 13. 33 De Sanctis Ricciardone 1994: 62. 34 Huizinga 1938: 13. “La cultura del gioco non si evolve così come si svolgono le culture storiche. Il gioco è una rappresentazione astratta, chiusa nello spazio e ferma nel tempo” (Mongardini 1989: 79). 35 Anche Claude Lèvi-Strauss (1962) è dello stesso parere, con una sostanziale distinzione: “ogni gioco viene definito dall’insieme delle sue regole che rendono possibile un numero praticamente illimitato di partite; invece il rito, che anch’esso viene «giocato», somiglia piuttosto a una partita privilegiata, scelta tra tutte quelle possibili poiché è la sola a risultare in un ecerto tipo di equilibrio tra i due campi” (1962: 43, corsivo mio). 36 Huizinga 1938: 14.
11
”mondi provvisori” conchiusi, consacrati, all’interno dei quali l’uomo compie
particolari azioni, sotto l’egida di un ordine perfetto, assoluto, temporaneo.
6) L’ordine ludico “realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa
una perfezione temporanea, limitata”. Questa abdicazione dalla realtà può
avvenire soltanto attraverso l’assoggettamento del giocatore a regole
specifiche, artificiali. Esse determinano ciò che varrà dentro il mondo
temporaneo e delimitato del gioco e sono obbligatorie, inconfutabili e
incontestabili. Cionondimeno il giocatore vi si assoggetta per libera scelta.
Tale assoggettamento (che “vincola e libera”) riflette l’essenza dell’illusione,
dell’in-lusio, l’essere-nel-gioco. La trasgressione delle regole da parte di un
giocatore fa crollare il gioco stesso. “L’idea della lealtà è inerente al gioco”37. Il
guastafeste che si sottrae al gioco ne svela tanto la presupposta volontarietà
quanto la relatività e la fragilità, pertanto egli va annientato, giacché minaccia
l’esistenza stessa della comunità “giocante”. Il baro invece finge di stare al
gioco38, di non uscire dal “cerchio magico”, e pertanto non costituisce una
seria minaccia per l’”in-lusione”39.
Ecco una sintesi che lo stesso Huizinga propone dei tratti del gioco:
“Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il
gioco un’azione libera: conscia di essere presa “sul serio” e situata al di fuori
della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del
giocatore; azione alla quale in sé non è congiunto un interesse materiale, che
si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con
ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si
circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità
dal mondo solito”40.
37 ibid.: 15. 38 “e quindi tutela e proclama con il suo atteggiamento la validità delle convenzioni che viola, perché ha bisogno che almeno gli altri le rispettino” (Caillois 1958: 63). 39 “Anche nel mondo della grave serietà i bari, gli ipocriti, i mistificatori hanno sempre incontrato più facilitazioni dei guastafeste: cioè gli apostati, gli eretici, gl’innovatori, i catturati nella propria coscienza” (Huizinga 1938: 16). 40 ibid.: 17, corsivo mio.
12
Ogni comunità di gioco, infatti, tende a farsi duratura. Il gioco favorisce
la formazione di gruppi relativamente stabili che trovano ragioni di
aggregazione al di là delle occorrenze del gioco: “il club s’addice al gioco come
il cappello alla testa”41.
1.2.4. Gioco e gara come funzioni creatrici di cultura
È dunque evidente che la relazione fra cultura e gioco vada ricercata
nelle forme superiori del gioco sociale, nell’azione ordinata di un gruppo o di
una società, o ancora di due gruppi in opposizione. Ma tali caratteristiche del
gioco sono già realizzate nella vita degli animali, che si sfidano in gare di
forza, in sfoggio, in danze, in canti o nella costruzione di nidi. Gare e
rappresentazioni “non sorgono dalla cultura, ma la precedono”42.
Si gioca e si gareggia “in” qualche cosa e “con” qualche cosa, ma anche
“per” qualche cosa. Questo qualche cosa però non corrisponde al risultato
materiale che la palla vada in buca, ma al fatto immateriale che il gioco sia
riuscito. Tale riuscita dà soddisfazione in se stessa: questo accade già nel
gioco in solitario, ma è notevolmente accresciuta dalla presenza di spettatori
(anche se non sono indispensabili), di fronte ai quali ci si possa vantare.
“Vincere” è risultare superiore in un gioco, ma questo concetto tende
spontaneamente ad allargarsi. Con la vittoria si vince più del gioco in sé: si
ottengono stima e onore. E tale stima e onore sono in massima misura
comunicabili al resto del gruppo. Tale successo, seppur ottenuto per la mera
soddisfazione della riuscita, va sempre immediatamente a vantaggio del
gruppo del vincitore. Che il gruppo ne tragga un vantaggio spirituale o
materiale è secondario.
Le gare e le rappresentazioni che nelle società arcaiche nascono come
azioni rituali si trasformano ben presto in gare cerimoniali. Dai giochi di palla
41 ibid.: 16. 42 ibid.: 56.
13
alla lotta, dai canti alle danze, dal consumo smodato di sostanze43 alla
distruzione di beni (nei potlatch44 dei nativi americani), dagli indovinelli al
tiro dei dadi, ha poca importanza il tipo di competizione. Siccome il “saggio di
eccellenza”45 avviene nel e dal corso della natura, la vittoria rappresenta per i
vittoriosi “il trionfo delle forze benigne su quelle maligne, la salute del gruppo
che promuove il fatto”46.
I miti stessi sono pieni divinità che giocano: Ercole fatica dodici volte,
ma sono gare, Odino invece vince con l’inganno, il mondo stesso può essere
pensato come una partita di dadi che Shiva gioca con la moglie47.
Per Platone gioco e azione sacra sono la stessa cosa, tra loro non c’è
alcuna distinzione formale48. Entrambi si compiono sia in forma di
rappresentazione che di gara. Entrambi sono isolati dall’azione della vita
ordinaria, avvengono in tempi prestabiliti e in uno spazio chiuso, all’interno
del quale valgono regole specifiche. E questo non vale solo per il culto, ma
anche per la magia e per la vita giudiziaria. La mentalità con la quale il
gruppo sociale vive le sue azioni sacre è quella della “sacra serietà”49, del tutto
simile a quella cui il giocatore si abbandona con tutto il suo essere50.
Lo stato d’animo che accompagna le celebrazioni sacre ha per due poli
l’esaltazione e l’estasi. Entrambi i termini riflettono uno stato di -ex, cioè di
43 le cosiddette “feste delle libazioni”: cfr. Huizinga 1938: 86 44 di cui parla più approfonditamente Umberto Galimberti (1983: 247-250). 45 Huizinga 1938: 67. 46 Ibid. 47 ibid.: 62 e sgg. 48 “L’azione sacra è un dramenon, cioè qualche cosa che si fa. Quello che si rappresenta è un drama, cioè un’azione che si compie sia nella forma di una rappresentazione, sia in quella di una gara. L’azione figura un avvenimento cosmico, non soltanto però come rappresentazione, ma come identificazione. Essa ripete quell’avvenimento. […] La sua funzione non è puro e semplice imitare ma un partecipare, nel doppio senso di comunicare e di co-agire” (ibid.: 19). 49 ibid.: 26. 50 Dello stesso parere è Erving Goffman secondo il quale “la persona può dividere in due zone la sua esistenza: una zona d’ombra, quella del lavoro, che interessa poco a Goffman, perché è, come egli dice, «formale, rigida e morta», […] e una pittoresca, movimentata, calda, spontanea e talvolta sfiorata dal divertimento. È qui che «un individuo può mostrare che tipo di persona è». Qui c’è azione (anziché produzione economica). E qui si ritrova il sacro, che non è solenne e vacuo, ma «grasso e vivente»” (Maranini 2003: 16).
14
fuori, al di là. Certo la vita ordinaria può rivendicare i suoi diritti in ogni
momento, sia per una scossa che proviene dall’esterno51 o per una violazione
delle regole, ma l’atteggiamento rimane lo stesso, pur essendo “cruenti i riti,
crudeli le tribolazioni degli iniziandi, spaventevoli le maschere”52.
Il rito infatti è celebrato, cioè si realizza nei termini di una festa:
consacrazioni, danze sacre, gare cerimoniali, rappresentazioni, misteri, tutti
sono inquadrati nella festa, tanto che Karl Kerenyi (1938)53, in un testo quasi
contemporaneo a Homo Ludens, assegna alla festa un carattere di
“indipendenza primaria” del tutto simile a quello dato da Huizinga al gioco.
La sospensione della vita solita, la limitazione nel tempo e nello spazio,
l’unione di severa determinatezza e autentica libertà accomunano gioco e
festa, tra cui esiste un rapporto intimo per forza di cose (gli Antichi Romani le
chiamavano non a caso ludi).
Va reso dunque il merito a Huizinga di aver definito finalmente il
concetto di gioco e di aver riconciliato e ri-unito all’interno di un unico
orizzonte concettuale nozioni come festa, rito e gare. L’identità formale che le
accomuna proviene dalla loro concezione ludica che ne fa funzioni creatrici di
cultura, che dunque “sorge non come gioco e non da gioco, ma in gioco”54.
1.3. Caillois: per una sintassi dei giochi
1.3.1. Debiti e critiche verso Huizinga
Se Huizinga, stanco delle monche classificazioni precedenti, unifica tutti
i tipi di gioco, le gare, i riti e le rappresentazioni, in un unico magma
51 “(Una partita incompleta può produrre lo stesso livello di interazione che un incontro puntualmente condotto a termine). Quando un giocatore chiede tempo per rispondere al telefono, la partita può essere fermata a mezz’aria, essendo possibile riprenderla dopo un periodo di tempo imprecisato” (Goffman 1961: 49). 52 Huizinga 1938: 27 53 cfr. ibid.: 27-28 54 ibid.: 88, corsivo mio.
15
ribollente e fecondo di spirito ludico55 restituendo il gioco alla storia, è anche
vero che egli trascura deliberatamente la descrizione e la classificazione dei
giochi stessi, “come se corrispondessero tutti agli stessi bisogni ed
esprimessero indifferentemente lo stesso atteggiamento psicologico”56.
Questa è la critica che il sociologo e antropologo francese Roger Caillois
(1958) porta nei suoi confronti in apertura del suo saggio I giochi e gli
uomini: la maschera e la vertigine.
Tale critica tuttavia non è così radicale come potrebbe sembrare. Per
quanto riguarda la definizione di gioco in generale, Caillois riprende quella
huizinghiana qualificandolo come un’attività:
1) libera: a cui il giocatore non può essere obbligato senza che il
gioco perda subito la sua natura di divertimento attraente e giocoso;
2) separata: circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio
fissati in anticipo;
3) incerta: il cui svolgimento non può essere determinato né il
risultato acquisito preliminarmente […];57
4) improduttiva: che non crea , cioè, ne beni né ricchezze, né alcun
altro elemento nuovo; e, salvo uno spostamento di proprietà all’interno della
cerchia dei giocatori, tale da riportare a una situazione identica a quella
dell’inizio della partita58;
55 “[Huizinga] poteva studiare il gioco come langue, e lo studia come parole; poteva studiarlo come competence e lo studia come performance. Non fa una grammatica del gioco [né una sintassi] del gioco, esamina delle frasi, e più ancora le modalità di pronuncia delle medesime e il fatto che alla gente piace parlare. Non fa una teoria del gioco, ma una teoria del comportamento ludico [corsivo mio]. Poteva studiare il gioco giocante, e studia il gioco giocato, e il costume di giocare” (Eco 1973: XVII-XVIII). 56 Caillois 1958: 19. 57 “Le pratiche di «equilibrare» le squadre, di stabilire degli handicap, di limitare la partecipazione a classi di abilità, o di regolamentare l’entità delle poste, contribuiscono tutte quante a rendere sufficientemente malleabili i materiali del gioco, sì da consentire che questo sia plasmato e modellato in una forma meglio adatta ad appassionare i partecipanti” (Goffman 1961: 78). 58 Anche nel gioco d’azzardo, “la sua forma di gioco a fine di lucro, rimane rigorosamente improduttivo. […] C’è spostamento di proprietà, ma non produzione di beni.” (Caillois 1958: 21).
16
5) regolata: sottoposta a convenzioni che sospendono le leggi
ordinarie e instaurano momentaneamente una legislazione nuova che è la
sola a contare;
6) fittizia: accompagnata dalla consapevolezza specifica di una
diversa realtà o di una totale irrealtà nei confronti della vita normale59.
Di fatto questa definizione non si discosta dall’originale. Tutt’al più
Caillois evidenzia un tratto che Huizinga forse aveva dato per scontato,
ovvero l’incertezza che si presuppone all’attività ludica: “il dubbio sulla sua
conclusione deve sussistere fino alla fine”60. È infatti opinione del senso
comune che i giochi siano divertenti “quando l’esito o il tornaconto hanno
una buona probabilità di restare indeterminati fino alla fine”61.
1.3.2. Una nuova classificazione: i ludemi di Caillois
La vera emancipazione avviene invece nell’ambito della classificazione:
Caillois infatti, pur rendendo merito a Huizinga poiché “egli scopre il gioco
dove prima di lui non si era saputo riconoscerlo”62, coerentemente con la
critica di cui sopra, si dichiara insoddisfatto delle classificazioni correnti.
Esse dividono i giochi in base ai caratteri generali che li contraddistinguono:
gli strumenti di gioco, le qualità del giocatore, la pertinenza sessuale, il luogo
di gioco, i tempi, ecc. secondo un approccio che l’antropologa Paola De
Sanctis Ricciardone (1994) definisce “grammaticale”63. Questo tipo di
classificazione non rende l’idea dello spirito e dell’atteggiamento che
sottostanno ai diversi giochi, delle “disposizioni psicologiche che esso traduce
La categorie proposte da Caillois sono solo quattro (De Sanctis
Ricciardone le definisce “ludemi”65) strutture elementari irriducibili, principi
di base che caratterizzano tanto i giochi quanto la disposizione, la tensione
del giocatore: sono l’agon o competizione, l’alea o caso, la mimicry o
rappresentazione, l’ilinx o vertigine66.
L’agon comprende tutta una serie di giochi di competizione, individuali
o a squadre. Presupposto di questo ludema è che venga creata artificialmente
l’uguaglianza delle probabilità di successo affinché gli antagonisti si
affrontino in condizioni ideali, tali da attribuire un valore preciso e
incontestabile al trionfo del vincitore. È il caso degli sport, dei cruciverba,
degli scacchi, delle sfide tra bambini come delle lotte dei pavoni selvatici.
Nell’alea (dai “dadi”, in latino) questa creazione artificiale di
uguaglianza pone gli sfidanti “di fronte al cieco verdetto della sorte”67.
Esempi tipici sono forniti dai dadi, la roulette, testa o croce, pari e dispari,
ecc.
Agon e alea esprimono atteggiamenti opposti e simmetrici, ma
obbediscono di fatto alla stessa legge: “la creazione artificiale, fra i giocatori,
di condizioni di assoluta uguaglianza che la realtà nega invece agli uomini”68.
Se nell’agon il giocatore è l’unico artefice della propria vittoria, nell’alea il
giocatore è totalmente passivo e si abbandona al destino: in tale situazione
cioè il ruolo del merito e del caso risultano indiscutibili. Nell’uno e nell’altro
modo, si evade dal mondo “facendolo altro”, ma si può evaderne anche
“facendosi altro”: a questo bisogno risponde la mimicry.
65 Come li definisce De Sanctis Ricciardone (1994: 69). 66 a conclusioni simili era giunto nello stesso periodo, ma autonomamente, anche il filosofo e sociologo tedesco Friedrich Georg Jünger (1953: 33-103) che nel suo Saggio sul gioco classifica i giochi in base alla loro origine (“le motivazioni del loro prodursi”) distinguendo tre categorie: i giochi di fortuna, i giochi di abilità e i giochi che si basano sulla mimesi; è evidente che essi corrispondono rispettivamente alle categorie cailloisiane di alea, agon e mimicry, mentre non viene considerata la categoria dell’ilinx, la vertigine. 67 Caillois 1958: 35. 68 ibid.: 36.
18
Nei giochi di mimicry (dall’inglese “mimetismo”, specificatamente degli
insetti) il soggetto “gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di
essere un altro”69. La regola è che non ci sono regole se non la dissimulazione
della realtà, o la simulazione di un’altra. Può essere la maschera nel
carnevale, l’attore di teatro ma anche il bambino che gioca a imitare l’adulto o
ancora lo spettatore70 stesso (di uno spettacolo teatrale come di un rito o una
manifestazione sportiva) che si sospende e si identifica con i personaggi o con
gli atleti, ne “sente” le emozioni, ne mima i gesti.
L’ilinx (dal greco “gorgo”) comprende i giochi che si basano sulla ricerca
della vertigine e consistono nella distruzione momentanea dell’equilibrio o
della percezione per far subire alla coscienza uno smarrimento di “voluttuoso
panico”71. Ne sono esempi i dervisci danzanti, i voladores messicani, i
gibboni, che si curvano un ramo tendendolo fino a farsi proiettare
violentemente in aria, come i partecipanti a un rave party, ma anche
l’altalena, il girotondo e le giostre.
In tale classificazione, che De Sanctis Ricciardone definisce
“sintattica”72, ri-acquistano importanza e significato anche le annotazioni
“grammaticali” dei giochi (genere, numero, ecc.) dalle quali la stessa critica di
Caillois era partita. In questa nuova prospettiva anche gli strumenti di gioco
si qualificano non di per sé, ma mediante la funzione che assolvono nelle
sequenze ludiche: “un medesimo mazzo di carte può essere strumento per un
gioco puramente agonistico (una gara di “duplicato” a Bridge) o puramente
aleatorio (un tavolo di Black Jack)”73.
Tutti i giochi inoltre si muovono sullo stesso piano in due direzioni
antitetiche di tensione: la paidia (turbolenza) e il ludus (regola). Esse non
sono categorie di gioco, ma modi di giocare. I giochi, sostiene Caillois,
69 Ibid. 70 cfr. Caillois 1958: 39-40, ma anche Goffman 1961: 50 e Valeri 1979: 822. 71 Caillois 1958: 40. 72 De Sanctis Ricciardone 1994: 69. 73 ibid.
19
nascono caotici, tumultuosi, sorgono da una “libertà prima, originaria”74, che
è esigenza di distensione e di fantasia. Questa “potenza primaria”75, la paidia,
rimane anche successivamente come motore indispensabile del gioco, ma la
cultura tende a investirlo di un’esistenza istituzionale dandogli delle regole
(ludus) e trasformandolo in uno strumento di cultura fecondo e
indispensabile.
Dividendo i giochi nei quattro ludemi e inserendoli in una tabella che
evidenzi il progressivo passaggio di paidia in ludus possiamo ricavare la
seguente tabella:
Tabella n. 1: Suddivisione dei giochi (da Roger Caillois, I giochi e gli uomini: la maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2000, p.55)
1.3.3. Vocazione sociale e degenerazione dei giochi
Coma abbiamo visto il gioco non è soltanto una distrazione individuale,
anzi “si direbbe che al gioco manchi qualcosa, quando è ridotto a semplice
esercizio individuale”76. Infatti, anche se, in linea di principio i giocatori
74 Caillois 1958: 46. 75 Ibid. 76 Ibid.: 58.
20
potrebbero dedicarvisi solamente per conto proprio, i giochi agonistici
diventano ben presto gare o spettacoli e persino i giochi d’azzardo sembrano
aver maggior attrattiva in mezzo alla folla. Allo stesso modo come è chiaro
che “ci si traveste e ci si maschera per gli altri”77, mentre gli stessi giochi di
vertigine richiedono un fervore, un’eccitazione collettiva, che sostengano e
incoraggino l’ebbrezza che procurano.
Ognuna delle quattro categorie di gioco presenta così degli aspetti
socializzati che sono diventati parte stessa della vita collettiva, delle abitudini
quotidiane. La forma socializzata dell’agon è essenzialmente lo sport, ma
anche le dispute tipiche della concorrenza commerciale, i concorsi (anche se
sono spesso ibridi quelli in cui si confondono fortuna e merito) e gli esami;
per l’alea sono i casinò, le corse, le lotterie ma anche la speculazione in Borsa;
per la mimicry le arti dello spettacolo, dal teatro delle marionette al cinema,
il carnevale (anche se con sfumature di vertigine), ma anche le formalità, le
uniformi e l’„etichetta”; per l’ilinx infine l’alpinismo, l’ebbrezza della velocità,
le professioni pericolose, il luna-park e quegli appuntamenti annuali, ciclici
delle feste e delle sagre popolari.
Ma se i principi dei giochi corrispondono a istinti potenti (competizione,
ricerca della fortuna, imitazione, vertigine), si potrà comprendre senza
difficoltà come essi non possano ricevere un appagamento positivo che in
determinate condizioni, ideali e circoscritte, quali quelle che garantiscono le
regole del gioco.”I giochi disciplinano gli istinti e impongono loro
un’esistenza istituzionale”78. Cosa succede allora quando l’universo del gioco
non è più separato ermeticamente? Quando cioè gli istinti di gioco escono dal
“cerchio” contaminando il mondo reale? Prenderanno necessariamente
forme diverse, corrotte e poco controllabili.
77 Ibid.: 59. 78 Ibid.: 73. “Nel momento in cui si accordano agli impulsi un soddisfacimento formale e limitato, essi li educano, li fecondano e vaccinano l’anima contro la loro virulenza. Contemporaneamente, li rendono atti a contribuire positivamente ad arricchire e determinare gli stili e le culture” (ibid.).
21
La degenerazione dell’agon comincia “laddove non vengono riconosciuti
né arbitri né arbitraggi”79. Ogni agonismo, o antagonismo, che non sia più
temperato da costrizioni morali, sociali o legali, come quelle del gioco, sfocia
nell’avidità, nella sopraffazione e nell’inganno.
Per i giochi d’azzardo c’è corruzione del principio dell’alea quando il
giocatore cessa di rispettare il caso, “di ritenerlo una forza impersonale e
neutra, senza sentimento né memoria, puro effetto meccanico delle leggi che
presiedono la ripartizione della fortuna”80. Tale degenerazione si manifesta
nella superstizione: con essa il giocatore si affida al destino ma cerca di
prevederne le decisioni o attirarsene i favori, accordando un valore
pragmatico ad amuleti, oroscopi, incontri, sogni o presentimenti.
La degenerazione della mimicry invece si manifesta quando
l’imitazione, la simulazione, non vengono prese più come tali; quando il
mascherato non limita il gioco al suo gusto di “indossare” un’altra
personalità, ma crede nella realtà del travestimento e della maschera
perdendo la propria identità. L’alienato non fa più la parte del personaggio
che rappresenta, è convinto di esserlo e si comporta di conseguenza.
Mentre gli altri ludemi riescono a trovare spazio nella vita ordinaria, la
vertigine ne è praticamente bandita, relegata in professioni pericolose, “in cui
la bravura di chi le pratica consente di dominarla”81, in tempi limitati come il
carnevale o in luoghi circoscritti e controllati come i luna-park. Essi però
restano fondamentalmente indipendenti dal mondo reale, l’effetto finisce una
volta “scesi”. Per introdurre la vertigine nella vita quotidiana ”bisogna
passare dagli effetti immediati della fisica ai poteri torbidi e fumosi della
chimica”82: quest’ebbrezza viene chiesta all’alcol e alla droga, ma il vortice
non è più separato dalla realtà, cresce al suo interno e vi si insedia.
79 Ibid.: 64. Nel gioco “la decisione, anche ingiusta, dell’arbitro, è approvata per principio” (ibid.: 64). 80 Ibid. 81 Ibid.: 68. 82 Ibid.: 69. Tale degenerazione si può riscontrare anche negli animali: per esempio la Formica sanguinea, che lecca avidamente le secrezioni addominali di un piccolo coleottero
22
Tabella n. 2: Forme culturali, istituzionali e degenerazioni dei giochi (da Roger Caillois, I giochi e gli uomini: la maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2000, p.74)
1.3.3. Teoria allargata dei giochi
In alcune delle forme ludiche analizzate precedentemente abbiamo
potuto notare che gli atteggiamenti fondamentali che presiedono ai giochi, i
quattro ludemi, non si riscontrano sempre isolatamente, non si escludono
mutualmente; anzi, molti giochi si basano proprio sulla loro associazione.
Partendo da questa considerazione Caillois propone una “teoria
allargata dei giochi”83 che prevede di associarli a due a due: da questa
operazione escono sei abbinamenti binari, che egli divide, in base alla loro
“probabilità ed efficacia”84, in fondamentali, casuali e contro-natura.
I fondamentali sono agon-alea e mimicry-ilinx. La maggior parte dei
giochi parte da una commistione dei principi dell’agonismo e del caso: da una
parte la sorte che decide la situazione iniziale (una smazzata di carte, un tiro
chiamato Lochemusa strumosa. Esse introducono nei propri nidi le larve di questo e le nutrono con tanta cura da trascurare le proprie. Ben presto le larve di Lochemusa divorano le larve delle formiche le cui regine, malcurate, non generano più che creature sterili. Il formicaio così decade e sparisce (cfr. Caillois 1958: 69-71). 83 ibid.: 89 e sgg. 84 Ibid.: 90.
23
di dadi, il lancio della monetina, ecc.), dall’altra le abilità del giocatore che
tentano di trarne il maggior vantaggio possibile.
La maschera e la vertigine sono altrettanto intimamente connesse:
“fingere di essere un altro aliena ed esalta. Portare una maschera fa sentire
liberi”85. Se il primo è il connubio su cui si basa il “nostro” occidentale “gioco
sociale”86, sulla base di quest’ultimo nasce e si sviluppa il “gruppo sociale” del
mondo “primitivo”.
Casuali, accidentali, sono gli abbinamenti tra alea e ilinx, poiché lo
sfidare la sorte dà un senso di vertigine e smarrimento, e tra agon e mimicry,
in quanto è evidente che ogni competizione sia in se stessa uno spettacolo.
Infine contro natura, secondo Caillois, sono la paralisi che crea la
vertigine unita alla necessità di controllo delle proprie capacità nella
competizione (ilinx-agon), come niente hanno in comune l’imitazione, al
dissimulazione con l’accettazione del responso del caso (mimicry-alea).
1.3.4. Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone
È possibile, aggiunge Caillois, sviluppare abbinamenti ternari, ma
risulterebbero mere giustapposizioni di elementi non organicamente
connessi tra loro. De Sanctis Ricciardone (1994) invece, con spirito audace ed
eversivo, crea questo modello87 che mette in evidenza 16 combinazioni
possibili e va ad analizzare le combinazioni ternarie, essendo le quaternarie
rispettivamente insieme di tutti i ludemi (1) e insieme vuoto (16).
Il fatto che per esempio l’agonismo sia strettamente connesso sia con lo
spettacolo, la maschera, sia con il caso, fa sì che moltissimi giochi risultino in
realtà combinazioni ternarie. Ecco dunque che l’alea, sebbene facendo
sponda sull’agon, si trovi con la mimicry in un’unione tutt’altro che contro-
Tabella n. 3: Combinazioni dei ludemi caillioisiani (da Paola De Sanctis Ricciardone, Antropologia e gioco, Liguori ed., Napoli 1994, p. 104)
26
vertigine, simbolizzata o relegata nel gioco, è insomma usata “contro se
stessa” e il dominio competitivo su di essa attuato attraverso il gioco è
significativo per il processo stesso di socializzazione.
1.3.5. Interdipendenza dei giochi e delle culture
Se il gioco dei bambini è una palestra di vita, come diceva Groos, e può
essere indicativo delle caratteristiche in fieri che ci si aspetta da un adulto,
nel gioco degli adulti si può supporre che queste caratteristiche si esprimano
tout court. In questo senso a partire dai giochi praticati in una cultura è
possibile desumere, s-coprire o verificare caratteristiche di quella data
cultura. “Non è affatto assurdo tentare una diagnosi di una civiltà partendo
dai giochi che segnatamente vi fioriscono”92.
I giochi infatti non solo sono fattori, ma anche immagini e specchi di
cultura, di modo che si può supporre che, in certa misura, una civiltà, e
all’interno di essa un’epoca, possa essere caratterizzata dai giochi che vi si
praticano, che possono servire a definire alcune delle caratteristiche morali o
intellettuali di chi vi partecipa come di chi vi assiste93. La prospettiva che egli
stesso definisce “sociologia a partire dai giochi”, parte dall’assunto che tra
giochi, usanze e istituzioni esistano stretti legami a livello simbolico e
strutturale.
In questo senso il destino di Sparta era già scritto nel rigore militare
degli esercizi ginnici, quello di Atene nelle dispute dei Sofisti, la decadenza e
la caduta della Roma imperiale nella posizione centrale che gli anfiteatri
occupavano e nei grassi e truculenti combattimenti ai quali si assisteva.
Oppure non è casuale che il golf sia lo sport inglese per antonomasia: un
gioco in cui ciascuno, in ogni momento e a proprio piacimento, è libero di
92 Caillois 1958: 99. 93 Cfr. anche Goffman 1961: 82 e sgg.
27
barare, ma in cui il gioco stesso perde in interesse proprio a partire dal
momento in cui si bara94.
I giochi “danno delle abitudini, creano dei riflessi”95, inducono l’attesa di
un certo tipo di reazioni considerate la norma, e inducono a considerare
strane, assurde, quando non brutali, provocatorie o sleali le reazioni opposte.
Il contrasto tra popoli limitrofi si alimenta di queste differenze, tanto che
sicuramente non possiamo stabilire in esse la sua origine, ma altrettanto
certamente ne incontriamo un’ulteriore illustrazione. Il fatto che per un mio
amico catalano la corrida, che ha imparato fanciullo a “vedere” con il nonno,
sia “pura poesia” non toglie che agli occhi di uno straniero essa appaia né più
né meno che una pura (nonché vile) barbarie96.
Tuttavia è chiaro, ricorda Caillois, che diagnosi di questo tipo devono
essere espresse con estrema cautela. Conviene piuttosto procedere a una
verifica più severa: generalmente del resto, la moltitudine e la varietà di
giochi in auge all’interno di una stessa cultura ne rendono l’analisi più
complicata. Inoltre accade spesso che il gioco offra, in maniera simmetrica
rispetto alla precedente considerazione, “una compensazione senza
importanza, uno sbocco fittizio alle tendenze delittuose che la legge o
l’opinione pubblica riprova o condanna”97. Il moderno lotto come gli eccessi
degli ultrà, la satira e il fool shakespeariano sono pratiche evidentemente
contro la legge o la morale ma risultano essere accettate socialmente poiché
avvengono all’interno di un’isola limitata “consacrata artificialmente a
competizioni calcolate, rischi ridotti, a finzioni senza conseguenze e a estasi
addomesticate”98. In questo senso il gioco può essere visto, oltre che come
immagine di una cultura, anche come suo calco, o come riflesso negativo.
94 Cfr. Caillois 1958: 100. 95 ibid.: 151 96 a tal proposito sono interessanti ed esplicativi delle differenti posizioni culturali riguardo la corrida i dialoghi tra Tex Willer, Kit Carson e il governatore messicano Montales in “Tex” n. 488 (Bonelli ed.) Matador!: 38-56. 97 Caillois 1958: 101. 98 ibid.: 103.
28
Espressione o valvola di sfogo dei valori collettivi, i giochi appaiono
necessariamente e indistricabilmente legati allo stile e alla vocazione delle
varie culture. Non si tratta di insinuare che la vita collettiva dei popoli e le
istituzioni siano anch’essi una sorta di giochi retti da agon, alea, mimicry e
ilinx, essendo essi una parte limitata e separata dalla vita ordinaria.
Purtuttavia è probabile che i principi dei giochi, lo spirito con cui gli individui
si lanciano in queste terre franche, libere dalle convenzioni solite, possano
aiutare a “determinare lo spazio, l’importanza che le diverse società
attribuiscono alla competizione, al caso, al simulacro e all’ebbrezza”99.
Il passo successivo, e immediato, di queste considerazioni porta Caillois
ad osservare la dicotomica differenza nei giochi praticati dalle società
primitive e dalle società ordinate, burocratiche. Mentre nelle prime regnano
la maschera e la possessione, vale a dire la mimicry e l’ilinx; al contrario nelle
seconde, basate sulla nascita, come per esempio gli Incas, gli Assiri, i Cinesi o
i Romani, i principi che reggono i giochi sono il caso e la competizione, l’agon
e l’alea.
Nelle società primitive l’uomo incarna tramite la maschera le presenze
che lo terrorizzano, le mima, si identifica con esse: così alienato, in preda al
delirio si sente posseduto da quelle stesse presenze. Il gruppo è complice di
questo delirio: nella festa, nel rituale, tutti partecipano a questa vertigine,
entrando in questo gorgo la cui l’intensità accomuna il gruppo assicurando la
coesione della vita collettiva. La festa, il dilapidare tutti i i beni accumulati, la
sregolatezza divenuta regola, la norma capovolta dalla presenza della
maschera, fanno della vertigine collettiva il punto culminante e aggregante
dell’esistenza pubblica. Anche il potere politico è creato su queste
“fantasmagorie”: i riti di iniziazione sottopongono gli iniziandi a prove
penosissime e crudelissime al fine di raggiungere la dimensione onirica,
l’allucinazione, da cui essi avranno la rivelazione del loro nume tutelare, che
darà loro una consacrazione indelebile all’interno del gruppo.
99 ibid.
29
Nelle società ordinate, dove vigono i codici scritti e i privilegi sono
controllati e gerarchizzati, l’alea e l’agon, vale a dire la nascita e il merito
personale, appaiono come elementi fondamentali e discriminanti del gioco
sociale. Il contratto sociale che si viene a creare non viene garantito dalla
vertigine, ma consisterebbe in un compromesso tra eredità, il caso, e
capacità, che presuppone confronto e competizione. Lo stesso potere politico
si basa sull’eredità o sulla conquista. I giochi danno l’esempio di una rivalità
circoscritta, regolata e specializzata, ma soprattuto diffondono l’abitudine e il
rispetto nei confronti dell’arbitrato.
Tale dicotomia, dice Caillois, è simile a quella che separa nel mondo
degli animali i vertebrati dagli invertebrati. Esiste cioè un punto di passaggio
in cui un tempo immemore e immoto, in cui il gruppo imitando la natura
attende il ritorno ciclico100, paralizzante ma fecondo, delle feste delle
maschere per assentarsi da sé e risvegliarsi rinvigoriti, si trasforma in un
tempo lineare, che imita la cultura e non ritorna periodicamente al punto di
partenza, e che è “l’avventura stessa della civiltà”101.
Ma è meglio non avventurarsi ulteriormente in queste considerazioni,
che sono sia di una natura così ampia e che di un’evidenza così lapalissiana
che sarebbe superfluo sottolinearle. Purtuttavia costituiscono un altro e
ulteriore esempio, in caso ce ne fosse stato bisogno, di quanto aveva
anticipato Huizinga, e cioè che gioco, festa e rito sono indissolubilmente e
inestricabilmente legati nella nascita e nello sviluppo di tutte le culture.
100 Sulla ciclicità dei giochi cfr. Jünger 1953: 265-274. 101 Caillois 1958: 151.
30
2.
PARTE STORICA
La morra
L’uomo inventò il lavoro senza fatica, cioè il giuoco.
Friedrich Nietsche, Frammenti postumi Tuttavia mi pare che l’homo ludens, l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così essenziale come quella del fare, e che meriti un posto accanto all’homo faber.
Johan Huizinga, Homo Ludens
2.1. Storia e letteratura della morra
Si ritiene che la morra sia un gioco antichissimo: in una recente
spedizione un gruppo di egittologi ha potuto riconoscere su una pittura,
grazie alla buona conservazione del reperto, “due giocatori di morra”102.
Questa immagine costituisce il più antico reperto a riguardo e ne testimonia
l’esistenza fin dall’Antico Egitto, dove si ritiene che avesse implicazioni
cerimoniali e funerarie. Ovviamente non è escluso, anzi è plausibile, che le
sue origini siano ancor più remote e che si perdano nella notte dei tempi.
L’elemento magico-rituale103 sembra essere presente anche nell’Antica
Grecia dove una leggenda narra dell’invenzione della morra da parte di Elena
di Troia intenzionata a giocare con il suo amante Paride, e farlo perdere. Ne
troviamo testimonianza anche su un’antica e famosa anfora (fig. 1) a figure
nere creata dal pittore e vasaio Exekias nel VI secolo a.C. e conservata nei
Musei Vaticani: vi sono rappresentati Achille e Aiace che, accantonate
temporaneamente le armi durante il lungo assedio troiano, si concedono
un'attività ludica giocando alla morra (oppure ai dadi o ancora alla dama,
102 <http://www.basilicata.cc/artistilucani/mgn_ceneri/09.htm>; cfr. anche EUIEA 1036: 1159. 103 questo confermerebbe, per quanto riguarda la morra, la convinzione, abbastanza semplicistica ma fondata, dei primi antropologi ed etnografi che studiarono i giochi che “tutto scade nel gioco”: cfr. il paragrafo “Il gioco in antropologia: il grande assente”.
31
secondo altre interpretazione, ma sul tavolo non compaiono né dadi né
pedine). I due eroi, “seduti su bassi sostegni, si curvano verso un basamento,
protendendo le mani destre, nel leggere i punti realizzati nel gioco,
rispettivamente quattro e tre, come specificato dalle iscrizioni che sembrano
fuoriuscire a mo' di fumetto dalle loro bocche”104.
Vi era poi la consuetudine delle donne spartane di ricorrere a tale gioco
per conoscere la fortuna in amore. Non si conosce il termine preciso con cui
la morra veniva designata nell’Antica Grecia, tuttavia è noto che la pratica del
“tirare a sorte” contrassegnava particolari momenti non solo della vita privata
ma anche di quella associativa, coinvolgendo le sfere religiosa, politica e
militare.
Variante perfezionata, a quanto pare, del semplice “pari e dispari” che ai
nostri giorni in Spagna viene chiamato, non a caso, morra muda105, la morra
si diffuse dal mondo greco a quello romano trovando favorevole accoglienza
soprattutto tra gli abitanti dell’Urbe. Sembra che i Romani lo utilizzassero per
dirimere le questioni che apparivano dubbiose, come nel commercio quando
non si riusciva a giungere a un accordo106. Cicerone si accanì contro un certo
Apronio, prefetto di Roma, passato alla storia per la “pesa”: quando vi fosse
stata incertezza tra la quantità di merce venduta ed il suo peso, per sanare la
controversia, si sarebbe dovuto ricorrere legalmente a questo gioco. Questa
cieca fiducia nel gioco può essere spiegata con la concezione della Fortuna,
“identificata con una serie di divinità femminili dispensatrice di benessere o
infelicità”107: la vittoria rifletteva il volere degli dei, cui non era concesso
appellarsi.
La più antica testimonianza sulla micatio digitis, o semplicemente
micatio, dal verbo latino micare “segnare con le dita, agitare le dita”, risale al
362 a.C., quando ai macellai fu vietato di contrattare il prezzo con i
compratori micando, cioè tirando a sorte.
Nel I secolo a.C la morra divenne talmente popolare da rientrare in
alcune espressioni proverbiali, come attestano Cicerone108, Petronio109 e
S.Agostino: di una persona onesta e sincera si diceva “è degno che si giochi
con lui alla morra anche al buio”110. Questa forma di gioco risultava
particolarmente diffusa non solo tra i contadini e i pastori, ma anche negli
ambienti di corte. Gli storici antichi ci informano della grande passione
nutrita da alcuni imperatori per tutti i giochi d’azzardo: Ottaviano Augusto
ricorse alla micatio persino per regolari questioni di amministrazione della
giustizia.
Nonostante la legge romana vietasse tassativamente i giochi basati sulla
fortuna, perché a tali pratiche si accompagnavano spesso episodi di violenza,
di diversa considerazione godette la morra, nella quale l’elemento causa
poteva essere corretto dal colpo d’occhio, dalla prontezza di riflessi dei
giocatori, dal calcolo delle probabilità e da una certa acutezza psicologica.
Nell’età antonina questo gioco rientrava tra gli svaghi permessi in pieno
giorno e consentiti anche a bambini e ragazzi.
Nel corso dei secoli, tuttavia, il gioco della morra perse
progressivamente l’aria di svago innocente per tramutarsi, grazie alla
possibilità di abbinare al gioco una serie di scommesse, in un passatempo da
oziosi considerato pericoloso per la morale pubblica. La micatio cominciò ad
entrare nelle bische clandestine celate nel retrobottega delle locande e delle
osterie dove i passanti si fermavano non solo per acquistare o consumare
bevande, ma anche per fare scommesse e gettare i dadi.
108 citato in EUIEA 1936: 1160. 109 “però giusto, però fidato, amico con l’amico, che anche al buio potevi senza timore giocarci alla morra insieme” (Satyricon, cap. 44). 110 cfr. EUIEA 1936: 1160; cfr. anche Battaglia 1978: 925, dove sono riportate numerosi detti e locuzioni della lingua italiana riguardanti la morra.
33
Scarse e frammentarie si fanno invece le notizie sulla morra nel periodo
successivo al VI secolo d.C., per poi ricomparire nel 1342, in piena epoca
medievale, in un documento111 (conservato a Santa Anatolia in provincia di
Macerata) che riporta il “ludus morrae”.
Al XV secolo risale la prima attestazione letteraria del vocabolo, ad
opera di Tommaso di Silvestro: “Se deletava de iocare molto bene alla
morra”112. Alla fine del ‘400 lo scrittore Luigi Pulci113 identificava la morra
nell’antico gioco delle corna, variante perfezionata e più complessa del “pari
e caffo”.
Negli statuti comunali del XIV secolo iniziano a comparire con sempre
maggiore frequenza i divieti riguardanti i giochi. È questa l’epoca in cui gli
studiosi di diritto operano la distinzione tra gioco di fortuna e gioco
d’ingegno, sconosciuta al mondo classico: il concetto stesso di “fortuna”
subisce uno spostamento di significati, passando ad indicare non già la dea
del benessere, bensì il fato, ritenuto dalla Chiesa come un pericolo per
l’esercizio del libero arbitrio da parte del singolo individuo114.
Ciononostante l’avversione per i giochi d’azzardo non era da collegare al
gioco stesso, ma agli accidenti che spesso lo accompagnavano, le bestemmie e
“le risse che generava”115. Fu sostanzialmente per questo che i giochi
d’azzardo rientrarono nelle proibizioni e nei divieti di tutti gli statuti
comunali. Sottoposta a un rigido controllo da parte delle autorità cittadine, la
morra fu permessa solo nei periodi natalizi e pasquali e durante le feste del
santo patrono, probabilmente in previsione dell’arrivo di forestieri e
dell’afflusso di cospicue entrate economiche.
All’inizio del ‘400 la morra era uno di passatempi preferiti non solo dei
popolani ma anche degli aristocratici e dei funzionari di corte, non essendoci
ancora a quell’epoca una distinzione netta tra gioco patrizio e plebeo. Il
dilagare per la passione del gioco durante l’era medievale e l’impossibilità
pratica da parte dell’autorità di far rispettare i divieti portarono alla nascita di
bische pubbliche (con regolare concessione governativa) o “baratterie”. Ma se
il potere pubblico lo tollerava per convenienza, per il potere ecclesiastico era
uno scandalo, per l’intima connessione tra gioco e bestemmia, considerata
uno dei reati più gravi, al pari della lesa maestà.
Le restrizioni aumentarono tra il XV e il XVI secolo, quando il gioco
d’azzardo venne bandito da luoghi pubblici e relegato in taverne e osterie e
nella città di Venezia, in circoli privati detti “ridotti”.
Lo stretto legame tra morra e gioco d’azzardo è confermato da fatto che
la stessa camorra116 deve il suo nome alle bische clandestine che la “società”
controllava.
Per tutto il ‘600 crebbe ulteriormente il numero delle bische, e il gioco si
continuò a giocare in clandestinità sotto tutte le dominazioni.
Numerose e colorate sono le attestazioni che troviamo in letteratura117:
ne parlano anche il Goldoni e il Verga (“se facevano un litro alla mora”118)
nonché il Manzoni che nel VII capitolo dei Promessi Sposi racconta di “due
bravacci, che seduti a un deschetto, giuocavano alla mora, gritando tutti e
due ad un fiato”119.
Nel 1702 Giuseppe Maria Mitelli dedica alla morra una vignetta (fig. 2)
che rappresenta un personaggio in abiti plebei e una dama in ghingheri. Il
contrasto di classe è sottolineato dall’ironia di due giochi di parole nella
didascalia zuogh d’l’amor tira tutt: “gioco della morra / gioco dell’amore” e
“trascina tutti / vince tutto quanto sta sul tavolo”120.
116 <http://digilander.libero.it/ecodiroccasecca/Eco20/Pag19.htm> 117 cfr. Battaglia 1978: 924-925. 118 Battaglia 1978: 925. 119 Manzoni 1827: 141. 120 Dossena 1999: II, 780.
35
Nel 1844 Charles Dickens trascorre una vacanza in Italia e scrive
"Genova e dintorni" dedicando qualche pagina a questo gioco; purtroppo lo
scrittore dimostra di non aver capito bene il meccanismo del gioco121.
Da più fonti si può desumere che all’epoca dei nostri nonni venisse
praticato in ogni regione d’Italia122 non solo dagli adulti , ma “anche dai
nostri monelli”123.
Alberto Savinio (1918) ne produce un ritratto epico nell’Ermaphrodito:
“sovrasta la voce d’un gioco sovrano, truce e magnifico, vincono le cifre
imperative, i numeri vigorosi e scanditi, lanciati come frombole, della nostra
Mora Nazionale, vecchia quanto l’annosa Italia”124.
L’alpinista e scultore friulano, nonché giocatore di morra, Mauro Corona
(2004), racconta, nel suo Aspro e dolce, di lunghissime sfide bagnate da “un
litro a partita”125, e definisce la morra, per la sua difficoltà e per l’acume
psicologico che in essa è necessario, “gioco di scacchi gridato”126.
Che la morra sia un gioco “schiettamente e prettamente italiano”127 ci
viene confermato anche da diverse fonti: “gioco italiano antichissimo”128, “a
popular game in Italy”129, “en Italia se juega a este juego con verdadera
pasion”130, ma soprattutto dal fatto che ovunque gli italiani siano emigrati,
nel loro bagaglio (culturale) hanno portato con loro anche la morra131. Gli
italiani immigrati nei Grigioni (Svizzera) vengono chiamati bonariamente
“tschinggeli”132 per questa loro passione. In Spagna viene giocata tutt’oggi in
121 ibid.: II, 781. 122 cfr. EIT 1949: 871. 123 Sabalich 1908: 202. 124 citato in Dossena 1999: III, 1042. 125 Corona 2004: 338. 126 ibid.: 127. 127 Bolognini 1882: 137. 128 EIT 1949: 871. 129 “un gioco popolare in Italia” (OED 1989: 1067). 130 “In Italia si gioca a questo gioco con vera passione” (EUIEA 1936: 1159). 131 “interessante la ricognizione di Elizabeth Mathias (1981) sulla morra in due comunità di italiani immigrati negli Stati Uniti ad Iron Range nel Minnesota e a Philadelphia-sud” (De Sanctis Ricciardone 1994: 169). 132 Galgani 2004. Leggasi “cingheli”.
36
alcuni villaggi della regione dell’Aragona poiché “la Corona de Aragòn tenia
posesiones en teritorio italiano y los soldados que realizaron sus milicias en
aquellas tierras pudieron traer la practica de dicho juego”133.
Attualmente, nonostante la diffusione abbracci tutto il bacino del
Mediterraneo nonché i paesi arabi134, esso viene praticato e tramandato solo
in poche regioni: secondo una ricerca personale viene giocato in Trentino, in
Friuli, in Veneto, in Valtellina, nelle valli del Bresciano, Bergamasco, in
buona parte delle valli alpine, in Sardegna, in Corsica, nei Grigioni (Svizzera)
e nella regione di Aragon (Spagna).
Dall’anno 2001, non sussistendo più le ragioni della sua proibizione
(azzardo, risse, ecc.), risalente al 1931, è stata ufficialmente cancellata dalla
“lista dei giuochi proibiti” ed è quindi rientrata nella sfera della legalità.
2.2. Etimologia
Sull’argomento troviamo una grande varietà di ipotesi: morra, mora,
murra (sa murra in sardo), mourre (in francese), potrebbero derivare da
mora, il frutto del gelso, intesa come scura e quindi gioco oscuro, pericoloso;
oppure dal latino mora con significato di attesa, indugio135, oppure da
un’antica formula di gioco settentrionale zuca o mora che significa “giochi o
aspetti?”136. La radice mor tuttavia non è indoeuropea ma mediterranea e
significa mucchio o massa di pietre137, ma anche sasso, pietra, che
indicherebbe per similitudine la mano chiusa.
133 <www.usuarios.com/.../morra/ teruel/campeonato.htm> 134 Dossena 1999: II, 780. 135 Battisti, Alesso 1954: 2505. 136 Devoto, Oli 1971: 1456. 137 ibid. Un’altra fonte riporta che “probabilmente deriva da latino murris, mucchio, cumulo di pietre. […] Essendo stati probabilmente per primi dei pastori a giocarlo, seduti su pietre a sorvegliare i loro greggi di pecore, la versione murris può anche essere attendibile. Ancor oggi in Abruzzo e in Molise, in passato terre di pastori, si usa l’ espressione morra di pecore per significare un gruppo di questi ovini racchiusi in un‘area limitata da muretti di sassi. Un’altra ipotesi è che derivi dal termine mediterraneo morra che significa rissa, confusione, frastuono e il gioco in effetti è molto concitato, rumoroso, quasi violento” (Galgani 2004).
37
Un’altra fonte ritiene che venga “detto dal volgo mor, quasi moron, cioè
giuoco di stolti, perciocché quel gettar delle dita è segno di leggerezza”138.
Purtuttavia l’ipotesi più plausibile è che derivi da “giocare alla mora, giocare
all’usanza mora, cioè de’ Mori, non essendo inverosimile che da Mori, cioè
dagli Arabi, imparassero l’italiani un tal giuoco”139. È possibile che si usasse il
risolvere la questione “alla mora”, in modo strano o complesso in senso lato
(la stessa parola strano ha la stessa origine di straniero), per distinguerla dal
semplice e comune “pari e dispari”, di cui la morra sarebbe un’evoluzione.
Certo è che francesi140, inglesi141 e spagnoli142 ritengono che il gioco sia
di origine italiana, così come la parola, che essi presero dall’italiano143.
2.3. La morra cinese
La variante attualmente più nota della morra è la morra cinese (o
giapponese)144, un gioco per bambini in cui i giocatori compiono gesti
convenzionali della mano, per rappresentare la pietra (pugno chiuso), che
spunta le forbici (indice e medio protesi e disgiunti), che tagliano la carta
(mano distesa), che, infine, avvolge la pietra. È un gioco di fortuna molto
elementare, molto simile al “pari e dispari”. Per distinguerla dalla morra
cinese, la morra (móra) viene anche chiamata “móra clamàda/ciamàda”,
“morra chiamata”, per via del fatto che oltre alle mani si usa anche la voce.
138 Baldelli, citato in Battaglia 1978: 924, corsivo mio. 139 Gherardini citato in Battaglia 1978: 925. 140 GLU 1997: 7151. 141 OED 1989: 1067. 142 EUIEA 1936: 1159. 143 Battaglia 1978: 925. 144 Ibid.
38
3.
PARTE ETNOGRAFICA
Ricerca etnografica sul gioco della móra in Val di Non e Val di Sole
F: «Alora su che la fas pò sta tesi?» O: «Sula móra» F: «Me tuès par i cojoni?» Ci sono, certo, persone che non giocano perché non sanno più giocare. Sono esseri infelici. Gli psicologi ne fanno parte. Quando si osserva, il gioco finisce. Finisce perché i metodi dell’osservazione si oppongono fondamentalmente al gioco […]. Chi analizza non solo ha smesso il proprio gioco, ma impedisce e distrugge anche il gioco degli altri.
Friedrich Georg Jünger, Die Spiele
3.1. Presentazione della ricerca: metodologie e struttura
3.1.1. Metodologie della ricerca
Innanzitutto, nonostante finora l’abbia chiamata “morra” per
richiamarmi a citazioni bibliografiche, da questo momento in poi, entrati
nella parte più specificatamente etnografica della mia ricerca, mi riferirò ad
essa come viene chiamata nella zona cui la ricerca si riferisce, “móra”, con la
ó chiusa e la caduta di una r.
Questo documento è il risultato di nove mesi di ricerca sul campo.
Purtroppo, mentre la letteratura ne parla abbondantemente145, non esistono
ricerche etnografiche sulla morra in Italia146: non esistono quindi precedenti
cui confrontarsi. A parte i contributi teorici cui mi sono avvalso per analizzare
e spiegare alcuni elementi, la ricerca si è svolta per intero sul campo, ovvero
145 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”. 146 A parte una citazione breve trattazione della morra in Sardegna svolta da Angioni (1987) in un articolo dedicato al gioco d’azzardo nelle comunità contadine sarde. Esiste inoltre uno studio di Elizabeth Mathias (1981) sulla morra giocata dagli immigrati italiani negli Stati Uniti (citato in de Sanctis Ricciardone 1994: 169).
39
nei luoghi dove accadesse di incontrare giocatori e/o crocchi di giocatori e
spettatori147.
Le metodologie utilizzate per raccogliere il materiale sono quelle tipiche
della ricerca etnografica, a seconda del livello di coinvolgimento del
ricercatore:
- osservazione: dall’esterno del crocchio di giocatori e spettatori;
- osservazione partecipante: come spettatore, all’interno del
crocchio;
- partecipazione diretta: come giocatore;
oltre a:
- interviste libere (colloqui informali);
- interviste semi-strutturate;
con informatori (giocatori).
Le interviste e i colloqui sono avvenuti, senza preferenze né da parte
degli informatori né del ricercatore, nella lingua madre degli informatori, o in
quella che essi preferissero parlare al momento, quindi in:
- italiano;
- dialetti nonesi, della Val di Non;
- dialetti solandri, della Val di Sole.
3.1.2. Oggetto di studio: la situazione-móra
Nonostante le proibizioni, in Val di Non e Val di Sole si è sempre giocato
«ala móra» A riprova di questo il fatto che dal 2001, anno in cui è caduto il
divieto, sono nati e si sono moltiplicati i tornei ad essa dedicati, nelle valli
studiate come in tutto il Trentino.
La situazione sociale attribuibile ad un torneo è però totalmente diversa,
snaturata rispetto a quella in cui la móra, semplicemente, accade. La
situazione-oggetto della ricerca, seppur le assomigli a livello formale, è 147 Cfr. il paragrafo “Dove viene praticato”.
40
sostanzialmente e socialmente differente. Infatti, nel primo caso la situazione
sociale ha luogo in ragione del gioco, nella seconda il contrario. L’elemento
socializzante passa in secondo piano: nessuno si mette d’accordo per giocare
ala móra, essa accade per decisione dei giocatori nel “qui e ora” ed è difficile
prevederne inizio, interruzioni e fine. Nel primo caso i giocatori sono
coscienti di avere solo una possibilità (partita-rivincita-bella) per vincere,
mentre nel secondo sono possibili infinite rivincite (che, anzi, «sono
d’obbligo»), e infatti, al lato del torneo, sorgono anche partite slegate da esso.
Tutto quello che nel primo caso è definito148 (sfidanti, regole, infrazioni,
ammonizioni ed esclusioni), nel secondo è contrattabile, nonché motivo di
discussioni (a volte estenuanti) tra i giocatori149. Inoltre nei tornei i giocatori
tendono a rimanere più sobrii, a non eccedere nell’alcol, poiché ne
danneggerebbe la prestazione.150
Anche se i tornei di morra sono ancora in fase sperimentale e
pionieristica, il gioco al loro interno ha le stesse caratteristiche che Huizinga
(1939) attribuisce in Homo Ludens allo “sport moderno” in contrapposizione
alle “situazioni ludiche”: esso “è ormai decisamente non consacrato e non ha
neppure un rapporto organico con la società, […] è assai più una
manifestazione indipendente d’istinti agonali che un fattore di fertile
coscienza sociale. […] Questa concezione s’oppone diametralmente
all’opinione corrente secondo la quale lo sport sarebbe l’elemento ludico per
eccellenza nella nostra cultura. Mentre ha perduto il meglio della sua qualità
di gioco, il gioco è diventato piuttosto una serietà in cui è svanita più o meno
ogni disposizione ludica. […] Per giocare veramente l’uomo, quando gioca,
deve tornare bambino. […] Nel caso dello sport abbiamo dunque un gioco che
s’irrigidisce a serietà”151.
148 Cfr. “Esempio di regolamento di un torneo” riportato in Appendice. 149 Nel torneo il “gioco-istituzione”, come lo chiama Carlo Mongardini (1989), con regole codificate seppur non scritte (quale quello che andremo a studiare), relegato all’interno di un torneo diventa istituzionalizzato, quindi più rigido, con regole incontrattabili e penalità. 150 Cfr. il paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”. 151 Huizinga 1938: 232-235.
41
3.1.3. Struttura della ricerca
Abbiamo visto, nel capitolo “Parte teorica”, che l’antropologa Paola De
Sanctis Ricciardone (1994) evidenzia tre concezioni fondamentali e seguenti,
tre passi successivi, nella storia dello studio antropologico dei giochi e nella
loro classificazione:
- focalizzata sul “testo”: scopo delle prime ricerche era stabilire se i
diversi giochi, presenti in forme simili in culture differenti, avessero
un’origine autonoma, autoctona, o comune. Perciò l’attenzione era
centrata sul “testo” dei giochi, sulle regole di base, che venivano
analizzate e confrontate;
- focalizzata sul “contesto”: le istanze gestaltiste (di sistema come
un tutto integrato e non come mera somma delle parti) di inizio
Novecento stimolarono lo studio del gioco in connessione con la cultura
e del sistema sociale. Si cominciò ad analizzarne gli aspetti sociali e a
classificarli in base a: luoghi e tempi in cui si praticava, pertinenze
sessuali, variabili generazionali, quantità dei giocatori, ecc.. De Sanctis
Ricciardone (1994) definisce questo tipo di classificazione
“grammaticale”152;
- di tipo sintattico: Caillois (1958) propone di suddividere i giochi
in quattro ludemi irriducibili, principi di base che caratterizzano tanto i
giochi quanto la disposizione, la tensione del giocatore; essi sono l’agon
o competizione, l’alea o caso, la mimicry o rappresentazione, l’ilinx o
vertigine.
Ognuna di queste nuove acquisizioni, invece di invalidare quelle
precedenti, ne rende più leggibili, organici e significativi gli elementi.
Evidenziando tale passaggio da un approccio grammaticale a un
approccio sintattico, De Sanctis Ricciardone ha fatto il contrario di ciò che a
152 Un esempio di “Scheda per la rilevazione dei giochi” dell’etnologo Giuseppe Šebesta (1981), da cui ho tratto buona parte delle categorie espositive, è riportato in Appendice.
42
suo tempo aveva fatto Wittgenstein. Se quest’ultimo infatti aveva assurto il
gioco a metafora degli atti linguistici, De Sanctis Ricciardone usa la
linguistica come metafora per spiegare i giochi. Se è lecito infatti considerare
il gioco come una forma di comunicazione, che vive in una cultura e si
alimenta di essa, che può essere tramandato e modificato attraverso
l’interazione, allora è lecito considerarlo come un vero e proprio linguaggio,
quindi anche servirsi delle categorie del linguaggio per riferirsi ad esso.
In questa ricerca quindi il gioco-móra e la situazione-móra, verranno
analizzati seguendo un percorso logico che ricalca sia lo studio di una lingua
che le acquisizioni storiche nello studio dei giochi, che seguono un percorso a
ritroso che parte dalle regole del gioco, passa per le sue caratteristiche, per
arrivare finalmente agli istinti cui dà espressione, agli uomini stessi. Ne
analizzerò in successione:
- alfabeto: le “nozioni o principi disposti secondo un certo ordine (non
necessariamente alfabetico) per agevolare l’insegnamento di una
disciplina”153, ovvero le regole fondamentali e le fasi del gioco154;
- grammatica: “l’insieme delle convenzioni che danno stabilità alle
manifestazioni espressive degli uomini parlanti una stessa lingua in un
dato spazio e in un dato tempo; la descrizione dei diversi sistemi in cui
queste convenzioni si realizzano”155. Tradotto in termini di ricerca, le
categorie che saranno analizzate sono:
- abilità richieste;
- categoria di persone interessata;
- variabili generazionali;
153 Devoto/Oli 1971: 73. 154 si potrebbe dire, citando von Neumann/Morgenstern (1944), che l’alfabeto corrisponde al game della móra, mentre le altre categorie espositive al play. Infatti “bisogna distinguere tra l’astratto concetto di un game e gli individuali plays di questo game. Il game è semplicemente l’insieme (totality) delle regole che lo descrivono. Ogni caso particolare in cui il game è giocato (played) - in un modo particolare - dall’inizio alla fine, è un play” (von Neumann/Morgenstern 1944: 49, traduzione mia). Per una trattazione più approfondita della questione play-game si veda De Sanctis Ricciardone 1994: 70-85. 155 Devoto/Oli 1971: 1038.
43
- quando viene praticato;
- dove viene praticato;
- a che fine si gioca;
- osservazioni particolari;
- sintassi156: nel capitolo finale tenteremo, sulla base degli elementi
evidenziati, di classificare la móra secondo le categorie proposte da
Caillois, di s-coprire, attraverso gli atteggiamenti che i giocatroi mettono
in gioco, le pulsioni elementari cui essa dà espressione.
In questi tre livelli fondamentali di analisi non poteva trovare spazio una
parte molto significativa della ricerca, lo “stile”: lo stile espressivo dei
giocatori, cioè “il complesso delle scelte dei mezzi espressivi che costituiscono
l’impronta peculiare di una tradizione letteraria e spec. della personalità di
un autore; […] peculiarità, caratteristica personale”157. Lo tratteremo a parte,
tra ”alfabeto” e “grammatica”, poiché, come vedremo, lo stile di un giocatore
è il suo giocare con le regole e tra le regole, ovvero nel gioco che il gioco
concede.
Ognuno di questi passi costituirà la base imprescindibile dei successivi e
il naturale complemento dei precedenti proprio come, secondo Bateson, “così
un certo fonema, per esempio il suono della lettera “f”, è del tutto privo di
senso se non come parte, diciamo, della parola “forse”; ma la parola “forse” è
affatto priva di senso se non come parte di una frase, ad esempio: “forse è una
saponetta”. E a sua volta la frase “forse è una saponetta” è del tutto priva di
senso se non si conoscono le circostanze in cui viene pronunciata”158.
3.1.2. Annotazioni di carattere linguistico e fonetico
156 “lo studio delle funzioni proprie della struttura della frase […] al di là dei limiti della parola” (ibid.: 2229). 157 ibid.: 2361. 158 Bateson citato in Iacono 2000: 189.
44
Nel testo sono riportate affermazioni ed espressioni sia in dialetto
noneso che solandro, ovvero della Val di Non e della Val di Sole.
Quando si riferiscono solo a un dialetto sarà riportata in nota,
rispettivamente, la dicitura “non.” o “sol.”.
Quando sono riportate due opzioni, la prima si riferisce all’espressione
in noneso, la seconda in solandro.
Se invece è riportata una sola espressione senza alcuna specificazione
significa che è la stessa per entrambi i dialetti.
Per definire fasi ed elementi di gioco sarò spesso costretto a utilizzare
termini di lingua italiana, qualora non esista terminologia indigena in grado
di indicarli chiaramente: spesso esistono solo sotto forma di verbi159 che si
riferiscono all’azione stessa («bater», «nir zo/vegner gio ensema»,
«clamàr/ciamàr»)160, ma non di sostantivi, necessari all’analisi per de-finire
i fenomeni.
Tutte le traduzioni sono state effettuate dal ricercatore.
Alcune annotazioni fonetiche, di carattere esplicativo, qualora le
espressioni dialettali fossero di pronuncia differente dall’italiano:
- è: è la e di “meglio”;
- é: è la e di “sete”;
- ò: è la o di “può”;
- ó: è la o di “montagna”;
- (finale in) -c: è la la c di “faccio”;
- (finale in) -k: è la c di “cane”;
- z: è la z di “azione”;
- ż: è la z di “zebra”;
- s: è la s di “sano”;
- ŝ: è la s di “dose”.
159 “In principio era il verbo”. 160 Come vedremo più avanti: rispettivamente “il battere”, “lo scendere contemporaneamente”, “il chiamare”.
45
3.2. Alfabeto: regole e fasi del gioco
“Fente doi quindeŝi?” Barnabi Alfons Gonzales Suarez Felipe Mendez De La
Vega L’affermare che una descrizione è corretta non ha senso, a meno che non si intenda la descrizione come una riproduzione, invocando un originale quale standard di accuratezza.
Ermanno Bencivenga, An Essay on Montaigne
Le descrizioni delle regole del gioco riportate in letteratura si
assomigliano tutte (soprattutto in concisione), ma la più precisa ed
esauriente è la seguente, risalente al 1949: “Si giuoca con la mano da due
contrari, i quali si fissano per indovinare le dita che spiegherà l’avversario al
momento di calare il pugno destro, tenuto chiuso e in alto. Nell’abbassare il
pugno ognuno stende velocemente e contemporaneamente le dita, gridando
un numero da due a dieci161; se il numero gridato corrisponde alla somma
delle dita distese, si segna un punto a favore dell’indovino. Se la somma delle
dita è indovinata dai due giocatori, il colpo è nullo. I punti guadagnati si
segnano con la mano sinistra162, distendendo un dito per ciascun punto. Il
giocatore che per primo raggiunge i punti stabiliti vince”163.
Ovviamente si tratta di una descrizione semplicistica164. Il sociologo
tedesco Friedrich Georg Jünger, nel suo Saggio sul gioco (1953), afferma che,
“essendo le regole di un gioco ritorni e ripetizioni, possiamo vedere in esse,
allo stesso tempo, quale sia il ritmo e la simmetria di un gioco. Ritmo è
ripetizione nel tempo, simmetria ripetizione nello spazio. Ritmizzazione e
161 Non “da 0 a 10” (GDE 1994: 1052; Battaglia 1978: 924; Dossena 1999: 780), perlomeno nella variante regionale da me studiata, né tantomeno “da 1 a 10” (GEDeA 1994:: 189), impossibile perché, posto un numero minimo (che sia 0 o 1), è matematicamente impossibile che il suo doppio sia dispari. 162 “la terza mano invece è pronta sul coltello” aggiunge sarcasticamente il Gorini (1990: 34) alludendo alle risse per cui era nota. 163 EIT 1949: 870-871. 164 equivarrebbe a offrire una descrizione del calcio che dica “è vietato toccare la palla con mani e braccia. Vince la squadra che riesce a mandare la palla in rete (oltre la linea di porta) più volte in una partita”.
46
simmetrizzazione caratterizzano il gioco”165. Nella móra questa definizione
non potrebbe essere migliore, poiché ritmo e simmetrizzazione devono essere
precisi e regolari, e per questo regolamentati: andiamo quindi ad enucleare, o
atomizzare, le regole e le fasi del gioco.
Durante la fase di osservazione esse sono state desunte dalle loro
infrazioni, rilevate, evidenziate o criticate in fase di gioco dai giocatori stessi o
dagli spettatori; successivamente sono state oggetto discussione nelle
interviste con i giocatori per verificarne la correttezza.
«Per żugiar ala móra serve sol na man e la ós»166, non è necessario
alcun ulteriore oggetto poiché tutti gli strumenti sono forniti dal corpo.
3.2.1. Quantità dei giocatori
Per quanto riguarda il numero dei giocatori, una partita di móra può
essere:
- «testa a testa», «un contra un», «en dói» (“in due”) cioè due
giocatori/sfidanti167, uno contro uno, la forma-base del gioco. I due sfidanti
stanno uno di fronte all’altro. Appena uno guadagna un punto («el fa168
móra») il gioco si ferma e si riprende, e così fino alla fine della partita,
quando uno raggiunge i punti stabiliti.
- «dói contra dói», «en c(u)ater/quatro», cioè quattro giocatori divisi
in due squadre da due: si tratta di un’evoluzione a squadre del testa a testa,
165 1953: 140. 166 “per giocare alla móra serve solo una mano e la voce”, che ricorda una descrizione del Muratori “Giuoco dell’infima plebe, fatto colle dita e con la voce” (citato in Battaglia 1978: 924) ma anche quella data dai giocatori spagnoli “para jugar a la morra solo se necesitan las manos y la voz” (www.usuarios.com/.../morra/ teruel/campeonato.htm). Un vecchietto mi disse «sol i monchi e i muti no i puel żugiàr ala móra» (non.: “solo i monchi e i muti non possono giocare alla morra”). 167 Distinguerò quello che in dialetto viene chiamato invariabilmente
«zu(g)iadór/giug(i)adór» (“giocatore”) chiamando “giocatori” tutti i giocatori partecipanti alla partita (2 o 4), “sfidanti” i due giocatori che (si) stanno battendo, distinguendoli ulteriormente in “sfidante” (il giocatore di cui si sta parlando nel particolare) e “avversario”. 168 “fa”.
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di cui si conservano le regole. È una forma più socializzata di gioco. Le
squadre sono poste specularmente: ogni giocatore ha di fianco il suo
compagno e di fronte entrambi i giocatori della squadra avversaria.
«Bater169 pari» significa giocare con il giocatore avversario che si ha
specularmente di fronte, «bater dispari» invece giocare diagonalmente,
contro l’altro avversario.
Si comincia sempre battendo pari170. Chi tra i due sfidanti guadagna il
punto, ha il diritto di sfidare l’altro avversario, e così via. I punti sono
guadagnati dal singolo sfidante, ma sono conteggiati nel punteggio della
squadra.
La quantità di giocatori che partecipano al gioco sono solo una sovra-
struttura alla forma-base del gioco, che prevede due sfidanti. Descrivendo le
regole fondamentali mi riferirò quindi a tale situazione.
3.2.2. Le fasi del gioco
Definiamo innanzitutto le fasi principali del gioco, riservandoci di
ritornare più avanti sul conteggio dei punti e sulle altre regole.
Il gioco è composto da171:
- una “mossa d’apertura”172: composta di una “posizione di apertura” e
una “battuta d’apertura” (semplicemente «bater» o «dar la móra»);
169 “battere”. 170 Questa regola verrà approfondita nel paragrafo “«Bater pari»,«bater dispari»”. 171 “L’attività fondamentale di una partita è la mossa e le mosse non vengono né comunicate come i messaggi, né eseguite come i compiti e le azioni; esse sono fatte o decise. [...] Fare una partita vuol dire allora compiere quella sequenza di mosse con cui la partita inizia e viene portata a termine; ciò implica azione, ma solo in quegli aspetti che sono rilevanti per il gioco” (Goffman 1961: 48). 172 Diversamente da quelle di molti altri giochi/sport la mossa d’apertura non è né meramente rituale, “come quando i pugili si toccano i guanti, o i giocatori di scherma incrociano la spada, per stabilire una parentesi sportiva attorno all’incontro che sta per svolgersi” (Goffman 1963: 94), né una parte del gioco vero e proprio, come quella negli scacchi o il calcio d’inizio nel gioco del calcio. La mossa d’apertura che più le assomiglia è il “pronti, attenti, via!” delle gare di velocità, che però serve solo a richiamare l’attenzione e dare l’avvio.
48
- “gioco vero e proprio”: una o una serie di mosse (“battute”), che si
effettuano con la mano (di battuta) e la voce.
Essendo la móra un gioco nel quale il ritmo è essenziale173, essa
presenta, come vedremo, più di un’analogia con la musica e la sua
espressione. La relazione tra queste due fasi del gioco è, mutatis mutandis, la
stessa che che intercorre tra le battute del direttore d’orchestra e il pezzo che
l’orchestra andrà ad eseguire174; come nella mossa d’apertura della móra, le
battute date dal direttore:
- non fanno parte del pezzo vero e proprio,
ma sono necessarie poiché:
- richiamano l’attenzione dei musicisti/giocatori175 (e, secondariamente,
degli spettatori);
- determinano il ritmo di battuta;
- danno avvio al pezzo/gioco vero e proprio.
Nella móra il tempo di battuta è 1/1, non è preordinato (né scritto da
qualche parte) e non sempre viene dato unilateralmente, anzi la maggior
parte delle volte avviene bilateralmente, dall’accordo ritmico dei due sfidanti.
Ogni volta che l’orchestra, o i giocatori, si fermano è necessario ricalibrare il
ritmo, e così succede per entrambi.
3.2.2.1. La mossa d’apertura
Abbiamo visto che la mossa d’apertura è composta dalla posizione
d’apertura e dalla battuta d’apertura.
173 Questa sua caratteristica verrà analizzata più approfonditamente nel paragrafo “Il ritmo di battuta”. 174 Un’altra analogia è che la morra, come la musica, comprende un battere e un levare, nello specifico il pugno sul piano di battuta. 175 Curiosamente in tedesco e inglese “giocatore” e “suonatore” (nonché “attore”) si dicono alla stessa maniera, rispettivamente Spieler e player. Cfr. Huizinga 1939: 35-54 (“La nozione del gioco nella lingua”).
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La posizione d’apertura prevede i due sfidanti pongano le rispettive
mani di battuta chiuse a pugno176 uno di fronte all’altro177, ad altezza più o
meno uguale: è il segnale che gli sfidanti sono pronti per il iniziare il gioco.
Tra la posizione d’apertura e la battuta d’apertura può intercorrere un
attimo come qualche secondo mentre gli sfidanti decidono la mossa
iniziale178.
La battuta d’apertura, come abbiamo visto, ha lo scopo di coordinare il
ritmo di battuta dei due giocatori: più specificatamente deve fare in modo che
la prima battuta avvenga nello stesso istante e che i giocatori adottino lo
stesso ritmo di battuta («che i vegnia gio/che i bàtia ‘nsema»179). Di fatto si
tratta di una sorta di metro artificiale dipendente solo dall’accordo ritmico tra
i due sfidanti.
Essa può essere effettuata attraverso:
- una battuta dimostrativa, effettuata da uno o da entrambi i giocatori:
- accompagnata dall’intercalare «móora»: il ritmo delle
sillabe («móo» in battere e «ra» in levare) dà il tempo della battuta;
- da sola, ma, se effettuata da entrambi, deve avvenire
sincronicamente;
- un semplice sguardo180 di intesa tra gli sfidanti che ritraggono
semplicemente il braccio e battono contemporaneamente181.
In genere, soprattutto in caso gli sfidanti non riescano di effettuare una
battuta d’apertura sincrona, «bater» (o «dar la móra» o «envidàr la
176 Analizzeremo le diverse posizioni d’apertura nel paragrafo “La posizione d’apertura”. 177 In questo assomiglia, ma solo formalmente, alle mosse d’apertura meramente rituali (“quando i pugili si toccano i guanti, o i giocatori di scherma incrociano la spada”) citate da Goffman (1963: 94). 178 Questo momento del gioco verrà approfondito nel paragrafo “Lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale” 179 (sol.) “che (gli sfidanti) scendano/battano contemporaneamente”: lo scendere del braccio sul tavolo si è trasformato nel dialetto per sinèddoche (la parte sta per il tutto) nello scendere dello sfidante stesso. 180 «a bote basta vardarse ‘ntele bale di ocli e via che nare» (non.: “a volte è sufficiente guardarsi fissamente negli occhi e si parte di gran carriera”). 181 Musicalmente parlando, essi si danno il tempo partendo, invece che dal battere, dal levare.
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móra»182) spetta a chi ha appena guadagnato il punto, chi «el già/ga la
móra»183.
La modalità scelta dipende:
- dallo stadio di avanzamento della partita: generalmente ad inizio
partita, essendo i giocatori più cauti e in fase di studio, prevale la prima
modalità, che può passare progressivamente (ma non necessariamente) alla
seconda e alla terza;
- dal grado di conoscenza degli sfidanti: se si conoscono o hanno già
giocato assieme possono essere già abituati al ritmo di battuta dell’avversario
così che non si rende necessario una battuta d’apertura complessa184;
- dal grado di affidabilità dell’avversario: se non c’è fiducia
nell’avversario, perché già ha tentato di barare cambiando in corsa il ritmo di
battuta, o perché si trovano difficoltà sincronizzare la battuta.
Ovviamente nella maggior parte delle occasioni la mossa d’apertura,
non essendo parte del gioco vero e proprio, viene liquidata al primo colpo e
nel giro di pochi secondi. Se però:
- uno degli sfidanti non era attento al momento della battuta dell’altro;
- non era pronto e l’avversario è già partito con le battute senza
attendere il suo assenso;
- è insoddisfatto della modalità adottata dall’avversario che «no’l bat
ben»185 (e vuole che ne adotti un’altra);
- la battuta iniziale non è stata sincrona (anche se magari è stata
sincrona la battuta d’apertura);
è possibile richiederne la ripetizione, e questa, seppur controvoglia
(soprattutto da parte dei giocatori più esperti), deve essere concessa.
182 Rispettivamente “dare la móra” e “invitare la móra”. 183 “ha la móra”: alla stessa maniera, per esempio, nella pallavolo, chi guadagna il punto ha diritto di battuta. 184 Parlando delle mosse d’apertura Goffman afferma che “nel caso i partecipanti si conoscano bene, i segni d’apertura possono essere presi per garantiti” (1963: 94). 185 “non batte bene”.
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Purtuttavia la maggior parte delle volte si risolve battendo finché si trova la
giusta sincronia e concentrazione.
3.2.2.2. Il “gioco vero e proprio”
Effettuata la mossa d’apertura (in uno qualsiasi dei modi elencati), ha
inizio il “gioco vero e proprio”. La regola principale di tale fase è riassumibile
dall’espressione lapidaria “pónt e parola”186; i due sfidanti devono cioè, al
ritmo di battuta e al contempo:
- distendere le dita della mano, prima tenuta a pugno, mostrando tante
dita quante il numero che si vuole puntare (da 1 a 5): definiremo infatti
questo elemento, in dialetto «el nir zo/vegner gio col…» o «el meter
(zo/gio)… » o «el bater col…» 187 con il termine “puntata”;
- chiamare un numero da 2 a 10: definiremo questo elemento
“chiamata” («el clamàr/ciamàr»188).
I termini puntata e chiamata rimandano ai giochi aleatori poiché il
gioco consiste, come vedremo, nell’”indovinare”189 e il vincitore è, di fatto, un
“indovino”190.
Posto come premessa che il ritmo di tali battute deve essere lo stesso,
puntata e chiamata devono, per un corretto svolgimento del gioco, avvenire
contemporaneamente nonché contemporaneamente al ritmo di battuta, ed
essere, ognuna a proprio modo, precise e inequivocabili. Il ritmo con-venuto
è fondamentale perché assicura la parità delle condizioni iniziali e così
l’incertezza del gioco. Può accadere che uno degli sfidanti tenda a non
mantenerlo, ritardando la chiamata o la puntata, o entrambe: sia che ciò
accada involontariamente, «ntel caso el restia ‘ndré perché l’è pu lento»191, o
186 “punto e parola”. 187 “lo scendere con” o “il mettere (giù)” o “il battere con”, e il numero mostrato. 188 “il chiamare”. 189 EIT 1949: 870-871. 190 ibid 191 (non.) “nel caso rimanga indietro perché più lento”.
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volontariamente, per godere di un vantaggio che seppur di pochi istanti può
risultare decisivo. In questi casi è lecito da parte dell’avversario fermare il
gioco, fermandosi (ovvero smettendo di battere e ritirando verso di sé il
braccio) e giustificando l’arresto del gioco. Chiarito il motivo
dell’interruzione, il gioco riprende dal punto in cui si è fermato con la mossa
d’apertura.
3.2.3. Scopo del gioco
Scopo del gioco è che il numero chiamato nella chiamata corrisponda
alla somma dei numeri mostrati nelle puntate.
Es: se un giocatore punta 3 e l’altro 2 vince chi chiama 5, se uno punta 5
e l’altro 4 vince chi chiama 9, e così via
Se entrambi non indovinano si prosegue senza fermarsi.
Se entrambi indovinano alla stessa battuta il punto è nullo e si prosegue
senza fermarsi.
Le battute proseguono allo stesso ritmo finché un giocatore non si
accorge di aver guadagnato il punto. Il “guadagnare il punto” si può dire in
el pónt»193 (all’avversario, e il suo simmetrico «lagiàr/lagàr el pónt»194) o
«portarsel a casa/via»195. Se però lo sfidante che ha guadagnato il punto,
rapito dalla foga del gioco, non se ne avvede in tempo e rilancia una nuova
battuta il punto è nullo. Tale eventualità è chiamata «baterge/ghe (sóra)»196,
«narge/narghe sóra»197, «darge/dargi/darghe sóra»198, «magnarse el
192 “fare (il) punto”. 193 “prendere (o fregare) il punto”. 194 “lasciare il punto”: vedremo che in certi casi si dirà «robàr (“rubare”) el pont» e «reg(i)alàr (regalare) el pont». 195 “portarselo (il punto) a casa/via”. 196 “batterci (sopra)”. 197 “andarci sopra, calpestarlo”. 198 “darci sopra”.
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pónt»199 o «lagiarsei io/lagarsei lì»200 ed è incontestabile: una volta
ribattuto il pugno sul tavolo (o steso le dita, anche senza battere) il punto
guadagnato nella battuta precedente è irrimediabilmente perso. Può essere lo
stesso compagno dello sfidante che ha guadagnato il punto a fermargli il
braccio, impedendogli così di ribattere. Fa parte del gioco anche l’abilità di
fermare in tempo le battute nel caso si sia guadagnato il punto; come
specularmente l’abilità di non fermarsi se l’altro guadagna il punto ma non se
ne avvede201. Tale comportamento viene considerano da alcuni come una
scorrettezza (e specularmente è un mirabile atto di lealtà il fermarsi se
l’avversario guadagna il punto), ma di fatto spesso neanche l’avversario se ne
avvede, preso dal suo gioco.
3.2.4. I punteggi
La quantità di punti che bisogna raggiungere per vincere la partita
dipende dall’accordo che è intercorso tra i giocatori: solitamente si stabilisce
prima di giocare ma può succedere che si contratti anche durante la partita. I
punteggi del seguente elenco sono i più comuni, quelli “classici”: essendo le
regole “tradizionali”, quindi non scritte ma “contrattabili”, i punteggi possono
essere differenti se i giocatori si accordano in tal maniera
Per un «testa a testa» (due giocatori) le partite sono più faticose, senza
un attimo di pausa. I punteggi che bisogna raggiungere sono in genere
piuttosto bassi (anche «par evitar che un el se sbaglja o che l’embroja ’ntel
segnar i ponti»202) e la partita può essere:
199 “il mangiarsi il punto”. 200 “lasciarseli lì”. 201 «giai metù en mùcel de temp a ‘mparar a no fermarme: vedevi che chel’auter l’éva fat pont e me fermavi ancia se no’l s’èra nancia acòrt. ‘Nzì gi regialavi el pont: e l’era propi da coioni ma l’è en sbali che i fa en tanti can che i scomenza» (non.: “io ho impiegato un mucchio di tempo a imparare a non fermarmi: vedevo che l’altro aveva fatto punto e mi fermavo mentre lui neanche se n’era accorto. Così facendo gli regalavo un punto: era proprio da ingenui ma è un errore che fanno in tanti quando si comincia”). 202 (non.) “per evitare che uno si sbagli o imbrogli nel segnare i punti”.
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- «secia/seca»203 o «en pónt sec/sek(o)»204: vince il primo che fa
punto. In questo caso però l’elemento fortuna ha molto più risalto
dell’elemento abilità: questo tipo di partita viene usato infatti
prevalentemente per prendere decisioni immediate, come un semplice “pari e
dispari”;205
- «al zinc/cinc/cink»206 (“al 5”) o «ala man»207: vince chi per primo
arriva ai 5 punti;
- «al undes»: all’11. Tale forma è abbastanza rara: di solito si arriva a
questa soluzione solo dalla volontà, sorta durante la partita, di prolungarla.
Ma «le rivincite sono d’obbligo» quindi la forma canonica, la più diffusa
è:
- «partida-rivincita-bela»208, sempre «al zinc/cinc/cink», o al massimo
con la bella al 6.
Se si gioca «dói contra dói» (quattro giocatori) invece, essendo la partita
più dilatata poiché che i giocatori si sfidano alternativamente, i punteggi da
raggiungere possono essere maggiori. Si può arrivare:
- «al q(u)indes»: al 15;
Se si vuole allungare la partita (concordandosi anche durante il suo
svolgimento) si può arrivare anche:
- «al desdòt»: al 18;
- «al vintiùn»: al 21;
Si gioca però soltanto una partita solo in caso qualcuno abbia fretta o
non abbia più voglia di giocare. Anche in questo caso «le rivincite sono
d’obbligo»: anche la forma canonica infatti prende la forma di «partida-
rivincita-bèla» ed è composta da:
- le prime due «al q(u)indes» (al 15);
203 “(una partita) secca”. 204 “un punto secco”. 205 Cfr. il paragrafo “A che fine si gioca”. 206 Se seguito da un’altra parola in forma abbreviata: «zin’/cin’». 207 “alla mano”, nel senso di “fino ad arrivare alla mano aperta, con le 5 dita dispiegate”. 208 “partita-rivincita-bella”.
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- «la bèla al desdòt o al vintiùn»: la bella al 18 o al 21: «se vues tirarla
en longia fas vintiùn, se no desdòt»209. Per allungarla maggiormente è
possibile arrivare anche «al vintizinc/cinc/cink o al trentaùn» (al 25 o al 31).
Questo tipo di bella, per la consistenza del punteggio, viene anche detta «el
belón»210.
Per vincere bisogna raggiungere il punteggio convenuto con almeno due
punti di vantaggio sull’avversario. Quando si giunge agli ultimi due punti di
regola chi tiene i punti annuncia (che la partita è):
- «vérda»211: quando mancano due punti;
- «ros(s)a»: quando ne manca uno.
Come nella pallavolo o nel tennis, giunti al punteggio massimo con
scarti infimi (un punto di vantaggio) o in parità, si può continuare finché uno
degli sfidanti non raggiunge un vantaggio di due punti. Questa opzione però è
la meno utilizzata, anzi accade abbastanza raramente che i giocatori si
accontentino di un vantaggio così minimo: la vittoria deve essere netta.
Così, in caso si giunga sul punteggio di parità nei due punti (anche tre,
se la partita è al 15 o oltre) immediatamente precedenti i punti necessari per
la vittoria (es.: sull’11-11, sul 12-12, sul 13-13 o sul 14-14 se la partita è al 15; 3-
3 o 4-4 se la partita è al 5, ecc.) è facoltà della squadra che raggiunge la parità,
chi «el già/ga212 la móra» (e solo di quella, anche se la squadra avversaria
può consigliare o caldeggiare tale soluzione) il richiedere una specie di
spareggio, una mini-bella, affinché la vittoria risulti netta e il vantaggio
consistente: «gi vuel trionfàr, se no no l’è nancia bel no»213.
Quando si richiede «la bèla»214, o «zin’/cin’ de bei»215 o «zin’/cin’ de
fresci/freschi»216 o «zin’/cin’ de nuevi/nóvi»217 o «ala man» o «de parar(la)
209 “se vuoi allungarla (la partita) vai al 18, altrimenti al 21”. 210 “la bellona, la grande bella”. 211 femminile di «vért», “verde”. 212 “ha”. 213 (non.) “bisogna trionfare, sennò non c’è gusto”. 214 “la bella”. 215 “cinque (punti) belli”.
56
zo al zinc»218 il punteggio si azzera, la mano di chi tiene i punti si richiude a
pugno: si riparte cioè dallo 0-0 per arrivare a 5.
Di questa mini-bella esistono due forme:
- normale: il cui andamento cioè è lo stesso di una mano normale «al
5»219. Ovviamente al 3-3 o 4-4 esiste sempre la possibilità di riazzerare il
punteggio, e potenzialmente si può continuare così ad infinitum: «maiari se
la para zo doi o trei bòte, […] l’è ancia en sistema per farla durar de pù, par
pararla avanti»220;
- avanzata221: ogni volta che si raggiunge il pareggio (che sia 1-1, 2-2, 3-3
o 4-4) si azzera automaticamente il punteggio e si riparte: tale eventualità si
può chiamare «bater(la) zo/giò»222 «parar(la) zo/giò»223 o «netar(la)»224.
3.2.5. Segnare i punti
I punti guadagnati si segnano sulla mano sinistra (che parte dal pugno
chiuso che indica lo 0), partendo dal pollice225, e dispiegando
progressivamente le dita contigue fino all’anulare. In sintesi: il pollice vale 1
(più 5 e i multipli di 5226: quindi anche 6, 11, 16, 21), pollice-indice vale 2 (7,
vale 4 (9, 14, 19); o, 5 e tutti i suoi multipli possono essere indicati con:
- la mano ben aperta;
216 “cinque (punti) freschi”: «fresci» va letto come frés-ci. 217 “cinque (punti) nuovi”. 218 (non.) “di spingere (il punteggio) in basso al 5”. 219 Secondo un’altra fonte il punteggio della mini-bella dipende dal punteggio che si doveva conseguire nella partita che si stava giocando: se era al 15 la mini-bella può arrivare al massimo al 5, se al 18 al massimo al 6, se al 24 o 25 al massimo all’8. 220 (non.) “magari si azzera il punteggio due o tre volte, […] è anche un sistema per farla durare di più, per farla continuare”. 221 è l’unico termine con cui si potrebbe definirla, per distinguerla da “normale”. 222 “buttar(la) giù”. 223 “spinger(la) giù”. 224 “pulir(la)”. 225 E non “dal mignolo” come riporta il Gorini (1990: 34). 226 La mano, non potendo contare più di cinque unità, al 5 si azzera.
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- la mano chiusa a pugno;
- unendo tutte le punte delle dita227: «perché così fa quei boni»228.
È consigliabile (talvolta viene richiesto espressamente) tenere la mano
ben visibile, perlomeno appoggiata sul tavolo se non tenuta in alto,in modo
che i giocatori possano avere sempre sott’occhio il punteggio degli avversari,
ma anche che chi non rispetta questa regola non venga accusato di «tentar de
robàr»229.
Solitamente il conteggio dei punti è tenuto (nel doi contra doi) da uno
dei compagni di squadra, ma anche da entrambi; altrimenti può svolgere
questo ruolo un quinto giocatore, chiamato «el segnadór»230.
Le regole che abbiamo appena tracciato sono quelle fondamentali,
quelle da cui non si può prescindere, l’alfabeto del gioco. Questa ricerca si
riferisce alle regole delle situazioni spontanee del gioco: nei tornei sono
sostanzialmente le stesse231 ma, essendo la situazione istituzionalizzata, sono
più restrittive e non possono essere contrattate tra i giocatori; inoltre le
penalità possono comportare l’esclusione dal gioco, cosa che nelle situazioni
spontanee accade di rado.
227 Similmente alla posizione delle dita nel famoso “gesto dell’ombrello”. 228 (sol.) “perché così fanno quelli (i giocatori) capaci, abili”. 229 “tentare di rubare”. 230 “il segnatore (dei punti)”. Questa figura verrà approfondita nel paragrafo “El segnadór”. 231 Un esempio di regolamento di torneo è riportata in Appendice.
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3.3. Stile
Nella sfera del primitivo, del bambino e del poeta, nella sfera cioè del gioco.
Johan Huizinga, Homo Ludens Il gioco è un infinito sempre in atto di farsi, non vi è limite al prodursi di nuove sfumature.
Ludwig Joseph Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen
Le parole sono cose di gioco.
Josè Bergamin, Decadencia del analfabetismo
Abbiamo visto che l’unica mossa della móra, reiterata fino al
conseguimento del punto, consiste nel:
- “puntare” un numero (da 1 a 5) attraverso l’ostensione delle dita e,
contemporaneamente;
- “chiamare” un numero (da 2 a 10).
Il giocatore deve esprimere due numeri (necessariamente) differenti con
due differenti strumenti, la mano e la voce. Non esiste però nessuna regola
che stabilisce univocamente come questi numeri possono essere espressi; il
giocatore è libero di esprimerli come desidera, purché essi siano:
- intelligibili: che siano comprensibili per l’avversario, e;
- inequivocabili: che non si confondano cioè con altri simili.232
Tra la mera espressione delle cifre e le forme in cui vengono espresse nel
gioco intercorre lo stesso rapporto tracciato da Ferdinand de Saussure (1916)
tra lingua (“langue”) e parola (“parole”): “la lingua, a differenza della parola,
non è un atto, ma è il momento istituzionale e sistematico del linguaggio.
L’individuo non può da solo né modificarla, perché essa è essenzialmente un
contratto collettivo, un’istituzione sociale e in pari tempo un sistema di valori
a cui tutti si devono sottomettere se vogliono comunicare. Di fronte alla
232 in termini linguistici, attraverso le regole di significazione, tra significante e significato deve sussistere una correlazione univoca: ad un significante deve corrispondere uno e un solo significato.
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lingua istituzionale e sistematica, la parola è un atto individuale che realizza
la lingua in modo infinitamente vario, fino a giungere, attraverso la
molteplicità delle sue variazioni, a modificare la lingua e farla evolvere”233.
Evidentemente qui come parola si intende sia la parola (o le parole) utilizzate
nelle espressioni di chiamata, sia la combinazione di dita estratte nelle
puntate.
Un giocatore non può giocare al di fuori delle regole (l’essenza del gioco
sta proprio nella loro indiscutibilità), che abbiamo appena tracciato, ma può
giocare con le regole e tra le regole, ovvero nel gioco che il gioco concede: ciò
in tedesco si chiama Spielraum234 (la parola, letteralmente spazio di gioco,
significa qualcosa che è comune anche al “gioco” di oggetti meccanici, cioè
libertà di movimento nell’ambito di limiti prestabiliti235) qui è rappresentato
dal margine di libertà che il giocatore si può concedere nell’espressione dei
numeri.
Si dice che «ogni giugadór el ga na móra diversa»236: in questa
espressione «la móra», diventa propria di un giocatore, e viene a significare
il suo stesso stile, la particolare maniera in cui egli esprime il gioco
(rispettandone le regole), in cui esercita la libertà di cui sopra. Dall’indagine è
risultato che lo stile personale di un giocatore, la sua móra, è composto da:
- le espressioni di chiamata;
- il tono di voce;
- il modo di mettere le dita (e con esse la mano), ovvero le espressioni
della puntata;
- il ritmo di battuta.
Come abbiamo visto, gli strumenti espressivi della móra sono la voce e la
mano. Si noterà che i primi due elementi si riferiscono all’uso della voce (che
233 Galimberti 1983: 94. 234 Mongardini 1989: 20. 235 Cfr. anche Erikson 1972: 836, nonché Bencivenga 1995: 69-71. 236 (sol.) “Ogni giocatore ha una móra diversa”.
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corrisponde nel gioco al «clamàr/ciamàr») mentre gli altri due all’uso della
mano di battuta (che corrisponde nel gioco al «bater»).
In questo capitolo analizzeremo le forme in cui i giocatori usano la voce
e la mano di battuta per esprimere i numeri di chiamata e di puntata: il resto
del capitolo si divide in “fenomenologia del «clamàr/ciamàr»” e
“fenomenologia del «bater»”.
3.3.1. Fenomenologia del «bater»
3.3.1.1. La posizione d’apertura
Abbiamo visto nel capitolo precedente che la posizione d’apertura
prevede i pugni degli avversari posti uno di fronte all’altro in attesa della
battuta d’apertura. Questo è il segnale che gli sfidanti sono pronti per il
gioco.
Nella posizione d’apertura la mano si può tenere in due modi
particolari:
- a pugno: stretta normalmente a pugno (le 4 dita ritratte col pollice
a tenerle a lato) col lato esterno a battere (sul piano di battuta);
- a pugno proteso: leggermente piegata in basso rispetto all’asse
dell’avambraccio, le 4 dita strette a pugno, il pollice posato in alto e proteso in
avanti, indice e medio leggermente più protesi delle altre dita e (medio-
)anulare-mignolo a battere.
3.3.1.2. Le espressioni di puntata
61
Nel capitolo precedente abbiamo definito puntata l’atto del «nir
zo/vegner gio col…» o «meter (zo/gio)… » o «bater col…» 237, cioè del
distendere238 le dita mostrando all’avversario il numero puntato.
Il codice delle puntate contempla quindi in tutto cinque possibili
significati (tante quante sono le dita della mano). I modi di espressione (i
significanti) sono tanto numerosi quanto lo permetta il mezzo per esprimerli:
in questo caso il mezzo è la mano239 quindi i possibili significanti sono dati
dalla combinazione tra le possibilità di estrazione delle dita uniti con le
possibilità date dalla mobilità della mano.
Per garantire che la puntata risulti intellegibile e inequivocabile per
l’avversario:
- le dita estratte240 devono essere ben distese;
- le dita non estratte devono rimanere il più possibile aderenti al
palmo della mano.
In pratica: è vietato tenere dita a mezz’aria o per metà ritratte (o estratte).
Le dita devono essere estratte al ritmo di battuta: estrarle in anticipo
può risultare svantaggioso poiché equivale a scoprire le carte prima del
tempo, mentre estrarle con ritardo può risultare vantaggioso ma scorretto,
perché offre la possibilità di regolarsi sulla puntata effettuata un attimo
prima dall’avversario.
Cominciamo con le combinazioni date dall’estrazione delle dita che,
ricordiamo, possono esprimere i numeri 1, 2, 3, 4 e 5.
L’1 si può esprimere:
237 “scendere con” o “mettere (giù)” o “battere con” e il numero mostrato. 238 userò indifferentemente “distendere” ed “estrarre” le dita. 239 “nell’uomo la mano e più in generale gli organi esterni del corpo si sono affrancati progressivamente dalla coercizione funzionale, ed emancipandosi, sono divenuti, da strumenti utili, gesti espressivi” (Galimberti 1983: 89). 240 Il Manzoni le definisce più poeticamente “sparpagliate” (1827: 141).
62
- distendendo un solo dito: i più frequenti sono l’indice, il medio e
il mignolo; meno frequente il pollice; è più raro l’anulare poiché è difficile
distenderlo da solo;
- stendendo del pugno chiuso: questa è la forma più frequente;
ma perché il pugno chiuso, da posizione d’apertura quindi gesto neutro,
vale 1 nel gioco? Primariamente perché non ci possono essere gesti neutri nel
gioco vero e proprio: ogni gesto deve avere, come abbiamo detto, un
significato inequivocabile. Se fosse ancora un gesto neutro sarebbe concesso
estrarre dita (effettuando la puntata) in ritardo sul ritmo di battuta; se invece
non fosse valido il giocatore perderebbe un turno di puntata. Quindi l’1 si può
esprimere anche con altri gesti neutri (in cui non vengano estratte dita nella
posizione canonica) e cioè:
- ritirando il pugno verso di sé, in verticale o in orizzontale;
- posando il gomito invece della mano sul piano di battuta: questa
modalità è stata descritta dagli stessi giocatori che la usano «da sbanfóni»241.
Il 2 si esprime attraverso la distensione di due dita, in particolare:
- pollice e indice;
- indice e medio;
- anulare e mignolo (col pollice a tenere indice e medio);
sono le combinazioni più frequenti ma alcuni usano anche:
- indice e mignolo (il gesto delle corna);
- pollice e medio (il fuck off americano).
Più difficili da fare ma anch’esse usate (in quanto più strane possono
disorientare l’avversario) sono:
- pollice e mignolo (il gesto della spanna);
- medio e anulare;
- indice e anulare.
241 «sbanfón» è un termine intraducibile, di significato simile a “smargiasso” ma che, al contrario dell’italiano, può avere una connotazione sia positiva che negativa.
63
Il 3 si esprime attraverso la distensione di tre dita, in particolare:
- pollice-indice-medio;
- indice-medio-anulare;
- medio-anulare-mignolo;
sono le combinazioni più frequenti ma alcuni usano anche:
- pollice-indice-anulare;
- pollice-anulare-mignolo;
- pollice-medio-mignolo;
- pollice-medio-anulare;
che sono più difficili da fare ma possono disorientare l’avversario.
Il 4 si esprime attraverso la distensione di quattro dita, tenendo cioè le
dita distese con un solo dito ritratto:
- il pollice;
- il mignolo;
- l’indice;
sono le combinazioni più frequenti ma alcuni tengono ritratto, seppur
sia più scomodo, anche:
- il medio;
- l’anulare.
Il 5 si può esprimere solo attraverso la distensione di tutte le dita della
mano
3.3.1.3. Posizioni della mano e del braccio nella puntata
Questi modi di distendere le dita si possono combinare con i modi di
stendere la mano:
64
- con il dorso verso l’alto, battendo con la base della mano (all’altezza
della base del pollice);
- con il palmo della mano verso l’alto, battendo con il dorso;
- battendo il lato esterno della mano (come per battere il pugno sul
tavolo);
- posando le dita estratte sul tavolo, col dorso della mano rivolto verso
l’avversario.
Ogni giocatore ha una modalità preferita ma accade anche che lo stesso
giocatore le alterni, anche durante la stessa mano, per non offrire
all’avversario la possibilità di capire dalla posizione della mano quale numero
verrà puntato.
Vi sono poi diverse modalità di stendere il braccio in battuta:
- tenendo il pugno sempre sul tavolo: sempre nella stessa posizione o
cambiandola. In questo caso tra una battuta e l’altra le dita rimangono
spiegate. Questa modalità può essere criticata dai giocatori più classici,
perché, non essendoci il “levare” del pugno, rende più difficoltoso il rispetto
del ritmo di battuta e meno netta la separazione tra una battuta e l’altra. La
modalità preferibile è quindi la seguente:
- alzando il pugno dal tavolo e ritirandolo verso di sè ad ogni battuta.
In questo caso le dita vengono ritratte contemporaneamente al braccio, ed
estratte nello stesso modo.
3.3.1.4. Il ritmo di battuta
Come abbiamo già detto, il ritmo di battuta nella móra è determinato
dalla battuta d’apertura, una sorta di metro artificiale dipendente
dall’accordo ritmico tra i due sfidanti. Esso è molto importante e deve essere
rispettato poiché garantisce l’uguaglianza delle possibilità degli sfidanti di
indovinare il punto dell’avversario, condizione necessaria per qualsiasi
competizione ludica.
65
Abbiamo anche visto che in genere, soprattutto in caso gli sfidanti non
riescano di effettuare una battuta d’apertura sincrona, «bater» (o «dar la
móra») spetta a chi ha appena guadagnato il punto, chi «el già/el ga242 la
móra».
Questa regola ha un senso perché anche il ritmo di battuta fa parte dello
stile di ogni giocatore: infatti ognuno ha un ritmo in cui ritiene di dare il
meglio di sé, abbastanza sostenuto da incalzare l’avversario, ma abbastanza
lento da permettere di pensare alle mosse da effettuare. Generalmente i più
giovani preferiscono ritmi più veloci mentre i più vecchi e i principianti ritmi
più blandi. A quanto pare il ritmo giusto, «bater(la) ben”243», sarebbe più o
meno una battuta al secondo (60 bpm, ovvero tra le 45 e le 70 bpm). Il ritmo
di battuta determinato dalla battuta d’apertura però può essere modificato
anche nel corso del punto. Esattamente come negli altri giochi agonistici
infatti, imporre il proprio ritmo è un elemento che torna a proprio
vantaggio244. «Bater(la) veloze/veloce» significa adottare un ritmo di battuta
sostenuto; «bater(la) plan/pian» è il contrario: adottando quest’ultima
strategia nel mezzo del punto (cioè una volta adottato il ritmo della battuta
d’apertura) «se tira zo/giò (de móra)» l’avversario.
Inoltre, a seconda del ritmo di battuta preferito, si dice di un giocatore che
«el già/ga245 la móra» e l’aggettivo che definisce il ritmo che adotta:
«endiaolada»246, «tranquila», ecc.
242 “ha”. 243 “batter(la) (la móra) bene”. 244 «se la bates ben col to ritmo alora arives a pensargi su, se la bates velòze gi vuèl èser pu bravi» (non. “se la batti bene col tuo ritmo allora riesci a ragionarci sopra, se la batti veloce bisogna essere più bravi”). Cfr. il paragrafo “Abilità richieste”. 245 “ha”. 246 “indiavolata”.
66
3.3.2. Fenomenologia del «clamàr/ciamàr»
Come abbiamo già visto la chiamata è una fonazione attraverso la quale
gli sfidanti tentano di indovinare la somma delle dita distese nelle rispettive
puntate. I numeri che si possono chiamare vanno dal 2 al 10 e rappresentano
lo spettro delle possibili cifre che possono uscire dalle somme delle puntate
che, come abbiamo visto, possono andare dall’1 al 5 247.
Abbiamo visto che nel codice delle puntate i possibili significati sono
limitati (5), mentre i significanti sono tanto numerosi quanto lo permetta il
mezzo per esprimerli: le dita delle mani sono solo 5 ma abbiamo visto che
esistono numerose maniere per significare i numeri dall’1 al 5.
Lo stesso discorso vale per le puntate: in questo caso i possibili
significati sono 9 (i numeri dal 2 al 10) ma i mezzi per esprimerli248 (la voce e
il linguaggio) sono molto più flessibili e vari. Infatti, seppur i numeri contino
limitate forme di espressione (considerando le forme italiane e dialettali), la
continua pratica del gioco e la condivisione di un unico orizzonte culturale da
parte dei giocatori ha permesso lo sviluppo di una serie potenzialmente
infinita di espressioni.
Il linguaggio della móra attinge infatti dalla lingua (e dal dialetto) per
esprimere i numeri, ma le parole utilizzate si sono progressivamente evolute e
distinte originando una serie di espressioni estremamente variegate che
talvolta possono apparire differenti o lontane dai numeri che devono
esprimere.
Resta invariato rispetto alle puntate, la necessità che le forme di
espressione siano:
- intellegibili: che la loro interpretazione sia immediatamente
comprensibile per l’avversario e;
247 Somma minima: 1+1=2; somma massima: 5+5=10. 248 come ricorda Galimberti “le parole infatti non sono segni, ma espressioni, così come i gesti collerici non sono “segni” della collera, ma la collera stessa” (1983: 95)
67
- inequivocabili: che non si confondano cioè con altre simili.249
La lista che segue parte dalle forme più semplici per arrivare a quelle più
evolute, più complesse. Sulla base di tale lista cercheremo di determinare le
regole operative alla base della formazione dell’espressione. Ne analizzeremo
infine la componente prosodica e la componente vocale.
3.3.2.1. Le espressioni di chiamata
La seguente è solo una lista (necessariamente) parziale delle espressioni
di chiamata possibili e contiene le forme che ho rilevato sul campo e quelle
che mi sono state riferite da giocatori e spettatori. La lista potrebbe essere
infinitamente più lunga poiché, oltre alle espressioni canoniche, quelle più
comuni e quelle più evolute, ne esiste una serie di difficile rilevazione.
Esistono espressioni estemporanee, che nascono e muoiono in una
serata, alcune che sono utilizzate solo dal gruppo di giocatori/amici perché si
riferiscono alla situazione nel “qui e ora”, altre ad esperienze personali o del
gruppo, riferite a conoscenti e situazioni condivise solo dai giocatori, che
sono innanzitutto di difficile rilevazione ma, se rilevate, possono risultare di
difficile comprensione per un osservatore che non conosca personalmente i
giocatori. Con questo intendo affermare che esistono una serie
potenzialmente infinita di forme espressive così sfuggenti ed estemporanee
per cui la loro rilevazione risulta impossibile. Purtuttavia esse devono
necessariamente rispettare le regole di formazione che espliciteremo più
avanti.
3.3.2.1.1. Le forme espressive più semplici
249 in termini linguistici, attraverso le regole di significazione, tra significante e significato deve sussistere una correlazione univoca.
68
Le forme espressive più semplici corrispondono alle forme cardinali, cui
possiamo aggiungere quattro forme canoniche.
Le forme cardinali comprendono i nove numeri cardinali, espressi in
italiano e nelle loro forme dialettali, e sono:
2 due, doi, do’;
3 tre; trèi, tréi; tri;
4 qua(t)tro; c(u)ater;
5 cinque; zinc, cinc, cink (abbr. zin’, cin’)
6 sei; sièi;
7 sette; sete250; se(t)te;
8 o(t)to; o(t)to; ot;
9 nove (o no-ve); nòu, nóu, nóf, nuèu;
10 dieci (die-ci); diès, dés;
Le sillabe sottolineate in questa lista, come nelle seguenti,
corrispondono agli accenti, dei quali si parlerà nel paragrafo “La prosodia
delle espressioni di chiamata”.
Le quattro forme canoniche invece sono forme classiche, comprese da
tutti:
2 un par un/un per un251 (abbr.: par un/per un)
5 cik252;
6 cià253;
10 móra254 (o mó-ra).
250 Dialettizazione di «sette»: la forma dialettale «set» si usa raramente perché troppo simile a «sei»: ambedue infatti, se urlate, suonano come «se’’» 251 “uno (punto) ciascuno”: perifrasi per indicare 2. 252 probabilmente dalla contrazione di ci(n)q(ue) o ci(n)k. 253 nessuno mi ha saputo spiegare l’origine di questa espressione: tutti la prendono come assodata ma nessuno sa come si sia formata, «se dis enzì e bòn»(non.: ”si dice così e basta”). 254 Forse dall’identificazione del gioco con il massimo punteggio ottenibile.
69
3.3.2.1.2. Regole operative per la formazione delle espressioni
di chiamata
A partire da queste forme semplici si formano quasi tutte le altre
espressioni. Le trasformazioni che vedremo nei prossimi paragrafi infatti,
dalle più semplici alle più complesse, devono mantenere le caratteristiche che
abbiamo delineato prima: devono essere cioè intellegibili e inequivocabili.
Traducendo questa regola in termini di gioco: che la parola sia composta da
una o più sillabe, la prima sillaba, o la parte di espressione che comprende la
prima sillaba accentata, deve sempre esprimere, precisamente e
inequivocabilmente, il numero che si intende chiamare. Il resto
dell’espressione può prendere qualsiasi forma, purché non esprima un
numero differente da quello della prima parte. Nei prossimi paragrafi
analizzeremo queste trasformazioni, dalle più semplici alle più complesse.
Un discorso a parte meritano le forme utilizzate per chiamare il 10 e
alcune altre espressioni, che vedremo più avanti.
3.3.2.1.3. Trasformazioni semplici delle forme cardinali
Una prima trasformazione nelle espressioni di chiamata riguarda le forme
cardinali e si ottiene mediante:
- semplice ripetizione;
- trasformazione nella sua decina;
- trasformazione nel suo centinaio, giustapponendo «zento/cento»;
- trasformazione nel suo migliaio, giustapponendo «mila» o «mili»;
- giustapposizione della sua decina;
- giustapposizione del suo centinaio;
- giustapposizione di «ani»255 (al numero o alla sua decina).
255 “anni”.
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Nello specifico le espressioni rilevate derivanti da queste trasformazioni
sono le seguenti:
2 due due, doi doi, do- ŝento256;tre tre, tre trenta, trenta, tre-cento,
260 “allora”. 261 “ancora”. 262 “che ritorna”. 263 “due soli”, “due soletti”. 264 “due nel culo”: per assonanza con «dé ‘ntel cul» (“dito nel culo”) o per analogia con il gesto dell’indice alzato. 265 nome della ferrovia che collega le valli al capoluogo.
72
4 caterina; cater caròbole; c(u)ater a bater; cater cagno(n)i;
catamarano;
5 cinque ciònque; cik ciòk, zik zòk, cicco ciacco, cik ciòcla, cik
ciòcchele, cik cicòti, cik ciconi, cik-chocolate, cicolata266, cik cicolata, cik
cinquanta;
6 sèila (o sèi-là), sèila sèila, sèila-là, sei la móra; sé-santa267;
ciala268, cià la móra, cià che ‘l ciala269, cià-lati, cià cialati; cèz270, céz, cèz cèz,
9 no-vegno272, no che no vegno, nove novegno; nove novara;
nove el piove273; no-vembre, nove novembre, novembrino;
3.3.2.1.6. Espressioni per il 10
Il 10 ha la più fantasiosa varietà di possibili nomi. Quasi tutti si
riferiscono, probabilmente perché il 10 è il punteggio più alto, al concetto di
grandezza, di ampiezza, di completezza:
10 tut(t)a (o tu-ta), larga (o lar-ga), ba-rac(c)a, ve(c)cia274 (o ve-
cia), piaz(z)a (o pia-za).
Oltre a queste forme semplici esiste tutta una serie di combinazioni:
266 “cioccolata”. 267 “sete santa”. 268 (non.) “cala, diminuisci”. 269 «’l ciala»: (non.) “cala, diminuisce”. 270 non ha significato. È probabilmente un’evoluzione di «cià». 271 “sete tanta”. 272 rispettivamente, dal dialetto trentino “non vengo”, “no che non vengo”. 273 “nove piove”. 274 “vecchia”.
73
tut(t)a la voglio (o la vollio275), tut(t)a quanta; tu(t)ti quanti,
tu(t)ti (i)n fila; larga larga, larga la vedo, larga la voglio (o la vollio); larga
‘n barca276; vecia vecia, vecia ‘n barca277; larga barac(c)a; piaz(z)a granda;
tut(t)a la piaz(z)a; tanta mona278, tanta móra 279; tutta piena; móra che è
l’ora;
Di fatto tutto quello che di primo acchito non vuol dire niente, se
accettato dagli avversari, vale come 10: «scatta la molla», «ciapa questo280»,
« pinpirulinpiangeva». Come nella puntata le espressioni neutre valgono 1,
nella chiamata possono valere 10.
3.3.2.1.7. Altre trasformazioni più complesse
Altre forme di combinazione vanno analizzate separatamente per
individuarne l’origine. Per esempio:
4 doi par doi/doi per doi281: nascono dal raddoppio di “un par/per
un”;
5 meza (o me-za), meza baraca282: prendendo il 10 come numero
intero;
7 biancaneve: per analogia con “set(t)e nani”; seven283;
8 ocio al vin284;
9 c(u)asi tu(t)ta: riferito a tu(t)ta (10);
11 doi man285: riferito al suo significante materiale (le due mani
aperte).
275 dialettizzazione di “voglio”. 276 “larga in barca”. 277 “vecchia in barca”. 278 «’n tanta mona» significa “molto lontano”. 279 fusione di «móra» e «tanta mona». 280 “prendi questo”. 281 “due per due”. 282 rispettivamente “mezza” e “mezza baracca”. 283 dall’inglese “sette”. 284 “occhio al vino”: pragmaticamente, battendo si rischia di rovesciare il vino sul tavolo. 285 “due mani”.
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3.3.2.1.8. Variabili situazionali
La varietà delle espressioni di chiamata cambia a seconda del livello di
conoscenza tra i giocatori: come nella socialità della vita quotidiana il
linguaggio utilizzato passa dalla formalità all’informalità a seconda del livello
di frequentazione e di confidenza tra le persone, allo stesso modo nella móra
cambia la varietà delle espressioni utilizzate. Da un lato, in una partita tra
estranei si usano espressioni più semplici e più comprensibili286, mentre in
una tra amici è possibile sentire espressioni comprensibili solo ad essi:
possono essere espressioni sorte sul momento, nel “qui e ora” del gioco o a
partire dalla situazione, o in riferimento ai partecipanti o ad amici (e nemici)
dei partecipanti, a conoscenti e paesani287, tutti gli elementi condivisi
possono entrarne a far parte, sempre che rispettino le regole di formazione
delle espressioni. Ovviamente in mezzo a questi due estremi possiamo situare
tutta una varietà di situazioni differenti, che partono dall’estrema formalità
all’estrema fantasia.
3.3.2.1.9. L’espressione di chiamata nella battuta finale
Nella chiamata con la quale si guadagna il punto, le battute (quindi il
ritmo) si fermano (questo, come abbiamo visto, è necessario per guadagnare
il punto) quindi l’espressione si disancora da esso e prorompe, enfatizzata
rispetto alle altre. Essa subisce di solito un innalzamento di tono e un
allungamento. Durante lo svolgimento del punto, infatti, la concentrazione è
286 «Dipende dai giugadori: se se giuga con gioveni come noi alora se pol dir quel che se vol dal cul al nas, ma se giughet con i classici giugadori se cerca de de usar i stesi nomi, en codice comunque» (sol.: “Dipende dai giocatori: se si gioca come noi [tra giovani] allora si può dire ciò che si vuole dal culo al naso, ma se giochi con i classici giocatori si cerca di usare gli stessi nomi, in codice comunque”). 287 «mi no me recordi nancia le strambàde che i tira fuer no, i’n tira fuer de tuti i colori, magiari la rimela su calchedun del paés» (non.: “non mi ricordo neanche le stramberie che tirano fuori, ne tiravano fuori di tutti i colori, magari la rima su qualcuno del paese”).
75
alta e i giocatori, per il ritmo incalzante che bisogna mantenere, sono come in
apnea; il punto finale è il punto della vittoria, in cui si può liberare la tensione
del gioco.
L’espressione originale (quella con cui si è guadagnato il punto) può
rimanere la stessa, ma può anche subire un allungamento per:
- giustapposizione comune: «(a)la móra», «alóra»;
- se il punto è stato molto combattuto, la tensione può essersi
accumulata a tal punto che il vincente prorompe in una bestemmia, che può
essere «dio porco», «porco dio», «ostia», ecc.;
- aggiunta di altre parole che possono essere trasformazioni delle
parole che costituiscono l’espressione, giustapposizioni in rima o per
analogia. Per esempio:
- trento redento redentissimo;
- cater caroboline mate;
- larga baracca e burattini;
- cik ciok ciak;
- sette bianche le tette.
L’entità dell’innalzamento di tono e l’ampiezza del prolungamento
dipendono (ovvero sono direttamente proporzionali a) da quanto è stato
combattuto il punto in questione.288
3.3.2.2. La prosodia delle espressioni di chiamata
Nel paragrafo “Il ritmo di battuta” abbiamo sottolineato come nel gioco
della móra sia essenziale che gli sfidanti mantengano lo stesso ritmo di
battuta che, ricordiamo, è 1/1.
Se ritmo delle chiamate è, e deve essere, lo stesso, la varietà delle
espressioni di chiamata che abbiamo appena visto impone di analizzarne la
288 parleremo più approfonditamente dell’ultima battuta nel paragrafo “Lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale”.
76
separatamente la prosodia, “la dottrina della quantità sillabica e in genere del
ritmo poetico, caratteristico dell’antichità classica”289. Azzardiamo questo
accostamento poiché móra e poesia hanno in comune la necessità di
incastrare le sillabe che compongono le loro espressioni in un determinato
ritmo. Ovviamente, essendo il ritmo di battuta invariabile e dipendente solo
dall’accordo dinamico dei due sfidanti, il ritmo con cui vengono scandite le
sillabe dipende dalla quantità di sillabe accentate.
In questo senso si distinguono due tipi di forma espressiva, in base alla
quantità di sillabe:
- monotonica: con una sola sillaba accentata;
- bitonica: con due sillabe accentate.
Nelle espressioni di chiamata riportate nel paragrafo precedente le sillabe
accentate sono indicate dalla sottolineatura.
Le forme monotoniche hanno solo una sillaba accentata che viene
pronunciata contemporaneamente alla battuta (1/1).
Le parole che corrispondono a questa modalità sono monosillabiche o
bisillabiche (spesso le stesse bisillabiche possono esprimersi sia in maniera
monotonica che bitonica: per esempio dieci e die-ci): la sillaba accentata è
sempre la prima. Esse sono le più semplici, le più utilizzate e le più
intellegibili. Per questo sono le forme usate più frequentemente dai
principianti, ma non solo da loro.
Le forme bitoniche, cui corrispondono espressioni bisillabiche o
polisillabiche, hanno due sillabe accentate: la prima, che varrebbe anche da
sola, deve essere espressiva del numero puntato; la seconda è, come abbiamo
visto, il resto della forma espressiva, o una sua ripetizione o una
giustapposizione ad essa. Il loro ritmo è necessariamente raddoppiato: la
prima sillaba viene pronunciata sul battere del tempo, la seconda sul levare.
La modalità adottata dipende solitamente dalla scelta personale del
giocatore, dal suo “stile”. Più il ritmo di battuta è elevato maggiore è la 289 Devoto/Oli 1971: 1806.
77
tendenza ad usare espressioni monotoniche; per contro, più lentamente si
gioca più è possibile aggiungere sillabe.
3.3.2.3. Il t(u)ono di voce
Il primo indizio della presenza di giocatori di morra, quello che si
avverte da una distanza maggiore e prima di stabilire un contatto visivo con
essi, sono le “fonazioni clamorose”290 e ritmate che, per la loro violenza,
possono raggiungere, in una ambiente privo di inquinamento acustico, anche
una discreta distanza. Da vicino il “cerchio” della móra provoca un muro
sonoro in cui è difficile interagire: per questo intorno a una partita di móra
c’è spazio solo per un crocchio di persone che vogliono seguire il gioco.
Ma perché i giocatori urlano tanto, nonostante si trovino a poche decine
di centimetri l’uno dall’altro, faccia a faccia, ma soprattutto nonostante
questo possa provocare fastidio alle persone presenti, e ostilità, nonché
richieste, quando non l’obbligo, di fermare il gioco o di allontanarsi? Già il
Manzoni sosteneva (pur non avendo perfettemente presente la dinamica del
gioco291) che “è il giuoco che lo richiede”292, ma l’argomentazione è
tautologica e la questione non può che rimanere aperta: perché, allora, il
gioco lo richiede293? Generalmente il tono di voce è di per sé molto alto:
succede che chi urla meno deve alzare il suo tono almeno fino a giungere a
quello che urla di più, aiutati in questo anche dall’effetto euforizzante
290 Dossena 1999: II, 780. La letteratura ci conferma che è sempre stato così: “sovrasta la voce d’un gioco sovrano, truce e magnifico, vincono le cifre imperative, i numeri vigorosi e scanditi, lanciati come frombole, della nostra Mora Nazionale, vecchia quanto l’annosa Italia” ( Savinio 1918: citato in Dossena 1999: III, 1042) 291 come ha avuto modo di commentare Antonio Baldini, citato in Dossena 1999: 780-781. 292 Citato in Battaglia 1978: 924-925 293 «serve urlar? L’è come dir: serve dir el numer?» (non.: “serve urlare? È come dire: serve dire il numero?”). «No serve ma senza urlar la móra no la sarìa pu móra, fra biceri foga e altro come se fa a no urlar?» (sol.: “Non serve urlare ma senza urlare la móra non sarebbe più móra, tra bicchieri foga e altro come si fa a non urlare?”)
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dell’alcol294. Molti giocatori sostengono che anche la violenza verbale è parte
del duello, del sovrastare l’avversario, una «dimostrazione di forza, forse un
modo per convincerlo, inconsciamente, a dire quello che vuoi tu». Il t(u)ono
di voce ri-unisce i giocatori (e gli spettatori, seppur in misura minore) in un
unico orizzonte percettivo, tanto che è difficile che accada qualcosa
alll’esterno che possa farli riemergere dal gorgo in cui sono alienati. Questo
permette di giocare anche in luoghi dove il livello di decibel sia già alto, come
nella folla o con la musica ad alto volume (feste, concerti, ecc.).
Inoltre, quando lo sfidante guadagna il punto il tono di voce si innalza
ulteriormente e l’espressione si allunga. Se poi il punto è stato estenuante,
combattuto a ritmo incalzante per un tempo che ha messo a dura prova le
capacità degli sfidanti, l’urlo finale del giocatore che vince prorompe
sovrastando quello dell’avversario che invece, avendo perso, ha lasciato
cadere il tono della sua ultima chiamata. Questo urlo sottolinea la vittoria
(anche se temporanea) del giocatore che ha guadagnato il punto, ma ha
esprime anche il gusto della liberazione, del ritorno in sé.
294 che vedremo essere un elemento essenziale nel paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»” «A parte che poi bevendo inizi a non capire più niente e devi almeno farti sentire no? Insomma è così e basta sin dalla notte dei tempi: penso che Achille e Aiace che giocavano raffigurati su quella famosa anfora, magari non erano su una tavola degli alpini però sicuramente urlavano come degli ossessi!»
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3.4. Grammatica
Se qualcuno mi dice che è un avvilire le muse il servirsene soltanto di gingillo e di passatempo, egli non sa, come me, quanto vale il piacere, il giuoco e il passatempo. Per poco non dico essere ridicolo ogni altro scopo.
Michel de Montaigne, Essays Il gioco, si dice, in verità è del diavolo. Ma anche il diavolo è compreso nella creazione.
Friedrich Georg Jünger, Die Spiele
La grammatica di una lingua è “l’insieme delle convenzioni che
danno stabilità alle manifestazioni espressive degli uomini parlanti una
stessa lingua in un dato spazio e in un dato tempo; la descrizione dei
diversi sistemi in cui queste convenzioni si realizzano” 295. Per analizzare
la grammatica di un testo è necessario scomporlo: le parole vanno
scomposte secondo “le caratteristiche di forma e funzione […] in base a
delle categorie fissate dalla grammatica”296.
Analizzando la letteratura della ricerca etnografica sul gioco che
segue l’approccio che De Sanctis Ricciardone definisce
“grammaticale”297 abbiamo rilevato una serie di “categorie”, che sono le
seguenti:
- abilità richieste;
- categoria di persone interessata;
- variabili generazionali;
- quando viene praticato;
- dove viene praticato;
295 Devoto/Oli 1971: 1038. 296 Pittano 1993: 171. “Certo l’analisi grammaticale da sola non basta per capire come funziona la lingua; essa va considerata come un punto di partenza per osservare poi come gli elementi di base possono essere combinati in gruppi pù o meno complessi sino a prodotti finali, che per la lingua sono i testi” (ibid.). 297 cfr. il paragrafo “Una nuova classificazione: i ludemi di Caillois”. Un esempio di “Scheda per la rilevazione dei giochi” è riportato in Appendice.
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- a che fine si gioca;
- osservazioni particolari.
Con esse definiremo la “grammatica” della móra così come viene giocata
allo stato attuale in Val di Non e Val di Sole.
3.4.1. Abilità richieste: la móra «non è un gioco»
La móra può sembrare un gioco semplice perché elementari sono gli
strumenti posti in gioco (la mano e la voce) ed elementari sono le regole
(vince chi indovina la somma delle dita). Per gli sfidanti invece, essere nel
“cerchio magico” (come direbbe Huizinga) è molto più difficile, è necessario
trovare soluzioni immediate e al contempo non esporsi al gioco
dell’avversario.
Ecco come la descrive l’alpinista, scultore e scrittore Mauro Corona
(2004): ”La morra è gioco di scacchi gridato298. Bisogna immaginare la
mossa dell’avversario, rappresentata da un numero, fare mentalmente la
somma con il tuo e battere tavolo chiamando il totale. Ma anche l’avversario
fa lo stesso ragionamento, perciò cambia il numero che tu pensavi chiamasse.
298 nella descrizione del gioco degli scacchi operata da Stefan Zweig (1943) troviamo che essa può valere, mutatis mutandis, anche per la móra: “L’unico fra tutti i giochi escogitati che si sottragga sovranamente alla tirannia del caso e dia la palma della vittoria all’intelletto sovrano, o per meglio dire a una forma particolare di talento intellettuale. Ma non ci si rende già colpevoli di una limitazione offensiva, nel chiamare gli scacchi un gioco? Non è anche una scienza, un’arte, oscillante fra queste due categorie come la bara di Maometto tra cielo e terra, straordinario legame fra tutte le coppie di opposti; antichissimo eppure eternamente nuovo, meccanico nella disposizione e animato solo dalla fantasia, limitato in uno spazio rigidamente geometrico e insieme infinito nelle combinazioni, in continua evoluzione eppure sterile, un pensiero che non conduce a nulla, una matematica che non calcola nulla, un’arte senza opere, un’architettura senza sostanza e nonostante ciò, com’è dimostrato dai fatti, più durevole nella sua essenza ed esistenza di tutti i libri e le opere, l’unico gioco che appartiene a tutti i popoli e a tutti i tempi e di cui nessuno sa quale iddio l’abbia portato sulla terra per ammazzare la noia, acuire i sensi, avvincere l’anima. Dov’è in esso il principio e dov’è la fine? Ogni bambino può imparare le sue prime regole, ogni sciocco può cimentarvisi, e tuttavia all’interno di questo stretto immutabile quadrato esso riesce a produrre una particolare specie di campioni, non paragonabile a nessun’altra, uomini dotati solo per gli scacchi, geni specifici, nei quali visione, pazienza e tecnica operano in proporzioni così precise come nel matematico, nel poeta, nel musicista, solo in una diversa stratificazione e connessione” (1943: 27-28).
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E così via per una sfilza infinita di mosse e contromosse, numeri e
contronumeri. Chi ha più memoria, intelligenza, capacità di sintesi e colpo
d’occhio diventa il morrista fuoriclasse”299.
Stabilito primariamente che nella móra la fortuna gioca un ruolo
limitato (comunque non maggiore rispetto agli altri giochi di competizione),
dobbiamo stabilire quale sia la differenza tra i principianti e i giocatori
esperti, ovvero di quali elementi sia composta l’abilità nel gioco, questa
“tattica” che, consolidata, formi quella che viene definita “esperienza”.
Atomizzando la nozione di “abilità nella móra” quale è sorta dall’osservazione
e dalle interviste ai giocatori, sono venute in superficie diverse abilità,
fortemente interrrelate:
- concentrazione: «lo sfidante deve tentare di trainare l’avversario
verso il numero che lui desidera sempre però evitando di dare il numero che
l’avversario stesso vuole. Perciò nella mente devono essere aperti due cassetti
differenti e pensare contemporaneamente a due cose e non è sempre facile».
È di importanza fondamentale quindi mantenere alta la concentrazione. Il
ritmo incalzante del gioco rende questo ancora più difficile: «apena che
perdes n’atimo la concentrazion, sta’ segùr che i te ciava el pont»300
- studio dell’avversario: «Giugar ala móra l’è intuìr le
sequenze»301. Ogni sistema in natura ha delle regolarità. Ogni giocatore ha
dei numeri, o delle sequenze di numeri, che punta più frequentemente: tali
regolarità rappresentano sempre il suo punto debole. Ogni giocatore deve
seguire il gioco del suo avversario (attenzione) e cercare decifrarle
(combinando memoria, intuizione e abilità statistiche) in modo da sfruttarle
a suo vantaggio;
- abilità matematiche: non che le somme dal 2 al 10 siano di per sé
operazioni difficili, anzi, come notato precedentemente, sono elementari, ma
299 Corona 2004: 127, corsivo mio. 300 (sol.) “Non appena perdi per un attimo la concentrazione, stai certo che ti prendono il punto”. 301 (sol.) “giocare alla móra è intuire le sequenze”.
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il ritmo del gioco impone dei calcoli velocissimi. Infatti, intuite le sequenze
dell’avversario si può decidere di «spetàrlo sul»302 (o «tenderge/ghe sul»303 o
«tirarlo sul»304) su un dato numero e quindi puntare un numero che,
sommato con quello aspettato, dia quello che si è deciso di chiamare, o
chiamare un numero che sia la somma del numero aspettato e del numero
che si è deciso di puntare: in pratica, puntando e chiamando numeri che si
combinino matematicamente con esso (es.: se «se spèta»305 l’avversario sul 2,
si punterà 5 chiamando 7, o 3 chiamando 5, e così via). Se però l’avversario si
avvede di tale strategia, può cambiare gioco e non estrarlo per niente,
aspettando a sua volta lo sfidante;
- riflessi e velocità di esecuzione: pensare a quello che si dovrebbe
chiamare o puntare è (letteralmente) un conto, mentre pensare al numero
che si è scelto di chiamare e passare alla fonazione relativa, e
contemporaneamente pensare al numero che si è scelto di puntare e passare
all’espressione del numero tramite l’estensione delle dita comporta non uno,
ma due passaggi doppi e intermedi che i giocatori devono eseguire
nell’immediato;
- coordinazione: a queste abilità va aggiunta anche quella di
svolgere queste operazioni nell’intervallo che intercorre tra una battuta e
l’altra, cioè fare tutto questo mantenendo il ritmo di battuta;
- capacità di improvvisazione: abbiamo detto che le seppur minime
regolarità nelle puntate possono prestare il fianco alle strategie
dell’avversario. Di fatto i numeri e le sequenza di numeri puntati dovrebbero
essere il più irregolari e caotici possibili, bisogna cioè tentare continuamente
di «cambiar la móra», cambiare il proprio gioco. Questo si scontra però con
la necessità di giocare anche “sul” gioco dell’avversario: se poi si nota che
302 “aspettarlo (l’avversario) sul” e il numero che si è scelto. 303 Termine intraducibile con un solo termine italiano, simile a “sorvegliare”, “fargli attenzione”. 304 “attirarlo, trascinarlo (l’avversario) sul” e il numero che si è scelto. 305 “si aspetta”.
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l’avversario sta aspettando su un numero in particolare è necessario, per non
prestargli ulteriormente il fianco e per disorientarlo e sorprenderlo, cambiare
gioco, puntare più spesso su altri numeri, tentare sequenze nuove, e così via.
In quest’ottica il gioco potrebbe considerarsi come un continuo rincorrersi e
tendersi agguati. Il primo che cade nella trappola perde il punto;
- resistenza306: pur essendo un gioco sedentario, la móra fa della
violenza gestuale e verbale i suoi elementi caratteristici, quindi gli strumenti
che vengono utilizzati sono messi a dura prova. L’alcol inoltre spinge ad
andare oltre i propri limiti, a non sentire fatica e dolore, o comunque a
proseguire. Abbiamo visto che l’urlare può essere considerato un elemento
del gioco307: alla fine di una serie di partite le corde vocali sono messe a dura
prova308 e l’effetto più abituale è un abbassamento del tono di voce. Anche il
battere sul tavolo può provocare, se ci sono state fasi violente o se le tenzoni
sono state prolungate, un indolenzimento della mano. Se il punto (o i punti)
viene trascinato per lungo tempo può diventare estenuante. Anche «reggere
l’alcol più degli avversari» è importante, o perlomeno reggerlo quanto gli
avversari: vedremo infatti309 che il consumo di alcol è una costante della
móra, e che uno stadio troppo avanzato nelle libagioni può rovinare la
prestazione;
- astuzia: la móra è un gioco che si presta per natura alle «astuzie»
dei giocatori. Abbiamo detto che gli strumenti usati (la mano e la voce) sono
molto flessibili e permettono, rispetto ai possibili significati, un’enorme
variazione di espressioni (significanti). Per contro la stessa possibilità di
variare sensibilmente espressione si presta magnificamente a delle piccole
astuzie che vanno dal lecito all’illecito. Il problema della móra, e la fortuna di
306 “La morra, nonostante sembri un gioco semplice, in realtà è faticoso e difficile: il “lancio” dei numeri avviene in frazioni di secondo, a ritmo tambureggiante, con voce altissima, quasi con urla e comporta indolenzimenti al braccio usato, oltre che una progressiva diminuzione delll‘intensità della voce nonché una grande sete, alla quale si poneva e si cerca di porre rimedio... con qualche bottiglione di vino o con qualche fresca birra!” (Galgani 2004). 307 Cfr. il paragrafo “Il t(u)ono di voce”. 308 «Se zuia fin che l’ugola la teign» (non.: “si gioca finché l’ugola tiene”). 309 come vedremo nel paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”.
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queste «astuzie», è che il limite tra il lecito e l’illacito è ben definito dalle
regole tacite ma è di difficile percezione, considerando il ritmo incalazante del
gioco.
Queste “astuzie” si possono dividere in due categorie:
- lecite: modi per mettere in difficoltà l’avversario;
- illecite: vero e proprio «robàr»310.
I “modi per mettere in difficoltà l’avversario” sono semplici
accorgimenti che disturbano la percezione dell’avversario, in modo da
guadagnare quei pochi attimi che possono risultare determinanti per la
conquista del punto. Possono essere vari ma tra questi abbiamo rilevato:
- imporre il proprio ritmo di battuta;
- estrarre combinazioni di dita inusuali o strane (per esempio il
gesto della spanna per 2, o pollice-medio-anulare per 3)311;
- mettere la mano in posizioni regolari ma che ostacolino
all’avversario la comprensione immediata della puntata: per esempio
battendo con il lato esterno della mano (come per battere il pugno sul tavolo)
le dita sono ben distese ma non ben sparpagliate ed è più difficile
distinguerne la quantità;
- muovere la mano in orizzontale al momento della battuta: questo
rende la percezione del numero puntato leggermente più difficoltosa (anche
se da alcuni tale movimento è ritenuto scorretto);
- cambiare la posizione della mano rispetto al centro di battuta
(battere più a destra o a sinistra, verso di sé o verso l’avversario): spostando
la mano dal centro focale della vista dell’avversario la percezione del numero
puntato è leggermente più difficoltosa.
In pratica si tratta di rendere il compito di identificazione delle puntate
il più difficoltoso possibile per l’avversario, non offrendogli “significanti” di
facile interpretazione. Il minimo rallentamento provocato dal questo
310 “rubare”. 311 Cfr. il paragrafo “Le espressioni di puntata”.
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ulteriore “lavoro” può rallentare infatti le altre operazioni necessarie per la
mossa successiva.
«Robàr»312 è invece un’”astuzia” più difficile da mettere in pratica e per
questo è usata soprattutto dai giocatori più esperti e dagli anziani (che la
possono mascherare o giustificare attraverso le malattie e gli acciacchi di
quell’età, o che possono contare sulla reverenza e il rispetto che si portano
verso di loro313). Si tratta di fare un uso elusivo314 degli strumenti del gioco (la
mano e la voce), tentando di ingannare la percezione dell’avversario (o degli
avversari) già provata dal ritmo incalzante del gioco. I metodi classici per
«robàr» ovviamente nascono dall’infrazione delle regole di intellegibilità e di
precisione nelle puntate e nelle chiamate e sono:
- «meter i dedi a mèz»: lasciare un dito esattamente a mezz’aria di
modo che la puntata non sia né precisa né intellegibile, ma doppia (il che
aumenta di molto le probabilità di indovinare) ma possa assumere l’identità
di un numero utile;
- estrarre o ritrarre un dito315 (di più è troppo evidente) quando la
puntata è già stata fatta: si tratta ovviamente di un’azione velocissima e
spesso è difficile stabilire se il dito sia stato mosso regolarmente o no;
- «tirar zo316 de móra»: scendere con la mano un attimo dopo
l’avversario, posticipare la puntata di un attimo, in modo da avere un attimo
di vantaggio;317
312 sottintendendo «el pónt», ovvero “barare”. Se chi guadagna il punto «el lo tues/tos» (“lo prende”), chi lo guadagna con l’inganno «el (lo) roba» (“lo ruba”). 313 «no podes dirghe negot perché i e veci»: (sol.) “non puoi lamentarti perché sono vecchi (e mancheresti di rispetto)”. 314 “«elusívo» - un termine derivato dal latino ex per «da» più ludere, «giocare»; di qui il verbo latino eludere ha preso il senso di «portar via da qualcuno che gioca», quindi «truffare» o «ingannare»” (Turner 1986: 283). 315 il cosiddetto «dé zifolìn», termine intraducibile che potrebbe essere reso con “dito ballerino”. 316 “tirare giù, abbassare ”. 317 «se ti arives zo ensema el zuei l’è leale, se venes zo pu tardi, maiari co la coa del’òcel vedes chel che peta zo l’auter e arives a cambiarlo, atirarli ent e fuer, o a meterlo zo a mez» (non.: “se arrivi giù [con la mano sul tavolo] contemporaneamente il gioco è leale, se scendi più tardi, magari con la coda dell’occhio vedi quello che butta giù l’altro, e riesci a cambiarlo, a estrarle o ritrarle [le dita], o a metterle a metà”). Un giocatore, durante una partita, inveiva
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- usare espressioni poco chiare, che ricordino due numeri ma non
ne nominino chiaramente nemmeno uno: per esempio «sièt»318 è una
contaminazione di «sièi» (6) e «sèt» (7), oppure un mugugno seguito da
«…èi» che può valere come «trèi» (3) e «sèi»;319
- usare espressioni doppie: chiamare cioè due numeri invece di
uno: per esempio chiamare «tre sesanta», «se(i) setanta» o «cì-cialati»320.
Avendo già visto la puntata dell’avversario è possibile cambiare in levare la
propria chiamata.321
Anch’esso è però un modo di giocare: il giocatore che fa uso spesso (o
sempre) di queste «astuzie» è detto «robadór» o «ladro(n)». Ovviamente i
giocatori in questione sono ben consci dell’ostilità nei loro confronti322 ma,
non essendo sempre percepibile o determinabile con sicurezza e anche a
causa del ritmo incalzante del gioco, l’astuzia è una modalità di gioco
utilizzata. Ovviamente «c(u)an(do) che l’è/e masa l’è/e masa»323: tutto
dipende anche dalla pazienza dell’avversario, da quanto è disposto a farsi
gabbare. Per queste questioni nascono spesso delle «beghe: per chesto i l’ha
proibì, en bòt i se scortelava adiritura»324.
contro l’altro gridando «vegnet giò con quei dedi o gonte da vegner su mi a torte» (sol.: “scendi con quelle dita o devo salire io a prenderti?”). 318 (non.) 319 ad esempio, Mauro Corona (2004) racconta che : “Furìn aveva inventato un sistema per barare e rubare così qualche punto all’avvocato. Quando chiamava otto, invece di pronunciare il numero nitidamente, sbraitava: «Uottro» in modo che, a seconda del numero gridato dal legale, Furìn poteva affermare di aver detto otto oppure quattro. Perché uottro dà un suono che assomiglia a otto ma anche a quattro. Basta saperlo gridare con il gargarismo giusto e il trucco è fatto. Difficilmente l’avversario, nella concitazione delle voci, distingue se è l’uno e l’altro” (2004: 128). 320 come abbiamo visto nel paragrafo “Regole operative per la formazione delle espressioni di chiamata” “ci(k)” vale 5 e “cialati” vale 6. 321 «[Un giocatore] vinceva sempre perché molte volte aveva il dito ballerino ma soprattutto perché invece di dire un numero definito diceva:" fdrddg...toni, ydgyed..tanta" "mpreh" e poi diceva "mio", e se l'avversario non stava attento doveva cedere il punto senza battere ciglio». 322 ma, come ricorda Huizinga “[il baro] finge di giocare il gioco. In apparenza continua a riconoscere il cerchio magico del gioco i partecipanti al gioco gli perdonano la sua colpa più facilmente che al guastafeste, perché quest’ultimo infrange il loro mondo stesso” (1938: 15). 323 “quando è troppo è troppo”, l’equivalente di “il troppo stroppia”. 324 “risse: perciò l’hanno proibito, una volta si accoltellavano persino”. Cfr. il paragrafo “La cattiva fama della móra”.
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Riassumendo, le abilità richieste ad un buon giocatore, «en bon
zu(g)iadór/giug(i)adór», di móra sono:
- attenzione;
- memoria;
- intuizione;
- abilità statistiche;
che fanno parte dello studio dell’avversario, e poi:
- concentrazione;
- abilità matematiche;
- riflessi e velocità di esecuzione;
- coordinazione;
- capacità di improvvisazione;
- resistenza;
e ultimo, ma non per importanza, perché può assumere un ruolo
determinante e fa parte tanto quanto gli altri dell’esperienza di gioco:
- astuzia.
3.4.2. Categoria di persone interessata
Non si può individuare una sola categoria di persone interessata al gioco
delle móra, né alcune. Essendo un gioco molto diffuso troviamo persone di
tutte le età, occupazione, livello di istruzione, ecc. La distinzione più
importante, e più evidente, riguarda il sesso dei giocatori: essa è considerata
infatti un gioco da uomini. Tuttavia, mentre una volta era praticato (con
pochissime eccezioni) solo da uomini, ora il numero delle donne che lo
praticano sta crescendo, pur rimanendo, in proporzione, esiguo.
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3.4.3. Variabili generazionali
La móra non è un “gioco per bambini”: le abilità che bisogna mettere in
gioco e la sua stessa velocità (e secondariamente per la violenza verbale e
gestuale che le sono propri) la rende di difficile esecuzione per un bambino.
Essa è, anche a detta dei bambini, un gioco «da grandi», riservato agli adulti:
per questo molti giocatori hanno cominciato a giocarci alle medie o alle
superiori, cioè in età pre-adolescente o adolescente, quando, «per sentirse pu
grandi»325, si inizia a imitare gli adulti nei comportamenti che più li
denotano, quelli interdetti o impraticabili ai bambini. Altri invece hanno
cominciato a giocarci, pur conoscendola e avendola sempre vista praticare, in
età più avanzata, spinti o attirati da amici o conoscenti a loro volta giocatori.
Per quanto riguarda invece le differenze tra giocatori giovani e giocatori
più anziani, quella più evidente è che «i veci i giuga pu pian ma i e pu furbi»
e «i usa numeri pu semplici n’tel ciamàr»326: preferiscono cioè un ritmo più
blando ed espressioni di chiamata più semplici (prediligendo sempre le stesse
espressioni, per di più monotoniche) rispetto ai giovani (e gridano meno, ma
questo è dovuto all’età), ma suppliscono con l’esperienza e la scaltrezza. I
«vecli/veci» hanno vissuto i tempi del proibizionismo, tempi in cui la rivalità
era più accentuata e la posta in palio molto più alta. Avere esperienza quindi
vuol dire, oltre ad avere affinato le tattiche e le strategie di gioco, avera
acquisito piena abilità in quelle «astuzie», lecite o illecite, di cui abbiamo
parlato prima327. Ho visto molti giovani, abili giocatori, «petenàdi»328, battuti
di gran lunga, da «vecli/veci» che non sembravano a prima vista più abili di
325 “per sentirsi più grandi”. 326 (sol.) “I vecchi giocano più lentamente ma sono più scaltri” e “usano numeri più semplici nel chiamare”, ovvero, come abbiamo già visto nel paragrafo “Variabili situazionali e generazionali” delle chiamate. 327 per esempio «l’è chi vecloti che vuel fregiarte. Enveze de dir i numeri i te tira fuer cater strambade che no sas chel che l’a dit e el te la conza via e i te zava el pónt”»: (non.) “sono quei vecchietti che vogliono fregarti. Invece di dire i numeri ti tirano fuori quattro stramberie, che non sai nemmeno cosa hanno detto, poi l’aggiustano in qualche modo e te fregano il punto”. 328 letteralmente “pettinati”.
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loro. Bisogna anche considerare che gli stessi «vecli/veci» fanno leva sul
rispetto e sulla reverenza che viene loro portata per non farsi contraddire e
«portar a casa ponti» che magari a un giovane non sarebbe concesso.
3.4.4. Dove viene praticato
Non avendo bisogno di nient’altro che delle mani e della voce, la móra è
un gioco (per utilizzare un modernismo) “portatile”, o “da viaggio”, nel senso
che può essere praticato ovunque. Qualunque luogo329, purché ci sia lo spazio
per aprire le mani, la luce sufficiente per vederle e la possibilità di sentire la
voce, può essere utilizzato a tal scopo. Dovendo però indicare i luoghi dove si
pratica più spesso si possono citare:
- bar e osterie330;
- sagre paesane e “tendoni”331;
- «c(u)an(do) che se va sul mónt»332: cioè nei boschi, in malga, in
per quanto riguarda i luoghi pubblici; qualsiasi luogo, anche privato,
può risultare adatto, purché lo conceda il proprietario. Di fatto è buona per
329 “nei giochi di abilità i limiti dello spazio del gioco si determinano secondo lo spazio che ogni abilità richiede” (Jünger 1953: 130). 330 per Sabbion l’osteria rappresenta, in contrapposizione a famiglia, chiesa e stalla, il luogo “dove ognuno si liberava in parte dalle inibizioni imposte dai canoni di un’esistenza normalmente schematica e, privo di remore o controlli, poteva eccedere nel bere, nel parlare di sesso, politica, affari, magari malignando su tutto e tutti in barba alle norme emanate dall’autorità costituita proprio per timore di questa zona franca nata spontaneamente nell’ambiente più povero della società” (Sabbion 1985: 37). 331 “teatri-tenda”. «Quelle che una volta erano le sagre paesane sono state progressivamente sostituite con delle manifestazioni più moderne, che delle vecchie sagre paesane hanno solo il nome: di fatto sono solo “bar pù grossi” (“bar più grandi”), che durano due-tre giorni, in concomitanza della sagra, e sono tenuti sotto questi enormi tendoni, più circoscritti e controllabili». 332 “quando si va in montagna”. 333 i «coscriti», cioè i nati lo stesso anno, hanno l’abitudine di incontrarsi ciclicamente e festeggiare.
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giocare ogni situazione sociale “non seria”, ovvero ogni occasione sociale in
cui sia socialmente concesso esprimere lo spirito ludico334: con “seria” si
intende una situazione nella quale la moderazione e la formalità siano
implicitamente richieste, come possono essere, per esempio, assemblee,
cerimonie (sia sacre che profane), funerali, ecc.; “non seria” invece è
qualunque situazione in cui la socialità non sia formalizzata.
Un’altra condizione, riguardo il luogo, è che sia concesso gridare e
battere sui tavoli senza per questo disturbare le altre persone presenti: questa
concessione dipende dagli astanti nonché dal proprietario (o dal gestore) del
luogo, sia esso pubblico o privato. Una sfida di móra infatti, che sia isolata o
circondata da un crogiolo di persone, produce un disturbo acustico non
indifferente: le “fonazioni clamorose”335 e i pugni battuti violentemente sui
tavoli fanno sì che i giocatori (nel “cerchio magico”) non percepiscano
nient’altro che il loro incontro e che gli stessi spettatori abbiano difficoltà a
sentirsi se si parlano. È perciò comprensibile che all’esterno del crogiolo il
“muro sonoro” proveniente da una partita risulti abbastanza fastidioso.
Negli ultimi anni, da quando cioè la morra è stata di nuovo legalizzata,
stanno progressivamente aumentando i tornei dove i giocatori si possono
sfidare in una situazione libera e istituzionalizzata.
3.4.5. Quando viene praticato
Il pionieristico etnografo Bolognini (1882), girovagando per il Trentino e
studiando le abitudini dei suoi indigeni, osserva, parlando dei giochi, che
“nelle osterie poi [in inverno], specialmente nei dì festivi, si giuoca alla
morra. […] Appena la stagione si fa un po’ benigna, nelle osterie continua il
334 Goffman ricorda che “coloro che si trovano in un incontro accessibile sono obbligati a mantenere la loro attività in sintonia con l’ethos dell’occasione sociale, essendo obbligati a esibire all’interno della situazione un umore e un coinvolgimento occasionali” (1963: 171, corsivo mio). 335 Dossena 1999: II, 780.
91
giuoco della morra.”336 Adesso come allora il gioco della móra è praticato
tutto l’anno, soprattutto nei “dì festivi”. La frequenza con cui viene praticato
ha però un picco nei mesi estivi, l’unico periodo in cui il clima concede di
stare all’esterno senza problemi: a questo periodo corrisponde la maggior
concentrazione di occasioni sociali (sagre, feste, tendoni, matrimoni) e perciò
maggiori possibilità di trovare qualcuno che voglia «far doi ponti»337.
3.4.6. A che fine si gioca
Stabilito che la móra, pur ritornando anche nelle feste cicliche, è un
gioco “svincolato dai cicli”, potendo “aver luogo in spazi e tempi arbitrari”338,
bisogna stabilire per quali fini gli uomini ricorrono ad esso.
Si tratta di gioco fine a se stesso quando viene praticato per puro spirito
ludico, per divertimento, categoria nella quale rientra sia la sana
competitività che la socializzazione stessa. Questa è la prima grande
categoria, che comprende la quasi totalità delle manifestazioni spontanee.
Un altro uso che se ne fa è per prendere una decisione, «farla fuer/for
ala móra»339, come facevano i Romani con la micatio340: la sua esssenzialità
(non serve alcuno strumento esterno), la sua (possibile) brevità e
l’incontestabilità del verdetto fanno della móra uno strumento per prendere
decisioni chiare e definitive341. Una volta «ala móra» si potevano dirimere
336 1882: 242-243. 337 Cfr. il paragrafo “Le forme di invito”. 338 Jünger 1953: 271. Per una trattazione più approfondita del “ciclo dei giochi” si veda Jünger 1953: 265-276. 339 “farla fuori alla móra, sbrigarla (la faccenda) alla móra”. 340 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”. 341 “Il gioco appare così come la forma più complessa e sofisticata di conflitto che traduce in senso culturale e poi astratto le cariche aggressive presenti in natura. Non è perciò il conflitto che è modellato sul gioco, è il gioco che può essere visto come una forma sublimata di conflitto. […] Talvolta è possibile, attraverso la mediazione e il gioco trovare l’accomodamento o la sublimazione di situazioni conflittuali” (Mongardini 1989: 23, corsivo mio). “In questo senso il gioco ha una funzione integratrice, in quanto consente mutamento senza conflitto. Traducendo il conflitto su un piano compatibile con la socialità il gioco lascia spazio all’individualità all’interno della cultura senza peraltro mettere in crisi le certezze sulle quali questa si fonda” (ibid.: 71).
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anche questioni importanti342 ma attualmente viene utilizzata quasi
esclusivamente per decidere cose di poco conto, ma nelle quali serve una
decisione imparziale, come per esempio:
- scegliere il compagno di gioco: in caso non si sappiano decidere i
componenti delle squadre, due giocatori possono fare un punto secco, «en
pont sec/sek», al vincitore del quale spetta di scegliere il suo compagno;
- giocando alle carte, decidere a chi spetta di «far carte”»
(sempre con «en pont sec/sek»);
- decidere chi paga da bere: alla móra la posta in gioco è quasi
sempre un giro, cioè chi perde paga, ma capita che questo sia solo il pretesto
per iniziare a giocare.343
Come abbiamo visto la móra è un gioco che si è sempre prestato
all’azzardo344: oggi come allora, come accade per altri giochi altrimenti
innocui quali, ad esempio, i giochi di carte (il poker quanto la briscola) o il
calcio (in tal caso non in prima persona ma in terza), alcune persone giocano
anche del denaro puntandolo sulle loro sfide di móra. Si tratta però di un
fenomeno minore, la cui frequenza è minima rispetto alla normale situazione
ludica.
3.4.7. Osservazioni particolari
Elementi della ricerca che non hanno trovato spazio nelle categorie di
esposizione ma che ho ritenuto abbastanza importanti da essere riportati
sono:
- lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale;
342 «come el termén de’n prà o robe del genere» (sol.: “come il confine di un campo o cose del genere”). 343 o anche »con me fradel per decider chi che ga de nar a tor la legna o far na certa roba o dir na certa roba o dar na certa roba» (sol.: “con mio fratello per decidere chi deve andare a prendere la legna o fare una certa cosa o dire una certa cosa o dare una certa cosa”). 344 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”. Gli stessi termini che ho utilizzato, “chiamata” e “puntata”, sono propri di molti altri giochi d’azzardo.
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- la differenza tra testa a testa e dói contra dói;
- «tegnìr/tègner el pónt»;
- il piano di battuta;
- «bater pari», «bater dispari»;
- «el segnadór»
- «San Pero dis el vero»
- alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»;
- le forme di invito;
- gli spettatori;
- la cattiva fama della móra.
3.4.7.1. Lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale
In una partita di móra lo sguardo è molto importante. Quando gli
sfidanti “sguainano” il pugno e lo mettono in posizione d’apertura, spesso si
guardano fissamente negli occhi345, «è uno sguardo di sfida mentre si
studiano, tentando di leggere nel pensiero dell’avversario346, pensando al
numero che potrebbe puntare. Pensano ai numeri già puntati in prima
battuta, ai suoi numeri preferiti e al fatto che lui sta pensando la stessa cosa e
quindi metterà numeri inusuali, o proprio perché tu pensi che metterà
numeri inusuali ne userà uno usuale in un gioco di rimandi in cui, sul tanto
ragionare, vince il caso». Seppur nella battuta iniziale (la prima battuta del
gioco vero e proprio), statisticamente parlando, sia il caso a determinare se
qualcuno guadagna il punto o se si prosegue, «far el pont sec/sek»347,
guadagnare il punto di prima battuta, è considerato una grande abilità, frutto
345 “era una bolgia di sbraitamenti e sguardi avvinazzati che ogni tanto diventavano biechi al solo scopo di intimorire l’avversario” (Corona 2004: 44). 346 corsivo mio. L’alpinista e scrittore Mauro Corona (2004) descrive così un suo amico giocatore: “Roberto è un giocatore dall’abilità diabolica, un chiaroveggente che legge nel cervello avversario come su una lavagna il numero che di lì a un secondo butti sul tavolo assieme alle dita. Non gli resta che fare la somma con il suo e il punto è secco” (2004: 43). 347 “fare il punto secco, al primo colpo”.
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di studio dell’avversario e di intuizione, e applaudito dal pubblico. «Quale
maggior prova di forza è battere l’avversario al primo colpo, senza possibilità
di replica?348».
Durante il gioco vero e proprio lo sguardo rimane, ovviamente, fisso
sulle mani dell’avversario, a seguire le sue puntate.
Nel momento però della battuta finale, la chiamata vincente si allunga e
si alza di tono e tutto il corpo dello sfidante che ha fatto punto si protende
(più o meno) verso l’avversario in un gesto di supremazia (tanto più
imponente quanto è stato combattuto il punto): anche lo sguardo torna
sull’avversario ed è lo sguardo del vincitore. Questa gioia che prorompe dura
però poco (a parte nel punto che vince la partita) perché subito si ricomincia
daccapo con un altro punto, in posizione di partenza e con gli occhi negli
occhi.
3.4.7.2. Differenze tra il testa a testa e il dói contra dói
Testa a testa rimanda forse alla contiguità delle teste degli sfidanti, che
stanno piegate ad osservare le mani. Questa terminologia rimanda più a un
duello che a un gioco vero e proprio («la móra è un gioco immediato, senza
mediazione, come la lotta: una lotta senza contatto»349) e di un duello ha il
ritmo serrato e l’impossibilità di avere una visione prospettica sul gioco
dell’avversario, cui devono essere trovate contromisure nell’immediato. Il
ritmo è serratissimo: »Nt’el testa a testa no puedes né pensar né pousar»350.
Il dói contra dói invece è la forma più complessa e più socializzata del
gioco: il giocatore che non è impegnato nelle tenzoni tiene il braccio (e il
pugno) ritratto vicino al corpo, quando è il suo turno lo “sguaina” di nuovo e
mettendolo in posizione d’apertura. Tali momenti di inattività sono utilissimi
348 «Come Mohammad Alì nel famoso incontro contro Sonny Liston». 349 parafrasando Mongardini (1989: 34) “con la distanza il conflitto diventa gioco”: “con la distanza la lotta diventa morra”. 350 (non.) “Nel testa a testa non puoi né pensare né riposare”.
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perché danno la possibilità di studiare il gioco degli avversari e di dare
consigli (ovviamente a gioco fermo, tra un punto e l’altro) al compagno che
sta giocando. Essa permette anche di poter giocare più tempo: avendo dei
tempi morti c’è il tempo di riposare e rifiatare. In questa modalità vale meno
l’orgoglio personale e più quello di squadra. In essa infatti rientrano le sfide
che mettono di fronte compagnie, frazioni, paesi, valli diverse351. Se non ci
sono coppie consolidate il compagno viene scelto in base a questi criteri: per
poter cioè contrapporre due schieramenti della stessa “bandiera”.
In genere, giocandosi quasi sempre in situazioni conviviali, la modalità
prescelta dipende semplicemente da quanti giocatori siano disponibili: se la
quantità è ritenuta insufficiente si possono anche reclutare altri giocatori tra
gli astanti, chiedendone la disponibilità: un classico è che si cerchi «el
c(u)art»352, il quarto, come nelle partite a carte. In sua mancanza si può
giocare in tre, ovvero in due sfidanti impegnati in un testa a testa, mentre il
terzo aspetta di sfidare il vincitore dei cinque punti canonici. Questa modalità
è però poco interattiva, pertanto è preferibile cercare «el c(u)art».
Se invece i giocatori sono più di quattro si può giocare «a batifondo»:
oltre alle due coppie ce n’è sono altre, o altri giocatori, che subentrano, a
partita finita, alla squadra che viene sconfitta, o a chi vuole fare una pausa, o
abbandonare il gioco.
351 “lo scontro […] può costituire un mezzo attraverso cui l’antagonismo fra i due gruppi rappresentati dalle squadre trova modo di penetrare in un incontro in forma controllata e di trovare così una certa espressione” (Goffman 1961: 82). 352 È interessante il parallelo col passato descritto dal Bolognini (1882) “Che pandemonio dentro le osterie dei nostri villaggi, nei giorni festivi e dopo le sacre funzioni! Gruppi umani che si sfiatano al rumoroso giuoco della morra; […] chi attorno a un tavolo, in vari atteggiamenti, coi bicchieri colmi, sorseggiando devotamente, discutendo di cose poco importanti, con un vocio da far intronare qualsiasi orecchio; e l’oste che gira attento, o fa il quarto quando manca nel gruppo dei giocatori” (1882: 137-138).
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3.4.7.3. «Tegnìr/tègner el pont»
Giocando in dói contra dói ognuno dei compagni di squadra è libero di
seguire la propria strategia, pur considerando i consigli dell’altro. Vi è però
un caso in cui si crea una specie di obbligo informale.
Nel caso in cui il compagno che (si) sta battendo stia “aspettando”353 il
suo avversario su un numero di puntata, ovvero stia provando combinazioni
che gli farebbero guadagnare il punto se il suo avversario puntasse il/i
numero/i che si ritiene punti più spesso degli altri, e perda, il compagno deve,
o dovrebbe, «tegnìr/tègner el pont», cioè aspettare l’avversario sullo stesso
numero su cui lo stava aspettando il suo compagno, almeno per la battuta
iniziale.
Ciò si rileva anche importante a livello strategico poiché vale come
comunicazione tra compagni su quelli che si ritengono essere i punti deboli
degli avversari, ovvero i numeri su cui “aspattarli”.
Questo è un tratto che, a quanto pare, permette di distinguere i “veri”
giocatori di móra, i cultori, dai giocatori saltuari.
3.4.7.4. Il piano di battuta
In molte zone dell’Italia, la morra si pratica abitualmente, o
preferibilmente, in piedi354; nella zona da noi studiata invece, seppur si giochi
anche in tale posizione, è abitudine che i due sfidanti si mettano seduti uno di
fronte all’altro355, con un “piano di battuta” posto in mezzo a loro, che può
essere un tavolo, un banco, un deschetto356, ecc. Tale piano, posto
353 Cfr. il paragrafo “Abilità richieste”. 354 vedi l’incisione di Bartolomeo Pinelli, nonché “stanno quasi sempre in piedi” (http://www.basilicata.cc/artistilucani/mgn_ceneri/09.htm); “stando in piedi” (GDE 1994: 1052). 355 O quattro, divisi in due sqaudre da due, dove i compagni sono seduti di fianco, mentre gli avversari di fronte. Cfr. il paragrafo “Quantità dei giocatori”. 356 come i “bravacci” del Manzoni (1827: 141).
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preferibilmente all’altezza del gomito (in modo che in battuta l’avambraccio
sia in posizione più o meno orizzontale) o più in basso (ovviamente non più
in alto), viene utilizzato ai giocatori per battere («bater») il pugno sopra di
esso. Anche chi gioca in piedi preferisce avere un ripiano e spesso è il banco
del bar a svolgere questa funzione;. Ciò non toglie che in mancanza di piani
di battuta si giochi senza, fermando il pugno su un piano puramente
immaginario; tuttavia questa eventualià accade abbastanza raramente357.
I piani di battuta migliori sono, ovviamente (per le genti di montagna),
quelli di legno, perché assorbono meglio i colpi di battuta: particolarmente
apprezzate sono le tavole di legno, quelle che si trovano in montagna o quelle
ripiegabili utilizzate alle feste e ai tendoni.
Questo bisogno del piano di battuta è, a quanto pare, “solo una
questione di abitudine”: alcuni sostengono che, giocandosi la móra quasi
sempre nelle osterie, il tavolo e le sedie (o la panca), da elementi di supporto
si siano trasformati in elementi essenziali358. Più che altro essenziale nel
gioco è la possibilità di battere359 su questo ripiano, per dare il ritmo ma
anche per il clamore che queste battute genera. Ovviamente è sconsigliabile
appoggiarci i bicchieri (pieni360), almeno durante le fasi di gioco, poiché
potrebbero perdere liquidi o rovesciarsi.
La conseguenza più evidente di questa “abitudine” è che il piano,
rispetto allo stare in piedi, garantisce una maggiore onestà da parte dei
giocatori: le mani (e le dita distese, e non) risaltano maggiormente e sono più
visibili, se poste in contrasto con uno sfondo vicino, e il più delle volte 357 alcuni addirittura, giocando in piedi e senza un ripiano, utilizzano la mano sinistra in sua vece, battendo il pugno sul palmo sinistro aperto. «eri a Trent e giugavi en pè contra en sardo: me sentivi però che me mancava el taolin ‘ndo che bater, alora batevi sula zanca» (sol.: “ero a Trento e giocavo in piedi contro un sardo: sentivo però che mi mancava il ripiano dove battere, allora battevo sulla sinistra). 358 Goffman (1961) sostiene a questo proposito che “ambienti cultuali diversi favoriscono tipi diversi di giochi, e certi cambiamenti storici nella strumentazione materiale di un gioco sembrano rispondere ai mutamenti sociali avvenuti nell’ambiente in cui il gioco viene giocato” (1961: 82). 359 come abbiamo visto, il verbo “bater” ritorna spessissimo nella terminologia dela móra. 360 Altri elementi che vedremo essere essenziali nel paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”
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monocromatico; l’altezza cui devono fermarsi è necessariamente la stessa
poiché altrimenti la puntata risulterebbe neutra e per questo varrebbe 1 361; il
punto in cui si fermano è quasi sempre lo stesso e può variare solo
bidimensionalmente, sulla superficie del piano. Al contrario, giocando i piedi,
le mani e le dita sono meno visibili, esssendo lo sfondo vario e indistinto,
mentre il punto in cui si devono estrarre le dita può variare
tridimensionalmente, nell’aria tra i due sfidanti: in questa posizione
risulterebbe più facile imbrogliare. Non è detto però che tale conseguenza sia
anche l’origine di quest’abitudine e, ovviamente, non è dato saperlo .
3.4.7.5. «Bater pari», «bater dispari»362
Abbiamo visto che, nel «dói contra dói», «bater pari» significa giocare
con il giocatore avversario che si ha specularmente di fronte, «bater dispari»
invece giocare diagonalmente, contro l’altro avversario.
Si comincia sempre battendo pari363. Questa regola tacita, e
l’espressione che ne deriva, non è, come potrebbe sembrare, una semplice
consuetudine, ma una convenzione che ha una motivazione ben precisa. Le
espressioni “pari” e “dispari” non si riferiscono solamente alle posizioni dei
giocatori (pari è l’avversario di fronte e dispari quello in diagonale); partendo
in tal modo infatti, in qualunque momento della partita, battendo pari la
somma dei punteggi totalizzati fino a quel momento delle due squadre sarà
necessariamente pari (partendo da 0-0, 2-0, 1-1, ecc.), battendo dispari
invece sarà necessariamente dispari (1-0, 2-1, 3-0, ecc.). In caso i giocatori
perdano la computa dei punteggi (e questo capita abbastanza spesso) tale
conoscenza permette, se non di risalire al punteggio esatto che intercorreva
361 Cfr. il paragrafo “Le espressioni della puntata”. 362 “battere pari”, “battere dispari”. 363 ricordiamo che chi tra i due sfidanti guadagna il punto, ha il diritto di sfidare l’altro avversario, e così via. I punti sono guadagnati dal singolo sfidante, ma sono conteggiati nel punteggio della squadra.
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tra le due squadre, perlomeno di stabilire quale fosse più o meno, l’entità del
distacco: da questa constatazione il punteggio viene, per così dire,
“(ri)contrattato”, presumendo che entrambe le parti siano in buona fede. Se
invece si vuole evitare, tale evenienza, di perdere cioè la computa del
punteggio, si può ricorrere a un’altra persona, che tenga la conta dei punti,
«el segnadór».
3.4.7.6. «El segnadór»
Abbiamo visto che nella foga del gioco è possibile che i giocatori perdano
la conta di punti realizzati ed è necessario perdere tempo per risalire al
(presunto) punteggio. Per questo motivo, e per evitare beghe tra i giocatori,
spesso c’è una figura che ricopre questo ruolo, il “quinto uomo” della móra,
esterno e imparziale364, el segnadór. El segnadór segue attentamente il gioco
e tiene il conteggio dei punti realizzati da ciascuna squadra. Può tenerlo con
le dita delle mani (nella destra il punteggio della squadra che sta alla sua
destra e viceversa) o segnandolo su un foglietto365.
Il suo compito specifico è quello di giudicare la validità dei punti
guadagnati, comunicare punteggi, distacchi, e annunciare quando la partita è
«verda» e «ros(s)a». In pratica egli non svolge solo il ruolo passivo di
segnapunti ma quello corrispondente a un giudice o a un arbitro: viene
consultato in caso di disaccordo e il suo verdetto è il decisivo.
Il ruolo del segnadór può anche essere preso da un giocatore che poi
subentra nel cerchio, lasciando il ruolo al giocatore che ne esce.
364 o più o meno tale: «a bote te giates che as perdù ‘l cont e alora el das a un o al’auter, o a chel che gias pu simpatia» (non.: “a volte ti ritrovi ad aver perso il conto e allora lo dai a uno o all’altro, o a quello di cui hai più simpatia”). 365 Alcuni esempi di questi foglietti segna-punti, con le regole di compilazione, sono riportate in appendice.
100
Inoltre «el segnadór no’l paia mai no, el segna e basta, el béu a uf chél,
ma chéi che paia l’è sèmper chéi che pèrt»366, in pratica prestandosi per
questo ruolo ha sempre diritto a partecipare ai giri (di vino o birra, offerti dai
perdenti), purché ordini prima della fine della partita, altrimenti egli stesso
deve pagare.
3.4.7.7. «San Péro dis el vero»367
Qualora vi fosse una discussione sulla validità di un punto, attraverso
l’espressione «San Péro dis el vero» il giocatore dichiara nullo il punto
appena giocato, in modo che decada anche la materia di discussione, e
richiede formalmente che il punto venga rigiocato.
Con questa espressione si rimanda il verdetto alla sorte, che darà
ragione a chi guadagnerà, senza equivoci, il punto successivo. Questa
espressione ricorda la concezione della fortuna degli Antichi Romani, dove la
vittoria al gioco rispecchiava il volere della dea Fortuna e al conseguente uso
che si faceva della móra (della micatio digitis), per dirimere cioè questioni
dubbiose con un verdetto inappellabile.368
In questo caso “San Pero”, latore delle chiavi del paradiso, veste i panni
del dispensatore di fortuna similmente alla dea latina, in una concezione che
ne snatura quella originale cattolica e si avvicina invece a una visione pagana.
366 “el segnadòr non paga mai, segna e basta, beve a go-go quello, ma paga sempre chi perde”. 367 “San Pietro dice il vero”. 368 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”.
101
3.4.7.8. Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non
scritta»
L’(apparentemente) inscindibile binomio alcol-móra è un fatto antico369
e assodato, per una serie di motivi:
- chi perde paga da bere370: la posta371 in gioco è, non di solito, ma di
regola, «en ziro/giro», un giro di bicchieri, generalmente di vino o birra.
Talvolta, come abbiamo visto372, si comincia a giocare proprio per decidere
che debba pagare da bere;
- generalmente si gioca in luoghi pubblici o comunque in occasioni
conviviali dove l’alcol, per tradizione, non può mancare e «se stas io co la
compagnia cògnes molàrla, no g’è ‘ngot da far no»373: i giocatori che si
apprestano ad iniziare una partita di móra sono già (perlomeno) un po’
alticci;
- «ghet da tegne(r)te carburà»374: la violenza gestuale e verbale che
la móra richiede, necessita anche di una perdita delle inibizioni, di
un’irruenza aumentata rispetto alla normale situazione conviviale e «il bere
svela il lato più istintivo, più animale375 e ti permette di lasciarti andare senza
inibizioni»376. Spesso, sempre a detta di molti, si inizia a giocare quando il
tasso alcolico è già alto377: tanto che il maggior numero di nuclei di giocatori
369 già il Verga scriveva “se facevano un litro alla morra” (Battaglia 1978: 925); nonché i “bravacci” del Manzoni che giocavano “gridando tutti e due ad un fiato e versandosi or l’uno or l’altro a bere d’un gran fiasco posto tra loro” (1827: 141). 370 Per Muro Corona (2004) la posta in gioco è “Un litro[di rosso] a partita” (2004: 338). 371 la differenza tra posta e premio, tra manifestazione spontanea e torneo, è che la posta viene “sborsata dal giocatore. Ciò la differenzia dai premi che invece sono messi in palio da non giocatori” (Jünger: 1973: 151). 372 Cfr. il paragrafo “A che fine si gioca”. 373 (non.) “se stai in compagnia devi lasciarti andare [a bere], non c’è niente da fare”. 374 (sol.) “devi mantenerti carburato”. 375 a questo proposito Nietsche sosteneva che“con l’alcool […] ci si riporta a stadi di civiltà che si erano già superati (o che comunque sono sorpassati). Tutti i cibi ci rivelano qualcosa del passato da cui proveniamo” (citato in Pozzoli 1993: 251). 376 «giocare se non si beve non è bello, sei inibito», «il gioco è bello ma da stenc [ubriaco] la sfida è più sentita». 377 “praticamente sempre si inizia a giocare che si è già ubriachi”.
102
si può contare non all’inizio dell’occasione, ma di solito durante la sua
seconda metà, o comunque a festa inoltrata;
- «Pu beves e pu óses, pu óses e pu te ven sé»378 : continuando a
giocare la gola si secca ed è necessario “bagnarla”379, continuando così in un
circolo vizioso, che accelera l’assunzione di alcol.
In pratica l’alcol è ritenuto dai giocatori un elemento ludico
«fondamentale», «indispensabile», «imprescindibile»380: «sono secoli che si
gioca alla móra da ubriachi: ormai è una regola non scritta del gioco».
La domanda che sorge spontanea è: se l’effetto positivo (per il gioco)
dell’alcol (“un certo grado di disinibizione delle emozioni e dell’istintività”381)
permette una maggior irruenza gestuale e verbale ed è, come abbiamo visto,
«complice del gioco» e «regola non scritta», i suoi effetti collaterali (“caduta
del controllo per quanto riguarda l’assunzione ulteriore di alcol, per cui con
l’aumento della dose si registrano disturbi visivi, riduzione del campo
dell’attenzione e della coscienza, rallentamento nel tempo di reazione agli
stimoli, scoordinazione motoria, torpore”382) non dovrebbero complicare le
abilità necessarie, compromettendo la prestazione dei giocatori? È vero, e
378 (sol.) “più bevi e più urli, più urli e più ti viene sete”. 379 «Non è che bisogna bere, ma urlando la bocca si secca». 380 questa convinzione è ben evocata dalle metafore che mi sono state riferite: «ò giugà amò senza bever ma come dir en osel che vola senza ale. Par brut da dir […] che le vera l’alcol le come el detonatore che fa sciopar la dinamite. El te fa senter de pu la móra ghe metet pu cor se ghet gio doi bicieri le inutile. Si n’o vist amò giugar senza che i abia bevù ma come ripeti le en bosch senza alberi» (sol.: ho giocato ancora senza bere ma è come dire un uccello che vola senz’ali. Sembra bruttto da dire che è vero che l’alcol è come il detonatore che fa scoppiare la dinamite. Ti fa sentire di più la móra ci metti più cuore se hai giù qualche bicchiere è inutile. Sì ne ho visti ancora giocare senza che avessero bevuto ma come ripeto è un bosco senza alberi” ), «senza il calore di un buon vecchio bicchiere (vino o birra non importa) è come dire giocare a calcio senza tacchetti: prima o poi scivoli!», «zugiar ala móra senza bever l’è come ciaminar sui zinocli: fadigia per ‘ngot» (non.: giocare ala móra senza bere è come camminare sulle ginocchia: fatica per niente”), «mi giugadori de móra astemi no n’ai mai vist no» (sol.: “io giocatori di móra astemi non ne ho mai visti”). 381 Galimberti 1994: 21. 382 ibid
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tutti lo riconoscono, ma la maggior parte continua a sostenere che l’alcol sia
una parte integrante del gioco383.
Evidentemente, a detta dei giocatori, l’effetto disinibente ed euforizzante
dell’alcol, nonché quello socializzante, supera per importanza nel gioco (entro
certi livelli di assunzione) l’handicap percettivo e motorio che esso stesso
determina.
L’alcol è probabilmente anche la causa indiretta della proibizione della
morra e della cattiva fama di cui gode: la liberazione (apparentemente
incivile) delle emozioni che il gioco e l’alcol assunto facilitano e alimentano è
sicuramente uno dei fattori che provocarono le risse tra giocatori, e i lutti che
talvolta ne sortivano.
Curiosamente, gli stessi (o alcuni dei) giocatori che da un lato
sostengono l’imprescindibilità dell’assunzione di alcol nel, e per il gioco,
dall’altro tendono a mantenersi più sobri in occasione dei tornei, considerati
come occasioni speciali dove vittorie e sconfitte sono definitive e il risultato,
rispetto ad una comune situazione-móra, passa in primo piano384.
3.4.7.9. Le forme di invito
Premesso che nessuno chiede «facciamo una partita di morra?», sono
diversi tipi di espressioni per invitare qualcuno a partecipare al gioco, a
entrare nel “cerchio magico”:
- «fante/fente na móra/móretina/móredèla?»385
- «fante/fente doi (o trei/quatro/zin’/cin’) ponti/colpi (ala
móra)?»386
- «fente doi quindeŝi?»387
383 «se giuga a bever» (sol.: “si gioca a bere”). In questo la móra ricorda forse le “feste delle libazioni” citate da Huizinga (1939: 86), in cui “si rivaleggiava […] nel bere”. 384 Cfr. il paragrafo “Oggetto di studio: la situazione-móra”. 385 “facciamo una móra/morettina?”. 386 “facciamo due (o 3, 4, 5) punti/colpi ala móra?”. 387 (sol.) “facciamo due quindici?”.
104
- «la batente?»388
- «la smaciante?»389
3.4.7.10. Gli spettatori
Gli spettatori, ricorda il sociologo Erving Goffman (1961), “sono spesso
parte integrante dell’incontro di gioco; sono partecipanti, non giocatori, e
possono avere un ruolo di primo piano nell’incontro, senza averne alcuno
nella partita”390. Questo ruolo viene definito e specificato da Valerio Valeri
(1979) che afferma che “gli spettatori si identificano nei giocatori […] e i
giocatori negli spettatori”391: questa situazione speculare trova conferme nel
comportamento di giocatori e spettatori rilevato nella ricerca sul campo.
Gli spettatori che assistono a una partita di móra sono, per lo più,
giocatori a loro volta: oltre ad essere spesso incaricati di recuperare i
rifornimenti liquidi (generalmente alcolici), essi seguono il gioco
commentando tra di loro pregi e difetti dei giocatori e delle loro tattiche di
gioco, applaudendo quando vedono “bei ponti”, criticando quando invece
vengono concessi facilmente, «reg(i)alàdi»392, e disapprovando quando un
giocatore «el ròba». La vista prospettica che garantisce l’essere al di fuori del
“cerchio” permette loro di essere più lucidi e analitici nello studio dei
giocatori. Se sono amici o conoscenti può succedere che intervengano
bisbigliando consigli all’orecchio di un giocatore, altrimenti «è meglio per
loro che non disturbino»393, perché potrebbero essere presi a male parole. Il
388 “la battiamo?”. 389 “la battiamo forte?”: da «smaciàr» (non.: “battere forte”). 390 Goffman 1961: 50. 391 Valeri 1979: 822. 392 “regalati”. 393 «meio per lori che no i dàia fastidi».
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tono di voce non deve mai superare quello dei giocatori, per non
deconcentrarli394: «guai se i parla masa, no se puel no»395.
Nei giocatori invece questa identificazione si manifesta con
un’accresciuta competitività e accanimento396. Gli spettatori sono, come
sosteneva Jünger, “testimoni del gioco”397, nel bene come nel male. La loro
presenza infatti garantisce anche una maggiore correttezza: se uno sfidante
«el ròba»398 viene subito criticato, e questo legittima le proteste degli
avversari.
3.4.7.11. La cattiva fama della móra
Notoriamente la móra gode, come tutte le cose proibite, di una cattiva
fama, tanto che il Muratori la definì “giuoco dell’infima plebe”399:
storicamente questo trova legittimazione nelle ragioni stesse per cui venne
proibita (nel 1931, anno della più recente proibizione, come nelle epoche
precedenti400), e cioè per le risse (e i lutti) che spesso ne nascevano, per
accuse di gioco scorretto, o semplicemente per evitare di pagare gli alcolici
394 “Dallo spettatore si pretende che stia in silenzio limitandosi a manifestare consenso e disapprovazione. Se non sta in silenzio e nelle sue esternazioni supera la misura, disturba o distrugge addirittura il gioco” (Jünger 1953: 169). 395 (non.) “guai se parlano troppo, non si può”. 396 «se g’è io spetatori che varda te acanises amò de pu, vues venzer de pu. Se gias el publico che te sostiene alora la ven pu animada la fazenda» (non.: “se ci sono spettatori che seguono ti accanisci ancora di più. Se hai il pubblico che ti sostiene allora la faccenda diventa più animata”) 397 “Essi sono testimoni del gioco. tra loro ci sono anche esperti. Pertanto le aspettative verso il gioco crescono; diventa più difficile, più ricco di arte. I cattivi giocatori vengono eliminati, i buoni diventano maestri, campioni, virtuosi, artisti” (Jünger 1953: 171). 398 “Gli antagonisti vengono applauditi a ogni successo che riportano. Il loro combattimento ha le sue peripezie che corrispondono alle diverse fasi e ai diversi episodi di un dramma. […] ogni concorrente [si sente in obbligo] di non deludere un pubblico che lo acclama e al tempo stesso lo controlla. Si sente alla ribalta, è obbligato a recitare nel miglior modo possibile, vale a dire da una parte con la massima correttezza e, dall’altra sforzandosi in ogni modo di riportare la vittoria” (Caillois 1958: 92). 399 citato in Battaglia 1978: 924. 400 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”.
106
che si erano bevuti durante la partita (solitamente a carico dei perdenti).401
Attualmente la móra ha perso questa accezione (estremamente) violenta:
rimane però un gioco violento negli atteggiamenti e nelle fonazioni, ed è
collegato, come abbiamo visto, all’uso (e all’abuso) di alcol402. Per questo è
considerato, da chi non lo gioca e non lo apprezza, un gioco da «gent che fa
gazèr»403, «malgari»404, «rozzi», «ignoranti», «ubriaconi»405, «violenti». In
effetti una partita di móra, per chi non ne è interessato, può risultare
abbastanza fastidiosa da essere osteggiata, per via delle urla e dei colpi. Molti
gestori di locali pubblici non permettono che si pratichi, altri invece la
accettano, o la “sopportano” per via delle pingui entrate che questo garantisce
loro. Inoltre in una compagnia più ampia un circolo di giocatori di móra
costituisce un cerchio chiuso e isolato406 all’interno del quale vi è un unico
punto focale, la partita in atto.
401 Mauro Corona (2004) critica, come tanti altri, la sua proibizione sostenendo che : “È stato bandito perché, dicono, inviti alla rissa. Invece non è così. Il rissoso cerca rogne anche se va a messa, o a bettezzare un figlio, a matrimoni o dove volete. È questione di carattere, non di gioco. ho assistito a baruffe da Far West, con feriti e contusi, tra giocatori di carte. Eppure nessuno si è sognato di proibire le carte. Ho visto risse tra giocatori di biliardo con fior di steccate sulle teste. E così a dama, a scacchi, al calcio. In tutti i giochi vi sono stati scontri tra contendenti. Si tratta di educazione, autocontrollo, rispetto reciproco, non di gioco” (2004: 128). 402 Cfr. il paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”. 403 (sol.) “gente che fa casino/rumore”. 404 letteralmente chi tiene una malga, l’alpeggio estivo delle mucche, ma inteso in senso lato di persona rozza e ignorante. 405 «stenchèra» (sol.), «‘mbriaghela», «‘mbriagoni». 406 il “cerchio magico” di Huizinga.
107
3.5. Sintassi
Così un certo fonema, per esempio il suono della lettera “f”, è del tutto privo di senso se non come parte, diciamo, della parola “forse”; ma la parola “forse” è affatto priva di senso se non come parte di una frase, ad esempio: “forse è una saponetta”. E a sua volta la frase “forse è una saponetta” è del tutto priva di senso se non si conoscono le circostanze in cui viene pronunciata.
Gregory Bateson, A Sacred Unity Come i fanciulli, i popoli pensano e credono contemporaneamente, giocando.
Josè Bergamin, Decadencia del analfabetismo
3.5.1. Breve ricapitolazione teorica407
L’antropologo e sociologo francese Roger Caillois (1958), nel saggio “I
giochi e gli uomini”, insoddisfatto delle classificazioni correnti dei giochi, che
li dividevano in base alle loro caratteristiche, ne prospettò un nuovo
approccio, epistemologico e metodologico. Egli propose di dividerli secondo
le “disposizioni psicologiche che ess[i] traduc[ono] e svilupp[ano]”408,
classificando gli atteggiamenti stessi che regolano i diversi tipi di gioco. In tal
senso distinse quattro categorie primarie, che si possono anche trovare
accoppiate, e corrispondono all’istinto che nel gioco risulta predominante: la
competizione (agon), la fortuna o il caso (alea), l’imitazione o la maschera
(mimicry) o la vertigine (ilinx).
A partire da questo tipo di classificazione, che l’antropologa Paola De
Sanctis Ricciardone (1994) definisce “sintattico”, ri-acquistano valore e
significato anche le precedenti classificazioni basate sulle caratteristiche dei
giochi, definite di tipo “grammaticale” (quelle che abbiamo delineato nei
precedenti paragrafi “Alfabeto” e “Grammatica”). La teoria di Caillois non si
ferma però alla mera classificazione dei giochi, ma avanza l’ipotesi che tra i
407 Per un approfondimento dei contenuti di questo paragrafo rimando al capitolo “Parte teorica”. 408 Caillois 1958: 9, corsivo mio.
108
giochi praticati nelle diverse società (e i diversi istinti cui essi danno
espressione) e le società stesse esistano stretti legami simbolici e strutturali.
Questo approccio, che egli stesso definisce “sociologia a partire dai giochi”
riprende la concezione di gioco dello storico Johan Huizinga, che nel saggio
Homo Ludens (1938) aveva formalmente delineato le caratteristiche del gioco
(atto libero, gratuito, separato dalla vita ordinaria, precisamente regolato,
limitato nel tempo e nello spazio) e ricercato l’elemento ludico nella
formazione delle più importanti manifestazioni della cultura (quali il diritto,
l’arte, i culti, i riti, ecc.), giungendo alla conclusione “oltraggiosa” che l’attività
ludica fosse la pratica che dava luce e forma alle diverse forme di cultura.
Secondo Caillois le preferenze che le culture accordano a questa o quella
categoria elementare, di cui i giochi sono espressione, sono immagini e
specchi di cultura stessa, degli aspetti concreti, della loro storia e del loro
destino tanto che “non è affatto assurdo tentare una diagnosi di una civiltà
partendo dai giochi che segnatamente vi fioriscono”409.
Nel prossimo paragrafo analizzeremo il gioco-móra secondo la
categorizzazione cailloisiana e tenteremo di classificarlo a partire da quanto
emerso dalla ricerca sul campo fin qui esposta. Nel paragrafo conclusivo
invece si tenterà, brevemente, di collegarlo ad altri aspetti della cultura in cui
viene praticato.
3.5.2. Analisi e classificazione della móra secondo i ludemi
cailloisiani
Per individuare gli “impulsi essenziali e irriducibili”410 che regolano il
gioco della móra così come viene praticato in Val di Non e Val di Sole
distinguerò innanzitutto il tipo di partita che viene disputata, e a che scopo.
Dalla normale partita di móra infatti intendo distinguere quelle situazioni in
409 Caillois 1958: 99. 410 Ibid.: 30.
109
cui due giocatori giocano «en pont sec/sek(o)», un punto secco, per decidere
nell’immediato qualcosa su cui grava un dubbio o serve un giudizio
imparziale: chi guadagna il punto, per esempio, ha diritto di scelta: per
esempio, giocando a carte, di fare il mazziere o, prima di cominciare una
partita di móra, di scegliere il compagno di squadra, ecc.411
In ogni caso, comunque, si usa per decidere cose di poco conto: se la
posta in palio è più alta «anca se le doi biceri, se fa almen cin’ ponti»412. I
giocatori sono coscienti di ciò e giocano, in genere, con meno trasporto,
anche per la brevità della sfida, rispetto a quello che metterebbero in partite
più lunghe.
In questi casi la móra è usata per decidere tra due possibilità che si
equivalgono, per la decisione imparziale che determina. Questo suo utilizzo
somiglia molto a quello che viene fatto del suo ben più noto antenato, il “pari
e dispari” di cui, secondo il Pulci, sarebbe un’evoluzione413. La differenza sta
nel fatto che, se il “pari e dispari” rimette tutto al caso (alea), nella móra
rientra anche una buona dose di abilità (agon), che però non si può
esprimere in maniera predominante nel lapidario punto secco: «c’è anche
una buona parte di bravura ma spesso molto dipende dal caso».
In questa sua variante, non rara ma di durata brevissima e con un fine
decisionale immediato, possiamo riscontrare i caratteri dell’abbinamento
binario agon-alea414, che Caillois classificò nella “teoria allargata” come
fondamentale.415
La forma classica di gioco invece, la situazione più frequente, quella che
prevede più partite giocate da due o quattro giocatori, ha caratteristiche
sostanzialmente diverse.
411 cfr. il paragrafo “A che fine si gioca”. 412 (sol.) “anche se sono due bicchieri, si fanno almeno cinque punti”. 413 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”. 414 (4) nella tabella n. 3 “Combinazioni dei ludemi cailloisiani”, riportata all’interno del paragrafo “Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone”. 415 cfr. il paragrafo “Teoria allargata dei giochi”.
110
Rimane, anzi risulta notevolmente amplificata la componente
competitiva (agon). Riprendiamo, a sostegno di questa tesi, una serie di
elementi che sono stati portati alla luce nell’analisi precedente. Innanzitutto
molti elementi della móra concorrono a renderla simile più a un duello che a
un gioco competitivo qualsiasi: la forma base del gioco, uno contro uno, è
chiamata «testa a testa» e anche nella versione a squadre, due contro due, a
battersi sono solo e sempre due giocatori, posti uno di fronte all’altro. Essi
“sguainano” il pugno e lo pongono in posizione d’apertura con una ritualità
che richiama quelle della boxe e della scherma416, si guardano negli occhi417 e
procedono con la battuta d’apertura; il gioco vero e proprio consiste in una
serie di battute e fonazioni la cui violenza, gestuale e verbale, è elemento
fondamentale del gioco; finito di giocare il punto, il pugno può essere rimesso
in posizione di riposo, “ri-inguainato”, più vicino al corpo, in attesa del punto
successivo. In questo senso potremmo definire la móra come una «lotta
senza contatto418: l’aria e il tavolo vengono letteralmente aggrediti dalle urla e
dai colpi martellanti dei giocatori».
Le diverse maniere, comuni e insolite, di estrarre le dita419, tipiche dello
“stile” di un giocatore, anche se potrebbero sembrare espressione di un
atteggiamento di mimicry (l’invenzione, l’improvvisazione) più che di agon,
sono invece asservite alla componente competitiva. Infatti servono per
confondere l’avversario e rallentare la sua reattività: è questione di attimi ma
i processi fisici e mentali che sottostanno al gioco devono essere effettuati
tanto velocemente che nella móra possono essere sufficienti a far guadagnare
un punto.
La regola di convenire con l’avversario il ritmo di battuta attraverso la
battuta d’apertura e poi di rispettarlo durante lo svolgimento del gioco,
416 cfr. il paragrafo “La mossa d’apertura”. 417 Cfr. il paragrafo “Lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale”. 418 parafrasando Carlo Mongardini (1989: 34) “con la distanza il conflitto diventa gioco”: “con la distanza la lotta diventa morra”. 419 Cfr. il paragrafo “Fenomenologia del «bater»” nonché “Abilità richieste”.
111
battendo e urlando al contempo, permette l’uguaglianza delle possibilità di
guadagnare il punto420, “principio essenziale della rivalità”421, come la
presenza del «segnadór» garantisce (quando c’è) un arbitraggio
imparziale422. Il ruolo della fortuna inoltre è di importanza minima rispetto
alle abilità che un giocatore deve possedere423: la vittoria riflette la
superiorità del giocatore, o della squadra424, almeno fino alla partita
successiva.
La seconda categoria riscontrata è quella della vertigine (ilinx). Se i
“duelli” di móra creano un “muro sonoro”425 che dall’esterno può addirittura
risultare fastidioso, i giocatori che (si) battono all’interno del “cerchio
magico” non percepiscono nient’altro che le “fonazioni clamorose”426 che
producono e i pugni che (s)battono violentemente sul tavolo: essi
condividono un unico orizzonte percettivo e sono talmente concentrati427 da
sembrare come risucchiati in un gorgo428, dal quale riemergono, conquistato
il punto, con un’espressione di chiamata più violenta, che ha la forma di una
sopraffazione, di una smargiassata, ma anche il gusto di una liberazione.429
Questa violenza verbale e gestuale, che fa parte come la competitività del
420 Cfr. il paragrafo “Il ritmo di battuta”. 421 Caillois 1958: 30. Nell’agon, afferma inoltre Caillois “l’uguaglianza delle probabilità di successo viene artificialmente creata affinché gli antagonisti si affrontino in condizioni ideali, tali da attribuire un valore preciso e incontestabile al trionfo del vincitore” (1958: 30). 422 Cfr. il paragrafo “El segnadór”. Nell’agon “la decisione, anche ingiusta, dell’arbitro, è approvata per principio” (ibid.: 64). 423 Cfr. il paragrafo “Le abilità richieste”. 424 Nell’agon “la molla principale del gioco è il desiderio di vedere riconosciuta la propria superiorità in un determinato campo” (Caillois 1958: 31). 425 Cfr. il paragrafo “Dove viene praticato”. 426 Dossena 1999: II, 780. 427 Cfr. il paragrafo “Abilità richieste”. 428 Nell’ilinx si assiste a “un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico […] che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione” (Caillois 1958: 40). 429 Cfr. i paragrafi “Lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale” e “L’espressione di chiamata nella battuta finale”.
112
gusto del gioco430, porta a uno stato di coscienza puro, in cui non esistre altra
realtà che il punto che si sta giocando.
Anche il consumo di alcolici, tanto essenziale per il gioco da essere
considerato la “regola non scritta” della móra431, è asservito a questo scopo:
seppur disturbi evidentemente l’equilibrio fisico e psichico del giocatore
(tanto che Caillois lo annovera tra le forme degenerate dell’ilinx432), esso
garantisce, per i suoi effetti, quella sorta di foga e di abbandono delle
inibizioni necessari ad aggredire l’avversario durante il gioco. Infatti la
ricerca della vertigine “non è caratteristica di un solo gruppo di giochi: la
ritroviamo anche nella boxe, nel catch e nei combattimenti dei gladiatori”433.
Come nei giochi di vertigine, la móra conta, tra le abilità richieste, anche
sulla resistenza434: il t(u)ono di voce tende ad abbassarsi progressivamente, le
mani si indolenziscono per il battere, ma anche “il fegato” viene messo a dura
prova dalla continua assunzione di alcol che si verifica durante le tenzoni.
La móra ha bisogno di un insolito misto di ordine e di caos. Ordine
perché “ritmizzazione e simmetrizzazione”435 che caratterizzano il gioco sono
strettamente regolate in modo semplice ma indiscutibile436: il ritmo437 deve
essere rispettato mentre chiamate e puntate devono essere precise e
inequivocabili438. Caos perché, come abbiamo appena visto, il piacere del
gioco sta anche nella fisicità e nella clamorosità che esso permette o che
430 Cfr. il paragrafo “Il t(u)ono di voce”. «Me pias la compagnia che se crea, l’atmosfera de la móra, el gioc en sé, la sfida anca l’è molto coinvolgente, anca la fisicità de la móra la pias tant, el bater sul taol me sa propri na roba de montanari, de gent che no ga paura de farse mal o de far gazer, anzi confessi che ogni tant me pias propri giugar ala móra per darghe en po de fastidi ala gent». (sol.: “Mi piace la compagnia che si crea, l’atmosfera della móra, il gioco in sé, anche la sfida è molto coinvolgente, anche la fisicità della móra piace tanto, il battere sul tavolo mi sembra proprio una cosa da montanari, da gente che non ha paura di farsi male o di far casino, anzi confesso che ogni tanto mi piace proprio giocare ala móra per dare un po’ di fastidio alla gente”) 431 Cfr. il paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”. 432 Cfr. il paragrafo “Vocazione sociale e degenerazione dei giochi”. 433 Caillois 1958: 44. 434 Cfr. il paragrafo “Abilità richieste”. 435 Jünger 1953: 140. 436 Cfr. il paragrafo “Alfabeto: regole e fasi del gioco”. 437 cfr. il paragrafo “Il ritmo di battuta”. 438 cfr. il paragrafo “Stile”.
113
stimola, di cui sicuramente necessita. Per questo è un gioco che, a differenza
delle altre forme ludiche in cui la fisicità è importante come la lotta o gli sport
da giocare all’aria aperta, può essere giocato praticamente in ogni luogo,
anche in casa o al bar; a differenza degli altri giochi di abilità e astuzia
generalmente giocati nei bar (carte, giochi da tavolo), molto più statici e
sublimati, permette un maggior livello di fisicità e di assorbimento percettivo.
In esso ludus e paidia439, ordine e caos, considerati da Caillois come poli
ideali, antitetici e antinomici, di un continuum all’interno del quale situare le
varie forme ludiche, si incontrano impensabilmente fusi in un binomio, ma
non nelle loro forme ibride, snaturate: la “potenza primaria
d’improvvisazione e spensieratezza”440 si fonde con una rigorosa
organizzazione, regole fisse e massima turbolenza. Alla luce di queste
considerazioni, chi riuscirebbe a posizionare la móra nella tabella n.1
“Suddivisione dei giochi”?
Abbiamo dunque stabilito che, in base alla “teoria allargata” dei giochi,
la móra si compone nella sua forma classica di due atteggiamenti, quello
agonistico e quello della ricerca dell’ebbrezza e quindi corrisponde
all’abbinamento binario agon-ilinx441, tacciato da Caillois come contro
natura442, che si può ragionevolmente riabilitare sulla base della presente
ricerca, ma anche da alcune presentate recentemente443.
A voler essere completi nella nostra analisi, a questi due ludemi
potremmo aggiungerne un terzo: il piacere dato dalla maschera (mimicry).
Ad aggiungere questa categoria all’abbinamento già riconosciuto basterebbe
la sola presenza di spettatori che, oltre ad identificarsi con i giocatori, li
rendono anche più votati allo spettacolo, nonché più corretti444. Se bastasse
439 cfr. il paragrafo “Una nuova classificazione: i ludemi di Caillois”. 440 Caillois 1958: 46. 441 (5) nella tabella n. 3 “Combinazioni dei ludemi cailloisiani”, riportata all’interno del paragrafo “Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone”. 442 Cfr. il paragrafo “Teoria allargata dei giochi”. 443 Cfr. il paragrafo “Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone”. 444 Cfr. il paragrafo “Gli spettatori”.
114
solo produrre un vorticoso e sonoro caos rispettando al contempo le regole (e
viceversa), non si riuscirebbe a spiegare la varietà di espressioni di
chiamata445 (quando sarebbero sufficienti i semplici numeri cardinali) che
utilizzano i giocatori, anche durante la stessa partita446. Non ha questo più a
che vedere con la maschera, con il gusto di invenzione, che con la
competizione o la vertigine? E poi, come potrebbero persone per cultura
taciturne e di poche parole, quali sono le genti di montagna, trasformarsi in
invasati che si gridano contro e battono i pugni sul tavolo, senza trarre
evidente piacere da questa improvvisa e radicale, ma soprattutto socialmente
accettata, trasformazione?447
Considerando anche tale impulso, la mimicry, come parte del gioco448,
la móra acquisirebbe, in termini cailloisiani e considerando anche l’ulteriore
allargamento della “teoria dei giochi” operato da De Sanctis Ricciardone449, la
configurazione di gioco a combinazione ternaria agon-ilinx-mimicry450.
Ponendo però a confronto la rilevanza che questi tre atteggiamenti assumono
nella pratica della móra appare necessaria una puntualizzazione: se l’agon e
l’ilinx appaiono come istanze essenziali nella mescolanza di ordine e caos che
la móra incarna, la mimicry, pur esercitando un impulso rilevante, assume
un ruolo accessorio, secondario rispetto agli altri due.
Quindi, mantenendo la metafora linguistica possiamo affermare che il
testo della móra sia composto da due periodi principali, agon e ilinx, e uno
secondario, mimicry. Planando a una quota più bassa invece, come
445 La varietà delle espressioni delle puntate è, invece, asservita maggiormente all’aspetto competitivo del gioco (agon). Cfr. i paragrafi “Le espressioni della puntata” e “Abilità richieste”. 446 Cfr. il paragrafo “Fenomenologia del «clamàr/ciamàr»”. 447 mimicry è anche “il gusto di assumere una personalità diversa dalla propria ” (Caillois 1958: 62). In questo senso la móra potrebbe essere considerata come “valvola di sfogo dei valori collettivi” (ibid.: 102). Cfr. il paragrafo “Interdipendenza dei giochi e delle culture”. 448 Anche per l’importanza in essa del ruolo del ritmo, che, come afferma Jünger “si percepisce al meglio in quei giochi che rappresentano la mimesi: nella danza, nella musica e nella poesia” (1953: 140). 449 Cfr. il paragrafo “Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone”. 450 (7) nella tabella n. 3 “Combinazioni dei ludemi cailloisiani”, riportata all’interno del paragrafo “Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone”.
115
converrebbe trattando un oggetto tanto “volgare” (nel senso di “del volgo”) e
come si suol fare per farsi intendere, potremmo definirla attraverso
un’ipotetica “ricetta”: preparare una móra tradizionale come si cucina da
secoli in Val di Non e Val di Sole è molto semplice; bisogna amalgamare bene
una massa composta di un pugno di agon e uno di ilinx, con l’aggiunta di una
manciata di mimicry, per dare quel pizzico di sapore in più. Il tempo di
preparazione è un attimo. Ecco pronta la móra, piatto nostrano da mangiare
con voracità e condire con abbondanti libagioni.
3.5.3. Conclusioni: la móra “gioco di montagna”?
In una recente ricerca su “I giochi della montagna”, il sociologo e
antropologo Christian Arnoldi (2002) analizza secondo l’approccio
cailloisiano le attività ludiche che si praticano in montagna, nello specifico
sulle Alpi.
Considerando storia e letteratura di caccia (al camoscio), alpinismo451 e
sci, i tre sport maggiormente praticati, egli rileva che in essi “convivono un
atteggiamento agonistico e uno di ebbrezza, una passione per la gara e una
per il godimento, una per la lotta (agon) e una per lo spasmo provocato dalla
vertigine (ilinx)”452. In essi cioè l’abilità sta nello sfidare la vertigine ed è
proprio in questa pratica che “si affrontano” i giocatori.
Secondo Arnoldi questo binomio di istinti pervade molti aspetti della
cultura alpina. Per quanto riguarda le attività ludiche vere e proprie, esso è
ben esemplificato dalle tre sopracitate anche se, analizzando le tendenze degli
ultimi vent’anni, sembra che se ne sia rafforzato soprattutto uno: l’ilinx.
Infatti l’alpinismo storico, la caccia e lo sci si sono visti affiancare da nuovi
sport in cui la vertigine svolge un ruolo di maggior rilievo: oltre al “volo
451 Che Arnoldi tratta anche separatamente e in maniera più approfondita in “L’alpinismo e la vertigine: figure di un gioco tra Ottocento e Novecento” (2003), nonché in “Il sentimento delle vette: la vertigine nella letteratura alpinistica” (2004). 452 Arnoldi 2002: 7.
116
libero” (dal deltaplano al più moderno parapendio) e agli sport fluviali
(torrentismo, rafting, canyoning e hydrospeed) hanno fatto la loro comparsa
sport più pericolosi, quali lo snowboard, lo sci estremo e il free climbing, fino
a giungere alla pura vertigine del base-jump, un salto nell’abisso col
paracadute. In questi nuovi giochi e negli atteggiamenti che li regolano “vi è
la predominanza dell’inquietudine e dello smarrimento”453.
Facendo invece un passo indietro nell’analisi, Arnoldi sostiene che “la
cultura e la civiltà alpina sia stata pesantemente segnata e caratterizzata, sin
dalle sue origini, dal principio dell’Ilinx. Non è un caso che molti dei lavori
tradizionali della montagna, come il costruttore di tetti, il muratore, il
falegname e lo spazzacamino, siano basati sul controllo e il dominio della
vertigine. La loro abilità si giocava, e si gioca ancor oggi, proprio sul controllo
dell’equilibrio e della stabilità, messi a dura prova dalle condizioni di
lavoro”454.
A ben vedere anche molti dei giochi infantili in montagna sono
adducibili a tale principio, aiutati anche dalla disponibilità di spazi non-
civilizzati quali pendii più ripidi e piante molto alte: pensiamo ad esempio al
correre in discesa sui pendii (a piedi o in bicicletta) e all’arrampicarsi sugli
alberi in estate, come alla slitta e le battaglie a palle di neve d’inverno.
Inoltre l’istinto dell’ilinx è riscontrabile, oltre che nelle attività ludiche e
nelle professioni pericolose, anche in un ambito più quotidiano quale quello
della “produzione dell’ebbrezza”: il “mito del montanaro grande bevitore”,
accompagnato dalla sua “immagine bonaria e pittoresca, [...] nasce da alcune
453 ibid 454 ibid.: 8.”… In taluni casi i pericoli erano addirittura aggravati dalla posizione delle costruzioni e dalla scomodità dell’operare; si pensi alle case dei villaggi alpini costruite ai bordi dei crepacci o dei burroni e ai rifugi di montagna, situati quasi sempre in luoghi impervi e impensabili. Un tempo i muratori delle valli alpine, gli acconciatetti e gli spazzacamini emigravano stagionalmente verso le città pedemontane e quelle mitteleuropee che stavano vivendo un processo di espansione, dove molti lavori erano rimessi alla loro professionalità. Addirittura alcune ricerche antropologiche hanno dimostrato che la competenza dei muratori era relazionabile all’altitudine da cui provenivano; cresceva con l’aumentare dell’altitudine”. Cfr. Paola Corti, I muratori. Dai maestri rinascimentali ai professionisti dell’emigrazione, in AA.VV., L’uomo e le Alpi, Torino, Vivalda, 1993.
117
immagini elementari e si giustifica attraverso alcune argomentazioni
condivise come la durezza dell’ambiente alpino455, la sua rigidità climatica
invernale, la varietà dei vini di montagna e delle grappe, il carattere chiuso e
schivo delle popolazioni e persino certe ricette popolari secondo le quali un
bicchiere di vino o di grappa cura da ogni male. In questa sorta di mito “il
bere” diventa metafora e prova del carattere, del vigore fisico e della salubrità
di un individuo; si dice che un montanaro che non beve o che non regge
l’alcol non sia un vero montanaro”456.
Competitività e vertigine si abbracciano in tutti questi tratti della
fisionomia della cultura alpina, tanto che si può ragionevolmente
argomentare, in termini cailloisiani, che ne sono e ne “sono stati anche i
calchi”457. Secondo quanto affermato nel paragrafo precedente, in
quest’analisi si potrebbe tranquillamente affiancare, come esempio della
cultura di montagna, anche il gioco della móra. Infatti, seppur fino a mezzo
secolo fa fosse praticata in tutta Italia, allo stato attuale sopravvive
soprattutto in alcune zone delle Alpi (oltre che in Sardegna, altra zona isolata
e inospitale per aspetto fisico)458. Come nelle altre pratiche culturali di
montagna evidenziate finora, anche nelle móra il desiderio della vertigine è
una componente non accessoria, ma essenziale.
A differenza degli sport tradizionali (caccia, alpinismo e sci) e di quelli
più moderni, essa non è praticata sia dai “montanari” che dai “cittadini”459:
anzi, i “cittadini” che si imbattono in infuocate sfide di móra le guardano
come si guarderebbe un ballo esotico, un rituale magico, o un cane che gira su
se stesso tentando di mordersi la coda, con quel misto di curiosità e di
autocompiacimento di fronte a una pratica (in apparenza) rozzamente
455 “Tutte le culture sono influenzate dalle caratteristiche dell’habitat che occupano” (Service 1982: 15). 456 Arnoldi 2004b: 3. Cfr. anche il paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”. 457 Arnoldi 2002: 7. 458 Cfr. il paragrafo “Storia e letteratura della morra”. 459 Cfr. Arnoldi 2002: 3. I “cittadini” vengono definiti dagli indigeni anche “zitadini/citadini”, “taliani” (“italiani”), “barcoi”, “scavalcaorti”, ecc.
118
elementare ed incivilmente rumorosa, da cui gli indigeni (i “montanari”)
appaiono totalmente rapiti, da giocarci tanto continuamente e tanto a lungo,
con un rapimento quasi estatico, che riesce ad alienarli anche in luoghi
affollati.
Più che, o oltre, alle attività culturali della montagna più specificamente
ludiche (che non fanno parte della quotidianità e si praticano quasi sempre in
alta montagna, o comunque lontano dai centri abitati), potremmo affiancare
la móra alle professioni pericolose, di cui potrebbe essere il contraltare
ludico, l’ilinx dei “dì festivi”, ma soprattutto al “mito del montanaro grande
bevitore”. Nel determinare l’inizio di una partita di móra concorre spesso (se
non quasi sempre), uno stato di ebbrezza già acquisito; essa però concorre a
sua volta a fomentarlo e ad amplificarlo poiché la posta in gioco è sempre
altro alcol, tanto che si può ragionevolmente parlare di un vero e proprio
“circolo vizioso”460: un bicchiere ogni partita, offerto di regola da chi perde,
infatti, è necessario per “bagnare” la gola provata dalle chiamate, ma impone
un ritmo di assunzione elevato, cui un “vero montanaro” non può sottrarsi.
Come tutte le attività fin qui citate, in diverse maniere e a diversi livelli
governate dall’ilinx, la móra trova il contrasto, il suo “yang” nel tradizionale
ordine del paesaggio alpino e nell’ordine (rigido) della mentalità del
montanaro, tradizionalmente chiuso, schivo e taciturno. Il gioco della móra
infatti è l’unica attività culturale, e soprattutto culturalmente accettata, in cui
è concesso, anzi richiesto e alimentato, liberare l’aggressività e la violenza
(seppur in una forma “ordinata”, senza contatto), in cui è possibile affrancarsi
dal generale e diffuso ordine che pervade sia l’uomo che il suo orizzonte: essa
permette al montanaro di scrollarsi di dosso per un attimo la civiltà, di
tornare veramente “in montagna”, di tornare analfabeta, di tornare bambino.
460 Cfr. il paragrafo “Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta»”.
119
La nozione di gioco nei dialetti nonesi e solandri
Nel suo saggio Homo Ludens, Johan Huizinga (1938) dedica alla
nozione di gioco nelle diverse lingue un’intero capitolo461, nel quale analizza
le diverse maniere in cui le diverse culture lo esprimono. Se l’italiano ha solo
un termine per esprimerlo, nei dialetti nonesi e solandri se ne possono
contare due: “giocare” si può esprimere con «żugiar/giug(i)àr/giogàr», ma
anche con «far matièrie/matérie»462.
Ovviamente essi hanno due accezioni che non sono sovrapponibili, anzi
sono antitetiche. Il giocare di un bambino o di un cucciolo si definisce «far
matérie», tanto che un bambino (o un cucciolo) “giocoso” si definisce
«materiós»; «żugiar/giug(i)àr/giogàr» invece è riferito alle forme regolate
di gioco, al cosiddetto gioco-istituzione463. Nella vita adulta un’attività cui ci
si riferisce come «far matérie» è attività non seria, senza scopo o senza
motivo: «laóres o fas matièrie/matérie?»464 segna la differenza tra lavorare
seriamente e cincischiare. All’interno di un gioco-istituzione invece «far
matérie» si contrappone al prendere il «żuèc/gioc/giók/gioco» con la serietà
che si deve ad un gioco: «żugés/giug(h)es/gióghes o fas matièrie/
matérie?»465 traccia una differenza molto simile a quella definita da Caillois
tra ludus e paidia466, tra gioco regolato e spirito ludico primario, sregolato.
461 Cfr. Huizinga 1938: 35-54 (“La nozione di gioco nella lingua”). 462 «matièrie/matérie» è usato solo al plurale. 463 Cfr. il paragrafo “Oggetto della ricerca: la situazione-móra”. 464 “lavori o fai matièrie/matérie?”. 465 “giochi o fai matièrie/matérie?”. 466 cfr. il paragrafo “Una nuova classificazione: i ludemi di Caillois”.
120
Il foglietto segna-punti: lo schema “ad albero”
Su una riga verticale si segna un raggio per ogni punto (a destra per la
squadra che sta alla sua destra e viceversa), il quinto raggio, il decimo e il
quindicesimo sono ritorti verso l’alto, per rendere visivamente la chiusura
della mano. Se si arriva a quindici vince chi per primo completa “l’albero”; se
invece si arriva a diciotto i tre ulteriori punti si segnano dal basso verso l’alto
con un raggio che taglia i tre raggi ritorti. Se invece è richiesta la mini-bella al
5 i cinque raggi si segnano partendo dall’interno su una riga segnata
orizzontalmente sotto “l’albero”; per ulteriori mini-belle si tracciano altre
righe orizzontali fino alla fine della partita.
121
Appendice fotografico
Storia della morra
fig. 1: Vaso di Exekias (Musei Vaticani) da http://mv.vatican.va/2_IT/pages/x-Schede/MGEs/MGEs_Sala19_04_056.html
fig. 2: Vignetta di
Giuseppe Mitelli (1702)
da Giampaolo Dossena, Enciclopedia dei giochi, ed. UTET, Torino 1999. p. 780
fig. 3: Incisione di Bartolomeo Pinelli
(1810) da Giampaolo Dossena, Enciclopedia dei
giochi, ed. UTET, Torino 1999. p. 781
122
fig. 4: “Doi contra doi”: schema delle posizioni dei giocatori, “bater pari” e “bater dispari”
CXXIII
La posizione d’apertura
fig. 5: posizione d’apertura
fig. 6: “pugno normale”
fig. 7: “pugno proteso”
124
Il “gioco vero e proprio”
fig. 8: “doi contra doi” con “segnadór”
fig. 9: giocatore La mano destra “punta” (4) e la sinistra segna i punti (1,6,ecc.)
125
Esempi di espressioni di puntata
Modi di esprimere l’1 (figg. 10-17)
Modi di esprimere il 2 (figg. 18-25)
Modi di esprimere il 3 (figg.26-37)
126
Modi di esprimere il 4 (figg. 38-41)
Modi di esprimere il 5 (figg.42-43)
o. Prefazione: il gioco
127
o. Prefazione: il gioco
Rivendico per quest’opera - l’udii affermare, - i tratti
essenziali del gioco: la simmetria, le leggi arbitrarie, il
tedio.
Jorge Luis Borges, Ficciones
Se ci fosse un ultimo uomo […] senza nessun altro accanto, non giocherebbe anche lui? Che cosa di meglio potrebbe fare nella sua solitudine? Che fa l’uomo rinchiuso nella sua cella della prigione? Non gioca forse con il suo ragno?
Friedrich Georg Jünger, Die Spiele
Fa saggi chi non saprebbe fare i fatti. Michel de Montaigne, Essays
Oggetto di questa ricerca è, in generale e nello specifico, il gioco. Come
tradizione è opportuno partire con la sua definizione: esso è un’„attività
realizzata per se stessa in quanto ha il proprio aspetto gratificante in sé e non
nel fine che raggiunge o nel risultato che produce, come invece accade
nell’attività lavorativa. Sia nel mondo umano che in quello animale il gioco è
prerogativa di individui giovani tesi all’esplorazione del mondo circostante e
all’apprendimento delle regole per controllarlo sul modello adulto”1.
In questa definizione troviamo molti importanti elementi definitori ma
anche quella che potrebbe sembrare una nascosta contraddizione. Vi si
sottolinea infatti il suo carattere principale, quello più evidente, quell’essere
fine a se stesso che trova il suo naturale contrario nell’attività finalizzata per
eccellenza, il lavoro.
Nessuno (o quasi) può sottrarsi dal lavoro, ma nessuno osa sottrarsi al
gioco2. Che l’uomo lavori o non lavori, quando può, gioca. I bambini giocano
soltanto, così come i cuccioli. E qui entra in gioco la contraddizione di cui
1 Galimberti 1994: 438. 2 “Quando si ammala, quando è esaurito e stanco, di cattivo umore o malato di nervi, l’uomo mette da parte i suoi giochi” (Jünger 1953: 259).
128
sopra: il gioco è “prerogativa di individui giovani”, che devono imparare a
interagire col mondo (materiale e sociale) circostante. Che attraverso l’attività
ludica i giovani pratichino le attività tipiche della loro specie, quelle che
saranno determinanti per la loro sopravvivenza futura, è lapalissiano.
Dobbiamo però fare attenzione a non mettere il carro davanti ai buoi. Perché
allora gli uomini adulti continuano a giocare? E questo nonostante sia
un’attività apparentemente infruttuosa e slegata alla sopravvivenza? Perché il
gioco li porta e vette di esaltazione (con estremo spreco di energia) che
nessun’altra attività provoca loro?
Ma andiamo con ordine, poiché tutto nasce dal basso: facciamo un passo
indietro. Negli animali si assiste a giochi che riproducono comportamenti (o
schemi comportamentali) aggressivi e di difesa, inibiti nello scopo, con
caratteristiche di innocuità e di finzione. Tali comportamenti ludici non sono
però distinguibili da quelli originali: affinché non vengano fraintesi con quelli
non ludici e non scatenino reazioni inadeguate (o inadeguatamente violente),
è necessaria una distinzione netta. I criteri per discernerli non sono
ovviamente assoluti e variano secondo la specie considerata. Nei primati
subumani, e nell’uomo, il carattere ludico del comportamento è
accompagnato da elementi che potremmo definire darwinianamente contrari
all’aggressività, quali il riso e il sorriso3, che funzionano come segnale che
avverte che “questo è un gioco”4. Tale asserzione metacomunicativa5 assume,
secondo Gregory Bateson (1972) la forma di un paradosso logico, del tipo di
Russell o Epimenide6, cioè “un’asserzione negativa che contiene una meta-
asserzione negativa implicita”7. Infatti, se sviluppata “in volgare”, essa
assume la seguente forma: “Le azioni che in questo momento stiamo
compiendo non denotano ciò che sarebbe denotato da quelle azioni che
3 Cfr. Valeri 1979: 813 4 Cfr. Bateson 1972: 219 e sgg.; 5 Poiché “il soggetto del discorso è la relazione gli interlocutori” (ibid.: 217). 6 Del tipo “Tutti i cretesi sono bugiardi”. 7 Bateson 1972: 219.
129
queste azioni denotano”8. Per fortuna (come capita anche al calabrone per il
suo peso e apertura alare) né gli animali né i bambini (né tantomeno gli
adulti) si accorgono dell’inammissibile paradosso logico implicito nelle loro
azioni, e continuano a giocare.
Il gioco assolve in questo senso a due funzioni fondamentali: attraverso
il comportamento ludico i giovani imparano a interagire nel mondo sociale,
acquisendo progressivamente competenze negli schemi dell’interazione
sociale adulta e mitigando l’aggressività quando questa emerge, in una
situazione senza rischi9; in secondo luogo tale situazione rappresenta una
buona occasione per “tentare nuove combinazioni che non potrebbero essere
sperimentate sotto pressione funzionale”10. È evidente quindi, come
affermava Karl Groos (1896), che “gli animali non giocano perché sono
giovani, dispongono di un periodo giovanile perché devono giocare”11.
Inoltre si può notare che in tutti gli animali il gioco è strettamente
collegato all’atteggiamento di curiosità: tale tratto è tipico dei vertebrati
superiori meno specializzati dal punto di vista morfologico o, come li
preferisce definirli Konrad Lorenz (1973), “specializzati nel non essere
specializzati”12. Tra di essi troviamo, ad esempio, i ratti tra i roditori, i corvi
tra gli uccelli canori e l’uomo tra i primati: sono animali cosmopoliti, che
grazie alla loro “flessibilità”13 o “versatilità”14 si sono potuti diffondere in tutto
il mondo. La “nuova trovata” biologica consiste nella generalizzazione del
comportamento appetenziale, di modo che il suo scopo non sia più lo
scatenamento di un istinto particolare, ma l’apprendimento stesso: il
risultato è una “comunicazione continua e indagatoria con la realtà extra-
soggettiva”15. In altre parole, i comportamenti di curiosità ed esplorazione in
questi animali non sono collegati a, o scatenati da, stimoli specifici ma sono,
per così dire, aperti, fini a se stessi.
Nelle altre specie tale atteggiamento specifico si arresta con la fine della
fase giovanile e si cristallizza. Nell’uomo invece si prolunga per un periodo
più lungo che in ogni altra specie, e continua durante tutta o gran parte
dell’esistenza. Ciò è dovuto, filogeneticamente, ad un rallentamento
dell’evoluzione giovanile dell’uomo, che prolunga la condizione di immaturità
fino a farla diventare una caratteristica costitutiva, consolidando “le
caratteristiche giovanili in caratteristiche persistenti nella forma adulta”16.
Questo fenomeno, comune in biologia e chiamato neotenia, si manifesta
nell’uomo innanzitutto attraverso tratti fisici evidenti: se confrontato con i
suoi antenati filogenetici l’uomo si distingue infatti nel ridotto dimorfismo
sessuale, nella ridotta superficie dello scheletro facciale, nelle proporzioni
della testa, negli organi pelvici, nella relativa scarsezza di pigmento nonché
nella distribuzione del pelo17.
Quindi il comportamento ludico (e la creatività che ne consegue) altro
non è che una caratteristica giovanile persistente e costituisce uno dei
caratteri specifici e costitutivi degli esseri umani18. In un certo senso quindi
artisti, filosofi19, scienziati, inventori, sono gli adulti cui è socialmente
permesso di continuare a giocare20, sebbene si tratti di un gioco trasformatosi
in forme di non-gioco socialmente accettate e utili.
15 ibid.: 96. 16 Lorenz 1971: 95. 17 cfr. ibid.: 96. Alcuni, tra cui anche Schopenhauer, hanno notato che tale condizione, e gran parte dei tratti che ad essa sono collegati, siano propri anche degli animali “addomesticati”: sembra che sia proprio la situazione di addomesticamento a indurre simili caratteristiche, o più plausibilmente l’eliminazione della selezione naturale (ibid.: 95) che a tale condizione si accompagna. L’uomo sarebbe in tal senso un animale auto-addomesticato, avendo lo sviluppo della cultura e delle tecnologie tolto in gran parte la selezione naturale. 18 “se l'uomo è una specie neotenica il gioco è forse il suo più appropriato modo di performance”18 (Turner 1986: 284). 19 Il carattere ludico della ricerca filosofica è ben esplicitato in Bencivenga 1995: 3-18. 20 in questo senso è molto interessante il racconto di Dino Buzzati Mestiere fortunato (1988).
131
Nella vita di un adulto “normale” invece il gioco gode solo di
uno spazio limitato e spesso è fruito solo indirettamente, come
spettatore (o, per dirla con Caillois, “per interposta persona”).
Anche se superficialmente appaiono differenti, tra gioco infantile e
gioco adulto esiste una continuità. Il carattere essenziale di
quest’ultimo è la “preponderanza della regola”21, ma la regola è
l’equivalente del segnale infantile “questo è un gioco”: essa separa
il gioco dalla realtà, costituisce la cornice che circoscrive il mondo
ludico fittizio. La libertà del giocatore sta nell’accettazione
volontaria delle regole, sta nelle regole stesse, e non al di fuori di
esse.22
Spiegare il comportamento ludico dell’adulto solo attraverso
considerazioni di carattere biologico sarebbe, oltre che
metodologicamente scorretto o meramente tautologico,
quantomeno riduttivo.
Vediamo come risolse questa questione lo storico Johan
Huizinga (1938), autore del rivoluzionario saggio Homo Ludens:
Si è creduto di poter circoscrivere l’origine e la base del gioco a uno sbarazzarsi
del superfluo di forza vitale. Secondo altri l’essere umano, giocando, ubbidisce
a un gusto innato di imitazione. Oppure soddisfa un bisogno di rilassamento. O
fa un esercizio preparatorio alla grave operosità che la vita esigerà da lui. O
ancora il gioco gli serve da allenamento per l’autocontrollo. Altri ancora ne
cercano il principio in un connaturato bisogno di causare o di essere capace di
qualche cosa, o nell’ansia di dominare, o in quella di concorrere. Altri ancora
considerano il gioco come un’innocua evacuazione di istinti nocivi, o come
necessario complemento di un’attività troppo unilaterale, o come
21 Valeri 1979: 821. 22 “Il giocatore sceglie la sua dipendenza” (Jünger 1953: 136).
132
l’appagamento, con una finzione, di desideri in realtà inappagabili e, in quanto
tale, capace di conservare il senso della personalità. Tutte le spiegazioni hanno
in comune, come punto di partenza, la supposizione che il gioco avvenga in
funzione di un’altra cosa, che serva a una data utilità biologica. Ci si chiede:
perché e a che fine si gioca? E le conseguenti risposte non si escludono affatto.
[…] Essi [gli studiosi del gioco] s’appigliano immediatamente al gioco con le
misure della scienza sperimentale, senza fare dapprima attenzione alla qualità
profondamente estetica del gioco. La qualità primaria del gioco vi resta
generalmente indefinita. Per ognuna delle interpretazioni offerte, continua a
valere la domanda: va bene, ma cosa è in fondo il “gusto” del gioco? perché
strilla di gioia il bambino? Perché il giocatore si perde nella sua passione,
perché una gara eccita sino al delirio una folla di spettatori? L’intensità del
gioco non è spiegata da nessuna analisi biologica. Eppure in quell’intensità, in
quella facoltà di far delirare, sta la sua essenza, la sua qualità.23
Alla stessa maniera di Huizinga mi chiedevo, da piccolo, come esseri
solitamente taciturni, di poche parole e lapidari nelle espressioni, potessero
scaldarsi e scalpitare, urlare come invasati parole che sembravano non avere
senso, battere i pugni su forti tavoli di legno con tanta potenza da farli
risuonare anche da lontano. Mi sembrava una magia. Le spiegazioni che mi
venivano fornite erano due: 1. “giocano ala móra” o 2. “sono ubriachi”. Dopo
mesi di ricerca devo ammettere che rimangono ancora le più plausibili.
Probabilmente da sole valgono tutto questo saggio.24
Poi un giorno, leggendo un manuale di etnografia, mi colpì una frase di
per sé abbastanza banale ma che, pur evocando terre distanti e indigeni in
tenuta adamitica, mi fece pensare alle mie terre, al passaggio tra vecchio e
nuovo che si è giocato nelle ultime due generazioni (se non nell’ultima), al
patrimonio ormai perso e a quello che ancora (ci) resta:
23 Huizinga 1938: 4-5. 24 Come diceva Montaigne: “il mondo non è altro che chiacchiera, ed io non ho visto mai uomo che non dica piuttosto più che meno di quel che deve dire” (citato in Bencivenga 1990: 132).
133
La razza umana si sta muovendo verso una sempre maggiore omogeneità dal
punto di vista razziale, culturale e linguistico. In questo processo molte delle
antiche culture del mondo stanno scomparendo. Alcune semplicemente si
estinguono o vengono sterminate; alcune subiscono cambiamenti radicali
allorché vengono coinvolte in vari tipi di relazioni funzionali con le civiltà
industriali in espansione; altre vengono assimilate dal punto di vista etnico.25
La móra fa parte della cultura della mia terra, è forse la sua espressione
che più si avvicina a un rito, l’ultimo residuo di quel tempo immoto, pre-
televisivo, di cui i vecchi si riempiono la bocca e che i giovani non hanno né
visto né vissuto se non, appunto, dalle bocche dei vecchi e che, a seconda
della convenienza, ricordano come epoca arcadica o selvaggia; è un gioco
popolare, etnico, poetico, infantile e animalesco, orgogliosamente incivile e
analfabeta26.
Nel momento in cui ho deciso di scrivere un saggio sulla móra, questo
progetto, più che un saggio, mi si parava di fronte come un miraggio, poiché
non avevo né la minima idea (o come dicono più prosaicamente in Spagna “ni
puta idea”) né di quel che andasse scritto, né di come andasse scritto. Sapevo
solo che andava scritto. Ero entusiasta dell’idea ma quella cultura di cui
parlavo mi riportava pragmaticamente alla realtà sibilandomi nell’orecchio
(attraverso la voce catarrosa e perentoria di mio nonno Bepi, che aggiungeva,
per correttezza sintattica, anche alcune bestemmie che sono, com’è noto,
direttamente proporzionali all’importanza dell’enunciato, nel contesto in cui
viene pronunciato), «prèdice curte, lugiànge lònge27»: quel che conta sono i
25 Service 1982: 3. 26 “L’analfabetismo spirituale dei popoli è ciò che i popoli hanno di fanciullesco, di perennemente infantile; quindi i popoli hanno diritto all’analfabetismo come i fanciulli, perché, nelle stesse viscere spirituali del loro essere più profondo, sono l’espressione di questa grande e profondissima cultura analfabeta dell’universo. Se un fanciullo o un popolo cessa di essere analfabeta, che cosa diventa? Se ai fanciulli e ai popoli si toglie l’analfabetismo - quella vita spirituale e immaginativa del loro pensiero che chiamiamo analfabetismo -, che rimane loro? Un fanciullo o un popolo, quando comincia ad alfabetizzarsi, comincia a snaturarsi, a corrompersi, a cessare di essere; a cessare di essere quello che era: un fanciullo o un popolo. E perisce alfabetizzato” (Bergamin 1933: 64). 27 “prediche corte (brevi), lucaniche lunghe”.
134
fatti, non le parole. Decisi così di fare un salto nell’unico luogo dove la (mia)
cultura ancora vive e pulsa, e così me ne andai al bar.
Citerò un’altra volta Huizinga, che per primo scrisse, seriamente, del
gioco: “Per me si trattava di scrivere o non scrivere. E di una cosa che mi
stava molto a cuore. Perciò ho scritto”28.
28 1938: XXXII.
135
Bibliografia
Per scelta, nel testo le citazioni riportano la data della loro prima pubblicazione.
Tuttavia, tutte le citazioni si riferiscono all’edizione più recente. Tutte le citazioni di libri originariamente pubblicati all’estero si riferiscono alle traduzioni
italiane quando riportate.
AGOSTINETTI N. (ed.) 1985, L’osteria nella tradizione popolare veneta,
Quaderni del lombardo-veneto, Padova
ALCOCK J. 1998, Animal Behavour. An evolutionary approach (6th edition),
Sinauer Associates Inc. (trad. it. Etologia : un approccio evolutivo,
Zanichelli, Bologna, 2001)
AIME M. 2004, Eccessi di culture, Einaudi, Torino
ANGIONI G. 1987, L’attitude des bergers et des paysans face au hasard, in
Bromberger C. / Ravis-Giordani G. (eds.), Hasard et et societès, in
“Etnologie Française”, tome 17, n. 2/3, pp. 324-329
ARNOLDI C. 2000, La montagna inventata: dalla riserva alla Disneyland,
tesi di laurea (a.a. 1999/2000; relatori: proff. Pietro Bellasi e
1.1. Il gioco in antropologia: il grande assente 1 1.1.1. L’attenzione sul “testo” 1 1.1.2. Il gioco torna agli uomini: l’attenzione al “contesto” 2
1.2. Il ludocentrismo: la rivoluzione copernicana di Huizinga 4
1.2.1. Tutto nasce in gioco 4 1.2.2. Irriducibilità del concetto di gioco 6
1.2.3. Caratteristiche del gioco 7
1.2.4. Gioco e gara come funzioni creatrici di cultura 11
1.3. Caillois: per una sintassi dei giochi 13
1.3.1. Debiti e critiche verso Huizinga 13 1.3.2. Una nuova classificazione: i ludemi di Caillois 15 1.3.3. Vocazione sociale e degenerazione dei giochi 18 1.3.4. Teoria allargata dei giochi 21 1.3.5. Ulteriore allargamento di De Sanctis Ricciardone 22 1.3.6. Interdipendenza dei giochi e delle culture 25
2. PARTE STORICA: La morra 29
2.1. Storia e letteratura della morra 29 2.2. Etimologia 35 2.3. La morra cinese 36 3. PARTE ETNOGRAFICA: Ricerca etnografica sul gioco della móra in Val di
Non e Val di Sole 37
3.1. Presentazione della ricerca: metodologie e struttura 37
3.1.1. Metodologie 37 3.1.2. Oggetto di studio: la situazione-móra 38 3.1.3. Struttura della ricerca 40 3.1.4. Annotazioni di tipo linguistico e fonetico 42
3.2. Alfabeto: regole e fasi del gioco 44 3.2.1. Quantità dei giocatori 45 3.2.2. Le fasi del gioco 46
3.2.2.1. La mossa d’apertura 47 3.2.2.2. Il “gioco vero e proprio ” 50
3.2.3. Scopo del gioco 51 3.2.4. I punteggi 52 3.2.5. Segnare i punti 55
150
3.3. Stile 57 3.3.1. Fenomenologia del «bater» 59 3.3.1.1. La posizione d’apertura 59 3.3.1.2. Le espressioni della puntata 59 3.3.1.3. Posizioni della mano e del braccio nella puntata 62 3.3.1.4. Il ritmo di battuta 63 3.3.2. Fenomenologia del «clamàr/ciamàr» 65
3.3.2.1. Le espressioni di chiamata 66 3.3.2.1.1. Le forme espressive più semplici 66
3.3.2.1.2. Regole operative per la formazione delle espressioni di chiamata 68
3.3.2.1.3. Trasformazioni semplici delle forme cardinali 68 3.3.2.1.4. Trasformazioni per giustapposizione 69 3.3.2.1.5. Trasformazioni complesse 70
3.3.2.1.6. Espressioni per il 10 71 3.3.2.1.7. Altre trasformazioni più complesse 72 3.3.2.1.8. Variabili situazionali 73 3.3.2.1.9. L’espressione di chiamata nella battuta finale 73
3.3.2.2. La prosodia delle espressioni di chiamata 74 3.3.2.3. Il t(u)ono di voce 76
3.4. Grammatica 78
3.4.1. Abilità richieste: la móra «non è un gioco» 79 3.4.2. Categoria di persone interessata 86 3.4.3. Variabili generazionali 87 3.4.4. Dove viene praticato 88 3.4.5. Quando viene praticato 89 3.4.6. A che fine si gioca 90 3.4.7. Osservazioni particolari 91
3.4.7.1. Lo sguardo: battuta iniziale e battuta finale 92 3.4.7.2. La differenza tra testa a testa e doi contra doi 93 3.4.7.3. «Tegnìr/tègner el pont» 95 3.4.7.4. Il piano di battuta 95 3.4.7.5. «Bater pari»,«bater dispari» 97 3.4.7.6. «El segnadór» 98 3.4.7.7. «San Pero dis el vero» 99 3.4.7.8. Alcol e móra: il circolo vizioso e la «regola non scritta» 100 3.4.7.9. Le forme di invito 102 3.4.7.10. Gli spettatori 103 3.4.7.11. La cattiva fama della móra 104
3.5. Sintassi 106
3.5.1. Breve ricapitolazione teorica 106 3.5.2. Analisi e classificazione della móra secondo i ludemi cailloisiani 107 3.5.3. Conclusioni: la móra “gioco di montagna”? 114
Appendice
La nozione di gioco nei dialetti nonesi e solandri Appendice fotografico Prefazione: il gioco Bibliografia